Synaxis 25 3 (2007) quaderni 21

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QUADERNI DI SYNAXIS 21 SYNAXIS XXV/3 - 2007

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



EMBRIONI, CELLULE E PERSONA: BIOMEDICINA, GIURISPRUDENZA ED ETICA A CONFRONTO Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Catania

Catania 3-4 maggio 2007

a cura di SALVATORE CONSOLI e VITTORIO ROCCA



INDICE

PRESENTAZIONE (Vittorio Rocca)

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METODICHE DELLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA (Concetto Montoneri) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . 1. Cenni di fisiologia della riproduzione umana . . 2. Le tecniche della riproduzione medicalmente assistita . Conclusioni . . . . . . .

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NODI PROBLEMATICI DELL’ATTUALE DIBATTITO IN BIOETICA MEDICA (Giovanni Russo) . . . . . . . . 1. Problematicità e risorsa delle molte visioni etiche . . . 2. “Isolare” le scelte morali in bioetica? . . . . 3. Il nodo problematico per eccellenza: il concetto di “persona” . 4. Il nodo problematico del diritto alla salute e delle risorse limitate . 5. Il nodo problematico qualità versus sacralità della vita . . 6. Conclusioni: riportare la problematicità nella verità . .

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RIFLESSIONI BIOETICHE SULLA PROCREAZIONE ASSISTITA (Mario Cascone) . . . . . . 1. Etica del desiderio . . . . . 2. Utilitarismo e produttivismo . . . 3. Eugenismo . . . . . . 4. Contrattualismo . . . . . 5. Statuto dell’embrione . . . . 6. Un approccio ecologico . . . .

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IMPLICANZE GIURIDICHE DELLA PROCREAZIONE ASSISTITA (Tommaso Auletta) . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . 1. I principi adottati dalla nuova legge . . . . 2. Lo stato della giurisprudenza . . . . . 3. Le problematiche derivanti dalla nuova disciplina della legge 40/2004 Conclusioni . . . . . . . .

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L’AGIRE RESPONSABILE IN MEDICINA DELLA RIPRODUZIONE E RIGENERATIVA (Corrado Lorefice) . . . . . . . . 1. Collocazione del concetto di responsabilità nell’attuale riflessione etica 2. Le priorità dell’agire responsabile in medicina della riproduzione e rigenerativa . . . . . . . 3. Una considerazione finale: l’assunzione del “criterio dialogico” come comune responsabilità . . . . .

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CELLULE STAMINALI E APPLICAZIONI TERAPEUTICHE: IMPLICANZE ETICHE (Antonino Sapuppo) . . . . . . Premessa . . . . . 1. Prospettiva scientifica . . . . 2. Prospettiva antropologica . . . . 3. Prospettiva etica . . . . . Conclusioni . . . . . .

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CELLULE STAMINALI: PROBLEMI GIURIDICI (Salvatore Amato) . . . . . 1. Sono cellule come tutte le altre? . . 2. Il quadro normativo. . . . 3. È legale la ricerca con le staminali embrionali? 4. Prospettive morali . . . .

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RIPENSARE IL SIGNIFICATO DELLA VITA E DELLA PROCREAZIONE NELL’ETÀ DELLE TECNOLOGIE RIPRODUTTIVE E DELLA MEDICINA RIGENERATIVA: INTERROGATIVI E PROSPETTIVE (Vittorio Rocca) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Accoglienza della vita come mistero e dono . . . 2. Promuovere la vita umana nella sua dimensione di qualità . . 3. Il rispetto della vita . . . . . . . Conclusione . . . . . . . .

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CONCLUSIONI (Antonino Sapuppo)

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PRESENTAZIONE

«Non vogliate negar l’esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» (DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inferno, canto XXVI, 116-120).

Le parole che Ulisse rivolge ai compagni con i quali s’imbarca, in quello che Dante nel XXVI canto dell’Inferno della Divina Commedia definisce il folle volo, sono un capolavoro: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza. Nell’immaginario dell’uomo moderno la figura di Ulisse è il simbolo della ricerca del sapere, di colui che instancabilmente cerca nuove strade e sposta continuamente i traguardi di quel suo inarrestabile e metaforico viaggio verso ciò che è ancora sconosciuto. Il XXI secolo continua questo viaggio sotto il segno di una nuova e grande rivoluzione maturata nelle ricerche scientifiche sulla vita umana: la rivoluzione biotecnologica. L’enorme progresso delle conoscenze scientifiche nel campo della biologia, e più specificamente, della genetica, non è un fatto che interessa soltanto un ridotto gruppo di addetti ai lavori, ma è diventato ormai un travolgente fenomeno sociale, etico, giuridico, politico e di opinione pubblica. L’importanza di questa realtà è di tale portata e pone tali problemi sul futuro della vita, della dignità dell’uomo e dell’umanità, che le sedi accademiche e i parlamenti, i luoghi legislativi nazionali e internazionali, le autorità morali e il magistero della Chiesa, si sentono continuamente interpellati. Dinnanzi alla crescente capacità di intervento sulla vita umana è


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Vittorio Rocca

diventato inevitabile chiedersi se tutto ciò che è tecnicamente possibile possa essere eticamente giustificabile e giuridicamente accettabile. È evidente che oggi, come mai nel passato, l’umanità è al bivio. Si tratta, perciò, di imboccare, nel bivio, la strada giusta. A margine di ogni sterile contrapposizione tra “cultura laicista” e “cultura cattolica”, questa strada non può che essere quella dell’impegnarsi lealmente per difendere, nei vari livelli dell’umana convivenza, la struttura morale della libertà scientifica. Ciò può avvenire attraverso la necessaria comprensione e tutela della verità sull’uomo, l’unico essere vivente la cui dignità di persona — sin dal momento del concepimento — comporta l’esigenza morale di essere trattato come soggetto titolare di diritti inalienabili e indisponibili, e non soltanto come semplice oggetto di ricerca scientifica. Di fronte a questa situazione lo stesso Testart1, il padre tecnico della prima bambina concepita in vitro in Francia, con preoccupazione già nel 1995 considerava: «Ciò che sta avvenendo è una vera rivoluzione dell’etica che sorpassa le frontiere di ogni nazione», e con senso di responsabilità concludeva: «Al di là dell’esecuzione tecnica, dell’interesse individuale e di un genuino desiderio, i problemi sono più complessi di quanto siamo portati a credere. Noi dovremmo avvicinarci a questi problemi con uno sforzo cosciente e umiltà determinata a sostenere la dimensione etica della vita umana». A nessuno sfugge come gran parte del dibattito bioetico contemporaneo, soprattutto in questi ultimi anni, si sia concentrato attorno alla realtà dell’embrione umano, considerato in se stesso oppure in relazione all’agire degli altri esseri umani nei suoi confronti. Ciò si spiega bene dal momento che le molteplici implicazioni (scientifiche, filosofiche, etiche, religiose, legislative, economiche, ideologiche, ecc.) legate a questi ambiti inevitabilmente finiscono per catalizzare differenti interessi, oltre che attirare l’attenzione di chi è alla ricerca di un agire etico autentico. Diventa perciò ineludibile affrontare un quesito di fondo: “Chi o cosa è l’embrione umano?”, per poter derivare da una risposta fondata e coerente a tale domanda criteri d’azione che siano pienamente rispettosi della verità integrale dell’embrione stesso. 1 Cfr. J. TESTART – B. SÈLE, Towards an efficient medical eugenics: is the desirable always the feasible?, in Human Reproduction 10 (1995) 3086-3090.


Presentazione

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A tal fine, secondo una corretta metodologia bioetica, è necessario innanzitutto volgere lo sguardo ai dati che la più aggiornata scienza mette oggi a nostra disposizione, consentendoci di conoscere in dettaglio i diversi processi attraverso i quali un nuovo essere umano inizia la sua esistenza. Tali dati dovranno poi essere sottoposti all’interpretazione antropologica, al fine di evidenziarne i significati ed i valori emergenti, ai quali, infine, fare riferimento per derivare le norme morali dell’agire concreto e della prassi operativa. Il tema del Convegno è estremamente importante quindi, sia per le evidenti ripercussioni sulla riflessione filosofico-antropologica ed etica, che per le notevoli prospettive applicative nel campo delle scienze biomediche e giuridiche. Lo Studio Teologico S. Paolo insieme con la Facoltà di Medicina dell’Università di Catania, in coerenza con le loro finalità istitutive, hanno avvertito il desiderio e la responsabilità di offrire alla comunità civile ed ecclesiale il loro contributo di riflessione, per riproporre all’attenzione di ognuno l’altissima dignità della vita umana. Il Convegno è stato pensato come occasione di un approfondimento e di un arricchimento comune attraverso l’ascolto delle relazioni e il dialogo con i partecipanti, lasciando per questo — in ogni sessione — un tempo considerevole agli interventi in aula. I lavori si svilupperanno in tre momenti di fondo: il primo, che sta per iniziare, dedicato alla scienza medica applicata alla procreazione assistita e alle cellule staminali; il secondo, domattina, tratterà le questioni bioetiche e giuridiche problematiche e in specie legate alla procreazione assistita; infine, il terzo e conclusivo momento del Convegno, domani pomeriggio, affronterà la questione delle cellule staminali nella duplice prospettiva di bioetica e di biodiritto, chiedendosi infine in che modo ripensare il significato della vita e della procreazione nell’attuale contesto. Il nostro Convegno non vuole contrapporre una “bioetica cattolica” ad una “bioetica laica”. L’essenza e il futuro della bioetica e del biodiritto sta nel promuovere e garantire nelle esperienze scientifiche il rispetto e la tutela della vita umana e della sua dignità, in tutte le tappe della sua esistenza. Si tratta di ritrovare un’esigenza di carattere universale e al tempo


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Vittorio Rocca

stesso scientifica, etica e giuridica, che ponga anche giusti limiti e apra ampie prospettive al lodevole sviluppo della genetica e della biotecnologia. Per questo occorre, se necessario, sapersi talora fermare, non varcare il limite. Dobbiamo nutrire fiducia nel senso di responsabilità degli scienziati ed è giusto che abbiano quella libertà di ricerca e di proposta che permette l’avanzamento della scienza e della tecnica, rispettando insieme i parametri invalicabili della dignità di ogni esistenza umana. Non si può fermare il progresso scientifico, ma lo si può aiutare ad essere sempre più responsabile. Non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione, ma di puntare sul senso etico che ciascuno ha dentro di sé. … fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza.

Vittorio Rocca

Nota redazionale Ci dispiace non poter offrire i testi di due interventi che hanno arricchito il Convegno: Biologia delle cellule staminali, del prof. Giovanni Principato dell’Università degli Studi di Ancona, e Sperimentazioni precliniche sull’uso terapeutico delle cellule staminali, del prof. Daniele Condorelli dell’Università degli Studi di Catania. Ci auspichiamo di poterli leggere quanto prima.


METODICHE DELLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA

CONCETTO MONTONERI*

INTRODUZIONE Fino a qualche decennio fa il problema della sterilità coniugale era poco sentito perché ci si sposava in età molto giovane e, quindi, da un lato si era avvantaggiati dai più alti tassi di fertilità spontanea, dall’altro le coppie riuscivano ad avere anche diversi figli prima che cominciassero ad incidere eventuali fattori di sterilità maschile e/o femminile. Pertanto, anche se dopo alcuni anni di matrimonio non si verificavano più concepimenti, il problema della sterilità non veniva preso in grande considerazione, poiché la coppia aveva già avuto dei figli. Oggi, invece, l’età del matrimonio o, comunque, l’età in cui le coppie cominciano a desiderare dei figli, è spostata molto più in avanti rispetto al passato per tutta una serie di motivi sociali, culturali, economici, ecc. Ciò comporta una maggiore incidenza dei fattori di sterilità che nel corso degli anni possono essersi manifestati (tab. 1) e, quindi, una maggiore presa di coscienza del problema. In altre parole, se una donna diventa sterile a 30-35 anni, per esempio per la comparsa di endometriosi, ne farà un dramma se si è appena sposata e desidera figli; invece, non se ne preoccuperà più di tanto, se, essendosi sposata a 18-20 anni, ha già avuto 2 o 3 figli.

* Ordinario di Ginecologia e Ostetricia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università degli Studi di Catania.


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Concetto Montoneri

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Diminuzione della fertilità spontanea Endometriosi Malattie sessualmente trasmesse e PID Promiscuità e patologie immunitarie Fattori inquinanti, alimentari, ambientali Varicocele, orchite Abitudini di vita (jeans, moto, alcool, droghe) Patologie da lavoro, ecc. Tabella 1 – Fattori di sterilità coniugale

Tutto questo ha determinato una sempre più pressante richiesta di assistenza da parte delle coppie desiderose di prole che si rivolgono al ginecologo per soddisfare quello che, a torto o a ragione, ritengono un loro diritto. Per conseguenza, si è venuto a costituire un settore autonomo della ginecologia con specialisti che si occupano esclusivamente o quasi del problema sterilità. In tal modo, da un lato sono state messe a punto tecniche di fecondazione assistita sempre più sofisticate, dall’altro sono stati approfonditi gli studi sulla fisiologia della riproduzione umana.

1. CENNI DI FISIOLOGIA DELLA RIPRODUZIONE UMANA A tal proposito, ricordiamo brevemente le principali tappe del processo riproduttivo: 1) Produzione dei gameti. I gameti maschili, spermatozoi (fig. 1), vengono prodotti dai testicoli a partire dalla pubertà e fino all’età avanzata. Durante il rapporto sessuale vengono immessi a milioni nelle vie genitali della donna e, essendo dotati di motilità propria, le risalgono fino a raggiungere la tuba. Durante il tragitto gli spermatozoi subiscono il processo della “capacitazione” che, come vedremo meglio più avanti, li rende idonei a fertilizzare l’ovocita. Giunti nel padiglione tubarico, gli spermatozoi hanno la possibilità di incontrare ed eventualmente fecondare l’ovocita.


Metodiche della procreazione medicalmente assistita

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Figura 1 – Liquido seminale contenente spermatozoi (per gentile concessione del prof. Bellanca – Centro di Sterilità – Policlinico di Catania).

Quest’ultimo costituisce il gamete femminile e viene prodotto dall’ovaio (fig. 2). Grazie ad un complesso sistema di controllo neuroendocrino, l’ovaio rilascia un ovocita ogni mese (ovulazione) dalla pubertà fino alla menopausa. L’ovocita, che non è dotato di motilità propria, viene captato dal padiglione della tuba e trasportato nel lume tubarico ad opera di una specie di “tapis roulant” costituito dalle ciglia vibratili dell’epitelio endotubarico.

Figura 2 – L’ovocita circondato dalla zona pellucida e dalla corona radiata (per gentile concessione del prof. Bellanca – Centro di Sterilità – Policlinico di Catania).


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Concetto Montoneri

2) Fecondazione. La fecondazione, cioè la fusione dei due gameti, si verifica entro 24 ore dall’ovulazione (14° - 15° giorno di un ciclo ideale di 28 giorni) ad opera dello spermatozoo che attraversa la zona pellucida, lo spazio perivitellino e la membrana ovocitaria fino a penetrare nel citoplasma dell’ovocita (fig. 3).

A

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D Figura 3 – Le tappe della fecondazione: lo spermatozoo si avvicina alla zona pellucida (A); la attraversa (B); giunge nello spazio perivitellino (C) e, superata la membrana ovulare, penetra nel citoplasma ovocitario (D) (da Edwards, 1980).


Metodiche della procreazione medicalmente assistita

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La conferma dell’avvenuta fecondazione è data dalla evidenziazione all’interno del citoplasma ovocitario dei due pronuclei, maschile e femminile, che si avvicinano uno all’altro per fondersi e dare così inizio alla costruzione del nuovo essere (fig. 4).

Figura 4 – Ovocita fecondato con evidenza dei due pronuclei (per gentile concessione del prof. Bellanca – Centro di Sterilità – Policlinico di Catania).

3) Segmentazione o clivaggio. Una volta avvenuta la fusione dei due pronuclei, l’ovocita fecondato comincia a dividersi in blastomeri: prima 2, poi 4, poi 8 e così via (fig. 5) fino a raggiungere lo stadio di “morula”. Quest’ultima è costituita appunto da un ammasso di blastomeri contenuti sempre all’interno della zona pellucida. Successivamente inizia la differenziazione dei blastomeri, che si suddividono in due grandi gruppi per formare da un lato gli annessi ovulari, dall’altro l’embrione. Si arriva, così, allo stadio di “blastocisti”, che ha la struttura di una vescicola rivestita dal trofoblasto (da cui si svilupperà la placenta) e contenente al suo interno il disco embrionario (da cui si svilupperà il feto).


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Concetto Montoneri

b Figura 5 – Pre-embrione allo stadio di 2 (a) e 4 blastomeri (b) (per gentile concessione del prof. Bellanca – Centro di Sterilità – Policlinico di Catania).

4) Trasporto dell’uovo fecondato. Mentre si vanno svolgendo le modificazioni illustrate, l’uovo fecondato viene trasportato all’interno della tuba fino a raggiungere la cavità uterina. Nel frattempo l’endometrio è andato incontro alla maturazione secretiva sotto l’azione del progesterone prodotto dal corpo luteo; in tal modo viene a determinarsi un terreno particolarmente adatto all’annidamento dell’uovo fecondato. In condizioni normali, queste diverse sequenze di avvenimenti (prime fasi di sviluppo ovulare, trasporto dell’uovo e trasformazione secretiva dell’endometrio) si svolgono nel giro di 6-7 giorni e sono perfettamente sincronizzate in modo tale che l’uovo fecondato verrà a trovarsi in cavità uterina nel momento in cui ha raggiunto lo stadio di blastocisti e quando l’endometrio è al massimo della sua maturazione (fig. 6).

Figura 6 – Dalla fecondazione all’impianto (da Grella et al., 2006).


Metodiche della procreazione medicalmente assistita

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5) Annidamento. Questa sincronizzazione è di fondamentale importanza per l’ulteriore evoluzione della gestazione. Allo stadio di blastocisti, infatti, l’uovo fecondato ha l’assoluta esigenza di impiantarsi, perché solo così potrà raggiungere i vasi materni, stabilire degli scambi a livello ematico e garantirsi la sopravvivenza. Ma, affinché tutto questo avvenga in maniera ottimale, la blastocisti deve trovarsi in cavità uterina e l’endometrio deve aver raggiunto un’adeguata maturazione secretiva. In caso contrario, la blastocisti sarà costretta ad impiantarsi in sede anomala o in un endometrio non preparato con conseguenze sfavorevoli. Per potersi impiantare nell’endometrio la blastocisti deve, però, liberarsi dalla zona pellucida che ancora l’avvolge mediante un processo che viene detto “hatching”; deve, poi, aderire alla superficie dell’endometrio attraverso il legame con le molecole di adesione cellulare; deve, infine, sviluppare a raggiera una serie di gettate trofoblastiche che si apriranno la strada attraverso l’endometrio fino a raggiungere i vasi che si trovano nello strato basale. Una volta compiute tutte queste fasi, l’annidamento è completato e la gravidanza potrà evolvere fino al parto, salvo imprevisti.

2. LE TECNICHE DELLA RIPRODUZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA Oggi le nostre conoscenze nel campo della fisiopatologia della riproduzione umana si sono talmente accresciute da consentirci di manipolare, quasi a nostro piacimento, molte delle tappe che abbiamo illustrato. Ciò comporta, ovviamente, considerevoli problemi di natura etica, religiosa, morale, giuridica, sociale, ecc., problemi che non possono essere affrontati in questa sede, ma che un medico non può dimenticare ogni volta che si trova davanti ad una coppia che desidera figli. In base al livello di complessità le tecniche di procreazione medicalmente assistita si suddividono in • I livello: rapporti mirati e inseminazione artificiale, con o senza stimolazione ovarica; • II livelllo: fecondazione in vitro e trasferimento dell’embrione (FIVET, GIFT, ZIFT, TET); • III livello: “facilitazione” del processo di fertilizzazione (PZD, SUZI, ICSI).


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Concetto Montoneri

Rapporti mirati. I rapporti vengono concentrati nel periodo ovulatorio allo scopo di favorire al massimo le probabilità di concepimento. Poiché nella donna il periodo ovulatorio non è riconoscibile da segni esteriori come avviene in altre specie animali, è necessario individuarlo con metodiche specifiche. A tale scopo sono stati utilizzati metodi naturali (metodo del calendario, temperatura basale, modificazioni del muco cervicale, ecc.); metodi ecografici (monitoraggio dell’ovulazione); metodi ormonali (dosaggio della gonadotropina LH) e persino metodi elettronici, utilizzando piccoli computer in grado di dosare l’estradiolo e l’LH presenti nelle urine e di calcolare il periodo fecondo (Persona, Clearplan, Evatest, Midstream, Femina LH, BabyComp, Clearblue). Inseminazione artificiale. Quando la sterilità è dovuta ad anticorpi anti-spermatozoo presenti nel muco cervicale, il liquido seminale viene iniettato direttamente in cavità uterina allo scopo di fargli superare, appunto, la barriera del muco cervicale. L’inseminazione artificiale comporta anche un accorciamento del lungo viaggio che gli spermatozoi devono compiere nelle vie genitali femminili per raggiungere l’ovocita. Pertanto, questa tecnica può essere utile anche nei casi di oligoastenospermia. Il liquido seminale, oltre che in cavità uterina, può essere iniettato anche nel canale cervicale, nella tuba o in cavità peritoneale, ma si tratta di tecniche poco utilizzate. L’inseminazione può essere effettuata con seme del partner oppure con seme di un donatore, nei casi in cui il seme del partner non è idoneo (per es., azoospermia). Quest’ultima alternativa, però, in Italia non è più consentita dopo l’approvazione della legge 40/04. Fecondazione in vitro e trasferimento dell’embrione. Questa tecnica ha lo scopo di mettere direttamente a contatto l’ovocita ed il liquido seminale, opportunamente capacitato, in modo da eliminare sia il lungo tragitto che gli spermatozoi devono compiere per raggiungere l’ovocita, sia gli eventuali ostacoli meccanici che possono impedire la fecondazione (per es., occlusione tubarica). Può essere attuata con seme e ovociti dei due partner oppure con


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seme e/o ovociti di donatori esterni alla coppia. Quest’ultima alternativa, però, in Italia non è consentita. Una volta prelevati, gli ovociti ed il liquido seminale sono posti in una provetta che viene sempre mantenuta in incubatore a CO2 a 37° per tre giorni. Dopo 24 ore si procede all’asportazione della corona radiata che avvolge gli ovociti (scoronamento) mediante manovre meccaniche con pipette Pasteur. Successivamente si controlla se è avvenuta la fertilizzazione mediante osservazione dei due pronuclei. Il terzo giorno si procede al transfer degli embrioni. Come vedremo meglio più avanti, dal punto di vista tecnico, è possibile stimolare l’ovaio con gonadotropine in modo da far maturare diversi follicoli e prelevare così numerosi ovociti. Questi potrebbero essere sottoposti tutti a fertilizzazione in provetta; in alternativa, una parte potrebbe essere congelata per essere utilizzata in cicli successivi, evitando così alla donna i rischi ed i problemi di una nuova stimolazione ovarica. Anche per quanto riguarda il transfer, gli ovociti fertilizzati potrebbero essere trasferiti tutti oppure solo in parte; in quest’ultimo caso, gli embrioni non trasferiti vanno congelati per poterli utilizzare in un’altra occasione. Infine, sempre dal punto di vista tecnico, prima di effettuare il trasferimento degli embrioni è possibile sottoporli alla cosiddetta diagnosi preimpianto onde evitare il transfer di eventuali embrioni malformati. Tuttavia, la legge italiana attualmente prevede che non possano essere prelevati più di tre ovociti con l’obbligo, se fertilizzati, di trasferirli tutti senza effettuare la diagnosi pre-impianto. Ciò ha lo scopo di evitare sia il rischio di gravidanze plurigemellari, pericolose per la madre e per i feti, sia l’accumulo di embrioni congelati, di cui si finisce spesso per non sapere cosa fare. Invece, la proibizione di effettuare la diagnosi pre-impianto comporta la necessità, per le donne che lo desiderano, di ricorrere alla villocentesi o all’amniocentesi e poi, eventualmente, all’interruzione volontaria di gravidanza con tutte le comprensibili implicazioni psicologiche. Tecniche di III livello. Sono le più complesse ed hanno lo scopo di facilitare al massimo il processo di fertilizzazione mediante micromanipolazione dell’ovocita. Le tecniche proposte sono:


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• Dissezione parziale della zona pellucida (PZD) – Gli spermatozoi vengono iniettati all’esterno della zona pellucida adeguatamente assottigliata • Inseminazione sub-zonale (SUZI) – Gli spermatozoi vengono iniettati nello spazio perivitellino • Iniezione intracitoplasmatica di uno spermatozoo (ICSI) – È la più nota e la più usata fra le tecniche di III livello; consiste nell’iniezione di un solo spermatozoo direttamente all’interno del citoplasma ovocitario. Le tappe della riproduzione medicalmente assistita. Per procedere ad una tecnica di riproduzione medicalmente assistita è necessario procedere per tappe ben codificate e regolate da norme precise: 1) Prelievo degli spermatozoi – A seconda dei casi, può essere effettuato per ipsazione, per aspirazione transcutanea attraverso la pelle dello scroto, per estrazione a cielo aperto mediante incisione chirurgica. Come già detto, gli spermatozoi possono essere prelevati dal partner o da un donatore (non in Italia), in caso di necessità possono essere congelati per essere utilizzati in una seconda occasione. 2) Capacitazione del seme – Come sappiamo, gli spermatozoi, maturati nell’epididimo e quindi eiaculati, non sono ancora in grado di fertilizzare l’ovocita; devono, infatti, risiedere per un certo tempo nelle vie genitali femminili per acquisire questa capacità. Tali modificazioni fisiologiche vanno sotto il nome di “capacitazione”. Molto verosimilmente la capacitazione avviene grazie alla rimozione dalla superficie della membrana plasmatica degli spermatozoi di sostanze adsorbite o integrate durante il passaggio attraverso l’epididimo in modo da rendere la membrana stessa capace di riconoscere l’ovocita o comunque di reagire con sostanze secrete da questo. La capacitazione rende lo spermatozoo in grado di sviluppare una corretta reazione acrosomiale e, quindi, di attivare gli enzimi idrolitici contenuti nell’acrosoma. Solo così lo spermatozoo potrà penetrare attraverso la zona pellucida, fondersi con la membrana plasmatica dell’ovocita e fertilizzarlo. È, quindi, chiaro che gli spermatozoi prelevati per essere utilizzati per le tecniche di fecondazione assistita devono essere sottoposti preliminar-


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mente ad un processo artificiale di capacitazione, in quanto non possono percorrere il fisiologico tragitto attraverso le vie genitali femminili. Questo tipo di capacitazione viene ottenuta mediante centrifugazione ed incubazione in idoneo terreno di coltura. 3) Prelievo degli ovociti – Nel ciclo ovarico fisiologico generalmente arriva a maturazione un solo follicolo, detto dominante, e, quindi, viene ovulato un solo ovocita. Per le tecniche di fecondazione assistita, invece, è necessario prelevare più di un ovocita per aumentare le probabilità di successo. La donna viene, pertanto, sottoposta ad un pesante trattamento gonadotropinico allo scopo di aumentare il numero di follicoli che arriveranno contemporaneamente all’ovulazione. È anche necessario uno stretto monitoraggio ormonale ed ecografico per evitare il rischio della pericolosa sindrome da iperstimolazione ovarica. Al momento opportuno si procederà al prelievo degli ovociti, pungendo i follicoli pronti per ovulare ed aspirando il liquido endofollicolare contenente l’ovocita. Il prelievo viene attuato per via laparoscopica o, più spesso, per via transvaginale sotto guida ecografica. L’intervento può essere eseguito sulla stessa donna appartenente alla coppia oppure su donatrice esterna (non in Italia). Se necessario, gli ovociti possono anche essere congelati per essere utilizzati successivamente. 4) Selezione degli ovociti maturi – Non tutti gli ovociti prelevati sono idonei alla fecondazione; prima di procedere è, quindi, necessario che il biologo provveda ad identificare gli ovociti più maturi, scartando gli altri. Questa selezione può essere fatta osservando se è stato espulso il primo globulo polare (indice dell’avvenuto completamento della prima divisione meiotica) oppure valutando il grado di dispersione della corona radiata e/o l’aspetto dell’ooplasma. 5) Inseminazione degli ovociti – Gli ovociti così selezionati vengono, infine, inseminati mettendoli a contatto con gli spermatozoi in provetta oppure utilizzando una delle tecniche di terzo livello già illustrate. Come già detto, gli ovociti inseminati vengono mantenuti in stufa a CO2 a 37° per 3 giorni. 6) Controllo dei due pronuclei – Dopo 24 ore dall’inseminazione si verifica l’avvenuta fertilizzazione, controllando se si sono sviluppati i due pronuclei. 7) Diagnosi pre-impianto – Una volta iniziata la segmentazione dell’uovo fecondato, si potrebbe prelevare uno dei blastomeri per studiarne


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Concetto Montoneri

il cariotipo e, quindi, escludere dal transfer gli embrioni malformati. Questa procedura, lo ripetiamo, non è consentita in Italia. 8) “Assisted hatching” – Dopo 3 giorni di incubazione gli embrioni, o pre-embrioni che dir si voglia, si trovano allo stadio di 4-8 cellule, ancora avvolti dalla zona pellucida. Per potersi annidare nell’endometrio essi devono, però, liberarsi di questo involucro con un procedimento che in linguaggio tecnico viene indicato con il termine inglese “hatching” che vuol dire “uscire dall’uovo”, “sgusciare”. In condizioni così lontane dalla fisiologia è, però, possibile che questo processo avvenga con difficoltà o non avvenga affatto, impedendo, quindi, l’annidamento degli embrioni trasferiti. Pertanto, in alcuni casi si consiglia di agevolare il processo di hatching, frammentando la zona pellucida con tecniche di micromanipolazione prima di effettuare il transfer. 9) Valutazione della qualità degli embrioni – Questa valutazione avrebbe lo scopo di selezionare gli embrioni più idonei per il transfer, ma, come sappiamo, si tratta di una procedura non consentita dalla legge italiana. 10) Transfer – Ripetiamo che in Italia il trasferimento deve coinvolgere tutti gli embrioni prodotti (al massimo tre) senza alcuna forma di selezione. Inoltre, il transfer è obbligatorio nel senso che il medico deve effettuarlo comunque (con la sola eccezione del sopraggiungere di gravi condizioni mediche che non erano prevedibili in precedenza). La legge, tuttavia, non chiarisce cosa dovrebbe fare il medico nel caso, raro ma non impossibile, che la donna dovesse semplicemente cambiare idea e rifiutare di sottoporsi all’intervento. Gli embrioni possono essere trasferiti nella tuba della donna (TET) per consentire un’ulteriore maturazione prima dell’impianto e avvicinarsi, quindi, alle condizioni fisiologiche oppure, più frequentemente, possono essere trasferiti direttamente nell’utero, adeguatamente preparato mediante somministrazione di progesterone (FIVET). In quest’ultimo caso, però, si altera profondamente il meccanismo fisiologico dell’impianto che, come sappiamo, prevede l’annidamento allo stadio di blastocisti e non allo stadio di 4-8 cellule. Tale asincronia tra stadio embrionario e ambiente uterino potrebbe essere responsabile della bassa percentuale di gravidanze legata a queste tecniche. Questa bassa percentuale è in netto contrasto con le percentuali della fecondazione che si verifica, invece, quasi nel 100% dei casi. Ciò


Metodiche della procreazione medicalmente assistita

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dimostra che conosciamo abbastanza bene i meccanismi di controllo dell’ovulazione, ma ancora non conosciamo quelli che regolano il processo di annidamento dell’uovo fecondato. In casi particolari, come ad esempio la mancanza dell’utero nella partner femminile, gli embrioni potrebbero essere trasferiti nell’utero di un’altra donna, sottoposta ad adeguata preparazione con progesterone (cosiddetta madre surrogata o utero in affitto). Questa tecnica, largamente adoperata negli U.S.A., non è, però, consentita in Italia. Infine, gli embrioni potrebbero essere congelati per essere utilizzati in un’altra occasione (per esempio, desiderio di un secondo figlio) senza sottoporre nuovamente la donna alle lunghe e complesse procedure illustrate. La legge italiana, però, come abbiamo visto, lo consente soltanto per motivi medici; ad esempio, quando vi è rischio di iperstimolazione ovarica, il medico non può eseguire il transfer ed è autorizzato a congelare gli embrioni. In questo caso, gli embrioni congelati andranno comunque trasferiti al più presto possibile, quando il rischio di iperstimolazione sarà scomparso.

