Synaxis 24 1 (2006)

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SYNAXIS XXIV/1 - 2006

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione teologico-morale L’ESCATOLOGIA CRISTIANA TRA ESCHATON ED ESCHATA. IL CONTRIBUTO DI JOSEPH RATZINGER (Francesco Brancato) . . . . . . 1. Premessa . . . . . . 2. L’escatologia come anima del pensare teologico . 3. Escatologia tra eschaton ed eschata. Alcuni rilievi critici 4. La Scrittura come anima dell’escatologia cristiana . 5. Un confronto necessario . . . . 6. Escatologia versus filosofia?. . . . 7. L’escatologia in rapporto con le altre discipline teologiche 8. Considerazioni conclusive . . . .

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RADICI ECCLESIALI DELL’ESPERIENZA MISTICA DI MARIA MADDALENA DI FIRENZE. NOTE INTRODUTTIVE SULLA BIBLIOTECA MONASTICA (Chiara Vasciaveo) . . . . . . 1. Profilo biografico . . . . . 2. Contesto storico-ambientale . . . 3. Principali studi teologici su s. M. Maddalena . 4. Una santa della Chiesa di Firenze . . . 5. Una formazione al femminile . . . 6. Il corpus maddaleniano: una questione ineludibile . 7. Conclusione . . . . .

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Sezione miscellanea ISTITUZIONI DI CRISTIANITÀ A CATANIA NEL ’400 (Adolfo Longhitano) . . . . .

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1. Introduzione: cristianità, modelli giuridici e istituzioni specifiche 2. Il modello della cristianità siciliana . . . . 3. L’ordinamento della cristianità a Catania . . . 4. Conclusione . . . . . . Appendice . . . . . . .

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87 94 103 110 112

CONFRONTO FRA DUE FILOSOFI. UNA BREVE CORRISPONDENZA FRA XAVIER TILLIETTE E LUIGI PAREYSON (Salvatore Latora) . . . . . . . . Appendice . . . . . . . .

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LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA MADRE DI BIANCAVILLA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693 (Salvo Calogero) . . . . . . . 1. Introduzione . . . . . . 2. Le riparazioni alla “vecchia chiesa” dopo il sisma del 1693 3. La costruzione della nuova chiesa matrice . . . 4. La facciata della chiesa e la statua della Madonna . . 5. Le modifiche ottocentesche . . . . . 6. Conclusione . . . . . .

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145 145 146 149 155 171 175

IL MAGISTERO DEL VESCOVO GIARDINA (NICOSIA 1942-1953). DALLE LETTERE PASTORALI (Gaetano Zito) . . . . . . . . 1. Premessa . . . . . . . 2. Nota biografica . . . . . . 3. Le lettere pastorali . . . . . . 4. Il magistero di Giardina . . . . . 5. Osservazioni conclusive . . . . .

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177 177 178 179 181 196

VERSO VERONA 2006. INCONTRO DEI DIRETTORI DELLE RIVISTE TEOLOGICHE E DI CULTURA RELIGIOSE (ROMA 16 FEBBRAIO 2006) (Mario Torcivia) . . . . . . . .

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Note


CRISTIANESIMO SENZA TEODICEA? QUINTO SIMPOSIO ROSMINIANO (STRESA 25-28 AGOSTO 2004) (SalvATORE LATORA) . . . . . . . IL PATRIMONIO ARCHIVISTICO: BENE CULTURALE PRIMARIO (Gaetano Zito) . . . . . . . . 1. Note previe . . . . . . . 2. Il valore ecclesiale degli archivi ecclesiastici . . 3. Una esemplificazione: archivi della Chiesa di Catania . 4. La prospettiva della priorità di ruolo tra i beni culturali .

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Presentazione .

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO



Sezione teologico-morale Synaxis XXIV/1 (2006) 7-40

L’ESCATOLOGIA CRISTIANA TRA ESCHATON ED ESCHATA. IL CONTRIBUTO DI JOSEPH RATZINGER

FRANCESCO BRANCATO*

1. PREMESSA Con l’elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio è fiorito con più forza il mai sopito interesse per il pensiero di un teologo che ha avuto un posto eccezionale nella teologia contemporanea, prima ancora di rivestire l’importante incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede1. Su questa scia credo che sia quanto mai interessante riprendere tra le mani un rilevante saggio dedicato dal teologo all’escato*

Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per l’approfondimento del pensiero teologico di Ratzinger e per una presentazione della sua produzione teologica, rimando tra l’altro ai seguenti lavori: R. TURA, La teologia di J. Ratzinger. Saggio introduttivo, in Studia Patavina 21 (1974) 145-182, che attinge anche ad una Miscellanea Ratzinger curata dall’Istituto di dogmatica dell’università di Monaco; N. SCHIFFERS, Joseph Ratzinger, in Tendenzen der Theologie im 20 Jahrhundert, ed. H.J. Schultz, Stoccarda-Berlino 1966, 608-611; J. ROLLET, Le Cardinal Ratzinger et la théologie contemporaine, Paris 1987; G. NACHTWEI, Dialogische Unsterblichkeit. Eine Untersuchung zu Joseph Ratzingers Eschatologie und Theologie, Lipsia 1986; H. HÖFL, Bibliographie Kardinal Joseph Ratzinger, in Weisheit Gottes – Weisheit der Welt. Festschrift (opera in onore del sessantesimo compleanno di Ratzinger), II, St. Ottilien 1987, 3-77. Inoltre si vedano: R. TURA, Joseph Ratzinger, in Lessico dei teologi del secolo XX, ed. P. Vanzan – H.J. Schultz , Brescia 1978, 747-749; B. MONDIN, Joseph Ratzinger, in ID., I grandi teologi del XX secolo, Bologna 1992, 490-497; A. NICHOLS, Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo 1996, 168-200; 313-319; ID., The Theology of Joseph Ratzinger: an Introductory Study, Edimburgo 1988; A. BELLANDI, Fede cristiana come “stare e comprendere”, Roma 1996, soprattutto la ricca raccolta bibliografica su Ratzinger. 1


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Francesco Brancato

logia cattolica, quale il testo Escatologia. Morte e vita eterna, scritto alla fine degli anni Settanta, ma ancora perfettamente attuale e ricco di spunti di riflessione2. Un’opera fondamentale per comprendere il pensiero del teologo tedesco sulle principali questioni dell’escatologia e per capire ancora meglio le problematiche che tutt’oggi animano questa dimensione centrale della dogmatica cattolica. Attraverso una lettura impegnata e critica dell’opera tenterò di presentare per grandi linee le considerazioni di Ratzinger soprattutto su un aspetto fondamentale dell’escatologia cristiana che consiste nel suo essere sostanzialmente costituita dalla tensione profonda tra eschaton ed eschata. Accanto a questo studio risulta anche utile riprendere altre importanti opere del teologo tedesco in cui sono contenute rilevanti affermazioni sull’escatologia in generale o su alcune sue tematiche speciali, quali soprattutto la morte e la risurrezione. Mi riferisco in questo secondo caso sia a Introduzione al cristianesimo che a Dogma e predicazione, entrambe ritenute a ragione di capitale valore per capire e stimare il suo contributo teologico3.

2. L’ESCATOLOGIA COME ANIMA DEL PENSARE TEOLOGICO Nella sua Introduzione al cristianesimo Ratzinger tratta delle questioni principali dell’escatologia cristiana nella terza parte dell’opera, dedicata alla presentazione dell’articolo del Credo riguardante lo Spirito Santo (nel contesto del quale parla della Chiesa), in cui tenta di dimostrare l’intrinseca unità degli ultimi articoli del Simbolo di fede, e come proprio gli ultimi asserti del Credo siano in sostanza lo sviluppo della confessione fondamentale: «Credo nello Spirito Santo». Infatti, «anche le parole conclusive del Simbolo, la professione di fede nella “risurrezione della carne” e nella “vita eterna”, vanno intese come esplicitazione della fede 2

Nell’originale edizione tedesca: Eschatologie. Tod und ewiges Leben, del 1977, in Italia edito ad Assisi nel 1979, ultimo volume della Piccola Dogmatica Cattolica (originale edizione tedesca Kleine Katholische Dogmatik) edita da J. Ratzinger con J. Auer. 3 Cfr Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, del 1968 (trad. it.: Introduzione al cristianesimo, 1969); Dogma und Verkündigung, 1973 (trad. it.: Dogma e predicazione, 1974).


L’escatologia cristiana tra eschaton ed eschata

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nello Spirito Santo e nella di lui potenza trasformatrice, di cui descrivono gli ultimi e più spettacolari effetti»4. Il panorama della risurrezione deriva dalla fede nella trasformazione della storia che si è inaugurata con la risurrezione di Gesù in forza della quale sono stati superati i limiti della vita biologica e i confini della morte e si è aperto un capitolo nuovo caratterizzato dall’azione e dalla presenza dello Spirito, cioè dell’amore che è più forte della morte. Questa convinzione dal Simbolo viene proiettata anche sul futuro di tutti gli uomini alla fine dei tempi ed è espressa attraverso la formula “risurrezione della carne”5. Affermazione tanto scandalosa per l’uomo di oggi quanto poteva esserlo per lo spiritualismo del mondo greco6. È del tutto erroneo contrapporre su questo punto concezione greca e dottrina biblica sulla sorte finale dell’uomo. Sia la dottrina dell’immortalità dell’anima propria della riflessione ellenistica, sia la concezione cristiana della risurrezione dei morti, infatti, rappresentano, ciascuna a suo modo, un convergente tentativo di dare una risposta totale al problema del destino umano. Ciò che è importante affermare è che la Bibbia parla di un’immortalità che si predica dell’intero individuo, dell’unico impasto umano. La Scrittura intende proporre alla speranza umana una immortalità “dialogica” che non si riduce ad essere per l’uomo la mera facoltà del nonpoter-morire, «ma scaturisce invece dall’azione salvifica di colui che ci ama ed ha il potere di compiere anche questo: l’uomo non può sparire totalmente, perché è conosciuto e amato da Dio»7. L’immortalità, quindi, non proviene dal potere autonomo del soggetto, ma dal suo essere incluso nel dialogo con il Creatore. Per questa ragione essa deve essere chiamata risurrezione, ovvero richiamo alla vita rivolto all’uomo integralmente considerato. Ancora, il fatto che la risurrezione sia attesa per gli ultimi giorni dimostra il carattere profondamente comunitario dell’immortalità umana, a motivo dell’imprescindibile e indissolubile legame che c’è tra il singolo individuo e tutti gli altri uomini. Dio è vita e rivolgerà all’uomo alla fine dei 4 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 277-278. Cfr anche ID., Al di là della morte, in Communio 1 (1972) 162-170. 5 A questo proposito si veda anche J. RATZINGER, Resurrezione della carne. Aspetto teologico, in Sacramentum Mundi VII, ed. K. Rahner, Brescia 1977, 159-165; ID., Zwischen Tod und Auferstehung, in Communio (ed. tedesca) 9 (1980) 209-226. 6 Cfr J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 278-279. 7 Ibid., 290.


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tempi la sua parola di vita ridestandolo dalla morte. Egli farà questo mediante il suo Figlio, Verbo eterno di Dio, nel quale già gli si rivolge rendendolo partecipe della sua stessa vita divina ed eterna. Per questa ragione, continua Ratzinger, «l’essere uniti a Cristo, reso possibile dalla fede, è già un’iniziale vita di risurrezione che ha ormai vinto la morte […]. Il dialogo instaurato nella fede è già sin d’ora vita: una vita che non potrà mai venir troncata dalla morte»8. Ciò che dunque il messaggio biblico sulla risurrezione vuole consegnare all’uomo animandone la speranza, è che la morte non è la sua fine. Egli rimane. «Il condensato di spiritualità corporea e di corporeità spiritualizzata maturato in questa esistenza terrena continuerà sempre a sopravvivere, sia pure in maniera diversa dall’attuale. Esso rimane imperituro, perché vive nella memoria di Dio»9 e raggiungerà il suo perfetto compimento unicamente quando anche il futuro dell’umanità risulterà adempiuto. Infatti, la meta agognata dal cristiano, conclude Ratzinger, non è una beatitudine privata, ma la realizzazione del tutto, la riconciliazione del mondo la cui redenzione è già in atto e abbraccia l’uomo e tutti gli ambiti della sua esistenza10. Nella sua opera Dogma e predicazione il teologo ritorna sull’argomento parlando dell’escatologia nell’ambito della presentazione di alcuni temi basilari della predicazione (Dio; Cristo; Creazione-Grazia-Mondo; Chiesa). In questo contesto egli tratta della questione della morte e a partire da qui affronta le domande riguardanti il dopo, l’aldilà, ciò che accade all’uomo oltre lo steccato della morte, per poi soffermarsi sulla considerazione della risurrezione e della vita eterna. A questo punto egli chiarisce come la domanda sul senso della morte, che racchiude in sé anche la domanda intorno alla sorte dell’uomo nell’aldilà, scaturisce dalla domanda sul senso della vita, poiché «prodigarsi per la vita umana significa anche venire in conflitto con la realtà della morte. Nella vita umana infatti ha un ruolo centrale il morire. Essa porta da sempre in se stessa la sua antitesi»11. La morte non sta invero come un unico punto fisso alla conclusione della vita che sarebbe così soltanto vita e la morte le 8 9 10 11

Ibid., 292. Ibid., 293. Cfr ibid., 297-298. J. RATZINGER, Dogma e predicazione, cit., 232.


L’escatologia cristiana tra eschaton ed eschata

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rimarrebbe estranea e le sopraggiungerebbe solamente alla fine surrettiziamente, ma lo stesso vivere è morire poiché la morte è immanente alla vita e «il processus del vivere come tale è anche il processus della morte dentro questa vita»12. L’interrogativo sul valore della vita richiede perciò la domanda imperiosa sul senso o sull’assurdità della morte e quindi su ciò che essa significa per l’esistenza dell’uomo, per le sue domande, per le sue passioni, per i suoi progetti e per il suo irrefrenabile desiderio di vita. La morte non può essere pensata come qualcosa di meramente biologico, ma è ciò che lentamente si afferma nell’esistenza dell’uomo e che lo porta sempre più ad operare una progressiva demolizione della propria autoaffermazione per dare spazio al divenire di una nuova libertà dello spirito e del corpo affinché si formi l’uomo nuovo, il cristiano. Questa accettazione del movimento della morte è accettazione e incontro spirituale con il battesimo che è l’unione della morte dell’uomo con quella di Cristo e accoglienza dello stesso mutamento di valore che la morte umana ha ricevuto dalla morte di Gesù; quella, cioè, di essere un parto dell’uomo nuovo generato nel battesimo e portato a pienezza proprio nella morte che è perciò stesso un processo di grazia. La teologia della morte è teologia battesimale e la teologia battesimale è teologia della morte13. Chiarire la questione della morte significa anche aprire uno spiraglio alla possibilità di trovare qualche risposta agli interrogativi sull’aldilà. Quest’ultimo può essere compreso solo per analogia e attraverso delle immagini che veicolano una verità ancora maggiore e che denunciano la loro insopprimibile provvisorietà e insufficienza. Ciò che di certo si può dire è che le varie immagini utilizzate dalla Scrittura per parlare delle realtà degli ultimi tempi, indicano la totalità della salvezza cristiana: è l’uomo completo che entra nella salvezza ed è tutto il mondo che prende parte ad essa. La salvezza cristiana è una salvezza integrale, abbraccia l’uomo nella sua pluridimensionalità, nell’interezza e unità del suo essere e nel suo imprescindibile rapporto con il mondo, poiché il mistero delle “cose” del mondo che rendono piena la gioia dell’uomo, non può andare perduto. «Credere nella risurrezione — conclude Ratzinger — vuol dire in fondo credere ad una salvezza dialogica nei confronti del libero amore di Dio, significa credere 12 13

Ibid., 233. Cfr ibid., 240.


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ad una salvezza globale, che coglie l’uomo come uomo»14, e questa salvezza annunciata dalla Chiesa e resa possibile e operante in Cristo per la sua morte e risurrezione, è l’unica risposta possibile offerta alle ansietà dell’uomo e al suo bisogno di speranza. Veramente l’escatologia è l’anima profonda dell’intera teologia e dello stesso cristianesimo. Essa non è tanto l’ultimo capitolo della dogmatica cattolica, la parte finale della professione di fede della Chiesa, un’appendice alla sua predicazione, ma la prospettiva privilegiata che ne permette la comprensione e che l’alimenta. Chiarire i contenuti dell’escatologia significa comprendere anche più in profondità l’uomo, il mondo, la storia, la Chiesa e la sua missione a servizio del Regno. Queste riflessioni, come già anticipato, verranno riprese e approfondite in maniera sistematica da Ratzinger più in là nella sua Escatologia. Si tratta di un’opera in cui il teologo esprime la convinzione secondo cui il tema escatologico è il motivo centrale del Nuovo Testamento e dello stesso cristianesimo. È di quest’opera che in maniera del tutto speciale vorrei ora occuparmi nelle pagine che seguono.

3. ESCATOLOGIA TRA ESCHATON ED ESCHATA. ALCUNI RILIEVI CRITICI Da un primo approccio al testo ci si rende conto che l’autore ha impostato la materia da trattare senza essere condizionato dagli schemi classici della manualistica preconciliare suddivisa in due grandi blocchi costituiti rispettivamente dall’escatologia individuale e da quella collettiva. Ratzinger pur trattando dei singoli eschata ritiene che non sia possibile sganciare l’escatologia dalla riflessione teologica globale, e che l’alveo originario entro cui collocare la trattazione escatologica sia la domanda sul futuro, che oggi più che mai appare impellente e radicale. Forte di questa convinzione, nell’introduzione all’opera fa il punto della situazione attuale dell’escatologia e ne presenta le premesse storiche, individuate soprattutto nel dibattito teologico, sbocciato prevalentemente nei paesi di lingua tedesca, circa l’escatologia del Nuovo Testamento; 14

Ibid., 260.


L’escatologia cristiana tra eschaton ed eschata

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dibattito sorto nell’ambito delle scuole teologiche protestanti tra la fine del XIX sec. e la prima metà del XX, fino ad arrivare al discussione prodottasi a partire dalla pubblicazione di Teologia della speranza di J. Moltmann. Tralasciando anche una presentazione sommaria dell’intelligente analisi fatta da Ratzinger, ciò che qui conta è mettere in evidenza come secondo il nostro teologo, sebbene sia di importanza centrale la domanda sul futuro e la riflessione sulla speranza per la corretta comprensione e trattazione dell’escatologia cristiana, tuttavia non può essere accettata la posizione di coloro che, anche da parte cattolica, vorrebbero in qualche modo «scrivere un’escatologia interamente in forma d’una discussione (consenziente o critica) con le teologie del futuro, della speranza, della liberazione [...], in cui l’orizzonte non comprende praticamente nessuno dei temi classici della dottrina sulle cose ultime: né il cielo né l’inferno, né il purgatorio né il giudizio, né la morte né l’immortalità dell’anima»15.

Ciò non è del tutto possibile in quanto la centralità della domanda dell’uomo contemporaneo sul futuro non può deviare così radicalmente il quadro dell’escatologia cattolica da intaccarne seriamente la sostanza, dato che «non è possibile che l’impostazione della dogmatica cattolica si adegui ad un simile spostamento delle prospettive e ciò non solo per il motivo esteriore che a un trattato didattico si devono chiedere informazioni sui contenuti classici di una materia, ma anzitutto per il motivo interiore che proprio queste domande implicano la concezione specificatamente cristiana del futuro e del presente e sono all’uomo tanto necessarie quanto gli è necessario il cristianesimo»16.

L’interesse per il tema della speranza e del futuro che deve riguardare l’intera riflessione escatologica, deve essere accompagnato dalla fedeltà alle esigenze del manuale che ha la naturale vocazione ad affrontare di fatto tutti i temi dell’escatologia cattolica classica, ricavando da essi le risposte della 15 16

J. RATZINGER, Escatologia, cit., 28. Ibid., 28.


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fede alle grandi questioni dell’uomo sul futuro. Avendo chiara questa premessa, Ratzinger riserva maggiore attenzione a quei temi dell’escatologia cristiana che negli ultimi decenni hanno riacquistato un posto del tutto speciale nel dibattito teologico e nell’interesse dell’uomo contemporaneo. È sufficiente pensare, a questo proposito, innanzitutto alla teologia della morte; alla questione dello stadio intermedio, che riveste molta importanza anche per il dialogo ecumenico e per la comprensione del dibattito riportato alla luce da O. Cullmann intorno al rapporto tra risurrezione dei morti (ritenuta un’idea propria del patrimonio della fede biblica) e immortalità dell’anima (idea considerata un retaggio della cultura ellenistica e della sua influenza sul cristianesimo primitivo). Per quanto riguarda in particolare quest’ultimo punto, contestando soprattutto il pensiero di P. Althaus e di E. Jüngel, il Nostro critica quella che lui reputa una lettura semplicistica dell’antropologia greco-platonica ingiustamente ritenuta assolutamente dualista e dicotomica, e tenta di superare lo scoglio indicato da O. Cullmann (immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?) mettendo in evidenza l’importanza imprescindibile della dottrina dell’immortalità come necessario presupposto perché si possa parlare correttamente di risurrezione dei morti (identità tra l’uomo che è vissuto storicamente e colui che sarà risuscitato alla fine dei tempi). In questo senso, Ratzinger è convinto che il concetto di anima, quale è stato usato nella tradizione ecclesiale e teologica, è un concetto cristiano ed è il “veicolo” dell’essere con Cristo da parte della persona umana dopo la morte17. Già in Dogma e predicazione il teologo tedesco aveva affrontato questa questione ed aveva fatto notare che per l’antropologia cristiana la dualità di corpo ed anima risulta necessaria per la corretta comprensione dell’uomo. Al contempo, però, egli aveva esposto le ragioni per cui è altrettanto necessario che la teologia non perda di vista che in realtà l’uomo esiste, è se stesso proprio nel corpo. Essere uomo vuol dire essere nel corpo. «La corporeità è il vero e proprio essere dell’uomo»18. La morte non può significare perciò un evento che interessa esclusivamente la corporeità dell’essere umano, senza intervenire in qualche maniera anche sulla sua anima.

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Cfr ibid., 159; 162. J. RATZINGER, Dogma e Predicazione, cit., 234-235.


L’escatologia cristiana tra eschaton ed eschata

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Egli inoltre affronta non solo questi argomenti, ma anche le altre principali istanze dell’escatologia, avendo costantemente vive due complementari preoccupazioni. Innanzitutto presentare l’unità profonda delle diverse questioni, la loro essenziale interdipendenza, evitando il rischio della frammentazione del discorso escatologico e della cosificazione degli eschata che aveva negativamente contraddistinto la precedente riflessione e trattatistica neoscolastica con il suo De Novissimis. Quindi applicare alcuni indispensabili principi ermeneutici che permettono una corretta comprensione del messaggio escatologico del cristianesimo. Per quanto riguarda questo secondo punto, ad esempio, egli sostiene che «la Chiesa primitiva si è mantenuta molto conservatrice proprio per quanto concerne l’ambito delle immagini escatologiche; essa non è passata dal “semitico” all’“ellenistico”, ma è rimasta interamente nel canone figurativo semitico, come dimostrano univocamente sia l’arte della catacombe sia la liturgia e la teologia. Ma ora diviene sempre più evidente che tutte queste immagini non descrivono dei luoghi, bensì circoscrivono il Cristo, il quale è la luce vera e la vita vera, l’albero della vita. Di conseguenza, le immagini scaturite dai concetti piuttosto cosmologici, si trasformano in affermazioni cristo-teologiche e, mentre perdono di peso, guadagnano in profondità»19.

Demitizzazione del linguaggio escatologico e delle stesse immagini cui la Sacra Scrittura ricorre per esprimere la speranza di pienezza nell’eschaton, non significa agevolmente disinquinare il messaggio escatologico della Bibbia e in particolare del Nuovo Testamento dal retaggio e dall’influenza ellenistiche, ma innanzitutto capire e rileggere le immagini escatologiche alla luce dell’ambiente semitico e della tradizione culturale ebraica in cui sono sorte e si sono sviluppate. Ciò richiede uno sforzo continuo da parte della teologia in una duplice direzione: da una parte bisogna salvaguardare il loro intrinseco valore, dall’altra procedere ad una loro profonda e accurata catarsi mediante una rilettura resa possibile dal confronto con l’affermazione cristologica.

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J. RATZINGER, Escatologia, cit., 143-144.


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Francesco Brancato «Sarebbe [infatti] stolto tendere a una religiosità totalmente priva di immagini, poiché contraddirebbe alla natura dell’uomo. È però tanto più importante che le immagini siano sempre riverificate nel loro significato e relazionate sempre nuovamente a questo, affinché non si vanifichino in un’autonomia mitologica. [...] non è compito dell’annunzio eliminare le immagini, bensì è suo dovere purificarle sempre nuovamente. Nella misura in cui la cristologia assume la sua piena importanza, le singole immagini escatologiche ricevono un significato cristologico»20.

Diventa così indispensabile che si eviti ogni forma di “realismo esasperato” circa le affermazioni escatologiche che tenti di rappresentare perfettamente e senza ombre il mondo futuro. Bisogna anche salvaguardare la “realtà” delle asserzioni e immagini escatologiche della Bibbia e della Tradizione, per non scadere in una sorta di spiritualismo disancorato dal cosmo e dal mondo materiale. A questo dato se ne aggiunge un altro che riguarda l’esigenza di evitare qualsiasi assolutizzazione delle immagini escatologiche, in quanto la stessa Scrittura «non ha mai ammesso l’autocrazia di un’immagine sola, ma ha prospettato ciò che è inesprimibile con una molteplicità di immagini»21. La riflessione sull’eschaton corregge così le possibili derive in cui la teologia può perdersi nella sua riflessione sugli eschata, e l’attenzione alle “realtà ultime” aiuta di contro il teologo a mantenere intatto lo specifico dell’escatologia cristiana.

4. LA SCRITTURA COME ANIMA DELL’ESCATOLOGIA CRISTIANA La Scrittura occupa un posto del tutto privilegiato nella riflessione teologica di Ratzinger. Essa viene ascoltata come la norma assoluta e il punto di partenza irrinunciabile per un corretto discorso sull’escatologia cristiana. Mentre i classici manuali riducevano la testimonianza scritturistica al ruolo di autorità atta semplicemente a giustificare, fondare, difendere le 20 21

Ibid., 145. Ibid., 246.


L’escatologia cristiana tra eschaton ed eschata

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affermazioni dogmatiche del magistero della Chiesa, Ratzinger si ripropone di presentare in maniera critica il pensiero biblico per ricavare il messaggio della rivelazione in risposta alle questioni fondamentali dell’uomo circa la sua sorte escatologica. Cristo è il principio ermeneutico fondamentale che ci permette di cogliere il vero senso del testo sacro e che è capace di colmare pienamente il divario e la tensione esistente tra lo schema e il contenuto-realtà; poiché «sarà solamente nella figura reale di Colui che è venuto che si rivelerà ciò che nella parola era rimasto nascosto e che neppure sul piano puramente storico potrebbe essere ricostruita in base ad essa»22. Tutto ciò senza avere la pretesa di ricercare nella Scrittura delle risposte precise, puntuali e perfettamente chiare sull’escatologia, in quanto il testo sacro costituisce un punto di partenza per la riflessione, ma non consente delle conclusioni; in tal senso la «Bibbia stessa ci vieta qui il biblicismo»23. Si può afferrare poi il vero significato dei testi biblici solo se questi vengono riletti sia alla luce dell’ambiente originario in cui sono stati scritti, sia afferrando la loro profonda valenza simbolica e la loro relazione con il linguaggio e la prassi liturgica del tempo. Infatti, specialmente il linguaggio del Nuovo Testamento è un linguaggio liturgico che non vuole tanto fornire delle indicazioni chiare e palesi circa gli eventi futuri e il destino del cosmo, quanto annunziare la speranza cristiana che anima e illumina la vita presente dell’uomo e della Chiesa. Il Nuovo Testamento, cioè, non intende fornire tanto delle informazioni sugli eschata, quanto piuttosto annunziare Cristo, l’eschaton, e in lui leggere il compimento ultimo del mondo e dell’uomo, l’inaugurazione delle realtà ultime.

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Ibid., 63-64. Ibid., 180. Sulla necessità di attuare una serrata ermeneutica degli asserti e delle immagini dell’escatologia, si consideri anche l’importante contributo di H.U. VON BALTHASAR, I novissimi nella teologia contemporanea, Brescia 1967; K. RAHNER, Principi teologici dell’ermeneutica di asserzioni escatologiche, in ID., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Roma 1969, 399-440; C. SCÜTZ, Fondazione generale dell’escatologia, in Mysterium Salutis XI: Il tempo intermedio e il compimento della salvezza, a cura di J. Feiner – M. Löhrer, Brescia 1978, 9-180; E. CASTELLUCCI, Nella pienezza della gioia. La centralità dell’ermeneutica nell’escatologia cristiana, in Sacra Doctrina 3-4 (1998) numero monografico. 23


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5. UN CONFRONTO NECESSARIO Ratzinger intrattiene un dialogo sereno con gli altri teologi, innanzitutto cattolici e protestanti, anche quando questi esprimono un parere teologico discordante, al fine di acquisire una conoscenza ancora più adeguata dell’oggetto trattato. Egli critica tuttavia non solo l’“attualismo informale” di K. Barth, ma anche e soprattutto alcuni estremi della teologia esistenziale di R. Bultmann, per il quale l’escatologia si identifica e si esaurisce perfettamente con l’atto di donazione, di abbandono a Cristo il quale è in sé l’evento escatologico24. Per Ratzinger, invero, «questa teologia filosofica, nonostante la sua indiscutibile serietà etica, sembra oggi stranamente vuota [...]. Una fede che non è più in grado di entrare in conflitto con la storia non ha neppure più nulla da dirle [...]. Un concetto della fede puramente formale e attualistico è destinato a fallire quando si tratta dell’uomo»25. Inoltre, «l’escatologia formale della scelta, elaborata da Bultmann, era parsa affascinante, perché conciliava una religiosità radicale con una consegna totale del mondo alla ragione profana. Ma essa aveva privato la fede di ogni suo contenuto e troncato la domanda sul significato del mondo e della storia, motivo per cui non poteva costituire una soluzione duratura»26. Egli si mostra molto critico anche nei confronti del pensiero di G. Greshake e G. Lohfink, sostenitori cattolici della dottrina della “risurrezione nella morte” (Auferstehung im Tod). Sebbene queste teorie abbiano trovato un’accoglienza pressoché unanime, fa notare il Nostro, ciò non pregiudica la necessità di denunciare come «questo consenso poggia su un terreno estremamente fragile. Un espediente ermeneutico tanto frammentario e complesso, pieno di crepe e di lacune, non potrà costituire una stabile base né per la teologia né per l’annunzio ed è in se stesso contraddittorio»27. Ratzinger arriva a queste conclusioni dopo aver ampiamente dimostrato che le affermazioni di G. Greshake — secondo il quale il problema dello “stadio 24

Cfr J. RATZINGER, Escatologia, cit., 67-68. Ibid., 68-69. 26 Ibid., 75. Si veda inoltre J. RATZINGER, Storia della salvezza, metafisica ed escatologia, in ID., Elementi di teologia fondamentale. Saggio sulla fede e sul mistero, Brescia 1986, 126-127. 27 J. RATZINGER, Escatologia, cit., 126. 25


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intermedio” tra la morte e la risurrezione è chiaramente inconsistente in quanto il “tempo” è una forma della vita fisica e non riguarda l’aldilà, per cui chi muore entra nel presente dell’ultimo giorno e pertanto nella fine dei tempi — e le argomentazioni di G. Lohfink — il quale cerca di ovviare ai problemi suscitati dalla tesi di Greshake introducendo nella sua riflessione escatologica il concetto di aevum (per il teologo in verità la morte non introduce nel “non-tempo”, bensì in un nuovo tipo di temporalità che è propria dello spirito creato) — portano a delle aporie insuperabili e inconciliabili con la genuina fede biblica ed ecclesiale28. Innanzitutto Ratzinger sostiene che l’ipotesi della “risurrezione nella morte”, sia nella versione di Greshake che in quella molto simile di Lohfink, neghi tra l’altro quanto viene fermamente asserito dal dogma dell’Assunzione di Maria al cielo, sia riguardo alla singolarità del mistero, sia rispetto alla stessa condizione della Vergine29. Inoltre, secondo queste ipotesi «il corpo è abbandonato alla morte, mentre contemporaneamente viene affermata una sopravvivenza dell’uomo»30. In più va aggiunto che «l’aevum fornisce qualche informazione circa la persona singola che entra nella compiutezza pur non diventando a-temporale, ma non dice assolutamente nulla sul fatto che si possa considerare come già compiuto l’insieme della storia»31. Il giudizio negativo dell’autore circa questa tesi viene in definitiva giustificato specialmente dal fatto che «in simili modelli il corpo viene privato definitivamente della speranza della salvezza»32. Rifacendosi poi all’accezione agostiniana della memoria, del “tempomemoria” e del cosiddetto “tempo antropologico”, preso in esame unitamente al tempo fisico, Ratzinger pensa che «l’uomo che muore, esce dalla storia, essa è per lui (provvisoriamente) conclusa. Tuttavia egli non 28 Cfr a questo proposito G. GRESHAKE – G. LOHFINK, Naherwartung – Auferstehung – Unsterblichkeit, Untersuchungen zur christlichen Escatologie, Freiburg 19762; si veda anche G. GRESHAKE, Breve trattato sui novissimi, Brescia 19822. 29 Cfr J. RATZINGER, Escatologia, cit., 258. Soprattutto su questo punto si nota la palese sintonia della posizione del Nostro con quanto affermato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel documento pubblicato quasi in concomitanza con l’uscita dell’edizione italiana della sua Escatologia. Cfr a questo proposito Alcune questioni concernenti l’escatologia, in Enchiridion Vaticanum 6 (1977-1979) 1528-1549. 30 J. RATZINGER, Escatologia, cit., 123. 31 Ibid., 125. 32 Ibid., 126.


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perde il rapporto con la storia, perché la rete della relazionalità umana fa parte della sua stessa essenza. Il concetto della resurrezione nella morte priva perciò anche la storia della sua importanza, poiché, in fondo, a giudicare da un altro punto di vista, la storia è già conclusa»33. Non si dà invece destino perfettamente compiuto del singolo, nella sua morte, indipendentemente da quello di tutti gli altri esseri umani e del mondo, ancora soggetti al divenire della storia e alle sue interne dinamiche, ma la risurrezione rimane un evento escatologico, comunitario ed ecclesiale che si realizzerà solamente alla venuta finale di Cristo nella gloria. Molte ipotesi teologiche hanno il grande merito di levare il sipario su questioni spinose e particolarmente delicate, ma in alcuni casi hanno anche il grande difetto di marcare unicamente e unilateralmente un solo aspetto delle questioni, mettendo inevitabilmente in ombra tutto il resto. Per questa ragione Ratzinger è assolutamente persuaso che solamente uno strettissimo riferimento alla testimonianza della Scrittura e della tradizione viva della Chiesa conduce il teologo a presentare in maniera puntuale l’escatologia cristiana.

6. ESCATOLOGIA VERSUS FILOSOFIA? Se il confronto con il pensiero degli altri teologi per Ratzinger è necessario, la discussione con il pensiero filosofico è altrettanto importante e fruttuosa per una comprensione più profonda delle questioni escatologiche? Ratzinger risponde positivamente a questo quesito, tanto è vero che presta un’attenzione del tutto particolare alle questioni sollevate dal pensiero contemporaneo, e procede con rigore razionale nell’analisi delle problematiche e delle loro possibili proposte di soluzione, anche mediante l’ausilio della filosofia e delle scienze umane. Le domande che l’uomo si pone e pone alla teologia sul suo destino ultimo, sul futuro dell’umanità intera e dell’universo, i suoi interrogativi e le sue ansiose questioni circa la vita e la morte, il tentativo di risposta da parte della filosofia e delle scienze umane non sono estranee alla teologia, sono anzi un punto di partenza privi-

33

Ibid., 196.


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legiato della riflessione dell’autore che ricerca però nella Rivelazione le risposte adeguate e le vie di comprensione. Egli è ben conscio dell’importanza dell’ineludibile rapporto esistente tra la teologia e il sapere filosofico, e che quest’ultimo, soprattutto tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, specialmente con l’opera di autori come M. Heidegger, J.P. Sartre, K. Jaspers ed altri ancora, ha fatto sentire profondamente la sua incidenza sulla riflessione teologica contemporanea34. La filosofia può e deve aiutare la teologia nell’intelligenza e nella penetrazione del dato di fede. Essa può anche suggerirle alcuni strumenti ermeneutici per una retta e critica conduzione dell’argomentazione. Ciò ovviamente non significa affatto che le due discipline vadano a lungo andare confuse l’una con l’altra, poiché, ribadisce Ratzinger a più riprese, la Scrittura è e rimane il primo riferimento normativo e autorevole per la teologia. Questo dato appare con particolare evidenza, ad esempio, a proposito della trattazione del tema della morte e dell’immortalità dell’anima. Qui l’autore, nel porre le premesse teologiche del problema, espone la visione dominante e classica della questione secondo cui esiste di fatto un’antitesi insanabile tra il pensiero biblico (soprattutto la sua antropologia, considerata essenzialmente a favore di una visione unitaria dell’uomo) e quello greco. Quest’ultimo è tradizionalmente ritenuto responsabile, principalmente nella forma proposta dal platonismo, della lenta affermazione di una visione dualista dell’uomo e della conseguente assolutizzazione della sua dimensione spirituale a svantaggio di quella corporale e materiale, reputata di ostacolo alla sua piena realizzazione e alla sua emancipazione dalla caducità e dalla corruzione. Come conseguenza di questa immagine antropologica fortemente orientata all’evasione dal corpo, dal mondo e dalla materia, la filosofia platonica — secondo l’interpretazione classica, non condivisa tuttavia dall’autore — ha favorito il costituirsi di una concezione prettamente individualistica dell’uomo e della sua attività nel mondo. La negazione del riconoscimento di qualsiasi valore alle realtà terrene, infatti, fa sì che l’uomo mostri disinteresse per la storia, la società, gli altri individui, e rivolga la sua attenzione esclusivamente all’aldilà, ritenuto la realtà vera e perfetta. Ratzinger si sforza di sfatare questa convinzione ormai 34 Cfr soprattutto M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Milano 1976; J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, Milano 1972; K. JASPERS, Metafisica, Milano 1972; ID., Filosofia, Torino 1978.


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assodata nella teologia contemporanea, e nel tentativo di revisione di questa classica convinzione riguardante il pensiero platonico sostiene che «il vero orientamento del pensiero platonico viene completamente travisato qualora lo si qualifichi come una concezione individualistica, che nega i valori terreni e induce gli uomini a rifugiarsi nell’aldilà. Al contrario, il suo vero obiettivo è proprio la possibilità di riedificare la polis, di restaurare la politica»35. A partire da questo dato, Ratzinger giunge alla conclusione secondo cui il platonismo ha ancora molto da offrire al cristianesimo, se letto nella sua vera luce. Ed effettivamente, contro quella che lui stesso chiama “l’opinione dominante” anche dei suoi tempi, afferma che un’escatologia rinnovata non può dimessamente pensare di ripercorrere le strade passate nel continuo tentativo di riscattarsi da qualunque supposta influenza del pensiero filosofico, in particolare platonico, per riproporre una fede presuntamene genuina, costruita su canoni figurativi e linguistici di matrice e derivazione esclusivamente semitica. È infatti necessario avviare una rilettura e una reinterpretazione del pensiero platonico, poiché questo, opportunamente purgato e rettificato, è ancora molto utile per la comprensione dell’antropologia cristiana. La riflessione filosofica risulta utile poi per approfondire, delucidare e affrontare criticamente delle tematiche che implicano la considerazione di concetti squisitamente filosofici (tempo, futuro, corporeità), e diverse problematiche riguardanti ad esempio l’immortalità dell’anima, la risurrezione dei morti (corpo di risurrezione) e lo stadio intermedio. Il confronto tra le affermazioni teologiche e il pensiero filosofico è vantaggioso per dimostrare che le verità di fede sono anche verità dell’uomo, e le affermazioni teologiche molte volte non sono in dissonanza con le affermazioni del pensiero filosofico. In particolare, Ratzinger parla del problema dello stadio intermedio, e dimostra in maniera molto articolata a questo proposito, così come aveva fatto per il tema della morte, che la concezione antropologica del platonismo delle origini non può essere semplicisticamente ritenuta dualista, in quanto essa è attenta alla considerazione dell’uomo sia nella sua unità che nella molteplicità dei suoi elementi. Il traguardo supremo di Platone, infatti, per quanto è inerente al rapporto tra corpo e anima, è «l’integrazione degli 35

J. RATZINGER, Escatologia, cit., 94.


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elementi dualistici al fine di giungere all’unità nella molteplicità»36. È anche vero che Aristotele, con la sua concezione dell’anima come “entelechia” (forma del corpo naturale), ha in qualche modo portato alla negazione dell’immortalità dell’anima singola e all’affermazione dell’immortalità come prerogativa di ciò che è pienamente spirituale, il “nous”, ritenuto però non personale e individuale ma l’espressione della partecipazione dell’uomo a un principio divino e universale che lo trascende. In tal senso, Ratzinger crede che sia del tutto erroneo ritenere che il dualismo antropologico di cui ha sofferto la teologia cristiana per molti secoli, sia il retaggio del pensiero filosofico greco preso nel suo insieme. Egli è convinto che la teologia è chiamata ad accogliere, confermare e ripulire le grandi conquiste del pensiero filosofico — in questo caso quelle del pensiero greco riguardanti il carattere dialogico dell’immortalità dell’anima, e l’idea di origine ellenistica secondo cui contemplare è vivere, per cui l’assimilazione della verità è vivere — e dare così compimento e chiarezza a quelle intuizioni della filosofia che altrimenti rimarrebbero incomplete e senza risposta. Perciò stesso, «il sapere filosofico rimane un camminare sulle acque; esso non può darci stabilità. Soltanto colui che, essendo Dio incarnato, ci sostiene con la sua forza, può darci stabilità sul mare della precarietà. Ma la sua promessa è questa: alla visione di Dio, che è la vita, non possiamo giungere con la speculazione della ragione, bensì unicamente attraverso la purezza del cuore semplice [...]. Il pensiero platonico della vita che scaturisce dalla verità è qui approfondito nella sua versione cristologica e trasformato in una concezione dialogica dell’esistenza dell’uomo»37.

La filosofia può quindi dare un valido contributo per l’approfondimento e la penetrazione critica dell’escatologia cristiana, e il teologo non può e non deve sottrarsi al confronto con essa, consapevole tuttavia che ciò deve e può avvenire solo nella misura in cui il suo apporto viene rivisto dal sapere teologico alla luce della Scrittura e in particolare del mistero di Cristo, “regola” fondamentale per l’interpretazione dell’escatologia cristiana. 36

Ibid., 155. Qui il teologo cita e approva una frase di U. Duchrow tratta dal suo libro Christenheit und Weltverantwortung, Stuttgart 1970, 79. 37 Ibid., 164.


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7. L’ESCATOLOGIA IN RAPPORTO CON LE ALTRE DISCIPLINE TEOLOGICHE Perché la tensione tra eschaton ed eschata si articoli in modo corretto è necessario che l’escatologia cristiana mantenga e mostri il suo fondamentale riferimento alle altre discipline teologiche. È, come vedremo subito, ciò che Ratzinger ha tentato di fare costantemente nel suo pensare teologico.

7.1. Escatologia e cristologia Se c’è una convinzione che traspare dalla riflessione di Ratzinger, questa è certamente quella secondo cui l’intera trattazione escatologica per essere veramente tale, fedele al suo oggetto e alla sua indole, deve essere “ricentrata” cristologicamente. Ogni asserzione escatologica, infatti, deve essere sempre letta e compresa in riferimento a Cristo, il vero eschaton. Il rapporto tra cristologia ed escatologia è perciò ineludibile e vitale, e ogni singola questione e problematica, così come l’escatologia nel suo insieme, ha senso solamente se ricondotta sempre al suo centro che è l’evento Cristo e il suo mistero pasquale. L’escatologia cristiana, vale a dire, è in se stessa il tentativo di dimostrare che le aspettative dell’uomo, le sue ansie, le sue domande circa il proprio futuro e quello dell’intera umanità e del mondo, la sua stessa speranza (presupposto su cui si fonda la riflessione escatologica), hanno una risposta unica, definitiva e insuperabile in Cristo, dal momento che «la speranza cristiana è personalizzata; il suo centro non è nello spazio o nel tempo, nella domanda sul dove e sul quando, bensì essa è incentrata sul rapporto con la persona di Gesù Cristo e sul desiderio della sua vicinanza. [...] ciò che è determinante rimane il riferimento a Cristo. Il significato e la forza dell’escatologia dipendono dall’intensità della tensione verso il Cristo, non dal grado delle aspettative temporali della fine o del cambiamento del mondo»38.

38

Ibid., 31; 35.


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Il ricentramento cristologico dell’escatologia fa superare una serie di problemi e incongruenze che caratterizzavano i manuali preconciliari e neoscolastici di escatologia cattolica: sdoppiamento della trattazione in due grandi blocchi a sé stanti (escatologia individuale ed escatologia universale o collettiva); accentuato individualismo, che portava a privilegiare l’attenzione per la sorte del singolo individuo, isolato dal resto della comunità e dall’universo; tendenza a “cosificare” gli eschata, ritenuti dei luoghi più o meno individuabili o delle realtà in qualche modo circoscrivibili riguardanti esclusivamente il futuro; sterilizzazione della speranza cristiana non più in grado di essere una forza capace di stimolare, orientare e trasformare il presente39. Queste ed altre ragioni giustificano l’indispensabile confronto che la riflessione escatologica contemporanea ha ricercato con la cristologia e anche la sua rinnovata attenzione per temi centrali per il Nuovo Testamento, primo tra tutti quello del regno di Dio, preso in considerazione specialmente per la sua rilevanza per la comprensione dell’intero messaggio di Gesù e dell’escatologia cristiana. Infatti, «Gesù è il regno non solo nella sua presenza fisica, ma per la forza irradiatrice dello Spirito Santo, la quale procede da lui [...]. Il Risorto è la sorgente dello Spirito per il mondo. Il tema del regno si muta in cristologia, perché da Cristo procede lo Spirito che è il dominio di Dio»40. La tematica del Regno deve essere ricondotta al suo centro ideale che è Cristo nel quale il “non ancora” è “già” presente e operante nella storia. Per lui la salvezza dell’uomo e del mondo ha raggiunto il presente storico poiché il futuro e la promessa sono divenuti realtà e la Chiesa sperimenta già al presente la gioia del compimento. «La risposta alla domanda sul regno è quindi il Figlio. In lui è eliminata pure l’ineliminabile diastasi tra il “già” e il “non ancora”: in lui la morte e la vita, la distruzione e l’essere sono tutt’uno. La croce è la graffa che chiude la diastasi»41. Esiste pertanto una strettissima relazione tra gli asserti escatologici e il mistero di Cristo: la comunione esistenziale e sacramentale che l’uomo stabilisce con lui sta alla base della speranza cristiana. Il mistero cristolo39 Cfr ad esempio H. LENNERZ, De Novissimis, Romae 1940; AD. TANQUEREY, Synopsis Theologiae Dogmaticae, III, Romae 194725; D. BARTMANN, Manuale di teologia dogmatica, III, Alba 1950; A. PIOLANTI, De novissimis, Romae 1960. 40 J. RATZINGER, Escatologia, cit., 55. 41 Ibid., 83.


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gico è così il fondamento, la causa e il principio della speranza. Precisamente, senza nulla togliere al carattere comunitario, escatologico e finale della fede nella risurrezione, si può affermare a questo proposito che «la risurrezione del Cristo e la risurrezione dei morti non sono due realtà distinte, bensì un’unica realtà [...]. La risurrezione non appare come un lontano evento apocalittico, bensì come un fatto che si verifica hic et nunc. Ovunque l’uomo entri nell’“Io” del Cristo, egli è già entrato nello spazio della vita definitiva. Il problema di uno stadio intermedio tra la morte e la risurrezione non sorge neppure, perché l’“Io” di Dio è risurrezione e, di conseguenza, la fede, che significa comunione tra Gesù e l’uomo, garantisce l’attraversamento della linea della morte già oggi e qui»42.

Il rapporto personale e vitale dell’uomo con Cristo sta allora alla base della comprensione della risurrezione dei morti intesa non tanto come mera “rivivificazione” o rianimazione di un cadavere, quanto come possesso della pienezza della vita e come perfetta conformazione a Cristo per la partecipazione al suo mistero pasquale. Nello stesso tempo la comunione che Cristo stabilisce con l’uomo è il fondamento della “sopravvivenza” di quest’ultimo oltre la morte in quanto entrato già nello spazio della vita definitiva. Questo è ciò che anima dall’interno la speranza escatologica della Chiesa, dà contenuto alla sua attesa e corrobora la sua azione nel mondo e per il mondo. La risurrezione dei morti è pertanto intelligibile soltanto grazie al mistero pasquale di Cristo, alla sua risurrezione dai morti ad opera del Padre che in essa si rivela in un modo totalmente nuovo. Veramente «la fede nella risurrezione è l’espressione centrale della confessione cristologica di Dio e consegue dal concetto di Dio. Essa non trae la sua forza da una determinata antropologia — antiplatonica o platonica che sia — ma da una teologia»43. Quanto detto vale anche per la delicata questione dello stadio intermedio. Anche per questo caso, per sottolineare la centralità della cristologia per la riflessione escatologica, a commento di quanto Paolo

42 43

Ibid., 131. Ibid., 132.


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afferma in 2Cor 5,6-10 e in Fil 1,21-26 circa la sua speranza di essere presto con Cristo, Ratzinger è convinto che l’Apostolo «non tenta in alcun modo di sviluppare un’antropologia che chiarisca questa speranza e i suoi stadi differenziati, ma che argomenta molto semplicemente partendo dal Cristo: è lui la vita, ora e in futuro, qualunque possa essere questo futuro. Dinanzi a una simile certezza, il “sostrato” antropologico non ha alcuna importanza e può essere tranquillamente ignorato, anche perché Paolo si basa su conoscenze comunemente diffuse nel giudaismo, per cui deve formulare soltanto ciò che è la novità determinante: la realtà cristologica»44.

Quanto detto circa la risurrezione dei morti e la natura dello stadio intermedio, la cui interpretazione specificatamente cristiana è il rapporto vitale indissolubile dell’uomo dopo la morte con il Cristo glorificato, può essere ripetuto anche in riferimento al paradiso che non è tanto un “ricettacolo” in cui vengono accolte le anime beate, quanto piuttosto la pienezza della comunione dell’uomo con il Signore risorto e glorioso e la perfetta conformazione a lui, poiché «il paradiso si apre in Gesù stesso: esso è legato alla sua persona»45. La tradizione cristiana si è spesso riferita al paradiso mediante il termine figurato “cielo”, che Ratzinger valorizza perché indica ciò che sta in alto, ciò che rimanda idealmente a quanto significa compimento, perfezione definitiva dell’esistenza umana e meta verso cui si muove la fede. Ebbene, anche il “cielo” può essere rettamente afferrato e liberato da qualsiasi concezione fisicista soltanto se ricompreso cristologicamente. Infatti, «il “cielo” è anzitutto determinato dalla cristologia. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo quale Dio è uomo e ha dato all’essere umano un posto nell’essere stesso di Dio [...]. L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

44 45

Ibid., 142. Ibid., 138.


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Francesco Brancato Per cui il cielo è primariamente una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della Morte e Risurrezione»46.

Il Cristo glorificato è al di sopra del mondo. “Cielo” significa partecipazione a questa forma d’esistere del Cristo e insieme il compimento di ciò che inizia col battesimo. Il rimando alla vita sacramentale come inizio di quanto l’uomo sperimenterà compiutamente nella vita eterna, è un tema molto caro a Ratzinger il quale non mancherà di sottolineare non solo il carattere profondamente escatologico della liturgia cristiana, e in special modo dell’Eucaristia, ma anche il “carattere liturgico” dell’eschaton, in quanto la pienezza finale non sarà altro se non un eterno e universale cantico di lode elevato a Dio. Gli eschata non sono allora realtà statiche poste oltre il sipario della morte, ma eventi di salvezza che raggiungono l’uomo in Cristo morto, risorto e sempre veniente, e lo coinvolgono compiutamente, nella sua solidarietà con il mondo, nella dinamica salvifica della fine dei tempi. Seguendo questa linea, anche le altre questioni particolari dell’escatologia, quali il tema del giudizio e quello del purgatorio, acquistano un significato nuovo nel rinnovato rapporto dell’escatologia con la cristologia. Cristo è infatti colui che, costituito giudice da Dio, giudicherà l’uomo alla fine dei tempi. Anche la dottrina cattolica sul purgatorio, se riletta in chiave rigorosamente cristologica recupera tutto il suo valore e la sua forza, poiché «il “purgatorio” diviene un concetto specificamente cristiano se lo si intende nel senso cristologico, cioè, che il Signore stesso è il fuoco giudicante, che trasforma l’uomo e lo rende “conforme” al suo Corpo glorificato (cf. Rm 8,29; Fil 3,21)»47. In definitiva, per Ratzinger non si dà vera escatologia se questa non scaturisce dalla sua sorgente naturale che è l’opera compiuta da Dio nel suo Figlio morto e risorto; se non fissa la sua attenzione sulla meta dell’azione di Dio, ovvero la perfetta realizzazione di quanto si è compiuto nel Capo, Cristo, in tutte le sue membra per la fine dei tempi; se è “sganciata” dal suo centro che è ancora il mistero di Cristo morto e risorto. Cristo, il suo mistero 46 47

Ibid., 243. Ibid., 238.


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pasquale, sorgente, meta e centro dell’escatologia cristiana. Ciò che il Signore risorto e glorioso significa per l’origine della Chiesa, il suo cammino storico e il suo compimento escatologico è e rimane per il teologo il punto di riferimento vincolante ed essenziale per parlare della speranza escatologica del popolo di Dio e di quelle realtà che l’attendono per la fine dei tempi.

7.2. Escatologia ed ecclesiologia

È una costante nella riflessione di Ratzinger il singolare interesse per la dimensione ecclesiologica dell’escatologia cristiana. È persistente in lui, come è già stato anticipato, lo sforzo di superare la netta suddivisione dell’escatologia in individuale e universale, schema in cui veniva messo in rilievo soprattutto il carattere personale dell’eschaton, lasciando in un piano del tutto secondario e subordinato l’aspetto comunitario, collettivo ed ecclesiale dello stesso. La speranza cristiana, invece, ha un natura eminentemente ecclesiale, e il singolo individuo vive la propria fede e nutre la propria speranza in quanto membro dell’unico corpo di Cristo: il suo rapporto e il suo dialogo con Dio, meta e fine della propria esistenza, non avviene al di fuori della Chiesa e senza di essa. Infatti, «l’uomo non dialoga da solo con Dio e non entra in una eternità che appartiene a lui soltanto, bensì il dialogo cristiano con Dio passa primariamente attraverso gli uomini. Esso si rivela nella storia, nella quale Dio dialoga con gli uomini; esso avviene nel “noi” dei figli di Dio; il che significa, infine, che questo dialogo si realizza nel “Corpo di Cristo”, nella comunione con il Figlio, la quale soltanto consente agli uomini di rivolgersi a Dio Padre»48.

La vita eterna e il cielo sono il “luogo” in cui l’uomo sperimenta in pienezza la comunione con Dio e con gli altri uomini, e partecipa, nella misura del compimento, allo stesso dialogo fra le Persone divine49.

48 49

Ibid., 171. Cfr l. c.


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La dimensione ecclesiale dell’eschaton non si riduce a una condizione meramente accidentale e aggiuntiva del compimento ultimo dell’uomo, ma ne rappresenta una caratteristica essenziale che gli offre lo “spazio” in cui saggia la gioia senza fine, la gioia della comunione di vita con Dio e con l’intero corpo di Cristo ormai perfettamente congiunto al proprio Capo. L’essere dell’uomo non è una monade chiusa. Sia nell’amore come purtroppo nell’odio l’uomo è in rapporto con gli altri e il suo essere personale è presente negli altri o come colpa o come grazia. L’incontro con Cristo è un incontro con l’intero suo Corpo. La risurrezione dei morti all’ultimo giorno conferma questa verità fondamentale e ci dice che il compimento ultimo della storia si avrà unicamente quando tutte le membra del corpo di Cristo raggiungeranno la perfezione e verranno completamente ricongiunte a Cristo, e in lui fra di esse. Questo vale anche per quanto riguarda il giudizio, che potrà realizzarsi perfettamente soltanto quando l’intero organismo ecclesiale avrà raggiunto la consumazione escatologica in Cristo: non può esserci pienezza del singolo individuo a prescindere da quella dell’intera Chiesa e della famiglia di cui egli fa parte50. Il cristiano fa parte della Chiesa ed è egli stesso Chiesa, e ciò implica il vivere la solidarietà vicendevole e la comunione esistenziale e vitale con gli altri uomini. Una fratellanza che supera gli stessi confini della morte. È anzi proprio al di là della soglia della morte che gli uomini possono vivere con più forza quel legame che li tiene uniti a Cristo e fra di loro. «L’ancoramento ecclesiale dell’uomo non viene infatti interrotto o revocato alle soglie della morte, ma piuttosto, anche oltre il confine tra l’aldiqua e l’aldilà, gli uomini possono aiutarsi e sopportarsi vicendevolmente, soffrire gli uni per gli altri e ricevere gli uni dagli altri»51. Ciò che è stato affermato riguardo alla risurrezione dei morti, del giudizio e del purgatorio, circa l’importanza della dimensione ecclesiale dell’eschaton, secondo Ratzinger vale ancora di più quando si parla del “cielo”, categoria che racchiude tutte le immagini in cui è condensata la speranza escatologica dell’uomo e del mondo52. 50 51 52

Ibid., 200. Ibid., 236. Ibid., 244.


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Non si dà perciò egoistico appagamento del singolo a latere del destino dell’intero corpo ecclesiale, ma la pienezza dell’uno è tale perché partecipa ed esprime la gioia di tutti. La vita eterna ha dunque tra le sue caratteristiche essenziali la dimensione ecclesiale, che trova pieno compimento in quella teologica (visione di Dio faccia a faccia), cristologica (conformazione piena al Cristo glorificato), pneumatologica (la materia perfettamente compenetrata dallo Spirito ne diventa senza ostacoli la manifestazione) e quindi trinitaria (partecipazione alla comunione e al dialogo d’amore fra le Persone divine). La prospettiva ecclesiologica è perciò stesso la giusta visuale da cui guardare all’adempimento escatologico della salvezza. Questa deve essere voluta per tutti e a tutti deve essere offerta, senza alcuna distinzione o preclusione. Essa è tale perché infrange ogni limite e ostacolo e partecipa a tutti la gioia del Signore Risorto.

7.3. Escatologia e antropologia L’attenzione al contributo della filosofia per una più profonda comprensione dell’uomo, aiuta la teologia ad avviare, e soprattutto portare avanti un discorso più rigoroso sulle implicazioni di natura antropologica delle asserzioni escatologiche. Ad esempio, Ratzinger prende in considerazione innanzitutto l’apporto di Platone e Aristotele, per quanto riguarda il concetto di “anima”, ritenuto da lui come essenzialmente cristiano, ed afferma che tale concetto, così come ci è stato tramandato da s. Tommaso, il quale ha saputo conciliare le divergenze di Platone e Aristotele, preserva l’unità dell’uomo (l’anima è forma del corpo) e la distinzione degli elementi che lo compongono (l’anima forma corporis è di natura spirituale, fa dell’uomo una persona e gli schiude l’immortalità e la possibilità della risurrezione). Ciò porta alla conclusione secondo cui la riflessione escatologica deve mantenere e accogliere quell’antropologia che custodisce sia il concetto cristiano dell’anima, sia l’unità-distinzione nell’uomo del principio spirituale dal corpo e quindi dalla materia, perché venga garantita, allo stesso tempo, la fede nella risurrezione dei morti e la dottrina dell’immortalità dell’anima. In tal senso, «il concetto dell’anima, qual è stato usato nella liturgia e nella teologia fino al Vaticano II, ha in comune con l’antichità altrettanto poco


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quanto il concetto della risurrezione. Esso è un concetto specificamente cristiano»53. Nella sua analisi egli non si ferma tuttavia ai risultati della pura speculazione filosofica, ma completa gli apporti offerti dal pensiero filosofico con argomentazioni di natura teologica. Infatti, come già abbiamo avuto modo di constatare precedentemente, egli approda a un concetto “dialogico” dell’anima che supera di molto quello offerto dalla filosofia classica (soprattutto Platone e Aristotele), e afferma che «non è nell’essere se stesso e nell’incomunicazione che l’uomo raggiunge l’immortalità, bensì proprio nel suo rapporto, nella capacità di comunicare con Dio [...], questa apertura non è un “in più” nell’esistenza, la quale potrebbe essere vissuta anche indipendentemente da essa, bensì questa apertura rappresenta quanto vi è di più profondo nell’uomo, ossia propriamente ciò che noi chiamiamo “anima”»54.

Il concetto antropologico di “anima” salvaguarda, dunque, l’apertura dell’uomo al dialogo con Dio e rende possibile comprendere cristianamente la dottrina dell’immortalità e specialmente la speranza nella risurrezione. Il dialogo tra Dio e l’uomo, infatti, non può essere interrotto e infranto agevolmente dalla morte. Esso richiede anche l’unità dell’essere umano che è reclamata dal carattere unitario della speranza cristiana, in quanto «ciò che viene salvato è l’uomo quale creatura intera, l’interezza e l’unità della persona [...]. Per questo motivo — conclude il Nostro — la distinzione tra anima e corpo è indispensabile»55. Coerente con questa considerazione, in polemica con G. Greshake — secondo il quale l’anima accoglie in sé la materia quale “momento estatico” del suo atto di libertà, per poi abbandonarla successivamente in quanto materia eternamente incompiuta56 — 53

Ibid., 162. Ibid., 167. 55 Ibid., 170. 56 Cfr a questo proposito G. GRESHAKE, Auferstehung der Toten. Ein Beitrag zur gegenwärtingen theologischen Diskussion über die Zukunft der Geschichte, Essen 1969. Non solo Ratzinger, ma anche molti altri teologi hanno mosso delle critiche serie alle posizioni di Greshake. Si vedano tra gli altri J. L. RUIZ DE LA PEÑA, L’altra dimensione. Escatologia cristiana, Roma 1981, 169-174; J. MOLTMANN, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, 54


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Ratzinger è dell’idea che per proteggere l’unità essenziale dell’essere umano, pur nella debita distinzione del principio spirituale da quello materiale, bisogna ritenere che se l’essenza dell’anima è quella di essere forma corporis e il suo ordinamento alla materia è quindi irrevocabile, è anche necessaria la possibile distinzione tra il “corpo” e la “corporeità”. A questo riguardo precisa che «non i singoli atomi, non le singole molecole costituiscono come tali l’”uomo” e non da essi dipende quindi l’identità della “corporeità”; piuttosto, la sua identità consegue dal fatto che la materia è assoggettata alla forza plasmante dell’anima [...]. Il corpo individuale, è ciò che l’anima si costruisce quale sua espressione materiale»57.

Queste considerazioni portano il teologo alla conclusione secondo cui un corretto discorso escatologico sulla risurrezione dei morti e sull’identità del corpo risorto, perché non scada in un dualismo antropologico che presti il fianco allo spiritualismo da una parte e al materialismo dall’altra, ma sia attento alla salvezza integrale dell’uomo, deve salvaguardare l’unità tra corpo e anima secondo l’intenzione della creazione, «la quale unità implica, da un lato l’inscindibile coordinazione dell’anima alla materia, ma significa, dall’altro lato, che l’identità del corpo è da concepirsi non come determinata dalla materia, ma dalla persona, dall’anima»58. Tali principi dell’uomo (unità e identità con se stesso) vengono mantenuti anche quando egli giungerà alla pienezza della vita nella comunione perfetta con Dio e con gli altri uomini. «Il fondersi dell’“Io” con il corpo di Cristo, il farsi strumento del Signore e degli altri non significa [infatti] un dissolvimento dell’“Io”, bensì la sua purificazione, che realizza insieme le sue più alte possibilità»59, e quindi l’eschaton rappresenterà perciò stesso il “momento” di massima Brescia 1988, 119-128. Per una presentazione critica della questione: C. MARUCCI, Resurrezione nella morte? esposizione critica di una recente proposta, in G. LORIZIO (ed.), Morte e sopravvivenza, Roma 1995, 289-316; G. CANOBBIO, Fine o compimento? Considerazioni su un’ipotesi escatologica, in Quaderni Teologici del Seminario di Brescia 8: La fine del tempo, Brescia 1998, 207-238. 57 J. RATZINGER, Escatologia, cit., 188. 58 Ibid., 190. 59 Ibid., 244.


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personalizzazione dell’uomo e anche l’apice della sua maturità umana; un compimento del singolo nel suo vitale riferimento agli altri e a Dio.

8. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE La presentazione del pensiero di Ratzinger sull’escatologia intesa come essenziale tensione tra eschaton ed eschata, ci ha permesso di cogliere le linee guida e le prospettive privilegiate della stessa escatologia cristiana. Un pensiero tanto articolato e complesso che ovviamente travalica i limiti strettissimi di questo contributo e che richiederebbe ulteriori approfondimenti critici. Avendo chiaro tutto ciò, in queste note finali tenterò di fare un sobrio bilancio di quanto via via è emerso nel corso dell’esposizione dell’indagine del teologo Ratzinger su questo punto della dottrina, affinché vengano messe in risalto le prospettive, le intuizioni che stanno alla base delle sue argomentazioni, i temi che hanno attirato maggiormente il suo interesse, le problematiche sollevate, le questioni recuperate e quelle abbandonate o superate, le domande e le tematiche lasciate aperte o non affrontate esaurientemente. Ciò che immediatamente risalta dallo studio delle opere di Ratzinger è di certo il costante tentativo da parte del Nostro di porgere all’uomo contemporaneo in modo semplice, chiaro e altrettanto rigoroso, intelligibile ma con la consapevolezza del carattere provvisorio delle asserzioni escatologiche, i contenuti principali dell’escatologia cristiana. Per questa ragione egli ha sottolineato a più riprese la fondamentale funzione catechetica della teologia, il suo essere a servizio delle domande più gravi del mondo moderno e la inalienabile relazione esistente tra la fede e il sapere, tra la fede e la ragione, tra il dogma e la predicazione. Per affermare la ragionevolezza della fede e il suo legame con il pensiero e la cultura dell’uomo di oggi, ha voluto così presentare il cristianesimo in termini esistenziali, personalistici, dinamici e comunitari, nel tentativo di rivelare il senso profondo delle asserzioni della Scrittura, della Tradizione e della teologia, sull’escatologia cristiana. In particolare, si può notare come una delle principali e costanti preoccupazioni di Ratzinger, registrata soprattutto nella sua opera dedicata


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all’escatologia, sia quella di screditare la teoria, che si è sviluppata soprattutto a partire dalle ricerche in campo esegetico di J. Weiss e A. Schweitzer, secondo cui la storia della teologia e del dogma non è altro che la testimonianza vivente di un processo di de-escatologizzazione della fede della Chiesa primitiva che era attenta a vivere l’escatologia come pratica della speranza60. Il progressivo allontanamento dalle prospettive originarie — sempre secondo quei teologi — avrebbe così portato alla formazione della dottrina delle “ultime realtà”, intese come il capovolgimento della fede iniziale e dell’attesa ecclesiale dell’imminente fine dei tempi, fatto che richiede l’urgente ritorno della teologia alle fonti del passato. Tutto ciò giustificherebbe da solo la necessità e l’urgenza di riportare la teologia alle fonti e al passato perché possa ritrovare la genuina fede neotestamentaria e della prima generazione cristiana, attraverso una interna revisione di tutte le sue asserzioni fondamentali. Il nostro teologo, da parte sua, come si è visto già in precedenza, è invece dell’idea che le domande sul destino ultimo dell’uomo, sulla morte, sulla sopravvivenza dell’anima, sulla sua situazione tra la morte e la risurrezione, sulla risurrezione dei morti e la natura dei corpi risorti, accusate di avere causato l’individualizzazione e la privatizzazione della speranza cristiana, e di aver affievolito l’attesa escatologica della Chiesa primitiva protesa all’incipiente venuta finale del Regno, siano altrettanto fondamentali quanto la seria riflessione sul tema del futuro e della speranza. L’escatologia dovrà avere attenzione sia per il tema della speranza che per quelle “realtà” nelle quali tale speranza diventa concreta per l’uomo, e che rendono possibile la comprensione della concezione cristiana del futuro, poiché «la dottrina delle cose ultime si è sviluppata dentro la cornice dell’escatologia secondo una logica interiore e continua ad esserle indispensabile. Per quanto, come aspetto negativo, va fatto notare che esiste il pericolo dell’individualizzazione e dello spostamento nell’aldilà di quanto è cristiano [...]. Il compito del lavoro di oggi riguardo all’escatologia consiste perciò nell’integrazione delle prospettive, nel contemplare con un unico sguardo la persona e la comunità, il presente e il futuro»61. 60 Cfr A. SCHWEITZER, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia 1986; J. WEISS, La predicazione di Gesù sul regno di Dio, Napoli 1993. 61 J. RATZINGER, Escatologia, cit., 36.


