Synaxis 25 1 (2007)

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SYNAXIS XXV/1 - 2007

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione teologico-morale LA MEMORIA JESU, PRINCIPIO E KRISIS DELLA CHIESA (Nunzio Capizzi) . . . . . . Premessa . . . . . . 1. Gesù e la Chiesa: una ri-proposizione della questione 2. La memoria Jesu e l’ecclesiogenesi . . 3. La memoria Jesu e la kròsiv della Chiesa . . Conclusione . . . . . .

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LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA E LE SUE FONTI APPROCCIO FILOSOFICO, ANTROPOLOGICO ED ETICO

(Edmund Kowalski) . . . . 1. Che cos’è la dignità della persona umana? 2. Le quattro fonti della dignità umana Conclusione . . . .

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TEOLOGIA TRINITARIA E COMUNITÀ POLITICA NEL PENSIERO DI ANTONIO ROSMINI (Francesco Conigliaro) . . . . . Premessa . . . . . . 1. La teologia trinitaria di A. Rosmini . . 2. Analogia proportionalitatis tra la pericwrhsis trinitaria e la comunità politica . . . . Conclusione . . . . . .

Sezione miscellanea IL SETTIMANALE CATTOLICO «PROSPETTIVE» (Adolfo Longhitano) . . . . .

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Introduzione . . . . . . . 1. L’arcivescovo Picchinenna e la fondazione di «Prospettive» 2. Identità, indirizzo ecclesiale e politico . . . 3. Accoglienza del periodico . . . . . 4. La presenza di «Prospettive» nel dibattito culturale e socio-politico della società catanese . . . 5. L’arcivescovo Bommarito e il cambio di proprietà, di direzione e d’indirizzo . . . . . Conclusione . . . . . . .

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«SYNAXIS»: UNO STRUMENTO DELL’ATTIVITÀ CULTURALE DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO. IL METODO E I CONTENUTI (Salvatore Consoli) . . . . . . . 1. Nascita e appartenenza della Rivista . . . 2. Finalità e metodo . . . . . . 3. I contenuti . . . . . . . 4. Lo stile . . . . . . . 5. Qualche valutazione conclusiva . . . .

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IL CULTO DI MARIA SS. DI CONADOMINI A CALTAGIRONE (Davide Paglia) . . . . . . Introduzione . . . . . . 1. I testi della pietà popolare . . . . 2. I testi recitati . . . . . Conclusione . . . . . .

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L’ARCHITETTO GIUSEPPE PALAZZOTTO E LA CHIESA DI SAN GIULIANO A CATANIA (Salvo Calogero) . . . . . . Premessa . . . . . . 1. L’opera di G. Palazzotto e di G.B. Vaccarini a Catania 2. La nuova chiesa di San Giuliano in via Crociferi . 3. La costruzione della nuova chiesa di San Giuliano . 4. La realizzazione del pavimento e dell’altare maggiore Conclusione . . . . . .

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Note CORPO D’AMORE: ALDA MERINI E IL SUO INCONTRO CON GESÙ (Arianna Rotondo) . . . . . . .

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DOVE VA IL PENSIERO CATTOLICO OGGI. RIFLESSIONI IN MARGINE AL CONGRESSO ROSMINIANO DI STRESA (Salvatore Latora) . . . . . . . .

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Presentazioni

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Recensioni

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RICORDO DI MONS. FILIPPO CUTULI

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. Paolo



Sezione teologico-morale Synaxis XV/1(2007) 7-28

LA MEMORIA JESU, PRINCIPIO E KRISIS DELLA CHIESA*

NUNZIO CAPIZZI**

PREMESSA La prolusione si divide in quattro parti. (1) In primo luogo, saranno elaborate alcune considerazioni per mettere a fuoco il tema della lezione e i motivi della sua scelta, nell’orizzonte della vasta questione classica riguardante la relazione tra Gesù e la Chiesa. (2) In un secondo tempo, si rifletterà sulla trasmissione credente della vicenda di Gesù di Nazaret, della memoria Jesu o, in altri termini, sul Gesù ricordato nella fede, quale origine cronologica e permanente dell’evento Chiesa. (3) Successivamente, verrà mostrato come la memoria di «questo Gesù» (At 2,32) richiede la disponibilità della Chiesa alla conversione, per mettersi autenticamente in cammino sulla via del Maestro, verso la comunione compiuta del regno di Dio. (4) Le riflessioni conclusive, infine, saranno dedicate al ricordo silenzioso, orante, di Gesù, connesso allo stile contemplativo dello studio della teologia, nel contesto dell’attuale esigenza di riguadagnare la dimensione spirituale della Chiesa.

* Testo della prolusione tenuta il 10 novembre 2006 all’inaugurazione dell’Anno accademico 2006-07 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente straordinario di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Nunzio Capizzi

1. GESÙ E LA CHIESA: UNA RI-PROPOSIZIONE DELLA QUESTIONE Il tema scelto per la prolusione, come ho accennato, si colloca nell’orizzonte della questione classica dell’origine della Chiesa con Gesù di Nazaret, ampiamente rivisitata e ripensata nella riflessione teologica contemporanea. Basti pensare, ad esempio, ai contributi esegetici di G. Lohfink e di R. Schnackenburg o ai contributi teologici di S. Dianich, di M. Kehl e di S. Pié-Ninot e, prima di questi ultimi, al documento della Commissione Teologica Internazionale del 1985, riguardante alcuni Temi scelti di ecclesiologia1. Non essendo questo, però, il luogo per offrire una panoramica esaustiva della vasta questione accennata, passo a indicare immediatamente la prospettiva particolare, dalla quale affrontare la questione stessa e nel contesto della quale trovare i motivi della scelta del tema. Desidero collegarmi precisamente alle espressioni conclusive di un saggio di K. Lehmann, sul problema dell’accesso storico a Gesù, nelle quali, l’attuale cardinale suggeriva, quale pista di approfondimento, la relazione tra la fede cristiana e la sua origine storica, il ritorno dei credenti di oggi a Gesù di Nazaret, al comportamento dell’uomo Gesù di Nazaret, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato2. T. S pidlík, meditando sull’icona tradizionale della Pentecoste, nella quale gli apostoli sono disposti in due lati, intorno a un posto vuoto e 1

A modo di esempio, si vedano, rispettivamente, i seguenti studi: a) esegetici: G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio, Cinisello Balsamo 1999; ID., Gesù come voleva la sua comunità, Cinisello Balsamo 19902; ID., Gesù e la Chiesa, in W. KERN, H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Trattato sulla Chiesa, III, Brescia 1990, 49-105; ID., La raccolta di Israele, Genova 1983; R. SCHNACKENBURG, Signoria e regno di Dio. Uno studio di teologia biblica, Milano 1971; b) teologici: S. DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Cinisello Balsamo 1993; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Brescia 2002; M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, Cinisello Balsamo 1995; S. PIÉ-NINOT, Gesù e la Chiesa, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Assisi 1990, 151-162; ID., La teologia fondamentale. «Rendere ragione della speranza» (1Pt 3,15), Brescia 2002; c) per il documento della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, cfr Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede. 1983-1985 (= EV), Brescia 19914, 9/1668-1765. 2 Cfr K. LEHMANN, Il problema di Gesù di Nazaret, in W. KERN – H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Trattato sulla Rivelazione, II, Brescia 1990, 139-166: 162.


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illuminato, che significa la presenza invisibile di Cristo, accenna al pensiero del russo A. Chomjakov. Questo teologo era rimasto stupito da una differenza colta tra la vita della sua famiglia, nel villaggio natale della campagna russa, e la società dell’Europa occidentale. Da una parte, infatti, ricordava che, nella sua famiglia, tutto convergeva verso l’unità, nonostante i difetti, legati al primitivo modo di vivere; dall’altra, notava che l’occidente soffriva a motivo di divisioni fra le nazioni, fra le tendenze culturali e persino fra le chiese cristiane. Riflettendo su tale differenza, Chomjakov ha trovato la spiegazione, secondo la quale l’occidente cerca di riunire gli uomini attraverso dei sistemi e delle idee, mentre, al contrario, nella sua famiglia, il principio di unione era una persona viva, era la madre3. Se, tenendo presente il suggerimento di Lehmann, la meditazione di S pidlík e la spiegazione di Chomjakov appena accennati, viene messa a fuoco la domanda sul principio di aggregazione comunitaria dei credenti, designata con il termine Chiesa, dovrebbe essere chiaro che esso non sta nei sistemi o nelle organizzazioni, ma in Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto. Ha scritto, a proposito, E. Schillebeeckx che «tutto è iniziato con un incontro. Alcune persone conobbero Gesù di Nazaret e restarono con lui. Da questo incontro e da ciò che era in gioco nella vita e nella morte di Gesù, la loro vita ha ricevuto un nuovo significato»4.

La scelta dei Dodici è considerata un fatto storicamente certo5: essi sono stati incontrati da un uomo, intorno a cui si sono radunati. Tale incontro è stato il punto di partenza di un’amicizia e di una vita in comune, durata tanto quanto il ministero pubblico di Gesù. L’arresto di Gesù e gli avvenimenti successivi hanno provocato la dispersione dei discepoli: sono tornati in Galilea, dove Pietro ha ripreso a fare il pescatore. Ma all’improvviso le loro direttrici di fuga si sono 3 Cfr T. S PIDLÍK, “Sentire e gustare le cose internamente”. Letture per gli esercizi, Roma 2006, 188-189. S pidlík afferma, inoltre, che la lettura dei testi del teologo russo Chomjakov, morto nel 1860, «ha influito sull’elaborazione del testo della Lumen gentium durante il Concilio Vaticano II». 4 E. SCHILLEBEECKX, Jésus de Nazareth. Le récit d’un vivant, in Lumière et Vie 134 (1977) 5-45: 14. 5 Cfr, ad esempio, G. LOHFINK, Gesù e la Chiesa, cit., 80-82.


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invertite: essi sono tornati a riunirsi a Gerusalemme e, durante la solennità successiva alla Pasqua, hanno proclamato che Dio ha risuscitato Gesù dai morti. A fondamento di questa predicazione, poi, hanno addotto la testimonianza secondo cui Gesù crocifisso si era mostrato loro vivo (cfr, ad esempio, At 2,22-36)6. Grazie alla risurrezione, pertanto, come afferma la Commissione Teologica Internazionale, nell’indicare la settima delle dieci tappe del processo di fondazione della Chiesa, si è avuta «la ricostituzione […] della comunità infranta tra Gesù e i suoi discepoli e […] l’introduzione di costoro nella vita propriamente ecclesiale»7.

L’azione dello Spirito Santo, che permette ai discepoli l’intelligenza di fede circa il passato del Crocifisso, e la conseguente memoria Jesu — come hanno notato Schillebeeckx e Marcello Bordoni — sono i due elementi strutturanti dell’originaria esperienza di fede della comunità primitiva8, che insiste sull’annuncio della risurrezione del Crocifisso e, al tempo stesso, si interroga sulle parole e sulle azioni della vita terrena di Gesù. In tale contesto, sono sorti i vangeli, che «nella loro forma e peculiarità, testimoniano la connessione tra sguardo retrospettivo storico e fede confessante»9,

tra memoria prepasquale e proclamazione postpasquale. Essi affermano l’identità del Risorto con il Crocifisso, la continuità nella discontinuità tra Gesù di Nazaret e il Signore glorioso, e ricordano che, al centro della fede cristiana e della comunità cristiana non c’è un libro, un sistema o un’idea 6 Cfr J. GNILKA, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, Brescia 1993, 407-408; G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio, Cinisello Balsamo 1999, 238. 7 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, in EV, 9/1678. 8 Cfr E. SCHILLEBEECKX, Gesù, la storia di un vivente, Brescia 19803, 40-41; M. BORDONI, Gesù di Nazaret. Presenza, memoria, attesa, Brescia 19912, 243-249. 9 R. SCHNACKENBURG, Cristologia del Nuovo Testamento, in J. FEINER – M. LÖHRER (edd.), Mysterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza. L’evento Cristo, V, Brescia 19712, 289-491: 297.


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astratta, ma una persona viva, che interpella la vita del lettore e che opera nella comunità10. I cenni fatti hanno voluto porre un punto fermo: la Chiesa è la comunità che si forma intorno a Gesù di Nazaret risorto e ad essa è legata la memoria Jesu, l’anamnesi del Gesù terreno, della sua predicazione, della sua morte e della sua risurrezione. La Commissione Teologica Internazionale, dopo aver indicato le tappe del processo di fondazione della Chiesa, quindi del suo principio in senso cronologico, storico o sociale, parla della «origine permanente della Chiesa in Gesù Cristo», dal momento che lui «la nutre e la edifica incessantemente mediante lo Spirito»11. Esattamente nell’orizzonte di questa «origine permanente», che tuttavia non è separata dal principio nel senso sopra detto, vuole collocarsi il mio intervento, limitato alla sola considerazione della detta permanente origine, mediante l’annuncio su Gesù, il racconto della vicenda di Gesù di Nazaret, la trasmissione credente della memoria Jesu. La memoria Jesu, che sta all’origine della comunità primitiva, nel senso cronologico e nel senso permanente, come ha affermato J.B. Metz, è una «memoria pericolosa»12, che determina una crisi. Infatti, ad esempio, come si vedrà nella terza parte della lezione, la memoria Jesu, ovvero il ritorno a Gesù di Nazaret mediante il ricordo, porta la Chiesa a chiedersi anzitutto se veramente vive nella sequela di «questo Gesù» (At 2,32), al quale costantemente si richiama. Alcuni motivi mi sembrano particolarmente importanti per porre, nei termini indicati, la questione della relazione tra Gesù e la Chiesa. Il primo è dato dall’apertura all’attuale Third Quest sul Gesù storico. Nonostante le osservazioni che possano essere mosse, infatti, la Terza ricerca ha il pregio 10

La riflessione si potrebbe qui opportunamente ampliare, pensando al significato permanente della sintesi cristologica originaria: la cristologia, in altre parole, è chiamata a realizzare sempre di nuovo quella sintesi originaria che la fede cristiana ebbe a compiere in origine, vale a dire l’identità fra il Gesù terreno e il “Cristo della fede”. Per un approfondimento immediato della questione, rinvio a K. LEHMANN, Il problema di Gesù di Nazaret, cit. 11 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, in EV, 9/1680. 12 J.B. METZ, La fede, nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Brescia 19852, specialmente le pagine 89-98.


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di accompagnare dei seri e impegnati accostamenti al Gesù della storia. Si pensi, solo a modo di esempio, nonostante alcuni aspetti discutibili, agli studi di J.D.G. Dunn, sul Gesù ricordato, di J. Gnilka, sull’annuncio e la storia di Gesù, di J.P. Meier, sull’ebreo marginale13. A riguardo, va rilevato però che se, da un lato, gli studiosi si impegnano a ricercare e a scrivere su Gesù, dall’altro lato, nel campo del vissuto ecclesiale, la persona di Gesù e la sua storicità sembrano avere un significato relativo, scontato, su cui non c’è molto da dire. Gesù diventa una premessa essenziale, facilmente scontata e sulla quale nessuno sembra avere da dire granché14. Appunto per quanto appena detto, il secondo motivo della posizione della questione riguardante la relazione tra Gesù e la Chiesa sta nella sottolineatura della centralità di «questo Gesù» (At 2,32), confessato nella fede come Signore e Figlio di Dio, quando si riflette sul mistero della Chiesa, sull’evento Chiesa. San Bonaventura rivolgeva ai teologi suoi contemporanei un invito programmatico, preciso: incipiendum est a medio quod est Christus15. Tale invito ha tutta la sua attualità ai nostri giorni, in un vissuto ecclesiale, nel quale la Chiesa sembra — come diceva l’attuale vescovo di Roma in una conferenza del 1971 alla Katholische Akademie della Baviera — non «il segno che invita alla fede, ma addirittura l’ostacolo principale alla sua accettazione», dal momento che essa spesso si comprende e, conseguentemente, si presenta

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Cfr J.D.G. DUNN, Jesus remembered, Grand Rapids, Cambridge 2003; ID., Gli albori del cristianesimo. La memoria di Gesù. Fede e Gesù storico, I/1, Brescia 2006; J. GNILKA, Gesù di Nazaret, cit.; J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Le radici del problema e della persona, I, Brescia 2001; ID., Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Mentore, messaggio e miracoli, II, Brescia 2002; ID., Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Compagni e antagonisti, III, Brescia 2003. Fra gli studi e le valutazioni, riguardanti la Third Quest, si veda, fra gli altri, il recente volume di G. SEGALLA, Sulle tracce di Gesù. La “Terza ricerca”, Assisi 2006. 14 Possono essere letti utilmente: alcuni passaggi dell’introduzione a D. MARGUERAT – E. NORELLI – J.-M. POFFET (edd.), Jésus de Nazareth. Nouvelles approches d’une énigme, Genève 1998, 13-22; A. MELLONI, Chiesa madre, Chiesa matrigna. Un discorso storico sul cristianesimo che cambia, Torino 2004, 142-145. 15 BONAVENTURA, Collationes in Hexaëmeron sive illuminationes Ecclesiae I,10, in Sancti Bonaventurae Opera. Sermones theologici, VI/1, Roma 1994, 52.


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«soltanto [come] un’organizzazione che si può trasformare e il nostro grande problema è quello di determinare quali sono i cambiamenti che la rendono ‘più efficiente’ per i singoli scopi che ciascuno si propone».

Come acutamente osservava l’allora professore di Ratisbona, il problema cruciale sta nella «crisi della fede» e nella mancata continua conversione al Signore16. In breve, dunque, e in altre parole, il secondo motivo sta nel ribadire la sintonia con l’atteggiamento di Paolo che, parlando dell’edificazione della Chiesa con l’immagine della costruzione dell’edificio, si preoccupava di affermare: «ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,10-11).

Il continuo riferimento al fondamento posto da Dio, a Gesù Cristo, permette il passaggio al terzo, ultimo, motivo della posizione della questione. Esso viene suggerito da una diagnosi sul vissuto ecclesiale nel nostro tempo, curata da M. Kehl. Il gesuita di Francoforte, dopo aver mostrato il modo in cui nell’opinione pubblica sociale ed ecclesiale si è giunti ad una visione, ampiamente ‘de-spiritualizzata’, di Chiesa come ‘Chiesa ufficiale’, parla dell’urgenza di riguadagnare la dimensione spirituale della Chiesa. Infatti, «senza una esperienza di Chiesa in senso spirituale […] che assuma il ‘fenomeno’ Chiesa, con tutte le sue bellezze e le sue ombre, nella relazione di fede, di speranza e di carità dell’uomo con Dio, noi, pur con tutto il nostro parlare e il nostro agire in essa, restiamo però sempre a un livello superficiale. Questo, però, alla lunga, non può produrre alcun effetto salvifico o innovatore»17.

16 Cfr H.U. VON BALTHASAR – J. RATZINGER, Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Brescia 20053, 77-84: 77.79. 17 M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Brescia 1998, 117118.


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Sulla dimensione spirituale della Chiesa e sul suo legame con la memoria Jesu, principio e kròsiv della Chiesa stessa, torneranno le conclusioni che, fra l’altro, riconsidereranno l’urgenza indicata da Kehl nel contesto più ampio di uno stile richiesto dallo studio della teologia.

2. LA MEMORIA JESU E L’ECCLESIOGENESI Come ho anticipato, la seconda parte della prolusione concerne l’«origine permanente della Chiesa in Gesù Cristo» — che tuttavia non è separata dal principio nel senso cronologico, storico o sociale — mediante l’annuncio su Gesù, il racconto della vicenda di Gesù di Nazaret, la memoria Jesu. Ovvero lo scopo della seconda parte sta nel vedere come il Gesù ricordato nella fede sia all’origine dell’evento Chiesa e, viceversa, l’evento Chiesa si dia quando alcuni comunicano nella fede in «questo Gesù» (At 2,32). Dianich ha suggerito di avviare un discorso che aiuti a comprendere il mistero della Chiesa, partendo dal modello dell’ecclesiogenesi. Il modello, nell’accezione del professore emerito della facoltà teologica di Firenze, permette di cogliere, all’interno dell’evento Chiesa, nel suo puro e semplice cominciamento storico, un elemento, essenziale alla Chiesa stessa in ogni tempo. Il modello, infatti, è un atto della prassi ecclesiale, con una struttura relazionale, che permette sia l’inizio cronologico della Chiesa, sia la sua riproduzione in forme e contesti diversi. Precisamente, il modello dell’ecclesiogenesi dice una struttura dinamica nella quale l’atto linguistico della comunicazione della fede appare chiaramente come il principio di uno status relazionale fra persone, nel quale cogliere la prima, più semplice, germinale forma ecclesiae, che, in quanto tale, fa da modello a tutti i suoi ulteriori, successivi, sviluppi18. Concretamente, per esempio, il secondo capitolo del libro degli Atti descrive la Chiesa come il ritrovarsi uniti di coloro che, in quel giorno di Pentecoste, hanno accolto con fede l’annuncio degli apostoli che Gesù era risuscitato. Dianich nota che l’evento narrato negli Atti è tale che, se non 18 Cfr S. DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Cinisello Balsamo 1993, 86-94; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Brescia 2002, 162-166.


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fosse accaduto, semplicemente la Chiesa non sarebbe mai venuta all’esistenza. Inoltre, se questo modello non si fosse riprodotto o non si dovesse riprodurre più lungo la storia, la Chiesa non esisterebbe19. Di conseguenza, ciò fa apparire chiaramente che anche se si danno solo due o tre persone legate fra di loro dalla fede in Gesù crocifisso e risorto, anche se mancassero tutte le altre componenti che costituiscono la Chiesa nella sua pienezza, si dovrebbe riconoscere di essere davanti a un evento ecclesiale, ad una «germinazione autentica della Chiesa»20. Mentre, al contrario, se per ipotesi paradossale ci si trovasse davanti, sul piano empirico, a tutto l’apparato attraverso il quale normalmente la Chiesa realizza e manifesta la sua consistenza, ma all’interno della sua struttura non ci fosse il semplice evento di alcune persone che si relazionano nella comunicazione della fede, si dovrebbe dire che si è davanti a un apparato di Chiesa, a una sua parvenza, ma non alla sua sostanza. Molto significativamente, a proposito, J. Meisner, cardinale arcivescovo di Colonia, in un’intervista, ha dichiarato che la Chiesa in Germania, date le dimensioni e la potenza della sua struttura organizzativa, potrebbe restare in piedi anche se la fede scomparisse. Sarebbe evidente, tuttavia, che a questo punto ci si troverebbe davanti, soltanto, una parvenza di Chiesa21. Stando così le cose, è chiaro che la paradosis di fede della memoria Jesu o, in altri termini, la comunicazione della fede in Gesù non costituisce solamente il principio generante la Chiesa nel senso originario, là dove essa prima non esisteva, ma è anche il principio dinamico, permanente, per il quale anche la Chiesa già costituita vive ed è veramente, autenticamente, la Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, tutte le sue componenti e tutte le sue azioni ricevono senso dal fatto che la compongono persone che, in forza dell’azione dello Spirito Santo, hanno stabilito un rapporto interiore con Gesù annunciato, persone che hanno fede in Gesù, crocifisso e risorto, e tale fede continuano a comunicare e a condividere fra di loro22. In questo senso, va colta pure la sottolineatura di Dunn nei confronti della rilevanza 19

Cfr S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, cit., 164. L.c. 21 Riguardo a tale intervista, si veda S. DIANICH (a colloquio con V. Maraldi), Una Chiesa dentro la storia, Milano 2004, 94-95. 22 Cfr S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, cit., 181. 20


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del continuo ricordo della vicenda di Gesù per l’identità della comunità credente23. Quanto è stato detto dovrebbe lasciare capire che la Chiesa non è centrata su se stessa, ma su Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, raccontato dai testimoni. I Padri hanno applicato alla Chiesa il simbolismo della luna. La luna, scrive ad esempio s. Ambrogio nell’Hexaemeron, «narra il mistero di Cristo»24. Essa, in altri termini, risplende, ma la sua luce non è sua: essa non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo. La caratteristica della luna, quindi, non è quella di valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo, per una luce che, pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza25. Riflettendo sulla «luce illuminata» della Chiesa, H. de Lubac ha evidenziato la responsabilità della Chiesa stessa: questa, infatti, «ha per unica missione di rendere presente Gesù Cristo in mezzo agli uomini […]. È necessario che attraverso noi Gesù Cristo continui ad essere annunciato, che attraverso noi continui a trasparire. Tutto questo è qualcosa di più di un obbligo: è, si può dire, una necessità organica […]. Il libro degli Atti degli Apostoli che ci descrive i primi tempi della Chiesa, ci mostra anche, dal principio alla fine, questo annuncio di Gesù Cristo […]. Ogni giorno, a Gerusalemme, i Dodici andavano nel tempio o in qualche casa privata “insegnando ed annunciando incessantemente Cristo Gesù” [At 5,42]».

Chiarita, in tal modo, la responsabilità dei membri della Chiesa di proseguire nell’annuncio, nella comunicazione della fede, De Lubac chiede: «i fatti vi rispondono sempre? Attraverso il nostro ministero, la Chiesa annuncia veramente Gesù Cristo […]. La nostra testimonianza è sempre, in egual misura, “conforme al Vangelo di Cristo”?»26.

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Cfr J.D.G. DUNN, Gli albori del cristianesimo, cit., 193-194. AMBROGIO, Opere esegetiche. I sei giorni della creazione (Opera omnia 1), I, Milano – Roma 1979, 231. 25 Cfr l’interessante riflessione di J. Ratzinger, sul tema, in H.U.VON BALTHASAR – J. RATZINGER, Perché sono ancora cristiano, cit., 88-89. 26 H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, Milano 1979, 148-149. 24


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Gli interrogativi di De Lubac, appena citati, invitano a una riflessione riguardante la decentralizzazione della Chiesa e la responsabilità nei confronti dell’annuncio su Gesù. A questi temi sono connessi, come si vedrà, i problemi inerenti il linguaggio e i soggetti della comunicazione della fede. La decentralizzazione della Chiesa consiste nel suo spostarsi dal centro per fare spazio a Gesù Cristo. In altri termini, ciò significa che la Chiesa deve parlare molto meno di se stessa e più di «questo Gesù» (At 2,32), proprio perché ci sia l’evento Chiesa. A proposito, come esempio, vorrei riprendere solo qualche idea di Y. Congar, in Vera e falsa riforma nella Chiesa. In questo libro, fra l’altro — come in altro modo già visto con De Lubac — la decentralizzazione è strettamente collegata con il servizio evangelico. Anzitutto, riflettendo sull’immagine patristica della luna, Congar ha scritto che, come questa, la Chiesa, «nell’annientamento quotidiano della sua visibilità terrestre, nell’oscurità della sua unione al Cristo», riceve la capacità di illuminare, di comunicare27. Successivamente, ha parlato dell’esigenza di porre gesti veri, maturati nello spirito evangelico, al fine di presentare il Vangelo28. Infine, nella prefazione alla seconda edizione francese del libro, nel 1968, Congar ha affermato che, proprio per rimanere fedele all’aggiornamento conciliare e per andare incontro agli uomini in nome di Gesù, era indispensabile un’immersione radicale della Chiesa nel Vangelo29. La decentralizzazione, come pure la conseguente ri-centrazione in Gesù Cristo, quindi, è connessa al servizio della Chiesa nei confronti dell’uomo e della sua salvezza. In altre parole, la prima cosa che la Chiesa deve dare all’uomo, ponendosi così al suo servizio, è la trasmissione della memoria credente in «questo Gesù» (At 2,32). È il tema dell’evangelizzazione. L’annuncio evangelico, come si è detto, è il momento creativo della Chiesa, il momento in cui, dall’annuncio su Gesù nasce la Chiesa. Se noi esistiamo come Chiesa lo dobbiamo a questo atto e, qualora questo atto si dovesse interrompere, la Chiesa non esisterebbe più, cadrebbe nel nulla. La Chiesa, quindi, c’è per la comunicazione della fede, per la trasmissione della memoria credente in Gesù. Qui, però, sorge la questione del 27 28 29

Y. CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 68. Cfr ibid., 46. Cfr ibid., 12.


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linguaggio. A questo proposito, ad esempio, Dunn ha recentemente mostrato come nel Nuovo Testamento sia evidente l’importanza che, per i primi cristiani, ha avuto la narrazione della storia di Gesù connessa al ricordo e alla testimonianza30. Fra gli studi sulla narrazione, riprendo brevemente qualche spunto da quello di B. Sesboüé31, secondo cui l’evento fondatore, divenuto memoria fondatrice, si fa racconto. In altri termini, la venuta di Gesù fra gli uomini ha dato luogo ad un racconto, proveniente dalla memoria e finalizzato a conservare la memoria del suo evento fra noi. Dopo la predicazione di Gesù, la buona novella viene raccontata, come ha fatto Pietro nel giorno di Pentecoste, come hanno fatto gli altri evangelisti cercando, come dice Luca, di raccontare «tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio» (At 1,1). Da allora, si è innescata una trasmissione del racconto che è un’attualizzazione del passato. Si è innescato un atto di tradizione che permette che, mediante il racconto, il ricordo resti vivo e continui a influenzare e a dare un senso alla nostra esistenza. Il racconto suppone un atto di riappropriazione personale e di attualizzazione di quanto la catena della tradizione ha tramandato fino a noi. In questo senso, il racconto non è una cosa, ma un atto che suppone un narratore che parla e degli uditori che ascoltano. A riguardo, come suggerisce giustamente Dianich, rifacendosi all’«agire comunicativo» di J. Habermas, la comunicazione della fede, la trasmissione credente della memoria Jesu, non è la comunicazione di un semplice dato informativo. Si tratta, invece, di un asserto performativo, di una comunicazione che implica il rapporto interpersonale, la comunicazione dell’esperienza di fede del locutore credente e la provocazione della libertà dell’interlocutore. Questi, in altre parole, non deve semplicemente ricevere un’informazione, non deve imparare qualcosa che gli viene insegnata, ma 30

Cfr J.D.G. DUNN, Gli albori del cristianesimo, cit., 192-193. Per le riflessioni seguenti, cfr B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza. I racconti della salvezza: soteriologia narrativa, II, Cinisello Balsamo 1994, 15-38. Dello stesso Sesboüé è importante pure l’articolo De la narrativité en théologie, in Gregorianum 75 (1994) 413-429. Fra gli altri studi, si vedano i contributi di J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Brescia 1991; J.B. METZ, La fede, nella storia e nella società, cit.; E. SCHILLEBBECKX, Gesù, la storia di un vivente, Brescia 1976. 31


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deve essere spinto a prendere una posizione. E questo sarà possibile nella misura in cui, il locatore, l’annunciatore, non comunica semplicemente dei dati oggettivi a titolo di conoscenza, ma partecipa ad altri una vicenda che ha sconvolto tutta la sua vita32. Basti pensare, ad esempio, a quanto Paolo scriveva ai Filippesi: «quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore» (Fil 3,7-8).

E qui la riflessione si apre alla testimonianza e ai testimoni. Secondo H. Verweyen, in forza del carattere definitivo della traditio di Gesù Cristo, fatta “una volta per sempre”, la fedeltà della traditio / testimonianza ecclesiale alla traditio di Gesù Cristo «deve necessariamente essere sempre anche ‘innovazione’»33, nel senso di riproposizione della parola definitiva, o della rivelazione definitivamente valida, nelle situazioni storiche. Ciò comporta alcuni atteggiamenti precisi, fra i quali, anzitutto, la capacità del testimone, in quanto testimone, di lasciarsi pervadere totalmente, dall’autocomunicazione di Dio, fino al completo distacco da se stesso, nella rinuncia alla propria vita e, comunque, nella rinuncia all’affermazione di sé. Nella consapevolezza che «chi deve essere accolto come portatore di una rivelazione definitivamente valida deve mostrare in se stesso che l’essenza dell’uomo consiste nella sua permeabilità da parte della apparizione di Dio in questo mondo. Il vero testimone deve perciò smascherare quanto in lui non è ancora diventato pura trasparenza come peccato e imperfezione»34.

32 Cfr S. DIANICH, Ecclesiologia, cit., 145-147. 161-163; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, cit., 165. 33 H. VERWEYEN, La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Brescia 2001, 513. Per una presentazione più approfondita del tema, nella teologia fondamentale contemporanea, e del pensiero di Verweyen, mi permetto di rinviare al mio La testimonianza come chiave di lettura della credibilità della rivelazione nelle recenti teologie fondamentali, in Ho Theològos 23 (2005) 357-382. 34 Cfr H. VERWEYEN, La parola definitiva di Dio,cit., 373.


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Vorrei concludere questo punto, e contemporaneamente introdurre il successivo, richiamando qualche passo de Il quinto evangelio di M. Pomilio. Il “quinto evangelio” «non è altro […] che il simbolo o, se vogliamo, la metafora della spinta perpetua che impedisce ai Vangeli di diventare un libro e basta, un libro come gli altri»35.

Esso va cercato nell’anima cristiana e se non lo si trova bisogna scriverlo; esso è quell’evangelium aeternum che, secondo Gioacchino da Fiore, fornisce «il senso spirituale e la retta intelligenza del Vangelo di Gesù»36, e che san Francesco è venuto a risuscitare dopo che per mille anni è stato travisato. Il “quinto evangelio” va cercato nella tensione di una fedeltà a Gesù e al suo Vangelo, nell’impegno a superare le tentazioni che vanno nel senso dell’autoritarismo, della chiusura, del compromesso e pensando che «il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti [permanentemente…] nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: “ma voi chi dite che io sia?”»37.

3. LA MEMORIA JESU E LA KRISIS DELLA CHIESA Il punto precedente ha mostrato che l’evento Chiesa si ha quando alcuni comunicano nella fede in «questo Gesù» (At 2,32). Per comunicare, tuttavia, è necessario un linguaggio performativo e questo rinvia alla testimonianza, alla «permeabilità» del testimone nei confronti della traditio di Gesù Cristo, con il conseguente impegno del testimone a «smascherare quanto in lui non è ancora pura trasparenza». Prima di questa provocazione 35 M. POMILIO, Il quinto evangelio, Milano 1975, 303. Si veda l’interessante commento in F. CASTELLI, Volti di Gesù nella letteratura moderna, I, Cinisello Balsamo 19913, 519-541. 36 M. POMILIO, Il quinto evangelio, cit., 304. 37 Ibid., 369.


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di Verweyen, con De Lubac, si era preso atto di alcuni interrogativi inerenti la fedeltà della Chiesa all’annuncio evangelico. Questo terzo punto desidera riprendere sia la sostanza degli interrogativi di De Lubac che quella della provocazione di Verweyen, considerando — secondo quanto anticipato nelle riflessioni iniziali — come la memoria Jesu sia una «memoria pericolosa» (Metz) per la Chiesa, costituisca per questa una kròsiv, dica cioè riferimento all’azione giudicatrice di Dio che invita alla conversione, che invita a esaminarsi per non incorrere nel suo giudizio punitivo (cfr 1Cor 11,31-32)38. La verità e la credibilità della Chiesa — come afferma Kehl, riprendendo e facendo propria l’affermazione di Metz — dipendono dalla sua disponibilità a esporsi sempre di nuovo al “pericolo” della memoria di «questo Gesù» (At 2,32), dalla sua disponibilità cioè a convertirsi costantemente da tante tendenze verso l’autosufficienza individuale e istituzionale, per mettersi in cammino sulla via di Gesù verso la comunione compiuta del regno di Dio39. Kehl indica alcuni motivi concreti per i quali la memoria Jesu costituisce un pericolo per la Chiesa. Il nucleo dei motivi, in forma sintetica, può essere colto nella sintonia con lo stile di vita di Gesù e dei suoi discepoli e nel connesso servizio all’annuncio della salvezza40. Farò qualche approfondimento, partendo dallo stile povero di Gesù e dei suoi discepoli. Cominciando le riflessioni sullo stile di vita di Gesù e dei suoi discepoli, Gnilka scrive che «la piccola schiera […] è in cammino per predicare agli uomini la signoria di Dio e renderla loro più vicina», senza avere una fissa dimora, perché, insieme ai suoi discepoli, Gesù vi aveva rinunciato41. Inviando, poi, in missione i suoi discepoli (cfr le quattro varianti: Mc 6,8-11, Mt 10,5-15; Lc 9,2-5; 10,2-12), Gesù dà delle istruzioni rigorose e radicali, riguardanti le necessità personali. Gesù non dice che cosa i discepoli devono prendere con sé per il cammino, ma che cosa non devono prendere: non bastone, né pane, né bisaccia, né monete di rame nella cintura, né sandali e neppure due vesti. Solo Mc 6,8-9 concede in via secondaria il 38 Cfr M. RISSI, Krònw, in H. BALZ – G. SCHNEIDER (edd.), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, II, Brescia 1998, colonne 103-111: 106. 39 Cfr M. KEHL, La Chiesa, cit., 258. 40 L.c. 41 Cfr J. GNILKA, Gesù di Nazaret, cit., 222.


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bastone e i sandali. Le rinunce prescritte lasciano trasparire l’esigenza di uno stile di vita assolutamente povero: precisamente, la rinuncia al pane e alle monete di rame rende i discepoli del tutto indigenti; la rinuncia alla bisaccia vuole impedire che essi vadano raccattando provviste; la rinuncia al bastone, ai sandali e a una seconda veste li fa apparire come poveri uomini42. I discepoli, senza mezzi, senza protezione, senza pretese, dovevano sapere di essere completamente nelle mani di Dio, di essere affidati a colui del quale dovevano annunciare la signoria. Anche il loro silenzio lungo la via, dove non potevano porgere il saluto a nessuno (cfr Lc 10,4b), mirava a richiamare l’attenzione sulla sola parola del regno, che dovevano trattare come un dono prezioso e che potevano proferire solo al termine del loro viaggio, quando bisognava appunto trasmettere l’annuncio. Tale vissuto povero dei discepoli comportava un nuovo ordinamento, diverso da quello del possesso, del profitto, della ricchezza e del disprezzo degli altri. Era un segno del regno43! Possiamo supporre che l’indigenza richiesta da Gesù ai suoi discepoli determinasse anche il suo proprio stile di vita. Egli percorse la sua terra senza provviste, senza denaro, senza bisaccia, a piedi scalzi e senza bastone, non avendo una fissa dimora. In questo senso, era soprattutto lui il segno della signoria di Dio. I discepoli si limitavano a seguirlo. Alla sua mancanza di un possesso e di una dimora, si riferisce un logion della tradizione della fonte dei detti, secondo cui «le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo hanno nidi. Il figlio dell’uomo, invece, non ha dove posare il capo» (Mt 8,20 / Lc 9,58). Un detto che conserva il ricordo storicamente attendibile dello stile di vita di Gesù senza una fissa dimora44. Il regno di Dio costituisce il centro di quanto si è detto riguardo allo stile di vita di Gesù e dei suoi discepoli. In cammino per la Galilea, in altri termini, essi rendono testimonianza alla signoria di Dio non solo con la loro parola, ma anche con la loro esistenza, rendendo manifesta la sua presenza e la sua capacità di instaurare un nuovo ordine. Staccati dalle loro famiglie e dai loro beni, liberi in vista dell’opera di Dio, dediti integralmente al loro 42

Ibid., 223-224. Ibid., 225. 44 Ibid., 225-226; J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Compagni, III, cit., 540. 43


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compito, fiduciosi nella provvidenza divina, Gesù e discepoli stanno con i poveri, i tribolati e gli afflitti della regione e da loro ricevono ascolto45. Il tempo di Gesù, però, è diventato passato! Ad esso ci si richiama come a un periodo ideale, esemplare, da interpretare, ma le situazioni reali… Penso che non si possa negare che la crisi della fede, nelle chiese dell’Europa occidentale, non dipenda soltanto dall’impulso proveniente dall’Illuminismo e dalla modernizzazione degli ultimi decenni, ma anche da un benessere che in gran parte è basato su un’ingiustizia strutturale di ampiezza mondiale e che non può più essere integrato psicologicamente46. Scrive G. Ruggieri, a riguardo: «la povertà della Chiesa stessa, della sequela di Gesù povero, della povertà dei mezzi impiegati nella proclamazione e nella testimonianza del vangelo, mi sembra uno dei temi più lontani, se non censurati, nell’attuale prassi delle chiese, non solo di quella italiana»47.

Eppure, prosegue, la Chiesa non può assolvere autenticamente l’unico compito che ha nella storia, cioè l’annuncio del Vangelo, se non è povera: solo nella povertà, infatti, è capace di accoglienza48. Il cenno all’accoglienza richiama un altro problema pratico del vissuto delle chiese, a cui anche lo stile povero di Gesù rimanda. Alcuni studiosi tedeschi — fra i quali Kehl e Lehmann49 — hanno sottolineato l’importanza dei contatti personali, delle relazioni con il mondo vitale dei membri normali della comunità. Sottolineatura importante, dal momento che è innegabile che oggi si pensa sempre più e solo in termini organizzativi, per cui non si parla più di singoli giovani da incontrare, ma di pastorale giovanile; non di famiglie con le loro difficoltà reali, da accostare con un cuore libero ed evangelico, ma di pastorale familiare, e via dicendo. 45

Cfr J. GNILKA, Gesù di Nazaret, cit., 232-233. Cfr M. KEHL, La Chiesa, cit., 211. 47 G. RUGGIERI, Cristianesimo, Chiese e vangelo, Bologna 2002, 287. 48 Cfr ibid., 280-281. 49 Cfr, ad esempio, K. HILLENBRAND – M. KEHL (edd.), Du führst mich hinaus ins Weite. Erfahrungen im Glauben – Zugänge zum priesterlichen Dienst, Würzburg 1990; M. KEHL, La Chiesa, cit., 424-426; K. LEHMANN, L’azione ecclesiale, Milano 1987. 46


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A questo è connessa una visione manageriale, carrieristica, e non gratuita dei ministeri nella Chiesa. Uso qui il termine ministeri nello stesso senso di Y. Congar, nel suo Ministeri e comunione ecclesiale: «nel quadro della natura fondamentale diaconale dell’esistenza cristiana, noi possiamo vedervi, in un senso generale diversi ministeri, poiché mettono in opera doni di natura e di grazia che il Signore dispone e fa servire per l’utilità comune… Proponiamo di distinguere tre livelli: 1. quello dei doni e dei servizi piuttosto occasionali, spontanei, passeggeri [es.: una coppia che si prodiga nel dare consigli ad altri coniugi, visita ai malati…]. 2. servizi analoghi, ma più stabili per il loro rapporto più diretto con le necessità e le attività abituali della Chiesa [es.: catechisti permanenti]. 3. ministeri ordinati, la cui base è sacramentale: diaconato, presbiterato, episcopato»50.

Nella prospettiva manageriale, che oscura la natura «diaconale dell’esistenza cristiana», ogni questione merita un’associazione che promuove figure laicali nelle responsabilità e su di esse viene esercitata una guida autoritaria o paternalista. Molti “operatori pastorali” sono, di fatto, entrati nel novero degli imprenditori e dei manager occupatissimi e irraggiungibili. I ministri ordinati, specialmente, sono presi da incombenze apparentemente più alte, ma in realtà più burocratiche. Tutto questo a che prezzo? Con l’avere, la vita cade sotto il dominio del calcolo e dei bilanci. Domina la legge del pareggio: uno dà per avere e riceve nella misura in cui dà. Tutto ha un suo prezzo! In questo sistema, le relazioni si riducono allo scambio, al commercio, agli affari. Tutto diventa scambiabile, sostituibile, anche le relazioni. Bisogna, pertanto, spesso ricordarsi di «questo Gesù» (At 2,32) e porsi francamente alcuni interrogativi, inerenti alcune forme storiche, esteriori, concrete della vita della Chiesa che possono fare da schermo al Vangelo. Bisogna anzitutto domandarsi, ad esempio, come faceva Congar, se ad allontanare molti nostri contemporanei non è forse «il mondo cristiano, con tutto il non-cristiano a cui è amalgamato e che si ritrova in parecchie strutture concrete, ispirate da una ricerca paternalista dell’influenza, anzi della potenza, dalla stima borghese del denaro»51. 50 51

Cfr Y. CONGAR, Ministeri e comunione ecclesiale, Bologna 1973, 40-42. ID., Vera e falsa riforma nella Chiesa, cit., 49.


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Occorre, poi, chiedersi se si lavora gratuitamente, sulla strada del Nazareno, solo per il regno di Dio, senza ricompense, senza neppure quella ricompensa costituita dall’avanzamento di carriera in un “altrove” prestigioso. La prospettiva manageriale, poi, come ha notato Lehmann, ultimamente porta al ripiegamento delle comunità su se stesse: «si amministra ciò che si ha già, i vecchi possedimenti, ma scarso è il terreno vergine che viene conquistato, o riconquistato»52. E che cosa ne è, allora, della missione della Chiesa, che non conosce barriere non solo geografiche, ma anche in tutti i vicoli e gli angoli della nostra vita? L’attuale cardinale constata con amarezza: «il grande slancio missionario del Vaticano II si è praticamente estinto»53. Vorrei concludere questo punto, in cui ho mostrato come la memoria Jesu sia pericolosa per la Chiesa, con un passo che spesso, di fatto, anche inconsapevolmente, i membri della Chiesa rischiamo di fare nostro nella sua sostanza. Mi riferisco a un brano della leggenda del grande inquisitore ne I fratelli Karamazov di F. Dostoevskij, quando il Grande Inquisitore, a Siviglia, nella notte, dice al Prigioniero: «so troppo bene ciò che potresti dire. Non hai il diritto di aggiungere nulla a quanto hai già detto una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Tu sai che la tua presenza non può che disturbarci»54.

CONCLUSIONE Nelle riflessioni introduttive, ho parlato dell’urgenza, evidenziata da Kehl, di riguadagnare la dimensione spirituale della Chiesa. Ciò può avvenire, seguendo il gesuita di Francoforte, passando per due vie che si completano a vicenda e che conducono l’una verso l’altra: la meditazione su «questo Gesù» (At 2,32) e la sequela di lui55. La meditazione — come 52

K. LEHMANN, L’azione ecclesiale, cit., 28. Ibid., 28-29. 54 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Firenze 1958, 363. Si veda l’interessante commento in F. CASTELLI, Volti di Gesù nella letteratura moderna, cit., 39-64. 55 Cfr M. KEHL, Dove va la Chiesa?, cit., 62-63. 53


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afferma s. Ignazio di Loyola, in uno dei preamboli alla contemplazione per raggiungere l’amore — conduce all’intima cognitio di Gesù, nella contemplazione amorosa56. La sequela, il seguire la via di Gesù, consente di dimorare e di incontrarlo, lì dove egli, che è stato senza dimora, ha trovato dimora, cioè presso i piccoli e i poveri con i quali si è identificato (cfr Mt 25,40). G. O’Collins, scrivendo sugli stili della teologia contemporanea, osservava come, da parte della riflessione teologica occidentale, si ha bisogno di imparare specialmente dai cristiani dell’Oriente, collocando l’inizio della riflessione teologica nella celebrazione liturgica, nella contemplazione della bellezza divina sia liturgica che extra-liturgica, nell’accoglienza anticipatrice del futuro di Gesù glorificato, mediante la preghiera personale57. In particolare, desidererei, a riguardo, fare un cenno all’esicasmo. S pidlík ha mostrato come, anche a motivo dell’approfondimento di questa spiritualità con san Simeone il Nuovo Teologo (949-1002) e poi con san Gregorio del Sinai e, soprattutto, con san Niceforo l’esicasta (XIII-XIV secolo), diventa chiaro un elemento capitale. Il ricordo di Dio riceve la sua forma concreta come ricordo di Gesù. Questo tratto mette fortemente in rilievo il carattere cristologico della preghiera. Lo scopo della preghiera sarà dunque di unire costantemente il cuore dell’orante a quello di Gesù e, con Gesù, unirsi al Padre e a tutto ciò che esiste. La preghiera giaculatoria degli esicasti, quindi, sarà la «preghiera a o di Gesù»58. Sempre secondo S pidlík, gli esicasti semplificavano progressivamente la preghiera fino all’«orazione del silenzio»59. L’esigenza del recupero della dimensione spirituale della Chiesa (Kehl) conduce, quindi, alla riscoperta del silenzio orante anche per lo studio della teologia (O’Collins). Il richiamo al silenzio orante, al ricordo silenzioso orante di Gesù (esicasmo), che dallo studio contemplativo della 56 Cfr IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali. Presentazione e note di P. Schiavone, Cinisello Balsamo 19908, n. 232. 57 Cfr G. O’COLLINS, Il ricupero della teologia fondamentale. I tre stili della teologia contemporanea, Città del Vaticano 1996, 18-19. 58 Cfr T. S PIDLÍK, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Roma 2002, 401-402. 59 Ibid., 393.


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teologia (O’Collins) dovrebbe venire fuori anche per la vita della Chiesa, mi sembra uno dei compiti del servizio della teologia alle Chiese, oggi. Nell’omelia per la messa con i membri della Commissione Teologica Internazionale, il 6 ottobre scorso, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, Benedetto XVI affermava: «la bella vocazione del teologo è parlare. Questa è la sua missione: nella loquacità del nostro tempo, e di altri tempi, nell’inflazione delle parole, rendere presenti le parole essenziali. Nelle parole rendere presente la Parola, la Parola che viene da Dio, la Parola che è Dio. Ma come potremmo, essendo parte di questo mondo con tutte le sue parole, rendere presente la Parola nelle parole, se non mediante un processo di purificazione del nostro pensare, che soprattutto deve essere anche un processo di purificazione delle nostre parole? Come potremmo aprire il mondo, e prima noi stessi, alla Parola senza entrare nel silenzio di Dio, dal quale procede la sua Parola? Per la purificazione delle nostre parole, e quindi per la purificazione delle parole del mondo, abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e così arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice […]. E il nostro parlare e pensare dovrebbe solo servire perché possa essere ascoltato, possa trovare spazio nel mondo, il parlare di Dio, la Parola di Dio. E così, di nuovo, ci troviamo invitati a questo cammino di rinuncia a parole nostre; a questo cammino della purificazione, perché le nostre parole siano solo strumento mediante il quale Dio possa parlare […]. In questo contesto mi viene in mente una bellissima parola della Prima Lettera di San Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: “Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis”. L’obbedienza alla verità dovrebbe “castificare” la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinione comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell’anima. La “castità” a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità. E penso che questa sia la virtù fondamentale del teologo, questa disciplina anche dura dell’obbedienza alla verità che ci fa collaboratori della verità, bocca della verità, perché non parliamo noi in questo fiume di parole di oggi, ma realmente purificati e resi casti dall’obbedienza alla verità, la verità parli in noi. E possiamo così essere veramente portatori della verità […].Questo mi fa pensare a sant’Ignazio di Antiochia


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Nunzio Capizzi e ad una sua bella espressione: “Chi ha capito le parole del Signore capisce il suo silenzio, perché il Signore va conosciuto nel suo silenzio”. L’analisi delle parole di Gesù arriva fino a un certo punto, ma rimane nel nostro pensare. Solo quando arriviamo a quel silenzio del Signore, nel suo essere col Padre dal quale vengono le parole, possiamo anche realmente cominciare a capire la profondità di queste parole»60.

60 BENEDETTO XVI, L’obbedienza alla verità ci fa collaboratori della verità, in L’Osservatore Romano, 13 ottobre 2006, 5.


Synaxis XV/1(2007) 29-43

LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA E LE SUE FONTI APPROCCIO FILOSOFICO, ANTROPOLOGICO ED ETICO*

EDMUND KOWALSKI**

Gli attuali sviluppi della ricerca scientifica e biomedica hanno aperto all’uomo nuove possibilità di interventi anche sulla vita umana, che possono tradursi o nella manipolazione dell’uomo stesso o nella crescita di iniziativa e di responsabilità della persona. Di qui scaturisce l’esigenza della valutazione etica di tali interventi, perché l’uomo venga sempre rispettato nella sua dignità, nel suo valore di fine e non di mezzo. È per tutti evidente lo stretto legame esistente tra etica e antropologia, e come l’agire morale affonda le sue radici nella visione antropologica. Perciò si tratta di determinare l’essere dell’uomo, e di dare risposta alla domanda “chi è l’uomo” e qual è la sua dignità (l’antropologia filosofica), prima ancora di affrontare la questione del suo “dover-essere” (l’etica filosofica). L’etica diventa — possiamo dire — antropologia filosofica precisamente perché riguarda quel sapere per cui l’uomo è “soggetto pratico” che prende decisioni ed agisce; ciò vuol dire che nelle posizioni etiche esiste sempre, esplicita o implicita, una concezione antropologica, e da questa visione dell’uomo deriveranno le posizioni etiche specifiche (ad esempio l’etica cristiana o l’etica laica). Paradossalmente, non soltanto gli aderenti della cosiddetta “sacralità della vita” fanno riferimento alla dignità umana nella loro riflessione, ma anche quelli della cosiddetta “qualità della vita” con l’ammissione dell’aborto (la dignità della donna) o dell’eutanasia (la dignità della persona gravemente ammalata). Possiamo, allora, parlare dell’uni* Testo della Disputatio tenuta presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania il 2 marzo 2006. ** Docente straordinario di Antropologia sistematica presso l’Accademia Alfonsiana di Roma.


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versalità della dignità umana e del diritto alla vita come diritti umani fondamentali e inalienabili? Se sì, quale sono le fonti di questa dignità dell’uomo in quanto persona? Proprio questa cronologia della formulazione delle domande ci indica il cammino da intraprendere. In primo luogo dobbiamo chiederci che cosa significhi “dignità umana”, per procedere poi ad enucleare e presentare le sue radici fondamentali, soprattutto sulle scie della riflessione di J. Seifert1.

1. CHE COS’È LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA? Prima di tutto, «il diritto fondamentale alla vita — secondo Seifert — è intimamente connesso con la dignità umana e trova in essa la sua condizione primaria»2. La connessione sopraccitata è talmente originale e così intima che l’Autore parla nel contempo della «dignità umana», della «dignità della vita umana», della «dignità della persona umana» e della “dignità personale». Lo stesso modo di parlare concerne anche il tema dell’uomo, che è — per il Nostro — allo stesso tempo «l’essere umano», «l’essere personale», «il soggetto», «la persona» o «la personalità». Il professore Seifert, inoltre, parlando della “dignità umana”, non ci fornisce una definizione specifica ed esauriente, ma indica le sue caratteristiche fondamentali3, le quali possiamo sintetizzare in modo seguente: a) La dignità è l’eccellenza unica del valore-bene della persona umana. Questa caratteristica indica che la dignità umana designa un valorebene oggettivo e intrinseco dell’uomo in quanto uomo. «La dignità è un valore-proprietà inerente alla persona»4. Il valore-bene chiamato dignità costituisce appunto l’intrinseca preziosità (il valore unico) e bontà di un essere (il bene assoluto), che non dipendono in alcun modo dal nostro molto 1 J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, in J. DE DIOS VIAL CORREA – E. SGRECCIA, Natura e dignità della persona umana. A fondamento del diritto alla vita. Le sfide del contesto culturale contemporaneo, Atti dell’8ª Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, Città del Vaticano, 25-27 febbraio 2002, Citta del Vaticano 2003, 193-215. 2 Ibid., 194. 3 Ibid., 196-202. 4 Ibid., 193.


La dignità della persona umana e le sue fonti

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soggettivo gusto, godimento o gradimento. Se fosse solo una questione di preferenza soggettiva (una possibilità d’attribuire un valore), non si tratterebbe neppure di dignità (essa sarebbe una cosa secondaria per rapporto alla mia gerarchia dei valori oppure al mio criterio di scegliere i valori)5. Al contrario, dignità non solo indica il valore-bene oggettivo intrinseco di una persona, ma anche un valore-bene molto alto e sublime, perché l’uomo in quanto persona possiede in senso proprio l’attributo della dignità. Il termine dignità, dunque, non designa tutti i valori sublimi ed attribuitivi, ma solo il valore di un essere realmente esistente, come la persona. Questo valore-bene unico di cui solo è dotata ogni persona — in modo innato, intrinseco e oggettivo — eleva tutte le persone ad un livello di valore-bene non paragonabile assiologicamente a nessun altro valore. b) La dignità è inseparabile dall’essere persona — l’essere persona è inseparabile dalla dignità. La seconda caratteristica della dignità umana mette in evidenza la sua originale, stretta e reciproca connessione alla natura della persona. La dignità, come valore-bene unico dell’uomo in quanto persona, non si può comprendere senza cogliere l’essenza della persona nella cui natura essa si radica. Quando consideriamo la persona come un soggetto di natura razionale individuale, unico e irripetibile (Boezio, Tommaso d’Aquino), cogliamo la dignità umana personale che è fondata solo in esso. «La persona — secondo Alessandro di Hales — è una sostanza che si distingue per una proprietà afferente alla dignità»6. L’essenza e 5 A differenza di J. Seifert utilizzo sempre il termine composto “valore-bene” per evitare tanti equivoci connessi con il termine “valore”, soprattutto da parte dall’idealismo (l’esistenza solo ideale dei valori — idee platoniche) e dal relativismo filosofico-etico (l’esistenza relativa dei valori; il soggettivismo epistemologico ed etico). Per noi, utilizzando la definizione di S. Privitera, «i valori esistono come appello insito nella stessa realtà della persona umana, come idealità che attrae continuamente il soggetto personale o come dover essere verso cui orientare il suo essere […] la loro esistenza ideale tende sempre a varcare i confini dell’idealità ed a riportarsi imperiosamente nella sfera della reale esistenza attraverso la mediazione dell’essere personale […] Perché anche l’uomo, ogni persona umana, può dare consistente esistenza ad un valore che […] porta sempre la caratteristica di valore in sé, o di valore-fine che, identificandosi con la bontà di questa o di quella persona, è meritevole di ogni considerazione e rispetto»; cfr S. PRIVITERA, Valori, in S. LEONE – S. PRIVITERA (edd.), Nuovo dizionario di Bioetica, Città Nuova, Roma 2004, 1228-1232. 6 ALESSANDRO DI ALES, Glossa, 1, 23, 9, in J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 197.