CONCLUSIONI Da tutto quel che si è detto, appare chiaro come le moderne tecniche di procreazione medicalmente assistita siano considerevolmente avanzate e consentano procedure che possono sollevare notevoli dubbi e riserve in molti individui. È per questo motivo che la legge 40 del 2004 ha cercato di mettere una serie di paletti per arginare l’anarchia che si era venuta a creare nel settore con esagerazioni talvolta veramente esasperate. Come sempre, però, si è passati da un eccesso all’altro, guidati dall’idea che ciò che è giusto per me deve essere giusto per tutti. Si è arrivati, così, a vietare anche procedimenti largamente accettati e poco controversi, procedimenti che, fra l’altro, sono correntemente effettuati in molti stati esteri, anche vicini all’Italia (Francia, Svizzera, Inghilterra, Malta, Cipro e persino S. Marino). In tal modo chi può permetterselo non deve far altro che rivolgersi, come si usa dire, al dott. Alitalia. Non resta che sperare in una prossima revisione della normativa che corregga almeno le pecche più gravi, tenendo conto dei desideri di questo tipo di pazienti.



NODI PROBLEMATICI DELL’ATTUALE DIBATTITO IN BIOETICA MEDICA GIOVANNI RUSSO*

1. PROBLEMATICITÀ E RISORSA DELLE MOLTE VISIONI ETICHE La molteplicità delle visioni etiche può portare a una grande risorsa, ma nello stesso tempo alla paralisi nell’esercizio della medicina, a rapporti difficili con i pazienti, i familiari o i colleghi. Trattando della disponibilità della vita in fase iniziale o terminale, spesso suscita conflitti che hanno effetti e conseguenze notevoli sia sui pazienti che sui medici. I conflitti etici non risolti sono motivo di incomprensioni, di problemi legali, di stress e di sentimenti emotivi negativi per il medico. Perciò è forte la tentazione di evitare — almeno mentalmente — ogni etica nella pratica e professarsi eticamente “neutri”. In realtà i valori umani e l’etica influenzano considerevolmente la pratica clinica, per cui l’ipotesi di neutralità morale risulta non molto percorribile. Nessun uomo può pretendere l’obbiettività assoluta o la neutralità etica delle sue azioni. D’altra parte, vivere oggi nelle nostre società pluralistiche e multiculturali per lo più secolarizzate, con una molteplicità di visioni etiche, rende quasi impossibile un consenso in materia di valori morali. L’idea di “neutralità morale” nasce dal presupposto che le nostre società sono multiculturali e multireligiose, con diverse visioni di vita1. Siamo quindi “stranieri morali”, nel senso che le nostre visioni etiche sono diverse e inconciliabili. La neutralità morale parte dal presupposto che non *

Ordinario di Bioetica presso l’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina. Sull’argomento si veda F.J. BECKWITH – J.F. PEPPIN, Physician value neutrality: A critique, in The Journal of Law, Medicine and Ethics 28 (2000) 1, 78-80. 1


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bisogna presupporre alcuna particolare concezione del bene morale2. I medici, si dice, dovrebbero tenere fuori i loro valori etici dalla relazione con i pazienti e nella pratica della medicina. La maggiore influenza sul concetto di neutralità morale viene dal liberalismo politico (che si basa su prospettive come il socialismo democratico e il liberalismo secolare). Sulla base di questa visione, lo Stato deve essere “neutro”, rispetto alle diverse visioni morali dei suoi cittadini3. Ma se da una parte lo Stato non adotta una particolare visione morale, perché vuole rispettare le diverse concezioni presenti nella comunità politica, di fatto impone una visione etica particolare, quella del liberalismo, che ha conseguenze morali sulla vita dei cittadini. Tali conseguenze morali sarebbero un’imposizione su alcune componenti della comunità politica, per cui un liberalismo “eticamente neutro” finisce per diventare di fatto “di parte”, nel senso che è “contro” alcuni. È stato autorevolmente affermato da Pellegrino che non è poi affatto vero che il liberalismo politico sia metafisicamente e religiosamente neutrale. Infatti, la concezione liberale della natura dell’uomo e della società è filosoficamente partigiana ed è da considerarsi una “dottrina comprensiva” come le altre che vengono dal liberalismo rifiutate. Una comunità politica, come la società, dove le persone hanno idee diverse, non è per questo una società “neutrale”. Dice giustamente Pellegrino: “Non c’è modo per considerare le decisioni cliniche come ‘moralmente neutre’, per cui l’intera idea è una contraddizione in termini”4.

2. “ISOLARE” LE SCELTE MORALI IN BIOETICA? Molto opportunamente F.J. Beckwith e J.F. Peppin si sono domandati: “Non è chiaro come coloro che supportano la neutralità morale del medico, possano suggerire la rimozione dei valori morali dalla relazione medico-paziente senza rimuovere la realtà che vorrebbero proteggere (lo 2

Cfr. M.J. SANDEL, Liberalism and the limits of justice, Cambridge 1982, 1. J. RAWLS, Political liberalism, New York 1993; ID., A theory of justice, Cambridge (MA) 1871. 4 E.D. PELLEGRINO, Commentary: Value neutrality, moral integrity, and the physician, in The Journal of Law, Medicine and Ethics 28 (2000) 1, 78-80: 79. 3


Nodi problematici dell'attuale dibattito in bioetica medica

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speriamo), ad esempio, il valore intrinseco della persona”5. Insomma, come è possibile offrire proposte terapeutiche senza alcun riferimento a qualche valore? Ogni persona ha una qualche impostazione e questa, appunto, è quella che è e non può essere neutra. La vita politica dimostra l’impossibilità e l’insensatezza di questa visione. È pazzesco pensare di “isolare” le nostre scelte morali, perché oggi viviamo in una realtà in cui anche la nostra vita personale e le nostre scelte hanno conseguenze significativamente “collettive”: si pensi all’etica e ai valori umani nelle comunicazioni in genere, nei media, nel commercio e negli affari, nei trasporti, nell’ecosistema, nei disastri naturali negli avanzamenti delle biotecnologie, incluse quelle riguardanti la salute umana. Noi, insomma, non abbiamo un’esperienza di vita in completo isolamento. I grandi valori della vita sono tali che ci coinvolgono seriamente sia a livello individuale che sociale e politico. Ogni persona nasce in una famiglia o in una comunità che porta e condivide valori morali, che la fa crescere con senso di responsabilità per quei valori e che gli struttura un prestigio sociale (il riconoscimento di prestigio nasce in una comunità che ha dei valori etici) anche sulla base del rispetto di quei valori. Il problema dei valori morali nasce dal fatto non che ci riguardano in maniera individuale e con scelte autonome, ma per il fatto che le nostre scelte morali hanno conseguenze anche sugli altri.

3. IL NODO PROBLEMATICO PER ECCELLENZA: IL CONCETTO DI “PERSONA” a. Centralità del concetto di persona in bioetica Il nodo problematico per eccellenza in bioetica rimane quello del concetto di “persona”. La bioetica non può prescindere dal concetto di “persona”. Tutto il dibattito sorto attorno alla posizione di H.T. Engerhardt, Jr. è essenzialmente un dibattito sulla sua concezione della persona e sulla sua esclusione dal mondo delle persone di soggetti umani in alcune condizioni patologiche gravi. Se in etica medica abbiamo dei doveri morali è perché ci troviamo davanti a persone. Alcuni sociologi che hanno criticato 5

F.J. BECKWITH – J.F. PEPPIN, Physician value neutrality, cit., 67.


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fortemente il concetto di persona, non sono poi riusciti nell’intento, perché il dibattito in bioetica è più vivo che mai. F. Ferrarotti, ad es., volendo affermare il primato del corpo sulla persona sostiene che il concetto di persona è insostenibilmente leggero quanto il concetto di essere. La persona gli appare un’astrazione mistificante, «un manichino tirato a lucido, raffinatamente definito in ogni sua parte, ma rigido, statico, dato una volta per tutte»6. Ma la centralità del concetto di persona in bioetica non viene dalla concettualità, ma dalla concretezza della persona e dai doveri morali nei suoi confronti. La persona non è un mero principio etico, ma è la fonte dei principi. La persona è il punto di partenza e di conclusione di tutto l’argomentare in bioetica, perché nel suo essere ha una dignità intangibile e indisponibile che viene prima di ogni concettualizzazione. Prima dei principi viene la persona, prima delle argomentazioni bioetiche viene la persona, prima del mercato e delle politiche sanitarie viene la persona, prima della valutazione costi-benefici viene la persona. La persona è più che un paradigma o un modello di riferimento, perché la persona è un fine e mai un mezzo.

b. La posizione di H.T. Engelhardt Fino a qualche tempo fa si ammetteva pacificamente che era persona “ogni” essere umano e “solo” l’essere umano: i due termini — persona ed essere umano — erano coestensivi: dove c’era un essere umano là c’era una persona e solo un essere umano poteva essere detto persona7. Più recentemente, H.T. Engelhardt, Jr., noto esponente del contrattualismo, ha dato origine a un forte dibattito per la posizione che ritiene che ci sono esseri umani che non sono persone, perché l’essere umano non coincide di per sé con l’essere persona8.

6

F. FERRAROTTI, Teologia per atei, Bari 1983, 165. Cfr. “Chi” è persona? Persona umana e bioetica, in La Civiltà Cattolica 4 (1992) 547-559; C. VIAFORA (cur.), La bioetica alla ricerca della persona negli stati di confine, Padova 1994, 19-42; G. SAVAGNONE, Metamorfosi della persona. Il soggetto umano e non umano in bioetica, Leumann (TO) 2004. 8 H.T. ENGELHARDT, JR., Manuale di bioetica, Milano 1991. 7


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Riportiamo letteralmente il pensiero di Engelhardt: «Non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane. Tali entità sono membri della specie umana. Non hanno status, in sé per sé, nella comunità morale. Non sono in grado di biasimare o lodare, né di essere meritevoli di biasimo o elogio. Non sono partecipanti primari all’impresa morale. Solo le persone hanno questo status. È a causa dell’interesse per la morale che si discorre delle persone in quanto agenti morali. Si parla di persone per identificare le entità che è possibile biasimare o lodare con un valido motivo, che possono a loro volta biasimare e lodare e che di conseguenza possono svolgere un ruolo nel nucleo della vita morale. Per impegnarsi nel discorso morale, tali entità dovranno riflettere su se stesse; devono perciò essere autocoscienti. Dovranno inoltre essere capaci di concepire regole d’azione per sé e gli altri per immaginare la possibilità della comunità morale. Dovranno essere esseri razionali. Tale razionalità dovrà comprendere una concezione della nozione di merito di biasimo ed elogio: un senso morale minimo. I malati di mente cesserebbero di essere agenti morali (persone in senso morale) solo se perdessero perfino la capacità di concepire il merito di biasimo, fino al punto da non poter rimproverare a coloro che facessero loro del male. Queste tre caratteristiche di autocoscienza, razionalità e senso morale identificano quelle entità capaci di discorso morale. Queste caratteristiche danno a quelle entità i diritti e gli obblighi della morale del rispetto di sé. Il principio di autonomia e il suo svolgimento nella morale del rispetto reciproco si applicano solo agli esseri autonomi. Riguarda solo le persone. La morale dell’autonomia è la morale delle persone. Per questa ragione non ha senso parlare di rispetto dell’autonomia dei feti, degli infanti o degli adulti gravemente ritardati, che non sono mai stati razionali. Non c’è autonomia da ledere. Il fatto di trattare tali entità senza riguardo per ciò che non possiedono, e non hanno mai posseduto, non le priva di nulla. Esse sono al di fuori del santuario interno della morale»9.

Alla base di queste affermazioni c’è il principio che si deve qualificare come persona chi dimostra empiricamente di possederne le caratteristiche. Ora, secondo Engelhardt, dall’osservazione dei fatti risulta che le 9

Ibid., 127.


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caratteristiche delle persone sono essenzialmente tre: l’autocoscienza, la razionalità, il senso morale, almeno in grado minimo. Se quindi un essere appartenente alla specie umana mostra di non possedere attualmente queste tre caratteristiche, pur essendo un essere umano, non è una persona10. Lo stesso Engelhardt, riassume la sua posizione: «Non tutte le persone devono necessariamente essere umane, e non tutti gli esseri umani sono persone. Per comprendere la geografia degli obblighi nell’assistenza sanitaria riguardo ai feti, agli infanti, ai ritardati morali gravi e a coloro che hanno subito gravi danni al cervello, sarà necessario determinare lo status morale delle persone e della mera vita umana biologica, e poi sviluppare dei criteri per distinguere tra queste classi di entità […]. Per ordinare e distinguere gli obblighi che si hanno verso gli adulti in grado di intendere e di volere, gli infanti, i feti coloro che hanno subito gravi danni al cervello, sarà necessario valutare il significato morale delle differenti categorie di vita umana […]. Le persone sono tali quando hanno le caratteristiche delle persone, quando sono autocoscienti, razionali e in possesso di un senso morale minimo. Tali entità sono persone in senso stretto»11.

Su coloro che non sono ritenuti persone in senso stretto (ritardati mentali gravi e malati comatosi), Engelhardt afferma: «Tali entità non sono persone in alcun senso stretto. Ma noi siamo di solito interessati ad accordare loro molti dei diritti normalmente goduti dalle persone adulte»12. E allora che cosa fare di questi esseri che non hanno lo status di persona? La risposta è che anche se non si accordano speciali diritti morali alle persone meramente possibili, si può pur sempre concepire il loro status alla luce di quello delle future persone effettive. «Le persone future possono avere lo status di persone effettive che noi sappiamo esisteranno in futuro. Se qualcuno piazza una bomba nelle fondamenta di una scuola elementare, con un congegno a tempo regolato in modo da farla esplodere fra quindici anni, ha l’intenzione di uccidere delle persone effettive che esisteranno in futuro […]. Considerazioni relative ai diritti condizionali di persone future proteggono dalla mutilazione le entità che 10 11 12

“Chi” è persona? Persona umana e bioetica, cit., 548. H.T. ENGELHARDT, JR., Manuale di bioetica, cit., 128. Ibid., 136.


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diventeranno persone. Non proteggono gli infanti, i ritardati mentali gravi o coloro che soffrono di morbo di Alzheimer in uno stato avanzato dall’essere uccisi a capriccio in modo indolore. Ciò che si deve ricercare sono le sono le ragioni che possano giustificare le pratiche attraverso le quali si riconosce per consuetudine agli infanti, ai ritardati mentali gravi e agli individui in stato di senilità avanzata una parte dei diritti goduti dalle entità che sono persone in senso stretto, compresa la protezione di essere uccisi a capriccio»13.

Ecco come Engelhardt sintetizza il suo pensiero sui “vari sensi di persona” in medicina:

«Lasciate che riassuma che cosa questo comporti riguardo a parecchi sensi di persona importanti per la medicina. Anticipatamente, si possono fare le seguenti distinzioni. C’è un senso di persona in quanto agente morale, che ho denominato essere persona in senso stretto (si potrebbe chiamarlo persona1), che si contrappone a un senso sociale di persona, alla quale vengono accordati all’incirca i pieni diritti delle persone in senso stretto, come nel caso dei bambini piccoli (persona2). Un senso sociale di persona viene riconosciuto anche ai neonati, ma non è ancora così forte o così sicuro come quello degli infanti in generale (persona3). Lo status del neonato muta in quello del bambino piccolo una volta che vi sia un impegno per quel livello di trattamento. Un senso sociale di persona viene anche riconosciuto a individui che non sono più, ma un tempo furono persone1 e che sono ancora capaci di interazioni minime (persona4), e anche in casi come quello dei ritardati e dementi molto gravi, che non furono e non saranno mai persone in senso stretto (persona5). È possibile anche attribuire un senso sociale di persona a certi esseri umani gravemente menomati (cioè i soggetti in coma grave e permanente), che non possono interagire nemmeno in ruoli sociali minimi […]. Il diritto dovrebbe essere riformato in modo che essi possano essere dichiarati morti»14.

13 14

Ibid., 136-137. Ibid., 140-141.


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c. Il pensiero di P. Singer Un altro esponente, dal versante utilitarista, è Peter Singer15. Per Singer è persona ogni essere razionale e autocosciente. La qualità di persona si basa sulla capacità di provare piacere e sentire dolore. Nello stato vegetativo persistente cessa la vita personale e rimane la vita biologica, che da sola non può dare a un essere il connotato di persona. Anche gli esseri che sono capaci soltanto di soffrire, non sarebbero persone e pertanto sarebbe giustificata la loro uccisione16. Di fronte a un malato terminale o in stato vegetativo Singer fa sua la distinzione di J. Rachels tra “vita biologica” e “vita biografica”. Nello stato vegetativo c’è vita biologica, ma è cessata la vita biografica. «Il corpo è vivo, la persona non lo è più»17. Tali esseri, vivi soltanto in senso fisico, senza nessuna prospettiva di riacquistare la coscienza, non hanno nessun connotato di persone18. Ma vi è di più. Seguendo i presupposti singeriani, il cerchio dell’etica non soltanto lascia fuori gli esseri umani incapaci di soffrire, ma anche tutti quelli che sono solo in grado di soffrire. Ciò giustifica la soppressione di tutti quegli esseri umani la cui vita sarebbe così penosa da non essere degna di essere vissuta. «Quando la vita di un bambino sarà così penosa da non valere la pena di essere vissuta, se non ci sono ragioni estrinseche per tenere il bambino in vita — come i sentimenti dei genitori — è meglio ucciderlo». Secondo Singer è questa la situazione, ad es., del neonato che soffre di spina bifida. «Uccidere un neonato con malformazioni non è moralmente equivalente di uccidere una persona»19. Per Singer, il concetto di persona dovrebbe essere attribuito anche alle scimmie antropomorfe e ad altri animali, che per tali motivi sarebbero soggetti di “diritti civili”20. Così sono persone alcuni animali che sono 15

P. SINGER, Etica pratica, Napoli 1989. Cfr. G. FASANELLA – N. SILVESTRI – E. SGRECCIA, Coma, in S. LEONE – S. PRIVITERA (curr.), Dizionario di bioetica, Acireale-Bologna 1994, 158-162: 159. 17 M. MORI (cur.), Bioetica: delucidazioni e problemi, intervista con P. Singer, in Iride 3 (1989) 180. 18 L.c. 19 P. SINGER, Etica pratica, cit., 140. 20 ID., Liberazione animale, Roma 1986. 16


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coscienti, hanno un linguaggio e sono capaci di pensare, come gli scimpanzé e i gorilla, le balene e i delfini, i maiali, i cani e i gatti; mentre non sono persone gli esseri umani che non sono coscienti e sono incapaci di razionalità, come gli esseri umani mentalmente ritardati. Perciò, bisogna «rifiutare la teoria per cui la vita dei membri della nostra specie ha più valore di quella dei membri di altre specie. Alcuni esseri appartenenti a specie diverse dalla nostra sono persone; alcuni esseri umani non lo sono. Nessuna valutazione oggettiva può attribuire alla vita di esseri umani che non sono persone maggior valore che alla vita di esseri di altre specie che lo sono. Al contrario, abbiamo ragioni molto forti per dare più valore alla vita delle persone che a quella delle non-persone. E così, sembra che sia più grave uccidere, per es., uno scimpanzé, piuttosto che un essere umano gravemente menomato, che non è una persona»21

In generale, la regola morale circa il trattamento degli esseri umani non-persone è l’utilità di coloro che sono persone e quella della società. Infatti, gli esseri umani non-persone non avrebbero un valore intrinseco, appunto per il fatto che non sono persone, ma hanno valore solo rispetto alle persone, nel senso che il loro valore dipende da quello che ad essi attribuiscono le persone, e solo rispetto alla società, nel senso che questa deve stabilire quale considerazione si deve attribuire loro in base al rapporto tra i benefici che comporta il farli continuare a vivere e gli oneri economici e sociali che la loro sopravvivenza impone22. Lo stesso autore ammette la liceità dell’infanticidio: «Un bambino di una settimana non è un essere razionale e autocosciente, e vi sono molti animali non-umani, la cui razionalità, autocoscienza, consapevolezza, capacità di sentire, e così via, sono superiori a quella di un bambino umano di una settimana, o anche di un anno. Se il feto non ha la stessa pretesa alla vita di una persona, sembra che non l’abbia neppure il neonato, e che la vita di un neonato abbia meno valore della vita di un maiale, un cane o uno scimpanzé»23. 21

ID., Etica pratica, cit., 102. In pratica, ad es., sarebbero i genitori che attribuiscono valore all’embrione, al feto, al bambino, in quanto il figlio è per essi un valore nel senso che soddisfa il loro desiderio o il loro bisogno di avere un figlio. 23 P. SINGER, Etica pratica, cit., 126. 22


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Questa conclusione “può anche essere presa in considerazione nel caso di persone che a causa di un incidente o della vecchiaia, non sono più autocoscienti, razionali ed autonome”24. Alla base di questa visione delle cose c’è l’utilitarismo, secondo il quale il valore supremo della vita è la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore. Perciò la vita ha valore nella misura in cui l’essere vivente è capace di “sentire” il piacere. Quindi una vita che non sia capace di avere coscienza del piacere e del dolore non ha nessun valore morale e non merita nessuna considerazione. Dove sta l’errore di questa impostazione? Nel non riuscire a vedere che l’autocoscienza e la razionalità — e qualsiasi altro atto che qualifica la persona — si fondano sull’essere della persona in sé, che sussiste appunto anche quando gli atti non ci sono ancora o non ci sono più. Infatti, «se la persona fosse costituita dagli atti di autocoscienza e di razionalità, si dovrebbe dire che chi dorme, per tutto il tempo che dorme, non è persona, oppure che non è persona l’uomo ubriaco che abbia perduto l’autocoscienza e che non sia più in grado di ragionare»25.

d. La scissione tra “essere umano” e “persona” Indubbiamente, l’autocoscienza e la razionalità sono segni della persona e noi possiamo conoscere la persona analizzando questi segni. Dunque, è giusto dire che dove ci sono autocoscienza e razionalità lì c’è la persona. Ma queste operazioni che indicano la persona non si identificano con essa. La persona è il “soggetto” delle “operazioni”, ma esse si distinguono dal loro soggetto. Questo è certamente “in” esse, in quanto agisce per mezzo di esse, ma è anche “oltre” esse. Se non ci fosse una realtà sostanziale che unifica, come potrebbe la persona riconoscere come sue tali operazioni? Non si possono identificare gli “atti” con il “soggetto” che li produce.

24 25

Ibid., 134. “Chi” è persona? Persona umana e bioetica, cit., 551-552.


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«La persona non è dunque l’atto dell’autocoscienza e della razionalità, ma è il principio sostanziale e permanente da cui scaturiscono le operazioni dell’autocoscienza e della razionalità. Questo significa che l’autocoscienza e la razionalità sono della persona non come “atti”, ma come “possibilità” che si traducono in atti quando ci sono tutte le condizioni richieste perché esse possano attuarsi»26.

L’autocoscienza, la razionalità e la libertà, in quanto operazioni, lo sono di un soggetto, cioè sono manifestazioni di un soggetto: non esistono, infatti, l’autocoscienza o la razionalità o la libertà, che sono concetti astratti, ma esiste il soggetto autocosciente, razionale e libero. Perciò, dove troviamo l’autocoscienza, la razionalità e la libertà, là dobbiamo pensare che esista un soggetto autocosciente, razionale e libero. Questo soggetto non si appoggia ad un altro essere, non è il predicato di un altro essere, ma è “in sé”, sussiste in sé e per sé. L’esperienza della soggettività spirituale e l’esperienza dell’esistenza corporea formano un’unica e medesima esperienza: «Io sono persona fin dalla mia esistenza più elementare e la mia esistenza incarnata è un fattore essenziale nel modo di essere personale»27. Concepire l’uomo come persona vuol dire considerarlo nella sua integralità e cioè tutto intero spirito e tutto intero corpo. Il personalismo si oppone ad ogni forma di riduzionismo, come ad ogni forma di dualismo. Se la coscienza dovesse essere qualcosa che è “aggiunto” all’uomo al fine di produrre una persona, noi dovremmo avere la situazione seguente: in generale gli esseri umani non sono dotati di coscienza, mentre una più ristretta classe di essi ha coscienza ed è pertanto costituita da persone. Le cose stanno in realtà esattamente al contrario: in generale (ma dovremmo dire normalmente o naturalmente) gli uomini sono dotati di coscienza, ma può accadere che alcuni di loro “accidentalmente” non l’abbiano. Tutto ciò, ha affermato E. Agazzi, «sembra destituire il concetto di “persona potenziale” di ogni valido fondamento, poiché la transizione da potenza ad atto non muta mai la natura di un 26

Ibid., 553-554. E. MOUNIER, Il personalismo, Roma 1964, 38. Sul personalismo si vedano in particolare: Persona e personalismo, Padova 1992; A. PAVAN – A. MILANO (curr.), Persona e personalismi, Napoli 1987. 27


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Giovanni Russo essere, ma porta piuttosto alla piena manifestazione di ciò che esso è. Seguendo le sue potenzialità attive intrinseche, un essere può divenire soltanto ciò che è per sua natura. Questo principio assolutamente generale dev’essere applicato anche alla persona: nulla può diventare una persona senza già essere una persona. L’unico modo per evitare questa conclusione è, come nel caso della privazione, quello di concepire la persona non come qualcosa di dato ontologicamente, ma come uno stato (diciamo lo stato del possedere la coscienza), ma in questo caso il concetto di “persona potenziale” diventa completamente privo di consistenza, poiché uno stato dev’essere necessariamente lo stato di qualcosa. Che cos’è questo qualcosa? È l’individuo umano, il quale per gradi raggiunge lo stato di possesso della coscienza, ma ontologicamente rimane la medesima sostanza, in modo che se noi possiamo dire che è una persona ad un certo livello, non possiamo non ammettere che era una persona sin dall’inizio (la sostanza non è soggetto a mutamento o crescita, ma lo è soltanto il suo possesso di certe proprietà). La conclusione è quindi: l’uomo è una persona in atto che, nelle varie fasi del suo sviluppo, è continuamente in potenza per quanto riguarda la piena realizzazione delle sue facoltà e proprietà, ivi compresa la coscienza»28.

Possiamo ora rispondere alla domanda iniziale: “chi” è persona? È persona ogni essere che per la sua struttura fisica e mentale è “capace” di compiere atti di autocoscienza, razionalità e libertà, anche se non compie attualmente tali atti per qualche impedimento, che non è intrinseco alla sua natura e alla sua struttura, ma proviene da cause a lui esterne. Poiché, come l’esperienza insegna, l’autocoscienza, la razionalità e la libertà sono caratteri della specie umana, si deve concludere che sono persone tutti coloro che appartengono alla specie umana, quali che siano le condizioni in cui attualmente si trovano, per quanto riguarda l’esercizio dell’autocoscienza, della razionalità e della libertà. In altre parole sono persone tutti gli esseri umani.

28

37-38.

E. AGAZZI, L’essere umano come persona, in Per la Filosofia 9 (1992) 25, 28-39:


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e. Come “definire” la persona? Alla luce di quanto detto fin qui, come “definire” la persona? Definire la persona è limitarla in un determinato ambito concettuale e in un preciso sistema di pensiero. In realtà, la persona va molto oltre le definizioni. Boezio diceva che la persona è «sostanza individua di natura razionale»29, in altre parole un individuo di natura razionale (solo gli uomini sono di natura razionale per Boezio). Ma la persona non è un concetto, non è rinchiudibile in una serie di argomentazioni. La razionalità qui è una realtà legata alla natura umana a prescindere dalle sue operazioni, e cioè dalla capacità o meno di “provare” di essere razionale. Perciò per Boezio sono persone tutti gli esseri umani, anche quelli che per un grave handicap mentale non indicano operazioni della ragione. Ma in ogni caso bisogna dire che le operazioni della razionalità non potranno mai descrivere chi è la persona. La persona è infatti una razionalità proteiforme in cui anche i sentimenti e le passioni fanno parte della razionalità. È sempre più opportuno evitare la frattura tra ragione e sentimenti o tra anima e corpo. La persona è una unitotalità e tutti gli elementi vanno compresi in essa. La razionalità è tale all’interno della persona, ma non è la razionalità da sola a fare la persona. La persona è essenzialmente — secondo la Rivelazione — amore, agape, charis, e cioè una razionalità proteiforme e intersoggettiva. Alla luce dei dati fisici, psichici e spirituali forse potremmo dire — ma anche questa è una limitazione intellettualistica — che la persona è una individualità somatica, unica e irripetibile, di natura trascendente, e che porta in sé una legge ontogenetica di sviluppo. Gli studi embriologici evidenziano che un embrione umano è una realtà genomica ove sono codificate essenzialmente la “individualità somatica”, cioè un soggetto con una sua individualità corporea, perché la persona è senz’altro il suo corpo, anche se non è solo il suo corpo. È, poi, una realtà “unica e irripetibile” (geneticamente), il che indica la preziosità e l’unicità della dignità di ogni singolo soggetto umano. Infine la “legge ontogenetica di sviluppo” indica che l’uomo (già biologicamente e geneticamente) è già in sé ciò che è, ciò che è tutto iscritto nel suo genoma sin dal 29

S. BOEZIO, Contra Eutichen et Nestorium, c. 4.


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concepimento, ma si fa facendo ogni giorno, perché è una realtà dinamica, in continuo sviluppo e trasformazione. La “natura trascendente” e spirituale dell’uomo, che, come direbbe Descartes, non ha bisogno di essere dimostrata perché è tremendamente evidente nell’uomo, indica infine la sublimità del suo essere, che Cristo ha rivelato come “ad immagine di Dio” e che è la fonte, l’agire di Dio creatore e salvatore.