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Queste osservazioni rivelano chiaramente l’intento da parte del teologo di mostrare il suo disappunto nei confronti di quei teologi, fra cui D. Wiederkehr62, che avrebbero voluto costruire un’escatologia esclusivamente come riflessione sul futuro e sulla speranza, escludendo tutti i temi classici della trattazione escatologica. Ciò che per Ratzinger è sicuramente importante capire è come lo studio e l’approfondimento dell’escatologia cristiana sia utile non solo per rischiarare la meta verso la quale la Chiesa, e in essa ogni singolo credente, è incamminata, ma anche per fare luce sullo stesso cammino che il popolo di Dio è chiamato a percorrere. Non si dà autentica escatologia come riflessione interessata solamente al futuro ultramondano senza alcun rapporto con l’oggi che l’uomo e l’umanità intera vivono, un oggi segnato dal suo orientamento verso l’eschaton e fecondato dalla presenza dell’ultimo nel penultimo. Di contro, non si dà neppure un’escatologia che resti imbrigliata nelle maglie della storia confondendosi con le varie forme di futurologia e con le escatologie secolari e intramondane che ancora esercitano un certo fascino sull’uomo contemporaneo. Il senso profondo della speranza nell’aldilà consiste invece nell’orientare e guidare la vita presente e nello spronare l’impegno attuale dell’uomo a favore della giustizia, poiché «il messaggio della fede non ha lo scopo di alimentare una pura curiosità. Laddove sorpassa lo spazio proprio dell’esperienza umana, esso non intende intrattenere, ma orientare. Per cui l’aldilà si apre soltanto fin dove serve all’orientamento nell’aldiquà»63. In tal senso, gli ultimi articoli del Credo che introducono timidamente lo sguardo del credente nelle realtà ultime e perciò stesso aprono uno spiraglio alla sua possibilità di intuire ciò che lo attende alla fine e ciò che è preparato per tutte le cose, non vogliono tanto soddisfare un’insana curiositas circa l’aldilà, delineando e giustificando quello che in passato si è costituito come un “reportage anticipato” delle realtà finali, ma soltanto indicare all’uomo il traguardo del suo cammino e del pellegrinaggio della Chiesa verso la pienezza dell’eschaton, e in tal modo sostenere e confermare quest’ultima nel suo impegno e nella sua azione a servizio del Regno e del mondo. Essi devono altresì ricordare al cristiano che egli è 62 63

Cfr D. WIEDERKEHR, Prospettive dell’escatologia, Brescia 1978. J. RATZINGER, Escatologia, cit., 172-173.


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chiamato ad essere costantemente pronto ad accogliere il Signore che viene e ad attenderlo con vigilanza e sobrietà. In questo contesto anche il recupero della dimensione ecclesiale dell’escatologia porta a cogliere tutti gli sviluppi insiti nella “deprivatizzazione” della speranza cristiana. Essa non si riduce più ad una comprensibile aspirazione, da parte dell’individuo, alla propria salvezza personale oltre la morte, ma diventa lo sprone che guida e orienta le sue scelte a favore del bene comune e in vista dell’instaurazione del regno di Dio nel mondo, regno di pace e di giustizia universali. La speranza che è oggetto della riflessione dell’escatologia è una speranza operosa che non favorisce l’evasione dell’uomo dal mondo ma lo spinge a trasformarlo, a esercitare su di esso la sua forza critica (eschatologia crucis) e a lavorare affinché tutte le membra del Corpo di Cristo possano raggiungere il loro Capo ed essere a lui ricongiunte (eschatologia gloriae). L’escatologia cristiana, quindi, «non è un rifugiarsi nell’al di là davanti ai comuni doveri di questo mondo e non significa limitarsi a una salvezza per così dire “privata” dell’anima. Il punto di partenza di questa escatologia è, al contrario, proprio la ricerca della giustizia per tutti, quale ci è garantita da Colui che ha immolato la propria vita per la giustificazione dell’umanità intera. [...] l’escatologia è un incoraggiamento, addirittura una provocazione a praticare la giustizia e la verità; nel fatto di impegnare la nostra vita per la ricerca della verità, della giustizia e dell’amore consiste l’essenza dell’escatologia cristiana»64.

La liturgia, soprattutto la celebrazione eucaristica, è il “luogo” — il “momento” — privilegiato in cui il cristiano fa l’esperienza anticipata della sua pienezza escatologica e della condizione finale del mondo: lì è possibile infrangere i limiti dello spazio e del tempo ed entrare in rapporto con il Cristo venuto e veniente, compimento di tutte le cose. Lì si esprime la forte tensione escatologica che caratterizza l’esistenza del cristiano e della Chiesa tutta, e sempre lì la comunità credente viene raggiunta dalla salvezza operata da Cristo nel suo mistero pasquale65. 64

Ibid., 115-116. Nell’attenzione all’Eucaristia, al suo legame con la Chiesa e alla sua fondamentale indole escatologica, si registra la forte influenza esercitata su Ratzinger dal pensiero e 65


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La liturgia è pertanto memoria e invocazione del Signore già venuto e ancora veniente, ed è evento parusiale in quanto rende il Risorto presente in mezzo all’assemblea liturgica66. Nella sua vita liturgica e specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia, la Chiesa vive già i tempi ultimi, assapora i beni futuri e la futura trasformazione di tutte le cose chiamate ad essere perfettamente rinnovate in Cristo risorto. Sebbene Ratzinger nella sua riflessione non abbia convenientemente parlato del carattere cosmico del compimento escatologico, così come appare del resto carente la sua attenzione alla dimensione pneumatologica dello stesso, tuttavia a questo proposito egli non manca di affermare che anche il cosmo, indissolubilmente legato all’uomo e alla sua sorte, parteciperà a questo destino di gloria. Esso, nell’ora presente attende tuttavia di essere definitivamente liberato dalla corruzione e dal male in vista della liturgia cosmica della fine dei tempi, poiché si deve affermare che la risurrezione «è una promessa per il futuro tanto dell’uomo quanto del cosmo e, in questo senso, una promessa che vale per lo spazio, il tempo, la materia. La storia e il cosmo non rimangono accanto allo spirito per continuare in un’eternità priva di significato o per sprofondare in un nulla senza senso. Nella risurrezione, Dio dimostra invece esplicitamente di essere il Dio del cosmo e della storia»67.

La sovranità e la signoria di Dio, vissute anticipatamente nell’oggi della salvezza proprio nello “spazio” e nel “tempo” della liturgia della Chiesa, raggiungeranno alla fine la loro dimensione universale e cosmica, e abbracceranno tutte le dimensioni della creazione e dell’opera di Dio, poiché ogni cosa sarà sottomessa a Dio ed Egli sarà tutto in tutte le cose (cfr 1Cor 15,28). dall’opera di S. Agostino al quale tra l’altro il teologo ha dedicato la sua tesi di laurea: cfr Volk und Haus Gottes in Augustinus Lehre von der Kirche, del 1954 (trad. it.: Popolo e casa di Dio in S. Agostino, del 1978). 66 Cfr a questo proposito soprattutto J. RATZINGER, La festa della fede. Saggi di escatologia liturgica, Milano 1990. 67 Ibid., 130.


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In conclusione si può dire che in definitiva il contributo teologico di Ratzinger per quanto riguarda l’approfondimento di questa disciplina teologica, prospettiva privilegiata dell’intera teologia, proprio perché risulta evidente il senso di provvisorietà di molte spiegazioni e la modestia di alcune conclusioni a cui il teologo perviene, sebbene la sua analisi sia rivelatrice della lunga fatica di documentazione a cui egli si è sottoposto, è di fondamentale importanza proprio perché non si presenta come il tentativo di smorzare la tensione e l’ineliminabile dialettica tra il detto e il non detto, tra ciò che può essere raccontato e ciò che non può essere mai del tutto espresso compiutamente e perciò adeguatamente presentato, poiché «chi si attende risposte precise e assolute, dettagliate descrizioni dello stato futuro dell’uomo, schemi interpretativi globali e perfetti, resterà deluso. Questo capitolo della teologia è attualmente il più bersagliato di domande, ma anche il più povero di risposte»68. Nella sua riflessione, cioè, si avverte il rispetto per il carattere “velato” e allusivo dell’escatologia. È nondimeno chiara in lui la volontà di muoversi su una strada già battuta (testimonianza della Scrittura, che deve comunicare non solo le verità dottrinali ma anche lo spirito che le anima, e della Tradizione in cui emerge nel modo più semplice la ricchezza di aspetti di un problema e la molteplicità delle possibili risposte umane), senza intraprendere percorsi pericolosi su terreni accidentati e sdrucciolevoli che potrebbero portare lontano dal messaggio escatologico del cristianesimo, caratterizzato dalla sobrietà, senza per questo precludere il cammino all’approfondimento e al confronto teologico anche su temi e argomenti spinosi. Ratzinger presenta quindi le questioni fondamentali dell’escatologia cristiana senza avere la pretesa di fornire puntualmente tutte le risposte possibili alle molteplici domande poste, concentrandosi sulla sostanza dell’escatologia cristiana, al fine di rendere comprensibile e credibile per l’uomo contemporaneo la speranza cristiana, senza per questo scendere a facili compromessi e soluzioni di consumo immediato. La speranza cristiana, infatti, per essere e rimanere tale, deve essere in-formata e modellata dalla croce di Cristo, dal suo sacrificio; deve costantemente alimentarsi al suo mistero e così spingere l’uomo oltre il silenzio e il vuoto della morte e aprirlo alla gioia della vittoria pasquale del Signore risorto. Il 68

Ibid., 9.


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riferimento all’eschaton, Cristo, è irrinunciabile per il teologo che voglia riflettere sul significato profondo delle realtà ultime e per la comprensione del loro imprescindibile valore per l’oggi e la storia. Tutto questo egli lo fa nella consapevolezza, più volte confessata, che nell’attuale economia non ci è dato di conoscere perfettamente e senza ombre la verità del mondo futuro, né tanto meno avere delle risposte inequivocabili e perfettamente chiare a tutte le questioni e domande che l’uomo si pone riguardo al futuro e all’aldilà. Per questa ragione lo sguardo della Chiesa deve sempre rimanere vigile e la sua invocazione, maranathà, sempre accorata e insistente, perché superi il pericolo di cristallizzarsi, di adagiarsi e arroccarsi su posizioni ormai definitivamente e irrevocabilmente acquisite e cammini come popolo di Dio verso la pienezza escatologica del Regno.


Synaxis XXIV/1 (2006) 41-86

RADICI ECCLESIALI DELL’ESPERIENZA MISTICA DI MARIA MADDALENA DI FIRENZE. NOTE INTRODUTTIVE SULLA BIBLIOTECA MONASTICA

CHIARA VASCIAVEO*

Nel 2007 ricorre il quarto centenario della morte di s. Maria Maddalena, appartenente alla famiglia nobile Pazzi, carmelitana fiorentina (1566-1607)1. In questo contributo si intende fare il punto sugli studi inerenti il contesto teologico ed ecclesiale in cui ella maturò la propria esperienza spirituale, al fine di consentirne una conoscenza meno frammentaria e condizionata da tradizioni agiografiche. Sembra che tali ermeneutiche, pur meritorie riguardo al suo culto nel passato, con l’insistenza sulla fenomenologia extra-ordinaria dei primi anni in Carmelo, hanno rischiato di limitarne il profilo allo schema dell’“estatica”2, non propiziando un’investigazione teologica di più ampio respiro, rispettosa di un carisma di natura profetica teso ad un discernimento evangelico della sua temperie ecclesiale. *

Dottore in Teologia morale. Con la collaborazione di alcune monache di Santa Maria degli Angeli, negli anni ’60, sono state pubblicate: SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Tutte le Opere, I-VII, Firenze 1960-1966. In esse, Colloqui e la Probatione sono stati suddivisi in due volumi, secondo la sequenza: Quaranta giorni a cura di Ermanno del SS. Sacramento [Ancilli], I, Firenze 1960 (QG); Colloqui a cura di C. Catena, II-III, Firenze 1961 (CO I) e 1963 (CO II); Revelatione e Intelligenze a cura di P. Visentin, IV, Firenze 1964 (RE); Probatione a cura di G. Agresti, VVI, Firenze 1965 (PRO I – PRO II); Renovatione della Chiesa, a cura di F. Vallainc, VII, Firenze 1966 (RC). In quest’ultimo sono stati aggiunti: le Lettere inviate; gli Ammaestramenti; delle brevi meditazioni e alcune estasi. Sono inedite le lettere ricevute. 2 Purtroppo la passione per lo “straordinario” è stata privilegiata anche da taluni approcci più moderni ma parziali, che sono giunti a fraintendere come “anticomunicativa” la sua esperienza mistica profondamente comunionale, privandola del suo contesto vitale nell’intera tessitura della testimonianza di s. M. Maddalena. Cfr G. POZZI, Le parole dell’estasi, Milano 1984, 25-28; D. BARSOTTI, Nella comunione dei santi, Milano 1970, 284-287. 1


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Nella prima parte del lavoro, dopo il profilo biografico ed un cenno al suo ambiente storico, viene delineato lo status quaestionis relativo agli studi su s. M. Maddalena. Nella seconda parte, si offrono alcune indicazioni riguardo al composito humus della Chiesa fiorentina in cui il suo Carmelo (S. Maria degli Angeli) maturò una specifica offerta formativa, completate da una sintesi delle opere più antiche, provenienti da diversi contesti spirituali, ancora disponibili nella Biblioteca monastica. Infine, si darà conto di una ricognizione tuttora in corso nell’Archivio monastico, illustrando alcuni problemi inerenti le fonti del pensiero maddaleniana. In appendice si fornisce la documentazione fotografica di alcune fonti: 1) Fogli delle bozze dei Colloqui. 2) Lista dei libri venduti da Agostino Campi alle monache di S. Maria degli Angeli. 3) Fogli manoscritti delle estasi di s. Caterina de’ Ricci. 4) Primo e ultimo foglio della biografia di M. Bartolomea Bagnesi di p. Alessandro Capocchi OP. 5) Lettera del p. V. Cepari SJ del 16.11.1599. 6) Primo e ultimo foglio del Compendio di Perfezione Christiana del Gagliardi SJ.

1. PROFILO BIOGRAFICO In una delle famiglie più in vista della nobiltà fiorentina, da Maria Buondelmonti e Camillo di Geri de’ Pazzi, nacque il 2 aprile 1566, la secondogenita Caterina, anche se dai familiari fu ordinariamente chiamata Lucrezia, unica sorella fra tre fratelli: Geri, Alamanno e Braccio. La sua infanzia respirò l’atmosfera raffinata di una casa patrizia, come lei stessa ebbe a ricordare: «“Amo per natura la grandezza, e non le cose brutte ma ricche e belle”, come dai genitori — aggiunge la redattrice — aveva imparato»3. Bambina timida, poi adolescente schiva, fu seguita da due gesuiti, p. Rossi e p. Blanca, come confessori e direttori. Essi la introdus3 Cfr PRO I, 68-69. Tutti i testi inediti, se non diversamente specificato, si trovano nell’Archivio del Carmelo Santa Maria degli Angeli di Firenze. Si ringraziano le monache per la disponibilità e la fraterna collaborazione offerta.


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sero nell’iniziazione cristiana e la educarono alla preghiera. In due periodi (dal 1574 al 1578 e dal 16 marzo 1580 al maggio/agosto 1581) fu educanda in S. Giovannino dalle Cavalieresse di Malta. A partire dal maggio 1581, mentre il padre era governatore a Cortona, esistono delle possibilità che sia vissuta per qualche tempo nel monastero cortonese delle Poverelle del Terzo Ordine di s. Francesco4. Tale esperienza potrebbe illuminare i tratti francescani della sua vita, il suo amore per la povertà e il perché, più tardi, avrebbe chiamato Francesco «serafico padre»5 e Chiara «sua avvocata»6. Forse ancora troppo giovane, scelse di diventare monaca carmelitana, entrando a S. Maria degli Angeli a sedici anni (27 novembre 1582), anno della morte di Teresa d’Avila, a breve distanza dalla fine del Concilio di Trento (1545-1563). In questo monastero, legato da diversi anni ai circoli femminili savonaroliani, attento quindi ad un clima di impegno evangelico e di serietà esistenziale, si attendeva con trepidazione una “santa”7. In esso circolavano da tempo testimonianze e fonti manoscritte su donne celebri e stimate come Caterina de’ Ricci da Prato OP e Maria Bartolomea de’ Bagnesi OP8 (il cui confessore era dal 1563, lo stesso 4 Malgrado le perplessità avanzate dal Secondin sull’annotazione del Sernini Cucciatti riguardo alla permanenza di s. Maddalena a Cortona, nuove ricerche d’archivio in corso di pubblicazione ad opera del prof. P. Pacini, che cortesemente me ne ha consentito la consultazione preliminare, su una sua particolare ipotesi di incontro tra la Santa e la Ven. Veronica Laparelli, sosterrebbero la tesi di una permanenza di Camillo Pazzi dal maggio 1581 e non dal 1580 a Cortona, come solitamente riportato. Ciò sarebbe documentato dalle carte granducali e particolarmente dal Fondo dei capitani poi commissari di Cortona nn. 185, 187, 189 nell’Archivio comunale di Cortona, in cui risultano sentenze e multe comminate da Camillo di Geri de’ Pazzi dal 1 maggio 1581 e il 30 aprile 1582. Inoltre, la revisione del materiale d’archivio proveniente dal Monastero di S. Giovannino (Ricordi) richiederebbe particolare prudenza, trattandosi, anche in tal caso, di redazione tardiva, settecentesca, in cui le annotazioni sui pagamenti di rette per la Santa la vedrebbero in monastero anche durante i tempi di prova e poi di ingresso a S. Maria degli Angeli (1582-1583). Cfr Miscellanea di documenti di Famiglie e di uomini illustri Cortonesi, Biblioteca Comunale di Cortona, cod cart. 424 ff 330r-330v; B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, Roma 1974, 101-102, n. 44 e 109-110 n. 86. 5 PRO II, 222. 6 PRO I, 198. 7 Vita della …Del Giocondo, Serie IV Memorie Biografie Nostre Madri, II.13 bis, 13v. 8 Della prima esiste ancora uno degli antichi ms: RICCI CATERINA (DE’), Ratti della Madre…[1541-1543]. Una Vita e miracoli di Suor Caterina de’ Ricci, probabilmente


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governatore del monastero carmelitano) dense di fenomeni straordinari, “astrazioni” e “ratti” che, probabilmente, creavano un certo clima favorevole alla maturazione e all’espressione di percorsi spirituali non estranei ad una qualche manifestazione esteriore9, temuta, ma attesa come sigillo di un intervento divino. Certo, non bisogna perdere di vista il fatto che: «Nel contesto cinquecentesco visioni e rivelazioni erano parte integrante della vita religiosa. Un contesto in cui il visionario è presenza ordinaria nella società e nelle sue funzioni, in un certo qual modo, vengono a sovrapporsi, anche se non a confondersi, con quella mediazione istituzionale offerta dal clero»10. Si fa fatica, d’altra parte, ad ipotizzare un’espressività al femminile in contesti religiosi ortodossi del tutto aliena da una certa esuberanza emotiva che solo da rari autori, come Giovanni della Croce, sarebbe stata chiaramente indicata come non essenziale alla profondità di un’avventura spirituale autentica11. D’altra parte, senza indulgere a riduzionismi psicologici12, non si può dimenticare che una ricca efflorescenza anche esteriore è segno per molti aspetti iniziale: «del contraccolpo emotivo (transitorio e accidentale, ma quasi inevitabile) dell’esperienza contemplativa sulla dimensione psicologica e psicosomatica dell’esistenza»13. Anche solo il contesto sociologico, per un’autonoma espressività al femminile, avrebbe richiesto una maturità psicologica non comune, come si osserva in Domenica da Paradiso, comunque coperta da un’obbedienza (più o meno sollecitata) come si può osservare per s. Teresa d’Avila. Infine, appartenuto a s. Maria Maddalena, è presente in ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE, Carte Strozziane, I.CVI, 5. Della seconda sono presenti numerose biografie manoscritte ad opera del Campi, del Capocchi ed altri in Serie II B. Maria Bagnesi. 9 Cfr C. BECATTINI, Esperienza mistica e fenomeni mistici, a cura di E. Ancilli – M. Paparozzi, La mistica fenomenologia e riflessione teologica, II, Roma 1984, 420: «Non è illogico ammettere quindi che veri fenomeni mistici siano stati “favoriti” da situazioni culturali e ambientali. Questo tipo di mediazione, d’altronde, è presente in tutti i comportamenti umani più significativi». 10 A. GENTILI – M. REGAZZONI, La spiritualità della riforma cattolica, Bologna 1993, 92-93. 11 Cfr GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al monte Carmelo, II, 18, 8; 21, 2 .11. 12 Cfr L. J. GOYA, Psicologa dei mistici, Roma 2001, 143-148. 13 B. CALLIERI, Esperienza mistica e psichiatria, a cura di E. Ancilli – M. Paparozzi, La mistica fenomenologia e riflessione teologica, II, Roma 1984, 470.


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fattori temperamentali come la timidezza e la giovane età, a giudizio della priora madre Evangelista (1534-1625), avrebbero frenato la libera espressione della giovanissima carmelitana se, da un punto di vista credente, non ci fossero state le “estasi”14. A questa multifattorialità esse vanno ricondotte, senza ansie demitizzanti ma con lucida consapevolezza. I primi cinque anni di vita monastica sono i più noti della biografia maddaleniana. “Astrazioni”, “ratti”, drammatizzazioni di episodi evangelici si intrecciavano con la vita ordinaria della giovane carmelitana. In realtà, sotto queste etichette, si raggruppano una varietà di fenomeni assai diversificati che vanno da una meditazione orante della Parola o sul tempo liturgico, a sospensioni di coscienza, fino a scene di mimo, alla dettatura di lettere e a dialoghi con le consorelle. Un dato costante e trasversale rimane la loro interruzione per la celebrazione della Liturgia delle Ore, l’Eucaristia e, talora, più prosaicamente, per prender cibo. Le sorelle, in parte stupite, in parte ammirate, si mobilitarono per curare talvolta, con una complessa procedura, la redazione di appunti contemporanei, dei veri reportages delle sue parole-gesti, talvolta delle trascrizioni di colloqui di sintesi. I processi attestano ampiamente simili opzioni: «Come Sr. Maria Maddalena haveva proferito un periodo, quella monaca che l’haveva tenuto a mente lo dettava a una di quelle che scrivevono et mentre quella scriveva un’altra teneva a mente quello che seguitava di dire et lo dettata et ricordava a un’altra di quelle che scrivevono; et così seguitavono… e ciascuna faceva il numero al periodo che haveva scritto, cioè: la prima il numero uno, la seconda il numero dua, la terza il numero tre et poi ripigliava la prima il numero quattro et così seguitavono di un in uno per ordine»15. Il loro lavoro è la fonte principale della conoscenza di M. Maddalena e ciò spiega il loro particolarissimo genere letterario che conserva il vigore e i limiti di un’oralità viva e 14 Summarium actionum, virtutum et miraculorum S. Dei M. Magdalenae de Pazzis OC: ex Processu Remissoriali Desumptorum, a cura di L. Saggi, Roma 1965, 142; cfr PRO II, 548. 15 Processus fabricatus Florentiae super vita et miraculis multum Rev.Matris Sororis Magdalenae de Pazzis…, Archivio della Congregazione dei Santi, Proc. 767, I, 129; cfr E. ANCILLI, Studio positivo sui manoscritti originali di s. Maria Madd. De’Pazzi. Dissertatio ad lauream, pro manuscripto, Roma 1955, 78-81 (poi edita E. ANCILLI OCD, S. M. Maddalena de’ Pazzi. Estasi - Dottrina - Influsso, Roma 1967); ID., Introduzione in QG, 47-50.


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palpitante. I problemi letterari ad esse connessi, saranno accennati nell’ultima sezione di questo studio. Sotto il profilo biografico, nel grande monastero di S. Maria degli Angeli, ricco quasi di ottanta monache nel periodo che vi visse M. Maddalena, diverse di alto profilo spirituale16, pochi eventi segnarono la sua esistenza. Per circa vent’anni fu impegnata silenziosamente nell’intreccio di preghiera e lavoro proprio della vita monastica. Coinvolta nella formazione delle giovani dal 1589 al 1607, fu sottopriora dal 1604 al 1605. Ammalatasi, passò gli ultimi tre anni travagliata nel corpo e nello spirito, spegnendosi il 25 maggio 1607 a quarantun’anni. Nel 1611 iniziarono i processi per la beatificazione. L’8 maggio 1626 fu proclamata beata da Urbano VIII e, il 28 aprile del 1669, canonizzata da Clemente IX.

2. CONTESTO STORICO-AMBIENTALE È difficile sottovalutare nella storia della Chiesa l’impatto dell’affissione delle “tesi” di Lutero a Wittemberg (1517) e la complessa e tardiva risposta cattolica nel Concilio tridentino (1545-1563), nel quadro internazionale della minaccia militare turca. A Firenze, dopo l’intensa avventura del Savonarola (1452-1498) propiziata dalla discesa in Italia di Carlo VIII, la repubblica cedeva il passo al governo dei Medici, mentre a nulla era servito il tentativo di congiura guidato dalla famiglia di appartenenza della santa, i nobili Pazzi17. Nel XVI secolo, si confermava il dominio spagnolo nel meridione, il ritorno dei Medici a Firenze e l’ascesa travolgente di Carlo V che, unendo la corona di Spagna e i domini asburgici, giunse fino all’umiliazione di Clemente VII con il sacco di Roma del 1527.

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Cfr C. CATENA, Ambiente del monastero di S. Maria degli Angeli ai tempi di s. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Carmelus 1 (1966) 21-96; si tratta di uno dei primi lavori sul contesto ambientale, che pur bisognoso di ritocchi ed integrazioni, rimane ad oggi prezioso. 17 L. MARTINES, La congiura dei Pazzi, Milano 20052; M. VANNUCCI, Le grandi famiglie di Firenze, Roma 20053, 319-328.


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Grazie a Pio V (Ghislieri), avendo appoggiato la controriforma, Cosimo I, nel 1569, ottenne per sé il titolo di granduca, mentre la famiglia Medici aveva avuto già l’onore di due pontefici: il salottiero Leone X (Giovanni Medici, figlio di Lorenzo 1513-1521) e l’irresoluto Clemente VII (Giulio, figlio illegittimo di Giuliano, 1523-1534) che non avevano brillato per doti né pastorali, né politiche. La Chiesa toscana, tra XV e XVI secolo, attraversò una profonda crisi, malgrado la presenza di figure carismatiche. Il clero secolare era dedito ad occupazioni profane, molti presbiteri avevano famiglia, mentre scadente appariva il livello culturale. L’assenteismo dei sacerdoti dalle proprie chiese regnava sovrano e, con l’ausilio di dispense pontificie, si cumulavano benefici. I religiosi spesso si erano impegnati come cappellani al posto del parroci assenteisti, mentre la qualità vocazionale nelle candidate dei monasteri femminili lasciava a desiderare, considerato il pesante condizionamento che le famiglie esercitavano per motivi economici sulla libertà delle figlie18. Nelle classi colte era presente insieme al culto del paganesimo classico, un diffuso indifferentismo se non un robusto anticlericalismo19. Anche a Firenze non mancarono note luterane che in taluni casi si conclusero con dei pubblici autodafé (1552)20. Al vescovo di simpatie repubblicane Antonio Altoviti, successe nel 1575 Alessandro Medici, uno dei discepoli prediletti di s. Filippo Neri, ma raggiunse la sua sede solo nel 1584 (nel 1605 sarebbe divenuto Leone XI). A differenza della passione pastorale mostrata dal grande vescovo fiorentino s. Antonino egli, che pur nutriva qualche desiderio interiore di rinnovamento, era preoccupato di non scontentare il governo locale amante più della tranquillità politica del granducato che di scelte che avrebbero creato scontento e tumulti. Il risultato fu una politica ecclesiastica esitante21, tesa al mantenimento dello status quo, con serie incongruenze sia nella vita del 18 Cfr La comunità cristiana fiorentina e toscana nella dialettica religiosa del Cinquecento, Firenze 1980, 53-54. 19 G. GRECO, Dal rinnovamento religioso alla disciplina delle coscienze in Storia della Toscana. 1. Dalle origini al Settecento, a cura di E. Fasano Guarini – G. Petralia – P. Pezzino, Roma-Bari 2004, 198-213. 20 La comunità cristiana fiorentina e toscana nella dialettica religiosa del Cinquecento, cit., 139. 21 PRO I, 39.


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clero diocesano che regolare (avidità di onori, cupidigia di beni terreni, adulazione dei potenti ecc.)22. Eppure, nella Chiesa scossa nei suoi assetti politici e religiosi, maturavano inedite risposte. Dalla fondazione della Compagnia di Gesù (1534) marcata da un intenso fervore missionario (Francesco Saverio dava inizio ai suoi viaggi nel 1542), alla nascita dell’Oratorio di s. Filippo Neri (grande amico di Caterina de’ Ricci) e del Carmelo teresiano (1562). L’età storica compresa tra il XVI e XVII sec., portava a compimento numerose spinte al rinnovamento ecclesiale che, a partire dal basso medioevo, si erano espresse non solo nell’opera della Riforma luterana, ma anche in ambito cattolico. Sin dai movimenti evangelici del XII secolo, tutt’altro che pacifica risultava la posizione della donna e la sua espressività ecclesiale. Si pensi ai faticosi adattamenti cui dovette piegarsi il tentativo di Chiara d’Assisi (1193?-1253) nato per condividere la vita evangelica di Francesco. Non si può escludere che uno dei motivi che portò alla veloce accettazione della clausura canonica nella vita delle clarisse, sia stata propria la necessità di distanziare nettamente il francescanesimo dai movimenti pauperistici “ereticali” che ammettevano le donne all’itineranza e alla predicazione23. Non erano mancate alcune esperienze di donne “indipendenti”, particolarmente in Toscana, come la senese Caterina da Siena (1347-1380)24 o la fiorentina Domenica da Paradiso (1473-1553)25. Si legge con un certo umorismo che quest’ultima abbia accettato di pronunciare i voti solenni (implicanti un più diretto controllo canonico) a ottanta anni sul letto di morte26! Tali originalità, comunque, furono “pacificamente” e definitivamente risolte dalla Circa Pastoralis del 1566, in cui si prescrisse la clausura 22

213-214. Cfr R. MANSELLI, San Francesco, Roma 1982, 168-175; L. IRIARTE, Storia del Francescanesimo, Napoli 1982, 515-522; E. ROGGEN, Lo spirito di s. Chiara, Milano 1970, 75-113; M. BARTOLI, Chiara d’Assisi, Roma 1989, 140-148; C. GENNARO, Chiara d’Assisi, Bose 1995, 40-50.7-80; C. VASCIAVEO, Il Giardino delle Carmelitane, Siena 2003, 78-88. 24 A. BLASUCCI, S. Caterina da Siena, in ID. ET AL., La spiritualità del medioevo, IV, Brescia 1988, 408-419. 25 A. VALERIO, Fede e politica in una mistica del ‘500: Domenica da Paradiso in ID., Cristianesimo al femminile, Napoli 1990, 127-150. 26 Ibid., 134. 23

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per monache e terziarie di voti solenni, proibendo alle altre di ricevere novizie27. Nel fervore di un rinnovamento ecclesiale che non poteva ignorare in Italia, le istanze umanistiche di un ritorno ai testi originali, molte donne maturarono, tra XVI e XVII sec., una familiarità con le Scritture che si poteva ritrovare, forse, solo nelle discepole di s. Gerolamo nel IV secolo. Nobili come Vittoria Colonna, Giulia Gonzaga, Caterina Cybo28, ma anche popolane come Domenica da Paradiso, si impegnavano in un profondo ascolto della Parola, che a tratti si esprimeva anche attraverso la direzione spirituale dei propri direttori e occasionalmente attraverso omelie semi-pubbliche29. È interessante rilevare il fatto che s. M. Maddalena, assai sensibile ed introversa per temperamento, mentre scelse in un trasporto quasi eccessivo la clausura, pur sempre figlia del suo tempo, finì per privilegiare, come riferimento per la sua esperienza spirituale, due donne laiche, entrambe domenicane: Caterina da Siena e M. Bartolomea Bagnesi. L’ansia evangelizzatrice che accomunava i tentativi citati, con un ritorno alla forza propulsiva della Parola, sotto la spinta dei bisogni della Chiesa da una parte e del violento impatto con la Riforma dall’altro, sarebbe stata un elemento che avrebbe caratterizzato anche la vita claustrale della carmelitana.

3. PRINCIPALI STUDI TEOLOGICI SU S. M. MADDALENA Se a partire dal secolo XVIII, una profluvie di testi pubblicati e di raccolte devozionali accompagna la beatificazione e poi la canonizzazione di s. Maria Maddalena, non si può dire che paragonabile sia stata la sua fortuna nel campo degli studi teologici. In forma sintetica, operando un’inevitabile scelta, si presentano i lavori principali editi nel secolo XX, con le loro caratteristiche.

27 E. JOMBART – M. VILLER, Clôture, in Dictionnaire de Spiritualité, II, Parigi 1958, coll. 979-1008. 28 A. VALERIO, Bibbia, ardimento e crisi femminile: Vittoria Colonna in ID., Cristianesimo al femminile, cit., 151-157. 29 ID., Fede e politica in una mistica del ‘500: Domenica da Paradiso, ibid., 140-146.


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Si può dire che una vera investigazione scientifica inizia nel XX secolo con gli studi di Thor-Salviat prima e poi l’importante tesi di p. Ermanno Ancilli OCD (1954)30. Thor-Salviat (1940)31 aveva l’ambizione di «presentare l’insieme della dottrina maddaleniana sotto la luce della teologia cattolica e nell’ordine armonioso e profondo della sua struttura interiore»32. Egli cercò di lumeggiare la struttura teologica del vissuto maddaleniano seppure inquadrandolo in una sorta di exitus-reditus di ispirazione neoplatonicodionisiana. Se apprezzabile era il desiderio di individuare le possibili matrici particolarmente agostiniane e tomistiche del pensiero della santa, il rischio di una precomprensione estranea al concreto vissuto maddaleniano non sempre è evitato. Inoltre, egli intuiva un qualche possibile legame non solo con s. Caterina da Siena ma anche con la testimonianza di un’altra famosa donna fiorentina, Domenica da Paradiso, ma si limitava a degli spunti tematici non supportati da analisi testuali. Infine, il problema più arduo di questo primo studio è costituito dall’autenticità delle fonti. L’autore, infatti, come dichiarava nell’introduzione, si basava su una congerie di testi diversificati ed eterogenei, da una tardiva edizione del Brancaccio33 (la prima è del 1643), ad una vita ancora successiva stampata ad opera dell’editore Brigonci34, fino ad un edizione ottocentesca35 presentata dal Card. Bausa, senza spiegare con quali criteri sono scelte le citazioni nelle diverse opere. Il problema testuale è, di fatto, nel suo lavoro non affrontato. 30 E. ANCILLI, Studio positivo sui manoscritti originali di s. Maria Madd. De’ Pazzi. Dissertatio ad lauream, cit. 31 A. THOR SALVIAT, La dottrina spirituale di s. M. Maddalena de’Pazzi, Firenze 1940. 32 Ibid., XXII. 33 L. BRANCACCIO, Opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi carmelitana monaca del venerando munistero di S. Maria degl’Angioli di Firenze. Raccolte dal M. R. P. maestro fra Lorenzo Maria Brancaccio carmelitano dell’osservanza di S. Maria della Vita in Napoli. E divise dal medesimo in cinque parti. Con la vita della medesima santa descritta dal signor D. Vincenzo Puccini, Venezia 1675. 34 S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Vita e ratti di s. M. Maddalena de’ Pazzi. Nobile fiorentina. Fatti ristampare dalla Priora e Monache di S.M.A. dedicandola al Granduca di Toscana Cosimo III, Venezia 1688. 35 S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Vita ed estasi di s. M. Maddalena de’ Pazzi con aggiunta delle Lettere e Ratti della Santa e con parole di prefazione dell’Em. Card. A. Bausa, arciv. di Firenze, I-II-III, Firenze 1893.


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P. Ermanno Ancilli OCD (1955) cercò di affrontare il problema testuale lavorando sui “manoscritti originali”, senza poter disporre di un’edizione a stampa completa. Questa situazione fa comprendere il coraggio che esigeva uno studio da condurre, in aggiunta, presso un archivio posto in un monastero di clausura senza il supporto di una schedatura scientifica del materiale presente. Lo studioso carmelitano, nella sua tesi dottorale, dedicò una prima parte alla Descrizione esterna dei manoscritti36, con particolare attenzione agli Avvertimenti e alle Lettere, redigendo anche una prima bibliografia. La seconda parte, Descrizione interna dei manoscritti37, invece, era dedicata all’analisi di alcuni temi teologici rilevati in forma antologica nei diversi volumi delle opere. È evidente che lo studioso cercò di valutare le implicanze della mancanza di fonti dirette della santa, evidenziando sia le modalità di redazione delle estasi che le difficoltà tanto di M. Maddalena quanto delle sorelle, ma la sua conclusione è più dettata dall’amore per la santa che da preoccupazioni di critica testuale: «Nonostanti le non poche ed inevitabili lacune, che rendono talvolta assai oscuri i mss., il lavoro delle brave suore rimane veramente ingente, prezioso e ammirevole»38. Avendo analizzato in forma tematica le fonti, pur in questa situazione, egli preferì concentrarsi sui testi e non su eventuali dipendenze, sorvolando quindi, il contesto ecclesiologico. Inoltre, la sua lettura non è del tutto immune da alcune precomprensioni teologiche ben attestate nella storia della teologia e non estranee anche ad alcuni passaggi maddaleniani, come una lettura solo redentiva dell’Incarnazione39. Se è vero che egli rimarca con forza la prospettiva divinizzante della risposta della creatura all’amore del Verbo, è innegabile che nel pensiero maddaleniano ci siano importanti sottolineature prossime all’impostazione scotista (tendente a leggere l’Incarnazione come precedente alla dimensione strettamente soteriologica) che vengono omesse40.

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E. ANCILLI, Studio positivo sui manoscritti originali di s. Maria Madd. De’ Pazzi. Dissertatio ad lauream, cit., 29-168. 37 Ibid., 169-340. 38 Ibid., 27. 39 Ibid., 188-200. 40 Cfr RE 78.86.


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Giuliano Agresti (1959), poi vescovo di Lucca, dedicò la sua tesi di laurea alla santa fiorentina41. Anch’egli poté lavorare sui “manoscritti originali” ancora inediti ma non pose particolari questioni riguardo alle loro modalità di formazione. Alla ricerca di un filo conduttore, si propose di rileggere le opere della carmelitana fiorentina alla luce dell’esperienza dell’amore, tesi suggestiva nella sua unitarietà, ma inevitabilmente, come ogni schema a priori, limitante per una comprensione profonda di un’esperienza irripetibile. Comincia con questo autore, però, un’attenzione maggiore al contesto prossimo (confessori) ed ecclesiale in cui s. Maddalena visse. Sono presenti così accenni alle fonti domenicane, agostiniane e gesuitiche cui ella attinse42. Il carmelitano Claudio Catena (1966), a cui si debbono numerosi studi sul mondo femminile del Carmelo, approfondì lo studio di s. M. Maddalena in alcuni lavori, particolarmente attenti all’Ambiente del monastero di S. Maria degli Angeli e alle più importanti consorelle da Madre Evangelista a Pacifica del Tovaglia ad alcune sue novizie43. Successivamente, p. B. Secondin OC curò la pubblicazione della propria tesi (1974), uno studio di sicuro rilievo che ha costituito il punto di riferimento delle ricerche e pubblicazioni successive. Anch’egli lavorò sui “testi originali”, ma in quanto interessato alle problematiche di storia della spiritualità e teologia spirituale e non avendo potuto avere accesso diretto all’Archivio, non si interessò, tranne che per alcuni aspetti, di questioni di natura paleografica e di critica testuale. In quest’ottica, introdusse un’analisi del contesto storico-spirituale in cui la santa fiorentina era cresciuta nell’Introduzione (Il monastero – Vita nel monastero – Contesto storico dottrinale a Firenze e in Italia – Fonti per la vita e la dottrina di s. Maria Maddalena)44, seguita da una parte prima

41 G. AGRESTI, La dottrina dell’amore in s. M. Maddalena de’ Pazzi. Dissertatio ad Lauream, pro manuscripto, Roma 1959, in seguito parzialmente edita in S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, L’Amore non amato. Un’antologia delle sue opere, a cura di G. Agresti, Roma 1974. 42 Ibid., 56-71. 43 Cfr C. CATENA, Ambiente del monastero di S. Maria degli Angeli ai tempi di s. Maria Maddalena de’ Pazzi, cit. 44 B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 35-91.


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dedicata all’Itinerario storico-spirituale45 e da una seconda parte riguardante la Dottrina spirituale: Gesù Cristo – Chiesa Vita religiosa46. A partire da questo lavoro, senza sopravvalutare il rilievo delle fonti, si pose a tema l’importanza del profilo del Carmelo in cui s. M. Maddalena era stata accolta, il ruolo dei confessori ordinari e straordinari, il rilievo della biblioteca. Lavorare in tanta messe di dati non era agevole. È evidente, infatti, che pur non mancando nel suo studio un’analisi evolutiva (parte prima), la valutazione della “dottrina” maddaleniana è stata condotta preferenzialmente a livello tematico, senza una specifica preoccupazione di evidenziarne, se così si può dire, una precipua stratigrafia. Infatti, di solito, tutte le fonti sono usate in forma sincronica. Simile visione d’insieme, se offre una buona panoramica, rischia di non rendere evidente il percorso della complessiva vita spirituale dell’autrice. Mossa da interessi specificamente letterari, invece, Tiziana Zaninelli, allieva del p. G. Pozzi, in una tesi difesa a Friburgo, si dedicò a s. Maria Maddalena de’ Pazzi e l’ambiente in cui visse47. Ella ebbe il raro privilegio di poter accedere direttamente all’Archivio monastico, curando un primo, parziale, regesto scientifico del materiale presente. Pur negli inevitabili imprecisioni, il suo lavoro ha costituito un’importante base di partenza per un approccio meno frammentario alle fonti maddaleniane. Essendo interessata ai dati linguistici, si soffermò sulla cultura scritta (biblioteca) e orale a S. M. degli Angeli con particolare attenzione alle prediche e alle rappresentazioni spirituali. Nel suo lavorò pubblicò la trascrizione di alcune lettere ancora inedite inviate alla santa da diversi corrispondenti. Tali studi, indubbiamente meritori, forse, hanno il loro merito, ma anche il limite maggiore, nell’essere stati originati da lavori dottorali. Si sono infatti fregiati di metodologia scientifica anche se i limiti di tempo e di impegno ad essi dedicati sono facilmente comprensibili, a fronte di un lavoro vasto che richiede, in mancanza di una strumentazione di analisi già pronta, un lungo training di apprendimento per cogliere l’insieme della complessità degli eventi e delle fonti implicate. Essi hanno colto alcuni 45 46 47

Ibid., 95-230. Ibid., 233-437. T. ZANINELLI, S. Maria Maddalena de’ Pazzi e l’ambiente in cui visse, cit.


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aspetti delle problematiche di contesto presenti, ma risultano bisognosi di numerose integrazioni alla luce delle ricerche successive.

4. UNA SANTA DELLA CHIESA DI FIRENZE Già suor Gesualda, nel suo testo pubblicato nel 1906, sentiva il dovere di riferirsi a s. M. Maddalena come a «la santa di Firenze»48. L’insieme degli studi disponibili, unita all’accresciuta sensibilità per il valore primario della Chiesa locale, inducono a ripartire nella comprensione di ogni itinerario di santità da una storia di Chiesa. Nel caso di una donna monaca, inoltre, è difficile minimizzare l’importanza della Chiesa toscana con particolare attenzione alla testimonianza femminile, a partire dalle origini del suo Carmelo.

4.1. Il Carmelo Santa Maria degli Angeli Il Carmelo fiorentino affonda le proprie radici in quel pullulare, prima spontaneo, poi gradualmente soggetto a riconoscimenti giuridici, di raggruppamenti di donne che scelsero nel XV secolo di seguire il Signore attraverso il carisma e la Regola del Carmelo. Dai Paesi Bassi ai gruppi fiorentini, numerose furono le donne che, a partire dal XIII sec., passarono da una frequenza delle chiese e delle comunità dei frati carmelitani a formare associazioni laicali e semireligiose, fino al riconoscimento pontificio del 1452 49. Pur originato nell’alveo dell’Ordine Carmelitano, il gruppo di S. Maria degli Angeli, divenuto monastero sottoposto al generale nel 1480, nel 1521 subì una trasformazione, con passaggio alla giurisdizione episcopale. Secondo il Catena essa fu originata dal rifiuto del governatore, il frate carmelitano 48 SUOR GESUALDA DELLO SPIRITO SANTO, La Santa di Firenze presentata principalmente ai suoi concittadini nel III centenario della sua morte da una religiosa del suo Monastero, Firenze 1906. 49 G. GROSSO, Giovanni Soreth (1394-1471) generale riformatore e il suo ruolo nel l’evoluzione del carmelo femminile in Carmelus 42 (1995) 5-21.


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p. Giovanni di Antonio, di cedere l’incarico50. Questo spiega la successiva presenza di governatori provenienti dal clero secolare. Tra i responsabili del monastero, nella seconda metà del XVI sec., si ricordano: Leone Bartolini (1557-1560); Giovanni Francesco Cavalcanti (1560-1562); Messer Goro (1562-1563); Agostino Campi (in monastero: 1563-1591)51, uomo di non vasta cultura teologica, ma premuroso nell’invitare al monastero predicatori come il domenicano Alessandro Capocchi (15661581), spirito contemplativo, radicato nella liturgia e fornito di una seria preparazione biblica, e Angelo Pientini, padre spirituale del cardinale di Firenze52. Al Campi, successero come governatori, Francesco Benvenuti (1591-1605) e Vincenzo Puccini (1605-1626). Se già dal 1551, i gesuiti avevano prestato la loro opera come confessori straordinari, negli anni 1592-1594, esercitò tale ruolo il rettore p. Nicolò Fabbrini (che aiutò molto s. M. Maddalena) e dal 1598 p. Virgilio Cepari. È rilevante conoscere almeno qualche dato di quanti come responsabili del governo della comunità e/o della sua istruzione spirituale, ne segnarono l’indirizzo e ne guidarono la formazione, imprimendovi delle caratteristiche peculiari che le distanze temporali richiedono di contestualizzare.

4.2. I contatti col movimento spirituale domenicano-savonaroliano: Agostino Campi Qualche nota meritano diverse delle figure richiamate, poco note al di fuori del proprio contesto toscano e cinquecentesco. Leone Bartolini (1557-1560)53 funse da tramite tra il domenicano lucchese p. Vincenzo 50

C. CATENA, Le donne nel Carmelo italiano, in Carmelus 10 (1963) 9-55: 41-51. Cfr A.M. RECONESI, Molte notizie utili.., Serie III Convento, III.11-12, 152; B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 48 n. 60. Si precisa che spesso il termine confessore era usato come sinonimo di governatore, fatto che non aiuta a precisare in dettaglio i tempi di nomina e le modalità di ruolo. 52 PRO I, 128. 53 Cfr A. ZARRI, Il carteggio tra don Leone Bartolini e un gruppo di gentildonne bolognesi negli anni del Concilio di Trento (1545-1563). Alla ricerca di una vita spirituale, 51


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Arnolfini (suo direttore) e dei monasteri (toscani e bolognesi) disponibili alla riforma, con l’umile collaborazione di Agostino Campi da Pontremoli († 1591)54. Secondo la Zarri, Bartolini, malgrado i due processi cui fu sottoposto per il suo insegnamento della perfetta obbedienza, fu ben accolto dal vescovo di Pistoia, Pietro Francesco Galliani, in quanto egli stesso era di appartenenza spirituale savonaroliana55. Terminato il suo incarico a S. Maria degli Angeli, tornò a Bologna, dove fondò un monastero riformato dallo stesso nome per il quale compose le costituzioni, consultandosi con il Campi. Don Agostino Campi, originario di Pontremoli, era giunto a Lucca nell’aprile del 1546 come cappellano dell’Ospedale di S. Luca dove operò fino al 1554. Successivamente fu governatore del monastero sito in Borgo S. Lorenzo (1554-1555), fino a quando si trasferì a Firenze in casa di una terziaria domenicana, M. Bartolomea Bagnesi di cui fu ospite fino al 1563, tempo del passaggio a S. Maria degli Angeli, in stretto contatto con p. Capocchi e i Domenicani della Provincia Toscana56. Si delinea così la fitta trama di collegamenti di tre figure rilevanti per la maturazione spirituale del Carmelo di S. Maria degli Angeli. Della fede savonaroliana di d. Agostino Campi sono stati identificati due autorevoli testimoni dal p. Verde, oltre ad una Vita del Savonarola non localizzabile. Si tratta di una raccolta di miracoli attribuiti al Savonarola redatta dal Campi e dei Sermoni sullo Spirito Santo del frate ferrarese, volgarizzate da Ignazio Mainardi57. Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1986. In esso si segnala un carteggio ancora inedito tra don Leone Bartolini e don Agostino Campi da Pontremoli presente in ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Fondo demaniale, Monastero di S. Maria degli Angeli (busta 104/2818, ex filza 25, camicie 1-6). 54 A. VERDE, Il movimento spirituale savonaroliano fra Lucca – Bologna – Ferrara – Pistoia – Perugia – Prato – Firenze, in Memorie Domenicane NS 25 (1994) 5-206: 9. 55 A. ZARRI, Il carteggio tra don Leone Bartolini e un gruppo di gentildonne bolognesi negli anni del Concilio di Trento (1545-1563). Alla ricerca di una vita spirituale, cit., 388 n. 3. 56 Lettera di Agostino Campi ai Padri domenicani in data 15 ottobre 1581 in A. CAPOCCHI, Prediche del venerabil servo di Dio Fra Alessandro Capocchi Domenicano [1581 Miscellanea], Serie IV Memorie Confessori, I.8, ff 1r-17v. 57 Localizzato in Biblioteca Ariostea di Ferrara, ms I 326, ff 111, autografo di Agostino


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Nella Biblioteca Nazionale di Firenze, è presente un piccolo codice membranaceo del XVI sec., dall’incipit: In questo libro saranno notati alcuni miracoli del R. P. F. Hieronimo Savonarola e di sua santi compagni58 con nota di possesso: Liber Venerabilis sororis Mariae Caroli de Bagnesiis de Florentia et presbiteri Augustini Campi de Pontremulo eius confessoris che, secondo gli studi del p. Verde e i personaggi in esso richiamati, evocherebbe l’ambiente domenicano di S. Marco. In esso vengono riportati miracoli avvenuti grazie all’intercessione del Savonarola a vantaggio della Bagnesi, di molte monache di S. Maria degli Angeli (sr. Humiltà Strozzi, Angelica Deti, Vangelista Del Giocondo, ecc.) e di altri monasteri nonché di presbiteri e laici (come Fiammetta Brandolini, Giovanni legnaiolo in S. Friano, ecc.). È evidente il gusto per il miracolismo che pervade l’intera operetta e che non doveva essere estraneo al suo estensore, evidenziando anche il trasporto presente tanto nella devozione per il frate domenicano, quanto la serrata ricerca di segni prodigiosi nella vita quotidiana presente all’interno del Carmelo fiorentino. Il secondo codice, identificato a Ferrara, dal titolo: Predica del reverendo p. fra Hieronimo Savonarola da Ferrara dell’Ordine de’ Predicatori fatta per la Pasqua dello Spirito Santo tradotta di latino in volgare da f(ra) J(gnazio) Manicardi), presenta l’incipit: Liber presbiteri Augustini Campi de Pontremulo et venerabilis sororis Mariae Caroli de Bagnesiis de Florentia 155959. Per quali vie sia pervenuto da Firenze a Ferrara non è noto. Potrebbe essere transitato anche dal Carmelo maddaleniano, ma non doveva essere comunque estraneo alla sensibilità spirituale del suo copista, il Campi. Certo, fa riflettere la centralità dell’esperienza dello Spirito nell’intera avventura spirituale della carmelitana fiorentina, particolarmente nel testo indicato come Revelatione e Intelligentie, maturato proprio nell’ottava di Pentecoste. Si tratta di elementi da poco tempo noti da sondare e approfondire. Un ulteriore dato che evidenzia il legame tra il Campi, la Bagnesi e gli ambienti riformistici di matrice savonaroliana, è un elenco di reliquie Campi. Cfr A. Verde, Il movimento spirituale savonaroliano fra Lucca – Bologna – Ferrara – Pistoia – Perugia – Prato – Firenze, cit., 8ss. 58 Conv. Soppr. I. VII.2. 59 L.c.


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(non sono più localizzabili le stesse), provenienti da casa Bagnesi, tra cui compare: «de tunica s. Antonini archiepiscopi, de b. Hieronymo»60. Nella tradizione domenicana, la formazione rivestiva un elemento di rilievo e non stupisce il fatto che il governatore Campi si fosse adoperato per arricchire la Biblioteca del Carmelo fiorentino. Merita un ricordo una nutrita lista di libri acquistato dalle monache per la loro biblioteca. Se il Campi fosse il proprietario degli stessi o avesse svolto un semplice ruolo di intermediario non è dato sapere. Si tratta di commentari biblici e patristici insieme a fonti di dogmatica. Non manca il Trionfo della Croce e il Confessionale del Savonarola61. Del Campi, l’Archivio monastico custodisce: una Espositione del Vangelo per la festa della Natività della Vergine (1559)62; una Espositione delle preci di Prima dei giorni festivi et feriali (1575, proveniente dalla biblioteca di M. Bagnesi)63; un Trattatello del giudizio finale (1579, ispirato a testi del certosino Landolfo di Sassonia)64 insieme ad una Vita della Bagnesi65 e numerose trascrizioni. È significativo il fatto che il manoscritto più antico della Regola e Statuti (1564)66 delle Carmelitane conservato, riporti uno scritto che unisce il Campi e il Bartolini quali testimoni dell’impegno ad uno stile “osservante” nel Carmelo fiorentino. Al di là delle singole opzioni (si esclude la consacrazione a favore di una più sobria velazione ad opera del “confessore” dinanzi ai parenti stretti; si limitano i regali per le elemosine delle “Donne novelle” ad un Agnus Dei, ecc.), è interessante il coinvolgimento dei due sacerdoti diocesani nel sostegno di gruppi femminili impegnati nella vita religiosa a Firenze, così come è documentato per Lucca 60

Memorie di Messer Agostino Campi 1573-1591 in Serie IV Filza C. Confessori n. 5. Inventario de libri di Messer Agostino Campi in Serie IV Filza C. Confessori n. 1. 62 Serie IV Memorie Confessori, I.27B. 63 Serie IV Memorie Confessori, I.27A. 64 Serie IV Memorie Confessori, I.10. 65 Serie II B. Maria Bagnesi, III.? (fuori collocazione). Diversamente da come riportato dal Secondin, il ms con segnatura III.17, corrisponde ad una trascrizione del Campi della Vita della Bagnesi di A. Capocchi. B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 10. Purtroppo il Catalogo generale dell’Archivio per tale ms mostra una vistosa lacuna indicando solo il palchetto di collocazione. 66 Senza segnatura. 61


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e Bologna attraverso le tracce presenti nei loro rapporti epistolari67. Infine, allo spirito devoto e in parte devozionale del Campi, si deve l’importante e rischioso ordine di trascrivere le parole di s. M. Maddalena68. Questa, nelle sue narrazioni, lo descrisse, rispetto al Carmelo paragonato ad un giardino, come: «un ortolano che si affaticava in assettare e coltivare detto giardino e lo assettava molto bene, facendolo grandemente fruttificare»69. In altro passaggio, poi: «Vedeva poi in detto giardino due circuiti di edifitii, uno che era molto spatioso e largo, ma poco alto… Il primo circuito era quello che haveva edificato spiritualmente il questo luogo il padre passato, che era largo e spatioso per li molti anni che haveva havuto a fare gran parte del fondamento, cioè introdurci molte cose appartenente all’obbligo della religione, tanto che non haveva potuto attendere con quello studio alla sublimità della perfetione interna, massimo nel generale, però che, come vedeva questa anima, haveva edificato sparsamente»70.

4.3. I contatti col movimento spirituale domenicano-savonaroliano: Alessandro Capocchi Un richiamo merita anche il p. Alessandro Capocchi (1515-1581) che, entrato giovanissimo tra i Domenicani, aveva acquisito una particolare competenza scritturistica, comprensiva della conoscenza delle lingue orientali e dei Padri. Lodato come osservantissimo, pochi anni dopo la sua morte, ne fu pubblicata la Vita71 di carattere agiografico, ad opera di Francesco Marchi, dedicata a suor Caterina de’ Ricci di Prato, cuore del culto savonaroliano espunto dalla Firenze medicea. In una nota degli studi del p. Verde, si legge che avrebbe ricevuto un’eredità “delicata” da Giovanni di Marco di Mariotto Della Palla, il cui fratello Battista era stato coinvolto nella congiura del 1522 contro Giulio de’ Medici. Giovanni Della Palla, in un primo tempo, aveva stabilito in un suo testamento (30.8.1546) 67

Cfr Archivio di Stato di Bologna, Fondo demaniale, Monastero S. Maria degli Angeli, busta 104/2818, filza 25,3. 68 QG, 97. 69 CO I, 258. 70 PRO II, 29-30. 71 Serie IV Memorie Confessori, I, 4.


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la sua sepoltura in S. Marco e la destinazione dei suoi libri a stampa di fra’ Girolamo Savonarola a fra’ Alessandro Capocchi. Successivamente, il 19.3.1560, decise di ritoccare il testamento solo per la sede di sepoltura trasferita nella chiesa carmelitana di S. Maria degli Angeli, destinando elemosine sia ad esso che a quello domenicano di S. Vincenzo di Prato, legato alla presenza di Caterina de’ Ricci di cui era parente72. Evidentemente, i rapporti di conoscenza tra le carmelitane, il domenicano Capocchi e gli ambienti savonaroliani si erano approfonditi fino a far ritenere il Carmelo fiorentino inserito in tale contesto. Inoltre, secondo il Garin, il Plato abbreviatus, appartenuto al Savonarola, sarebbe passato in possesso dello stesso Capocchi, in un codice dal titolo De Doctrina platonicorum73 (proveniente da S. Maria Novella e attualmente nella Biblioteca Nazionale di Firenze74). A S. Maria degli Angeli sono presenti numerosi inediti di questo frate. Evidente è la sua passione per i commentari biblici. Si ricorda un trattatello sul Sal 38, Della devotione del cuore (1544) scritto per la sorella Carmelitana della Congregazione Mantovana nel monastero fiorentino di S. Barnaba75; una Esposizione della Cantica (che rivela una buona conoscenza dei Padri aperta al tema della divinizzazione), ricca anche di un piccolo Trattato sulla Morte (che evidenzia una notevole sensibilità liturgico-mistagogica, probabilmente non estranea a taluni sviluppi maddaleniani) e di un epistolario, proveniente dalla biblioteca di M. Bagnesi76; una raccolta di Prediche (dal 20.3.1567 al 2.7.1581)77 ed una Vita della veneranda e beata madre suor Maria delli Bagnesi dell’habito e Regola del Terzo Ordine di san Domenico (1577)78. È difficile sottovalutare l’importanza di questi testi anche dopo la morte del suo autore, in quanto facevano 72 A. VERDE, Fra Alessandro Capocchi di S. Maria Novella ed il movimento savonaroliano – Note sul movimento savonaroliano, in Memorie Domenicane NS 26 (1995) 451-452. 73 Cfr E. GARIN, La cultura filosofica del rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1961, 201-209. 74 Conventi Soppr. D. 8.985. 75 Serie IV Memorie Confessori, I.9. Cfr S. POSSANZINI, Il monastero fiorentino delle Carmelitane di S. Barnaba in Carmelus 43 (1996) 123-145. 76 Serie IV Memorie Confessori, I.5. 77 Serie IV Memorie Confessori, I.8. 78 Serie II B. Maria Bagnesi, III.18.


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parte della biblioteca del noviziato e furono usati a lungo anche ai tempi in cui la santa era responsabile della formazione. Si tratta di notizie non ancora pienamente valorizzate nel contesto formativo di s. M. Maddalena che, con qualche eccessiva semplificazione, sulla scia di suor Gesualda, è stato generalmente collegato con gli ambienti gesuitici. All’interno del monastero, con essi non sarebbero mancati i contatti, ma in un periodo successivo al 1591, quando le grandi linee del suo profilo spirituale erano già tracciate e consolidate.

4.4. L’apporto delle donne Domenicane: s. Caterina da Siena e s. Caterina de’ Ricci Se i macroeventi della controriforma cattolica sono ampiamente noti e studiati, la storiografia ha prestato meno attenzione al vissuto e alla testimonianza femminile che, forse, proprio nella complessa trama ecclesiale, si incaricarono, per vie carsiche e profonde, di coltivare sentieri di rinnovamento e speranza evangelica. Così non stupisce che una storica sensibile a tali rilievi, scriva a proposito degli ultimi tempi della predicazione savonaroliana: «Nell’incalzare degli eventi [1486-97] e nella oramai attestata disillusione su una possibile conversione dei vertici, nella chiarezza ormai che la “riverenza alle Chiavi della Chiesa” viene a cessare per gli abusi di potere, le donne, come i fanciulli, appaiono gli anelli necessari perché la riforma etica e politica possa dare i suoi frutti, giacché le donne sono come Ruth la moabita, modello di semplicità»79. Taluni fermenti di rinnovamento camminarono attraverso i fragili progetti femminili (fragili per l’assenza di potere deliberativo ed ecclesiastico, non per motivazione): «Tra le più ferventi seguaci del Savonarola molte erano terziarie e monache o lo divennero… Fedeli ascoltatrici delle prediche del Savonarola, destinatarie di testi devoti, partecipi del progetto di riforma dell’ordine avviato nei monasteri fiorentini e toscani, le donne erano state oggetto a Firenze di un tentativo non riuscito di riforma che 79 Cfr A. VALERIO, La predica sopra Ruth, la donna, la riforma dei semplici in Una città e il suo profeta Firenze di fronte al Savonarola a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 2001, 253.


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puntava su una loro corresponsabilizzazione anche in campo politico e sociale»80. È ormai ben attestata la presenza di un movimento femminile savonaroliano, tra cui sono note figure discusse come Lucia Narni e ufficialmente venerate come Colomba da Rieti (1501), M. Bartolomea Bagnesi OP (1514-1577) e Caterina de’ Ricci OP (1522-1590)81. Si può ignorare che ben due di queste furono importanti, insieme a Caterina da Siena (1347-1380), nella formazione e nella sensibilità spirituale maddaleniana? Ad esse, inoltre, seppure in forma più defilata, va affiancata Domenica Narducci da Paradiso (1473-1553)82, di ambiente domenicano, appartenente come la Bagnesi alle fila dei gruppi di ispirazione savonaroliana, coinvolta dal 1500 al 1545 in un’intensa attività predicatoria che non doveva essere ignota a s. M Maddalena. Infatti, ella pensò per qualche tempo al monastero della Crocetta che lei aveva fondato83. La Narducci, che dovette con fatica salvaguardare la propria autonomia di pensiero e di azione, come la carmelitana fu partecipe di un faticoso ed incompiuto ripensamento dell’identità femminile all’interno delle strutture ecclesiali. Il suo corpo incorrotto, proprio nel 1584, fu oggetto di particolare venerazione della sua città. Di tutte e quattro si ricordano fenomeni estatici e una pletorica epifania corporea del vissuto spirituale, particolarmente agli inizi dell’itinerario spirituale, fatto che richiede un’accorta e vigile ermeneutica riguardo ai moduli storici di espressività al femminile. Indiscussa è la devozione di s. M. Maddalena verso s. Caterina, di cui portava il nome. Varie erano le motivazioni. Certo non estranea era stata la presenza del p. Capocchi nel Carmelo fiorentino e la diffusa conoscenza dell’Epistolario (riportato nella nota dei libri venduti dal Campi84) e del Dialogo, comune in tutti i monasteri toscani. È ancora presente nella Biblioteca La vita 80 Cfr G. ZARRI, Lucia Narni e il movimento femminile savonaliano in Girolamo Savonarola da Ferrara all’Europa a cura di G. Fragnito – M. Miegge, Firenze 2001, 99. 81 G. BEDOUELLE, A immagine di s. Domenico… Caterina de’ Ricci…, Milano 1994, 85-94. 82 Cf. R. LIBRANDI – A. VALERIO, I sermoni di Domenica da Paradiso. Studi e testo critico, Firenze 1999. 83 QG, 85. 84 Inventario de libri di Messer Agostino Campi in Serie IV Filza C. Confessori n. 1.


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miracolosa della Serafica Sancta Catherina da Siena, composta in latino da fra Raimondo da Capua e tradotta da A. Catherino de’Politi… (Siena 1524) di Raimondo da Capua OP, proveniente dalla Bagnesi. Profondamente cateriniano è il linguaggio maddaleniano. Ella stessa dice di vivere un’esperienza spirituale: «simile a santa Catherina, ma in minor grado in ogni cosa»85. La centralità della dottrina dell’amore, il richiamo all’amor puro, la metafora del Cristo «ponte»86 e del costato «gran bottega»87, il Crocifisso «libro»88, la conoscenza di sé in Dio e di Dio in sé, il rapporto Cristo-Chiesa, richiamano ampiamente i temi della santa senese. Più accentuato appare, invece, in Maddalena il ruolo del divino «consiglio»89 (richiamato anche attraverso la semantica della «pace» donata e comunicante90) dell’Incarnazione divinizzante del Verbo, il legame organico tra Parola-Liturgia e mistica, il dinamismo ecclesiale dell’opera dello Spirito. Come l’esperienza della santa senese si impernia su un significativo cristocentrismo e sulla devozione al Sangue del Redentore, in funzione di un profondo e radicale rinnovamento della Chiesa, un afflato simile, con un significativo richiamo alla semplicità della vita cristiana, tipico dei contesti savonaroliani, pervade s. Caterina de’ Ricci91. Nata a Firenze il 23 aprile 1522, durante la Settimana Santa del 1535, prese l’abito domenicano nel monastero di Terziarie domenicane di S. Vincenzo di Prato, intensamente legato all’esperienza spirituale del Savonarola. Lo zio Timoteo ne era il confessore. La serenità degli esordi durò poco. Uno stato sognante abituale, accompagnato da insonnia notturna, si manifestò insieme a rigidità delle membra, difficoltà di parola e rifiuto del cibo. Nel disordine psico-fisico galoppante, il 1538 sopraggiunse il crollo con calcoli renali, asma e febbri. 85

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344. 99. 87 PRO II, 150. 88 RC, 351. 89 RE, 159-163; RC, 306. 90 RE, 76ss. 91 Cfr G. DI AGRESTI, Santa Caterina de’ Ricci – Documenti storici, biografici, spirituali, IV, Firenze 1966; R. M. SORGIA, Santa Caterina de’ Ricci. «Qui di santi non ce n’è», Padova 2004; P. LUNGO, Ricerca e ritrovamento di sé. Il percorso umano e teologale di Santa Caterina de’ Ricci, Bologna 2005.


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La sera del 22 maggio, anniversario della morte del Savonarola, venne guarita improvvisamente. Dal ’40 al ’54, si susseguirono una profluvie di doni straordinari, imperniati sul rivivere la passione il venerdì. Le relazioni dopo tali esperienze imposte dallo zio, direttamente o con colloqui con suor Maddalena Strozzi, nascono i Ratti che insieme alle Lettere costituiscono l’opera letteraria della santa. Dal ’52 fu eletta priora, incarico che, con le opportune alternanze avrebbe mantenuto, stimata e benvoluta dalla comunità, fino alla morte92. Durante la sua vita non mancarono momenti di tensione sia con i superiori dell’Ordine riguardo all’autenticità delle sue esperienze, che con gli ordinari per la complessa applicazione della clausura tridentina ad un monastero di terziarie che diversamente avevano professato, nonché per le sue amicizie, in particolare con il discepolo Filippo Salviati, eventi che le amareggiarono gli ultimi anni della vita e, forse, gettano una luce sulla risposta piuttosto fredda inviata alla giovane Maddalena che l’aveva interpellata per una conferma del suo vissuto ed una qualche collaborazione nella renovazione della Chiesa che ella sognava93. La vita spirituale per lei cominciava dalla devozione a Maria ed era imperniata sulla Passione di Cristo, tratti questi condivisi da s. M. Maddalena all’esordio dei suoi rapimenti. L’amore per Dio consisteva nella conformità alla sua volontà, unito all’umiltà e alla pazienza, in una prospettiva più ascetica che mistica, cui non faceva difetto qualche simpatico guizzo d’umorismo, buon indice di un equilibrio psicologico faticosamente guadagnato Ad esempio, rispondendo al dono di alcune tartarughe inviate dal Salviati, sosteneva che suor Maddalena Strozzi (già sua severa maestra) ne era rimasta talmente lieta e dolce da superare in ciò il miele di Bologna (ritenuto particolarmente tale, provenendo da fiori di acacie)94. Val la pena ricordare che il manoscritto dei Ratti della Madre…[1541-1543] si trova ancor oggi nella Biblioteca monastica, mentre è nota una piccola Vita e miracoli di suor Caterina Ricci da Prato95 dalla 92 P. LUNGO, Ricerca e ritrovamento di sé. Il percorso umano e teologale di Santa Caterina de’ Ricci,cit., 22-32. 93 RC 104-111. 94 R. M. SORGIA, Santa Caterina de’ Ricci. «Qui di santi non ce n’è», cit., 71. 95 Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, I. CVI,5, pp. 17-42v.