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l’esistenza reale della persona, quindi, danno origine alla sua dignità ontologica ed assiologica. E a sua volta la dignità, sebbene scaturisca dalle caratteristiche essenziali di una persona, è inseparabile dall’essere persona. c) La dignità ha il carattere inalienabile. Questa caratteristica della dignità umana si applica al valore ontologico della persona in quanto tale, perché è radicata intelligibilmente nell’essere e nell’essenza della persona. d) La dignità ha il carattere inviolabile, sacro e non negoziabile. La dignità, come valore-bene unico e non paragonabile assiologicamente a nessun altro valore, è portatrice di una relazione intrinseca con il fatto di essere il soggetto e l’oggetto della moralità e degli imperativi morali. La dignità è pertanto un caso particolare di valore-bene moralmente rilevante. La sua violazione costituisce non solo un atto immorale o uno speciale oltraggio morale, ma soprattutto fonda un male intrinseco (intrinsece malum)7. Le azioni essenzialmente e gravemente dirette contro la dignità umana sono essenzialmente ed intrinsecamente dei mali, e non possono divenire buone o permesse a certe condizioni o se praticate con buoni propositi (l’aborto procurato8). Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor (n. 80), ricordando la tradizione morale della Chiesa, ci offre più ampia e più precisa esemplificazione degli atti «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum): «contro la vita stessa» («ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia9, lo stesso suicidio volontario10» e il cosiddetto «suicidio assistito»11); «tutto ciò che viola l’integrità della persona umana» («le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito»); «tutto ciò che offende la dignità umana» («le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le 7 Gaudium et spes, 27; Reconciliatio et paenitentia, 17; Veritatis splendor, 79-83; Evangelium Vitae, 52-74. 8 J. Seifert parla soltanto dell’aborto procurato, come intrinsece malum, citando Evangelium Vitae, 58, 61, 62 e Donum Vitae I, 1. 9 «L’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana»: EV, 65. 10 «Il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l’omicidio… sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale»: EV, 66. 11 «Condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto ‘suicidio assistito’ significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta»: EV, 66.


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deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno») (Gaudium et spes, 27). Tale dignità indica, quindi, una dimensione o una portata sacra della persona (la sacralità della dignità-vita umana), che rende intangibile e inviolabile il suo valore-bene unico, proibendo di agire contro tale dignità, per qualunque ragione. «Il fatto che la dignità umana sia inviolabile — spiega J. Seifert — non vuol dire ovviamente che non può essere violato ciò che la possiede, ma che una persona dotata di dignità non andrebbe mai violata quanto a ciò che costituisce questa dignità»12. Inoltre, citando la Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e La metafisica dei costumi (1797) di I. Kant13, Seifert indica che la dignità della persona eccelle su qualunque cosa che abbia un prezzo (la dignità è un valore-bene che non ha equivalenti), perché ha un carattere assoluto come il valore insostituibile di un essere, che non ammette nessuna negoziazione o offesa. Dunque all’uomo è dovuto il rispetto assoluto che vieta di usare un essere umano come semplice mezzo. e) La dignità umana è la più grande e la più perfetta in tutta la natura creata per il suo carattere di immagine di Dio. Questa caratteristica bimembra di Seifert, riportata da s. Anselmo di Canterbury e da s. Tommaso d’Aquino, indica la suprema e la più perfetta dignità umana perché l’uomo è somigliante in modo affatto speciale a «ciò di cui non si può pensare il più grande» (id quo maius nihil cogitari posse), per il suo carattere di immagine di Dio14. S. Tommaso fa riferimento a questa relazione con l’assoluta perfezione divina nella sua spiegazione della definizione di persona nei termini della dignità umana: «persona sta ad indicare ciò che più perfetto in tutta la natura, cioè un essere individuale sussistente di natura razionale»15.

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J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 201. Ibid., 200. 14 ANSELMO DI CANTERBURY, Prologium, capitoli 2-3, in J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 201. 15 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 29, a.3, r. 1, in J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 201. 13


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2. LE QUATTRO FONTI DELLA DIGNITÀ UMANA Seguendo continuamente la riflessione di J. Seifert dobbiamo adesso presentare la cornice in cui s’inquadra la dignità umana con le sue quattro fonti16, spesso identificate — come vedremo — con i suoi livelli oppure appunto con i diversi tipi della medesima: 1. L’essere uomo in quanto persona è la fonte primaria della dignità umana. La prima fonte della dignità umana appare chiaramente considerando come nessuna esperienza o atto cosciente dell’uomo possano esistere per se stessi (come lo voluto, al contrario, Cartesio dicendo penso, allora sono), ma necessitano di un essere-soggetto (perché sono, allora penso o meglio “sono pensando”). Tale “soggetto pensante e agente” deve sussistere in sé nell’essere. Tale soggetto, inoltre, che sussiste in sé ed è soggetto di atti razionali deve essere un soggetto semplice e spirituale. E questo soggetto è una persona solo se possiede una natura razionale secondo la celebre definizione di Boezio: «Persona est rationabilis naturae individua substantia» («La persona è la sostanza individuale di natura razionale»). L’essere uomo richiede, quindi, sia l’essenza razionale e intellettuale che l’esistenza concreta e individuale dell’essere soggetto che chiamiamo persona. Di più, la persona non è mai essenza astratta, ma sempre individualmente esistente e incomunicabile (Riccardo di San Vittore). In conclusione possiamo constatare che l’essenza di una natura razionale, così come l’esistenza e la vita di un insostituibile individuo si compenetrano nell’origine della dignità umana personale. L’essere umano possiede la dignità inalienabile non solo “quando funziona come persona”, come vogliono gli aderenti della concezione funzionalista della persona (le sue attualizzazioni tracciano i criteri d’essere “persone in potenza” o soltanto “potenziali persone”17 – si pensa innanzitutto all’utilitarismo di 16 Ibid., 202-215; W.E. May, invece, parla soltanto di tre tipi della dignità umana: “in quanto persone”, “in quanto agenti morali” e “in quanto figli di Dio, fratelli e sorelle di Gesù, membri della famiglia divina”: cfr W.E. MAY, Dignità umana e ricerca biomedica: le rispettive posizioni del soggetto della ricerca e del ricercatore, in PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Etica della ricerca biomedica per una visione cristiana, Città del Vaticano 2004, 175177. 17 Ad esempio, H. T. Engelhardt presenta la distinzione tra “vita umana” e “vita umana personale” con l’unico criterio della sua qualità: vita dotata o non-dotata di


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P. Singer e al contrattualismo di H. T. Engelhardt), ma la possiede in virtù del suo essere persona (la concezione-teoria sostanzialista e ilemorfica della persona). «In effetti, proprio grazie al recupero della dimensione ontologica — conferma L. Palazzani — si può affermare che l’essere umano ‘è’ persona in virtù della sua natura razionale, non ‘diventa’ persona o ‘cessa’ di essere persona in forza della presenza o della assenza di certe condizioni o della presenza dell’esercizio effettivo di certe funzioni (la sensitività, la razionalità, l’autocoscienza, la volontà)»18. Se l’essere uomo-persona appartiene all’ordine ontologico, allora lo stesso essere sostanziale dell’uomo e le sue potenze fondano la sua dignità umana in quanto persona, che possiamo chiamarla quindi la «dignità puramente ontologica della persona»19. A propos, i due dominanti concetti antropologici, a mio avviso, non dovrebbero essere sempre letti in forma antagonistica, perché non si escludono necessariamente quando mettiamo in evidenza il fatto che le funzioni umani sia vitali che razionali, non avendo un ragion d’essere in sé e per sé, esigono e allo stesso tempo indicano il suo originario e necessario “centro dispositivo unitario e permanente”, cioè l’essere uomo-persona come la loro condizione sine qua non. Queste funzioni, che posso chiamarne i “miei”, esistono solo come attività e proprietà accidentali “del” mio “io” in quanto individuo umano personale o — come vorrebbe L. Palazzani — «che ne è il referente unitario e permanente, la condizione ontologica reale»20. 2. La seconda fonte della dignità umana è la coscienza e l’attuazione della personalità. J. Seifert rifiutando totalmente la tesi di P. Singer, secondo la quale «il valore degli esseri umani possa risiedere solamente nella loro capacità attuale di pensare, di volere, ecc.»21, presenta la seconda fonte della dignità umana che «si esprime nell’acquisizione di quei diritti umani che non sono — come è invece il diritto alla vita — fondati razionalità e del senso morale minimo; cfr H. T. ENGELHARDT, Manuale di Bioetica, Milano 1999, 154-155. 18 Cfr L. PALAZZANI, Medicina al servizio della vita: a dieci anni dalla Evangelium Vitae, in StMor 43 (2005) 573-74. 19 J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 204. 20 L. PALAZZANI, Medicina al servizio della vita, cit., 573. 21 J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 205.


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sull’essere stesso della persona, sul suo carattere sostanziale, ma sui differenti gradi di consapevolezza e di maturità», chiamata da lui «dignità della personalità risvegliata» o «dignità della consapevolezza razionale attuale»22. Come si possa parlare della dignità umana di questo genere dinanzi all’assenza della coscienza in esseri umani in stato vegetativo permanente o in stato di incoscienza e soprattutto nell’essere embrione umano? Naturalmente, una soluzione si può trovare per rapporto alla prima fonte della dignità della persona, ma non in modo di una semplicissima cronologia delle cause. La prima dignità personale, quella puramente ontologica, è tanto profondamente ordinata — secondo Seifert — che trova nella seconda la sua realizzazione in quanto condizione di tutti gli atti personali (la dignità dell’attualizzazione della personalità). Malgrado questa constatazione, l’Autore ha subito aggiunto, che la seconda fonte della dignità umana e dei diritti umani «può infatti andare perduta nella cosiddetta morte celebrale, nel coma irreversibile», dunque, «questa seconda dimensione» (già non fonte), con i diritti che in essa si radicano, «non sono inalienabili come la dignità e i diritti che si fondano semplicemente sulla sostanza, sull’esistenza e sull’essenza della persona». «Questa seconda dimensione della dignità personale è inalienabile, fintantoché la persona ha una vita cosciente»23. Per approfondire la riflessione sopraccitata di J. Seifert dobbiamo aggiungere qualche precisione. L’attribuzione della caratteristica della razionalità alla persona umana, ha dato origine a molte ambiguità. La razionalità va intesa come capacità di esercizio attuale o come attributo che connota la sostanzialità della persona? Nella prima ipotesi si esclude dal riconoscimento della dignità di persona ogni soggetto che non esercita attualmente il raziocinio: non sarebbero persone i dormienti, gli handicappati mentali, ma nemmeno gli embrioni umani (H.T. Engelhardt, N.M. Ford, C. Grobstein, R. McCormick, T.A. Shannon, P. Singer, A.B. Wolter). Se, al contrario, la ragione indica l’attributo appartenente alla natura umana, ogni soggetto anche non esercitante attualmente la funzionalità celebrale neurologico-sinaptica, è persona in quanto sostanza individua dotata per natura di ragionevolezza. Cosa s’intende per natura umana? Il termine 22 23

Ibid., 205-207. Ibid., 206.


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“natura” assume un significato peculiare in quanto riferito all’uomo. Giacché quest’ultimo è unità sostanziale di razionalità e di corporeità, la sua natura non può essere limitata alla dimensione biologica, ma deve tener conto della sua dimensione spirituale, e viceversa; entrambe costituiscono in modo peculiare la natura umana in quanto umana e sono imprescindibili per capire l’uomo24. La natura umana così intesa risolve l’antico problema dell’unità dell’anima e del corpo, per cui lo spirito «si incarna» e il corpo si «spiritualizza» (Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie Gratissimam sane, 19: «Il corpo non può mai essere ridotto a pura materia: è un corpo ‘spiritualizzato’, così come lo spirito è tanto profondamente unito al corpo da potersi qualificare uno spirito ‘corporeizzato’»). «In forza della sua unione sostanziale con l’anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni, né può essere valutato alla stessa stregua del corpo degli animali, ma è parte costitutiva della persona che attraverso di esso si manifesta e si esprime» (Donum Vitae, 3). «Ogni persona umana, nella sua singolarità irripetibile, non è costituita soltanto dallo spirito ma anche dal corpo, così nel corpo e attraverso il corpo viene raggiunta la persona stessa nella sua realtà concreta. Rispettare la dignità dell’uomo comporta di conseguenza salvaguardare questa identità dell’uomo corpore et anima unus...» (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti della 35a Assemblea generale dell’Associazione medica mondiale, 29.10.1983). È vero che a noi la persona si presenta tramite le manifestazioni della razionalità. Questo non significa, però, che siano le manifestazioni stesse a costituire la persona. Esse sono la maschera tramite la quale risuona la persona, il soggetto25. Non si può affermare con verità che non c’è persona dove ancora non si danno manifestazioni della persona. Un individuo non è persona perché si manifesta come tale, ma, al contrario, si manifesta così perché è persona: agere seguitur esse. Il criterio fondamentale si trova nella natura propria dell’individuo. Quando vedo un individuo che appartiene alla specie biologica del cane, capisco che ha la “natura canina”, benché non manifesti 24 Cfr R. LUCAS LUCAS, Natura e libertà, in ID., «Veritatis splendor»: testo integrale e commento filosofico-teologico tematico, Cinisello Balsamo 1994, 268-286. 25 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, Paris 1935, 68-69 (trad. it., Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano 1955, 88-90).


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ancora, o temporalmente, le capacità di questa natura. Quando vedo un individuo della specie biologica umana, capisco che ha la “natura umana”. Quest’essere che ha natura umana, natura razionale, lo chiamiamo persona. «L’essere umano ‘è’ persona in virtù della sua natura razionale, non ‘diventa’ persona in forza del possesso attuale di certe proprietà, dell’esercizio effettivo di certe funzioni, del compimento accertabile empiricamente di certe azioni. In altre parole, ciò che è rilevante per il riconoscimento dell’essere persona è l’appartenenza, per natura, alla specie umana razionale, indipendentemente dalla manifestazione esteriore in atto di certi caratteri, operazioni o comportamenti. Non si è più o meno persona, non si è “pre-persone” o “post-persone” o “sub-persone”; o si è persona o non si è persona. I caratteri essenziali della persona non sono soggetti a cambiamento (solo i caratteri accidentali e contingenti crescono e diminuiscono in misura o in grado maggiore o minore), bensì sono presenti sin dal momento in cui si forma la sostanza e si perdono quando essa si dissolve»26. 3. La terza fonte è la realizzazione della vocazione personale alla trascendenza e alla dignità morale. L’uomo in quanto persona — come abbiamo visto prima — è il valore-bene unico ed assoluto (in sé e per sé) e si snoda nei valori-beni. Grazie alla sua natura razionale l’uomo è capace non soltanto di conoscere i valori-beni, ma anche realizzarli attraverso i suoi atti umani, razionali e liberi, cioè responsabili. Questa conoscenza e realizzazione auto-trascendente della persona comprende anche la relazione ad un tu, ad un altro, incluso Dio, e ultimamente il dono di sé nell’amore e nella formazione della “comunità delle persone” (famiglia, società, Chiesa). Siamo, quindi, di fronte al livello qualitativo e prevalentemente morale della dignità umana. Riguardo al livello della dignità morale della persona si tratta appunto di una conquista (diventare una persona perfetta, santo27) e non di un possesso (G. Marcel), perché essa dipende dal buon uso dell’intelletto (conoscere la verità) e della libertà (realizzare il bene). Non sono, invece, d’accordo con le tre constatazioni fatte da parte di Seifert28 a questo proposito: 1) «Questa dignità non è inalienabile, né ci appartiene automaticamente in quanto persone»; 2) «È piuttosto il frutto 26 27 28

L. PALAZZANI, Medicina al servizio della vita, cit., 573-574. J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 211. Ibid., 210.


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degli atti morali buoni e perciò si distingue radicalmente dal primo tipo di dignità» (cioè da quella ontologica); 3) «con le sue azioni malvagi l’uomo (ad esempio, citato Hitler) perde ogni dignità morale». Ricordiamo bene quando Seifert, parlando della dignità umana in quanto tale, ha sottolineato che essa è: il valore-bene unico e non paragonabile assiologicamente a nessun altro valore; portatrice di una relazione intrinseca con il fatto di essere il soggetto e l’oggetto della moralità e degli imperativi morali; un caso particolare di valore-bene moralmente rilevante: la sua violazione costituisce non solo un atto immorale o uno speciale oltraggio morale, ma soprattutto fonda un male intrinseco (intrinsece malum). In questo contesto ontologico-assiologico possiamo dire che l’essere uomo non esiste mai come “puro” e “statico” essere. In primo caso, l’essere uomo richiede sia l’essenza razionale e intellettuale che l’esistenza concreta e individuale dell’essere soggetto che chiamiamo persona. La natura umana personale è la natura ontologicamente rilevante perché è la natura assiologica e morale (“razionale”, quindi normativa e obbligatoria; è l’“immagine di Dio”, cioè partecipa nella bontà-perfezione divina come co-Essere; ed è diretta verso l’ultimo Valore-Bene-Fine) e vice versa, perché è la natura assiologicamorale (il valore-bene unico e non paragonabile assiologicamente a nessun altro valore) è la natura ontologicamente rilevante29. In secondo caso, non sono l’essere “statico”, perché sono sempre l’uomo-persona e allo stesso tempo sono e divento sempre l’uomo-persona, e poiché il mio essere è sempre il mio dover-essere verso me stesso e verso gli altri (sono sempre l’essere in relazione). Inoltre, la mia coscienza filosofica è sempre la mia coscienza morale, quindi, non posso non essere il soggetto morale-agente. 4. La quarta fonte: le relazioni estrinseche e i doni individuali di vario genere. Questa fonte e dimensione della dignità personale, chiamata da Seifert «la dignità come dono», non dipende dal suo essere personale sostanziale né dalla coscienza, e neanche dal buon uso dell’intelligenza e della libertà. Essa procede, invece, dai quei doni che superano ciò che si situa unicamente nell’essere uomo-persona. I doni che conferiscono a tutti o ad alcuni particolare dignità possono essere: 1) i doni naturali immanenti 29 A questo proposito J. Seifert afferma direttamente: «Allo stesso modo, (‘i doni estrinseci’ — E. K.) non sono soggette al potere dell’uomo dotato di dignità, come la terza fonte della dignità è in larga parte»: ibid., 214: nota n. 44.


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alla persona (ad esempio la bellezza, l’intelligenza o la genialità); 2) i doni ricevuti attraverso i ruoli e le funzioni sociale o la relazione con altre persone (l’amore); 3) i doni che superano la natura razionale immanente della persona nell’ordine della grazia e della vocazione (la presenza e l’amore di Dio, la redenzione e il rinnovamento della natura). I primi due tipi dei doni fondano la dignità come dono conferita umanamente, il terzo tipo fonda quella conferita divinamente30. L’uomo può decidere il senso e il valore della sua vita, e questo implica in lui — secondo R. Lucas Lucas — una certa “imperfezione” o una “indeterminazione sostanziale”. «La perfezione umana presenta un doppio aspetto; da una parte è dono gratuito, un dato a nativitate; dall’altra è frutto della spontaneità e della libertà del soggetto. In questo modo l’uomo presenta necessariamente una distanza metafisica tra la perfezione ottenuta a nativitate e la determinazione del significato e valore della sua esistenza mediante l’atto di libertà. E questa imperfezione sostanziale, cioè la natura spirituale, quella che fa si che l’uomo possa considerarsi allo stesso tempo come sostenuto da essa e come ciò che la supera. La natura spirituale dell’uomo, quantunque determinata e specifica, è costituita essenzialmente da una indeterminazione fondamentale, e, ancor più, questa indeterminazione fondamentale è costituita dello stesso dato determinato a nativitate. Questo vuol dire che la natura umana è natura (determinazione), ma natura aperta (indeterminazione). Questa indeterminazione fondamentale non è un limite, come negli esseri infraumani, ma una perfezione: è apertura, spiritualità, libertà fondamentale»31. «L’uomo, anche se dotato di una natura, possiede una indeterminazione fondamentale che è la radice della sua libertà. L’uomo presenta, pertanto, nella sua struttura intima uno squilibrio, o, come ho detto prima, una certa imperfezione sostanziale, che è il fondamento ontologico della sua libertà e che costituisce la sua miseria e la sua grandezza: finito e infinito, chiuso e aperto, condizionato e libero; è, in una parola, spirito incarnato: persona umana, essere relazionale. La persona è, di conseguenza, spiritualità-alterità»32. «La persona ha qualcosa 30

J. SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, cit., 214. Cfr J. DE FINANCE, Esistenza e libertà, Città del Vaticano 1990, 219-220; ID., Connaissance de l’Etre, Paris 1966, 300-302. 32 R. LUCAS LUCAS, Antropologia e problemi bioetici, cit., 111-112. 31


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di ineffabile perché anche la sua spiritualità-alterità è ineffabile. Per definire completamente la persona è necessario giungere a questa percezione dell’“io”, che è un dato immediato della coscienza. Là difficoltà di definire la persona proviene dalla sua incomparabile sublimità. Anche l’essere è indefinibile, e la persona è per eccellenza co-Essere, dono, apertura, relazione»33. Inoltre, «non è necessario che tutte le capacità organiche abbiano raggiunto il pieno sviluppo perché lo spirito sia presente; una conferma di questo si può vedere nel fatto che l’intelligenza e la volizione, capacità specifiche dello spirito umano, si manifestano soltanto molto tempo dopo la nascita». «Allo stesso modo, come il bambino, senza trasformarsi in altro, diventa uomo, così l’ovulo fecondato è realmente un essere umano e non si trasforma in un altro durante lo sviluppo. Dunque, lo sviluppo genetico dell’uomo non implica cambio di natura, ma semplicemente una manifestazione graduale delle capacità che possiede fin dall’inizio, perché lo spirito umano è presente dal primo momento». «La persona adulta è, certamente, più matura nella sua dimensione biologica, psicologica e morale che quando era embrione, ma tale maturazione è avvenuta nell’ambito della medesima identità di essenza. Non si può con coerenza logica affermare che una persona a cinquanta’anni è più persona di un embrione, di un bambino, o di un qualsiasi altro uomo»34.

CONCLUSIONE Alla fine della nostra riflessione, in una grande e semplice sintesi, possiamo tirare alcune conclusioni. Prima di tutto, dobbiamo constatare che un’equivocità teoretica, sia epistemologica che semantica, rende per certi aspetti i termini “dignità” e “persona” flessibili, dunque adattabili alle diverse e anche opposte esigenze pratiche del pluralismo bioetico. In secondo luogo, si registra la mancanza di una conseguenza teoretico33

Ibid., 112. R. LUCAS LUCAS, Statuto antropologico dell’embrione umano, in PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Identità e statuto dell’embrione umano, Città del Vaticano 1998, 159185: 180-181; ID., Antropologia e problemi bioetici, Cinisello Balsamo 2001, 90-119. 34


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speculativa nella formulazione della concezione della dignità umana da parte dell’Autore: prima si dichiara che la «dignità è un valore-proprietà inerente alla persona», inseparabile dall’essere persona, che ha il carattere inalienabile, inviolabile, sacro e non negoziabile e la sua violazione fonda un male intrinseco (intrinsece malum) e poi si parla dei diversi tipi della stessa dignità umana che non tutti sono inalienabili. «In effetti — afferma L. Palazzani — il riconoscimento della dignità e dei diritti dell’essere umano può, in linea di principio, prescindere dalla tematizzazione del concetto di persona. Il concetto di persona non è indispensabile per la morale e per il diritto. Ne è una prova concreta il fatto che per secoli nella tradizione occidentale, nell’antichità greca e romana precristiane, si è parlato di uomo e di dignità umana senza avere elaborato ancora il concetto di persona. Anche nel pensiero orientale è stata riconosciuta sul piano teoretico la valenza morale e giuridica dell’essere umano. La stessa dottrina dei diritti umani considera l’essere umano in quanto tale, non introducendo la categoria di persona»35. Non si può, invece, dimenticare che la nozione di persona è stata proprio teorizzata dalla filosofia cristiana con la precisa finalità di caratterizzare in modo pertinente l’essere umano e di giustificare la sua centralità assiologica-normativa. Riconoscere lo statuto di persona all’essere umano significa — secondo Palazzani — dire qualcosa di più della mera rilevazione empirica o psicologica dell’umanità biologica dell’essere. L’identificazione fattuale dell’essere umano come persona esplicita, a livello filosofico-antropologico, i caratteri propri e le proprietà costitutive dell’essere umano, spiegando, in ultima istanza, il fondamento del suo valore-bene unico e dei suoi diritti36. Il riferimento al sostanzialismo e all’ilemorfismo (in riferimento alla spiegazione della natura umana razionale) — nella definizione della persona formulata da Boezio e riformulata più compiuto da Tommaso d’Aquino — consente di giustificare la presenza nell’uomo di un principio specifico ontologico di unificazione delle proprietà e di permanenza delle funzioni e degli atti, presente indipenden35 L. PALAZZANI, I significati del concetto filosofico di persona ed implicazioni nel dibattito bioetico e biogiuridico attuale sullo statuto dell’embrione umano, in PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Identità e statuto dell’embrione umano, cit., 68-69. 36 Ibid., 69.


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temente dalla loro manifestazione esteriore attuale. La presenza di un principio sostanziale consente di riconoscere lo statuto attuale della persona nell’essere umano anche in condizioni di “potenzialità” o di “privazione”, ossia di non attuazione, momentanea o permanente di certe funzioni, dovuta all’incompletezza dello sviluppo (nel caso dello zigote, dell’embrione, del bambino) o alla presenza di fattori, esterni o interni, che ne impediscono la manifestazione (nel caso della malattia mentale, dello stato vegetativo persistente). L’impercettibilità quantitativa dell’embrione o del neonato, così come la crepuscolarità esistenziale dell’anziano o del malato terminale non li rendono, ontologicamente, assiologicamente, moralmente o spiritualmente, meno persone37. Infine, per evitare fraintendimenti e confusioni si dovrebbero tener distinti i concetti di persona e di personalità. «La personalità ha un significato prevalentemente psicologico — secondo R. Lucas Lucas — e indica l’insieme di qualità-difetti, innati o acquisiti, che caratterizzano un individuo; la persona invece è il soggetto (sub-iectum) di quelle doti. La persona non cambia, non è alterabile, non è in divenire: o c’è o non c’è; la personalità invece è soggetta alle trasformazioni mediante l’educazione e gli influssi esterni; così si può parlare di “migliorare la personalità”, di “cambiamento di personalità”. La persona si riferisce al sostrato ontologico della natura umana, mentre la personalità fa riferimento alle qualità accidentali e all’esercizio di esse»38.

37 38

Ibid., 73-74. R. LUCAS LUCAS, Statuto antropologico dell’embrione umano, cit., 181.



Synaxis XV/1(2007) 45-87

TEOLOGIA TRINITARIA E COMUNITÀ POLITICA NEL PENSIERO DI ANTONIO ROSMINI

FRANCESCO CONIGLIARO*

PREMESSA Gli studiosi hanno discusso molto sulla dimensione fondamentale del pensiero di A. Rosmini. In passato, essi erano soliti pronunciarsi a favore del carattere prevalentemente filosofico di tale pensiero1. Il percorso da loro seguito è duplice: quelli di orientamento “laico” — facciamo pure ricorso a questo termine abusato — hanno studiato e valutato il pensiero rosminiano in chiave quasi esclusivamente filosofica e, dunque, non hanno avuto dubbi circa il primato del livello filosofico nell’intera riflessione rosminiana; gli studiosi di orientamento cristiano, anche perché preoccupati dalla condanna ottocentesca delle “40 proposizioni”, che sono gravide di problematiche teologiche, hanno proposto come ovvia la stessa interpretazione. Nell’età, che dalla fine del Concilio Vaticano II arriva ai nostri giorni, a motivo dell’impegno e del lavoro di un buon numero di studiosi, è stato fatto un enorme recupero della teologia rosminiana. Di conseguenza, si evita di parlare dei cosiddetti errori del Rosmini, che hanno alimentato una vicenda incresciosa, si considera la causa di beatificazione del Roveretano, già avviata, una felice opportunità per riscattarne compiutamente la fama e si tende ad invertire la linea discorsiva, sostenendo che il Rosmini è fondamentalmente un teologo. * Docente di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Palermo. 1 Del carattere pressoché universale della diffusione di una siffatta opinione si lamenta il rosminiano Riva: cfr C. RIVA, Tematica teologica in Rosmini, in Rivista rosminiana 61 (1967) 274 s.


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Secondo questa prospettiva, la filosofia, nell’impostazione rosminiana, avrebbe un ruolo ancillare; non, però, nei confronti della teologia, bensì nei confronti dell’Evangelo2, e cioè di ciò che sia nella filosofia che nella teologia, cristianamente intese, ha un ruolo normante. A questo proposito, ricordiamo studiosi come Staglianò, il quale parla di priorità della prospettiva teologica nel pensiero rosminiano3, e Lorizio, il quale nota anche nelle opere filosofiche del Roveretano, oltre che in quelle “formalmente teologiche”, sia l’impegno ad intrecciare il sapere filosofico con il duplice atteggiamento del teologo dell’auditus fidei e dell’intellectus fidei, sia l’adozione di una visione profondamente teologica4. Non pochi anni prima di questi studiosi, ed esattamente nel 1973, operando come un pioniere nell’ambito degli studi della teologia rosminiana, e precisamente nel particolare ambito degli studi dell’antropologia teologica rosminiana, avevamo già parlato dell’attribuzione alla teologia, da parte del Rosmini, di un ruolo di sviluppo e di completamento nei confronti dei vari problemi filosofici5. Non eravamo pervenuti al ribaltamento del rapporto tra filosofia 2

Cfr G. LORIZIO, Rosmini teologo, in P. ZOVATTO (ed.), Introduzione a Rosmini, Stresa – Trieste 1992, 75. 3 «Si impone, infatti, una ricomprensione globale del pensiero rosminiano a partire dalla sua teologia, stabilendo la priorità della prospettiva teologica nell’approccio ermeneutico a Rosmini»: A. STAGLIANÒ, La centralità di Cristo nella Teologia di Antonio Rosmini, in La scuola cattolica 116 (1988) 138. 4 «In primo luogo ci sembra di poter concludere che alla domanda sul Rosmini teologo non si possa rispondere semplicemente stabilendo se il Roveretano ha fatto teologia ed analizzando le modalità del suo teologare, bensì cercando anche di decidere se egli abbia o meno fatto proprio il duplice atteggiamento dell’auditus fidei e dell’intellectus fidei, proprio del teologo, e non solo in quelle che la scolastica più recente chiama le opere “formalmente teologiche”, bensì nel suo fondamentale rapportarsi alla Verità, che non si può cogliere se non a partire dall’idea di Sapienza. […] In secondo luogo e conseguentemente non sembra fuori luogo affermare che Rosmini è teologo non perché scrive di teologia, bensì in quanto adotta una visione profondamente teologica anche nella sua filosofia, che ha comunque una destinazione alla teologia. Anche se non avessimo opere teologiche scritte da Antonio Rosmini, l’indagine sul suo sapere teologico, da cogliere in filigrana in tutta la sua produzione, sarebbe più che giustificata»: G. LORIZIO, Rosmini teologo, cit., 75. 5 «La teologia rosminiana è frammentaria ed asistematica, e nella economia del pensiero del Roveretano ha un ruolo solo come sviluppo o completamento dei singoli problemi filosofici. Lo scopo del nostro studio non sarà né la giustapposizione di parti eterogenee, né l’imposizione al Rosmini di premesse o di ragionamenti o di conclusioni, ma


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e teologia, ma proponevamo chiaramente una visione complementare tra le due branche del sapere6. La stretta relazione tra filosofia e teologia è un punto, certamente fondamentale ma solo un punto, dell’ambizioso progetto rosminiano di presentare una reimpostazione globale del pensiero cristiano, fino alla produzione di una vera e propria enciclopedia7. Con il nostro presente contributo, intendiamo mostrare un frammento della ricordata complementarità tra teologia e filosofia nel pensiero di A. Rosmini. Si tratta del rapporto tra la teologia trinitaria e la comunità politica. In particolare, si tratta del rapporto tra la dottrina teologica trinitaria della pericwérhsiv (circuminsessio, pericoresi), che considera le tre divine persone unite in un unico dinamico rapporto di interpersonale comunione reciproca, fino al punto da essere un unico evento vitale, e la comunità politica, costituita da persone umane, ciascuna delle quali è concepita come relazione sussistente. Il Rosmini, che ha approfondito entrambi i temi, non li ha mai posti, almeno a nostra conoscenza, in tensione. A nostro sommesso parere, però, se si tentasse di attivare una siffatta tensione, si potrebbe pervenire ad ipotizzare, anche forzando la mano al Rosmini o addirittura dando fecondità al suo pensiero oltre gli stessi confini da esso raggiunti, una sorta di analogia proportionalitatis tra la comunità intratrinitaria, costituita dalle tre persone divine in eterna e simultanea relazione pericoretica, e la comunità politica, composta da persone umane, identificate come relazioni sussistenti. Dalla perfezione assoluta della relazionalità e della comunione intratrinitarie, principio di ogni essere e di ogni relazione, discendono alla comunità politica, anch’essa relazionalità e comunione, ma creaturali, finite ed imperfette, il progetto, la norma e la critica di ogni relazione interpersonale.

la ricerca dell’unica linea del discorso filosofico-teologico rosminiano»: F. CONIGLIARO, Immanenza e trascendenza del soprannaturale in Rosmini, Palermo 1973, 12. 6 Cfr ibid., 24. 7 Cfr, ad esempio, A. ROSMINI, A Don Antonio Riccardi a Bergamo, 13 Febbraio 1833, in ID., Epistolario filosofico, a cura di G. Bonafede, Trapani 1968, 207-211.


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1. LA TEOLOGIA TRINITARIA DI A. ROSMINI Il Rosmini volge sovente l’attenzione alla teologia trinitaria. Il momento più conosciuto è quello prevalentemente filosofico, costituito dalle tre forme dell’essere e dal loro sintesismo. Un momento non altrettanto noto e prettamente teologico è quello della concezione pericoretica della dinamica dell’evento trinitario.

1.1. Le tre forme dell’essere ed il loro sintesismo La teoria dell’essere triniforme (reale, ideale, morale) e la legge del “sintesismo” che la norma sono passi importanti lungo il percorso conoscitivo che porta alla Trinità8. Le tre forme dell’essere ed il loro sintesismo attestano sia l’appartenenza intrinseca della molteplicità ontologica all’essere9, sia la perfetta permanenza dell’essere nella sua unità10. Ovviamente, l’unità a cui il Rosmini pensa non è monodica bensì dialettica e, dunque, vibrante di tensioni. Questo discorso può essere fatto perché le tre forme dell’essere sono pensate quali similitudini e vestigia della Trinità divina nel mondo11, certamente del tutto inadeguate, ma pur sempre similitudini e vestigia12. Il Rosmini è convinto del carattere filosofico della dottrina delle tre forme dell’essere13. Nonostante ciò, non tutti i suoi interpreti coltivano il

8

Cfr ID., Teosofia, Roma – Milano 1838, 1941, voll. 8, nn. 160, 166, 190, 199, 206. Cfr ibid., vol. V, lib. V, cap. XXX. 10 Cfr ibid., nn. 166, 181, 188. 11 «Gli uomini riserbavano all’essere reale propriamente il nome di essere o di ente; che all’incontro all’essere (ideale) davano più di frequente il nome di verità; e all’essere (morale) quello di bene; e che l’essere, il vero, e il bene erano appunto stati i tre elementi, a cui l’antica filosofia aveva ridotte tutte le supreme nature dell’universo. Ora questa io credo essere appunto la formula che più completamente di tutte esprime il vestigio della Trinità, del quale è segnato il mondo»: A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, voll. 2, Roma 1955-1956, I, sez. I, cap. VII, art. I, pgr. 5. 12 Cfr A. ROSMINI, Lettera a Giuseppe Roberto Setti, 1844, in ID., Epistolario completo, Casale Monferrato 1887-1894, vol. VIII, lett. 5047. 13 Cfr ID., Teosofia, cit., nn. 172-175. 9


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medesimo convincimento14. Da parte nostra, riteniamo di poter dire sia che il linguaggio e la dinamica del discorso del Roveretano attingono alla tradizionale dottrina cristiana dei vestigia Trinitatis ed ai vari tentativi dei teologi cristiani di spiegare il mistero trinitario15, sia che l’esigenza di liberare la tensione dell’essere verso l’unità, da lui fortemente sentita, dal rischio di cadere nel monismo idealistico, trova una via feconda nella dottrina delle tre forme dell’essere e del loro sintesimo16. In ogni modo, nonostante le differenze, tra il mistero trinitario e le tre forme dell’essere le analogie sono moltissime; ed il Rosmini non manca di metterle in evidenza. Speciale attenzione merita l’analogia che lega il rapporto tra l’unica essenza dell’essere e le sue tre forme, da una parte, ed il rapporto tra l’unica sostanza divina e le tre divine persone, dall’altra. Il Roveretano si esprime nel modo seguente: «Le tre forme poi dell’essere, ove si trasportino nell’Ente assoluto, non si possono più concepire in altro modo, che come persone sussistenti e viventi. Essendo dunque quelle tre forme inconfusibili, perché hanno una cotal relazione di opposizione tra loro, e non potendo cadere nell’Essere assoluto nessuna divisione reale, non c’è altra via d’intendere, come l’essere sussista in quelle tre forme, se non supponendo che egli sussista tutto intero in ciascuna. Ma se sussiste tutto intero in ciascuna, egli deve sussistere in ciascuna come vivente, come intelligente, come atto primo e puro, il che è quanto dire con que’ caratteri appunto che sono i distintivi essenziali della personalità»17.

La dinamica logica ed ontologica dell’analogia consente al Rosmini di dire che le tre forme dell’essere, costituendo in Dio le tre relazioni infinite sussistenti e sussumendo, ciascuna a suo modo, l’unità radicale dell’essenza dell’essere, si realizzano in grado sommo ed assoluto in lui, in quanto solo in lui hanno la possibilità di trovarsi in un equilibrio perfetto di distinzione e di unità. Infatti, solo in Dio le tre forme dell’essere trovano una realizza14

Non è questo il momento di impegnarsi in una tale indagine. Pertanto, rimandiamo alle poche indicazioni da noi date a suo tempo a questo proposito: cfr F. CONIGLIARO, Immanenza e trascendenza del soprannaturale in Rosmini, cit., 144-149. 15 Cfr A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, cit., I, sez. I, cap. VII, art. I, pgr. 8. 16 Cfr ID., Teosofia, cit., n. II s. 17 Ibid., n. 196.


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zione perfettamente adeguata alla loro purezza formale; in ogni altra realizzazione, invece, a motivo della finitezza e della contingenza del mondo creaturale, la perfezione formale si trova attuata solo in parte18.

1.2. La metafisica della carità e la pericwérhsiv trinitaria A. Rosmini si ispira alla rivelazione biblica ed alla teologia cristiana per alimentare non solo la sua particolare concezione della metafisica dell’essere, come abbiamo visto negli accenni precedenti, ma anche la “metafisica della carità”19, che lo impegnerà nella fondazione della sua famiglia religiosa, denominata, appunto, “Istituto della Carità”. La vera scaturigine della carità è l’eterna Trinità, in quanto le tre divine persone sono costituite dal loro atto simultaneo del darsi nella reciprocità delle relazioni interpersonali. L’atto di sussunzione dell’unica (specificamente e numericamente) sostanza divina da parte di ciascuna persona, secondo le sue esclusive proprietà idiomatiche, non è un limite, in quanto tutte e tre le persone possiedono, ciascuna a suo modo, l’unica sostanza divina tutta e totalmente; anzi, il medesimo atto fa sì che le tre divine persone siano l’uni-trino essere divino proprio perché sussumono insieme l’essere divino. L’atto simultaneo del sussumere può essere espresso più felicemente con la parola “caritas”. Il percorso rosminiano della metafisica della carità parte dalla maturazione, operata in particolar modo dalla tradizione tomistica, della metafisica in ambito teologico, e cioè dall’“essere”, che nella sua forma più alta è “atto”, ma si arricchisce in modo straordinario attingendo alla rivelazione biblica, la quale, con il linguaggio formidabile del Corpus Johanneum, consente di cogliere il dinamismo dell’atto mediante il termine “caritas”, che ha la funzione di predicato nella locuzione giovannea Deus caritas est20. Abbiamo avuto modo di prendere atto di un intreccio altrettanto forte di essere-attoamore studiando il filosofo personalista francese M. Nédoncelle. Così egli scriveva: «L’essere vero è atto; l’atto vero è amore»21. Secondo questo fine 18

Cfr ibid., nn. 731-739. Cfr P. CODA, Trinità e ontologia dell’agape, in Credere Oggi 21 (2001) 120 s. 20 Io 4, 8. 21 M. NÉDONCELLE, Lettere di M. Nèdoncelle a C. Valenziano, in C. VALENZIANO, Introduzione alla filosofia dell’amore di Maurice Nédoncelle, Roma 1962, 110. 19


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pensatore, la persona, che è l’irrompere dell’essere nella sussistenza come atto ed amore, ha il suo luogo ontogenetico all’interno di un evento di amore22, che implica la dinamica pericoretica della reciprocità interpersonale23. Il Nédoncelle, quando esprime i concetti appena riferiti, non si sta occupando di teologia trinitaria ma solo di antropologia, tuttavia non sembra che si possa negare che, nell’impostazione della sua antropologia personalistica, tenga presente il dinamismo intrinseco e la taéxiv (ordine) che scandisce l’evento trinitario. Anche in lui si verifica quello che accade in A. Rosmini e che ci sta impegnando nella presente circostanza. Intendiamo procedere proponendo i tratti più eloquenti delle pagine che il Roveretano dedica a questa questione. È chiaro che il Rosmini ha un suo orientamento, che si sviluppa mediante scelte consapevoli ed argomentate e che ha momenti decisivi in intuizioni molto acute e felici. Noi, da parte nostra, dobbiamo cercare di individuarlo e di coglierne i tratti nel modo più preciso possibile. Innanzitutto, diciamo che Dio è evento unico ed uno, sinergico e simultaneo, eterno e perfetto di essere e di vita. Lo è secondo la taéxiv espressa mediante le preposizioni e\k, diaé, e\n (da, per mezzo, in). Le tre preposizioni danno indicazioni precise anche sulle proprietà idiomatiche delle tre divine persone, che non sono né confondibili, né separabili. La Bibbia attesta che l’economia, e cioè la creazione e la salvezza, le implica sempre; e la teologia, da parte sua, sulla base soprattutto della biblica economia triadica, le attribuisce alla Trinità immanente. A livello sistematico il discorso trinitario è stato fatto secondo varie linee discorsive, venutesi a determinare in contesti storico-culturali diversi. Ne esplicitiamo tre.

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Cfr M. NÉDONCELLE, La réciprocité des consciences. Essai sur la nature de la personne, Paris 1942, 67-70; ID., Le chrétien appartient à deux mondes, trad. it., Bipolarità del cristiano, Roma 1971, 74; F. CONIGLIARO, La comunità politica personalistica, in G. BARBACCIA – F. CONIGLIARO, La comunità politica. Ipotesi e prospettive intorno alla comunità come soggetto creativo e partecipativo delle istituzioni, Palermo – São Paulo 1979, 72 ss. 23 Cfr M. NÉDONCELLE, Simultanéité physique et simultanéité des consciences dans l’expérience humaine, in Il problema filosofico dell’antropologia, Atti del XXXI Convegno del Centro di studi filosofici (Gallarate 1976), Brescia 1977, 91.


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1.2.1. Linea greca La teologia trinitaria della linea greca ha un approccio fortemente personalistico ed è rigorosamente monarchica, e cioè attribuisce in modo deciso ed esclusivo il ruolo di a\rché (principio) al Padre, il quale, così, è a\rchè a"narcov (principium sine principio, principio senza principio). Questa linea, dunque, mette a tema la diversità delle persone per arrivare all’unità dell’essere divino a partire dal Padre. Perviene alla trinità delle persone partendo dall’unità e dall’unicità della sostanza del Padre. Ogni persona si pone ponendo l’altra nell’e"k-stasiv (estasi, cessione) dell’amore. Si tratta del dinamismo pericoretico iniziato dal Padre ma attuato compiutamente nella reciprocità pericoretica delle relationes subsistentes. I rischi di questo tipo di teologia trinitaria sono costituiti dall’adozionismo (il Figlio non è Dio, ma soltanto una creatura adottata), dal macedonianesimo dei pneumatomachi (lo Spirito Santo non è Dio, ma una forza da lui inviata) e dal modalismo (la Seconda e la Terza persona sono modi diversi di presentarsi dell’unica ed identica persona del Padre). La Chiesa ha preso posizione contro queste eresie, e precisamente contro Ario, che negava la divinità del Figlio, nel 325 nel corso del Concilio di Nicea, contro Macedonio, che negava la divinità dello Spirito Santo, nel 381 nel corso del Concilio I di Costantinopoli, e, contestualmente, anche contro tutte le forme di modalismo. Secondo questa tendenza, l’unità, più che nella natura divina, uguale specificamente e numericamente nelle tre divine persone, è nel Padre, «dal quale si contano le tre persone»24. Quanto alla consostanzialità, la medesima tendenza ritiene che il Padre, unica a\rché della divinità in quanto unico generante ed unico spirante, possiede in maniera originaria l’essenza divina, che comunica alle altre due persone. Sicché, tutte e tre le persone partecipando in modo assoluto della stessa sostanza del Padre, senza infrangerne l’unità e l’unicità specifica e numerica, sono specificamente e numericamente consostanziali, anzi sono in comunione. Tutte e tre le divine persone, essendo consostanziali e vivendo in comunione assoluta ed eterna, sono l’unico Dio, sono uno nella comunione, nella pericwérhsiv. 24

GREGORIO NAZIANZENO, Oratio 42, 15: PG 36, 758.


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I greci, da una parte, evitano i rischi del formalismo essenzialista e della spersonalizzazione di Dio, e cioè evitano il rischio di porre l’origine divina in una sostanza impersonale, in quanto la pongono in una persona, quella del Padre; ma, dall’altra, ne corrono alcuni altri, e cioè: 1) quello del subordinazionismo, legato al fatto che il Padre, prima persona, essendo egli solo l’a\rché, metterebbe in stato d’inferiorità le altre due persone; è come se la Trinità avesse un ordine gerarchico con al vertice il Padre25; è come se l’unità dell’essenza divina si personalizzasse nella persona del Padre indipendentemente dalle altre due persone; ad eccezione di Atanasio, l’Oriente era orientato in senso subordinazionista, almeno fino alla polemica ariana; dopo Nicea e Costantinopoli I il subordinazionismo ovviamente scompare, ma l’orizzonte concettuale, che è quello platonico-neoplatonico dell’emanazione dall’uno, resta immutato26; 2) quello dell’enfatizzazione dell’origine unitaria, legato al fatto che il Padre è a\rchè a"narcov; gli orientali, anche se all’origine dell’evento trinitario non pongono l’unica essenza divina ma il piano personale delle tre divine persone che, nelle loro mutue relazioni, possiedono l’unica essenza divina e sono identiche con essa, insistono sull’accento unitario dell’origine, in quanto il Padre, principio senza principio, è origine delle altre due persone divine27; l’unità divina risulta personale e si attiva nel Padre e ad opera del Padre secondo la formula Unus in Trinitate; la linea greca parte dal suppositum del Padre e perviene all’essenza. Ovviamente, una tale concezione genetica dell’unità e della pluralità, che implica il primato dell’Uno, rende difficile la comprensione comunionale della Trinità, secondo cui l’unità e la trinità si costituiscono a vicenda28. Se, però, si pensa che ogni persona si pone ponendo, con dina-

25 Questa è la ragione per la quale non pochi teologi occidentali si rifiutano di prendere in considerazione la proposta della teologia orientale: cfr HARRISON NONNA VERNA, Un approccio ortodosso al mistero della Trinità. Questioni per il XXI secolo, in Concilium 37 (2001) 82 s. 26 Cfr G. GRESHAKE, Der dreieinige Gott. Eine trinitarische Theologie, trad. it., Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Brescia 2000, 63. 27 Cfr ibid., 72 s. 28 Cfr ibid., 61-64.


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mica pericoretica29, le altre nell’e"k-stasiv dell’amore, i rischi detti vengono evitati. Ma naturalmente occorre mutare l’orizzonte concettuale.

1.2.2. Linea latina Secondo la linea latina, decisamente essenzialista, la teologia trinitaria si radica nell’unità dell’essere. Di conseguenza, il percorso discorsivo perviene alla trinità delle persone partendo dall’unità della natura. Esponenti principali sono teologi della statura di Agostino30 e di Tommaso d’Aquino31. Nell’Occidente il primato dell’unica essenza divina sulla trinità delle persone si afferma vigorosamente con Agostino32. L’unica essenza divina viene posseduta e concretizzata in tre modi reali e distinti, che sono costituiti dalle tre divine persone. La differenza reale nei modi di possedere e concretizzare l’unica essenza divina si fonda sul modo diverso di procedere di una persona dall’altra; diversità che determina l’essere e l’agire di ciascuna persona nell’unico essere divino secondo le esclusive proprietà idiomatiche. Le tre persone sono relative, cioè relazionate. Tommaso d’Aquino le chiama relationes subsistentes33. La distinzione tra l’unica essenza divina e le tre persone è formale. Ciò significa che la stessa essenza si dà sotto tre forme distinte. L’unica natura ed essenza divina si realizza sotto le formalità di Padre, Figlio e Spirito. Ciascuna persona ha il proprio atto di essere nell’atto (escludendo ogni determinazione temporale) in cui sumit ut suam (sussume come propria) l’unica essenza divina. Così, le tre persone possiedono insieme l’unica natura divina, l’unità degli attributi e l’unità dell’azione ad extra. La tendenza latina, che si precisa con Agostino e per opera sua si fissa in Occidente come classica e tradizionale, comporta dei rischi, e cioè: 1) il 29

Cfr 1Cor 15,28. Cfr AGOSTINO, De Trinitate: PL 42. 31 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, 1, 2-44. 32 Cfr G. GRESHAKE, Il Dio unitrino, cit., 64-74. 33 Persona igitur divina significat relationem ut subsistentem: TOMMASO D’ AQUINO, Summa Theologiae, 29, 4. 30


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pericolo di considerare la natura divina a prescindere dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito e, dunque, come un quarto polo autonomo, sussistente e quasi ipostatico34; 2) il pericolo, effettivamente e comunemente incorso, di lasciare le operazioni di Dio ad extra nelle spire del grave limite della dottrina delle appropriazioni; 3) il pericolo incombente e preterintenzionale del modalismo, esprimibile con la locuzione Unum in Trinitate, come se Dio fosse innanzitutto una sostanza pre-personale; l’unità divina risulta essere essenziale e pre-personale; la linea latina parte dall’unità dell’essenza e perviene al suppositum; la separazione tra De Deo Uno e De Deo Trino come due trattati teologici diversi implica la pensabilità, anche nell’ambito della teologia cristiana, di un Dio rivelato a-trinitario35; per dirla con il teologo J. Ratzinger, le persone divine si trovarono rinchiuse nell’intimità divina e Dio, nei confronti dell’ad extra, finì con il perdere interamente la dimensione del “noi” e si presentò come puro “io”36; le relationes subsistentes, messe felicemente a tema dall’Aquinate, non venendo sviluppate in prospettiva ontologica ma in prospettiva semplicemente psicologica, non sono sufficienti per interpretare in prospettiva ontologica l’essere divino come agape37.

1.2.3. Linea pericoretica La teologia trinitaria consegue una nuova e felice impostazione dottrinale mettendo a tema l’unità e la trinità di Dio a partire dalla pericwérhsiv delle persone. Il percorso va dalla Trinità pericoretica all’unità di natura, che, dato il livello assoluto in cui si pone, è anch’essa pericoretica. 34 Cfr TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, 3, 3 ad 1; G. GRESHAKE, Il Dio unitrino, cit., 67. 35 Circa le relazioni di Dio in quanto uno con l’ad extra cfr G. GRESHAKE, Il Dio unitrino, cit., 28-36. 36 Cfr J. RATZINGER, Dogma und Verkündigung, trad. it., Dogma e predicazione, Brescia 1974, 188; G. GRESHAKE, Il Dio unitrino, cit., 105. 37 Cfr P. CODA, La Trinità delle persone come attuazione agapica dell’essere uno. Il contributo di A. Rosmini per un rinnovamento della teo-ontologia trinitaria, in K.H. MENKE – A. STAGLIANÒ (edd.), Credere pensando. Domande alla teologia contemporanea nell’orizzonte del pensiero di Antonio Rosmini, Brescia 1997, 251-272; ID., Trinità e ontologia dell’agape, cit., 118s.


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Il Damasceno, tentando di darne una spiegazione, afferma: «Le tre persone sono come tre soli che si compenetrano mutuamente in un’unica luce»38. Questa tendenza ha il fulcro teoretico nell’affermazione della Trinità: Padre, Figlio e Spirito sono, in virtù della comunione perfetta, l’unico evento divino. La comunione perfetta è la pericwérhsiv. In virtù della periwérhsiv, le tre divine persone sono un unico evento di essere, di natura, di sostanza, d’intelligenza, di volontà e di amore e si costituiscono come tali mediante il reciproco dono di vita e di amore dell’e"k-stasiv divina. Approfondendo questa prospettiva, ci imbattiamo nei Padri cappadoci (Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa), i quali, parlando alla maniera greca, sostengono che il Padre, la prima persona della Trinità, possiede in modo originario l’essenza divina, che partecipa alle altre due persone, ma precisano che l’essenza divina è l’essere-comunione interpersonale. Basilio sostiene che chi confessa la fede trinitaria parla delle tre divine persone, delle loro proprietà idiomatiche e della loro inscindibile koinwnòa (communio, comunione)39. I Padri cappadoci tendono a mettere in primo piano la comunione interpersonale. Ne consegue che la perfezione dell’essere è la triadicità e l’essenza di Dio, essere perfettissimo ed assoluto, è l’interpersonale essere-comunione. I cappadoci insistono sulla sceésiv (relatio, relazione) reciproca delle ipostasi, fino alla sinfonia e alla comunione. Secondo questi teologi, il Padre, che pure possiede in modo originario l’ou\sòa (substantia, sostanza) divina, ha la gloria nel fatto che Figlio e Spirito Santo, che procedono da lui, hanno in sé, con modalità e dinamica pericoretiche, la stessa vita divina. La tensione che si viene a porre tra il termine-concetto ou\sòa ed i termini-concetti u|poéstasiv-proéswpon (persona) determina una serie di acquisizioni: la differenziazione chiara tra le tre divine persone; l’uguaglianza, altrettanto chiaramente affermata, tra le stesse tre divine persone; la consostanzialità specifica e numerica, acquisita al Concilio Niceno ed al Concilio I di Costantinopoli, pone le tre divine persone, che ne sono direttamente interessate, nell’unica ou\sòa, ma spostando l’accento dall’ou\sòa alla persona. 38 39

cit., 91.

GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, I, 8: PG 94, 140B. Cfr BASILIO, De Spiritu Sancto, 25, 59: PG 32, 50. G. GRESHAKE, Il Dio unitrino,


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Questo fatto provoca quella che Zizioulas chiama “rivoluzione”: la persona indica che l’essere non è considerato in quanto è riducibile dentro i propri limiti ma piuttosto in quanto li infrange mediante un movimento di e"k-stasiv, che lo volge alla communio; sicché, l’essere è pienamente se stesso se, andando oltre la propria esistenza individua, si mette in communio. Dunque, l’essere è pienamente se stesso non nella sua individualità ma nella communio40. Lo stesso autore precisa che la persona implica ed esige la communio, a condizione, però, che non ne sia soffocata41. All’economia generale del nostro discorso giova recare all’evidenza il fatto che la pericwérhsiv delle tre divine persone è, nell’immanenza, il modo di essere delle tre divine persone ed anche la tipicità dell’essere divino e, nell’economia, il modo di agire della Trinità, la scaturigine di ogni comunione nella creazione e la norma di ogni relazione.

1.2.4. Linea rosminiana La breve presentazione delle tre linee di teologia trinitaria alle quali sono riconducibili le impostazioni ritenute ortodosse è utile alla prospettiva rosminiana nel senso che consente di contestualizzarla immediatamente e di coglierne speditamente le caratteristiche.

1.2.4.1. Il nucleo della teologia trinitaria rosminiana La teologia trinitaria rosminiana va oltre l’approccio personalistico greco e l’approccio essenzialistico latino ed è molto vicina alla linea pericoretica. Per capacitarcene, ci accostiamo subito ad alcuni testi della Teosofia. Essi ci consentono anche di conoscere la sensibilità e la temperie spirituale con cui è pensata la vita intratrinitaria. Parlando della relazione che intercorre tra il Padre, che genera, ed il Figlio, che è generato, il Roveretano afferma: 40 Cfr J.D. ZIZIOULAS, Being as Communion. Studies in Personhood and the Church, New York 1985, 27 ss., 106 s. 41 Cfr ibid., 18.


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Francesco Conigliaro «Così ci ha nelle due persone identità perfetta e numerica di essere, e solo diversità di modi che definiscono le due persone per le coscienze diverse sussistenti. E nell’una di queste coscienze personali non c’è niente più che nell’altra, eccetto che l’una ha la propria personalità che non è l’altra. Ma che una persona manchi dell’altrui personalità, non è un difetto o imperfezione; poiché avendo ciascuna tutto per sé ed in sé, e questo tutto essendo numericamente identico, ciò che resta solo diverso è l’origine, la prima dando e avendo sempre dato tutto alla seconda, il qual atto di dare è ella stessa42, onde ella stessa non sarebbe, se non desse e avesse sempre dato tutto alla seconda. Dal che segue, che nella prima non c’è vera priorità, e nella seconda non c’è posteriorità, ma sono simultanee e coll’atto stesso costituite. La differenza dunque nascente puramente dall’origine non importa né perfezione, né imperfezione, né maggioranza, né minorità, né priorità, né posterità, ma solamente importa la costituzione di Dio uno e trino»43.