4. IL NODO PROBLEMATICO DEL DIRITTO ALLA SALUTE E DELLE RISORSE LIMITATE

a. Il diritto “fontale” alla salute Il diritto alle cure della salute è un diritto “fontale”, alla base di altri successivi diritti, perché coincide con il diritto della persona a tutelare e custodire la sua vita. È un diritto “fontale” perché nasce dalla fonte stessa della persona umana, dalla sua dignità, dal valore intangibile della sua vita. Non si tratta di un semplice “concetto”, di un’idea che fa riferimento a una dottrina o a un corpus di idee. Il diritto alla salute è un “diritto umano”, perché coincide con la persona in quanto tale e col valore della sua vita. La salute appare come un dono legato alla vita, anzi si manifesta come una proprietà naturale e spontanea della vita. La salute è dunque patrimonio della persona, della sua identità, della sua natura, espressione della peculiarità del suo modo di essere al mondo. Il “diritto alla salute” ha, pertanto, un nucleo etico fondamentale: è un diritto legato al valore intrinseco della vita umana, valore che contemporaneamente si presenta come dono ricevuto e come compito da realizzare con la nostra progettualità. Indica che la salute è essenzialmente un valore etico e solo successivamente si può considerare anche come stato di benessere fisico, mentale e sociale. Il diritto alla cura della salute essendo un diritto del soggetto umano, della persona, è un diritto appunto “personale”, inderogabile, un diritto su cui nessun altro uomo può pronunciarsi, né il medico, né i genitori di un minore, né la società. È un diritto quindi che si trasforma necessariamente in diritto prioritario, che esige di essere riconosciuto, e che si manifesta anche nella autonomia e nella autodeterminazione del soggetto umano.


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L’uomo in quanto soggetto di questo diritto deve allora considerarsi come “partecipante attivo” del diritto alla salute, per cui ogni intervento terapeutico o di economia sanitaria deve partire da un coinvolgimento protagonista del soggetto umano in ogni processo decisionale. Ci sembra dunque che una riflessione adeguata sul “diritto alla salute” non deve trascurare questo dato “fondante” in cui inserire il problema della gestione sociale ed economica della salute e della sanità.

b. L’intervento di tutela dello Stato È molto diffusa l’idea, come avremo modo di vedere, che la cura della salute dovrebbe essere considerata come ogni altro “prodotto commerciale”, i cui costi, prezzo, disponibilità e distribuzione dovrebbero essere lasciati nel sistema del libero mercato, con leggeri interventi da parte del governo nazionale. Attraverso il comune meccanismo della competizione se ne dovrebbe ottenere un “prodotto di qualità”, dal momento che le aziende competerebbero per qualità, prezzo e soddisfazione dei consumatori. Dal loro punto di vista, consumatori e clienti sarebbero liberi di scegliere tra aziende, selezionando l’“acquisto” migliore in base ai loro bisogni personali. In questo modo i costi dovrebbero abbassarsi, la qualità mantenuta a un buon livello o migliorata. Le leggi della competizione ridurrebbero errori, guasti e malasanità a vantaggio di tutti. Alla base di questa impostazione manageriale della sanità ci sta la teoria di Adam Smith, secondo il quale se ognuno ricerca i propri interessi, gli interessi di tutti saranno perseguiti30. La ragione del profitto, come indicata da Smith, alla fine funziona per il beneficio sociale. Ma per Smith il profitto non è il fine primario dell’etica del mercato. Piuttosto è il mezzo migliore per raggiungere il fine primario che è «un abbondante reddito di sussistenza per le persone»31. Inoltre Smith percepì che alcune cose non possono essere lasciate al caso o alle modalità fortuite del mercato, ma devono essere assicurate dall’intervento dello Stato. Riconosce che beni 30

A. SMITH, The theory of moral sentiments, Philadelphia 1817. S.T. WORLAND, Adam’s Smith, economics justice, and the founding father, in R. SKURSKI (cur.), New directions in economic justice, Notre Dame (IN) 1983. 31


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come la difesa, l’educazione, le grandi infrastrutture di trasporto non possono essere adeguatamente servite da un’organizzazione economica di puro mercato. Occorre che la libertà, la proprietà privata e l’intervento dello Stato camminino insieme, soprattutto quando gli interessi di alcuni finiscono per mettere in difficoltà o a repentaglio quelli dell’intera società. Smith ha intravisto la necessità di certe restrizioni sull’interesse personale, operate dallo Stato per prevenire monopoli e amministrare con giustizia. In questo caso il ruolo dello Stato è quello di tutelare sia la libertà delle persone, che beni (come la salute, la difesa e l’educazione) che sono di stretto interesse collettivo. Questo tipo di intervento da parte dello Stato inibisce la libertà solo a un mercato selvaggio e senza limiti. Essendo il diritto alla salute un diritto “fontale”, non può essere ridotto a mera merce, ma ha precise connotazioni umane che comunque non accettano la collocazione di tale diritto tra i diritti di un mercato totalmente libero (senza limiti). In quanto “diritto umano” il diritto alla salute viene prima di ogni valore economico ed esige l’intervento di tutela da parte dello Stato. È un po’ come per altri diritti umani (anzi viene prima di questi): il diritto all’indisponibilità del valore della propria vita, il diritto alla libertà di pensiero, a non essere discriminato per la razza, il diritto alla libertà di religione... Le modalità gestionali e di economia sanitaria possono essere discusse, ma non a livello “essenziale”. Lo “Stato minimo” (Minimal State) di cui parla Robert Nozick non può prescindere dall’inclusione di questo diritto, come diritto umano da tutelare almeno a livello essenziale32. Per Nozick, le nostre società sempre più pluralistiche e interculturali si scontrano facilmente nella visione del bene comune. Ciò che in un gruppo viene considerato valore, in un altro può essere ritenuto disvalore: non tutti sono d’accordo su che cosa sia “il bene di tutti”. In questo senso, perché un cittadino dovrebbe contribuire con le proprie tasse al mantenimento di politiche collettive che sono contrarie alla propria visione della vita? Pertanto, per Nozick non esiste un diritto alla salute come diritto all’assistenza sanitaria da parte dello Stato, neppure a livelli “essenziali”, semmai può esistere un diritto a non vedersi negata quell’assistenza a cui ciascuno liberamente provvede attraverso il proprio sistema assicurativo. Il diritto alla salute diventa in questo caso un diritto 32

R. NOZICK, Anarchy, state, and utopia, New York 1974.


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totalmente organizzato individualmente e generalmente sottoposto alle leggi del libero mercato. Che ne è delle persone svantaggiate, di coloro che nascono con patologie congenite, di malati cronici e di altre persone che non possono inserirsi — proprio per le condizioni fisiche di disabilità in cui si trovano — nel sistema a cui si provvede con le proprie finanze e il proprio lavoro? È una domanda che non può trovare una risposta nella politica dello Stato di Nozick, se non a quel livello dogmatico che ritiene fontale il diritto alla libertà e alla non discriminazione, ma non fontale il diritto alla salute. Per quali ragioni questi diritti differiscono? Quali dovrebbero essere allora i valori umani assoluti da cui scaturiscono gli altri valori, se uno si vede negato il valore essenziale alla cura della propria salute fisica da cui scaturisce la consapevolezza di ogni altro bene? La posizione di Nozick non si sostiene a livello di giustificazione etica. Negare a ogni cittadino il diritto alle prestazioni sanitarie essenziali per riconoscergli il diritto alla libertà di pensiero o di parola o di religione a che serve? Che dire poi delle persone che non si possono permettere una assicurazione essenziale proprio a motivo di ingiustizie sociali? Nello Stato di Nozick all’ingiustizia sociale che impedisce la possibilità dell’assicurazione sanitaria, si aggiunge l’ingiustizia che nega la prestazione sanitaria essenziale. A nostro avviso si può discutere su quali siano i livelli delle prestazioni sanitarie da considerare essenziali, ma non si possono negare alla base. Né si possono accettare le conseguenze etiche della visione di Nozick proposte da Hugo Tristam Engelhardt, Jr., secondo cui non c’è ingiustizia nel non assicurare i livelli essenziali di prestazione sanitaria neanche a coloro che nascono con patologie congenite (e quindi senza loro colpa), perché in questo caso che uno nasca sano o malato dipende soltanto da una specie di “lotteria naturale”, ma non c’è ingiustizia da parte dello Stato. Questi soggetti sono soltanto sfortunati, svantaggiati dalla natura, ma di per se stessi non meritano alcuna tutela di base da parte della comunità sociale. Non ci sono quindi obblighi di solidarietà morale per questi soggetti da parte dello Stato (le condizioni di partenza dei soggetti svantaggiati sarebbero eticamente “neutre”), ma solo da parte di organizzazioni caritative. Una posizione questa che evidentemente si manifesta come eccessiva, perché — senza alcuna giustificazione etica — pone il diritto alla salute allo stesso livello del diritto di mercato e lo svantaggio di colui che


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nasce malato (o che lo sia per ingiustizie sociali) come semplice “sfortuna” senza obblighi morali da parte dell’etica pubblica. Il bene della salute è il bene essenziale della persona, è un bene fontale, e non può essere trattato come una merce da sottoporre alle leggi del libero mercato. Nella competizione del libero mercato i partecipanti svantaggiati (perché nati malati) si ritroverebbero in condizioni di disparità nella competizione. Al contrario, occorre ribadire con forza il valore della solidarietà sociale, che in questi casi non nasce dalla commiserazione né dalla compassione, ma da una solidarietà ontologica che unisce alle radici tutti i cittadini dello Stato. Il bene comune è più del semplice bene economico, ed è per questo che lo Stato è chiamato a promuovere la giustizia in beni come la cura della salute non con semplice giustizia distributiva, ma comunitaria, quella giustizia che nasce dalla solidarietà ontologica che accomuna tutti i membri della comunità politica. Per la stessa ragione lo Stato interviene in altri campi come la sicurezza, l’educazione e l’ambiente. Non si tratta di escludere il valore del bene privato o proprietario, ma di inserirli nel contesto di un’attività che vede il controllo nazionale per assicurare la giustizia in aree come quelle della salute che non possono essere semplicemente lasciate alle cause fortuite del mercato33. Ciò che è vero per la maggior parte delle attività di mercato, lo deve essere a maggior ragione per il mercato della sanità, e cioè che l’intervento regolatorio dello Stato non deve essere mai omesso. Come per alcune attività di mercato presenti in Borsa, la sanità deve avere una sorveglianza particolarissima, lo Stato non può abdicare. Lo Stato non è chiamato soltanto a prevenire o riparare le falle create dal mercato, ma nella sanità ha il compito peculiare di promuovere, migliorare e portare al massimo i risultati prevedibili del mercato della sanità. Il monitoraggio in questo settore è assolutamente necessario, perché indica le strutture portanti — quelle basate sui diritti umani e la dignità della persona — che devono essere assicurate in ogni economia di mercato. Così anche sulla competizione tra aziende e sui ruoli degli imprenditori nei confronti dei medici, si dovrebbe esigere un intervento diretto 33 A.E. BUCHANAN, Justice and charity, in Ethics 97 (1987) 558-575; D. CALLAHAN, Medicine and the market: a research agenda, in The Journal of Medicine and Philosophy 24 (1999) 3, 224-242.


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dello Stato. Ci sono dei valori sul rispetto della dignità del paziente, sulla vulnerabilità dei soggetti coinvolti nella pratica clinico-sanitaria o sulla identità e integrità della professione medica, che non possono essere esclusivamente di competenza delle aziende o dei manager. In medicina il mercato strutturalmente deve essere di natura “sociale”, nel senso particolare che lo Stato in qualche modo dovrebbe essere partner — anche se non per profitto — dell’azione delle aziende agenti sul mercato. La partnership dello Stato non ha solo funzione di tutela dei cittadini, ma è a servizio in particolare del giusto “contratto” tra medicina e mercato, come giusta “alleanza” tra medico e paziente. Non un contratto giusto per mera distribuzione delle risorse, ma giusto in quanto rispettoso del diritto fondamentale della persona alla cura della propria salute.

c. È la salute umana una merce? La domanda risulta un po’ scomoda. Certamente in base alla considerazioni di cui sopra sul diritto alla salute come diritto fontale, la domanda se la salute può essere considerata un merce risulta considerevolmente problematica. Diciamo subito però che occorre distinguere la salute umana in quanto tale, che non può mai considerarsi una merce in quanto realtà ontologicamente legata alla persona, dalla salute in quanto realtà che si amministra e che prevede dei costi da gestire a livello manageriale per poter raggiungere livelli essenziali accettabili e rispettosi del valore etico della salute umana. La salute umana non è una merce, ma la gestione può essere mercificata e sottoposta a una “buona” economia di mercato. Anzi, senza quest’ultima non può esserci un adeguato rispetto del valore etico e fontale della salute umana. L’ipotesi che sottoporre la salute umana al processo di mercato svilisca la salute in se stessa è pregiudiziale, perché non viviamo nell’idealità iperuranica, e non necessariamente il mercato della sanità conduce alla strumentalizzazione dei valori etici coinvolti nel processo della cura della salute. Di per sé una società basata sul mercato non gestisce mostruosamente i valori della collettività, dipende dal modo in cui viene amministrata e, concretamente, dalla capacità dello Stato di limitare gli eccessi di un’economia selvaggia. Allo stesso modo, l’amministrazione


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della sanità in un’economia di mercato eticamente solidale può produrre risultati più rispettosi delle molteplici e costose esigenze della gestione della salute delle persone. È vero che in alcuni Stati un mercato selvaggio della sanità può portare le persone socialmente svantaggiate e con patologie croniche verso condizioni particolarmente precarie nella gestione della propria salute, ma è anche vero il contrario, che cioè sistemi sanitari fortemente statalizzati offrono servizi sanitari di scarsissima qualità a motivo proprio dei costi ancora più elevati che una salute centralizzata può comportare. Il costo delle tecnologie biomediche e lo scarso impegno del personale coinvolto nelle strutture pubbliche, portano quest’ultime verso il collasso, con gravi conseguenze sia sul bilancio dello Stato che sulla salute dei cittadini. Una posizione fortemente discussa in filosofia della medicina è quella di Edmund D. Pellegrino, medico statunitense, antagonista di una cultura di mercato in medicina34. Il problema principale per lui è quello di capire se la cura della salute può essere considerata semplicemente una “merce” e un “prodotto” (commodification), perché se lo è allora il mercato è l’economia più adeguata, e se invece non lo è allora la cura manageriale della sanità è fondamentalmente scorretta. L’attenzione per Pellegrino deve essere concentrata sulle finalità della pratica medica e sugli scopi della medicina e allora ci si accorgerà che l’economia di mercato non aiuta la cura dei malati, ma piuttosto li sottopone a una manipolazione strumentale al servizio degli interessi personali dei medici, degli investitori finanziari o degli assicuratori. Non che Pellegrino voglia mettere in discussione la legittimità del mercato, della competizione o il capitalismo democratico del suo Paese, ma piuttosto considerare se il mercato è uno strumento proprio e conveniente per distribuire adeguatamente la cura della salute ai cittadini. Specificamente si domanda se la salute e la medicina sono beni da mettere sullo stesso piano con altri prodotti commerciali quali i nostri beni immobili, i nostri servizi, le nostre attrezzature per il lavoro e la casa. La parola prodotto o merce indica propriamente qualcosa da vendere, per l’utilità del consumatore o per la sua soddisfazione o preferenza. Per 34 E.D. PELLEGRINO, The commodification of medical health care: the moral consequences of a paradigm shift from a professional to a market ethic, in The Journal of Medicine and Philosophy 24 (1999) 3, 243-266.


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Pellegrino questo concetto indicherebbe che il bene della salute non è né più né meno che come le altre merci, paragonabile a un sacchetto di fagioli dello stesso peso e qualità di un altro sacchetto di fagioli. Così un medico è come ogni altro medico, un paziente come ogni altro, un ospedale interscambiabile con un altro, a meno che la competitività del mercato non dimostri che un prodotto è più appetibile di un altro e quindi più ricercato dalla gente. Se la salute è un prodotto commerciale allora è qualcosa che si può possedere, vendere, commerciare o alienare liberamente e a piacimento. Se la salute è una merce allora i proprietari sostanzialmente sono quelli che possiedono la conoscenza medica o quanti investono risorse in essa, e nessuno può avanzare pretese se ne ha bisogno, a meno che non paghi adeguatamente per quel prodotto. In questo caso non ci può essere richiesta di un “diritto alla salute” delle persone e conseguentemente non si potrebbe avanzare la domanda di una migliore distribuzione delle risorse sanitarie. Pellegrino precisa che la domanda sulla natura possibile della salute come prodotto commerciale non è la domanda sulle attrezzature mediche, sulle tecnologie e strumenti che necessariamente sono prodotti e cose che propriamente appartengono a qualcuno e che possono essere offerte, donate o commercializzate nel libero mercato, anche se possono porre interrogativi profondi quando la scarsa disponibilità in alcune aree geografiche non è senza conseguenze sulla popolazione e sulla promozione della sua salute. Piuttosto il problema qui è la salute in se stessa, che non è un prodotto, perché nessuno lo può acquistare dal momento che promana dalla fondamentale dignità della persona umana. Il problema del commercio della salute umana è per Pellegrino della stessa natura del commercio di alcune parti del corpo come organi, tessuti, sangue, eccetera. I prodotti e le attrezzature utilizzati per la cura della salute umana sono semplicemente mezzi, mentre la salute è un fine che non potrebbe sostenere altri scopi. Una posizione questa di Pellegrino che evidentemente soffre le condizioni interne di un sistema sanitario un po’ troppo industrializzato e che può far percepire la salute umana in se stessa come una merce bistrattata. In realtà anche negli Stati Uniti si può riscontrare una buona economia sanitaria. Ma è sulle conseguenze che occorre maggiormente riflettere. È vero in certo senso che la commercializzazione prevedendo la cura della salute e l’intervento dei sanitari come transazione commerciale può strutturare una relazione medico-paziente di tipo commerciale, una relazione che potrebbe


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dunque essere regolata dalle norme del commercio e dei contratti, piuttosto che dai precetti dell’etica professionale. Ma questo non avviene necessariamente, a meno che il contesto in cui si opera non sia un contesto in cui il medico non ha facoltà di agire liberamente per le condizioni in cui lo pone il proprio manager o datore di lavoro. Certo se l’azienda sanitaria cerca il profitto con metodologie selvagge e poco rispettose della dignità del malato e della professione medica allora tale impostazione di mercato non si può accettare. L’economia del mercato della sanità non può essere sic et simpliciter come una qualsiasi altra economia di mercato. Ci sono dei limiti posti da parte dello Stato nella gestione del mercato della sanità, e questi limiti sono quelli legati al pieno esercizio della deontologia professionale del medico e dell’etica del rispetto dei diritti fontali del paziente. Nell’economia di mercato in genere, la ricerca del profitto e del proprio interesse sono legittimi in ogni caso. È così sia per il proprietario dell’azienda che per il medico. Ma ciò che è fondamentale è che almeno il medico rimanga un vero medico, chiamato principalmente a curare e non ad ammassare denaro. Se la cura della salute è un bene commerciale, allora è certo che è in vendita e che il medico è un “affarista”. Ma non può essere così nella gestione della salute pubblica, in cui la distinzione fondamentale della relazione commerciale non è la semplice transazione tra commerciante e cliente, ma tra questi due insieme all’intermediazione diretta dello Stato nelle cose che riguardano le prestazioni sanitarie di livello essenziale. L’economia del mercato della sanità è “triadico” a livello di fondamenti. L’intervento statuale non è un’indebita interferenza sulla libertà dell’economia di mercato, perché quest’ultima non può esistere senza gli altri due elementi. La persona e lo Stato vengono prima dell’economia e sono proprio queste due “persone” a dare origine alle condizioni di libertà dell’economia. Perciò non si può accettare un’economia di mercato in cui i pazienti che non possono pagare il prodotto che è la cura della propria salute non vengano accettati dalle strutture sanitarie presenti sul mercato. È vero che il mercato non forza ai doveri dell’altruismo o dell’aiuto degli altri, ma può e deve essere vero che i soggetti gravemente bisognosi di cure sanitarie vengano trattati in ogni caso con l’intervento economico dello Stato, che non trascurerà di procurarsi il budget anche dai profitti delle aziende del mercato sanitario. Le disuguaglianze nella distribuzione dei servizi sanitari nascono da un mercato selvaggio e quindi dalla incapacità dello Stato di


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animare il proprio campo. Ma le disuguaglianze non devono essere problemi riguardanti quanti operano nel libero mercato, sono problemi di competenza e di tutela da parte dello Stato. Le disuguaglianze in questo campo non sono questione di sfortuna ma di ingiustizia per la negligenza dello Stato. Queste le conseguenze a livello generale, ma ci sono conseguenze anche a livello dei soggetti coinvolti. Secondo Blecher in un sistema di mercato sanitario i prodotti sono fungibili e ognuno può essere sostituito con ogni altro prodotto simile, se il suo prezzo e la sua qualità sono identici. Così medico e pazienti nell’economia di mercato diventano beni fungibili35. L’identità dei medici, degli ospedali o dei laboratori è relativa e non fa differenza, a meno che non si possa dimostrare il contrario. I pazienti diventano semplicemente “vite assicurate”. La loro salute può essere oggetto di commercio o di negozio, può essere venduta da una clinica all’altra, inserito in un network comune tra cliniche-aziende che si scambiano i servizi a seconda delle richieste e dei contratti. La “qualità” di un gruppo di pazienti o di medici è dunque misurata dalla capacità di offrire profitti all’azienda. Non è detto che sia sempre così, perché non è affatto vero che il medico e il paziente sono beni fungibili. Le scelte del medico e le condizioni di particolare precarietà della salute del paziente devono avere un peso determinante. I medici non possono abdicare al responsabile d’azienda le condizioni con cui si relazionano ai propri pazienti. Perciò è inaccettabile l’atteggiamento dei medici che non sentono i pazienti come “propri” e dunque non li assumono perché non sentono una responsabilità personale per il benessere dei pazienti. Il medico che scarica sul collega dei prossimi giorni o dell’altra specializzazione, non lo fa senza responsabilità etica (e in qualche caso anche legale) perché la consapevolezza della propria professione come missione e non come semplice lavoro deve dipendere dalla propria personalità e non dalla discontinuità in cui può trovarsi, da un organico instabile, o dal trattamento di “impiegato” in cui può sentirsi coinvolto. Non ci sono condizioni di mercato che possano far abdicare il medico dall’impegno strettamente personale nell’esercizio della sua professione.

35 M.B. BLECHER, Size does matter, in Hospital and Health Network 20 (1988) 29-36; A.E. BUCHANAN, Justice and charity, in Ethics 97 (1987) 558-575.


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5. IL NODO PROBLEMATICO QUALITÀ VERSUS SACRALITÀ DELLA VITA Un altro nodo particolarmente problematico e che caratterizza il dibattito tra bioetica di impostazione laica o confessionale è quello dei criteri di qualità della vita letti in antitesi alla sacralità. Il concetto di “qualità della vita” è centrale nelle nostre società avanzate. Si è sempre più consapevoli che non è sufficiente vivere, ma occorre “vivere bene”, promuovere una vità di qualità, una vita cioè caratterizzata dal benessere psico-fisico. Star bene, migliorare le condizioni di salute del nostro corpo, ricercare una vita piacevole, è sentito come una priorità del nostro impegno a favore della salute e di uno stile di vita più avanzato. Il medico, per il suo impegno a favore della salute umana, è chiamato in primo piano nella promozione della qualità della vita. Il concetto di “qualità della vita” si riferisce a una cultura apparsa negli anni ’50, come conseguenza di una situazione di miglioramento generale della salute umana (rispetto alla precarietà del periodo delle guerre mondiali) e come accresciuta consapevolezza del bene della vita36. Le nuove scoperte nel campo delle terapie (in particolare la scoperta degli antibiotici), l’avvento delle tecnologie biomediche, l’introduzione della contraccezione, una notevole riduzione della mortalità infantile e l’innalzamento dell’età media della popolazione sono tutti elementi che hanno contribuito a cogliere gli aspetti “qualitativi” della vita. Inoltre, si pensi all’attenzione alle scienze umane e alle dimensioni psicologiche della persona, alla nuova consapevolezza sulla corporeità come valore, all’introduzione delle assicurazioni sulla salute e sul benessere, eccetera. Si va insomma verso la consapevolezza che non basta vivere, occorre vivere bene, puntare al benessere, a una vita qualitativamente migliore. Ma oggi qualità della vita significa anche promozione di alcuni elementi del benessere e rifiuto della vita provata e segnata dalla sofferenza. Si è instaurato un modello “filosofico” di discussione tra qualità della vita versus sacralità della vita. Alcuni addirittura riconducono storicamente l’origine della bioetica proprio all’insorgere del concetto di

36 S. LEONE, La riflessione bioetica sulla qualità della vita, in G. RUSSO (cur.), Bioetica fondamentale e generale, Torino 1995, 105-112.


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qualità della vita e, di conseguenza, al superamento dell’etica tradizionale della sacralità della vita. A parte queste letture estremamente parziali e storicamente poco fondate sulla genesi della bioetica, stabilire che non tutte le condizioni di vita possono dirsi umanamente qualitative è opera che risulta in qualche modo discriminante. Chi può stabilire una gerarchia di valori a priori sulle condizioni di qualità? La domanda di qualità della vita è una domanda di miglioramento delle condizioni di benessere, ma non di valutazione di valori morali. In una società pluralistica e multiculturale, come stabilire i criteri etici di qualità della vita? Saranno necessariamente differenziati, per cui alcuni sceglieranno di non difendere la vita precaria, mentre altri — convinti della intangibilità della vita — sceglieranno di farlo. Una società democratica e pluralistica prende atto delle differenziazioni etiche presenti nel tessuto sociale e si guarda bene dal mettersi dalla parte di una delle fazioni. Una società liberale non è una società neutra (perché non esiste una società senza valori etici di qualche tipo), ma è una società che rispetta tutte le posizioni etiche, lasciando libertà di scelta alle componenti sociali. Il rispetto delle diverse posizioni esige la “coesistenza”, anche giuridica, delle delle varie impostazioni etiche. A meno che non vogliamo considerare ancora democratica e liberale una società che esclude ad alcune comunità etiche la possibilità di potersi esprimere. La libertà di pensiero è idea cardine di una società democratica e non totalitaria. Occorre, pertanto, che il concetto di qualità della vita venga ricondotto al suo significato originario, che è quello della promozione della salute umana, intesa come pieno benessere psico-fisico delle persone. E in questo il medico ha un compito privilegiato nella società. Il resto, e cioè l’idea che la vita di un soggetto malato o di un feto malformato è di qualità o meno, è materia di giudizio soggettivo e non può riguardare l’impostazione dell’intera collettività. Il medico in questo sceglierà conformemente ai valori in cui crede e conformemente al suo codice professionale, rispettando la coscienza dei colleghi e del personale infermieristico. “Qualità” e “sacralità” della vita non dovrebbero essere letti in forma antagonista, perché i due modelli non si escludono necessariamente. Ogni vita ha una sua “qualità” etica, ed anche nella più precaria e più sofferente si possono scoprire elementi valoriali notevoli non solo per la persona, ma anche per la società. Pensiamo al contributo di molti disabili alla crescita


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della scienza, o alla riscoperta della dignità della propria vita e dei valori familiari di soggetti provati dalla malattia e dalla sofferenza. I giudizi sulla qualità della vita dei pazienti, pertanto, non possono essere giudizi in termini di mera efficienza economica o di prestabiliti standards di bellezza e qualità fisica.

6. CONCLUSIONI: RIPORTARE LA PROBLEMATICITÀ NELLA VERITÀ I nodi problematici in bioetica medica esigono di chiarire i dinamismi del dialogo tra le dimensioni scientifiche e quelle etico-antropologiche. I linguaggi dell’argomentare bioetico, i princìpi di base, il rapporto scienza e filosofia, etica e teologia, antropologia e società chiedono di verificare se i presupposti di fondo della bioetica sono scientificamente rigorosi. Un compito imprescindibile è quello di andare alle radici dei vari sistemi di pensiero e della varie concezioni circa la vita. È necessaria una bioetica su base veritativa. Senza verità non c’è neppure tolleranza. L’approccio semplicemente procedurale o contrattuale risultano sempre aporetici. Il rispetto delle autonomie dei soggetti, se rimane nei meandri della sola tolleranza, farà sempre appello a un suo riconoscimento veritativo. Infatti, anche se non ammettiamo una verità comune a tutti, dobbiamo tuttavia riconoscere che non può esistere neppure il pluralismo e la tolleranza, perché senza una “verità della tolleranza” si può giustificare tanto la tolleranza quanto l’intolleranza. Se non esiste nessuna verità, non esiste neppure quella della tolleranza, non può esserci obbligo di essere tolleranti, perché sarei libero di essere anche intollerante. Insomma, senza un presupposto di tipo “veritativo” non solo non è possibile risolvere problemi bioetici (se non in termini politico-referendari), ma soprattutto non è possibile parlare di bioetica o bioetiche. Quale bioetica o quali bioetiche si potrebbero proporre? Quale diritto costituzionale per fondare lo stesso istituto referendario? Devono pur esserci dei presupposti assoluti, che sono alla base dello stesso principio del rispetto delle autonomie dei soggetti, altrimenti per quali ragioni dovremmo aver rispetto? Forse solo perché desideriamo anche noi essere rispettati? Questa estrinsecizzazione del procedere risulta una sofisticazione rispetto a una “base comune” che accomuna tutti gli esseri proprio in quanto tali e cioè in quanto soggetti che meri-


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tano rispetto non perché è “conveniente” per tutti, ma perché tutti “siamo” qualcosa che ci accomuna, appunto la verità, la verità dell’amore. Da qui nasce il rispetto delle autonomie in quanto partecipazione solidale all’esistenza dell’altro e della vita in genere e che diventano la condizione della mia stessa qualità di vita e dell’universalità della tolleranza.