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significativa nota di possesso: Mad.a Caterina de’ Pazzi. Un’analisi anche superficiale dei testi dei Ratti evidenzia una forte somiglianza redazionale tra i testi ricciani e quelli maddaleniani, fino a postularne una qualche dipendenza di modulo letterario a cui le redattrici di S. Maria degli Angeli possono essersi ispirate nel loro lavoro. Differente è invece la ricchezza e l’elaborazione simbolica e tematica della produzione maddaleniana rispetto alle più schematiche e talora quasi ripetitive estasi ricciane, ben distinguibili dalla vivace prosa delle lettere.

4.5. L’apporto delle donne Domenicane: beata M. Bartolomea Bagnesi, “inferma” È ormai evidente che Maria Bartolomea Bagnesi, nei molteplici scambi che la unirono ad A. Campi e a p. Capocchi, faceva parte del movimento savonaroliano96. Uno stile da fioretti caratterizza le sue biografie disponibili, anche se, probabilmente, motivi di opportunità consigliavano di non esplicitare il legame col Savonarola, fatto che ricorre in altre fonti devote coeve97. Singolare il suo legame con le Carmelitane di S. Maria degli Angeli che giunsero fino all’ipotesi di una coabitazione, arrestata solo dalla morte della Domenicana. Al di là dell’indubbia venerazione, testimoniata ancor’oggi dalla presenza del suo corpo nel Carmelo maddaleniano, risulta indispensabile scoprire il valore della sua testimonianza comunionale in un contesto di fede al femminile, pur in contesti sociologici ed ecclesiali aspri. Dalle fonti studiate sembra quasi difficile mettere a fuoco i motivi della profonda stima che tanti e diversi personaggi, laici e religiosi ebbero per questa donna. La stessa diocesi di Firenze che la riconosce beata, ha forse, fatto fatica a riconoscere i tratti specifici della sua santità tanto da non averne elaborato neppure un’officiatura propria.

96 D. ABBRESCIA, Frères Prècheurs. II. En Italie B. Du 16 siècle a nos jours, in Dictionnaire de Spiritualité, V, Parigi 1964, coll. 1445-1147. 97 Cfr Compendium vitae b. Columbae in I. TOZZI, Una scelta di vita religiosa nella prima età moderna Beata Colomba da Rieti, Bologna 1996, 161-182.


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Eppure, simili difficoltà, sembrano solo posteriori, tanto convinta e diffusa era la fama di santità durante la vita e dopo la morte della suor Maria. Il p. Capocchi ci informa che Bartolomea nacque a Firenze, in una famiglia numerosa, da Carlo e Maria Alessandra Orlandini, nel 1514 il giorno di santo Bartolomeo Apostolo, 24 agosto. «Bella di corpo, di statura mediocre, sottile e tutta allegra»98, amante del canto si ricorda che «incominciando a parlare, aveva imparato certe laude di Dio, le quali cantava con molta giocondità e giubilo»99. Assistette la madre inferma e al suo posto governava l’intera casa100. Dovendo decidere lo “stato”: «Avenne che il padre un dì la chiamò da parte per volergli parlare e intendere il suo concetto circa la vita sua, di che lei si cotentassi quanto allo stato e partito di eleggere il mondo o la Religione. Ma la volontà del padre era di maritarla: Hora ritirandola da parte questa figliuola si sentì tanto impaurire drento di se rimescolare che li sangui e le viscere gli arevono travagliatissime e per il tremito non sapeva che rispondere, a suo Padre»101. A partire da questo evento, malgrado la mediazione del «Padre spirituale M. Raffaello Rettore della Chiesa di San Romeo»102, ella ne ebbe un vero trauma che la rese inferma per molti mali per circa quarantacinque anni. Fu tormentata da molti medici e più volte si ritenne di darle l’Olio Santo, al tempo sacramento dei moribondi: «Et non pareva quella camera da inferma ma uno oratorio ovvero Chiesina»103. «Volse pigliare l’habito di San Domenico; fu vestita da Maestro Vittorio di Mattheo frate di santo Domenico del convento di santa Maria Novella e nelle mani sua fece la Professione in capo all’anno e tutto si exequì nella sua camera, dove stava inferma»104 con un temporaneo miglioramento di salute. Essendo la sua casa distante dal convento domenicano: «Iddio gli provedde un padre detto ser

98 A. CAPOCCHI, Vita della Ven. M.re Suor Maria Bagnesi, 1577 [trascritta da Campi A.]; Serie II B. Maria Bagnesi, III.18, 2r. 99 L.c. 100 Ibid., 3r. 101 Ibid., 3v-4r. 102 L.c. 103 Ibid., 4v. 104 Ibid., 11v-12r.


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Agostino Campi da Pontemoli huomo di molti buoni costumi, il quale reggeva la Pieve del Borgo, a san Lorenzo di Mugello»105. Come per molte donne devote: «Cominciò ella, a confessarsi e comunicarsi frequentemente»106 e nelle pagine seguenti si sottolineano dei tipici temi dell’ortodossia cattolica, l’unione della fede alle opere, la devozione per i Sacramenti, i Santi, i rosari indulgenziati, le benedizioni107. La situazione psicofisica non ottimale era aggravata da uno scoraggiamento profondo, che veniva interpretato come «grandissime tentatione e travagli dal nimico infernale, il quale gli era un continuo stimolo al cuore, che gli mostrava e sua difetti, ancora che minimi, per indurla a desperatione»108, fino alla tentazione del suicidio109 (dettaglio che si ritroverà nella vita di Maddalena110). «Ardeva di charita e amor di Dio e del proximo»111. Tra le sue doti c’era il dono della consolazione: «molte persone per suo consiglio lasciorno il mondo e divenono servi di Dio: e era molto accorta ne consigli»112 oltre a provvedere con elemosine a ragazze povere e a vari indigenti. Probabilmente questo dono del consiglio insieme ad una particolare fortezza nel portare situazioni personali ed ecclesiali impegnative caratterizzarono la sua «pazienza», come donna forte, contrariamente alla sua fragilità fisica, e suscitarono stima dei suoi contemporanei. Non mancano nella biografia indugi su fenomeni extra-ordinari che andavano da una forte concentrazione a rigidità corporee prolungate: «Dalla santa charità e Amore di Dio ne seguiva una forte elevatione di mente alle cose celesti e alli misterij della Passione di Christo. Vedevasi da molti quella esser rapita in spirito: e durò più mesi, che come si parlava, quella sentendo li sermoni di Dio o altra cosa buona, subito si rizzava in piede nel proprio letto e rimaneva per lungo spatio, come fussi una statua

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Ibid., 12v. Ibid., 5r. Ibid., 5r-6v.18r-19r. Ibid., 7r. Ibid., 7v. PRO I, 126. Ibid., 7v. Ibid., 17v.


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di marmo»113. Per provare l’autenticità di tali eventi ci fu chi giunse a lussarle un dito114. Passando all’analisi delle virtù cardinali, non mancava né di prudenza nel giudizio e negli affari115, ma brillava soprattutto per la fortezza nel sopportare il suo stato continuo di malattia: «Era piena di dolori dal capo insino ai piedi e maxime nelle viscere e lombi e fianchi, dove sosteneva acerbi dolori»116, arrivando a dubitare di una qualche “finzione”. «Et veramente si assomigliò per passione tormenti a Cristo Jesu inchiodata e transfissa e mortificata in croce»117. Notevole era la sua umiltà e la temperanza nei cibi, insieme ad essere ricca di una castità a tutta prova, secondo lo stile del tempo, enfatizzata come «una fanciullina di dua o tre anni»118. Alla sua morte, per diversi giorni il suo corpo fu oggetto di venerazione popolare119, fino alla sepoltura, dopo un corteo trionfale, presso il Monastero carmelitano di S. Maria degli Angeli120, sotto l’altar maggiore. E tra i tanti episodi, un frate malcontento di essere stato coinvolto nel trasporto della salma, ebbe l’impressione di ritrovarsi ai tempi di Gesù: «Mi pareva ch[e] questo fussi, a punto, come quando Jesu Christo vivea in questo mondo e andava per le strade»121. Grande era la stima che circondava la domenicana, non solo da parte delle monache, ma anche da s. M. Maddalena che la percepiva, insieme a Maria SS.ma («il sole»), come la «luna» del Carmelo122. Ella la ammirava quale credente «che ha conosciuto il mio Amore»123 e «sebbene la Madre Suor Maria non aveva tanto scritto, predicato, e fatto libri et condotto apertamente tante creature a Jesu come haveva fatto lei …havendo condotto secretamente molte creature a Jesu con le oratione, e con la sua dolce ed 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123

Ibid., 9v. Ibid., 10v. Ibid., 11v. Ibid., 13v. Ibid., 15r. Ibid., 16v. Ibid., 20r-20v. Lc. Ibid., 21r. QG, 167. QG, 143.


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efficace esortazione… con l’essemplo della sua gran patientia in una si lunga e grave infirmità… e quel che più importa aveva amato Jesu grandemente come Santa Catherina»124. Inoltre attribuiva a lei la guarigione improvvisa (il 16.6.1584, forse da una prima infezione tubercolare) che l’aveva portata a professare in infermeria, temendo le superiore per la sua vita125. Dalle note di possesso, si individuano nella Biblioteca del Carmelo fiorentino, alcuni testi provenienti, a vario titolo non precisabile, dalla Bagnesi: Casoli Lorenzo, Historia Sanctae Crucis (1561 ms); Raimondo da Capua, La vita miracolosa della serafina santa Caterina da Siena, composta in latino da fra e tradotta da A. Catherino de’Politi… (Siena 1524); Belcari Feo, Vita del b. Giovanni Colombini da Siena…, Siena 1541; Brunetto de Iudici da Leonessa, Sollazzo per Combattenti nela vita spirituale (Siena 1548); Alonso da Madrid, L’arte per servire al Signore nostro Dio (Roma 1558); Anonimo, Vita della Madonna e di dodici altre beate vergini…(Venezia 1576). Da questi pochi cenni, è difficile sottovalutare il rilievo avuto dalla comunione stabilita tra realtà apparentemente distanti da valorizzare nella comprensione di s. M. Maddalena.

4.6. Francesco Benvenuti e la presenza dei Gesuiti Secondo suor Gesualda: «L’influenza domenicana non durò molto, e per qualche tempo andò di pari passo con quella della Compagnia di Gesù che poi rimase unica, radicale, continua, destinata ad attraversare i secoli»126. In realtà, ella attingendo da un testo tardivo, settecentesco (Sandrini), ricco di approssimazioni ed imprecisioni, ha segnato un intero filone storiografico, nell’interpretazione delle guide spirituali del Carmelo fiorentino. Il Cepari ricorda che, nel 1551, il Laìnez e altri, avevano preso in affitto una casetta

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QG,

234-235. 182. 126 SUOR GESUALDA, Una gloria carmelitana. Il monastero di S. Maria degli Angeli 1450-1940, pro manuscripto, 24. Il suo lavoro risulta difficilmente verificabile anche perché l’apparato di note è andato parzialmente perduto, ciò nonostante ella ha potuto consultare numerose fonti che meritano una verifica, quando possibile. Parzialmente pubblicato in vari articoli su Il Monte Carmelo 11 (1925-1926) 134ss.


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nel fondo di S. Spirito, presso S. Frediano, ed essi assistettero per qualche tempo le monache quali confessori, in deroga ai propri ordinamenti127. Dopo quasi trent’anni, non fu facile la successione del Campi. Rispetto al curato di origine montana, paterno e spontaneo, non coltissimo ma devoto, il tipo di approccio offerto dal Benvenuti, di origine cittadina, canonico penitenziere del duomo, nominato d’ufficio dal cardinale, non poteva essere più diverso. Sono conservate diverse sue predicazioni di impostazione dogmatica128. Di lui avevano raccolto questa testimonianza da parte di s. M. Maddalena: «Vedeva poi in detto giardino dua circuiti di edifitii, uno che era molto spatioso e largo ma poco alto; l’altro più stretto, ma bene molto più alto… L’altro circuito era quello che doveva edificare questo altro nuovo padre, il’ quale non era tanto grande in larghezza, per non havere a vivere tanti anni nel’ nostro spiritual governo (secondo che intendeva lei), ma bene molto più alto per haverci a condurre, con l’aiuto del’ Signore, a una maggior perfetione, se da noi non verrà l’impedimento»129. Egli introdusse come confessori straordinari i Gesuiti: dal 1593 al 1595 Nicolò Fabbrini, nato a Firenze nel 1555, che ebbe il merito di confermare la santa sull’origine delle sue esperienze130, dal 1598 Virgilio Cepari (1565-1631, rettore del Collegio dei Gesuiti di S. Giovannino)131, richiesto confessore, anche se non estraneo a note rigoristiche nella sua impostazione morale e ascetica132 che oggi suscitano non poche perplessità. Questi propose l’orazione mentale in comune133, come pratica a se stante, indipendente dalla liturgia (e non si sa se questo sia stato un vero passo avanti), anche se rimase un atto libero da parte delle monache.

127 Cfr V. CEPARI, Vita della Serafica Vergine s. Maria Maddalena de’ Pazzi fiorentina, Roma 1669, 37. 128 Serie IV Memorie Confessori, I.27B; 27C; 27D; 27F; 28-38. 129 PRO II, 30. 130 PRO II, 223-225. 131 Serie IV Memorie Confessori, I.6; cfr il commento entusiasta del Petrocchi, che si sofferma sull’analisi di una sola opera dell’autore: M. PETROCCHI M., Storia della spiritualità italiana, Torino 1996, 168-170. 132 Cfr V. CEPARI, Breve istruzione appartenente alle superiore che hanno cura d’Anime (senza segnatura). 133 Cfr Libro nero, fasc 24, 1-6, lettera del Cepari 9.11.1598, Serie I S. Madre, II.46.


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In Archivio si trovano dei testi classici della formazione gesuitica come il Direttorio (in forma manoscritta), alcune lettere di s. Ignazio134, del p. Acquaviva135 e relazioni dei missionari136. Del p. Ribadenera Pietro SJ è a tutt’oggi disponibile la Vita del P. Ignatio di Loiola… (Venezia 1586). Dal 1599, poi, come risulta dall’epistolario dei confessori, sempre il Cepari introdusse nel Carmelo di Firenze gli Esercizi ignaziani137 che s. M. Maddalena praticò ed accompagnò per le sorelle138. Tra gli altri gesuiti che frequentarono il monastero si ricordano Michele Geronimo (sivigliano, 1554-1623) e il fiorentino Ottavio Gondi (1549-1607), devoto alla De’ Ricci. Il clima aperto e ricco di scambi che caratterizzava tali presenze, viene anche segnalato da alcuni testi ancora presenti in Biblioteca provenienti dal Benvenuti: Fabrini Sebastiano, Dichiarationi del giubileo dell’anno santo (Roma 1500 – regalata nel 1574); Granata Luigi, La quinta parte della Introduttione al Simbolo della Fede… (Venezia 1590); Razzi Serafino, La vita della rev. serva di Dio la madre suor Caterina de’ Ricci… (Lucca 1594 – regalata nel 1595); Bonfigli Aurifico, Specchio monacale… (Firenze 1591 – donato dal Benvenuti 1593). Dal Fabbrini, invece, sarebbe stata regalata del Granata Luigi OP, Della introduttione al Simbolo della Fede, parti quattro; Breve Trattato aggiunto nel quale si dichiara la maniera che si potrebbe tenere in proporre la dottrina della nostra Santa Fede e religione Christiana alli nuovi fedeli (Venezia 1587). S. Maddalena, che aveva avuto la ventura di avere dei confessori gesuiti che l’avevano introdotta alla pratica dell’orazione da bambina, stimava lo spirito ignaziano pur senza idealizzarlo, come avrebbero fatto delle sue consorelle biografe. Infatti, al di là di alcuni generali richiami all’umiltà di s. Ignazio (1594)139, ella ammirava la loro apertura missionaria: «Nel leggersi a mensa la conversion dell’Indie o del Giappone tanto gustava 134 Copia di una lettera del N.ro Padre Ignatio alli Padri e Fratelli di Portugallo [e altri scritti di pietà], Serie IV Memorie, I.16. 135 Miscellaneo, Serie IV Memorie, I.12. 136 Summarium actionum, virtutum et miraculorum S. Dei M. Magdalenae de Pazzis OC: ex Processu Remissoriali Desumptorum, cit., 66.68.71.73-74. 137 Lettera del p. V. Cepari in Serie IV Memorie Filza E. PP. Gesuiti, n. 2, 16.11.1599. 138 Cfr RC 294-297. 139 PRO II, 232-235.


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di tal cosa che sdimenticava di cibarsi, consumava il tempo della mensa in lacrime e in atti di desiderio di cooperare a quella conversione e specialmente desiderava di poter havere quei parvolini e instruirli ne principii della fede christiana e battezzarli»140. Inoltre, apprezzava molto l’attenzione all’introspezione e all’opera personalizzante dello Spirito in ciascuna creatura, valorizzata dai figli di Ignazio: «Il più felice spirito che regna oggi in terra è quel di Ignazio, perché i suoi figliuoli nel condur le anime a Dio procurano principalmente di dar notizia quanto è grato a Dio e quanto importa attendere all’opere interne» (1599)141, così come la loro attenzione «alle interiori spirazioni»142. Ciò fatto salvo, occorre sottolineare come, in tale periodo, il pensiero maddaleniano era già abbondantemente delineato se non completo nell’espressività delle opere maggiori mentre, dello stile “monastico” carmelitano, ella continuava a stimare grandemente pratiche lontane dalle scelte dei gesuiti come, ad esempio, la liturgia corale.

4.7. Le fonti gesuitiche e il Compendio di Perfezione del Gagliardi S. M. Maddalena aveva, probabilmente, portato con sé in monastero, del Loarte, Instruttione et Avertimenti per meditare la Passione di Christo Nostro Redentore… (Roma 1571) insieme al Per incaminar uno a far oratione mentale cavata dal libro del Conforto de gli Afflitti (Macerata 1577). Oltre a quanto già segnalato riguardo alle fonti gesuitiche che ebbe modo di conoscere al Carmelo, un cenno a parte va fatto riguardo ad una copia manoscritta del Compendio di Perfezione (1585-1586)143, in uso, secondo le monache, alla santa. Questo testo fu redatto dal gesuita Gagliardi a seguito dell’intenso confronto spirituale che egli ebbe con la dama milanese Isabella Berinzaga.

140

Summarium actionum, virtutum et miraculorum S. Dei M. Magdalenae de Pazzis ex Processu Remissoriali Desumptorum, cit., 72. 141 PRO II, 258-259. 142 PRO II, 260; RC 165. 143 Cfr T. ZANINELLI, S. Maria Maddalena de’ Pazzi e l’ambiente in cui visse, cit., 318; B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 239-249.

OC:


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L’edizione critica curata da Gioia144 ha consentito la possibilità di un confronto, in precedenza, complesso. Fatta salva la sua scelta peculiare, tesa a definire il testo non iniziale, ma seguente alle diverse revisioni dell’autore e alla censura da parte dell’Ordine, la comparazione del manoscritto presente in S. Maria degli Angeli con il testo edito, suggerisce una variazione di collocazione temporale, rispetto alla tesi del p. Secondin che tendeva ad ipotizzare la sua lettura da parte di s. Maddalena intorno ai primi anni del 1600145. Intanto, il testo raccoglie due parti, di cui la seconda nota attraverso un solo manoscritti tra quelli recensiti146. Al di là delle specificità testuali proprie del ms fiorentino, evidenti sono i punti di contatto con i ms più antichi studiati da Gioia (E-F), ma ciò che è più rilevante, si notano dei termini discussi ed epurati dalla censura ordinis (1592) ad essere presenti invariati nel testo maddaleniano. Al termine del “Terzo stato” (di annichilazione), il ms fiorentino recita: «Et per diligentia di questo alto / stato e più sublime di tutti è d’avvertire che e / tanto grande la virtù della libertà che ha la / volontà che ella può rinuntiare a tutto il suo vo-/ lere e a tutta la sua libertà e affatto spogliarse-/ ne come se non l’havesse e questo sponte e libere / e facendo tal rinuntia all’hora la volontà…/ il Signore / li leva, e l’attivo e il passivo e qual si voglia / atto come se prorsus ella non fusse e a questo ella non resistendo anzi con piena delibera- / tione di tal rinuntia concorrendo, viene a di- / ventare non volontà pratica, cioé che tutte le / opere che fa e fa fare non le vuole quanto a / sè, né le fa per volerle lei, ne anco con volontà / conformissima alla volontà di Dio, ma rinun- / tiando afatto a tutto questo»147. Il testo curato dai censori, invece, sostituisce l’ardito «non fusse» con il più prudente «non havesse proprietà»148. Allo stesso modo, nella conclusione, la copia presente al Carmelo riporta: «Qui l’annichilatione, 144 M. GIOIA, Breve Compendio di Perfezione cristiana. Un testo di Achille Gagliardi SJ, Roma-Brescia 1996. 145 B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 243. 146 M. GIOIA, Breve Compendio di Perfezione cristiana. Un testo di Achille Gagliardi SJ, cit., 168. 147 Compendio della Perfetione Christiana, 56. 148 M. GIOIA, Breve Compendio di Perfezione cristiana. Un testo di Achille Gagliardi SJ, cit., 238.


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spropiatione sottratione / rilucono altissimamente; conformità non vi è / ma molto più, perché la volontà con tal rinuntia / si lega, assorbe e abissa in Dio; e del tutto / vota, resta in quella di Dio sommamente dei- / ficata per totale identità in quella e questa con mo- / do pratico e reale già detto»149. Il testo curato dai censori, invece, sostituisce l’inaudito «totale» con il più prudente «perfetta»150. Tali indizi sembrano suggerire il fatto che il ms fiorentino fornisca una redazione manoscritta previa alla censura ordinis, come tale databile tra il 1585 e il 1592, capace così di partecipare all’elaborazione conclusione del pensiero maddaleniano, forse già durante la probatione, in quanto sembra difficile che dopo una ampia discussione con relativa censura, il ms potesse essere stato fornito senza gli opportuni ritocchi ai quali lo stesso autore si era sottomesso. Rimane aperta la questione sulla provenienza. Certo, è possibile che esso sia giunto nel Carmelo fiorentino proveniente da contesto gesuitico, forse dal locale Collegio. Eppure non bisogna trascurare un’altra possibilità costituita dalla conoscenza esistita tra s. Maddalena e il gesuita francese Pierre Cotton (1564-1626), poi confessore di Enrico IV, sposo di Maria de’ Medici (amica e corrispondente della santa). In Archivio esistono due sue lettere alla santa inedite151. Entrato nella Compagnia in Italia, passò da Arona (1583) a Milano (1585-1587). Una cronaca dell’ordine riferisce che in tali anni incontrò una «pia virgine», probabilmente Isabella Berinzaga, accompagnando il rettore L. Masone, che gli raccomandò di custodire l’umiltà per non essere di danno a sé e alla Compagnia quando avrebbe goduto i favori di una gran re152. Gioia ritiene che la pubblicazione francese del Compendio (1596 e 1598), sia dovuta alla mediazione di Étienne Binet153, confratello del Cotton, ma una possibile mediazione di quest’ultimo nei confronti di s. M. Maddalena non si può escludere. 149 150

Compendio della Perfetione Christiana, 58. M. GIOIA, Breve Compendio di Perfezione cristiana. Un testo di Achille Gagliardi SJ,

cit., 241. 151 152 153

Cfr Serie I S. Madre, II.28. Ibid., 19. Ibid., 20.


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5. UNA FORMAZIONE AL FEMMINILE Per quanto attiene alle letture che concorsero alla formazione di s. Maddalena si offre una rapida carrellata. Partendo dal Breve ragguaglio di Pacifica del Tovaglia154 si annota il fatto che il gesuita p. Andra Rossi, verso i nove anni, consigliò alla giovanissima Lucrezia Caterina il Loarte, per cominciare a fare oratione mentale155. Era nelle abitudine della santa leggere i Vangeli, particolarmente quelli delle liturgia domenicale156, uniti ad alcuni libri formativi come: «le meditazioni del Granada, Loarte, Androtio, e le Meditazioni di s. Agostino»157. Per quanto attiene al Loarte, il monastero conserva due copie delle Instruttioni et Avertimenti per meditare la Passione di Christo Nostro Redentore158 (secondo la tradizione orale delle monache il testo del 1577 sarebbe stato in probabile uso della santa)159. Dell’Androtio,

154 SUOR MARIA PACIFICA DEL TOVAGLIA, Breve ragguaglio della Vita della Santa Madre…, QG, 69-93: 73.75. 155 L.c. 156 Lc.; cfr Summarium actionum, virtutum et miraculorum S. Dei M. Magadalenae de Pazzis OC: ex Processu Remissoriali Desumptorum, cit., 55-57; PRO I, 66. 157 SUOR MARIA PACIFICA DEL TOVAGLIA, Breve ragguaglio della Vita della Santa Madre…, QG, 75; Quanto al Granada, per Ancilli, si sarebbe trattato Dell’obbligo che havemo di servire N. S. per li benefici ricevuti, cavato dalla Guida de’ peccatori del R. P. Luigi de’ Granada, Macerata 1577; Per il Secondin, invece, si potrebbe trattare delle Meditationi molto devote sopra alcuni passi e misteri della vita del nostro Salvatore…, Pietro Bonfanti da Bibbiena (ed.), tradotte a Venezia a partire dal 1576 in B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 103 n. 53. 158 G. LOARTE, Instruttioni et Avertimenti per meditare la Passione di Christo Nostro Redentore…, Roma 1571 e ID., Instruttione et Avertimenti per meditare la Passione di Christo Nostro Redentore…, Roma 1572; LUIGI DA GRANATA, Dell’obligo ch’ havemo di servire N. S. per li benefici ricevuti cavato dalla Guida de’ Peccatori, Appresso Sebastiano Martellini, Macerata 1577; G. LOARTE, Per incaminar uno a far oratione mentale cavata dal libro del Conforto de gli Afflitti; Appresso Sebastiano Martellini, Macerata 1577. 159 Secondin fa notare che nel Ricordo delle cose che erano al tempo della nostra santa Madre (Serie I S. Madre, III.69) si riporta il dono al granduca di un libretto sulla Passione con autografo che a suo parere sarebbe il Loarte maddaleniano (B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 101-102 n. 44). Ciò fatto salvo, chiunque conoscesse gli usi di un monastero, non solo cinquecentesco, sa bene che assai di rado un libro apparteneva in modo esclusivo ad una monaca, fosse pure una santa. La situazione normale era ed è la circolazione e lo scambio, seppure dietro richiesta alla priora, delle varie copie dei libri disponibili.


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si fa l’ipotesi della Meditatione della vita e morte del nostro Salvatore Giesu Christo, della frequenza alla Comunione, e dello stato lodevole delle vedove a tutte le persone che desiderano vivere spiritualmente (Milano 1579). Per le Meditazioni di s. Agostino la situazione è ancora più complessa. È noto che nel XVI secolo, sotto il nome di Meditazioni di s. Agostino, era raccolto un florilegio di autori del XII secolo, tra cui Jean de Fécamp, s. Bernardo, Ugo di S. Vittore e s. Anselmo. Si trattava di una raccolta raccomandata dai Gesuiti Nadal (1561) e Mercuriano (1580) per la lettura comune del refettorio160 con varie edizioni in volgare a Venezia a partire dal 1558. In monastero ne esiste una copia del 1585.

5.1. I libri cinquecenteschi della Biblioteca monastica: Bibbia e Padri Ovviamente, a distanza di circa cinque secoli, ed in mancanza di una schedatura completa, riesce difficile tracciare un profilo esaustivo ed attendibile dei testi presenti in monastero durante la permanenza della santa. Ciò nonostante, qualcosa è possibile dire. Tra i libri di cui esiste ragionevole certezza che s. Maddalena possa aver avuto accesso, in quanto presenti al suo ingresso in monastero, è stata già citata una lista di 38 libri venduti dal padre governatore Agostino Campi da Pontremoli alle monache161 e i testi appartenuti alla Bagnesi, oltre ai regali giunti dal Benvenuti e dal Fabbrini. Sotto l’aspetto biblico, inteso come fonti e commenti, del XVI secolo, sono superstiti nella Biblioteca, un Psalterium Romanum… (Venezia 1580) attribuito, dalla solita tradizione orale, non certo documentabile, alla santa, insieme a due volumi del Possevino Giovan Battista, Delle Dichiarazioni delle Lettioni di tutti li matutini dell’Anno del Breviario Rom e Ambrosiano come si vede nel fine di tutta l’Opera (Ferrara 1592) e ad un volume di Vivaldi Agostino SJ, Mediationi sopra gli Evangelii che tutto l’anno si leggono nella messa…(Roma 1599). 160 P. DE LETURIA, Lecturas ascética y lecturas m# sticas entre los Jesuitas del siglo in Archivio Italiano per la storia della pietà, II, Roma 1959, 39 n. 15. 161 SUOR MARIA PACIFICA DEL TOVAGLIA, Breve ragguaglio della Vita della Santa Madre…, QG, 69-93: 73.75.

XVI,


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Riguardo ai Padri, in senso ampio fino a Bernardo, risultano disponibili: Augustini Hipponensis, Meditationes, Soliloquia et Manuale… [latine] (Venezia 1553) con I Tredici libri delle Confessioni di santo Agostino, tradotti di latino in italiano per il Signore Giulio Mazzini nobile bresciano…(Roma 1595). Non appartengono, invece ad Agostino, Le Devote Meditationi di s. Agostino. Con li Soliloqui, et il manuale. Nella Volgar lingua tradotte (Venezia 1585), riferibili ad autori del XII secolo, tra cui Jean de Fécamp, Bernardo, Ugo di S. Vittore, Anselmo. Di Girolamo sono presenti due opere: Vite de Santi Padri, col Prato Spirituale… (Venezia 1547) e le Epistole di s. Girolamo con una Regola del Temporale e Spiritual vivere per le Monache ne Monasteri (Venezia 1562). Di s. Bernardo, si ritrovano i Sermoni volgari del divoto Dottore s. Bernardo Abate; sopra le solennitade di tutto l’anno, (Venezia 1528, provenienti da altro monastero, ma questa non è questione dirimente); Le Devotissime meditationi di santo Bernardo Abate; con le Meditationi di s. Anselmo, nuovamente dal latino ne la volgar lingua tradotte. Et uno trattato di san Vincentio della vita spirituale in fine (Venezia 1542) e Le Meditationi di s. Bernardo Abate; con le Meditationi di s. Anselmo. E un Trattato di san Vincenzo della vita spirituale in fine (Venezia 1585). Sono, inoltre, disponibili due terze parti del cosiddetto Bonfigli: AA.VV., Terza parte delle Meditationi di Diversi Dottori di S. Chiesa, nuovamente tradotte, e corrette dal R. P. F. Aurifico Bonfigli Senese Carmelitano (Venezia 1583), contenenti testi di Bonaventura, Beda, Vincenzo (OP), Pietro Damiani ed una seconda parte: AA.VV., Seconda parte delle Meditationi di Diversi Dottori di S. Chiesa (Venezia 1584), con testi di Anselmo, s. Bernardo, Ugo di S. Vittore.

5.2. I libri della Biblioteca monastica: testi di spiritualità Per il Carmelo, sono stati individuati: Bonfigli Aurifico, Specchio monacale… (Firenze 1591) come già ricordato donato dal Benvenuti nel 1593, oltre a Gratiano Girolamo della Madre di Dio Della disciplina regolare…, (Venezia 1600) e Cammino di Perfettione… (Venezia 1604) di s. Teresa. Ovviamente, poco si può dire sull’effettiva consultazione da


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parte della santa di questi testi. Non sono presenti testi omiletici di matrice carmelitana. Come è prevedibile, nutrito, pur nei pochi libri ancora consultabili, si presenta il settore agiografico-formativo, a partire dal contesto toscano, ricco oltre degli apporti della Bagnesi dei reportages delle estasi della Caterina Ricci ancora vivente: Ricci C. (De’), Ratti della Madre… [1541-1543]. I principali ordini mendicanti erano ben rappresentati. Per i Domenicani, oltre alle fonti manoscritte del Campi e del Capocchi, si è già fatto cenno alla doppia rappresentanza femminile di Caterina da Siena e di Caterina de’ Ricci da Prato, associata a Razzi S., La vita della rev. serva di Dio la madre suor Caterina de’ Ricci… (Lucca 1594). Sotto il profilo formativo erano presenti anche: Granata Luigi, Della introduttione al Simbolo della Fede, parti quattro; ID., Breve Trattato aggiunto nel quale si dichiara la maniera che si potrebbe tenere in proporre la dottrina della nostra Santa Fede e religione Christiana alli nuovi fedeli (Venezia 1587); Razzi Serafino, La vita et institutioni del sublime et illuminato teologo Giovanni Taulero (Firenze 1590); Taulero Giovanni, Meditationi pie et divote sopra la vita et passione di N. S. Jesu Christo (Venezia 1592). Per i Francescani, oltre alla perduta Vita di s. Francesco del Campi, ancora dono della Bagnesi, si individuano: Alonso de Madrid, Arte per servire al Signor Nostro Dio (Roma 1558) e Specchio delle persone illustri (Roma 1558) associato ai diversi volumi di Marco da Lisbona, Croniche de’ Frati Minori… (II, Venezia 1586; I, Venezia 1591; III, Venezia ?). Sono superstiti ulteriori apporti di matrice certosina come: Landolfo di Sassonia (Certosino), Vita di Giesu Christo nostro Redentore… (Venezia 1576), mentre del celebre Juan d’Avila, maestro spagnolo di vita spirituale, stimato anche a Teresa d’Avila, seppure posto all’indice per la sua contrarietà alla discriminazione dei cristiani di origine ebraica e all’esperienza spirituale delle donne162, non mancava il Trattato Spirituale sopra il verso, Audi Filia, Del Salmo, Eructavit cor meum (Venezia 1581) proveniente dal collegio dei Gesuiti. Delle Canonichesse Lateranensi, infine, va ricordata la raccolta di opere di Battista da Genova, Opere 162 Cfr J. TOUS, Jean D’Avila, in Dictionnaire de la Mystique, a cura di P. Dinzelbacher, Brepols 1993, 426-427; S. PASTORE, Un’eresia spagnola Spiritualità conversa, Alumbradismo e Inquisizione (1449-1559), Firenze 2004, 248-269: 249.


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spirituali della Reverenda et devotissima vergine di Christo, Donna Battista da Genova Canonica Lateranense (Venezia 1588), che può aver avuto un certo rilievo nel delinearsi del profilo spirituale della santa. L’ampiezza degli apporti suggerisce una comunità vivace ed aperta, attenta a quanto maturava nella Chiesa europea ed offriva una formativa estesa e qualitativamente non ordinaria alle giovani che si affacciavano alla comunità monastica carmelitana. Di tanto, anche nell’interpretazione del pensiero maddaleniano, occorrerà tener conto.

6. IL CORPUS MADDALENIANO: UNA QUESTIONE INELUDIBILE Un’ultima questione va accennata. Se con criteri diversificati, ci sono stati dei tentativi sul versante divulgativo nell’offrire antologie con testi riletti in lingua corrente della santa fiorentina, uno studio accademico reclama strumenti differenti sia per quanto attiene all’Archivio che per quanto concerne la Biblioteca monastica. Un primo serio problema è costituito dall’assenza di un vero regesto generale. Esistono solo dei regesti parziali, risalenti agli anni ’40, in cui i volumi a stampa recensiti sono ordinati per altezza. Per i manoscritti la situazioni si presenta assai complessa, sia per il fatto che i lavori scientifici realizzati in questo secolo riportano collocazioni che per varie ragioni (come restauri, perdite di segnatura, ecc.) sono solo in parte rispettate, sia per furti subiti che per perdite occasionali, fatti che non consentono più di identificare la collocazione di alcuni testi ben conosciuti o comunque attestati in Archivio o in Biblioteca. Occorrerebbe valutare con serietà, da parte del monastero, intanto, l’opportunità di una revisione del regesto che conservando memoria delle precedenti segnature (con divisioni per palchetti troppo precarie e generiche, con numerose coincidenze nell’ordine di sequenza, senza indicazione di numero di serie sulle segnature dei volumi, ecc.), consentisse almeno una ricerca telematica di base, potendo sempre procedere ad ulteriori affinamenti di sistema. Per l’Archivio, intanto, sarebbe necessaria la recensione dei codici e volumi effettivamente ancora presenti e una loro organizzazione organica per settori (santa Maddalena; beata Bagnesi; Confessori; Monache; Monastero) e non per serie frammentate.


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6.1. Le fonti maddaleniane: “Testi originali” e Vita Nel regesto dell’Archivio presente a Santa Maria degli Angeli, connotati dalla serie I, sono indicati cinque manoscritti come “testi originali” (Quaranta giorni; Colloqui; Revelatione e Intelligenze; Probatione; Renovatione della Chiesa163) che riporterebbero le parole della santa. Si tratterebbe quindi, come è ben noto, non di fonti autografe, ma di prodotti redazionali delle consorelle attraverso un elaborato e complesso processo, noto ma mai investigato con criteri sistematici. Dopo una questione teresiana164, sembra doversi sollevare, in forma ovviamente diversa, una questione maddaleniana che non mette in dubbio la sostanziale fedeltà di un intero gruppo di lavoro che si è mosso con estrema dedizione, ricco di confronti e aperto alle osservazioni. Ma uno studio scientifico richiede oggi un approccio più maturo ed impreziosito di quanto gli studi paleografici e filologici potrebbero offrire ad una comprensione sempre più vera e non precostituita dell’oralità maddaleniana. Come per Teresa di Lisieux fino agli anni ’50, ad oggi manca un’edizione critica e i volumi editi negli anni sessanta costituiscono una sorta di textus receptus che non offre alcun tipo di apparato scientifico riguardo alla presenza di più redazioni degli stessi testi, all’indicazione della recensione utilizzata, fino all’assenza di indici, tematici, biblici, patristici, che rendono ardui la consultazione e lo studio. Per ciò che concerne i “testi originali” custoditi nell’Archivio, non si mette in discussione la loro autenticità globale. Ma complessa è la storia della loro redazione insieme a quella della Vita, sia nella loro genesi che nella loro forma finale destinata alla pubblica lettura, processo esteso per oltre un ventennio, con la collaborazione di un intero team di lavoro, diretto presumibilmente dalla madre Evangelista del Giocondo. Di esso fecero parte molte redattrici, tra cui Pacifica del Tovaglia, Angelica del 163 SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Quaranta giorni, Serie I S. Madre, II.44-45 (sono presenti due recensioni); Colloqui Serie I S. Madre, II.43; Revelatione e Intelligenze [Otto giorni dello Spirito Santo] Serie I S. Madre II.41; Probatione Serie I S. Madre, II.42; Renovatione della Chiesa, Serie I S. Madre, II.39. 164 Come è noto, rilevante è stato il ruolo di Madre Agnese di Suor Celina nella divulgazione dei testi di Teresa. Solo negli anni cinquanta si arrivò, gradualmente, alla pubblicazione degli autografi. Cfr G. GENNARI, Teresa di Lisieux. La verità è più bella, Milano 1974.


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Giocondo, Veronica Alessandri, Maria Maddalena Mori, Costanza Morelli e Maria Eletta Orlandini. Diverse furono le metodologie usate dalle sorelle per annotare le sue parole. Parte vennero trascritte in presa diretta, con problemi connessi sia alla comprensione di ciò che diceva, sia la memoria delle “segretarie”: «In queste tre hore che stette così, in questo dì, e nelli altra dua passati, disse molte cose, delle quale non ci siamo così appunto potute ricordare; né anche queste che habbiamo scritte si sono potute dire in quel modo bene come lei diceva»165. In altri casi: «diceva tanto piano che non la potevamo intendere»166. Per i Colloqui, invece: «Doppo alcuni santi ragionamenti, gli cominciammo a domandare quello ch’el Signore s’era degnato comunicarli la notte del Santo Natale»167, chiedendo spiegazioni appena possibile: «Ma passato alquanto spatio si quietò, e noi l’interogamo di alcune cose circa il ratto che haveva havuto il dì medesimo»168. Il team, insieme ad altre monache, fu a più riprese interpellato nelle scelte di selezione e revisione del testo elaborato169. I testi, infine, furono infine completati dall’intervento di supervisori-censori come il Benvenuti, il Fabbrini e il Cepari, scelti tra governatori e confessori. Tutto questo, però, andrebbe esplicitato e valutato anche in ragioni di alcuni materiali recentemente recuperati come sarà illustrato nel paragrafo 6.3. In attesa, quindi, di lavori specialistici in merito, si ipotizzano almeno sei livelli redazionali: 1) raccolta di appunti veloci da parte di una o più sorelle in presa diretta o nei colloqui della santa con la maestra o la priora; 2) prima sintesi degli appunti; 3) limatura della sintesi con tagli, accorpamenti, correzioni170; 4) sintesi finale171; 5-6) “testo originale” e lavoro dei supervisori. 165 166

QG,153.

Ibid., 179. CO I, 51. 168 PRO I, 44. 169 Interessante una breve annotazione trovata appuntata ad una delle redazioni: «Ricordo come questa rubrica ha ire nella notte del ratto della probazione del Padre Eterno; e s’avvertisca che di dua rubriche longe se ne è fatta una sola, e ha da scriversi nel luogo della prima; e l’altra non ne pigliar punto» in Bozze de’ Colloqui (senza segnatura). 170 Bozze de’ Colloqui (senza segnatura). 171 L.c. 167


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Nel caso poi, del testo della Vita (1609), pubblicata in prima edizione con il nome del Puccini172, il lavoro di collaborazione-recensione da parte di diverse sorelle venne completato da loro osservazioni anche successive al testo a stampa173. Per la Vita si potrebbero, quindi, distinguere i successivi stadi: 1) raccolta di testimonianze da parte delle sorelle o sotto forma di autografi o dichiarazioni; 2) redazione di varie bozze (a giudizio di Secondin nel materiale indicato sotto questo nome in Archivio nell’ordine I - IV - Libro nero dipendente da IV - III - II174); 3) ms del Puccini del 1607; 4) testo a stampa del Puccini del 1609; 5) osservazioni delle sorelle sul testo a stampa del 1609; 6) nuova edizione a stampa del 1611175 ed edizioni successive con integrazioni ed interpolazioni. È chiaro che ogni studio odierno richiederebbe testi complessivi criticamente fondati da un confronto puntuale di questa messe di dati. Tale intenso lavorío va, nei limiti del possibile, chiarito e delineato non solo per cenni. In attesa che ci possano essere tali approfondimenti, è chiaro che qualsiasi studio che si dovesse preparare per il centenario, per motivi legati al tempo disponibile, non può che riferirsi, in prima istanza, ai testi editi. Ciò è accettabile solo come situazione di transizione, specificando con onestà scientifica la complessa problematica testuale accennata.

172

Serie I S. Madre, III.20. Il Regesto disponibile, oltre al ben conosciuto 1) Breve ragguaglio della Vita della Santa Madre fatto dalla Madre Suor Maria Pacifica del Tovaglia (Serie I S. Madre, II.47), ricorda: 2) [Testificazioni delle monache fatte avanti al P. Governatore per la vita della Madre Sr. M. M.] (Serie I S. Madre, II.15-16); 3) quattro Bozze della vita della Santa Madre (senza segnatura); 4) Sunto della vita della Santa Madre (senza segnatura); 5) Libro nero [Vita della Santa + estratti delle parole] (Serie I S. Madre, II.46); 6) Attestazioni fatte dalle religiose allor viventi sopra la vita della S. Madre (Serie I S. Madre, II.19); 7) (Senza titolo) [Attestazioni fatte dalle religiose (M. Evangelista, priora, Pacifica del Tovaglia, ed altre) sopra ciascun capitolo della vita stampata della S. M. scritta dal R. Messer Puccini Governatore del Monastero (comprensiva della vita stampata del Puccini del 1609)] (Serie I S. Madre, II.20); 8) Cose da aggiungere alla vita della S. Madre cavate dall’esame fatto delle monache che avevano convissuto con lei (Serie I S. Madre, II.14). 174 B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’Pazzi, Esperienza e Dottrina, cit., 85 n. 300. 175 Serie I S. Madre, III.18. 173


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6.2. Lettere e Ammaestramenti Qualora la situazione non fosse già sufficientemente impegnativa, una differente riflessione va condotta per Lettere176 dette “famigliari” (in senso parzialmente lato), mentre per gli Ammaestramenti, la tradizione non è pervenuta ad un “testo originale”. Per le prime non si è condotto mai un lavoro completo sulla collocazione degli originali e sulla ricognizione delle principali copie disponibili, tenuto conto del fatto che, in gran parte, esse sono state dettate dalla santa. In monastero esiste una collezione assemblata nel 1747 sec. da Giovanni Carlo Barsotti177 in cui sono affastellati i documenti disponibili con un ordine singolare. In tale fascicolo, non solo le lettere sono state riunite praticando dei fori nei margini laterali dei fogli per l’introduzione di un nastrino, ma non si è ritenuto porre distinzioni tra originali e copie. A tali fascicoli di lettere inviate e ricevute da s. Maddalena, nel corso del tempo sono state allegate, senza indicazioni, altre lettere, tra cui c’è la ragionevole probabilità si possa identificare qualche originale, ritornato in Archivio dopo essere stato “custodito” in qualche altro luogo del monastero o pervenuto per donazione non ufficiale178. A questi testi, sono state accluse due fotocopie riproducenti copie o originali non più localizzabili. Delle lettere che sembravano smarrite sono state nuovamente individuate, come quella della regina Maria de’ Medici alla santa (probabilmente originale). L’insieme va censito, ordinato e descritto prima di renderlo accessibile per qualsivoglia consultazione o catalogazione definitiva. Per quanto attiene il materiale che più ha circolato sotto il nome di s. Maddalena: gli Ammaestramenti, la condizione di attendibilità testuale, se possibile, risulta peggiore. Simili a Novissima Verba di s. Teresa di Lisieux, gli Ammaestramenti furono redatti sotto forma di vari aforismi sul carattere prevalentemente ascetico della vita monastico, sicuramente in continuità con lo stile pratico 176

Serie I S. Madre, II.39. Serie I S. Madre, II.28. 178 Cfr E. ANCILLI, Studio positivo sui manoscritti originali di s. Maria Madd. De’ Pazzi. Dissertatio ad lauream, cit., 103-116. 177


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delle letture gradite in contesti monastici femminili. Essi, anche nell’edizione degli anni ’60, presentano un grado di certezza documentaria più precaria degli altri, con un’abbondante messe di inediti presenti (e non schedati) nell’Archivio monastico179. I due manoscritti conosciuti sarebbero databili verso la metà del sec. XVII180. È stato identificato di recente un altro manoscritto, in Biblioteca, che attende di esser correttamente datato, in quanto posto in successione ad un testo a stampa del 1624181. Se fosse contemporaneo o di poco successivo al materiale a stampa, potrebbe costituire un testimone da valutare con attenzione.

6.3. Un’opportunità preziosa Non si può sottacere il fatto che un fattore che ha contribuito a non favorire il progredire delle ricerche è stata la permanenza di tutto il materiale in area del monastero sottoposta a clausura. Se da una parte tale situazione peculiare lo ha preservato dalla dispersione ed ha garantito una preziosa continuità tra vita e storia, ha costituito, innegabilmente, una difficoltà in più. Oggi, per la sentita e partecipe attenzione della priora e dell’intera comunità monastica, riguardo una conoscenza più attenta e scientifica della santa, nei modi più rispettosi della vita delle sorelle, tale significativa difficoltà potrebbe essere opportunamente superabile. Per quanto noto in bibliografia, non risulta che siano mai stati identificati frammenti dei primi appunti delle consorelle che redigevano le narrazioni maddaleniane. Un’analisi del materiale ancora presente in Archivio, tanto nella parte parzialmente censita dal regesto, quanto in fascicoli “residuali”, intrapresa per una rilettura telogico-spirituale dell’esperienza spirituale di s. Maddalena, ha regalato, negli ultimi mesi, delle interessanti novità. 179

Detti cavati dai Ratti della Santa Madre per quando si volesse ristampare i Ricordi (senza segnatura). 180 Serie I S. Madre, II.10; II.9. 181 SANTIO DI S. CATERINA (REL. FUGLIENTINO), Punti d’Humiltà…, Roma 1624 (senza segnatura) [contiene Copia ms degli Ammaestramenti della Santa, sp, prima metà del sec. XVII?].


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Oltre alla possibilità di una rinnovata contestualizzazione ecclesiale del vissuto maddaleniano grazie alle fonti manoscritte riguardanti la beata Bagnesi e i confessori, si ritiene che parte del materiale registrato in studi precedenti come identificato “in fondo ad un armadio senza segnatura”182 ma non sottoposto ad analisi puntuale forse per tipo di taglio scelto nel lavoro, potrebbe offrire, seppure limitatamente alla sezione iniziale dei Colloqui, un interessante saggio se non di tutte le redazioni parziali, di numerosi livelli redazionali, tanto da arrivare vicini o assai vicini alle prime sintesi. In appendice si fornisce un saggio del materiale che si ipotizza più antico repertato e che si spera di sottoporre, in seguito, ad accurata valutazione paleografica e filologica. La prima edizione completa dei “testi originali” degli anni ’60, pur meritoria, risulta così ampiamente datata per uno studio criticamente fondato. Essa ormai è accessibile solo in biblioteche. In mancanza d’altro, rimane insostituibile, pur nei limiti accennati.

7. CONCLUSIONE Dall’insieme dei diversi elementi addotti nello studio dei materiali presenti nell’Archivio del Carmelo maddaleniano e di altri ad essi correlati, pur con i limiti esplicitati all’inizio, è difficile negare che la situazione ambientale in cui la santa fiorentina si trovò a vivere, risultasse tra le più favorevoli. Sia la condizione politica di Firenze, sia la presenza in essa di tradizioni religiose antiche e nuove tra le più importanti, che si intrecciavano nei parlatori del monastero carmelitano lasciando un segno nelle letture, rivelano un quadro forse unico tra i Carmeli italiani coevi, sia appartenenti alla Congregazione mantovana, che dipendenti dal generale come la Croce di Lucca in Napoli183.

182 T. ZANINELLI, S. Maria Maddalena de’ Pazzi e l’ambiente in cui visse, Tesi di licenza, Università di Friburgo, pro manuscripto, Locarno 1986, 115-116. 183 Cfr C. VASCIAVEO, Il Giardino delle Carmelitane, Siena 2003, 125-127.


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Anche l’uso dei prestiti e dei regali, sottolinea la profondità degli scambi e degli approfondimenti che avvenivano nella Chiesa e nel Carmelo fiorentino tra diverse istituzioni religiose, tra religiosi e clero diocesano, tra religiosi e laiche. Si trattava, a quanto pare, di una comunità aperta a quanto maturava non solo in Italia, ma in Europa. E, questo insieme, peculiare in simile apertura di comunione, unito alla testimonianza delle sorelle nella struttura biblico-liturgica della vita carmelitana quotidiana, andò a costituire un humus culturale invidiabile per la maturazione dell’esperienza spirituale di s. Maddalena di Firenze di cui occorrerà tener conto in modo adeguato, a fianco e a sostegno, dell’opera dello Spirito.


Sezione miscellanea Synaxis XXVI/1 (2006) 87-125

ISTITUZIONI DI CRISTIANITÀ A CATANIA NEL ’400*

ADOLFO LONGHITANO**

1. INTRODUZIONE: CRISTIANITÀ, MODELLI GIURIDICI E ISTITUZIONI SPECIFICHE I molteplici contesti nei quali il termine “cristianità” è adoperato nei testi classici e nella storiografia mi obbligano a qualche precisazione preliminare. Consapevole delle difficoltà che comporta un sua spiegazione approfondita, mi limito a indicare il significato più frequente dato dagli autori nelle diverse discipline1 e quello che ritengo più funzionale ad uno storico delle istituzioni per lo sviluppo del tema prescelto.

*

Prolusione tenuta all’inaugurazione dell’Anno accademico 2005-2006 dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Professore emerito di Diritto canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Fra i numerosi studiosi che si sono proposti di individuare i significati di “cristianità” vedi in particolare: J. RUPP, L’idée de la Chrétienté dans la pensée pontificale des origines à Innocent III, Paris 1939; J. VAN LAARHOVEN, “Christianitas” et Réforme Grégorienne, Studi Gregoriani 6 (1959-61) 1-98; G. ALBERIGO, La fede cammina nella storia. Note sulla “cristianità”, in Chiese nelle società. Verso un superamento della cristianità, Torino 1980; La cristianità dei secoli XI e XII in Occidente. Coscienza e strutture di una società. Atti della ottava Settimana internazionale di studio, Mendola, 30 giugno – 5 luglio 1980, Milano 1983. Le relazioni ai due colloqui di Bologna Forme e problemi attuali della cristianità, 11-15 maggio 1983 e Prospettive di ricerche sulla cristianità, 9-11 gennaio 1984, pubblicate in Cristianesimo nella storia 5 (1984) e 6 (1985). A. MELLONI, Innocenzo IV. La concezione e l’esperienza della cristianità come «regimen unius personae», Genova 1990; G. RUGGIERI, Escatologia e cristianità, introduzione a La cattura della fine. Variazioni dell’escatologia in regime di cristianità, Genova 1992, VII-XXXI.


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Con il termine “cristianità” si può intendere: a) l’insieme delle nazioni i cui membri — soprattutto a partire dalla formazione del Sacro Romano Impero — avevano la coscienza di appartenere ad uno stesso gruppo, la cui comune cultura era determinata dal battesimo cristiano; b) la situazione dei rapporti tra Chiesa cristiana e società in cui l’alterità originaria dell’esperienza cristiana rispetto agli ordinamenti terreni cede il posto ad una fusione delle due realtà, che annulla le differenze tra la Chiesa e le strutture del mondo civile in forza di una loro supposta integrazione coerente dentro l’orizzonte cristiano; c) un modello di organizzazione giuridica della società in un determinato periodo storico, che prevedeva l’integrazione dei principi cristiani nel costume e nella vita sociale e la presenza di due distinte autorità, quella ecclesiastica e quella civile, chiamate a governare la società con competenze non chiaramente definite; d) un progetto e un modello ideale per definire il ruolo della Chiesa nella società. Più che di definizioni si tratta di descrizioni di un fenomeno dal particolare angolo visuale dello studioso, che di volta in volta sembra accentuare l’aspetto storico, teologico, giuridico, apologetico. Se il fenomeno si considera dal punto di vista giuridico, si metteranno in luce gli elementi di organizzazione unitaria di una realtà sociale alquanto complessa, che assume caratteristiche proprie sotto l’influenza di particolari condizioni di luogo, di tempo, di cultura, di tradizioni, ecc2. Un rilievo metodologico è sottolineato preliminarmente dagli storici del diritto: dovendo prendere in esame un fenomeno che nasce e si sviluppa in epoca medioevale, è necessario un uso attento di termini e categorie giuridiche che risentono di significati strettamente legati all’ordinamento della società moderna e contemporanea. Si tratta della terminologia-base che dovremmo adoperare per affrontare questo tema — “diritto”, “Stato”, “sovranità”, ordinamento giuridico, legge, ecc. — e che ritroviamo nei testi medievali con significati diversi. 2 Per gli aspetti giuridici del tema si vedano: F. CALASSO, Medioevo del diritto, I, Milano 1954; M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994; P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari 1995.


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Quando oggi si adopera il termine “diritto” il nostro pensiero va al prodotto dello Stato liberale moderno dove — fa notare Paolo Grossi — «il problema della produzione giuridica è sottratto ad enti diversi, riservato allo Stato stesso, e risolto — nella sua quasi interezza — nell’unico canale obbligato della legge, espressione della volontà esclusiva del macrocosmo Stato»3. Ma la società medievale «è una società senza Stato, dove, per il permanere di questo vuoto politico, il diritto vede elevato il suo ruolo, si pone al centro del sociale, rappresenta la costituzione duratura al di sotto della (e al riparo dalla) episodicità della politica spicciola [...]. Ecco come dobbiamo accostarci al diritto medievale: come a una grande esperienza giuridica che nutre nel suo seno una infinità di ordinamenti, dove il diritto — prima di essere norma e comando — è ordine, ordine del sociale, moto spontaneo, cioè nascente dal basso, d’una civiltà che si autotutela contro la riottosità dell’incandescenza quotidiana costruendosi queste autonomie, vere e proprie nicchie protettive per i singoli e per i gruppi. La società si impasta di diritto e sopravvive perché è essa stessa, prima di tutto, diritto, per il suo articolarsi in ordinamenti giuridici»4.

L’esperienza giuridica medievale, percorsa e formata da dottrine, idealità, valori, tendenze, è quella di una società che si definisce “cristiana”, che si propone di attuare l’integrazione dei principi del cristianesimo nella vita privata e nella vita pubblica e si articola in una molteplicità di ordinamenti particolari, che possiamo definire: «schemi capaci di ordinare la realtà in grazia della propria specificità»5. Se il medioevo giuridico è un mondo di ordinamenti, cioè di autonomie, non dobbiamo dimenticare che carattere essenziale di ogni autonomia è la relatività; si tratta di indipendenze relative. L’entità autonoma non appare mai come una qualcosa che per se stat, avulsa da tutto il resto; anzi è pensata come ben inserita al centro di un fitto tessuto di relazioni che la limita, la condiziona ma anche le dà concretezza6. Anche il termine “Stato” ha bisogno di qualche chiarimento prima di essere adoperato nell’analisi della società medievale. Come fa notare lo 3 4 5 6

Ibid., 50. Ibid., 31. Ibid., 30. Ibid., 48.


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stesso Paolo Grossi, il medioevo politico ha inizio con la crisi dello Stato imperiale che si avverte nel secolo IV, trattenuta a stento fino a Diocleziano, ma che man mano si manifesta in modo sempre più evidente: crisi di effettività, di autorità, di credibilità. Dopo Diocleziano sopravvive solo uno Stato crisalide, incapace di affermare la propria volontà ma più ancora incapace di esprimere quella volontà unitaria, sostitutiva e intollerante di volizioni particolari e concorrenti, che è tipica di ogni struttura autenticamente statuale, ossia resta un non Stato. Il vuoto lasciato dallo Stato romano non sarà che parzialmente colmato per tutto l’arco della vita storica del medioevo, e quando, col secolo XIV, la vocazione a un potere politico compiuto — se vogliamo lo Stato — rappresenterà il fermento delle strutture politiche, quel momento sarà l’eclisse della civiltà politica medievale e l’inaugurazione dell’età nuova. Nel medioevo diverse organizzazioni politiche si contendono la guida della società: signorie laiche, signorie ecclesiastiche, città libere; si hanno anche esempi di tiranni muniti di tutta l’assolutezza di poteri umanamente pensabile o assetti oligarchici e “democratici” con determinati poteri di evidente origine pattizia, ma certamente non avremo mai la presenza d’un organismo totalitario, naturalmente teso a controllare, regolare, assorbire ogni rapporto intersoggettivo che si verifichi entro il suo definito oggetto territoriale7. Un discorso analogo può essere fatto se passiamo ad analizzare il termine “sovranità”. Si tratta di una espressione verbale tipica del diritto feudale, che tuttavia viene adoperata nel significato di “superiorità” di un soggetto all’interno di un complesso rapporto gerarchico. Secondo l’espressione di un commentatore francese di consuetudini feudali, ciascun barone è il superiore nella sua baronia; ma — come fa notare Paolo Grossi — quella baronia rappresenta soltanto un grado, relativissimo, della complessa scala gerarchica feudale8. Una sovranità intesa in questo significato non ha nulla a che vedere con la sovranità di uno Stato moderno. Infatti se la volontà veramente sovrana è quella volontà capace di agire su tutti gli oggetti senza che nessun diritto positivo sia in grado di limitarla; se ci troviamo dinanzi ad un ordine valido solo per la sua forma e si caratterizza per assolutezza e astrattezza, allora 7 8

Ibid., 43-44. Ibid., 49.


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«una siffatta volontà non può aver cittadinanza nell’universo che ci accingiamo a esplorare. Al “sovrano” si addice la solitudine in grazia di quella assolutezza e di quella astrattezza, ma nel grande ordine giuridico medievale nessuno è mai pensato come una monade isolata; lo stesso Romano Pontefice, il personaggio che, munito della plenitudo potestatis conferitagli dalla scienza canonistica, può apparire come il più solo, deve quella pienezza unicamente alla sua funzione vicaria, è ricolmo di potestà soltanto perché parte di un rapporto vicariale che lo lega a Dio. Di una sola sovranità, assoluta, illimitata e pertanto acontenutistica, si può parlare nell’universo medievale, ed è quella di Dio, vero sovrano su di un ordine terreno scandito invece in potestà necessariamente non sovrane»9.

Da queste considerazioni sul particolare significato che assumono nel medioevo la terminologia e le categorie giuridiche del nostro linguaggio abituale possiamo trarre qualche prima conclusione. La cristianità o res publica christiana non ci appare come un semplice progetto o un ideale astratto10. Non possiamo neppure concepirla come un impero o come un ordinamento giuridico nel significato che i giuristi danno oggi a questa espressione. Possiamo considerarla come un modello ben strutturato di società che garantisce stabilità ed effettività a partire da alcuni principi11: 9

Ibid., 48-49. Con questo significato il termine christianitas è adoperato dai cattolici intransigenti dei secoli XIX-XX: «Dall’età della Restaurazione si era sempre più dilatata tra i cattolici la concezione secondo cui la Chiesa, in quanto societas perfecta, costituisce il modello cui deve rifarsi ogni società civile. A questa convinzione si legava poi la tesi che la cristianità medievale — con la sua integrale subordinazione di tutti gli aspetti della vita dell’uomo a fini religiosi — aveva rappresentato la realizzazione storica più vicina all’ideale di civiltà cristiana» (D. MENOZZI, La Chiesa e la storia. Una dimensione della cristianità da Leone XIII al Vaticano II, in Cristianesimo nella Storia 5 [1984] 69-106: 70). Sul tema vedi pure G. MICCOLI, Chiesa e società in Italia tra Ottocento e Novecento: il mito della “cristianità”, in Chiese nella società, cit., 151-245. 11 Si legga quanto scrive a tal proposito Gabriel Le Bras: «A mille anni dalla nascita, il cristianesimo aveva già conquistato l’Occidente e l’Oriente. Non solamente esso è la religione dominante di questi immensi territori, ma è anche l’ispiratore di tutta la loro civiltà, tanto che noi, malgrado le loro differenze, li consideriamo uniti in una società universale che chiamiamo cristianità [...]. La cristianità è questo complesso di terre governate da principi, ufficialmente sottomessi al primato religioso del Romano Pontefice, il quale esercita il suo potere spirituale (e può esercitarlo direttamente) su tutti i suoi sudditi» (G. LE BRAS, Le istituzioni ecclesiastiche della cristianità medievale, in Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., XII/1, 19 e 35). 10


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a) alleanza del potere temporale con lo spirituale che comporta la sovrapposizione dei due ordinamenti, il mutuo sostegno, lo scambio dei ruoli e la perdita per ognuno di essi della propria identità12; b) accoglienza — anche se in modo strumentale ai propri interessi — della visione cristiana di Dio creatore e ordinatore dell’universo e di una concezione unitaria e gerarchica della legge, che parte dalla lex aeterna per giungere fino alle norme positive e consuetudinarie13; c) concezione dell’autorità umana come riflesso dell’autorità divina, premessa per l’affermazione e lo sviluppo della teocrazia14 e dell’assolutismo regio15; d) traduzione in norme giuridiche dei valori etici del cristianesimo ritenuti utili a garantire e rafforzare la propria conservazione16; e) affermazione di una religione civile di matrice cristiana a discapito della pratica della fede che suppone la libera sequela di Cristo17. La presenza di molteplici ordinamenti giuridici e di diverse autorità, delle quali nessuna riesce ad imporsi come assoluta, non permette di fissare un modello rigido di cristianità. Rientrano nello schema della cristianità sia quelle società nelle quali, per particolari condizioni di luogo o di tempo, prevale l’autorità ecclesiastica, sia quelle nelle quali prevale l’autorità civile. La presenza di molteplici ordinamenti all’interno della società ci consente di affermare — in linea di principio — la distinzione fra cristianità, Chiesa e organizzazione politica. 12

M.-D. CHENU, Il Vangelo nel tempo, trad. it., Roma 1968, 18-22. G. LE BRAS – CH. LEFEBVRE – J. RAMBAUD, Histoire du Droit et des Institutions de l’Eglise en Occident, VII, L’age classique 1140-1378. Sources et théorie du droit, Paris 1965. 14 G. TABACCO, Autorità pontificia e impero, in Le istituzioni ecclesiastiche della «societas christiana» dei secoli XI-XII. Papato, Cardinalato, ed Episcopato. Atti della quinta Settimana internazionale di Studio, Mendola, 26-31 agosto 1971, Milano 1974, 123-150; A. MELLONI, Innocenzo IV, cit.; A. PARAVICINI BAGLIANI, Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a Bonifacio VIII, Roma 1996. 15 R. DE MATTEI, Assolutismo, in Enciclopedia del Diritto, III, Milano 1958, 917-923. 16 G.L. POTESTÀ, La dimensione civile del cristianesimo nell’occidente medievale. Rapporti con i poteri, funzioni sociali, riflessioni dottrinali, in Fine della cristianità? Il cristianesimo tra religione civile e testimonianza evangelica, a cura di G. Bottoni, Bologna 2002, 69-80. 17 Sulla nozione di “religione civile” si veda: G. RUGGIERI, Il cristianesimo tra religione civile e testimonianza evangelica, in Fine della cristianità?, cit., 21-43. 13


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A tal proposito fa notare Giuseppe Alberigo: «È noto come nelle fasi iniziali la riforma gregoriana dia l’impressione di muoversi piuttosto in direzione di un assorbimento nella Chiesa di tutte le responsabilità sociali [...]. Tuttavia con i successori di Ildebrando la cristianità riacquista tutto il suo spessore come realtà che non consiste solo nella pressione egemonica e assorbente esercitata dalla Chiesa sulla società e sulle sue organizzazioni politiche, ma è dotata di una consistenza propria, tendenzialmente distinta — anche se non autonoma — rispetto alla Chiesa stessa, oltre che all’Impero e ai Regni»18.

Questo particolare rapporto di distinzione ma non di autonomia ci permette di affermare un’alterità imperfetta tra Chiesa, cristianità e organizzazione politica e più puntualmente tra istituzioni ecclesiastiche e istituzioni della cristianità. Si tratta di una distinzione che può essere formulata solo inadeguatamente, perché Chiesa occidentale e cristianità sono in larga misura coestensive19. Funzionale alla cristianità ci appare la nozione di “istituzione” formulata dal canonista Sinibaldo Fieschi (poi Innocenzo IV) come una struttura relativamente permanente, che non dipende dalla libera volontà dei suoi membri, ma vive e agisce in virtù di una volontà autoritativa che la guida dall’esterno20. L’istituzione, coniugando ordine e durata, è destinata a realizzare la società cristiana come incarnazione e difesa della fede e a perseguire scopi “politici” di lungo periodo, sottratti alla variazione della volontà dei singoli, anzi capace di guidare e condizionare le volontà individuali21. Le istituzioni della cristianità si caratterizzano per la natura di enti che cercano di armonizzare elementi religiosi e politici e di dare spazio alle autorità ecclesiastiche e civili. Si pensi ad esempio al modello delle univer18 G. ALBERIGO, Egemonia istituzionale nella cristianità?, in Cristianesimo nella storia 5 (1984) 49-68: 56-57. 19 L.c. 20 F. RUFFINI, La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo Fieschi (Innocenzo IV) ed in Federico Carlo Savigny, in Scritti minori, II, Milano 1936, 5-90; A. MELLONI, Innocenzo IV, cit., 101-131. 21 G. ALBERIGO, Egemonia istituzionale, cit., 58-59.


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sitates studiorum che nascono e si sviluppano in regime di cristianità. Trattandosi di istituzioni che si prefiggono la ricerca dottrinale e l’insegnamento, si riconosce al Romano Pontefice una specifica competenza nella loro fondazione e nel governo. Tuttavia la sua autorità non è esclusiva; anche i rappresentanti dell’organizzazione politica e le magistrature cittadine hanno il loro ruolo che viene definito negli statuti22. Oltre che per le istituzioni propriamente dette, un rilievo analogo si può fare per gli uffici, gli istituti propri della Chiesa, il culto e i sacramenti, che in regime di cristianità acquistano una configurazione diversa. Il vescovo non è solamente colui che esercita nella e per la comunità cristiana il potere di ordine e di giurisdizione, ha anche precise competenze e responsabilità di natura politica e di tutore dell’ordine pubblico. I sacramenti non sono soltanto segni della grazia e momenti privilegiati del culto cristiano, acquistano una straordinaria valenza sociale e la funzione di indicare i membri della societas christiana che hanno il pieno esercizio dei diritti civili. I concili e i sinodi non sono solamente un’assemblea di Chiesa che si riunisce per affrontare problemi di fede o di disciplina ecclesiastica, fra le sue finalità c’è anche il buon governo della società e il comportamento dei cittadini. Questi stessi rilievi possono essere fatti anche per le istituzioni e gli uffici propri della organizzazione politica della società. Il principe esercita la propria autorità in alcuni momenti forti della vita ecclesiale, quali la convocazione dei concili, la nomina dei vescovi, il conferimento degli uffici e dei benefici, la repressione delle eresie, l’amministrazione dei beni ecclesiastici23, ecc.