Approfondendo il tema della processioni divine, A. Rosmini aggiunge un’altra serie di annotazioni importanti per cogliere la sua concezione della Trinità: «Essendo l’essere, scevro da limitazioni, un’intellezione sussistente, e questo essere intellezione intendendo pienamente se stesso, avviene che intendendo se stesso sussistente generi sussistente se stesso come oggetto. Nell’oggetto dunque del suo intendere pone tutto se stesso sussistente, dà tutto se stesso intelligente a se stesso inteso, il che è la generazione eterna del Verbo; e ama se stesso inteso pienamente, di che la terza persona sussistente termine e consumazione dell’atto amativo. Essendo tale dunque la natura divina, ella rinchiude necessariamente il concetto di un eterno dare se stesso per que’ due modi che si chiamano con vocaboli consacrati generazione e spirazione. L’atto dunque del principio fontale della divina Trinità è un atto che tende sempre in un altro, e in un altro, e quest’altro e altro, l’ha sempre ab aeterno raggiunto e di sé promanato. Ma se quest’altro e altro fosse fuori del principio producente, in tal caso il principio con quell’atto avrebbe cercato un termine fuori di sé, e così sarebbe stato imperfetto e insufficiente a se stesso. I due termini dunque proceduti così dal

42 A questo punto il Rosmini cita l’Aquinate: Relatio autem in Deo est substantia eius: TOMMASO D’AQUINO, De potentia, 8, 1, ad 8. 43 A. ROSMINI, Teosofia, cit., n. 1320.


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principio rimangono nel principio, ma nello stesso tempo sussistono in se stessi per loro proprie e personali coscienze, per le quali l’uno di essi sa di essere generato, e l’altro sa di essere spirato, mentre il principio ha la coscienza personale di essere principio generante, e spirante insieme col suo generato. In quanto dunque i due termini promanati rimangono nel Principio che di sé li produce e promana, in tanto compiono la stessa persona che è Principio, e costituiscono la sua sapienza e bontà, essenziale ad essa, ed essenziale siccome comunicata alle altre due persone. Onde, in questa costituzione della divina Trinità, nell’operazione del principio si distinguono logicamente, non realmente, due note o condizioni: 1° un dare tutto ad altri; 2° un ritenere tutto, ossia un mettere tutto in atto in se medesimo: di maniera che l’essenza divina, che è nel principio e che viene comunicata, è messa in atto per lo stesso atto pel quale sono messe in atto le divine persone distinte realmente tra loro. Di che risulta, che il dare tutto se stesso al proprio oggetto e all’oggetto amato è quell’atto con cui si costituisce il principio stesso nell’ultima e infinita sua perfezione. Onde, l’essere i termini altri dal principio è ciò che costituisce il Principio e la sua perfezione; perché questo né sarebbe, né s’intenderebbe, né sarebbe perfetto se non producesse di sé que’ termini, che come tali sono altri da lui, mentre l’atto del produrli è lo stesso Principio producenteli in se stesso, e altri da se stesso»44.

Le idee che il Rosmini ci suggerisce con questi due brevi tratti della sua Teosofia sono teologicamente molto precise; alcune, poi, soprattutto se si tiene conto del contesto teologico generale nel quale il Roveretano visse, un contesto pervaso dalla scolastica decadente, risultano addirittura eccezionali. Innanzitutto, viene precisato che nella Trinità immanente tutto è uno ed identico ad eccezione delle persone. Di conseguenza, una persona non è l’altra, e ciascuna delle tre è, opera e partecipa alla vita intradivina secondo le sue proprietà idiomatiche: il Padre come Padre, e non come Figlio e come Spirito; il Figlio come Figlio, e non come Padre e come Spirito; lo Spirito come Spirito, e non come Padre e come Figlio. Questo fatto non comporta né imperfezione, né superiorità, né inferiorità, né anteriorità, né posteriorità, ma ha luogo in condizioni di assoluta e perfetta simultaneità, coequalità e coeternità. Per questo, le tre divine persone sono distinte, e cioè hanno una differente modalità di porsi rispetto al principio e rispetto alla sostanza, ed 44

Ibid., n. 1383.


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uguali, e cioè la sussunzione dell’essere, della natura e della sostanza è assolutamente uguale in tutte e tre. Inoltre, viene affermato che l’atto del principio fontale della Trinità tende e si compie in due termini. L’atto del tendere è duplice e costituisce le processioni del Figlio per generazione e dello Spirito per spirazione. I termini di questo atto sono due e sono il Figlio generato e lo Spirito spirato. Essi sono relazioni sussistenti, e cioè persone divine distinte dal Padre e tra di loro, ma rimangono nel principio, in quanto, se come suoi termini sono diversi, come sua sapienza e sua bontà, ad esso essenziali proprio perché comunicate alle persone del Figlio e dello Spirito, ne compiono la perfezione dello stesso evento personale. A questo si aggiunga che la perfezione compiuta dell’a\rchè a"narcov si costituisce nell’atto dell’autodonazione totale di sé ai suoi due termini. Infatti, mediante tale atto hanno luogo nel Padre sia il “dare tutto ad altri” che il “ritenere tutto”, e cioè l’attivarsi, con l’implicita esclusione di qualsiasi determinazione temporale, dell’unico atto divino, in virtù del quale sono le tre divine persone reali e distinte. Infine, l’atto del “dare tutto ad altri” è costitutivo della persona, fino al punto che questa non sarebbe se non si trovasse sempre impegnata in questo atto del dare. L’atto del dare tutto se stesso ha nella mente del Rosmini la funzione di congiungere indissolubilmente l’unico atto di essere, che è Dio, e la trinità delle persone, che si pongono all’interno di tale atto. Dunque, nel contesto del discorso concernente le persone “dare tutto” e “ritenere tutto” coincidono perfettamente. Alla comprensione e, ancora di più, all’apprezzamento del pensiero del Rosmini può giovare tenere presenti alcune considerazioni del Von Balthasar circa la dinamica della vita trinitaria: «Il Padre che genera il Figlio non si “perde”, con questo atto, in un altro per poi finalmente “guadagnare” se stesso, ma è in quanto colui che si dona, da sempre egli stesso. Ed anche il Figlio è da sempre egli stesso, mentre egli si lascia generare e lascia che il Padre così disponga di lui. Lo Spirito è da sempre egli stesso, mentre comprende il proprio “io” come il “noi” di Padre e Figlio e viene espropriato nel loro propriissimum»45. 45 H.U. VON BALTHASAR, Die Personen des Spiels. Teil I: der Mensch in Gott. Theodramatik II, trad. it., Le persone del dramma: l’uomo in Dio. Teodrammatica II, Milano 1982, 243.


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Quando dicevamo che ogni persona si pone, e cioè si determina come sussistenza, ponendo l’altra nell’e"k-stasiv dell’amore, e cioè determinandosi come relazione nell’atto in cui cede l’essere all’altra, volevamo penetrare nella logica di questo discorso. Un tale concetto può essere espresso mediante varie figure concettuali: la permanenza di Dio nell’essere implica il dono dello stesso essere; Dio è atto puro, e lo è, più che per la ragione che è autopossesso da sempre realizzato, perché è amore assolutamente libero ed incondizionato, totalmente aperto verso l’interno e, posta la creazione libera dal nulla, anche verso l’esterno; Dio non è limitato nemmeno dalla propria essenza, ed è così sia perché è assolutamente libero di disporre della sua essenza nel senso dell’autodonazione, in forza della quale è, come Padre, libero di partecipare la propria divinità al Figlio e, come Padre e Figlio, è libero di dividere la divinità con lo Spirito, sia perché può creare delle libertà finite e, in quanto tali, autentiche, fino al punto da provocare, senza alcun detrimento per la libertà divina assoluta, una vera opposizione di libertà46; la trinità delle persone non si presta ad alcuna interpretazione triteistica, perché l’idea dell’autodonazione reciproca dell’essere nella comunione trinitaria secondo le proprietà idiomatiche di ciascuna persona è ciò che fa sì che l’essere di ciascuna di esse sia l’essere di ciascuna delle altre e, dunque, l’unico essere divino; in tutto questo si può dire che si verifica un transito concettuale di capitale importanza, e cioè il transito dall’ontologia dell’essere all’ontologia della dedizione47. Le conseguenze di dati di questo genere si riversano tutte sull’unità divina, che, così, risulta pericoretica48, e cioè risulta essere l’unità perfetta dell’unico evento divino, in cui ciascuna persona, nell’amore e per amore, si offre all’altra affinché in-maneat nell’unico evento divino. Così, l’evento divino ha un’apertura immanente: in se stesso è autodonazione nell’amore ed accoglienza nell’amore. L’essere divino è un atto di essere estatico, che si realizza nel realizzarsi degli altri: nell’immanenza della vita divina, per riprendere il linguaggio rosminiano, “ritiene tutto” “dando tutto”; nell’eco46

Cfr ibid., 184 s., 243. Cfr P. SEGUERI, La nozione di persona nella sistematica trinitaria, in A. PAVAN – A. MILANO, Persona e personalismi, Napoli 1887, 309-331. 48 Cfr J. MOLTMANN, Trinität und Reich Gottes. Zur Gotteslehre, trad. it., Trinità e regno di Dio. La dottrina su Dio, Brescia 1983, 165; L. BOFF, A Trinidade, a sociedade e a libertação, trad. it., Trinità e società, Assisi 1987, 43. 47


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nomia è creatore perché fa spazio nell’essere alle creature ed è salvatore perché le accoglie nella propria vita. Il concetto di pericwérhsiv con la sua offerta di senso in termini di “girare intorno” e di “danzare intorno”49 svela un concetto di Dio, che implica l’autodonazione e l’accoglienza nella dinamica reciproca dell’amore. Ci sembra, dunque, di poter sostenere che il Rosmini già alla sua epoca, certamente non molto avanzata teologicamente, ha colto ed ha espresso con parole straordinariamente appropriate ed efficaci concetti trinitari molto profondi.

1.2.4.2. La metafisica della carità La profondità teoretica della dottrina teologica strettamente trinitaria si riscontra pure nella teologia spirituale rosminiana di ispirazione trinitaria, che fornisce i fondamenti teologici di quella che viene opportunamente chiamata “metafisica della carità”. L’uomo che vive di carità non è colui che ha soddisfatto il proprio desiderio di pienezza in forza delle sue capacità naturali e nell’ambito del creaturale, ma è colui il quale ha ricevuto il dono divino della carità e, di conseguenza, conduce una vita deiforme e si esprime secondo lo stile dell’amore caritativo e nelle forme che ne derivano: «Non può dunque l’uomo amare dell’amore caritativo se non gli è data la Carità, la quale gli dia la vita deiforme e con essa la potenza di fare gli atti di questa vita, cioè di una vita di carità»50.

Se, dunque, ci si interroga sull’identità e sulla consistenza della carità dell’uomo, non c’è altra risposta che la seguente: Dio è la carità sussistente in modo assoluto. In quanto tale, ha una consistenza ontologica assoluta ed è la sorgente di ogni espressione e di ogni opera di carità nel mondo. L’idea 49 Cfr A. MILANO, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Napoli 1984, 146-151. 50 A. ROSMINI, La carità, in ID., Discorsi sulla Carità, a cura di V.M. Forever, Pescara 1963, n. 15.


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di sorgente, che in natura è origine di un corso d’acqua che ininterrottamente scorre al fine di attivare ed alimentare tutte le possibilità di vita che l’attendono per iniziare i loro processi vitali, è utile per comprendere appieno l’idea di partecipazione che il Rosmini intende suggerirci quando ci dice che l’Amore, che Dio è e vive in sé, è lo stesso amore che vivifica l’uomo: «Che cosa è dunque, mi domanderete, la carità dell’uomo? Non ho altra risposta a darvi che questa: Carità della Carità, Amore di quel Dio che è Amore. Questo Dio Amore, è amore in Se stesso, è amore nell’uomo»51.

L’oggetto ed il fine della carità, che, in modo sorgivo ed in senso originario, sono lo stesso Dio e la stessa vita divina, in modo derivato per partecipazione sono nell’uomo e ne irrorano la vita. E non può non essere così. Infatti, tale assoluta tensione vitale, originatasi in Dio ed identificandosi con Dio, non può non avere come oggetto e come fine adeguato che lo stesso Dio. È questa la ragione per cui il Rosmini dice che la carità ha in se stessa l’oggetto, lo scopo, il godimento ed il riposo: «Nelle operazioni di lei [carità] si manifesta di più la terza dimensione che è quella dell’altezza. L’altezza della Carità è la sublimità del suo fine. Come per la sua larghezza, la Carità abbraccia tutti gli uomini e in essa tutte le cose, si stende per la sua lunghezza all’eternità, così, pel suo fine, s’innalza pure ad un’altezza che non ha fine. Il che risulta dalle stesse cose che abbiam dette. Poiché abbiam veduto qual è il fine della Carità, e quale il suo Oggetto. Abbiam veduto che è Dio, e che è Dio Carità: Carità avanti la creatura, Carità rivelata trasfusa e glorificata nella creatura; Carità che non ama che se stessa Carità, perché non trova altro a sé proporzionato; Carità che non riposa che in se stessa; Carità che non gode che di se stessa!»52.

Impostato in questi termini, questo punto preciso del discorso rosminiano sulla carità potrebbe sembrare intorbidito e, addirittura, corrotto da una fortissima tensione egoistica. Ora, l’egoismo è certamente una forma di amore, ma, non implicando la dimensione oblativa e la dedizione, che sono le tensioni proprie dell’amore e che volgono i protagonisti dell’amore 51 52

Ibid., n. 13. Ibid., n. 27.


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l’uno verso l’altro, li fanno vivere l’uno per l’altro e li fanno essere l’uno nell’altro, reca in se stesso il seme della propria negazione. Eppure, il Rosmini, come, del resto, l’intera tradizione giudaico-cristiana, hanno ragione nel dire che Dio-carità è oggetto e fine proporzionato della tensione assoluta di carità, che egli stesso è e di cui egli stesso vive. Questo deve essere detto tenendo conto non solo dell’assoluta perfezione di Dio, che esclude ogni difetto, e l’egoismo lo è, ma anche del dinamismo vitale e misterioso della Trinità, all’interno del quale la componente oblativa è infinitamente trascesa e pienamente compiuta nell’e"k-stasiv dell’amore, di cui abbiamo parlato supra, anche tenendo conto della riflessione rosminiana. Il fine e l’oggetto della carità sono lo stesso Dio uno e trino53. Le tre divine persone sono, dunque, legate tra di loro dall’essere divino e si donano nella reciprocità dell’amore, fino a costituire un unico essere, anzi un unico atto di essere: l’atto puro. Un tale evento non viene scandito dai ritmi del tempo, ma dai ritmi dell’eternità, che implicano la simultaneità, in virtù della quale l’evento è l’essere e, viceversa, l’essere è l’evento. Varcata la soglia della prospettiva trinitaria, l’intero discorso rosminiano sulla carità si sviluppa lungo questo percorso. Il fine della carità è, allora, il Padre, a\rchè a"narcov del mistero trinitario e sorgente eterna di carità, a cui tutto ritorna seguendo l’itinerario della carità in Cristo. L’esito sarà la perfezione della carità, che sarà conseguita quando le creature saranno associate al dinamismo della pericwérhsiv ed il Dio-carità sarà, come insegna san Paolo, tutto in tutti: «Iddio creò l’universo per cavarne la gloria della Carità nell’edificazione della città celeste a cui serve di gloria lo stesso inferno: Egli conserva il creato, e colla sapientissima sua Provvidenza dispensa i grandi ed i piccoli

53

«Non potendosi dunque la mente e il cuore umano fermare se non in ciò che è infinito, e perciò il suo fine compiuto potendosi trovar solo in un infinito reale, che l’amor naturale non trova; in questo come in suo fine compiuto non può essere esaurita compiutamente e tranquillamente quella capacità di affetto che il Creatore ha posta nella natura umana. La carità all’incontro trova e possiede il fine assoluto dell’amore che è Dio Uno e Trino. E come l’ama in se stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l’ama negli uomini ne’ quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quanti altresì, ne’ quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra»: A. ROSMINI, Degli studi dell’autore, in ID., Introduzione alla filosofia, Roma 1979, n. 105.


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avvenimenti all’eterno concetto di realizzare la predestinazione de’ suoi amatori, a’ quali tutte le cose tutti i movimenti che s’intrecciano nel mondo ritornano a bene (Rom. VIII, 28): Egli discese personalmente in terra e si fece carne; insegnò patì morì risorse ascese al cielo, e mandò il suo Spirito d’Amore per salvare il genere umano aggregando gli uomini intorno a suo Padre, acciocché l’amino e lo lodino in sempiterno. Poiché, dice l’Apostolo: “quando saranno state soggettate a Lui tutte le cose, allora anche lo stesso Figliuolo (come uomo) sarà soggetto a Lui, che gli ha soggettate tutte le cose, onde Dio sia il tutto in tutte le cose”. — “Il Figliuolo allora, continua, rimetterà il regno” (cioè gli uomini da lui redenti, da lui santificati, da lui risuscitati immortali, de’ quali avrà formato un regno) li rimetterà, dico “a Dio Padre” (I Cor. XV); acciocché Colui che è Dio di Cristo come uomo, e che è Padre naturale di Cristo come Verbo eterno, Colui che è il fontale principio della Triade augustissima, principio essa stessa o causa di tutto che esiste di contingente, li beatifichi nel suo indicibile aspetto svelato e manifesto. Qui veramente è il fine senza termine, qui la consumazione della Carità quando questa farà che Iddio sia tutto in tutto: poiché l’unione è l’opera della Carità»54.

2. ANALOGIA

PROPORTIONALITATIS TRA LA PERICWRHSIS TRINITARIA E LA

COMUNITÀ POLITICA

Esponendo i dati precedenti, abbiamo più d’una volta accennato alla fecondità della dottrina della pericwérhsiv trinitaria anche al di fuori della Trinità immanente, e cioè nell’economia della creazione e della salvezza, campo di operazione della Trinità economica. Finora, per quel che concerne questo punto del nostro discorso, il pensiero rosminiano ci ha offerto i dati preziosi da noi presentati quando abbiamo parlato della “metafisica della carità”. Tutto questo costituisce una prospettiva ed uno sfondo di livello altissimo e ci offre molti impulsi per occuparci in maniera feconda dell’ipotesi dalla quale siamo partiti, e cioè l’ipotesi di una possibile analogia proportionalitatis da istituire, anche secondo il Rosmini, tra la comunità intratrinitaria, che è in perfetta dinamica pericoretica, e la comunità politica,

54

A. ROSMINI, La carità, in ID., Discorsi sulla Carità, cit., n. 27.


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composta da persone umane, che sono relazioni sussistenti e sono impegnate ad organizzare la loro convivenza come relazione interpersonale. Come è facile comprendere, si potrebbe procedere agevolmente lungo questo percorso, se si disponesse, anche per la comunità politica, di fenomeni riconducibili alla pericwérhsiv trinitaria o, quanto meno, confrontabili con essa. L’ambito tematico in cui trovarli è certamente quello stesso della persona, per la ragione che quest’ultima, come le tre divine persone in rapporto di pericwérhsiv, implica la relazionalità.

2.1. Carattere relazionale della persona A. Rosmini ci propone più volte la definizione di persona umana. Ne scegliamo una tra le tante: «La persona si può definire “un soggetto intelligente” e volendone dare una definizione esplicita diremo che “si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supremo, ed incomunicabile»55.

Il dato più significativo di questa breve citazione è costituito dalla locuzione “soggetto intelligente”. Riteniamo, pertanto, di dovercene fare un concetto adeguato. Il Roveretano fa, innanzitutto, una distinzione importante: «Soggetto è un “individuo senziente in quanto contiene in sé un principio attivo supremo”. Soggetto intellettivo è “un soggetto che intuisce l’essere ideale”. Soggetto umano è “un soggetto principio insieme dell’animalità e dell’intelligenza”»56.

Per lui, dunque, si dà pure un soggetto non dotato dei predicati “intellettivo” ed “umano”; ed il passo seguente ne fornisce una giustificazione adeguata: 55 56

ID., Antropologia in servizio della scienza morale, Roma 1981, n. 832. Ibid., n. 767.


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«La definizione che noi diamo del soggetto si è la seguente: “un essere sensitivo in quanto contiene in sé un principio attivo supremo”. Nella qual definizione ponesi principio attivo, perocché quando anco il soggetto non fosse che meramente senziente, anche il solo sentire passivo, rispetto all’agente che il suscita, è in se stesso una attività che suppone un’attuale esistenza. In secondo luogo vedesi, che, giusta la definizione, il soggetto può avere accidenti e non averne: vedesi che quand’anche in lui si trovasse un solo sentimento uniforme, e non soggiacente a modificazioni di sorte alcuna, quand’anche questo sentimento fosse semplice e indivisibile, il soggetto però esisterebbe ugualmente, né cosa alcuna mancherebbe all’essere suo di soggetto. Nel tempo stesso, se il sentimento di quest’esser sensitivo ricevesse diverse modificazioni, purché il principio attivo, cioè senziente, rimanesse identico, questo principio sarebbe il soggetto di tutti i vari sentimenti, perocché in lui risiederebbe la propria esistenza di quell’essere, e non solo l’esistenza propria come principio senziente, ma ben anco l’esistenza delle modificazioni a cui soggiace il sentimento»57.

Un tale soggetto è, comunque, un individuo sostanziale: «Individuo (sostanziale) è “una sostanza in quanto è una, indivisibile, incomunicabile, ed ha tutto ciò che si richiede per sussistere”»58.

Il concetto di soggetto, dunque, consta dei dati seguenti: individuo sostanziale, dotato di un principio attivo supremo, senziente, indivisibile ed incomunicabile. A differenza della persona, il soggetto ha una sua individualità pienamente espressa nella sua capacità di sentire autonomamente e di situarsi in quanto tale tra gli esistenti. Esso però non è persona, e cioè non è né sussistenza di relazione e di diritto, né capacità di autoprogettazione indeterminata; ma si pone tra tutti gli esistenti con pretensioni etica e giuridica proporzionate al livello occupato tra gli esistenti. Dal soggetto di cui abbiamo testé parlato, si distingue il soggetto cui competono i qualificatori “intellettivo” ed “umano” e che è caratterizzato dall’autocoscienza. Esso viene designato con il pronome personale “io”: «L’Io è “un principio attivo in una data natura in quanto egli ha la coscien57 58

Ibid., n. 779. Ibid., n. 766.


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za di se stesso»59. Ma, i concetti di “soggetto” e di “io” ci conducono direttamente al concetto di persona: «Per lo più col monosillabo Io si esprime un soggetto intelligente, ossia una persona che ha la consapevolezza di sé, e noi uomini non adoperiamo questo monosillabo se non a significare la personalità nostra propria di cui siamo conscii, ond’è che l’Io si chiama un pronome personale»60.

Il concetto di soggetto che ci interessa in questo momento consta dei dati seguenti: individuo sostanziale, dotato di un principio attivo supremo, senziente, indivisibile ed incomunicabile. Distinguere un soggetto così concepito dalla persona non richiede alcuno sforzo, ed il Roveretano procede in modo molto agevole: «Tutte le potenze adunque che entrano in un individuo costituiscono la natura dell’individuo; ma la più sublime delle potenze s’ella è razionale, il più elevato dei principi attivi, costituisce la personalità dell’individuo»61.

Conseguentemente, parlare della persona è molto più che parlare semplicemente di sostanza, di principio attivo supremo, di relazione gerarchica tra i principi attivi; infatti, si fa riferimento alla “relazione sostanziale sussistente”. Il Rosmini fa, a questo proposito, una serie di affermazioni di grandissima portata teoretica: «Convien dire adunque che il nome di persona non significa né meramente una sostanza, né meramente una relazione, ma una relazione sostanziale, cioè una relazione che si trova nell’intrinseco ordine dell’essere di una sostanza»62;

59 60 61 62

Ibid., n. 768. Ibid., n. 837. Ibid., n. 851. Ibid., n. 833, nota 50.


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«La persona dunque è una relazione sussistente»63; «“La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente”: quindi anco l’essenza del diritto»64. Insomma, il Roveretano è convinto che la relazione sia la ragione formale della persona65. La relazione sussistente si trova nella struttura intrinseca di un ente ed intercorre tra il principio personale, principio attivo supremo di un soggetto intellettuale umano, e gli altri principi costitutivi. Il Rosmini ne parla con precisione di concetti e di termini: «Cerchiamo ora di via meglio determinare la propria sede della persona nell’umano individuo. I cinque principj di operare che si osservano nell’uomo non sono in esso ancora così distinti fra loro come gli abbiamo noi separati, quando prima egli tocca l’esistenza. Tutti que’ principj si possono ridurre a due soli, cioè al principio di operare soggettivo, e al principio di operare oggettivo. Al primo si riducono i tre istinti, il vitale, il sensuale e l’umano. Al secondo si riducono la volontà e la libertà. Infatti, ogni azione o comincia spontaneamente dal soggetto, ovvero viene suscitata in lui dall’oggetto. La base di questi due principj innati si è, del principio soggettivo il sentimento fondamentale, e dell’oggettivo l’intuizione dell’essere. Rispetto a tutte l’altre potenze può dirsi vero in un senso quello di Condillac, che non sono innate; conciossiachè esse non hanno ancora la loro distinzione nella stessa essenza dell’uomo, ma vengono poi distinguendosi secondo il diverso modo con cui operano i primordiali principj innati»66; «Ridotti in tal modo i due principj dell’umana natura, egli è chiaro che la personalità innata non può esistere che nel secondo, cioè nel principio di operare oggettivo, e che la personalità stessa è suscettibile di tutto quello sviluppo e di tutte quelle modificazioni a cui in appresso soggiace il principio d’azione oggettivo»67;

63

ID., Teosofia, cit., n. 903. Ibid., n. 903. Da parte nostra, ci siamo già occupati delle riflessioni fatte dal Rosmini a questo proposito: cfr F. CONIGLIARO, La politica tra logica e storia. Il pensiero filosofico-politico di Antonio Rosmini, Palermo 1985, 83-87. 65 Cfr C. RIVA, Attualità di Rosmini, Roma 1970, 138. 66 A. ROSMINI, Antropologia in servizio della scienza morale, cit., n. 845. 67 Ibid., n. 846. 64


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Il frutto ontologico-dinamico di tutto questo è che la persona è in grado di autoprogettarsi e di relazionarsi al di fuori di ogni determinazione di natura istintuale. Si comprende, così, l’impegno profuso dal Rosmini nella distinzione del soggetto dalla persona, che è un individuo intelligente e razionale, dotato del principio attivo supremo, e cioè della volontà, consistente in una relazione sostanziale e sussistente e definibile come diritto sussistente. La persona viene presentata come il centro di un ordito di relazioni con le altre persone e con le cose. In tale ordito si riscontrano differenze notevoli. Infatti, mentre le cose possono essere trattate come mezzi, le persone debbono essere sempre considerate e trattate come dotate della ragione di fine. Anche in merito a ciò il Rosmini si esprime in maniera chiara: «Le cose hanno verso l’uomo il rapporto di mezzo, e le persone hanno verso l’uomo il rapporto di fine. Da questi due rapporti fondamentali discendono tutte le ragioni morali, che debbono dirigere il contegno dell’uomo verso le cose e verso le persone. “L’uomo dee far uso delle cose come di altrettanti mezzi al proprio fine”; prima legge, che dirige la sua condotta verso le cose. “L’uomo deve trattare le persone come fine, cioè come aventi un proprio fine”; seconda legge, che dirige la sua condotta verso le persone. L’uomo è una persona egli stesso, e perciò in questa seconda legge si comprendono anco i doveri che l’uomo ha verso se stesso»68; «Il rapporto che ha l’uomo con le cose è di fine a mezzo; il rapporto che ha colle persone è di fine a fine»69.

Essendo il centro unico di una tela di relazioni uniche, perché implicanti autocoscienza ed autodeterminazione nella libertà, la persona s’impone nell’ordine creaturale come soggetto di attribuzione in modo ancora una volta unico. In quanto tale, la persona è diritto sussistente: «“La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente”: quindi anco l’essenza del diritto»70. Stando così le cose, la persona ha la priorità ed il primato rispetto 68 69 70

ID., La società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, Milano 1972, 103. ID., Filosofia del diritto, Padova 1967-1969, voll. 5, II, n. 24. Ibid., I, n. 49.


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alla società. Molti studiosi del pensiero rosminiano si sono pronunciati in tal senso, in particolare mettendo in evidenza, ovviamente con accentuazioni diverse, il ruolo fondante della persona in ordine al diritto. Facciamo solo qualche esempio: il Capograssi sostiene che il diritto è persona71; la Tripodi è convinta che la persona sia primaria rispetto alla società e sia ad essa irriducibile72; l’Ambrosetti afferma che la presenza della persona sia presenza del diritto73; la Raschini attribuisce alla persona il ruolo di fonte del diritto74.

2.2. Carattere sociale della persona A. Rosmini concepisce la persona in maniera tutt’altro che individualistica. La prima e più immediata giustificazione di ciò è nel fatto che essa, in quanto strutturalmente relazionalità, esercita in modo organico dei ruoli nei confronti della società, e cioè ne è costitutiva e ne è radice e fondamento. L’importanza della relazionalità induce il Rosmini a concepire l’uomo originario come coppia75 e a dare spazio al mito dell’androgino, che accoglie dal Convito di Platone e da antiche tradizioni indiane76. Ma, a prescindere dai percorsi culturali e teoretici del Roveretano, non ci possono essere dubbi circa l’idea che la persona umana, a motivo della sua natura relazionale, alimenti l’intera riflessione politica del Rosmini e si ponga nel mezzo della società come suo fine ultimo. La relazionalità appartiene alle proprietà originarie della persona. La ragione di questo fatto si fonde con il tema filosofico fondamentale del Rosmini, che è quello dell’essere ideale: la persona, essendo un soggetto intellettuale, è in rapporto con l’essere ideale e, quindi, è in rapporto con la verità, la virtù e la felicità. Queste non sono qualità individuali, ma, avendo 71

Cfr G. CAPOGRASSI, Il diritto secondo Rosmini, in Studi rosminiani, Milano 1940,

122. 72

Cfr A.M. TRIPODI, Il problema della libertà in Rosmini, Roma 1976, 85. Cfr G. AMBROSETTI, La radice unitaria del pensiero politico-sociale in Rosmini, in La problematica politico-sociale nel pensiero di Antonio Rosmini, Roma 1955, p. 169. 74 Cfr M.T. RASCHINI, Spiritualità rosminiana e filosofia del diritto, in Rivista rosminiana 59 (1965) 303. 75 Cfr A. ROSMINI, Filosofia del diritto, cit., II, n. 1912. 76 Cfr ibid., II, n. 1062. 73


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un carattere essenzialmente comune, con naturalezza legano le intelligenze tra di loro, le volgono verso l’esterno e le spingono a creare relazioni: «La verità, la virtù e la felicità si posson dire i legami delle intelligenze: racchiudono la società di queste nel loro stesso concetto: le intelligenze sono essenzialmente unitive e sociali»77.

2.3. Inoggettivazione La relazionalità, come abbiamo già detto abbastanza chiaramente, è dinamismo. Il Rosmini, da parte sua, mette a tema quello che possiamo chiamare l’aspetto prettamente dinamico della medesima relazionalità, e cioè l’“inoggettivazione”78. Non si tratta di un aspetto estrinseco della relazionalità, in quanto ne costituisce un momento del dinamismo intrinseco; piuttosto, e questo ci sembra che sia l’idea del Rosmini, è come il mettere in evidenza la possibilità stessa che gli uomini hanno di vivere in società. La convivenza organizzata non è un processo di riduzione dell’“altro” al “medesimo” e, quindi, un processo di cancellazione dell’identità originaria di un polo soggettivo a livello ontologico oppure a livello operativo; invece, è il ritrovarsi insieme di soggetti diversi, che ricercano la sinergia e la solidarietà, senza confusione e senza scissione. L’orientamento e l’impegno a convivere immedesimandosi, ma senza confusione e senza dissoluzione delle identità originarie, vengono chiamati dal Roveretano “inoggettivazione”. L’itinerario teoretico seguito dal Rosmini è quello gnoseologico, ma, basta esaminarlo in profondità, per convincersi che si tratta solo del primo passo: «Dato dunque l’obietto e il subietto congiunti, essi sono reciprocamente contenenti e contenuti; il subietto è contenente, in quanto va continuamente (durante l’attuale cognizione) nell’obietto, e lo produce a se stesso: l’obietto è contenente l’atto subiettivo, in quanto è già trovato, già cognito, e però in

77 78

Ibid., II, n. 641. Cfr ID., Teosofia, cit., nn. 867-900.


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quanto dimora in lui, come in suo termine, l’atto conoscitivo. Vedesi dunque che nell’oggettivazione il subietto non si perde assolutamente, ma si perde relativamente all’oggetto in cui si trova posto: di maniera che l’ente stesso esiste come subietto e come inoggettivato ad un tempo, quando ha vestito perfettamente questa seconda forma ha perduto la coscienza di quella prima, ma nella prima rimane, e rimane il medesimo ente»79.

Questo testo ci dice chiaramente che il soggetto conoscente si inoggettiva nell’oggetto conosciuto, senza incorrere nelle complicazioni indicate, e ci mette di fronte a ciò di cui siamo in cerca, e cioè di fronte ad un fenomeno di pericwérhsiv, che, da una parte, esige la relazione, fino alla circuminsessione e compenetrazione, dei poli che entrano nella reciprocità e, dall’altra, esclude ogni confusione tra i medesimi. Il Roveretano non ci delude. Infatti, ben presto articola il discorso concernente l’inoggettivazione e non manca di indicarci la pista discorsiva più opportuna: «Riassumendo dunque, ci hanno quattro generi d’inoggettivazione. Il primo è quello che si fa nel puro oggetto, essere ideale, come avviene nell’intuizione che costituisce l’intelligenza umana, e in tutti gli atti intellettivi dell’uomo; ché tutti sono accompagnati da questa intuizione, dalla quale prendono la loro forma (obiettivazione oggettiva). Questa inoggettivazione è l’inizio e il fondamento di tutte le altre. Il secondo è quello per cui il subietto intelligente s’inoggettiva in se stesso (obiettivazione subiettiva d’identità). Il terzo è quello, col quale il subietto intelligente s’inoggettiva in un altro subietto individuo reale simile a sé per l’identità di specie, come un uomo nell’altr’uomo (obiettivazione subiettiva di diversità). Il quarto è quello onde il subietto intelligente s’inoggettiva nell’Oggetto sussistente, che è subietto egli medesimo, perché il subietto che ha nel seno è pari a lui e da lui effettivamente indistinto, distinguibile solo virtualmente; il che è quanto dire: s’inoggettiva in Dio (obiettivazione obiettivo-subiettiva)»80.

79 80

Ibid., n. 867. Ibid., n. 885.


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La nostra attenzione deve fermarsi sul terzo tipo di in oggettivazione, l’“obiettivazione subiettiva di diversità”, che si verifica quando un uomo si inoggettiva in un altro uomo: «Coloro che avranno bene inteso, aver ognuno degli enti finiti, oltre l’esistenza propria e relativa, un’esistenza assoluta ed eterna, non temeranno la proposta difficoltà. Poiché, quando noi abbiamo detto, che l’uomo, a inoggettivarsi in un altro uomo, dee prender dapprima tutto il sentimento proprio che ha nella coscienza di se stesso, e slegandolo dal vincolo d’identità che ha con sé attualmente pensante, assumerlo a tipo compiuto e vivente; che cosa abbiamo detto con ciò, se non che è necessario egli ascenda a pensare l’umano individuo nella sua esistenza assoluta ed eterna? Quest’individuo umano a pieno determinato, divenuto tipo, ossia esistente d’esistenza assoluta, risponde perfettamente all’esistenza propria e relativa. Ma in quell’individuo tipo c’è una parte identica a tutti gl’individui relativi possibili, ed è il principio della persona. Svestendo dunque l’uomo colla mente, quest’individuo tipo d’alcune determinazioni, e vestendolo di alcune altre pertinenti alle stesse specie e solo differenti per gradi (stanteché l’uomo che in se stesso conosce la natura umana conosce ed ha il tipo di tutte le specie di determinazioni onde l’uomo è suscettivo, e i gradi può agevolmente cangiare quando conosce le specie), egli si forma altrettanti tipi, cioè individui umani nella loro assoluta ed eterna esistenza, e però anche l’individuo umano in cui vuole inoggettivarsi. Quando ha presente quest’individuo nella sua assoluta esistenza, allora può anche pensare e aver presente lui nella propria e relativa esistenza. Avendo così presente lui, che è ciò che chiamavamo la rappresentazione del detto individuo (e abbiamo ascritto questo lavoro alla facoltà che chiamammo immaginazione intellettiva), altro non gli rimane, fuorché trasportare se medesimo in esso, immaginando ancora coll’intendimento, che la propria persona viva in quelle determinazioni che costituiscono l’altro individuo. In questo lavoro adunque, un individuo umano perviene ad aver presente l’altro individuo reale in cui trasporta se stesso; e a ciò perviene così: passa egli pel tipo eterno, che è l’altro individuo nella sua esistenza assoluta, e da quello per via d’affermazione arrivando allo stesso individuo relativamente esistente, e questo tenendo già presente, in lui trasporta con l’immaginazione intellettiva se stesso, per l’identità del principio di persona che è in tutti due gl’individui, e che può essere dall’intendimento vestito dell’altrui determinazione»81.

81

Ibid., 875.


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Si fa fatica a non attribuire all’argomentazione rosminiana il qualificatore “macchinosa”82, ma non si può negarne la fecondità, in quanto è in grado di guidare efficacemente alla comprensione dell’inoggettivazione di un uomo in altro uomo, fino all’assunzione da parte del primo delle determinazioni individuali del secondo, e viceversa. Il fulcro teoretico dell’intera argomentazione è il “principio della persona”, che, essendo identico, non numericamente ma specificamente, in tutti i soggetti individui e concreti, fa sì che il soggetto singolo, trascendendo le proprie determinazioni, assuma quelle altrui e le viva come se fossero proprie. Il Rosmini ci tiene ad avvertire di non confondere l’inoggettivazione con la sola “simpatia”, o con il solo ’“amore”, o con la sola “compiacenza”, o con la sola “compassione”, ma a fonderla con tutti questi atteggiamenti e sentimenti83. La ragione per la quale il Rosmini fa questo discorso è di consentire al lettore delle sue opere di capacitarsi del fatto che coll’inoggettivazione la consistenza della tensione relazionale che si viene a determinare nei partners della reciprocità è molto più di quella di uno stato d’animo e di un atteggiamento, in quanto è quella antropologica dell’immedesimazione e della sinergia, con l’esclusione, però, di ogni sovrapposizione e di ogni confusione. Oltre a questo effetto, che è quello basilare e maggiormente intrinseco, con la sua dottrina dell’inoggettivazione il Rosmini consegue altri effetti di non piccolo momento. Innanzitutto, la concezione della persona viene liberata dallo spessore individualistico di origine illuministica e viene ripensata in prospettiva sociale84. Inoltre, viene proposta una concezione forte sia dell’intersoggettività che dell’orientamento delle persone a convivere, lasciandosi guidare dall’ideale regolativo dell’assimilazione85. Infine, l’idea di persona viene alleggerita dalle conseguenze negative provenienti dal qualificatore “incomunicabile”, che le è comunemente

82 Qualcuno lo ha già fatto, e non a torto: cfr G. BESCHIN, L’inoggettivazione in Rosmini, in Atti del Convegno rosminiano (Stresa, 3-5 gennaio 1974), in Rivista rosminiana 89 (1975) 53. 83 Cfr A. ROSMINI, Teosofia, cit., n. 873. 84 Cfr B. BRUNELLO, Ontologia, assiologia e Rosmini, in Ontologia e assiologia, Atti del XXVIII convegno del Centro di Studi Filosofici tra professori universitari (Gallarate 1973), Brescia 1974, 280. 85 Cfr A. ROSMINI, Teosofia, cit., nn. 891-893.


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attribuito anche dal Rosmini86, conseguenze che sembrerebbero precludere proprio la possibilità della comunicazione interpersonale, e viene volta ad arricchirsi del senso tanto prezioso della pericwérhsiv, che richiede che le persone vivano costantemente l’esperienza fondamentale dell’intersoggettività in un processo evolutivo e crescente di reciprocità, in una situazione caratterizzata dall’assenza della perdita dell’identità e della confusione tra le persone e dalla garanzia della pluralità dei soggetti personali, delle loro idee e dei loro progetti. Insomma, la concretezza storica della persona si realizza sul fondamento dell’ordine oggettivo dell’essere ideale, che la rende idonea alla relazione intersoggettiva e la volge effettivamente alla relazionalità con le altre persone. La persona, in quanto è in rapporto con l’essere ideale e, di conseguenza, con la verità, la virtù e la felicità, immette nella società, alla quale è per altro irriducibile, l’ordine dei valori ed il diritto. Questo fatto fornisce i dati essenziali per giustificare il ruolo molteplice della persona nei confronti del fenomeno politico: ne è il luogo filosofico per eccellenza e, dunque, vi esercita sia il ruolo fondativo sia il ruolo di principio ermeneutico supremo87.

2.4. Ostacoli rosminiani all’analogia proportionalitatis L’inoggettivazione, essendo tra l’altro la traduzione antropologica della pericwérhsiv trinitaria, e cioè essendo un caso di reciprocità interpersonale in forza dell’amore, a livello teorico è certamente parte integrante delle premesse necessarie ad affrontare e risolvere in termini di simmetria tutti i problemi della convivenza organizzata. Sennonché, a livello concreto non è proprio così. Nella società, infatti, l’intersoggettività è, al massimo, un ideale regolativo. Perfino i filosofi personalisti parlano dell’impossibilità

86 Ad esempio, cfr A. ROSMINI, Antropologia in servizio della scienza morale, cit., nn. 769, 832 s.; ID., La società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., 140; ID., Filosofia del diritto, cit., I, n. 51; ID., Teosofia, cit., nn. 903, 1119. 87 Cfr F. EVAIN, Rosmini et l’hermeneutique du politique, in Gregorianum 60 (1979) 569 s.


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di realizzare nell’ambito storico e di tradurre in progetto politico la comunità personalistica che sgorga dalle tesi del personalismo filosofico88. Quanto al Rosmini, dato che la persona non si situa nella società soltanto con i livelli meramente essenziali della natura e della ragione, ma vi si situa anche con il livello concreto della soggettività personale individua e, dunque, con tutte le caratteristiche individuali e con tutti i condizionamenti storici, culturali, etnici, sociali e politici della persona storicoconcreta, ci sembra necessario indicare dei principi e dei criteri di mediazione di un tale evento di concretezza. Nel tentativo di stabilire questi dati, il Roveretano fa un discorso che, alla fine, si rivela anche fortemente limitativo del discorso ampio da lui stesso fatto sulla persona. Difatti, la determinazione della posizione del cittadino nella società non deriva dal fatto che egli è uomo e, soprattutto, persona e, di conseguenza, costituito all’interno della relazionalità ontologica e protagonista della relazionalità fenomenologica, ma solo come soggetto di attribuzione dei diritti sociali e politici. Desideriamo recare all’evidenza soltanto qualcuno di questi dati, e precisamente il “principio di proprietà” ed il criterio della “disuguaglianza costitutiva”. Il fattore che consente alla persona umana di situarsi nella società come cittadino e con il titolo legittimo di esercitare i propri diritti è la proprietà. Una persona che ne è priva non può essere considerata cittadino e non ha diritti socio-politici da esercitare89. Nel fare una teorizzazione di tal fatta, il Rosmini dimostra di non essere mai riuscito a liberarsi dei condizionamenti derivanti dalla memoria della Rivoluzione francese, quando una “masnada di assassini” ed un “movimento irreligioso ed empio” — per ricordare soltanto alcune delle immagini più forti della parte negativa della valutazione rosminiana di questo evento — gettarono nel caos la società francese della fine del XVIII secolo, partendo proprio dall’eliminazione del diritto di proprietà. È vero che questa società — e con ciò il Roveretano 88 Cfr, ad esempio, E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, trad. it., Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano 1949; ID., Qu’est-ce-que le personnalisme?, trad. it., Che cos’è il personalismo ?, Torino 1948; ID., Le personnalisme, trad. it., Il personalismo, Roma 19744; F. CONIGLIARO, La comunità politica personalistica, in G. BARBACCIA – F. CONIGLIARO, La comunità politica, cit., 66 s, 75 s. 89 Cfr A. ROSMINI, Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile, Rovereto 1887, 4; ID., Filosofia del diritto, cit., II, nn. 1703, 2182-2187, 2619.


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introduce la parte positiva della sua valutazione della rivoluzione del 1789 — provocò essa stessa, con la violenza pre-rivoluzionaria delle sue istituzioni signorili, la violenza di reazione della masse ed i conseguenti sconvolgimenti, dai quali in seguito sarebbero scaturiti i diritti dell’uomo, che sono uno dei settori più preziosi del patrimonio dell’umanità, ma l’opinione del Rosmini circa il rapporto organico tra proprietà e cittadino non sarebbe mai mutata90. Il Rosmini è profondamente convinto di ciò anche a motivo del fatto che ritiene il principio di proprietà, “Rispetta l’altrui proprietà”91, il principio della derivazione dei diritti: «Un tal principio è manifestamente universale quanto dee essere; conciossiacché egli vale a determinare tutti i diritti umani, come più chiaramente apparirà dalla sua applicazione, la quale mostrerà avervi un diritto ovunque riscontrasi il carattere della proprietà. E nello stesso tempo non è astratto più di quello che debba essere; poiché la proprietà si forma anco mediante accidenti, che alla natura umana sopravvengono»92.

La proprietà è, insieme alla libertà, forma dei diritti: «Tutti i beni ed i diritti che ha l’uomo in relazione co’ suoi simili, ricevono due forme, che diventano la base della suprema classificazione dei diritti medesimi: la libertà, e la proprietà»93.

Il significato della proprietà consiste, più che nella cosa posseduta, nel fatto che consente alla persona di conseguire in ogni senso la maturità94. Il diritto alla proprietà è naturale; ed è questa la ragione per la quale il Roveretano afferma che la proprietà non viene creata dagli uomini ma “si crea” ed il suo vincolo è anteriore alla società civile95. La riflessione sulla 90 Cfr ID., Filosofia del diritto, cit., II, nn. 2080-2122; F. CONIGLIARO, La politica tra logica e storia, cit., 25-28. 91 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, cit., I, 203. 92 Ibid., I, 200. 93 A. ROSMINI, Il sistema filosofico, in ID., Introduzione alla filosofia, cit., n. 228. 94 Cfr ID., Filosofia del diritto, cit., I, 204. 95 Cfr ibid., I, 329-381.


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concezione rosminiana della proprietà potrebbe essere ulteriormente sviluppata, ma i dati qui raccolti sono più che sufficienti per convincersi che il discorso rosminiano, straordinario e luminoso quando si occupa della persona, delle sue prerogative e dei suoi diritti, quando tratta della proprietà e ne fa il mezzo ed il criterio della realizzazione della persona e della rivendicazione dei suoi diritti, si impoverisce e si riduce, fino a diventare un discorso tipico dell’ancien régime. Certo, il concetto di proprietà in questione è molto ampio, in quanto va dal possesso dei beni al possesso di ciò che è connaturale alla natura umana, ma il fatto che venga concepito un fattore necessario dell’attuarsi del soggetto umano è fatale, prima che ad ogni altra cosa, proprio al soggetto personale umano. Parlando della “disuguaglianza costitutiva”, è utile dire previamente che non c’è ragione di dubitare del profondo convincimento del Roveretano circa l’uguaglianza di tutti gli uomini. Occorre osservare subito che si tratta dell’uguaglianza essenziale, in forza della quale tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, hanno la dignità di fine e conservano tutti i diritti che discendono dalla natura e che sono attingibili mediante la ragione. Appena, però, dal livello teorico si passa al livello della concretezza, il discorso rosminiano subisce delle variazioni di notevole portata: «Come la libertà sociale rettamente si concepisce dal confronto del vincolo di società con quello di signoria; così da simile confronto si trae lume a chiarire che cosa sia la sociale uguaglianza. Fra servo e padrone non vi ha uguaglianza, perocché il servo come servo non è che un mezzo, di cui il padrone è il fine: mezzo e fine differiscono essenzialmente, infinitamente. All’incontro le persone componenti di una società essendo tutte fine, niuna di esse mezzo, non differiscono essenzialmente come tali: sono tutte essenzialmente uguali. In questo adunque, ed in questo solo, consiste la sociale uguaglianza […]. Dopo tutto ciò la libertà sociale non distrugge le obbligazioni de’ sozi, così l’uguaglianza sociale non toglie che fra i sozi esistano delle accidentali differenze»96.

Nel momento in cui entra nello spazio socio-politico, la persona umana entra fatalmente nello spazio della disuguaglianza, in quanto la sua partecipazione alla vita sociale è in proporzione alla “messa”, cioè alla sua 96

ID., La società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., 157.


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effettiva capacità di contribuire al bene comune. Infatti, ogni società si regge su due leggi, che il Rosmini presenta nel modo seguente: «I. – I singoli sozi debbono volere il bene comune e concorrere alla sua produzione od acquisto in quel modo che è prescritto, cioè o per atti propri personali, o per le cose esterne da loro messe in comune; II. – convien distribuire ai singoli sozi una porzione del bene sociale acquistato in proporzione della loro messa, cioè della quantità dell’opera personale o dei beni esterni che ognuno contribuì al bene comune»97.

Nella società civile si pongono sia l’uguaglianza che la disuguaglianza, ma la loro relazione è tale che la prima ha spazio e possibilità quasi meramente teoriche. Nella presente circostanza è sufficiente dire che il Rosmini, sviluppando i suoi discorsi al riguardo, perviene al concetto di “disuguaglianza costitutiva”. Innanzitutto, egli pensa che, se «l’uguaglianza costitutiva consiste nell’avere la stessa quantità e qualità di diritti»98, i cittadini non ne sono dotati99. La prova di ciò è molto semplice e si alimenta del carattere contrario e complementare dei diritti e dei doveri: il possesso di un diritto, da parte di una persona, comporta una disuguaglianza in un’altra, in quanto in quest’ultima si pone il dovere corrispondente100. In tal modo, “uguaglianza giuridica” e “disuguaglianza costitutiva” hanno entrambe dignità giuridica, e violare l’una o l’altra significa violare il diritto: «È dunque una violazione di diritto tanto l’attentare alla distruzione dell’eguaglianza giuridica, quanto l’attentare alla distruzione della disuguaglianza costitutiva, che è giuridica anch’essa, cioè dal diritto di ragione autenticata»101.

97

ID., Compendio di etica, Roma 1937, n. 462; cfr ID., La società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., 158; ID., Filosofia del diritto, cit., II, nn. 244 ss.; 341, 1650, 2082. 98 ID., La costituzione secondo la giustizia sociale, in ID., Progetti di costituzione. Saggi editi ed inediti sullo Stato, Milano 1952, 109. 99 Cfr ID., Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile, cit., 93; ID., Filosofia del diritto, cit., II, nn. 2182-2187. 100 Cfr ID., Filosofia del diritto, cit., II, 2183. 101 Ibid., II, 2187; cfr ID., La costituzione secondo la giustizia sociale, in ID., Progetti di costituzione, cit., 110.


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Il discorso rosminiano sarebbe contraddittorio, se non si prestasse attenzione al fatto che il suo concetto d’uguaglianza, più che gli uomini, riguarda i diritti. Il che significa che ad uguale quantità e qualità di diritti corrisponde l’uguaglianza giuridica e costitutiva. E questo va detto insieme alle affermazioni concernenti la proprietà quale principio della determinazione dei diritti, a cui abbiamo dedicato la nostra attenzione un po’ supra. Essendo diverso il rapporto persona-proprietà, diverso è il rapporto personadiritto e, ancora, diverso è il rapporto diritto-società. Soltanto coloro i quali mirano ad instaurare nella convivenza organizzata un potere dispotico, e cioè i socialisti ed i comunisti, tendono ad identificare uguaglianza giuridica ed uguaglianza costituiva e, conseguentemente, ad illudere la popolazione: «I socialisti adunque, i comunisti, i livellatori d’ogni specie distruggono l’uguaglianza de’ cittadini, la vera loro e legittima loro uguaglianza che è la giuridica: applicano loro principi e misure diverse: sostituiscono al diritto l’arbitrio. A costoro è facile ingannare la plebe annunziandole l’uguaglianza costitutiva invece della giuridica: è facile guadagnarla promettendogli che il governo arbitrario che essi vogliono istituire intende operare a suo favore. Colla distruzione adunque di tutti i diritti verrebbero a stabilire il massimo dispotismo»102.

Al livellamento in termini di “uniformità materiale”, che è illusoria perché prescinde dalle disuguaglianze legittime, incluse quelli dei diritti preesistenti alla legge, il Rosmini contrappone l’“uniformità formale”, che tiene conto delle differenze dei cittadini discendenti dalle differenze dei diritti di cui essi sono titolari in vario modo103. La disuguaglianza, oltre ad essere un fattore rispondente alla natura ed alla ragione, è anche alla base di ogni progresso, in quanto il bisogno e l’emulazione, che ne discendono, spingono inevitabilmente l’umanità alla ricerca ed al progresso in ogni campo ed in ogni senso104. Ovviamente, al Roveretano non può sfuggire il fatto che le disuguaglianze sono all’origine del grave fenomeno del pauperismo, e proprio per 102

ID., La costituzione secondo la giustizia sociale, in ID., Progetti di costituzione, cit.,

110. 103 Cfr ID., Sulle leggi civili che riguardano il matrimonio de’ cristiani, in ID., Del matrimonio. Operette varie, Roma 1977, nn. 49 s. 104 Cfr ID., Il comunismo ed il socialismo, in ID., Opuscoli politici, Roma 1978, 114.


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questo ne dà, sia pure in modo episodico e non organico, una valutazione negativa, ma la soluzione da lui proposta è la beneficenza, che, però, ha, oltre i suoi gravi limiti intrinseci, anche il limite estrinseco della volontarietà e, quindi, della casualità105. La beneficenza non può essere pensata secondo la logica dell’obbligo giuridico perché, essendo volontaria e, per di più, essendo legata ad istanze etico-religiose, non è inscrivibile nello spazio semantico dei diritti. Sulla base di tutti questi dati, sembra che il Rosmini sia convinto che la disuguaglianza sia il destino dell’uomo, un destino che si esprime concretamente nello spazio socio-politico, ma che, stando ai dati raccolti, è secondo natura, secondo ragione ed anche secondo Dio. Un simile destino deve essere accettato senza alcun disagio? senza alcun risentimento? È in questo contesto tematico e problematico che il Rosmini introduce un’idea di “risentimento morale”. La persona, e lo abbiamo già messo in luce, non vive nella convivenza organizzata come essenza dotata di diritti essenziali, naturali e razionali, bensì come persona concreta, che, essendo fornita di proprietà, ha il titolo legittimo per affacciarsi sullo spazio della convivenza come cittadino. Ma, che ne è del nullatenente? Questi non è un cittadino nel senso pieno del termine, per la ragione che è privo di ciò che consente all’uomo di occupare lo spazio sociale esercitando concretamente dei diritti, e cioè è privo della proprietà106. Le riflessioni che il Rosmini fa sul “tribunale politico”107, e cioè su quell’istituzione politica ed anche metapolitica108 che ha competenza sui diritti di natura e di ragione e sui diritti della persona, hanno come loro luogo discorsivo questo problema e fanno pensare alla pretensione etica ed alla pretensione giuridica, che la persona esercita nei confronti di tutti gli altri protagonisti della convivenza organizzata, pretensioni che non possono essere ignorate e che, dunque, 105

Cfr ID., La Costituzione del Regno dell’Alta Italia, in ID., Progetti di costituzione, cit., 264-272. 106 Cfr ID., Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile, cit., 4; ID., Filosofia del diritto, cit., II, nn. 1703, 2182-2187, 2619. 107 Cfr ID., La costituzione secondo la giustizia sociale, in ID., Progetti di costituzione, cit.; ID., Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile, cit.; F. CONIGLIARO, La politica tra logica e storia, cit., 210-222. 108 Cfr F. TRANIELLO, Società religiosa e società civile nel pensiero di Rosmini, Bologna 1966, 126.


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determinano una sorta di obbligo, che il Rosmini chiama “risentimento morale”109. Non si tratta ancora di obbligo giuridico, ma costituisce il “centro della forza morale della società”110. E, certo, i diritti naturali, razionali e personali del nullatenente trovano nel tribunale politico un organismo istituzionale idoneo e deputato a farsene carico. Oltre questo, però, non accade altro. Infatti, il tribunale politico, che pure impone all’attenzione dell’intera convivenza il discorso circa la persona ed i suoi diritti, non si tramuta per la medesima in luogo ontogenetico dei diritti sociali e politici, al fine di creare un canale istituzionale per determinare in tutti i partecipanti alla vita dello spazio socio-politico un obbligo giuridico nei suoi confronti. Il “risentimento morale”, cosa lodevolissima, è sufficiente a fare entrare in azione il tribunale politico in caso di violazione di diritti naturali, razionali e personali, ma non lo è più quando a trovarsi in una situazione oggettiva di conculcamento dei diritti sociali e politici è il nullatenente. Il tribunale politico, dunque, nella mente del Rosmini, è certamente frutto di un’esigenza legata al personalismo ed all’egualitarismo della tradizione cristiana, ma, in quanto s’impegnerebbe a difendere la persona umana solo se venissero offesi i suoi diritti dedotti dal concetto di natura e dal concetto di ragione, ci sembra gravido della tradizionale astrattezza illuministica. Con questo, ovviamente, non intendiamo negargli la suggestione concettuale e la tensione morale che suscita nel bel mezzo dell’organizzazione concreata della società. Le teorie della disuguaglianza costitutiva e della proprietà quale criterio della determinazione dei diritti hanno delle conseguenze drammatiche ed aprono delle prospettive che non lo sono di meno; e la ragione è una sola: l’impoverimento radicale della realtà umana. Infatti, considerata soprattutto nello spazio socio-politico, essa non riesce a venire all’effettività secondo la struttura ontologica, che è stata teorizzata dal Roveretano con profondità straordinaria. Gli è che il Rosmini, come a suo tempo ha opportunamente rilevato G. Bonafede, ha fatto confusione tra i diritti della proprietà e quelli della persona, assegnando ai primi la funzione di stabilire

109 Cfr A. ROSMINI, Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile, cit., 177 s. 110 Cfr ibid., 118.


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per gli altri diritti la possibilità e le modalità secondo cui situarsi, vivere ed operare nello spazio socio-politico111. Ci sembra di dover dire conclusivamente che il “principio di proprietà” ed il criterio della “disuguaglianza costitutiva” costituiscono degli ostacoli seri e praticamente insormontabili all’affermazione del soggetto personale umano secondo la sua natura e le sue caratteristiche costitutive nello spazio della convivenza umana e, quindi, anche all’attuazione nello spazio socio-politico dell’analogia proportionalitatis in questione. La conseguenza di tutto questo è che la nostra ipotesi di partenza, quando il Rosmini passa dal livello teoretico al livello pratico, sembra vacillare pericolosamente.