RIFLESSIONI BIOETICHE SULLA PROCREAZIONE ASSISTITA

MARIO CASCONE*

La diffusione della procreazione assistita e il suo progressivo perfezionamento sul piano scientifico suscitano ad un tempo grandi speranze e fondati timori. Le speranze sono legate alla possibilità di debellare anche le forme più ostiche di sterilità, offrendo la gioia di un figlio alle numerose coppie che, per svariati motivi, non possono averlo per via naturale. I timori invece derivano dal pensare che la risposta a questo nobile desiderio possa avvenire ad ogni costo e con ogni mezzo: una prospettiva, questa, che suscita parecchie perplessità sul piano morale, a meno che non si voglia argomentare che il fine giustifica i mezzi. È chiaro infatti che la possibilità scientifica non fonda, da sola, la liceità morale, essendo quest’ultima da fondare con adeguate argomentazioni etiche. E queste, a loro volta, sono chiamate a fare da supporto alle normative giuridiche, che devono regolamentare l’esercizio di questa pratica. Nel complesso bilanciamento tra speranze e timori si inserisce un vivace dibattito, che talora assume i toni drastici dell’integralismo, mentre in altri casi conosce la pacatezza della riflessione razionale. È evidente che bisogna rifiutare in partenza ogni tono esasperato, da qualunque parte provenga, mentre va privilegiata la via della lucida argomentazione, perseguita in un clima di dialogo costruttivo, capace di recepire le ragioni di tutti, ma soprattutto quelle che possiamo chiamare “le ragioni della ragione”. Su questa base risulta certamente riduttiva, se non apertamente fuorviante, la schematizzazione che riduce il dibattito su questa problematica ad uno scontro fra laici e cattolici. Se è vero, infatti, che queste due visioni di vita conoscono delle rilevanti differenze, è ancora più vero che esse non sono così facilmente riconducibili a linee schematiche contrapposte, dal *

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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momento che sono possibili, tra il pensiero laico e quello cattolico, significativi punti di convergenza. Risulta perciò non solo utile, ma anche necessario ricercare questa possibilità di intesa, al fine anche di favorire la formulazione di leggi che, in nome di una sana laicità dello Stato, sfuggano a pericolosi interessi di parte e si pongano realmente al servizio del bene comune. Nel caso specifico della procreazione assistita il bene comune riguarda non solo gli interessi delle coppie che desiderano un figlio, ma anche quelli del figlio stesso, il quale va tutelato nella sua dignità di persona e nel suo diritto a nascere e crescere in modo autenticamente umano. In quest’ottica il bene comune riguarda, in un senso più ampio, l’intera società, che non può non essere interessata ad un’adeguata tutela del valore della vita, oltre che della procreazione umana, la quale non può essere certo equiparata a quella animale, essendo simile ad essa solo in alcuni aspetti biofisiologici, ma non certo per quanto attiene alla sua dimensione spirituale, che fa della procreazione uno degli atti umani più rilevanti per dignità e responsabilità.

1. ETICA DEL DESIDERIO La ricerca di un dialogo costruttivo fra le diverse posizioni morali può avvenire a condizione che si definiscano, in via preliminare, gli atteggiamenti etici di fondo con cui ci si rapporta al complesso fenomeno della procreazione assistita. Solo una chiarificazione di questo genere, infatti, potrà sgombrare il campo da ogni posizione riduttiva o ideologizzata per restituire il giusto peso alla razionalità delle argomentazioni. Un primo atteggiamento etico da cui bisogna guardarsi, in questa materia, è quello che potremmo definire emotivistico-pietistico. La nobile decisione di volere un figlio non di rado viene posta sulla fragile base del desiderio soggettivo, che porta quasi sempre a considerare l’intera questione su un piano di emozione pietosa. Cosa c’è di più tenero che vedere in braccio a sua madre un bimbo lungamente agognato, ottenuto magari a prezzo di enormi sacrifici? Il fatto che per esaudire questo desiderio si sia dovuto passare attraverso procedimenti onerosi, sia sul piano etico che su quello esistenziale, poco importa. L’approccio pietistico fa apparire perfino ciniche le considerazioni morali e le fa ritenere inopportune, quando non


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apertamente intransigenti ed incapaci di cogliere l’istanza profonda del cuore di quelle persone che hanno tanto lottato per avere un figlio. Ora, per quanto sia doveroso prendere atto del desiderio procreativo, che in genere è molto forte nella coppia, e in particolare nella donna, è necessario valutare questa problematica in tutti i suoi risvolti morali, che riguardano sia la natura dell’atto procreativo, sia i suoi protagonisti, i quali nel caso della procreazione assistita sono parecchi: i genitori, i medici, gli eventuali donatori di gameti, le donne che si prestano a dare in locazione il proprio utero, i “consiglieri” più o meni interessati a portare avanti questa pratica anche nei casi più difficili, gli operatori dei mass media che talora banalizzano i risvolti morali della questione, coloro i quali non fanno mistero di coltivare interessi economici in questo redditizio ambito… Fra tanti protagonisti ovviamente non va dimenticato il principale, che è la persona del figlio, da considerare non semplicemente come l’oggetto di un desiderio, ma come un soggetto che ha valore in se stesso, indipendentemente da quello che significa per i genitori e per tutti gli altri. Il figlio, infatti, non può mai essere considerato un mezzo, ma va sempre visto come un fine. Altri problemi, come lo spreco di embrioni umani, l’artificiosità del procedimento procreativo, l’eventuale differenza fra genitorialità genetica e genitorialità educativo-legale, non possono essere né elusi, né affrontati nel quadro di un sentire emotivistico, che considera come unico riferimento morale il desiderio soggettivo di volere un figlio, e di volerlo spesso “a tutti i costi”, fino a dare adito ad un vero e proprio accanimento procreativo, che certo non è senza conseguenze per l’equilibrio psico-fisico delle persone coinvolte, e in particolare delle donne. Nei casi più estremi l’accentuazione del desiderio soggettivo rasenta il vero e proprio capriccio, provocando situazioni moralmente inquietanti, come quella dei figli ottenuti da donne single o da coppie omosessuali, per non parlare del caso piuttosto stravagante delle nonne-mamme o dei cosiddetti figli dell’al di là, ottenuti con gameti o con embrioni crioconservati di genitori già defunti. A monte di questa complessa serie di questioni morali c’è la cosiddetta etica del desiderio, che poggia sull’idea di una libertà individuale sganciata dalla verità oggettiva, di cui si nega la possibilità conoscitiva; una libertà ridotta di fatto a modalità spontaneistica di scelta, per la quale non


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conta tanto che cosa si sceglie, ma come lo si sceglie. Questa è però una base etica molto fragile, perché considera l’autenticità del soggetto come la fedeltà alla spontaneità del suo desiderio, con la tragica conseguenza di uno sgretolamento del soggetto stesso, la cui esistenza morale si riduce ad una serie di esperienze appaganti, che si “consumano” una dopo l’altra, senza alcuna progettualità. Il rischio è che in questo clima consumistico si possano coinvolgere anche le altre persone, considerate esse stesse come beni di consumo1.

2. UTILITARISMO E PRODUTTIVISMO Per amore di verità va chiarito che non tutti coloro i quali praticano la fecondazione assistita sono riconducibili al modello dell’etica del desiderio. Molti infatti ponderano con attenzione questa scelta e riflettono attentamente su tutti i risvolti morali che essa comporta. Sono motivati da una sincera ricerca di bene, che conduce alla volontà della procreazione in un clima di autentico amore. Considerano il figlio come il naturale completamento della loro vita di coppia ed affrontano rilevanti sacrifici per metterlo al mondo. Non si può però negare che il clima etico-culturale nel quale si pone oggi la procreazione assistita è generalmente inficiato da una logica produttivistica e utilitaristica, che finisce con il corrodere anche coloro i quali sono animati dalle più sincere motivazioni. Non è sufficiente, da questo punto di vista, la rettitudine dell’intenzione per giustificare moralmente quanto di fatto accade nei procedimenti di fecondazione assistita. Questi infatti 1 Lo ha ben compreso F. Nietzsche, per il quale il soggetto è solo «una favola, una finzione, un gioco di parole»: F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, Milano 1975, 72. Resta spazio solo per quello che egli chiama il Super-uomo, che si autorealizza affermando la sua volontà di potenza: «Il Super-uomo mi sta a cuore, egli è per me la cosa prima, l’unica: il Super-uomo, e non l’uomo, non il prossimo, non il più povero, non il più sofferente, ma il migliore»: F. NIETZSCHE,Così parlò Zarathustra, Milano 1979, 386. Riscontrando in questo sgretolamento ontologico del soggetto il segno più eclatante della postmodernità G. Vattimo commenta: «Il subiectum è messo in crisi proprio nel suo significato etimologico, di ciò che è posto sotto, che permane nel mutare delle configurazioni accidentali e assicura l’unità del processo»: G. VATTIMO, La fine della modernità, Milano 1985, 50.


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seguono più la logica della produzione che quella della donazione2. Un conto è che l’aiuto medico si ponga come facilitativo del naturale compimento dell’atto sessuale, un altro conto è che lo sostituisca del tutto, conferendo così all’équipe medica un ruolo determinante in tutto il procedimento della FIVET. La fecondazione assistita di fatto consta di tutta una serie di atti che si pongono chiaramente sul versante della produzione di vita umana, più che della sua trasmissione. Il che suscita rilevanti perplessità morali, dal momento che la vita umana non si produce, ma si trasmette attraverso la relazione sessuale tra l’uomo e la donna, che è ad un tempo personale, interpersonale e trans-personale: essa infatti esprime la profonda unione delle due persone e nello stesso tempo le trascende, facendo quasi “traboccare” la ricchezza del loro amore nella persona del figlio3. È vero che la FIVET riesce a superare anche alcuni casi di sterilità che non sarebbero vincibili con semplici trattamenti farmacologici o con interventi chirurgici, ma è anche vero che questo risultato è ottenuto a prezzo di un pesante snaturamento della maniera umana di procreare. A ben valutare le procedure mediche seguite per realizzare la FIVET si vede infatti che il coinvolgimento dei due genitori è certamente molto intenso sul piano psicologico e spirituale, ma non passa né attraverso una loro unione fisica, né attraverso una loro partecipazione diretta all’atto procreativo. Una volta che i genitori hanno messo a disposizione i loro gameti, gli atti determinanti ai fini della procreazione non sono posti da essi, ma dall’équipe medica. È questa, infatti, che procede alla stimolazione di un’ovulazione multipla nella donna, alla raccolta degli ovociti, al prelievo del seme, alla messa in terreno di coltura degli ovuli, alla loro fecondazione in vitro, al trasferimento degli embrioni nella donna. Questi atti, che sono tutti decisivi ai fini della procreazione, vengono eseguiti esclusivamente dall’équipe medica. Non è un caso se tante volte il medico che ha proceduto alla FIVET viene chiamato “padre” del bambino ottenuto. Si tratta certo di un appellativo simbolico, ma non privo di una qualche verità… Non è falso perciò affermare che la FIVET «è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento; 2 3

Cfr. D. TETTAMANZI, Nuova bioetica cristiana, Casale Monferrato 2000, 223-226. Cfr. M. CASCONE, Diakonìa della vita. Manuale di bioetica, Roma 2004, 116.


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Mario Cascone essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana»4.

Ad ulteriore riprova dell’atteggiamento etico utilitarista con cui molte volte si procede nell’ambito della fecondazione assistita possiamo rilevare il fatto che oggi si corre il rischio di trattare subito con la FIVET anche i casi che potrebbero essere risolti con interventi meno onerosi. Si registrano oggi nuovi successi nel campo della lotta alla sterilità con trattamenti farmacologici o con interventi chirurgici. E questo accade proprio mentre paradossalmente si enfatizza la FIVET come se fosse l’unica soluzione ai problemi di infertilità. È vero che non tutte le forme di sterilità possono essere curate con il ricorso a questo genere di cure, ma è anche vero che la percentuale di gravidanze ottenute con tali metodiche è nettamente superiore a quella che si riferisce alla fecondazione in vitro: le tecniche di microchirurgia tubarica, per esempio, registrano una percentuale di gravidanze a termine tra il 49 e il 53%, mentre i successi della FIVET non vanno al di là del 15-20%5. Non è da escludere che in alcuni casi il ricorso alla FIVET appaia come il più sbrigativo o il meno oneroso per la coppia o quello che reca maggiori soddisfazioni professionali all’équipe medica. Sarebbe onesto però ammettere che esso presenta percentuali di successo relativamente basse ed è gravato da pesanti implicazioni esistenziali, psico-fisiche e morali. L’utilitarismo però tende a sottacere tali implicazioni, in nome di un bene più facilmente raggiungibile e di un vantaggio più cospicuo per tutte le parti in causa.

3. EUGENISMO La deriva più preoccupante delle concezioni produttivistiche e utilitaristiche è l’eugenismo. È questa una posizione che prende le mosse già da Galton, cugino di Darwin, il quale nel 1883 coniò il termine eugenetica, sostenendo che essa 4 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, Città del Vaticano 1987, II, 5. 5 Cfr. D. TETTAMANZI, Nuova bioetica cristiana, cit., 198.


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«è la scienza del miglioramento della razza che non si limita al controllo di unioni giudiziose, ma che, soprattutto nel caso dell’uomo, si occupa di tutte le influenze suscettibili di dare alle razze meglio dotate la possibilità di sopraffare le razze meno buone»6.

Su questa base Galton teorizza che ci sono fra gli uomini razze più o meno dotate e che coloro i quali non riescono ad inserirsi in modo efficace nella società è perché sono geneticamente meno dotati. Per il bene della società è perciò necessario che lo Stato contribuisca alla selezione degli individui mediante una sorta di controllo genetico. Sulla scorta delle idee di Galton sorgono le prime cattedre di eugenetica e si celebrano i primi Congressi internazionali. Nel 1932 si svolge a New York il III Congresso internazionale di eugenetica, in cui si afferma che «la ricaduta sociale dell’informazione genetica è l’igiene razziale». Forse non è un caso se l’anno successivo, il 1933, vede in Germania l’avvento al potere di Hitler, il quale emana la prima legge per la prevenzione delle nascite di individui portatori di tare ereditarie. I gravissimi fatti accaduti nei lager nazisti e gli orrori suscitati dai programmi hitleriani di selezione razziale suscitarono, all’indomani della seconda guerra mondiale, un comprensibile sdegno generale, che trovò formulazione nella Dichiarazione di Helsinki, in cui si affermò che non è possibile considerare la scienza come una realtà moralmente neutra e che il primato dell’uomo, sintetizzato nell’espressione «dignità umana», non può essere mai violato. Una tale violazione infatti costituisce «un crimine contro l’umanità». Su queste basi sorse la bioetica, intesa come sapienza morale atta a fare da mediazione tra le conoscenze scientifiche e le sue applicazioni nella vita concreta della gente. Si ha l’impressione che oggi certe idee eugenistiche stiano tornando in auge. Forse molti lo pensano, anche se nessuno lo dice. Se è cosa buona e giusta cercare di debellare le numerose malattie ereditarie, non è certamente accettabile farlo attraverso programmi di selezione razziale, che considerano l’essere umano come una cavia. È in questo ambito che s’inserisce, per esempio, la tanto decantata categoria della qualità della vita. 6 Cit. in M. LOMBARDI RICCI, Un ponte ancora da costruire tra biologia ed etica, in Rivista di Teologia morale 148 (2005) 436.


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Quest’espressione è quanto meno ambigua, perché mentre per alcuni essa significa uno sforzo di miglioramento delle condizioni di vita delle persone, per altri corrisponde ad un avallo della selezione eugenistica, nel senso che ci sarebbero vite umane degne di essere vissute ed altre non meritevoli di essere portate avanti, perché imperfette o tarate. Non è esagerato affermare che molte persone oggi sono affette dalla sindrome del figlio perfetto, bello, efficiente. L’eventuale possibilità, anche remota, che il figlio possa nascere con dei difetti fa scattare subito il suo rifiuto, motivato ancora una volta in un quadro di pietismo emotivistico, che fornisce discutibili parametri di perfezione, normalità e felicità. Non è difficile percepire i limiti, ma anche i pericoli delle concezioni eugenistiche. Se ne stanno accorgendo anche autorevoli esponenti del pensiero laico, come Habermas e Jonas, oltre che vecchie militanti femministe ed insigni personaggi che in passato hanno sostenuto a spada tratta l’aborto e la fecondazione artificiale7.

7 Ha destato scalpore, di recente, la pubblicazione di un libro emblematicamente intitolato Madri selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile. Autrici di questo testo sono Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, due giornaliste che si sono incontrate nel 1993 presso la redazione de “Il Manifesto” e che da allora hanno lavorato insieme a “Noi donne” e al Ministero delle pari opportunità. Durante la campagna referendaria per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita hanno scritto una lettera per spiegare la loro astensione “femminista, libertaria e di sinistra”. Nella prima pagina del loro libro si legge questa frase: «Abbiamo concepito i nostri figli nel piacere, li abbiamo partoriti accucciate, nel dolore e nel sangue, li abbiamo attaccati al seno con gusto per anni. E se in futuro si vergognassero di noi, le loro madri selvagge? Se ci rimproverassero di averli fatti nascere come umani, non selezionati, non diagnosticati, non testati, confidando in una sorte che pure avrebbe potuto essere predetta e scelta? Forse da adulti scoprirebbero di avere un difetto che si poteva evitare se fossero stati concepiti in vitro da embrioni verificati. ‘Preferireste non essere nati?’ potremmo allora gridare noi, indignate da tanta gratitudine. E probabilmente gli daremmo anche uno schiaffo. Mentre scriviamo ci sono già madri che passano questo gran brutto quarto d’ora, e anche di peggio. In Francia e negli Stati Uniti, figli che si ritengono malriusciti hanno potuto intentare una causa legale alle donne e ai medici che li hanno lasciati nascere senza preoccuparsi di identificarli ed eliminarli come malformati e malati, magari fin dalla vita embrionale»: A. DI PIETRO – P. TAVELLA, Madri selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile, Torino 2006, 3.


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4. CONTRATTUALISMO Chi fonda il proprio agire su posizioni utilitaristiche o eugenistiche si trova ovviamente posto dinanzi a scelte lancinanti, dovendo talora decidere quali vite umane sono degne di questo nome e quali invece vanno scartate. Quale criterio si deve seguire per assumere tali decisioni? Per i bioeticisti di matrice relativista, che avallano la scelta del bene più utile per la maggior parte delle persone, il criterio da seguire è quello dell’etica contrattualistica, consistente nel fatto che coloro i quali sono degni del titolo di persone umane si siedono al tavolo delle trattative e, in maniera convenzionale, assumono le decisioni del caso8. Ciò accade perché si ritiene che in questo campo tutto sia convenzionabile: la natura dell’embrione, la dignità della procreazione, il valore della vita umana. Alla radice di un tale atteggiamento c’è l’idea che «non tutti gli esseri umani sono persone»9. Possono dirsi infatti persone «solo gli individui in grado di dare il proprio permesso e di disporre con autorità morale di se stessi e dei propri beni»10.

Utilizzando un’arbitraria distinzione fra vita biologicamente umana e vita umano-personale, coloro i quali portano avanti queste idee ritengono che «lo status morale dei mammiferi adulti non umani è superiore a quello dei feti umani e degli infanti»11. 8

M. Mori, ad esempio, sostiene che la bioetica segna il passaggio da un’etica tradizionale, fatta di divieti e di limiti, ad una nuova etica, che si affranca dalle dipendenze religiose del passato e dal senso del dovere assoluto. La vecchia etica sottolineava l’aspetto sacrale della vita, presentandosi come un sistema di regole che riteneva la vita intangibile, qualunque cosa accadesse; la nuova etica invece sottolinea la qualità della vita (cfr. M. MORI, La “novità della bioetica”, in S. RODOTÀ, Questioni di bioetica, Roma – Bari 1993, 400-414; M. MORI, Bioetica. Nuova scienza o riflessione morale?, in Mondo operaio 11 [1990] 120128; ID., La bioetica: che cos’è, quand’è nata e perché. Osservazioni per un chiarimento della “natura” della bioetica e del dibattito italiano in materia, in Bioetica 1 [1993] 115143). Analoghe considerazioni si trovano in H.T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, Milano 1991; P. SINGER, Etica pratica, Napoli 1989. 9 H.T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, cit., 256. 10 Ibid., 256. 11 Ibid., 273-274.


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Sostengono anche che alla vita di un feto deve essere accordato «un valore non più grande di quello di un animale non umano a un livello simile di razionalità, autocoscienza, consapevolezza, capacità di sentire»12.

Di conseguenza la norma generale di proteggere i neonati e di averne cura «ammette eccezioni in presenza di una bassa qualità dei risultati e dei costi elevati del trattamento»13.

5. STATUTO DELL’EMBRIONE Come si vede, tutti i nodi problematici vengono al pettine, quando si tratta di definire quale valore attribuire all’embrione, al feto, allo stesso neonato. I pericoli che fin qui abbiamo sottolineato possono trovare una valida sintesi nella questione dell’inizio della vita umana e dello statuto dell’embrione; una questione che non è eludibile nella riflessione bioetica sulla procreazione assistita. Non potendo in questa sede approfondire in tutte le sue implicazioni questa complessa problematica, possiamo limitarci a quanto suggerito in merito dal comitato nazionale italiano di bioetica. Dopo due anni di intenso lavoro, che ha visto confrontarsi le differenti posizioni dei quaranta componenti, il Comitato ha pubblicato un documento sullo statuto dell’embrione umano14, nel quale volutamente non assume un linguaggio metafisico, perché ritiene di esprimersi più efficacemente e di poter superare le divergenze di vedute utilizzando il linguaggio dell’uomo comune. Su questa base il Comitato afferma che «l’embrione è uno di noi». Questa frase ha tutta l’efficacia del buon senso e del modo di esprimersi della gente semplice, anche se non affronta in maniera chiara e distinta le implicazioni bio-ontologiche della questione. L’espressione «uno di noi» dice però con chiarezza 12

P. SINGER, Etica pratica, cit., 120. H.T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, cit., 287 14 COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Identità e statuto dell’embrione umano, 22 giugno 1996. 13


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che l’embrione non è mero «materiale biologico», ma il segno di una presenza umana, che merita rispetto e tutela. Dice pure che l’embrione appartiene alla «famiglia umana», per il semplice fatto che ognuno di noi è stato embrione. A lui quindi si applica la “regola aurea” della morale: non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Di conseguenza il Comitato nazionale di bioetica all’unanimità riconosce «il dovere morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone, e ciò a prescindere dal fatto che all’embrione venga attribuita sin dall’inizio con certezza la caratteristica di persona nel suo senso tecnicamente filosofico, oppure che tale caratteristica sia ritenuta attribuibile soltanto con un elevato grado di plausibilità, oppure che si preferisca non utilizzare il concetto tecnico di persona e riferirsi soltanto a quell’appartenenza alla specie umana che non può essere contestata all’embrione sin dai primi istanti e non subisce alterazioni durante il suo successivo sviluppo»15.

A questo convincimento era approdato alcuni anni prima anche R. Edward, uno dei primi medici ad essersi occupato della fecondazione in vitro. Egli descrive l’embrione come «un essere magnificamente organizzato, capace di mettere in azione il suo stesso sistema biochimico» e non ha difficoltà ad ammettere che «anche nello stadio del pre-impianto nell’utero l’embrione è un microscopico essere umano in un precocissimo stadio di sviluppo»16.

6. UN APPROCCIO ECOLOGICO Ritenendo insufficienti e pericolosi gli atteggiamenti etici fin qui passati in rassegna non rimane che auspicare, in questo delicato campo della fecondazione assistita, l’adozione di un approccio etico di tipo ecologico. Appare quanto meno paradossale il fatto che oggi l’ambientalismo e l’eco15 16

L. c. Cit. in L’Osservatore Romano, 19 maggio 1984, 5.


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logismo si riferiscano, con validissime ragioni, al rispetto della natura degli animali, delle piante, dell’aria e dell’acqua, ma non facciano altrettanto nei confronti della sessualità e della procreazione umana. Un tale ambientalismo risulta quanto meno sospetto, nel momento in cui non assume come criterio centrale il rispetto della natura umana e delle sorgenti del nascere tra gli uomini. È chiaro che oggi il concetto metafisico di natura umana conosce una profonda crisi, in quanto la post-modernità si caratterizza per la dislocazione dell’essere al semplice esserci e per il trionfo di quella che M. Kundera chiama «l’insostenibile leggerezza dell’essere». Ma è altresì evidente che senza un radicamento nell’ontologia della persona tutte le posizioni etiche attualmente in auge sconfinano nel relativismo e comportano conseguenze molto perniciose per il futuro stesso dell’umanità, al punto da potersi affermare che oggi il vero problema è: di quale uomo stiamo parlando? Quale uomo vogliamo tutelare? È probabile che il dialogo tra le diverse visioni antropologiche ed etiche possa trovare un comune terreno d’incontro proprio attorno alla parola ecologia, la quale va caricata sempre più di significato morale, attorno alla categoria del rispetto. Questo termine non appartiene solo al galateo e alla buona creanza, ma indica essenzialmente la capacità di guardare l’altro per il suo valore specifico, e non per la sua utilità. Il rispetto ecologico delle persone e delle cose conduce ad una salvaguardia vigile e premurosa della loro specifica identità; rende capaci di rapportarsi agli altri senza la voglia di prenderne possesso; immunizza dal pericolo sempre ricorrente di sfruttare consumisticamente ogni cosa per il proprio tornaconto. La riduzione della vita umana a prodotto materiale della volontà dell’uomo è una delle cause principali del suo deprezzamento e della scarsa responsabilità morale con cui molti uomini del nostro tempo si accostano ad essa. La vita di un figlio, pur provenendo da una decisione dei suoi genitori, è sempre il riflesso di una volontà più alta: quella di Dio. In un’ottica di fede la paternità e la maternità umane si radicano nell’universale paternità di Dio. Di conseguenza


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«quando dall’unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona»17.

Anche coloro i quali non accolgono le parole della fede possono ritrovarsi d’accordo nel sostenere un’ecologia umana, che favorisca in tutti non solo il rispetto della vita fin dal suo concepimento, ma anche il senso dello stupore attorno al mistero del procreare umano. Saremmo tutti più poveri se perdessimo un tale stupore o se smarrissimo il senso di questo mistero.

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GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie, 1994, 9.



IMPLICANZE GIURIDICHE DELLA PROCREAZIONE ASSISTITA

TOMMASO AULETTA*

PREMESSA La legge che disciplina la materia (19 febbraio 2004 n. 40) è stata emanata dopo un lungo periodo di discussione e disattende l’autorevole posizione della Chiesa cattolica contraria alle pratiche artificiali di procreazione. La normativa in questione fornisce risposte, non sempre soddisfacenti, alle problematiche che le pratiche avevano suscitato, fin dalla loro diffusione, introducendo una serie di rigidi divieti di dubbia efficacia e coerenza, dai quali si desume un sostanziale sfavore verso la procreazione medicalmente assistita, disattendendo le più flessibili soluzioni proposte in precedenza da una Commissione nominata dal Ministero della Sanità (meglio conosciuta come Commissione Busnelli, dal nome del presidente). Ci si chiedeva, infatti, in presenza di quali patologie (sterilità, infertilità o anche malattie genetiche) fosse opportuno consentire la procreazione medicalmente assistita; quale trattamento era necessario riservare agli embrioni fecondati; i requisiti che dovevano avere coloro che volevano essere ammessi alle pratiche (coppie o anche persone sole — etero o anche omosessuali — persone sposate o anche conviventi — maggiorenni o anche minori di età). Altro aspetto particolarmente delicato era quello di consentire o meno il ricorso alla fecondazione eterologa o solo a quella omologa. Ove si fosse optato per la soluzione più permissiva, era molto discusso se dovesse solamente consentirsi il ricorso al seme di donatore o anche alla donazione * Ordinario di Istituzioni di Diritto privato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Catania.


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Tommaso Auletta

dell’ovulo femminile, e quali scelte fosse opportuno compiere onde adottare gli accorgimenti necessari ad evitare il rischio di incesto. Ancor più discussa era l’opportunità di ammettere la c.d. surrogazione di maternità nonché la fecondazione artificiale col seme del marito o del partner defunto (c.d. fecondazione post-mortem) o l’impianto nella donna, dopo la morte del padre, dell’embrione già formato. Le pratiche eterologhe e la maternità surrogata ponevano anche il problema dell’individuazione dei genitori del bambino, nato in seguito alle medesime.

1. I PRINCIPI ADOTTATI DALLA NUOVA LEGGE La legge n. 40 del 2004, nel fornire soluzioni alla maggior parte dei problema menzionati, si ispira ai seguenti principi: a) Assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti nelle pratiche, ivi compreso il concepito. b) Ammetterle solo in presenza di infertilità e sterilità documentata di uno dei membri della coppia ed in mancanza di altri sistemi terapeutici efficaci (c.d. residualità e gradualità). c) Destinatarie sono solo coppie di sposi o di conviventi, maggiorenni, di sesso diverso, ambedue in vita, in età potenzialmente fertile, d) le quali abbiano espresso il loro consenso, previa adeguata informazione da parte del medico, riguardo alle metodologie seguite, agli effetti sanitari e psicologici che ne possono derivare, alle probabilità di successo ed ai rischi che la pratica comporta, ai costi ed agli effetti giuridici della medesima, della possibilità — in alternativa alla fecondazione artificiale — di avere un proprio figlio mediante adozione di un minore abbandonato. Il consenso deve esprimersi per iscritto e può essere revocato fino alla formazione degli embrioni. Occorre attendere che siano trascorsi almeno 7 giorni dall’espressione del consenso per formare gli embrioni. e) Il nato acquisisce, a tutti gli effetti, lo stato di figlio legittimo o naturale della coppia che lo ha generato. f) È sempre vietata la fecondazione eterologa e la surrogazione di maternità, ma, qualora il divieto fosse disatteso, non è ammesso il disco-


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noscimento di paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità da parte del genitore consenziente; la madre non può pretendere di non essere nominata (a differenza di quanto accade nella procreazione naturale). Il donatore non diviene mai genitore e non è, pertanto, gravato dei relativi doveri, anche solo di carattere patrimoniale. Nulla si prevede, invece, riguardo alla determinazione della maternità nel caso in cui venisse violato il divieto di ricorrere alla c.d. maternità surrogata; troverà di conseguenza applicazione il principio generale, accolto dall’ordinamento, secondo il quale madre è colei che ha partorito. Principio questo che, quantunque sorto originariamente con riferimento alla fecondazione naturale, non viene derogato dalla legge in esame proprio per evitare che la coppia possa conseguire, per vie traverse, gli obiettivi desiderati (avere un figlio proprio), avversati dall’ordinamento.

1.1. La tutela dell’embrione Fra i principi introdotti dalle norme, alcuni sono volti ad assicurare un’incisiva tutela dell’embrione, scelta di particolare rilevanza dal punto di vista etico ma non del tutto condivisa da una larga opinione a causa degli ostacoli, ritenuti eccessivi, frapposti alla protezione di altri interessi meritevoli di tutela quali, ad es., la salute della donna e lo sviluppo della ricerca scientifica. Limitandoci a ricordare i principali, vengono posti divieti: a) alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni, se non per finalità terapeutiche e diagnostiche, a tutela della salute dell’embrione; b) alla produzione di embrioni soprannumerari; c) di selezione a scopo genetico degli embrioni, manipolazione, predeterminazione delle caratteristiche genetiche, se non in vista di perseguire finalità diagnostiche e terapeutiche a favore dell’embrione; d) di clonazione, creazione di ibridi e chimere; e) di soppressione degli embrioni, ivi compresa la c.d. riduzione embrionaria (ad eccezione di quanto previsto dalla legge sull’aborto), nonché di criocoservazione. dei medesimi, a meno che, sia momentaneamente impossibile il trasferimento nella donna per gravi cause di forza maggiore;


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f) di fecondare più di 3 embrioni, con l’obbligo di impiantarli tutti. Si configura inoltre un diritto dei genitori di essere informati sullo stato degli embrioni.

2. LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA La questione che è stata portata all’attenzione della giurisprudenza fin dal periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge è quella riguardante l’ammissibilità, su richiesta di genitori malati di talassemia, della diagnosi preimpianto. Con ampia ed articolata motivazione il tribunale di Catania1, investito per primo della questione, ha dato risposta negativa al quesito, sulla base della ratio normativa di protezione dell’embrione, ricostruita principalmente sulla base dei lavori preparatori e del testo normativo. La decisione peraltro non ha convinto la dottrina prevalente che l’ha sottoposta a puntuali critiche. Alla tutela dell’embrione si è data assoluta prevalenza anche da parte di due sentenze del Tar del Lazio2 le quali hanno negato che la richiesta di non procedere all’impianto di embrioni malati possa trovare giustificazione nella tutela della salute della madre, così precludendo di fatto l’accesso alla PMA a coppie portatrici di malattie genetiche, quantunque in giurisprudenza sia stata considerata legittima la riduzione embrionaria di gravidanza plurima verificatasi come esito delle pratiche di PMA3 oppure per cause naturali4. Sulla legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge, il quale consente la ricerca clinica solo con finalità terapeutiche e diagnostiche volte a tutelare la salute dell’embrione, ha però sollevato dubbi il Tribunale di Cagliari5, sul presupposto che detta regola rischierebbe di porsi in contrasto

1

3 maggio 2004, in Familia (2004) 947. 9 maggio 2005 n. 3452, in Foro it. 3 (2005) 518; 23 maggio 2005 n. 4047, in Guida al dir. (2005) 26, 59. 3 Trib. Cagliari, 29 giugno 2004, in Fam. dir. (2004) 498. 4 Trib. Cagliari, 5 giugno 2004, ibid., 500. 5 16 luglio 2005, in Foro it. 1 (2005) 2876. 2


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col diritto alla salute della donna, costituzionalmente garantito. Ma la Corte costituzionale6, eludendo sostanzialmente il problema, ha considerato la questione manifestamente infondata per un difetto tecnico nella motivazione di rimessione; infatti il Tribunale aveva sollevato la questione di costituzionalità solo con riferimento all’art. 13 della legge, mentre nell’ordinanza di rinvio il Collegio aveva individuato anche altre norme in essa contenute dalle quali era possibile desumere il divieto di diagnosi preimpianto, onde anche rispetto a queste era necessario sollevare questione di costituzionalità. Peraltro maggiori aperture a favore della diagnosi preimpianto sembrano profilarsi all’orizzonte7. Altra decisione ha preso in considerazione il divieto di crioconservazione degli embrioni ritenendolo operante, con rigida interpretazione, fin dal momento della fecondazione dell’ovulo, cioè ancor prima che vi sia stata la fusione dei gameti maschile e femminile, in seguito alla quale si verifica la formazione delle prime cellule embrionarie8. Per completare il quadro giurisprudenziale, sono da ricordare le pronunce della Corte costituzionale, rese contemporaneamente in data 28 gennaio 2005, che si sono espresse sull’ammissibilità del referendum abrogativo, con riferimento a quesiti volti, rispettivamente, ad abrogare in toto la legge (sentenza 45, la quale l’ha giudicato inammissibile perché lascerebbe l’embrione privo di qualsiasi tutela) o solo parzialmente, in modo da consentire: • un intervento più ampio sugli embrioni a fini di ricerca clinica e sperimentale (sentenza n. 46); • l’accesso alla PMA anche a coppie portatrici di malattie genetiche, rendendo possibile la diagnosi preimpianto, nonché la crioconservazione degli embrioni, senza necessità di procedere ad un solo impianto contemporaneo;

6

9 novembre 2006 n. 369, in Giust. civ. 1 (2007) 27. Il riferimento è da intendersi fatto alla sentenza dell’App. Cagliari, 22 settembre 2007, in Guida al dir. 46 (2007) 59, intervenuta dunque nel periodo intercorrente tra la redazione e la pubblicazione del presente lavoro, la quale ha avuto modo di tornare sull’argomento e, con soluzione di “rottura”, ha ritenuto ammissibile la diagnosi preimpianto, autorizzando quindi il medico al suo compimento. 8 Trib. Roma, 23 febbraio 2005, in Foro it. 1 (2005) 881. 7


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• la rimozione del divieto di revoca del consenso da parte dei richiedenti (sentenza n. 47); • l’abrogazione dell’art. 1, il quale garantisce tutela sia alla donna sia al concepito (sentenza 48); • l’abrogazione del divieto di fecondazione eterologa (sentenza n. 49). I quesiti erano stati considerati ammissibili in quanto non si ponevano in contrasto con la Convenzione di Oviedo del 1997 (“sulla protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina”), riguardavano aspetti complessivamente omogenei, non lasciavano l’embrione sprovvisto di tutela costituzionalmente essenziale. I referendum, come è noto, non hanno raggiunto il quorum richiesto per la validità della consultazione.

3. LE PROBLEMATICHE 40/2004

DERIVANTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA LEGGE

3.1. Divieto di diagnosi preimpianto e presunta irrevocabilità del consenso all’impianto L’affermazione, posta in apertura della legge, di tutela dell’embrione al pari degli altri soggetti coinvolti nella pratica origina il problema, assai complesso, della soggettività del medesimo e del conseguente coordinamento della norma col disposto dell’art. 1 cc., secondo il quale la capacità giuridica generale si acquista al momento della nascita, fatte salve le eccezioni previste dalla legge. Ma viene osservato che il riconoscimento del diritto alla vita del concepito può prescindere dalla risoluzione, in chiave generale, della capacità e soggettività del medesimo. La legge conferma la scelta a favore della vita, fin dal momento del concepimento, già compiuta dall’art. 1 della L. 194/78, non legittimando distinzioni fra preembrione ed embrione, nè fra i diversi momenti di sviluppo dell’ovulo fecondato (oocita – embrione), fra embrioni vitali e non vitali, anche se poi, con compromesso criticabile, considera soluzione accet-


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tabile la crioconservazione dell’embrione a tempo indeterminato, con conseguente inevitabile perdita di vitalità. La tutela dell’embrione quale essere umano in formazione si sostanzia poi nella pluralità di divieti relativi alla sperimentazione e manipolazione sul medesimo, alla creazione di embrioni soprannumerari rispetto alla destinazione all’impianto e conseguente crioconservazione, alla sua soppressione (secondo quanto già stabilito dall’art. 1 Conv. Oviedo). Dalle norme si è desunto anche il divieto di diagnosi preimpianto, tranne il caso in cui essa sia volta alla cura dell’embrione. È però da osservarsi in contrario alla suddetta interpretazione che l’impianto di un embrione malato può nuocere alla salute della madre, onde la diagnosi è essenziale in funzione di detta tutela, a prescindere dalle prospettive di cura dell’embrione9. Questa intensa ed articolata protezione dell’embrione presenta, però, una lacuna di fondamentale importanza che appare difficile da spiegare e che inficia in certa misura tutto l’impianto di valori presenti nella legge: non si prevede l’adozione embrionale quale soluzione volta a salvaguardarne la vita nel caso di abbandono (embrioni crioconservati di cui i genitori non vogliano più l’impianto). Nessun senso ha, infatti, una conservazione senza prospettiva di vita futura fine a se stessa, con la quale non si provoca la morte del feto ma lo si lascia morire senza alcun intervento. Eppure il problema dell’esistenza di embrioni soprannumerari sia era evidenziata già prima dell’entrata in vigore della legge e quest’ultima non elimina tale possibilità (si pensi al caso di rifiuto dell’impianto da parte della donna oppure ad una ragione sopravvenuta che impedisca o sconsigli al medico l’impianto). La menzionata tutela rischia invece, per altri versi, di risultare esuberante rispetto a quella riservata al feto impiantato, essendo questa limitata dalle regole sull’aborto. Appare allora contraddittorio imporre alla donna comportamenti a tutela dell’embrione non impiantato che rimangono, invece, discrezionali sulla base di quest’ultima normativa (ad es., le si vieta di rifiutare un embrione malato non ancora impiantato, mentre ne è ammessa la soppressione dopo l’impianto). 9 Ed è proprio con riferimento a tali problematiche — come rilevato in precedenza nel testo — che si sono avute le prime sentenze successive all’entrata in vigore della legge.


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La ragionevolezza della diversità non si recupera certo affermando che nella PMA il concepimento è frutto di libera scelta, se non altro perché ciò può accadere anche nella fecondazione naturale, senza che tale prova possa costituire impedimento all’aborto. La scelta della limitazione della PMA alla sterilità ed infertilità della coppia è condivisibile nella misura in cui esclude dalle pratiche le coppie che possono superare i loro problemi mediante altre cure, mentre lascia perplessi circa l’esclusione di coppie fertili, portatrici di malattie genetiche. La maggioranza delle leggi straniere operano al riguardo in controtendenza. Come accennato, le coppie sterili, affette da tali malattie, vengono ammesse alla PMA ma parte della giurisprudenza esclude l’ammissibilità della diagnosi preimpianto in vista del trasferimento nella madre solo degli embrioni sani. In tal senso si è espresso — come già ricordato — il Tribunale di Catania10 subito dopo l’entrata in vigore della legge. La sentenza è stata criticata oltre che per la rigida applicazione della legge sulla base della presunta volontà del legislatore storico, soprattutto per aver ritenuto infondate le questioni di costituzionalità sollevate dai richiedenti; a conclusione differente è pervenuto il Tribunale di Cagliari11, il quale ha rimesso, pur senza successo, al giudizio della Corte la compatibilità del divieto di diagnosi preimpianto con la tutela della salute della donna e dello stesso embrione. L’interpretazione dell’attuale disciplina contraria all’ammissibilità della diagnosi preimpianto introduce una soluzione contraria alla salute della donna perché la induce all’impianto ed, eventualmente, alla successiva interruzione della gravidanza ove l’idea di generare un figlio malato le appaia insopportabile (come previsto dalla legge sull’aborto), ma nuoce anche all’embrione perché, nel caso di incertezza circa il suo stato di salute, la donna potrebbe rifiutarne l’impianto quantunque il dubbio risultasse poi infondato. D’altra parte, non essendone prevista l’adozione, sarà destinato a morte sicura. Appare illusorio creare regole di maggior favore per l’embrione non impiantato rispetto a quello che si trova già nella madre, in quanto destinate 10 11

3 maggio 2004, cit. 16 luglio 2005, cit.


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comunque a non trovare applicazione una volta iniziata la gravidanza. La soluzione più appropriata non è forzare l’impianto per qualsiasi ragione non voluto, ma favorire la soluzione alternativa dell’adozione di embrione abbandonato. In particolare risulta irragionevole non anticipare un giudizio di salvaguardia della salute della donna e di rischio di compromissione della stessa dovuto alla possibilità di generare un figlio malato. È vero che la legge sull’interruzione della gravidanza non la considera lecita per il solo fatto che il feto risulta malformato e tuttavia riconosce la prevalenza dell’interesse alla tutela della salute fisica e psichica della madre rispetto alla tutela dell’embrione. Irragionevolezza che si palesa evidente alla luce dall’interpretazione che ritiene ammissibile la riduzione di gravidanza plurima, nociva alla salute della madre, anche se dovuta alla fecondazione artificiale. L’unica giustificazione che può forse riconoscersi al giudice catanese, riguardo alla decisione assunta, è che la richiesta di autorizzazione alla diagnosi preimpianto, al fine di non procedere al trasferimento nella donna degli embrioni malati, veniva avanzata prima dell’inizio della pratica. Fosse stata posta successivamente avrebbe potuto apparire maggiormente giustificata in relazione alla tutela della sua salute. Tuttavia occorre chiedersi se «appare irragionevole configurare un rischio per la salute della donna già in questa fase iniziale, tenuto conto che nella legge sull’aborto la valutazione è integralmente rimessa alla donna e che la stessa potrebbe avere già dovuto superare situazioni che l’hanno provata anche psicologicamente tanto da considerare insopportabile l’idea di dover essere indotta nuovamente ad abortire nel caso di malformazione degli embrioni»12. Non mi sembra che il problema possa impostarsi ritenendo che la donna voglia far valere in tal modo un diritto al figlio sano, come sostenuto dal giudice catanese. Occorre invece dare il giusto valore al dettato dell’art. 14, 5° comma della legge, in virtù del quale i genitori hanno diritto di essere adeguatamente informati sullo stato di salute degli embrioni prodotti, che non può certamente essere garantita in assenza di diagnosi preimpianto. Passando ad altro aspetto, occorre sottolineare che è sostanzialmente inapplicabile la regola, posta dall’art. 6, comma 3 l. 40/2004, di irrevoca12

Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit.


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bilità del consenso prestato dalla madre quando l’embrione è stato già formato, perché contraria a principi costituzionali, nonché all’art. 5, comma 3 della Conv. di Oviedo. Detta revoca comporta impossibilità dell’impianto, in quanto esso non può avvenire coattivamente. Non ricorrono infatti le condizioni per la configurazione di un trattamento sanitario obbligatorio, non sussistendo un interesse generale da tutelare. D’altra parte — come più volte ribadito — la donna resta libera di ricorrere all’aborto anche dopo l’impianto di un embrione fecondato artificialmente. La crioconservazione degli embrioni rifiutati è allora l’unica soluzione prospettabile in attesa di una decisione definiva della donna. Tuttavia il coniuge che revoca il consenso si rende responsabile di violazione dell’indirizzo concordato relativo alla conduzione della vita familiare (con conseguente possibilità di addebito della separazione). Se la revoca è successiva alla formazione degli embrioni la donna può comunque pretendere l’impianto anche contro la volontà del padre. Strumentale è l’affermazione del Tar Lazio13 secondo la quale l’ammissibilità della diagnosi preimpianto altererebbe la parità fra le coppie che sono in grado di generare naturalmente e quelle che possono giovarsi della PMA in quanto solo queste ultime avrebbero certezza di procreare un figlio sano. In realtà ambedue potrebbero ricorrere alla diagnosi prenatale ed alla soppressione dell’embrione malato. Mi sembra irragionevole “imporre” in qualche misura l’aborto quando la scienza è in grado di evitare questo trauma alla donna (mediante diagnosi preimpianto) per un presunto criterio di equità e parità di trattamento. La diagnosi preimpianto salverebbe almeno la vita dell’embrione sano e, ove se ne ammettesse l’adozione, potrebbe anche trovarsi una coppia disposta ad adottare quello malato. Contrario al diritto alla salute della donna è anche il rigido divieto di crioconservazione degli embrioni che la costringe a sottoporsi anche a ripetute stimolazioni per produrre ovociti (lo riconosce pure il Tar. Lazio14, ritenendo però che l’unico rimedio sia il cambiamento della legge). Più 13 14

9 maggio 2005 n. 3452, cit. L.c.


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ragionevole era la proposta della Commissione ministeriale che introduceva attenuazioni al divieto di crioconservazione degli embrioni qualora ripetute stimolazioni ovariche mettessero in pericolo la salute della donna. Anche l’obbligo di impianto di tutti gli embrioni fecondati, lascia perplessi perché accresce il rischio di parti plurigemellari che possono pregiudicare la salute della madre e dei figli. L’adozione embrionale sarebbe stata utile anche da questo punto di vista.

3.2. Considerazioni sui requisiti dei richiedenti la PMA La previsione normativa in virtù della quale il richiedente deve essere in possesso di particolari requisiti per accedere alla PMA appare condivisibile e consente di escludere la configurabilità di un diritto della donna di accesso alla fecondazione artificiale. Non mi sembra possa obiettarsi in contrario che verrebbe così negata o comunque limitata la sua libertà di procreazione. Infatti, mentre costituisce certamente esercizio di detta libertà fondamentale la decisione di procreare o meno naturalmente (solo gli stati totalitari possono pensare di intervenire in un ambito così delicato della vita individuale), molti dubbi possono prospettarsi riguardo ad un diritto alla procreazione artificiale, la quale non può realizzarsi per sola decisione della coppia all’interno dell’intimità sessuale ma richiede un rapporto di collaborazione da parte di terzi ed in particolare delle strutture sanitarie dello Stato e, nel caso di fecondazione eterologa, anche di un terzo donatore. D’altra parte la PMA non può annoverarsi fra i trattamenti terapeutici, perché non cura la sterilità ma consente di procreare nonostante la sua esistenza. Ed allora è legittimo che la legge intenda contemperare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella pratica, vi compreso il nascituro. Il suo benessere viene garantito assicurando la presenza di una famiglia composta da persone che possano ricoprire il ruolo genitoriale in modo appropriato, almeno in astratto (uomo e donna, in età fertile, sposati o conviventi, ambedue in vita). La legge non fa menzione della rilevanza della separazione coniugale o della dissoluzione della coppia, intervenute fra il momento di formulazione del consenso alla pratica e l’impianto dell’embrione; esse dovrebbero pertanto risultare irrilevanti. È da sottolineare


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peraltro che, essendo l’intervallo di tempo intercorrente fra la richiesta e la fecondazione estremamente breve, il problema potrebbe presentarsi, realisticamente, nel caso in cui non sussistano le condizioni per procedere subito all’impianto per cause sopravvenute, ivi compreso il rifiuto della donna. Condivisibile è la possibilità, riconosciuta anche ai conviventi, di essere ammessi alla PMA; essi vengono in tal modo opportunamente considerati dall’ordinamento “famiglia degli affetti,” in grado di garantire adeguata cura al bambino, al pari della famiglia legittima. Rimangono imprecisate le modalità di accertamento della convivenza e la rilevanza della sua stabilità15 (non menzionate dall’art. 5) che invece la legge avrebbe fatto bene a precisare. Si potrebbe dunque pensare ad un riscontro attraverso le risultanze anagrafiche o ad una dichiarazione in autocertificazione. Il problema verrebbe risolto normativamente ove fosse introdotto nell’ordinamento il modello delle c.d. convivenze registrate. Viene quindi considerata essenziale dalla legge l’esistenza di una coppia, che possa garantire la doppia figura genitoriale quale soluzione ottimale per assicurare adeguata cura del minore; giustificata deve pertanto ritenersi l’esclusione di single ed omosessuali, ma anche il presupposto che i richiedenti si trovino in età potenzialmente fertile, onde evitare dei genitorinonni. Un problema delicato, già presentatosi prima dell’entrata in vigore della legge, suscita la regola secondo la quale per procedere alla PMA occorre l’esistenza in vita di ambedue i genitori, col conseguente divieto della fecondazione post-mortem. Ci si chiedeva infatti quale sorte dovesse essere riservata all’embrione già esistente (e crioconservato) ove, prima del suo impianto, sopravvenisse la morte del padre. Al dubbio, non risolto con chiarezza dalla legge danno adeguata risposta le Linee guida emanate dal Ministero della Sanità, le quali stabiliscono che, se l’embrione è già formato, la donna ha diritto di richiederne l’impianto, nonostante la morte del padre. Non si prevedono tempi specifici per prendere tale decisione. Questa situazione comporta implicazioni di diritto successorio che sarebbe stato opportuno affrontare specificamente, in quanto generalmente il concepito vanta i medesimi diritti dei figli già nati al momento di apertura 15 Ma nel senso che detto requisito risulta indispensabile, M. SEGNI, Conviventi e procreazione assistita, in Riv. dir. civ. 1 (2007) 7 ss.


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della successione, purché venga alla luce entro trecento giorni dalla stessa; termine che potrebbe essere largamente superato ove l’embrione non fosse impiantato subito dopo la morte del marito o del partner. Sarebbe allora opportuno prevedere una regola specifica per il nascituro fecondato artificialmente. Il rigido divieto di fecondazione eterologa non rende, invece, possibile l’impianto dell’embrione nella moglie o nella compagna del padre sopravvissuto, con conseguenze sperequative di dubbia ragionevolezza anche per la conseguente condanna a morte dell’embrione stesso, effetto questo in evidente contrasto con la ratio della legge. In tale ipotesi non ricorrerebbero infatti le ragioni del divieto di maternità surrogata in quanto la donna non assumerebbe il ruolo di madre portante ma di madre di un embrione non discendente da lei geneticamente. Una soluzione di salvaguardia del rapporto di sangue (col padre) sarebbe peraltro preferibile anche se fosse possibile l’adozione dell’embrione. Su questo punto la legge andrebbe dunque modificata.

3.3. Divieto di fecondazione eterologa e di surrogazione di maternità Il categorico divieto di fecondazione eterologa andrebbe comunque rivisto, anche in circostanze diverse da quelle appena messe in luce. In primo luogo può osservarsi che esso si pone in contrasto con le scelte operate dalla maggior parte degli ordinamenti europei, dato questo non privo di rilevanza perché la soluzione accolta dalla nostra legge finisce con l’alimentare i c.d. “viaggi della speranza”, almeno per coloro che ne hanno le possibilità economiche. Peraltro, che la genitorialità derivi dalla generazione è sì un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale deve però armonizzarsi con altri non meno importanti (interesse del minore alla stabilità familiare; rilevanza della genitorialità di adozione). L’opportunità di una scelta di segno opposto, per venire incontro a coppie altrimenti escluse dalla generazione a causa del tipo di sterilità (e dunque non in grado di ricorrere alla fecondazione omologa), avrebbe potuto tenersi in adeguata considerazione, senza per questo stravolgere i principi dell’ordinamento. Può convenirsi sul fatto che la fecondazione eterologa dia luogo a


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problemi delicati (quale, ad es., il rapporto esistente tra la persona generata ed il donatore dei gameti; la possibilità del figlio di conoscere le proprie origini, ove l’identità del donatore rimanesse segreta; le misure da adottare per scongiurare il rischio di incesto) e che non deve tutelarsi il desiderio di genitorialità ad ogni costo; ma la legge sembra avere optato alla fine per la scelta meno coerente, perché, avendo optato per il divieto assoluto di fecondazione eterologa (a mio avviso discutibile) non l’ha accompagnato con misure idonee a scoraggiarne la violazione, limitandosi dunque ad una mera enunciazione di principio. Infatti non vengono poste sanzioni per la coppia che è ricorsa alla fecondazione eterologa e per il donatore, consentendo loro di raggiungere, fattualmente, i risultati voluti (la coppia di avere un figlio geneticamente non del tutto estraneo, il donatore di andare esente da vincoli genitoriali). Se si fosse voluto realmente scoraggiare il ricorso alla fecondazione eterologa si sarebbe allora dovuta adottare la regola di assunzione della paternità da parte del donatore. Inoltre il divieto assoluto di fecondazione eterologa non consente al legislatore di approntare una disciplina efficace della materia, in vista della predisposizione di cautele appropriate a tutela degli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella pratica (quali, ad esempio, la previsione di limiti alla donazione del seme, l’introduzione del divieto di utilizzazione di miscele di semi, la previsione di controlli sul donatore e del diritto del figlio di conoscere le proprie origini, ecc.). Condivisibile è invece il divieto assoluto di surrogazione di maternità, anche quando l’accordo non preveda la corresponsione di un corrispettivo in denaro. Quest’ultimo comporta infatti una mercificazione del corpo che si pone in conflitto con la tutela costituzionale della dignità della persona (il divieto è espresso anche dall’art. 21 della Convenzione di Oviedo). Ma anche nel caso di gratuità, la pratica è da vietare perché crea una doppia maternità che si traduce in una rinunzia forzata al bambino per una delle madri, creando una situazione confliggente con la tutela dei valori fondamentali della persona. La legge non prevede come debba risolversi il problema dell’attribuzione della genitorialità nel caso di violazione del divieto di maternità surrogata, onde si dovrà ricorrere alla regola generale di maternità della


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partoriente. Essa costituisce efficace deterrente perché non consente alla coppia richiedente di raggiungere l’obiettivo prescelto di generare un proprio figlio di sangue, a differenza di quanto accade ove la donna riceva la donazione di ovulo fecondato dal proprio partner ed in essa impiantato, perché in tal caso è legalmente madre per avere partorito il bambino. La legge tace anche sulla soluzione da adottare nel caso di nascita seguita ad uno scambio con i gameti di altra coppia; ma, alla luce del criterio legale, genitori dovrebbero considerarsi la donna che ha partorito ed il marito o il partner. Il problema della genitorialità nel caso di fecondazione eterologa realizzata in violazione del divieto è invece risolta dalla legge con l’attribuzione della stessa alla coppia richiedente, vietando il disconoscimento di paternità e dando prevalenza al criterio di responsabilità della generazione, rispetto alla derivazione genetica. Il disconoscimento appare allora possibile solo dimostrando l’incompatibilità genetica tra l’embrione fecondato in vitro ed il nato. Se il padre non ha prestato il proprio consenso alla fecondazione artificiale il nato si trova nella posizione deteriore di carenza di paternità non passibile di rimedi. Nulla dispone la legge per i casi di consenso invalidamente prestato dal genitore o revocato. Il problema si pone anche nel caso di fecondazione omologa che non sia frutto di accordo intervenuto fra i membri della coppia (ad es., l’uomo aveva acconsentito al prelievo del seme ma si riservava ancora di decidere circa la sua utilizzazione in vista della fecondazione omologa oppure ne aveva autorizzato la raccolta per altri fini mentre, su richiesta della moglie o della convivente era stato illecitamente utilizzato per la creazione dell’embrione). In vista dell’individuazione della soluzione più appropriata, occorre tenere conto che la fecondazione artificiale, a differenza di quella naturale, può portare ad una generazione non solo contro la volontà ma addirittura all’insaputa del genitore. È lecito dubitare che la mancanza di un consenso non solo non adeguatamente informato ma addirittura non espresso possa rendere genitore per la presenza del solo fattore genetico. La soluzione positiva è quella che tutela meglio, almeno in apparenza, il bambino perché gli garantisce di poter contare sulla doppia figura genitoriale, mentre il padre, leso nella libertà di procreazione, potrebbe


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pretendere il risarcimento del danno dal responsabile (normalmente il medico che si è prestato e la donna che ha richiesto la fecondazione artificiale). Quella negativa garantisce invece maggiormente il genitore, non gravandolo di doveri il cui contenuto non è solamente economico. Peraltro c’è da tenere conto che anche al figlio non giova acquisire un genitore del tutto disinteressato al proprio ruolo, mentre il mantenimento potrebbe essergli garantito, a titolo di risarcimento, da chi si è reso responsabile della violazione. Sembra preferibile quest’ultima soluzione.

CONCLUSIONI Le considerazioni sin qui proposte hanno inteso fornire l’idea della complessità della materia, toccando alcuni tra i problemi più delicati e di rilievo che le norme lasciano insoluti o per i quali offrono soluzioni di dubbia coerenza complessiva e di conformità ai valori costituzionali, onde spetterà all’interprete suggerirne una lettura in armonia col sistema. Il referendum abrogativo promosso per modificare la disciplina in alcuni aspetti non ritenuti soddisfacenti forse non sarebbe stata la soluzione ottimale per risolvere detti problemi, ma avrebbe obbligato il legislatore ad intervenire per rivedere l’impianto normativo. Ciò non è accaduto, nonostante gli impegni assunti dai partiti allora facenti parte della maggioranza di governo che, ove il referendum non si fosse tenuto, sarebbero poi intervenuti per promuovere adeguate modifiche legislative. Una normativa volta a disciplinare la materia era certamente necessaria ma non mi sembra esistano i presupposti per affermare che le perplessità manifestate dagli interpreti fin dalla sua entrata in vigore siano state superate. Resta il dubbio se la scelta di evitare ad ogni costo il referendum abrogativo sia stata veramente la migliore.


L’AGIRE RESPONSABILE IN MEDICINA DELLA RIPRODUZIONE E RIGENERATIVA

CORRADO LOREFICE*

1. COLLOCAZIONE DEL CONCETTO DI RESPONSABILITÀ NELL’ATTUALE RIFLESSIONE ETICA

G. Piana, in un suo vivace volume, focalizza l’impasse che sembra attualmente costringere il dibattito bioetico e delinea una prospettiva: «La scienza moderna è orientata a escludere la questione del senso, e a negare perciò la plausibilità dell’etica. La quale, a sua volta, tende a chiudersi in posizione difensiva, ricorrendo a criteri “naturalistici”, che rendono impraticabile ogni forma di dialogo. La possibilità di uscire da questo stato di paralisi è legata all’elaborazione di un nuovo paradigma etico basato sulla centralità assegnata alla categoria di “responsabilità”»1.

Ora è indubbio che il concetto di “responsabilità” nell’attuale riflessione etica funga da prospettiva di fondo avendo assunto una sorta di funzione chiave. Basti pensare al successo che ha avuto il lemma etica della responsabilità coniato da M. Weber2 o principio responsabilità di H. Jonas3. Lo stesso G. Piana inserisce questa categoria tra i criteri generali della valutazione etica4. *

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. G. PIANA, Bioetica. Alla ricerca di nuovi modelli, Milano 2002, 91. 2 Cfr. M. WEBER, Scienza come professione e altri testi di etica e di scienza sociale, trad. it, Milano 1996. 3 Cfr. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it, Torino 1990. 4 Cfr. G. PIANA, Bioetica, cit., 91-107. Holderegger parla di «attualità del concetto di responsabilità»: A. HOLDEREGGER, Responsabilità, in J.P. WILS – D. MIETH (curr.), 1


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Corrado Lorefice

Il titolo del mio intervento si incentra, per l’appunto, sul termine responsabilità: L’agire responsabile in medicina della riproduzione e rigenerativa. Nel trattare gli interrogativi etici legati alle recenti conquiste della biomedicina e delle biotecnologie, per evitare di cadere in un discorso qualunquista o meramente parenetico, si rende necessaria una puntualizzazione di ordine epistemologico. La vorrei introdurre riportando una lucida affermazione di S. Privitera, “compagno assente”, a cui, volendone onorare la memoria, dedico questo mio intervento: «Non è certo il ricorso al principio della responsabilità o il rinvio alla responsabilità della coscienza della singola persona interessata che potrà risolvere il problema, perché ci si pone un problema morale normativo solo quando e solo se si vuol vivere e agire in maniera del tutto responsabile. È dalla responsabilità che comincia la riflessione etica. E non è nella responsabilità che si chiude ogni problema»5.

Questo asserto ci mette di fronte all’esigenza di non equivocare i termini dell’odierna questione etica nell’ambito delle tecnologie riproduttive e della medicina rigenerativa. La bioetica è essenzialmente una scienza normativa, non può che essere normativa, cioè non può fare a meno di esprimere e formulare il giudizio morale sui comportamenti legati alle conquiste della genetica6. Deve elaborare delle norme, avendo precisato il suo procedimento argomentativo7, capaci di orientare l’agire umano in questo ambito. Concetti fondamentali dell’etica cristiana, Brescia 1994 (Giornale di Teologia, 228), 264277: 264. Per l’approfondimento del concetto e per una bibliografia ragionata (seppur, oramai, bisognosa di aggiornamento) cfr. G. COCCOLINI, Responsabilità, in Rivista di Teologia morale 101 (1994) 141-159. 5 S. PRIVITERA, La questione bioetica. Nodi problematici e spunti risolutivi, Acireale 1999, 15. 6 «La bioetica è quella parte dell’etica che, alla luce dei valori, e dei principi morali, giudica le conoscenze scientifiche e le conseguenti possibilità tecnologiche di intervento sui fatti biologici»: L. LORENZETTI, Rapporto bioetica-teologia, in Teologia e bioetica laica, a cura di L. Lorenzetti, Bologna 1994, 9. G. Fornero parla di “vocazione normativa della bioetica”: Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano 2005, 12. 7 Non rientra nell’economia di questo intervento la considerazione dei due tipi di argomentazione abitualmente utilizzati in etica normativa, conosciute come deontologia e


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Ora «la categoria della responsabilità non è [quindi] tanto da associare all’etica dei principi, quanto piuttosto ad un’etica degli atteggiamenti, fatto che viene normalmente riconosciuto nel dibattito etico, ma che non sempre si scorge con piena chiarezza»8.