2. IL MODELLO DELLA CRISTIANITÀ SICILIANA Il modello di cristianità attuato in Sicilia dai normanni dopo la vittoriosa campagna contro i musulmani ha da sempre suscitato l’attenzione degli storici per alcune sue peculiarità che hanno pochi riscontri nelle 22

M. BELLOMO, Saggio sull’università nell’età del diritto comune, Roma 1996. M.-D. CHENU, Il Vangelo nel tempo, cit., 15-35; W. KÖLMEL, L’epoca imperiale: da Carlo Magno alla riforma gregoriana, in Chiese nella società, cit., 39-69. 23


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altre regioni europee24. Le circostanze della conquista, il modello giuridico ai quali i conquistatori si ispirarono, le situazioni storiche in cui fu portata a termine la loro opera spiegano la particolare configurazione della cristianità siciliana. La campagna, che nell’arco di un trentennio riportò la Sicilia dentro i confini dell’Europa cristiana e occidentale, si svolse in uno dei momenti più critici della cristianità medievale. Papa Gregorio VII fu eletto nel 1073, subito dopo la conquista di Catania (1071) e Palermo (1072) da parte dei normanni. Due anni dopo pubblicò il Dictatus papae e nel 1077 accolse Enrico IV penitente nel castello di Canossa. Sette anni più tardi Enrico IV, per vendicare l’umiliazione di Canossa, occupò Roma e costrinse Gregorio VII a rifugiarsi al Castel Sant’Angelo. Per la sua liberazione fu necessario l’intervento di Roberto il Guiscardo, che accorse per mantenere gli impegni assunti con l’investitura ricevuta da Niccolò II nel 105925. I normanni ci appaiono strutturalmente inseriti nella cristianità europea con precisi diritti e doveri26. E al modello della cristianità si ispirarono quando nei territori conquistati incominciarono a ricostituire l’ordinamento diocesano, venuto meno dopo circa duecentocinquanta anni di dominazione islamica. Il Conte Ruggero, senza aspettare un mandato del papa e senza chiedere alcuna autorizzazione, nel 1081 creò la diocesi di Troina e nominò il primo vescovo latino Roberto27. Gregorio VII, 24 E. CASPAR, Die Gründungusurkunden der sicilischen Bistümer und Kirchenpolitik Graf Roger I (1082-1098), ristampato in appendice a Roger II (1101-1154) und die Gründung der nor.-sicil. Monarchie, Innsbruck 1904. La traduzione italiana di questo volume, curata da Laterza nel 1999, non lo riporta. E. JORDAN, La politique ecclésiastique de Roger Ier et les origines de la légation sicilienne, in Le Moyen âge, série II, 24 (1922) 237273; 25 (1923) 32-65; F. CHALANDON, Histoire de la domination normand en Italie et en Sicile, I, New York 1960, 341-354; L.T. WHITE, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, trad. it., Catania 1984, 163-181; Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, a cura di G. Zito, Torino 1995. 25 A. FLICHE, La riforma gregoriana e la riconquista cristiana (1057-1123), in Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., VIII, Torino 1972, 30-31; 219. 26 S. FODALE, Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano II a Giovan Luca Barbieri, in Storia della Sicilia, III; Napoli 1980, 575-600. 27 G. MALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, a cura di E. Pontieri, in Rerum italicarum scriptores, V, Bologna 1928, 68-69.


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preoccupato per l’intraprendenza del conte, non mancò di richiamarlo e gli fece sapere che non avrebbe accettato in futuro il ripetersi di iniziative di quel genere28. Ma il papa sapeva bene di non poter assumere un atteggiamento eccessivamente rigido nei confronti di chi meritava ogni riguardo per aver restituito alla cristianità e alla giurisdizione romana una regione strategica nel Mediterraneo29. Urbano II, che si era proposto di continuare l’opera riformatrice di Gregorio VII, fra i primi atti di governo dopo l’elezione intraprese un viaggio in Sicilia per incontrare a Troina il Conte Ruggero (1088)30. Ufficialmente il papa doveva discutere i rapporti con l’imperatore bizantino e la chiesa greca. In realtà veniva per dare una veste di legalità alle iniziative di politica ecclesiastica già attuate dal conte e per programmare quelle future. Infatti Ruggero subito dopo, comportandosi come un legato del papa, eresse le diocesi di Agrigento, Mazara, Siracusa, Catania e Messina. Le nuove circoscrizioni ecclesiastiche solo in parte ripristinavano quelle esistenti nel periodo bizantino, prima dell’invasione islamica. A tutte le diocesi fu preposto un vescovo latino, scelto dallo stesso Conte Ruggero fra le persone di sua fiducia. Una crisi nei rapporti fra Urbano II e il Conte Ruggero si ebbe nel 109831. Il papa, ritenendo chiuso il periodo transitorio dei poteri speciali concessi al conte, cercò di riprendere in mano la situazione e nominò come suo legato il vescovo di Troina Roberto. Si trattò di una decisione molto abile: il papa per rendere più facile il consenso del conte scelse una persona a lui vicina. Ruggero invece reagì malamente: fece arrestare il vescovo mentre era in chiesa e lo fece chiudere in prigione. Il papa revocò subito la nomina e per rassicurare il conte, con la bolla Quia propter prudentiam 28 S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II, in Chiesa e società in Sicilia, cit., 51-61: 54. 29 Gregorio VII in una bolla del 1082 aveva scritto della Sicilia e del Conte Ruggero: «Felix terra, quae tantum et talem habere Comitem, per quem ecclesiasticum viget nomen et [...] recuperat dignitatem» (vedi la nota 1 di E. Pontieri a G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., 69). 30 G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., 92-93; S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni, cit., 56-57. 31 G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., 106-107; S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni, cit., 37-60.


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tuam emanata a Salerno il 5 luglio 1098, lo costituì suo legato per la Sicilia, si impegnò a non nominare in futuro altri legati senza il consenso suo e dei suoi eredi, assicurò che sarebbe stato lo stesso Conte Ruggero a decidere di inviare liberamente ad un eventuale concilio chi avesse preferito fra i vescovi e gli abati delle sue terre32. Non intendo in questa sede affrontare il discusso privilegio della cosiddetta legazia apostolica e mettere a confronto il significato originario della bolla di Urbano II con quello dato nella Sicilia spagnola a partire dal ’50033. Voglio solamente far notare che il modello al quale si ispirarono i normanni per organizzare le nuove terre conquistate non era quello previsto dall’ordinamento canonico e vagheggiato dalla riforma gregoriana. Il Conte Ruggero gestiva autonomamente la giurisdizione ecclesiastica erigendo diocesi, abbazie e conventi, nominando vescovi e superiori religiosi senza neppure consultare il papa. Gregorio VII e Urbano II dinanzi ai vantaggi conseguiti dalle conquiste normanne, per una precisa scelta politica, avevano ritenuto tollerabile qualche eccezione al loro rigoroso progetto di riforma, che aveva il suo punto di forza nella libertas Ecclesiae e nella lotta alle ingerenze dei laici nel governo della Chiesa. Sembra potersi affermare che il Conte Ruggero si sia ispirato al modello attuato in Inghilterra dai suoi conterranei e divulgato in Sicilia dai numerosi benedettini venuti al suo seguito34. Dal punto di vista teologico la fonte di riferimento potrebbe essere l’Anonimo Normanno — da alcuni identificato con Guglielmo Bona Anima, abate di Santo Stefano di Caen dal 1070 al 107935 — la cui ecclesiologia è agli antipodi di quella proposta dai riformatori gregoriani36. A noi interessa in modo particolare la spiegazione 32

Il testo del documento è riportato da G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., 108. Per la diversa interpretazione di questo privilegio vedi in particolare: G. CATALANO, Studi sulla legazia apostolica di Sicilia, Reggio Calabria 1973; S. FODALE, L’apostolica legazia e altri studi su Stato e Chiesa, Messina 1991, 7-117. 34 G. ZITO, Papato e normanni in Sicilia nel secolo XI. Una prospettiva ecclesiologica, in Ruggero I, Serlone e l’insediamento normanno in Sicilia, Troina 2001, 77-100. 35 K.M. WOODY, Marginalia on the Norman Anonymus, in Harvad Theological Review 66 (1973) 2, 273-288; D.S. SPEAR, William Bona anima, Abbot of St. Stephan’s of Caen, 1070-79, in The Haskins Society Journal 1 (1989) 51-60. 36 L’Anonimo Normanno nella sua ecclesiologia prende le distanze dal modello clericale ideato dai riformatori gregoriani. La Chiesa è il «populus christianus» o la «congregatio fidelium». A tutti i fedeli va riconosciuta la dignità sacerdotale e regale di 33


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cristologica che dà del sacerdozio e della sovranità regale: il sacerdozio deve essere collegato all’umiliazione temporale del Verbo nell’incarnazione; la sovranità regale deriva dalla sua divinità: mentre i re sono vicari di Dio, i sacerdoti sono solamente vicari dell’umanità di Cristo. Da questa dottrina l’Anonimo deduce che il re gode di una potestà di governo ecclesiastico sugli stessi sacerdoti. Nella Chiesa tutto ciò che attiene al governo deriva dal re, che deve essere considerato una persona sacra: i re sono investiti direttamente da Dio37. Anche per l’ordinamento feudale sembra che il Conte Ruggero si sia ispirato al modello attuato in Inghilterra dai suoi conterranei. Le caratteristiche della feudalità siciliana riguardavano soprattutto la concessione delle terre e il rapporto stabilito con i feudatari38. I successori del Conte Ruggero, nonostante gli inviti dei papi a non andare oltre i limiti delle loro competenze, in modo alquanto spregiudicato, continuarono ad esercitare alcune prerogative della giurisdizione ecclesiastica, configurando l’autorità del re più sul modello bizantino che su quello occidentale39. Pasquale II, in un breve del 1 ottobre 1117 indirizzato a Ruggero II, riassumeva la posizione dei suoi predecessori: le Chiese locali dipendono da Roma, nel quadro di tale dipendenza il Conte Ruggero aveva ottenuto per

Cristo. Egli è contrario al primato della Chiesa di Roma, derivante da circostanze puramente storiche e contingenti, e favorevole a quello della Chiesa di Gerusalemme di origine divina. Non concepisce il primato di Pietro come l’esercizio di un potere che lo isola dagli altri apostoli. Ogni vero credente somiglia a Pietro. Non si può affermare che la Chiesa è un corpo il cui capo è il vescovo di Roma; Cristo è il solo capo della Chiesa secondo una gerarchia di santità. Il sacerdozio nella Chiesa non è stato istituito da Cristo e non è superiore alla sovranità regale. Il papa può essere sottoposto a giudizio non come sommo pontefice ma come peccatore. L’edizione di quest’opera è di K. PELLENS, Die Texte des normannischen Anonymus: neu aus der Handschrift 415 des Corpus Christi College Cambridgeherausgegeben, Wiesbaden 1966; si vedano anche le note ecclesiologiche di Y. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Paris 1970, 116-117. 37 Ibid., 117-118. 38 F. CHALANDON, Histoire de la domination normand, cit., II, 494-495; S. FODALE, Stato e Chiesa, cit., 582-583; M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici, cit., 323-361. 39 E. CASPAR, Ruggero II e la fondazione della monarchia normanna di Sicilia, trad. it., Bari 1999, 305-321.


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merito della riconquista speciali privilegi, Ruggero II era invitato a mantenersi nei limiti di quella concessione40. Il progetto di trasformare i possedimenti normanni da ducati in regno e di chiedere la corona reale per Ruggero II, fece sorgere il problema dell’assenso del papa e del giuramento feudale di fedeltà che il nuovo re doveva prestargli. Ruggero II pensò di realizzare più facilmente questo piano alleandosi con l’antipapa Anacleto II. Questi, il 27 settembre 1130, gli conferì la corona del Regnum Siciliae, comprendente tutti i domini normanni dell’Italia meridionale, e con grande generosità gli concesse ulteriori privilegi in tema di giurisdizione ecclesiastica41. La scelta di Ruggero per l’antipapa portò ad un deterioramento dei rapporti con Onorio II e Innocenzo II fino a sfociare in una guerra. Il 23 luglio 1139, nella battaglia di Mignano, Ruggero II sconfisse le truppe papali e fece prigioniero lo stesso Innocenzo II. La vittoria militare non portò le conseguenze sperate sul piano politico. Il papa negli accordi successivi non riconobbe il Regnum Siciliae, ma tre realtà politiche distinte: i ducati di Sicilia, Puglia e Capua che concesse a Ruggero II e ai figli Anfuso e Ruggero in cambio del giuramento di fedeltà42. I motivi di questo rifiuto erano diversi: ai confini dei propri domini il papa non voleva un regno unito e un re forte; temeva che unificando la Sicilia con le regioni meridionali il re estendesse a tutto il regno i privilegi avuti per la Sicilia. Il conflitto era destinato a riproporsi negli anni successivi. Guglielmo I, figlio di Ruggero II, alternando l’alleanza con l’imperatore Federico Barbarossa e con il papa, cercava di ottenere quello che non era riuscito al padre43. Nel 1156 il re normanno, dopo avere sconfitto una coalizione bizantino-pontificia, impose ad Adriano IV il concordato di Benevento44. Il papa dava a Guglielmo I l’investitura del regno di Sicilia, del 40

S. FODALE., Stato e Chiesa, cit., 575-600: 584. E. CASPAR, Ruggero II, cit., 87-97. Con la condiscendenza dell’antipapa Anacleto Ruggero II creò in Sicilia le diocesi di Cefalù e di Lipari-Patti e istituì le circoscrizioni metropolitane che mancavano in Sicilia (S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni, cit., 59). 42 E. CASPAR, Ruggero II, cit., 125-218. 43 Dal primo Concilio Lateranense all’avvento di Innocenzo III, in Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., IX/2, Torino 1977, 417-439. 44 Il testo del concordato è riportato da R. PIRRI, Sicilia Sacra, I, Panormi 17333, XIXXXI. I punti dell’intesa raggiunta sono presi in esame in Dal primo Concilio Lateranense, cit., 439-441; S. FODALE, Stato e Chiesa, cit., 585-588. 41


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ducato di Puglia e del principato di Capua con tutte le sue dipendenze. Guglielmo rendeva l’omaggio al papa e si impegnava a versare una somma annuale. Il concordato distingueva la Sicilia da una parte e i possedimenti continentali di Guglielmo I dall’altra. In Sicilia il re conservava i privilegi concessi ai predecessori: gli appelli a Roma e l’invio di legati non potevano essere fatti che su domanda del re; nelle elezioni canoniche conservava il diritto di veto se l’eletto non avesse avuto il suo gradimento; la scelta dei vescovi o degli abati dei monasteri regi continuava ad appartenere al sovrano; infine se il papa avesse convocato alla sua presenza dei dignitari ecclesiastici siciliani, al re era riconosciuta la facoltà di trattenere presso di sé le persone ritenute utili per l’assistenza spirituale sua o della corte. Come in ogni concordato, l’intesa raggiunta costituiva un compromesso che i due contraenti accettavano nella speranza di cambiarlo a proprio vantaggio non appena si fossero presentate le condizioni favorevoli. Il concordato di Benevento sarà modificato nel 1192 a Gravina di Puglia, quando il papa Celestino III, sfruttando la debolezza politica di Tancredi, ottenne un ridimensionamento delle concessioni fatte da Adriano IV45. Gli accordi di Gravina avranno una nuova conferma nel 1198 fra il papa Innocenzo III e la regina Costanza durante la minore età di Federico II46. Tuttavia quando il re si emancipò dall’invadente tutela pontificia li disattese e attuò una politica ecclesiastica più in linea con quella seguita dai propri avi47, salvo ad accettare una nuova intesa nel 1230 a Ceprano con Gregorio IX48. Com’è facile notare, per una particolare congiuntura politica, nelle inevitabili controversie fra il papa e i re di Sicilia, i privilegi concessi al Conte Ruggero al tempo della conquista diventavano merce di scambio per raggiungere accordi di più ampia portata: il papa rinnovava la loro concessione limitatamente alla Sicilia per ottenere nuove alleanze contro i suoi nemici nei periodi di maggiore turbolenza, ma ne chiedeva l’abrogazione non appena le condizioni generali diventavano più favorevoli. 45

Dal primo Concilio Lateranense, cit., 702. Ibid., 769-771. 47 La cristianità romana, in Storia della Chiesa, inziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., X, Torino 1976, 281-320. 48 H. WOLTER – H.-G. BECK, Civitas medievale, in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, trad. it., V/1, Milano 1976, 268-271. 46


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I tentativi dei papi di riportare l’ordinamento della Sicilia nei limiti previsti dalle norme canoniche furono resi vani dalle vicende politiche dei secoli successivi. Dopo la fine della dinastia normanno-sveva il sostegno accordato da Clemente IV a Carlo d’Angiò sembrò riportare il Regno di Sicilia nell’orbita del papato (1266); ma i vespri siciliani del 1282 determinarono la frattura fra la Sicilia e le regioni continentali e riaccesero i conflitti fra i re di Sicilia e i papi. La presenza aragonese in Sicilia fu osteggiata dal papato, che più volte fece ricorso all’interdetto per riportare i re al rispetto dei diritti feudali49. Alla lunga guerra del Vespro e alle lotte baronali, che si protrassero per quasi tutto il ’30050, si aggiunsero le difficoltà provenienti dalla congiuntura sfavorevole in cui si trovò la cristianità con la peste nera del 1348 e lo scisma d’occidente (1378-1417)51. Nel 1392 lo sbarco dei Martini pose fine al disegno di una Sicilia autonoma per farla diventare una provincia dei domini spagnoli52. L’ordinamento ecclesiastico siciliano, se inizialmente diede l’impressione di essere rientrato nel modello comune alle altre regioni europee, all’inizio del ’500, con la riscoperta e l’interpretazione strumentale della bolla Quia propter prudentiam tuam di Urbano II al Conte Ruggero, finirà per accentuare le caratteristiche proprie della cristianità. Di particolare interesse per il nostro tema è l’insieme di istituti (exequatur, placet regio, ecc.) che servivano a dare esecuzione agli atti pontifici53. L’exequatur non può essere considerato un istituto peculiare 49

P. HERDE, La crisi del Trecento e il papato avignonese (1274-1378), in Storia della Chiesa, inziata da A. Fliche e V. Martin, XI, Torino 1994, 45-58. 50 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980; M. AMARI, La guerra del Vespro siciliano, a cura di F. Giunta, 2 voll., Palermo 1969; F. GIUNTA, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, 2 voll., Palermo 1953; V. D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963. 51 La Chiesa al tempo del grande scisma e della crisi conciliare (1378-1449), in Storia della Chiesa, inziata da A. Fliche e V. Martin, XIV/1, Torino 1967; Tra medioevo e rinascimento (XIV-XVI secolo), in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, trad. it., V/2, Milano 1977, 135-163. 52 E. STINCO, Politica ecclesiastica di Martino I in Sicilia (1392-1409), Palermo 1921; S. FODALE, Scisma ecclesiastico e potere regio in Sicilia, I, Il duca di Montblanc e l’episcopato tra Roma e Avignone (1392-1396), Palermo 1979; ID., Il clero siciliano tra ribellione e fedeltà ai Martini (1392-1398), Palermo 1983. 53 G. CATALANO, «Exequatur» e «placet», in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano 1967, 143-154; A. MORONI, «Exequatur» e «placet», in Novissimo digesto italiano, VI, Torino 1968, 1084-1088.


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della cristianità siciliana riconducibile all’ordinamento normanno. Il suo uso è documentato in Sicilia prima del Vespro. Probabilmente fu introdotto durante gli interdetti che in diverse occasioni colpirono il regno. Divenne prassi inevitabile durante lo scisma d’occidente, ma fu istituzionalizzato al tempo dei Martini: «Item staranno attenti quelli di lu consigliu, chi nixuna bulla o littera de Papa o altri Principi o gran Signuri, seu Comitanti, li quali siano tramisi o portati in Sicilia per qualuncha persona sia, tanto in Palermo, Messina, quanto in ogni altra parti, non si degia aprirsi, né legiri per nissuno, eccepto che primo vengna in potiri dela dicta Regina et so consiglio et deinde per comandamento dela dicta Regina sinde farà quello che sarrà ordinato»54.

Il problema del placet regio, invece, se lo riferiamo alla nomina dei vescovi o dei prelati delle grandi istituzioni monastiche, non si poneva neppure al tempo della conquista normanna, perché le nomine venivano fatte direttamente dal Conte Ruggero ed accettate dal papa. Il privilegio del gradimento dei vescovi da parte del re, anche se non era esclusivo dell’ordinamento siciliano, costituiva uno dei punti di forza del concordato di Benevento55. Dopo lo scisma d’Occidente la nomina dei vescovi fu disciplinata da una costituzione di Re Martino: «Et si vacassi alchuna ecclesia cathedrali, nullu sia riciputo Praelato, senza expresso comandamento nostro, donec vinde sia scripto, declarandosi che personi concurrino in quilli dignitati; tamen lu capitulo facza sua electioni infra tempo legitimo, cum consensu dela Regina predicta»56.

Il gioco dei veti reciproci posti dal papa o dal re sul nome di un candidato ad una sede episcopale della Sicilia renderà estremamente 54

Capitula Regni Siciliae, a cura di F. Testa, I, Panormi 1741, 185. «De electionibus quidem ita fiat. Clerici conveniant in personam idoneam et illud inter se secretum habebunt, donec personam illam excellentiae nostrae pronuntient, et postquam personam celsitudini nostrae fuerit designata, si persona illa de proditoribus aut inimicis nostris vel haeredum nostrorum non fuerit, aut magnificentiae nostrae non extiterit odiosa, vel alia in ea causa non fuerit pro qua non debemus assentire, assensum praestabimus» (R. PIRRI, Sicilia Sacra, I, Panormi 17333, XX). 56 Capitula Regni Siciliae, cit., 185. 55


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difficile individuare l’effettivo titolare di una diocesi. Negli elenchi dei vescovi delle diocesi siciliane non è raro trovare nomi di persone elette dal capitolo e non riconosciute dal re o dal papa, nominate dal papa che non hanno avuto il gradimento del re57. In sostanza la Sicilia manterrà anche in epoca moderna la configurazione del particolare ordinamento di cristianità dato dai normanni sul modello inglese; un ordinamento non privo di contraddizioni, formatosi con il pieno sostegno del papato nel momento in cui aveva bisogno del loro appoggio politico e militare, che non subì mutamenti sostanziali nei tentativi fatti dai successori di Gregorio VII. Le caratteristiche e le contraddizioni di questo ordinamento sono più evidenti nella diocesi di Catania per le particolari circostanze in cui fu progettato e attuato dal Conte Ruggero e perfezionato dai re normanno-svevi.

3. L’ORDINAMENTO DELLA CRISTIANITÀ A CATANIA L’ordinamento della città di Catania risentiva delle scelte fatte dai normanni al tempo della conquista. Trattandosi di una zona con una forte presenza di islamici che avevano tentato di ribellarsi, il Conte Ruggero aveva riunito nelle mani di Angerio, un benedettino bretone di sua fiducia, le tre giurisdizioni di signore della città, di abate di Sant’Agata e di vescovo della diocesi58. Il Conte aveva munificamente dotato l’abbazia di un ricco patrimonio ma, poiché vescovo della diocesi era l’abate, non aveva distinto i beni della mensa vescovile e i beni dell’abbazia. Non c’era neppure una chiara distinzione fra i beni demaniali della città e i beni dell’abbazia. In sostanza il vescovo, come governava da solo tre realtà distinte: città, diocesi e abbazia, così amministrava da solo i loro beni. Sull’amministrazione di questi beni bisogna fare qualche altro rilievo: anzitutto non si trattava di allodi, cioè di beni dati in libera 57

Per la diocesi di Catania si vedano, ad esempio, i casi di Tommaso Asmari (14111413), Giuliano della Rovere (1473-1474), Francesco Campolo (1474-1475), Giovanni Gatto (1475-1479) e di Bernardo Margarito (1479-1486) (Cronotassi dei vescovi di Catania, a cura di G. Zito, in La Chiesa di Catania nell’anno 2000, Catania 2000, 25-32). 58 L.T. WHITE, Il monachesimo latino, cit., 163-181; A. LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania prima e dopo il Concilio di Trento, Palermo 1977, 7-19.


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proprietà; erano beni concessi per un certo fine; perciò non potevano essere alienati e su di essi il Conte Ruggero e i suoi successori esercitavano il diritto di patronato. Inoltre su molti di questi beni, che costituivano il demanio cittadino, gravavano i consueti usi civici a beneficio degli abitanti della città: legnatico, ghiandatico, erbatico, ecc59. Se inizialmente vescovo e abate coincisero, col tempo fu nominato vescovo una persona estranea all’abbazia, ma non si pensò di distinguere i beni della mensa vescovile dai beni dell’abbazia; perciò i monaci dipendevano dal vescovo per le loro necessità. L’originario ordinamento della città di Catania fu modificato intorno al 1240: Catania da città feudale divenne città demaniale, amministrata da magistrature scelte dalla mastra nobiliare e non più nominate dal vescovo60. Anche in questo caso non si provvide a separare i beni della mensa da quelli del demanio e il vescovo continuò ad essere l’unico amministratore di tutto il patrimonio. Era inevitabile che una situazione così confusa determinasse contrasti e tensioni. I vescovi, per sopperire alle necessità, erano portati a dimenticare che i beni non erano di libera proprietà; pertanto o procedevano ad alienazioni di parte del patrimonio o impedivano il libero esercizio degli usi civici. Le magistrature cittadine e la popolazione stessa esercitavano un continuo controllo sugli atti di amministrazione del vescovo e non mancavano di invocare l’intervento delle autorità superiori (il re o il papa) se notavano abusi61. Per delineare il quadro generale delle istituzioni di cristianità a Catania, alle situazioni particolari derivanti dall’ordinamento dato dai normanni al tempo della conquista, bisogna aggiungere i consueti istituti 59 M. GAUDIOSO, La questione demaniale in Catania e nei casali del bosco etneo. Il Vescovo barone, Catania 1971. 60 ID., Natura giuridica delle autonomie cittadine del «Regnum Siciliae», Catania 1952, 18; E. PONTIERI, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel sec. XIII, Napoli 1958, 299-311. 61 I conflitti tra vescovo e magistrature cittadine, sorti per contrasti patrimoniali, furono un fatto ricorrente nel corso dei secoli e in diversi casi si conclusero con la rimozione del vescovo. La contesa più vivace in questo stesso secolo fu quella che coinvolse il vescovo Giovanni Pesce (A. LONGHITANO, Pietro Geremia riformatore: la società, le istituzioni e lo «Studium» nella Catania del ’400, in La memoria ritrovata. Pietro Geremia e le carte della storia. Atti del Convegno promosso dall’Università di Catania, 28-29 aprile 2003, a cura di F. Migliorino e L. Giordano, Catania 2006, 201-251).


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operanti anche in altri luoghi. Si tratta di istituzioni gestite da rappresentanti delle autorità civili e religiose, presenti a Catania nei secoli XV e XVI: lo Studium, l’ospedale civico, l’orfanotrofio, la casa per accogliere le pentite, ecc. La comune gestione di queste istituzioni comportava il mantenimento di delicati equilibri fra le diverse realtà cittadine e inevitabili conflitti con i conseguenti ricorsi alle autorità superiori62. Quando si pensò di istituire a Catania una scuola per chierici nel priorato di Sant’Agata la Vetere, la richiesta al papa fu fatta dai rappresentanti della città: il vescovo, le magistrature cittadine, i responsabili delle corporazioni di arti e mestieri, alcuni ordini religiosi operanti in città63. L’erezione della collegiata nella chiesa di Santa Maria dell’Elemosina fu fatta dal papa Eugenio IV motu proprio, senza cioè una richiesta ufficiale delle autorità locali. Ma questa procedura, se evitò che venissero frapposti ostacoli all’attuazione del progetto nella fase preliminare, non impedì che le magistrature cittadine chiedessero al viceré di negare l’exequatur alla bolla pontificia dopo la sua pubblicazione. Il viceré respinse la domanda, dichiarandosi figlio obbediente del papa nel rispetto dei diritti del regno64. Per la repressione dei reati sessuali e degli scandali che minacciavano la santità della famiglia a Catania, come altrove, c’era l’arcidiacono che esercitava una propria giurisdizione e presiedeva un proprio tribunale65. Alcuni dei reati perseguiti dall’arcidiacono, oltre alle pene pecuniarie, prevedevano il carcere. In questa situazione, i comuni cittadini potevano essere perseguiti dai tribunali che esercitavano la giustizia in nome del re e dai tribunali che esercitavano la giustizia in nome del papa o del vescovo. Si trattava di fori

62 L’esempio più indicativo è quello dell’ospedale San Marco. Eugenio IV, su proposta dei suoi collaboratori Giovanni de Primis e Pietro Geremia, il 19 gennaio 1446 cambiò gli statuti redatti in precedenza dal vescovo: il governo dell’ente era affidato ad una commissione formata dal priore dei domenicani di Santa Maria la Grande e da due altre persone elette annualmente dai giurati e dai consoli delle corporazioni di arti e mestieri (l.c., 210). 63 A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione della «Scuola per i chierici» in Sant’Agata la Vetere a Catania, in Synaxis 19 (2001) 137-164. 64 ID., Oligarchie familiari ed ecclesiastiche nella controversia parrocchiale di Catania (secc. XV-XVI), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, a cura di G. Zito, Torino 1995, 293-322. 65 A. AMANIEU, Archidiacre, in Dictionnaire del droit canonique, a cura di R. Naz, I, Paris 1935, 948-1004; A. LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania, cit., 67-72.


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posti sullo stesso piano. In mancanza di un’istanza superiore, i cittadini potevano sentirsi ingiustamente oppressi da una decisione. In un documento, contenente una serie di richieste fatte nel 1493 dalla magistrature cittadine al viceré che rappresentava a Palermo il re di Spagna, troviamo una interessante descrizione di alcune problematiche, legate alle particolari istituzioni di cristianità a Catania, che meritano un approfondimento66.

a) manutenzione della cattedrale e funzionalità della fabbriceria Una prima richiesta di intervento riguardava la situazione in cui versava la cattedrale. Per provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria dell’edificio, da diversi anni era stata costituita la fabbriceria, un istituto gestito dal capitolo della cattedrale e dai rappresentanti delle magistrature cittadine. C’era il problema irrisolto del suo finanziamento, per il quale erano previsti, oltre gli interventi straordinari del re, contributi del vescovo e della città67. La città sollecitava il viceré a mediare un intervento regio in un momento di particolare urgenza e difficoltà: «supplica la dicta universitati che avendo Vostra Illustre Signoria confirmato per innata virtù providiri lo cultu divino in la roina et mancamento di li ecclesii di lo Regno porgendo in quelli la benigna mano non mino si plaza porgirla in la ruina di questa maiuri ecclesia di Catania undi è reposto lu glorioso corpo et sancti reliquii di la gloriosissima virgini Sancta Agata protepturi di questa nostra patria la quali ruina cadimento di tepto, destrupcione di marammati et disornamento di sacristia»68.

Il viceré rispose assicurando il suo interessamento.

66 ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Real Cancelleria, 193, fol. 494r-503v. Il documento è trascritto in appendice. 67 A. LONGHITANO, Pietro Geremia riformatore, cit., 206-207. 68 Documento, cit., fol. 500r.


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b) la visita dei giurati ai beni delle chiese e dei monasteri Una seconda richiesta ci informa di una singolare consuetudine esistente nella città di Catania: la visita annuale delle magistrature cittadine ai beni delle chiese e dei monasteri esistenti nella città — compreso quello di San Nicola l’Arena che sorgeva nel territorio di Paternò — per verificare la loro conservazione e corretta amministrazione: «Item perocché antiquamenti si costumava li iurati di la dicta citati comu patri et ordinarii procuraturi di quella pro conservacioni di li ecclesii et monasterii di la cità predicta et so territorio et ectiam di lo monasterio di Sancto Nicolao de Arenis in tali eclesii et monasterii conferirisi et cum loro mastro notaro anno quolibet revidiri dicti ecclesii et monasterii et fari li debiti inventarii di loro renditi, vestimenti et iogali aczocché quelli non venissiro a mancamento et ruina per la quali causa resulta grandi beneficio di lo Omnipotenti Dio et culto divino, servicio di la Sacra Regia Maiestati et honuri di tucta questa clarissima citati»69.

L’ordinamento della cristianità siciliana, oltre le visite pastorali del vescovo prescritte dal diritto canonico a scadenza regolare70, prevedeva anche le visite regie, la prima delle quali rimonta al 142071. Prima di rinvenire il documento in esame non mi risultava l’esistenza delle visite delle magistrature cittadine alle chiese e ai monasteri, fatte con frequenza maggiore di quelle del vescovo. Questa prassi, per quanto confermata dalla consuetudine, non veniva accettata pacificamente se i giurati scrivono: «di pochi tempi ipsa talis bona, antiqua et laudabili consuetudini et provisioni si havi retardata per causa di alcuni malicii et supterfugii di li officiali di li dicti eclesii, asserendo tali provisioni non pertiniri ad officiali temporali di exstendiri li mano ad providiri li introiti, beni et iogali et altri cosi necessarii di li eclesii et iurisdicioni spirituali»72. 69

Ibid., fol. 500r-500v. G. BACCRABÈRE, Visite canonique de l’évêque, in Dictionnaire de droit canonique, cit., VII, 1512-1606. 71 P. COLLURA, Le sacre regie visite alle Chiese della Sicilia, in Archiva Ecclesiae 2223 (1979-1980) 443-451. 72 Documento, cit., fol. 500v. 70


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I giurati ritenevano che le loro visite dovevano continuare «non obstanti qualsivogla supterfugii, frevoli allegacioni, protestacioni et peni contra ipsi maxime officiali forte si potissiro usari, diri et allegari»73. Il viceré prima e il re dopo accolsero la richiesta e stabilirono che questa consuetudine doveva essere osservata.

c) il pagamento del pedaggio ai monaci della cattedrale nel transito del Simeto In una terza richiesta i giurati lamentavano un abuso da parte dei monaci della cattedrale. Fra gli introiti assicurati dai normanni all’abbazia di Sant’Agata c’erano i proventi della gestione del transito con la barca (chiamata “giarretta”) nel fiume Simeto e il conseguente pagamento del pedaggio da parte dei passeggeri74. Il fiume poteva essere attraversato con due passaggi: uno al Galici con la barca e l’altro al ponte di San Paolo. Da qualche tempo «li officiali di la dicta maiuri ecclesia et soi cabelloti hanno tentato et tentano fari pagare li passageri di lo dicto ponte di lo Galichi di Sancto Paolo, tenendo tali passagio firmato preter formam iuris et consuetudinis [...] tentano fari pagare li passageri», imponendo «novo vectigali et inaudita vexacione et angaria contra ogni forma di iusticia et di li capituli di lo Regno»75. Al viceré si chiedeva: «si digni comandari sub pena a Vostra Signoria benvista li predicti officiali et cabelloti non digiano né pozano actentari né astringiri in li dicti lochi et ponti ad persona alcuna cum altra solucioni che quella di la iarrecta tantum solita et consueta»76.

73

L.c. Collectanea nonnullorum privilegiorum et aliorum spectantium ad Ecclesiam Catanensem […] iussu Illustrissimi et Reverendissimi Domini Fr. D. Michaelis Angeli Bonadies, Episcopi Catanensis, Catanae 1682, 9-10. 75 Documento, cit., fol. 501r. 76 L.c. 74


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Il viceré e il re risposero che il pedaggio doveva essere pagato solamente per l’uso della barca e non del ponte.

d) pagamento dagli introiti del vescovado e della cattedrale dei compensi dovuti ai monaci in caso di inadempienza del vescovo Una quarta richiesta ci riporta al clima di tensione che da tempo si era stabilito fra il vescovo e i monaci della cattedrale per contrasti di natura economica. Come si è visto, il vescovo aveva con i monaci conti aperti sia per il suo contributo alla fabbriceria, sia per retribuire il servizio che prestavano nella cattedrale. Si trattava di un servizio qualificato che non veniva retribuito in modo equo: «li venerabili monachi di la ecclesia predicta [...] officiano et servino dignissimamenti cum tanto bono ordini et musica ectiam di predicacioni a lu populo et homini doctissimi in sacra theologia quanto altro sia intro et fora lo Regno, li quali monachi non havendo altro di viviri che lo salario li è tenuto lu Rev.mo Signor Episcopo antiquo et moderno si ha visto li dicti monachi essiri mali tractati in la percepcioni di li terzarii di loro salari»77.

In passato il capitolo dei monaci aveva chiesto e ottenuto l’intervento di re Alfonso, che aveva dato ordine «a li officiali temporali che casu quo dicto Episcopo et soi officiali non pagassiro ali tempi loro salario di dicti venerabili monachi quod utique li officiali di la dicta citati li facissiro pagari super introitibus dicte ecclesie et episcopatus»78.

Recentemente il re aveva stabilito che l’ordine di re Alfonso doveva essere osservato. Si chiedeva al viceré l’esecuzione della norma regia. In risposta sia il viceré che il re manifestarono la loro volontà di eseguire le disposizioni date. 77 78

Ibid., fol. 501r-501v. Ibid., fol. 501v.


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e) la competenza per i giudici dei giurati nella controversie fra i cittadini e l’arcidiacono L’ultima richiesta dei giurati aveva per oggetto una controversia sorta con l’arcidiacono per l’esercizio della sua giurisdizione: «Item perché li magnifici iurati di la dicta clarissima citati sempri per antiquissima consuetudini su stati iudichi competenti di tucti diferencii vertenti intro lo archiiacono et tucti altri citatini vel furisteri commoranti in questa citati et noviter li archiiaconi [...] havino recusato et recusano tali iudicio et non si volino conveniri innanti li dicti magnifici iurati»79.

L’arcidiacono, rifiutando di comparire dinanzi ai giudici della città per permettere la soluzione delle controversie, intendeva eliminare un’istanza superiore «azoché di la dicta extorsioni et iniusticii nixun poza essiri disgravato». La città chiedeva al Viceré «plaza concediri et confirmari tali antiquissima et iusta consuetudini che li dicti magnifici iurati siano iudici competenti infra lo dicto archiiacuno et tucti citatini furisteri in questa citati commoranti non obstante qualsivogla loro frevoli allegacioni»80.

Il viceré accogliendo la richiesta stabilì anche la procedura da seguire: «receptis informacionibus parte citata summarie sine processu constito de dicta consuetudine observetur»81.

4. CONCLUSIONE Il documento preso in esame — che formalmente deve essere collocato nella linea di confine fra medioevo ed età moderna — ci offre 79 80 81

Ibid., fol. 502r. L.c. L.c.


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alcuni spunti per individuare le caratteristiche della cristianità di Catania da leggere nel quadro generale della cristianità siciliana ed europea. Nonostante i mutamenti che si erano verificati dopo la conquista normanna, perdurava ancora un modello di ordinamento nato per rispondere a determinate istanze ideali e a concrete esigenze sociali. Gli ideali più volte richiamati nei documenti del tempo erano quelli comuni della cristianità, che tuttavia dovevano trovare concreta attuazione lungo i secoli, nelle tormentate vicende della storia siciliana. Possiamo prendere atto della volontà dei sovrani di mettere le proprie capacità e le proprie armi a servizio di Dio e del proposito dei papi di tutelare la libertas ecclesiae contro le ingerenze dei laici, ma bisogna pur convenire che in definitiva gli uni e gli altri si trovavano d’accordo nel costruire un modello di ordinamento funzionale ai propri interessi. Restava aperto il problema di raggiungere un non facile equilibrio per assicurare stabilità politica e sociale e per una pacifica convivenza delle due autorità. Le forzature e gli squilibri presenti nell’ordinamento di Catania condizioneranno per secoli la vita della società. La domanda di fondo riguarda la natura degli interessi che le autorità ecclesiastiche intendevano perseguire. Tra le caratteristiche della cristianità c’è proprio la omologazione della Chiesa e dei suoi fini alla natura e ai fini della società stessa, con la conseguente rinunzia a quell’alterità che dovrebbe contraddistinguerla nei confronti delle altre realtà sociali. Se può essere apprezzabile il contributo dato dalla Chiesa nel corso dei secoli alla stabilità sociale, bisogna anche chiedersi se è questo il fine specifico per cui è stata istituita e se l’unica strada da percorrere per raggiungere questo fine è l’alleanza fra trono e altare e la perdita della propria identità. Ovviamente si tratta di un problema che non riguarda solo la cristianità medievale, ma tutti i modelli di cristianità più o meno idealizzati che nel tempo si ripropongono con sorprendente regolarità.


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1496 luglio 27, Messina Il viceré Giovanni la Nuza dà l’esecutoria al privilegio reale con il quale Ferdinando II conferma le risposte date dal viceré Ferdinando de Acuña alle richieste presentate dalla città di Catania per la soluzione di alcuni problemi riguardanti: la situazione patrimoniale e finanziaria della città, la delibera delle spese straordinarie e il controllo dell’amministrazione, le elezioni delle magistrature cittadine, lo Studium, la costruzione del molo, il restauro della cattedrale, i rapporti con il vescovo e i benedettini della cattedrale, la giurisdizione dell’arcidiacono. ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Real Cancelleria, 193, fol. 494r-503v*. De mandato Illustris Domini Viceregis. Pro universitate clarissime civitatis Cathaniea. [fol. 494r] Ferdinandus, etc. Vicerex etc. Spettabili magnificis et nobilibus eiusdem Regni Magistro Iusticiario eiusque in officio regio locumtenenti, Magistris Racionalibus, Magistris Portulano et Secreto, Thesaurario et Conservatori regii patrimonii, ceterisque demum dicti Regni officialibus maioribus et minoribus presertim capitaneo, iuratis, consilio et aliis personis clarissime civitatis Cathanie presentibus et futuris ad quos seu quem spectet presentes pervenerint seu fuerint quomodolibet presentate consiliariis et fidelibus regiis dilectis salutem. Ecce noviter fuit nobis exibitum et reverenter presentatum quoddam sacrum regium privilegium omni qua decet solepnitate expeditum tenoris sequentis. Nos Ferdinandus Dei gracia Rex Castelle Aragonum, Legionis, Sicilie, Granate, etc. exhibitis atque reverenter ostensis et publicatis coram regio conspectu Maiestatis nostre capitulis infrascriptis per dilectos et fideles nostros iuratos clarissime civitatis Cathanie nomine tocius universitatis cum intervenctu civium infrascriptorum ad id in quodam generali consilio legitime electorum et deputatorum dudum presentatis Dompno Ferdinando de Acuña, quondam nostro Viceregi in dicto nostro Sicilie Regno, et demum per eosdem iuratos et cives * Nella trascrizione del documento le abbreviazioni sono state sciolte; le lettere j e y sono state sempre trascritte con i; la punteggiatura è stata adattata all’uso moderno là dove non c’era il rischio di creare ambiguità nel significato del testo; anche il criterio delle maiuscole e delle minuscole è stato uniformato all’uso moderno.


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deputatos iuxta ipsas viceregias decretaciones acceptatis et confirmatis que quidem capitula et decretaciones sunt tenoris sequentis. Capituli et gracii li quali li magnifici Francisco di Asmari, Iacubo Traversa, Antonio di Asmundo, Andria di li Castelli, Iaimo lu Plathamuni et Ioanni Scammacca, iurati di la clarissima cità di Cathania di lu anno presentis XII ind., presentano et dimandano nomine tocius universitatis a lo Illustre et potenti Signuri don Fernando d’Acuña dignissimo Viceré di questo Regno cum intervenctu di li magnifici et honorati citatini deputati in tali negocio videlicet: Virardo di Roccu, Alvaro di Paternò, Antonino lu Platamuni, Ioanni Lixandrano, lu Baruni di l’Armithi, lo Baruni di la Favarocta, lo Baruni di Castania, Ioanni di Chilestro, Prothonataro [fol. 494v] et Capitanio, Antonio di Paternò, Bartolo di Asmundo, Arrigo Canpixano, Blasco di Anichito, Antonio di Griffo, Ioanni di Rigio, Muni Tabusu et notario Antonio Cuvello, mastro Tomeo Cuthugno, mastro Nicola di Nigruzo, mastro Ioanni Antonio Gangarussa, mastro Antonio di Tropia, electi per virtuti di uno generali consiglo celebrato in questa clarissima citati, die XXVIII iunii, XII ind., instantis, li quali capituli et graci su quisti videlicet. {1} In primis peroché questa clarissima citati di so patrimonio è cussì destructa et pignorata che al presente pati grandissima necessitati per modo non teni forma alcuna di suppliri ali regii servicii como su ordinarii collecti, regii donativi et altri necessitati occurrenti ala cità predicta, né per tali causa po’ defendiri né subveniri soi citatini né ectiam po’ soi necessarii decoracioni adoperari, de che resulta non poco diservicio ala Sacra Regia Maestà et generali ruina et destrucioni di tucta questa repubblica. Per suppliri ad tali et tanti mancamenti si havi ordinato li cabelli novi imposti videlicet: maldinaro di carni, maldinaro di pani, pixi et sauzumi, la cabella di li panni et di la sita cruda si digiano reduciri, concediri et agregari perpetuo tempore in patrimonio di la dicta citati et universitati predicta, cussì como li altri cabelli di lo dicto patrimonio di la universitati et cità predicta, sub hac tamen lege che quandocumque recaptati tucti renditi et officii pignorati di la dicta universitati et asuppliti tucti altri necessitati et decoracioni di la citati et universitati predicte, dicti cabelli tucti oi in parte si pozano per li magnifici iurati et officiali cum generali consiglo expelliri et penitus removiri. Placza adunca a Vostra Illustre Signoria per tanto regio servicio et universali beneficio di questa citati tali agregacioni et concessioni confirmari et quatenus opus esset concediri [fol. 495r] dicti cabelli hinc in hantea et omni futuro tempore si digiano agregari et in perpetuum concediri ala cità et università predicta, como li altri antiqui gabelli di la predicta citati modo et forma ut supra.


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Illustris Dominus huius Regni Sicilie Prorex ad decretacionem presencium capitulorum decernit, actendens ad utilitatem maximam huius clarissime civitatis et servicium Sacre Regie Maiestatis, cum hoc tamen quod decretaciones presencium capitulorum non dividantur nec pro parte acceptentur sed omnes indivise et integre remaneant et primo ad predictum capitulum. Placet Illustri Domino Proregi quod gabelle in capitulo contente coadunentur et perpetuo concedantur universitati predicte iuxta formam capituli, servata tamen eidem Illustri Domino Proregi prima dicitura dictarum cabellarum ad vitam unius civis dicte civitatis tantum eligendum per dictum Illustrem, post cuius mortem huius prima dicitura remaneat ipsius universitatis, ita quod nemo eam inpetrari valeat et si cuique concederetur concessio sit ipso iure nulla sine aliqua alia declaracione. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Domino Regi quod fiat et observetur in proxima viceregia decretacione continetur. {2} Item la prefata universitati supplica Vostra Illustri Signoria li placza concediri per lo presenti capitulo che tucti li supradicti cabelli una simul cum li altri cabelli antiqui di la dicta universitati recaptati serranno non si pozano modo aliquo vindiri, pignorari, né alienari, né convertiri a nixuno debito antiquo di la cità et università predicta, né incabellarisi ad più tempo di uno anno, et si forte chi fussi alcuna cabellacioni preterb formam presentis capituli censeatur nulla et invalida sub quavis verborum forma et sub quavis causa ectiam urgentissima et requirenti speciali mencioni de iure, immo in omni quovis causa [fol. 495v] quantumcumque urgentissima et necessaria si intendano vinculati et tali vinculacioni non si pocza revocari per consilium universitatis neque per consensum viceregium, eciam si fuisset sentenciatum per Magnam Curiam vel per aliam curiam, ectiam si Vicerex expresse mandare deberet revocari tale vinculum nisi pro urgentissima necessitate regia cum consilio dicte universitatis, que universitas seu consilium possit inpune resistere eciam similes expresse mandaret deberi revocare tale vinculum; et si per li dicti cabelli qualsivogla letigii et diferenci insurgissiro si digia terminari per li magnifici iurati et non per altro magistrato di questa citati, né per altro magistrato maiuri casu si trovassi in la dicta citati, nec eciam ad peticionic di qualsivogla altra privilegiata persuna, li quali privilegiati persuni requidissiro speciali mencioni de iure comu sud pupilli, vidui, eclesii, et universitati et curti et persuni miserabili, li quali magnifici iurati tali litigii digiano terminari summarie et de plano sine strepitu et figura iudicii sola facti veritate inspecta remoti tucti appellacioni, quereli, remisioni nullitati et gravamini; tali cabelli si digiano quolibet anno vindiri seu


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incabellari annuatim cum li debiti pandecti more solito in li tempi costumati liciti et necessarii cum li raxuni et carrichi di partie quinti quintani, como li altri antiqui cabelli debiti et spectanti a li magnifici iurati et magistro notario bance ac eciam cum li debiti fideiubsioni more solito. Placet Illustri Domino Proregi quod cabelle predicte fiant inalienabiles iuxta formam capituli, preter quam pro necessitate regia; ac debita universitatis hactenus contracta supra fructibus dictarum cabellarum minime exsolvantur; et diferencias dictarum cabellarum cum dependentibus et connexis expediant [fol. 496r] et terminent dicti magnifici iurati summarie et de plano sine processu omni appellacione remota, preter quam magna curia existente in dicta civitate; vendantur dicte cabelle anno quolibet prout supplicatum est et quidquid per predictos magnificos iuratos eorum culpa vel negligencia non fuerit exactum teneantur de proprio. Ioannes Prothonotarius. Placet Regie Maiestati ut in presenti viceregia decretacione continetur. {3} Item che di tucti li dicti cabelli si digiano ricaptari tucti renditi et officii pignorati di la dicta citati como su li renditi di la cabella di li ligna, li renditi di lo martillecto et lo mastro notaro di lo Patricio pagati primo omni anno tucti salarii ordinarii di li officiali et regii collecti et donativi si forte fussiro di pagari et altri necessitati et decoracioni di la dicta citati recaptati li renditi et officio predicti tucti li dicti dinari restanti si digiano convertiri in lo reparo di mura et municioni di la dicta citati, recaptati li renditi et officio predicti. Placet Illustri Domino Proregi. Ioannes Prothonotarius. Idem placet Domino Regi. {4} Item li dicti dinari remanenti per lo recapto di li dicti renditi et officio predicto reparo di mura et municioni si digiano quolibet anno dispendiri per li magnifici iurati di ciascheduno anno cum consilio ectiam di li magnifici iurati di lo anno proxime preterito et sic successive necnon et omni consilio aliquorum civium eligendorum per magnificos iuratos illius anni di lo quali consiglo digia per omni negocio appariri nota. Placet Illustri Domino Proregi simul cum patricis et sex eligendi eligantur cum consilio. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Domino Regi. {5} Item plaza a Vostra Illustre Signoria concsediri che de cetero tucti quelli tesorieri che ixiranno quolibet anno di lo buxulo in mano di cui divino perveniri [fol. 496v] li introiti di li cabelli innanti che hagiano possessioni di loro officio et prestano lo iuramento vel saltem infra octo iorni digiano prestari pligiria idonea in


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li acti di la banca di li dicti magnifici iurati modo et forma ut superius expressatum est et in fini di so officio consignare a lo altro tesoreri so successuri quelli dinari che per tucto restiranno in so potiri li quali cunti si digiano quolibetf anno examinari et elapsi li dicti octo iorni et non prestando la dicta pligiria sindi digia ixiri un altro di lo dicto buxulo lo quali digia adimpliri ut supra et sic successive. Placet Illustri Domino Proregi. Ioannes Prothonotarius. Placetque Domino Regi. {6} Item che quolibet anno, creati li novi officiali, digiano in lo primo consiglo fari eligiri quattro cuntaturi domini gentilomini et domini di lo populo li quali digiano examinari li cuncti predicti tanto contra li officiali quanto ectiam lo thesaureri cum potestati di constarili et condepnarli digiano haviri per tali cuncti et fatiga li salarii ordinarii et constumati una cum lo magistro notaro di la banca como è stato constumato quanto apparteni ala natura di lo officio. Placet Illustri Domino Proregi pro quolibet anno eligi debeant cum iuramento per consilium duo probi viri et tercius eligatur per Regiam Curiam qui computa videant cum potestate condempnandi et absolvendi secundum formam capituli quare conputa et raciones ordinet et dictis calculatoribus exibeat magister notarius dicte bance qui una cum dictis cuntatoribus habeant salaria consueta. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Illustri Domino Regi et mandat Sua Regia Maiestas observari. {7} Item supplica la dicta universitati che stando in suo robbore et firmitate tucti privilegii, capituli et decoracioni [fol. 497r] di lo buxulo circa la creacioni di li officiali ad maiorem corroboracionem illorum de cetero ala creacioni di li vinti electi per lo consiglo generali iuxta la forma di lo capitulo di lo privilegio di lo populo in la mastra di la dicta electioni di vincti non si pocza né diggia discriviri, adscriviri né annotari excepto baruni di vassalli et di feudi cavaleri gintilomini che concurrino et su stati ipsi loro patri oi avi in lu officio di li iurati et docturi che hanno concurso et su stati iudichi di la Regia Gran Corte oi verum soi antecessuri siano stati patricii oi iurati et tali vinti electi digiano personaliter veniri a lo sonu di la campana continuo ut moris est salvo legitimo inpedimento videlicet egritudinis constito per iuramentum medicis, carceracionis et absencie civitatis eiusque territorii et Iacti nec ectiam contra tali vinti electi forte per impedire la debita creacioni di li officiali nixuno pocza né digia fari protestacioni cum pena né sine pena et si qua forte facta censeatur nulla et invalida una cum loro solempni iuramento ut moris est digiano dari loro vuchi secundum Deum et iusticiam libere et sine metu et quelli che contravenissiro in lo presenti capitulo vel in aliquo


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premisso priventur eorum officiis cum perpetua infamia et cadant a civilitate perpetua ac eciam incurrant ad penam florenorum mille pro quolibet regio fisco inremissibiliter applicandorum. Placet Illustri Domino Proregi et interponebit partes suas cum Sacra Regia Maiestate ut dictum capitulum confirmet. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Regie Maiestati cum hoc quod si suo Viceregi videbitur expedire possint et debeant scribi et notari in predicta viginti elepcione quos idem Vicerex ad eiusmodi officia habiles esse noverit atque dignos. {8} Item poiché la dicta clarissima citati teni privilegio et capituli concessi per li retro principi [fol. 497v] dignissimi et recolende memorie che in lo presenti Regno di Sicilia non si pocza né digia fari Studio generali excepto in questa clarissima citati per li causi, raxuni et respecti dignissimi et efficaci in quelli expressati et perché de novo la Sacra Regia Maestà ha ordinato et provisto si digia fari un altro Studio in questo Regno in quella citati oi terra undi a Vostra Illustri Signoria meglo parissi et fachendosi tali studio in altra citati che quista serria derogari di lo intucto dicti soi privilegii et capitoli immo quello è a lo presenti si verria ad deminuiri che né l’uno valiria né l’altro et contra dictog Studio erigendosi adiungissi a questo sarria di maiuri valuri et effecto. Per quisto si supplica Vostra Illustre Signoria tanto per la conservacioni di lo nostro privilegio et capitoli li quali la prefata Sacra Regia Maiestati et Vostra Illustre Signoria hanno iurato servari illesi quanto per li raxuni superius expressati che nullo pacto permecta tali Studio farisi in altra parti che in questa clarissima citati coniuncto et unito cum lu nostro cum suo regimine officialium dicti nostri Studii quod presens capitulum locum habeat in vim supplicacionis. Placet Illustri Domino Proregi quod privilegia Studii observentur. Quo vero ad unionem novi Studii interponebit ectiam partes suas cum Sacra Regia Maiestate ut effectum habeant in capitulo contenta. Ioannes Prothonotarius. Placetque Domino Regi et mandat Sua Regia Maiestas quod privilegia dicti Studii observentur. Quo vero ad unionem petitam remictit suo Proregi quatenus si illam noverit commodam fore dicte civitati concedat aliter provideat quod sibi melius et utilius videbitur provideri debere. {9} Item supplica la dicta università Vostra Illustre Signoria actento alcuni anni per la sterelità di lo tempo et penuria di frumenti non si ponno extrahiri li tracti concessi et deputati [fol. 498r] per la Sacra Regia Maiestati per li salarii di lu Studio predicto et tali anni per non essere li docturi legenti in dicto Studio pagati di loro salarii et fatigui mancano di loro lectura non senza grandissima incomoditati di li


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scolari citatini et furisteri et disviamento grandissimo di lo Studio predicto mancamento et poco reputacioni di tucta questa universitati. Plaza adunca Vostra Illustre Signoria per tanto beneficio providiri che li dicti introiti di lo Studio predicto non habbiano di mancari in nexuno anno immo habeano refeccioni di quelli anni che non si extrahi o in alcuno altro modo a Vostra Signoria benvisto per modo lu dicto Studio non habea di mancari per non essiri satisfacti li dicti docturi legenti aczochĂŠ tali et tanta illustracioni che questa citĂ teni per tali Studio non si habea anichilari et tanto beneficio mancari. Placet Illustri Domino Proregi quod redditus Studii reficiantur anno quolibet ab anno sequenti XIV ind. in antea hoc modo quod tracte dicti Studii vendantur per vice portulanum cum interventu thesaurarii et reformatorum dicti Studii cum illa tamen franchicia, exempcione et qualitate prout vendebantur per universitatem predictam et de primis pecuniis ipsarum tractarum satisfiat dicto Studio usque ad summam unciarum centum octuaginta quinque, tarenorum chinque et granorum decem pro tractis duabus milibus septingentish septuaginta septem cum quarta ad rationem tarenorum duorum pro qualibet tracta prout vendi solent dicte tracte et officiales Studii una cum magnificis iuratis et Patricio ad quos pertinet ex Studii privilegio si vice Portulanus non solveret vel fuisset renitens manu propria et inpune dictas pecunias dictarum extracionum ab extractoribus usque ad summam predictam de tractis venditis seu extrahi permissis a vice Portulano possint exigere et quod vice Portulanus qui pro tempore erit se obligabit [fol. 498v] ac prestabit fideomagium et iuramentum obligarique faciat dictos primos extractores quolibet anno in perpetuum usque ad summam predictam unciarum centum optuaginta quinque, tarenorum quinque et granorum decem officialibus dicti Studii cum refectione unius anni et alterius. Ita quod quolibet anno in perpetuum summa predicta integre solvatur dicto Studio et si premissa non adimplerentur existente privilegio dicti Studii in suo robore et firmitate prout hactenus est servatum per presentem decretationem casu contravencionis predictum in nihilum intelligatur derogatum et illo semper possint uti casu predicto et de his omnibus mandat Illustris Dominus Prorex fieri privilegium si dicta universitas expostulaverit promittitque presencium confirmacionem impetrari a Sacra Regia Maiestate; qua habita et obtenta intelligatur presens permutacio seu presens capituli decretacio valida et firma et non aliter nec alio modo. Ita tamen quod provisionibus, capitulis, privilegio dicti Studii in omnibus aliis preheminenciis, iuridicionibus, exenpcionibus et graciis stantibus in eorum robbore et firmitate. Ioannes Prothonotarius. Placet Domino Regi et Sua Regia Maiestas laudando et approbando


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huiusmodi capitulum iuxta preinsertam viceregiam decretacionem omniaque et singula in eo contenta confirmat. {10} Item supplica la cità predicta peroché al dicto Studio su alcuni li quali si hanno inpetrato et altri tentano inpetrarsi provisioni regii et viceregii che vita eorum durante habeano alcuni lecture et intendanosi ordinarii conducti cum certo salario taxato iuxta la forma di lo privilegio di lo Studio predicto che è «ad instar Bononie» et quolibet anno si divinoi eligiri tucti lecturi legenti in lo Studio predicto per li ordinarii reformaturi et officiali di lo dicto Studio. Placza a Vostra Illustre Signoria concediri [fol. 499r] che nixuno si pocza de cetero inpetrari nixunal lictera in vita né ad tempo ma quolibet anno si digiano eligiri et conduciri ut moris est per li reformaturi et officiali ordinarii iuxta la forma di lo privilegio di lo Studio predicto. Placet Illustri Domino Proregi quod quolibet anno eligantur legentes per reformatores seu per officiales dicti Studii cum voluntate studencium quibusvis contrariis usu, provisionibus, concessionibus et graciis indultis et concedendis in aliquo non obstantibus contra quam decretacionem et capitulum conducendi nullatenus salaria consequantur privilegio ex dicti Studii in omnibus forma servata. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Regie Maiestati. {11} Item supplica la prefata universitati actiso la frabica di lu molo di questa citati resultiria grandissimo beneficio et augmento di li diritti di la Regia Maestà et universali beneficio di tucti soi citatini per lo comercio grandi teni di formenti, frumagi, siti cocti et altri mercancii di li quali la Regia Curti augmentiriam soi diricti et cabelli; pertanto supplica Vostra Illustre Signoria actenti li introiti di lo dicto molo concessi per la dicta Sacra Regia Maiestati non siano sufficienti ala costrucioni et finali expedicioni di lo dicto molo li plaza fari costruiri lu scaro et scarricaturi che è infra lu molo et la turri di lo spectabili Signuri Perruchio di Iueni anectando et arrocando per forma che tucti sagictii et navili pozano tirari in terra et di lo actracco si trahiria per annectari et arrocari tali scaro si hagia di reparari et fortificari la sicca di lo molu {in la quali dispesa si digiano connectiri tucti dinari restiranno di li cuncti che al presente vidino di lo dicto molo}n ac eciam li introiti ordinarii di lo dicto molo li quali si digiano spendiri per dui gentilomini [fol. 499v] facultusi electi per Vostra Illustre Signoria cum interventu eciam di li ordinarii procuraturi di la fabrica di lo dicto molo. Placet Illustri Domino Proregi quia moli opus desperatum est fiat statim iuxta formam capituli de omnibus pecuniis remanentibus ex computis novis et veteribus dicti moli et quibusvis aliis debitis moli predicti et de omnibus residuis preteritis


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cabellarum seu novarum imposicionum nec non et de primo precio seu introitu tractarum dicti moli usque ad summam unciarum quingentarum et fiat opus predictum prout supplicatum est per duos probos viros quos ipse Illustris Dominus Prorex ex nunc elegit magnificos Antoninum de Platamoni et Alvarum de Paternione et cum interventu unius eligendi per Illustrem Dominum Proregem pro parte et interesse Regie Curie cum salariis costituendis per ipsum Illustrem Dominum Proregem et tracte concesse predicti moli revertantur ad Regiam Curiam cum illa tamen franquicia, exempcione et qualitate prout erant et vendebantur per predictam universitatem et officiales ordinarii salariati eorum vita durante super introitibus dicti moli et finito scaro predicto dum vivunt salarientur super introitibus dicti Studii. Placet eciam eidem Illustri Domino quod pecunia dedicata ad opus fabrice scari predicti non possit converti ad aliquod alium opus quantumcumque urgentissima causa, nec per consilium universitatis neque per provisionem et mandata sue Illustris Dominacionis sed distrahantur ut supra et quidquid supererit convertatur ad arbitrium iuratorum et consilii ad aliquod utile universitatis et quod presencia capitula cum suis decretacionibus promittit sua Illustris Dominacio confirmari facere iuxta sui seriem et tenorem ab invictissimo Domino nostro Rege quod si secus fecerit capitulum predictum [fol. 500r] de tractibus moli intelligatur non concessum iuxta eius decretacionem et hoc infra annum unum. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Domino Regi et sua Regia Maiestas confirmat contenta in preinserto capitulo iuxta viceregiam decretacionem. {12} Item supplica la dicta universitati che avendo Vostra Illustre Signoria confirmato per innata virtù providiri lo cultu divino in la roina et mancamento di li eclesii di lo Regno porgendo in quelli la benigna mano non mino si plaza porgirla in la ruina di questa maiuri ecclesia di Catania undi è reposto lu glorioso corpo et sancti reliquii di la gloriosissima virgini Sancta Agata proteptursi di questa nostra patria la quali ruina cadimento di tepto, destrupcioni di marammati et disornamento di sacristia et tucti mancamenti di quelli sacramenti si demonstrano in la persona di Vostra Illustre Signoria aczoché quella si renda conformi cum la Sacra Regia Maiestati li plaza providire a tali e tanti mancamenti che siano dicti maragmati, tecti et sacristia provisti et reparati secundo la necessità grandi remanda la dicta ecclesia per non aveniri ad inreparabili mancamento et roina accompagnando in questo non solum la optima voluntà di la Sacra Regia Maiestati et quella di Vostra Illustre Signoria ma eciam lo capitulo di lo Regno. Illustris Dominus Prorex ante discessum providebit oportune. Ioannes Prothonotarius.