CONCLUSIONE All’inizio di questo breve studio abbiamo formulato un’ipotesi circa la possibilità di istituire un’analogia proportionalitatis tra la pericwérhsiv trinitaria e la comunità politica. Arrivati a questo punto del nostro discorso, riteniamo di doverci interrogare circa l’esito dell’ipotesi di partenza. Sotto alcuni profili e segnatamente sotto quello antropologico, riteniamo di poter dire con sufficiente sicurezza che essa si è trasformata in tesi e che, quindi, ha avuto successo. Infatti, il tentativo di inscrivere i termini pericwérhsiv ed “inoggettivazione” l’uno nello spazio semantico dell’altro, non pure trova una plausibilità e, ancora di più, una legittimità nelle pagine dello stesso Rosmini, ma anche offre suggestioni forti ed apre prospettive teoretiche e pratiche straordinarie. Infatti, l’offerta di senso di entrambi i termini, naturalmente dopo averli privati di ogni pregnanza teologica, si volge all’immedesimazione dei soggetti, che ne vivono rispettivamente le vicende, senza alcun rischio di dissoluzione degli uni negli altri e rimanendo tutti, con uguaglianza di dignità e di diritti, all’interno della relazione interpersonale di reciprocità. Di conseguenza, tutti questi soggetti sono persone e di tutti deve essere detto quanto viene affermato della persona in senso formale, e cioè che il diritto è persona, che la persona è fonte del diritto, che la persona è irriducibile alla società ed è primaria 111

Cfr G. BONAFEDE, Il dialogo, Palermo 1967, 98.


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rispetto ad essa, che la presenza della persona è equivalente alla presenza del diritto. A livello teoretico ed antropologico, un tale discorso coincide con quanto il Roveretano afferma della persona e delle sue prerogative. A livello socio-politico, e cioè al livello in cui la persona è chiamata a vivere concretamente, storicamente ed intersoggettivamente la sua esperienza, entra in campo il principio di proprietà, con tutte le conseguente limitative per l’uomo, di cui noi abbiamo presentato solo un parziale rendiconto. L’intenzione del Roveretano era quella di salvaguardare la persona e tutte le sue pertinenze112, ma l’esito è stato quello di garantire gli interessi, che, come si sa, scatenano sempre tutta una serie di fattori apersonali, che impediscono al soggetto umano di esprimersi compiutamente. Purtroppo, il Rosmini non si è lasciato condurre dalle sue idee profondamente ispirate sulla persona. Il timore di proporre una teoria che potesse legittimare la consegna della società alle mani dei “livellatori”, già vistosamente impegnati nell’opera di impadronirsene, ebbe la forza di bloccare la sua riflessione, volta a fare della società lo spazio della persona, e ad orientarla diversamente, fino a farne lo spazio dei proprietari, in proporzione alla “messa”. In realtà, nel caso che la relazionalità sia fondata e sostenuta dagli interessi, accade il contrario di quanto il Rosmini propone con le dottrine della pericwérhsiv e dell’inoggettivazione; e cioè nel soggetto da cui si parte non si verifica quanto è previsto dalla situazione ideale indicata con le espressioni rosminiane “ritiene tutto” con il “dare tutto”, ma piuttosto il suo contrario, indicato con queste altre locuzioni: “ritiene tutto” “senza dare nulla agli altri”. Con parole diverse la medesima idea può essere formulata nel modo seguente: nella relazione, che dovrebbe favorire l’ontogenesi del soggetto personale, l’alterità dell’altro si presenta ed opera come un estraneo che tenta di catturare la realtà sostanziale di chi si lascia guidare correttamente dalle esigenze della relazionalità interpersonale113. La prospettiva di esiti di questo genere è catastrofica. Dobbiamo, allora, rassegnarci a vedere il lavoro rosminiano sulla persona e sui suoi diritti, sull’inoggettivazione e sulle sue possibili applicazioni in campo

112

Cfr A. ROSMINI, Filosofia del diritto, cit., I, nn. 128, 187-190, 295. Cfr C. VIGNA, Sostanza e relazione. Una apiretica della persona, in V. MELCHIORRE (cur.), L’idea di persona, Milano 1996, 199 s. 113


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sociale e politico, condannato all’inefficacia? La risposta è negativa. Infatti, i discorsi rosminiani sulla persona possono e debbono continuare a costituire un punto di riferimento costante non solo per l’antropologia ma anche per la sociologia e per la politologia. Si tratta di discorsi di rara perfezione e di raro valore e bisogna far di tutto per dar loro la possibilità di essere fecondi anche in questi ambiti. È a questo punto che l’analogia proportionalitatis tra la pericwérhsiv trinitaria e la comunità politica può dare il suo contributo. Il Rosmini concepisce l’inoggettivazione in modo analogo alla pericwérhsiv, e cioè la pensa come immedesimazione e come offrirsi, da parte dei partners dialogali, nella mutua autodonazione della reciprocità. L’analogia proportionalitatis potrebbe, dunque, essere formulata nel modo seguente: come le tre persone della Trinità sono in relazione tra di loro nell’unità dell’essere divino e della vita divina, così le persone umane debbono rapportarsi tra di loro nell’unico spazio socio-politico. In termini più articolati potremmo esprimerci con queste parole: come le tre divine persone, nel dinamismo vitale eterno, vivono la perfezione dell’e"k-stasiv dell’amore offrendosi l’una alle altre affinché tutte e tre, insieme e simultaneamente, siano l’unico essere divino e l’unica sostanza divina da loro sussunti senza confusione e senza separazione e fruiti nell’esperienza di essere e di vivere mediante il reciproco darsi, come darsi ed in quanto darsi, così gli esseri umani, nel dinamismo della convivenza organizzata, debbono progettare la loro esistenza come una reciprocità nell’amore, che, a livello antropologico si chiama intersoggettività ed a livello socio-politico si chiama simmetria. Si tratta di analogia e non di identità sia perché i partecipanti, le tre divine persone ed i cittadini, sono diversi, sia perché per le prime il discorso è da sempre e per sempre perfetto e compiuto, mentre per i secondi si parla, al massimo, di un ambizioso ideale regolativo. Le variazioni di linguaggio, e cioè i termini “sono” e “vivono”, in riferimento alla Trinità, e le espressioni “debbono rapportarsi” e “debbono progettare”, in riferimento agli uomini, rendono chiaramente conto della differenza che intercorre tra l’attualità della pericwérhsiv divina ed il progetto umano di inoggettivazione. Queste precisazioni sono gravide di conseguenze. Quella più significativa, sulla quale vogliamo fermare la nostra attenzione e con la quale concludere questo nostro breve studio, è la tensione controfattuale che l’analogia proportionalitatis in questione può


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avviare nei confronti sia della concezione rosminiana, sia della concreta e storica convivenza umana. Quanto alla concezione rosminiana, occorre convincersi che il discorso in essa presente sulla persona, intesa come “relazione sussistente” e come “diritto sussistente”, è già pronto per essere calato ed applicato nella prassi socio-politica, in quanto i vari soggetti che compongono la comunità politica sono rapportati tra di loro come soggetti personali collegati intersoggettivamente ed impegnati nell’atto di esercitare tra di loro una pretensione etica ed una pretensione giuridica. Secondo questa lunghezza d’onda, la proprietà non costituisce un problema, per la ragione che, almeno a livello di teoria e di principi, non entra più nel concetto di cittadino. Quanto alla concreta e storica convivenza umana, che vive lasciandosi guidare dalla logica della forza e dalla logica degli interessi, la nostra analogia proportionalitatis si dimostra dotata di grande efficacia controfattuale e proprio a motivo della forza critica che il sociale ed il politico, così come sono da noi conosciuti, attirano su di sé. La dinamica dell’e"k-stasiv dell’amore, caratterizzata, come sostiene il Rosmini, dalla logica del “dare tutto ad altri” per potere “ritenere tutto”, ci mette di fronte alla dinamica più profonda, più intensa, più autentica e più significativa dell’evento personale, che consiste nella coincidenza dell’essere e del darsi della reciprocità interpersonale. Sicché, una persona è nel darsi, mediante il darsi e come darsi all’altra, e, in quanto tale, attiva una dinamica talmente controfattuale rispetto alla prassi normalmente vissuta dalla convivenza organizzata, da provocare, se fosse presa in considerazione in modo adeguato, uno sconvolgimento della modalità consueta e tristemente nota dei rapporti umani e la loro riconfigurazione secondo uno stile radicalmente nuovo, lo stile dell’uomo personale.



Sezione miscellanea Synaxis XV/1(2007) 89-110

IL SETTIMANALE CATTOLICO «PROSPETTIVE»*

ADOLFO LONGHITANO**

INTRODUZIONE L’ultimo ventennio del ’900, al quale è interessato il nostro convegno, per la città di Catania non è stato fra i più felici. Agli anni del boom economico e della grande espansione edilizia, che avevano assicurato lavoro e benessere fino al punto da far rispolverare per la città l’antico appellativo di «Milano del Sud», era succeduto un periodo di grave crisi che di lì a poco farà nascere il cosiddetto «caso Catania», un’espressione meno retorica ma molto più realistica con cui la magistratura e la stampa nazionale indicarono il complesso dei gravi problemi che la società catanese nel suo insieme si trovò ad affrontare dalla fine degli anni Sessanta: crisi economica, disoccupazione, diffusione della malavita organizzata, crisi dei partiti, corruzione, ingovernabilità, acquiescenza al progressivo degrado del tessuto sociale e delle istituzioni…1 In una crisi di così vasta portata tutte le componenti della società civile dovevano assumersi le proprie responsabilità. Nelle impietose analisi di quel periodo ci fu chi richiamò l’attenzione sulla carenza di un’informa* Relazione tenuta al convegno Per un bilancio di fine secolo. Catania nel Novecento. Convegno nazionale di studio dal 1981 al 1999. Catania, 18-20 ottobre 2001, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale. ** Ordinario emerito di Diritto canonico preso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 La situazione di quegli anni è descritta con stile e taglio diversi nei due volumi: S. NICOLOSI, Il caso Catania. 1965-1988: i fatti e il perché dei fatti, Catania 1988; C. FAVA, La mafia comanda a Catania 1960-1991, Bari 1991.

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zione obiettiva e pluralistica2. Mentre in passato il cittadino poteva scegliere fra due o più quotidiani ed emittenti televisive locali, col passare degli anni si era verificata una pericolosa concentrazione delle fonti di informazione: una sola persona gestiva in regime di monopolio La Sicilia — unico quotidiano superstite — e l’emittente televisiva Antenna Sicilia3. La mancanza di pluralismo nell’informazione finiva per emarginare e mortificare numerosi settori della società civile, desiderose di far sentire la propria voce, e faceva correre il rischio di una manipolazione delle notizie a difesa di interessi particolari.

1. L’ARCIVESCOVO PICCHINENNA E LA FONDAZIONE DI «PROSPETTIVE» Il problema fu posto anche dalla Chiesa di Catania, che da tempo avvertiva il bisogno di avere a disposizione un periodico, una radio o una televisione per comunicare con i fedeli e la società civile e rendere più incisiva la sua missione. Non si trattava di un’esigenza percepita solo in quegli anni: all’inizio del secolo e dopo la seconda guerra mondiale i cattolici catanesi avevano dato vita a giornali e periodici, che per diversi anni avevano avuto un ruolo non marginale nella vita della città e della diocesi4. Il tema fu affrontato più volte nel consiglio presbiterale, l’organismo di partecipazione voluto dal Concilio Vaticano II per aiutare il vescovo nel governo della Chiesa locale. L’arcivescovo Domenico Picchinenna faceva notare che, nelle difficili condizioni di quegli anni, solo attraverso uno strumento proprio di comunicazione la Chiesa avrebbe potuto far sentire la sua voce evitando il rischio della disinformazione, della manipolazione e della strumentalizzazione. 2

Fra i primi a fare il rilievo fu il giornalista Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia nel 1984, nella rivista I Siciliani: C. FAVA, La mafia, cit., 113-126. 3 Sulle vicende dei quotidiani e delle emittenti televisive di Catania si vedano le singole voci in Enciclopedia di Catania, diretta da Vittorio Consoli, 3 voll., Catania 1987. 4 Il Buon Seme (1872), La Campana (1875), La Luce (1898), Il Risveglio (1905), L’Azione (1909). Sul tema vedi G. DI FAZIO, Stampa cattolica e realtà urbana in Sicilia (1890-1911), in Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920). Atti del Convegno di studi. Catania 18-20 maggio 1989, Acireale 1990, 309-323. Dopo la seconda guerra mondiale sono stati fondati Presenza Cristiana (1953) e L’Avvenire di Sicilia (1964).


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Il suo invito fu accolto da un gruppo di sacerdoti e di laici, che nel 1978 diedero vita alla cooperativa “Zenia”5, il soggetto giuridico che avrebbe dovuto fondare e gestire un settimanale e una radio cattolici6. I soci fondatori fecero pervenire alle parrocchie e agli enti ecclesiastici un foglio, in cui si spiegava il significato del nome prescelto e le finalità che la cooperativa intendeva raggiungere. Non si andò oltre questa dichiarazione di intenti. L’invito dell’arcivescovo fu ripetuto più volte e nel 1984 un altro gruppo di sacerdoti e di laici decise di passare all’azione: si ricostituì la cooperativa con il nome di “Zenia 84”, si rinnovò l’invito ad una partecipazione numerosa, si annunziò per il 1985 la fondazione del periodico quindicinale Prospettive7. Quali furono le difficoltà incontrate dalla prima cooperativa e in che modo la seconda riuscì a superarle? L’arcivescovo, nell’invitare la comunità diocesana a fondare un periodico cattolico, aveva indicato anche alcune linee per definire la sua identità: non doveva trattarsi di un periodico 5 Il perché della scelta di questo nome così veniva spiegato: «La zenia è un sollevatore a coppelle che calano in un pozzo e portano alla superficie l’acqua profonda da versare nei canali per l’irrigazione […]. Per questo, affinché fosse invito a trarre dal cuore profondo dell’Isola ogni umore nascosto, dall’anima siciliana una memoria, un impulso, un sommovimento lontano da vestire di parole nuove […] abbiamo chiamato Zenia il “luogo” dove si esprime la comunità cristiana della diocesi di Catania»: G. PADALINO, Quando fondammo “Zenia”, in Prospettive 5 (1989) 15, 10. 6 «Mons. Picchinenna ci aiutò sensibilmente per la soluzione dei problemi. Egli il 29 giugno 1977 mi incaricava di studiare il problema dei mezzi di comunicazione e nominava il sottoscritto delegato arcivescovile ad una commissione diocesana per le comunicazioni sociali. Il 23 gennaio 1978 (dopo 12 sedute con la presenza del vescovo), nacque la cooperativa Zenia alla quale aderirono 28 soci rappresentanti di diverse realtà cattoliche diocesane. Essa non nacque sotto l’egida della curia arcivescovile o del clero perché si ritenne di non dover coinvolgere la Chiesa ufficiale in quanto le diverse attività della cooperativa dovevano essere gestite da tutti i cattolici della diocesi catanese, i quali dovevano finalmente responsabilizzarsi nel dare la testimonianza della loro fede»: T. GIUFFRIDA, Un prezioso mezzo di dialogo, in Prospettive 5 (1989) 15, 7. 7 «Nel messaggio alla Comunità (5 aprile ’84), nel Convegno Ecclesiale Diocesano (2-3 gennaio ’85) emergeva ancor più l’improrogabile necessità di realizzare qualcosa in merito; anzi Sua Eccellenza l’Arcivescovo nella lettera pastorale del 13 marzo c.a. manifestava la sua precisa volontà che una iniziativa di stampa venisse al più presto attuata. Su queste indicazioni veniva costituita una nuova cooperativa “Zenia 84”, nuova come costituzione giuridica, ma strutturata con lo statuto della cooperativa precedente»: Prospettive. Come e perché, in Prospettive 1 (1985) 12, 1.


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diocesano gestito dalla curia; doveva essere la cooperativa ad assumersi la responsabilità economica, a stabilire la linea editoriale, a cercarsi i collaboratori e a curare la sua diffusione. Per attuare l’iniziativa nel rispetto di queste direttive non era sufficiente l’istituzione di una cooperativa che fornisse i fondi economici richiesti (problema non indifferente); era necessario cooptare persone preparate dal punto di vista professionale e dottrinale e disporre di una struttura operativa minima. La prima cooperativa non riuscì a risolvere nessuno di questi problemi. La seconda, appoggiandosi ad una struttura cattolica preesistente — l’Opera Diocesana Assistenza, che aveva già un’esperienza editoriale8 — si trovò nelle condizioni di realizzare il progetto. Il primo numero fu pubblicato il 5 aprile 1985. La redazione, in un breve editoriale dal titolo «Fedeli all’uomo contro ogni manipolazione», spiegava i motivi che erano all’origine del periodico e indicava le linee che intendeva seguire: «La constatazione che certa stampa e il torrente continuo dei mass-media hanno assunto tale potenza da creare a volte veri e propri meccanismi di manipolazione della coscienza individuale e collettiva […]; il vedere spesso in tali processi di massificazione la eliminazione delle radici cristiane della persona e della società, ci hanno spinto a programmare Prospettive. Ci prefiggiamo informare su problemi ed avvenimenti; essere ambito per alimentare il desiderio di ricerca della verità, anche come frutto della dialettica d’urto tra posizioni differenti, ma costruttivamente finalizzate; sollecitare alla promozione del dialogo sugli interrogativi della vita individuale e sui valori del vivere sociale e politico; contribuire all’orientamento e alle scelte significative del vivere quotidiano e della comunità umana. Vogliamo anche essere testimonianza e voce della presenza dei cristiani e della Chiesa locale in tutto il tessuto sociale, ma specialmente ove si soffre e si chiede aiuto, ovunque è in gioco il valore e il destino dell’uomo per operarvi in spirito di servizio. Ci dichiariamo fedeli all’uomo e al vangelo, ma senza nostalgia d’un passato ormai irreversibile, aperti al futuro, non timorosi delle novità, radicati nella speranza che un mondo migliore possa esservi. Per questo chiediamo il vostro sostegno e la vostra collaborazione. Siamo nati, aiutateci a crescere e a proseguire»9. 8 L’Opera Diocesana Assistenza pubblicava già Meridiano dell’Etna, un periodico sulle attività assistenziali dell’ente. 9 Prospettive 1 (1985) 1, 1.


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Nella stessa prima pagina non mancava un breve indirizzo di augurio dell’arcivescovo Picchinenna: «Esprimo la più viva gioia per la pubblicazione di Prospettive, che nasce come organo di stampa periodica, di cui la Comunità Diocesana da lungo tempo avvertiva l’estrema esigenza. Formulo il più fervido augurio che Prospettive sia valido strumento per la formazione delle coscienze, per il dibattito sui problemi del nostro tempo, per la sensibilizzazione dei singoli cristiani e delle realtà ecclesiali al servizio della comunità degli uomini»10.

Il gruppo redazionale era costituito da un direttore responsabile (il sac. Agatino Giuffrida) e da un consiglio di redattori: il preside Giuseppe Adernò, il sac. Alfio Fisichella, il giornalista Piero Isgrò, il preside Santo Gagliano. A partire dal 14 luglio 1985 al gruppo si aggiunse il dott. Salvo Nibali, al quale fu affidato il compito di redattore11. Nel gruppo redazionale non figurava il nome del sac. Antonino Calanna, principale promotore dell’iniziativa. Come presidente dell’Opera Diocesana Assistenza aveva messo a disposizione della redazione alcuni locali, aveva assicurato l’iniziale sostegno economico, una certa copertura pubblicitaria e la struttura minima per avviare il lavoro. Al gruppo redazionale bisognava aggiungere un folto numero di collaboratori esterni che avrebbero dovuto assicurare, secondo le proprie competenze, il materiale e i saggi per il periodico. Anche se per esigenze legali era stato indicato un direttore responsabile, in realtà il gruppo della redazione aveva scelto di seguire un metodo collegiale di lavoro: si riuniva per impostare i diversi numeri del periodico, per scegliere il materiale inviato dai collaboratori, per risolvere 10

L.c. Nel corso degli anni il gruppo responsabile della redazione subì diversi cambiamenti: nel 1986 per sei mesi lavorò a tempo pieno il giornalista Giuseppe Di Fazio, nello stesso anno si aggiunse Carmelo La Carrubba. Nel 1989 diede la sua collaborazione il prof. D. Antonio Corsaro, che curò inizialmente la pagina culturale. Nel 1991 entrano a far parte Giovanna Cataudella, Giovanna Finocchiaro Chimirri, Vittoria Timmonieri. Nel 1993 i redattori diventano tre: Salvo Nibali, Michele Minnicino e Gaetano Pedullà e al consiglio di redazione si aggiunge il sac. Antonio Legname, responsabile dell’ufficio stampa dell’arcivescovo Bommarito. La prof. Giovanna Finocchiaro Chimirri subentrò ad Antonio Corsaro nella cura della pagina culturale. 11


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i problemi che man mano si presentavano12. Con il primo numero del 1986 Prospettive divenne settimanale allo scopo di assicurare una presenza più assidua e un’informazione più puntuale13.

2. IDENTITÀ, INDIRIZZO ECCLESIALE E POLITICO Prospettive era nato come periodico cattolico e questa sua identità era fuori discussione. Ma l’aggettivo “cattolico” non era sufficiente per definire con chiarezza la sua identità: le tante anime del mondo cattolico da tempo hanno dato vita a modelli di stampa che, pur ispirandosi alla stessa fede, a volte si sono trovati contrapposti o divisi nel modo di concepire la stessa immagine di Chiesa, il ruolo del papato e il tipo di presenza dei cattolici nella società14. Il problema dell’identità del periodico fu subito avvertito dal gruppo redazionale. Dall’editoriale pubblicato nel primo numero possiamo individuare i punti caratteristici di questa identità. Una prima indicazione è in negativo e non manca di uno spunto polemico: il periodico intende contrapporsi a «certa stampa» che manipola la coscienza individuale e collettiva e con un processo di massificazione finisce per eliminare le radici cristiane della persona e della società. Vengono, poi, indicate in positivo le finalità che si vogliono raggiungere: a) informare; b) aiutare alla ricerca della verità, anche come frutto della dialettica tra posizioni differenti ma costruttivamente finalizzate; c) promuovere il dialogo; d) contribuire all’orientamento e alle scelte quotidiane; d) essere testimoni e voce della presenza dei cristiani e della Chiesa in tutto il tessuto sociale, ma specialmente ove si soffre e si chiede aiuto; e) fedeltà all’uomo e al Vangelo. Si tratta di temi che potevano in qualche modo richiamarsi alla svolta antropologica ed ecclesiologica del Vaticano II. 12

Da un’intervista a mons. Antonino Calanna e al dott. Salvo Nibali. «Prospettive diventa settimanale. Dignità a tutte le voci»: Prospettive 2 (1986) 1, 1. 14 Si vedano le rassegne della stampa cattolica nell’Ottocento: accanto ai periodici che propugnavano l’assetto tradizionale della società e si ergevano a difesa del potere temporale del papa, c’erano quelli aperti alle nuove istanze della società e auspicavano la conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa: F. MALGERI, La stampa quotidiana periodica e l’editoria, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello e G. Campanini, I/1, Torino 1981, 273-295 e la letteratura indicata in appendice. 13


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Le indicazioni dell’editoriale non ci permettono di individuare con chiarezza l’identità di Prospettive. Si tratta di un discorso generico, per certi aspetti scontato e non privo di retorica, che poteva andar bene per qualsiasi periodico cattolico, ma che non diceva nulla su alcuni aspetti che interessavano maggiormente il lettore: si intendeva fare un chiaro riferimento alla concezione di Chiesa voluta dal Vaticano II? Il gruppo redazionale intendeva assumersi quella giusta autonomia e responsabilità che il concilio aveva riconosciuto ai cristiani che operano nel mondo? Come concepiva il rapporto Chiesa-società? Se dall’editoriale e dai contenuti del primo numero è difficile dare una risposta a queste domande, il problema dei cristiani in politica sembrava stare particolarmente a cuore ai redattori e su di esso volevano dare una prima assicurazione ai lettori. In prima pagina leggiamo due saggi sull’argomento: uno più corposo del sac. Alfio Fisichella «Essere cristiani in politica. Un compito difficile ma necessario»; un altro «Rinnovato impegno» di Piero Isgrò, nel quale si legge che la Chiesa dava l’impressione di aver abbandonato la tradizione “interventista” per porsi come elemento catalizzatore delle coscienze15. Se dobbiamo riconoscere a questi testi un valore programmatico per il periodico, dobbiamo concludere che Prospettive intendeva affermare la necessità per il cristiano di impegnarsi nella politica a partire dalla propria fede e non da scelte di partito obbligate e precostituite. Un altro elemento per definire l’identità di Prospettive doveva essere desunto dal modello di periodico che si intendeva realizzare: si voleva un “contenitore” idoneo a raccogliere il copioso materiale delle diverse realtà ecclesiali o qualcosa di più organico, che avrebbe richiesto un indirizzo unitario e la conseguente necessità per i redattori di un’azione di controllo e di filtro? Considerato l’organico limitato del gruppo redazionale, i pochi mezzi economici di cui disponeva e la varietà delle situazioni ecclesiali catanesi, diventava scontata la prima opzione. Questo non permetteva al periodico di assumere una fisionomia ben definita e di seguire una chiara linea editoriale; i contributi dei diversi collaboratori potevano riflettere posizioni anche contrastanti e disorientare il lettore. Il tema dell’identità di Prospettive fu affrontato più volte nel corso degli anni. Nel 1986, in un editoriale in cui si celebrava il primo anniversario 15

Prospettive 1 (1985) 1, 1.


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della fondazione, si legge che il settimanale «si innesta su un progetto cristiano e tuttavia intende essere “laico” […]»16. Nel 1987, un fondo celebrativo del terzo anno di vita, ha come titolo «Cattolici non clericali» e nel testo si legge: «Giornale cattolico non significa giornale clericale seppure ispirato al magistero della Chiesa. Significa giornale aperto ai bisogni della gente, giornale impegnato contro le ingiustizie sociali, contro la politica del compromesso, contro la violenza e contro l’arroganza del potere»17. Infine nel 1989, nel numero dedicato ai cinque anni di Prospettive, si chiarisce meglio il senso della laicità, che la redazione rivendicava come nota distintiva del settimanale: «Il primo impatto di Prospettive in alcuni ambienti del mondo cattolico non fu facile. Vi fu chi trovò (e trova ancora oggi) il giornale troppo laico per i suoi gusti […]. Mons. Picchinenna non aveva in gran simpatia chi […] avrebbe voluto trasformare il giornale in un bollettino parrocchiale […]»18.

Quest’ultimo riferimento ci permette di affermare che la redazione voleva restare fedele alle scelte fatte assieme all’arcivescovo al momento della fondazione: Prospettive non doveva essere un periodico d’informazione clericale, che si rivolgeva principalmente al mondo chiuso dei cattolici; suo interlocutore principale era la società catanese nel suo insieme; perciò la redazione era costituita in gran parte da laici, che dovevano affacciarsi sui problemi aperti della società con la mentalità aperta del laico che vive nel mondo, non con quella circoscritta e per certi aspetti limitata del chierico.

3. ACCOGLIENZA DEL PERIODICO La pubblicazione di Prospettive realizzava un progetto da tempo vagheggiato. Tuttavia né la redazione, né l’arcivescovo potevano aspettarsi accoglienze entusiastiche da parte delle diverse anime della Chiesa 16 17 18

Prospettive 2 (1986) 14, 1. Prospettive 3 (1987) 14, 1. G. LITRICO, Quel che Prospettive non è, in Prospettive 5 (1989) 15, 8-9.


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catanese. Se molti del clero e del laicato si sentirono impegnati a sostenere l’iniziativa, nonostante i suoi limiti, non mancò chi assunse un atteggiamento di distacco o di rifiuto. I motivi che c’erano alla base di questo atteggiamento erano diversi: alcuni consideravano inutile lo sforzo non indifferente di lanciare un periodico destinato comunque ad un’esistenza breve e stentata; altri non condividevano la linea editoriale della redazione; altri ancora erano convinti che non si trattasse di un settimanale diocesano, ma di uno strumento di potere nelle mani di un gruppo ristretto di persone. Uno dei principali motivi di diffidenza era costituito dall’incerta linea politica seguita dalla redazione e da alcune scelte inopportune. Il periodico era stato fondato negli anni della crisi dei partiti politici che portò alla fine della prima repubblica. In tutti c’era il desiderio di cambiamento, ma non era ancora chiara la linea da seguire: puntare al rinnovamento degli uomini lasciando immutato il quadro politico esistente; negare il sostegno alla Democrazia Cristiana e lasciare liberi i cattolici di fare altre scelte; fondare un altro partito di orientamento cattolico; offrire all’opposizione di sinistra la possibilità di dimostrare se era capace di governare. La redazione, se inizialmente aveva dato l’impressione di voler assumere un atteggiamento equidistante dalle diverse posizioni, nel tempo fece capire che sostanzialmente intendeva battersi per rinnovare gli uomini senza mettere in discussione il sostegno al tradizionale partito dei cattolici. Il primo numero di Prospettive apparve nell’imminenza delle elezioni amministrative del 1985. La redazione, per offrire ai lettori un commento dei risultati e avanzare qualche ipotesi sulle possibili scelte del consiglio amministrativo appena eletto, ospitò in prima pagina un articolo che considerava naturale per i cattolici la scelta della Democrazia Cristiana19. Giunse immediata alla redazione una lettera di protesta da parte del consiglio pastorale della parrocchia Santa Maria di Ognina: «Ammiriamo l’iniziativa di portare avanti un giornale a livello diocesano. Sappiamo che la fatica è piuttosto considerevole. E siccome Prospettive si 19 L’autore, a proposito di un’apertura di dialogo fra il segretario della Democrazia Cristiana De Mita e il mondo cattolico, scriveva: «[…] E proprio dal mondo cattolico, che vuole essere presente nella società per storicizzare il messaggio evangelico e che trova nella Democrazia Cristiana uno strumento naturale di espressione politica è venuta una risposta pronta ed efficace […]»: N. INSERRA, Inversione di tendenza, in Prospettive 1 (1985) 5, 1.


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Adolfo Longhitano trova in fase di rodaggio, pensiamo sia opportuno comunicare alcune nostre impressioni e suggerire qualche consiglio […]. Non ci sentiamo di vendere o acquistare in chiesa un giornale che mette in mostra personaggi equivoci o comunque molto discutibili, come è accaduto nella prima pagina del n. 5 del 2 giugno […]. La Democrazia Cristiana nel suddetto articolo viene presentata come lo strumento “naturale” di espressione del messaggio evangelico. Ci chiediamo: dalla “natura” del Vangelo deriva proprio il partito della Democrazia Cristiana?»20.

Nella risposta la redazione dichiarò di gradire il rilievo e si disse disposta a tenerne conto. Allo stesso tempo faceva notare che andavano distinti gli articoli redazionali da quelli di “ospiti”, che esponevano le proprie opinioni senza coinvolgere la responsabilità del periodico21. Quello che sembrava un semplice incidente di percorso era destinato a ripetersi in modo ancor più clamoroso. Durante la campagna elettorale per le politiche del 1987 la redazione di Prospettive fece la scelta di pubblicare a colori in prima pagina i manifesti pubblicitari della Democrazia Cristiana, suscitando l’immediata reazione non solo di molti lettori ma anche di alcuni fra i più stretti collaboratori, che si affrettarono ad inviare una lettera di protesta: «Ci sia permesso manifestare il nostro disagio di fronte alle scelte operate dalla direzione di Prospettive in vista e in preparazione delle elezioni politiche che si sono appena concluse. Anche a non voler discutere la scelta di appoggiare apertamente e potentemente un partito (dimostrando in ciò molta più solerzia della Conferenza Episcopale Italiana) e di sposarne addirittura i manifesti elettorali in prima pagina (quasi che Prospettive fosse in cordata con Il Popolo e La Discussione), vogliamo esternare la nostra perplessità dinanzi alla propaganda offerta ai singoli candidati, la cui presentazione e preferenza non siamo riusciti a capire a quale criterio abbia obbedito. E non siamo riusciti a capirlo perché non ci è stato spiegato […]. Siamo fra coloro che guardano con simpatia a Prospettive […]. Temiamo che metodologie elettorali come quelle appena sperimentate possano, a lungo andare, alienare la simpatia di molti e soprattutto di quanti vorrebbero 20 21

P. NANIA, Troppo spazio alla politica, in Prospettive 1 (1985) 7, 5. L.c.


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serenamente esercitare il confronto costruttivo, pur nella pluralità di posizione di cui è ricco il mondo cattolico in generale, e quello catanese in particolare […]»22.

Nella lunga risposta la redazione, anche se con qualche “distinguo” e con l’appello a «particolari circostanze storiche e politiche», accettò il rilievo, ringraziò per l’intento costruttivo che animava i firmatari e fece capire che incidenti del genere non si sarebbero più verificati23. Al di là del fatto in sé, per molti l’episodio aveva fatto uscire allo scoperto una realtà che in passato era rimasta sommersa e che in futuro difficilmente sarebbe cambiata. Questo fu uno dei principali motivi di rifiuto del settimanale da parte di alcune parrocchie e di altre realtà del mondo cattolico catanese. Nell’editoriale che commemorava il terzo anno di vita del settimanale si legge tra l’altro: «[…] E luce voleva diffondere, fiaccola di verità voleva essere questo foglio. E, invece, venne definito tenebra, senza neanche dar tempo alla fiamma di portare all’incandescenza la reticella […]. Consideriamo con rispetto anche la decisione di parrocchie che hanno rifiutato il giornale o perché non corrisponde alle loro aspettative o perché non ritenuto espressione della comunità diocesana. Qualche fischio ai comizi è segno di democrazia e di pluralismo[…]»24.

In una intervista a diversi personaggi del mondo catanese, promossa dalla redazione per celebrare i cinque anni di vita di Prospettive, si può avere una panoramica delle diverse posizioni assunte nei suoi confronti. Sono in maggioranza coloro che riconoscono al settimanale il merito di

22

La lettera era firmata da Adolfo Longhitano, Gaetano Zito, Salvatore Finocchiaro, Giuseppe Gliozzo, Giuseppe Di Giovanni, Mauro Licciardello, Salvatore Pappalardo, Francesco Marti, Biagio Apa, Francesco Longhitano, Salvatore Giuliano: Prospettive 3 (1987) 27, 1. 23 L.c. 24 Prospettive 4 (1988) 14, 1.


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costituire un polo nuovo in una città abituata al monopolio dell’informazione25. Ai giudizi benevoli di alcuni26 si aggiungono i rilievi critici di altri27.

4. LA

PRESENZA DI

«PROSPETTIVE»

NEL DIBATTITO CULTURALE E SOCIO-

POLITICO DELLA SOCIETÀ CATANESE

Sfogliando le annate di Prospettive, non è difficile notare il suo progressivo affermarsi come soggetto promotore di dialogo e di cultura sia all’interno del mondo cattolico sia con la società catanese. Chi è interessato a un’indagine sul variegato mondo delle associazioni, dei movimenti e delle altre realtà della Chiesa catanese può trovare in Prospettive un copioso materiale. I neocatecumenali, comunione e liberazione, il movimento dei 25 «Si tratta di una iniziativa da proseguire ed incoraggiare perché colma oggettivamente un vuoto di cultura e di formazione della nostra comunità. In una provincia tanto inquieta, in una società che vuole crescere, uno strumento editoriale quale Prospettive diventa un punto di riferimento essenziale. Tanto più necessario se si considera la crisi in cui versano i partiti, la classe dirigente, e, più in generale, le istituzioni locali […]»: Vito Scalia, in Prospettive 5 (1989) 15, 9. «Si tratta di un’iniziativa positiva. Si sentiva a Catania la necessità di un periodico che ponesse i problemi oltre l’aspetto politico della città, cioè con una dimensione e una finalità sociale diversa […]»: Nunzio Sciavarrello, ibid., 8. «Seguo Prospettive da tempo. Dal punto di vista del pluralismo dell’informazione […] il fatto che esiste Prospettive, che si va sempre più affermando, insieme ad altre realtà informative, contribuisce a superare una fase contraddistinta finora dal monopolio dell’informazione, perché esperienze diverse si devono affermare sempre più per la vita democratica della città […]»: Ninni Andriolo, della segreteria provinciale del PCI, ibid., 8. «Seguo Prospettive ogni settimana e penso che finalmente c’è un settimanale che si occupa di questioni in cui l’altra stampa è assente»: Giustino Iezzi, Procuratore della Repubblica, ibid., 8. 26 Esprimono parere favorevole: il sindaco, avv. Enzo Bianco, il procuratore agli studi, dott. Ottavio Nicita, il prefetto di Catania, dott. Corrado Scivoletto, il sac. Salvatore Consoli, preside dello Studio Teologico S. Paolo, il sac. Antonio Fallico, parroco di Santa Maria di Ognina… 27 «Non voglio esprimere giudizi. Dico soltanto che io non mi ritrovo nel settimanale»: sac. Giuseppe Gliozzo, ibid., 9. «Il settimanale mi sembra tutto e il contrario di tutto. Ospita tante cose, alcune che condivido ed altre che non condivido […]. Prospettive è, secondo me, meno aperto di quanto potrebbe essere. Vorrei che il giornale fosse più aperto a certi problemi, che ospitasse più di frequente articoli, riflessioni e dibattiti per esempio sul disarmo, sull’obiezione fiscale o di coscienza, che invece sono stati dileggiati sul giornale […]»: sac. Giovanni Piro, ibid., 9.


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focolari, i cursillos, l’opus Dei, le iniziative promosse dai diversi ordini religiosi avvertivano la necessità di trasmettere un proprio servizio a Prospettive per illustrare un convegno o un momento importante della loro vita. Si tratta di articoli scritti non dalla redazione ma dagli stessi soggetti, che hanno perciò un’intonazione propagandistica e per nulla critica. Dopo il rodaggio dei primi anni, il settimanale riuscì a coinvolgere collaboratori del mondo cattolico28, dell’università, e della cultura29 e a far sentire la sua voce nel difficile momento che attraversava la città e la provincia. Gli interventi non riguardavano solamente il mondo religioso, ma affrontavano la politica nazionale e locale, i grandi temi sociali. Le indagini non si fermavano alla città, ma si estendevano anche ai comuni della provincia. C’era una vivace pagina culturale che offriva spazio ai cultori delle diverse discipline. Nel 1991 assunse la responsabilità della direzione del settimanale l’avv. Salvatore Giuliano. Il clima generale favoriva il dialogo e la società cercava dei “segnali” anche da parte della Chiesa per ricreare gli equilibri turbati dalla crisi di tangentopoli e dalla caduta del muro di Berlino. In questa congiuntura favorevole Prospettive si inserì autorevolmente, dimostrando di avere qualcosa da dire e di saperlo dire nella forma più opportuna. Il gruppo redazionale si adoperò per accentuare l’autonomia politica del settimanale: evitando forme di subalternità con i partiti, cercava di fare un discorso critico a partire dai principi cristiani. Il direttore più volte fu invitato come rappresentante del mondo cattolico catanese a convegni e dibattiti. Gli uomini politici dimostravano di seguire gli interventi sul settimanale e gradivano di partecipare offrendo il proprio contributo30. 28 Molti docenti dello Studio Teologico S. Paolo assicurarono la loro collaborazione: Giuseppe Bruno, Salvatore Consoli, Salvatore Latora, Adolfo Longhitano, Antonino Minissale, Michele Pennisi, Gaetano Zito. 29 Fra i tanti riferisco solo alcuni nomi: Luisa Adorno, Attilio Agodi, Adelfio Basile, Giuseppe Bonaviri, Salvatore Boscarino, Bruno Caruso, Vincenzo Consolo, Antonio Corsaro, Sergio Cristaldi, Antonio Di Grado, Giovanna Finocchiaro Chimirri, Emilio Galvagno, Luigi Giusso, Silvana La Spina, Enzo Lauretta, Giovanni Montemagno, Sebastiano Milluzzo, Carmelo Musumarra, Fortunato Pasqualino, Maria Raciti Maugeri, Franco Rizzo, Nunzio Sciavarrello, Francesco Scialfa, Manlio Sgalambro, Salvatore Claudio Sgroi, Melo Trovato, Sarah Zappulla Muscarà. 30 Da un intervista all’avv. Salvatore Giuliano.


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Fra i tanti dibattiti che animarono la città nei primi anni di vita del settimanale mi limito a prendere in esame la polemica sorta nel 1988 sulla figura e l’azione dell’arcivescovo Domenico Picchinenna. Nel 1984, in considerazione del penoso degrado in cui si trovava la città, l’arcivescovo Picchinenna, aveva incoraggiato il consiglio presbiterale diocesano a preparare un messaggio da inviare alla città e alla diocesi, perché non si pensasse che la Chiesa si fosse rassegnata a quella situazione o peggio ancora venisse considerata complice. Una commissione appositamente eletta preparò una bozza, che fu rielaborata e approvata da tutto il consiglio. Il documento porta la data del 5 aprile 1984. In esso, tra l’altro, si affrontavano i temi spinosi della mafia, della ingovernabilità e dell’intreccio di interessi e di poteri che c’era alla base di queste realtà: «Forti della fede nel Vangelo di Cristo, in cui fermamente crediamo, “noi non possiamo non parlare” (Atti 4,20). La gente perplessa e costernata si chiede: come mai la mafia appare sempre più forte e organizzata? Perché le cosche, le faide e le bande aumentano ogni giorno di più? E perché aumentano a dismisura gli scippi, le tangenti degli appalti, i ricatti, le minacce, i sabotaggi sanguinosi, le vendette tra bande sempre più numerose? […] Perché tanta negligenza nell’amministrazione della cosa pubblica? Sembra che si siano posti i sigilli della ingovernabilità su tutto. Il potere, in mano a pochi — nella politica come nell’industria come nell’edilizia —, sembra aver preso il sopravvento sulle istituzioni imponendo la ferrea legge dell’interesse privato sull’utilità pubblica […]»31.

Il documento ebbe ampia diffusione. Il quotidiano La Sicilia ne diede notizia con un servizio che, nei titoli, anticipava già alcuni contenuti: «Energica presa di posizione della Chiesa catanese contro l’immobilismo, la corruzione, la malavita. “Siamo decisi a non stare più alla finestra e a non dare più deleghe in bianco a nessuno”. Così affermano in un messaggio l’arcivescovo, il vescovo ausiliare e il consiglio presbiterale. “Il potere, in mano a pochi, sembra aver preso il sopravvento sulle istituzioni imponendo la

31 Bollettino Ecclesiastico dell’Arcidiocesi di Catania 87 (1984) 1, 71-76. Nel 1983 lo Studio Teologico S. Paolo si era fatto promotore di una tavola rotonda, tenuta presso l’aula magna della Facoltà di Economia e commercio, sul tema «Chiesa e mafia in Sicilia».


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ferrea legge dell’interesse privato sull’utilità pubblica”. La spirale della violenza e la droga. “Una città che langue in un ristagno pressoché generale»32.

Nel gennaio del 1988, subito dopo le feste, fu affissato alle mura della città un manifesto della CGIL che formulava pesanti accuse verso l’arcivescovo Domenico Picchinenna, ritenuto colpevole di tacere dinanzi al degrado della società catanese33. Dopo alcuni giorni le stesse accuse furono formulate in due inchieste parallele sulla città di Catania, fatte dai due quotidiani nazionali più diffusi. Scriveva La Repubblica: «[…] Nella sede del sindacato, tanto orgoglio e un brutto bilancio: la manifestazione per i disoccupati ha mobilitato poche centinaia di persone e tanta indifferenza. Qui troviamo, per la prima volta, una lamentela diffusa, l’unica invidia verso la non amata Palermo, ci raccontano infatti del silenzio, dell’immobilità della Chiesa catanese. Qui un cardinale Pappalardo letteralmente se lo sognano. E su questo giudizio del sindacato c’è consenso comune»34.

Si leggeva ne Il Corriere della Sera: «[…] Dai discorsi raccolti viene fuori una serie di ricette: spiegano come Catania può uscire dalla regola penosa dalle tangenti e dalla corruzione. Il vescovo, prima di tutto. In una società disgregata e, bisogna dirlo, timorosa di prendere responsabilità precise, la Chiesa ha un ruolo che Palermo rileva importante. Il vescovo di oggi va in pensione. La scelta del vescovo nuovo può determinare una svolta […]. Il nuovo vescovo potrebbe seguire la traccia di Pappalardo, riunire queste forze in un discorso organico come “la

32 La Sicilia, 18 aprile 1988, 7. L’argomento fu ripreso dopo alcuni giorni, in seguito ad una lettera inviata dall’on. Rino Nicolosi al segretario comunale della Democrazia Cristiana Nino Musumeci: ibid., 18 aprile 1984, 7. 33 Ho chiesto alla sede provinciale della CGIL di Catania di avere copia del manifesto; mi è stato risposto che i documenti di quegli anni non sono stati conservati in archivio. 34 M. FUCILLO, Catania, una città ai confini della democrazia, in La Repubblica, 16 gennaio 1988, 9. L’inchiesta era iniziata il giorno precedente e si concluse il giorno successivo.


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Adolfo Longhitano città per l’uomo” E rompere, insomma, l’abitudine più grave di chi ha sempre delegato senza partecipare […]»35.

La Chiesa di Catania, sorpresa per un attacco ingiustificato, chiaramente strumentale e preparato da una regia occulta, non mancò di far sentire la sua voce attraverso Prospettive. Il 7 febbraio successivo don Antonio Corsaro faceva notare: «i servizi e le inchieste che ho letto sembrano scritti dalla medesima penna […]» e, rispondendo all’on. Giuseppe Azzaro che si era unito al coro dei rimproveri verso l’arcivescovo, scriveva: «[…] Prospettive gli ricorda che l’arcivescovo di Catania e tutto il clero hanno diffuso qualche anno fa un “messaggio” in cui veniva denunciata la situazione morale e politica della città in termini inequivocabili. Stupisce che l’on. Azzaro non l’abbia rilevato. E non abbia segnato i numerosi articoli di Prospettive, settimanale cattolico, impegnato con martellante periodicità nell’analisi e nei rimedi dei mali di Catania. Arcivescovo, clero e laicato hanno aperto bocca, hanno parlato, seppure con toni diversi usati a Palermo […]»36.

Il tema fu ripreso nel numero successivo con due articoli di Salvatore Giuliano e di Giuseppe Bruno, nei quali si faceva notare che il giudizio su un vescovo non può essere formulato sulla base del numero delle “sgridate” che fa ai politici (non è questo il suo compito), ma sull’azione pastorale che svolge in modo capillare e continuo attraverso tutte le realtà che costituiscono la Chiesa; e alla diocesi di Catania non può essere rimproverato né il silenzio, né la mancanza di azione sul sociale37. Non si era spenta l’eco di queste polemiche quando il dibattito riprese nuovo vigore in seguito al servizio sull’omelia tenuta in cattedrale dall’arcivescovo di Palermo, card. Salvatore Pappalardo, nel giorno della festa di s. Agata. Il porporato con un discorso forte ma pacato, che non riguardava 35 M. CHIERICI, Catania, perché non parli?, in Il Corriere della Sera, 21 gennaio 1988, 3. L’inchiesta era iniziata il 18 gennaio. 36 A. CORSARO, Ma quale silenzio! Incredibili e rozzi attacchi giornalistici alla Chiesa catanese, in Prospettive 4 (1988) 5, 1. 37 S. GIULIANO, Fatti, non parole. Il “silenzio” della Chiesa catanese, in Prospettive 4 (1988) 10, 1; G. BRUNO, L’attenzione al sociale. L’impegno della nostra comunità diocesana, in ibid.


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solamente la città di Catania, si proponeva di scuotere il torpore dei buoni e di richiamare alla coerenza cristiana: «[…] Purtroppo si deve constatare con amarezza come anche in questa città si verifichino tanti disorientamenti e sbandamenti nelle coscienze dei singoli e nella ripercussione sociale che ne deriva. Anche qui, come altrove, il successo, il piacere, l’interesse, l’avere appaiono le uniche molle che sospingono l’attività di quanti non si fanno ormai scrupolo di niente, neanche del delitto, pur di realizzare l’intento. L’edonismo e il consumismo riducono e logorano ogni altra visione e penetrano nel costume come prevalente criterio decisionale; non si ha pazienza e costanza per risolvere adeguatamente le questioni difficili e si è sempre tentati di ricorrere ai metodi più facili e spicciativi anche se moralmente e cristianamente scorretti o addirittura inaccettabili […]»38.

Il cardinale lodava espressamente la Chiesa locale per aver denunziato più volte questa situazione: «La Chiesa catanese si è fatta voce più volte di questa situazione di disagio e non ha mancato di fare appello alle precise responsabilità operative di tutti i cristiani e di tutti i cittadini, in ordine alla promozione del pubblico bene secondo il ruolo e le competenze di ciascuno»39.

Il quotidiano locale La Sicilia non si lasciò sfuggire l’occasione e introdusse il servizio con un titolo del tutto fuori luogo: «Catania corrotta, ti scomunico»40. Il cardinale non aveva pronunziato espressioni di questo tenore e non mancò di far pervenire al quotidiano le sue rimostranze. Nei giorni successivi sullo stesso quotidiano fu avviata da Tommaso Rafaraci un’inchiesta sulla Chiesa di Catania dal titolo «Viaggio nella realtà e nelle contraddizioni della nostra Archidiocesi», frutto di una serie di interviste e servizi41. A questa inchiesta sulle pagine dello stesso giornale seguì un 38

Bollettino Ecclesiastico 91 (1988) 7-11: 9. L.c. 40 La Sicilia, 6 febbraio 1988, 1. 41 T. RAFARACI, Una Chiesa senza martiri?, in La Sicilia, 14 febbraio 1988, 10; ID., Abbiamo dimenticato il concilio, in ibid., 16 febbraio 1988, 10; ID., Periferia dove la Chiesa grida, in ibid., 17 febbraio 1988, 10; ID., Il grande pianeta dei movimenti, in ibid., 18 39


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dibattito, al quale parteciparono anche personalità del mondo politico, sindacale e della cultura42. A distanza di tredici anni da questi avvenimenti è doveroso per lo storico tentare una riflessione più meditata e individuare i promotori di quella iniziativa con le motivazioni che l’avevano promossa. Se la denunzia fu avviata dalla CGIL, nel maldestro tentativo di coinvolgere il mondo cattolico a dare il colpo di grazia al sistema politico responsabile del malgoverno, è anche vero che altri raccolsero e diffusero la provocazione. Le contemporanee inchieste dei due maggiori quotidiani italiani, nelle quali furono intervistate le stesse persone, si adoperò lo stesso linguaggio e si giunse alle stesse conclusioni, fanno intuire che l’iniziativa sia partita dagli ambienti giornalistici di Catania, cioè da La Sicilia. In quegli anni il quotidiano locale sentiva il bisogno di “rifarsi una verginità” dopo le violente accuse di aver contribuito all’affermazione del sistema di potere istaurato a Catania da politici, amministratori, imprenditori, magistrati e mafiosi43. Per avviare quest’opera di rinnovamento il direttore Mario Ciancio aveva chiamato da Milano il giornalista Nino Milazzo, vice direttore de Il Corriere della Sera, che cercò di aprire il giornale alle realtà cittadine da sempre ignorate ed emarginate (le sinistre). In questo contesto il quotidiano, per non trovarsi nella scomoda situazione di accusato, è probabile che abbia tentato di indossare le vesti dell’accusatore. A questo punto sono due le ipotesi che possiamo formulare: o la direzione de La Sicilia ha concertato con il sindacato l’iniziativa oppure, cogliendo l’occasione delle accuse indirizzate all’arcivescovo dalla CGIL, abbia voluto stabilire un filo diretto con il sindacato e abbia commissionato l’inchiesta ai due maggiori quotidiani nazionali. Non si trattava di un’operazione difficile, visto che Milazzo era stato vice direttore de Il Corriere della Sera e che La Repubblica, presente di buon mattino nelle edicole siciliane, era stampata negli stabilimenti tipografici de La Sicilia.

febbraio 1988, 10; ID., Coscienza civile da ricostruire, in ibid., 19 febbraio 1988, 10; ID., Il travagliato cammino della Chiesa, in ibid., 20 febbraio 1988, 10. 42 Intervennero: l’ing. Francesco Ferro, Piero Isgrò, i sacerdoti della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Catania, Vito Scalia, Rosario Bellia, il sac. Antonino Legname. 43 L’accusa, formulata da Giuseppe Fava, era stata ripresa anche dalla stampa nazionale: C. FAVA, La mafia, cit., 113-126.


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Il riferimento fatto dal Corriere all’arcivescovo Picchinenna, già dimissionario, e al nuovo che si auspicava volesse seguire le orme del card. Pappalardo, rende legittimo il sospetto che all’operazione abbia preso parte anche chi aveva interesse a preparare il terreno al nuovo arcivescovo, che sarebbe stato nominato il 1° giugno successivo44. Negli articoli entusiastici con i quali La Sicilia accolse l’arcivescovo Bommarito si ha l’impressione che si volesse riprendere e concludere un discorso avviato alcuni mesi prima45.

5. L’ARCIVESCOVO BOMMARITO D’INDIRIZZO

E IL CAMBIO DI PROPRIETÀ, DI DIREZIONE E

Il cambio alla guida della Chiesa di Catania era destinato ad esercitare la sua influenza anche sul settimanale Prospettive. L’arcivescovo Picchinenna, per la sua personalità riservata e la proverbiale discrezione nel modo di agire, aveva voluto che il settimanale cattolico fosse diretto e gestito in piena autonomia da una cooperativa costituita prevalentemente da laici. L’arcivescovo Bommarito, per la sua personalità estroversa e decisionista, non poteva condividere questa impostazione, perché si sentiva privato di uno strumento ritenuto fondamentale al suo stile di governo. Dopo l’ingresso in diocesi non mancò di manifestare il suo apprezzamento per la lodevole opera svolta dalla redazione e dai collaboratori di Prospettive46, ma fece anche 44

A La Sicilia la notizia della nomina di Bommarito era giunta prima ancora che venisse comunicata ufficialmente da Roma. Un amico giornalista mi aveva confidato che a Catania sarebbe venuto il vescovo di Agrigento per svegliare la città e la diocesi dal letargo in cui si trovava. 45 Scriveva Tony Zermo nella prima presentazione fatta dal giornale il giorno dell’annunzio: «[…] Non è un “vescovo rosso”, ma un pastore battagliero, che sa alzare la voce quando si accorge delle afflizioni del suo popolo. Come il card. Pappalardo, che fece il discorso di Sagunto sulla bara di Dalla Chiesa. Bommarito lascia una piccola città come Agrigento […] e viene in una grande città anch’essa disperata, coagulo di mali e di vergogne […]. La Chiesa catanese lo attende a braccia aperte […]»: T. ZERMO, Bommarito a Catania: un vescovo di frontiera, in La Sicilia, 2 giugno 1988, 1. Lo stesso arcivescovo Bommarito, in una intervista fatta alcuni giorni dopo dallo stesso giornalista, diceva: «La Chiesa farà sentire la propria voce, non sarà silente»: ibid., 13 giugno 1988, 10. 46 Prospettive 4 (1988) 23, 1; 4 (1988) 31, 2.


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pervenire diversi “segnali” per invitare ad un cambio di indirizzo: ogni settimana inviava alla redazione un foglio con alcune «notizie in breve» per informare il lettore di alcuni fatti della vita diocesana da lui considerati più significativi47; aveva instaurato un rapporto preferenziale con la direzione del quotidiano La Sicilia, alla quale passava in anteprima le notizie degli avvenimenti diocesani; il responsabile dell’ufficio stampa da lui nominato, nelle riunioni redazionali di Prospettive, faceva puntualmente rilevare che il settimanale non poteva essere considerato diocesano e criticava la sua eccessiva autonomia di giudizio e di azione. Accettare il nuovo indirizzo significava rinnegare la propria identità e la propria storia; la redazione non intendeva prendere l’iniziativa di un suicidio. Prospettive continuò con l’impegno di sempre; ma nel decennio successivo all’ingresso a Catania dell’arcivescovo Bommarito furono molti i cambiamenti della società italiana in generale e catanese in particolare, che determinarono un clima diverso: dopo la bufera di tangentopoli e la fine del sistema politico che aveva governato l’Italia per quarant’anni, si erano creati nuovi equilibri; i tanti uomini politici della prima repubblica rimasti orfani erano riusciti a trovare una diversa collocazione; lo stesso mondo cattolico, che nel sistema proporzionale era riuscito a restare compatto all’interno di un solo partito, nel sistema maggioritario si trovò disperso in molteplici sigle e fu costretto a fare i conti con il bipolarismo. In questa situazione anche la stessa redazione di Prospettive si trovò in difficoltà: non potendo contare sulle proprie forze, fu costretta a servirsi dei servizi offerti dall’agenzia giornalistica della Conferenza Episcopale Italiana, che non nascondeva il disegno di restaurare la cristianità, a cui anche la destra si mostrava interessata48. Se si voleva fronteggiare questo nuovo corso, occorreva procedere ad un radicale rinnovamento per il quale mancavano le forze. A questa situazione si aggiunse la crisi economica del settimanale, dovuta al venire meno della pubblicità e del sostegno assicurato dall’Opera Diocesana Assistenza 47 La rubrica, apparsa per la prima volta l’8 marzo 1992, non costituiva una lettura obiettiva e disinteressata degli avvenimenti diocesani. Tuttavia ci permette di individuare la personalità autoreferenziale dell’arcivescovo e l’immagine di Chiesa a lui cara: una Chiesa chiamata a identificarsi sostanzialmente con il suo pastore nella visione trionfalistica, nella progettualità appariscente e nelle decisioni unilaterali. 48 Per la situazione del cattolicesimo in Italia negli anni di questa nostra ricerca si veda M. GUASCO, Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Bologna 2001, 165-167.