Ma se per non ricadere in una visione e in una proposta etica eteronomo-estrinsecista, vanno presi in considerazione anche gli atteggiamenti, essi tuttavia non sono sufficienti a risolvere i problemi normativi del comportamento così come, d’altra parte, un comportamento moralmente retto non implica necessariamente un atteggiamento moralmente buono. Il diffuso appello alla responsabilità che, soprattutto nelle questioni bioetiche, in sé è opportuno e senz’altro necessario, si potrebbe trasformare in vero e proprio alibi se mancano gli orientamenti vincolanti dell’agire e se non si è capaci di dare fondamento razionale ad una piattaforma di norme, valide sul piano collettivo, a cui possa fare costantemente riferimento l’atteggiamento responsabile. C’è bisogno, oggi più che mai, di un’etica capace di procedere alla individuazione del comportamento moralmente retto unitamente alla «rivateleologia. Sul diverso modo di argomentare del teleologo e del deontologo cfr. S. PRIVITERA, La questione bioetica, cit., 131-139. G. Piana non manca di sottolineare che «Il nodo critico riguarda semmai le modalità del recupero dei presupposti valoriali da porre alla base della produzione delle norme giuridiche. L’appello alla “natura delle cose” — al cosiddetto diritto naturale — è divenuto improponibile non solo per la visione statica dell’uomo a esso soggiacente, ma soprattutto per l’implicita ammissione di un contesto omogeneo di società e di cultura non più esistente. L’odierno pluralismo socioculturale è fonte di un marcato pluralismo etico, di un politeismo di sistemi valoriali. La possibilità di dedurre dalla ragione umana un’etica universale valida per tutti — come a suo tempo riteneva Kant —, si scontra con una situazione di accentuata frammentazione dei vissuti e dei comportamenti. Non esiste più una ragione ma una molteplicità di ragioni, da cui derivano progetti etici fortemente differenziati. L’unica via percorribile è perciò quella della comunicazione, intesa come confronto dialettico tra concezioni diverse che si legittimano reciprocamente e riconoscono la possibilità di un loro vicendevole arricchimento. Solo così si possono superare gli equivoci dovuti a incomprensioni e pregiudizi e dare corso ad una integrazione tra valori e sistemi complementari capace di offrire una piattaforma decisiva per il passaggio alla normatività giuridica»: G. PIANA, Bioetica, cit., 106. 8 A. HOLDEREGGER, Responsabilità, cit., 264.


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lutazione della virtù, come indispensabile dimensione morale della persona»9. Solo a partire dalla loro reciproca integrazione si può affrontare con serena speranza l’ardua ma esaltante sfida della vita. Il mio intervento, dunque, si limiterà al livello dell’atteggiamento responsabile, con la consapevolezza che tale piano ha bisogno del completamento normativo la cui trattazione, nell’economia di questo convegno di studi, è stata affidata ad altri esimi relatori. D’altra parte, è da qui, dall’atteggiamento della responsabilità, che prende forma l’agire morale dell’uomo. «L’uomo è l’autore delle sue azioni e dunque il detentore della sua responsabilità»10. La responsabilità dice l’assunzione di un impegno etico. Ed è proprio la responsabilità che fa emergere l’orientamento relazionale della vita morale. Etimologicamente il termine respons-abile, se vogliamo partire dal significato letterale, indica colui che è atto a rispondere11. Nel termine responsabilità è incluso il rispondere, attitudine tipica dell’uomo in quanto essere capace di linguaggio. Dell’essenza della responsabilità fa parte, pertanto, il significato di “prendere posizione” di fronte ad una pro-vocazione, di accogliere una sfida. Nondimeno, nella risposta, l’uomo impegna se stesso. Prima di essere responsabile di qualcosa egli è responsabile di se stesso. Ogni decisione, ogni azione che viene presa e posta nei confronti di qualcosa o di qualcuno coinvolge il soggetto il quale, così, costruisce se stesso, la sua identità personale, il significato e il valore attribuito alla sua vita, il senso ispiratore della sua esistenza. Ma nell’ambito della relazione intersoggettiva il termine responsabilità rimanda, ancora, alla capacità di rispondere a qualcuno. La responsabilità va oltre il mero rapporto del soggetto con se stesso. Essa apre sempre la prospettiva dell’alterità. L’altro mi interpella. Se consideriamo, inoltre, il 9

S. PRIVITERA, La questione bioetica, cit., 35. D. MIETH, Coscienza, in J.P. WILS – D. MIETH (curr.), Concetti fondamentali dell’etica cristiana, cit., 301-325: 312. 11 Dal latino respønsus, participio passato di respondŸre, rispondere. La parola trae origine dall’ambito giuridico ma è segnata dal passaggio all’ambito etico grazie all’utilizzo teologico del termine, in quanto il cristiano è chiamato a rendere conto a Dio della sua vita. A tal proposito resta un testo intramontabile G. PICHT, Wahrheit, Vernunft, Verantwortung, Stuttgard 1969. 10


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legame sociale tra gli uomini, la responsabilità personale si estende anche a quanti non sono direttamente raggiungibili. Per questo motivo H. Jonas, richiamando la civiltà tecnologica a non rinunziare alla prospettiva etica, auspicava una responsabilità globale orientata al futuro, che includa anche la natura e le future generazioni12; mentre E. Lévinas coglieva nel volto dell’altro una chiamata che è il fondamento stesso dell’etica: responsabilità è accoglienza dell’inedita alterità di chi ci sta di fronte13. Il comportamento morale non può restare preda della mera autorealizzazione soggettiva. Nell’agire responsabile vengono coinvolti in ogni caso gli altri. Responsabilità dunque comporta un rispondere di sé, rispondere di qualcosa, rispondere a qualcuno. «Il concetto di responsabilità di per sé fa riferimento alla necessità che l’uomo “prenda in mano” gli avvenimenti, così da sottrarli ad un cieco gioco di forze e a un agire affidato al semplice caso. Anche se la responsabilità si comprende in rapporto agli effetti che un agire personale comporta, essa non cessa di chiamare in causa l’agente in prima persona. […] la persona esercita la responsabilità su se stessa attraverso la responsabilità del suo agire. Per questo motivo la responsabilità implica anche un orizzonte di alterità, dal momento che l’altro entra dentro quel mondo che la decisione della mia coscienza arriva a cambiare»14.

L’agire responsabile comporta necessariamente l’assunzione del dovere ma non tralascia le situazioni ove si collocano le azioni, oggi sempre più difficilmente definibili e valutabili, come per esempio nel campo delle biotecnologie; situazioni che comunque rientrano nell’ambito di pertinenza 12 «Nel segno della tecnologia, però, l’etica ha a che vedere con azioni [...] che hanno una portata causale senza eguali, accompagnate da una conoscenza del futuro che, per quanto incompleta, va egualmente al di là di ogni sapere precedente. A ciò si aggiunge la scala delle conseguenze a lungo termine e spesso anche la loro irreversibilità. Tutto ciò pone la responsabilità al centro dell’etica con orizzonti temporali e spaziali corrispondenti appunto a quelli delle azioni»: H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., XXVIII. 13 Cfr. E. LÉVINAS, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito, trad. it., Roma 1985; ID., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it., Milano 1983. 14 C. ZUCCARO, La vita umana nella riflessione etica, Brescia 2000 (Giornale di Teologia 269), 175-176.


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di chi opera. La responsabilità morale pertanto sussiste anche nei casi in cui prendono il sopravvento conseguenze imprevedibili15. «Dunque, stando al suo significato letterale, — sostiene Holderegger — la “responsabilità” non è una norma morale concreta né un principio morale ma piuttosto una qualità della persona, per così dire una virtù più alta, con la quale noi reagiamo sulla base di buone ragioni agli obblighi e ai doveri; ma con ciò noi vogliamo, altrettanto originariamente, indicare che ci disponiamo a rendere conto del nostro fare o non fare. La responsabilità presuppone quindi due elementi: primo, un agire consapevole che accetta di mettere alla prova le proprie ragioni; e, secondo, l’assunzione della responsabilità soggettiva del fare o non fare»16.

2. LE PRIORITÀ DELL’AGIRE RESPONSABILE IN MEDICINA DELLA RIPRODUZIONE E RIGENERATIVA

Quali priorità comporta l’agire responsabile in medicina della riproduzione e rigenerativa? Nel contesto della società pluralista e complessa si assiste a una deformazione della fisionomia del medico e della medicina. C’è il rischio che si passi dall’eccesso del paternalismo all’intemperanza della deresponsabilizzazione, una sorta di “abdicazione della responsabilità”: «Certamente la pratica medica implica una pluralità di dimensioni, che si articolano tra di loro differentemente secondo la situazione storica particolare. La dimensione scientifica, anzi tecnica, rischia oggi di soverchiare l’originaria ed essenziale intenzione pratico terapeutica […] L’inserzione della pratica medica all’interno del contesto sociale, secondo rapporti codificati, può portare alla perdita di responsabilità diretta e personale del medico […]. In questa concezione, […] il medico si deresponsabilizza di ogni dimensione etica della medicina, lasciando la totale responsabilità degli atti che compie a chi glieli chiede. Oppure, delegando allo stato di decidere quali atti si possano lecitamente compiere e quali invece sia illecito fare»17. 15 Oggi, al contrario, non c’è il rischio che prevalga il criterio della “responsabilità limitata”? 16 A. HOLDEREGGER, Responsabilità, cit., 270. 17 L. MELINA, La cooperazione con azioni moralmente cattive contro la vita umana,


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Le delicate questioni legate alle biotecnologie esigono una seria riflessione sul senso e la qualità della vita. Non si possono disattendere i valori antropologici e simbolici legati all’esercizio dell’arte medica, così come non si possono trascurare, per esempio, quelli legati all’atto del procreare. Bisogna rimanere aperti alla fatica della “conoscenza integrale”, per conservare una lucida visione olistica dell’uomo se non vogliamo ridurre l’azione del biomedico ad «un indefinito atto “mani-polativo” consumato nell’illusorio “laboratorio” del suo irrefrenabile dominio dove vuole essere, come afferma il Vaticano II, “unico artefice e demiurgo della sua storia” (GS 20)»18. Occorre rimanere sensibili al valore della vita, dell’embrione, del feto. Nei confronti di essa non si può usare la sola cifra della manipolazione ma altresì quella del mandato, del servizio. Sì è servitori della vita. Nel delineare un approccio al mistero della vita S. Privitera scriveva: «Credente o non credente la persona avverte sempre come quella vita, che adesso è nelle sue mani, sia e resti sempre qualcosa di molto superiore alla sua stessa realtà: pur possedendola, non la ritiene come cosa sua; la usa, ma non la domina; la trasmette, ma non la origina; la possiede, ma ne è anche posseduto»19.

in R. LUCAS LUCAS (dir.), Commento interdisciplinare alla “Evangelium Vitae”, Città del Vaticano 1997, 471-472. 18 C. LOREFICE, Ripensare il significato della vita: dalla propiziazione all’in-vocazione, dal possesso al dono, in S. CONSOLI – E. PALUMBO – M. TORCIVIA (curr.), Magia, superstizione e cristianesimo, Milano-Firenze 2004 (Quaderni di Synaxis 16), 173-191: 177. 19 S. PRIVITERA, La questione bioetica, cit., 59; vd. anche 98-99. S. Privitera, riprendendo una nota pagina genesiaca, aggiungerebbe che si è servitori della vita a maggior ragione di quanti, come Abele, «non hanno voce nella società contemporanea, di quelle categorie di persone che non riescono, che non possono, che non hanno forza o il diritto di rivendicare i propri diritti: gli handicappati, i malati, gli anziani, gli embrioni [il corsivo è mio], gli affamati, ecc., i condannati a morte»: ibid., 143. I. Marino così si esprime: «Tuttavia, il rispetto della sacralità della vita e della dignità degli individui non è patrimonio esclusivo dei credenti, il valore incomparabile della persona umana è certamente patrimonio comune di tutti gli appartenenti alla società, o almeno dovrebbe esserlo, al di là di qualunque fede. A questo elemento è forse più opportuno ricondursi perché si possano studiare e applicare principi e leggi che proteggano la vita e impediscano la sua soppressione, mercificazione o la sua riduzione a bene di consumo»: I.R. MARINO, Credere e curare, Torino 2005, 66.


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Si rende pertanto necessaria una ricomprensione globale del significato della ricerca scientifica in ambito medico, aperta al senso e ai valori, capace di prendere le distanze da un indiscriminato utilizzo della tecnologia. Da questo punto di vista la cultura dominante ha confuso la scienza con le sue applicazioni tecnologiche, come se si trattasse della stessa cosa. La scienza è il segno della peculiarità dell’uomo e il frutto della sua responsabilità, della sua capacità di comprendere. Essa è un dato di chiara valenza antropologica che permette di capire il “grande libro della vita e della natura”. La scelta di mettere le biotecnologie al servizio della vita o di altri pseudo fini non è di natura scientifica, ma di natura culturale20. C’è bisogno, dunque, di una scienza medica che, pur conservando la propria autonomia, non disattenda la domanda antropologica e, quindi, la sua originaria dimensione etica. La scienza e la sua applicazione tecnologica non è mai fine a se stessa. Essa comporta una assunzione di responsabilità. Ha di mira il servizio dell’uomo e dell’intera famiglia umana21. Si coinvolge nella corresponsabilità della vita, è aperta alla ‘verità’ dell’uomo. Di ogni uomo, di tutto l’uomo. Come elemento pregiudiziale, è un atto dovuto di responsabilità muovere dalla «neutralità della scienza, intendendo con questo sia la libertà da pregiudizi di natura epistemica sia la libertà dal potere economico che sovvenziona la ricerca. Se è già difficile concretamente affermare una tale neutralità per la 20 Così come avviene per l’utilizzo dell’energia nucleare nell’ambito delle strategie belliche. Sulla valenza culturale dell’utilizzo della tecnologia, all’interno del più ampio dibattito sul rapporto scienza-tecnica, sono interessanti le sollecitazioni del volume di A. ZICHICHI, Io credo in colui che ha fatto il mondo. Tra fede e scienza, Milano 2006, 27-64. 21 «… va data grande importanza anzitutto alla preoccupazione per il destino della specie. Custodire la specie dagli attacchi di forme di manipolazione radicalmente alterative e consegnarla intatta alle epoche che verranno è impegno morale essenziale e inderogabile. Questo impegno può d’altronde essere assolto solo se ci si riconcilia con la propria finitezza o si recupera il senso della propria creaturalità. Il fatto che l’uomo sia diventato, in particolare grazie al progresso in campo genetico, “autocreatore” conferisce un’inedita consistenza alla tentazione prometeica (“sarete come dei!”) fonte da sempre di enorme fascino per le coscienze. La possibilità di superarla continuando a sentirsi capaci di innovare, senza incorrere in tentazioni distruttive, è in ultima analisi dipendente dallo sviluppo di un senso etico, che favorisca un giusto discernimento e impedisca tanto la caduta in facili illusioni quanto in forme di pessimismo preconcetto e improduttivo»: G. PIANA, Bioetica, cit., 120.


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scienza, è addirittura impossibile sostenerla per quanto concerne il problema dei fini che la ricerca intende perseguire e dei mezzi di cui si serve per realizzarli. Non che si debba impedire la ricerca sul cosiddetto “sapere puro”, ma si deve tener conto che in pratica non esiste il sapere per il sapere, senza cioè che esso trovi un’applicazione tecnologica che, perciò, chiama in causa fini e mezzi per raggiungerla. Il primo problema che può essere evidenziato in seguito all’accresciuto potere della ricerca scientifica nel campo medico è la riduzione antropologica della vita, in particolare del nascere e del morire. Questi eventi, sottratti al loro naturale ambito, vengono esaminati in modo oggettuale, mettendo in primo piano il materiale da esaminare e finendo per dissolvere progressivamente la persona. […] contro ogni forma di riduzionismo, è in opera un rinnovato tentativo di “introdurre il soggetto in medicina” che […] si propone di reagire ad una sperimentazione così spinta che dimentica la persona»22.

In biomedicina non si è responsabili solamente di competenze definibili in termini oggettivi puramente professionali; non si deve rispondere soltanto di ambiti e di processi tecnici e di protocolli medici o clinici. C’è bisogno di porre l’attenzione al significato complessivo dei processi manipolativi non tralasciando la considerazione delle intenzioni più recondite e l’analisi di ciascuno di essi. La complessità dei moderni problemi della biomedicina postula il dovere della “acquisizione di sapere”, della “ragionevolezza sapienziale”23 come parte essenziale della formazione e dell’esercizio dell’arte medica, non ci si può abbandonare acriticamente tra le braccia della razionalità strumentale. La consapevolezza dell’ambivalenza del progresso scientifico e tecnologico esige il senso del limite. C’è da rimanere lucidi nel valutare gli effetti che le azioni manipolative poste in atto dalla medicina della ripro22

C. ZUCCARO, La vita umana nella riflessione etica, cit., 13. Così la definisce in una intervista ad Avvenire (rubrica Agorà, 23 febbraio 2007, 31) Ugo Amaldi, docente di Fisica medica all’Università di Milano Bicocca e presidente della “Fondazione TERA” (Terapia antitumorale con radiazioni androniche). Al medico compete non solamente la scienza medica ma anche la sapienza. Un antico trattato ippocratico afferma: «Bisogna portare la sapienza alla medicina e la medicina alla sapienza, poiché il medico filosofo è simile a un dio, in quanto fra la medicina e la sapienza non esiste differenza»: Sulla decenza, V, cit. in M. DOLDI – M. PICCOZZI – A. PONTE, Bioetica. La Parola di Dio e le parole dell’uomo, Roma 2005, 253. 23


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duzione e rigenerativa producono e che, secondo previsione, potranno causare nel futuro. Da qui l’onestà e l’impegno di saper eventualmente percorrere soluzioni sperimentali e terapeutiche alternative che abbassano i costi (umani) e innalzano i benefici. «Chi è chiamato ad agire nella situazione concreta dovrà perciò giudicare responsabilmente se la pur nobile intenzione di operare una scelta conforme ai principi non provochi effetti negativi che potrebbero essere contenuti o del tutto eliminati mediante una più attenta considerazione della complessità degli elementi in gioco»24 e, quando questo sia possibile, attraverso l’impiego di altre procedure. Un percorso alternativo, per esempio, all’utilizzo di cellule staminali embrionali a scopo di ricerca (che comporta tra l’altro la clonazione!), è il ricorso alle cellule staminali adulte o a quelle del cordone ombelicale. In tal caso non vengono sollevate obiezioni di ordine etico, né questioni di coscienza o di fede25. La stessa cosa vale per 24 G. PIANA, Bioetica, cit., 99. «Come criterio profondamente teleologico, anche se linguisticamente discutibile, il riferimento ai costi\benefici è molto significativo e valido. Ogni nostra azione provoca sempre conseguenze e non sempre esse sono tutte positive: per valutare ogni comportamento umano, pertanto, si richiede la rilevazione di tutte le sue conseguenze, l’identificazione di esse con altrettanti valori o non valori e la considerazione, assiologicamente finalizzata, di quali siano i valori che meritano di essere realizzati e di quali siano i valori che non possono essere, direttamente o indirettamente, realizzati»: S. PRIVITERA, La questione bioetica, cit., 49. 25 I. Marino nel suo volume riporta un passaggio del discorso pronunciato da Angelo Vescovi — che al di là del suo cognome è dichiaratamente laico e agnostico — all’Accademia dei Lincei il 31 gennaio 2005: «A dispetto di un oggettivo, significativo potenziale terapeutico, non esistono terapie, nemmeno sperimentali, che implichino l’impiego di cellule staminali embrionali. Non è attualmente possibile prevedere se e quando questo diverrà possibile, data la scarsa conoscenza dei meccanismi che regolano l’attività di queste cellule. Esistono invece numerose terapie salvavita che rappresentano realtà cliniche importanti, quali le cure per la leucemia, le grandi lesioni ossee, le grandi ustioni, il trapianto di cornea. Tutte queste si basano sull’utilizzo di cellule staminali adulte. Inoltre, sono in fase di avvio nuove sperimentazioni sul paziente che implicano l’utilizzo di cellule staminali cerebrali umane. Esistono tecniche altrettanto promettenti basate sull’attivazione delle cellule staminali nella loro sede di residenza. Saranno quindi le cellule del paziente stesso che si occuperanno di curare la malattia, una volta stimolate con opportuni farmaci. Infine, la produzione di cellule staminali embrionali può avvenire senza passare attraverso la produzione di embrioni. Sono infatti in corso studi grazie ai quali è possibile deprogrammare le cellule adulte fino a renderle uguali alle staminali embrionali senza mai produrre embrioni.


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la microchirurgia e la terapia della infertilità per superare alcune cause di sterilità che hanno come indicazione la fecondazione assistita26. La responsabilità in medicina della riproduzione e rigenerativa, oltre all’assunzione libera e consapevole degli ambiti di competenza, comporta un “coinvolgimento” personale — senza indulgere al paternalismo — che abbraccia le stesse competenze, i mezzi e le strutture, ma soprattutto, l’altro/gli altri, inclusi quelli delle future generazioni! Un embrione umano chiama sempre in causa la responsabilità piena di quanti deliberatamente hanno posto le condizioni perché sussistesse. L’embrione, sia esso generato in modo naturale o procreato in vitro, è sempre un “evento dialogico” e non solo biologico27. È un essere che sta “di Si tratta di una procedura che ha la stessa probabilità di funzionare della clonazione umana, ma scevra da problemi etici e che produce cellule al riparo di rischi di rigetto»: cit. in I.R. MARINO, Credere e curare, cit., 52. 26 «Ma responsabilità degli operatori sanitari è anche impegnarsi ad alleviare la sofferenza per la sterilità coniugale. In modo esplicito si richiamava a questo impegno, e incoraggiava gli scienziati a proseguire le ricerche in questo campo, già l’istruzione DV [Donum Vitae], nella quale si auspicava l’attuazione da parte degli uomini di scienza di una prevenzione delle cause di sterilità così che le coppie sterili “possano riuscire a procreare nel rispetto della dignità personale e di quella del nascituro” (II, 8). Anche nell’enciclica [Evangelium Vitae] si guarda con attenzione allo sforzo dei ricercatori e dei professionisti di “trovare rimedi più efficaci”, riconoscendo che “risultati un tempo del tutto impensabili e tali da aprire promettenti prospettive sono oggi ottenuti a favore della vita nascente” (EV 26). Effettivamente, oggi i risultati ottenibili con alcune tecniche che rispondono pienamente al principio terapeutico — e quindi pienamente rispettose della dignità della coppia così come dell’embrione — sono anche migliori di quelli ottenibili con la fecondazione in vitro: è il caso, ad es., della microchirurgia e della laparoscopia operativa attuate nelle occlusioni tubariche, patologie per le quali con troppa facilità si pone l’indicazione alla FIVET, anche senza aver mai tentato la via più scientificamente coerente che è appunto la riparazione microchirurgica. Dunque, “il rispetto per la vita esige che la scienza e la tecnica siano sempre ordinate all’uomo e al suo sviluppo integrale […] in ogni momento e condizione della sua vita”»: A.G. SPAGNOLO, Tecniche di fecondazione artificiale e inizio della vita umana, in R. LUCAS LUCAS (dir.), Commento interdisciplinare alla “Evangelium Vitae”, cit., 613). Cfr. anche A. SERRA, Deontologia medica e “procreazione medicalmente assistita”, in La civiltà cattolica, 2004, II, 425-438. 27 Non voglio entrare in merito al dibattito circa l’identità e lo statuto dell’embrione. Sappiamo che la risposta a questo interrogativo è tutt’altro che concorde. Considerato l’argomento affidatomi, è sufficiente, tuttavia, sottolineare che «anche nel caso in cui il preembrione o l’embrione non fosse persona, non per questo si sarebbe autorizzati a disporne in modo arbitrario, senza alcun vincolo di responsabilità. Infatti a differenza dello sperma-


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fronte”, è logos, parola, evento che interpella, appello, chiamata. Là dove si scopre la debolezza e l’indigenza nasce l’obbligo dell’accettazione di chi ci sta di fronte, di chi comunque resta un logos che fonda e chiede un dialogo, una relazione. L’altro per il solo fatto che appare di fronte coinvolge in una relazione, responsabilizza. Occorre, dunque, dare un senso all’incontro. Ora questo può essere di natura “strumentale” (un mezzo di cui servirsi a proprio piacimento per il raggiungimento dei propri scopi, dal prestigio personale al profitto economico) o di natura “personale”. In quest’ultimo caso diventa accoglienza dell’altro nella sua singolare e inedita biografia, evento di libertà che riconosce e valorizza il suo volto. Nel singolo è la vita della società tutta che è in gioco. L’umano che ci inabita, ci responsabilizza. Reclama coinvolgimento. Ciò fonda la comune e reciproca responsabilità degli uomini. Responsabili dell’umano che è in noi, siamo altresì responsabili dell’umano che è negli altri. Questo è il fondamento dell’agire responsabile in medicina della riproduzione e rigenerativa: tra “resistenza e resa”, ovvero tra la solidarietà con chi è minacciato dalla malattia e dalla patologia, e l’umiltà del riconoscimento del limite dell’essere umano e, per esteso, sia della scienza e della medicina se non vogliono essere “mezzo” di disumanizzazione. tozoo e dell’ovocita prima del loro incontro, quando ancora sono nelle loro rispettive sedi, ‘questo’ materiale genetico (pre-embrione), lasciato a se stesso, tendenzialmente possiede la capacità interna di svilupparsi fino alla nascita. Inoltre, anche coloro che mettono delle diverse soglie per determinare il passaggio dalla fase di pre-embrione a quella di embrione individuale, tuttavia non possono fare a meno di riconoscere che ci si trova di fronte a un processo in divenire che, naturalmente e se non intervengono anomalie, condurrà comunque alla costituzione di un essere personale. Ci troviamo qui, dunque, in una situazione analoga a quella del tempo in cui compare l’essere personale. Infatti, come il tempo non necessariamente deve essere considerato in termini cronologici, così anche l’ontogenesi della persona non necessariamente deve trovarsi in un momento particolare del suo ininterrotto sviluppo. In tal senso la domanda si sposta dalla natura dell’embrione all’atteggiamento che occorre assumere nei suoi confronti, al che cosa farne. L’embrione dunque come scrive Viafora, “è un ‘altro’ e in quanto tale crea un fatto nuovo che si impone e chiede il riconoscimento del suo valore”»: C. ZUCCARO, La vita umana nella riflessione etica, cit., 163-164. C. Zuccaro cita C. VIAFORA, Fondamenti di bioetica, Milano 1989, 220. In ogni caso questo convincimento è condiviso anche da altri autori che esprimono un diverso orientamento antropologico: «L’embrione, qualunque sia il suo statuto ontologico, è sicuramente altro rispetto ai gameti e anche rispetto ai genitori»: G. BERLINGUER – V. GARRAFA, La merce finale. Saggio sulla compravendita di parti del corpo umano, Milano 1996, 125.


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Il “dominio” tecnico si rivela una mancanza di responsabilità; monologo, tradimento del dialogo, ingannevole narcisismo. Per questo l’agire responsabile in medicina della riproduzione e rigenerativa non disdegna il confronto con l’etica normativa, si rende disponibile a misurarsi con un preciso quadro di valori per ricercare le ragioni, le prospettive e i limiti di un impegno che sia realmente al servizio della vita, per il conseguimento del bene dell’altro e degli altri coinvolti nel suo operare. La comunità medica e scientifica, come i singoli operatori, non può non essere protesa all’acquisizione di regole condivise per una garanzia della globalità del bene umano. Non si tratta di ricadere nell’eteronomia ma di individuare orientamenti capaci di sostenere positivamente la ricerca indirizzandone il corso verso la sua progressiva e piena umanizzazione. Responsabilità, come abbiamo visto, è il potenziamento del senso etico della libertà. Responsabilità è il vero volto della rivendicazione di autonomia della scienza moderna. In fondo è l’autonomia scientifica stessa e, in specie delle scienze biomediche, che postula l’agire responsabile, se non si vuole rischiare di ricadere nell’eteronomia e nell’asservimento ad altri (centri di) poteri e autorità. Tale agire non è richiesto da un’autorità esterna (sia essa religiosa, civile, politica, scientifica) ma dalla libertà propria dell’uomo, a maggior ragione dell’uomo dell’era della “razionalità scientifica”. Non va dimenticato che per l’età moderna, per l’illuminismo particolarmente, è libero l’uomo che si affranca dalle coercizioni e dai vincoli illegittimi. Da qui la rivendicazione dell’autonomia della scienza.28 La responsabilità dunque è l’inveramento della libertà e della sua costitutiva prerogativa etica. Ma, secondo quanto afferma A. Holderegger, «qui ci si riferisce al fatto che non si ha a che fare semplicemente con la propria libertà (dimensione dell’Io), ma che si è disponibili a porre la propria 28 “Sapere aude” è l’invito perentorio di I. Kant nel saggio Was ist Aufklärung?, da intendere come coraggio di pensare con la propria testa: «L’Illuminismo è l’uscita degli uomini dallo stato di minorità a loro dovuto. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. A loro stessi è dovuta questa minorità, se la causa di essa non è un difetto dell’intelletto, ma la mancanza di decisione e del coraggio di servirsene come guida»: I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in G. SOLARI – N. BOBBIO – L. FIRPO – V. MATHIEU (curr.), Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino 1975, 141-149:141.


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Corrado Lorefice libertà, dal punto di vista morale, politico, professionale, al servizio degli altri o al servizio delle mansioni della vita sociale (dimensione sociale). La libertà possiede quindi un carattere di ‘sollecitudine’, perché con essa si manifesta la disponibilità ad adempiere in modo creativo, e avendo a cuore la vita degli altri, i compiti, le mansioni, gli obblighi ecc. di cui si viene incaricati o che vengono affidati o che si sono liberamente assunti. La responsabilità spezza il cerchio della libertà individualistica e concentrata sulle proprie necessità, e la collega al sistema sociale, ai compiti e ai fini comuni. Appare così il carattere esteso e ‘solidale’ della responsabilità: esso dona una dimensione profonda agli altri contenuti importanti della responsabilità, come l’assunzione delle conseguenze, il rendiconto di fronte agli altri, una dimensione profonda che in fondo rinvia alla stessa libertà»29.