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Placet Domino Regi quod suus Vicerex cui negocium hoc remictit provideat oportune super supplicatis iusticia mediante. {13} Item perocché antiquamenti si costumava li iurati di la dicta citati comu patri et ordinarii procuraturi di quella pro conservacioni di li ecclesii et monasterii di la cità predicta et so territorio et ectiam di lo monasterio di Sancto [fol. 500v] Nicolao de Arenis in tali eclesii et monasterii conferirisi et cum loro mastro notaro anno quolibet revidiri dicti ecclesii et monasterii et fari li debiti inventarii di loro renditi, vestimenti et iogali aczocché quelli non venissiro a mancamento et ruina per la quali causa resulta grandi beneficio di lo Omnipotenti Dio et culto divino, servicio di la Sacra Regia Maiestati et honuri di tucta questa clarissimao citati et di pochi tempi ipsa talis bona, antiqua et laudabili consuetudini et provisioni si havi retardata per causa di alcuni malicii et supterfugii di li officiali di li dicti eclesii, asserendo tali provisioni non pertiniri ad officiali temporali di extendiri li mano ad providiri li introiti, beni et iogali et altri cosi necessarii di li eclesii et iurisdicioni spirituali si supplica adunca Vostra Illustre Signoria per lo servicio di lo Omnipotenti Dio servicio di la Sacra Regia Maiestati, honuri di Vostra Illustre Signoria et generali beneficio di dicti eclesii et abbacii chi tali et tanta iusta, digna et laudabili consuetudini et antiqua observancia si digia de cetero successive et omni perpetuo tempore usari et exequiri per li dicti magnifici iurati et a debita exequcioni mandarisi non obstanti qualsivogla supterfugii, frevoli allegacioni, protestacioni et peni contra ipsi maxime officiali forte si potissiro usari, diri et allegari. Placet Illustri Domino Proregi quod ostensa et probata consuetudine observabitur dicta consuetudo iuxta formam capituli. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Regie Maiestati quod constito de ipsa consuetudine observetur. {14} Item supplica la dicta universitati havendosi per antiqua consuetudini et observancia la maiuri ecclesia di Cathania in lo passagio di la iarrecta diviri teniri dui ponti in puncto et a soi dispisi videlicet uno in lo Galichi, l’altro in defecto di la scaffa [fol. 501r] in lo Galichi di Sancto Paolo et li passageri per quelli non divino né erano né su soliti pagari si non ala iarrecta tantum et uno diricto et non plui. Et noviter li officiali di la dicta maiuri ecclesia et soi cabelloti hanno tentato et tentano fari pagari li passageri di lo dicto ponte di lo Galichi di Sancto Paolo, tenendo tali passagio firmato preter formam iuris et consuetudinis, immo novo vectigali et inaudita vexacione et angaria contra ogni forma di iusticia et di li capituli di lo Regno si digni comandari sub pena a Vostra Signoria benvista li predicti officiali et cabelloti non digiano né pozano actentari né astringiri in li dicti lochi et ponti ad persona alcuna cum altra solucioni che quella di la iarrecta tantum solita et consueta


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et che contra la forma di lo presenti capitulo omni uno poza resistiri ad non pagari salvo uno diricto ala iarrecta como era costumato ut supra dictum est. Placet Illustri Domino Proregi quod solvatur unum ius tantum iarrecte predicte prout hactenus consuetum est. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Domino Regi. {15} Item perché Vostra Illustri Signoria per lo tempo havi dimorato in questa clarissima citati ha visto et cognoxuto li venerabili monachi di la ecclesia predicta quelli perché che su a respecto di li altri tempi officiano et servino dignissimamenti cum tanto bono ordini et musica ectiam di predicacioni a lu populo et homini doctissimi in sacra theologia quanto altro sia intro et fora lo Regno, li quali monachi non havendo altro di viviri che lo salario li è tenuto lu Rev.mo Signor Episcopo antiquo et moderno si ha visto li dicti [fol. 501v] monachi essiri mali tractati in la percepcioni di li terzarii di loro salari et per questo fu antiquamente per lo capitulo di dicti monachi obtenuta una provisioni di la immortali memoria del Re don Alfonso comandando a li officiali temporali che casu quo dicto Episcopo et soi officiali non pagassiro ali tempi loro salario di dicti venerabili monachi quod utique li officiali di la dicta citati li facissiro pagari super introitibus dicte ecclesie et episcopatus et poiché al presente la Sacra Regia Maiestati ha provisto per soi oportuni provisioni si digia servari dicta antiqua provisioni del Re don Alfonso et Vostra Illustri Signoria ia li ha passato la exequtoria, placza a Vostra Illustri Signoria concediri per lo presenti capitulo che mai tali provisioni si intendano essiri né si pozano derogari, immo semper et omni futuro tempore stari in suo robore et firmitate per tali et tanta racionabili causa et iusta. Placet Illustri Domino Proregi oportune providere. Ioannes Prothonotarius. Dominus Rex providit et mandat suo Viceregi quod super contentis in presenti capitulo debite provideat iusticia mediante. {16} Item curri in questa clarissima citati una coruptela multu dampnusa di la republica di la cità predicta videlicet li iurati che pro tempore su stati, ad instancia et prigheri di particulari citatini, havino concesso plui lochi puplici in gravissimo preiudicio di tucti citatini dampno et vexacioni di la repuplica la quali concessioni de iure non ha né divi haviri valuri sencza la voluntati di lo consiglo supplicasi per quisto Vostra Illustre Signoria che per lo presenti capitulo si digni providiri et comandari che tali [fol. 502r] concessioni di lochi puplici che sini al presenti non su stati né su beneficati di beneficio tali che fussi decoracioni di citatini si intendano essiri nulli como mai fussiro stati facti né concessi né tali ad cui è stata facta tali concessioni la digia plui usari como loco proprio sub pena


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unciarum centum regio fisco applicandarum et quod quilibet civis dicte civitatis possit et valeat eam denunciare. Placet Illustri Domino Proregi quod hinc in antea non concedantur nonnisi cum consilio prout supplicatum est; de concessis vero et non decoratis stetur iuris disposicioni. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Domino Regi. {17} Item perché li magnifici iurati di la dicta clarissima citati sempri per antiquissima consuetudini su stati iudichi competenti di tucti diferencii vertenti intro lo archiiacono et tucti altri citatini vel furisteri commoranti in questa citati et noviter li archiiaconi che pro tempore su stati cum pretesi peni et excomunicacioni havino recusato et recusano tali iudicio et non si volino conveniri innanti li dicti magnifici iurati et questo per non haviri superiuri azoché di la dicta extorsioni et iniusticii nixun poza essiri disgravato; per tanto si supplica Vostra Illustri Signoria li plaza concediri et confirmari tali antiquissima et iusta consuetudini che li dicti magnifici iurati siano iudici competenti infra lo dicto archiiacuno et tucti citatini furisteri in questa citati commoranti non obstante qualsivogla loro frevoli allegacioni. Placet Illustri Domino Proregi quod receptis informacionibus parte citata summarie sine processu constito de dicta consuetudine observetur. Ioannes Prothonotarius. Et ita placet Regie Maiestati. Expedite in clarissima civitate Cathanie, sexto mensis septembris [fol. 502v], XIII ind., anno a Nativitate Domini 1494. Ferrando de Acuña. Dominus Vicerex mandavit mihi Ioanni de Cilestro Prothonotario. Et viderunt eam Petrus Agosti{nus} et Gerardus Bonannus Magistri Rationales, Alpherius Thesaurarius, Conservator et Consultor et Philippus Fisci Patronus. Nosque visis et recognitis dictis capitulis et earum decretacionibus per dictum quondam Viceregem in pede cuiuslibet eorum positis et concinnatis et inde perspectis in his utilitate universitatis et Studii dicte civitatis Cathanie quamplurimum diligimus capitula ipsa ectiam in pede uniuscuiusque eorum intra tempus predictum quondam Viceregem promissum decretavimus et in eisdem continentia tenore itaque presentis de nostra rerum sciencia deliberate et consulto capitulap preinserta et unumquodque ipsorum iuxta decretaciones in fine cuiuslibet eorum positas acceptamus, laudamus, approbamus, ratificamus et confirmamus nostrisque


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huiusmodi ratificacionis et confirmacionis presidio et munimine robboramus eis melioribus via modo et forma quibus facere possumus et debemus. Illustrissimo propterea Ioanni Principi Asturiarum et Gerunde primogenito nostro carissimo postquam felices dies nostros legitimo heredi et successori intentum nostrum declarantes sub paterne benedicionis obtemptu dicimus spectabili nostro in dicto Sicilie Regno Viceregi, magistro iusticiario et eius in officio locumtenenti, magistris rationalibus, magistro portulano et secreto, thesaurario et conservatori nostri regii patrimonii in dicto Regno, capitaneo insuper iuratis consilio et probis hominibus civitatis predicte Catanie ceterisque universis et singulis officialibus et subditis nostris ad quos spectet presentibus et futuris dicimus [fol. 503r] et districte precipiendo mandamus sub nostre gracie et amoris obtemptu incursurumque pene unciarum auri quinque milium a bonis cuiuslibet secus agentis inremissibiliter exigendarum et nostris inferendarum erariis quod capitula preinserta et unumquodque eorum iuxta decretaciones in pede uniuscuiusque illorum positas et concinnatas nostramque huiusmodi acceptacionem, laudacionem, approbacionem, satisfacionem et confirmacionem ac omnia et singula desuper contenta teneant firmiter et observent tenerique et observari faciant inviolabiliter per quoscumque et non contrafaciant vel veniant aut contrafieri per aliquem paciantur racione aliqua seu causa quanto dictus Illustrissimus Princeps filius noster paternam benedicionem habet caram ceteri vero officiales et subditi nostri predicti graciam nostram caram habent iramque et indignacionem ac penam preappositam cupiunt non subire. In cuius rei testimonium presentes fieri iussimus nostro comuni negociorum Sicilie sigillo inpendente munito. Date in villa de Madrid, die 10 mensis aprilis, XIII ind., anno a Nativitate Domini MCCCCLXXXXV, regnorumque nostrorum videlicet Sicilie anno XXVIII, Castelle et Legionis XXII, Aragonum vero et aliorum XVII, Granate autem quarto. Io el Rei. Dominus Rex mandavit mihi Ioanni de Colonia. Visum per generalem Thesaurarium et Proconservatorem Sicilie. Et fuit supplicatum et supplicat nobis ex parte magnifici dilecti regii Antonini de Platamone anbaxatoris dicte universitatis Cathanie nomine et pro parte universitatis predicte quatenus privilegium regium preinsertum omniaque et singula [fol. 503v] in eo contenta nostris exequtoriis licteris exequi et observari facere benigniter dignaremur. Nos vero volentes regiis ut tenemur parere mandatis providimus vobisque dicimus et mandamus expresse quatenus privilegium regium preinsertum omniaque et singula in eo contenta dicte clarissime universitatis


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Cathanie exequimini teneatis et observetis ac exequi teneri et observari faciatis iuxta sui continenciam et tenorem et non secus agatis aut quavis causa fieri permictatis per quanto graciam nostram caram habetis et in pena in preinserto regio privilegio contenta cupitis non incurrere. In cuius rei testimonium presentes fieri iussimus magno regio sigillo aurio munitum. Date in nobili civitate Messane, die XXVII iulii, XIV ind., 1496. Iohannes de la Nuça. Vidit Benedictus regens. Dominus Vicerex mandavit mihi Antonio Sollima, locumtenenti et Magistro Notario in officio Prothonotarii et vidit ea Benedictus regens.

______________________________ a b c Pro – Catanie] scritto al margine sinistro preter] ripete necd e peticioni] ripetuto su] segue parola illeggibile poi espunta parti] scrive f quintani poi espunta quolibet] scrive amo poi espunta g dicto] segue parola illeggibile poi espunta h septingentis] segue parola illeggibile poi espunta i si m divino] ripetuto l nixuna] scrive lectura poi espunta augmentiria] segue n parola illeggibile poi espunta in – molo] lacuna nel testo integrata da una trascrizione settecentesca o clarissima] segue parola illeggibile poi espunta p capitula] scrive infra poi espunta.



Synaxis XXIV/1 (2006) 127-143

CONFRONTO FRA DUE FILOSOFI. UNA BREVE CORRISPONDENZA FRA XAVIER TILLIETTE E LUIGI PAREYSON

SALVATORE LATORA*

Si tratta di quattro lettere, due di Tilliette, in francese, che abbiamo tradotto, e due di Pareyson in risposta; esse sono state pubblicate per la prima volta su: Annuario Filosofico 9 (1993) 27-34, cioè sulla rivista fondata e diretta da Pareyson. Si tratta di una corrispondenza di grande interesse speculativo, anche perché nella ormai vasta letteratura sul pensiero di Pareyson, poche sono state le obiezioni così incisive come queste del padre Tilliette, del resto sollecitate allo studioso e amico con insistenza, dallo stesso Autore. Gli articoli presi in considerazione sono due: La filosofia e il problema del male e La sofferenza inutile in Dostoevskij, che possono considerarsi come l’inizio della seconda fase del pensiero di Pareyson che egli denominò: pensiero tragico. (Ma c’è una seconda fase? E se c’è, può essa comprendersi senza la prima, che, non si dimentichi, è esistenzialistica!). Ciò che non convince il Tilliette, in questa seconda fase del pensiero di Pareyson, e che egli comunica con grande chiarezza, sono i seguenti punti: 1) Il libero arbitrio identificato con l’essere stesso di Dio, è difficilmente sostenibile, come la tesi di «un Dio davanti a Dio!» per lasciare l’ombra del niente e dunque la possibilità del male! Ma è indispensabile che ci sia il male come ombra di Dio e “L’ambiguità originaria” perché il peccato dell’uomo abbia tutta la sua virulenza? Tale riflessione è poco trinitaria!

*

Catania.

Docente emerito di Storia della Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di


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Salvatore Latora

2) «Il male è in Dio allo stato latente, l’uomo lo ravviva e lo attualizza con la sua libertà, obbligando Dio a intervenire là stesso dove il focolaio si è acceso, cioè nell’uomo. Questo non è altro che puro Schelling!». 3) Da qui un pensiero tragico conseguente, la cui visione è quella di una tragedia cosmo-teandrica, che è il grande tema gnostico! 4) L’idea-forza di questa esposizione, secondo Tilliette, è che la tragicità del male riporta al problema di Dio, ma un Dio che piange, al silenzio di Dio, e a quella “cristologia laica” o filosofica che equivale al pensiero tragico. In questi che sono i più bei passaggi del testo l’A, a parere del critico, segue Lutero e Barth. 5) In conclusione, «né il fondamento (me)-ontologico, né la relazione intradivina soddisfano. Un pensiero paradossale è in grado di spiegare il male? La stupenda pagina 48 (p. 208 in Ontologia della libertà) dove si riassume il senso del cristianesimo di fronte al male, è molto “dolorista”, ma lascia intatto il problema dell’agente e strumento del male, il carnefice, il torturatore. Allo stesso modo gli handicaps e le malattie non accettate, vissute nell’abbrutimento o nella “derelezione”. Ma non si guadagna niente, anzi si perde tutto, nell’evocare un Dio impotente! Si Deus est, unde mala ? deve serbare tutta la sua “rifrangenza”. Forse bisognerebbe dissociare il male dai mali, il peccato propriamente detto e la sofferenza nelle sue molte forme (è la distinzione di Caracciolo che qui Pareyson dice di non accettare, mentre, come ha rivelato Giovanni Moretto c’è stato un proficuo carteggio con il filosofo genovese)». Fin qui Tilliette. Nella prima lettera di risposta (Rapallo, 24 maggio 1987 ), Pareyson cerca di difendere la sua posizione: «che non è un’infatuazione o un capriccio, egli scrive, ma è il frutto — quale che sia, magari fallimentare — dell’esperienza filosofica di tutta la mia vita». È rimasto malissimo, nel leggere le osservazioni di Tilliette, perché non sospettava che il disaccordo fosse così profondo e radicale, tuttavia si dice grato, perché considera questa un’occasione propizia per precisare la sua visione filosofica. Le affermazioni dell’Ontologia della libertà «certo


Una breve corrispondenza fra Xavier Tilliette e Luigi Pareyson

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non sono pensabili secondo il pensiero oggettivante della metafisica, ma se si prova a “pensare” Dio in modo più originario e profondo della metafisica, bisognerà ricorrere a un linguaggio simbolico, mitico, dialettico, unico possibile a quelle altezze (è facile qui ricordare Paul Ricoeur e Alberto Caracciolo!)». Perché considerare poi gnostica l’affermazione di una tragedia cosmoteandrica, quando si potrebbe dire, parafrasando Aristotele, nullus christianismus sine aliqua mixtura gnosticismi fuit. È gratissimo per avere sottolineato alcuni aspetti condivisibili e di avere apprezzato la “stupenda” p. 48 (208 di OL); ma ci tiene a ribadire che il suo pensiero è in perfetta aderenza con il cristianesimo : «Sono più che convinto che la mia concezione… mantiene i pilastri della dottrina cristiana. In essa la trascendenza, l’onnipotenza, la positività di Dio sono salve: l’uomo è colpevole, non naturalmente ma liberamente, la sofferenza del Redentore raggiunge il suo scopo salvifico» e quindi, essa « potrebbe modestamente servire a scuotere la concezione tradizionale in modo che possa essere rinvigorita e soprattutto attualizzata nella mentalità moderna piuttosto nichilistica». Se si accostano in parallelo le altre due lettere, si avrà come un puntuale scambio di battute, quasi un botta e risposta! Al perché far derivare la libertà dell’uomo da quella divina, Pareyson risponde: «Se la libertà umana non deriva da quella divina, da dove viene?». Se non parla della Trinità e del Diavolo è perché si pone su un piano puramente filosofico (di una filosofia come un’ermeneutica dell’esperienza religiosa) e non perché a-priori voglia sostenere una separazione fra filosofia e teologia. Accetta invece la distinzione fra Dio irato e Dio crudele. Se poi Tilliette vuole la dimostrazione della impotenza o kénosis di Dio, risponde che è un fatto legato alla sua incarnazione, «è il Cristo nella sua impotenza, nel massimo della sua umiliazione a vincere il male (mortem moriendo destruxit)». Per quanto riguarda le altre osservazioni, Pareyson ribadisce: «La mia tesi è che la caduta è stata una catastrofe proprio perché l’uomo con la sua disobbedienza ha voluto penetrare nell’officina di Dio pretendendo di sostituirsi a Lui e di poterlo fare. La gravità del male è tutta dell’uomo». Possiamo accettare così, in prima battuta, le obiezioni di Tilliette, o appagarci delle risposte sofferte di Pareyson?


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Certo è che Tilliette, che è forse uno dei frequentatori più assidui del pensiero del filosofo suo amico, entrambi conoscitori profondi di Schelling, è ritornato spesso anzi in continuazione, su quei temi (si veda Omaggi. Filosofi italiani del nostro tempo, Morcelliana, Brescia 1997, in cui ci sono tre saggi tutti dedicati a Pareyson; o il saggio: Il male e l’espiazione secondo Luigi Pareyson, in Atti del Convegno di Santa Margherita Ligure, Città del sole, Napoli 1996; anche: Riconda – Tilliette, Del male e del bene, Città Nuova, Roma 2001) trattati in molteplici occasioni, ma con un tono meno perentorio in cui si avverte un duplice atteggiamento, di accanimento critico, da un lato, e di una positiva fascinazione, dall’altro, per un Autore che dà a pensare per la sua originalità a volte temeraria su temi così scottanti ed eterni come il male, la sofferenza in rapporto con Dio, in chiave cristologia, etc. Pertanto, a noi sembra che l’ermeneutica di quelle lettere vada fatta in modo ascendente, come tracce, attraverso la rassegna evolutiva dei saggi del Critico e degli scritti dell’Autore, per risalire alle domande di fondo, a cui specialmente la nostra epoca così tragica, e in modo assolutamente inedito nella storia dell’umanità, è chiamata a dare interpretazioni e risposte originali. Il percorso filosofico di Pareyson si articola almeno in cinque fasi che si possono così riassumere: Esistenzialismo personalistico; Ontologia ermeneutica dell’inesauribile; La Filosofia come ermeneutica dell’esperienza religiosa e la centralità della figura del Cristo; Ontologia della libertà e del male; Momento escatologico come apocatastasi (Come reintegrazione della nostra libertà finita nella libertà positiva di Dio e nel suo Bene). La prospettiva filosofica cristiana di Pareyson è uno dei possibili sondaggi, originale ed audace nel mistero dell’essere, e soprattutto in quell’abisso del male, del dolore e della sofferenza; è stata etichettata come prima e seconda fase, ponendo gli interrogativi: radicalizzazione o capovolgimento della seconda fase rispetto alla prima, oppure unità di contrari? Si propende per quest’ultima interpretazione, solo se si abbandona la unicità e staticità dell’essere e si opta per la sua duplicità e ambiguità per cui occorre un metodo diaporetico piuttosto che quello dialettico governato dall’aufebung! L’ultima filosofia di Pareyson va vista, dunque, come inveramento della iniziale vocazione esistenzialistica del suo Autore e si consolida come riflessione sul religioso e sul mitico.


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Ma regge a una critica radicale sul piano dei principi ontologici fondanti? E come giustificare quell’ossimoro: Ontologia della libertà che dà il titolo all’opera postuma di Pareyson? In realtà, la ormai vastissima letteratura sul pensiero di Pareyson è quasi tutta di carattere assimilativo ed espositivo, referenziale, piuttosto che critica, giustificabile anche per la prospettiva nuova da cui vengono guardati temi radicali ed abissali come questi del male e sulla possibilità di una nuova teodicea. Come scrive Sossio Giametta, riferendo di un incontro con l’Autore a Rapallo: «Amavo anche la filosofia dell’essere, egli dice, ma non sapevo che ci fossero due filosofie. Me lo disse lui, che ne predicava e praticava un’altra. La chiamava appunto Filosofia della libertà… Per lui, la filosofia dell’essere conduce alla negazione del senso della vita e invece quella della libertà all’affermazione. Egli si era formato sugli esistenzialisti (Jaspers, Heidegger, Marcel, Berdjaev) e su Schelling, a cui, secondo lui, risale la grande svolta della filosofia verso la libertà, in contrasto con l’idealismo oggettivo di Hegel. L’esistenzialismo, per Pareyson, è sostanzialmente un’ontologia della libertà, che interpreta la vocazione più profonda della filosofia moderna. Questa, egli dice, si trova oggi di fronte alla scelta “fra l’attribuzione di un senso al mondo o l’affermazione della sua assurdità, dilemma al quale senza residuo si riduce quello dell’affermazione o negazione dell’esistenza di Dio… e non c’è forse maggior segno della presenza di Dio che l’esperienza del male, rispetto al quale la divinità è al tempo stesso termine d’infrazione e principio di redenzione”»1. Ma allora il titolo non è l’espressione di due contrari di cui si cercherebbe la sintesi? Da qui il reperimento delle posizioni critiche, poche in verità, almeno per quelle che abbiamo potuto leggere, come quella di V. Possenti2, in nome della salvaguardia della purezza e trascendenza dell’essere; e poi quella più articolata di Tilliette, di cui abbiamo detto, ma senza la contropartita, almeno non esplicita, di una proposta globale, che dia senso agli stessi problemi! 1 G. SOSSIO, I pazzi di Dio, Napoli 2002, Parte Quinta: Pareyson: Non l’essere ma la libertà – Sull’Ontologia della libertà. La sofferenza e il male (pp. 339-357) – La lezione di congedo (pp. 358-361) – Ricordo di Luigi Pareyson (pp. 362-366). 2 V. POSSENTI, Dio e il male, Torino 1995.


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Le obiezioni che però mi sembrano più consistenti sono quelle di Filippo Bartolone, discepolo di Vincenzo La Via, il quale, avendo percorso l’Assoluto realismo, attraverso Rosmini e Blondel, perviene ad una Filosofia della Libertà in senso ontologico, e quindi parallela a quella di Pareyson, e come lui studioso di Dostoievskij, ma senza quelle cadute gnostiche e attribuzione di ambiguità in Dio ( il male in Dio ), e senza discorsi temerari, ma filosofici. Basta leggere il testo della sua ultima lezione a conclusione del seminario su Libertà e male in Pareyson, alla fine dell’anno accademico 1987/’88, pubblicata in trascrizione su Itinerarium (anno VI – 11 [1998]), a cura di Marianna Gensabella Furnari (altra profonda studiosa di Pareyson nell’Università di Messina, come Rosaria Longo lo è in quella di Catania), che così presenta questi appunti, vera sintesi del lungo percorso teoretico di Bartolone, espresso in diverse e significative opere in cui ha tracciato un interessante percorso di Etica della libertà: «Attraverso queste pagine la sfida appare raccolta e sostenuta con singolare vigore teoretico, ma soprattutto con l’impegno del pensatore cristiano che vuole contrapporre alla ontologia di Pareyson, in cui la libertà coincide con l’ambiguità, in cui lo splendore del Dio vivente appare offuscato dall’ombra del nulla, la sua visione più aderente alla rivelazione cristiana, dell’essere/libertà»3. Alcune affermazioni dell’Autore ne sono una efficace conferma: «Io non accetto soprattutto questo di Pareyson: questa libertà abissale che ha un fondo oscuro che la rende ambigua, e che è il principio del male che c’è nella creazione; insomma, Dio non ha potuto creare una creatura perfetta perché, in fondo, Egli stesso non è perfetto. Se la libertà è, come sostengo,contenuto teoretico della verità, allora bisogna cercare proprio a questo livello di vedere tutto il problema della libertà: qui i miei riferimenti sono Heidegger, ma soprattutto Kant e Hegel. La libertà è l’essere, ma come verità noi la possediamo quale essere non infinito, ma universale e non reale, 3 Il numero di Itinerarium già indicato contiene una Sezione Monografica su: “Il magistero filosofico di Filippo Bartolone”. A cura di Marianna Gensabella Furnari, e contiene scritti della stessa Furnari: Credere e pensare: il difficile cristianesimo di Filippo Bartolone; di Pietro Prini : Filippo Bartolone e il significato ontologico della libertà; di Saija: Filippo Bartolone fra magistero e impegno civile; di Lupia: Bibliografia; La lezione accademica di Bartolone: L’ontologia della libertà: a confronto con Luigi Pareyson. Nello stesso numero della rivista: Amato Carmelo, Il Dio di Luigi Pareyson (Nota in margine al saggio di Marianna Gensabella Furnari, I sentieri della libertà), pp. 145-150.


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ma eidetico… Io a questo punto distinguo nettamente tra libertà significativa e libertà ontica, esistentiva» che si esprime come impegno morale nel rapporto con la natura , con gli esseri viventi, con gli uomini ed è qui che ci si rivela quel rapporto intimo della trinità che è l’Agape. La posizione di Bartolone ci sembra più aderente al pensiero cristiano; si vedano a sostegno: GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, 1984; E. BIANCHI, I paradossi della croce. Uomini e profeti, Brescia 1999; G. RAVASI, Fino a quando Signore? Un itinerario nel mistero della sofferenza e del male, Cinisello Balsamo 2002.


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Prima lettera di Tilliette a Pareyson: Chantilly, 18 aprile 19871. «…J’ai profité de la Semaine Sainte pour relire votre texte si profond et génial, sofferto, oeuvre de coeur et d’intelligence. Vous enveloppez de précautions methodologiques votre propos, mais c’est bien de Dieu et de la relation à Dieu qu’il s’agit. Or à mesure que croît mon admiration, grandissent mes réticences. Le libre arbitre identifié à l’Etre même de Dieu, qui se choisit et se fait, et non devant la Création possible, me paraît difficilement soutenable. Et pourquoi le choix de l’Etre laisserait-il l’ombre du néant et donc la possibilité (inerte) du Mal? Un “Dieu avant Dieu” n’est pas facile à penser, très théosophique. D’une façon generale votre réflexion est peu trinitaire. Vous mettez en oeuvre une pensée tragique conséquerite, votre vision est celle d’une tragédie cosmothéandrique, grand thème gnostique. La devise est: nemo contra Deum nisi Deus ipse. Le mal est en Dieu à l’état latent, l’homme le ravive et l’actualise par sa liberté, obligeant Dieu à intervenir là même ou le foyer s’est allumé, c’est-à-dire dans l’homme. C’est du pur Schelling. Est-ce indispensable qu’il y ait le mal comme ombre de Dieu et l’“ambiguïté originaire” pour que le péché de 1

Prima lettera di Tilliette: traduzione di Salvatore Latora. «…Ho approfittato della Settimana Santa per rileggere il suo testo così profondo, geniale, sofferto, opera di cuore e di intelligenza. Lei circonda di precauzioni metodologiche il suo discorso, ma è di Dio e della relazione con Dio che si tratta. Ora, man mano che cresce la mia ammirazione, aumentano le mie reticenze. Il libero arbitrio, identificato con l’Essere stesso di Dio, che si sceglie e si fa, e non prima della creazione possibile, mi sembra difficilmente sostenibile. E perché la scelta dell’Essere lascerebbe l’ombra del niente e dunque la possibilità (inerte) del Male? Un “Dio davanti a Dio” non è facile da pensare, troppo teosofico. Da un punto di vista generale la sua riflessione è poco trinitaria. Lei mette in opera un pensiero tragico conseguente; la sua visione è quella di una tragedia cosmoteandrica, grande tema gnostico, il cui motto è: nemo contra Deum nisi Deus ipse. Il male è in Dio allo stato latente, l’uomo lo ravviva e lo attualizza con la sua libertà, obbligando Dio a intervenire là stesso dove il focolaio si è acceso, cioè nell’uomo. Questo non è altro che puro Schelling. È indispensabile che ci sia il male come ombra di Dio e l’“ambiguità originaria” perché il peccato dell’uomo abbia tutta la sua


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l’homme ait toute sa virulence? Vous taisez le péché de l’ange, le péché luciférien. Vous énoncez une maxime que j’ai faite mienne depuis longtemps: mieux vaut le mal librement que le bien par contrainte. Mais cela ne veut pas dire que le péché fait sortir de l’innocence infantile et “du paradis des animaux”. L’idée-force de votre exposé est que le Mal indique Dieu, le Mal aiguillonne la question de Dieu. Et vos plus beaux passages concernent le Dieu qui pleure, le silence de Dieu et, en général, cette “christologie laïque” ou philosophique qui équivaut à la pensée tragique. De même on ne peut vous reprocher d’escamoter le mal sous ses aspects les plus opaques, les monstres moraux, les monstres physiques, les innocents massacrés, Cottolengo, l’holocauste [...] Mais peut-on aller outre le silence de Dieu? Vous dialectisez à outrance, derrière Luther et Barth: Dieu est cruel, ce même Dieu qui pleure, il est miséricordieux parce qu’il est cruel, cruel parce que miséricordieux. Qui vous suivra jusque là? Le paradoxe est le Dieu souffrant. Le Dieu cruel est une métaphore, le Dieu miséricordieux une réalité. Cela me fait penser à Castelli pour qui le Kyrie Eleison était un blasphème, parce qu’il donnait à supposer que Dieu pourrait ne pas avoir pitié. L. Bloy parlait de la Divine Compassion. Donc ni l’assise (mé)ontologique, ni la relation intradivine ne me satisfont. Une pensee paradoxale est-elle a la mesure du mal? L’admirable pag. 48, où vous résumez le chtistianisme en face du mal, est très doloriste, mais elle laisse virulenza? Lei tralascia il peccato dell’angelo, il peccato luciferino; ed enuncia una massima che ho fatto mia già da molto tempo: è meglio il male libero che il bene imposto. Ma ciò non vuole affatto dire che il peccato ci fa uscire dall’innocenza infantile e “dal paradiso degli animali”. L’idea forza della sua esposizione è che il Male addita Dio, il Male suscita la questione di Dio. E i suoi bei passaggi riguardano il Dio che piange, il silenzio di Dio e, in generale, quella “cristologia laica” o filosofica che equivale al pensiero tragico. Nello stesso tempo non le si può rimproverare di eludere il male nei suoi aspetti più opachi, i mostri morali, i mostri fisici, gli innocenti massacrati, il Cottolengo, l’olocausto [...] Ma si può andare oltre il silenzio di Dio? Lei dialettizza ad oltranza, seguendo Lutero e Barth: è crudele lo stesso Dio che piange, è misericordioso perché crudele, crudele perché misericordioso. Chi la seguirà fino a quel punto? Il paradosso è il Dio sofferente. Il Dio crudele è una metafora, il Dio misericordioso una realtà. Questo mi fa pensare a Castelli per il quale il Kyrie Eleison era una bestemmia, perché faceva supporre che Dio potrebbe non aver pietà. Leon Bloy parlava della Divina Compassione. Dunque né il fondamento (me)ontologico, né la relazione intradivina mi soddisfano. Un pensiero paradossale è in grado di spiegare il male? La stupenda pag. 48 dove lei riassume il senso del cristianesimo di fronte al male, è molto “dolorista”, ma lascia intatto il problema dell’agente e strumento del male, il carnefice, il


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intact le problème de l’agent et instrument du mal, le bourreau, le tortionnaire. De même les handicaps et les maladies non assumés, vécus dans I’abrutissement ou la déréliction2. Mais on ne gagne rien, on perd tout, à évoquer un Dieu impuissant. “Si Deus est, unde mala?” doit garder toute sa réfringence. Peut-être faudrait-il dissocier le mal et les maux, le péché proprement dit et la souffrance multiforme. Excusez ces rapides perplexités. Fidèlement votre [...]»

Prima risposta di Pareyson a Tilliette: Rapallo, 24 maggio 1987. «…Cerco di riassumere in poco spazio le innumerevoli considerazioni che ho svolto sotto il pungolo della Sua critica. La Sua critica ha una perentorietà e decisione tali che l’ho sentita come una requisitoria, un’intimazione, un ultimatum. Ne sono rimasto malissimo, perché non sospettavo che il Suo disaccordo fosse così profondo e radicale; ma Gliene sono grato, perché mi aiuta a precisare a me stesso il mio modo di vedere, il quale non è un’infatuazione o un capriccio, ma è il frutto — quale che sia, magari fallimentare — dell’esperienza filosofica di tutta la mia vita. Esito ad accettare che la concezione di Dio come libertà possa essere interpretata come identificazione di libero arbitrio con Dio. D’altra parte come potrebbe derivare la libertà umana nella sua duplicità di positiva e negativa da un Dio dove la libertà non sarebbe che necessità? La libertà umana non trova spiegazione nel Dio metafisico di tal fatta, ma piuttosto nel Dio biblico, ch’è assoluta libertà. Vorrei vedere la dimostrazione che un’idea del genere è “difficilment soutenable”. Non mi sembra un’obiezione dire che “un Dieu avant Dieu n’est pas facile à penser, très théosophique”. Certo non è pensabile secondo il pensiero oggettivante della metafisica, ma se si prova a “pensare” Dio in modo più originario e profondo della metafisica, bisognerà ricorrere ad un torturatore. Allo stesso modo gli handicaps e le malattie non accettate, vissute nell’abbrutimento o nella “derelizione”. Ma non si guadagna niente, anzi si perde tutto, nell’evocare un Dio impotente. “Si Deus est, unde mala?” deve serbare tutta la sua rifrangenza . Forse bisognerebbe dissociare il male dai mali, il peccato propriamente detto e la sofferenza nelle sue molte forme. Mi scusi per queste rapide perplessità — Fedelmente suo [...]». 2 Approfondire con Hanna Arendt e con L’uomo di fiducia di Melville.


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linguaggio simbolico, mitico, dialettico, unico possibile a quelle altezze. Non per questo è necessario considerare come “teosofia” quei colpi di sonda nell’indicibile; altrimenti ogni considerazione non meramente metafisicooggettivante su Dio sarebbe “teosofia”. Perché le mie riflessioni siano poco trinitarie non capisco. Il mio testo vuol essere filosofico, e in quanto tale non parla della Trinità (né parla del diavolo). Ciò non implica che la Trinità e il diavolo siano negati: in ogni caso io parlo del Figlio. Né è un’obiezione considerare gnostica la tragedia cosmoteandrica: potrei dire parafrasando Aristotele che nullus christianismus sine aliqua mixtura gnosticismi fuit. Non so fino a che punto il motto Nemo contra Deum nisi Deus ipse mi si addica. Forse sì, se è detto in modo antimanicheo; certo no se lo sfondo e panteistico. In generale contro Dio è stato l’uomo (e l’angelo di cui non parlo perchè il mio discorso è filosofico). Tutto questo, Lei dice, “c’est du pur Schelling”. È forse questa un’obiezione? Devo precisare però che c’è in Schelling un aspetto non consentaneo con tutto ciò, aspetto che io non accetto; e che se mi sono tanto identificato con Schelling è perché ho trovato in lui proprio ciò che volevo e che cercavo. Dico che è meglio il male libero che il bene imposto, e ciò è del più puro Dostoevskij, nel quale Lei ed io su questo punto ci riconosciamo completamente. E Lei soggiunge “cela ne veut pas dire que le péché fait sortir de l’innocence infantile e du paradis des animaux”. E infatti io non l’ho detto. In ogni modo tale eventualità ha luogo non meno con l’obbedienza che con la ribellione, perché essa ha luogo con l’esercizio della libertà. Ma riconosco che su questo punto a pag. 37 ho detto alcune cose che dovrò ritrattare, riconsiderare e modificare. Le sono gratissimo dei riconoscimenti, e soprattutto quando Lei dice e ammette che non mi si può accusare “d’escamoter le mal sous ses aspects les plus opaques”. Ma non accetto le obiezioni sulla “crudeltà” di Dio. Con questa espressione non dico né più né meno di ciò che dice la Scrittura quando parla dell’ira di Dio, della sua collera, del suo furore. In questo senso l’ira (la crudeltà) di Dio non è più una metafora o una realtà di quanto non lo sia la misericordia divina. La Bibbia parla di entrambe in senso non più metaforico che reale, e viceversa, e ne parla solitamente insieme. E infatti solo congiunte hanno rispetto all’uomo il loro significato. Questa loro congiunzione è la dialettica che ne faccio, forse (o certo) al seguito di Barth e Lutero; e che male c’è in ciò? Non colgo bene il parce que in cui Lei riassume il senso della mia riflessione; “il est miséricordieux parce qu’il est cruel, cruel


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parce que miséricordieux”. Quanto alla dichiarazione di Castelli, che il Kyrie eleison è una bestemmia, io ribatto che una bestemmia è questa dichiarazione di Castelli, che assolutizza una presunzione umana di misericordia divina e inchioda la misericordia divina a una necessità naturalistica. Lei dice: « une pensée paradoxale est elle à la mesure du mal?». Certamente no, se per paradosso s’intende l’arguzia, il motto di spirito, il concettino, la agredeza, la saillie, el arte de ingenio, l’artificiosità barocca. Ma se per paradosso s’intende quello di Kierkegaard, ch’è a misura dello stesso cristianesimo, allora certamente sì. Le son grato del riconoscimento della pag. 48, alla quale però attribuisco un senso più tragico che doloristico (che mi sembra troppo sentimentale). Ma Le sarei grato se mi spiegasse in che cosa questa pagina e in generale la mia prospettiva “laisse intact le problème de l’agent et instrument du mal, le bourreau, le tortionnaire”, e inoltre “les handicaps ou les maladies non assumés, vécus dans l’abrutissement ou la déréliction”. Vorrei saperlo per un utile (e penso necessario) approfondimento. Lei soggiunge “on ne gagne rien, on perd tout, à évoquer un Dieu impuissant”. Sono così d’accordo che tutto il mio sforzo è stato di mettere d’accordo l’impotenza divina quale appare nel Cristo e in generale nella kenosi sul conto della onnipotenza di Dio. Lei prospetta da ultimo l’idea di “dissocier le mal et les maux”, che sarebbe, se capisco bene, l’idea di Caracciolo, che non mi convince per nulla. In conclusione. Non bisogna prospettare tutta questa problematica oggettivisticamente come nella metafisica, come una derivazione in discesa: prima Dio, poi l’uomo. Bisogna considerarla con uno sguardo totale, centrato sull’esperienza del male nel mondo umano. Unico autore del quale è l’uomo, che tuttavia non ha tanta inventività da immaginare e figurare il male: egli si limita a farlo. (Nemmeno il diavolo in fondo è inventore del male, perché anche lui è caduto, ed è per la sua caduta che ora non fa che tentare l’uomo, per la perversità del malvagio di corrompere chicchessia. Il diavolo non è il Principio del male, ma soltanto il principe delle tenebre. Non è Arimane, non è il manicheo Dio del male). Donde attinge l’uomo (o il diavolo) l’idea del male? Ovviamente essa c’è già, nel cuore dell’universo: inerte ma presente. È una possibilità che Dio con la sua stessa esistenza ha scartato. Ma l’uomo la ritrova, la ravviva, la realizza. Ora mi domando: come può essere fuori del cristianesimo una concezione come la mia? Sarà fuori dalla tradizione che platonicamente e moralisticamente insiste sull’identità Dio-Bene (che io


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trovo inferiore al livello della trascendenza divina) piuttosto che insistere tragicamente sulla libertà assoluta di Dio. La mia concezione potrebbe modestamente servire a scuotere la concezione tradizionale, in modo che possa essere rinvigorita, e soprattutto attualizzata nella mentalità moderna piuttosto nichilistica. Ma sono più che convinto che la mia concezione, quale che ne sia l’importanza e il valore, mantiene i pilastri della dottrina cristiana. In essa la trascendenza, l’onnipotenza, la positività di Dio sono salve: l’uomo è consapevole, non naturalmente ma liberamente, la sofferenza del Redentore raggiunge il suo scopo salvifico. Et de hoc satis…». Seconda lettera di Tilliette a Pareyson: Chantilly, 27 giugno 19873. «…J’ai bien vu que vous aviez été affecté par ma réplique, mais je ne pense pas que le désaccord soit aussi tranché que vous l’envisagez. Je ne le ressens pas comme tel. Mais il y-a de forts points de divergence. Vous vous défendez vigoureusement, est-ce à dire que vous m’avez convaincu? Dieu est une liberté nécessaire ou une nécessité libre, c’est-à-dire une nécessité morale — au delà de l’antithèse nécessité-liberté. Je ne vois pas qu’il faille “dériver” la liberté humaine de la liberté divine, et conclure de celle-là à celle-ci. L’image de Dieu procède de l’absolue liberté divine, elle est (peut être) en nous le libre arbitre, cela n’implique pas le libre arbitre tel quel en Dieu infini — sans mélange de finitude ou excavation de néant. Je ne suis pas ennemi de la théosophie, surtout au sens rosminien. Mais la théosophie des visionnaires doit être soigneusement criblée. Au reste je ne vous chicane pas sur I’herméneutique des mythes. Je ne vois pas pourquoi 3

Seconda lettera di Tilliette: traduzione di Salvatore Latora. «…Ho ben compreso che lei è stato colpito dalla mia replica, ma io non penso che il disaccordo sia netto così come lei crede. Non lo considero tale perché vi sono diversi punti di divergenza. Lei si difende vigorosamente, vuol dire forse che mi abbia convinto? Dio è una libertà necessaria o una necessità libera, cioè una necessità morale, al di là dell’antitesi necessità-libertà. Non vedo il fatto che bisogna “far derivare” la libertà umana dalla libertà divina, e dedurre da quella questa. L’immagine di Dio procede dall’assoluta libertà divina; essa è (forse) in noi come libero arbitrio, ma ciò non implica il libero arbitrio così come è in Dio infinito, senza mescolanza di finitezza o scavo nel nulla. Non sono nemico della teosofia, soprattutto nel senso rosminiano. Ma la teosofia dei visionari deve essere accuratamente vagliata. Per il resto non voglio cavillare sull’ermeneutica dei miti. Non vedo perché


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la philosophie n’a pas à s’occuper de la Trinité ou du diable. Au moins comme philosophie de la religion. En outre la plupart des grandes philosophies modernes, de Malebranche à Hegel, sont orientées vers la Trinité. Votre conception d’une philosophie très délimitée de la théologie me paraît un peu surannée. C’est d’ailleurs pourquoi je suis loin de désapprouver votre recours à la gnose et même au gnosticisme. Votre timidité en ce qui concerne I’Ange est superflue. Le dicton “Nemo contra Deum...” n’est pas de ma part une objection, d’autant que votre théorie le suppose pour justifier l’aveu du Dieu cruel et couper court à tout marcionisme et manichéisme. Filium suum non pepercit… Quand j’écris: c’est du pur Schelling, je n’entends pas le condamner et vous condamner, mais je sousentends que sa doctrine du Mal ne me satisfait pas entièrement, à cause de ce Mal en Dieu, résiduel, calcaire, fossilisé, que la liberté humaine réactive et fait rougeoyer. Va pour la cruauté de Dieu, malgré la saveur luthérienne et barthienne. Du moment que cruauté signifie courroux, colère... Mais le Zorn Gottes a des connotations symboliques différentes du Dieu cruel, du Dieu trompeur, du Dieu perfide... toutes métaphores qui démonisent Dieu et fleurent la théosophie du gnosticisme. Néanmoins, je ne crois pas que la même intentionalité vise le Dieu cruel (le Dieu méchant) et le Dieu irrité. Je vous ai formulé une antithèse ou une antinomie assez spécieuse: cruel sur la filosofia non debba occuparsi della Trinità o del diavolo, almeno come filosofia della religione. Si aggiunga che la maggior parte dei grandi filosofi moderni, da Malebranche a Hegel, sono orientati verso la Trinità. La sua concezione di una filosofia ben delimitata dalla teologia mi pare un po’ sorpassata. È del resto il motivo per cui sono lontano dal disapprovare il suo ricorso alla gnosi e anche allo gnosticismo. La sua timidezza per ciò che concerne l’Angelo e superflua. L’espressione: “Nemo contra Deum…” non è da parte mia una obiezione, visto che la sua teoria la suppone per giustificare l’ammissione di un Dio crudele e por fine ad ogni marcionismo e manicheismo. Filium suum non pepercit… Quando scrivo: “è del puro Schelling”, non intendo condannarlo né condannare lei, ma sottintendo che la sua dottrina del Male non mi soddisfa interamente, a causa di quel Male in Dio, residuo, pietrificato, fossilizzato, che la libertà umana riattiva e fa rivivere. Vada per la crudeltà di Dio, malgrado il sapore luterano e barthiano. Dal momento che crudeltà significa sdegno, collera… Ma la Zorn Gottes (l’ira di Dio) ha delle connotazioni simboliche differenti dal Dio crudele, ingannatore, perfido… tutte metafore che demonizzano Dio e infiorano la teosofia dello gnosticismo. Tuttavia, non credo che la stessa intenzionalità riguardi il Dio crudele (il Dio malvagio) e il Dio adirato. Io le ho formulato una antitesi o una antinomia abbastanza speciosa: crudele sulla base della misericordia; misericordioso sulla base della crudeltà. La


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fond de miséricorde, miséricordieux sur fond de cruauté. La formule est éminemment dialectique. Dieu ne serait pas miséricordieux s’il n’était en même temps (possiblement) cruel, Dieu ne serait pas cruel s’il n’était en même temps (possiblement) miséricordieux. Le Dieu d’Abraham est une figure insurpassable. D’ailleurs la méditation du sacrifice d’Isaac oblige à nuancer votre indistinction du Dieu cruel et du Dieu vengeur, courroucé. Si Dieu est défait avec sa création, nous sommes perdus. Mais relisez votre belle p 48, vous verrez qu’elle suppose un noyau de joie au coeur de la souffrance, et que la douleur se transformera en joie. Or le sadique n’est pas inclus dans cette transmutation, ni la souffrance innocente réduite à l’objectivité (handicapés mentaux, monstres, débiles profonds). Le problème demeure, qui n’est surmonté que par une eschatologie anxieuse. J’avais bien vu que vous attribuez l’impuissance de Dieu à sa toute-puissance, encore faudrait-il expliquer pourquoi… Je continue à voir dans le mal et les maux une différence de nature, sinon d’origine. L’origine du problème du mal n’est pas l’homme, j’en tombe d’accord. Selon vous elle n’est pas non plus en Satan, prince de ténèbres, mais non principe du mal. Satan n’a fait que l’actuer. C’est Schelling encore, en ce qu’il n’a pas de plus convaincant. Vous dites que l’idee du mal est dejà au coeur de la creation, inerte mais présente, une possibilité écartée par Dieu. Il faut bien

formula è eminentemente dialettica. Dio non sarebbe misericordioso se Egli non fosse nello stesso tempo (possibilmente) crudele; Dio non sarebbe crudele se Egli non fosse nello stesso tempo (possibilmente) misericordioso. Il Dio di Abramo è una figura insuperabile. D’altra parte, la meditazione del sacrificio di Isacco obbliga a sfumare la indistinzione che lei fa tra il Dio crudele e il Dio vendicatore, corrucciato. Se Dio è sconfitto con la sua creazione, siamo perduti! Rilegga la sua bella pagina 48 e vedrà che essa suppone un nucleo di gioia nel cuore della sofferenza, e che il dolore si trasformerà in gioia. Orbene, il sadico non è incluso in questa trasmutazione, né la sofferenza innocente ridotta a fatti oggettivi (handicappati mentali, mostri, debilitati gravi) .Il problema resta, dato che non è superato,se non da una escatologia ansiosa. Avevo visto bene che lei attribuisce l’impotenza di Dio alla sua somma potenza; bisognerebbe tuttavia spiegare il perché… Io continuo a vedere tra il male e i mali una differenza di natura, se non di origine. L’origine del problema del male non è l’uomo, sono d’accordo. Secondo lei essa (origine) non è neppure in Satana, principe delle tenebre, ma non principio del male. Satana non fa che attuarlo. Questo e ancora Schelling, in ciò che non ha di più convincente. Lei dice che l’idea del male è già nel cuore della creazione, inerte ma presente, una possibilità scartata da Dio. Bisogna tuttavia che essa abbia un soggetto, è una


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cependant qu’elle ait un sujet, c’est une possibilité latente de la liberté. Le mal comme péché est liè à la liberté, une liberté chez certains affreusement dévoyée. Mais il faut un effort pour accepter l’atrocité de certains criminels, la déchéance de la maladie et de la folie chez certains malheureux. Hitler et “Cottolengo”. Mettre le mal, même exténué, en Dieu ne lui donne pas une plus grande force. Il est vrai que, dans l’intention et même dans l’exécution, vous maintenez les piliers de la doctrine — mais au risque d’affaiblir votre thése qui est de donner au mal sa réfringence, son flamboiement…».

Seconda risposta di Pareyson a Tillyette: Rapallo, 12 luglio 1987. «…Se la libertà umana non deriva (proviene, trae origine, nasce, scaturisce, discende) da quella divina, da dove viene? E che cos’è Dio? Io identifico così poco Dio col “libero arbitrio”, che invece sostengo che la sua stessa esistenza è la sua positività; dire “Dio esiste” significa dire che il male e il nulla sono vinti ab aeterno. Non sostengo certo che Dio possa avere scelto il male o il nulla, che Dio possa essere il Dio del male o autodistruggersi. Lei si ferma troppo poco sulla mia affermazione della positività divina. Se non parlo della Trinità e del Diavolo, non è perché io sostenga un’eccessiva e superata separatezza fra teologia e filosofia; ma perché mentre la teologia deve parlare della Trinità e dell’Angelo, la filosofia, più libera, può non parlarne, né è tenuta a farlo, né può essere biasimata perché non lo fa, soprattutto se si propone — com’è il mio caso — d’essere un’ermeneutica dell’esperienza religiosa. Non ho alcuna timidezza nei confronti dell’Angelo: posto ch’è la creatura caduta che ridesta e realizza il male, fa poca differenza ch’essa sia l’Angelo o l’uomo. Né la responsabilità dell’uomo è diminuita se egli nella caduta si lascia ingannare dal demonio. Profonde — e per me illuminanti — le Sue considerazioni sulla distinzione possibilità latente della libertà. Il male come peccato è legato alla libertà, una libertà presso alcuni orrendamente deformata. Ma occorre uno sforzo per accettare l’atrocità di certi criminali, il decadimento della malattia e della follia in certi infelici. Hitler e il “Cottolengo”. Mettere il male, anche estenuato, in Dio non gli dà una più grande forza, È vero che nell’intenzione e anche nell’esecuzione lei mantiene i pilastri della dottrina, ma col rischio di indebolire la sua tesi che è quella di dare al male la sua rifrangenza e il suo divampare…».


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fra Dio irato e Dio crudele. Manca poco che sia Lei a insegnarmi che Dio è crudele… Lei dice “j’avais bien vu que vous attribuez l’impuissance de Dieu à sa toute-puissance, encore faudrait-il expliquer pourquoi”. Non vorrà ch’io ne faccia una deduzione a priori, dimostrando che l’onnipotenza di Dio non possa se non manifestarsi come impotenza! L’impotenza di Dio è un fatto, legato alla sua incarnazione. Ma che sia il Cristo nella sua impotenza, nel massimo della sua umiliazione a vincere il male (mortem moriendo destruxit), quale maggiore manifestazione dell’onnipotenza di Dio! Questa è la spiegazione. Lei sembra sostenere che nella misura in cui io mantengo la dottrina, indebolisco la “réfringence” che intendo dare al male. Ma la mia tesi non è che “mettre le mal, même exténué, en Dieu”, gli dia più forza. La mia tesi è che la caduta è stata una catastrofe proprio perché l’uomo con la sua disobbedienza ha voluto penetrare nell’officina di Dio pretendendo di sostituirsi a lui e di poterlo fare. La gravità del male e tutta dell’uomo…».



Synaxis XXIV/1 (2006) 145-175

LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA MADRE DI BIANCAVILLA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693

SALVO CALOGERO*

1. INTRODUZIONE Della basilica Collegiata di Biancavilla è stato scritto che «L’originale chiesa, benché avesse le stesse dimensioni d’ora in larghezza e altezza, pure era assai più corta di tre archi e col tetto di legname. Crescendo la popolazione la chiesa venne allungata nel 1734 a spese del popolo, sotto l’ab. Pietro Piccione, che fece anche costruire a proprie spese il prospetto di pietra calcare (L’anno è segnato sul frontone della porta di centro)»1.

Queste notizie furono pubblicate2 nel 1907 dal sacerdote don Placido Bucolo il quale nella stessa pubblicazione scrisse: «Il terremoto del 1693, che portò immenso lutto a Catania e a tutti i paesi circumetnei, risparmiò Biancavilla. Il Privitera (Dolorosa tragedia) e il Burgos (Terremotus siculus), nell’enumerare i paesi e il numero delle

*

Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. F. NICOTRA, Biancavilla, in Dizionario illustrato dei comuni siciliani, II, Palermo 1907, 552. 2 Il testo del dizionario che si rifersice alla storia di Biancavilla fu redatto dal sac. Placido Bucolo, come scrive il Nicotra in una nota inserita all’inizio del capitolo: «Il chiarissimo dottor Bucolo sac. Placido, distinto cultore di memorie patrie, dietro invito dell’on. Sindaco avv. Alfio Bruno Tomaselli, mi ha onorato della intelligente sua collaborazione, compilando la monografia del suo loco natio. Lo ringrazio con sentimenti di viva gratitudine» (ibid., 545). 1


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Salvo Calogero popolazioni colpite dal terremoto, non riportarono Biancavilla. Né si può dire che sia stato tralasciato per l’esiguo numero dei morti, perché di Adernò dicono che ebbe due morti»3.

Quindi l’ipotesi che l’originale chiesa, ampliata nel 1734, non fu danneggiata dal terremoto del 1693 si basava sui testi del Privitera e del Burgos, senza un supporto archivistico che ne dimostrasse l’attendibilità. Recenti studi, eseguiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia4, hanno dimostrato che Biancavilla non fu risparmiata dal terremoto dell’11 gennaio 1693, ma fu colpita alle ore 13:30 con una scossa dell’VIII grado MCS, in contrasto con quanto scritto dal Bucolo. Inoltre, il rinvenimento di alcuni documenti riguardanti i mandati di pagamento effettuati dal 1704 al 1738 e i contratti di appalto per la costruzione della chiesa matrice, consente di approfondire le notizie tramandate dal Bucolo5. Infatti, dai documenti si evince che, mentre si riparavano i danni subiti dal terremoto del 1693 nella “vecchia chiesa”, si pensò di costruirne una nuova più grande della precedente. Dall’esame dei documenti rinvenuti, oltre a ripercorrere le fasi costruttive della nuova chiesa, sono stati riscontrati anche i nomi di alcune importanti maestranze che contribuirono alla ricostruzione di Catania dopo il terremoto del 1693.

2. LE RIPARAZIONI ALLA “VECCHIA CHIESA” DOPO IL SISMA DEL 1693 Il primo mandato risale al 20 gennaio 1704 e riporta il pagamento effettuato per la realizzazione della balaustrata davanti all’altare maggiore6, 3

Ibid., 551. E. BOSCHI – E. GUIDOBONI, Catania terremoti e lave, dal mondo antico alla fine del Novecento, Bologna 2001, 116. 5 Vedi anche P. BUCOLO, Storia di Biancavilla, Adrano 1953. 6 Il «Rev.do Sac.te don Giosuè Muscarà collettore della gabella del grano della Madrice Chiesa di Biancavilla delli denari di essa» dichiara di avere «pagate onze otto al Rev.do Sac.te don Placido Portale come procuratore di detta chiesa […] in subsidio et aggiuto del dispendio necessario per la palostrata dell’Altare Maggiore di detta Chiesa Madrice […] come appare per contratto stipulato nell’atti di Notar Domenico Muscarà R. p. di questa suddetta terra» (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA [A.S. CT], Fondo Corporazioni religiose soppresse [CC.RR.SS.], busta 25 (ex b. 23), carta 568r, 20 gennaio 1704). 4


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facendo supporre che già nel 1704 la chiesa madre di Biancavilla era pressoché ultimata e si procedeva a rifinirla con gli elementi di arredo. Altri mandati di pagamento chiariscono che i lavori eseguiti riguardarono le riparazioni dei danni subiti dall’evento sismico. Nei suddetti mandati è riportato il compenso assegnato a «Giuseppe Monachello come capo mastro di detta chiesa al quale se li pagano per gisso, madoni, canali, e mastria, acqua e manovali per serviggio come appare fatto in detta chiesa»7, e «date e pagate per serviggio di detta Matrice a mastro Giuseppe Monachello cioè per 800 madoni [...], canali n. 700 […] calcina per mettere detti madoni quali apparono in detta Matrice salmi dui ed rina […], gisso per fare la sollacca sopra la sacristia […], date a mastro Giuseppe Monachello per sua maestria e manuale […] per comprare dui faxi di canni che serviro sopra la Cappella del Santissimo Crocifisso et sopra la Cappella di S. Anna»8.

Il ruolo di direttore dei lavori svolto nel cantiere da Giuseppe Monachello, capo mastro di Biancavilla, è chiarito dal mandato di pagamento eseguito l’8 ottobre dello stesso anno, nel quale si legge: «date e pagate onze due a mastro Giuseppe Munachello mastro fabriceri allo quale se li pagaro per esserci assegnati ogni anno dalli mastri Giorati, ad effetto di rivedere e consare il tetto di detta Chiesa matrice sì come appar in virtù di contratto»9.

Nel 1706 si completarono i lavori nella “vecchia chiesa” e per le opere di arredo furono «date e pagate al Rev.do Sac.te don Placido Portale onze quattro allo quale se li pagaro per quello averli speso e pagato nella custodia del SS. Sacramento di detta Chiesa Matrice cioè onze 2.12 per maestria d’innargentatura onza 1 per compra d’argento, e tarì 18 per vernice»10 e «date e 7 8 9 10

Ibid., c. 569r, 29 gennaio 1704. Ibid., c. 570r, 7 agosto 1704. Ibid., c. 571r, 8 ottobre 1704. Ibid., c. 573r, 20 febbraio 1706.


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Salvo Calogero pagate onza una tarì, sedici e grana tredici a Francesco Cestella mastro servente, allo quale se li pagaro per quello averli speso e comprato per farci invisolato un pezzo di detta Chiesa Matrice, cioè per un migliaro di madoni […], e tarì 4 per aversi posto la mostura sopra lo sgabello dell’altare del SS. Sacramento di detta Chiesa Matrice»11.

Altri documenti confermano l’ipotesi che i lavori eseguiti da Giuseppe Monachello riguardarono la “vecchia chiesa”. Il primo è un mandato di pagamento del 25 agosto 1707 nel quale si legge: «date e pagate tarì venti, e grana cinque a mastro Giuseppe Monachello mastro fabricero allo quale se li pagaro per quello averli speso, cioè tarì 15 per 500 ciaramidi per mettersi sopra la Chiesa Matrice, tarì 1.5 per carriatura di detti cianamidi, tarì 1.10 per comprare un legno per mettersi sopra la sacristia di detta Chiesa»12,

e il secondo, effettuato il 9 gennaio 1708, riporta: «date e pagate a mastro Gioseppe Monachello onza una, e tarì due, al quale vi si pagaro per quello averli applicato a servigio di detta venerabile Chiesa per alcuni repari di detta Chiesa, cioè […] per mastria, manuvali, chiova, ed acqua […] per 400 canali […] per n. 30 Canalone»13.

Inoltre, nel mandato di pagamento del 3 gennaio 1708 si legge: «date e pagate al Rev.do Sac.te don Placido Portale, al presente procuratore di detta chiesa, onze due e tarì quindici, al quale vi si fanno pagare per aggiuto d’un palio d’altare di legname per detto di Portale da farsi, il quale deve servire per l’altare maggiore di detta venerabile Chiesa»14.

Il fatto che il paliotto sia stato realizzato in legno conferma che, oltre ad essere stata riparata dai danni subiti dal terremoto, la “vecchia chiesa” era 11 12 13 14

Ibid., c. 574r, 8 maggio 1706. Ibid., c. 577r, 25 agosto 1707. Ibid., c. 580r, 9 gennaio 1708. Ibid., c. 579r, 3 gennaio 1708.


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stata pensata come provvisoria, al fine di svolgere le funzioni liturgiche in attesa di completare quella nuova.

3. LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA CHIESA MATRICE I lavori per la nuova chiesa furono affidati il 17 ottobre 1704 al “Capo Mastro” Giuseppe Longobardo15 della città di Catania. Questa notizia si evince dal documento del 2 marzo 1709 nel quale si legge: «Magister Joseph, magister Natalis et magister Joannis Battista Longummardo clarissimae et fidelissimae Urbis Catanae ac modo hic Alba Villa reperti, mihi Notai cogniti coram nobis […] clarissimo don Petro Maria Piccione uti administratore grani unis venerabilis Ecclesiae Matricis huius predictae terrae dicto nomine solvere onze 46.2.5 del staglio della fabrica di detta chiesa, ac applicatione et vigore contrattus obligationis come per acta mea Notario infrascritto sub die decimo septimo octobris decima tertia inditione 1704»16.

Il 3 maggio 1709 si prelevarono alcune somme per pagare «Magister Joseph, Magister Natalis, et Magister Joannis Battista Longobardo clarissimae et fidelissimae Urbis Catanae uti fabri murarii ut detti d’haver fabricato come staglianti della fabrica di detta chiesa»17

e l’11 ottobre dello stesso anno, come per «acta Notar Francisci Puglisi predictae urbis sub die octavo octobre 1709» autenticato con il sigillo 15 Giuseppe Longobardo durante la ricostruzione di Catania ebbe l’incarico, in qualità di capo mastro, di edificare la Cattedrale, il palazzo Senatorio e il monastero di San Nicolò l’Arena (Cfr L. SARULLO, Dizionario degli artisti siciliani. Architettura, Palermo 1993, 256). 16 A.S. CT, CC. RR. SS., b. 25 (ex b. 23), c. 581r, 2 marzo 1709. Vedi anche «notaio Domenico Muscarà di Biancavilla: copia apoca onze 9 pro clarissimo don Petro Maria Piccione nominibus contra magistro Joseph Lombardo et consortes […] die 30 marzo 1709» (ibid., c. 582r.). 17 Ibid., c. 583r, 3 maggio 1709.


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Salvo Calogero

del Senato di Catania, i suddetti Longobardo dichiararono che rimanevano creditori di «onze 22.20 a raggione dello staglio della fabbrica di detta venerabile Chiesa, come appare nel contratto de’ 17 ottobre 1704», mentre per ultimare i lavori appaltati, rimanevano «canne 24 di fabbrica, […] l’intaglio delle finestre della sacrestia di detta Chiesa […] incannare e chiovare la legname di detta sacristia»18. Il suddetto atto fu stipulato da Giuseppe Longobardo in quanto, essendo stato incaricato nel 1709 a dirigere i lavori della cattedrale di Catania19, dovette abbandonare il cantiere di Biancavilla. In un documento del 31 agosto 1715 si legge: «Signor Abate don Pietro Maria Piccione thesauraro del g.ra dello strumento della nostra Chiesa Matrice di questa terra di Biancavilla eletto dall’ill.mo signor dottor don Giuseppe Maria Fernandes amministratore generale delli stati del fu Signor duca Petrone delli denari d’essa in nostro potere date e pagate onze due a’ mastro Giuseppe Munachello, allo quale se li pagaro come mastro fabricero, che ha cura di tutti li discorsi di detta chiesa Matrice, e per suo salario di questo presente anno ottava indizione 1714 e 1715»20.

Lo stesso giorno fu trascritto nei mandati di pagamento: «date e pagate al rev.do sacerdote don Nicolò Biondo onze quattro […] per suo salario»21 e «date e pagate a’ mastro Pascali Tangredi onze dieci, tarì venticinque e grana dicesetti, allo quale se li pagaro per haver fatto due vitriati alla suddetta Chiesa Matrice, e nelli fenestroni della sacristia»22.

Il 15 settembre 1717 diventato abate e depositario della chiesa matrice don Pietro Maria Piccione, nipote dell’abate Antonino Piccione, fu

18

Ibid., c. 586r, 11 ottobre 1709. Cfr S. CALOGERO, La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693, in Synaxis 22 (2004) 113-148. 20 A.S. CT, CC. RR. SS., b. 25 (ex b. 23), c. 589r, 31 agosto 1715. 21 Ibid., c. 590r., 31 agosto 1715. 22 Ibid., c. 591r., 31 agosto 1715. 19


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stipulato un contratto23 con «magister Joseph, magister Michael et magister Placidus Monachello pater et filii huius terrae Albae Villae», con il quale si impegnarono ad eseguire per onze 13.8.1 «la costruzione delli pilastri di essa chiesa e fabrica della medesima; onze tre per il fossato del secondo pilastro all’entrar della Chiesa per man destra. Item per mastria di scoprire e coprire l’ala di nostra Signora dell’Elemosina con suo pennello onze una tarì vent’uno e grana sette. Item onze una e tarì duodeci per prezzo 1 migliaro uno, e quattro cento canali. Item tarì sei per prezzo di dui cento canne. Item onza una e grana dieci per prezzo di cinque legni serrati, tagliati e portati. Item onza una per aprire la fabbrica antica a’ tre pilastri con loro fossati; Item onza una per li fossati nella cappella di S. Placido. Item tarì quindici e grana otto per uscire 358 pezzi d’intaglio della petriera. Item per diroccare il muro dove vi era l’altare del Glorioso S. Giuseppe tarì 2 grana 10 […]. Item tarì quattro e grana sedici per diroccarsi la cappella di S. Antonio di Padova, ed il compimento del muro della cappella di S. Placido»24.

Da questo documento si evince che nel 1717 mastro Giuseppe Monachello, con i suoi figli Michele e Placido, proseguì i lavori lasciati incompiuti da Giuseppe Longobardo, relativi alla «costruzione delli pilastri di essa chiesa e fabrica della medesima». In particolare, i maestri biancavillesi intervennero nel transetto dove erano collocate le cappelle di San Placido, del SS. Sacramento e della Madonna dell’Elemosina, e nella navata laterale destra nella quale furono demoliti alcuni pilastri e rifatta la copertura. Il 15 maggio 1718 Mastro Vincenzo Russo di Biancavilla si impegnò con l’abate don Pietro Maria Piccione, depositario «illius grani» della chiesa matrice «per fare cogliere l’acqua sopra l’ala di nostra Signora dell’Elemosina onze 0.10, per fare canne quattordici e mezza di fabbrica nell’ala del SS.mo Sac.to con coprirla, impastarsi calce e farsi li fossati onze 3.6, per assettare

23 Ibid., c. 594r., 15 settembre 1717. Vedi anche A.S. CT, 1° vers., b. 3337, c. 11r-v., 15 settembre 1717, notaio Mario Palazzolo. 24 L.c.


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Salvo Calogero le due porte minori, e porticella delle campane ad detto di Russo per sua mastria onze 0.24 materiale per detto servigio, cioè calce soddisfatto come costa a’ detto di Russo onze 1.18, canali due migliara onze 2, canne seicento, onze 0.10 legni di zappino n. sette onze 1.7 per sterrare l’ala del SS.mo Sacramento, e diroccare la cappella del glorioso S. Michele Arcangelo»25..

Inoltre, mastro Michele Motta di Biancavilla fu pagato per «una catena di ferro posta nell’ala di detta Chiesa a facci di nostra Signora dell’Elemosina»26 e mastro Giuseppe Portale «per fattura di due porte minori»27. Nel mese di luglio dello stesso anno mastro Domenico Monaco fu pagato «per sua maestria d’havere assettato la porta minore del chiano, ed accomodare la cantunera del martello con riempire n. 36 aperture di gisso […] per repizzare importe della Chiesa vecchia»28 e mastro Pietro Costa «per sua maestria, chiodi, tavole per la porta minore di detta chiesa e onze 0.10 per appuntalare le fabbriche del martello, ed assettare tutto il tetto suddetto»29. Questa nota conferma ulteriormente le riparazioni effettuate nella “vecchia chiesa”, il rifacimento delle navate laterali e la realizzazione del “coro” e del “martello”. Nel 1718 mastro Monachello ricevette la paga «per raggione di suo salario per aver voltato detta Chiesa e onze 0.8 per compra di canali, gisso, ed altri per serviggio di detta chiesa»30. Nel mese di maggio 1719 mastro Antonino Chiazzu, della città di Catania, fu pagato «per haver fatto tre vitriate una per il coro, e due del martello di detta Chiesa»31 e mastro Giuseppe Monachello «per aver voltato e coprito il tetto di detta Chiesa»32. Da quanto visto finora il presbiterio (“coro”), il transetto (“martello”) e la sacrestia furono ricostruiti totalmente a partire dal 1704 e ultimati nel 25 26 27 28 29 30 31 32

Ibid., c. 597r-v, 15 maggio 1718. Ibid., c. 599r, 15 maggio 1718. Ibid., c. 600r, 15 maggio 1718. Ibid., c. 602r, 25 luglio 1718. Ibid., c. 601r, 26 luglio 1718. Ibid., c. 603r, 11 ottobre 1718. Ibid., c. 604r, 7 maggio 1719. Ibid., c. 605r, 29 maggio 1719.


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1718 e, nel frattempo, si procedeva alla ricostruzione delle navate laterali (“ali” della “Madonna dell’Elemosina” e del “SS.mo Sacramento”). Quindi la “vecchia chiesa” corrispondeva a quella attuale in cui vi erano la navata centrale e le due laterali, però costituite da quattro campate. Ciò conferma quanto scritto dal Bucolo il quale traeva le sue notizie da una licenza di mons. Marcantonio Gussio, risalente al 1654, con la quale fu disposto di ingrandire la chiesa «noviter fabbricata»33 nel 1602, «portandola a quattro archi e di farne il tetto di legname». Ma la “vecchia chiesa” fu gravemente danneggiata dal terremoto del 1693 e, come si è potuto riscontrare nella documentazione esaminata, non fu solamente ampliata, come asseriva il Bucalo, ma completamente ricostruita. Con una istanza del 30 aprile 1720, indirizzata all’amministratore dello stato di Alba Villa che si trovava a Palermo, il deputato della fabbrica chiese un aiuto economico per completare la struttura della chiesa e in particolare quella della navata centrale, con la motivazione che la matrice «si ritrova in stato che minaccia rovina»34. Il 22 maggio 1720 i mastri Francesco Finocchiaro e Antonio Di Stefano, della città di Catania, si obbligarono «di farci tutta quella fabrica che sarà necessaria per la nave di detta venerabile Chiesa con portarla a fine di tutta la nave sino a quel segno che s’apponerà il tetto necessario di altezza di palmi decisette fuori la rasatura e scanalati, con tutto loro materiale e altre cose necessarie spettanti a dette fabriche con farci bon servizio di fabrica»35.

I lavori dovevano iniziare «nelli sette di febraio p. v. con terminarlo per la festività del Corpus» e «li suddetti di Finocchiaro e Stefano devono diroccare a spese proprie la fabrica vecchia, e che quello attratto di pietra che si rinverrà in detta Chiesa vecchia, detto Piccione ve lo deve passare a raggione di tarì quattro per

33 ARCHIVIO PARROCCHIA MARIA SS. DELL’ELEMOSINA DI BIANCAVILLA, Visite 1599/1602, visita del 12 dicembre 1602. 34 A.S. CT, CC. RR. SS., b. 25 (ex b. 23), c. 670r, Palermo 30 aprile 1720. 35 Ibid., da c. 609r a 610r, 22 maggio 1720.


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Salvo Calogero centinaro. Essendosi anche obligati li medesimi di Finocchiaro e Stefano di rasare il muro dell’ala del SS.mo Sacramento con assettare anche li sei archi d’intaglio che al presente mancano a detta Chiesa […] sendosi anche obligati li suddetti mastri di fare le finestre, che saranno duodeci, cioè palmi dieci di altezza e palmi otto di larghezza con avvertenza che tutta detta fabbrica deve essere di calce e rina, tolte però canni ventidue da farsi sopra la prospettiva presente, che devono essere di fabbrica di taio»36.

Quindi l’ampliamento della chiesa, da quattro a sette campate per “ala”, fu eseguito nel 1720 e non, come asseriva il Bucalo, nel 1734. Dallo stesso documento si evince il numero delle finestre della navata centrale e la loro misura, nonché la qualità della muratura che doveva essere «di calce e rina», tranne quella da farsi sopra il prospetto principale («la prospettiva presente») che doveva essere «a sacco». Il 31 maggio 1720 fu stipulato il contratto con Domenico e Filadelfo Pappalardo, della terra di Trecastagni, i quali si obbligarono a fornire «quattordici forbici, quattro bordoni»37, cioè le capriate e gli arcarecci del tetto. Prima di eseguire i lavori della navata centrale i mastri Giuseppe Portale e Pietro Costa si impegnarono «di calare tutto il tetto di legname che al presente sta per tutta la nave della Chiesa Matrice di detta terra, e finite le fabriche di ritornare a coprirla»38, e mastro Pietro Costa «d’abbassare tutti li canali della nave ed ale della Chiesa suddetta, e parimente coprire con detti canali nave ed ale»39. Infine, mastro Pietro Costa si obbligò a «mettere tutte quelle quantità di tavole necessarie per coprirsi la nave della chiesa Matrice suddetta […]. E poiché detto di Costa è obligato per l’atti di notar Muscarà poner sopra le muraglie di detta Chiesa tutti li bordoni, e forbici come per contratto»40.