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e dal suo presidente. L’idea di cedere la testata si fece più concreta e si finì per accettare la proposta di acquisto da tempo avanzata dalla diocesi. In vista di questa operazione, l’arcivescovo Bommarito riunì una commissione alla quale affidare la responsabilità di una casa editrice cattolica e la gestione di Prospettive. Dopo alcune riunioni nelle quali i presenti ebbero la possibilità di manifestare le proprie opinioni, l’arcivescovo decise di acquistare Prospettive e di affidarne la direzione al sac. Giuseppe Bruno, già apprezzato collaboratore del settimanale49. Con il cambio di proprietà e di direzione si può affermare che per Prospettive sia iniziata una nuova serie, non perché al direttore sia stata imposta una diversa linea editoriale, ma per il cambiamento del quadro socio-politico ed ecclesiale e per il verificarsi di circostanze nuove: la responsabilità direzionale non è più di un laico ma di un sacerdote; la difficoltà di reperire i capitali necessari per mantenere una redazione obbliga ad utilizzare i servizi dell’agenzia cattolica della Conferenza Episcopale Italiana con l’inevitabile rischio di fare accostare il settimanale al modello di Avvenire; mentre inizialmente Prospettive era nato per favorire il dialogo con il mondo esterno, dopo gli ultimi cambiamenti si notò un chiaro ripiegamento al mondo cattolico. In questa nuova situazione è stato ipotizzato il venire meno di alcune note che avevano caratterizzato il settimanale fin dalla sua fondazione: l’autonomia, il rifiuto di un certo integralismo e l’apertura al mondo laico.

CONCLUSIONE In quest’ultima fase del convegno su “Catania nel Novecento” non era facile tentare analisi o formulare giudizi su personaggi ancora viventi, su fatti o vicende non del tutto concluse. Per dare un contributo alla storia 49 In un primo momento l’arcivescovo aveva invitato ad assumere la direzione di Prospettive il sac. Salvatore Consoli, già preside dello Studio Teologico S. Paolo, che declinò l’invito. Nella lettera di risposta motivò la sua decisione con le inevitabili difficoltà a mantenere la necessaria autonomia nel suo lavoro di fronte al personale e agli uffici di curia. Il sac. Bruno è indicato come condirettore il 4 luglio 1999. Per motivi legali restava alla direzione Salvatore Giuliano. Dalla stessa data Prospettive diventava di proprietà dell’editrice Arca.


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della Chiesa catanese di questo periodo ho preferito indicare e illustrare una fonte alla quale dovranno necessariamente attingere gli storici di domani. Non era possibile, né era nelle mie intenzioni, fare una rassegna esauriente dei diciassette anni di vita di Prospettive. Mi sono limitato a descrivere brevemente le vicende della sua fondazione, lo sforzo compiuto dal mondo cattolico per avere un valido strumento di comunicazione e le difficoltà incontrate dalla redazione nel suo cammino. L’analisi sulle polemiche sorte nel passaggio di consegne fra i due vescovi di questo periodo può essere considerata un primo tentativo di utilizzazione di fonti storiche disponibili nella ricostruzione di vicende alle quali anche chi scrive ha avuto la sua parte. Era un limite inevitabile del quale il lettore dovrà tener conto.


Synaxis xxv/1(2007) 111-120

«SYNAXIS»: UNO STRUMENTO DELL’ATTIVITÀ CULTURALE DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO. IL METODO E I CONTENUTI*

SALVATORE CONSOLI**

1. NASCITA E APPARTENENZA DELLA RIVISTA Fin dal 1976 lo Studio Teologico S. Paolo si impegnò nella programmazione di iniziative qualificanti e promozionali: all’interno di esse si individuò l’opportunità di avere una rivista dello Studio. La scelta era motivata dal fatto che la rivista, innanzitutto, sarebbe stata per i professori un incentivo alla ricerca con il conseguente elevamento del tono culturale; inoltre avrebbe consentito una presenza nell’ambito della produzione culturale siciliana e pertanto avrebbe favorito un incremento di stima e di fiducia nei confronti dello Studio1. *

Relazione tenuta al convegno Per un bilancio di fine secolo. Catania nel Novecento. Convegno nazionale di studio dal 1981 al 1999. Catania, 18-20 ottobre 2001, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale. ** Ordinario di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr ARCHIVIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO (= ASSP), Verbale del Consiglio di presidenza (= Cp), prot. 390/76: a motivo delle difficoltà, anche di natura economica, l’orientamento prevalente fu quello di associarsi alla rivista dell’Istituto S. Giovanni Evangelista di Palermo Ho Theològos, anche perché ciò avrebbe costituito una collaborazione concreta in vista della erigenda Facoltà Teologica di Sicilia; cfr pure ASSP, Verbale Cp, prot. 405 bis/76. L’Assemblea generale, cosciente delle difficoltà non lievi come pure della non facile attuabilità di una redazione paritetica per una rivista in comune con Palermo, optò momentaneamente per una pubblicazione monografica annuale: cfr ASSP, Verbale dell’Assemblea generale (= Ag), prot. 479/76. Nel 1978 fu pubblicato il primo volume monografico dal titolo Ministeri e ruoli sociali (Marietti Editori, Collana Teologica, pp. 130) frutto di un gruppo di ricerca condotto tra professori dello Studio. Si trattò di un tentativo considerato insufficiente: per stimolare la produttività scientifica si ripropose il problema della rivista. Il Consiglio di presidenza, in una lettera che a IV


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Professori e amici dello Studio, proprio per sostenere le attività accademiche del S. Paolo2, diedero quindi vita all’associazione culturale «Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo», che fu costituita giuridicamente costituita a Catania nel 19823. L’Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo, per essere di sostegno allo Studio Teologico, programmò subito la pubblicazione di un liber annualis: diede così inizio, nel 1983, a Synaxis4. Synaxis, date le finalità dell’Istituto, fu messa a disposizione dei professori dello Studio: «Synaxis è ben lieta di ospitare lavori dei professori del S. Paolo, anzi si ritiene uno strumento nelle loro mani»5. Il supporto economico e organizzativo dell’Istituto è stato determinante per la realizzazione delle pubblicazioni che hanno consentito allo conclusione del triennio inviò ai vescovi e all’assemblea, tra le questioni aperte annoverò «il problema della ricerca e della produzione scientifica nel nostro Studio. Il volume pubblicato e il gruppo di studio … sono da considerarsi solo dei tentativi, che risultano insufficienti perché occasionali e perché non attirano l’interesse e l’impegno di tutti. Per stimolare l’impegno e la produttività scientifica di tutti i docenti, ci sembra molto opportuna la collaborazione a riviste culturali. Vorremmo perciò proporre di riconsiderare il problema della corresponsabilità alla rivista Ho Theologos, già a suo tempo offerta e non accettata. Ciò, pensiamo, favorirebbe una collaborazione culturale effettiva con altri centri di ricerca teologica della Sicilia»: ASSP, Lettera del 17 maggio 1979, prot. 714/79. Cfr pure ASSP, Verbale Cp, prot. 727/79. 2 Nel Discorso inaugurale anno accademico 1982-83 il Preside Salvatore Consoli ne diede così la notizia: «Per affiancare e sostenere lo Studio nelle sue attività e iniziative didattiche e scientifiche ci stiamo adoperando a costituire un’Associazione culturale composta da amici ai quali interessa lo sviluppo del S. Paolo». Tra le finalità lo Statuto si prefigge chiaramente: «porre in essere tutte le iniziative necessarie e utili per l’incremento delle attività culturali ed accademiche dello Studio Teologico S. Paolo di Catania che opera prevalentemente nella Sicilia orientale, impegnandosi a contribuire al funzionamento dello stesso destinandovi parte dei proventi finanziari dell’associazione» (art. 3 e). 3 È stata costituita il giorno 14 dicembre con atto rogato dal notaio Ferdinando Portale. 4 L’Istituto si propone come fine statutario «curare l’edizione di libri, monografie e pubblicazioni, anche periodiche…» (Statuto, art. 3 i) come pure «istituire un centro di documentazione regionale per la conservazione del patrimonio storico, culturale e religioso della nostra isola» (ibid., art. 3 h). 5 ARCHIVIO DELL’ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE E LA RICERCA S. PAOLO (= AIDR), Lettera circolare (= Lettera) dell’11 marzo 1989 del Presidente dell’Istituto ai professori del S. Paolo: prot. 490/89.


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Studio di svilupparsi a livello scientifico e culturale: si può serenamente affermare che per un decennio ha costituito un vero polmone per la vitalità dello Studio stesso. Synaxis, pur restando periodico dell’Istituto, divenne subito per i professori dello Studio S. Paolo “luogo” dove pubblicare e “stimolo” alla produzione6, realizzando così a pieno le intenzioni che avevano indotto alla sua fondazione. Il nuovo ordinamento, richiesto dall’aggregazione alla Facoltà Teologica di Sicilia, comportò che lo Studio avesse una sua pubblicazione periodica: si decise di assumere ufficialmente Synaxis, che nei suoi dieci anni di vita era stata sempre vicina al S. Paolo. A partire dal 1993 ne prese la corresponsabilità e così ebbe inizio la “nuova serie” di Synaxis: i professori stabili costituiscono il comitato scientifico, mentre il comitato di redazione è composto dai professori stabili e dagli incaricati. A partire dal 1994 ebbe periodicità semestrale e una nuova struttura: sezione teologico-morale, sezione miscellanea con documenti e studi, note e commenti, recensioni7.

2. FINALITÀ E METODO Synaxis, come vuole la sua etimologia, «oltre a mettere insieme il frutto di varie ricerche intende adoperarsi a mettere insieme diverse persone in ricerche comuni»8: è costante preoccupazione stimolare o richiedere ricerche, oltre che ai docenti dello Studio S. Paolo, anche a docenti dell’Università degli studi e ad altri studiosi. Tale metodo nasce dalla profonda convinzione che la verità così come riunisce tutti, da tutti può essere più facilmente ricercata.

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Cfr ASSP, Discorso inaugurale anno accademico 1984-85. Cfr ASSP, Verbale dei Professori stabili (= Ps), prot. 227/93; Lettera, prot. 229/93; Verbale del Consiglio dello Studio (= Cs), prot. 246/93. 8 Presentazione, in Synaxis 1 (1983) 5: le presentazioni, pur essendo a firma di Salvatore Consoli, sono approvate da tutta la redazione; cfr anche AIDR, Lettera, prot. 23/83, 28/83. 7


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Sarà caratteristica specifica della rivista restare strumento di dialogo interdisciplinare, tra teologia, filosofia, storia, e interistituzionale, tra Studio S. Paolo, Università e Facoltà teologiche9. Oltre la comunione e il dialogo tra i vari studiosi che vi pubblicano le loro ricerche, Synaxis si prefigge di stabilire comunione e dialogo con la tradizione locale: ciascun volume infatti, oltre alle ricerche di natura teologico-culturale, contiene «studi riguardanti persone e fatti della Sicilia orientale come pure la documentazione che mira a conservare e a valorizzare il ricco patrimonio della tradizione storico-teologica della nostra isola»10. La rivista pone la sua attenzione sulla storia religiosa della Sicilia e, soprattutto, guarda alle fonti delle chiese locali «nella consapevolezza che necessita l’esperienza trascorsa per poter comprendere il presente e per poter far emergere i germi di novità indispensabili per progettare un futuro più umano»11. È forte e sempre viva la convinzione che quanto prodotto lungo i secoli nell’Isola, oltre a non meritare di restare dimenticato, facilita la ricerca della verità. Synaxis ritiene suo compito, anche se non primario, entrare nel dibattito culturale-teologico odierno guardando ai problemi cruciali dell’oggi: ma, «onde evitare giudizi o peggio conclusioni affrettate e unilaterali, recupera la luce e l’esperienza provenienti dal nostro ricco patrimonio storico-culturale»12. 9

«… la parola synaxis… rimanda ad un fremere convergente di varie ricerche, richiama il comunitario impegno dell’insegnamento e dello studio, evoca, come sfondo di culmine e come sorgente originaria, la sinassi eucaristica, dove la Verità fatta carne si spezza nel pane quotidiano sotto il segno del sacramento … Anche la miscellanea annuale si inserisce nella radicale intenzionalità di comunicazione e di comunione, che pervade l’attività dell’istituto teologico e del centro di documentazione e di ricerca»: G. CRISTALDI, La riflessione teologica nella “praxis Ecclesiae”. Un saggio su Chenu nella rivista Synaxis, in L’Osservatore Romano, 6 marzo 1987, 3. 10 Presentazione, in Synaxis 2 (1984) 5; cfr anche AIDR, Lettera, prot. 160/84, 176/85, 228/85. 11 Presentazione, in Synaxis 6 (1988) 5; cfr anche AIDR, Lettera, prot. 465/88. 12 Presentazione, in Synaxis 4 (1986) 5. Anche se non è certamente esente di ambizione, non è tuttavia lontano dalla verità quanto si legge nella stessa presentazione: «In questa terra etnea spesso sconvolta dai movimenti vulcanici ma immobilizzata a livello socio-politico, Synaxis col recupero di un passato e di personaggi culturalmente vivaci intende dare un suo piccolo contributo per il risveglio delle assopite potenzialità proprie di questa terra», cfr anche AIDR, Lettera, prot. 309/86.


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Synaxis si è prefisso lo scopo di lavorare particolarmente «sotto il segno della storia per la duplice consapevolezza che nella conoscenza delle fonti le scienze sacre rinvigoriscono continuamente e che l’eredità storica passata nutre le giuste risorse dell’intelligenza per uno sguardo acuto sul presente»13: la rivista, infatti, cerca di coniugare quanto di valido ha la nostra tradizione con le istanze della realtà moderna, evitando però sia ogni sterile nostalgia del passato sia l’istintivo correre dietro ad ogni moda culturale. Con questa attenzione al passato, essa mira anche a ricercare e a capire se le nostre Chiese locali hanno caratteristiche proprie da mantenere e da sviluppare nel presente. La prospettiva storica garantisce a Synaxis, che è di natura miscellanea, unità di orizzonte ed organicità. Gli articoli di indole letteraria o filosofica vengono accolti per la convinzione che «all’attività degli scrittori è sempre sottesa una visione antropologica e attraverso il loro linguaggio simbolico trovano spesso espressione le attese del popolo»14: né l’una né l’altro possono essere ignorati dalla teologia. Lo Studio Teologico S. Paolo, il 14 settembre 1990, è stato aggregato alla Facoltà Teologica di Sicilia allo scopo di approfondire i problemi riguardanti la Teologia morale con particolare riferimento alle istanze provenienti dalle condizioni socio-culturali della nostra Isola: Synaxis conseguentemente assunse il compito di dare notevole spazio alla trattazione dei problemi morali e di evidenziare la dimensione etica caratteristica del patrimonio del popolo siciliano15. Continuano le ricerche di natura storica per la convinzione che «con il metodo storico-critico che implicano, potranno dare un valido contributo all’esatta determinazione delle questioni etiche che oggi si pongono»16. 13

Presentazione, in Synaxis 5 (1987) 5; cfr anche AIDR, Lettera , prot. 390/87. Presentazione, in Synaxis 6 (1987) 6. 15 A partire dal volume IX Synaxis dedica una sezione ai problemi di natura etica: «Non volendo perdere, tuttavia, la ricchezza di contributi che la formula miscellanea consente di avere, si è optato per la creazione di due sezioni: la prima di natura etica, della quale è responsabile il prof. Maurizio Aliotta, la seconda di natura miscellanea, di cui è responsabile il prof. Adolfo Longhitano»: Presentazione, 5; cfr anche AIDR, Lettera, prot. 582/91, 610/91, 624/92. 16 Presentazione, in Synaxis 10 (1992) 6. 14


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La rivista si caratterizzerà maggiormente nel campo della morale, ma, come viene precisato dalla redazione, «tale opzione non equivale ad una esclusiva assunzione delle tematiche etiche, bensì alla definizione di una identità più precisa, senza tuttavia rinunciare al confronto con altre prospettive e tematiche»17. Nell’affrontare le problematiche etiche si propone di «incrementare il riferimento alla cultura e all’ambiente siciliano»18, non rinunciando al metodo che gli è stato proprio e cioè «la ricerca e la pubblicazione di fonti su momenti e personalità che hanno caratterizzato la storia della Sicilia, in particolare la storia della sua Chiesa e della sua religiosità»19. Synaxis ha sempre prediletto pubblicare quanto costituisce “documentazione” per la ricerca20.

3. I CONTENUTI In questi venti anni21 Synaxis ha pubblicato una ricca documentazione22, in buona parte inedita23. Ha messo in luce figure di santi, di teologi, di presbiteri siciliani24. Significative per la conoscenza della cultura e dell’ambiente siciliano le monografie — frutto di seminari interdisciplinari tra i professori e gli esperti esterni — che, a partire dal 1995, pubblica annualmente25. 17 18 19 20 21

Presentazione, in Synaxis 11 (1993) 5. L.c. L.c. AIDR, Lettera, prot. 490/89. Un quadro relativo ai primi dieci anni si ha in Synaxis. Indici, 1983-1992, Catania

1993. 22

Vedi ad esempio Visita ad limina di Longhitano; Sturzo di Latora; Di Fazio e altri. Per quella pubblicata nei primi dieci volumi cfr Indice delle fonti inedite, in Synaxis. Indici, 1983-1992, Catania 1993, 49-54. 24 Ruggieri 48-50. 25 Sono state tutte significative: «La fuitina» (1995); «Chiesa e mafia in Sicilia» (1996); «La cultura del clero siciliano» (1997); «Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» (1998); «Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» (1999); «Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» (2000). Significativo in tal senso è lo studio D. PISANA, L’etica della famiglia siciliana tra passato e presente. Lineamenti di cultura, fede e spiritualità, in Synaxis 11 (1993) 37-69. 23


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Per una visione completa dei contenuti prodotti dalla Rivista bisogna tenere in conto la collana Quaderni di Synaxis, che fin dal 1984 si affianca al periodico con l’intento di offrire monografie e studi che favoriscano la comprensione del patrimonio della tradizione storico-teologica in vista di un recupero nell’oggi della prassi ecclesiale26. Prevalentemente pubblica gli atti dei convegni che lo Studio e l’Istituto celebrano con l’Università di Catania27. Occorre poi tener presente l’altra collana Documenti e Studi di Synaxis, nata nel 1987, con l’intento di pubblicare monografie scientifiche28, specialmente di professori del S. Paolo29.

4. LO STILE 1) Fin dall’inizio Synaxis ha avuto uno stile comunitario. Infatti la redazione30 ha sempre avvertito il bisogno di riunirsi periodicamente, con i collaboratori, per rivedere la natura e il taglio della rivista31. In una seconda fase, oltre che per rivedere criteri e contenuti, la redazione si è riunita per impostare il piano redazionale32. A partire dal 1993 il piano

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Cfr AIDR, Lettera, prot. 112/84, 150/84. La collana fu inaugurata dal volume A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, che contiene gli atti dell’omonimo convegno di studi celebrato nel 1983, pubblicato nel luglio 1984 dalle Edizioni OFTeS, editrice della Facoltà Teologica di Sicilia; con il Quaderno n. 3 la Collana fu pubblicata dalla Galatea Editrice di Acireale; con il n. 10 dalla San Paolo di Cinisello Balsamo: la collana ha pubblicato fino ad oggi 14 volumi. 28 Cfr AIDR, Lettera , prot. 366/87. 29 La collana fu inaugurata dal volume di G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), con prefazione di G. Martina SJ e pubblicata dalla Galatea Editrice di Acireale. Fino ad oggi ha pubblicato 7 volumi di saggi, frutto di ricerca dei professori dello Studio S. Paolo. 30 Direttore, fin dall’inizio, è stato Salvatore Consoli. La redazione è stata composta: per i tomi 1-2 da F. Furnari e G. Rapisarda; per i tomi 3-8 da F. Furnari, A. Longhitano, G. Rapisarda; per i tomi 9-10 da M. Aliotta e A. Longhitano; dal tomo 11 in poi dai professori stabili e dai professori incaricati dello Studio S. Paolo. 31 Cfr AIDR, Lettera, prot. 200/85, 272/86, 342/87, 420/88, 592/91. 32 Cfr AIDR, Lettera prot. 581/91, 582/91. 27


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redazionale di ciascun volume è stato preparato e approvato dal comitato scientifico33. Pur lasciando la responsabilità del contenuto all’autore, la redazione giudica «l’opportunità di pubblicare i contributi» e si riserva la possibilità di «fare delle osservazioni in vista di una loro maggiore contestualizzazione» nella nostra rivista34: l’opportunità e le osservazioni sono ovviamente relative a garantire le finalità proprie della stessa. Pertanto tale opportunità viene giudicata «tenendone soprattutto in conto la natura scientifica»35 e si stabilisce di esaminare in modo maggiormente oggettivo e scientifico i vari studi: «I contributi della sezione etica, data la responsabilità che ci è stata affidata con l’aggregazione e la natura degli argomenti, saranno tutti letti da una commissione»36. Il comitato scientifico37 stabilisce che ogni articolo per essere pubblicato dovrà essere sottoposto al giudizio di due esperti, anche esterni al comitato e alla redazione38, e si vuole che uno dei revisori, per quanto possibile, sia un professore delle istituzioni culturali dell’Isola39. Perché la rivista risponda sempre più e meglio alle sue finalità e conservi la sua natura e il suo stile si avvertì il bisogno di affidare le singole sezioni ad un responsabile40. 2) Dall’inizio si è affermata la convinzione che l’unitarietà è garantita anche dal modo di redigere l’articolo: continuamente viene ribadita la necessità che siano osservate fedelmente le norme redazionali41, delle quali vengono elaborate diverse edizioni42. 33

Cfr ASSP, Verbale Ps, prot. 227/93. AIDR, Lettera, prot. 200/85, 272/86, 342/87, 592/91. 35 AIDR, Lettera, prot. 342/87, 431/88, 557/90, 592/91. 36 AIDR, Lettera, prot. 592/91, 623/92. 37 Il Comitato scientifico è composto dal 1993 ad oggi da: S. Consoli (direttore), A. Gangemi, A. Longhitano, A. Minissale, G. Ruggieri, G. Zito. Dal 2000 direttore ne è G. Zito. 38 Cfr ASSP, Verbale Ps, prot. 227/93. 39 L.c. 40 «Già Synaxis ha due sezioni: la prima di natura etica, e ne è responsabile il prof. M. Aliotta; la seconda di natura miscellanea, e ne è responsabile il prof. A. Longhitano»: AIDR, Lettera, prot. 623/92. 41 Cfr AIDR, Lettera, prot. 200/85, 272/86, 342/87, 431/88, 557/90. 42 Si sono avute diverse edizioni: Norme per i collaboratori (…); Norme redazionali 34


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Il compito dell’uniformità redazionale fu affidato alla segreteria di redazione ed è stato assolto sempre con molta diligenza43.

5. QUALCHE VALUTAZIONE CONCLUSIVA Synaxis con i suoi 25 tomi ha prestato un notevole servizio culturale alle Chiese della Sicilia orientale — facendo conoscere figure e momenti della storia locale — e alla società civile grazie alla riscoperta delle radici spirituali44, infatti «oltre ad aver messo in luce un patrimonio che era ingiusto lasciare nel buio degli archivi, ha offerto agli studiosi dei preziosi documenti»45: le ricerche socio-religiose sulla Sicilia sud-orientale non possono ormai prescindere dai suoi documenti. Synaxis con lo spazio che ha dato alle ricerche e alle tradizioni delle Chiese di Sicilia «rappresenta un servizio di primaria importanza e un contributo fondamentale per una teologia ancorata alla tradizione delle chiese locali»46 e ha contribuito certamente alla crescita teologica delle Chiese dell’Isola47. Con le monografie che ha pubblicato Synaxis «tenta di pervenire a sintesi interpretative che, sul piano della elaborazione di una teologia contestuale, si dimostrano attualmente essere le più avanzate»48. Questo ventennio di attività ha visto Synaxis impegnata nel campo storico e teologico con uno stile di indagine teso sempre alla paziente ricerca del vero e alla pacatezza del dialogo: in questi anni la rivista ha progressidi «Synaxis» (1986, 1987); l’ultima edizione è del gennaio 1998: le norme furono migliorate e adattate alle nuove possibilità offerte dall’informatica. 43 Sono stati segretari di redazione: Maria Trefiletti (1983-86); Flavia Domenica Ferreto (1987-89; 1992-96); Lucia Rita Ferreto (1989-91); Maria Ceraulo (1996-2001); Giuseppe Spedalieri (dal 2001 ad oggi). 44 Cfr Presentazione, in Synaxis 7 (1989) 6; AIDR, Lettera, prot. 390/87. 45 Presentazione, in Synaxis 7 (1989) 5. 46 M. ALIOTTA, Prospettive per una crescita teologica del Sud, relazione manoscritta tenuta al Seminario di studio su «Teologia e cultura teologica nell’area meridionale», Napoli. 47 L.c. 48 G. RUGGIERI, La teologia in Sicilia alla ricerca del suo contesto: una rassegna, in Synaxis 18 (2000) 85. 49 Synaxis nuova serie, in Synaxis 11 (1993) 5.


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vamente affinato metodi, stile di ricerca e di collaborazione, acquisendo una valida e ricca esperienza. In questi anni di intensa attività Synaxis ha «messo insieme», come il suo nome indica, studiosi di diversa provenienza e di interessi vari ed ha suscitato l’attenzione del mondo scientifico49. Chiari segni della stima che, da subito, la pubblicazione si conquistò sono le riviste con le quali stabilisce rapporto di cambio. Il 4 aprile 1984 Synaxis fu presentata, a Catania, all’UCIIM e alla FIDAE con una tavola rotonda su «Un modo nuovo di concepire la storia della Chiesa»50. Chiaro segno di stima, di apprezzamento e di amicizia fu l’incontro che la Facoltà di Lettere dell’Università e la Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale hanno organizzato il 29 aprile 1986 su «Storiografia e cultura in una recente rivista catanese: Synaxis (1983-1986)». Un segno della continuità e della crescita di stima fu l’altro incontro che gli stessi enti organizzano, il 15 dicembre 1992, su «I dieci anni di Synaxis rivista catanese (1983-1992)» introdotto dal prof. Mario Rosa dell’Università di Pisa51. Synaxis con le sue collane è stata richiesta al Salone del libro religioso a Milano52, allo Stand delle riviste di teologia a Bologna53, alla Fiera del libro di Torino54 e a Roma a S. Maria dell’Odigitria55. Apprezzamenti e incoraggiamenti sono contenuti nelle varie recensioni e, particolarmente, da L’Osservatore Romano56 e da La Civiltà Cattolica57.

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Cfr AIDR, Lettera, prot. 39/84. Cfr il resoconto sul quotidiano La Sicilia, 28 dicembre 1993, 16. 52 Dal 6 al 10 marzo 1997. 53 Nel 1997, nei giorni del Congresso eucaristico nazionale. 54 Nello Stand delle riviste di teologia realizzato in collaborazione con il Servizio Nazionale della CEI per il Progetto Culturale nei giorni 12-16 maggio 1999. 55 Nell’esposizione permanente dell’Arciconfraternita dei siciliani a Roma. 56 Cfr 1 marzo 1984, 5; 25 gennaio 1986, 3; 6 marzo 1987, 3. 57 Cfr 1985, III, 538-539; 1987, II, 94-96. 51


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IL CULTO DI MARIA SS. DI CONADOMINI A CALTAGIRONE*

DAVIDE PAGLIA**

INTRODUZIONE Il Direttorio su pietà popolare e liturgia scrive che «nelle manifestazioni più genuine della pietà popolare, il messaggio cristiano da una parte assimila i moduli espressivi della cultura, dall’altra permea di contenuti evangelici la sua concezione della vita e della morte, della libertà, della missione, del destino dell’uomo»1. Tutto questo si è verificato e si verifica tuttora anche nelle principali manifestazioni della devozione del popolo di Caltagirone alla sua patrona Maria SS. di Conadomini che hanno segnato e continuano a segnare la vita cristiana della città. La Conadomini, come familiarmente viene chiamata a Caltagirone, è la Vergine con il bambino Gesù raffigurata su una tavola attualmente custodita nella chiesa Santa Maria del Monte. Secondo la tradizione locale essa sarebbe stata portata a Caltagirone nel 1225 mentre infuriava in Toscana la lotta tra guelfi e ghibellini, dalla nobile famiglia Campochiaro, di fazione ghibellina, fuggita dalla città di Lucca e rifugiatasi in Sicilia. Ben presto il culto alla Vergine superò i limiti familiari, fino a quando, pare agli inizi del XVI secolo, un discendente della famiglia Campochiaro decise di donare la Tavola alla chiesa Madre, pur mantenendo su di essa il giuspatronato. * Estratto della tesi di Baccalaureato in Teologia, discussa l’8 ottobre 2004 presso lo Studio Teologico S. Paolo, relatore prof. Giuseppe Federico. ** Baccelliere in Teologia. 1 CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano 2002, n. 63.


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Il curioso titolo Conadomini deriva dal fatto che nelle occasioni straordinarie in cui la tavola era mostrata ai fedeli, veniva esposta all’interno di una cona2, opera di Bernardino Nigro (o forse meglio di Antonello da Messina), che tra le diverse raffigurazioni aveva quella di un Cristo Signore (Dominus) molto venerato dal popolo. In ogni caso, da allora il legame tra Maria SS. di Conadomini e la città di Caltagirone diventa indissolubile e ha i suoi momenti nodali nell’arrivo della Tavola a Caltagirone nel XIII secolo, nella proclamazione a Patrona della Città nel 1644 e nella incoronazione dell’immagine avvenuta nel 1913 e le sue espressioni più significative in diverse manifestazioni cultuali. Nel passato la Tavola della Conadomini veniva esposta solo in occasioni di necessità, soprattutto per calamità naturali, siccità o tempeste che mettevano a rischio il raccolto. L’invocazione della Conadomini a protezione del lavoro agricolo spiega perché è chiamata popolarmente anche Madonna del pane. Tali esposizioni, veri e propri eventi di popolo, sono stati registrati accuratamente nella cronistoria della chiesa S. Maria del Monte dal 16 maggio 1704 al 29 giugno 2001. La loro singolarità, documentata dalle fonti, è il fatto che quasi sempre si ottenne la grazia richiesta dopo pochi giorni o addirittura lo stesso giorno. Nel corso dei secoli il culto verso la Conadomini si è intensificato fino a dedicargli l’intero mese di maggio3. Sotto il parrocato di Giambattista Baldanza4, poiché il novenario iniziava la Domenica in Albis, e si prolungava, talvolta, fino ai primi giorni del mese di maggio, sorse l’idea di consacrare a Maria l’intero mese.

2 Cona, dal greco eikona, immagine. Nell’Italia meridionale, l’immagine o più spesso la sola cornice di essa, sovrapposta ad un altare. 3 Si tratta di una delle prime attestazioni del mese di maggio come mese mariano. Come è noto, l’iniziatore di questa pia pratica fu il gesuita Annibale Dionisi nel 1725. Da allora, i gesuiti la diffusero in tutto il mondo cattolico. Non è da escludere che siano stati loro, presenti a Caltagirone, tra il ’600 e ’700, a influire sui calatini affinché dedicassero il mese di maggio alla Conadomini. 4 Parroco della chiesa Madre dal 1723 al 1751.


Il culto di Maria SS. di Conadomini a Caltagirone

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Probabilmente si cominciò a celebrare con solennità limitata ai sabati e alle domeniche di maggio, giorni nei quali l’intero popolo calatino si recava in pellegrinaggio cantando le litanie e il Salve Regina. Di tutto il mese di maggio dedicato alla Conadomini abbiamo notizie dal 1750. Esso veniva concluso con la festa patronale il 30 e il 31 maggio. Attualmente, oltre alla celebrazione del mese di maggio, il culto popolare verso la patrona viene manifestato anche attraverso le edicole sacre con immagini della Conadomini in ceramica, pittura e di carta. La maggior parte di esse sono concentrate nella zona della matrice, anche se ogni quartiere della città ne ha diverse. Durante il mese di maggio, molte di queste edicole, vengono trasformate in altarini. Addobbate con stoffe, vasi di fiori e luci, divengono il luogo nel quale gli abitanti della strada si riuniscono per pregare il Rosario e le Lodi in onore della Madonna. Un’altra particolare espressione cultuale proviene dal mondo agricolo e artigianale. Alcuni giorni prima della festa, il mondo agricolo si riunisce nel tradizionale corteo della rusedda5 e del grano votivo, accompagnato da suonatori di brogne6 e preceduto da sbandieratori e dal suggestivo triunfu7. Attualmente si tratta di una manifestazione folkloristica gestita dalla parrocchia e dalle associazioni agricole. Un tempo, invece, l’elemento caratterizzante era l’offerta della rusedda. Circa la sua origine, l’ipotesi più probabile è quella che, non essendoci energia elettrica, il giorno prima della festa era consuetudine preparare la legna per fare un falò. Uno degli altari laterali della chiesa era curato dalla maestranza dei cannatari8, i quali offrivano la rusedda per il falò; quella che rimaneva in esubero, veniva da loro stessi comprata e utilizzata per le loro attività produttive. In ogni caso, è un fatto che questo corteo è stato per secoli espressione del legame dei lavoratori con la Conadomini. 5

Pianta sottoboschiva di forte essenza, che caratterizza il vicino bosco di Santo

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Grandi conchiglie dal caratteristico suono gutturale. Antico vessillo con l’immagine della Madonna. Sono coloro che producevano le stoviglie in terracotta smaltata.

Pietro. 7 8


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Nei giorni che precedono la festa, particolarmente significativo è l’omaggio floreale che i ragazzi delle scuole elementari e medie offrono a Maria. In tempi più recenti è stato introdotto la pratica della benedizione delle automobili e dell’infiorata9. La pietà popolare, oltre che con queste manifestazioni, si esprime verbalmente e ha elaborato una serie di testi dai quali emerge l’amore e il forte legame dei calatini verso la Conadomini. Nel mio studio presenterò tali testi, cercando di evidenziarne il contenuto teologico.

1. I TESTI DELLA PIETÀ POPOLARE Di quasi tutti i testi della pietà popolare, non si conoscono né l’autore, né la datazione, anche se la tradizione locale li attribuisce a M. Mineo Jannì10 per le evidenti tracce della sua mariologia. Secondo altre notizie riferitemi da alcuni storici locali viventi, tale tradizione è infondata. Sono tutti redatti in lingua volgare, tranne il rosario in lingua dialettale. Si possono distinguere in base al modo di utilizzarli, tra testi cantati e testi recitati.

1.1. I testi cantati 1.1.1. Madre di Conadomini Maria Il testo cantato (e recitato) più conosciuto dai calatini è: «Madre di Conadomini Maria, il nome tuo è la speranza mia». 9 Centinaia di vasi con piante e fiori vengono disposti sulla scalinata S. Maria del Monte, ai piedi dell’omonima chiesa, per formare ogni anno un disegno nuovo. 10 Mario Mineo Jannì (1846-1927), illustre calatino, teologo profondo, grande oratore di fama nazionale, fu vicario parrocchiale della chiesa S. Maria del Monte dal 1889 e parroco dal 1908.


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Nella breve giaculatoria, Maria di Conadomini è acclamata come Madre e il suo nome è causa della speranza dell’orante. Come ha ricordato il Concilio, «la Madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e nell’anima, costituisce l’immagine e l’inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore»11.

1.1.2. Dalla torre sublime trasvola12 Un testo molto conosciuto con cui la pietà popolare calatina si rivolge a Maria è l’inno alla Conadomini, composto in occasione del XXV anniversario dell’incoronazione, negli anni 1937-38 dal canonico Giuseppe Montemagno e musicato dal M° Enzo Malvica13. I.

«Dalla torre sublime trasvola ecco l’inno de bronzi festanti, che ridestan nei cuori esultanti la pietà e il grand’amore per Te. Da gran tempo già volse il bel sole che Tua fronte d’aurata corona questo popol recinse; oh, ridona ai tuoi figli quel giorno di Fé!

Rit. Salve, o Regina, o Vergine cinta di stelle d’oro; noi T’invochiamo in coro; Immagine del Signor! Salve, dell’alta Triade gran Figlia e Madre e Sposa. 11

CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, in EV, 1/444. 12 Il testo è pubblicato in G. CONA (cur.), Preghiere e canti a Maria SS.ma di Conadomini Patrona principale di Caltagirone, Caltagirone 1966, 26. 13 Questa informazione mi è stata data da G. Cona, già parroco della parrocchia S. Maria del Monte dal 1955 al 1967.


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Davide Paglia Tu sei la mistica rosa Tu nostra speme e amor. II.

Coronata di rose e di gigli, sempre, o Madre, T’acclama ogni cuore; sopra l’arpe vibranti d’amore salga l’inno dei zeffìri a vol. Bella Madre, il tuo nome ridice ogni stella, ogni labbro, ogni stelo qual Possente qui in terra ed in Cielo, qual Vittrice d’Averno lo stuol!

Rit. Salve, o Regina… III.

Sempre Madre propizia ci fosti e nell’ora seconda o crudele; sempre Tu rispondesti fedele alla prece levatasi a Te. Amor, pace, letizia, speranza Tu ci poni mai sempre nel cuore, Tu ci dona il Tuo sguardo d’amore, Tu ci guida nel cielo con Te!

Rit. Salve, o Regina…»

Dal punto di vista strutturale, ci troviamo di fronte a tre ottave di versi decasillabi a rima baciata (vv. 2-3: festanti – esultanti; vv. 6-7: corona ridona); il quarto verso (Te) rima con l’ottavo (Fè), mentre il primo e il quinto sono senza rima. In più, vi è un ritornello di due quartine di versi settenari; a rima baciata i versi di mezzo (d’oro – coro; Sposa – rosa) e liberi gli altri; l’ultima parola della prima quartina (Signor) rima con l’ultima parola della seconda quartina (amor). Vi sono frequenti allitterazioni e presenza di anafore (che, tu, qual, sempre); alcune frasi sono legate tramite polisindeto (congiunzione e). Il testo presenta anche delle metafore come: arpe vibranti d’amore e inno dei zeffiri e nell’ultima strofa si nota un’enumerazione e un rafforzamento (mai, sempre).


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Inoltre, conserva termini letterari (prece) e tutti gli attributi e le parole che si riferiscono alla Madonna sono maiuscole. Dal punto di vista dei contenuti, l’inno inizia facendo riferimento al suono delle campane che dal punto più alto della città (la torre) arriva ovunque e ridesta nei fedeli la pietà e l’amore per la Vergine. C’è quindi un riferimento agli anni passati dall’evento della incoronazione avvenuta il 31 maggio 1913 e si chiede che si possa rivivere lo stesso entusiasmo di quella manifestazione di fede. Particolarmente pregnante dal punto di vista teologico è il ritornello: Maria è invocata come Regina, Vergine, Immagine del Signore, Figlia Madre e Sposa della Trinità, mistica rosa, nostra speranza e amore. Tutti questi titoli che meriterebbero un approfondimento alla luce della tradizione e del magistero della Chiesa, in particolare Vergine cinta di stelle d’oro, che ha un chiaro riferimento ad Apocalisse 12, 1-17; Immagine del Signore che rimanda alla rilettura del titolo Conadomini operata da M. Mineo; e infine, il tradizionale legame di Maria con la Trinità, in quanto Figlia del Padre, Madre di Cristo e Sposa dello Spirito Santo. Nella seconda strofa, Maria è acclamata con il titolo caro alla terra di Sicilia di Bella Madre, potente in cielo e in terra, vincitrice delle potenze dell’inferno. Nell’ultima strofa si riconosce che la Vergine di Conadomini è stata sempre propizia ai suoi figli nel momento della prova ponendo nel cuore amore, pace, letizia e speranza. Ella dona ai suoi fedeli il suo sguardo d’amore e li guida alla vita eterna.

1.1.3. Io ti lodo, o gran Regina14 I.

14

«Io ti lodo, o gran Regina vera Madre del Signore, che sua Immagine divina pur ti rese il suo bel Cuore sei perciò Tu da Calata Conadomini chiamata.

Il testo è pubblicato in Preghiere e canti, cit, 8.


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Davide Paglia II.

Ogni pregio, ogni attributo, che al suo Figlio diede il Padre Tu per Lui l’hai ricevuto, che ne sei la degna Madre Tra le donne benedetta, Conadomini sei detta.

III.

Come il Figlio santa e pura fosti ognor senza peccato; di tue grazie la misura il suo merito è sempre stato; quindi ognun si ricca e santa Conadomini ti canta.

IV.

Fosti eletta e seco unita e nell’opra e nel pensiero, quando diede sangue e vita per salvare il mondo intero; onde sua Corredentrice Conadomini ti dice.

V.

VI.

VII.

L’infinita sua potenza L’increato suo sapere, sua bontade, sua clemenza tutte sono in tuo potere. Bene adunque ognun che t’ama Conadomini ti chiama. Delle grazie di salute il tuo Figlio è fonte autore, ma nel mondo son venute per tuo mezzo in tutte l’ore Chi ottenerle brama ognora Conadomini ti onora. Tu col Figlio alta vittoria sempre vanti su l’inferno, siedi a Lui d’accanto in gloria nel suo regno sempiterno


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Là conduci l’alma mia Conadomini Maria».

Ci troviamo di fronte a una coroncina di lodi: le strofe vengono cantate alternandole con la recita di un Ave Maria e della giaculatoria: «Madre di Conadomini Maria il nome tuo è la speranza mia». Sono sette strofe di sei versi ottanari. I primi quattro a rima alternata (Prima strofa: Regina – divina; Signore – Cuore), gli ultimi due a rima baciata (prima strofa: Calata – chiamata). Il testo è ricco di assonanze e consonanze, di dittologie (santa e pura, ricca e santa) ricche o sinonimiche. Da segnalare l’anastrofe grammaticale della frase e quella di aggettivo e sostantivo. Nonostante il lessico sia semplice e tipico della poesia religiosa popolare, i contenuti sono profondi. Attraverso le lodi, il popolo fa memoria delle verità più importanti della mariologia. Passando in rassegna le diverse strofe, è possibile evidenziare quanto segue. Nella prima strofa Maria è invocata Regina e Madre del Signore; quindi si richiama il pensiero del teologo Mineo secondo cui il cuore di Cristo l’ha resa sua immagine e per questo da Caltagirone è chiamata Conadomini. Nella seconda, si afferma che ogni pregio e ogni attributo che il Padre ha dato al Figlio, per mezzo del Figlio, sono anche della Madre. Con le parole di Elisabetta si può dire che Ella veramente è benedetta tra le donne. La terza strofa richiama la dottrina dell’Immacolata. Maria come Cristo, è stata sempre santa e senza peccato. Tutte le grazie che in lei contempliamo sono merito di Cristo. Come dice la colletta della solennità dell’Immacolata, Dio ha preparato nell’Immacolata concezione della Vergine «una degna dimora per il suo Figlio e l’ha preservata da ogni macchia di peccato»15. Nella quarta strofa Maria è invocata come Corredentrice: fu eletta e unita a Cristo nell’agire e nel pensiero quando salvò il mondo intero 15 Cfr Messale Romano, riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da papa Paolo VI, Città del Vaticano 19832, 631.


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versando il suo sangue. Come ricorda la Lumen gentium, «la Beata Vergine, predestinata fin dall’eternità, all’interno del disegno di incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza, fu su questa terra l’alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a un titolo assolutamente unico e umile ancella del Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime16 […]. Per questo la beata Vergine invocata nella chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice»17. Nella quinta strofa, facendo eco a una spiritualità che vede Maria onnipotente presso Dio, si dice che la potenza, la sapienza, la bontà e la clemenza divine sono tutte in suo potere. Nella sesta strofa, si dice che di ogni grazia Cristo è fonte e autore, ma di fatto, nel mondo esse son venute per mezzo di Maria. È la dottrina su Maria mediatrice di tutte le grazie, molto sentita alla vigilia del Concilio ed espressa in modo mirabile nel medioevo da Dante Alighieri nella preghiera di S. Bernardo: «Donna, se’tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia ed a te non ricorre, / sua distanza vuol volar sanz’ali. / La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fiate / liberamente al dimandar precorre»18. Nell’ultima strofa, troviamo un accenno all’escatologia: Maria viene riconosciuta come vittoriosa col Figlio sull’inferno e regina accanto a lui nella gloria. La coroncina si conclude con la richiesta alla Conadomini di far pervenire l’anima del fedele alla gloria celeste.

16 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, in EV, 1/435. 17 Ibid., 1/436. 18 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 13-18.


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1.1.4. O gloriosa Vergine19 I.

II.

In questa rara effigie, che desti al nostro suolo, come tesoro amabile d’alto comun consuolo.

III.

Tu fosti, infìn dall’epoca che d’essa a noi ne venne, d’immensi doni e grazia la fonte ognor perenne.

IV.

Tanto che in questo tempio, poi scelta in sua Patrona, sempre ciascun ti venera, e lodi ormai ti dona.

V.

19

«O gloriosa Vergine, Madre dell’Uomo Dio, ben sua perfetta Immagine qui ti ravviso or io.

E in tal maniera predica, che sempre Tu sei stata sua Madre, suo rifugio, la prima sua avvocata.

VI.

Tu salvi dai pericoli, dai danni dell’inferno: Tu desti a noi ricovero Nell’ira dell’Eterno.

VII.

O questa dispiegavasi in grandini o tempeste, in siccità o diluvii, in fame, guerra o peste.

Il testo è pubblicato in Preghiere e canti, cit., 9.

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Davide Paglia VIII.

Tremuoti, insetti o fulmini, in morbi d’ogni sorte, o in qualsiasi disgrazia, che affligge o dà la morte.

IX.

A trarne esenti liberi Altr’opra non vi è stata, che di pregarti o aprirsene l’Immagine sacrata.

X.

In questa venerandoti, il mal si cangia in bene dalla tristezza al gaudio, dal pianto il brio ne viene.

XI.

Ond’è che lodi e grazie, siccome al mio Signore Ti rendo, o Conadomini, col labbro e più col cuore.

XII.

Deh! Tu sempre più tenera mostra il materno affetto verso di questo popolo, a Tè grato e diletto.

XIII.

E fa che ognun sia libero dai mali e dal peccato per ammirar tue glorie lassù nel ciel beato.

XIV.

Cantando poi con gli Angioli coi santi in compagnia: Viva di Conadomini la Madre mia Maria».

La preghiera è composta da quattordici quartine di versi settenari a rima alternata (prima strofa: Vergine – Immagine; Dio – io); presenta un numero consistente di anastrofi, iperbati e di anafore (tu – in – che). Si nota l’uso della preposizione in o nel col significato di contro.


Il culto di Maria SS. di Conadomini a Caltagirone

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Dal punto di vista lessicale vi è la presenza di termini semplici, di uso quotidiano mescolati a termini letterari; probabilmente alcuni termini sono stati coniati su parole dialettali. Per quanto riguarda i contenuti, l’orazione inizia invocando «Maria come gloriosa Vergine, Madre dell’uomo Dio, ben sua perfetta Immagine», eco della riflessione sulla Conadomini già citata. Si fa quindi memoria del rapporto tra la sacra immagine e la città. Da quando essa è arrivata a Caltagirone, Maria è divenuta fonte di immensi doni e grazie. Per questo è stata scelta come patrona e si è ricorso a lei per trovare riparo dall’ira di Dio, ira che si è manifestata in grandini, tempeste, siccità, diluvi, ecc…, «in qualsiasi disgrazia che affligge o dà la morte». Per esserne liberati non vi è stata altra possibilità che quella di pregare Maria di Conadomini o di esporne solennemente la sacra Tavola. Venerando Maria in questa immagine, «il mal si cangia in bene / dalla tristezza al gaudio, / dal pianto il brio ne viene». Quindi la richiesta alla Vergine di continuare a mostrare il materno affetto verso il popolo, facendo sì che ognuno sia liberato dai mali, dal peccato e possa ammirarne la gloria in paradiso. Come si vede, ci troviamo di fronte a un testo non molto significativo dal punto di vista teologico (anzi, mi sembra molto calcata l’immagine di un Dio che manifesta la sua ira inviando agli uomini disgrazie, afflizioni e morte), ma che esprime bene il sentire popolare di fronte alle prove della vita.

1.1.5. Madre, da l’alme in giubilo20 I.

20

«Madre, da l’alme in giubilo s’alza fidente il canto a Te che gloria e vanto fosti dei padri ognor. Vergine pura, fulgida Immagin del Signore, a Te la speme e il cantico e il palpito dei cuor.

Ibid., 25.


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Davide Paglia Rit. O dolce Conadomini se dal sublime Monte a la Città Gratissima Tu sorridesti ognor; quel mite sguardo amabile volgi propizia ancora ai figli che T’invocano nell’anno del Signor. II.

Te nei lontani secoli celeste lor Patrona, Madre clemente e buona, i Padri salutar; e nel fervor de l’anime l’aulente Maggio in fiore, prima fra tutti i popoli, vollero a Te sacrar.

Rit. O dolce Conadomini…»

È un testo composto da due strofe di otto versi settenari, ottanari, novenari e da un ritornello. Ci troviamo chiaramente di fronte a una composizione colta, ricca di termini letterari di difficile comprensione da parte del popolo. La tradizione l’ha consegnata come canto; non è più in uso da tempo ed è andata perduta la notazione musicale. Da un punto di vista teologico, il testo è abbastanza povero se si esclude la caratterizzazione di Maria come Madre clemente e buona, Vergine pura, fulgida Immagine del Signore. La seconda strofa richiama il patronato della Conadomini e la dedicazione a lei del mese di maggio che i calatini prima fra tutti i popoli vollero a Te sacrar. Alla Conadomini si innalza il canto pieno di fede dei calatini, la loro speranza e i palpiti dei loro cuori. Nel ritornello, si chiede alla Vergine di essere propizia, continuando a mostrare il mite sguardo amabile, nell’anno del Signore. Quest’ultima espressione fa pensare che il testo possa essere stato composto in qualche anno santo.


Il culto di Maria SS. di Conadomini a Caltagirone

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2. I TESTI RECITATI 2.1. L’eternu Patri fici di pitturi21 I. «L’Eternu Patri fici di pitturi cchiu bedda di Maria nun potti fari, la fici bedda adurnata di suri, ‘ncurunata di stiddi principari, la fici Mamma di li piccaturi ‘indispettu di Loccifaru ‘nfernari.

II.

III.

L’eterno Padre fece da pittore Più bella di Maria non potè fare, la fece bella adornata di sole, incoronata di stelle principali, la fece Mamma dei peccatori a dispetto dell’infernale Lucifero.

Ora gridamu ccu ‘na vuci pia: Di Conadomini Maria! Di Conadomini Maria! (Pater, Ave e Gloria)

Ora gridiamo con voce devota: di Conadomini Maria! di Conadomini Maria! (Pater, Ave e Gloria)

E loramu la sempre sia di Conadomini Maria Su nun forra ppi lu mantu di Maria Forramu persi tutti ‘ncumpagnia. (si ripete dieci volte dopo ogni strofa)

E lodiamola sempre così di Conadomini Maria se non fosse per la protezione di Maria saremmo tutti perduti. (si ripete dieci volte dopo ogni strofa)

L’occhi a li cieli, li Santi prianu la ‘Mmaculata ccu lu Verbu Eternu. O Diu, chi ni putissi cuntrafari di mutari la vita ‘nternu e esternu. Li vostri grazii ‘un pozzanu mancari, mancu offenniri a Diu e iri o’ ‘nfernu.

Con gli occhi al cielo i Santi pregano l’Immacolata con il Verbo Eterno O Dio, affinché ci possa convertire cambiando la vita all’interno e all’esterno. Le vostre grazie non possano mancare, e non ci avvenga di offendere Dio e di andare all’inferno.

Ora gridamu…

Ora gridiamo…

Maria, Tu fonti si di grazii eterni chi pruteggi lu munnu universari. ‘N celu e ‘nterra sparmanu li veri subissanu Loccifari ‘nfernari.

Maria, Tu sei fonte di eterne grazie, e proteggi il mondo intero. In cielo e in terra si distendono i veli e sprofondano Lucifero infernale.

21

Ibid., 10-13.


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IV.

V.

VI.

Davide Paglia La Santa Trinità misa ‘mpinseri, ‘n Tri Pirsuni la vonnu ‘ncurunari, la ficinu Riggina di li ceri, Maria senza piccatu uriginali.

La Santa Trinità predestinò in tre Persone la vollero incoronare, la fecero Regina dei cieli Maria senza peccato originale.

Ora gridamu…

Ora gridiamo…

D’ ’i lodi di Maria ‘un c’è finimentu, nemmeno c’è dutturi a studiari, nemmeno c’è prufeta a centu a centu, li Santi nun lu ponu raccuntari, né San Tommasu ccu lu so talentu, mancu tuttu lu munnu univirsari. Sulu l’Eternu Diu ni pò spiari li doni e li grandizzi di Maria.

Delle lodi di Maria non c’è mai fine, nemmeno i dottori li possono studiare, nemmeno un centinaio di profeti, e i santi non possono raccontare, neanche S. Tommaso con il suo talento, e neanche tutto il mondo universale. Solo l’Eterno Dio ci può spiegare i doni e le grandezze di Maria.

Ora gridamu…

Ora gridiamo…

Nun ci fu bucca a putìri spiari li preggi e li biddizzi di Maria, nun ci fu ‘ngegnu a putiri stampari lu dissi lu profeta Geremia, nuddu di ‘n celu li po’ raccuntari, né Santi suri, e mancu Nastasia, sulu l’Eternu Diu ni po’ spiari la gloria e li sprinnùri di Maria.

Non vi fu bocca per poter spiegare i pregi e le bellezze di Maria, e non vi fu ingegno per potere scrivere lo disse il profeta Geremia, nessuno in cielo può raccontarlo, né i soli Santi e neanche Anastasia, solo l’Eterno Dio ci può spiegare la gloria e gli splendori di Maria.

Ora gridamu…

Ora gridiamo…

Ridinturi, Munarca sì putenti, sarvàti ‘st’arma misira e mischina; ccu ha lo cori firutu si ni penti, o di li piccaturi medicina, Sia loratu lu Santu Sacramentu, evviva di li celi la Riggina!

Redentore, Re potente, salvate quest’anima misera e meschina; chi ha il cuore ferito si penta, e dei peccatori tu sei medicina. Sia lodato il Santo Sacramento, evviva la Regina dei cieli.

Ora gridamu…

Ora gridiamo…


Il culto di Maria SS. di Conadomini a Caltagirone VII.

VIII.

IX.

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Tutti Maria duvimu ludari, ci avimu a aviri fidi e granni amuri, chi n’avimu bisognu universari comu avvocata di li piccaturi. Gesù Cristu ni vòli subissàri lu figghiu di l’Altissimu Signuri, chi nenti di Maria n’appi a fari, vurennu bèni assai li piccaturi!

Tutti dobbiamo lodare Maria, dobbiamo avere fede e grande amore, perché ne abbiamo un bisogno universale come avvocata dei peccatori. Gesù Cristo ci vuole sprofondare il Figlio dell’Altissimo Signore, ma niente ha potuto fare, volendo Maria assai bene ai peccatori!

Ora gridamu…

Ora gridiamo…

Biati dotti ch’aviti duttrina, mi pirdunati su’ c’è mancamentu’ beati ccu li dici ogni matina, varàgnanu ‘ndulgenza ppi centu. A ccu cci dici ‘na Sarva Riggina, Maria l’ajuta di so finimenti, Ringraziamu la nostra Riggina se’ loratu lu santu Sacramentu.

Beati voi dotti che avete dottrina, mi perdonate se c’è qualche mancanza beati chi recita le lodi ogni mattina, guadagna l’indulgenza per cento volte. A chi recita una Salve o Regina, Maria li aiuta nelle loro debolezze. Ringraziamo la nostra Regina, sia lodato il Santo Sacramento.

Ora gridamu…

Ora gridiamo…

Quantu e bedda Maria, lingua di mari, sunu vinuti ccà li piccaturi, ‘na grazia cci vònu addumannari ora chi sunu sicchi li lavuri: la terra senza acqua ‘un po’ fruttari, nemmeno vanu avanti li lavùri.

Quanto è bella Maria, onda di mare, sono venuti qua i peccatori per chiederle una grazia ora che sono secche le messi, perché la terra senza acqua non può dar frutto, nemmeno maturano le messi.

Ora gridamu…».

Ora gridiamo…

Il rosario è composto di nove strofe. Di sei versi le prime due e la sesta; di otto tutte le altre, tranne la nona che è di sette versi. In prevalenza troviamo endecasillabi, mentre nell’ultima strofa si alternano senari, quinari ed endecasillabi. Il ritornello è composto da tre versi a cui seguono la recita del Pater, dell’Ave e del Gloria e da quattro versi che vengono recitati per dieci volte.


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Davide Paglia

I contenuti sono molteplici e suggestivi. Il rosario inizia esaltando la bellezza di Maria: «l’Eternu Patri fici di pitturi / Cchiu bedda di Maria nun potti fari». Un tema ripreso più volte nell’iconografia: a Caltagirone ben due tele22 rappresentano il Padre con la tavolozza e il pennello in mano e di fronte a lui l’Immacolata. Bella, adornata di sole, incoronata di stelle, Dio l’ha voluto (I). La Santa Trinità l’ha predestinata a essere senza peccato originale e l’ha voluta incoronare Regina dei cieli (III). L’orante riconosce che è difficile descrivere la grandezza, i privilegi, le bellezze di Maria o dirne le lodi: nemmeno i dottori della Chiesa, i profeti, i santi, neanche S. Tommaso con il suo talento e il mondo intero sono capaci di descriverli (IV e V). Solo l’eterno Dio può spiegare i doni e le grandezze (IV), la gloria e gli splendori della Vergine (V). Lei è stata voluta da Dio come «Mamma di li piccaturi» a dispetto di Lucifero infernale (I). I santi la pregano affinché possiamo convertirci cambiando la vita internamente ed esternamente, evitando di offendere Dio e di finire così all’inferno (II). Lei, fonte di grazie eterne, protegge il mondo intero distendendo i suoi veli che hanno il potere di sprofondare Lucifero (III). Lei è l’avvocata dei peccatori: Cristo vorrebbe farci sprofondare a causa dei nostri peccati, ma non può nulla per l’amore che Maria nutre verso di noi peccatori (VII). Nel ritornello questo concetto viene ripreso con l’espressione «Su nun forra pi lu mantu di Maria / forramu persi tutti ‘ncumpagnia». La strofa VI è rivolta a Cristo redentore e Re potente, affinché salvi l’anima misera e meschina dell’orante; c’è l’invito al pentimento e a guardare Cristo, medicina dei peccatori. Si conclude con l’invito alla lode per il SS.mo Sacramento e la Regina dei cieli. Nella strofa VIII l’orante dopo aver chiesto scusa per le eventuali imprecisioni dottrinali, dice beati coloro che recitano quotidianamente le lodi di Maria perché ricevono l’indulgenza, e in particolare chi recita una Salve Regina viene aiutato nelle proprie debolezze. La strofa IX probabilmente viene inserita nel rosario in occasioni di siccità per chiedere il dono della pioggia.