Ciò comporta anche il discernimento delle dinamiche sociali e culturali, oltre che politiche ed economiche, e delle “precomprensioni” (comprese quelle etiche, di qualsiasi provenienza, laiche o cattoliche!) sottese ai processi manipolativi: «Scienza e tecnica, nel loro sviluppo storico-concreto, non possono essere considerate come variabili indipendenti, ma come elementi di un disegno più ampio, i cui obiettivi ultimi vanno rintracciati altrove. Devono essere cioè ascritti alle opzioni del potere economico e politico, che condizionano la ricerca e ne orientano la fase applicativa. Importanza decisiva assume pertanto l’analisi del tipo di civiltà che si persegue o del modello di società che si vuole costruire; e nel contempo la verifica degli interessi che presiedono alle scelte dei campi di esplorazione e intervento»30. 29

A. HOLDEREGGER, Responsabilità, cit., 274-275. D. Bonhoeffer, con un approccio cristologico, sostiene che la responsabilità si fonda su una sostituzione vicaria. Nella sua opera incompiuta, Etica, rifacendosi all’agire paterno, scrive: «Il padre opera al posto dei suoi figli quando lavora per loro, si preoccupa, interviene, lotta, soffre per loro. Prende realmente il loro posto. Non è un isolato ma assomma in sé molte persone. Se tentasse di vivere come se fosse solo, egli rinnegherebbe la realtà della propria responsabilità. Ma questa gli è conferita dalla sua paternità, ed egli non può sottrarvisi. Dinanzi a questa realtà crolla la finzione secondo cui l’individuo isolato sarebbe il soggetto di ogni comportamento etico. Il soggetto cui deve riferirsi la riflessione etica non è l’uomo isolato ma l’uomo responsabile. Non importa, da questo punto di vista, quanto sia ampia la sua responsabilità, se cioè si estenda ad un’altra persona, a una comunità o a grandi gruppi. Nessuno può sfuggire alla responsabilità, ossia al dovere di operare in vece di qualcun altro»: Etica, trad. it., Milano 19833, 189-190. 30 G. PIANA, Bioetica, cit., 97.


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3. UNA CONSIDERAZIONE FINALE: L’ASSUNZIONE DEL “CRITERIO DIALOGICO” COME COMUNE RESPONSABILITÀ

Il significato decisivo del nostro convenire è dato dalla sua valenza responsoriale: non “celebriamo” un convegno ma “viviamo” un incontro che ci vede coinvolti nel “dialogo sulla vita”. La vita umana prima di essere un problema è un bene che tutti pro-voca. Dialogo è già respons-abilità, anzi è la comune responsabilità a cui tutti siamo chiamati. Nel contesto del nostro convegno di studi il termine responsabilità, in riferimento alle questioni etiche legate alla medicina della riproduzione e rigenerativa e alle moderne biotecnologie, prima di tutto postula e fonda l’esaltante e arduo “dialogo sulla vita”, che a buon diritto interessa tanto i nostri contemporanei e, molto più, gli “addetti ai lavori” (ricercatori, medici, giuristi, bioeticisti, filosofi, psicologi) soprattutto per quei problemi di frontiera in cui l’audacia della scienza e i progressi della tecnica suscitano, da una parte, stupore e gratitudine e, dall’altra, destano trepidazione per la specie umana e l’altissima e intangibile dignità dell’uomo. Nelle questioni sollevate dalle conquiste della biomedicina nessuno può essere escluso; a maggior ragione quanti hanno, come afferma la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes del concilio Vaticano II, «il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora l’autore»31. Responsabilità è consapevolezza della necessità e dell’urgenza di un “dialogo sulla vita” che, come ha affermato il card. C.M. Martini nel confronto con il prof. I. Marino, un uomo di scienza e un uomo di Chiesa, «non parta da preconcetti o da posizioni pregiudiziali ma sia aperto e libero e nello stesso tempo rispettoso e responsabile»32, seppur nella consapevo31 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes (07.12.1965), 92, in EV 1/1642. Criterio, questo, adoperato nel noto confronto tra il prof. I. Marino, direttore del Centro trapianti del Jefferson Medical College di Philadelphia e il card. C. M. Martini: D. MINERVA (cur.), Dialogo sulla vita, in L’espresso, 27 aprile 2006, 52-62. 32 Dialogo sulla vita, cit., 53. Purtroppo su temi così complessi il pericolo è di cadere presto in grette contrapposizioni e strumentalizzazioni che negano un ausilio costruttivo alla risoluzione di problemi che reclamano piuttosto lucida e generosa corresponsabilità. Nella


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lezza della diversità dei principi di fondo utilizzati in bioetica (indisponibilità/disponibilità, sacralità/qualità della vita)33. Un dialogo spassionato, approfondito e sincero sul tema della vita umana in una contingenza storica e culturale, come la nostra, in cui il progresso scientifico ha indotto un nuovo modo di pensare e di relazionarsi nei confronti della vita, della malattia e della morte. Basti pensare, per non allontanarci dalla tematica affrontata dal nostro convegno di studi, che oggi si può nascere in molti modi diversi (FIVET) e si può/si potrà essere curati con terapie e tecniche straordinarie (impiego terapeutico delle cellule staminali). Soprattutto in una materia così delicata, là dove i progressi della scienza e le esigenze mediche si incrociano, e talora sembrano scontrarsi con le esigenze etiche, responsabilità domanda onestà intellettuale, obiettività di giudizio, capacità di discernimento, equilibrio, riconoscimento e rispetto delle specifiche competenze, autentica libertà da ogni condizionamento dei centri di potere, — non ultimo quello economico che rischia di minare alla base la finalità umanizzatrice della ricerca biomedica e dell’arte medica — passione per l’uomo, indefettibile ricerca di valori comuni unita a duttilità mentale, confronto schietto e aperto tra le parti, tra gli interlocutori, cioè tra soggetti (persone!) che portano avanti con serietà l’arduo impegno della promozione della propria e delle future generazioni: «Non possiamo rifiutare i vantaggi offerti dalla genetica, — scriveva S. Privitera, — ma non possiamo far ricadere gli svantaggi sulle generazioni future. Abbiamo il dovere piuttosto di assumerci come generazione presente fattispecie del confronto tra scienza e riflessione etica che si ispira al magistero della Chiesa cattolica si rischia di rimanere soffocati dalle sabbie mobili della rivendicazione laicista e della mobilitazione apologetico-clericale. 33 Necessita uno sforzo di ricerca di soluzioni convergenti. Dal punto di vista pratico «tale ricerca deve essere fatta tenendo conto delle notevoli divergenze sul piano teorico. La consapevolezza di questo aumenta (e non diminuisce) le possibilità di dialogo sincero e franco tra le parti»: M. MORI, Per un chiarimento delle diverse prospettive etiche sottese alla bioetica, Milano 1990, 66. G. Fornero, che sostiene la diversità “corposa e innegabile” (A. Santosuosso) tra bioetica cattolica e laica, è convinto, però, che questi due approcci, pur essendo strutturalmente diversi, «non possono fare a meno di coesistere e di dialogare (e quindi di interagire)»: Bioetica cattolica e bioetica laica, cit., 203; anche se «Siamo eredi delle crociate e delle guerre di religione, di reazioni laiciste e tenaci concezioni teocratiche; ci è più familiare la prevaricazione nei confronti di chi dissente che il rispetto e il dialogo»: S. SPINSANTI, Etica biomedica, Cinisello Balsamo 1987, 19.


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tutte quelle responsabilità etiche che ricadono su di noi anche nel contesto della biogenetica per costruire una realtà sempre più vivibile dalla generazione di oggi e dalle generazioni future»34.

Responsabilità dice cambiamento di metodo, nessuno può procedere da solo. Nessuna ghettizzazione. I diversi interlocutori si devono incontrare con cordialità e coscienziosità, essendo portatori di verità nel solco specifico della propria competenza, riconoscendo i limiti della propria ricerca e ammettendo il dubbio laddove la complessità delle problematiche richiede ulteriori approfondimenti35. Il dibattito su questi temi e il confronto tra uomini di diversi ambiti e con differenti mansioni può dare un apporto alla circolazione di idee e posizioni volte ad individuare punti di incontro e non di divisione in vista della correttezza delle azioni e di soluzioni umanizzanti36. La scientificità e la serietà professionale presuppone e non esclude la coscienza dell’uomo di scienza a prescindere se sia illuminata dalla fede o meno. Nel sopraccitato dialogo, il prof. Ignazio Marino sostiene che «non è possibile ignorare gli innumerevoli quesiti etici che emergono dai continui cambiamenti legati alla nuove tecnologie e alle possibilità che la scienza mette a disposizione degli uomini»37. La medicina sperimentale e proget34

S. PRIVITERA, La questione bioetica, cit., 139. «In argomentazioni tanto complesse nessuno può illudersi di sapere già tutto, e anche un vecchio teologo può sbagliare»: E. CHIAVACCI, così conclude la prefazione alle Lezioni brevi di bioetica, Assisi 2000, 6. 36 Come esemplificazione prendiamo il caso della tecnica di congelare l’ovocita allo stadio di due pronuclei cioè, nel momento in cui i due corredi cromosomici, quello femminile e quello maschile, sono separati e non esiste ancora un nuovo DNA (cariogamia). Secondo I. Marino è un’opzione ragionevole della scienza che la riflessione bioetica, in vista del superarmento di alcuni nodi etici sollevati dalla crioconservazione degli embrioni, dovrà ponderare con onestà e responsabilità: vd. Credere e curare, cit., 46-47. Sull’articolazione del giudizio morale della FIVET in prospettiva teleologica, che si discosta da quella deontologica del Magistero della Chiesa (cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istr. Donum Vitae sul rispetto della vita nascente e la dignità della procreazione. Risposte ad alcune questioni di attualità [22.11.1987], in EV 10/1150-1253; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Evangelium Vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana [25.01.1995], in EV 14/2167-2517), vd. G. PIANA, Bioetica, cit., 128-129; E. CHIAVACCI, Lezioni brevi di bioetica, cit., 45-49. 37 Dialogo sulla vita, cit., 53. 35


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tuale non può trasformarsi in minaccia alla libertà della persona e in attentato alla vita. Ma la riflessione bioetica non può procedere altezzosa e incurante del dato scientifico. Essa ha bisogno della scienza e delle altre discipline antropologiche, e deve rispettare e tener in gran conto quanto la ricerca — quando sia onesta, sincera, disinteressata — è in grado di volta in volta di offrirgli38 se non vuole ridursi a custode di obsolete conoscenze naturali del passato che imbrigliano e soffocano la dignità e la libertà delle persone39. Scienza ed etica sono due volti dell’unico e drammatico cammino dell’uomo verso la pienezza, la bellezza e la felicità dell’intera famiglia umana affrancata da quello che J. Habermas, filosofo della scuola di Francoforte, ha chiamato lo «scivolamento in una genetica liberale, vale a dire in una genetica regolata dalla legge della domanda e dell’offerta»40.

38 I. Marino sostiene che «La riflessione bioetica dovrebbe procedere secondo un approccio multidisciplinare. Un concreto contributo agli interrogativi posti dalla ricerca biomedica può derivare dal confronto fra studiosi di diversa formazione: medici, teologi, giuristi, psicologi, politici»: Credere e curare, cit., 66. 39 Il Concilio Vaticano II afferma esplicitamente che le conoscenze provenienti da culture, filosofie, scienze del passato e del presente, vagliate alla luce del Vangelo, aprono alla Chiesa sempre nuove vie per meglio comprendere la natura stessa dell’uomo, da qualunque parte — cristiana o no — esse provengano: «La Chiesa ha bisogno particolare dell’apporto di coloro che, vivendo nel mondo, ne conoscono le diverse istituzioni e discipline e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti. È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta»: CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes (07.12.1965), 44, in EV 1/ 1461. 40 J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it., Torino 2002, 3.


CELLULE STAMINALI E APPLICAZIONI TERAPEUTICHE: IMPLICANZE ETICHE

ANTONINO SAPUPPO*

PREMESSA La vicenda delle cellule staminali (= SC) è fra le più affascinanti e problematiche nell’ambito della ricerca biomedica. L’entusiasmo suscitato dalle scoperte scientifiche, che infoltiscono sempre più i capitoli di un libro dal titolo Stem Cells, ormai di dimensioni enciclopediche, si scontra con le problematiche etiche sollevate dalla loro produzione ed applicazione terapeutica. La rilevanza scientifica di queste cellule si lega agli equilibri economici, politici e sociali che a livello internazionale ne regolano ed influenzano lo sviluppo e la ricerca. In tal modo la riflessione etica si inserisce in questo iridescente universo di dibattiti, accuse e difese, campagne ideologiche e politiche,offese e delusioni, speranze e difficoltà. Si procederà in modo sistematico poiché l’oggetto della nostra riflessione etica è strettamente legata all’evoluzione progressiva della ricerca scientifica. La seguente trattazione è svolta attraverso il metodo bioetico tridimensionale che accosta alla prospettiva scientifica la riflessione antropologica per concludere con la fase etico-normativa.

1. PROSPETTIVA SCIENTIFICA La scoperta, la ricerca e l’applicazione terapeutica delle SC rappresentano una sezione cospicua della riflessione bioetica odierna. La ragione *

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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di questa affermazione trova la sua origine nel target preso in esame: si tratta di cellule in fieri, primordiali, che ritroviamo sia nelle prime fasi dello sviluppo embrionale che in diversi organi del nostro corpo1. In realtà occorrono dei criteri generali che permettano di definire una cellula come staminale, l’etimologia (stamen — latino —, sthmwn — greco —, stem — inglese —, si vuole indicare l’ordito del telaio o la posizione retta che produce e supporta ramificazioni secondarie) ci aiuta a capire che si tratta di una realtà di carattere ancestrale, che precede altre cellule, specificandole nello sviluppo. Per definire una SC i ricercatori hanno utilizzato diversi criteri, che seppur nella loro specificità sono un aiuto per chiarire ulteriormente la riflessione etica ed antropologica, ne possiamo enucleare quattro2: 1) Una sc ha la capacità di auto-dividersi in modo multiplo e sequenziale, prerequisito essenziale per mantenere una popolazione cellulare entro i limiti fisiologici in vivo et in vitro. Potenziale replicativo. 2) Una SC si differenzia in più cellule di una stessa categoria cellulare, es.: le cellule staminali ematopoietiche danno vita a tutte le cellule ematopoietiche del sangue; le cellule staminali neuronali danno vita a neuroni, astrociti, oligodendrociti3; le cellule staminali mesenchimali che si differenziano in fibroblasti, osteoblasti ed adipociti4. Alcune cellule staminali adulte possono dare origine solo ad un tipo specifico di cellule come le cellule corneali. Potenziale epigenetico. 3) Le SC ripopolano il tessuto d’origine quando sono trapiantati in una sezione danneggiata5. Potenziale rigenerativo. 1 Cfr. PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, Dichiarazione sulla produzione e l’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali (24.08.2000), in EV 19/727-737. 2 Cfr. C. VERFAILLIE – M. PERA – P. LANSDORP et AL., Stem cells: hype and reality, in Hematology 1 (2002) 369-391; D. ANDERSON – F. GAGE – I. WERSSMAN, Can stem cells cross lineage boundaries?, in Nature Medicine 7 (2001) 393-395. 3 Cfr. F. GAGE, Mammalian neural stem cells, in Science 287 (2000) 1433-1438. 4 Cfr. S. HAYNESWORT – A. CAPLAN et AL., Cell surface antigens on human marrowderived mesenchymal cells are detected by monoclonal antibodies, in Bone 13 (1992) 69-80. 5 Cfr. K. OVERTURF – M. FINEGOLD et AL., Serial transplantation reveals the stem cell like regenerative potential of adult mouse hepatocytes, in The American Journal of Pathology 151 (1997) 1273-1280.


Cellule staminali e applicazioni terapeutiche: implicanze etiche

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4) Le SC collaborano in vivo alla funzionalità delle cellule progenitrici differenziate anche in assenza di un tessuto danneggiato. Questi criteri sono applicati sia alle SC embrionali6 che adulte, in particolare le ematopoietiche. La figura 1 evidenzia in modo chiaro il discorso esposto.

Figura 1 – Definizione delle cellule staminali (wbc: globuli bianchi; xrt: radiazioni letali).

Non volendo pretendere una trattazione esaustiva sulle dinamiche biologiche da cui si originano le SC, crediamo opportuno affermare che per comprendere la loro natura occorra seguire le diverse fasi dello sviluppo embrionale. Quando uno spermatozoo fertilizza una cellula uovo si ottiene un nuovo organismo vivente che prende il nome di zigote, questo, che è costituito da una sola cellula, velocemente si moltiplica in 2, 4, 8, 16, 32, 64 cellule. La ricerca ci indica che sino alla struttura delle 8 cellule (fase propriamente detta embrionale), ognuna di esse se isolate dalla massa cellulare originaria possono dare vita ad un organismo identico. A questo primissimo stadio di sviluppo ogni cellula è totipotente, significa che potenzialmente può dare origine a tutte le popolazioni cellulari dell’organismo. Dopo circa 5 giorni 6 Cfr. J. THOMSON – J. ITSKOVITZ-ELDOR et AL., Embryonic stem cells lines derived from human blastocyst, in Science 283 (1998) 1145-1147.


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dalla fecondazione, lo zigote si sposta attraverso le tube falloppiane sino ad impiantarsi nella mucosa uterina e cominciare lo sviluppo sistematico dei tre foglietti embrionali (endoderma, mesoderma, ectoderma). In particolare, le cellule totipotenti cominciano a specializzarsi, formando una sfera di cellule, chiamata blastociste, che presenta uno strato più interno di cellule ed uno più esterno, lo strato più esterno formerà la placenta ed altri sistemi tissutali necessari per lo sviluppo fetale. Lo strato cellulare più interno andrà a formare tutti i tessuti del corpo umano, si tratta di cellule pluripotenti, che possono dare origine a più popolazioni cellulari ma non a tutte, inoltre se isolate non presentano la capacità di sviluppare un altro organismo in quanto si tratta di cellule già differenziate. Lo sviluppo procede con la realizzazione del feto, fase questa che vede la presenza di cellule organizzate a formare i diversi organi del nostro complesso ma stupefacente corpo umano. Nel foglietto embrionale mesoderma alcune cellule si concentrano per formare le cellule germinali (Embryonic Germinal Germ), si tratta di cellule staminali che partecipano alla formazione delle gonadi. L’organismo umano adulto per mantenere una corretta funzionalità organica necessita di SC presenti in molti tessuti, che permettano il normale turnover cellulare ed il riparo di cellule danneggiate, conservando le condizioni omeostatiche dell’organismo. Si tratta di SC adulte che ritroviamo in tessuti già sviluppati, le ricerche su queste cellule hanno recentemente generato molto clamore dato che sono state individuate SC adulte in molti più tessuti di quanto si pensasse.

Figura 2 – Lo sviluppo umano in continuum, con valenza biologica e valoriale.


Cellule staminali e applicazioni terapeutiche: implicanze etiche

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Possiamo affermare che le fonti delle cellule staminali possono essere di diversa natura: dagli embrioni (blastociste) creati dalla fecondazione in vitro nelle metodiche di fecondazione medicalmente assistita oppure ottenute specificamente per la ricerca; da embrioni che provengono da tecniche di clonazione; da cellule germinali ricavate da feti abortiti; dal sangue del cordone ombelicale; dal liquido amniotico; da tessuti adulti; da cellule provenienti da tessuti già sviluppati e riprogrammati in modo tale da comportarsi come cellule staminali embrionali. Lo sviluppo umano presenta un continuum a cui appartengono caratteri strettamente biologici e valoriali che sono inscindibili, l’indicazione espressa dalla figura 2 mette in evidenza questa relazionalità. La vita è preservata entro certi limiti operativi oltre i quali la fonte di cellule staminali diventa distruttiva e drasticamente vincolante per la vita della persona umana. Ne consegue che in funzione della fase di sviluppo da cui vengono prelevate le SC la rilevanza etica assume connotati diversi. Il nodo etico consiste nel considerare: 1) il tipo di cellule staminali ed quindi la fonte da cui vengono prelevate; 2) le possibili tecniche di trasferimento nucleare con cui vengono ottenute. Seguire questa distinzione presenta una sua importanza metodologica, dato che l’analisi etico-antropologica nel fare le dovute osservazioni deve sempre distinguere l’oggetto dell’analisi (in questo caso specifico il tipo di cellula staminale presa in questione) ed il sistema operativo che ruota intorno ad esso. Spesso il primo elemento è eticamente inscindibile dall’altro, cioè il tipo specifico di cellula staminale ha rilevanza etica in virtù della tecnica utilizzata per il prelievo e l’uso che viene previsto che si realizzi. Si pensi a cellule adulte che vengono soggette a tecniche di clonazione per ottenere embrioni, abbiamo visto come una fonte di SC sia l’inserimento del nucleo di una cellula adulta in una cellula uovo denucleata, senza dimenticare il legame delle SC con la clonazione terapeutica. Quindi la necessità della valutazione morale deriva dalla caratterizzazione pratica della scienza e dell’arte medica. Le scoperte inerenti le cellule staminali hanno aperto diverse linee di studio che consentono applicazioni in campo clinico dei risultati ottenuti per curare alcune malattie spesso intrattabili attraverso le terapie di uso


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corrente. I tessuti danneggiati da traumi o malattie di diversa entità e gravità non sempre sono riparati dal mirabile e complesso sistema organico endogeno che, nelle normali condizioni fisiologiche, ristabilizza l’equilibrio perduto. Occorre spesso un’azione terapeutica, che aiuti l’organismo nel suo costante processo autopoietico. In particolare, in alcuni casi è necessario riparare il danno tissutale con il trapianto di cellule staminali, precedentemente differenziate in laboratorio. In campo scientifico si parla di “ricerca traslazionale”, che consiste nell’indagare le strategie migliori per trasferire le nuove conoscenze acquisite dalla ricerca biomedica nella pratica clinica, cioè a vantaggio del maggior numero possibile di pazienti e a costi sostenibili. I trattamenti con le cellule staminali sono ad alta tecnologia e ad alti costi, per cui occorre tener conto di diversi elementi che riguardano sia la reperibilità che l’applicazione. Nonostante la letteratura scientifica internazionale sostenga l’utilizzo delle cellule staminali embrionali rappresenti la strada più battuta e promettente7 questo non è l’unico percorso possibile! L’applicazione terapeutica delle cellule staminali ricavate da tessuto adulto o dal sangue del cordone ombelicale ha dato ottimi risultati senza creare problemi etici, riguardanti la distruzione dell’embrione. La tabella 1 elenca le principali malattie che potrebbero essere bersaglio di cellule staminali adulte specializzate. Tipo di cellula Cellule del sistema nervoso

Cellule del muscolo cardiaco Cellule che sintetizzano insulina Cellule della cartilagine

Malattia Infarto cerebrale, Parkinson, Alzheimer, Lesioni del midollo spinale, Sclerosi multipla Infarto del miocardio Diabete Osteoartrite

7 Cfr. JOHNS HOPKINS UNIVERSITY, Straight Talk: Adult and Embryonic Stem Cells and the Future of Research (july 2003); Panel: Clinical use of Embryonic Stem Cells jeopardized by policy on federal funding (december 2003), in http://www.hopkinsmedicine.org/ press/2003; R. FADEN, Public Stem Cell Bank considerations of justice in stem Cell Research and Therapy, in The Hasting Center Report 33 (2003) 25.


Cellule staminali e applicazioni terapeutiche: implicanze etiche Cellule del sangue

Cellule del fegato Cellule epiteliali Cellule del muscolo scheletrico Cellule ossee

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Cancro, Immunodeficienze, Malattie del sistema emopoietico, Leucemia Epatite, Cirrosi Ustioni, Ferite Distrofia muscolare Traumi, Osteoporosi

Si possono considerare, in linee generali, diversi metodi di applicazione terapeutica delle cellule staminali8, ma siamo sempre nell’ambito applicativo dei trapianti. Una tipologia di cellule staminali isolata da un tessuto dell’organismo potrebbe essere differenziata in cellule specifiche di un altro tessuto, grazie alla loro capacità plastica, affinché, attraverso il trapianto autologo o allogenico, si impieghino per la cura di una determinata patologia. Possiamo distinguere: • Trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche: questo trapianto consente la ripresa dell’autopoiesi dopo la somministrazione di dosi mieloablative di chemioterapia e radioterapia. Questa terapia è stata valutata su pazienti affetti da malattie autoimmuni severe9. • Trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche: il potenziale terapeutico del trapianto di cellule staminali allogeniche è legato all’azione antitumorale del sistema immune del donatore 8 Cfr. E. MAYHALL – L. ZON, The clinical potential of stem cells, in Current Opinion in Cell Biology 16 (2004) 713-720; MINISTERO DELLA SANITÀ, Relazione della Commissione di studio sull’utilizzo di cellule staminali per finalità terapeutiche (Roma, 28 dicembre 2000), in http:/www ministerosalute.it/pubblicazioni.htm. 9 Cfr. J. SCHROEDER – D. CHENG et AL., Treatmant of severe systemic lupus erythematosus with high-dose chemotherapy and haemopoietic stem cell transplatation: a phase I study, in Lancet 356 (2000) 701-707; P. MURARO – R. MARTIN et AL., Hemapoietic stem cell transplantation for multiple sclerosis: current status and future challenges, in Current Opinion of Neurology 16 (2003) 299-305; P. HUANG – Z. LI et AL., Transplantion of autologous peripheral blood stem cells for the treatment of lower limb arteriosclerosis obliterans, in Zhonghua Xue Ye Xue Za Zhi 24 (2003) 308-311; W. KREISEL – K. POTTHOFF et AL., Complete remission of Crohn’s disease after high-dose cyclophosphamide and autologous stem cell transplantation, in Bone Marrow Transplantion 32 (2003) 337-340.


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trapiantato nel paziente, consentendo di ridurre le dosi di radiochemioterapia a coloro che presentano una malattia avanzata e con tumori solidi10. • Trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche del cordone ombelicale: in alternativa al midollo osseo e alle cellule staminali da sangue periferico, il sangue da cordone ombelicale è attualmente utilizzato quale sorgente allogenica di cellule staminali ematopoietiche, in ragione della loro immaturità immunologia e dell’elevato potenziale di ripopolamento midollare e immunologico11. • Trapianto di cellule staminali cutanee: cellule staminali coltivate in vitro utilizzabili solo per pazienti con patologie cutanee gravi ed ustioni12. • Trasferimento nucleare: può essere finalizzato a fini terapeutici diversi dalla produzione di cellule staminali. Consiste nel correggere di difetti genetici la cellula nelle prime fasi dello sviluppo embrionale o intervenire in malattie causate dall’alterazione del DNA mitocondriale13. Le cellule staminali, prelevate dallo stesso 10

Cfr. D. CHAO – H. PATEL et AL., Allogeneic hematopoietic stem-cell transplantation: the next generation of therapy for metastatic renal cell cancer, in Nature Clinical Practice Oncology 1 (2004) 32-38; M. MARIS – R. STORB et AL., Allogeneic hematopoietic cell transplantation as consolidation immunotheraphy of cancer after autologous transplatation, in Acta Haematologica 144 (2005) 221-229; D. NIEDERWIESER – T. LAUGE et AL., Allogeneic hematopoietic cell transplantation following reduced-intensity conditioning in patients with acute leukemias, in Critical Reviews in Oncology/Hematology 56 (2005) 275-81. 11 Cfr. D. PETROPAULOS – K.W. CHAN, Umbilical cord blood transplantation, in Current Oncology Reports 7 (2005) 406-409; Y. COHEN – A. NAGLER, Hematopoietic stemcell transplantation using umbilical-cord blood, in Leukemia & Lymphoma 44 (2003) 128799; E. GLUCKMAN – V. ROCHE, Results of unrelated umbilical cord blood hematopoietic stem cell transplant, in Transfusion clinique et biologique: journal de la societe francaise de transfusion sanguine 8 (2001) 146-154. 12 Cfr. P. JONES – F. WATT, Separation of human epidermal stem cells from transit amplifying cells on the basis of differences in integrin function and expression, in Cell 73 (1993) 713-724; G. PELLEGRINI – M. DE LUCA, The control of epidermal stem cells in the treatment of massive full-thickness burns with autologous keratino cytes cultured on fibrin, in Transplatation 68 (1999) 868-879; E. DELLAMBRA – G. ZAMBRUNO, Corrective transduction of human epidermal stem cells in laminin-5-dependent junctional epidermolysis bullosa, in Human Gene Therapy 9 (1998) 1359-70. 13 Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Parere sull’impiego terapeutico delle cellule staminali (27 ottobre 2000), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 2001, 14.


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individuo e trattate attraverso la tecnica del trasferimento nucleare, presentano lo stesso patrimonio genetico del paziente. L’utilizzo del trapianto nucleare con cellule del paziente stesso (autotrapianto) evita i problemi e i rischi di rigetto e di incompatibilità tessutale. • Terapia cellulare: i tessuti e gli organi danneggiati da traumi o malattie possono avere un recupero senza interventi esterni. In alcuni casi tuttavia richiedono un’azione terapeutica, consistente nella loro riparazione o addirittura sostituzione. Il trapianto delle cellule del midollo osseo, per esempio, è stato usato con vario successo nella terapia di alcune forme di leucemia ed in certe malattie genetiche. Tuttavia i meccanismi biologici che provvedono alla loro riparazione agirebbero con efficacia molto maggiore se fosse disponibile una quantità adeguata di cellule non danneggiate, che investissero l’organo o il tessuto danneggiato in modo da accelerare i meccanismi fisiologici e l’azione di riparazione. È in questa direzione che oggi si indirizza la ricerca sull’uso terapeutico delle linee staminali. La ricostruzione in laboratorio di organi interi, quali per esempio i reni o il cuore, con i loro sistemi linfatici o sanguigni, e con la loro complessa architettura di tessuti o parti, è considerata una meta ancora troppo lontana per pensare ad applicazioni terapeutiche in modi e tempi realistici. Per esempio, questa possibilità è già sperimentata nel ratto, dove è stata sfruttata la trasformazione dei precursori degli oligodendrociti in cellule che producono mielina nel midollo spinale; malattie degenerative del sistema nervoso (Alzheimer, morbo di Parkinson, malattia di Huntington, sclerosi laterale amiotrofica, malattie ecotossicologiche, post-traumatiche, da abuso farmacologico, da danno ischemico, ecc.); malattie muscolo-scheletriche (displasia ossea, malattie progressive delle giunzioni ossee, osteogenesis imperfecta, miopatie primitive); malattie infiammatorie di natura sistemica (sindrome di Sjögren), attraverso la sostituzione delle cellule delle ghiandole salivari atrofiche dei malati; malattie degenerative della retina, della cornea e dell’apparato uditivo, i cui tessuti sono stati danneggiati per cause genetiche o traumatiche: ricostituzione del tessuto cardiaco dopo un infarto acuto del miocardio e riparazione dei vasi sanguigni da processi patologici progressivi come l’arte-


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riosclerosi e l’ipertensione; malattie metaboliche tipo lisosomiali, causate dal blocco di specifici sistemi catabolici e dal conseguente accumulo nei lisosomi delle sostanze non degradate14. • La terapia genica: l’uso di cellule staminali come cellule bersaglio rappresenta un nuovo approccio alla terapia genica, soprattutto per la tecnica ex vivo, grazie alle caratteristiche peculiari che queste cellule presentano. Margaret Goodell, ricercatrice al Baylor College of Medicine in Houston che ha scoperto un nuovo metodo per classificare le cellule staminali del midollo osseo, definisce le cellule staminali partners della geneterapia15. Oggi, circa il 40%, su 450 prove cliniche di terapia genica, utilizzano la terapia con cellule, di queste il 30% sono cellule staminali umane utilizzate per veicolare i geni d’interesse. Il grande vantaggio di utilizzare cellule staminali risiede soprattutto nella loro capacità auto-rigenerante che, rispetto all’uso di cellule isolate da impiantare, può ridurre o eliminare la necessità di ripetute somministrazioni di terapia genica. In questo caso sono preferite e vengono maggiormente utilizzate le cellule staminali ematopoietiche in quanto sono facilmente isolabili (dal sangue circolante), facilmente identificabili, manipolabili in laboratorio e si reimmettono nel paziente per iniezione16. Inoltre possiedono sia la proprietà di differenziarsi nelle diverse cellule del sangue, il che permette di avere un transgene terapeutico in cellule come i linfociti T e B, nelle cellule Killer, nei monociti, macrofagi, granulociti, eosinofili, basofili e megacariociti, sia la proprietà di migrare in diversi tessuti verso cui potrebbero anche essere trattate. L’applicazione delle cellule staminali nella terapia genica ex vivo su pazienti con un’alterazione del gene CFTR (Cistic Fibrosis Transmembrane 14 Cfr. R. CHIU – R. KAO, Cellular cardiomyoplasty: myocardial regeneration with satellite cell implantation, in The annals of thoracic surgery 60 (1995) 12-18; S. FILIP – J. MOKRY et AL., Stem cell plasticy and issues of stem cell therapy, in Filia Biologica 51(2005) 180-187; A. D’AMBROSIO – G. DI SCIASCIO, Transcatheter cell therapy of heart failure: state of the art, in Giornale italiano di cardiologia 7 (2006) 23-39. 15 Cfr. M. GOODELL, Renewing muscles and nerves could stem cells be the ultimate body repair kit, in Quest 7 (2) 2000 35. 16 Cfr. F. APPELBAUM, Allogeneic hematopoietic stem cell transplantation for acute leucemia, in Seminars in Oncology 24 (1997) 114-123; Y. LIU – L. CHANG, Use of blood outgrowth endothelial cells for gene therapy for hemophilia A, in Blood 99 (2002) 2, 457-462.