36 37 38 39 40

Ibid., (agli atti del notaio Domenico Muscarà). Ibid., c. 611r-v., 31 maggio 1720. Ibid., c. 613r, 13 marzo 1721. Ibid., c. 614r, 21 maggio 1721. Ibid., c. 616r, 20 ottobre 1722.


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Il 6 novembre 1722 mastro Michele Monachello fu pagato «per voltarsi il tetto di detta chiesa»41 e il 24 dicembre dello stesso anno i mastri Giuseppe Di Mauro e Paolo Musumarra, della città di Catania, «per sei vitriate»42. In una nota del 5 marzo 1724 si legge che i fratelli Michele e Placido Monachello e i mastri Vincenzo e Pietro Antonio lo Monaco, furono pagati per «quelle fabbriche, dammusi, raccolte d’acqua, rasaturi di bordoni, testa di prospettiva, per otturare li portusi, rispallo di fabbrica reale allo muro dell’ala di levante, per haver fatto sei damusi reali, ed altre cose necessarie per serviggio della venerabile Chiesa Matrice di questa suddetta terra»43.

Infine, il 3 luglio 1724 mastro Antonio Portale, «faber lignarius», fu pagato «per havere detto di Portale acconciato la vitriata, grada, e telaro poste al finistrone del martello di essa Chiesa Matrice a faccia dell’altare di Nostra Sig.ra della Elemosina»44. Le somme «assegnati pro restauratione fabricae Matricis Ecclesiae» furono trascritte nell’apposito registro45 dal deputato della fabbrica.

4. LA FACCIATA DELLA CHIESA E LA STATUA DELLA MADONNA Ultimata la costruzione della chiesa nel 1724 — per lo meno per quanto riguardava la struttura portante, la copertura e gli infissi — si poneva il problema del prospetto principale. A tale scopo don Giuseppe Rifas il 31 ottobre 1729 scrisse che «nell’ordinario antipassato ordinai con mia lettera […] di dare il pronto e tanto preciso riparo alla facciata di codesta venerabile Chiesa Madrice, sotto titolo di Maria Beatissiama dell’Elemosina che stando appesa ai puntelli non 41 42 43 44 45

Ibid., c. 617r, 6 novembre 1722. Ibid., c. 618r, 24 dicembre 1722 (agli atti del notaio Mario Palazzolo). Ibid., c. 619r-v, 5 marzo 1724. Ibid., c. 622r, 3 luglio 1724. Ibid., c. 627r, 27 maggio 1727.


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Salvo Calogero solo minaccia rovina, non che a detta facciata, ma corre evidente pericolo di tirarsi appresso mezza chiesa […] a riguardo dell’ingente spesa che abbisogna per costruire il frontespizio suddetto, che ben fortificato da massiccia fabbrica, servirà per antemurale alle ale della chiesa vacillante, che la fiancheggiano»46.

Il 23 gennaio 1730, rimasta disattesa la precedente disposizione, lo stesso Rifas scrisse: «per darsi un prontuario ristoro alla fabbrica di codesta venerabile loro Chiesa Madrice, che minaccia rovina, non siamo ancora al caso di darsi qualche bel principio alla facciata di essa, che servirà per antemurale di detta chiesa vacillante; Il detto Rev. Abbate però fa premorissimo istanza di doversi principiare il riparo suddetto in questo entrante febraio»47.

Il 24 marzo 1730 mastro Pietro d’Erba con suo figlio Carmelo, della città di Paternò, mastro Francesco Flavetta di Acireale e mastro Placido Petralia di Catania si obbligarono con l’abate Piccione a fare «tutta la prospettiva d’intagli di essa Madre Chiesa, cioè una cantoniera a due faccie e tre ad una faccia d’ordine dorico con suoi piedistalli, e capitelli giusta la forma del disegno, e base attica di larghezza palmi tre ed un quarto, e di lunghezza palmi trentacinque e secondo la forma del detto disegno. Similmente altri due mezzi pilastri con due archi a proporzione delli pilastri ed archi che sono in detta Chiesa con avere detti maestri trasportati a spese di detto di Piccione dicto nomine tutti l’intagli innanzi detta Chiesa con incominciare dal mercoledì doppu Pasca Resurrezione dell’anno presente e darle finiti sino a tutto maggio di detto presente anno secondo la suddetta forma del disegno, ben visti pure al Rev.do Sacerdote don Placido Portale, ed assistere nell’assittito di essi intagli»48.

Tale obbligazione fu ratificata il 23 maggio dello stesso anno dai soli mastri Pietro e Carmelo d’Erba, che si impegnarono a 46 47 48

Ibid., c. 673r-v, Palermo 31 ottobre 1729. Ibid., c. 672r, Palermo 23 gennaio 1730. Ibid., da c. 634r. a c.635r, 24 marzo 1730.


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«fabricare la prospettiva di essa venerabile Chiesa da fondamenti sino alla cima con assettare tutte le pietre d’intaglio che richiede detta prospettiva, similmente li due mezzi pilastri e li due archi al di dentro»49.

La spesa da impegnare per la costruzione della facciata fu notevole e i deputati dell’università di Biancavilla furono chiamati a rispettare l’impegno assunto con don Rifas, il quale scrisse: «Considerandosi quanto sia urgente, e a Dio grata la continuazione della fabbrica di codesta Madrice chiesa, ho risolto ordinar loro, che di tutto ciò che avanza del patrimonio di codesta Università tolti gli oneri, e debiti di giustizia, lo impegnino tutto per continuare la detta fabbrica»50.

Nel «Resoconto delle spese sostenute da don Placido Portale» si legge: «una carretta per trasportarsi tutti l’intagli di cinque cantunere, due pilastri e due archi, dalla fossa di questa terra sino alla suddetta Chiesa Madre»51, confermando che in questo periodo furono eseguiti i lavori d’intaglio della facciata. Fra i documenti rinvenuti vi sono i contratti di acquisto delle case confinanti con la chiesa52, stipulati dal 1732 al 1733, e quello del 28 giugno 1733 con il quale fu ceduta la «domo appalatiata» di donna Flavia Piccione, madre dell’abate Pietro Maria Piccione, esistente «in frontespizio dictae venerabilis Ecclesiae Matricis eis publicis et aliis […] pro ampliando planum dictae venerabilis Ecclesiae Matrici et non aliter»53. Come si evince da quest’ultimo contratto, le case furono demolite per rendere disponibile l’area antistante la facciata della chiesa utilizzandola per creare l’attuale piazza in ossequio all’esigenza scenografica tipica del periodo barocco. Nel mese di luglio del 1733 furono chiamati ad ultimare la facciata i maestri catanesi Pasquale Serafino54 e Giovanni Nicoloso, i quali si 49 50 51 52 53 54

Ibid., c. 639r, 23 maggio 1730. Ibid., c. 675r, Palermo 23 maggio 1730. Ibid., c. 643v, 24 gennaio 1731. Ibid., da c. 681r. a c. 688r. Ibid., c. 713r, 28 giugno 1733. Pasquale Serafino, figlio di Antonino e Francesca Pappalardo, sposò Angela


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Salvo Calogero

obbligarono con l’abate Pietro Maria Piccione, sindaco, economo e procuratore della fabbrica della chiesa matrice, «per l’intagli della scalonata e sogli di detta Ven.le Chiesa, a raggione di grana 7 il palmo, onze 12.22.16 per il finistrone della nave di prospettiva, et onze 10.22.16 per le due finestre dell’ali di prospettiva di detta Venerabile Chiesa per detti confidenti magistrabilmente fatti»55.

Il resoconto del sacerdote don Gaspare Messina, sulle spese sostenute fino al mese di agosto 1733, riporta: «In primis calce salme 104 onze 20.24 […] Per canne n. 500. Per pomice n. 500 […]. Per demolire il palaggio del Signor Galvagno e casa d’Antonia Costa comprati necessariamente per haver passate al termine detta Chiesa vicina con detto palaggio onze 1.18.17. Per aggiustare tutti li dui piani delle porte maggiore e minore onze 2.28.4 […]. Mastri per chiuder la porta minore d’una strada del teatro molto pericolosa onze 0.21. Per fuso dell’argano per salire la campana ad altro sito onze 0.2/ Per inalbar li pilastri delle campane ed altro onze 0.18. Per mattoni per ripezzar il visalato di detta chiesa n. 800 onze 0.24 […]. Per mastria di tutta l’ossatura di fabbrica per la porta maggiore onze 2.28. Per mastria dell’assettito di tutti l’intagli di detta scalinata onze 1.28»56.

Alla fine del 1733 i lavori si potevano considerare ultimati. Infatti, mastro Placido Monachello fu pagato per «l’ultimo servigio di bianchiare la prospettiva di detta Chiesa Madre»57 e mastro Pietro dell’Erba «per aver fatto il primo e secondo ordine di cornicione di detta affacciata e cantunere di detto secondo ordine secondo l’accordo fatto per l’atti del quondam Mario Palazzolo»58.

Palazzotto il 6 maggio 1711 (S. CALOGERO, Fra Liberato al secolo Girolamo Palazzotto, architetto e “Servo di Dio”, in Synaxis 22 (2004), 136). 55 A.S. CT, CC. RR. SS., b. 25 (ex b. 23), c. 697r-v, 3 luglio 1733. 56 Ibid., c. 699r-v, 30 agosto 1733. 57 Ibid., c. 701r, 30 agosto 1733. 58 Ibid., c. 703r, 15 novembre 1733.


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Con questi lavori fu ultimata «tutta la prospettiva d’intagli di essa Madre Chiesa», completa di lesene59 (“cantunere”), realizzate con «intaglio nero […] d’ordine dorico con suoi piedistalli, e capitelli giusta la forma del disegno», e del «primo e secondo ordine di cornicione60 di detta facciata». In questo periodo fu eseguito anche l’intonaco per «bianchiare la prospettiva di detta Chiesa Madre», cioè di tutti i campi della facciata, compreso il basamento del campanile. Nel contratto del 16 dicembre 1733 con i mastri Pasquale Serafino e Mario Giannino, si legge che si obbligarono con l’abate Piccione «di doverci fare l’intaglio nero a scarpelletti, quale intaglio dovranno lavorare a’ sue proprie spese, e farlo di buona qualità. Per la porta maggiore come per l’altre due porte minori per la prospettiva della venrabile Matrice Chiesa di questa suddetta terra di buono servigio benvisti a prattici, e secondo, e giusta la forma delli disegni fatti, e sottoscritti di mano propria di detto Rev.mo Abbate di Piccione, quale intaglio detti di Serafino e Giannino in solidum come sopra stipulanti dovranno travagliare in parte che si potrà trasportare dalle persone, e bestiame di detto Rev.mo Abbate di Piccione da fare suddetto staglio da oggi innanzi successivamente; e da finirlo fra anno uno, cursuro d’oggi innanzi, ita che finirli detti intagli del modo di sopra esposto. Detti di Serafino e Giannino in solido come sopra stipulanti ad altro non siano tenuti, ed obligati, se non che di assistere in opera per l’effetto suddetto della Prospettiva di detta Venerabile Matrice Chiesa, e non altrimenti […]. E questo per raggione di staglio, mastria ed ogn’altro d’onze ottanta cinque di denari di giusto prezzo così di patto fra detti contraenti stabilito»61.

Nel suddetto contratto, stipulato presso il notaio Geronimo Leo di Catania, è citato «magister Leonardo Privitera62, genero dicti de Serafino» 59

Le lesene erano cinque nel primo ordine, tre a una faccia e due a due facce, e due nel secondo ordine, a due facce. 60 La trabeazione (“cornicione” o “base attica”) era alta «palmi tre ed un quarto» (circa cm. 85). 61 Ibid., c. 704r. 16 dicembre 1733, vedi anche A.S. CT, 1° vers., b. 3418, da c. 257r. a 258v. 16 dicembre 1733, notaio Girolamo Leo. 62 Leonardo Privitera, figlio di Tommaso e Domenica Tinnirello, sposò Agata Serafino il 9 aprile 1733 (Capitoli matrimoniali del 25 maggio 1732, in A.S. CT, 1° vers., b. 8792, da c. 249r. a 253v., notaio Domenico Ronsisvalle di Catania. Matrimonio il 9 aprile


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che collaborò con il suocero nella realizzazione degli intagli del prospetto (figg. 1 e 2). Il lavoro eseguito da mastro Pasquale Serafino, «secondo, e giusta la forma delli disegni fatti», fu saldato il 17 agosto 173463. Il 19 ottobre 1734 si stipulò il contratto con Domenico Drago (alias Rosco) e Natale Capizzi che si impegnarono a fornire salme 100 di gesso entro il mese di marzo 173564, necessario per intonacare l’interno della chiesa, così come risulta dal pagamento del 19 ottobre 1734 a mastro Antonino d’Amico (figlio del fu Paolo di Acireale) di «onze 20 per haver rizzato otto dammusi di questa venerabile Chiesa Matrice, la facciata di dentro di detta venerabile Chiesa, e per haver bianchiato detti dammusi e detta facciata, ed otto pilastri, come ancora otto specchi dell’ale e la nave sopra detti dammusi, e chiudere cinque finestre ed allattare li sei dammusi e covertizzo dell’ali con suoi pilastri, specchi dell’ale e tutto il resto della nave antica, onze 25.15 per l’architravo, friscio e cornicione, con dirupare l’ingasto di detto cornicione. Onze 12 per cornice di finestre e per crocchiale»65.

fig. 1 – “Porta minore” della Collegiata di Biancavilla. 1733, in ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA (A.S.D. CT), fondo: Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto 1714-1790 (1732-1733), f. 21, n. 2). 63 A.S. CT, CC. RR. SS., b. 25 (ex b. 23), c. 710r, 17 agosto 1734. 64 Ibid., c. 711r, 19 ottobre 1734. 65 Ibid., c. 735r, 19 ottobre 1734.


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Nel resoconto del 23 ottobre 1734 sulle spese sostenute da don Gaspare Messina si legge: «Per acconciare e collocare la vetriata del finestrone della prospettiva onze 0.19.10 […]. Per rifare in parte il pilastro d’intaglio, ch’era fuori piombo onze 1. Per canali migliaia 5 onze 5 […]. Per mastria per mettere li mastri li bordoni intettare l’ultimo arco della nave, grappe, forbici e tavole onze 4.6 […]. Per mastria della scala delle campane e per muri di chiusura della scala onze 2.15.10. Per chiusura di ordigno nell’appuntelarsi quel tetto della nave a causa di aversi dovuto demolire due dammusi, due archi, ed un pilastro, e tutta la fabbrica di sopra, come per forme di detti archi, e per coprire, e scoprire detto pezzo di tetto di nave in tutto onze 3.17 […]. Per collocare una Croce di legno tinta verde sopra la vetrata del fenestrone della prospettiva»66.

fig. 2 – “Porta maggiore” della Collegiata di Biancavilla. 66

Ibid., c. 721r, 23 ottobre 1734.


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Ultimato il prospetto della chiesa, rimaneva da realizzare il pavimento e la statua da collocare nell’apposita nicchia sopra il portale d’ingresso. Il primo aprile 1736, «in virtù di lettere della Gran Corte Vescovile date in Catania sotto li 12 marzo 14 ind. 1736», l’abate Pietro Maria Piccione impiegò le somme ricavate da un censo annuale per la «costruzione di due sepolture»67, rimandando alla riscossione di altri censi per realizzare le altre sepolture e il pavimento68. Il lavoro fu descritto nell’apposito atto notarile dai fratelli Placido e Giovanni Monachello, figli del defunto Giuseppe69. Il 12 maggio 1737 «Antoninus Amato quondam Joannis Maria, et Dominicus Amato Pater et filius urbis Messane et habitatores urbis Catanae […] se obligaverunt et obligant Rev.mo Abbati don Petro Maria Piccione uti heconomo et procuratori venerabilis Ecclesiae Matricis sub titolo S. Maria Elemosina huius predicta terra […] di farci una mezza statua di marmo della nostra gran signora Maria dell’Elemosina della medesima disposizione come si trova nella sua immagine, d’altezza palmi quattro e larghezza palmi tre con suo piede stallo di pietra russa di Taormina alto palmi dui con sua nuvola sotto della statua di pietra palumbina Taormina con tre Serafini di marmo bianco posti in detta nuvola imperniati. Di collocarsi nella nicchia della Prospettiva di detta venerabile Chiesa Madre e questo magistrabilmente secondo richiede l’arte, quale statua detti Sig.ri di Amato in solidum come sopra s’obligano al Rev.mo Abbate portare e situare in questa a loro proprie spese per li 20 luglio p.v. XV ind. 1737 […]. Pro mercede onze octo et tarì vigintiquatuor»70. 67 68

A.S. CT, 1° vers., b. 2000, c. C1r-v, 1 aprile 1736, notaio Giuseppe Rametta Nicolosi.

L’autorizzazione del vescovo Galletti alla realizzazione del pavimento e delle sepolture avvenne con apposito atto notarile il 18 marzo 1736 (A.S. CT, 1° vers., b. 1999, da c. 233r a 239v, 18 marzo 1736, notaio Giuseppe Rametta Nicolosi). 69 I fratelli Monachello dichiararono di avere ricevuto dall’abate Piccione onze 42.11 per le seguenti opere: «In primis calce salme 75.2: onze 12.15.12. Intagli, e suoi trasporti: onze 2.9.4. Gisso: onze 1.13.9. Per casso della sepoltura: onze 3.15.19/ Arena: onze 3.22.10/ Pomice: onze 2.0.0. Calcinaro ed acqua: onze 1.7.10. Ciappe: onze 0.12. Chiodi: onze 0.27.15. Parafili: onze 0.26.5. Per maestria di forme ed informare detta sepoltura: onze 1.19.1. Per mattoni per madonarsi il circuito di dette sepolture e collocazione di essi: onze 8.20.10. Per loro mastria di aver fabricato dette sepolture: onze 3.1.5. Sommano onze 42.11» (ibid., b. 2000, c. 126r-v, 11 novembre 1736). 70 A.S. CT, CC. RR. SS., b. 25 (ex b. 23), c. 745r. (12 maggio 1737).


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fig. 3 – “Nicchia” sopra la porta centrale. Nel piedistallo della statua, nascosta dallo stemma pontificio, si trova la scritta: «Totus lapideus prospectus sumptibus propriis Sac. Ab. D. Petri Mariae Piccione elaboratus: anno Domini MDCCXXXIV».

Oltre alla paga pattuita gli Amato ricevettero in regalo onze 2.26 per la situazione della statua (fig. 3). La statua, realizzata dallo scultore messinese Antonino Amato71 e da suo figlio Domenico, è attualmente coperta parzialmente dallo stemma 71 Antonino Amato, figlio del messinese Giovan Maria, lavorò a Catania per circa quarant’anni come scultore e architetto in molti importanti edifici sia pubblici che privati (L. SARULLO, Dizionario, cit., 13)


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pontificio per cui non si può apprezzare il «piede stallo di pietra russa di Taormina alto palmi dui». Lo stesso Antonino Amato era stato chiamato a Biancavilla nel 1714, insieme all’altro messinese Matteo Costa, per realizzare «un avantialtare di commisso giusta il disegno fatto da detti di Amato e Costa»72, che potrebbe corrispondere al paliotto dell’altare principale della chiesa del SS. Rosario, vicina alla matrice. Nel mese di giugno 1737, in qualità di economo della chiesa matrice, l’abate Piccione ricevette ottanta onze che erano state assegnate dal principe della «Cubba regale […] alla fabrica della Madre Chiesa»73. Nel resoconto di don Placido Portale si leggono le spese sostenute fino al 13 gennaio 1738: «In primis per collocarsi l’intagli della scalinata dell’altare maggiore onze 0.3. Pagati a mastro Antonino Portale per sua maestria materiale della palagostrata di legno accresciuta, sgabello dell’altare maggiore accresciuto ed alzato di tosello nel coro onze 1.6 […]. A mastro Michele Baratta e mastro Francesco Monaco per assettare tutti li scalini d’intaglio, ampliare l’altare, giustare lati, e visolare ove era necessario, secondo il disegno e servizio finito»74. Da questa nota si evince che nel 1738 fu realizzato il pavimento di “visole” e gli scalini “d’intaglio” degli altari, compreso quello maggiore «secondo il disegno». In occasione dell’ultimazione dei lavori, il «R. J. D. d. Placido Piccione et Mineo veluti procuratori festivitatis dive Mariae Elemosinae anni 2 ind. 1739 huius predittae terrae», stipulò il 23 72 «Extaleum pro rev. Sac. Don Antonino Piccione contra magister Antoninus de Amato et consortes […]. Mastro Antoninus de Amato et Matheus Costa urbis Messana habitatores huius clarissimae et fidelissimae urbis Catanae […] se obligant pro rev. sac. et Abbati don Antonino Piccione terrae Albae villae […] di farli un avantialtare di commisso giusta il disegno fatto da detti di Amato e Costa, che esiste in potere di detto di Piccione per un altare nella chiesa maggiore di detta terra sotto titolo del SS. Rosario; e questo di buon lavoro e giusta il disegno suddetto portato e disegnato in detta terra, ed assettato colla presenza di detti staglianti prima della festa del S. Natale di questo anno 1714 per patto alias […]» (A.S. CT, 1° vers., b. 2281, c. 179r-v., 26 settembre 1714, notaio Giuseppe Capace). 73 A.S. CT, 1° vers., b. 2000, da c. 348r. a 357r., 17 giugno 1737, notaio Giuseppe Rametta Nicolosi di Biancavilla. 74 Ibid., c. 762r. (13 gennaio 1738).


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agosto 1738 un contratto con i mastri Giuseppe Burreci, Domenco Lazzaro, Domenico e Giuseppe Vitale i quali si obbligarono a «pararci et dispararci migliara sei di maschi in diversi salvi, cento mascoloni ed un gioco di fuoco, et che deve dar talento al popolo è questo magistrabilmente secondo richiede l’arte»75.

«Mons. Pietro Galletti vescovo di Catania, in corso di S. Visita, emanò un suo decreto in data 26 sett. 1746, col quale formò del clero di Biancavilla un Capitolo Collegiale […]; papa Benedetto XIV, con breve del 14 gennaio 1747, le conferì le insegne»76, e da questo momento la chiesa “matrice” fu chiamata anche “la Collegiata”. In un manoscritto risalente al 1789 del rev. Onorato Colonna, decano e monaco benedettino del monastero di S. Nicolò l’Arena di Catania, si legge: «la sua Madrice, è ditta buona chiesa, maggiormente quando sarà finita essendo al presente in atto di salirsi»77, proprio ad indicare che in quel periodo il campanile era «in atto di salirsi». Da alcune foto d’epoca (figg. 4 e 5) si vede il prospetto con il campanile incompleto e la cella campanaria, costituita da pilastri intonacati, addossata alla parete dell’orologio. Nella foto si intravede un muro alto circa un metro, con il cantonale in pietra lavica, impiantati sopra il basamento che, come ci informa il Bucolo, fu realizzato nel 178478 nell’intenzione di completare la “base attica” del campanile. Le foto mostrano il prospetto costituito da un ordine gigante dorico in cui le campate erano caratterizzate dal contrasto fra il bianco dell’intonaco e il grigio antracite della pietra lavica. La trabeazione di coronamento, del primo e del secondo ordine, è composta da architrave, fregio con triglifi, e cornici. All’interno dei campi, delimitati dalle paraste in pietra lavica, si vedono le finestre e le porte incorniciate dagli intagli in pietra lavica 75 A.S. CT, 1° vers., b. 4618, c. 327r-v, 23 agosto 1738, notaio Simone Floresta di Biiancavilla. 76 «Memoriale intorno alla parrocchialità annessa al Capitolo di Biancavilla» (A.S.D. CT, Fondo: Francica Nava, carp. 23, fasc. 1). 77 ARCHIVIO PARROCCHIA MARIA SS. DELL’ELEMOSINA DI BIANCAVILLA, Volume Cat. IV, Clas. XVI, fasc. I, n. 2 (A. DI STEFANO, Ricerche storiche su Biancavilla, in «Nuovo Callìcari» il giornale di Biancavilla, 3[2005] n. 9, 2). 78 F. NICOTRA, Biancavilla, cit., 552.


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realizzati da Pasquale Serafino, nei quali si riscontra una analogia stilistica con alcune opere di suo cognato, l’architetto Giuseppe Palazzotto79.

fig. 4 – Veduta di scorcio della Collegiata di Biancavilla nel 1889.

fig. 5 – Facciata della Collegiata di Biancavilla nel 1889. 79 Giuseppe Palazzotto nacque a Catania il 2 gennaio 1702, da Francesco e Andreana Grillo (cfr S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 135).


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Nel portale della chiesa madre di Gravina di Catania, realizzato da Giuseppe Palazzotto nel 173080 (fig. 6), si vede il fregio rigonfiato nella parte bassa presente nel portale della chiesa di Biancavilla (fig. 7).

fig. 6 – Particolare del portale d’ingresso della chiesa madre di Gravina.

Analogie maggiori si vedono negli altari della chiesa madre di Melilli81 (fig. 8) che, analogamente al portale d’ingresso della nostra chiesa, sono costituiti da quattro colonne scanalate, due per lato, con entasi e rudentate, cioè rigonfie al centro e con il 1/3 trattato a bastoncini inalveolati nelle scanalature, ottenendo così un aumento del chiaroscuro nei restanti 2/3 del fusto della colonna. 80 81

Notizia fornita dal prof. ing. Eugenio Magnano di San Lio. S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 145.


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Il capitello delle colonne è di ordine composito; l’architrave è tripartito e interrotto al centro da una cartella; il fregio è rigonfiato nella parte bassa sopra l’architrave; il cornicione, con tre fasce di cornici di sostegno al gocciolatoio e alla cornice terminale, ha vigoroso aggetto.

fig. 7 – Particolare della “porta maggiore” nella Collegiata di Biancavilla.


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fig. 8 – Particolare dell’altare nella chiesa madre di Melilli.

fig. 9 – Particolare della “porta minore” della Collegiata di Biancavilla.

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fig. 10 – “Porta a mare” della chiesa di S. Sebastiano a Melilli.

Negli altari di Melilli il timpano spezzato è generato da una linea curva, con centro posto all’esterno della composizione, sormontato da quattro vasi — quelli interni con fiori e quelli esterni con fiamme —, che rafforzano l’asse verticale delle colonne, mentre nel portale d’ingresso della chiesa di Biancavilla il timpano spezzato ha il centro posto all’interno della composizione, ed è sormontato da due soli vasi con fiori posti nell’asse delle colonne esterne.


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Altre analogie con le opere di Giuseppe Palazzotto si hanno tra le cornici delle “porte minori” della nostra chiesa (fig. 9) e quelle della “porta a mare” nella chiesa di San Sebastiano a Melilli (fig. 10).

5. LE MODIFICHE OTTOCENTESCHE Oltre all’evento sismico dell’11 gennaio 1693, Biancavilla fu interessata dal terremoto del 20 febbraio 1818 che la colpì alle ore 18:15 con una scossa del VII grado MCS82, per cui la delibera del 1831 dei capitolari, che descriveva la chiesa «essere fessurata ed aperta tutta la volta»83, potrebbe riguardare la descrizione degli effetti di questo sisma. Inoltre, l’eliminazione delle originarie colonne corinzie degli altari, effettuata nel 1827, e il rifacimento dei capitelli e delle fasce nei pilastri della navata centrale nel 183084, si può ipotizzare siano state eseguite nel corso delle riparazioni dei danni del terremoto e a un probabile ridisegno della chiesa in stile neoclassico. Il pavimento settecentesco in “visolato”, eseguito «secondo il disegno» nel 1738, fu sostituito nel 1858 con una pavimentazione marmorea commissionata al marmista catanese Carlo Calì85. Nel 1857 l’ing. Gaspare Nicotra diresse i lavori per la costruzione della cupola, che fu ultimata con il lanternino nel 1859 e inaugurata il 4 ottobre dello stesso anno, festa di Maria SS. dell’Elemosina. La notte del 10 marzo 1860 la cupola crollò danneggiando gravemente la volta della navata centrale, che fu rifatta nel 1863, e il pavimento del Calì, anch’esso rifatto nel 186486. Successivamente l’arch. Carlo Sada87 fu incaricato di progettare il nuovo campanile che mancava nel prospetto originario, i cui lavori 82

E. BOSCHI – E. GUIDOBONI, Catania terremoti e lave, cit., 180. S. PAPOTTO, La Basilica Collegiata Maria SS. dell’Elemosina di Biancavilla, Biancavilla 2001. 84 F. NICOTRA, Biancavilla, cit., 552. 85 L.c. 86 L.c. 87 Carlo Sada nacque a Milano nel 1849 e morì a Catania nel 1924 (cfr L. SARULLO, Dizionario, cit., 379). 83


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iniziarono nel 1889 e furono ultimati nel 1894 (fig. 11). Essendo stato progettato il nuovo campanile in stile eclettico, si decise di ridisegnare la facciata nello stesso stile e, come si vede in un disegno di Carlo Sada del 189388 (fig. 12), si previde di realizzare pure la cupola89.

fig. 11 – Veduta di scorcio della Collegiata di Biancavilla nel 1894. 88

ARCHIVIO PARROCCHIA MARIA SS. DELL’ELEMOSINA DI BIANCAVILLA. I lavori per «la costruzione del nuovo campanile e il progetto di restauro per la chiesa di Biancavilla» furono descritti dallo stesso Carlo Sada nel periodico mensile di architettura pratica e costruzione Edilizia moderna edito a Milano 14 (1905) fasc. III. 89


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fig. 12 –Disegno acquerellato della Collegiata (C. Sada, 1893).

Il nuovo disegno mantenne lo stile dorico nel primo ordine e cambiò quello del secondo ordine, da dorico a ionico. Tutte le lesene e i cornicioni con i triglifi in pietra lavica del primo ordine furono stuccati con malta cementizia di colore bianco, lasciando invariati solo gli intagli in pietra lavica dei portali d’ingresso, quelli delle finestre che danno luce alle navate


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laterali e i basamenti delle lesene. Il secondo ordine fu quello maggiormente modificato in quanto, oltre a cambiare lo stile architettonico, fu inserito il timpano triangolare e fu modificata l’originaria sobrietà dell’intaglio in pietra lavica della finestra che illuminava la navata centrale, essendo stata inserita all’interno di un apparato architettonico in stile eclettico. Infine, l’intonaco bianco che contrastava con gli intagli in pietra lavica, creando la bicromia tipica delle chiese matrici nella zona etnea, fu sostituito con un intonaco di colore rosa (fig. 13).

fig. 13 – Facciata della Collegiata di Biancavilla nel 2005.


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6. CONCLUSIONE Da quanto visto finora, dal presente studio emerge che la “vecchia chiesa” fu gravemente danneggiata dal terremoto del 1693. A dirigere i lavori di ricostruzione fu chiamato il capo mastro Giuseppe Monachello il quale, come si evince dai vari contratti conservati all’Archivio di Stato di Catania, svolgeva a Biancavilla il ruolo di perito estimatore90 e di capo mastro delle fabbriche. Le porte minori e quella maggiore della chiesa matrice di Biancavilla, furono realizzate «secondo, e giusta la forma delli disegni fatti», probabilmente, dall’architetto Giuseppe Palazzotto, cognato dell’esecutore Pasquale Serafino mentre la statua, inserita nella nicchia della porta maggiore, fu realizzata dallo scultore messinese Antonino Amato. La forma del prospetto settecentesco si evince dalle foto del 1889, scattate prima delle modifiche apportate dall’architetto Carlo Sada, in cui mancavano la «base attica» del campanile, che si iniziò a costruire nel 1784, e la cella campanaria. Inoltre, a causa del terremoto del 1818 e al crollo della cupola nel 1860 fu ristrutturato l’interno della chiesa, modificando l’originaria forma barocca, oggi visibile solamente nella cappella di S. Placido — affrescata dal pittore Giuseppe Tamo — e in quella marmorea di Maria SS. dell’Elemosina, con l’attuale stile neoclassico. Queste notizie, inedite, contribuiscono a fare apprezzare la chiesa matrice di Biancavilla, oltre per gli interventi ottocenteschi del Sada, per quelli eseguiti nel Settecento che collocano Biancavilla91 fra le città protagoniste del rinnovamento barocco avvenuto nella Sicilia Orientale dopo il terremoto del 1693.

90 Lo stesso Giuseppe Monachello ebbe nel 1717 l’incarico di realizzare il prospetto della chiesa dell’Annunziata con un disegno che doveva attenersi alle regole «dell’arte dorica» (documento conservato nell’archivio parrocchiale). 91 Su progetto dell’architetto Francesco Battaglia, dal 1750 al 1756, fu costruito anche il monastero di S. Chiara, demolito nel 1900 (P. BUCOLO, Storia di Biancavilla, cit., 122).



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IL MAGISTERO DEL VESCOVO GIARDINA (NICOSIA 1942-1953). DALLE LETTERE PASTORALI*

GAETANO ZITO**

1. PREMESSA La rilettura delle lettere pastorali di un vescovo impone l’assunzione di almeno tre punti di riferimento: la ricostruzione dei tratti caratteristici che connotano il vescovo che ne è autore; la memoria degli elementi propri del periodo storico in cui vengono scritte e indirizzate ai fedeli di una diocesi, per poterle opportunamente contestualizzare; la verifica della loro recezione da parte del clero curato soprattutto, per la conseguente trasmissione ai fedeli affidati alle loro cure, e la determinazione del progressivo cammino compiuto dalla comunità diocesana in sintonia/discordanza con gli orientamenti episcopali. Nel caso in esame, per la corretta comprensione e contestualizzazione delle lettere pastorali di Pio Giardina, vescovo di Nicosia, angolo di visuale parziale del suo più ampio magistero, sarebbe necessario mettere insieme fattori diversi che riconsegnino almeno: la formazione e la personalità del vescovo; la sua azione da prete messinese; le ragioni per cui viene eletto vescovo ausiliare di Messina e perché in seguito inviato vescovo a Nicosia; il suo stile pastorale; le decisioni qualificanti gli anni del suo episcopato (1942-1953), anni complessi e posti ad anello nella storia della chiesa nicosiana tra il predecessore Addeo e il successore Gaddi. E insieme a tutto ciò, il contesto complessivo della diocesi di Nicosia, nella sua dimensione sociale e in relazione alle altre diocesi dell’isola. * Commemorazione diocesana del vescovo Pio Giardina. Seminario Vescovile di Nicosia, 1 marzo 2004. ** Ordinario di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Ma è evidente che un simile percorso richiederebbe ben altri spazi di riflessione e in special modo la possibilità di accedere a fonti archivistiche, al presente ancora sottoposte alla dovuta riservatezza per il breve arco cronologico che da esse ci distanzia. Così, il presente contributo, insieme con i tratti essenziali della biografia del vescovo, dopo aver brevemente evidenziato il significato delle lettere pastorali, si limita ad offrire una rilettura di questo strumento pastorale adottato con cadenza periodica da Giardina. Una loro seppur minima contestualizzazione è resa possibile dalle relazioni ad limina, con tutti i limiti storiografici che esse possono riservare, conservate in copia nell’archivio della curia di Nicosia e rese consultabili dall’attuale vescovo Salvatore Pappalardo. Dall’analisi delle lettere pastorali, comunque, è possibile desumere alcuni aspetti tipici del magistero episcopale di Giardina, vescovo poco noto ma per molti versi certamente singolare. Tutta aperta resta, invece, la domanda sulla recezione e sulla fedeltà di trasmissione da parte del clero di quanto le lettere additano per il tratto di cammino della Chiesa locale di Nicosia a metà Novecento. Aspetti, peraltro, in genere non agevolmente misurabili sul piano storiografico, soprattutto per quanto attiene ai risultati pastorali conseguiti, salvo che si disponga di ampia e specifica documentazione.

2. NOTA BIOGRAFICA Pio Giardina nasce a Santa Domenica Vittoria, provincia e diocesi di Messina, il 27 marzo 1884: paese che al censimento del 1881 conta appena 1.649 abitanti, collocato a poco più di mille metri d’altitudine sul versante sudorientale dei Nebrodi1. Concluso il normale iter di formazione nel seminario di Messina e ordinato sacerdote il 30 settembre 1906, viene inviato a Roma per perfezionare gli studi. Alla Pontificia Università Gregoriana consegue il dottorato 1 ISTITUTO CENTRALE DI STATISTICA, Popolazione residente e presente dei comuni. Censimenti dal 1861 al 1971, Roma 1977, 444. Notizie biografiche su Giardina da S. GIOCO, Nicosia diocesi, Catania 1972, 342, con integrazioni dalle relazioni ad limina.


Il magistero del vescovo Giardina dalle lettere pastorali

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in filosofia e teologia dommatica, oltre alla licenza in diritto canonico. Rientrato in diocesi svolge il ministero sacerdotale soprattutto nelle organizzazioni sociali. Ancora giovane nominato canonico della cattedrale, dall’arcivescovo Angelo Paino (1923-1963) nel 1922, trentottenne, viene scelto come vicario generale, ufficio che mantiene anche dopo l’elezione a vescovo titolare di Efesto e ausiliare di Messina nel 1935 (nominato il 10 agosto e ordinato il 28 ottobre). L’8 agosto 1942 viene promosso vescovo di Nicosia, ottavo dalla fondazione della diocesi (1817): fa il suo ingresso il 22 novembre successivo e vi rimane fino alla morte, avvenuta a Messina il 18 febbraio 1953, dopo poco più di dieci anni di episcopato, a 69 anni di età non ancora compiuti. Giardina arriva a Nicosia dopo il lungo episcopato dell’agostiniano Felice Agostino Addeo, il più lungo della storia della diocesi: 29 anni, dal 1913 al 1942, anno in cui si dimette; Addeo morirà nel 1957, all’età di 81 anni, dopo Giardina. Di lui il clero anziano di Nicosia, tra l’altro, ricorda la robusta vita spirituale e la vasta preparazione culturale. Gli si attribuisce pure l’estensione dei decreti del concilio plenario siculo del 1952. Per la sua competenza in materia di dottrina sociale della Chiesa, accadeva che esponenti della DC siciliana chiedevano di potersi confrontare con lui in vista degli orientamenti politici da assumere.

3. LE LETTERE PASTORALI Può tornare utile ricordare brevemente lo sviluppo delle lettere pastorali dei vescovi, l’interesse che esse assumono per la vita della diocesi e l’utilizzo storiografico. Note nei primi secoli della Chiesa come lettere encicliche (adottate soprattutto dai vescovi di Alessandria del IV-V secolo), decadono intorno al IX secolo. Il loro recupero si ha dopo il concilio di Trento ad opera di Carlo Borromeo. Questi, nell’impossibilità di predicare stabilmente in tutta la sua vasta diocesi di Milano, per raggiungere i fedeli inizia a servirsi di periodiche lettere “circolari” che i parroci dovevano loro leggere. Nei suoi sinodi, inoltre, si riscontrano decreti che impongono di rilegare in volume e conservare nell’archivio parrocchiale queste lettere. L’esempio del Borromeo viene seguito anche da altri vescovi, come Gregorio Barbarigo (1625-1697, vescovo di Bergamo e poi


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Padova), che ogni anno pubblica una apposita lettera al clero. In special modo nei trattati settecenteschi sul ministero dei vescovi, essa viene additata come strumento privilegiato e necessario per il buon governo della diocesi. La svolta decisiva si ha però con Prospero Lambertini, poi Benedetto XIV (1740-1758), dopo la Ubi primum, del 3 dicembre 1740, al punto da assumere definitivamente la dicitura di lettera pastorale, per riservare l’attributo di lettera enciclica esclusivamente a quella che il pontefice indirizza a tutti i vescovi dell’orbe cattolico. Tuttavia, la prassi di far giungere al clero e ai fedeli della diocesi chiarificazioni dottrinali, direttive pastorali, correttivi al vissuto, normative ecclesiastiche si diffonde e si consolida a partire dal secondo Ottocento, periodo in cui alla lingua latina progressivamente si sostituisce la lingua italiana per la redazione della lettera pastorale. Nella prassi ordinaria, così, i vescovi iniziano a prediligere alcuni periodi dell’anno, o alcune occasioni particolari, per indirizzare alla comunità diocesana una lettera pastorale e tentare una prospettiva unitaria del cammino della Chiesa locale. In genere, in quaresima e nel mese di maggio, soprattutto dal sec. XIX le lettere sono finalizzate ad accrescere la devozione mariana e veicolarne una dimensione protettiva nei confronti della Chiesa e della vita cristiana. Ma anche nella circostanza di eventi dolorosi, come guerre e disastri naturali, per darne una chiave di lettura spirituale; oppure gli eventi ecclesiali di particolare rilievo, come la visita pastorale o un congresso eucaristico, sono generalmente precedute e seguite da lettere pastorali. In questi ultimi due decenni, anche la storiografia ha posto su di esse una particolare attenzione. Si possono così ricavare sollecitudine e orientamenti pastorali di un vescovo, l’ecclesiologia che lo anima, le urgenze che ritiene di dover sottomettere all’attenzione della comunità diocesana, le problematiche dottrinali e morali che man mano emergono. Da esse traspare la mentalità di un determinato periodo storico, il modo di intendere e di proporre la cura animarum, l’interrelazione tra pastorale e contesto sociale di una diocesi. È evidente che una loro attenta lettura riconsegna dati storiografici di rilevante importanza2. 2 Daniele Menozzi ha promosso la raccolta e lo studio delle lettere pastorali. Dopo aver lanciato il progetto — D. MENOZZI – G. CODICÈ, Per un repertorio delle lettere pastorali in età contemporanea. L’esempio bolognese, in Cristianesimo nella storia 5 (1984) 341-


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4. IL MAGISTERO DI GIARDINA Una prima annotazione, relativa alle sue lettere pastorali, attiene alla loro consistenza e ai temi in esse affrontati. Fatta eccezione per il 1944 e il 1945, fin dall’inizio della sua nomina a Nicosia, Giardina pubblica annualmente una lettera pastorale, per un totale di dieci. La prima è di fatto la presentazione di se stesso, del ministero episcopale e del programma pastorale che intende svolgere sulla scia del suo predecessore, Agostino Addeo. Dopo la lettera del 1943, dedicata al seminario diocesano, dal 1946 inizia a dare la lettera pastorale in vista della quaresima, e avvia la stesura di ognuna di esse quale sviluppo di un unico tema, I problemi dell’ora. Ogni anno affronta però un’angolatura particolare: Concezione cristiana dello Stato; Concezione cristiana della famiglia; Concezione cristiana delle classi; Concezione cristiana della persona; Concezione cristiana della libertà e delle libertà; Democrazia e cristianesimo; La donna cristiana e la sua missione con particolare riguardo al presente; Il divertimento nel pensiero cristiano3. 366 —, nel 1986 ha pubblicato il volume relativo all’episcopato dell’Emilia Romagna, primo della collana Fonti e materiali per la storia della Chiesa italiana in età contemporanea. Ad esso si sono aggiunti negli anni successivi i volumi sulle lettere pastorali delle regioni: Toscana (a cura di Bruna Bocchini Camaiani e Daniele Menozzi), Lombardia (a cura di Xenio Toscani e Maurizio Sangalli), Umbria (a cura di Bruna Bocchini Camaiani e Maria Lupi), Terra d’Otranto (a cura di Donato Del Prete), Veneto (a cura di Marcello Malpensa). Non fa parte di questa collana il volume relativo all’episcopato Piemontese (a cura di Maurilio Guasco e Francesco Traniello). Non mancano pubblicazioni relative a lettere pastorali di vescovi di singole diocesi. 3 P. GIARDINA, Prima lettera pastorale, Scuola tipografica agostiniana, Messina 1942, 14; Lettera pastorale per la prima Quaresima dopo l’entrata in Diocesi, Nicosia 1943, 22; I problemi dell’ora. Concezione cristiana dello Stato. Lettera pastorale per la Quaresima 1946, Nicosia 1946, 25; I problemi dell’ora. Concezione cristiana della famiglia. Lettera pastorale per la Quaresima 1947, Nicosia 1947, 39; I problemi dell’ora. Concezione cristiana delle classi. Lettera pastorale per la Quaresima 1948, Nicosia 1948, 41; I problemi dell’ora. Concezione cristiana della persona. Lettera pastorale per la Quaresima 1949, Nicosia 1949, 46; I problemi dell’ora. La libertà e le libertà nella concezione cristiana. Lettera pastorale per la Quaresima 1950, Nicosia 1950, 64; I problemi dell’ora. Democrazia e cristianesimo. Lettera pastorale per la Quaresima 1951, Nicosia 1951, 60; I problemi dell’ora. La donna cristiana e la sua missione, con particolare riguardo al presente. Lettera pastorale per la Quaresima 1952, Nicosia 1952, 52 ; I problemi dell’ora. Il divertimento nel pensiero cristiano. Lettera pastorale per la Quaresima 1953, Nicosia 1953, 53. Nell’insieme queste lettere pastorali ammontano a 416 pagine, formato 15x21cm.


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Ad una breve introduzione, per porre la questione e dichiarare le ragioni per cui il tema della lettera è un’urgenza «dell’ora», Giardina sviluppa l’argomento facendo appello alla storia, alla riflessione filosofica e teologica, al magistero pontificio, per concludere con alcune indicazioni di carattere etico. Dalla relazione ad limina del 1947-1951 sappiamo, come egli stesso afferma, che dedica abitualmente il periodo delle ferie per preparare la lettera pastorale. Ad essa intende affidare il compito di istruire annualmente il clero e il popolo su questioni rilevanti, attraverso un’ampia e impegnativa trattazione «di indole etico-religiosa», come egli stesso scrive nell’ultima lettera, per la quaresima del 1953 (p. 3). Ma gli argomenti da lui trattati rispondevano, e in che modo, ad effettive esigenze pastorali, peculiari della diocesi di Nicosia oltre che relative al contesto storico generale? Alcuni elementi per una conoscenza della situazione emergono dalle relazioni ad limina che egli invia alla S. Sede per il quinquennio 1941-1946 e 1947-1951. Sono disponibili altresì tre resoconti: su alcuni aspetti della pastorale diocesana, del 1950; sull’attività catechistica per il 1946-1950; e, infine, sulla situazione religiosa, morale, economica e politica, del 19514.

4.1. Aspetti pastorali della diocesi di Nicosia nel decennio di Giardina È opportuno, anzitutto, tenere presente la consistenza della diocesi, per meglio intendere la fisionomia formale di questa Chiesa locale. Il dato disponibile si riferisce al 1950: 120.000 abitanti distribuiti in 12 comuni con densità molto differenziata tra loro; 30 parrocchie, 104 preti diocesani, 20 religiosi, dei quali 13 sacerdoti, e 110 religiose; con un carico medio pastorale di 4000 abitanti per parrocchia, e di circa 1154 abitanti per prete, rapporto che si riduce a 1025 se si considera anche il clero regolare. Il dato, sebbene parziale, permette di collocare la prospettiva di riferimento del 4

NICOSIA. ARCHIVIO CURIA VESCOVILE, Ufficio Cancelleria: Nicosien. Seu Herbiten., Quinta Relatio Dioecesana, 1941; Sexta Relatio Dioecesana, 1946; Septima Relatio Dioecesana, 1951; Relazione sull’attività catechistica nel quinquennio 1946-50; Relazione sulla situazione religiosa, morale, economica, politica della Diocesi di Nicosia alla Pontificia Commissione Assistenza, 12 novembre 1951; Relazione: su aspetti della vita diocesana inviata ad un non precisato prefetto di congregazione romana, 14 giugno 1950.


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magistero episcopale di Giardina: una diocesi piccola; situata geograficamente nel cuore dell’isola; saldamente ancora legata alle proprie tradizioni, con prevalente cultura rurale e iniziali aperture agli influssi della città, Catania in particolare; con una difficile situazione socio-economica, dipendente essenzialmente dall’agricoltura e dalla pastorizia, che induce molti ad emigrare. La situazione che Giardina trova al suo ingresso in diocesi si coglie dall’ultima relazione ad limina di Addeo (1 giugno 1941): la fede va sempre più ad illanguidirsi e i costumi a deteriorarsi. Situazione imputata dal vescovo agostiniano al conflitto tra la cultura moderna e la dottrina della Chiesa, con la conseguente indifferenza religiosa; alla coeducazione e all’aver abolito ogni distinzione e separazione tra uomini e donne; alla diffidenza verso la Chiesa e la sua gerarchia; al venir meno, in molti cristiani, dell’onestà dei costumi e alla progressiva corrosione dell’istituzione familiare. Addeo, infatti, lamenta soprattutto la crescente laicizzazione del matrimonio: registra in diocesi diversi casi di concubinato e di matrimonio civile, per arginare i quali si ricorre alla scomunica. Diffusa permane la prassi della fuga dei fidanzati prima del matrimonio (fuitina): si cerca di indurre a sanare l’irregolarità almeno con il matrimonio religioso. Situazioni che sul piano pastorale vengono affrontate in forma privata e pubblica dal vescovo e dal clero, sia in occasione delle missioni popolari che nella predicazione ordinaria. Tuttavia, la situazione generale per Addeo permane molto preoccupante. Il suo successore, Giardina, a distanza di qualche anno dall’avvio del suo ministero episcopale in diocesi, riferisce alla S. Sede che è possibile riscontrare tra la gente un generale e solido attaccamento alla fede, espressa magari con sfarzose e solenni manifestazioni pubbliche, che però non trova rispondenza nella pratica della vita quotidiana. Difatti non manca un progressivo affievolimento della vita cristiana: è notevole il numero degli inadempienti al riposo festivo, ai giorni prescritti di astinenza e digiuno, e al precetto pasquale; diversamente che per le donne, permane una forte difficoltà a coinvolgere gli uomini nella pratica sacramentale e nei momenti formativi; persistono i matrimoni civili e i concubinati. Quali per Giardina le cause del degrado della vita cristiana? Sono da individuare nei disastri provocati dalla guerra; nella diffusione dell’ideo-


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logia comunista e socialista, che ha incrinato il sentimento religioso, sebbene in diocesi, in occasione delle elezioni politiche del 1948 e delle regionali del 1951, si sia confermato prioritario il “partito dei cattolici”, la DC; nell’affievolimento dell’impegno dei genitori per l’educazione cristiana dei figli; nella diffusione della stampa anticlericale ed oscena; nell’incipiente presenza di protestanti, soprattutto a Centuripe i pentecostali, e a Troina gli evangelici. A ciò si aggiunga una progressiva e sensibile contrazione del clero che Giardina ritiene ormai insufficiente. Per tutelare e favorire la formazione cristiana del popolo, come un po’ dappertutto nelle diocesi italiane, anche Giardina è impegnato a promuovere e sostenere iniziative ed associazioni: oltre alla catechesi e alla predicazione ordinaria, le missioni popolari, la peregrinatio Mariae, l’Azione cattolica, le 80 confraternite, i 10 terzi ordini, le 50 pie unioni, le ACLI, i sindacati cristiani, i segretariati del popolo, le conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, il CIF, l’ONARMO, e l’opera caritativo-assistenziale della POA. Si ripromette, inoltre, di celebrare il sinodo diocesano (il precedente è del 1893), dopo il II concilio plenario siculo che si sarebbe celebrato nel 1952. Le relazioni ad limina di entrambi i vescovi sono intrise di rammarico per le condizioni generali della società e della vita cristiana dei fedeli. È evidente un atteggiamento di paura e di angoscia nei confronti della modernità, dettato magari dall’anelito pastorale della salvezza delle anime, ma che non coglie a pieno la sfida di quell’irreversibile processo di secolarizzazione avviatosi con la rivoluzione francese e in Italia intessuto, anche con toni di drammaticità, negli anni del risorgimento e della questione romana. Atteggiamento, ovvio, che non è esclusivo di Addeo e Giardina ma che è comune alla maggioranza della gerarchia ecclesiastica del tempo, in sintonia con gli orientamenti della curia romana. Sentimenti che solo con Giovanni XXIII si avvieranno verso un processo di radicale mutazione. La prospettiva pastorale di entrambi i vescovi risente di una mentalità di stato d’assedio, di un atteggiamento di arroccamento, in una società giudicata sempre più in mano ad avversari antichi, il liberalismo, e moderni, il comunismo. Nell’attaccamento del popolo alla fede cristiana viene evidenziata una valenza più di forma, di religiosità esteriore e festaiola, che di adesione convinta. Tant’è che denunziano: comportamenti rispondenti a parametri non cristiani, introdottisi anche in un istituto fondamentale della


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società quale il matrimonio; disaffezione alla vita sacramentale, sempre più esclusiva delle donne; fatica ad ottenere dagli uomini la partecipazione ai momenti formativi, alla predicazione e all’associazionismo, come alla catechesi per i ragazzi. La difficoltà del mondo maschile, di adulti e di ragazzi, in qualche modo è giustificata da Giardina perché dovuta al lavoro nei campi che, distanti in genere dai centri abitati, rendevano possibile il rientro a casa per lo più soltanto a fine settimana. Per rimediare a ciò, nel 1952 la S. Congregazione del Concilio invita il vescovo a prendere in seria considerazione l’istituzione e la formazione di un gruppo di catechisti da destinare all’istruzione religiosa e alla preparazione ai sacramenti dei ragazzi che vivono abitualmente nelle campagne. Per gli adulti, invece, i parroci avrebbero potuto intensificare la diffusione gratuita della stampa cattolica.

4.2. Il contenuto delle lettere pastorali La prima lettera pastorale è datata per la festa di Tutti i Santi del 1942. Giardina si presenta alla comunità diocesana, qualche settimana prima del suo ingresso, delineando se stesso e il ministero cui è chiamato e che si propone di sviluppare. Nel tracciare le linee del suo programma pastorale tiene in conto una doppia memoria: del ministero a Messina, accanto ai due arcivescovi D’Arrigo prima e Paino dopo; del predecessore a Nicosia, Addeo, e del cammino compiuto dalla diocesi negli anni di quell’episcopato. Non intende, cioè, marcare una rottura con il passato bensì garantire alla diocesi una continuità: s’innesta all’interno di una Chiesa locale della quale rispetta, valorizza e intende far progredire il cammino ecclesiale, personale e sociale compiuto fino a quel momento. Riassume così il proprio programma episcopale: «la cara Diocesi a me affidata continui a progredire nella fede, nella virtù, nella vita cristiana» (p. 4). Ed egli dichiara tutta la sua fiducia nella diocesi assegnatagli: «la mia speranza trae motivo di un passato splendente» (p. 13). Per tale ragione, ritiene che gli impegni precipui debbano essere: catechesi e istruzione religiosa per piccoli e grandi; vita eucaristica, centrata nella partecipazione alla messa festiva e, se possibile, anche a quella quotidiana; precetto pasquale; riforma morale; vita cristiana da vivere


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al cospetto di Dio; promozione di una società impregnata di valori cristiani, per renderla sempre più e meglio societas christiana. Sacerdoti e fedeli, «per la parte che loro spetta, concorrano con tutte le forze a rimettere in onore il costume cristiano, a far rifiorire quella dignità di vita che è la caratteristica luminosa di chi vuol tenersi davvero al seguito di Cristo, ed è gloria della Religione, ed è garanzia sicura per le fortune della Patria in ogni tempo e in ogni evenienza» (p. 8). La prospettiva di Guardina, ovviamente, è ancorata ad una visione unitaria, comune all’episcopato del tempo, che vede il cristianesimo quale certezza di retto progresso sociale e di sicura affermazione della Patria, con tutta la carica di significati che il concetto di questa esprimeva in quegli anni. Di conseguenza, in special modo «mentre la guerra infuria nel mondo», ai suoi nuovi fedeli Giardina chiede un apporto di generosa carità su tre direzioni: l’apporto, anche finanziario, allo sforzo della Patria in armi; la solidarietà e il conforto a chi è nell’angoscia e nella sofferenza per i propri cari; la generosità per chi è nell’indigenza. E non manca di esprimere una forte condanna nei confronti di chi specula sulle disgrazie altrui. Affida il suo programma pastorale anzitutto ai sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose; e pone, secondo la visione ecclesiologica vigente, «in un piano sottostante», la cooperazione dei fedeli, in particolar modo di quelli che appartengono all’associazionismo cattolico. Anzi, proprio tale appartenenza li dovrebbe distinguere «tra la comune dei fedeli, per una vita più decisamente e più fervidamente cristiana». Per cui, dichiara apertamente che, se necessario, è pronto a chiudere quelle associazioni inadempienti ai doveri della testimonianza cristiana, in quanto costituirebbero «un ingombro, più che inutile, dannoso» (pp. 11-12). A poco più di due mesi dal suo ingresso in diocesi, l’11 febbraio 1943, Giardina pubblica la seconda lettera pastorale. Va osservato, anzitutto, che essa contiene uno dei tratti caratteristici, forse il più tipico, delle sue lettere pastorali. Il metodo adottato per trattare gli argomenti non fa leva su riflessioni generiche ed astratte, su commenti ai documenti del magistero ecclesiastico, o su considerazioni filosofico-teologiche da manuale. Il testo si articola a partire dalla ricostruzione del passato, dalla lezione della storia anche della diocesi, da cui cogliere gli orientamenti per il presente e il futuro della comunità diocesana.


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Nel caso, pertanto, di questa seconda lettera, argomento della quale è il seminario, dichiara fin dall’inizio che la decisione di parlarne s’innesta nell’opera di Addeo, al quale va attribuito un doppio merito: aver fatto costruire il seminario estivo ed aver promosso una significativa disponibilità vocazionale, al punto che i seminaristi da appena 10 diventano 70, inclusi gli studenti di filosofia e teologia inviati nei seminari di Catania e Caltanissetta. Ma ricorda pure che l’assillo in favore del seminario aveva accomunato tutti i vescovi fin dalla fondazione della diocesi; assillo pervenuto ora a lui, in modo immediato attraverso il predecessore. La prima parte della lettera, pertanto, ricostruisce la storia del seminario fin dall’inizio «della laboriosa pratica per l’erezione della Diocesi» (p. 4), ricordando l’opera svolta dai singoli vescovi: dall’acquisizione dell’immobile, all’impegno per la formazione culturale e spirituale dei seminaristi. In sostanziale sintonia con i predecessori, ritiene che il seminario debba preparare pastori quali mediatori di grazia, per mezzo dei sacramenti; maestri di verità, dalla parola chiara e puntuale, capaci di indicare il senso della storia e della vita, non soggetti a mode culturali di comodo; padri del popolo, perché seminatori di consolazione e di amore, chiamati a suscitare cristiana carità ed energie vive per il bene dei singoli e della collettività. Tale preparazione, a parere di Giardina, sarebbe bene che accadesse in diocesi e non altrove. A tal fine, sottolinea come gli anni di seminario siano quelli che maggiormente educano ad un sincero e vivace zelo pastorale perché a contatto diretto con il proprio vescovo e gli altri presbiteri della diocesi; «con sotto gli occhi il quotidiano svolgersi di quella che è l’orditura della vita diocesana»; nel contesto della storia, delle tradizioni, delle usanze della propria diocesi (p. 11). Per sommi capi, in particolare della tradizione culturale della città e della diocesi di Nicosia, ricostruisce i tratti a suo parere salienti dal sec. XVI fino agli inizi del Novecento, dando prova di conoscere bene la locale storia civile ed ecclesiastica. E perché tale progetto possa realizzarsi, dichiara che intende costruire una nuova sede per il seminario più rispondente alle esigenze dei tempi, dove i seminaristi possano compiere l’iter completo della loro formazione. Progetto per il quale non costituiscono ostacolo le difficili condizioni economiche e sociali del momento


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storico. Al contrario, la raccolta di fondi deve diventare «la migliore dimostrazione d’affetto al Vescovo nuovo, che qui è venuto nutrendo in cuore il più ardente desiderio di bene, ma che ha bisogno, anche perché nuovo, di sentirsi sorretto e confortato col caldo di altri cuori, stretti filialmente intorno in un deciso e fermo proposito di lavoro e di sacrificio per il maggior bene della Diocesi» (pp. 20-21). Nel biennio 1944-1945 non risulta che Giardina abbia pubblicato lettere pastorali, probabilmente a causa della complessa e difficile situazione di quegli anni, che non pochi risvolti ha avuto anche per la vita della comunità diocesana. La cadenza annuale riprende nel 1946 e, senza alcun’altra interruzione, perdura fino alla fine del suo episcopato, nel 1953. Dal 1946, però, le lettere pastorali assumono una duplice finalità: educare a vivere il tempo della quaresima, come tempo di conversione determinata dalla riflessione su I problemi dell’ora; recuperare e consolidare tra i fedeli La concezione cristiana di essi. Nel 1946 con la lettera pastorale su Concezione cristiana dello Stato, interviene per istruire clero e popolo sulla questione nodale che segna l’avvio di una nuova fase della storia nazionale: decidere la fisionomia istituzionale e darsi una nuova carta costituzionale. Giardina ne dichiara il presupposto: la nuova costituzione italiana non può non basarsi che su una visione cristiana dello Stato. Esamina i passaggi nodali della storia dell’umanità, da prima di Cristo alle correnti filosofiche del sec. XIX, ed invita a considerare come si sia sviluppata la concezione dello Stato. Sulla scia del noto radiomessaggio pontificio del Natale 1942, in cui Pio XII delinea i tratti della ricostruzione dell’ordine sociale mondiale a partire da una chiara prospettiva cristiana, Giardina enuclea i valori di riferimento cui deve uniformarsi la nuova carta costituzionale italiana: lo Stato è a servizio della persona, e il suo servizio è ancor più completo se prestato insieme alla Chiesa e non da essa separato. A maggior ragione in una nazione di antica tradizione cristiana, come l’Italia, solo «nella distinzione e nell’accordo dei due Poteri si riesce a stabilire quell’armonia che non può non essere di altissimo vantaggio alla Nazione, perché avvalora e potenzia mirabilmente l’azione dell’uno e dell’altro» (p. 23). Il compito dello Stato è servire il bene comune. Tale compito, tuttavia, non è onnicomprensivo. Su di esso prevale il rispetto dei diritti inalienabili della persona, anzitutto la


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libertà, e il principio di sussidiarietà, che permette la libera iniziativa dei cittadini, della famiglia, dell’associazionismo anche sindacale. La pastorale del 1947 è dedicata alla Concezione cristiana della famiglia. In quanto istituzione fondamentale ed essenziale della società, tale argomento avrebbe meritato di essere trattato per primo. Ma Giardina precisa che dato il momento storico nel suo programma pastorale dà priorità alla trattazione della visione cristiana dello Stato. Espone la visione cristiana di matrimonio e famiglia alla luce del testo biblico: dal racconto genesiaco della creazione, alle deviazioni registratesi nella storia dell’umanità, alla restaurazione della famiglia e alla elevazione del matrimonio a sacramento, ad opera di Gesù Cristo. Ne deplora la messa in crisi, per responsabilità dei principi cristiani e della riforma protestante, definita da Giardina «pseudo-riforma». Denunzia la secolarizzazione del matrimonio, avviatasi nell’Ottocento, e le moderne mentalità che considerano il matrimonio come uno sport, un impegno a tempo, un esperimento, un patto di piacere. E annota, di conseguenza, che non ci si può meravigliare se la vita di famiglia si sia ridotta ad un «freddo incontro d’albergo, dove ci si ritrova, sì e no, per il sonno e per i pasti» (p. 15). A questa analisi, alla luce dell’insegnamento della Chiesa, Giardina fa seguire una puntuale trattazione degli elementi che ritiene fondamento del matrimonio: l’unità, l’indissolubilità, la procreazione, la gerarchia nella vita familiare, il dovere dello Stato di tutelare la dignità del matrimonio e della famiglia, anche con una legislazione che ne tenga in conto le esigenze economiche. Circa i rapporti tra Stato e Chiesa in materia matrimoniale, Giardina si muove nell’ambito proprio del mondo ecclesiastico del suo tempo: superiorità della Chiesa sullo Stato. Ad essa, in forza della imprescindibile sacramentalità del matrimonio, appartiene «il potere di legiferare e giudicare intorno ad esso» (p. 36). Per le famiglie cristiane, infine, il modello per eccellenza resta la Famiglia di Nazareth. In essa è possibile riscontrare l’ideale e lo stile di padre e capo famiglia, di madre, di figli. Una famiglia siffatta diviene «il vivaio d’una società ordinata, prosperosa e tranquilla come è nel pensiero e nello spirito del Vangelo» (p. 39). Per la quaresima del 1948, anno segnato dal duro scontro tra il blocco cattolico e il blocco popolare (comunisti e socialisti) in occasione delle


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elezioni politiche di quell’anno, con il clima e i risultati ben noti, l’argomento della lettera pastorale è la Concezione cristiana delle classi. È ancora il tempo della ricostruzione postbellica a guidare la riflessione di Giardina e il suo dialogo formativo con i fedeli della diocesi. La divisione della società in classi, la questione sociale con lo scontro tra datori di lavoro ed operai, la condizione dei contadini, la visione dell’economia e le regole etiche che devono orientarla, vengono trattati nella lettera pastorale attraverso un percorso che si snoda dalla disamina del concetto di classe, ad un excursus storico che analizza la divisione della società in classi, dalla storia precristiana, alla storia cristiana. Alla luce di tale analisi, Giardina reputa impensabile l’eliminazione delle classi, ma avverte che non se ne può ignorare la presenza e le condizioni. E non è certo lo scontro tra le classi che ne permette una pacifica convivenza, piuttosto la valorizzazione di quanto di bene è presente in ognuna di esse, coordinandolo al bene della società. Ciascuna delle classi, infatti, ha bisogno dell’altra: «né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie» (p. 20). La concordia, poi, è il risultato della fusione di due virtù: la giustizia e la solidarietà. Per il vescovo di Nicosia è tempo che lo Stato e la Chiesa si alleino per sostenere una serena e valida riforma delle classi, promuovendo l’organizzazione interna ad ognuna di esse, il ruolo del sindacato, la sempre più necessaria educazione e formazione morale dei rispettivi membri, come pure la formazione professionale, tanto con l’opera del collocamento professionale che con altre iniziative economico-sociali, tra cui soprattutto le cooperative. Per Giardina, lavoro e proprietà privata vanno difesi ma bisogna dare ad essi una corretta comprensione e una giusta valutazione. Entrambi sono diritto inalienabile della dignità della persona. Di conseguenza, anche la progettazione e l’attuazione delle riforme sociali necessariamente deve attuarsi armonizzando entrambi i diritti. Alla luce della dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum novarum di Leone XIII alla Quadragesimno anno di Pio XI e al magistero pontificio di Pio XII, Giardina si inserisce nei temi di grande attualità del momento storico e, in sintonia con la dominante visione paternalistica della questione sociale,


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addita gli orientamenti che devono guidare la riforma industriale, la riforma agraria e la riforma previdenziale. La lettera pastorale per la quaresima del 1949 è dedicata alla Concezione cristiana della persona, argomento che Giardina ritiene fondamentale. «Il concetto di persona — scrive —, come è stato elaborato dal pensiero cristiano, è quello che corrisponde, al di fuori di tutte le deformazioni e deviazioni sistematiche, ai più chiari dettami del buon senso umano. […] Persona è l’individuo, determinato e distinto da ogni altro inconfondibilmente, che sussiste in sé e per sé e cioè nella sua completezza e autonomia, e che è dotato di ragione» (p. 5). Sviluppa il tema attraverso l’analisi del concetto di persona nella cultura pagana per incentrare la sua riflessione sulla visione cristiana e dimostrarne la grandezza datale proprio dal cristianesimo. Giardina denunzia il duro attacco portato alla visione cristiana della persona mosso dalla cultura moderna, di fronte al quale urge riaffermare i principi cristiani. Il concetto cristiano di persona rifugge, infatti, dall’individualismo e, sia nei rapporti con gli altri che nei rapporti con lo Stato, bisogna mantenere una prospettiva di ordine internazionale, perché «la persona, quale ci apparisce in una completa visione e cioè punto di partenza e punto di riferimento nel vario esprimersi della vita umana, ha, perciò stesso, rapporti innumeri» (p. 33). Il momento storico, dopo l’avvilimento della persona verificatosi con gli eventi bellici, per Giardina è «delicatissimo» e chiede di «rifare tutto un mondo dopo l’immensa catastrofe dell’ultima guerra, e di consegnare una salda architettura per la ricostruzione: ora, e s’è chiarito, è fondamentale in questo lavoro la presenza attiva della persona in pienezza di santità, di forza, di padronanza di se stessa» (p. 45). A suo parere, un significativo apporto è dato dalla nuova Costituzione italiana che, agli articoli 2 e 3, ha sancito il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo: libertà e pari dignità sociale di tutti i cittadini. Al tema La libertà e le libertà nella concezione cristiana Giardina dedica la lettera pastorale per la quaresima del 1950. Altra questione nodale di quegli anni che tratta, secondo il suo stile, alla luce della filosofia, della teologia, della storia e del magistero pontificio. La libertà è un «problema sempre attuale», perché è «problema dello spirito, problema della vita, della