22

Presenti nella chiesa di S. Bonaventura e di S. Giacomo di Caltagirone.


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2.2. O Maria speranza mia23 I.

«O Maria speranza mia Conadomini avvocata, d’oro e gemme coronata col tuo core pien d’amore la tua gente è aggraziata.

II.

Tua bellezza e gentilezza come immagine di Dio col mirarti è molto pio tu sei oggetto che il diletto pensa il cor d’un uomo rio.

III.

Conadomini ti nomini come aurora è il tuo bel viso anzi un sol io ti ravviso col pensiero del mio impero tengo un piè nel Paradiso.

IV.

Vaga stella e ancora ombrella Conadomini Signora nei bisogni ci ristora Dio sdegnato vien placato la pietà senza dimora.

V.

Specchi terso al cui riflesso la giustizia è placata sei perciò tant’esaltata che tua luce ci conduce alla gloria beata.

VI.

Tu regina sei divina tieni in man l’onnipotenza

23 Il testo è pubblicato in N. ANNARO (cur.), La Madre del Redentore venerata da secoli a Caltagirone. Raccolta di lodi alla Madonna, Caltagirone 1987, 8.


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Davide Paglia però sei tutta clemenza prendi il core nell’ardore ci sia grata ricompensa. VII.

Io d’adoro mio tesoro Conadomini Maria se con santa cortesia ci hai protetto con affetto goda in cielo in compagnia».

Dal punto di vista letterario ci troviamo di fronte a sette strofe di cinque versi ottanari e settenari. I vv. 2-3-5 rimano tra loro, mentre il primo e il quarto sono liberi. Al primo verso di ogni strofa rima bilaterale: Maria-mia, Conadomininomini, stella-ombrella, terso-riflesso, regina-divina, adoro-tesoro. Il testo è ricco di termini che sembrano di chiara radice stilnovista: gentilezza, bellezza, signora, clemenza, ricompensa, cortesia. La preghiera è una lode alla bellezza di Maria di Conadomini: «d’oro e gemme coronata» (I); «tua bellezza e gentilezza / come immagine di Dio» (II); «come aurora il tuo bel viso / anzi un sol io ti ravviso» (III); «vaga stella e ancora ombrella» (IV). Alcune espressioni sono teologicamente molto ardite e risentono della mitizzazione della Vergine in alcune correnti di spiritualità: «Tu regina sei divina / tieni in man l’onnipotenza» (VI); «Io ti adoro mio tesoro / Conadomini Maria» (VII). Anche qui, la Conadomini viene riconosciuta come colei che si interpone tra i peccatori e il Dio sdegnato (cfr IV e V).

CONCLUSIONE A conclusione vorrei sottolineare un tema emergente dai testi riportati: il titolo Conadomini viene spesso interpretato come Immagine del Signore. Come ho accennato all’inizio, questa interpretazione risulta poco fedele all’evidenza storica. Tuttavia, essa ha fatto breccia tra i pastori e la gente: oggi, per tutti la Conadomini è l’Immagine del Signore che invita i fedeli a


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divenire immagine del Signore. All’origine di questa rilettura del titolo è il tentativo fatto da M. Mineo Jannì di dare spessore teologico alla devozione popolare, leggendo Conadomini come corruzione di Icona Domini24. «L’Immacolata Vergine è per noi il ritratto di Gesù Cristo ed è un ritratto in cui la somiglianza con l’originale è perfetta perché la riproduce in tutta la sua bellezza»25. Secondo Mineo Jannì, Maria diventa l’immagine del Signore per eccellenza, perché riproduce e rispecchia totalmente le grandezze e le glorie di suo Figlio Gesù Cristo. In Lei si riassume perfettamente la sostanza della vita cristiana: condizione indispensabile per acquistare la vita eterna è riprodurre in noi, con l’aiuto della grazia, l’immagine di Dio che ci è presentata in Gesù Cristo. Mi sembra che il tentativo di M. Mineo Jannì sia esemplare di quello che deve essere il rapporto tra teologia e pietà popolare. La teologia è chiamata a purificare e a valorizzare le espressioni della pietà popolare, potenziandone i contenuti, affinché essa diventi realmente modalità di sequela.

24 Cfr M. MINEO JANNÌ, Imago Illius. Esame critico del titolo Conadomini dato a Maria SS.ma Patrona di Caltagirone, Palermo 1911. 25 M. MINEO JANNÌ, L’angelo o la voce del pastore. Il Maggio in Caltagirone, Caltagirone 1912, 2.



Synaxis XV/1 (2007) 143-174

L’ARCHITETTO GIUSEPPE PALAZZOTTO E LA CHIESA DI SAN GIULIANO A CATANIA

SALVO CALOGERO*

PREMESSA L’attribuzione all’architetto palermitano Giovan Battista Vaccarini1 del progetto della chiesa di San Giuliano, annessa all’omonimo monastero delle benedettine in via Crociferi, fu ipotizzata per la prima volta da Francesco Fichera nel 19252 nel libro Una città settecentesca e successivamente nella monografia3 sul Vaccarini del 1934, in cui scrisse: «Debbo ritenere che la chiesa di Santa Chiara sia sorta in primo tempo, come adattamento di una pianta e di una parziale elevazione preesistenti di sapore “battagliano” — modificate poi, completate e conchiuse dal Vaccarini con quella caratteristica corona ottagona lanceolata, così come la decorazione della volta è da attribuire tardivamente al Sozzi; mentre la chiesa di San Giuliano è sua, è vaccariniana sin dalla sua prima origine, ma non sua nelle decorazioni a colore, nelle dorature un po’ secche tra riquadri e meandri nelle fonti, negli altari secondarii, ottocenteschi. Stentatamente si potrebbe attribuire la decorazione interna, completata nel 1760 come ci avverte il millesimo disegnato nell’arco d’ingresso ad un Vaccarini influenzato dalla secchezza vanvitelliana»4. *

Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. Biagio Giovanni Battista Michele Vaccarini, figlio di Gerlando e Francesca Mangialardo, nacque il 3 febbraio 1702 nel territorio della parrocchia di Sant’Antonio Abate di Palermo dove nel 1703 verrà nominato parroco Pietro Galletti di Fiumesalato, futuro vescovo di Catania: A. GIULIANA ALAJMO, L’architetto della Catania settecentesca G. B. Vaccarini e le sconosciute vicende della sua vita, Palermo 1950, 5. 2 F. FICHERA, Una città settecentesca, Roma 1925. 3 ID., G.B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, I, Roma 1934. 4 Ibid., 122. 1


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Francesco Granata5 dimostrò che la chiesa di Santa Chiara fu progettata dall’architetto Giuseppe Palazzotto6, il quale ne seguì anche i lavori della costruzione. Quella di San Giuliano, prima delle attribuzioni stilistiche fatte dal Fichera, veniva attribuita anch’essa a Giuseppe Palazzotto7. Nonostante i documenti di archivio attestino la presenza dell’architetto catanese nel cantiere della chiesa di San Giuliano8, alcuni studiosi continuano ad attribuire il suo “disegno” all’architetto Vaccarini, pur limitando l’intervento dell’architetto palermitano al solo prospetto9. Con il presente studio si tenterà di fare chiarezza sul ruolo assunto dai due architetti nella costruzione della chiesa di San Giuliano, servendoci della documentazione archivistica10 e delle recenti notizie biografiche su Giuseppe Palazzotto11. Inoltre Fichera pose il Palazzotto come «fedele e 5

F. GRANATA, Palazzotto o Vaccarini?, in Popolo di Sicilia, 6 febbraio 1942. Salvatore Giuseppe Domenico, figlio dei messinesi Francesco Palazzotto e Andreana Grillo, nacque a Catania il 2 gennaio 1702: ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA (= ASD CT), fondo Registri canonici, Santa Maria dell’Aiuto, battesimi, 1679-1714, f. 15, n. 2, vedi S. CALOGERO, Fra Liberato al secolo Girolamo Palazzotto architetto e “servo di Dio”, in Synaxis 22 (2004) 3, 133-161. 7 «Elenco degli Edifici Monumentali, LXII, Prov. di Catania»: citato da F. FICHERA, Catania nel Settecento, Roma 1925, ristampa anastatica, Catania 2003, 64; G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, Catania 1950, 276, nota 3. Vedi anche Elenco della R. Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna della Sicilia, dattiloscritto conservato nell’ASD CT, Episcopati, II, sez. 1867-1930, carpetta 9, fasc. 8. 8 La presenza nel cantiere dell’architetto Giuseppe Palazzotto è stata riscontrata per la prima volta nel contratto del 18 gennaio 1746 citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, Roma 1995, 195. 9 M.R. NOBILE, I volti della “Sposa”. Le facciate delle chiese madri nella Sicilia del Settecento, Palermo 2000, 50. 10 I libri di fabbrica della nuova chiesa (pubblicati per la prima volta da S. CALOGERO, Nuovi documenti sulla costruzione della chiesa del monastero di S. Giuliano a Catania, in Tecnica e Ricostruzione 57 [2002] gennaio-giugno, 34-46) attestano che la presenza di Giuseppe Palazzotto nel cantiere fu continua, dal 1741 al 1750. 11 Alcune notizie biografiche sulla famiglia Palazzotto sono state pubblicate da D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto Girolamo Palazzotto (Fra Liberato da Messina) 16761754, estratto dagli Atti della reale Accademia Peloritana 37 (1935), parte II, 583-615. Lo studioso messinese non ebbe l’occasione di esaminare l’archivio della diocesi di Catania, pertanto fece coincidere la data di nascita di Giuseppe Palazzotto con quella di un suo lontano cugino nato a Messina nel 1683. Per acquisire notizie aggiornate su Giuseppe Palazzotto vedi S. CALOGERO, Palazzotto, chi?, in Prospettive, 5 gennaio 2003, 6, 7 e 8. 6


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silenzioso coadiutore di G.B. Vaccarini»12, per cui è utile mettere a confronto le notizie biografiche dei due architetti per valutare l’entità dei loro rapporti di collaborazione e i loro ambiti di autonomia progettuale.

1. L’OPERA DI G. PALAZZOTTO E DI G.B. VACCARINI A CATANIA Agostino Gallo, già nel 1838, nelle sue Notizie sugli architetti del Settecento in Sicilia scrisse che il catanese Giuseppe Palazzotto fu: «Contemporaneo all’architetto canonico Giambattista Vaccarini, e a’ fratelli Amato, lasciò al pari di essi la professione di scarpellino per darsi all’architettura, che gli sembrava più proficua. Egli ideò ed eseguì in sua patria la Casa Senatoria con pilastroni dorici bugnati e finestre con frontoni sconvolti. Fra questi ed altri disordini mostra egli uno stile grandioso ma duro. Il cornicione comecché sia grave e predomini tutta la fabbrica pure non riesce disaggradevole. La pianta è quadrata con quattro portoni con vestiboli conducenti ad un cortile fiancheggiato da due portici. Il braccio interno di tramontana, a ponente rimase imperfetto. L’immenso salone fu dipinto da un pittor catanese detto Piparo che sente dello stile di Serenario; ma trascende in una maggior maniera. La scala da lui ideata e cominciata era magnifica; ma questa fu guasta da altri per formarne due cattive, una per salire alle stanze del Senato, l’altra per introdurre al teatro progettato e non eseguito fra due braccia, non terminate. È suo altresì il palazzo del cav. Valle, semplice, con buon gusto e ben costruito; menoché al lato di tramontana che fu fatto da Stefano Ittar. Il portone è goffo. Egli è pure autore della chiesa dell’abbadia di S. Chiara, la cui pianta è un ottagono oblungo, e della chiesa e monastero di S. Giuliano. Il prospetto ha belle sagome, ma la forma della pianta convessa davanti, e la porta rientrante ai lati non reca diletto. L’interno ha ampie modanature. Da lui fu pure costruito parte del prospetto del palazzo del principe di Biscari, che guarda il mare, che ha buone proporzioni, ed è condotto con buono stile ne’ particolari, ed ha i difetti delle altre sue opere nell’insieme. Egli fece altresì il Museo che è mediocre»13. 12

F. FICHERA, G. B. Vaccarini, cit., 64. A. GALLO, Notizie intorno agli architetti siciliani e agli esteri soggiornanti in Sicilia da’ tempi più antichi fino al corrente anno 1838. Raccolte diligentemente da Agostino Gallo palermitano per formar parte della sua Storia delle Belle Arti in Sicilia, Biblioteca centrale della Regione siciliana Palermo, trascrizione a cura di A. Mazzè, Palermo 2000, 133. 13


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Oltre all’attribuzione al Palazzotto del progetto della «Casa Senatoria», fatta da Agostino Gallo, è stato dimostrato che la tribuna del Palazzo degli Elefanti (fig. 1) fu disegnata da Giuseppe Palazzotto e non dal Vaccarini14. Inoltre opere definite dal Fichera come «caratteristicamente Vaccariniane»15, primo fra tutti «il palazzo del cavaliere Valle», sono citate dal Gallo come opere di Giuseppe Palazzotto.

Fig. 1 – G. Palazzotto, «Prospetto del Palazzotto del Palazzo Senatorio della città di Catania dalla parte di mezzogiorno» (A. Leanti, 1761).

Lo stesso Agostino Gallo scrisse che le «Opere del Vaccarini in Catania» furono le seguenti: 14 Cfr S. CALOGERO, Il Palazzo degli Elefanti. Documenti inediti dopo il terremoto del 1693, in Tecnica e Ricostruzione 59 (2004) 17-32. 15 F. FICHERA, Una città settecentesca, cit., 35.


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«Il Noviziato, li due refettori, e la cucina e vestiboli nel monastero de’ PP. Benedettini. Il vestibolo del gran Refettorio fece {di} proporzioni molto potenti. Il Collegio di Cutelli con bellissimo cortile circolare con archi, e colonne, con galleria continuata sopra. Quest’opera è rimasta imperfetta. Il palazzo del barone Villarmosa con quattro colonne toscane senza piedistallo, bugnato con pezzi di lava. Quest’ordine abbraccia due piani. Il pian terreno ha botteghe larghissime con sopracciglio piano formato da cunei alternativamente frammisti di lava, e di pietra di Siracusa. Questo edificio è solido, e grandioso sebbene imperfetto. Palazzo del marchese S. Giuliano. Il prospetto è semplice, e ben distribuito. In fondo del cortile vi è una scala di marmo a due braccia. Il piano dove conduce la scala è coperto da un portico dorico con quattro colonne joniche di marmo ceruleo macchiato di bianco. Il soprornato è distribuito con semplicità. Prospetto sopracitato della Cattedrale di marmo bianco, e bigio, costruito nel 1736 a spese di monsignor Galletti, ed apprezzato dall’Accademia di S. Luca. È a due ordini con 14 colonne corinzie di granito tolte dall’antico teatro. Le 6 di sotto sono del diametro di circa palmi 4 e s’innalzano sopra piedistalli con riquadratura di lava compatta assai lustra. Il cornicione del primo ordine è risaltato sopra colonne. L’attico ha quattro pilastri che fiancheggiano un meschino frontone con più meschina cornice. In generale lo stile è borrominesco»16.

Da questo elenco mancano alcune opere, fra le quali la badia piccola del monastero di San Benedetto ultimata nel 174017 che, insieme alle altre opere citate dal Gallo — tra queste il prospetto di tramontana del palazzo del marchese di San Giuliano ultimato nello stesso periodo18 — possono contribuire a chiarire lo stile del Vaccarini. Dalle opere citate si intuisce che il Vaccarini voleva staccarsi dalla tradizione dei lapidum incisores, rifiutando qualsiasi richiamo alle decorazioni presenti nelle loro architetture, e intendeva sperimentare nuove forme oppure attingere dai trattati di architettura19 (fig. 2), mentre nella 16

A. GALLO, Notizie, cit., 116-117. ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA (= AS CT), 1° vers., b. 8796, da c. 334 r. a c. 336 v. – 3 giugno 1740, notaio Domenico Ronsisvalle. 18 Sul palazzo del marchese di San Giuliano cfr S. CALOGERO, Lo storico palazzo Sangiuliano a Catania, in Tecnica e Ricostruzione 67 (2002) 53-63. 19 Nel primo progetto per il prospetto della cattedrale di Catania, unico progetto noto dell’architetto palermitano prima del 1735, Vaccarini utilizzò le forme introdotte a Palermo 17


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chiesa di San Giuliano gli ornati vengono riletti inserendoli in un apparato architettonico che non rifiuta la tradizione bensì la reinterpreta.

Fig. 2 – R. Gagliardi (?) – «Capitello Jonico di Michelangelo Buonarroti nel Campidoglio» (L. Trigilia, 1994). alla fine del Seicento dall’architetto camilliano Giacomo Amato, provenienti dalla cultura romana: cfr S. PIAZZA, Architettura e nobiltà, i palazzi del Settecento a Palermo, Palermo 2005, 117.


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Questo linguaggio architettonico è presente in tutte le opere che Agostino Gallo attribuì al catanese Giuseppe Palazzotto e non in quelle del Vaccarini. Ad esempio nella chiesa della badia di Sant’Agata (fig. 3), da considerare il capolavoro dell’architetto palermitano, sono presenti apparati architettonici ed elementi decorativi che si discostano notevolmente da quelli della chiesa di San Giuliano.

fig. 3 – Prospetto della chiesa della badia di Sant’Agata.


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Nel contratto stipulato il 20 dicembre 1738 si legge che mastro Domenico Battaglia20 si obbligò con il marchese di Sangiuliano: «Di lavorargli magistrevolmente e con tutta esattezza tutte le finestre e fenestroni che dovranno farsi nel nuovo Palazzo di detto Illustre Marchese, che guarderanno il Levante e Tramontana, di pietre di Mazza Oliveri, giusta il Disegno e Moderi fatti ed inventati dal Architetto di questa suddetta Città Rev.do Sac.te D.e Don Giovan Battista Vaccarini e secondo le misure che dal medesimo di Vaccarini gli saranno ordinate»21,

facendo intuire la volontà dell’architetto di “inventare” nuove forme di architettura, seguendo lo spirito prettamente barocco della sperimentazione. Successivamente, con contratto del 30 gennaio 1745, i mastri Domenico Caruso e Ignazio Boscarini si obbligarono a: «lavorare magistrabilmente li due basi e capitello del porticato della fera di detto Marchese di marmo che al presente sta nella marina di questa suddetta Città, con obligo di farli di giusta le modinature date dall’Architetto Reverendo Sac. D. Giovanni Battista Vaccarini benvisti ed approvati così dal detto Illustre Marchese così dal detto Architetto […] ed anche di serrare per lungo il pezzo del marmo che servirà per il tabellone a quella grossezza necessaria, e troncarlo a’ lunghezza anche necessaria […], dovendo essere detti capitelli a punto come quelli in stampa dell’Architetto Michelangelo, ora forati e trapanati a lochi. Secondo li sarà ricercato dal suddetto Architetto di Vaccarini»22.

In quest’ultimo contratto è evidente il riferimento alla stampa dei capitelli ionici progettati da Michelangelo Buonarroti per il Campidoglio a Roma.

20

Domenico Battaglia, figlio di Paolo e Angela Biundo, era fratello minore dell’architetto Francesco Battaglia, collaboratore del Vaccarini nelle opere catanesi. 21 AS CT, 2° vers. not., b. 1137, da c. 573 r. a 574 r., 20 dicembre 1738 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior. 22 AS CT, 2° vers. not., b. 1149, da c. 815 r. a 817 r., 30 gennaio 1745 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior.


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2. LA NUOVA CHIESA DI SAN GIULIANO IN VIA CROCIFERI L’esame dei documenti di archivio può essere utile a chiarire il ruolo assunto dai due architetti nel cantiere. Il 19 febbraio 1709, essendo badessa suor Maria Felice Statella e priora suor Giovanna Vittoria Ramondetta, le monache di San Giuliano scambiarono in permuta il loro fabbricato23 con quello dell’ospedale San Marco, posto in angolo con la strada Lanza, oggi via San Giuliano, e la strada dei tre Santi, oggi via Crociferi24. Nella copia del contratto depositata presso i padri del convento di Sant’Agostino si legge la consistenza dei corpi di fabbrica dell’ospedale (fra i quali era presente anche la chiesa25) che furono modificati dalle nuove proprietarie adattandoli alle esigenze della vita monastica, facendo costruire, fra il 1711 e il 171426, un dormitorio a primo piano dalla parte di tramontana e ristrutturando la vecchia chiesa (fig. 4). L’attività edilizia delle monache riprese nel 1732, quando furono prelevate 500 onze dalla cassa delle tre chiavi per iniziare a: 23

Il monastero di San Giuliano, prima del terremoto del 1693, era collocato dove attualmente è ubicata la chiesa di San Gaetano “alla Civita”. 24 Cfr F. FERRARA, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII con la descrizione degli antichi monumenti ancora esistenti e dello stato presente della città, Catania 1829, 544. La data del 19 febbraio 1709 si evince dalla lettera scritta dalla badessa dopo l’insediamento nel nuovo sito in cui le monache fecero il resoconto al vescovo di Catania del loro trasferimento nell’edificio dell’ospedale, avvenuto il 23 febbraio dello stesso anno: Memoria della Rev. Abbadessa del Monastero di S. Giuliano della città di Catania. – AS CT, Corporazioni religiose soppresse (= CCRRSS), b. 205, cc. 1175 r. e 1176 v. Inoltre, in un contratto del 27 maggio 1709 si legge che il nuovo palazzo del barone della Sigona doveva avere «un fenestrone consimile a quello del corritore che guarda lo levante del monastero di S. Giuliano olim Ospedale di questa suddetta città», confermando la data del trasferimento delle monache nel nuovo sito: Obligatio pro illustre don Michelangelo Paternò et Castello cum mastru Andrea de Amato et Consortes, AS CT, 1° vers. not., b. 1036, c. 747r-v. – 27 maggio 1709 – notaio Francesco Pappalardo. 25 La badessa suor Maria Felice Statella riceve «in perpetuum Hospitale predictum consistente in diversis corporibus, et officinis cum corum fenestris, Ecclesia, puteis, cortile, apotheca septentrionum versus, alio vero occidentem versus, et alis in eo existentibus omnibus in eo inclusis et nihil ex eo exclusis situm et positum in hac predicta Urbe Catanie, et in contrata Sanctissimae Assuntionis seu delli Granatelli»: AS CT, CCRRSS, b 448. 26 ARCHIVIO DI STORIA PATRIA, Catania – Volumi di introiti ed esiti di S. Giuliano dal 14 febbraio 1711 al 18 febbraio 1714, c.33.: G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 267.


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Fig. 4 – Prospetto nord del monastero sulla strada Lanza, oggi via A. Sangiuliano (ipotesi di restituzione post 1711). Sulla destra si vede il prospetto della vecchia chiesa di San Giuliano.

«fabricare un nuovo curritore per la parte di ponente per render commoda l’abitazione delle religiose di esso monastero, come ancora di dar principio alla fabrica della nova Chiesa del medesimo per ritrovarsi la presente assai piccola ed angusta»27.

A tale scopo intendeva utilizzare «il disegno di detta chiesa» ideato dall’architetto camilliano Vincenzo Caffarelli28, facendone realizzare «il modello di rilievo ed affacciata di detta chiesa»29 a don Gaspare Ciriaci30. 27 Mutuo di 500 dalla cassa delle tre chiavi al monastero di San Giuliano: AS CT, 2° vers. not., b. 1124, c. 294 e segg. – 21 aprile 1732, notaio Vincenzo Arcidiacono senior. 28 L’architetto Vincenzo Caffarelli della congregazione religiosa dei camilliani o ministri degli infermi, che a Catania furono chiamati “Crociferi”, fu probabilmente allievo di Giacomo Amato: M.R. NOBILE, I volti della “Sposa”, cit., 50. Le notizie sulla sua attività a Catania sono poche, per cui sarebbe opportuno un approfondimento sul ruolo che egli ebbe nella ricostruzione di alcuni importanti edifici dopo il terremoto del 1693. 29 Libro della spesa per la fabrica del nuovo dormitorio di questo venerabile monastero di S. Giuliano e del triennio della rev. suor Maria Casimira Stella e Boccadifuoco badessa dell’anni 1732, 1733 e 1734: AS CT, CCRRSS, b. 131, citato in Recuperare Catania, cit. 30 Il pittore quadraturista romano don Gaspare Ciriaci fu anche un abile scultore e intervenne in diversi edifici religiosi catanesi, fra i quali è documentato un suo intervento nella chiesa di San Benedetto nella stessa via Crociferi.


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I lavori eseguiti furono descritti nel «libro della spesa per la fabrica del nuovo dormitorio». Inoltre, nel libro delle uscite redatto a partire dal mese di febbraio 1735 sotto il governo di suor Felice Vittoria Amico e Statella, risulta che, ultimato il dormitorio, si impostò il cantiere della nuova chiesa nel sito di quella attuale31. Il 23 dicembre 1738 vennero corrisposte onze 20 «alli deputati per la fabbrica della chiesa»32, ma si dovette aspettare il 7 aprile 1739, quando il monastero acquistò dalle sorelle dell’ormai defunto Andrea Bonafede un «tenimento di case terrane […] confinante con detto venerabile monastero per tramontana e levante, con le case del barone don Ascanio Ricciuli per mezzogiorno, con la via pubblica per ponente ed altri confini»33, per avere a disposizione il terreno su cui doveva realizzarsi la nuova chiesa. Con la rielezione della badessa suor Felice Vittoria Amico e Statella fu redatto probabilmente un nuovo progetto che prevedeva di ingrandire la pianta della chiesa. Infatti, il 4 maggio 1741 la suddetta badessa, per consentire l’inserimento del nuovo impianto planimetrico, comprò dal barone di Bagnara, don Ascanio Maria Ricciuli: «un pezzo di terreno di capacità di canne due e palmi sei […] collaterale detto pezzo di terreno colle case olim dell’eredi del fu Andrea Bonafede ed al presente del monistero suddetto, secondo le lenze tirate […] affine di diroccarsi a spese di detto venerabile monistero per la edificazione e costruzione di detta nuova chiesa»34.

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Libro d’esito in tempo della reverenda madre badessa suor Felice Vittoria Amico, incominciando dalli 15 febraio 1735: AS CT, CCRRSS, busta 132. 32 Libro di esito in tempo della reverenda madre suor Maria Casimira Stella e Boccadifuoco badessa del venerabile monistero di San Giuliano incominciando dalli 15 gennaro 1738 per tutti li 20 Febraro 1741: AS CT, CCRRSS, busta 134. 33 Publicatio minutae venditionis cuiusdam tenimenti domorum terranearum cum revenditone uncearum 6, tarenorum 14.12 annualium pro capitale uncearum 129.22 et aliis in ea pro venerabile monasterio monialium Sanci Julianii huius urbis Catanae contra don Didacum Laudani nominibus etc.: AS CT, 2° vers. not., b. 1138, c. 125 e segg. – 7 aprile 1739, notaio Vincenzo Arcidiacono senior. 34 Actus contentamenti inter venerabilem monasterium monialium Sancti Julianii huius urbis parte ex una et spectabilem baronem don Ascanium Mariam Ricciuli parte ex altera: AS CT, 2° vers. not., b. 1142, c. 131 e segg. – 4 maggio 1741, notaio Vincenzo Arcidiacono senior.


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Inoltre il barone aveva la possibilità di «fare finestre di lume solamente, non solamente di prospetto; quali suddette finestre di lume s’abbiano e debbiano da situare nel cortile di detta nuova chiesa di detto venerabile monistero dalla parte che guarda la tramontana per il corso di palmi diciotto circa»,

mentre le monache potevano «fare una finestra che sarà necessaria per dar lume alla stessa chiesa dalla parte di mezzogiorno […] quale suddetta finestra dovrà andare dal suolo di detto tenimento di case del suddetto spettabile barone di Ricciuli stipulante alta palmi sessanta»35.

Il riferimento al cortile, posto fra la chiesa e la proprietà del barone di Bagnara, nonché la finestra di lume della nuova chiesa che doveva avere il davanzale distante palmi 60 dal piano di calpestio delle case suddette, fanno capire che il progetto dell’attuale chiesa, a questa data, era stato già redatto. Subito dopo, il primo agosto 1741, la badessa stipulò un contratto con il barone di Ficarazzi il quale si impegnò, nel caso volesse edificare il suo palazzo, «nella parte del piano che guarda la tramontana fargli tutte quelle aperture tanto di fenestre, quanto di fenestroni, per commodo del suo palaggio che farà di fabrica reale, di sorte tale però che non recassero servitù alcuna, ne incommodo al detto venerabile monistero»36.

Nello stesso contratto si legge che:

35

L.c. Contractus conventionis inter venerabilem monasterium Sancti Juliani huius urbis parte ex una et spectabilem don Vincentium Benedictum Paternò et Asmundo baronem Ficaratiarum parte ex altera: AS CT, 2° vers. not., b. 1142, c. 475 e segg. – 1 agosto 1741, notaio Vincenzo Arcidiacono. 36


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«in tutte quelle fenestre seu fenestroni che recaranno servitù e sprovideranno detto venerabile monistero e sue moniali come sopra a proprie spese di detto barone stipulante e suoi etc. fare li timpagnoli di fabrica per traverso, per impedire tal prospetto […]. Dippiù che costruendo ed edificando detto venerabile monistero sopra la detta dispenza, portone e magazzino che guardano lo levante qualche corridore per abitazione de’ moniali, e questo sarà di livello più superiore al palaggio che dovrà fare detto spettabile barone, e di maniera che l’aperture di esso medesimo spettabile barone non inducessero né servitù, né pregiudizio alcuno al detto venerabile monistero, cioè nel cortile, scala, giardino o portone»37.

Da questo documento si evince che le monache avevano intenzione di edificare un nuovo dormitorio nel corpo di fabbrica sul Largo San Giuliano, dove erano collocati il portone, la dispenza e il magazzino. Quindi, l’architetto incaricato dalla nuova badessa, oltre alla nuova chiesa, progettò anche l’ampliamento del monastero dalla parte di levante, in cui sono evidenti i richiami al parapetto del loggiato della chiesa (fig. 5). Essendo noto il nome dell’architetto Giuseppe Palazzotto come autore del progetto di ampliamento del monastero di San Giuliano38, non è azzardato ipotizzare che egli fu anche il progettista della chiesa.

37

L.c. Actus declaratorius factus per venerabilem monasterium monialium Sancti Juliani «Relazione di tutta la spesa necessaria per l’opera di legname per serviggio delle nove abitazioni da farsi nella linea di tramontana e levante e delle tre stanze terrane nella linea di mezzogiorno del venerabile monastero di S. Giuliano, secondo quelle misure che trovansi delineate nelle piante ed alzati fatte dall’architetto Giuseppe Palazzotto in quel sito che dal signor duca di Tremisteri fu venduto al riferito venerabile monastero fatta da me mastro Rosario Isaia mastro falegname […]. Relazione fatta da me infrascritto per ordine della reverenda abbadessa del venerabile monastero di S. Giuliano di tutta la spesa necessaria della nuova fabrica da farsi in detto monistero, in quel sito che le fu venduto dal signor duca di Tremestieri, regolata secondo quelle misure e lineamenti che sono nelle piante ed alzati fatte dall’architetto Giuseppe Palazzotto colla riforma del cortile segnato A, quale vien fabricato con tre stanze terrane ad effetto che restasse cautelata la clausura del monastero e nell’atto stesso ricavarne il frutto annuale che daranno le stanze sudette; e similmente colla riforma di maggior parte della cantina segnata B, quale s’è stabilito farsi stanze d’abitazioni locande nella linea di tramontana […]. Giuseppe Serafino architetto e relazionatore confermo come sopra […]»: AS CT, 2° vers. not., b. 1795, c. 67 e segg. – 10 Settembre 1763, notaio Gaetano Arcidiacono, citato in Recuperare Catania, cit. 38


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Fig. 5 – Prospetto sul largo San Giuliano (ipotesi sul progetto dell’architetto Palazzotto)39.

3. LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA CHIESA DI SAN GIULIANO Analizzando i libri di fabbrica della chiesa di San Giuliano, compilati dal deputato del monastero don Bernardo de Amico40, è stato possibile ricostruire le varie fasi costruttive del cantiere. 39 Questo corpo di fabbrica fu realizzato, fra il 1763 e il 1765, dagli architetti Giuseppe Serafino e Antonio Caruso, apportando leggere modifiche. Nel 1792 l’architetto Antonino Battaglia curò «la costruzione di un nuovo dormitorio, che di fuori mira il piano di Levante», corrispondente a quello che si vede sezionato sulla sinistra del disegno, realizzato sopra il portone, la dispensa e il magazzino. Quest’ultimo dormitorio non fu realizzato negli anni ’60 del Settecento perché le monache nel 1755, per acquistare le proprietà del duca di Tremestieri, avevano fatto redigere una perizia da alcuni medici che attestavano la sua inedificabilità per motivi di salubrità. 40 Il canonico della cattedrale don Bernardo D’Amico e Massa fu, insieme all’architetto Fra Liberato — al secolo Girolamo Palazzotto —, fratello maggiore di Giuseppe, uno degli oppositori al progetto vaccariniano del prospetto della cattedrale di Catania: cfr M.R. NOBILE, I volti della “Sposa”, cit., 42. Per cui la nomina di quest’ultimo a deputato per la fabbrica della nuova chiesa, esclude ulteriormente un intervento del Vaccarini nel progetto della chiesa di San Giuliano. Infatti, il Vaccarini durante la visita del De Ciocchis (1743) accusò Bernardo d’Amico di una cattiva amministrazione della mensa episcopale facendolo dimettere da tale carica, per cui i rapporti fra i due non erano dei migliori: cfr V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto» vaccariniano della cattedrale di Catania, in Scritti in onore di Ottavio Morisani, Catania 1982, 379-414.


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I lavori iniziarono il primo ottobre 174141. Intanto, nel mese di dicembre 1742 si annotò un pagamento per «pietra acarozzata n. 50 per li pidamenti della facciata»42 e già nel mese di febbraio si pagò, con onze 6, «mastro Nicolò per alzare lo modello della facciata della chiesa di legname»43. Contemporaneamente si corrispose la paga all’architetto: «A sig. Giuseppe Palazzotto, onze 4 a completamento di onze 12»44. Questa nota del deputato del monastero fu precisata per inserire le paghe non contabilizzate e ricevute nel biennio precedente dall’architetto Giuseppe Palazzotto. Considerato che le paghe al Palazzotto vennero effettuate ogni anno il 15 di febbraio oppure il 23 di agosto e che i lavori iniziarono nell’ottobre 1741, mentre il modello della facciata fu realizzato solo nel febbraio 1743, si può ipotizzare che la prima paga di 4 onze per la direzione dei lavori fu data nel febbraio 1743 mentre le 8 onze date in precedenza all’architetto riguardarono il compenso per la progettazione. Nel marzo del 1745 si realizzarono «le furme delle Cappelle»45, cioè quelle in cui furono posti gli altari laterali46, e a giugno dello stesso anno si pagarono i «mastri d’ascia per sfurmare li Cappelli»47. Il 18 maggio 1745 fu pagato il «disegno per una lapazza di castagna per serviggio della scala» e, nel mese di luglio, si pagarono «due mastri d’ascia per fare li serci della affacciata»48. Anche in questa fase dei lavori, e precisamente il 23 agosto 1745, si trova scritto «più al sig. Giuseppe Palazzotto per suo regalo onze 4»49.

41 42 43 44 45

Libro della fabrica incominciando al 1 ottobre 1741: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. s. n. Ibid., c. 782 r. L.c. L.c. Libro della fabrica incominciando dal 22 marzo 1745: AS CT, CCRRSS, b. 202,

c. 730 r. 46 Gli altari laterali barocchi furono sostituiti nel 1797 con quelli neoclassici progettati dall’architetto Antonino Battaglia: G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 48. 47 Ibid., c. 732 r. 48 L.c. 49 Ibid., c. 733 r.


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Il 18 gennaio 1746 si stipularono due atti di “Staglio”, presso il notaio Vincenzo Arcidiacono, con mastro Giovanni Nicolosi e mastro Pasquale Serafino50 per iniziare a lavorare, ciascuno di essi, «due Archi della Chiesa di detto Monistero che attualmente si sta fabricando, di pietra nera magistralmente lavorati e benvisti al Reverendo Sacerdote Abbate e Canonico Don Bernardo di Amico come deputato di detto Venerabile Monastero ed a Giuseppe Palazzotto Architetto, dovendo essere li pezzi di detta pietra nera sino alli terzi delli Archi sia di grandezza consimile alli mezzi pilastri, ed altri due terzi alla grossezza di palmi due di groppa al suo dente da fuori e dentro, e con lo scuro fra un pilastro all’altro, ed uniformi alli pilastri della Chiesa, come pure simili detti pezzi di detti Archi devono essere fra di loro concatenati seu attaccate le costure a punta di picone e la fronte liscia con obligo di dover consignare detti mastri a loro spese detti pezzi in piede della fabrica seu in detta Chiesa, ed in caso vi fosse qualche pezzo non ben lavorato, dovranno detti mastri a loro spese e travaglio rifarlo e accomodarlo, dovendo consegnare tutti detti pezzi completi nelli 15 Aprile 1746» 51.

Nella contabilità è segnalata pure la presenza del nipote dell’architetto Palazzotto, Giuseppe Serafino52, che assunse compiti di collaboratore di cantiere per misurare, fra l’altro, le soglie in pietra lavica del prospetto, che comportarono la spesa di onze 6.4.2 per la «fascia nigra e sogli di porte» e onze 8.23.3 per gli «scaloni palmi 157»53. 50

Mastro Pasquale Serafino alias Nocca, figlio di Antonino e Francesca Pappalardo, sposò Angela Palazzotto, sorella maggiore di Giuseppe, il 6 maggio 1711: ASD CT, fondo Registri canonici, Santa Maria dell’Aiuto, matrimoni, 1690-1714, f. 14, n. 2. Cfr S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 136. 51 Actus extalei pro Monasterio Sancti Juliani contra Magistram Pasqualem Serafino et Consortes: AS CT, 2° vers. not., b. 1151, c. 587 r. – 18 Gennaio 1746, notaio Vincenzo Arcidiacono senior, citato in Recuperare Catania, cit. 52 Giuseppe Serafino, figlio di Pasquale e Angela Palazzotto, nacque a Catania il 25 marzo 1713: ASD CT, fondo Registri canonici, Santa Maria dell’Aiuto, battesimi, 1690/1714. Cfr S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 136. 53 Quinterno della fabrica della chiesa dal 1 ottobre 1745: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 468 r. Nella paga di mastro Giovanni Midosi, si legge: «per la fascia di pietra d’intaglio negra più sogli di porte misurate da mastro Giuseppe Serafino a grana 10 a palmo e grana 15 per lo servigio delli sogli suddetti ad intagli circolari quattro».


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Il 15 febbraio 1746 si trova «dato a Sig. Giuseppe Palazzotto per sua paga onze 4»54 e il 26 dello stesso mese furono acquistate «canne n. 200 per la furma dello dammuso del litterio»55, cioè la volta del coro collocato dietro il prospetto principale della chiesa. Le stesse maestranze il 31 gennaio ricevettero il compenso «per fare carica di sopra la lugetta»56, probabilmente quella sopra il presbiterio, e a partire dal mese di febbraio, realizzarono la carpenteria delle finestre, come risulta dalle paghe assegnate il «20 febraro per una giornata di due mastri d’ascia per fare la crosta della finestra della Chiesa», «a due mastri d’ascia per fare la furma della finestra di mezzogiorno» e «per una giornata di mastro d’ascia per fare li furmi delle finestre di tramontana»57. Quando la costruzione incominciava a prendere forma e già si poteva vedere il volume del prisma ottagonale, il 23 agosto 1747 si legge: «dato al Signor Giuseppe Palazzotto onze 4»58. Mastro Gregorio Bonaventura ricevette la nomina di procuratore del monastero per l’acquisto nella città di Messina di 1500 tavole di “zappino”59 e contemporaneamente vennero stipulati i seguenti contratti: con mastro Francesco Milazzo, per la fornitura di «tutta quella quantità di visale in serviggio e per coprire la nuova Chiesa di detto venerabile monastero al confronto della mostra fatta di creta vergine, e magistralmente fatte»60,

e con Francesco Leone, della città di Siracusa, che si impegnava:

54

Ibid., c. 490 r. L.c. 56 Quinterno della fabrica della chiesa da 1 Agosto 1746 al 30 Aprile 1747: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 410 r. 57 Ibid., c. 410 r. 58 Quinterno della fabrica della chiesa dal 1 maggio 1747: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 441 r. 59 Procuratio pro monasterio Sancti Juliani in personam magistri Gregorii Bonaventura: AS CT, 2° vers. not., b. 1156, c. 285 – 12 maggio 1748, notaio Vincenzo Arcidiacono. 60 Obligatio pro monasterio Sancti Juliani contra magistrum Franciscum Milazzo etc.: AS CT, 2° vers. not., busta 1156, c. 534 – 9 giugno 1748, notaio Vincenzo Arcidiacono. 55


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Salvo Calogero «di lavorargli canne ottanta di visalato per la chiesa novamente fabricata di detto venerabile monasterio; dovendo essere dette visale della grandezza e misura uniformi allo modaro di carta consignatoli, cioè mezzo palmo ed una lenza di quadro per una, di buona creta stagnate bianche ed azzure, seu torchine. Con essere lo bianco uniforme alla mostra venuta da Napoli e lo torchino consimile alla mostra fatta da detto di Lione, magistralmente fatte, piane e non strammate e con l’angoli a squadra. E lo stagno dovrà essere liscio e senza mancamento alcuno, consimile come se fosse marmo»61.

A questo punto dei lavori le monache ebbero la necessità di reperire nuovi fondi per cui, con atto notarile del 29 maggio 1748, prelevarono dalla «Cassa delle tre chiavi» altre onze 800 «pro costruzione et edificatione novae ecclesiae dicti venerabilis monasterii»62. Nel contempo, si completò la struttura lignea della copertura, come risulta dall’acquisto di «un trentino e altri legni per covertare il loggione», cioè la copertura del loggiato belvedere posto a coronamento della volta (figg. 6-7), e «legname n. 16 pezzi per servigio del covertizzo del dormitorio»63, al fine di ripristinare la vecchia fabbrica del monastero affiancata a quella della nuova chiesa e alla data del 18 settembre 1748 si legge fra le spese straordinarie e minute quella per «fare un compasso per servigio delle statue […] più piombo per le statue»64. Nello stesso periodo furono consegnate le pietre “pumici” per il «dammuso grande» e il 28 gennaio 1749 si acquistarono il «cartone di modari e colla»65, cioè l’occorrente per realizzare le modanature dei cornicioni della chiesa. 61 Obligatio pro monasterio Sancti Juliani contra Franciscum Leone etc.: AS CT, 2° vers. not., b. 1157 e seg. – 22 settembre 1748, notaio Vincenzo Arcidiacono senior. 62 Actus mutui uncearum 1569 cum obligatione et cessione ad cautelam pro archa trium clavium venerabilis monasterii monialium Sancti Juliani contra idem venerabilem monasterium: AS CT, 2° vers. notarile, busta 1156, c. 339 e segg. – 29 maggio 1748, notaio Vincenzo Arcidiacono. 63 Quinterno della fabrica della chiesa cominciando dal 27 marzo 1748: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 423. 64 Quinterno della fabrica incominciando dal 1 settembre 1748: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 587 r. 65 Ibid., c. 588 r.


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Fig. 6 – Sezione longitudinale della chiesa. Sotto il vestibolo d’ingresso si vede la cripta e sopra il coro (“litterio”) mentre sotto il presbiterio vi sono le “officine” e sopra la “lugetta”. La cupola (“dammuso grande”) è avvolta dalla loggia belvedere.

Fig. 7 – Sezione trasversale della chiesa (ipotesi di restituzione al 1866).

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A questo punto la struttura portante della chiesa era stata effettivamente completata (figg. 8-9) ed iniziarono le finiture della parte interna e a tale scopo si acquistò «isso per inalbarsi tutta la Chiesa»66.

Fig. 8 – Prospetto della chiesa su via Crociferi.

66

Ibid., c. 606r.


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Fig. 9 – Sezione nel chiostro (ipotesi di restituzione storica al 1866).

Anche in questo periodo si trova fra le spese straordinarie e minute: «Al Sig. Giuseppe Palazzotto per regalo in febraro onze 4»67. Nel 1750, con la pittura delle grate68 ed altri lavori che si protrassero fino al marzo del 1751, furono ultimati i lavori edili della chiesa69. Quindi, in definitiva, la chiesa si può definire completata al suo interno nel mese di maggio talché il giorno 27 fu annotata la spesa: «per manuali e picciotti per sbarazzare la Chiesa», per cui la chiesa poté aprire al suo ufficio 67

L.c. La verniciatura degli infissi e delle grate fu effettuata miscelando «bianchetto, verderame e ogghio di lino», oppure al posto del verderame il «reforgino»: ibid., c. 572 r. 69 «Leggesi sulla porta A. D. MDCCL»: G. RASÀ NAPOLI, Guida alle chiese di Catania e sobborghi, Catania 1900, 242. 68


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il 22 luglio 175170. A tal proposito si legge nel libro di fabbrica, alla data del 25 maggio 1751, «Santissimo Signore alla Custodia»71 (figg. 10 e 11).

Fig. 10 – Pianta del P. 1° della chiesa (restituzione storica al 1866). Si possono notare gli spazi riservati alle monache di clausura per partecipare alle celebrazioni liturgiche attraverso le “grate”. A nord sono collocati gli ambienti delle novizie e il campanile collegato al chiostro attraverso una scala. 70 A questa data padre Romualdo M. Rizzari scrisse la sua Orazione inauguratoria per l’apertura della nuova chiesa del venerabile monastero di S. Giuliano, descrivendo l’edificio con le seguenti parole: «Quell’essersi eretto questo mirabile Tempio fra l’angusti giri di pochi anni, co’ soli tesori dell’unione economica […]. Una gran Cupola la cuopre, stabili pilastroni l’assistono, marmoreo pavimento lo termina, venustissimi altari l’adornano. Qui per ergere magnifico l’intaglio somministrarono più regni, da’ loro seni pregevoli le pietre, Tremolarono gli Artefici nel rinvenire disegni, e disposte le simmetrie più belle, accomodare al decoro la Magnificenza»: R. RIZZARI, Orazione inauguratoria per l’apertura della nuova Chiesa del Ven. Monistero di S. Giuliano, Catania 22 luglio 1751. 71 Libro della fabrica incominciando dal 1 ottobre 1750: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 627 r.


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Fig. 11 – Pianta del P. T. della chiesa (restituzione storica al 1866).

Fig. 12 – Rilievo del pavimento della chiesa (F. Fichera, 1934).

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4. LA REALIZZAZIONE DEL PAVIMENTO E DELL’ALTARE MAGGIORE Mentre si costruiva la chiesa, il cantiere si rifornì di marmi di diversa provenienza, fra cui il marmo acquistato dal monastero di S. Nicola l’Arena e dalla Loggia che servì allo scultore Giovan Battista Marino per realizzare il pavimento della chiesa72 (fig. 12). I lavori continuarono nel mese di ottobre per realizzare la “scalinata” in pietra bianca, per la quale furono impiegati «2 mastri, due manuali e 3 picciotti» fino all’8 gennaio 1752. Oltre alla pietra serrata dai mastri intagliatori, fu annotata la spesa: «per cuti fatti in S. Giovanni nolo e manuali e porto al monastero»73 utilizzate, probabilmente, nel sagrato antistante la chiesa. Per realizzare la “Custodia” furono redatti appositi libri di spesa. Fra le spese straordinarie e minute risulta quella «per aver fatto fare un modello di Custodia in Palermo e suo trasporto, onze 5»74, e quella registrata il 23 ottobre 1749 «per il disegno della custodia venuto da Roma onze 1.24»75. Dal libro di spesa risulta che i lavori per realizzare il modello della “Custodia” durarono dal 5 giugno al 25 luglio 1747 e, dopo una breve sospensione, ripresero il 3 marzo 1748 acquistando «due libri d’oro per lo modello della Custodia»76. Il modello della “Custodia” fu realizzato da mastro Nicolò Mignemi, che fu pagato «per maestria di pittura del suddetto modello»77, «al suddetto Mignemi per spirito e gomme per la vernice del suddetto modello»78 e «argento dato al detto modello n. 1400»79, e da mastro Giuseppe Daniele che 72 Infatti, «A 11 agosto 1749 fatto conto con il sig. Giovanni Battista Marino di tutti li denari e robba datagli fino alla sua giornata: sono onze 37.25.10» e a partire dal 14 agosto 1749 al 29 gennaio 1750 ricevette altre onze 12: vd Quinterno della fabrica incominciando dal 1 agosto 1749: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 574 r. 73 Ibid., c. 644 r. 74 Libro per spesa della Custodia: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 527 r. 75 Ibid., c. 529 r. 76 Ibid., c. 530 r. 77 L.c. 78 L.c. 79 Ibid., c. 531 r.


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ebbe pagata la «legname e maestria delli cornici per li modari di rame»80. Inoltre, il 16 settembre 1748 fu riportata la paga «alli mastri per fare il modello della Custodia» e, in particolare, quella a «Giuseppe Daniele per maestria delli 6 colonni a copia di quelli del modello di legname»81. I lavori per realizzare la “Custodia” iniziarono nel mese di luglio 1747 e le misure delle pregiate pietre furono prese da Giuseppe Serafino82. Le pietre, che variavano dal “verde cimignaro” al “Seravezza”, dalla pietra “Agata” ai marmi “giallo Castronovo”, “grigio Bardiglio” e “Libeccio”, furono “serrati” da mastro Antonino Pirrone e da suo fratello Girolamo, che furono pagati «per tutti li lavori d’Arte»83 a partire dal mese di settembre 1747. Lo scultore Giovan Battista Marino ricevette un’onza a settimana, per complessive 26 onze84, dal 10 novembre 1748 al 5 agosto 1749, per realizzare il gruppo statuario. Da quanto abbiamo visto, il disegno della custodia fu fatto venire da Roma per una spesa di onze 1,24, mentre il modello85 fu realizzato «in Palermo» per onze 5. Queste spese furono annotate nel 1749, mentre dalla stessa contabilità risulta che il modello era stato eseguito a partire dal 1747 e ultimato nel 1748 dai mastri Nicolò Mignemi e Giuseppe Daniele. Negli esiti del monastero relativi al triennio 1747/50, sotto il governo di suor Felice Vittoria Amico e Statella, si legge: «per tante rimplazzate alla cassa di capitali a conto di quanto leva dovendo il monastero per causa della fabrica della nuova Chiesa onze 150» per un totale di 2631.10.5.3, «E più spese per la custodia dell’altare della chiesa onze 21.11.4»86. Quest’ultimo atto riporta la spesa «per la custodia dell’altare della chiesa», per cui il termine “Custodia”, che abbiamo trovato nei libri di 80 81 82 83 84

L.c. Ibid., c. 512 r. Ibid., c. 497 r. Ibid., c. 502 r. Libro di lavori della Custodia dal 1748 ad agosto 1749:

AS CT, CCRRSS,

b. 202,

c. 366 r. 85 Nel Libro di lavori della Custodia dal 1748 ad agosto 1749 si legge: «Salvatore Mastro Panormitano restò in debito per onze 1.5»: AS CT, CCRRSS, b. 202, c. 366 r., che sarebbe utile accertare se fu un fornitore di marmi oppure l’autore del modello. 86 Raziocinio per il triennio della sorella suor Felice Vittoria Amico badessa che principia dalli 16 ottobre 1747 e termina a 21 ottobre 1750: AS CT, CCRRSS, b. 140.


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spesa, riguardò il tabernacolo e il tronetto per l’esposizione dell’Eucaristia, il cui modello dovette essere approvato, probabilmente, a Roma. Quindi, il disegno dell’altare maggiore fu eseguito prima del 1747 e, mentre si realizzava la parte inferiore che comprendeva il paliotto, la mensa e le mensole laterali, si procedeva ad acquisire le previste autorizzazioni per la “Custodia” che era costituita dal tabernacolo, tre gradini delimitati da due volute che reggevano le due virtù teologali della fede e della carità realizzate da Giovan Battista Marino, e il tronetto che doveva ospitare l’ostensorio in cui, ai lati, lo stesso scultore realizzò i due angeli che invitavano il fedele all’adorazione dell’Eucaristia.

CONCLUSIONE Ipotizziamo, per assurdo, che Giovan Battista Vaccarini ideò il “Disegno” della chiesa di San Giuliano in qualità di soprintendente di tutte le fabbriche di chiese nella diocesi di Catania, in seguito alla nomina ricevuta l’8 giugno 173187, limitando l’intervento del Palazzotto alla sola direzione dei lavori. L’esistenza del primo progetto per la chiesa, redatto dall’architetto Vincenzo Caffarelli, che la badessa Boccadifuoco intendeva ancora utilizzare nel corso del 1738, esclude che l’architetto palermitano possa esserne stato il progettista. Infatti, il compenso dato al Caffarelli fu registrato nel 1732, anche se in quella data l’architetto crocifero era già morto, e nei libri di introito ed esito successivi non si trovano paghe relative alla redazione di altri progetti per la chiesa. Quando il 23 dicembre 1738 furono pagate le 20 onze ai deputati per la fabbrica della chiesa non si fece riferimento alla redazione di un nuovo progetto. Inoltre il contratto stipulato il 7 aprile 1739 con il quale le monache acquistarono il terreno del defunto Andrea Bonafede, il cui acquisto era 87 Nel documento si legge «[...] Suae vitae durante in Nostrum et dicti prospectus constructione, sive fabrica commissarium praefectum operarum et Architettum constituimus, deputamus, eligimus et electum volemus, nec non omnium et singularum fabricarum forte faciendarum in Ecclesiis tam monialium, quam secularium Nobis per totam diocesim subiectis [...]»: cfr V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare», cit., 382, 410.


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stato programmato nel 1732 per la costruzione della chiesa progettata dal Caffarelli, e il successivo contratto del 4 maggio 1741 per l’acquisto di una ulteriore fascia di terreno confinante a nord con la precedente, fanno capire che nel 1741 venne redatto un nuovo progetto della chiesa. Una vicenda che può contribuire a fare chiarezza sull’iter progettuale della chiesa di San Giuliano e sul contributo che si vuole attribuire al Vaccarini per la sua progettazione, è quella relativa alla chiesa di San Camillo, sulla stessa via Crociferi. Infatti nel 1735, nel periodo in cui Vaccarini aveva già ricevuto la nomina a soprintendente, l’architetto Francesco Battaglia88 fornì «il disegno della chiesa a forma ovale»89, probabilmente, su una precedente idea dell’architetto camilliano Antonio Barbiera e dello stesso padre Vincenzo Caffarelli. Per cui, se non si pretende di attribuire anche il progetto di questa chiesa all’architetto palermitano, alla luce di quanto visto finora si può ritenere ragionevole che il progetto della chiesa di San Giuliano sia stato redatto dall’architetto catanese Giuseppe Palazzotto su una precedente idea del Caffarelli, analogamente a quanto fatto dal Battaglia per la vicina chiesa di San Camillo. Infine, da quanto abbiamo visto, in tutti i documenti esaminati non si cita alcun compenso al Vaccarini mentre sono evidenti quelli dati a Giuseppe Palazzotto, sia per la direzione lavori che per la progettazione. In una stampa risalente a questo periodo90 si vedono rappresentati il monastero e la chiesa di San Giuliano (fig. 13). Il monastero è disegnato in prospettiva e presenta il portone d’ingresso collocato vicino al cantonale sud-ovest91 della via Crociferi, con le finestre più piccole delle attuali92. Sul lato destro è inserito il prospetto della chiesa che, invece, è rappresentato in proiezione ortogonale, a dimo88 Francesco Battaglia nacque fra il 1701 e il 1702, da Paolo e Angela Biundo: cfr V. LIBRANDO, Francesco Battaglia architetto del XVIII secolo, in Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia orientale, Catania 1971. 89 ARCHIVIO GENERALIZIO DEI PADRI CAMILLIANI (Roma), inv. 483/19, Historica domus, 1754: cfr M.R. NOBILE, Le chiese a pianta ovale del Val di Noto, in Annali del barocco in Sicilia (1994) 1, 59. 90 S. BOSCARINO, Sicilia barocca, Roma 1997, fig. 92, 152. 91 Questa collocazione dell’ingresso era giustificata dall’esistenza della vecchia chiesa sul corpo di fabbrica posto a nord-ovest. 92 Fino al 1937 le finestre conservavano la forma originaria come si riscontra dalle foto d’epoca e dalla diversa pietra utilizzata per ampliarle.


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strazione della sua natura di disegno di progetto e non di veduta dell’esistente. Il prospetto presenta piccole differenze rispetto a ciò che è stato realizzato: mancano i due vasetti che delimitano il corpo centrale convesso e non è stato rappresentato il loggiato che serve da coronamento alla volta della chiesa che, dal punto di vista relativo alla veduta (l’osservatore posto su via Gesuiti), non poteva essere trascurato dal disegnatore. Inoltre il collegio dei gesuiti, che esisteva da tempo in quel sito, non è stato disegnato per evidenziare la facciata della chiesa di San Giuliano.

Fig. 13 – Stampa che ritrae il tratto di via Crociferi visto da via Gesuiti (Boscarino, 1997)

Nella stampa, la facciata della chiesa lascia libero il prospetto a mezzogiorno del monastero mentre, nella realizzazione, quest’ultimo è stato parzialmente coperto, lasciando libera solo la finestra centrale del dormitorio.


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Tutti questi indizi lasciano aperta l’ipotesi che, all’epoca della realizzazione della stampa, la chiesa non fosse ancora costruita cosicché l’immagine risulterebbe il montaggio tra la veduta dal vero del monastero ed il progetto della sua facciata. L’ipotesi è avvalorata dal cartiglio raffigurato in alto, in cui il disegnatore dedica la stampa medesima: «Alla m{olto} R{evere}nda Madre Suor Felice Vittoria Amico e Statella Abbadessa del medesimo monastero»

che, come detto in precedenza, venne eletta badessa nel triennio 1735-38, poi riconfermata nel 1741 nel governo del monastero fino alla conclusione dei lavori della nuova chiesa. L’oggetto della stampa, cioè la «veduta di un avanzo di fabrica antica posto in faccia alla chiesa, e monastero di S. Giuliano», fa capire che il disegnatore inserì la facciata della nuova chiesa a corredo del rilievo della “fabrica antica” che rimaneva l’oggetto principale della veduta. La badessa Felice Vittoria Amico e Statella era sorella dell’abate benedettino Vito Maria Amico e Statella, storiografo e promotore del museo del monastero di San Nicola l’Arena. Pertanto, si può ipotizzare che egli commissionò a un disegnatore questa “Veduta”, facendogli inserire il progetto della facciata della nuova chiesa dedicandola alla sorella. Oppure, considerato che nel 1736, durante la realizzazione delle fondazioni della casa di don Ascanio Maria Riccioli, barone di Bagnara, fu rinvenuta la statua di Ercole93 e che in quel periodo il principe di Biscari nutriva un certo interesse per le antichità, non si può escludere che lo stesso principe, interessato al rinvenimento di reperti archeologici durante i lavori94, suggerì

93

Cfr V.M. AMICO E STATELLA, Catania illustrata, III, Catania 1741, 89-90; F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 456-459. vedi anche G. GUZZETTA, Per la gloria di Catania: Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari, in Agorà 2 (2001) 6, 12-23. 94 Nel 1743 il principe di Biscari chiese al Senato catanese l’autorizzazione a custodire il celebre “torso” marmoreo, rinvenuto nel 1737 tra le rovine di antichi edifici sotto il convento di Sant’Agostino (l.c.).


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alla badessa il nome di Giuseppe Palazzotto95 per la redazione del progetto della nuova chiesa96. Del resto, i rapporti fra la famiglia Palazzotto e i principi di Biscari risalgono al 1720, quando Girolamo Palazzotto97, fratello maggiore di Giuseppe, sovrintendeva ai lavori del loro palazzo della “marina” (fig. 14). Inoltre, l’architetto incaricato dal principe per eseguire nel 1739 i lavori di completamento del palazzo e nel 1741 quelli di ampliamento fu lo stesso Giuseppe Palazzotto, realizzando anche il museo inaugurato nel 175898.

Fig. 14 – Veduta dello scalone del palazzo Biscari (V. Librando, 1965). 95

Le capacità professionali di Giuseppe Palazzotto erano note al fratello della badessa. Infatti egli aveva lavorato dal settembre 1730 all’agosto 1732 con Pasquale Serafino e Giovanni Nicoloso nella ricostruzione della chiesa di San Nicola l’Arena, progettata dal romano Giovan Battista Contini, e nel mese di novembre 1731 furono trascritte nei libri contabili «onze 16:08 regalo del modello fatto per la scala principale da mastro Giuseppe Palazzotto»: AS CT, Conti padri benedettini, vol. 813, c. 212 r. 96 Anche il progetto per il convento di Sant’Agostino a Catania fu ideato da Giuseppe Palazzotto alla presenza del «Signor Principe del Biscari»: S. CALOGERO, Palazzotto, chi?, cit., 6, 7 e 8. 97 Girolamo Palazzotto, figlio di Francesco e Andreana Grillo, nacque a Messina il 10 novembre 1686 e morì a Catania il 23 giugno 1754: D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto Girolamo Palazzotto, cit., 583-615. 98 Come risulta dalle «onze dieci pagate allo Architetto Palazzotto», registrate il 27 ottobre 1743, e da altre somme «rigalate a Palazzotto per il disegno» della casa, incarico


L’architetto Giuseppe Palazzotto e la chiesa di San Giuliano

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Fig. 15 – Giuseppe Palazzotto, disegno per il palazzo Biscari (V. Librando, 1965).

I disegni di progetto che egli eseguì per il palazzo Biscari (fig. 15) testimoniano le sue capacità grafiche e presentano una evidente analogia con alcuni elementi architettonici utilizzati nel monastero di San Giuliano. Uno dei motivi che, probabilmente, indusse il principe di Biscari a non incaricare Giovan Battista Vaccarini, in quel periodo architetto del Senato di Catania, potrebbe ricercarsi nella personalità del giovane Ignazio Paternò Castello che studiò presso il Collegio dei Nobili a Palermo dove ebbe modo di esaminare i trattati di architettura99. Il suo interesse verso quest’arte è documentato, fra l’altro, dal regio visitatore Francesco Testa il quale nel 1753, insieme alla richiesta di una «deputazione particolare», sollecitò la nomina di «qualche titolato, come sarebbe il signor Principe di Biscari» che, insieme al vescovo, sovrintendesse ai lavori del prospetto vaccariniano della cattedrale100, confermando il suo ruolo di “dilettante di architettura”101. svolto in qualità di «ingegnere» o «architetto di casa» fino alla sua morte, avvenuta nel 1764: cfr V. LIBRANDO, Palazzo Biscari a Catania, Catania 1965. 99 Il collegio dei padri teatini di Palermo, insieme a quello dei gesuiti, formava i giovani aristocratici siciliani anche nella conoscenza dei trattati di architettura. Lo stesso Guarino Guarini studiò architettura e matematica, durante la sua formazione di religioso, presso la stessa congregazione religiosa dei teatini. 100 V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare», cit. 101 Al principe di Biscari sono attribuiti i progetti per il ponte sul fiume Simeto e, insieme a Stefano Ittar, quello per la chiesa del monastero di Santa Lucia ad Adrano.


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Salvo Calogero

La disponibilità del “Capo Mastro” Giuseppe Palazzotto ad introdurre nei suoi progetti le nozioni acquisite nel corso degli studi palermitani del giovane aristocratico, magari con lo scopo di acquisire il titolo di “Architetto”, riservato ai religiosi102 o a coloro che studiavano presso i Collegi dei Nobili (ad es. i gesuiti e i teatini), consentì al principe di Biscari, come poté constatare il barone di Riedesel nel 1767, di introdurre a Catania «per quanto gli è possibile, il buon gusto della buona architettura»103. Pertanto l’attività del Palazzotto potrebbe essere rivista, alla luce di quanto finora detto, in un rapporto di collaborazione con il principe di Biscari, il cui ruolo andò ben oltre quello di un semplice committente, e non già di «fedele e silenzioso coadiutore di G.B. Vaccarini», come arbitrariamente affermato dal Fichera nel 1925, ruolo che fu svolto invece dall’altro architetto catanese: Francesco Battaglia.

102 Lo stesso Girolamo Palazzotto, come scrisse Vaccarini, «da mastro intagliatore di pietra di xiara pell’abito si pose addosso divenne subito Architetto»: ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Min. Affari Ecclesiastici, fasc. 745/8, pubblicato in M.R. NOBILE, I volti della “Sposa”, cit., 42. 103 J.H. RIEDESEL, Viaggio in Sicilia, Palermo 1821, 69-70.


Note Synaxis XV/1 (2007) 175-179

CORPO D’AMORE: ALDA MERINI E IL SUO INCONTRO CON GESÙ

ARIANNA ROTONDO*

«Ché cristiana son io ma non ricordo dove e quando finì dentro il mio cuore tutto quel paganesimo che vivo»1. (A. Merini)

Maria Corti nella sua prefazione alla raccolta Fiore di poesia sintetizza in maniera mirabile il percorso di ricerca, tra luci ed ombre, della donna e della poetessa Alda Merini: “ La passione è solitaria, si sviluppa tra le membra della donna che ha la mente lontana, persa dietro l’assente, l’intoccabile per definizione”. Corpo e mente rappresentano un binomio inscindibile quando ci si accosta ai versi della poetessa milanese: nata “insieme alla primavera”, creatura al limite, anima sensibile fino alla follia, vive come crea i suoi versi, istantanei, illuminanti, taglienti. L’onestà disarmante della donna si traduce in parole dalla semplicità potente, implacabili nel dipingere la realtà, indulgenti nel riconoscere le contraddizioni umane. Il genio poetico e la comprensione del vivere sono messi al servizio dell’unico ed autentico percorso che A. Merini sente di compiere, alla ricerca di un divino invisibile, spesso incomprensibile, amato perchè * Dottore di ricerca in Storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università degli Studi di Catania. 1 A. Merini, Rinnovate ho per te da Tu sei Pietro (1961) in Fiore di poesia (19511997), Torino 1998, 55


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Arianna Rotondo

nascosto, compreso perchè non visto. Dio è un anelito costante per l’uomo, quella presenza invisibile talvolta riconosciuta, eppure indispensabile per spiegare la nostalgia e il vuoto dell’assenza. A tutti Dio si manifesta e a tutti Dio manca: non c’è un divario incolmabile tra cielo e terra, ma solo una distanza che dà senso alla vita, che diventa la strada stessa da percorrere, il segmento variabile e misterioso tra nascita e morte. A. Merini vive col suo Dio un continuo dialogo, fatto di assordanti silenzi e di tacite grida: lo cerca, lo trova, lo perde, lo ama, lo odia, lo comprende, lo rifiuta. In questa dialettica consiste il tempo della sua vita, costellata di amori e di una straordinaria lucidità pronta a sfociare nel baratro della follia. Un’esistenza simile, scandita da pause imposte dalla malattia, diventa canto quando, oltre le delusioni umane, oltre la propria diversità, nello smisurato amore divino l’anima trova riposo, pace e verità. Nei versi di A. Merini il corpo è la chiave che apre le porte dell’anima: la dimensione sensuale è permeabile alla manifestazione divina, ne registra la presenza, ne denuncia, disarmata, l’enigma. La carne reca l’impronta dell’Invisibile. Così nella storia umana Dio ha voluto fare dono di se stesso totalmente, scegliendo quella stessa carne, assumendo i tratti di un volto, parlando con la voce di un uomo, muovendo i suoi passi su sandali polverosi, salvando con mani nude. Questo è il grande miracolo, l’evento centrale, a cui A. Merini dedica la sua riflessione e i suoi versi di abbandono. Gesù, nel suo essere uomo, diventa il terreno d’incontro con Dio: sublimata dallo sguardo poetico è la semplicità della vicenda cristiana, straordinaria solo per l’amore disumano ch’essa insegna, ripetibile nella storia di ognuno se ci si innamora di quel giovane di Nazareth. E Alda, donna nella carne e nello spirito, è innamorata di quest’uomo, nel quale vede la bellezza dello Sposo, la violenza di un amore più forte della morte, la vittima esemplare di un’ingiustizia comprensibile perchè è solo umana. La poetessa ha desiderato raccontare i momenti più forti del suo incontro con Gesù. Ha composto versi per cantarne la divina grandezza e l’umana pietà, confluiti nella raccolta Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, pubblicata dall’editore Frassinelli nel 2001. Come racconta nei ringraziamenti Arnoldo Mosca Mondadori, questo libro ha tutta l’autenticità di una mistica improvvisazione: “io suonavo il pianoforte e Alda Merini dettava questa pagine su Cristo improvvisando”. Si può permettere d’improvvisare chi conosce a perfezione il suono di ogni singola nota: così la nostra poetessa tocca tutte le corde della sua anima e fa


Corpo d’amore: Alda Merini e il suo incontro con Gesù

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della sua esperienza cristiana un Canto di geniale armonia. E la sua genialità non consiste nell’aver compreso più di altri verità nuove o ultime, ma nell’essersi abbandonata al mistero, con l’ingenuità e la purezza di una bambina, per aver saputo chiedere e provato a dare superando il limite. Armata di fede e poesia A. Merini tende “all’Altro e all’Oltre”, come dice G. Ravasi nella sua prefazione alla raccolta, rivedendo nella forza della poesia la mente fecondata dal divino e il cuore rapito del profeta. “Tutti gli innamorati sono in Cristo”, recita il verso scelto dall’editore per la quarta di copertina: per la stessa ragione dell’amare Alda incontra il suo Gesù. La “discepola dell’attesa del pianto” ha conosciuto il suo Amato tra le contrapposte rive della disperazione e della passione. Perchè lo ha conosciuto ne può parlare: il suo incontro con Lui è prima di tutto un’esperienza dei sensi, capace di sconvolgere l’anima, chiamandola a nuova vita (“come se tu ricominciassi a vivere e vedessi il mondo per la prima volta”). Lui si fa conoscere da lei irrompendo come frastuono nelle notti, “facendola fiorire e morire un’infinità di volte”. Gesù accarezza le sue viscere, generando quell’estremo turbamento che nei vangeli contraddistingue l’inconsueto maestro, commosso dall’umanità bisognosa d’amore che lo cerca. Gesù è una presenza che si sperimenta, si diffonde come “frescura in tutte le membra”: è fede che si comunica, percorso che si disvela. É il messia rivoluzionario dei vangeli che “ti cerca per ogni dove” e chiede ai suoi: “che cosa cercate?” (Gv 1,38); è il divino del giardino edenico che col suo sguardo trova l’uomo anche quando quest’ultimo si nasconde per non farsi vedere. Tuttavia nel Gesù di A.Merini v’è poca dolcezza: “come ebreo aveva un volto severo”, segnato dallo sforzo di sciogliere col calore di un disumano amore il gelo nel cuore degli uomini. Nessuno di coloro che pure lo seguivano, “cercavano di toccarlo, di capirlo, di sapere quali erano le sue disubbidienze” lo aveva riconosciuto. Questo Gesù è la “grande colata di sudore e amore” di cui tutti temettero e temono di accorgersi. “Vestito di cenci” cammina ancora, ultimo tra i poveri della vita, tra coloro che non concepiscono come peccato una disubbidienza dettata dalla disperazione. É un Cristo “felice”, quello di A. Merini, un Cristo “poeta” e “donna nel cuore”. Questo cantore con la voce di Dio “è stato una catastrofe”, perché “ci ha avvicinati tutti l’uno all’altro”. E la comprensione dell’altro, specchio spietato di ogni debolezza, ha generato paura: il pensiero che fa


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Arianna Rotondo

conoscere, che rende permeabile ogni uomo allo sguardo del suo simile, ha scatenato violenza. Ma se quest’istintiva paura di essere smascherati può essere estesa a tutti gli uomini, in Gesù essa trova fine: “questo mi serve: averti, rubarti […] avere in me la tua figura”. E nell’estremo desiderio di possedere l’Amato che si dona senza fine, A. Merini nell’eucaristia della sua vita può esclamare: “e allora io dopo che l’ho mangiata [la tua figura] comincio a respirare, ma senza te non ho più respiro”. Il suo Cristo, uomo forte e risoluto e figlio di Dio, ha insegnato un amore fatto di presenza, scongiurando l’abbandono della morte, tornando a farsi vedere “prima e dopo il sogno”. Ci si nasconde alla vita quando si rifiuta la morte: in essa Dio si è manifestato, si è abbandonato, ha abbracciato l’uomo. Così dinanzi al crocifisso si respira l’eterno tempo dell’amore: Dio “morì sulle sue labbra, urlò sul suo cuore”. In ogni uomo che vede nella morte un momento supremo e non un’esperienza terrificante da scongiurare ed esorcizzare s’incarna “un grande profeta”. Tali furono agli occhi della poetessa quegli uomini e quelle donne che si dissero cristiani, imitatori del Cristo crocifisso e risorto, uniti a Lui in “meravigliose nozze di cui soltanto gli angeli sentirono il profumo”. Essere in Lui significa accettare che il suo orecchio si posi sul nostro cuore, per conoscerne i battiti, ascoltarne la vita e farlo evaporare nel sogno. Cristo, “eroe invincibile”, che entra “dalla porta dello sguardo” e tocca i dolori degli amanti, lascia che l’amore dell’uomo lo ferisca, lo colpisca, perchè dal suo costato sgorghi ancora sangue. Questo Gesù ha per A. Merini anche il volto del Buon Pastore, che recupera lei, “pecorella di Dio”, che “cercava disperatamente il suo gregge”: del suo smarrimento, del suo dolore “ si è cinto il collo” e come lo Sposo del Cantico l’ha resa “il suo monile più bello”. Persino il personaggio di Giuda, travestimento simbolico di ogni rinnegamento umano, appare come strumento di una riconciliazione: “tu mi hai consegnata a Lui, perchè un giorno tu mi hai baciata e mi hai derisa”. Quasi rapita dal suo Cristo, “figlio e uomo contemporaneamente”, la poetessa invoca misericordia per tutti coloro che si smarriscono vittime di incomprensione, indifferenza, follia. Quel silenzio pesante d’assenza, che ci si sente quasi in dovere di “corrompere con false parole” o con grida di disperato risentimento, è invece lo spazio della presenza divina. Dio è silenzio, Dio ama il silenzio, come ama ogni uomo prima ancora che impari a parlare.


Corpo d’amore: Alda Merini e il suo incontro con Gesù

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E dopo le insensate voci di condanna, che avevano condotto un uomo di trent’anni al patibolo, irrompe il silenzio della morte in un luogo di memoria, il sepolcro, in cui una storia sembra finire. Ma “ecco che improvvisamente quella carne che assomigliava a tutti diventa unica e risorge”, ridando giovinezza ad ogni anima invecchiata e abbrutita dal dolore. Questo giovane uomo, morto “al colmo della sua vita”, “diventa una torcia umana” che dà luce all’inspiegabile mistero dell’esistenza. In ognuno è una scintilla di questa luce: la donna Alda rivede negli uomini incontrati nella sua vita tracce del volto dell’Amato, ombre di quel volto. Il divino è in ogni uomo: in esso nasce come un bambino, muore come un malfattore, risorge come Cristo. Per riconoscerlo occorre vivere quella misteriosa esperienza di trapasso che è ogni parto, in cui “si muore e poi si rinasce”. Tuttavia questo divino non ha solo il candore di un bambino, ma anche il conturbante volto di un amante “avido” e “insinuante”: fa soffrire terribilmente, ma non se ne può fare a meno. E per la mistica A. Merini la notte coi suoi sogni diventa lo spazio in cui viene inferta la ferita: in un catulliano “ti odio e ti amo” è sintetizzata la lotta d’amore, fatta di seduzione e di abbandono, di silenzio e di parole. C’è complicità in questa esperienza a due: la poetessa e il divino amante che abita le sue mura incomprese, biasimate da un mondo che non vede o non vuole vedere nell’Invisibile.



Synaxis XV/1 (2007) 181-186

DOVE VA IL PENSIERO CATTOLICO OGGI. RIFLESSIONI IN MARGINE AL CONGRESSO ROSMINIANO DI STRESA

SALVATORE LATORA*

Si è svolto presso l’Istituto dei Padri rosminiani di Stresa , dal 23 al 26 agosto ’06, il VII Corso degli annuali Simposi, che ha avuto il seguente tema: «Naturale e soprannaturale nel pensiero moderno». I Simposi Rosminiani sono nati nel 2000 come prosecuzione e sviluppo, della Cattedra Rosmini, fondata nel 1967, per merito del filosofo siciliano, Michele Federico Sciacca, Professore nell’Università di Genova, il quale, riconoscendo il grande valore e la ricchezza poliedrica della speculazione filosofica, teologica ed ecclesiale del roveretano, ha cercato di farlo riscoprire, dopo la condanna e il successivo ostracismo, come una voce importante del pensiero contemporaneo. Già il Manzoni, grande amico del pensatore di Stresa , ebbe a scrivere: «Il Rosmini è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità». Ora che i motivi di condanna sono superati, e il Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato Rosmini un maestro coraggioso di pensiero e di fede (Fides et ratio, n. 74) e il processo di beatificazione, riconoscendone le virtù eroiche e santità di vita, si è concluso nella prima fase con la proclamazione di Rosmini Venerabile, i Simposi Rosminiani «si propongono di passare a una nuova fase, vale a dire di offrire a quelli che Rosmini chiama “amici della verità” e promotori di “carità intellettuale” un luogo, in cui poter approfondire, in piena libertà di spirito e con rispetto delle diversità, la

*

Catania.

Docente emerito di Storia della Filosofia presso la Studio Teologico S. Paolo di


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Salvatore Latora

soluzione dei problemi urgenti che si affacciano sul terzo millennio» (Il Comitato scientifico). Basta qui ricordare i sei Simposi precedenti, di cui sono stati pubblicati gli Atti: La filosofia dopo il nichilismo (2000). La fine della persona? (2001). Il sacro e la storia. La civiltà alla prova (2002). Umanità globalizzata? (2003). Cristianesimo senza teodicea? (2004). Etica contemporanea e santità (2005). La tematica proposta quest’anno si è svolta su tre ambiti con un taglio storiografico e nel contempo teoretico: a) Ambito più propriamente filosofico, scientifico e teologico; b) Ambito dell’evento ecclesiale come evento di salvezza e realtà naturale e soprannaturale nella Chiesa; c) Confronti con il pensiero del Rosmini sul senso dell’incarnazione, sull’attualità della grazia e sul rapporto di sintesi fra natura e soprannatura. Circa la prima sezione, fondamentale è stata la relazione di Giovanni Reale, Professore nell’Università Cattolica di Milano, di fama internazionale per i suoi numerosi studi sulla filosofia antica. Tema trattato: «Seconda e terza navigazione per giungere all’assoluto». Platone nel Fedone, con una metafora marinaresca chiama “seconda navigazione” quella che uno intraprende quando, rimasto senza venti, naviga con i remi; mentre la “prima navigazione”, con le vele ai venti, è quella che Platone dice di avere compiuto seguendo i filosofi naturalisti e il loro metodo. Ma, poiché questo metodo lo portò nelle secche, per uscirne dovette porre mano ai remi, che, fuor di metafora, significa, impegno personale totale basato sul puro logos, che lo portò alla scoperta del soprasensibile. Dunque, la seconda navigazione ha fatto comprendere a Platone l’esistenza di due piani dell’essere: quello fenomenico e quello metafenomenico coglibile con la sola intelligenza. I fenomeni fisici si possono spiegare in modo ultimativo solo in funzione dell’essere non fisico. Quelle che gli uomini comuni e i filosofi naturalisti ritengono che siano le cause dei fenomeni, sono invece cause meccaniche e fisiche; per Platone sono solo concause. Egli paragona la ricerca che si compie in filosofia ad una zattera, su cui dobbiamo affrontare i rischi della traversata del mare della vita, a meno che non ci si possa affidare ad una divina rivelazione. Ed è Agostino che sa dare una risposta a questa esigenza, con quella che Reale chiama, terza navigazione, secondo cui la ragione umana da sola non poteva dare agli uomini il mezzo con cui pervenire nell’al di là. E allora è


Dove va il pensiero cattolico oggi

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venuto Cristo proprio per portarci il mezzo con cui attraversare questo mare della vita: e il solo mezzo sicuro che ci permette di attraversare questo mare è la croce, che è il simbolo dell’amore assoluto: senza la croce la zattera affonda! Questo mezzo ci è indicato dalla rivelazione, e quindi dalla fede, che va ben oltre la ragione, ma non contro la ragione se bene usata! L’identificazione dell’Amore nel Dio di Gesù Cristo: sta qui la rivoluzione radicale del Cristianesimo. Il termine con cui i Greci designavano l’amore è eros, mentre quello usato dai Cristiani e consacrato soprattutto da Paolo e da Giovanni, è agape, che Agostino traduce con caritas (Reale riprende quanto ha già scritto nel suo: Agostino – Amore Assoluto e Terza Navigazione, Bompiani, Milano 2000). A conferma, abbiamo voluto aggiungere due pensieri di Aristotele, che resta il migliore discepolo di Platone (seguito e trasvalutato da S. Tommaso). «Non conviene seguire l’esortazione di coloro che dicono che deve attendere a cose umane chi ha umana natura e a cose mortali chi è mortale. Al contrario: conviene , per quanto possibile farsi immortale e far di tutto per vivere secondo quella parte che in noi è la più eccellente» (Aristotele, Etica Nicomachea, Milano 2000, p.395). E ancora: «Se non ci fosse nulla di eterno, non potrebbe esserci neppure il divenire» (Aristotele, Metafisica, B4 999 b5 seg.). Dario Antiseri svolge il tema: Filosofia contemporanea e riconquista della contingenza, in cui riprende quello che egli ha già esposto nel suo ultimo pamphlet: Credere – Perché la fede non può essere messa all’asta, Armando, Roma 2005. Il suo fideismo non è nuovo, perché l’aveva già esposto in: Teoria della razionalità e ragioni della fede. Lettera filosofica con risposta teologico-filosofica del Card. Ruini, Ed. San Paolo, Milano1994. La nostra epoca è caratterizzata dalla “caduta degli assoluti terrestri” e cioè dalla pretesa dei movimenti filosofici del secolo scorso, come il positivismo e l’idealismo, il pragmatismo e il marxismo, che pretendevano di cancellare ogni spazio della fede. Ora che la pretesa illuministica della “dea-Ragione” si è rivelata fallimentare, la richiesta di senso, così impellente nei confronti dei problemi dell’assoluto, del dolore specialmente degli innocenti, della morte, non possono che trovare risposta se non nella scelta religiosa e di fede: perché la scienza dà risposte parziali e la


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Salvatore Latora

filosofia, che non salva, pone solo domande senza risposte! È questo il giudizio di Antiseri. Anche se queste rivendicazioni, sulla scorta di Pascal, Kierkegaard, di Wittgenstein, e perfino di Norberto Bobbio, ci sembrano legittime, sono evidentemente unilaterali, perché pretendono di volare con “una sola ala”, contro la sapiente asserzione della Fides et ratio, che occorre saper volare con due ali ! Ammoniti dalla tragica realtà dei nostri tempi, sappiamo che il sonno della ragione genera mostri; e che tanti atroci delitti si continuano a commettere in nome di una fede religiosa fondamentalista. Non saremo certo noi, come abbiamo detto in un intervento, a ricordare ad Antiseri, la saggezza dell’antico adagio: credo un intellegam, intellego ut credam; e le distinzioni nell’ambito sia della fede che della ragione: fides qua et fides quae creditur e parallelamente : id quo et id quod cognoscitur. La riconquista poi della contingenza, di cui egli ha parlato, è contraddittoria, senza il riferimento all’assoluto, lo dichiara Aristotele nel passo sopra richiamato! E a tal proposito ci sembra risolutiva la lezione di Rosmini , autore delle Cinque piaghe della santa Chiesa, ma anche del Nuovo saggio sull’origine delle idee, del Rinnovamento della filosofia in Italia; della Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale; dell’Antropologia in servizio della scienza morale; dell’Antropologia soprannaturale; della Filosofia della politica; del principio supremo della metodica e di alcune sue applicazioni in servizio dell’umana educazione; e della monumentale Teosofia. «Le opere scritte dal Rosmini costituiscono, dice padre Umberto Muratore, una produzione ricchissima, dov’egli autentico doctor encyclopaedicus, si è sforzato di recuperare il meglio della tradizione antica e cristiana. Suo intento era quello di offrire ai moderni una summa totius christianitatis, capace di leggere ed orientare il pensiero moderno verso nuovi traguardi, che usino la ragione in amicizia e non in opposizione alla fede religiosa». Sono stati questi i temi affrontati dagli altri relatori: Leo Santorsola: L’incarnazione nel pensiero di Rosmini; Markus Krienke: Attualità della grazia in Rosmini: una prospettiva antropologica; Klaus Müller: Equilibrio fra natura e sovranatura: Schleiermacher e Rosmini; Sergio Rostagno (della


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Chiesa evangelica di Roma): Grazia e natura in Erich Przywara e Karl Barth; e la relazione dello stesso padre Muratore: Rosmini: gli anelli d’oro della catena dell’essere. Per quanto riguarda gli altri due settori, quelli riguardanti la Chiesa e il suo insegnamento e gli odierni sviluppi della teologia, essi sono stati svolti da :Giuseppe Lorizio: I due volti dell’unica rivelazione ; Giovanni Ancona: Il destino soprannaturale dell’uomo in Cristo; Salvador Pié-Ninot: La Chiesa come sacramento di salvezza – L’evento ecclesiale come realtà naturale e soprannaturale; e Sergio Ubbiali : L’odierna discussione teologica sul soprannaturale. In quest’ultima relazione viene tracciato un panorama dell’odierna teologia secondo due filoni che si rifanno rispettivamente a san Tommaso e a Duns Scoto; vengono ripercorsi i punti nodali, da De Lubac e la “Nuova teologia” che precorre la svolta del Vaticano II, a Rahner, che dall’analisi e dalla valutazione teologica del rapporto cristianesimo-modernità deriva l’orientamento di una “svolta antropologica”. In polemica con tale orientamento trascendentale della teologia, von Balthasar, più che una teologia dal basso, ritiene che è l’assoluta verità di Dio che si autorivela amorosamente. La teologia dunque abbandona la tematica di natura e soprannatura come pure il concetto di “ natura pura”! Non potevamo non notare una certa contraddizione fra l’aspetto ecclesiale e gli indirizzi nuovi della teologia. Non sta forse anche in questa astrattezza della teologia una delle cause del diffondersi della New age di cui ha fatto un accenno il padre Muratore? Ci si abbandona a ragionamenti sottili, fatti per una ristretta cerchia di addetti ai lavori e si trascura la cruda realtà in cui sembriamo essere assediati continuamente dalla morte: guerre, stragi, delitti, ispirati ad un fondamentalismo religioso che con la produzione continua di kamikaze si propone di annientare il mondo occidentale con tutti i suoi prodotti culturali e le sue rarefazioni teologiche. E allora è il caso di esclamare: Dum Romae consulitur Saguntum expugnatum est!… Forse pagine letterarie come quelli dello scrittore Siciliano, Fortunato Pasqualino ci darebbero una risposta valida, anche se intuitiva, al riguardo. In un’opera: Il giorno che fui Gesù e in un’altra più recente: Chiunque tu sia. Con Gesù a passo d’asino , si legge questo dialogo: — Mamma, il sole c’è di notte? — Certo che c’è. — E dov’è? —


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Salvatore Latora

In cielo. Il sole, la luna, le stelle, i pianeti, e anche la terra. — La terra? — Sì, anche la terra è in cielo. — Ma la terra, mamma, è dove stiamo noi ora. — Sì, figlio, noi con tutte le cose stiamo in cielo. La madre ha saputo dire, in termini educativi quello che la “ Lumen gentium” proclama in termini di istituzione ecclesiale: «Cristo per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di Lui…» (LG, 3). Durante il Simposio, veramente risolutivo è stato il messaggio di Antonio Rosmini, rivissuto attraverso la magistrale relazione del padre Muratore che ci ha fatto ripercorrere gli anelli d’oro della catena dell’Essere. Il Sintesismo del Rosmini abbraccia tutti gli aspetti ed è una valida risposta al nostro problema: da una filosofia con una interna apertura al trascendente (centrata sull’Essere ideale o lume della ragione) alla integrazione del contenuto della rivelazione, che non è più un’idea ma una Persona, a una comunità ecclesiale, in cui si realizza fin da qui una vera Ontologia triadica e trinitaria.


Presentazioni Synaxis XV/1 (2007) 187-199

S. CONSOLI, Il presbitero uomo delle Beatitudini. Riflessioni per un itinerario spirituale. Ed. Pro Sanctitate, Roma 2006, pp. 141.

«Le beatitudini sono le vie che devono percorrere quanti sono chiamati a vivere la novità di Cristo, ossia la santità» (p. 6). Così scrive, Salvatore Consoli, nella Introduzione a questo prezioso volumetto nel quale presenta a un pubblico più vasto le meditazioni offerte ai presbiteri della diocesi di Noto. Egli, presbitero della diocesi di Catania, Preside dello Studio Teologico S. Paolo di Catania, e professore ordinario di teologia morale da molti anni, ha accompagnato generazioni di seminaristi e di presbiteri nella loro formazione intellettuale e spirituale. L’agile, ma denso testo, si apre con una riflessione su Le Beatitudini: un programma di vita per il presbitero, dove l’autore evidenzia che le beatitudini sono “racconto” del vissuto di Cristo, del suo volto, e quindi, «per capirle bisogna leggerle alla luce della sua vita perché ne colgono la personalità sotto varie angolature» (p. 11). Esse, proprio perché propongono il vissuto di Gesù «indicano le vie che il cristiano deve percorrere per giungere alla vera felicità, rovesciando i canoni umani della felicità offerta a poco prezzo» (p. 11). Il presbitero è, prima di tutto, cristiano, chiamato quindi a seguire Cristo e ad assimilarne il suo volto. Tra i suoi doveri fondamentali, poi, sottolinea l’autore, citando Govanni Paolo II, «c’è quello di non perdere, anzi di conservare “il fascino della persona del Signore Gesù”» (p. 23). Il presbitero, lasciando innervare la sua esistenza dallo spirito delle beatitudini e, vivendo, per grazia, come Gesù, è sottratto dal rischio di diventare burocrate del sacro, e diventa, invece, presenza che prolunga il volto del Maestro nella storia. Avendo come orizzonte questa chiave ermeneutica, mons. Consoli


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ripercorre le varie beatitudini, seguendo lo schema di Matteo, da “Beati i poveri in spirito”, a “Beati gli operatori di pace”. Nelle sette meditazioni che seguono coglie il senso biblico spirituale del contenuto di ogni beatitudine e, attingendo soprattutto ai ricchi commenti patristici e al più recente magistero della Chiesa, offre spunti propositivi per il vissuto del presbitero. Tutte le meditazioni sono coinvolgenti e a volte graffianti nel senso che scuotono da un certo vissuto formale e burocratico e aiutano ad aprire gli occhi sulla bellezza della proposta evangelica. A titolo esemplificativo offriamo solo qualche assaggio! Beati i poveri…, meditando sulla prima beatitudine, l’autore ricorda che la povertà coinvolge il singolo credente, ma investe la Chiesa nella sua globalità, ed evidenzia: «La povertà della Chiesa deve fare emergere la fiducia verso la grazia del Signore e non nei mezzi e negli strumenti; la Chiesa oltre a prestare servizi ai poveri deve dare loro degli spazi nella responsabilità dell’istituzione ecclesiale; deve cioè andare al povero con atteggiamento di fraternità che implica la condivisione oltre la mera giustizia» (p. 41). Subito dopo sottolinea, anche: «La Chiesa purificata dalla povertà sa individuare e soccorrere le nuove esigenze del povero; è disponibile ad abbandonare le posizioni di prestigio acquisite; sa liberarsi dalle solide strutture per offrirsi ai nuovi soggetti sociali emarginati, a quanti cioè non contano nulla» (p. 42). Beati i miti…, molto opportuno, ci sembra, in questa riflessione, per il clima che respiriamo, il richiamo alla nonviolenza. L’autore evidenzia che l’inaudita radicalità e sublimità della nonviolenza è intrinseca alla vocazione cristiana. Essa scaturisce dalla mansuetudine del Maestro e «va raccordata con l’evento della Croce, che abbatte i muri della divisione e supera la categoria del “nemico”, il riferimento al quale è centrale nella giustificazione della violenza e della guerraa» (p. 72). Per il credente, attivare la prassi non violenta non significa tirarsi fuori dal mondo e dai suoi drammatici problemi, ma mettere in atto un dinamismo costruttivo che disinnesca le radici stesse della violenza. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia…, degno di attenzione, ci sembra, qui, l’invito rivolto ai presbiteri a fermarsi a lungo nell’ascolto della parola di Dio e in preghiera. Da questa esperienza di ascolto e di contemplazione del ‘Giusto’, scaturisce la passione per la


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giustizia, cioè la volontà viva del Dio della storia. «A tal fine, scrive l’autore, è necessario che il ministro del Signore coltivi quello sguardo contemplativo che, sulla scorta della Parola ascoltata, gli permette di “scoprire nelle vicende della vita i segni della volontà di Dio e gli impulsi della grazia”» (pp. 92-93). Beati i puri di cuore…, di fronte alla tentazione dell’uomo d’oggi di apparire, di offrire una certa immagine di sé, che porta all’ipocrisia e all’ambiguità nell’agire, la proposta della lealtà, della rettitudine, come frutto della purezza di cuore, ci appare suggestva. ‘Puro di cuore’, ci viene ricordato, è colui che «appartiene indiviso a Cristo, guarda solo a lui» (p. 114) e che, illuminato da lui, sfugge alla logica dell’audience e della spettacolarizzazione. Il puro di cuore, così, esclude, innanzitutto l’ipocrisia e ogni tipo di doppiezza, «il vero puro di cuore non si adegua acriticamente all’andazzo generale; sfugge alle diplomazie e ai calcoli del potere: si impegna a non vendere la propria dignità e a non accettare nessun beneficio od onorificenza… se questi vanno a discapito del vero e del bene» (p. 113). Beati gli operatori di pace…, operatore, costruttore di pace, sottolinea l’autore, è prima di tutto colui che lavora su se stesso, per estirpare dal cuore la gelosia, la contesa, le passioni; ricordandoci con le parole della Filicalia: «È veramente pace… il vuoto dei pensieri passionali» (p. 125). Riconciliato con se stesso, l’operatore di pace, consapevole che nessuna vera pace è possibile senza giustizia, è colui che più di ogni altro prende a cuore la difesa di chiunque è debole. Quanto mai opportuno ci sembra, a conclusione delle sue meditazioni, l’invito che l’autore rivolge ai presbiteri di farsi, quindi, educatori alla pace. Egli sottolinea: «La pace è la più inclusiva delle virtù cristiane… è l’amore tradotto in termini sociali e globali… Il suo compito pastorale (del presbitero) deve consistere pertanto nell’educare ad essere l’uno con l’altro: “Gli uni contro gli altri” non vinceremo mai più la guerra, “gli uni con gli altri” potremo vincere la pace”» (pp. 132-133). Le meditazioni pensate per i presbiteri, sono certamente efficaci per tutti i credenti che desiderano intraprendere un serio cammino spirituale. Alberto Neglia


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F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo II e la morte, Documenti e Studi di Synaxis 13, Giunti, Firenze 2006, pp. 218, (prefazione di mons. M. Mokrzycki, segretario particolare di Giovanni Paolo II).

I giorni precedenti e seguenti la morte di Giovanni Paolo II, come già quelli della sua malattia, hanno certamente richiamato l’attenzione di tutto il mondo sulla realtà della sofferenza e della morte. Di fatto, migliaia di uomini e di donne, da una parte, sono stati posti davanti all’ineludibile questione dell’accettazione della paura della morte e, al contempo, dall’altra parte, sono stati in un qualche modo provocati dalla testimonianza di fede di un papa, che ha vissuto la propria sofferenza e la propria morte nell’orizzonte del dialogo con Dio. Tenendo presente tale contesto, il libro si prefigge di «cogliere l’insegnamento e il messaggio inequivocabile che egli ha pronunciato dal suo letto di sofferenza e con la sua morte» (p. 9). Insegnamento e messaggio non improvvisati, ma radicati in un’esistenza terrena condotta nella fede, come risposta alla chiamata di Dio che, per l’ultima volta, è risuonata in occasione della morte. Diventa comprensibile, pertanto, che, per raggiungere lo scopo, il libro — nei sette capitoli di cui si compone, preceduti da un’introduzione e seguiti da una conclusione — non richiami semplicemente le ultime ore della vita di Giovanni Paolo II, ma mediti e si fondi continuamente sul suo pensiero riguardante la morte. Un pensiero presente, oltre che nel testamento spirituale, pure nei testi del suo insegnamento pontificio e nella «sua produzione filosofico-teologico-poetica soprattutto degli anni precedenti alla sua elezione» (p. 10). Le pagine introduttive riflettono sulla base di un testo poetico, nel quale Brancato ritiene che «sia condensato il pensiero di Karol Wojty a sul senso della sua esistenza e della sua morte» (p. 15): la prospettiva della morte, accettata e preparata nella speranza della certezza della presenza autocomunicativa di Dio, come partecipazione dell’uomo al mistero pasquale di Cristo crocifisso e risorto, getta luce sulle tenebre di un evento drammatico che riguarda tutti. Il primo capitolo porta l’attenzione sull’atteggiamento di rimozione della morte nella società contemporanea, illustrando i molteplici aspetti da esso assunti. Fra questi, ad esempio, risaltano i numerosi tentativi di


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esorcizzare la morte e di renderla naturale, confinandola esclusivamente nelle sconfitte o nelle malattie che segnano la vita quotidiana e trascurando di pensarla come incontro personale con il Mistero al termine della vita. Altri aspetti possono essere l’esagerata crescente fiducia nel progresso connessa a una riduzione della dignità della persona nell’orizzonte del consumismo, la diffusione di una cultura di guerra e di potere distruttivo verso la vita propria e altrui, la solitudine e l’anonimato in cui di fatto versano i sofferenti, l’ideologia della morte di Dio”. Brancato accompagna la descrizione del contesto contemporaneo, cogliendo opportunamente, di volta in volta, la parola più grande che, in esso, ha proclamato con forza Giovanni Paolo II: «il credente […] nella fede del Signore risorto e con la certezza che a Lui appartiene la terra e tutto ciò che essa custodisce nel suo seno, vuole confessare la presenza di Dio e la sua signoria sul mondo creato, confessando così la sua presenza salvifica nella storia dell’uomo» (p. 52). La cultura di morte — a cui è stato fatto cenno — costituisce l’oggetto di approfondimento del secondo capitolo. Essa, conseguenza della pretesa di operare indipendentemente da Dio, si esprime in modo particolare nella diffusione dell’aborto e dell’eutanasia. Nella consapevolezza che «una cultura pienamente e genuinamente umana è […] possibile solo se costruita su Cristo e sul suo mistero pasquale» (p. 69), Brancato osserva come Giovanni Paolo II abbia posto continuamente l’uomo contemporaneo, nella sua esperienza faticosa di prendere posizione dinanzi alla “cultura della morte” e alla “cultura della vita”, dinanzi a Cristo. Alla meditazione sul mistero di Cristo e sulla luce proveniente dalla fede è dedicato, anzitutto, il capitolo terzo. In esso viene sottolineato che il papa, nel suo insegnamento, ha presentato «le tappe fondamentali dello sviluppo della fede di Israele e del messaggio di Gesù e del Nuovo Testamento sul mistero della morte, mostrando come in definitiva l’annuncio della risurrezione escatologica sia la risposta ultima e perfetta all’innato desiderio di immortalità e di pienezza di vita proprio dell’uomo» (p. 76). La riflessione, conseguentemente, viene costruita, prendendo le mosse da alcuni passi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento, considerati da Giovanni Paolo II, ad esempio, nelle omelie, nelle catechesi o nelle via crucis. Il capitolo quarto, in continuità con il precedente, prosegue, con i pensieri di Giovanni Paolo II, nella meditazione del mistero di Cristo


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crocifisso e risorto, fonte di vita per il corpo sofferente dell’umanità. In modo particolare, nel Crocifisso vittorioso sulla morte, ogni uomo «trova lo sfogo al suo dolore e una risposta alle sue domande e alle sue ansietà: in lui egli vede realmente riflessa la sua paura per la morte, ma soprattutto la soluzione al suo innato e incensurato desiderio di vita, di vita piena» (p. 108). La riflessione cristologica, poi, sbocca e si compone armonicamente con quella trinitaria e antropologica, dal momento che nel volto di Cristo sofferente, e in tal modo solidale con l’uomo sofferente, si rivela il volto di Dio e il volto dell’uomo: in Gesù, che volutamente ha dato la vita per gli uomini, si mostra l’atteggiamento benevolo e perdonante di Dio verso l’uomo e quello dell’uomo che, pur rimanendo afflitto e sfinito, non è solo, in quanto destinatario del dono della solidarietà salvifica a lui offerta dal Redentore. Di tale solidarietà salvifica, vissuta nell’amore e nella sofferenza, è «icona» silenziosa la Sindone, alla quale Brancato dedica le ultime pagine del capitolo. Dal costato di Cristo crocifisso — per riprendere una prospettiva patristica — ha origine la Chiesa, di cui si tratta nel capitolo quinto, soprattutto con delle riflessioni sull’esistenza cristiana nella sua connotazione ecclesiale. Questa implica che «la comunione con il morente, fondamentale per la coscienza della comunità ecclesiale, si prolunga anche nella comunione dei credenti con coloro che già hanno attraversato la morte. Da sempre, infatti, la Chiesa ha esortato a pregare per i defunti» (p. 146). Nelle considerazioni condotte in detta prospettiva ecclesiologica, oltre all’articolo di fede concernente la comunione dei santi, vengono evidenziate l’economia sacramentale della Chiesa, con uno speciale spazio alla dimensione escatologica del battesimo e dell’eucaristia, e la relazione tra la Chiesa e Maria assunta alla gloria celeste. Dopo la prospettiva ecclesiologica, nel capitolo sesto, quella antropologica parla della salvezza per l’uomo intero, nella sua unità di anima e corpo, creato a immagine e somiglianza di Dio e aperto all’Assoluto. La fede nella risurrezione dei morti porta ad affermare che, per la persona umana, la morte «non significa il semplice disfacimento di un corpo ormai destinato definitivamente a scomparire, ma molto di più la semina di un corpo corruttibile perché germogli e cresca un corpo spirituale» (p. 180). Della vittoria sulla morte, poi, l’uomo può trovare un forma anticipatrice


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nella quotidiana apertura costante al mistero di Dio e nel comportamento amorevole. Il capitolo settimo presenta il testamento spirituale di papa Wojty a, notandone i legami con il vivo ricordo che egli ha costantemente avuto di Paolo VI. Brancato, nell’esposizione, indica poi alcuni elementi particolarmente significativi del testamento di Giovanni Paolo II: fra questi, ad esempio, il riferimento al mistero trinitario, che ne ha segnato il pontificato, dalle tre grandi lettere encicliche sulle tre persone divine al triennio di preparazione al giubileo del 2000; l’atteggiamento di costante vigilanza, animato dal capitolo 24 di Mt; la devozione mariana; la richiesta di perdono alla Misericordia divina; la consapevolezza della guida della divina Provvidenza. Nella conclusione, oltre a numerosi riferimenti, fra gli altri, a testi di Giovanni Paolo II e all’omelia tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger durante la messa esequiale del papa, Brancato indica tre temi, profondamente connessi tra loro. Questi, da una parte, sono rappresentativi del pensiero di papa Wojty a sulla morte e, dall’altra, forniscono una traccia per un approfondimento «sensato e significativo» sull’argomento. I tre temi sono contenuti in tre parole che rinviano a una comprensione pluridimensionale della morte: «1. l’uomo (dimensione personale, antropologica esistenziale della morte); 2. la terra (dimensione comunitaria della morte; la morte come destino di tutte le cose); 3. il cielo, la speranza cristiana; carattere pasquale del morire e prospettiva cristologica della spes christiana» (p. 203). I tre temi individuati da Brancato, sulla base della lettura condotta per le riflessioni contenute nel libro, saranno sicuramente molto utili per un approfondimento e anche per un altro eventuale studio con un’impostazione sistematica. Nunzio Capizzi


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R. FRATTALLONE, Direzione spirituale. Un cammino verso la pienezza della vita in Cristo, LAS, Roma 2006, pp. 456.

In un periodo in cui la direzione spirituale, per vari motivi, è segnata da una notevole crisi, giunge quanto mai opportuno e prezioso questo studio di don Raimondo Frattellone sacerdote salesiano, che, come egli stesso scrive nella quarta di copertina, viene offerto «a quanti hanno ricevuto in varie maniere, dal Signore e dalla Chiesa, il ministero di guida e di accompagnamento spirituale in seno alla comunità ecclesiale». E, in questa fase di smarrimento, vuole essere «un tentativo di ridefinire l’essenza e le modalità di attuazione della direzione spirituale alla luce della esperienza della Chiesa e degli apporti delle dottrine antropologiche odierne». Il volume, certamente frutto di lunga e densa esperienza del ministero dell’accompagnamento vissuto dall’autore, è anche espressione matura di approfondimento e di proposta didattica per molti anni in varie facoltà teologiche e in particolare nel biennio di specializzazione in Catechetica dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina. Il volume si divide in tre parti. Nella prima parte, muovendo dalla situazione di disagio che sta vivendo la direzione spirituale, l’autore evidenzia che esso si inscrive nel contesto più ampio dell’attuale svolta epocale che investe e sconvolge molteplici aspetti della vita. Oggi si guarda in modo disincantato a molti valori del passato, vengono messe in discussione «le modalità del rapporto educativo tra l’individuo e gli agenti di formazione» (p. 19) viene meno anche il riferimento all’autorità paterna, per cui qualcuno parla di cultura parricida. Nella vita ecclesiale questa eclisse della direzione spirituale si pone all’interno delle trasformazioni dell’associazionismo cattolico e al diradarsi della pratica del sacramento della penitenza. Dalla crisi, però, sottolinea l’autore, è emerso il desiderio di una direzione spirituale rinnovata. Grazie soprattutto, alla ecclesiologia di comunione, uno dei frutti più significativi del Vaticano Secondo, si è compreso che accanto alla prassi della direzione spirituale operata abitualmente dal presbitero, andava promosso il ruolo della comunità che educa e aiuta a crescere nella ricerca del progetto di Dio, e si è sottolineato il ruolo


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determinante di altre guide spirituali che sono la Parola di Dio e la mistagogia sacramentale. Così, la direzione spirituale ha trovato la sua giusta collocazione «nell’orizzonte salvifico della comunità ecclesiale, punto di partenza e di arrivo di ogni cammino di maturazione cristiana nello Spirito» (p. 37). Nella seconda parte dell’opera, l’autore, ricostruisce le modalità di espressione della direzione spirituale nel lungo arco che parte dall’Antico Testamento e giunge ai nostri giorni. Egli evidenzia che la direzione spirituale «nasce e si sviluppa all’interno di una determinata teologia spirituale, la quale a sua volta opera, con metodologia e accentuazioni proprie, una sintesi dei seguenti tre pilastri: Dio, l’uomo, il mondo» (p. 43). Nel proporre questo excursus, quindi, implicitamente offre una sintesi breve ma chiara della storia della spiritualità, sottolineando che l’itinerario spirituale, pur essendo sempre avvitato attorno a tre pilastri: Dio, l’uomo, il mondo, acquista connotazioni diverse a seconda che si concentra su l’uno o l’altro dei tre pilastri suddetti e dall’ermeneutica con cui si guarda Dio, l’uomo, il mondo. Ovviamente, «le forme diverse di spiritualità cristiana, con le loro diverse accentuazioni ai contenuti teologici sottesi ad ognuna di esse, hanno dato vita a impostazioni molto diversificate nei confronti della identità e del ruolo che la guida spirituale deve svolgere» (pp. 41-42). A partire da questa griglia ermeneutica, don Frattellone, sottolinea le sfumature che la direzione spirituale ha assunto nella lunga tradizione ecclesiale. A titolo esemplificativo accenno ad alcuni passaggi significativi. Dalle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento emerge la consapevolezza che solo Dio è il maestro, la cui parola bisogna ascoltare e incarnare nella vita. Gesù ricorda a tutti: «Uno solo è il vostro maestro» (Mt 23,8), quindi è chiaro che solo Cristo «conferisce senso totale alla esistenza del credente» (p. 66). Ma, dalle stesse pagine bibliche, già si intravede la mediazione educativa della comunità credente e il riconoscimento di alcune guide spirituali: gli Apostoli, i dottori, gli evangelisti. Dal monachesimo orientale alla devotio moderna, la direzione spirituale acquista connotazioni diverse. Nel monachesimo sia orientale che occidentale, «la direzione spirituale acquista un ruolo ben preciso nell’insieme delle strutture formative del monaco» (p. 79). Il cammino spirituale è sostenuto dalla


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figura dell’abate, egli è padre spirituale, pedagogo e consigliere. «In quanto padre spirituale… guida il monaco-discepolo a integrare peghiera e lavoro, ascesi e servizio fraterno, vita sacramentale e assimilazione della Parola di Dio» (p.80). Con gli ordini mendicanti, la prospettiva che qualifica il cammino spirituale è quella dalla fraternità. Ovviamente, anche l’ottica della direzione spirituale subisce una trasformazione. Essa, come si esprime l’autore: «dovrà guidare i nuovi religiosi, che, rispetto al modello benedettino, sono più direttamente impegnati nell’apostolato; in secondo luogo la direzione spirituale viene connessa sempre più direttamente con l’amministrazione del sacramento della penitenza a servizio di tutti i fedeli» (p. 102). Con la mistica renana viene accentuato il ruolo della guida nel cammino spirituale, e viene messo in evidenza il ruolo delle grandi mistiche, madri spirituali che con la loro testimonianza indicano la strada per raggiungere le più alte vette della vita contemplativa. Con la devotio moderna, invece, si mette in rilievo la dimensione psicologica nella direzione spirituale e di conseguenza si sottolineano le doti richieste al padre spirituale: «la capacità di incontro, di attenzione e di dialogo che agevolino l’apertura della persona guidata verso i moti nascosti dello Spirito» (110). Più tardi, per Ignazio di Loyola l’unico vero direttore è lo Spirito Santo, il padre spirituale è la figura che traduce l’ideale dell cristiano proposto negli Esercizi (p. 119). Dopo Trento la direzione spirituale diventa strumento indispensabile per la formazione iniziale, e per la verifica periodica delle attività apostoliche in armonia con il proprio progetto di vita. In questo clima, Teresa D’Avila sottolinea la necessità della direzione spirituale per chi desidera immedesimarsi a Cristo, e propone come direttore spirituale «una persona ricca, contemporaneamente, di scienza e di santità» (p. 130). Più tardi, Francesco di Sales non fu un teorico della direzione spirituale, ma certamente una illuminata guida delle anime, egli «indirizzava con chiaroveggenza tutte le persone (ecclesiastici, religiosi e laici) verso gli ideali della perfezione cristiana, tenendo conto del loro stato di vita e delle particolari attitudini psicologiche e morali di ciascuna» (p. 137).


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A partire dal Vaticano II, soprattutto, dopo la crisi degli anni ’70 nel periodo della contestazione giovanile, la direzione spirituale «viene ripensata radicalmente con l’apporto fecondo sia delle discipline antropologiche (prima fra tutte la psicologia) che di quelle teologiche; inoltre essa viene rivalutata nel suo ruolo insostituibile nei momenti di formazione iniziale e di formazione permanente» (pp. 167-168). È questo il periodo in cui, da parte di alcuni autori, invece dell’espressione direzione spirituale si adopera quella, meno dirigista di accompagnamento spirituale. Nella terza parte, la più consistente, (abbraccia i cc. 7-12), don Frattellone propone un approccio teologico sistematico della direzione spirituale attenta alla sensibilità odierna. Nel cap. 7, dopo aver evidenziato che «la direzione spirituale si colloca nel contesto dei diversi mezzi di aiuto spirituale… ampiamente utilizzati oggi nella Chiesa» (p. 177), la pone a confronto con tali attività similari: il discernimento degli spiriti, la confessione, il ruolo direttivo della comunità, la revisione di vita, la psicoterapia, la consulenza spirituale, sottolineando che esse possono costituire una ottima preparazione alla direzione spirituale, senza sostituirsi ad essa, e contribuiscono a identificare meglio la natura e le caratteristiche della stessa. Nel cap. 8, tratteggia la direzione spirituale come «un’attività originale che scaturisce dal piano divino di salvezza; in essa sia l’accompagnatore spirituale che l’accompagnato agiscono sotto l’azione dello Spirito Santo per perfezionare l’inserimento del credente nello stesso disegno di salvezza, attraverso le decisioni concrete che ne realizzino il progetto di vita» (p. 214). Poi, evidenzia la teologia sottesa alla stessa e, infine, ne descrive la sua presenza nel dinamismo pastorale della Chiesa, soprattutto la sua connessione con l’annuncio della Parola, la celebrazione dei sacramenti e l’animazione dei vari soggetti ecclesiali. Nel cap. 9, analizza la natura e i contenuti della direzione spirituale, evidenziando che il suo obiettivo essenziale è la maturazione integrale del credente. Si tratta di educare il fedele a saper accogliere come dono il Signore Gesù, e di configurarsi a lui sotto l’azione dello Spirito. Compito del padre spirituale, in questo processo di maturazione sarà quello di accogliere ed ascoltare, illuminare ed aiutare a discernere, sostenere ed esortare a crescere nello Spirito, per consentire a chi si lascia


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accompagnare di vivere la vita in Cristo, inserito in modo responsabile nella Chiesa e nel mondo. Nel cap. 10, l’autore, propone il clima entro il quale deve svilupparsi la direzione spirituale. Essa è relazione di aiuto realizzato nel colloquio interpersonale. Perché questo colloquio possa avvenire nel modo migliore, «richiede dal padre spirituale non soltanto che egli sia uomo di Dio… ma anche abilitato a operare con scienza e arte quando offre a un’altra persona la disponibilità ad iniziare con lei una relazione di aiuto» (pp. 253-254). Quindi chi esercita questo ministero dell’accompagnamento spirituale deve coltivarsi come uomo dello spirito e deve educarsi a uno stile di accettazione passiva dei problemi del diretto. Con umiltà deve cercare di capire quali sono i motivi che portano una persona a chiedere di essere accompagnata; il chiarirli consente di mettere a fuoco i contenuti e la profondità del dialogo interpersonale. Da parte del diretto si richiede il proposito di iniziare una vita nuova, accompagnato da un desiderio di preghiera, di docilità allo Spirito Santo, di perseveranza e fedeltà negli impegni, e di ricerca sincera delle vie di Dio. Nel cap. 11, si entra in uno spazio determinante del cammino spirituale, l’esperienza di preghiera. La direzione spirituale deve portare ad una profonda interiorità e quindi all’esperienza di Dio. La preghiera è evento in cui si fa spazio a Dio e si entra in comunione con Lui. Allora, «la direzione spirituale non può sottrarsi all’obbligo di verificare il metodo e le modalità della preghiera della persona diretta, perché solo se la preghiera sarà autentica e progressiva anche l’esperienz di Dio potrà maturare il credente dall’inizio della vita spirituale fino alla sua pienezza» (p. 298). Nell’ultimo capitolo, dopo aver analizzato gli aspetti più specificamente dottrinali della direzione spirituale, don Frattellone, evidenzia la necessità che la direzione spirituale prenda in considerazione le situazioni concreta della esistenza cristiana. Per questo concentra la sua riflessione «sulla analisi degli elementi ambientali che influiscono sul cammino spirituale della persona, e sulle problematiche connesse con la fedeltà al proprio stato di vita, inclusa la propria identità professionale» (p. 336). Così vengono prese in considerazione: l’ambiente sociale, ecclesiale e familiare, ma anche il problema esistenziale della scelta dello stato di vita e infine i problemi specifici di alcune categorie di fedeli: i giovani, i laici sposati, i


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seminaristi, i presbiteri, i religiosi, le religiose, i membri degli Istituti Secolari. Infine, viene sottolineato il rapporto tra direzione spirituale e l’orizzonte delle professioni esercitate dai singoli individui. Questo perché, conclude l’autore, «non è pensabile un cammino spirituale che miri alla perfezione della carità senza l’assunzione dei problemi e degli impegni specifici della propria professione» (p. 397). Il volume, come dicevamo sopra, è proposto agli eventuali “direttori spirituali”, ma a conclusione della lettura ci sentiamo di dire che esso è consigliabile a chiunque desideri intraprendere un serio cammino spirituale. Di esso offre, infatti, in vario modo, le coordinate essenziali, e chi legge attentamente il testo si rende conto che tale itinerario, che è il più impegnativo ma anche il più qualificante la propria esistenza di credente, richiede una guida che aiuti a discernere la via di Dio nei grovigli della vita. Il volume, pur disponendo di un apparato critico consistente e di una ricchezza di contenuti notevoli, (non è esagerato dire che offre una panoramica degli studi più recenti sull’argomento), è accessibile a tutti. L’autore, infatti, sa unire la ricerca precisa e meticolosa alla scorrevolezza del testo. Egli presenta le sue considerazioni in maniera chiara, metodica e convincente. In un certo senso conduce per mano il lettore offrendogli all’inizio di ogni capitolo, in modo schematico, gli obiettivi che vuole raggiungere con l’approfondimento, e alla fine di ogni capitolo un grafico riepilogativo. Una ricca bibliografia chiude il prezioso volume e una bibliografia specifica accompagna ogni capitolo. Alberto Neglia



RECENSIONI Synaxis XV/1 (2007) 201-218

P. MAGNANO, Lavoratori nella vigna del Signore, Edizioni ASCA, Siracusa 2006, pp. 510.

L’ultimo lavoro di mons. Magnano si inserisce nel solco della sua vasta produzione che sostanzialmente è orientata alla ricerca delle radici più significative della Chiesa locale siracusana1. Questo compito, caratteristico di ogni storico della Chiesa locale, è avvalorato dalle parole del papa Giovanni Paolo II quando afferma che ogni Giubileo è significativo per la persona o per la realtà che lo celebra (cfr TMA, 15 in EV, 14/1737). Il volume, la cui genesi è narrata nella prefazione dallo stesso autore, vede la luce infatti nell’ampio contesto delle innumerevoli celebrazioni che a Siracusa sono seguite al Grande Giubileo: il 25° di ordinazione episcopale dell’Arcivescovo mons. G. Costanzo, con le varie iniziative di evangelizzazione legate anche alla precedente Missione diocesana; l’Anno Mariano diocesano per il 50° di lacrimazione del famoso quadretto raffigurante il Cuore Immacolato e Addolorato di Maria, con la peregrinatio del reliquiario per la diocesi e per le Cattedrali della Sicilia; l’Anno Luciano per i 1700 anni del martirio di Santa Lucia, patrona della città e della diocesi, culminato con una vera apoteosi di devozione popolare legata alla presenza in città del corpo della stessa santa abitualmente custodito a Venezia; infine mentre si stava celebrando un anno vocazionale legato al 50° di sacerdozio dell’Arcivescovo mons. Costanzo c’è stata la morte del Papa Giovanni Paolo II e l’elezione di papa Benedetto XVI, che si è presentato al mondo come un “umile lavoratore nella vigna del Signore”. L’autore afferma di essere stato colpito da questa frase e di essersi poi chiesto perché non far 1 Ricordo soltanto i suoi ultimi lavori, in essi possono essere rinvenuti anche gli altri: I santi siracusani ed i testimoni di vita cristiana nel secondo millennio. S. Lucia e il suo martirion, Siracusa 2004, pp. 200; Lucia di Siracusa, Siracusa 2004, pp. 192.