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vita quale si esprime in ogni individuo, della vita quale si svolge nella società» (p. 3). La riflessione elaborata dalle diverse correnti di pensiero sul concetto di libertà, intesa come potere di autodeterminarsi, fuori dalla visione cristiana ha prodotto, per Giardina, la negazione della libertà. Il senso genuino della libertà, «nel suo concetto essenziale, questo importa: dirigibilità, da parte dell’uomo, dei propri atti», non autonomia da ogni legge (p. 11). Lo stesso potere pubblico non può non sostenere la libertà della persona, anche perché il diritto alla libertà è una prerogativa inalienabile, è un diritto prioritario e superiore al diritto dello Stato, in quanto appartiene alla sfera dei diritti naturali. Nella sua riflessione osserva come il cristianesimo, contrariamente a quanto si è preteso di imporre soprattutto a partire dalle idee della Rivoluzione francese, ha sempre affermato e difeso la vera libertà in ogni ambito della vita personale e sociale. E ciò è agevole poterlo desumere dalla riflessione filosofica e teologica, come pure dalla prassi che la Chiesa adotta contro la schiavitù e contro le prevaricazioni del potere politico, soprattutto se violente. Rimanendo ancorato alla logica del minor male, Giardina esamina fino a che punto siano ammissibili le cosiddette libertà moderne: libertà di coscienza, che ha per corollario la laicità dello Stato e la sua separazione dalla Chiesa; libertà di parola e di stampa, con la questione attorno alla censura e al sequestro preventivo da parte dell’autorità pubblica; libertà di insegnamento e di scuola, vexata questio cui dedica molte pagine, analizzata anche alla luce della Costituzione italiana; libertà di associazione sindacale, che per i cristiani significa pure conseguimento di un fine morale; libertà dal bisogno, come risposta ai diritti fondamentali della persona, quali il lavoro, la previdenza, l’assistenza nel disagio, nella malattia e nella vecchiaia. Nell’ambito previdenziale ed assistenziale, inoltre, è «da aggiungere che, essendo le economie dei vari paesi strettamente interdipendenti, i sistemi di sicurezza sociale devono articolarsi sul piano internazionale. L’Unione europea ha infatti, tra le altre Commissioni, quella della Sicurezza sociale» (p. 61). Non ci si può dimenticare — osserva Giardina — della tutela e valorizzazione della persona umana, con la sua dignità e i suoi diritti ad essere messa in gioco. Di questo argomento si era occupata pure la 23a settimana sociale dei cattolici, celebrata a Bologna dal 24 al 29 settembre


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1949. Inoltre, dal punto di vista dell’azione pastorale, va compiuto ogni sforzo per insegnare, potenziare e custodire il corretto uso della libertà, che è «propulsatrice di un’operosità coraggiosa, ricca di slancio e di costanza, e insieme diritta e irremovibile sulla traiettoria che conduce verso tutto ciò che è vero, che è alto, che è nobile, che è santo» (p. 63). «Oggi “democrazia” è, si direbbe, parola di moda, come ieri era di moda il contrario di democrazia» (p. 3): al rapporto tra Democrazia e cristianesimo Giardina dedica la lettera pastorale per la quaresima del 1951. Proprio perché di moda, bisogna intendersi sulla corretta nozione di democrazia, visto che ad essa vengono attribuiti una molteplicità di significati: potere di popolo, orientamento di vita sociale ed economica, sostanza e forma della politica. Dal punto di vista sostanziale Giardina accetta e sostiene il significato di democrazia come «effettivo riconoscimento del valore e delle prerogative personali (sinteticamente: libertà, uguaglianza, fratellanza)», finalizzate al perseguimento del bene comune. Sotto l’aspetto formale, poi, dice che la democrazia «importa e deve importare partecipazione del popolo al governo in condizioni di libertà ai fini sociali» (p. 7). Visione della democrazia che manifesta aperture di prospettive in quegli anni ancora non del tutto condivise nel mondo ecclesiastico, quale retaggio della cultura intransigente di stampo ottocentesco. Attraverso un excursus storico, il vescovo tenta di dare un fondamento e una visione ampia del concetto di democrazia enunciato. Rintraccia attuazioni di regimi democratici già prima di Cristo ed individua nel messaggio evangelico il significato basilare della democrazia. Presenta poi le diverse tipologie di regimi democratici che si sono avuti fino alla loro affermazione seguita alla seconda guerra mondiale. Passa quindi ad esporre la dottrina della Chiesa, alla luce della sua storia, di Tommaso d’Aquino e del magistero pontificio più recente, per dimostrare che il suo favore verso «una sana e schietta democrazia, non è stato e non è soltanto effettivo ma anche concreto e propulsivo» (p. 30). Ne sono evidente segno l’impegno sociale e democratico dei cattolici dalla metà dell’Ottocento e i radiomessaggi natalizi del 1942 e del 1944 di Pio XII. Nel dare il quadro di una democrazia compiuta in senso cristiano, Giardina conclude con il richiamo alla necessità di avere cittadini in grado di esprimere il loro apporto in modo responsabile, finalizzato al bene comune; e governanti, ai quali è chiesta «maturità e saggezza che hanno


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consistenza e compimento in un’adeguata cultura morale. […] E poiché l’elevazione morale trova solo nella religione sicuro fondamento e presidio, perciò sarà l’elemento religioso la linfa vitale d’una sana democrazia» (pp. 51-52). Nelle due ultime lettere pastorali passa ad esaminare un duplice peculiare aspetto del nuovo ordine sociale: il ruolo della donna e il divertimento. Per la quaresima del 1952 scrive ai suoi diocesani su La donna cristiana e la sua missione con particolare riguardo al presente. Tema che Giardina considera antico e sempre nuovo. Tra le forze di bene operanti nella società, egli riconosce il valore della «donna cristiana — la donna cioè che non solo è consapevole del genuino valore della sua femminilità, ma che vive intero il suo cristianesimo: è siffatta donna che oggi costituisce, essa pure, una ragione di grandi speranze, ed è a lei che qui guardiamo, in confronto a quella che fu o può essere la donna fuori la luce e il respiro del cristianesimo» (p. 5). Il vescovo di Nicosia registra così una nuova visione della condizione sociale della donna, registrando anche su questo versante il mutato contesto storico e culturale. In Italia solo da pochi anni alla donna è riconosciuto il diritto di voto e alcune hanno preso parte attiva alla stesura della Costituzione repubblicana. Anche all’interno della Chiesa, poi, la donna ha acquisito ormai un certo protagonismo, soprattutto nei quadri dell’Azione Cattolica e con alcune forme di consacrazione laicale e di Istituti Secolari. Attraverso un excursus storico annoda le peculiarità relative alla concezione della donna nelle diverse culture e sottolinea il mutamento accaduto dalla condizione di sottomissione nella cultura pagana, alla riabilitazione ed elevazione della dignità della donna avviata dal Vangelo: Maria di Nazareth è l’ideale della donna. Da Lei in poi, non sono mancate donne che hanno svolto un rilevante ruolo nella storia della cristianità: dalle martiri dei primi secoli, alle regine di età medievale, alle donne di cultura del rinascimento, «a tutte le cristiane colte d’oggi», alle donne impegnate nel campo dell’educazione e dell’assistenza (p. 23). Giardina riconosce che gli anni della ripresa del secondo dopoguerra non possono fare a meno del singolare apporto della donna, evitando accuratamente deviazioni di femminismo individuale e di femminismo collettivista. Il femminismo vero è solo quello cristiano, che sa valorizzare la


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dignità della donna: «in quanto questa partecipa della stessa natura umana, non è per nulla inferiore alla dignità dell’uomo». Ad essa va riconosciuto, quindi, in modo complementare e coordinato, nella prospettiva del bene comune, il diritto di accesso a tutti gli ambiti di azione finora riservati soltanto all’uomo. Tuttavia, assolve alla sua missione «primieramente e principalmente in quel centro che si ricollega in modo speciale ai suoi caratteristici tratti biologici e psicologici — la famiglia — dove si preparano coloro che dovranno esser poi le leve della comunità per le grandi avanzate economiche, intellettuali, morali» (p. 27). Senza impedirle, però, la possibilità di un’azione sociale e politica, che «si allarga così da trascendere i confini delle singole nazioni per distendersi fino in campo internazionale» (p. 46), oltre che ecclesiale, per l’apporto che da essa può venire all’azione apostolica della Chiesa. L’ultima lettera pastorale è per la quaresima del 1953, dedicata a Il divertimento nel pensiero cristiano. Spiega anzitutto le ragioni che l’hanno indotto a scegliere tale argomento, a prima vista alquanto strano, per una lettera pastorale. Riconosce che il desiderio di gioia e di divertimento è proprio della natura umana, mentre sono piuttosto le illusorie modalità di appagamento che producono molteplici inconvenienti: esso è in verità «un magnifico coefficiente di ravvivamento etico e spirituale» (p. 4). Dopo aver esaminato le diverse tipologie del piacere (sensibile, sentimentale, spirituale, del dare e del darsi), ricorre ancora una volta alla storia per delineare la concezione del divertimento, dall’antichità classica alla visione cristiana. Passa quindi in rassegna le varie forme di piacere: dall’esercizio dell’intelligenza e della volontà, alla vita psico-fisica, frutto delle arti figurative; dallo spettacolo teatrale e cinematografico, all’alpinismo, turismo, scoutismo sino al piacere dello sport. Ma che valutazione etica dare del piacere? Quando è lecito e quando è riprovevole? Per Giardina «è lecito il piacere che scansa cose, parole, azioni inoneste, e che, pur mirando al diletto sensibile, si mantiene nei limiti segnati dalla retta ragione […], e che infine non distrae troppo lo spirito. […] Dalla ragionevolezza del divertimento S. Tommaso desume la liceità dell’opera dei professionisti del divertimento» (p. 28). Enuclea, inoltre, una storia cristiana del divertimento, in cui è centrale la comprensione del «valore della croce che, nel Cristianesimo,


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interferendo con la stessa gioia e lo stesso divertimento, vi dà luce, norma e solidissima sostanza». Il corretto significato della croce cristiana, infatti, «non è apporto di dolore ma superamento di dolore, non è spegnimento di vita ma infrenamento di moti turbinosi attentanti alla vera vita» (p. 38). L’ampia diffusione del divertimento è valutata da Giardina in modo positivo ed esso va tenuto in considerazione anche nei salari degli operai: «mentre in altre epoche più largamente si ritrovava presso alcune classi, oggi no: e di ciò dobbiamo rallegrarci, perché tutti hanno bisogno e hanno diritto di usufruire d’un giusto divertimento: anche a questo deve bastare, oltre che al necessario per la vita del lavoratore e della sua famiglia, la rimunerazione del lavoro» (pp. 43-44). Il divertimento è una risposta al bisogno della persona di riposarsi ed allentare la fatica fisica, per ritemprare il corpo e lo spirito e gioire dei rapporti interpersonali che favorisce. Ma ogni divertimento va vissuto con ragionevolezza e da buoni cristiani. Sulla scorta di alcuni discorsi di Pio XII, si sofferma, infine, sulle due forme maggiormente diffuse di divertimento: lo sport e il cinema.

5. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE Da quanto emerso, tre sembrano le principali osservazioni: le tematiche esposte nelle lettere pastorali; il metodo adottato nella trattazione; la recezione che ne è seguita, o ne sarebbe dovuta seguire. Ognuna di esse, come è ovvio, presuppone le altre due, oltre alla fisionomia propria del periodo storico in cui le lettere s’innestano, e per il quale Giardina le addita al clero come “luogo” di formazione, comprensione, chiarificazione, sostegno dell’impegno pastorale. Dai contenuti emerge in modo immediato che queste lettere pastorali, piuttosto che affrontare temi tra loro disarticolati ed occasionali, costituiscono un corpus rispondente ad un progetto mirato del magistero episcopale di Giardina. Un progetto che vede il vescovo di Nicosia protagonista attento a chiarire e trasmettere, in sintonia con il magistero pontificio e con la cultura ecclesiastica propria del tempo, la visione cristiana della vita e delle relazioni sociali e politiche, in un contesto generale della società italiana tesa alla ricostruzione postbellica e alla determinazione e consolidamento di una nuova fisionomia istituzionale della nazione.


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Se la disamina dei vari aspetti della dottrina sociale della Chiesa lascia trasparire un vescovo attento agli eventi del proprio tempo e culturalmente bene attrezzato, non si può eludere la domanda se vi sia stata una rispondenza tra gli argomenti trattati e la condizione pastorale, oltre che sociale, della diocesi di Nicosia. Fino a che punto tali tematiche rispondono alle effettive esigenze pastorali di una diocesi che, per la sua posizione geografica, per l’estensione territoriale e per la prevalente condizione complessiva dei suoi abitanti non pare viva già in quegli anni processi sociali, politici e culturali particolarmente difficili tali da giustificare il percorso e l’argomentazione adottati da Giardina. Sembra piuttosto che i suoi interventi fossero sovradimensionati rispetto alle immediate esigenze pastorali, anche in precedenza evidenziate, oltre che al livello culturale medio della gran parte dei fedeli della diocesi, considerati di fatto destinatari secondi delle lettere pastorali rispetto al clero. Traspare, poi, dai testi di Giardina un impianto ecclesiologico tradizionale, con un pesante sbilanciamento verso una visione paternalistica e clericale dei rapporti della Chiesa con le istituzioni politiche e la società, della quale si rimpiange e al contempo si invoca una piena conformazione allo status di societas christiana. La seconda osservazione è relativa all’articolazione espositiva degli argomenti delle lettere pastorali e al metodo seguito nella trattazione. Giardina manifesta una solida preparazione culturale, filosofica e teologica oltre che storica e letteraria. Ciò gli permette di affrontare e sviluppare temi di rilevante portata con cognizione di causa. La loro trattazione è di livello medio-alto, destinata ad una popolazione nella stragrande maggioranza rurale e di livello culturale spesso anche al di sotto della media. Ci si potrebbe allora chiedere: quali interlocutori Giardina tiene presente quando scrive le lettere pastorali? Circa il metodo, poi, predilige una esposizione deduttiva, dipendente dal magistero pontificio ma per lo più annodata attorno alla memoria del passato, tanto della storia della chiesa universale che della storia della chiesa locale. Memoria però che viene assunta in maniera strumentale a fini apologetici, e in alcuni casi lascia anche molto perplessi sulla ricostruzione e l’interpretazione degli eventi. Se Giardina può fare appello alla formazione ricevuta negli anni dei suoi studi romani, il testo delle lettere pastorali riconsegnano un vescovo


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che non ha smesso di studiare e tenersi aggiornato su quanto accadeva tanto in ambito ecclesiale che sociale, politico ed economico, in Italia come nelle altre nazioni. Di conseguenza, non meravigliano alcune sue aperture mentali, rispetto ad altri vescovi siciliani, come nel caso in cui scrive di sport, cinema, divertimento, ruolo della donna. Per un raffronto immediato su questo aspetto, valga come esemplificazione il semplice riferimento a temi di lettere pastorali degli stessi anni. Nel 1944 la Conferenza Episcopale Siciliana pubblica una lettera collettiva dedicata alla ricostruzione postbellica, al lavoro e alla questione sociale. L’arcivescovo di Catania, Carmelo Patanè, scrive nel 1943 su Il papa; nel 1946 Il dovere del voto nell’ora presente; nel 1947 A tempi nuovi armi nuove (cioè impegno nel sociale); nel 1948 La libertà; nel 1949 La “Peregrinatio Mariae”; nel 1950 A Roma! A Roma! (sull’anno santo 1950). Il vescovo di Caltagirone, Pietro Capizzi, elabora nel 1942: Perdurando la prova (preghiera e riparazione); nel 1943 Consacriamoci al Cuore Immacolato di Maria; nel 1947 Per la S. Quaresima; nel 1948 Dopo le conferenze episcopali (sindacati liberi, giornale, peregrinatio Mariae); nel 1949 Peregrinazione mariana; nel 1950 Anno Santo; nel 1951 Anno santo in diocesi; nel 1952 Contro corrente (spirito di penitenza e mortificazione di fronte ai mali d’oggi; spirito di carità e assistenza per vincere il comunismo; le elezioni amministrative). Giardina tralascia tematiche squisitamente religiose e occasionali, dominanti negli scritti dei suoi confratelli vescovi, a favore di questioni socio-politiche, sviluppate in modo unitario. Circa la recezione delle lettere pastorali, infine, non è facile poter raccogliere elementi che ne favoriscano la misurabilità. Dalla testimonianza di sacerdoti anziani sappiamo che esse erano attese dal clero, il quale se ne serviva a mo’ di aggiornamento e di formazione permanente, e ne dava lettura e spiegazione ai fedeli al posto delle omelie domenicali. Ma ciò non dipana la cortina per verificare l’effettiva incidenza pastorale e la formazione del popolo, la sua acquisizione di una cultura impregnata di dottrina sociale della Chiesa, da esprimere poi in una rispondente capacità decisionale. E, per di più, bisogna attendere che si ampli l’arco cronologico che ci separa dagli anni dell’episcopato Giardina per poter accedere ad altre fonti documentarie da cui evincere elementi per una verifica attendibile. Prime fra tutte quelle relative all’accoglienza e trasmissione delle stesse lettere pastorali da parte del clero ai fedeli e sulla comprensione che questi


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ne hanno avuto. Se e fino a che punto le lettere hanno inciso sulla formazione e sul vissuto del popolo cristiano della diocesi di Nicosia. Se hanno implementato una tradizione precedente e se, infine, sono divenute ‘fondamento’ per il successore di Giardina, il bergamasco Clemente Gaddi, per impiantare il proprio ministero pastorale, in un processo di continuitĂ del cammino di questa chiesa locale.



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VERSO VERONA 2006. INCONTRO DEI DIRETTORI DELLE RIVISTE TEOLOGICHE E DI CULTURA RELIGIOSE (ROMA 16 FEBBRAIO 2006)

MARIO TORCIVIA*

Giovedì 16 febbraio u.s., presso il Centro Congressi di Villa Aurelia (Roma), organizzato dalla CEI, e specificamente dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e dal Servizio nazionale per il progetto culturale, si è tenuto un momento di studio e di confronto con i responsabili dell’editoria cattolica in vista del IV Convegno Ecclesiale Nazionale (Verona, 1620/10/2006) “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”. Questi gli obiettivi dell’incontro presentati da mons. Claudio Giuliodori, Direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali: ritrovarsi e condividere il lavoro editoriale fatto, chiedersi come valorizzare il lavoro diocesano, parrocchiale e delle aggregazioni locali e come far sì che il Convegno non resti un evento solo intraecclesiale, il pensare all’eventualità di apertura di forum nelle riviste per approfondire i cinque ambiti del Convegno di Verona, fornire indicazioni sul come le riviste possono seguire i lavori. L’incontro è stato introdotto da un intervento di S.E. mons. Giuseppe Betori, su “Il cammino della Chiesa in Italia verso il 4° Convegno ecclesiale nazionale di Verona”. Il Segretario Generale della CEI ha evidenziato innanzitutto tre consapevolezze della Chiesa italiana. La prima riguarda la scelta di non *

Docente dello Studio Teologico S. Paolo di Catania e delegato all’Incontro di Roma.


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essere rinchiusa in se stessa ma di spendersi nella storia, pensando in termini di orientamento (vd. i programmi e i Convegni nazionali decennali). Ecco pertanto l’urgenza dell’evangelizzazione, strettamente connessa all’indispensabile rinnovamento del volto delle nostre comunità ecclesiali alla luce del Vaticano II. Il confronto con la cultura pubblica — quella mediatica dei grandi centri di comunicazione sociale — che si contrappone alle radici cristiane. Da qui la scelta della Chiesa italiana di «rivendicare il patrimonio di fede cristiano, come fattore culturale ineliminabile dell’identità del nostro popolo» e di «riproporne la vitalità oggi, come apporto da tutti condivisibile di piena umanizzazione per la persona e per la società». La terza consapevolezza è la necessità da parte di ogni uomo/donna di operare un «personale incontro con Gesù Cristo e con il suo mistero di redenzione, quale ci viene donato dalla fede della Chiesa nella parola dei suoi testimoni». Tutto questo comporta il «ri-centrare su Cristo la fede e la prassi ecclesiale». Quanto detto finora, secondo mons. Betori, spinge sempre più ad «impegnarsi tanto sul fronte di una più chiara identità della fede quanto su quello di un più coraggioso slancio missionario». O con altre parole, quelle di Palermo 1995: contemplazione e missione. Da questa Chiesa contemplativa e missionaria scaturiscono per il Prelato cinque scelte/orizzonti «che delineano per oggi e domani il profilo della Chiesa in Italia» e che vengono di seguito proposte senza alcuna priorità di valore: a) la sete di ascolto degli altri, dei fratelli nella fede, di Dio e della sua Parola; b) l’iniziazione e l’educazione alla fede, considerata l’avvenuta rimozione dalla memoria collettiva della tradizione e la rottura del “patto tra le generazioni”; c) il confronto e la presenza culturale, il cui «obiettivo è quello di costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza nelle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cultura contemporanea per renderci capaci di dire in modo originale e plausibile la nostra fede». Ecco spiegata, pertanto, la centralità della questione antropologica; d) il «dare respiro nuovo al rapporto che il cattolicesimo deve avere con il Paese, nell’ambito degli assetti sociali e nel servizio proprio della politica», conclusasi la fase dell’unità politica dei cattolici; e) «l’esigenza di preservare e magari anche rilanciare, seppur in forme nuove, la natura


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popolare della Chiesa, che è un dato tipico del cattolicesimo italiano nello scenario internazionale». Ne consegue l’attenzione alla parrocchia, da rilanciare sempre più in senso missionario e da configurare maggiormente come Chiesa eucaristica. Due le conseguenze: il legame sempre più stretto tra parrocchia e territorio e l’invito ad “una pastorale integrata” con le altre comunità parrocchiali della diocesi. In questo contesto si colloca il Convegno di Verona, il cui tema «cerca di dare forma unitaria ad alcuni obiettivi generali: aiutare la pastorale a stabilire un rapporto autentico e fecondo con la realtà del nostro tempo perché assuma un’impronta veramente missionaria […]; aiutare a capire la missionarietà non come semplice azione della Chiesa, ma come sua intima disposizione […]; mostrare la sostanza autentica della fede e il vero volto della Chiesa evidenziando l’apporto che essa può offrire alla soluzione delle questioni e dei bisogni immediati e profondi dell’uomo del nostro tempo. […] la Chiesa deve mostrarsi come luogo di illuminazione dell’esistenza e di apertura verso orizzonti nuovi di speranza nonché come realtà istituzionale nella quale tale speranza diventa progetto ed esperienza; aiutare le comunità cristiane a riacquistare la capacità reale di riflettere sulle tematiche del vissuto umano e delle istituzioni in modo costruttivo, così da superare gli atteggiamenti di rimozione e di contrapposizione». Due infine, le «annotazioni prospettiche, quasi due obiettivi per il Convegno»: ribadire l’unità delle tre virtù teologali ed «uscire da una concezione della pastorale per ambiti» e riprendere l’«attenzione verso l’unità dell’esperienza di vita cristiana», in vista di «un modello di vita ordinaria cristiana per l’oggi, capace di stabilire certezza di identità e forza di provocazione per il mondo». Ecco motivata la scelta del cammini di santità delle singole Chiese locali. All’intervento di mons. Betori sono seguite due brevi comunicazioni. Il Sottosegretario della CEI, mons. Domenico Mogavero, ha fatto il punto della situazione, presentando il lavoro fatto dal Comitato preparatorio del Convegno e dalle singole Chiese italiane nel cammino che le condurrà a Verona ed evidenziando l’entusiasmo riscontrato e a livello centrale come a livello locale. Il dott. Vittorio Sozzi, Responsabile del Servizio nazionale per il progetto culturale ha presentato il percorso nazionale itinerante da Palermo (quarto ambito: tradizione – 24-


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26/11/2005), a Terni (primo ambito: affettività – 10-19/02/2006), a Novara (terzo ambito: fragilità umana – 24/03-07/04/2006), ad Arezzo (quinto ambito: cittadinanza – 8-14/05/2006) a Rimini (secondo ambito: lavoro e festa – 19-25/06/2006). Alla relazione e alle comunicazioni sono seguiti gli scambi di opinione e le domande da parte dei presenti in un clima sereno e propositivo.


Synaxis XXIV/1 (2006) 205-212

CRISTIANESIMO SENZA TEODICEA? QUINTO SIMPOSIO ROSMINIANO (STRESA 25-28 AGOSTO 2004)

SALVATORE LATORA*

Siamo già al quinto Simposio, che si è svolto a Stresa nell’estate scorsa e di cui si attende la pubblicazione degli Atti. Dopo la meritevole iniziativa della “Cattedra Rosmini”, ideata da Michele Federico Sciacca e sostenuta a tutto campo dai Padri Rosminiani, per far conoscere quell’astro del pensiero, animato da profonda fede, che è stato Rosmini, da cinque anni ormai i “Simposi” annuali offrono a quelli che Rosmini chiama “amici della verità” e promotori di “carità intellettuale” «un luogo in cui poter approfondire, in piena libertà di spirito e con rispetto della diversità, la soluzione dei problemi più urgenti che si affacciano sul terzo millennio». Basta vedere il cammino fin qui percorso e i temi affrontati e consegnati ai numeri unici della “Rivista Rosminiana” che contengono gli Atti dei vari Simposi, per vedere quale contributo di grande rilievo, per orientare l’umanità contemporanea, essi costituiscono. La filosofia dopo il nichilismo (2000); La fine della persona? (2001); Il sacro e la storia. La civiltà alla prova (2002); Umanità globalizzata? (2003); Cristianesimo senza teodicea? (2004). «“Teodicea”, il termine è stato coniato da G.W. Leibniz per indicare in generale la “giustificazione” dell’esistenza di Dio e dell’ordine della creazione (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, sulla libertà dell’uomo, sull’origine del male, 1710). In una lunga polemica con P. Bayle, Leibniz sostenne che la giustizia di Dio va dimostrata risolvendo i problemi del male e della libertà.

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Catania.

Docente emerito di Storia della Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di


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Salvatore Latora

Infatti, la presenza del male nel mondo sembra inconciliabile con la bontà di Dio e così pure la libertà umana deve trovare un accordo con la prescienza e la provvidenza di Dio. Leibniz risolse il problema affermando che, nel creare il mondo, Dio non poteva che scegliere il migliore dei mondi possibili: i mali del mondo vanno dunque considerati come il minimo di negatività che il migliore dei mondi finiti deve inevitabilmente contenere. Quanto alla libertà, essa va intesa come autodeterminazione, consiste nell’assenza di costrizione e dunque Dio non necessita le azioni umane, ma solo le inclina. I. Kant ritornò su questi argomenti nel saggio Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea (1791), asserendo che il problema della teodicea non può trovare una soluzione soddisfacente sul piano puramente teoretico1. “Teodicea” è anche il titolo definitivo che Rosmini diede ad un suo lavoro, il cui scopo era quello di «giustificare la equità e la bontà di Dio nella distribuzione de’ beni e de’ mali nel mondo» (A. ROSMINI, Teodicea, Libri tre, a cura di Umberto Muratore. Edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca, Città Nuova Editrice, Roma 1977)2. Qual è la risposta che Rosmini ci offre su uno dei nodi più difficili del pensiero occidentale? Tra gli estremi, costituiti dall’ottimismo leibniziano e dallo scetticismo Kantiano, egli si muove su un terreno mediano e ne dà una giustificazione pienamente razionale. Ecco l’impostazione teoretica che egli ci dà nella teosofia. «Gli oggetti che possono essere conosciuti dalla mente umana si riducono, nei loro principi a tre: l’Idea, centro e fondamento di tutte le cognizioni; l’Anima intelligente o soggetto umano, centro e fondamento di tutte le attività conoscitive; l’Ente, centro e fondamento di tutti i contenuti di 1 Con V. Cousin la teodicea diventa sinonimo di “teologia razionale” o di “teologia naturale”. 2 Negli ultimi anni Rosmini lavorò alla sua opera fondamentale Teosofia, che non riuscì a completare, come s. Tommaso lasciò incompleta la Summa (per le affinità o sviluppo cfr: G. MUZIO, La dottrina della conoscenza in s. Tommaso e in A. Rosmini, con estratti dal “Nuovo Saggio” e dal “Rinnovamento della filosofia”, Milano1955; U. HONAN, Agostino, Tommaso, Rosmini, Milano 1955).


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pensiero. L’idea e l’anima sono state studiate, rispettivamente, dall’ideologia o problema della conoscenza e della certezza, e dalla psicologia. Rimane l’ente, da considerare in tutta la sua totalità: esso sarà l’oggetto della Teosofia (dottrina dell’essere in tutta la sua estensione), che si suddivide a sua volta in Ontologia: dottrina dell’essenza dell’essere, o contenuto di ente puro; Teologia naturale, dottrina dell’Ente assoluto; Cosmologia, come dottrina degli enti finiti. Rosmini condusse a termine solo la prima parte, delle altre due interrotte dalla morte, ci restano solo ampi frammenti» (Umberto Muratore, Conoscere Rosmini, Ed. Rosminiane, Stresa 1999). Il pensare teosofico, da non confondersi con le varie dottrine teosofiche alla maniera orientale, è per Rosmini strettamente filosofico, è un pensare completo, onniavvolgente, perché qualsiasi cosa sulla quale cade l’indagine è trattata dal punto di vista della totalità dell’essere. Si tratta non di un circolo vizioso, ma di un circolo solido, come Rosmini lo chiama, dove il centro e la sostanza di tutta la trattazione, delle tre parti, ontologia, teologia naturale e cosmologia, è sempre la dottrina di Dio. Per Rosmini, quindi, la teodicea è una parte del piano integrale della Teosofia. È da questo punto di vista rosminiano che i vari relatori del V Simposio hanno affrontato il tema, sempre attuale, con l’obiettivo di recuperare l’unità del filosofare di fronte al problema della crisi della teodicea. E a questo vuole alludere il titolo, sotto forma interrogativa: Cristianesimo senza teodicea? Esso vorrebbe dire: com’è possibile un cristianesimo orfano di Dio?3 L’ampia Introduzione di Umberto Muratore, rettore del Centro 3 Ci ha tentato tutta un’epoca, che ha proclamato la morte di Dio auspicando un cristianesimo laico e una sua interpretazione non religiosa; un’epoca secolarizzata e di nichilismo che ha proclamato la morte di Dio, come scoperta anche della libertà di Gesù, in funzione della crescita dell’uomo e quindi di un linguaggio teologico in prospettiva antropologica. La diffusione dell’ateismo nel mondo contemporaneo è stato molto studiato: ci sono quelli che si dichiarano non credenti e quelli che vivono come fossero non credenti; c’è l’ateismo soggettivista, che riduce Dio alla proiezione dell’immagine paterna (Freud); o come proiezione della fede nella società (Durkheim). C’è l’ateismo morale che nasce dalla ribellione all’idea di un Dio che tollera la sofferenza nel mondo, che permette l’ingiustizia nel suo nome, che induce all’evasione dai compiti umani. L’ateismo religioso, identificando


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Studi Rosminiani e animatore dei Simposi di Stresa, ha posto le basi per l’approfondito dibattito. «Sembra una questione oziosa, egli ha detto, aprire oggi un dibattito su interrogativi riguardanti, il governo di Dio sul mondo, l’origine del bene e del male lungo la storia umana, il senso della morte e della malattia, la sofferenza del giusto e dell’innocente, gli orrori della guerra, le catastrofi ecologiche. La disaffezione odierna a problemi di questo genere non viene dal fatto che siamo riusciti a trovare soluzioni definitive capaci di completare le risposte classiche; neppure deriva dal fatto che abbiamo alternative soddisfacenti, ma semplicemente perché, ci siamo stancati di porre domande di un certo spessore. Ciò deriva da una diffusa mentalità nichilistica, e da un certo materialismo frutto della globalizzazione economica della democrazia occidentale che ci rende distratti a problemi attinenti allo spirito». Traccia poi, alla luce del pensiero del Rosmini, alcune linee generali per una qualche soluzione ai problemi sopra accennati fino a trovare la “gioia” nella sofferenza, che è l’ineffabile segreto dei Santi! Ma è la relazione di Andrea Poma, docente di filosofia morale nell’Università di Torino, che, entrando nel vivo della questione , Accettazione della sofferenza e giustizia di Dio (è questo il tema da lui affrontato), ci prospetta tutta la drammaticità del problema della sofferenza. Egli, che ha al suo attivo pubblicazioni come: Possibilità o impossibilità della teodicea — Commento al libro di Giobbe — La teodicea secondo Kant , ricorda che, secondo una tradizione filosofica, la sofferenza è uno dei due aspetti del male: il male morale che è la colpa, e il male fisico che è la sofferenza. Se poi si tiene conto che, oltre al male quotidiano, c‘è il “male grande” che, quando si abbatte su un individuo, come l’Orca del romanzo di Stefano D’Arrigo, sconvolge ogni senso della vita umana e annienta, e non c’è giustificazione razionalistica che tenga, allora sull’esempio di Giobbe e della tradizione giudaico-cristiana, acquista valore solo la sofferenza vicaria, accettata come quella che dà il senso alla storia che è fatta, non sembri paradossale, dai vinti! Si veda la figura del Servo del Signore del Vecchio testamento e quella di Gesù nel Nuovo Testamento. totalmente l’amore di Dio con l’amore dell’uomo, rende quest’ultimo obiettivo unico dell’autentica vita religiosa: il Regno di Dio è il Regno dell’Uomo.


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Solo allora la sofferenza dei vinti illumina il percorso della storia all’insegna della Provvidenza. Paolo Miccoli, prof. di Filosofia Moderna e di Filosofia della Storia presso l’Università Urbaniana di Roma, svolge il tema: Paradigmi, metamorfosi, persistenza della teodicea in funzione del cattolicesimo dottrinale. Egli, attraverso una ricca rassegna storica di carattere problematico, ha presentato delle piste da seguire per ripristinare i problemi essenziali della Teodicea. Quando si parla di Teodicea, bisogna capire che la maggior parte delle nostre risposte non sono soluzioni. L’esperienza cristiana è stile di vita più che processi di pensiero; Rosmini, da teologo chiarisce che l’uomo cristiano deve sentire, pensare, essere ogni cosa in Cristo. Dicendo questo il grande Roveretano si porta oltre le frontiere della Teodicea ma non la rinnega; se vogliamo capire il suo pensiero conviene leggere la Teodicea, la Teosofia e Le cinque piaghe della Chiesa4. È di taglio più teoretico la tematica svolta da Virgilio Melchiorre, docente presso l’Università Cattolica di Milano: Per una teodicea (im) possibile. In un ampio arco che abbraccia tutto il percorso del pensiero occidentale, che va dal Detto di Anassimandro fino alla filosofia analitica e continentale egli svolge la sua relazione confrontando le varie argomentazioni anche con gli stimoli e i suggerimenti che possono venire dal messaggio biblico. Si concentra sul senso paradossale delle due proposizioni di Boezio che si impongono per chiarezza espressiva: Si Deus est unde malum? Si Deus non est unde bonum? E fa vedere tutta l’aporeticità di una teodicea argomentante per cui, citando Ricoeur, del male si può 4 Egli è autore del volume: Secolarizzazione della teodicea. Per un ripensamento dell’ordine del mondo e del senso della storia, L.I.E.F.,Vicenza, 1986. Presentazione di Antimo Negri. Il quale scrive: « questo libro è un documento interessantissimo di tutte le aporie in cui si caccia, anche drammaticamente, il pensiero cattolico, quando frequentando il “sentiero degli atei”, di atei che pure non hanno istanze immediatamente atee, abbandona la via della teologia catafatica (apofantica)= positiva; mentre: apofatico = negativa., cioè in un discorso netto su Dio e sulle creature, gli uomini e le cose » (p XI). «L’uomo odierno incede tra le macerie dell’insignificanza, affidandosi all’avventura del dettaglio e del provvisorio. Le sintesi del passato sembrano aver fatto il loro tempo… Nella mutata temperie culturale la teodicea si è rovesciata in antropodicea» (oggi neppure questo dopo la morte dell’uomo!).


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dare solo una descrizione empirica e non mai eidetica, e tuttavia, pur argomentando in senso trascendentale si può coniugare la teodicea con un’antropodicea. Allora l’itinerario teoretico si raccoglie e assomma su queste due proposizioni: a) per un verso la condizione che rende possibile la cognizione del male implica l’asserto di un assoluto di una ultimità di bene; b) per altro verso la condizione dell’esserci del male conduce all’asserto dell’alterità dell’assoluto. Pertanto è apodittica la necessaria tensione tra l’esserci e l’Essere, che costituiscono la base di ogni trascendimento del dato puramente empirico del male e solo così si può cercare di intendere l’aporia di quelle proposizioni. Illuminante è a questo proposito la sentenza del Qoèlet (3,11): «Dio ha dato un senso al tutto, ha messo ogni cosa al suo posto. Negli uomini Dio ha messo il desiderio di conoscere il mistero del mondo (il senso dell’intero). Ma non son capaci di capire tutto quel che Dio ha fatto, dalla prima all’ultima cosa». Il male in quanto negazione è sempre negazione di qualcosa; esso non può essere assoluto perché coinciderebbe con il nulla , ogni esserci si autentica in rapporto all’Essere. L’esempio della sua maestra, Sophia Vanni Rovighi era semplice ma illuminante: quello di un foglio con un buco, per cui non esiste il buco da solo, ma il foglio con il buco! E qui la risposta di un operoso trascendimento ce la dà Giobbe, quando afferma, contrariamente all’opinione dei suoi amici (chiaro esempio di teodicea argomentante): — finché non giungerà la mia fine non voglio venir meno alla mia pietà. «Io so che puoi tutto. Niente ti è impossibile… Allora ti conoscevo solo per sentito dire, ora invece ti ho visto con i miei occhi. Quindi ritiro le mie accuse e mi pento, mi cospargo di polvere e di cenere per la vergogna» (Gb 42, 2-6). E in maniera stupenda ce la dà Gesù (Gv 9,3) quando di fronte al cieco nato e gli si chiede se abbia peccato lui o i suoi genitori, risponde, «né l’uno né i suoi genitori, ma è così perché in lui si possano manifestare le opere di Dio»! Quindi lascia intatto lo scandalo del male nella sua sconcertante crudeltà, ma ci addita un’antropodicea operosa finché c’è giorno, perché si riveli la Misericordia e Bontà di un Dio nostro compagno di viaggio e di sofferenze!


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Giuseppe Cantillo svolge il tema: Cristianesimo e società. In margine a La Teodicea sociale di Rosmini di Pietro Piovani. Prendendo in esame la penetrante opera di P. Piovani, il relatore fa vedere come Rosmini è stato sempre attento anche ai problemi economici e sociali al fine della costruzione di una società più giusta, per un’equa distribuzione dei beni. Tra le letture del roveretano figura anche l’opera di Adamo Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, in cui si dice , come ha puntualizzato il prof. D’Addio, che nel lungo periodo, una Mano invisibile fa realizzare il bene della comunità; e Rosmini coglie questi aspetti nella sua Teodicea. Marco Ravera, docente di Filosofia nell’Università di Torino, alla luce dell’ultima fase del pensiero di Luigi Pareyson i cui scritti sono raccolti ora nel volume: Ontologia della libertà , ritiene che il pensiero del filosofo torinese si pone oltre, o meglio contro la Teodicea! Sulla base di alcune letture puntuali (pp. 85, 113, 465, 467, 470-473, dal vol cit.) afferma che la libertà si situa nell’ordine della realtà, mentre la Teodicea si situa nell’ordine dei concetti e come tale non è in grado di dar senso al negativo né al male, al dolore e alla sofferenza, ma cade in quell’antropomorfismo deteriore, o immanentismo radicale, seguito da tanta parte della filosofia occidentale. Ma, oltre a questa linea, ne esiste un’altra nella filosofia occidentale, quella che va da Pascal a Kierkegaard, a Schelling, Barth, Jaspers e che trova nel pensiero di Pareyson una delle formulazioni più attuale e più radicale dell’esperienza religiosa come base dell’ermeneutica filosofica. Pensiero arduo e “temerario” questo di Pareyson , che cerca di riannodare l’esistenza di Dio come libertà originaria e l’esistenza del male, come male in Dio, ridestato dalla libertà dell’uomo. Tesi che presenta tanti aspetti suggestivi, che apre verso una metafisica non oggettivante ma che non è esente, riteniamo, da altrettanti aporie (libertà ontologica, ma la libertà fa parte del volere, e operari sequitur esse. Il male in Dio allo stato latente, come ombra, che l’uomo ha il potere di ridestare: un Dio prima di Dio, è poco trinitario!). A nostro parere, forse la via di un pensare diaporetico potrebbe indicarci una soluzione mettendo a confronto questa relazione con quelle di Melchiorre, Miccoli, Poma e Lorizio alla luce delle intuizioni di Rosmini e della Salvifici doloris di Giovanni Paolo II. G. Lorizio, docente nell’Università Lateranense tratta il tema: Kant o Rosmini: quale teodicea? Egli tratta il tema dal punto di vista teologico


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e, contrariamente alla forma alternativa espressa dal titolo, egli sviluppa un confronto fra i due pensatori, anzi, il confronto che egli propone si avvale delle annotazioni autografe che Rosmini appose in margine all’opuscolo Kantiano: Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea, «la cui lettura è da annoverarsi con buona probabilità fra i fattori che lo indussero a proporre una propria teodicea… La possibilità di superare la prospettiva apofatica ed etica, per approdare a quella teologica e cristologica, passa per Rosmini attraverso una lettura della figura e del libro di Giobbe in chiave fortemente cristocentrica. È proprio questo tipo di approccio che consente al Roveretano di opporre al Giobbe illuministico, portavoce di un Dio fascinans e tremendum, il Giobbe cristiano, il quale giunge ad identificarsi con Cristo ed il suo fiducioso abbandono al Padre, nel momento della passione e della morte atroce. I tormenti dell’uomo di Us hanno un senso solo se rapportati alla Croce di Cristo, che risulta dunque la chiave interpretativa di tutto il libro veterotestamentario». Segue poi la relazione di Umberto Regina: Il peccato originale nel pensiero di Kant, Kierkegaard e Bonhoeffer E su un tema simile quella di Franco Miano: Colpa morale e colpa metafisica. Il problema del male a partire da Jaspers. Interessanti anche la relazione di Michele Malatesta:Radici agostiniane e originalità della teodicea di A. Rosmini; e quella di Adone Brandalise su: Poesie e verità in Paul Celan. Viene presentato infine il: Carteggio Manzoni – Rosmini e degli scritti filosofici di Manzoni a cura di Luciano Malusa. Dalla esposizione che abbiamo cercato di fare nel modo più fedele possibile, si veda quanto interessante sia stato questo Simposio e come decisivi siano stati i temi e le loro articolazioni. Si attende ora la pubblicazione degli Atti che come quelli precedenti non mancheranno di suscitare vivo interesse. In conclusione: o si affronta il problema della teodicea, o si svaluta il problema della teodicea, ma per non far teodicea, bisogna ancora far teodicea, anche se attraverso vie nuove! Se etimologicamente Teodicea = giustizia di Dio, essa non può non essere in relazione con quella dell’uomo, che, a sua volta, resterebbe monca o orfana senza il rapporto con l’altra.


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IL PATRIMONIO ARCHIVISTICO: BENE CULTURALE PRIMARIO*

GAETANO ZITO**

1. NOTE PREVIE Da un ventennio circa si è ormai consolidata l’attenzione verso il patrimonio archivistico ecclesiastico. Sensibilità ed interesse per la documentazione in essi conservata sono espressi da soggetti diversi. Tra i fattori sono da annoverare: la ricerca storica, che ha sviluppato nuovi percorsi di indagine archivistica; l’esigenza di garantire un fondamento scientifico, sempre più valido e di ampio respiro, alla storia e alla cultura socio-religiosa locale per meglio delinearne l’identità; semplici cittadini, che avviano percorsi di ricerca sulle tradizioni e la storia del proprio territorio; il desiderio di custodire e mettere in luce la memoria ecclesiale ma anche la memoria della comunità civile; precise direttive dell’autorità ecclesiastica in materia di archivi; la nuova stagione di intese tra Stato e Chiesa in materia di beni culturali, ivi compresi gli archivi ecclesiastici; l’inserimento di insegnamenti specifici nei corsi di laurea in beni culturali istituiti in diverse Università italiane. Ma quanti sono gli archivi ecclesiastici in Italia? La prevalente attenzione posta sugli archivi storici diocesani e, in diversi casi, anche su quelli parrocchiali corre il rischio di non darne esattamente la fisionomia quantitativa, connessa con la variegata tipologia di istituzioni che nel corso dei secoli li hanno prodotti.

* Relazione tenuta al Symposium su I beni culturali ecclesiastici: memorie del passato, argomentazione del presente, prospettive del futuro. Museo Diocesano di Catania, 22-23 maggio 2003. ** Ordinario di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Assumiamo come fonte il comunicato stampa distribuito in occasione dell’Intesa per la conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche, firmata il 18 aprile 2000 dal Ministro per i beni culturali, Melandri, e dal Presidente della Conferenza episcopale italiana, card. Ruini1. Il censimento reso noto indicava per l’Italia: 227 diocesi, 25.102 parrocchie, 274 seminari diocesani, 16.920 comunità di Istituti religiosi, 27.357 tra scuole secondarie e superiori, ospedali e altre istituzioni dipendenti da enti ecclesiastici. In tutto si hanno circa 70.000 istituzioni ecclesiastiche presso le quali esistono altrettanti archivi. Ad essi vanno aggiunti gli archivi storici dei Capitoli delle Cattedrali (sono circa 300), delle Collegiate, delle Confraternite, delle conferenze episcopali, dei tribunali ecclesiastici diocesani e regionali e inoltre gli archivi di altri enti ecclesiastici scomparsi, come gli archivi delle diocesi e delle parrocchie soppresse ed accorpate nel 1986. In Italia esiste quindi una notevolissima quantità di archivi: si stima che circa 100.000 archivi possono essere classificati come ecclesiastici in base al concetto che al termine è dato dal diritto canonico. Vi è poi un ulteriore rilevante numero di archivi sorti negli ultimi decenni con movimenti, gruppi e associazioni ecclesiali disseminati sul territorio. Gli archivi ecclesiastici di interesse storico sono, quindi, presenti capillarmente su tutto il territorio nazionale, e quelli con l’attribuzione di particolare interesse storico superano le 30.000 unità. La copiosa documentazione in essi conservata è di fondamentale importanza per le rispettive istituzioni che l’hanno prodotta e per il territorio in cui hanno operato, avendo interagito con le vicende sociali, economiche e politiche che vi si sono susseguite. Un approccio agli archivi ecclesiastici chiede, anzitutto, di tenere in debito conto le istituzioni ecclesiastiche: ad ognuna di esse è strettamente connesso un archivio. La loro molteplicità ed eterogeneità ha determinato una altrettanto numerosa e variegata stratificazione di materiale documentario. Cosicché, quando ci si riferisce agli archivi ecclesiastici, quali contenitori di fonti privilegiati per le vicende della Chiesa, è indispensabile

1 Il testo in Per gli archivisti ecclesiastici d’Italia. Strumenti giuridici e culturali, a cura di G. Zito, Città del Vaticano 2002 (Associazione Archivistica Ecclesiastica. Quaderni di Archiva Ecclesiae, 8), 171-182.


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ricordare che essi non sono assimilabili. A livello istituzionale le vicende di una parrocchia o di una confraternita, di una diocesi o di un ordine religioso rispondo a parametri diversi. Pertanto, il riferimento agli archivi chiede almeno una sommaria e imprescindibile conoscenza delle istituzioni ecclesiastiche. Ogni archivio registra lo snodarsi della vita di ognuna di queste, nella relazione con persone e istituzioni ecclesiastiche e civili, sia del territorio in cui opera che con altre aventi sede propria altrove. Di conseguenza, soltanto una chiara conoscenza della storia delle istituzioni ecclesiastiche avvia un corretto percorso per la domanda da porre all’archivio e per la comprensione della documentazione in esso conservata. E non sia accessorio voler ricordare che la gran parte delle carte sono scritte nella cosiddetta “lingua ufficiale della Chiesa”, il latino, e vergate con la grafia propria del tempo. Dal punto di vista tipologico gli archivi ecclesiastici presentano una grande varietà di situazioni. Partendo dalla natura giuridica dei rispettivi enti si hanno: • archivi ecclesiastici propriamente detti, ossia gli archivi delle persone giuridiche pubbliche che agiscono in nome della Chiesa; per esempio le istituzioni: diocesi, parrocchie, capitoli canonicali, seminari, fondazioni e luoghi pii, associazioni pubbliche come l’Azione Cattolica, ecc.; • archivi ecclesiastici, di realtà ecclesiali che hanno ottenuto un certo riconoscimento ufficiale, quali la lode e la commendatio, come avviene, ad esempio per gli istituti religiosi maschili e femminili e gli istituti secolari; • gli archivi ecclesiastici senza riconoscimento di personalità giuridica pubblica nell’ordinamento canonico, come nel caso di parte dell’associazionismo cattolico e dei movimenti ecclesiali. La tipologia può anche presentare una divisione partendo dal punto di vista del territorio con riferimento all’istituzione centrale della diocesi. Si hanno così: • archivi di istituzioni legate ai compiti del vescovo nella struttura diocesana (curia vescovile con i suoi uffici, capitolo della cattedrale); • archivi di istituzioni soggetti alla giurisdizione e vigilanza del vescovo diocesano (confraternite, enti assistenziali ed educativi, associazioni varie, capitoli delle collegiate, pievi e parrocchie).


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• gli archivi delle istituzioni monastiche e degli istituti religiosi femminili e maschili, esenti o no della giurisdizione diocesana. É impossibile avere dati relativi a tutto il vasto e variegato contenuto degli archivi ecclesiastici. Un dato parziale ma di grande rilevanza è possibile desumerlo dalla pubblicazione della Guida degli archivi diocesani d’Italia che, realizzata a cura dell’Associazione Archivistica Ecclesiastica, ha comportato ben 14 anni di lavoro, e ha prodotto una scheda descrittiva di 327 archivi storici diocesani (delle attuali diocesi, di quelle soppresse nel 1818 e più recentemente dal 1986). La Guida è in coedizione con il Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio Centrale per i beni archivistici2. Per avere un’idea della consistenza della documentazione conservata in questi archivi storici diocesani, se si sommano i dati offerti dalle rispettive schede descrittive, si ha un totale di oltre 90.000 pergamene e oltre 530.000 pezzi tra buste e faldoni, mazzi, volumi, registri e fascicoli, che disposti in forma sequenziale occuperebbero una scaffalatura di circa 60 chilometri. Si tratta già solo per un tipo d’archivio ecclesiastico, quello diocesano appunto, di una enorme quantità di materiale che costituisce una ricchissima miniera di documentazione, ma che pone non poche questioni sulla tutela e conservazione. Altre indicazioni sulla consistenza degli archivi ecclesiastici verranno offerte dalle catalogazioni e inventariazioni in atto per alcune specie di archivi, assai rilevanti dal punto di vista della memoria socio-religiosa delle popolazioni italiane, come per il censimento degli archivi dei capitoli delle cattedrali d’Italia: sono già editi i primi due volumi della Guida degli archivi capitolari d’Italia, per complessivi 157 archivi, anch’essa in coedizione con il Ministero3. Nel 1998 la Conferenza Episcopale Italiana ha proposto a tutti i vescovi diocesani un Regolamento per gli archivi ecclesiastici italiani, dipendenti dalla loro giurisdizione e vigilanza. Oltre a sottolineare la duplice 2 Guida degli Archivi Diocesani d’Italia, a cura di V. Monachino – E. Boaga – L. Osbat – S. Palese, 3 voll., Città del Vaticano 1990-1998 (Archiva Ecclesiae, 32-33, 3637, 40-41). Per una presentazione d’insieme, si veda L. OSBAT, La «Guida» degli Archivi Diocesani, in Archivum Historiae Pontificiae 36 (1998) 203-220. 3 Guida degli Archivi capitolari d’Italia, a cura di S. Palese – E. Boaga – F. de Luca – L. Ingrosso, 2 voll., Città del Vaticano 2000-2003 (Associazione Archivistica Ecclesiastica. Quaderni di Archiva Ecclesiae, 6 e 9).


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valenza, culturale e religiosa degli archivi ecclesiastici, sono indicate chiaramente le norme da seguire per l’ordinamento, la gestione (con personale adatto e con mezzi e sussidi di ricerca adeguati) e la consultazione dei medesimi archivi4. Per quanto riguarda la consultazione, la C.E.I., cosciente del dovere che la Chiesa ha di custodire l’immenso patrimonio dei suoi archivi e di metterlo a disposizione degli studiosi, ha stabilito la consultabilità ordinaria dei documenti anteriore agli ultimi 70 anni. In applicazione dell’Intesa del 2000, in materia di archivi e biblioteche, una commissione mista ha provveduto a rivedere il Regolamento per adeguarlo alla vigente normativa civile. La fruizione degli archivi ecclesiastici, inoltre, è sottoposta alla normativa civile ed ecclesiastica in materia di buona fama e riservatezza di dati personali per scopi storici5.

2. IL VALORE ECCLESIALE DEGLI ARCHIVI ECCLESIASTICI In occasione del 5° convegno dell’Associazione Archivistica Ecclesiastica, nel settembre del 1963, papa Paolo VI ebbe a puntualizzare il significato peculiare degli archivi ecclesiastici e del lavoro degli archivisti: «i nostri brani di carta sono echi e vestigia di questo passaggio della Chiesa, anzi del passaggio del Signore Gesù nel mondo. Ed ecco che, allora, l’avere il culto di queste carte, dei documenti, degli archivi, vuol dire, di riflesso, avere il culto di Cristo, avere il senso della Chiesa, dare a noi stessi, dare a chi verrà la storia del passaggio del transitus Domini nel mondo»6. Il testo di questa allocuzione è rimasto un punto di riferimento irrinunciabile per chi si occupa degli archivi ecclesiastici. Ma, al contempo, indica un peculiare approccio per la lettura della documentazione prodotta 4 ASSOCIAZIONE ARCHIVISTICA ECCLESIASTICA, Regolamento degli archivi ecclesiastici italiani, proposto dalla Conferenza Episcopale Italiana ai Vescovi diocesani, Città del Vaticano 1998 (Associazione Archivistica Ecclesiastica. Quaderni di Archiva Ecclesiae, 3). 5 La raccolta della normativa ecclesiastica e civile e delle Intese, in Per gli archivisti ecclesiastici d’Italia, cit. 6 PAOLO VI, Discorso agli archivisti ecclesiastici, in Archiva Ecclesiae V-VI (19621963), Città del Vaticano 1964, 173-175.


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lungo i secoli da persone e istituzioni ecclesiastiche. Non che tale lettura debba prevalere sull’adozione della metodologia scientifica, del metodo storico-critico dell’analisi delle fonti. Quanto, piuttosto, nel senso che si tratta di un unico binario su cui far viaggiare la comprensione degli eventi e delle vicende di persone che hanno lasciato una traccia in questi duemila anni. La ricostruzione di tale traccia è memoria di uomini e donne, è memoria di un territorio, di quanto vi è accaduto “sopra” lungo un arco cronologico più o meno breve, al punto da determinare, comunque, passaggi ineluttabili della storia socio-religiosa, della storia del cristianesimo, della storia della Chiesa7. Gli archivi si configurano, quindi, come istituzioni culturali di primaria rilevanza, in quanto la documentazione in essi custodita è essenziale per la conoscenza delle variegate espressioni della storia religiosa e civile, delle sue vicende umane e delle realizzazioni che le hanno accompagnate: dall’architettura all’arte, dalle devozioni ai cammini di santità, dagli errori all’esemplarità di uomini e donne. Da alcuni anni, ormai, sebbene molto resta ancora da fare, è senz’altro cresciuta la sensibilità verso gli archivi ecclesiastici: sia per la loro tutela, quale strumento prioritario per la vita e l’attività dell’istituzione che lo ha prodotto; che per la loro fruizione ai fini della ricerca storica. In ambito ecclesiastico due fattori hanno giocato un ruolo primario. L’opera svolta da alcuni decenni dall’Associazione Archivistica Ecclesiastica8, con i suoi periodici convegni, confluiti tutti nei volumi di Archiva Ecclesiae9, oggi un corpus di dottrina e di esperienze, e con la pubblicazione, come ricordato, della Guida degli archivi diocesani d’Italia, e della Guida degli Archivi capitolari d’Italia. 7 A. TURCHINI, Gli archivi ecclesiastici per una nuova storia istituzionale, sociale e religiosa, in I beni culturali: un nuovo approccio alla Storia della Chiesa. Atti del II Forum dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa (Roma 5-6 settembre 2002), a cura di Ugo Dovere, in Notiziario dell’Ufficio Nazionale Beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana 10 (2003)57-86. 8 V. MONACHINO, La “Associazione Archivistica Ecclesiastica” e l’odierna situazione degli archivi ecclesiastici in Italia, Città del Vaticano 1993 (Associazione Archivistica Ecclesiastica. Quaderni di Archiva Ecclesiae, 1). 9 Indici dei volumi di “Archiva Ecclesiae” editi dal 1958 al 1992, a cura di E. Boaga, Città del Vaticano 1993 (Associazione Archivistica Ecclesiastica. Quaderni di Archiva Ecclesiae, 2).


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All’Associazione si deve pure l’iniziativa di aver avviato l’elaborazione del citato Regolamento, approvato dal Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana e proposto come schema tipo ai vescovi diocesani. Di recente, infine, ha sostenuto la pubblicazione del manuale di archivistica ecclesiastica, dall’emblematico titolo: Consegnare la memoria. Dall’impostazione radicalmente nuova, rispetto ai due o tre precedenti e prodotti nell’arco degli ultimi cinquant’anni, soprattutto per la visione storica che sostiene la formazione culturale dell’archivista10. È però ad un documento della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa che si deve la svolta radicale nella considerazione da attribuire agli archivi ecclesiastici. Da depositi di documentazione giuridicoamministrativa, funzionale alla vita dell’istituzione e alla ricerca storica, a luoghi di memoria del cammino della comunità cristiana nella storia dell’umanità, e con essa intimamente connessa. Il 2 febbraio 1997 ha inviato a tutti i vescovi della Chiesa cattolica una lettera circolare su La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici. Già dal suo titolo, il documento mira a far compiere, all’interno della Chiesa, un radicale mutamento di prospettiva nei confronti degli archivi. Le “polverose carte”, la loro tutela e ordinata conservazione, rivestono un’importanza ecclesiale di primario valore: sono “luogo” della Tradizione, memoria dell’evangelizzazione, strumento pastorale, patrimonio per la cultura storica e per la missione della Chiesa11. Sia permesso rileggere solo qualche passo della lettera dalla quale, tra l’altro, emerge il valore degli archivi quali “luogo” di evangelizzazione e di prospettive pastorali e catechetiche: «Gli archivi ecclesiastici, conservando la genuina e spontanea documentazione sorta in rapporto a persone e ad avvenimenti, coltivano la

10 E. BOAGA – S. PALESE – G. ZITO, Consegnare la memoria. Manuale di archivistica ecclesiastica, Firenze 2003. Su di esso, S. PAGANO, Chiesa, memoria storica, archivi, in L’Osservatore romano, 9 luglio 2003, 9. 11 PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA, Lettera circolare, La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, Città del Vaticano 1997. Ora in EAD. Enchiridion dei beni culturali della Chiesa. Documenti ufficiali della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Dehoniane, Bologna 2002, 312-338.


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memoria della vita della Chiesa e manifestano il senso della Tradizione. Infatti, con le informazioni in essi raccolte, permettono di ricostruire le vicissitudini dell’evangelizzazione e dell’educazione alla vita cristiana. Essi costituiscono la fonte primaria per redigere la storia delle multiformi espressioni della vita religiosa e della carità cristiana» (n. 1.1.). «Tali motivazioni teologiche fondano l’attenzione e la cura delle comunità cristiane nella custodia dei loro archivi. Le fonti storiche, conservate nelle antiche arche o nei moderni scaffali, hanno consentito e favoriscono infatti la ricostruzione degli eventi e pertanto permettono di trasmettere la storia dell’azione pastorale dei vescovi nelle loro diocesi, dei parroci nelle loro parrocchie, dei missionari nelle zone di prima evangelizzazione, dei religiosi nei loro istituti. Si pensi agli atti delle visite pastorali, alle relazioni per le visite ad limina, ai rapporti dei nunzi e dei delegati apostolici, ai documenti dei concili nazionali e dei sinodi diocesani, ai dispacci dei missionari, agli atti dei capitoli degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica, ecc. I registri parrocchiali, che attestano la celebrazione dei sacramenti e annotano i defunti, unitamente ai fascicoli curiali, che riportano le ordinazioni sacre, lasciano intravedere la storia della santificazione del popolo cristiano nelle sue dinamiche istituzionali e sociali. I carteggi relativi alle professioni religiose permettono di cogliere lo sviluppo dei movimenti spirituali nelle forme storiche in cui si è espressa la sequela Christi. Anche le carte riguardanti l’amministrazione dei beni ecclesiastici riflettono l’impegno delle persone e l’attività economica delle istituzioni costituendo un’importante fonte documentaria. Il materiale raccolto negli archivi mette in risalto nel suo complesso l’attività religiosa, culturale e assistenziale delle molteplici istituzioni ecclesiastiche, favorendo anche la comprensione storica delle espressioni artistiche che si sono originate lungo i secoli al fine di esprimere il culto, la pietà popolare, le opere di misericordia. Gli archivi ecclesiastici meritano dunque attenzione tanto sul versante storico quanto su quello spirituale e permettono di comprendere l’intrinseco legame di questi due aspetti nella vita della Chiesa. Infatti attraverso la variegata storia delle comunità, attestata nelle loro carte, sono manifeste le tracce dell’azione di Cristo, che feconda la sua Chiesa sacramento universale di salvezza e la sospinge sulle strade degli uomini. Negli archivi ecclesiastici, come


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amava dire Paolo VI, sono conservate le tracce del transitus Domini nella storia degli uomini» (n. 1.2.).

3. UNA ESEMPLIFICAZIONE: ARCHIVI DELLA CHIESA DI CATANIA Su tutto questo valga come esemplificazione il ruolo primario di memoria ecclesiale degli archivi ecclesiastici nella Chiesa di Catania. In ogni diocesi svolge un ruolo di contenitore ampio e articolato, di conseguenza di riferimento primario per la sua storia, l’Archivio storico diocesano. Quello di Catania, anzitutto, merita un’annotazione previa: esso è relativo al territorio della diocesi di Catania che, però, non coincide con i confini della circoscrizione provinciale, dove sono presenti anche le diocesi di Acireale e Caltagirone, e svolge un ruolo di memoria per un territorio ben più vasto, quello della diocesi sancito dalla rifondazione di essa nel 1092 ad opera di Ruggero il normanno e ratificata da Urbano II, che si estendeva fino a Enna e Piazza Armerina, oltre che a tutto il territorio delle Aci. Abbraccia un arco cronologico che va dal 1370 al gennaio del 1930, termine ultimo per la consultabilità delle carte legato alla morte dell’arcivescovo Emilio Ferrais (1928-1930) e precedente alla nomina del successore Carmelo Patané (1930-1952). Collocato in ambienti idonei all’interno del palazzo arcivescovile, si può liberamente consultare tutte le mattine della settimana, escluso il sabato, impegnandosi ad osservare l’apposito Regolamento per gli studiosi. Strumento primo per l’approccio ai fondi archivistici è l’apposito Inventario dei singoli fondi, edito nel 1999, con una introduzione sulla storia della diocesi e con un’appendice, che offre un’immediata conoscenza della recente (dal 1970) storiografia sulla diocesi catanese12. La denominazione dei fondi che maggiormente si impongono all’attenzione dei ricercatori è già di per sé eloquente sulla tipologia di documenti in essi conservata: • Miscellanea paesi, in due sezioni distinte, con carpette (il loro 12 Archivio Storico Diocesano di Catania. Inventario, a cura di G. Zito, Città del Vaticano – Catania 1999 (Associazione Archivistica Ecclesiastica. Quaderni di Archiva Ecclesiae, 5).


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numero è correlato alla consistenza del centro abitato) per i comuni che compongono l’attuale territorio della diocesi e per quelli che ne fecero parte fino alla prima metà dell’Ottocento, quando la giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Catania si estendeva da Acireale fino ad una larga parte del territorio dell’attuale provincia di Enna. In questo caso, valga come esemplificazione, i comuni di Bronte e Maletto entrano a far parte della diocesi di Catania solo dal 1844 e, di conseguenza, sarebbe del tutto inutile pensare di poter trovare nell’Archivio catanese documentazione anteriore a quella data. • I registri degli atti dei vescovi, noti come Tutt’Atti: disposti in ordine cronologico, assolvono al compito di registri di cancelleria. • Gli atti delle Visite pastorali, anch’essi in ordine cronologico, offrono in molti casi uno spaccato unico di storia sociale, oltre che religiosa, perché al vescovo competeva rendersi conto delle condizioni complessive di ogni paese del territorio soggetto alla sua giurisdizione ecclesiastica. E ciò per quella particolare situazione consegnataci dalla storiografia come societas christiana. Una verifica che oggi, nei Riveli da consegnare in occasione della visita, ci permette di accedere ad una fonte preziosa per conoscere per esempio il patrimonio storico-artistico oltre che liturgico presente nelle chiese della diocesi. • I Registri canonici, istituiti dal Concilio di Trento, per le chiese sacramentali della città di Catania vi sono conservati per la peculiare condizione della diocesi di Catania che, fino ai primi decenni del Novecento, ha avuto nel vescovo l’unico parroco e nella cattedrale l’unica chiesa parrocchiale. Si tratta dei registri di Battesimo e Matrimonio, con qualcuno per le Cresime, relativi alle quindici chiese sacramentali di Catania. Registri che, nati per ragioni interne alla vita della comunità cristiana, oggi assolvono anche al compito di registri di anagrafe, preziosi per la demografia storica, poiché solo nei primi decenni dell’Ottocento venne istituita l’anagrafe civile. • Gran parte della vita del clero, dalla formazione impartita nel seminario dei chierici, alla costituzione del cosiddetto “patrimonio sacro” (la rendita annua stabile costituita per ogni ecclesiastico


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prima di accedere agli ordini maggiori), ad alcune forme specifiche della sua attività e del suo ruolo nell’ambito di tutta la diocesi, è possibile desumerla dalle numerose carpette del Fondo clero. • É risaputo che le comunità religiose maschili sono esenti dalla giurisdizione ecclesiastica diretta del vescovo che, al contrario, esercitava il suo potere su quelle monastiche femminili. Di conseguenza, la principale documentazione archivistica sulle singole comunità presenti e operanti in diocesi si può trovare essenzialmente negli archivi delle singole comunità, quelli eventualmente salvati dalla soppressione post-unitaria degli ordini religiosi decisa nel 1866 (ma si tratta di casi rarissimi), ma in special modo presso gli archivi provinciali o generali dei singoli ordini religiosi. Non che manchi documentazione relativa a conventi e monasteri nell’Archivio storico diocesano, si tratta però di carte che solo di riflesso permettono di cogliere alcuni aspetti e momenti della loro vita, in quanto primariamente sono riferite ai rapporti istituzionali con il vescovo13. Ben più ampia, in alcuni casi, è invece la documentazione su religiosi e religiose pervenuta, dopo alterne vicende seguite alla loro soppressione, nell’apposito Fondo corporazioni religiose soppresse dell’Archivio di Stato. • Una menzione merita pure il Fondo mensa vescovile. Le carte, cioè, comprovanti il possesso e la gestione del patrimonio diocesano destinato alle necessità del vescovo e ad esigenze cultuali e caritative, che si estendeva su tutto il versante sud dell’Etna e fino a Mascali, di cui il vescovo era Conte. Incuriosisce, in special modo, la documentazione relativa alla vendita della neve dell’Etna, che ha fatto attribuire al vescovo di Catania il popolare appellativo di “principe delle nevi”. • Il fondo che maggiormente stupisce per la sua presenza nell’Archivio storico diocesano è, senza alcun dubbio, il Fondo Università. Data ufficiale di fondazione è considerata il 1434, anno 13 G. ZITO, Rapporti vescovi-regolari in epoca moderna e contemporanea dall’Archivio Storico Diocesano di Catania, in I religiosi e la loro documentazione archivistica. Atti del XIX Convegno degli Archivisti Ecclesiastici (Roma, 15-18 ottobre 1996), a cura di V. Monachino, Città del Vaticano 1999 (Archiva Ecclesiae, 42), 81-105.


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in cui il re Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo, concesse il suo placet all’istanza della città di Catania che chiese di poter istituire un’Università. Di fatto, però, questa iniziò la sua effettiva attività solo dopo che papa Eugenio IV, nel 1444, solennemente concesse la fondazione di uno Studium che fosse modellato su quello di Bologna e avesse il vescovo come suprema autorità, con le mansioni di gran cancelliere. Così, da allora, tanto diversi statuti che l’assegnazione dei punti di discussione per sostenere l’esame finale, i gradi accademici, la certificazione della frequenza ai corsi, la soluzione di diatribe e altro ancora, si può agevolmente trovare sia in questo fondo archivistico che nei registri di Tutt’Atti e nella documentazione di qualche altro fondo dello stesso Archivio14. Da questa prima molto sommaria descrizione di alcuni fondi archivistici dell’Archivio storico diocesano si evince subito la loro valenza per la vita religiosa e, parallelamente, per la vita sociale, economica e culturale dei comuni della diocesi oltre che per una significativa fascia del territorio siciliano e, di riflesso, per l’intera isola. In modo del tutto speciale, nondimeno, le carte di questo Archivio assumono un valore di riferimento per la storia della città di Catania. Permettono di riannodare informazioni su membri di famiglie nobiliari, spesso operanti in contemporanea all’interno di istituzioni ecclesiastiche e magistrature cittadine; come sull’assetto urbanistico, in specie dopo il terremoto del 1693; su momenti della vita culturale, sociale e religiosa della città. E ciò, a maggior ragione a seguito della sostanziale distruzione dell’Archivio storico comunale, causata dall’incendio del palazzo municipale, durante una sommossa popolare nel dicembre del 1944. Oltre all’Archivio storico diocesano vi sono diversi altri archivi ecclesiastici, espressione degli enti e delle istituzioni che man mano sono stati istituiti nell’ambito della diocesi: dalle chiese sacramentali prima, poi parrocchiali, alle confraternite, alle opere pie ed enti assistenziali ed educativi, all’associazionismo cattolico.