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conoscere almeno alcuni di questi umili lavoratori, che nel corso dei secoli hanno prestato la loro opera nella porzione di vigna che è la diocesi di Siracusa, ricordando che anch’egli è uno di questi e che celebra il suo 50° di sacerdozio in questo anno del Signore 2006, anno che vede anche il 30° di ordinazione episcopale di mons. Costanzo. Vengono quindi presentate 35 brevi biografie, corredate anche da una foto o da un quadro per ogni personaggio. Si tratta di 22 sacerdoti e di 13 vescovi (di cui poi 2 sono divenuti cardinali e 2 provengono dalla diocesi, ma svolgeranno il loro apostolato in altra diocesi). I personaggi vanno da mons. Fortezza, vescovo morto nel 1693, a p. Amato, parroco morto nel 2005. Prendendo come parametro l’anno di morte i soggetti appartengono: 1 al XVII sec., 6 al XIX sec., 25 al XX sec. e 3 al XXI secolo. Il metodo scelto dall’autore è strettamente alfabetico: molto utile per una rapida consultazione, ma difficoltoso per inquadrare il personaggio nella sua epoca. Pur volendo lasciare tutto così, in vista di una seconda edizione, si consiglia di apporre ad ogni personaggio le proprie date anagrafiche (non solo nell’indice), ancora meglio si potrebbe utilmente inserire in ogni margine superiore il nome e le date anagrafiche del personaggio di cui si parla, si consiglia inoltre di controllare meglio alcuni errori di distrazione tipografica. La qualità della singola biografia è chiaramente condizionata dalla destinazione per cui è stata redatta. Si tratta infatti di biografie presentate in convegni o in giornali e riviste varie, questa diversa origine quindi incide sulla modalità di presentazione del personaggio. Ciò spiega anche l’assenza in questo testo di alcune altre persone significative del clero siracusano, alcune di queste infatti erano già state trattate nell’opera Sedotti dal Signore2, pubblicata in occasione del 50° di sacerdozio dell’Arcivescovo. Cominciando ad inoltrarci nella presentazione più interna del testo, si può affermare che dalla lettura si ricavano una miriadi di informazioni sulla storia della diocesi (es. pp. 234-235) e del seminario (es. pp. 50-53). Mi sembra utile proporre una lettura trasversale delle figure presentate, così da fare emergere in qualche modo l’evoluzione della una figura del prete siracusano.

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Sedotti dal Signore, Siracusa 2003, 296


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Partendo dal primo, mons. Fortezza (1693), all’ultimo, parroco. Amato (2005), si può dire che tutti i personaggi presentati, vescovi e preti, forse perché sono le figure più rappresentative delle varie epoche, sono caratterizzati da una spiritualità di fondo comune: un forte senso del dovere, si inizia il ministero come prete zelante limitato però alle sole esigenze interne alla realtà ecclesiale, tuttavia poi le situazioni storiche spingeranno molti di loro ad un impegno, anche significativo, in attività sociali. Così mons. Fortezza, vescovo dal 1676 al 1693, è un vescovo riformatore posttridentino, che, nell’epoca di Innocenzo XI (1676-1689), in qualche modo rispecchia la figura del vescovo proposta anche dal Trattato del Buon vescovo del Crispino: visite pastorali successive, attenzione alla dimensione catechistico-devozionale, però nel disastroso terremoto del 1693 non accetta di diventare il responsabile vicereale della ricostruzione per rimanere al “governo spirituale delle sue pecorelle” (p. 249), impegno diventato più gravoso tanto che muore nell’anno del terremoto, perché forse il suo instancabile impegno per tutta la vasta diocesi ne “incrina la salute” (p. 258). L’autore lo definisce un “pastore eccezionale per tempi eccezionali” (p. 259). Anche per il parroco Amato (ordinazione 1939, morte nel 2005) si ha lo stesso sviluppo. Chiamato dal suo Rettore, mons. Lanza, “u filosufu strammatu” (il filosofo strampalato) per certe sue modalità di essere originali che lo accompagneranno poi per tutta la vita, all’inizio del suo ministero si era impegnato soprattutto nella catechesi dei bambini e in una instancabile attività parrocchiale, però il suo trasferimento a Priolo, dove l’impatto occupazionale e ambientale del nascente polo industriale della SINCAT era enorme, fu segnato da una svolta verso l’impegno sociale per dare sostegno ai tanti lavoratori provenienti da altri paesi siciliani e per aiutare i loro figli nell’inserimento scolastico e civile. Si potrebbe affermare che, partendo dai vari ritratti, nella diocesi di Siracusa il clero sia passato dall’impegno post-tridentino strettamente legato alla parrocchia, con la cura della catechesi e della devozione, alla cultura, con la biblioteca alagoniana e le varie pubblicazioni storiche (mons. Alagona, Gurciullo, Gargallo, Privitera), all’impegno sociale del periodo post-unitario, con la fondazione di istituti assistenziali (mons. La Vecchia, Barreca, Bombaci…), alla dimensione mariana dopo l’evento della lacrimazione del 1953, con le varie iniziative ad esso collegate (mons. Baranzini, Musumeci, Rosso, Giardina).


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Credo che leggendo ancora trasversalmente questi ritratti si possano mettere in risalto alcuni aspetti significativi che caratterizzano il clero siracusano: a) La dimensione culturale: questo aspetto è stato favorito in alcuni casi delle situazione culturale della società: l’opposizione all’illuminismo e al positivismo ha di sicuro favorito l’impegno culturale del clero, favorito certamente anche dalla scuola presente in Seminario, scuola che nel tempo è stata sempre un punto di riferimento anche per la stessa società civile siracusana, si distinguono in questo mons. Alagona, Gargallo, Gurciullo, mons. La Vecchia, Privitera, Santangelo, Barreca, Immordini (un elenco, con una serie di altri studiosi significativi ma non approfonditi nel testo, è presentato alle pp. 26-27). b) La dimensione sociale: la formazione che emerge nel clero siracusano presentato è certamente una formazione spirituale zelante. Ma è proprio questa formazione, che sotto la spinta di situazioni storiche, diventa un potente volano per un impegno nel sociale secondo le esigenze: il soccorso dopo i terremoti del 1693, del 1910 a Messina e del 1968 nel Belice, la fondazione e la gestione di Istituti per bambini: Umberto I, Sacro Cuore in diversi paesi, Buon fanciullo e Buona fanciulla, accoglienza di profughi e disagiati. In questo impegno troviamo coinvolti sia vescovi che sacerdoti (mons. Fortezza, mons. La Vecchia, Barreca, Bombaci, Cultrera, Giardina, D’Asta..). c) La dimensione missionaria: anche se i missionari presentati nel testo sono soltanto due, Barbagallo e Guccione, in realtà i sacerdoti coinvolti furono molti di più (a p. 54 ne sono elencati ben 13). La motivazione di questa fioritura è legata all’ambiente che si era creato in Seminario agli inizi del XX sec. La nascita delle pontificie opere missionarie, da notare la visita in seminario di mons. Angelo Roncalli, all’epoca presidente per l’Italia della Propagazione della fede (p. 54), e il fatto che mons. Carabelli, allora segretario dell’Arcivescovo Bignami e poi suo successore, avesse un fratello missionario del P.I.M.E. furono l’occasione perché in seminario nascesse una forte attenzione verso le missioni. Questa attenzione, sostenuta dai rettori (Lanza, Rosso), con la creazione di circoli missionari e di varie altre attività è poi continuata negli anni successivi, così si spiega la partenza di tanti seminaristi per le missioni. d) La dimensione educativa: è significativo il fatto che la stragrande


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maggioranza dei personaggi presentati sia stata in un modo o nell’altro legata al seminario: dalla mitica figura del Lanza, rettore dal 1910 al 1950, che per la gran parte del clero siracusano era ‘Il Rettore’ per antonomasia, a tutta una serie di persone che sono stati professori per lungo tempo: da Cultrera a Immordini, da Mallia a D’Asta, da Rosso a Cannarella, anche due vescovi hanno scelto di insegnare in seminario durante il loro ministero in diocesi: mons. La Vecchia e mons. Bonfiglioli. Mi sembra importante concludere prestando attenzione alle figure dei vescovi presentati: sono 13, di questi due provengono dal clero siracusano: il card. Carpino e mons. Rosso, ma hanno presieduto altre chiese. Escludendo mons. Fortezza, ricordato per il terremoto del 1693, e mons. Alagona, ricordato per la fondazione della famosa Biblioteca, la lettura cronologica dei ritratti degli altri vescovi presentati permette di avere una qualche idea della storia della diocesi negli ultimi cento anni. Infatti si va da mons. Guarino (1872-1875) a mons. Lauricella (1973-1989), in questo lungo periodo l’unico vescovo non presentato è mons. Fiorenza (1896-1905), questi ebbe un difficile episcopato sia per tensioni con la massoneria sia per problemi con il clero, l’autore ha affermato che non ha trattato questo personaggio perché non si può ancora fare una piena chiarezza sul complesso dei problemi. Complessità e diversità di problemi della diocesi che emergono però dall’insieme delle figure episcopali presentate. Mons. Guarino (1872-1875) era stato nominato dopo un lungo periodo di sede vacante. Siamo nel contesto dell’unità d’Italia e della questione romana, dallo Stato al nuovo vescovo voluto dal Papa non fu concesso l’exequatur, così non poté neanche prendere possesso dell’episcopio e ben presto fu trasferito a Messina, dove poi ebbe la porpora cardinalizia. Il vero restauratore della diocesi di Siracusa fu quindi mons. La Vecchia (1875-1896). Il lungo episcopato di questo francescano è ancora presente nella memoria popolare: colto, scrisse diverse opere, zelante, intraprese 5 visite pastorali, santo, si impegnava tanto nella carità da dare molte volte i suoi stessi vestiti. Uno dei suoi impegni fondamentali fu la restaurazione, lo sviluppo e il rilancio del seminario. Dopo l’intermezzo di mons. Fiorenza (1896 dimessosi nel 1905), inizia per la diocesi di Siracusa quel periodo che è conosciuto come l’episcopato lombardo. Si è trattato di una serie di vescovi provenienti dal nord Italia, ma sostanzialmente è stato un episcopato che si è ben inserito nella


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realtà siciliana ed ha operato sia per un rilancio delle strutture (chiese, istituti, fondazioni) e sia per ciò che attiene alla dimensione religiosa (purificazione della religiosità popolare, sinodo diocesano, nascita del Santuario della Madonna delle Lacrime) Il primo dei vescovi lombardi fu mons. Bignami (1905-1919), vescovo a 43 anni e morto e soli 57 anni, innovò le relazioni con il clero e riformò molte usanze legate alle feste popolari dei Santi Patroni di molti paesi, amò Siracusa tanto da rifiutare di diventare cardinale perché amava le tre sorelle: carità, umiltà, pietà. Di lui il papa Pio X disse: optime in omnibus (p. 96). Gli successe il suo giovane segretario mons. Carabelli (1921-1932), vescovo a 34 anni morto a 45!, molto amato dal clero continuò le riforme del suo predecessore e padre. Il più lungo episcopato fu quello di mons. Baranzini (1933-1968) che ha orientato la sua azione pastorale ai suoi tre bianchi amori: Eucaristia, Maria, Papa. Dal popolo fu chiamato il vescovo della Madonnina, per l’impegno profuso per la realizzazione del santuario e per la promozione del culto alla Madonna delle lacrime. Negli ultimi anni, essendo ammalato, fu sostenuto da altri vescovi collaboratori mons. Caminada, mons. Gaddi, mons. Bonfiglioli (già coadiutore dal 1963 e dal 1968 al 1973 titolare) compito di questo arcivescovo fu l’applicazione del Concilio in diocesi: subito fu applicata la riforma liturgica e diede impulso alla dimensione comunionale della Chiesa, già nel 1966 fu operante il Consiglio presbiterale e pastorale. L’applicazione fu guidata con molta prudenza, infatti non si ebbero in quel momento le crisi legate al Concilio. Queste però cominciarono a manifestarsi lungo gli anni del suo successore mons. Lauricella (1973-1989), la gestione di queste crisi, l’impegno per la costruzione del santuario e per la comunione nella diocesi furono le sue principali preoccupazioni. In questa immaginaria galleria potevano essere presenti anche altri personaggi, ma la lettura del testo è una bella occasione per avere una quadro vivo della storia della Chiesa locale della diocesi di Siracusa Salvatore Marino


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Radici da riscoprire. Il carisma di una donna semplice Maria Marletta, Suore Serve della Divina Provvidenza, Catania 2006, pp. 83.

Dopo la pubblicazione del Diario della loro fondatrice, Maria Marletta, le Suore Serve della Divina Providenza di Catania, danno alle stampe un altro documento dei primi anni de vita della congregazione, fondata nella città etnea negli anni venti del ’900. Si tratta di “frammenti” che concorrono a formare un tutto non ancora ampio, ma sufficiente per cogliere l’originalità dell’intuizione di Maria Marletta e della radicalità della sua sequela evangelica. Il primo capitolo raccoglie preghiere, pensieri, lettere e dei biglietti indirizzati ad alcune suore della Congregazione. Il secondo capitolo — il più ampio dei tre che compongono il volumetto — contiene i ricordi di sr. Provvidenza Stramondo († 2002) e di sr. Nunziata Bellanti (†1996), prime compagne della Marletta. Il terzo capitolo — in modo alquanto originale — riporta i ricordi delle attuali componenti la famiglia religiosa delle Suore della Divina Provvidenza, ricavati dalle risposte ad un questionario, compilato da venti suore. I pensieri della Madre Marletta confermano il forte cristocentrismo che scaturiva dal suo diario. Ella si rivolge con un tu confidenziale a Gesù in un colloquio semplice e familiare. Questa semplicità, fino a rasentare l’ingenuità spirituale, è una caratteristica dell’esperienza spirituale della Marletta e delle sue prime compagne. Non vuol dire sprovvedutezza, al contrario è associata ad una avvedutezza tipica della donne del popolo siciliano che tanti riscontri ha avuto nella letteratura di fine ottocento e inizi novecento. Sono donne di poca istruzione scolastica, vere figlie del popolo, cresciute nelle ristrettezze, ma per questo forti e dotate di sapienza “biblica”, ereditata appunto dalla predicazione della Bibbia, in specie i Vangeli, nelle forme allora praticate. Sono donne “devote”: Maria Marletta ha una fiducia incrollabile nella provvidenza divina, che configura nella persona di San Giuseppe, secondo una tradizione popolare profondamente radicata. Le sue prime compagne ricordano che «quotidianamente, insieme alle ragazze, recitava la preghiera litanica: “S. Giuseppe, pensateci voi” e soleva mettere al collo di S. Giuseppe quella grazia di cui aveva bisogno urgentemente» (p. 75). L’atteggiamento devoto si intreccia con il carattere e i tratti psico-


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logici della donna provata, ma consapevole della propria chiamata. Più volte è ricordata la sua fermezza associata alla dolcezza. Traspare, certamente, una tempra forte a volte anche dura, ma mai arrogante. «Quando credeva opportuno richiamare lo faceva con fermezza e fortezza, senza far caso alle lacrime o alla pena che poteva procurare» (p. 32). Una donna di governo: «Era fatta per governare: univa alla dolcezza una fermezza incrollabile; nessuno riusciva a farla desistere dai suoi propositi e dai suoi punti di vista» (p. 62). Questo tratto biografico si intreccia con quello sociale che caratterizza questa singolare esperienza. I primi decenni del Novecento sono caratterizzati a Catania da grande povertà economica e culturale. La Marletta e le sue prime compagne, forti di un’esperienza personale segnata da questa povertà, intuiscono interventi innovativi per farvi fronte. Non mero assistenzialismo, ma scolarizzazione e lavoro: «L’obiettivo primario di Maria Marletta mirava a far sì che uscendo dall’Istituto ognuna poteva bastare a se stessa. […] Nessuna delle ragazze si vide serva presso padroni […] ma professioniste che hanno trovato un posto dignitoso nella società e ora godono della pensione» (p. 78). Significativo il rapporto con la Chiesa locale, fatto di difficoltà iniziali ma anche di sostegno sincero da parte di alcuni esponenti del clero locale. Da rilevare l’atteggiamento prudente del vescovo, che preferisce incanalare l’esperienza all’interno di una forma più tradizionale e come dalla titubanza iniziale la Marletta passi poi ad una accettazione piena della decisione del vescovo (p. 62). Nelle memorie questo passaggio cruciale della vita della loro Congregazione è visto, naturalmente, come un “dono prezioso”. Nelle stesse memorie non si nascondono tuttavia le difficoltà e le prove sia di natura materiale che spirituale. L’orientamento del vescovo e dei suoi stretti collaboratori incise sulla struttura della comunità, trasformata in congregazione, fin’anche nella scelta del nome (p. 63). Ci troviamo di fronte ad una esperienza spirituale genuina tutta tesa a realizzare il precetto evangelico dell’amore verso i piccoli. La cura delle ragazze più abbandonate nella forma di una accoglienza familiare ricreata dalla Marletta e dalle sue compagne fu un’opera certamente socialmente meritoria, ma la sua ispirazione non si radica in un’analisi di tipo sociologico, ma interamente nel Vangelo. Maurizio Aliotta


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S. DE FIORES, Maria sintesi di valori. Storia culturale della mariologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 580, (presentazione di Mons. Angelo Amato).

Nel corso dei secoli, Maria non ha smesso di interessare le culture e, viceversa, queste non hanno cessato, fino alla nostra epoca postmoderna, di determinare le varie espressioni su di lei. Questa idea costituisce il nucleo o, con altre parole, il filo conduttore del prezioso volume di Stefano De Fiores. La fatica a cui si è sottoposto il noto mariologo è consistita precisamente nell’elaborazione di una «storia culturale della mariologia». Se, da una parte, infatti, l’autore ha voluto offrire una sintesi storica della riflessione di fede sulla Madre del Signore, desiderando colmare in tal modo un vuoto esistente nell’ambito delle pubblicazioni recenti, dall’altra, ha inteso non limitarsi a una semplice ricostruzione dello sviluppo storico delle idee dei cristiani su Maria. La peculiarità, pertanto, e conseguentemente la pregevole novità del libro stanno nella prospettiva culturale, secondo la quale le culture costituiscono l’indispensabile orizzonte di comprensione della figura di Maria. In altri termini, «un’analisi delle varie forme che l’immagine di Maria assume nei vari secoli documenta come essa risulti sempre inculturata, cioè determinata dalle culture che si susseguono, alle quali ella offre a sua volta importanti contributi» (p. 543). La profonda e reciproca relazione tra Maria e le culture implica che ella divenga «pur nelle variazioni proprie di ciascun universo simbolico, una persona rappresentativa, frammento e insieme sintesi in cui si rispecchia il tutto della fede, della Chiesa, della società, in una parola della singola cultura» (p. 18). Ne consegue, dal punto di vista metodologico, che la storia culturale della mariologia integri «la dimensione ecclesiale-teologica (suo contesto immediato) e l’orizzonte storico-culturale (suo contesto generale)» (p. 35), compiendo, per ogni epoca culturale, «un triplice passo: mondo culturale — Chiesa — Maria» (p. 35). In tal modo, secondo De Fiores, emergono i vari paradigmi o modelli, mediante i quali i cristiani, nel corso dei secoli, hanno percepito ed espresso la presenza di Maria, in modo differente, all’interno delle varie epoche culturali dell’occidente: mediterranea antica, medievale, moderna e postmoderna.


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All’epoca culturale mediterranea antica — segnata da una civiltà cosmopolita e dalle culture ebraica, araba ed ellenistica — è dedicata la prima parte del volume. In questa, viene messo in risalto come l’accostamento a Maria, nei primi secoli, sia stato particolarmente dettato da una serie di modelli culturali legati al giudeo-cristianesimo (biblico storicosalvifico; apocrifo-narrativo) e all’ellenismo (analogico-simbolico; filosofico-misterico; esperienziale-tipologico; poetico; culturale-iconografico). La presentazione del modello filosofico-misterico va considerata con speciale attenzione, a motivo dell’interessante rilettura, a esso connessa, della Theotokos del concilio di Efeso, quale «inculturazione ellenistica della Madre di Gesù» (p. 96). L’epoca culturale medievale, trattata nella seconda parte della storia culturale, ha costituito un «periodo intensamente mariano» (p. 162), a motivo di una presenza sempre più crescente di Maria, ad esempio nella liturgia, nella devozione popolare o nell’arte. De Fiores mostra che i cristiani, in un orizzonte culturale che si è distinto per la dimensione misterica o per la gerarchizzazione tipica dell’istituto feudale, hanno percepito ed espresso la presenza della Domina, di Nostra Signora, specialmente per mezzo di quattro modelli. Questi sono connessi, rispettivamente, al movimento promosso dalla corte di Carlo Magno, alla teologia monastica, alla riflessione degli scolastici e, infine, al tempo della decadenza tardo-medievale. La percezione e le espressioni della presenza di Maria, tramite tali modelli, fra l’altro hanno segnato l’iconografia e l’omiletica. Le conclusioni della seconda parte, molto opportunemente, fanno poi un cenno alla poesia dantesca che, tuttavia, dato il rilievo, avrebbe potuto avere maggiore considerazione. Nella terza parte, il libro studia l’interpretazione della figura di Maria secondo i paradigmi della cultura moderna, che si è evoluta continuamente durante mezzo millennio, con diversi passaggi, fra i quali l’illuminismo e il romanticismo. Dapprima, De Fiores esamina i modelli propri del periodo storico che va fino all’Ottocento (rinascimentale, luterano-protestante, barocco, critico-illuministico, romantico-restauratore). Successivamente, mette in evidenza lo snodo costituito dal Novecento e, in questo, alcuni momenti salienti, quali le apparizioni di Fatima, la rinascita della teologia ortodossa (es.: S.N. Bulgakov) o la prospettiva antropologica in teologia (es.: K. Rahner). Il riferimento al concilio Vaticano II permette, infine, di


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stabilire un legame tra la descrizione dei fenomeni culturali del Novecento e i nuovi percorsi della mariologia. Questi procedono secondo il modello del rinnovamento, del ricupero, dell’inculturazione. Nonostante le numerose variazioni culturali e la conseguente molteplicità dei modelli, nella cultura moderna esiste però la continuità permanente di un tratto essenziale riguardo all’interpretazione della Madre del Signore. Come rileva incisivamente De Fiores, infatti, «il basso continuo della modernità circa Maria è l’affermazione della sua personalità, della sua relativa autonomia o consistenza, della sua dignità e del suo ruolo attivo nella comunità. Tutto questo attraversa i paradigmi in questione» (p. 224). Dalla quarta e ultima parte del volume è presa in considerazione l’epoca culturale postmoderna, nella quale «la mariologia non batte in ritirata ma si lascia interpellare da alcune istanze della postmodernità» (p. 389). Conseguentemente, negli ultimi anni del Novecento e agli inizi del terzo millennio, la presenza della Madre del Signore viene percepita ed espressa, oltre che nella prospettiva storico-salvifica, propria del Vaticano II, con una molteplicità di modelli (via pulchritudinis, narrativo/narrante, interdisciplinare, spirituale, kenotico, personalistico, mistagogico, ecumenico e interreligioso, promozionale, prolettico). Fra questi, vanno evidenziati i modelli spirituale, kenotico e personalistico, a motivo delle argute valutazioni sui loro legami culturali, rispettivamente con l’odierna ricerca dell’esperienza religiosa mistica, con la diffusione del pensiero debole e con l’affermarsi della concezione della persona sotto il segno della relazionalità. La storia culturale della mariologia costituisce indubbiamente un ottimo strumento per la conoscenza della riflessione teologica inculturata su Maria e, al tempo stesso, per eventuali approfondimenti. A tale duplice scopo serviranno, in particolare, la precisa introduzione alle quattro parti sopra sinteticamente presentate — che permette di volgere lo sguardo sui vasti orizzonti della riflessione mariologica — le valutazioni conclusive generali, l’indice bibliografico essenziale e il notevole apparato critico. Le pagine introduttive alle singole parti, infine, data la loro indole sintetica, potranno offrire un valido aiuto, permettendo di orientarsi, di volta in volta, per la lettura delle pagine successive. Nunzio Capizzi


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S. NICOLOSI, La vita è dono. Ricordi e speranze, Nuova Editrice Grafica, Roma, 2005.

Inseriamo questa lettura nell’ambito di una nostra ricerca che va sotto il titolo: “Ascoltando il nostro tempo – Dove va la filosofia oggi?”. Il volume di Salvatore Nicolosi esprime già nel titolo la sintesi di tutto un programma di vita, dedita essenzialmente alla ricerca scientifica e all’impegno di fede religiosa. Ricerca assidua la sua, illuminata da quel punto di incontro esistenziale tra «ragione e rivelazione, tra filosofia e teologia, tra il pensiero di ispirazione religiosa e pensiero di matrice laica». Si legge con grande godimento spirituale questo volume, opera di un autentico maestro sia come sacerdote che come filosofo, teologo, artista, non solo di meravigliose fotografie (Ho davanti il suo: Prodigio di luce nella cupola di San Pietro al tramonto dell’equinozio). “Uno sguardo dal ponte”, il suo, in occasione dell’ottantesimo compleanno, al tramonto della sua “quarta giovinezza” e all’alba della “quinta”! «L’itinerario della”quinta giovinezza” può, e deve essere l’ultima tappa dell’esperienza terrena, quella nella quale appaia, sempre più splendente, la “luce dell’Eterno valore”. Non ho voluto, egli scrive, fare la cronaca, o la storia, degli anni vissuti e ormai “passati”, ma ho voluto “rivedere” il lungo cammino percorso per le vie del mondo, per capire in funzione di quali “coordinate” si possa disegnare la trama del mio “essere nel mondo”, le idee che hanno ispirato le mie scelte, le speranze che hanno sorretto la mia fatica di vivere, i beni, o piuttosto “il Bene”, a cui ho ancorato la mia ricerca della piena felicità». Per capire quali coordinate hanno orientato il suo essere al mondo, basta leggere i titoli dei cinque capitoli in cui si articola il volume.. Dopo l’introduzione: Uno sguardo dal ponte. Quasi una prefazione. Cap. I: La vita come certezza e come mistero. Cap. II: Il lungo cammino percorso sulle orme della “paideia” di Grandi Maestri. Cap. III: La vita come ricerca. Cap. IV: La vita come arte. Cap. V: La vita come amore. Vorremmo ripercorrere i punti salienti cominciando dalla concezione che la vita è un dono. «Ogni vita che comincia è un dono che sboccia nei confronti di un “nulla” preesistente. Il suo è un inizio “assoluto”, frutto di un amore, che si apre a un nuovo amore. Se questo amore è divino, allora


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è “creatore”, giacché chiama dal “nulla assoluto” ogni cosa; se, invece è un amore finito ed esso stesso “creato”, allora lo sbocciare di una nuova vita è, per analogia la “ripetizione”, nella finitezza del tempo e dello spazio, del miracolo divino della prima creazione» (p.10). In sua etternità di tempo fuore/ fuor d’ogni altro comprender, come i piacque, / s’aperse in nuovi amor l’etterno Amore (Paradiso, XXIX, 16-18). La vita come dono, secondo le cinque metafore (come viaggio, come battaglia, come ritorno, come convito, come Via Crucis e Via Lucis); la vita come fatto o come un insieme di fatti, che da possibile caos si trasformi in cosmos, ordinato verso un fine che è la pienezza del nostro essere, ma sempre con il tormento dell’Assoluto. La vita è un dono, dunque, che si riceve, ma esso è usato ed apprezzato nella sua pienezza, soltanto se si trasforma in ulteriore dono “ad altri”: ogni Gabe=dono (ricevuto) rimanda ad una Aufgabe=compito. Ad un dono offerto ad altri), secondo la correlazione dei due termini tedeschi, ma anche secondo l’espressione latina per cui: bonum est diffusivum sui. Chiara visione filosofica e religiosa della vita, ma soprattutto, sottolinea Mons. Nicolosi, per chi è stato chiamato ad essere docente e sacerdote, cioè dispensatore di scienza e di grazia, di epistéme e di chàris. Ma anche un dono povero può diventare un dono grande e infinito, in una visione religiosa della vita, secondo la parabola della vedova povera del Vangelo di Luca, che può assumersi come una metafora del senso della vita, come ideale di pienezza di amore verso Dio e verso gli uomini. A Dio infine l’arduo giudizio, se i talenti si sono moltiplicati secondo il “servo buono e fedele” o siano rimasti nelle angustie di una colpevole inazione, secondo il servo infingardo! Cosa ha appreso l’A. sulle orme della “paideia” di Grandi Maestri? Anzitutto a saper operare una sintesi fra l’esser minister e l’esser magister, fra le due forme complementari di sapere: sapienza come ascolto (fede); sapienza come visione (filosofia), punto di incontro auspicato da Maurice Blondel (di cui egli è stato profondo studioso). Ora tale sintesi si può perseguire vivendo la vita come poesia «Vivere da poeti significa essere se stessi, essere una persona “irripetibile”, non soltanto sotto l’angolazione delle idee-forza, desunte dalla metafisica e dalla morale, ma anche per lo stile impresso alla stessa quotidianità. Bisogna essere non “uno dei tanti”, bensì “uno fra tanti”. La vita, per essere degna di questo nome, deve essere


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poesia, e perciò deve contenere almeno un pizzico di quella genialità che fa di ogni poeta una persona dallo stile unico, irripetibile, inconfondibile. Ancora una volta vale l’assioma morale: “Sii te stesso, diventa quello che devi essere”» (p. 26). Dai maestri ha appreso il valore dei classici, come ci si accosta ai libri , che custodiscono e trasmettono l’eredità del passato, in essi si deve cercare la chiave di lettura del presente, con i grandi del passato si dialoga, solo i morti si commemorano, e i classici sono sempre vivi! Dai maestri laici ha appreso una essenziale trilogia: la vita come ricerca; la vita come arte; la vita come amore. Direzione di vita che non sono affatto in contrasto con l’insegnamento de Maestro Divino: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32). Ricerare, ma per trovare un senso al vivere, senza cadere nelle pieghe e negli esiti del Problematicismo. Come si sa, le tre parole-chiave: ricerca-arte-amore corrispondono a tre titoli di opere di Ugo Spirito, discepolo di Gentile, che ha elaborato un suo sistema, appunto, il Problematicismo. Salvatore Nicolosi, svela l’aporia di quella impostazione immanentistica, e in una nuova sintesi riprende i contenuti di quelle tre tematiche, ma ormai trasvalutate in un nuovo orizzonte di senso. Rendere la vita splendida di bellezza, ma senza estetismi; viverla come amore, nel mistero dell’agape, in cui solo può consistere la vera felicità, che non si appaga solo di una continua ricerca per la ricerca, perché immanenza e trascendenza, come naturale e soprannaturale si coniugano insieme alla luce di una filosofia, che presenta una struttura aperta alla rivelazione. Grazie al Maestro per questo ulteriore splendido dono! Salvatore Latora


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G. SEMERANO, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Mondadori, Milano 2001.

Quanto danno abbia prodotto il mito della razza ariana supportato dal concetto dell’Indoeuropeo, costruito da alcuni grammatici tedeschi, supinamente accettato, e da criminali utilizzato creando le leggi razziali e la leggenda della superiorità della razza bionda, è ormai un dato storico come dimostra l’esito nefasto dell’olocausto. A smentire tale favola dell’Indoeuropeo è stata l’opera di un linguista solitario e controcorrente, Giovanni Semerano, che in lavori fondamentali, condotti in più di quarant’anni di ricerche e che attraverso gli studi sull’etimologia del greco, del latino e del sascrito ha rintracciato l’origine della nostra cultura e civiltà in un corpo di lingue semitiche ancora più antico dell’indoeuropeo, costituito dall’accadico-sumeroaramaico, una specie di Koiné della zona mesopotamica in cui è avvenuto un interscambio, un colloquio fecondo fra diversi. La fecondità della filosofia greca, come ormai è stato accertato, è derivata dall’interscambio con il mondo orientale. È interessante il fatto che nelle ricerche di questo filologo si coniugano filologia e filosofia, che come sosteneva Vico devono procedere in sintesi per la conquista della verità, perché la prima accerta il vero, mentre la seconda invera il certo! Ma, com’è stato giustamente osservato, per Semerano non si è trattato di sostituire ad un paradigma un altro paradigma, ma di rintracciare il confluire di una pluralità, o di una costellazione, di popoli dialoganti: un vincolo di vasta fratellanza di popoli che stanziavano nella Mesopotamia, e a cui risale l’origine della nostra lingua. «Queste pagine sono state scritte, così egli afferma, a testimoniare la legittimità del richiamo al mondo culturale, alle antiche lingue del Vicino Oriente, all’accadico, al sumero, per far luce sulle origini della civiltà nel nostro Continente. Sono le lingue, cioè, che dettero voce al pensiero, alla scienza, al fervore religioso congiunto al fascino del misterioso nel cosmo… e che già alla metà del III millennio a. C., e agli inizi del millennio successivo, hanno dettato le loro leggi in quelle lingue i fondatori del diritto… Il frequente ricorso all’accadico, come lingua antichissima di più


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larga documentazione, dispensa talora dal ricorso a lingue affini e sostituisce il rituale richiamo all’indoeuropeo congetturale dei manuali, storicamente inesistente» (ibid., pp. 3-5). Una ricostruzione pertanto si impone, come è stato spazzato il mito dell’indoeuropeo, anche nel campo della storia della filosofia cercando di liberala da luoghi comuni che si tramandano ormai da generazione in generazione. Primo fra tutti l’idea di infinito: un equivoco millenario come appare nel “Detto di Anassimandro”, avallato da Autori come Aristotele, Heidegger, Rodolfo Mondolfo, Eucken, Gomperz, Havelock etc. Il frammento di Anassimandro, il più antico testo filosofico in prosa greca ci è stato tramandato da un pensatore neoplatonico del VI secolo, Simplicio, che in un contesto frammentario così recita: «Anassimandro… disse principio (}archén) degli esseri l’ }aépeiron e in quegli elementi dai quali gli esseri hanno origine essi hanno la dissoluzione, per legge fatale. Perché essi pagano gli uni agli altri la giusta pena della loro iniquità nell’ordine del tempo» (p. 34). L’ápeiron, elemento creatore di Anassimandro, si rifà al semitico ‘apar e all’accadico eperu = polvere, terra; così come la voce biblica: ‘afar = polvere, sabbia, terra: «I figli degli Israeliti saranno come ‘afar, la sabbia del mare che non si può misurare né contare» (Gen 32,13). Ed è sempre quella stessa voce che denota anche la materia con la quale il Creatore plasma il primo uomo, è la voce che torna in quella maledizione divina che condanna Adamo e i suoi discendenti a dissolversi in polvere (‘afar). Ed evocando la suprema sentenza, Abramo si professa ‘afar, polvere davanti a Dio (Gen 3,19; 18,27). «È il motivo dell’angoscia senza fine dell’uomo, delle lacrime versate da Gilgames# quando il rettile immondo, simbolo della terra che tutto accoglie, gli strappa l’ultima illusione di potersi sottrarre al destino dei morituri» (p. 50). L’ápeiron di Anassimandro, secondo Semerano, si pone sullo stesso piano dell’acqua (elemento divino) di Talete, dal quale sorge Afrodite, alle origini dea delle acque fecondatrici; e tali ascendenze si riflettono pure nella concezione di Senofane e di Parmenide, così come gli atomi di Democrito sono gli eredi degli infiniti elementi dell’ápeiron anassimandreo. Anche Senofane è fedele alla tradizione di Anassimandro, quando ripone nella terra-madre, intrisa di potenza creatrice, l’origine di ogni


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essere. Senofane, autore di Silli, poemi satirici rivolti polemicamente contro l’antropomorfismo religioso: «Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di biasimo. Rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente. Ma se i buoi e i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che appunto gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato». Eraclito. Errata, secondo Semerano, è l’interpretazione di Aristotele, che bollò Eraclito come l’oscuro, oscurità dovuta ad incertezza, mentre egli si ispira al «Signore, che a Delfi ha il santuario degli oracoli ( Apollo, che), non parla, non nasconde, ma dà segni». Il loégov è per Eraclito lo spirito di Sapienza infuso nel Cosmo, comune a tutti, e per ciò «non a me dovete dare ascolto, ma al loégov ed è saggio convenire con esso che tutte le cose si compongono in unità». Dunque quel loégov, divina intelligenza che anima ogni elemento del cosmo, è il jeoén di Talete, il pensatore ammirato da Eraclito; è il Pensiero nella meditazione di Parmenide, è la Ragione così profonda dell’anima; non sarà il discorso del sapiente che ha l’aria di erudire: «è certo che nessuno seppe, nessuno saprà mai su gli dei, su ogni cosa su cui ragiono… per ognuno opinare è destino». Importanti le pagine sul significato di Mistero (p. 127); Guida per la vita ( p. 138); La resurrezione della carne (p. 139 ss.); Alcuni motivi della critica (pp. 146-150). Parmenide. Autore rivoluzionario, spirito religioso e mistico, come dimostra l’ispirazione del poema; con lui la cosmologia si trasforma in ontologia: «pensare è lo stesso che essere». Pensare l’Essere è pensare la Verità. «Non occorre rilevare qui che l’interiorità di Agostino e di Cartesio sono, a diversi livelli, a distanze siderali. (Credo che questo giudizio così tagliente non valga per sant’Agostino!) Ciò che tocca Parmenide ha il sigillo dell’eternità e coinvolge il Tutto. È qui l’uomo illuminato dalla grazia di Dòch che insegna “come l’uom s’etterna” (pp. 154-155). Anche su questo Autore, che sta all’origine dell’ontologia filosofica, Semerano scrive pagine fondamentali, in cui smentisce l’interpretazione di


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Heidegger (cfr, l’analisi del framm, 16, nel cap.: La verità di Parmenide, p. 159 e ss.)1 Così dicasi per gli altri capitoli su I fondatori del diritto, in cui si esamina il codice di Hammurabi, e l’altro: Inizi e sviluppi della scienza greca (268 e ss.). In conclusione, alla luce delle scoperte di Semerano, anche se alcuni filologi hanno trovato da ridire sull’uso di alcune etimologie, occorre tenerle presenti, per rivedere e impostare in modo nuovo tutta la storia della filosofia così come siamo soliti insegnarla nelle nostre scuole! Salvatore Latora

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La verità dell’Essere di Parmenide avrebbe potuto rivelarsi una conquista per l’eternità, kth%ma ei\v aeò, se il parricidio di Parmenide operato da Platone che ha considerato il Bene al di sopra dell’Essere non avesse dato l’avvio ad un cammino opposto. «Incapace di abbracciare l’Essere-Universo-Pensante della visione di Senofane, cioè la verità perfetta, sferica, di Parmenide, il pensiero dell’Occidente si è dissolto, specchio in frantumi, incapace di riflettere la suprema Verità dell’Essere Intero. L’immagine già proiettata dai pensatori antichi discese così sul piano inclinato ove Platone pose la labile astrazione del sommo bene. Aristotele configurerà la verità nel congegno dianoetico della o\rjoéthv, che sarà l’adaequatio tomistica; infine il cogito cartesiano resterà a riflettere su se stesso come nella fonte di Narciso e Kant lascerà adombrata la verità nel sostrato dei fenomeni, nel noumeno… La grande conquista di Parmenide è avere attinto col pensiero, in una panteistica visione, la suprema sostanza dalla quale emana “ ciò che per l’universo si squaderna”. Di quella Verità dell’Essere Parmenide si fa geloso e battagliero messaggero in un linguaggio che scaturisce dalla grazia comunicatagli dall’Essere stesso, la cui essenza è Dòch, la Giustizia, la disciplina che partecipa dell’intelligenza del Cosmo» (pp. 160-161). «Le vie della ricerca nel mondo delle opinioni sono il più grande dono offerto a Parmenide da Dòch. L’insistenza della Dea su quei cammini del pensiero ove si incontrano la rivelazione e il vigore del loégov fa di Parmenide il primo grande iniziatore de met-odo (meéj-odov), si è aperto così fino al Libro del cammino dello spirito e della virtù di Lao-tzu, o all’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura» (p. 166 ). Ma, alla fine, aggiunge efficacemente Semerano: «Non la grande via di Parmenide, di Lao-Tzu, di Bonaventura, e non la via della dottrina che talora sarà percorso dall’orgoglio del pensiero, arrovellato in ardimenti compiaciuti e che, nel desiderio di porre a proprio merito ogni avviamento dottrinale, finisce col dimenticare l’Essere: solo la santità conoscerà la piccola via che contempla, come nella pratica teresiana, l’amoroso abbandono al Dio confidente, capace di “trasformare in fuoco il nulla dell’uomo» (p. 168).


RICORDO DI MONS. FILIPPO CUTULI

Il 13 febbraio 2007 presso il Centro Studi «Gerlando M. Genuardi» a S. Maria Ammalati (Acireale), Mons. Filippo Cutuli ha chiuso la sua giornata terrena, congedandosi dal mondo per andare incontro al Signore Risorto: incontro che ha preparato consapevolmente e con serenità da quando gli era stato annunziato dal male incurabile che lo aveva raggiunto negli ultimi mesi. Nato ad Acicatena 1’8 ottobre 1925, era stato ordinato presbitero il 7 agosto 1949; dal settembre 1950 al settembre 2004 ha mantenuto l’ufficio affidatogli, di Amministratore del Seminario di Acireale: ha consacrato tutte le sue energie per dare ai superiori, ai professori e ai seminaristi un tenore di vita sereno e per assicurare un decoroso sostentamento. Fu il primo Amministratore dello Studio Teologico S. Paolo dal 1969 al 1999: è doveroso ricordare la saggezza, la generosità e l’amicizia con cui mons. Filippo Cutuli, come Amministratore dello Studio in tempi pionieristici, ha messo in piedi la struttura amministrativa contribuendo, a volte con le proprie risorse personali, a far sì che il S. Paolo potesse onorare sempre i suoi impegni. Con tutti nello Studio — professori, studenti e officiali — ha sempre avuto un sereno e cordiale rapporto. Personalmente gli sono grato per aver condiviso per ben 26 anni il peso della gestione del primo periodo della vita del S. Paolo, certamente non facile, con l’ essermi accanto con una presenza discreta da amico sincero, con amabilità, simpatia e attenzione. Apparentemente Cutuli ha speso la sua vita in un lavoro nascosto e in un ambito non immediatamente gratificante dal punto di vista della visibilità pastorale: certamente, però, in questo ufficio egli ha riversato la saggezza e la fedeltà e ha testimoniato l’amore prestando il suo servizio alla Chiesa. Don Filippo aveva il “culto” dell’amicizia che egli, oltre ad apprezzare, sapeva donare con il suo sorriso accogliente e con la sua ben nota


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Ricordo di mons. Filippo Cutuli

affabilità: era piacevole conversare con lui per la ricchezza di esperienze e di conoscenze che possedeva, e per il modo arguto e simpatico di commentare i fatti, di cui era attento osservatore. A questo ritengo siano dovute la stima, la comprensione e la simpatia di cui è stato sempre oggetto in questi lunghi anni. Mons. Cutuli ricordando la sua esperienza al S. Paolo, diceva che era stata per lui opportunità per percorrere orizzonti nuovi e più ampi: lo Studio Teologico, ora, nell’esprimergli gratitudine e riconoscenza, spera che egli continui ad essere amministratore generoso e amico dall’orizzonte nuovo e ampio del cielo. Salvatore Consoli


Synaxis XV/1 (2007) 221-227

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Hanno conseguito la Licenza in Teologia Morale il 23 giungo 2006: BARBAGALLO FRANCESCA, Il fidanzamento, tempo di crescita umana e cristiana. (relatore prof. Vittorio Rocca) LA MANNA MARIA, La spiritualità del deserto negli scritti di Carlo Carretto. (relatore prof. Giuseppe Buccellato) FERRO CARMELA, Giovanni Paolo II e la questione femminile. Per una ricomprensione della donna a partire della lettera apostolica Mulieris dignitatem. (relatore prof. Vittorio Rocca) DEDO JOHANNES YAO WILLIAM, The family as co-agent of the socioecclesial development: the context of the catholic diocese of Keta-Akatsi (Ghana). (relatore prof. Maurizio Aliotta) KALUPALE OLIVARIUS EDWARD, Marriage and divorce for the Church in Tanzania. (relatore prof. Corrado Lorefice) Il 12 ottobre 2006: MAZZEO MARCELLO, La formazione morale dei giovani proposta da Giovanni Paolo II durante le giornate mondiali della gioventù. (relatore prof. Vittorio Rocca) DABIRE VALENTIN, La responsabilité comme possibilité. L’éthique de la solidarité dans le contexte de l’Eglise - Famille de Diebougou. (relatore prof. Corrado Lorefice)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

Il 9 febbraio 2007: AGOSTA LUCIA, La dottrina spirituale di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. (relatore prof. Vittorio Rocca) BUCOLO CARMINE LORENA, Domenico Squillaci e i casi morali (1953-1966). (relatore prof. Salvatore Consoli) TORRISI VINCENZA, Il sacrificio vivente e santo del cristiano, a Dio gradito. Analisi esegetico-teologica di Rm 12,1. (relatore prof. Attilio Gangemi) VOLPE VINCENZO, Il procreare umano tra spiritualità e bioetica. Fondamenti per un cammino di coppia. (relatore prof. Giovanni Russo)

2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia il 23 giugno 2006: CAMPANELLA SALVATORE, La Chiesa dei poveri in Giovanni XXIII e la sua recezione al Concilio Vaticano II. (relatore prof. Corrado Lorefice) CAMPISI SEBASTIANO, Aspetti teologici e pastorali del secondo Sinodo di Noto. (relatore prof. Vittorio Rocca) PUCCIO ADAMO, La dignità umana nell’analisi introspettiva della persona in Giuseppe Zamboni. (relatore prof. Giuseppe Schillaci) SCIUTO ANREA, Interpretazioni del “Subsistit in” (Lumen gentium 8) nel contesto dell’ecclesiologia misterica del Vaticano II. (relatore prof. Nunzio Capizzi)


Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

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Il 12 ottobre 2006: BONASERA ANTONIO LUIGI, Vita cristiana, solidarietà cristiana e presenza della Chiesa nell’esperienza degli zolfatai a Caltanissetta. (relatore prof. Salvatore Consoli) CALLERAME MARCO, Il profeta Elia. (relatore prof. Dionisio Candido) CICALA GIUSEPPE, Don Lorenzo Milani: dall’ostracismo all’accoglienza. Analisi de l’Osservatore Romano. (relatore prof. Salvatore Consoli) DRAGO SEBASTIANO, Le missioni popolari nel carisma della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo sangue. (relatore prof. Vittorio Rocca) GALLONE GIULIANO, Raccontarsi alla luce della fede. (relatore prof. Sebastiano Dell’Agli) INTURRI FABRIZIO, Dinamiche e proprietà dell’orazione nel cammino di perfezione di S. Teresa d’Avila. (relatore prof. Alberto Neglia) MARCEDONE ANNA MARIA, L’unzione di Gesù a Betania in Gv 12,18. Confronto con i vangeli Sinottici, aspetti letterari, relazione al Cantico dei Cantici. (relatore prof. Attilio Gangemi) PAPPALARDO GAETANO, Amicizia e missione in Paolo. (relatore prof. Carmelo Raspa) Il 13 ottobre 2006: CARCANELLA ANTONIO, Il magistero liturgico di mons. Giovanni Bargiggia IX vescovo di Caltagirone. (relatore prof. Giuseppe Federico)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

GRIMALDI FAUSTO, La verità nel pensiero di Emanuele Severino: una fede contro ogni altra fede. (relatore prof. Giuseppe Schillaci) GIGLIOLA DAVIDE, L’uso della Scrittura (Sal 21, Sal 68 e Sap 1,163,12) nella narrazione degli eventi del Calvario nel vangelo di Matteo (Mt 27,32-56). (relatore prof. Attilio Gangemi) PARISI MASSIMILIANO, Matrimonio e divorzio nell’Italia postunitaria. Due posizioni a confronto. (relatore prof. Adolfo Longhitano) PENNISI ANGELA, Il Seminario Vescovile di Acireale. Analisi prosopografica 1881-1950. (relatore prof. Giovanni Mammino) PUSANO GIOACCHINO, La pietà popolare a Grammichele. (relatore prof. Giuseppe Federico) RICCIOLI PAOLO, Il vissuto testimoniale dei laici, quale espressione del loro munus profetico. (relatore prof. Nunzio Capizzi) RIZZONE VITTORIO, Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia attraverso l’apporto dell’epigrafia (secc. IV-VI). (relatore prof. Gaetano Zito) SORBELLO MARIANGELA, Le tradizioni veterotestamentarie contenute nel saluto dell’Angelo a Maria. (relatore prof. Attilio Gangemi) VENUTI VINCENZO, Il sacramento dell’unzione tra storia e fatiche di comprensioni. Qualche tentativo nelle Chiese della Sicilia sud orientale. (relatore prof. Giuseppe Federico) Il 27 ottobre 2006: COCO IGNAZIO, “Uscito fuori pianse amaramente”. Il racconto dei tre rinnegamenti di Pietro nei vangeli sinottici. (relatore prof. Attilio Gangemi)


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SCRIVANO GIUSEPPE, Il racconto dei tre rinnegamenti di Pietro nel vangelo di Giovanni (Gv 18,12-27). (relatore prof. Attilio Gangemi) Il 9 gennaio 2007: ALFARO PICHINTE MOISES DE JESUS, «Dio ha mandato il suo Figlio […] perché ricevessimo l’adozione a figli». Aspetti letterari, strutturali e tematici. (relatore prof. Attilio Gangemi) BARON CUADRADO ELKIN, Le parabole del rifiuto nel vangelo di Matteo: i due figli (Mt 21,28-32), i cattivi vignaioli. (relatore prof. Attlio Gangemi) BARBAGALLO AGATA, “Come il Padre amò me…(Gv 15,9)”. L’amore del Padre verso il Figlio nel vangelo di Giovanni. (relatore prof. Attilio Gangemi) CAPPELLA AGATINO, Arte e teologia, un ponte per il dialogo interculturale. Un confronto tra islam e cristianesimo a partire dal simbolo NUN. (relatore prof. Maurizio Aliotta) GIUGNO SALVATORE, La vocazione alla santità e la missione dei laici alla luce di Christifideles laici e Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. (relatore prof. Pasquale Buscemi) MIRIA RAFFAELLA, “Ecco, faccio nuove tutte le cose (Ap 21,5a)”. La novità che Dio crea in Ap 21,5a. Tradizione biblica, fondamenti veterotestamentari, aspetti tematici. (relatore prof. Attilio Gangemi) PORTILLO MUNOZ MARLON ALBERTO, “Io sono il buon Pastore” (Gv 10,11) il c. 10 del vangelo di Giovanni. Analisi strutturale e relazione alla narrazione della passione. (relatore prof. Attilio Gangemi)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

3. COLLEGIO DEI DOCENTI Il Gran Cancelliere della Facoltà Teologica di Sicilia Card. Salvatore De Giorgi ha nominato Docenti Stabili: • il 10 maggio 2006 il prof. Mario Torcivia; • il 23 giugno 2006 il prof. Nunzio Capizzi.

4. I CRISTIANI PER LA PACE Lo Studio Teologico S. Paolo e Pax Christi – Punto Pace di Catania hanno tenuto dal 25 novembre 2005 al 26 maggio 2006 una serie di incontri di studio e di approfondimento su temi ed esperienze di non violenza.

5. NECROLOGIO Il 10 luglio 2006 è tornato alla Casa del Padre don Giovanni Cravotta salesiano, dell’Istituto San Tommaso di Messina, che ha insegnato per alcuni anni Sociologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.

6. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO 2006-07 Venerdì 10 novembre 2006 si è tenuta l’inaugurazione del 38° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina i docenti, i membri del Consiglio dello Studio, i superiori dei seminari e dei religiosi, si sono incontrati con i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo: Acireale, Caltagirone, Catania, Nicosia, Noto, Siracusa. Il pomeriggio si è tenuto il momento accademico con la solenne Concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Vincenzo Manzella, vescovo di Caltagirone. Alla concelebrazione ha fatto seguito la relazione del Preside mons. Salvatore Consoli. Dopo la relazione del Preside, don Nunzio Capizzi, professore di


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teologia dogmatica, ha tenuto la prolusione accademica sul tema: La memoria Jesu principio e crisis della Chiesa.

7. INCONTRO STUDENTI IV ANNO Martedì 12 dicembre 2006 il prof. Valentino Savoldi ha tenuto un incontro su Bernhard Haering e il rinnovamento della morale cattolica.

8. PRESENTAZIONE VOLUMI Mercoledì 13 dicembre 2006, presso il Museo diocesano di Catania, sono stati presentati da A. Longhitano, G. Giarrizzo, G. Zito, M. Milone, i volumi della collana “Documenti e Studi di Synaxis” S. Di Lorenzo, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania e La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento a cura di A. Platania.

9. DISPUTATIO Il 15 marzo 2007 si è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio sul tema: Statuto dell’embrione umano. Ha guidato questo momento la prof.ssa M.L. Di Pietro dell’Università Cattolica del S. Cuore di Roma. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di studio e in aula sui molteplici aspetti del tema.

10. COLLOQUIO DI FILOSOFIA Il prof. V. Melchiorre dell’Università Cattolica di Milano e il prof. G. Ruggieri dello Studio Teologico S. Paolo, giovedì 29 marzo 2007, hanno tenuto le relazioni introduttive del Colloquio di filosofia sul tema: Quale filosofia per la teologia oggi? Ha moderato l’incontro il prof. L. Saraceno ed ha visto una attiva partecipazione dei docenti e degli alunni del S. Paolo.



Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative


S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa

Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia


P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano


Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite


Collane di Synaxis «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312 AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2006, pp. 424 AA. VV., Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 312 AA. VV., Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, Giunti, Firenze 2007, pp. 240


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288 P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244


A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032 G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240. F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168. F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo morte, Giunti, Firenze 2006, pp. 240.

II

e la

G. SCHILLACI, Essere come dis-inter-esse. Dalla corporeità alla carità, Giunti, Firenze 2006, pp. 120. L. SARACENO, La vertigine della libertà. L’angoscia in Sören Kierkegaard, Giunti, Firenze 2006, pp. 216. Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168. A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.



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