14 G. ZITO, Per la storia dell’Università di Catania l’Archivio Arcivescovile e il Padre Luigi Della Marra, in Insegnamenti e professioni. L’Università di Catania e le città di Sicilia, a cura di G. Zito, II, Catania 1990, 9-54.


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Tra essi alcuni è d’obbligo ricordarli. Anzitutto, la pregevole qualità del materiale documentario conservata nell’Archivio del Capitolo della Cattedrale. Anch’esso consultabile, con orari equivalenti a quelli dell’Archivio storico diocesano, a seguito della sua consegna in gestione ordinaria a quest’ultimo15. Il Capitolo della Cattedrale per secoli ha svolto il ruolo di “senato” della diocesi e, di conseguenza, nel suo archivio si sono progressivamente stratificati documenti di elevata importanza per la storia della diocesi e della società catanese. Anche per tale ragione, il materiale archivistico copre un arco cronologico molto più ampio dell’Archivio storico diocesano. Ad esso, infatti, appartiene il fondo “diplomatico”: cioè, il materiale pergamenaceo, prevalentemente in lingua latina ma anche in greco e in greco ed arabo, che inizia dalla fine del sec. XI, la documentazione di proprietà ecclesiastica più antica al presente disponibile, e giunge al sec. XX. Tra queste pergamene un particolare significato rivestono le platee di età normanna, datate 1145. Redatte non in latino, lingua di riferimento dei normanni, bensì in greco ed arabo, per lungo tempo lingue ufficiali della loro cancelleria, segno eloquente della convivenza di gruppi, religioni e culture diverse tra XI e XII secolo, riportano i nominativi dei nuclei familiari passati sotto il potere del vescovo, quale “signore feudale” del territorio. Se si pensa, inoltre, che al Capitolo della Cattedrale competeva la manutenzione ordinaria e straordinaria della chiesa cattedrale, e che ogni canonico godeva di un beneficio, costituito su vasti beni immobili, in grado di garantirgli una cospicua rendita, questo archivio si impone subito all’attenzione per l’indagine storiografica che permette. In particolare vorrei ricordare il diritto di dogana e l’imposizione del dazio anche sul pescato, di cui è memoria una lapide incastonata nel balcone dell’arcivescovado: la decima parte del pesce pescato spettava alla Chiesa di Catania. Di non minore importanza, e per similarità di contenuti, va inserita qui la segnalazione dell’Archivio del Capitolo della Collegiata, così è nota la chiesa catanese dedicata a S. Maria dell’Elemosina, istituita da papa Eugenio IV nel 1446 con cospicui privilegi e benefici ai suoi canonici16. 15 G. MESSINA (†), L’archivio del Capitolo Cattedrale di Catania e le ultime vicende dell’abbazia Sant’Agata, in Synaxis 6 (1988) 243-269. 16 G. SPAMPINATO, L’archivio storico della Collegiata Santa Maria dell’Elemosina di Catania. Inventario, in Synaxis 13 (1995) 365-437.


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Tra gli archivi di enti ecclesiastici, che conservano documenti di particolare importanza per la storia della diocesi, è certo da tenere in conto l’Archivio storico del seminario vescovile17. Il materiale documentario, piuttosto cospicuo, supera i limiti cronologici legati alla fondazione del seminario (1572). A seguito del terremoto del 1693, infatti, il vescovo Andrea Riggio assegnò al seminario i beni di alcuni monasteri benedettini femminili (S. Lucia, S. Caterina e S. Maria di Porto Salvo) rasi al suolo dal sisma e, con essi, ne dispose pure la consegna degli atti rimasti comprovanti le proprietà. Cosicché, sebbene non propriamente relativi alla vita dell’ente, i documenti più antichi conservati in questo Archivio iniziano dal sec. XIII. Si tratta di alcune pergamene, in particolare di un privilegio concesso da re Manfredi nel 1262 e di una concessione del vescovo catanese Angelo Boccamazza nel 1273. É ovvio, comunque, che la parte preponderante dell’Archivio del Seminario sia relativa alla sua vita interna. Lo studio di queste carte potrebbe riconsegnarci elementi di rilievo per la storia della formazione del clero e della cultura catanese. Tra l’altro, nel secondo Settecento, addirittura, il Seminario aveva una propria tipografia che stampava il Nuovo Testamento e testi classici in latino e greco. E tutta una sezione giuridico-amministrativa dell’Archivio, giustificativa dei possedimenti e di altri fonti di reddito per il suo mantenimento, è una fonte preziosa per la storia socioeconomica del territorio catanese. Per non dire della documentazione relativa alla costruzione del seminario sulle mura di Carlo V, alla costruzione dell’attiguo palazzo dei Chierici; delle carte e delle planimetrie relative alla costruzione del nuovo immobile, a nord della città. E a proposito degli immobili va notato come è stato possibile realizzare grandi operazioni di restauro — si pensi alla cattedrale di Mantova e di Verona —, fedeli alla primitiva realizzazione, proprio grazie allo scavo archivistico che ne ha riconsegnato planimetrie o indicazioni utili a definire la fisionomia originaria del manufatto, la sua architettura e la presenza di affreschi, la tipologia dei materiali adoperati, le tecniche di costruzione, le manovalanze e gli artisti che li hanno prodotti, come i committenti e i costi relativi. 17 G. ZITO – C. SCALIA, Fonti per la storia della diocesi di Catania l’Archivio Storico del Seminario, in Synaxis 1 (1983) 294-313.


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Questi archivi ecclesiastici locali hanno, poi, almeno due riferimenti “esterni”, indispensabili per integrare le informazioni da essi consegnatici. L’Archivio di Stato. Alcuni fondi, soprattutto, permettono di collazionare copiose informazioni per la storia socio-religiosa: dai versamenti del Fondo Notarile, al Fondo Intendenza Borbonica, con gli atti dell’antico regime, al Fondo Prefettura, per il periodo post-unitario; e, in special modo, al Fondo corporazioni religiose soppresse, con gran parte degli archivi di alcune comunità religiose locali, tra le quali risalta, per qualità e quantità di documentazione, la comunità dei benedettini di S. Nicola l’Arena. L’altro riferimento imprescindibile è l’Archivio Segreto Vaticano. Per i rapporti istituzionali del vescovo e della diocesi con il Sommo Pontefice e gli organismi della Curia romana. Nei suoi molteplici fondi è ovvio che si conservi una copiosa documentazione, fondamentale per la storia istituzionale delle Chiesa locale, per quella socio-religiosa e politica, per il suo sviluppo civile, culturale, economico ed etnico18.

4. LA PROSPETTIVA DELLA PRIORITÀ DI RUOLO TRA I BENI CULTURALI Dall’insieme di quanto fin qui detto, è evidente la mutazione accaduta nella prospettiva e nella considerazione degli archivi ecclesiastici, in questi ultimi due decenni specialmente. Oltre a svolgere un ruolo fondamentale per la memoria della Chiesa e il suo impegno di evangelizzazione; per le varie angolature della ricerca storica, da quella religiosa alla sociale, economica, politica, demografica, istituzionale, è grazie ad essi che può comprendersi pure il contesto storico, le ragioni e l’iter di realizzazione delle opere architettoniche, storico-artistiche e bibliotecarie che vanno sotto il nome di beni culturali ecclesiastici. Sia permessa qualche esemplificazione. Come impostare il lavoro di restauro di bene architettonico, ad esempio una chiesa, senza riferirsi alla documentazione custodita negli archivi? In tal senso, ad esempio, anche la 18 Strumento fondamentale è ormai il saggio di C. BURNS, L’Archivio Segreto Vaticano per la storia delle chiese locali della Sicilia, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XVII-XIX. Atti del III convegno internazionale organizzato dall’arcidiocesi di Catania 24-26 novembre 1994, a cura di G. Zito, Torino 1995, 339-385.


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Carta del restauro, a cui sono tenuti ingegneri ed architetti, obbliga alla ricerca storica sui documenti archivistici degli immobili da restaurare. Come datare e attribuire un’opera d’arte, ad esempio un quadro di una chiesa, facendo a meno delle carte che ne documentano il committente, le ragioni della committenza, la realizzazione, il costo? Come determinare lo sviluppo del patrimonio librario di una biblioteca di comunità religiosa, non consultando l’archivio dell’ente proprietario, in modo da conoscerne la realizzazione della biblioteca stessa (si pensi alla Sala Vaccarini della Biblioteca dei benedettini di S. Nicola l’Arena a Catania, ora Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero) e le progressive acquisizioni lungo gli anni della sua storia? Elementi tutti che, è evidente, sono determinanti per ricostruire tasselli preziosi del vissuto di coloro che ci hanno preceduto e le ragioni che hanno determinato l’evangelizzazione e la cultura di un territorio, intesa anche come stile di vita, risposta alla proposta cristiana, e modalità di approccio alla realtà. Un riferimento utile e di inequivocabile comprensione di ciò, nel nostro territorio, può chiaramente cogliersi negli eventi della ricostruzione seguita al terremoto del 1693. La documentazione archivistica offre la corretta chiave di lettura per le opere architettoniche e per l’urbanistica; per le opere artistiche e l’arredo sacro; per il patrimonio librario e il sentimento religioso che ne ha sostenuto la loro produzione. Si tratta, in sostanza, di assumere una corretta visione unitaria di tutti i beni culturali, che è precisa visione di un tempo e di un luogo, e liberarsi da una prospettiva parziale, che induce a considerare il singolo bene come prodotto autonomo da studiare o ammirare, sottraendolo così allo stesso contesto che lo ha prodotto. Solo la ricerca e il corretto uso della documentazione archivistica, di conseguenza, potrà guidare uno storico dell’arte nella comprensione dell’ideazione, progettazione e realizzazione; nella corretta attribuzione e collocazione di un’opera, in modo da determinare un’idonea conservazione e una fruizione che ne permetta di coglierne l’ampio spettro di significati in essa contenuto. Si ha così un continuo intreccio di conoscenze che riconsegnano storia istituzionale, culturale, sociale, religiosa, entro cui la produzione del singolo bene, del patrimonio culturale di una comunità cristiana è avvenuta nel passato, e nel presente trova, o dovrebbe trovare, la sua naturale contestualizzazione.


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Sia permessa un’esemplificazione. L’Archivio storico del Seminario arcivescovile permette di acquisire non poche informazioni su una delle più significative espressioni del patrimonio culturale della diocesi di Catania, quale è appunto la Biblioteca Agatina. Sebbene il Seminario avesse una raccolta libraria, atto solenne della sua fondazione va indubbiamente considerato il lascito dei libri del can. Giambattista De Grossis ad opera del di lui nipote, il can. Santoro Oliva (1688). Il catalogo dei libri allegato alla donazione, conservato in Archivio19, ovviamente è fonte di innumerevoli e fondamentali notizie. Una su tutte. L’unico esemplare noto di cosiddetto Missale Gallicanum, stampato a Venezia nel 1499 per conto della Chiesa di Messina, ed esposto al Museo Diocesano, sappiamo ora che proviene dalla biblioteca del De Grossis: al f. 25v del manoscritto è segnato un «Missale antiquum. Alterum Gallicum»20. Ovvio che il patrimonio librario si sia stratificato, ed in parte anche depauperato, nel corso dei secoli successivi. Il Catalogo della Libreria del Seminario dei Chierici, redatto nel 1851, e conservato nell’Archivio storico21, ci permette di acquisire, a quella data, alcune preziose notizie: «1. I Volumi di edizione elegante ed antica ascendono al numero di 50 circa. 2. Il numero totale dei Volumi della libreria ascende al numero di 2769. 3. I Volumi che mancano, sì anteriori che posteriori cioè al latrocinio del 1848, ascendono al numero di 80 circa». E 19 erano gli autori le cui opere, anche in più volumi, appartenevano alla sezione dei «Libri proibiti». Consistenza e tipologia del patrimonio, quindi, ma anche elementi per la sua storia che chiedono ulteriori approfondimenti: cosa è stato il «latrocinio del 1848»? Si riferisce ad indebite intromissioni di qualche ecclesiastico; oppure, a spiacevoli conseguenze dei moti rivoluzionari di quell’anno; oppure, è espressione di amara riprovazione per quell’evento politico da parte dell’estensore del testo? Solo ulteriori ricerche archivistiche potranno rispondere alle questioni che il testo lascia aperte. Ben più interessante è la vicenda del cosiddetto Horae diurnae, o Libro d’ore, della Biblioteca ed oggi anch’esso al Museo Diocesano. Testo manoscritto di pregevole fattura: 318 carte pergamenacee, di dimensioni 19

CATANIA. ARCHIVIO STORICO SEMINARIO ARCIVESCOVILE, Sezione delle origini. Ne è in corso la ristampa anastatico nella collana Monumenta Liturgica Concilii Tridentini, diretta da Manlio Sodi. 21 CATANIA. ARCHIVIO STORICO SEMINARIO ARCIVESCOVILE, Sezione Miscellanea. 20


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minime, mm. 80x60, con legatura moderna in pelle, in lingua latina, grafia gotica e finemente miniato soprattutto in alcuni capilettera. La scrittura minuta chiede al lettore un’ottima vista. Il contenuto, come quelli simili, molto diffusi tra i secc. XIII e XVI, è strutturato come libro per la preghiera in corrispondenza delle ore canoniche, secondo il modello dell’ufficio divino recitato dai chierici, con un calendario iniziale, salmi e brani di testi biblici e di vita dei santi, meglio noto come Breviario. Il nostro Horae diurnae sembra destinato a chi era adusato alla preghiera delle ore canoniche e ne doveva ben conoscere il testo integro a cui rimanda, visto che, per esempio, dei santi cita brevi passaggi dei racconti della vita e dei Salmi riporta in genere soltanto l’incipit, a cui doveva far seguito la recita completa a memoria. Dall’insieme si è sempre ritenuto che era possibile datarlo tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo. Ma oggi sono convinto che tale datazione non è sostenibile. Un certo numero di ricorrenze liturgiche, alcune delle quali scritte in rosso, ad indicarne l’importanza o la prevalenza su altre, come pure l’inserimento della celebrazione dell’ottava di alcune feste, sono dati sufficienti per almeno due esiti: l’ambito di produzione e la datazione. La provenienza è chiaramente francescana, considerato che è peculiare di questo Ordine religioso celebrare il 25 maggio la Translatio Beati Patris nostri Francisci, l’ottava di s. Antonio al 21 giugno, la festa della Porziuncola al 2 agosto, l’ottava di s. Chiara al 20 agosto e di s. Ludovico al 27 successivo con la Translatio all’8 novembre, le Sacre Stimmate al 17 settembre, l’ottava di s. Francesco al 12 ottobre. Per quanto riguarda la datazione, come elemento discriminante può essere assunta la celebrazione della festa e dell’ottava di s. Bernardino da Siena, segnate rispettivamente al 20 e al 27 maggio. Bernardino, nato nel 1380 e morto nel 1444, è stato canonizzato da Niccolò V nella Pentecoste del 1450. Di conseguenza, inevitabilmente l’Horae diurnae della Biblioteca Agatina non può essere datato prima di tale anno. E potrebbe pure ritenersi, per le ricorrenze liturgiche di san Bernardino e di altri santi della stessa famiglia francescana, che appartenga più all’area dei francescani osservanti, o frati minori, che a quella dei conventuali. Per quale via esso è pervenuto alla biblioteca del seminario? Non è registrato nel codice dei libri donati dal Santoro Oliva e di conseguenza l’acquisizione si può datare verosimilmente dopo il 1688. Un indizio utile


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potrebbe essere la presenza a Catania di un altro Horae diurnae, posseduto dalla Biblioteca Civica. Il fondo librario più consistente e pregevole di essa è costituito dalla biblioteca dei monaci benedettini di san Nicolò l’Arena. A loro apparteneva tale Horae diurnae. Alla carta 3 di esso, nella seconda parte del calendario di febbraio, si legge infatti: «Monasteri sancti Nicolai Catanae ad usum P. D. Placidi Maria Scammacca». Placido Scammacca è monaco professo di san Nicolò l’Arena: intorno alla metà del Settecento acquista a Roma numerosi codici per il monastero e nel 1754 dall’abate gli è affidata la cura della biblioteca e del museo. Non è difficile supporre che anche il nostro libro d’ore possa provenire dalla biblioteca monastica, se si tiene conto che non pochi libri appartenuti al monastero e a Giuseppe Benedetto Dusmet, abate di san Nicolò l’Arena (1858-1866) e arcivescovo di Catania (1867-1894), sono pervenuti alla biblioteca del seminario. Ma solo una meticolosa e paziente ricerca archivistica potrà rispondere alle tante domande che ruotano attorno a questa pregevole espressione del patrimonio culturale della diocesi di Catania. Prime tra tutte, pervenire con sicurezza all’iter che lo ha portato dal luogo di sua produzione fino a Catania, e poi in possesso della Biblioteca. Va da sé che idonea conservazione degli archivi, oculata tutela e liberalità di consultazione sono fonte di non lievi problemi. E ciò, non solo per gli archivi storici già formati, per una trasmissione integra di quanto ci è giunto. Con urgenza si impone piuttosto la necessità di far lievitare una maggiore sensibilità e vigilanza per gli archivi in via di formazione nel presente, in modo da garantire per il futuro anche la consegna di quanto oggi ci vede protagonisti. In tal senso, problemi non lievi riguardano sia il materiale cartaceo ma, soprattutto, quello grafico, audiovisivo e informatico. In special modo, va tenuto debitamente presente che l’informatica non è la panacea di tutti i problemi documentari e che l’archivio non va piegato alle regole dell’informatica, quanto piuttosto essa può essere a servizio della memoria. Si pensi a tutti i rischi di perdita irrimediabile di dati, dovuta ai supporti informatici, e alla vertiginosa mutazione di hardware e software che impone il periodico travaso dei dati per non rischiare di renderli illeggibili. Valga da monito quanto accaduto con la documentazione fonica registrata su nastri magnetici a bobina o audiovisiva su supporti ormai desueti: per la prima i classici registratori “Geloso”, per la seconda i proiettori di filmati 8mm e super 8.


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Spesso può accadere che si abbia più cura di conservare le carte amministrative, per ovvie ragioni legate alle norme canoniche e alla legislazione fiscale dello Stato, che le carte connesse con l’attività istituzionale e pastorale, soprattutto integre … anche quando al responsabile pro tempore potrebbe risultare poco vantaggioso conservarle! Ogni archivio ecclesiastico, piccolo o grande poco importa, di fatto assurge a garanzia della memoria della comunità cristiana che, al contempo, è memoria pure del popolo di un territorio. Grazie al patrimonio documentario in esso contenuto, si può avviare un percorso formativo alla conoscenza del passato, per un’intelligente (=intus-legere) comprensione del presente e una progettazione del futuro da responsabili e protagonisti. Anche nella progettazione pastorale22. Una non ingenua e critica consapevolezza del passato, senza alcun dubbio, favorisce un’altrettanta non ingenua e critica presenza nell’oggi. Fare memoria è condizione prioritaria e ineludibile della Chiesa! Cosicché, il rapporto con un archivio ecclesiastico assume il valore di passaggio nodale nel cammino della Chiesa locale. Le “polverose carte” parlano un loro linguaggio che, solo se distratti, non si è in grado di ascoltare: dicono che non ci si può pensare nati oggi, che non siamo orfani; bensì, che siamo depositari di un patrimonio, che si esprime in variegate modulazioni dei cosiddetti beni culturali, patrimonio consegnatoci e che a nostra volta abbiamo il compito di trasmettere ad altri: integro per il passato, con esso armonici, e da arricchire con l’esserci nel presente al meglio delle nostre potenzialità.

22 G. ZITO, Archivi e pastorale nella diocesi di Catania, in Gli archivi ecclesiastici nella nuova pastorale dei beni culturali. Atti del XX Convegno degli Archivisti Ecclesiastici (Catania 21-24 settembre 1999), a cura di E. Boaga, Città del Vaticano 2002 (Archiva Ecclesiae, 43-44), 135-144.


Presentazione Synaxis XXIV/1 (2006) 233-236

CRISTINA DI LAGOPESOLE, Flos Sanctorum. Peregrinatio per annum, Pietro Lacàita Editore, Mandria-Roma-Bari 2005, pp. 1000. La santità è vocazione universale del genere umano e del credente cristiano in particolare, il quale avverte la necessità della pastorale e ne considera i termini e le modalità come cammino verso la Luce. In un secolo come il nostro in cui l’umanità sembra vagare smarrita in una profonda voragine, privata dei valori essenziali in cui credere, frastornata e travolta dalla superficialità e dal pressappochismo, corrotta e deviata dall’edonismo, dal sesso sfrenato, dalla droga, il ritorno al Verbo ed al divino come misura dell’ umano, diventa unica via di salvezza da perseguire. In questa focalità va inserita e vista l’opera di Cristina di Lagopesole, poetessa eremita, non nuova alla poesia sacra. Tra le sue 25 pubblicazioni basti ricordare “Movimenti dell’animo” il Libro D’Ore, “Il Libro del pellegrino”, “Ad Crucem”. La sua recente fatica “Flos Sanctorum” Peregrinatio per annum (Pietro Lacàita Editore, Mandria-Roma-Bari 2005), che simbolicamente e realmente corona la precedente produzione, è un Martirologio ecumenico ritmico, costruito giorno dopo giorno per tutto l’arco dell’anno liturgico 2003, per infusione dello Spirito Santo. In tale opera monumentale, unica nella Chiesa d’Occidente, tra l’altro scritta da una donna, Santità e Poesia vanno di pari passo, sono nutrimento dello spirito attraverso composizioni di raffinata natura letteraria di cui si è servito il pensiero ricco della creatività squisitamente femminile di Cristina di Lagopesole, per raccontare la vita dei Santi, le loro qualità che sono esempio di Grazia e di Virtù, il loro messaggio che è invitò alla purezza, consegna di vita, testimonianza dell’essenza. Sono Inni Sacri, Canti di gioia, Cantici, Laudi, Dossologie, Kontakia, Akathistoi, Epiclesi, Salmi, Preghiere offertoriali, Antifone, Vite in versi, Anafore, Panegirici, i cui versi liberi che seguono ritmi interni, sono divisi


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in distici, terzine, quartine , secondo il flusso dell’ispirazione, fino a stanze di 10 versi. Sono espressioni liriche di alta poesia che affonda le sue radici nella storia dei Padri della Chiesa e si eleva in verticale, sublimandosi nell’essenza dell’essere che si pervade di santità ed è portatore di vita, detentore di luce, di letizia, di Grazia divina. I Santi celebrati da Cristina nel suo Martirologio, con il loro esempio di vita inseriscono il Mistero dell’Eucaristia nella vita e nel cammino della Chiesa e sono espressione dell’aiuto di Dio all’umanità che oggi più di ieri ha quanto mai bisogno di aiuto e di equilibrio per ritrovare la propria dimensione spirituale. A chi, infatti, l’uomo chiede aiuto ed intercessione verso il Padre nel quotidiano cammino irto di pericoli, se non ai Santi, unico tramite nella vita della Chiesa,attraverso la preghiera, verso l’Ineffabile, verso il Mistero del volto di Dio. All’uomo non è dato accedere al Mistero, ne rimarrebbe abbagliato. La santità è schermo che fortifica, è cammino certo, è itinerario che sa cogliere la certezza dell’amore di Dio, è forza dello spirito che misticamente riesce ad elevarsi verso l’Altissimo Santo, Il Sempre Santo, l’Infinitamente Santo e coglierne l’incommensurabile bellezza e la vivida luce. Attraverso l’esempio di santità di vita che si delinea nei 15.000 versi delle 528 Composizioni sacre del “Flos Sanctorum”, e si secolarizza come quotidiana liturgia che si qualifica nel messaggio della realtà di vita dei più di 1000 santi presi in esame, si radicalizza la pastorale cristiana del Vangelo e si struttura con stimolo di riflessione e guida la revisione della propria dimensione di vita, per ciascun lettore credente nella parola di Dio. L’opera che è esaltazione della santità secondo la pastorale di Papa Giovanni Paolo II, nell’anno dell’Eucaristia; è dedicata allo stesso Papa che il mondo cattolico ha considerato e richiesto dopo la sua morte “subito Santo”. Essa contiene verità conosciute e sconosciute, scritte da Cristina in comunione con i Santi, ai piedi della Croce nel Santuario del Divin Crocifisso a Lagopesole, tutti i giorni dell’anno 2003, nell”ora delle spalle” che va dalle 4 alle 7 del mattino, in cui lo Sprito Santo si rivela a Cristina con la sua sapienza ed il suo sovrano amore, e si dimostra Santo compagno di viaggio e donatore di Luce. L’esperienza mistica dell’autrice di quest’opera, unica nel suo genere, poiché Arte e Sacro perseguono da sempre la stessa via di ricerca del Bello


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e della Salvezza, è stata colta nel suo divenire e nel fascino del suo mistero da Gustavo Costanzo iconografo, già monaco melchita nella Laura Netofa presso il Lago di Tiberiade, in Terrasanta, il quale ne ha curato il ciclo iconografico emblematico divino. Sono le riproduzioni a colori di 12 icone di splendida fattura “dono sovracceleste, grazia santificante” che corredano la pubblicazione. Ne illustrano come “luogo teofanico di amore e di verità” “La Visio”, “L’Edificatio”, “La Demonstratio”, “L’Inthronizazio”, “La Consacratio”, “L’Evangelatio”, “L’Inspiratio”, “La Figuratio”, “La Commendatio”, “La Gradatio”. “La Traditio”, “La Revelatio”. L’iter mistico di Grazia, di Santità e Rivelazione secondo il quale l’opera è stata concepita ed ha visto la luce sotto l’influsso dello Spirito Santo, ad opera della fervida creatività di Cristina nell’Eremo di Lagopesole L’Opera che nella sua realizzazione è attentamente curata, sia nella veste tipografica che nell’impaginazione della sua struttura, riserva al lettore una facilità di consultazione che invita a sfogliarne e fare proprie le ben 1000 pagine, di cui 891 dedicate alla vita dei Santi. Come l’autrice indica nel Prologo, l’itinerario spirituale dell’opera, per volontà di Dio Uno e Trino, Signore dell’Universo, attraverso una Scala Santa conduce nel Giardino del Paradiso dove ogni Fiore, nella sua santità, emette profumo celestiale e suscita un Canto. Nell’umiltà di un bianco lino, nella purezza del cuore e delle labbra, Cristina di Lagopesole canta la santità, a partire da Maria Santissima, Madre di Dio, per allargarsi, giorno dopo giorno ai Santi Martiri e Beati, antichi , moderni e contemporanei che arricchiscono di sublime bellezza il Giardino di Dio. E ciò che stupisce a lettura ultimata, è soprattutto il linguaggio poetico di elevato e ricco cesello, l’uso ricorrente della lingua latina, l’autorevolezza della semantica, l’attenta numerologia, le 2000 note storiche, la metrica virtuosa, le ricche figure poetiche dove le metafore e le similitudini rimandano alla profondità di studi, alla saggezza degli antichi Padri, alla Sacra Bibbia, ma anzitutto alla gioia del cuore ed alla soavità dei sentimenti. Poesia celestiale, potrebbe definirsi, poiché eleva lo spirito ed invita alla meditazione servendosi della Bellezza. Sacralità e Bellezza sono i due poli su cui oscilla la poesia di Cristina, capace di sublimare le immagini del reale calibrando la scelta della parola che si fa puro pensiero, respiro dell’anima. Chi legge, chiunque egli sia, purchè puro di spirito, può accompa-


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gnarsi a Cristina nella Scala che conduce al Giardino del Paradiso ed essere da lei guidato a godere della Bellezza dei suoi Flores che profumano di Santità. Mentre ciascuno può trarre dalla lettura di questi versi, balsamo alla sofferenza, risposta al dubbio, coraggio alla paura, sostegno allo sconforto. E’ necessario porsi, davanti a versi così profondi, eppure semplici e chiari nella loro armoniosa purezza, con la predisposizione d’animo dell’affidamento e della fiducia, nella certezza che Dio può scendere nel cuore di ogni uomo e può farsi riconoscere da ogni suo figlio. Che ciascuno attinga, dunque, da questo libro, tutta la Santità che la parola di Dio può infondere , e ne faccia personale inestimabile tesoro. Milly Bracciante


Recensioni Synaxis XXIV/1 (2006) 237-250

J. DERRIDA, Ogni volta unica, la fine del mondo, presentato da P.A. Brault – M. Naas, Jaca Book, Milano 2005, pp. 366. Jacques Derrida, nato presso Algeri nel 1930 e morto a Parigi nell’ottobre 2004, è riconosciuto come uno dei maggiori filosofi contemporanei; ha insegnato e tenuto conferenze in diversi paesi del mondo ed ha pubblicato opere tradotte in molte lingue. Di certo è ancora presto per fare un bilancio sintetico e completo dell’importanza del suo pensiero per il dibattito filosofico contemporaneo, ma si può affermare senza alcuna reticenza che egli rappresenta un punto di riferimento irrinunciabile per la comprensione del pensiero filosofico del nostro tempo. Il volume dell’autore di La Voix et le phénomène, di L’Écriture et la difference, di Politiques de l’amitié, di Donner la mort, solo per citare alcuni dei suoi scritti, e che qui viene recensito, ha per titolo: Ogni volta unica, la fine del mondo (versione originale con il titolo The Work of Mourning – Il lavoro del lutto, uscito negli Stati Uniti nel 2001 per la University of Chicago Press), curato e presentato da Pascale-Anne Brault e Michael Naas che introducono l’opera con un’interessante studio sulla politica del lutto in J. Derrida: Fare i conti con i morti. Il testo raccoglie orazioni funebri, articoli, interventi e testimonianze di Derrida prodotti in occasione della morte di alcuni suoi amici (R. Barthes, P. de Man, M. Foucault, M. Loreau, J.P. Benoist, L. Althusser, E. Jabès, J.N. Riddel, M. Servière, L. Marin, S. Kofman, G. Deleuze, E. Lévinas, J. F. Lyotard, G. Granel, M. Blanchot): scrittori, filosofi, critici letterari e professori che egli ha conosciuto, che ha incontrato, letto. Sono tutte persone che appaiono nella loro insostituibile unicità e che nella poliedricità dei loro percorsi hanno in un modo o in un altro condiviso passioni e azioni, hanno intrattenuto confronti e intavolato dibattiti. La loro morte, così come la morte di chiunque altro, non si è limitata ad annunciare un’assenza, una sparizione, la fine di una vita, ma è stata per coloro che le hanno amate la dichiarazione della fine del mondo


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nella sua totalità, ogni volta, in maniera irrimpiazzabile, infinita, irreparabile (p. 11). Tutto questo perché la morte, “avvenimento inqualificabile”, rende il defunto inaccessibile alla chiamata e non concede che il nominare una persona scomparsa per sempre si trasformi in invocazione, indirizzo, apostrofe. La morte è indefinibile, così come lo è la stessa vita che in fondo le assomiglia, e nella quale la morte si rende presente. Essa rimane sempre incalcolabile, imprevedibile, accidentale e strappa non tanto l’indispensabile, quanto piuttosto l’insostituibile, e per questa ragione ogni volta richiede uno sforzo inedito da parte di chi vuole parlarne (p. 66). Il testo viene pensato come un saluto, che per essere veramente tale deve essere ogni volta unico, deve contenere in sé la possibilità del non ritorno; deve essere in sostanza un addio: ogni saluto vero è in realtà un addio, un congedo, e questo libro vuole essere – deve esserlo – un saluto e un congedo da parte di Derrida che guarda alla morte come a ciò che non lascia alcuno spazio, né alcuna possibilità alla sostituzione del “solo e unico” per cui ogni vivente è propriamente un vivente irripetibile, alla cui scomparsa irrevocabilmente e irreparabilmente si interrompe ogni possibile dialogo (p. 13). L’assoluta e la triste coscienza della fatalità della morte, non ammutolisce comunque il bisogno incensurabile di Derrida il quale nei suoi discorsi e nei suoi interventi “deve” parlare dei suoi amici e della loro morte, e per fare questo si rifà spesso alle parole, alle frasi e ai passaggi che compaiono nelle loro lettere e nei loro scritti, quasi continuando a intrattenere con essi un dialogo aperto, franco, sincero. Tutto ciò egli stesso lo denuncia come un tentativo, forse non del tutto confessato e riflesso, di mascherare la verità della morte, la sua definitività, attraverso l’idea (illusione?) che sia ancora possibile un dialogo con chi oramai ci ha definitivamente lasciati, portando con sé il mondo intero. La tentazione che spesso si ha è quella di tacere di fronte alla morte di una persona cara, di fronte alla morte. Il silenzio sembra essere, e spesso è proprio così, l’unico linguaggio comprensibile, l’unico discorso sensato, il meno insensato, per dire la morte, qualora la morte possa essere in qualche modo detta, sussurrata. Infrangere il silenzio per onorare l’obbligo di parlare intorno all’amico morto, addirittura all’amico morto, può apparire come l’ennesima infedeltà, ma tacere potrebbe rivelarsi un’infedeltà ancora più subdola. Sarebbe un ritornare alla morte, rimandare la morte alla morte ed


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essere collusi con la morte nel suo tentativo di trascinare nell’assoluto oblio la persona ormai scomparsa, ammutolita, zittita (p. 132). Se è difficile e quasi intollerabile per Derrida scrivere in occasione della morte e in memoria degli amici scomparsi, il silenzio per lui sarebbe anch’esso un’ingiuria e una ferita fatta a sé e alla persona scomparsa (p. 69). Si parla allora della morte dell’unico, ma come fatto che si inserisce nell’esiziale concatenazione delle morti: il plurale è infatti il più indecente e brutale delle forme possibili per parlare della morte di qualcuno, poiché la morte non può essere generalizzata così come non può esserlo la persona, ma è anche l’unico modo ammissibile per parlarne, perché ciascuna a suo modo, una dopo l’altra, una insieme all’altra, ma ogni morte come un assoluto, è entrata a far parte della serie terribile di morti che hanno segnato il sopravvissuto, la sua esistenza. La morte condanna gli scampati a parlare di, perché ormai rende impossibile parlare con: essa ha reso il desiderio di parlare con l’amico scomparso un voto interdetto; a causa sua è ormai irrealizzabile ascoltare e rispondere all’amico scomparso, e la profondità della ferita prodotta da questa impossibilità è difficilmente comprensibile (pp. 89; 232). La legge dell’amicizia e del lutto è che uno dei due amici se ne va sempre prima dell’altro: non esiste amicizia senza l’eventualità che uno dei due amici muoia prima dell’altro. L’amicizia, infatti, è unica e peculiare, e la scomparsa dell’amico non può essere mai supplita da qualche altro amico. La morte ha un carattere singolare e nello stesso tempo è una ripetizione senza posa, inevitabile, apparentemente sempre uguale a se stessa; copia se stessa, simula se stessa, eppure è sempre unica, senza eguali, personale: non c’è la morte, ma sempre la morte di qualcuno; non muore mai un uomo, ma muore sempre una persona ben precisa, con una storia, inserita in una trama di relazioni, che ama ed è amata, che vive una storia, la sua storia, la storia che essa è. Sulle tombe sono sempre impressi nomi propri, anche se a volte sconosciuti, oramai totalmente sconosciuti e irriconoscibili. Eppure essi testimoniano un lutto unico, eccezionale, dicono di una persona che ha vissuto e che ora non è più “tra noi”. Il nome proprio, sopraggiunta la morte, non si riferisce più direttamente al defunto, ma solo a lui in noi, nella memoria che di lui ne conserviamo in quanto superstiti: il lutto consiste allora nel riconoscere che i morti ormai sono solamente in coloro che sono rimasti in vita, che li hanno amati e ne conservano la memoria e le immagini


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interiorizzate. Il lutto ci dice che l’amico è in noi, solamente in noi, e nello stesso tempo è in un’infinita alterità, è altro da noi, totalmente altro. Egli “vive” un’alterità che non può essere mai del tutto interiorizzata. La certezza che l’amicizia è l’anticipo del lutto è per il Nostro una “terrificante luce glaciale”. Non esiste infatti amicizia senza la consapevolezza della finitudine: non ci prepariamo pertanto alla morte dell’amico, ma l’anticipiamo. «Avere un amico, guardarlo, seguirlo con gli occhi, ammirarlo con amicizia, significa sapere con intensità crescente e anticipatamente ferita, sempre insistente, sempre più indimenticabile, che uno dei due vedrà fatalmente morire l’altro» (p. 123). Quando l’avvenimento si realizza, quell’avvenimento che credevamo di conoscere e per il quale contavamo di essere preparati, in verità ci colpisce ogni volta in maniera unica, poiché in ogni morte è contenuta e si consuma la fine del mondo, una fine che si produce ciononostante più di una volta, ad ogni morte. Alla morte dell’amico infatti il mondo intero si perde, definitivamente, per sempre, senza alcuna riserva, e tuttavia questa catastrofe finale si ripete più volte, ogni volta, come se fosse la prima e inedita volta. La morte dell’amico “costringe” il sopravvissuto a continuare a seguirlo e ad accompagnarlo fino in fondo all’ombra assoluta (p. 132). La pluralità delle morti e dei lutti non annulla l’essenziale unicità della morte, di ogni morte, poiché nella morte dell’amico, dell’altro, sono condensate e racchiuse tutte le morti possibili, ogni morte, tutta la morte: la morte dei mortali, la morte del mondo intero, la sua fine. Nella morte, la singolarità dell’altro, del Referente, si esprime nella sua più chiara evidenza in quanto la sua presenza si sottrae per sempre, lasciando spazio unicamente alla sua presenza in chi è rimasto, nel superstite, nell’amico. Ci sarebbero ancora molte altre suggestioni da evidenziare. Aggiungo semplicemente un’osservazione che mi pare importante. Questa raccolta di scritti di Derrida a mio parere costituisce un’opera di non facile lettura, specialmente per chi non conosce da vicino il suo pensiero e soprattutto il pensiero degli autori e intellettuali a cui egli dedica i suoi interventi e rivolge il suo personale ricordo. Una difficoltà attutita comunque dalla sintetica e intelligente presentazione biografica e bibliografica posta alla fine del volume e curata da K. Saghafi in cui viene esposto brevemente il profilo di ciascun intellettuale a cui Derrida fa riferimento. In ogni caso, il testo, che a tratti tradisce l’endemica frammentarietà di una raccolta di questo tipo, in


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cui vengono condensati scritti di varia natura e prodotti in periodi anche diversi, inequivocabilmente conferma quanto si rileva dallo studio delle principali opere del Nostro, ovvero che la sua filosofia è stata una lunga e ininterrotta meditazione sul mistero della morte, questione che ha segnato in maniera del tutto speciale l’ultimo tratto della sua ricca esistenza. Una esistenza appuntata e quasi cadenzata da momenti indelebili come la morte di persone care, delle persone amate, un triste calendario composto dalla scomparsa degli amici di sempre. Ciò che mi sembra davvero prezioso nelle acute riflessioni di Derrida, è il suo porsi costantemente in ascolto di quanto gli altri hanno avuto da dire ed effettivamente hanno detto con la loro morte, forse più ancora che con i loro scritti, le loro opere e i dibattiti da essi intrattenuti nel corso della loro vita personale e professionale. Il Nostro ha concesso molto spazio allo studio e alla presentazione critica del pensiero e delle opere degli amici, si è posto in rispettoso ascolto ed ha impegnato il suo sforzo nel tentativo di far emergere le questioni, ancora di più le domande, che le morti degli amici hanno sollevato. Egli lo ha fatto non tanto da semplice studioso e accademico, quanto piuttosto da “sopravvissuto” (p. 11), cioè come inserito anch’egli in quella serie di viventi che inevitabilmente si sarebbe trasformata prima o poi in una serie di defunti. Le riflessioni che egli ha proposto, sebbene suscitate dalla scomparsa di intellettuali a volte radicalmente diversi gli uni dagli altri, rivelano in ogni caso, ad una lettura più attenta, la fondamentale coerenza di pensiero del Nostro nel corso degli anni, ma in primo luogo sono straordinariamente preziose perché contengono più che delle risposte a buon mercato, molte domande radicali e pungenti che scomodano anche il credente e lo costringono a intraprendere un percorso di comprensione scevro da facili, riduttive e a volte banalmente scontate letture di un evento, la morte, che rimane pur sempre inestricabile, al di là di ogni possibile dire. Ciò che comunque inquieta e scuote della riflessione di Derrida è proprio l’esito della sua acuta lettura delle morti dei propri amici. Se da un lato egli ha abilmente squarciato il ventre di questo evento, analizzandolo nelle sue maglie più recondite e nascoste, dall’altro ha abbandonato sul tavolo, consapevolmente, i sofisticati arnesi ermeneutici del lavoro filosofico perché incapace di procedere oltre e di ricucire le ferite prodotte. Il suo è stato un atto di volontaria rinuncia di fronte ad una impresa impari,


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destinata ad un sicuro fallimento, poiché in definitiva, così come aveva affermato ripetutamente l’amico Lévinas, richiamato dal Nostro, la morte che noi incontriamo nel “volto” dell’altro è senza-risposta, si qualifica come non-risposta (p. 218). La sua analisi è in ogni modo davvero importante perché ha il coraggio di alzare ancora una volta il sipario su una realtà, la morte, a cui la società contemporanea non si accosta di buongrado o che perlomeno, nella misura in cui lo fa, tenta di “incipriarla”, addolcirla, addomesticarla. Il nostro filosofo, invece, sa che specialmente quando riguarda la persona amata, l’amico, la morte svela tutta intera la sua drammaticità. Il testo di Derrida ne è la denuncia chiara e la schietta affermazione. La sua lettura e ancora di più la sua ri-lettura, saranno certamente feconde per chi vorrà imparare a capire che se la morte è l’interruzione, sempre brusca e violenta, del dialogo con la persona amata, è anche – in una “certezza disperata, ma tanto luminosa” – ciò che rende possibile l’instaurarsi di una comunicazione indistruttibile, senza fine, a mezza voce, con coloro che sono ormai scomparsi (p. 143). Francesco Brancato

La sentinella di Seir. Intellettuali nel novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Edizioni Studium, Roma 2004, pp. 312. In un’epoca di radicali trasformazioni, di sovvertimenti mondiali degli antichi equilibri, di terribili ed atroci delitti e di diffusa paura che pervade l’animo di ciascuno, quale può essere il ruolo della ragione, se ce n’ha ancora uno; e gli intellettuali hanno ancora una loro funzione di guida orientativa, in questo mondo così disorientato? Ecco che ci si appella agli interrogativi biblici e precisamente ai versetti di Isaia (21,11-12), che sono stati presi come simboli indicativi da Max Weber, da Giuseppe Dossetti e ora da Paola Ricci Sindoni nel volume sopra indicato che raccoglie un manipolo di pensatori del Novecento per intravedere una via d’uscita da questo baratro. Recitano così i versetti biblici:


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«Qualcuno chiama da Seir, “Sentinella, quando finisce la notte? Dimmi, quanto manca all’alba?” La sentinella risponde: “Arriva l’alba, ma presto anche la notte. Se volete fare altre domande, tornate di nuovo”». È una metafora efficace che serve a chiarire il significato dei nostri tempi: la sentinella interrogata con insistenza sulla durata della notte, invita all’attesa di un imprevedibile arrivo del giorno; per il momento il profeta non ha risposte certe! Ricordando la proposta di Max Weber, (ma viene in mente anche l’invocazione di Dossetti, quando esclamava:” Non restare in silenzio, mio Dio!”), così esordisce nella prefazione la Ricci Sindoni: «In pieno tempo del disincanto bisogna raccogliere la sfida di un’età senza profeti, per diventare come la sentinella di Seir, fermamente attenta, mantenuta in uno stato di vigilanza costante perché la notte, con il suo inquieto carico di oppressione e di angoscia, non ostacoli la venuta del mattino». Ma sono messaggeri muti, fermi in semplice attesa, anche gli undici filosofi del Novecento, presenti in questa raccolta antologica? Certamente no, anche se i loro messaggi si presentano in modo diversificato. È proprio degli autentici uomini di cultura avere uno sguardo proiettato nel futuro, essere pervasi di utopia: già Heidegger sosteneva che la categoria della possibilità è quella che riesce a muovere la pesantezza del reale! Certo, appare oscurato oggi il ruolo oracolare dell’intellettuale costruito dall’illuminismo settecentesco e poi tramandato nei secoli successivi, di «una élite pensante, colta, illuminata, in grado di educare ai valori universali le inconsapevoli masse»; questa figura è stata dissolta ormai dalla società dell’immagine; gli intellettuali sono «divenuti superflui e rimpiazzati dal potere onnipervasivo dei media, … quando non ridotti al ruolo avvilente di buffoni di corte — oggi di corte televisiva — essi rappresentano la spia inquietante dell’autodegradazione dell’intellettuale, diviso tra il rifugiarsi dentro le pareti rassicuranti del proprio isolamento e il presentarsi come figura multiuso, assumendo di volta in volta il ruolo


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meramente decorativo, la funzione versatile di mediatore di interessi politici, il docile chiosatore del dogma di turno o il portavoce della linea tattica del momento» (p. 16). Dinanzi a questo desolante contesto storico appare anche a noi la necessità di continuare a pensare, malgrado tutto, insieme con alcune figure rappresentative «che hanno vissuto in prima persona questo passaggio dalla dimensione “pastorale” (M. Foucault) dell’intellettuale moderno a quella interpretativa del pensatore critico in piena postmodernità» (ibid.). Malgrado il crollo delle grandi certezze, permane in alcuni autori come Edith Stein, Martin Buber o Antonio Gramsci «la volontà di promuovere affermazioni autorevoli, di selezionare opinioni corrette e vincolanti, di arbitrare controversie sociali e politiche, nella convinzione di poter raggiungere un giudizio morale valido universalmente» (p. 14). Di Edith Stein viene esaminato il saggio: L’intelletto e gli intellettuali, pubblicato nel 1931 in Das heilige Feur, a cura di Angela Ales Bello, dell’Università Lateranense, Segretaria del “Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche”. Il saggio su Martin Buber, La freccia e il turcasso è a cura di Paola Ricci Sindoni, titolare di filosofia morale presso l’Università di Messina, coordinatrice del volume oltre che autrice della illuminante prefazione. Mito e scienza politica nei quaderni di Antonio Gramsci, a cura di Domenica Mazzù (Università di Messina). Ci saremmo aspettato anche un saggio su Luigi Sturzo, tra i politologi costruttivi! Ad essi si uniscono le voci accorate degli altri Autori presi in esame nella antologia, significativi già nei titoli. Hannah Arendt: La bussola interiore della comprensione a cura di Lucrezia Piraino, dell’Università di Messina. Agnes Heller: Le macerie della storia e il risveglio del “sogno europeo”, a cura di Giovanna Costanzo (Università di Messina). I gesti del pensiero. Prospettive su Jeanne Hersch, di Roberta De Monticelli (Università di Ginevra). La verità di Chagall secondo Jeanne Hersch, di Roberta Guccinelli. Il “mimo” e lo “stupore” nel Pensiero di Jeanne Hersch di Stefania Tarantino (Università di Ginevra). Dalla Notte: Elie Wiesel di Cristina Dobner (Monaca carmelitana).


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Pensare apocalitticamente. La lotta messianica di Sergio Quinzio di Rita Fulco (Università di Messina). Ludwig Wittgenstein: l’esercizio del pensiero di Patrizia Manganaro (Pontificia Università Lateranense). Castità della mente e amore per il mondo: Simone Weil, Hannah Arendt, Maria Zambrano di Wanda Tommasi (Università di Verona). Quel che emerge subito è che tutti i saggi sono opere di studiose donne e che quindi si può parlare di un pensare al femminile, «di un pensare cioè declinato secondo la naturale differenza di genere, ma ancor più orientato a cogliere le potenzialità teoriche di quanti, donne e uomini, intendano mettersi al servizio della riflessione critica» (p. 18). Un libro pregevole, dunque, che ha fatto meritare giustamente all’autrice un premio per la saggistica (Capri 2004) e che ha suscitato l’adesione della giuria, perché, al tramonto di un secolo, il Novecento, che ha visto tragicamente inascoltate le voci degli intellettuali, ripropone il ruolo del pensatore come “ sentinella” del tempo presente! Salvatore Latora

T. DI BELLA, L’autenticità dell’esistenza e il problema di Dio in Martin Heidegger, ITST – Coop. S. Tommaso, Messina 2004, pp. 149. Dall’insegnamento dei Padri rabbini apprendiamo che bisogna riscaldarsi al fuoco dei grandi personaggi, dei maestri, dei saggi, ma occorre sempre seguire due utili accorgimenti: in primo luogo, non avvicinarsi troppo per non rischiare di bruciarsi; e, secondariamente, non allontanarsi troppo, se non si vuole restare privi del beneficio che promana dalla sorgente di calore! Mi sembra un criterio storiografico da seguire per il suo stupendo equilibrio: né accettazione supina né avversione totale, ma, come si suol dire, recezione come frutto di una lettura personale e critica. È stata questa, mi pare, la linea interpretativa del presente volume di Padre Teodoro Di Bella, cappuccino, dell’Ordine dei Frati Minori, parroco


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in una parrocchia catanese e docente di Filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto teologico “S. Tommaso” di Messina. Un volume lineare nel suo impianto argomentativo, snello, non appesantito da esuberanza di note, (riporta, però, alla fine una ricca e ragionata bibliografia, utilissima per ulteriori ricerche), che si legge con piacere e con frutto costruttivo, perché sviluppa una tesi nuova rispetto alla vulgata interpretativa sull’Autore di Messkirch, frutto di un interesse continuo nell’A., coltivato fin dai suoi primi studi universitari alla scuola di un maestro come il Prof. Filippo Bartolone, dell’Ateneo Messinese. Quale la struttura del libro e i risultati esegetici di questo testo ben documentato da precisi riscontri con gli originali? Già il titolo stesso è indicativo del percorso della ricerca. L’esistenza umana come esser-ci (Da-sein e In-der-Welt-sein) e come interrelazione (Mit-sein) solo nell’orizzonte dell’Essere acquista la sua autenticità, e così è anche per ogni altro ente. È questa una riconquista di Heidegger che ripropone la centralità dell’ontologia, proprio in un periodo in cui veniva dato il suo definitivo tramonto, dinanzi al prevalere delle scienze sperimentali. Ma: «La scienza non pensa!», ribadisce Heidegger, e proprio per questo bisogna recuperare l’autentico discorso filosofico, «una delle poche cose grandi di cui l’uomo è capace, cioè pensare l’Essere». «Questa problematica ontologica ed esistenziale che concerne l’autenticità dell’uomo ha una dimensione religiosa. L’uomo autentico è l’uomo che pensa l’essere e si sforza di ascoltarne la voce e l’appello. C’è un nesso tra pensiero e ringraziamento, tra “Denken” e “Dank”, tra pietàdevozione e pensiero. Il pensiero autentico è quello che ringrazia per il favore dell’essere che si fa parola e dono all’uomo per la sua manifestazione» (p. 13). È questa la tesi di fondo che il Di Bella sostiene, ma in modo articolato fra le tante piste che sono state ormai tentate, dato anche lo stile grave, oracolare, spesso ambiguo, del discorso heideggeriano che, al contrario, può essere considerato come risorsa inesauribile e feconda di molteplici sviluppi, prova ne è la mole immensa di lavori sul suo pensiero. Diciamo subito che abbiamo accolto, letto e meditato questo volume per l’orientamento che in esso traspare, che possiamo dire è quello della scuola laviana (si veda del La Via l’Inversione dell’ontologia


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nell’Assoluto realismo e L’ateismo come negazione impossibile!), attraverso Bartolone e Landolt, entrambi discepoli del La Via, che il Di Bella sviluppa, in modo personale, con-filosofando con uno dei pensatori più conclamati della filosofia del Novecento e che tanta influenza ha avuto anche nell’ambito delle discipline teologiche (si pensi alle opere di Rudolf Bultmann e di Karl Rahner). Nello studio del pensiero di Heidegger assistiamo ad un evidente paradosso: da un lato dichiara in una lettera a Löwith che egli si sente più che filosofo un “teologo cristiano” e i suoi studi rivelano un forte interesse per la problematica religiosa; d’altra parte, però, la forma dogmatica ed istituzionale impressa all’esperienza religiosa dal cattolicesimo e la passione che egli sente per la ricerca filosofica lo spingono ad abbandonare la fede cattolica (lettera a Krebs, cfr p. 84), per la incompatibilità tra fede e ricerca filosofica. La filosofia cristiana è come un legno di ferro o un cerchio quadrato ! Si può sciogliere questo dilemma oppure si resta impigliati nell’ambiguità? Qual è l’interpretazione che ne dà il Di Bella? «… La provenienza teologica e la questione di “Dio” sono presenti sin dagli inizi della ricerca heideggeriana e la accompagnano sino alla fine (lungo le tre fasi in cui si distingue il suo pensiero: I – fenomenologicaesistenziale (sino al 1929); II – della svolta (Kehre) attraverso il superamento (Uberwindung) della onto-teologia occidentale (1930-1950); III – estetico-linguistica o ermeneutica). Il fatto del carattere controverso, non definito della risposta heideggeriana alla questione “Dio”, ammesso da quasi tutti gli interpreti, va spiegato nel senso che «la sua ricerca di Dio non poteva dirsi conclusa […] e che un pensiero senza Dio è forse più vicino al dio divino […] e quindi è possibile interpretare il suo pensiero come cammino verso il Principio, come tendenza all’Originario, alla trascendenza, al “Totalmente Altro” all’Unico che sta dietro alla storia» (p. 85). Tale tesi il Di Bella la desume, dopo avere attentamente esaminato le tre maggiori correnti interpretative: quella neorazionalista, quella ermeneutica e quella religiosa. La prima è stata formulata da Vattimo, il quale sostiene che Heidegger nel suo lungo cammino di pensiero, attraverso la Kehre opera il passaggio da una visione umanistica ad una visione


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ontologica e che quindi non ha voluto sfociare in un esito nichilistico come quello di Nietzsche, in una distruzione della ragione, bensì in un oltrepassamento della metafisica e dell’umanesimo, per mostrare come la razionalità tecnico- scientifica sia assolutamente indipendente da ogni riferimento all’essere o ai valori. Sulla stessa linea è Massimo Cacciari, che considera rappresentanti del pensiero negativo Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein, i quali, avendo liquidato ogni illusione umanistica e metafisica hanno messo l’uomo, mediante la tecnica moderna, nella condizione «di assumere finalmente il dominio incontrollato del mondo, incontrollato in quanto non più soggetto al giudizio di nessun valore metafisico, di nessun principio stabile, distinto dal, e contrapposto al divenire delle forze produttive che si dispiegano nelle diverse tecnologie» (p. 91). La Kehre, oltre che una svolta, significa, secondo la ipotesi neorazionalistica, anche una conversione al mondo della metafisica compiuta, cioè al mondo come organizzazione totale della tecnica che è il destino dell’occidente! Ma, a proposito di questo problema, Heidegger cita Hölderlin: «Là dove c’è il pericolo, cresce, anche ciò che salva» e oppone pertanto a questo destino il movimento dell’a\lhéjeia, verità come apertura originaria dell’essere; questa tensione, questo andar oltre viene anche esaminato nell’ultimo libro, molto stimolante, di Massimo Cacciari, specialmente nella terza parte del denso volume intitolato Toccare il Dio, costituita da 8 lettere su temi principalmente teologici. Da qui il passaggio all’altro filone interpretativo che è quello ermeneutico, sostenuto da filosofi come Gadamer, Pöeggeler, ancora Vattimo e Pareyson, che riprendono e sviluppano l’insegnamento di Heidegger nel senso di una ontologia ermeneutica, secondo cui il linguaggio è la dimora dell’essere, la sede dell’aprirsi dell’essere, «il linguaggio è linguaggio dell’Essere come le nuvole sono nuvole del cielo» e cioè ne provano l’ampiezza inesauribile, anche quando tentano di nasconderla! La parola non crea l’essere ma lo dice. L’ontologia ermeneutica di Heidegger pensa l’essere come differenza, che lascia il non detto, diversamente quindi dal pensiero dell’essere di tipo metafisico. Pareyson indica nella inesauribilità sia il carattere dell’essere che quello della verità e opera una distinzione tra il pensiero espressivo, prettamente storico, e quello rivelativo, che lascia emergere il trascendente. Il Di Bella ci introduce a questo punto nel terzo filone interpretativo,


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che è quello religioso citando alcuni interpreti come A. Caracciolo, J.B. Lotz, E. Landolt, F. Bartolone, G. Penati, P. De Vitiis, i quali leggono Heidegger in prospettiva religiosa. Nella Lettera sull’Umanesimo infatti si prospetta un ritorno al divino e a Dio: dall’Essere al Sacro, dal Sacro al Divino e dal Divino al senso della parola “Dio”, via che è quella della salvezza dell’uomo (p. 109). In uno dei suoi ultimi scritti il filosofo tedesco, avvertendo la tragicità dei tempi moderni affidava i suoi pensieri ad una intervista che ha voluto fosse pubblicata solo dopo la sua morte: Ormai solo un Dio ci può salvare (intervista rilasciata al Der Spiegel nel 1966 e pubblicata postuma nel 1976); a noi, sosteneva Heidegger, non resta altro che la disponibilità dell’attesa, per mettere gli uomini sulla strada dell’Essere e preparare il ritorno di Dio! È un’attesa millenaristica in cui si sono rilevati anche influssi della teologia negativa. «Più di ogni altro pensatore, conclude il Di Bella, Heidegger ha contribuito al “ritorno del Sacro”, alla ripresa del dibattito teologico anche in ambienti “laici”. Per positivisti e neo-empiristi logici, il problema “Dio” è un problema “insensato” cioè privo di senso. M. Heidegger, invece, ha affermato che il pensiero filosofico può non pensare la “metafisica”, ma non l’essere e neppure Dio, anzitutto come problema, perché dal come lo si pensa è in gioco il senso del vivere. Dio è il “Totalmente Altro”, l’“Inesprimibile”, sta al di là di ogni determinazione e di ogni presenza. Va cercato entro il nascondimento dell’essere e nella direzione del “Sacro”. L’essere “si dà” ma nello stesso tempo “si nasconde”. Heidegger ha voluto evidenziare la dimensione originaria e la trascendenza assoluta dell’essere, e come “evento” di Dio la sua riflessione sul divino è forse “più vicina al Dio divino”. Egli non dà carattere “confessionale”, ma ciò non è ostacolo decisivo al ritenere (come fa B. Welte) che il Dio di Heidegger sia quello di Gesù Cristo, l’UNICO» (p. 117). Questa strana inquietudine che serpeggia in ogni anima umana può avere però un duplice esito finale, Dio o la sua negazione. Lo scrittore Gesualdo Bufalino così si esprimeva in una confessione inedita che appare ora in volume: «Il mio caso è come se cercassi Dio, solo che cerco Dio come se cercassi un colpevole. E nello stesso tempo mi accorgo che Dio ha questa suprema astuzia: non esiste. Io da una posizione


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di nichilismo, se pure illuminata, non so se da speranze, se da commozioni varie, vedo l’universo come una colpa di non so chi, una colpa dentro la quale noi siamo e viviamo, una colpa che deve avere un colpevole. Non è un’idea originale, qualche cosa del genere l’aveva detta Baudelaire, la creazione come colpa di Dio. Dio è perfetto fino a quando non crea» (A colloquio con… Interviste con autori italiani contemporanei, Franco Cesati Editore, 2004). Pensieri simili leggiamo anche in Manlio Sgalambro, uno dei più coerenti sostenitori della totale debolezza, passività e fragilità dell’essere umano, la cui vita non è affidata alle cure di alcun Dio e che è impedito all’uomo di rivolgersi al cielo in cerca di aiuto e di conforto. Si veda La morte del sole, il Trattato dell’empietà e specialmente da ultimo il: De mundo pessimo. Di fronte a professioni di fede così dichiaratamente atee o agnostiche (anche se i risultati di una recente indagine giornalistica indicano: Il ritorno di Dio, di Marco Politi, Mondadori 2004), può valere la terapia filosofica di Heidegger o di un La Via, che argomentava sull’ateismo come negazione impossibile? Passiamo l’interrogativo a Padre Teodoro Di Bella, mentre ci congratuliamo con lui per la pregevole pubblicazione. Salvatore Latora


Synaxis XXIV/1 (2006) 251-255

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Hanno conseguito la Licenza in Teologia morale, il 10 febbraio 2006: BELLA LUCIANO, La paternità spirituale in Filippo Neri. Analisi dei processi per la canonizzazione e delle prime biografie . (relatore prof. Mario Torcivia) LITERATO EDWIN, L’obbedienza in s. Francesco d’Assisi e nel Terzo Ordine Regolare. Principali tappe di una evoluzione. (relatore prof. Salvatore Consoli) PUGLISI GIUSEPPE, “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate” (1Gv 2,1). Il peccato e la sua remissione in Cristo nella prima lettera di Giovanni. (relatore prof. Attilio Gangemi)

2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 10 febbraio 2006: CAPIZZI MARIA RITA, “Io sono il pane vivo che dal cielo è disceso”(Gv 6,51). Isaia 55,10-11 e il cammino di Gesù dal cielo al Pane in Gv 6. (relatore prof. Attilio Gangemi)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

CONDORELLI ENZA, La ripresa del pensiero metafisico nell’interpretazione heideggeriana di Nietzsche. (relatore prof. Giuseppe Schillaci) CUCÈ SALVATORE, La catechesi spirituale nella redazione evangelica dal martirio di Giovanni Battista alla professione di fede di Pietro in Mt 14,16-16,20 3 Mc 6,14-8,30. (relatore prof. Attilio Gangemi) CUBITO SALVATORE, La Chiesa e la tradizione nell’ecclesiologia contemporanea. (relatore prof. Nunzio Capizzi) CUTELLI GIUSEPPE, L’inno cristologico di 1Pt 2,21-25. Tradizioni vetero e neotestamentarie, aspetti letterari e rilettura tematica. (relatore prof. Attilio Gangemi) FICARRA LUIGI, Fra autonomia e paternalismo. Il consenso informato: segno di libertà e via di umanizzazione. (relatore prof. Salvatore Consoli) OLIVA ROSARIA, “Signore, dammi di quest’acqua” (Gv 4,15) Il dialogo tra Gesù e la donna samaritana in Gv 4,7-15: aspetti strutturali e fondamenti veterotestamentari. (relatore prof. Attilio Gangemi) SCIANNACA ANTONIO, Il cammino neocatecumenale e il suo statuto. (relatore prof. Giuseppe Baturi) SILVA IZQUIERDO JUAN FRANCISCO, “Tu sei il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto”. La “voce dal cielo” nei racconti evangelici del Battesimo di Gesù. Fondamenti veterotestamentari e significato cristologico. (relatore prof. Attilio Gangemi)


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3. DISPUTATIO Il 2 marzo 2006 allo Studio Teologico S. Paolo il prof. Edmund Kowalski CSsR, docente di antropologia filosofica presso l’Accademia alfonsiana di Roma, ha tenuto la relazione sul tema: La dignità umana e le sue radici. La relazione costituisce il momento conclusivo della disputatio che quest’anno ha visto coinvolti docenti e alunni del S. Paolo nella riflessione intorno al problema dell’origine della vita e della dignità della persona umana. Gli studenti e i docenti si sono preparati sulla base di due articoli indicati dallo stesso relatore. Già questa prima fase è risultata interessante e coinvolgente. Sono stati anche formulati dei quesiti da parte degli alunni e sottoposti a p. Kowalski prima della sua lezione. Il confronto è continuato durante la relazione nella quale il relatore ha affermato con decisione il centro soggettivo della permanenza dell’essere, la base ontologica della persona come radice della dignità umana. Durante i lavori di gruppo, coordinati dal prof. Vittorio Rocca, e il dibattito assembleare sono emerse da più parti alcune esigenze di fondo che il discorso bioetica dovrebbe considerare. La possibilità anzitutto di attingere anche dal linguaggio personalista ed esistenziale i contenuti etici da esplicitare, in quanto quello tradizionale, metafisico, non risulta oggi particolarmente adatto nella cultura pluralista. L’uomo più come mistero che come substantia. Presentare, in secondo luogo, i valori implicati nella bioetica come ragionevoli, con una modestia di fondo, senza affrettare giudizi definitivi. Con uno stile paziente, di dialogo. Favorendo, inoltre, un’etica di atteggiamenti, prima che regole morali da osservare. La disputatio ha sicuramente ottenuto il suo scopo: è stata un momento qualificante la vita accademica del S. Paolo e occasione per un confronto tra docenti e alunni su un argomento da tutti avvertito come problematico.

4. COLLEGIO DEI DOCENTI Il 17 marzo 2006, su proposta del Collegio docenti, sono stati nominati Docenti incaricati allo Studio Teologico S. Paolo: • il prof. Guglielmo Giombanco, docente di Diritto Canonico • il prof. Giovanni Mammino, docente di Storia della Chiesa


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5. COLLOQUIO DI DIRITTO Il 29 marzo 2006 allo Studio Teologico si è tenuto un colloquio sul tema: Quale etica per la legge? Sono intervenuti il prof. Salvatore Amato della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania e il prof. Adolfo Longhitano dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. I due relatori hanno introdotto il dibattito delineando la problematica generale sia sul versante della legge dello Stato, sia su quello della Chiesa. Nell’ordinamento della res publica christiana il problema di un riferimento etico alle leggi non poneva particolari difficoltà, se si considera la sostanziale unità culturale esistente fra i popoli della cristianità. Lo Stato confessionale si riconosceva in alcuni principi dedotti dalla fede cristiana. Il pluralismo culturale che si sviluppò man mano con la Riforma, l’Illuminismo e il Liberalismo portò alla nascita dello Stato laico, fondato sui principi della costituzione: lo Stato non fa la scelta previa di un sistema di valori derivanti dalla fede o da una particolare visione dell’uomo e della società. I valori etici condivisi e l’ordinamento dello Stato sono fissati nella carta costituzionale, che diventa il riferimento obbligato delle leggi e dei provvedimenti, che gli organi legislativi e le pubbliche autorità emanano nell’esercizio delle loro funzioni. È ovvio che i particolari sistemi etici formulati dalle diverse culture presenti nella società trascendono i valori contenuti nella carta costituzionale. Questa circostanza non può essere considerata un limite, perché i cittadini attraverso le garanzie di libertà di pensiero, di religione, di stampa, di associazione, ecc. si trovano nella condizioni di dare alla propria vita individuale, familiare e sociale l’indirizzo voluto. Al contrario il ritorno ad uno Stato confessionale o di matrice etica porterebbe ad uno Stato oppressivo e limitante, che impone per legge scelte che devono essere riservate alla coscienza individuale. Il problema si pone anche per le leggi canoniche, nonostante il loro necessario riferimento alla persona e al messaggio di Cristo, perché anche nella Chiesa esiste un ambito in cui ogni fedele per raggiungere la perfezione prende le decisioni in obbedienza alla propria coscienza e un ambito in cui deve garantire alla comunità cristiana un comportamento conforme a determinate norme giuridiche emanate a tutela del buon nome cristiano.


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In tal modo in entrambi gli ordinamenti si profila la necessitĂ di modelli ideali, che permettono il conseguimento di gradi elevati di perfezione solo mediante scelte libere e consapevoli riservate alla coscienza individuale, e di modelli necessari di comportamento per garantire quel grado minimo di ordine sociale che si identifica con il bene comune.



Collane di Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS» Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino. S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII. G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900. Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia. C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale. N. FASULLO, Una religione mafiosa. A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia. C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative. S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa. C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa. Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero. S. VACCA, Società e cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento.


A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania. M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo. G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra. Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale. Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale. A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500. S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti. S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo. A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia. C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione. N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare. S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare.


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica. A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia. P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento. S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa. G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi. M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato. F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione. Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600. M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo. F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700. F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna. G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna. Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo). N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica.


A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia. M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza. V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati. P. BUSCEMI, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo. G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania. M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso. C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi. V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI. S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia. Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. ZITO, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma. A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite. S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500. M. MIELE, L’ordo dei sinodi. N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina. S. CONSOLI, La predicazione. G. BATURI, Il clero. A. LONGHITANO, I peccati riservati. F. FERRETO, La chiesa e gli infedeli.


Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale. R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana. A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale. C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano. Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II. G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II. Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione. A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento. R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco. B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico. A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania. G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità.


A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono. R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica. A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite. «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230. (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184. AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192. (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138. AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196. (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334. AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264. AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170. AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190. AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136. AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160.


AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280. AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427. AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240. AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240. AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312. AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e Tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2004, pp. 424. «DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS» G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288. P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,19-31), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524. G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418.


A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032. G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240. F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168. F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo II e la morte, Giunti, Firenze 2006, pp. 240. Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168. A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.

Libri ricevuti Libertà, evento, storia, a cura di M. Signore e G. Scarafile, Edizioni Messaggero, Padova 2005. P. MAGNANO, Lavoratore nella vigna del Signore, Edizioni ASCA, Siracusa 2006. R. FRATTALLONE, Direzione spirituale, LAS, Roma 2006.


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