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Regulator) che provoca una patologia chiamata Fibrosi Cistica, ha realizzato ottimi risultati. L’articolo pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences dimostra per la prima volta che cellule staminali adulte, derivate dal midollo osseo umano e manipolate attraverso tecniche di geneterapia, si possono differenziare in cellule epiteliali che ristabiliscono la fisiologica attività tissutale17. L’Italia ha il primato nella ricerca che vede la tecnica di trasferimento genico con cellule staminali applicata sull’uomo18.

2. PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA La ricerca scientifica e l’applicazione terapeutica delle SC pongono diversi interrogativi antropologici che riguardano la questione dello statuto dell’embrione umano, il valore del corpo umano nelle applicazioni di tecniche biomediche, la relazione che esiste tra naturale ed artificiale.

2.1. La questione dello statuto dell’embrione umano La natura e l’identità dell’embrione umano rappresentano il nodo antropologico fondamentale nella trattazione sulle problematiche inerenti la bioetica comunemente detta di inizio vita. Diverse sono le domande che emergono: Che cos’è o chi è l’embrione? Quali definizioni emergono dalla riflessione antropologica emergente? Quali le divergenze e le comunanze con le argomentazioni cattoliche? Per rispondere a queste domande dobbiamo dialogare con molte parole e categorie semantiche che appartengono alla biologia, alla medicina, alla filosofia, all’etica e al diritto. In primo luogo possiamo definire l’embrione umano come un essere umano individuale e personale, gli steps argomentativi che ritroviamo nella 17 Cfr. G. WANG – S. TOM et AL., Adult stem cell from bone marrow stroma differentiate into airway epithelial cells: potential therapy for cystic fibrosis, in Proceeding of the National Academy of Sciences 102 (2005) 186-191. 18 Cfr. A. ABBOTT, Italians first to use stem cells, in Nature 356 (1992) 465.


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definizione esposta sono tre: si tratta di un essere umano che è individuo ed è persona. Il primo step è costatativo, infatti, ci si avvale di dati biologici oggettivi che specificano l’embrione come sistema cellulare avente patrimonio genetico, apparato biochimico e metabolico appartenente alla specie umana19. Si tratta di una valutazione esclusivamente scientifica che non si scontra con alcuna possibile interpretazione antropologica dato che riportiamo il dato empirico così come le parole della biologia ci riferiscono. Il secondo step consiste nello specificare l’individualità dell’embrione. Questa affermazione si fonda sulle peculiarità e unicità del patrimonio genetico, sulla autonomia dei suoi processi metabolici rispetto a quelli materni, sul fatto che possieda una intrinseca tensione a giungere alla sua pienezza maturativa20. L’embrione è individuo, cioè «non si può dividere, è tutto ciò le cui parti non possono dividersi, senza che perda la sua effige, il suo carattere, e quindi tutto ciò che ha una personalità, una esistenza tutta sua speciale»21,

così recita la definizione di individuo. In realtà si tratta di caratteristiche che possiamo riscontrare nell’embrione, poiché la sua costitutiva indivisibilità nasce da una funzione autopoietica, che biologicamente lo autocostruisce, mantiene e finalizza, attraverso il suo genoma. L’embrione umano è individuo sin dalla singamia, dalla fusione del patrimonio apolide dello spermatozoo e della cellula uovo, da questo momento tutto il processo epigenetico si struttura attraverso proprietà di coordinazione, continuità e gradualità, elementi che avvalorano il concetto di individualità dell’embrione. La coordinazione indica che lo sviluppo embrionale è coordinato da una serie di sequenze ed interazioni molecolari e cellulari, che sono sotto il controllo del nuovo genoma; questa proprietà è espressione di una condizione unitaria della realtà organica presente. La fusione dei gameti innesca un insieme di reazioni biochimiche che sono oggetto di continuità operativa inarrestabile se non per interventi 19 20 21

Cfr. A. SERRA, L’Uomo-embrione: il grande misconosciuto, Siena 2003, 29-41. Cfr. M. Pietro FAGGIONI, La vita nelle nostre mani, Torino 2004, 233. O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico, La Spezia 1990, 689.


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esterni ed invasivi. Si tratta di un processo senza interruzioni che vede protagonista lo stesso target biologico che assume una morfologia diversa. Questo sviluppo avviene gradualmente, tipica caratteristica ontogenetica che vede nel tempo la formazione progressiva dei complessi componenti fetali, mantenendo la propria identità ed unicità22. I primi problemi inerenti l’embrione che nascono nello scenario bioetico si inquadrano in questo step argomentativo, dato che è molto discussa la posizione comunemente espressa dal Magistero della Chiesa e da molti scienziati che ritroviamo nella Dichiarazione De abortu procurato: «Dal momento in cui l’ovulo è fecondato si inaugura una nuova vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto»23.

Infatti diversi sono le argomenti contrari alla concezione che la vita del nuovo individuo inizi al momento della fecondazione, ne accenniamo alcuni: il fenomeno della gemellarità, la formazione della “mola vescicolare”, il naturale non impianto dell’embrione nell’utero. Una risposta a queste obiezioni è data dalla tesi secondo la quale l’inizio della vita umana avvenga quando nel graduale sviluppo embrionale si perde la loro totipotenza (in tal modo la gemellarità viene esclusa), si procede all’impianto nell’utero con conseguente formazione della stria primitiva. Tutto ciò avviene tra il 5° e il 14° giorno dalla fecondazione: “la tesi del 14° giorno”24 non conferisce valore di essere umano individuale ad un embrione prima dei tempi previsti per l’annidamento. Su questa linea si è sviluppato il concetto del pre-embrione25, che definisce la massa cellulare prima dell’impianto, la falsa strada terminologica si è diffusa a macchia d’olio nell’ambiente scientifico, poiché accettando questa posizione si rendono lecite tutte quelle attività di ricerca che utilizzano l’embrione prima dell’impianto. 22

Cfr. A. SERRA, L’Uomo-embrione: il grande misconosciuto, cit., 41-44. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione De abortu procurato, 1974, 12. 24 Cfr. N. FORD, When did I begin? Conception of the human individual in history, philosophy and science, Cambridge 1988. 25 Cfr. A. MCLAREN, Embryo research, in Nature 320 (1986) 570. 23


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Tesi legate al processo di corticalizzazione spostano la data dell’individualità umana all’8ª settimana, quando comincia a comparire la corteccia cerebrale, per una parallela definizione di morte cerebrale, dato che la morte è indicata come cessazione delle funzioni cerebrali. Così come la morte è indicata da un dato cerebrale, l’inizio della vita verrebbe scandito dai primordi della sua funzionalità. Nonostante le diverse interpretazioni e concezioni dell’inizio vita, non si può negare come il dato genetico, che costituisce la nuova identità, renda unica e irripetibile la vita che si è formata sin dalla fecondazione. I tentativi di ledere la dignità dell’individuo umano sin dai suoi primi istanti di vita sono forzate argomentazioni che purtroppo attecchiscono in ambienti di ricerca dove il prevalente scopo è quello del profitto e non del bene comune, anzi il bene comune è visto come unico mezzo per raggiungere scopi di carattere aziendale. È interessante rileggere un intervento degli arcivescovi britannici su questo argomento: «Infatti, proprio nel momento del concepimento inizia una nuova vita. Si tratta di un’unione in cui una cellula viva del padre feconda una cellula viva della madre. Questa unione, trasmissione della vita, è l’inizio di una nuova vita. Questa nuova vita è e resterà sempre un individuo unico. […] la nascita è certamente un avvenimento importante nella storia di ognuna delle nostre vite, ma per l’inizio di questa storia dobbiamo ritornare al momento del concepimento»26.

Il terzo step deve chiarire perché l’embrione che è essere umano individuale è anche personale. Il concetto di persona trova diverse strade interpretative in funzione degli orientamenti antropologici considerati, questo è il motivo per cui man mano che ci allontaniamo dal dato oggettivo scientifico per avvicinarci alle considerazioni etiche, passando attraverso la riflessione antropologica, il confronto ed il dibattito diventano sempre più accesi, ponendosi spesso su livelli di opposte vedute. Non interessa in questa sede fare una trattazione esaustiva del concetto di persona, ma dare le basi necessarie per giungere alle implicanze etiche dell’uso terapeutico delle SC. 26 ARCHÉVÊQUES DE LA GRANDE BRETAGNE, L’avortment, in La Documentation Catholique 1783 (1980) 341 (la traduzione è nostra).


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La categoria di persona in un primo momento si pensava che potesse rappresentare il mezzo attraverso cui creare ponti di intesa tra le diverse realtà antropologiche, ma non fu così27. È nota la definizione etimologica di persona come prosopon, maschera, aspetto che ritroviamo nella cultura teatrale dell’antica Grecia e successivamente in quella latina. Il primo uso filosofico di persona potrebbe essere dato da Severino Boezio: rationalis naturae individua substantia, Riccardo di San Vittore: rationalis naturae individua existentia, San Tommaso: individuum subsistens in rationali natura. Elementi essenziali nel costituire la persona erano l’individualità sussistente e la natura razionale o spirituale. Nella modernità si assiste ad una rottura della definizione ontologica di persona, con l’avvento della razionalità cartesiana si separa la res cogitans dalla res extensa. La frattura dell’unità ontologica dell’anima e del corpo, pone solo nella prima la sede del pensiero, dell’autocoscienza e quindi lo statuto personale. L’empirismo conferisce al concetto di persona un ulteriore critica all’impostazione ontologica classica. J. Locke e D. Hume ne sono un esempio emblematico: la persona è ridotta alla mente, quale fascio di impressioni e di idee, di percezioni distinte e di stati affettivi28. I. Kant nega la fondazione ontologica ma ne recupera il significato etico: la persona è fine e non mezzo, ha dignità e non ha prezzo. Nonostante l’influenza del pensiero kantiano nell’epoca moderna, si diffondono correnti di pensiero che destabilizzano il valore intrinseco della persona, con un orientamento anti-personalista che vede coinvolti K. Marx, F. Nietzsche. Assistiamo ad una ripresa del concetto di persona con la filosofia fenomenologica di E. Husserl che propone il rapporto intersoggettivo quale elemento costitutivo dell’essere personale: l’Io diventa il polo della vita intenzionale, ove l’intenzionalità è la relazione ad altro e la coscienza è il trascendentale che dà senso al mondo. M. Scheler arriva a definire la persona come rapporto con il mondo, ove il mondo è il luogo dove la persona può esprimere pienamente sé. Questo è un concetto ripreso dall’esistenzialismo ontologico di M. Heidegger (la persona è l’esserci in rapporto con il mondo) e svuotato dall’esistenzialismo nichilista di J.P. Sartre, che finisce per annichilire il senso dell’uomo con se stesso e con 27 Cfr. E. BERTI, Il concetto di persona nella storia del pensiero filosofico, in Persona e personalismo. Aspetti filosofici e teologici, Padova 1992, 43-74. 28 Cfr. C. SINI, Filosofie che negano la conoscibilità e il valore della persona, in Studium 91 (1995) 599-609.


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il mondo. L’etica comunicativa di K.O. Apel e J. Habermas ritornano a riflettere sulla persona. Oggi il dibattito contemporaneo sul concetto di persona è molto acceso e controverso, per tale motivo è necessario sottolineare le due interpretazioni prevalentemente presenti: a) interpretazione funzionalistico-attualistica; b) interpretazione sostanzialista.

2.1.1. Interpretazione funzionalistico-attualistica. Un modo di fare… Crediamo opportuno sottolineare la visione funzionalistico-attualistica poiché è caratterizzata da una pluralità di ingerenze antropologiche per le quali la categoria persona viene attribuita e non riconosciuta agli esseri umani. Solo chi possiede certe proprietà e requisiti può essere considerato persona, si tratta di una corrente riduzionista che comunemente viene definita come un orientamento che sostiene la separabilità e la separazione del concetto di persona dall’essere umano e dalla vita umana. Nel senso che persona è una categoria da non attribuire con le stesse modalità utilizzate per l’essere umano, dato che la nozione scientifica di essere umano è separata dalla nozione filosofica di persona. Occorrono allora dei parametri oggettivi che permettano di definire un essere umano persona, riferimenti empirici che possano delineare il campo entro cui proporre questo discorso. Sono le teorie monofunzionali: la persona si identifica con l’individuo genetico, con le capacità relazionali, l’inizio della sensitività, l’esercizio della razionalità, l’autonomia, l’esercizio effettivo della ragione. L’essere umano viene così inquadrato in una cornice antropologica ben precisa. Il percorso diventa semplice nella sua proposta, articolato e contorto nella stesura argomentativa; si tratta di monofattori applicati ad un essere umano, il quale è analizzato in maniera asettica e riduttiva dall’esterno, come incognite in una espressione algebrica che una volta applicata ne determina un risultato, già conosciuto ed imposto. All’interno dell’interpretazione funzionalistico-attualistica, ritroviamo delle correnti di pensiero che necessitano per la definizione di persona umana di più coordinate, in tal modo si delimitano nell’insieme dei viventi sottogruppi di persone e sottogruppi di non persone (teorie multifunzionali).


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Proponiamo le teorie attualmente più diffuse. La teoria di Peter Singer parte da una questione di base: occorre domandarci il significato dei termini persona, vita umana o essere umano. Per rispondere a questo quesito l’autore prende alcune argomentazioni da Joseph Fletcher29, un teologo protestante prolifico autore in materia di etica, il quale «ha compilato una lista di quelli che egli chiama “indicatori di umanità”. Essi comprendono: autocoscienza, autocontrollo, senso del futuro, senso del passato, capacità di porsi in rapporto con gli altri, riguardo per altri, comunicazione, curiosità»30.

Anche in questo caso il discorso si riduce a classificare e quindi attribuire dei parametri oggettivi ad un essere umano attraverso degli indicatori, che riconoscono l’ umano di un essere vivente. L’affermazione più forte la troviamo leggendo qualche rigo più giù quando scrive: «Sfortunatamente, l’uso di persona è esso stesso fonte possibile di fraintendimenti, dato che persona è spesso usato nello stesso senso di essere umano. Tuttavia i termini non sono equivalenti; infatti potrebbe esserci una persona che non è membro della nostra specie. Potrebbero esserci anche membri della nostra specie che non sono persone»31.

Singer sostiene una differenza tra vita umana e persona, non è scontato che esista un’identità! Il principio morale fondamentale su cui poggia l’eguaglianza di tutti gli esseri umani è il principio dell’uguale considerazione degli interessi, che comunque estende anche ai non umani32, dato che la base di questo principio è la capacità di sentire piacere e/o dolore. L’embrione non rientra in queste categorie per cui non può essere considerato persona, poiché non presenta né autocoscienza né razionalità. In tal modo si apre la strada alla liceità della 29 Cfr. J. FLECTHER, Indicators of humanhood: a tentative profile of man, in Hastings Center Report 5 (1972) 2. 30 P. SINGER, Etica pratica, Napoli 1989, 81. 31 L.c. 32 P. SINGER, Etica pratica, cit., 56.


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pratica della morte dei grandi e dei piccoli con malformazioni, ritardi mentali, malati comatosi e così via per un lungo elenco di casi in cui non si può essere considerati persone. La teoria sulla “persona” di T.H. Engelhardt si fonda sui principi riduzionistici dell’autocoscienza, della razionalità e del possesso del senso morale. Un essere umano deve dimostrare di essere persona agendo da persona, cioè in modo autocosciente e razionale, deve possedere la piena volontà dei suoi atti, l’autonomia delle sue azioni attraverso una funzionale attività cerebrale. In questo panorama di principi non tutti gli esseri umani possono considerarsi persona, come egli stesso scrive: «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. […] né di essere meritevoli di biasimo ed elogio. Non sono partecipanti primari all’impresa morale. Solo le persone hanno questo status. Per impegnarsi nel discorso morale, tali entità dovranno riflettere su se stesse; devono perciò essere autocoscienti. Dovranno inoltre essere capaci di concepire regole d’azione per sé e per gli altri per immaginare la possibilità della comunità morale. Dovranno essere razionali. Tale razionalità dovrà comprendere una concezione della nozione di merito di biasimo e di elogio: un senso morale minimo. La morale dell’autonomia è la morale delle persone. Per questa ragione non ha senso parlare di rispetto dell’autonomia dei feti, degli infanti e degli adulti gravemente ritardati, che non sono mai stati razionali. Non c’è autonomia da ledere. Il fatto di trattare tali entità senza riguardo per ciò che non possiedono e non hanno mai posseduto, le priva di nulla. Esse sono al di fuori del santuario interno della morale»33.

Le parole stesse riportate nel testo servono, per la chiarezza espositiva e per la razionale dinamica delle convinzioni e ragioni addotte, a comprendere il tipo di orientamento che la scuola di Engelhardt ha preso sin dall’inizio e continua a diffondere. L’essere umano perde ogni sua relazione ontologica con se stesso e diventa oggetto di valutazione di chi essendo già persona ne individua i tratti fondamentali nell’altro come una sorta di analisi di riconoscimento, di test valutativi dai cui risultati, se entro certi limiti, si raggiunge la categoria di 33

H.T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, Milano 1991, 127.


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persona, o persona a metà, o solo essere umano. È come se si ragionasse a percentuali: può forse esistere una persona al 30 %? Troviamo altri autori, a livello internazionale, che seguono la strada del riduzionismo, ricordiamo: John Harris, Università di Manchester, definisce persona solo coloro che hanno capacità di apprezzare la propria esistenza, con le proprietà percettive che acquisisce con lo sviluppo. In tal modo si parla di pre-persona o persona potenziale, che si evolve in persona che comprende la sua esistenza in atto, esistono così diverse della vita che hanno rilevanza e significato morale diverso. Se una malattia nell’arco della vita limita o riduce notevolmente le potenzialità vitali dell’uomo, questo può anche non essere più considerato persona. Derek Parfit, in base al possesso di stati mentali/psicologici coscienti. Questa determinazione della persona è più larga della precedente, per cui coloro che sono persone in base al primo paradigma lo sono anche secondo Parfit, mentre è falso il viceversa. La concezione gradualistica della persona e del suo diritto alla vita è sostenuta da Parfit in questi termini: «L’ovulo fecondato non è un essere umano e una persona fin dall’inizio ma lo diventa lentamente[…], la distruzione di questo organismo all’inizio non è moralmente sbagliata, ma a poco a poco lo diventa. Mentre all’inizio non è per nulla moralmente sbagliata, in seguito diventa una mancanza non grave che sarebbe giustificata solo se, tenuto conto di tutto, la futura nascita del bambino fosse un’eventualità seriamente peggiore o per i suoi genitori o per gli altri. Quando l’organismo diventa un essere umano a pieno titolo, ossia una persona, la mancanza non grave si trasforma in un atto moralmente molto sbagliato»34.

La concezione della persona umana di Parfit limita ancora di più i parametri oggettivi della definizione, la teoria della persona definita in base ai suoi stati psichici nega più o meno implicitamente la possibilità di una differenza intrinseca tra la specie umana e le altre specie, perché i movimenti psichici possono essere ridotti a quanto è comune a specie non-umane e possono coprire molti livelli da un minimo ad un massimo, senza che con questo siano stabilite essenze ontologicamente diverse. 34

D. PERFIT, Reasons and persons, Oxford 1986, 35 (la traduzione è nostra).


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In Italia un esponente cardine dello scenario della bioetica laica è Maurizio Mori, Università di Torino, il quale prendendo le mosse da H.T. Engelhardt afferma che il concetto di persona può essere rapportato solo ad una dimensione psicologica, cioè alla capacità di coscienza o di autocoscienza, di riflessione e autodeterminazione: elementi questi che non ritroviamo nell’embrione e quindi quest’ultimo non si può definire persona35. La posizione di Mori è largamente espressa in diversi suoi interventi nel dibattito bioetico odierno dato che, partendo da un orientamento antropologico riduzionista di questa portata, tutta la riflessione bioetica, dall’inizio a fine vita, è permeata dalla categoria di capacità di fare, tanto ampia quanto vuota di specificità etica. Queste rotte antropologiche attraverso cui si muove gran parte della bioetica laica leggono la persona in funzione di singole o molteplici funzioni, singoli aspetti annichilendo il nucleo ontologico che costituisce ogni essere umano nella sua unità di anima e corpo36.

2.1.2. Interpretazione sostanzialista. Un modo di essere… L’orientamento sostanzialista rappresenta una importante sezione dello scenario antropologico odierno. In particolare il personalismo ontologico afferma l’intrinseca identità tra persona, essere umano e vita umana, individuando nel momento del concepimento l’inizio dell’essere umano, nel quale è riconoscibile l’esserci della persona37. Abbiamo esposto precedentemente come il concetto di persona nel medioevo fu proposto da Boezio che la definì rationalis naturae individua substantia. Il termine sostanza ha radici aristoteliche ed indica la individualità della persona in oggetto, nel senso che la sostanza è ciò che è in sé, la persona esiste in sé per cui è sostanza. Si tratta di sostanza completa cioè come insieme sostanziale nella sua unità e costitu35 Cfr. M. MORI, La bioetica: una nuova morale per il futuro dell’uomo, Roma 1993; ID., Sacralità e disponibilità della vita:per un’analisi delle prospettive generali sottese alla moralità dell’eutanasia, Milano 1987. 36 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes (= GS) (07.12.1965), in AAS 58 (1966) 14. 37 Cfr. CENTRO DI BIOETICA dell’UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, Identità e statuto dell’embrione umano, in Medicina e Morale 4 (1984) 663-676.


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zione biologica e ontologica. Se accostiamo il concetto di sostanza all’uomo possiamo concludere che tutto “il fare dell’uomo” non esiste in sé ma come funzione e attività di un individuo umano sostanziale. Quindi l’uomo non può essere ridotto alla capacità di realizzarsi attraverso la sua volontà ed intelligenza ma alla condizione innata ed ontologica che lo costituisce. Il sussistente è legato alla natura intellettuale ed insieme costituiscono la persona, facendo le dovute osservazioni: un individuo non è persona perché si manifesta come tale ma si manifesta così perché è persona: agere sequitur esse38. Il personalismo ontologico riprende la concezione sostanzialista della persona umana, non tralasciando i signa personae, i singoli atti compiuti dall’uomo come espressione delle sue capacità, questi sono inseriti nel contesto della concezione ontologica dell’essere persona. Infatti il divenire persona non è un processo ma un evento, un atto immediato, mentre la personalità è un processo che si realizza e si perfeziona attraverso un andamento spazio-temporale ascendente o, purtroppo alcune volte, discendente nella vita dell’uomo. Il concepimento, momento in cui si diventa essere umano individuale e personale, è un evento circoscritto nel tempo39 così come la morte. Un’ulteriore specificazione viene data dal prof. Faggioni il quale sottolinea l’attenzione che il personalismo ontologico dà al dato biologico, infatti non lo trascura ma lo presuppone, poiché la sostanza individuale umana è anche corporea. Questo orientamento, però, riesce a cogliere aspetti più vasti e intimi del semplice essere umano biologico perché intravede nella individualità biologica radicarsi la profondità della persona40.

2.2. Il malato: soggetto-oggetto della terapia con cellule staminali Un’altra questione antropologica è data dalla riflessione sull’uomo che è soggetto da curare e oggetto di ricerca scientifica, di diagnosi e terapia. Angelo Vescovi, riprendendo le parole del card. Tonini, parla di cura 38 Cfr. R. LUCAS LUCAS, Antropologia e problemi bioetici, Cinisello Balsamo (MI) 2001, 90-118. 39 Cfr. F. BOTTURI, Embrione umano e persona, in Per la filosofia 9 (1992) 20-27. 40 Cfr. M.P. FAGGIONI, La vita nelle nostre mani, cit., 241.


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che viene da dentro41, il corpo umano possiede un patrimonio terapeutico da scoprire e valorizzare, una potenziale e costruttiva banca di mattoni biologici che naturalmente ricostruiscono gli edifici tissutali distrutti dai sismi delle patologie. Che valore possiede il corpo? Fino a che punto la ricerca sulle SC può incidere sull’integrità del corpo umano? Quando si deve dire no? L’esistenza terrena dell’uomo procede in una continua tensione tra salute e malattia, tra gioia e sofferenza, tra vita e morte, tra perdizione e salvezza. Alla medicina si chiede di entrare nel tempo e nello spazio dell’uomo per rispondere alla domanda di salute dell’ammalato, ed essa, come scienza applicata, non deve abbandonare la visione integrale dell’essere umano. Il corpo umano raccoglie in sé l’aspetto biologico, organico ed inorganico, e quello trascendente; si parla infatti di totalità dell’uomo che si esprime nel concetto di corporeità. La corporeità esprime in primo luogo la singolarità dell’uomo, cioè una figura determinata in ciò che lo costituisce nell’essere anima e corpo. L’unità intrinseca comporta un superamento della concezione dualistica platonica ed aristotelica che, affermando l’unione sostanziale, resta ancora dipendente dall’orientamento cosmocentrico del mondo greco. La riflessione vuole sottolineare che non si può separare il principio di unitotalità di corpore et anima unus 42 espresso dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes. Questa tendenza è molto accentuata nel nostro periodo storico poiché tende a determinare un forte distacco delle due componenti (anima e corpo) costitutive dell’uomo, il quale non è il suo corpo o la sua anima ma è contemporaneamente anima e corpo. Il soggetto realizza la sua esistenza attraverso un corpo che lo fa essere presente nella sua realtà oggettiva, ma nello stesso tempo lo trascende. Famosa l’affermazione di G. Marcel: «L’uomo non ha un corpo; è il suo corpo»43, ma nell’uomo c’è un di più che lo supera e lo costituisce. È interessante notare una riflessione di Roberto Colombo docente di Biologia Umana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:

41 42 43

Cfr. A. VESCOVI, La cura che viene da dentro, Milano 2005. GS 14. G. MARCEL, Journal Métaphysique, Paris 1935, 236 (la traduzione è nostra).


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«Sia nel caso in cui si pervenga ad una risoluzione del quadro patologico sia quando ciò non sia tecnicamente possibile o moralmente ammissibile, la salvezza dell’uomo nella sua unitotalità non coincide con la ritrovata salute né con la sua ritrovata perdizione con il persistere della malattia o con il sopraggiungere della morte»44.

Crediamo che si tratti di un esempio importante di come si possano escludere le posizioni estremiste del biologismo e dello spiritualismo dinanzi ad una società in cui si segue più la ragione della pratica che non la pratica della ragione. Ne consegue che ogni azione inferta al corpo si ripercuote su tutta la persona, l’azione non è solo circoscritta al Körper, cioè al corpo biologico che lo forma ma si estende al Leib, alla corporeità dell’uomo. Quando si interviene sul corpo umano, sia come fase sperimentale che terapeutica, l’attenzione deve essere posta su questa dimensione multidimensionale dell’uomo. Le cellule staminali come entrano in questa argomentazione? La pretesa di vedere nelle SC la fonte di cellule che consentono l’infinita possibilità di ricambio cellulare nel nostro organismo, come mezzo per raggiungere l’eternità è del tutto errata, le SC hanno rivoluzionato il modo di intervenire terapeuticamente sul corpo umano ma non sostituiscono Dio. Quindi il limite oggettivo di un mezzo terapeutico deve essere sempre riferito alla dimensione trascendente dell’uomo, proprio perché il rispetto dovuto alla vita e alla dignità dell’embrione umano (elementi che appartengono a questo ambito) di per sé porta ad una selezione “naturale” delle fonti delle SC.

3. PROSPETTIVA ETICA La riflessione etica, alla luce delle considerazioni precedenti di carattere scientifico ed antropologico, deve essere condotta in modo analitico in funzione delle singole prospettive che dalle SC sono emerse. Seguiremo lo 44 R. COLOMBO, Embrione umano, in G. TANZELLA-NITTI – A. STRUMIA (curr.), Scienza e fede, I, Roma 2002, 446-461.


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schema che convenzionalmente vede contrapposte le cellule staminali embrionali a quelle adulte. Sottolineammo all’inizio della presente trattazione come la rilevanza etica non interessa solo il tipo e la fonte delle SC ma anche le tecniche che vengono utilizzate per ottenerle45. Il fatto che tali cellule vengano oggi isolate da embrioni umani allo stadio di blastocisti (che hanno circa 5 o 6 giorni), oppure da tessuti prelevati da aborti spontanei o causati da interruzioni volontarie di gravidanza, implica che i problemi etici vanno considerati con molta attenzione. Ciò deve avvenire preliminarmente ad ogni discussione scientifica sulle potenzialità terapeutiche della ricerca in questo settore. Se si considera la questione in relazione all’origine delle cellule staminali, è opportuno articolare le argomentazioni a seconda che tali cellule derivino: • da tessuti di feti risultanti da aborto spontaneo o per interruzione volontaria della gravidanza; • da tessuti ottenuti mediante trapianto nucleare somatico; • da embrioni non utilizzati nei trattamenti di fecondazione assistita; • da tessuti adulti.

3.1. Cautela, rischi, difficoltà e speranze Nei documenti nazionali e internazionali in materia emergono le domande più tecniche e meno divulgate sui rischi e difficoltà che nascono con la ricerca e l’applicazione terapeutica delle SC. Fattori importanti che rientrano nella riflessione e valutazione etica. Quali sono i segnali interni ed esterni che promuovono la differenziazione cellulare? Sono uguali per tutti? Quali i markers che li identificano? Quali le ragioni della formazione dei teratomi e come evitarli? Come risolvere le difficoltà emerse dal prelievo di SC da adulti e dal materiale embrionale? Gli interrogativi sono molteplici, fra queste emerge la prudenza e la cautela nel valutare i promettenti risultati della ricerca sugli animali e gli incoraggianti dati clinici che dai diversi centri emergono. La ragione di questa affermazione è data dall’entità biolo45 Cfr. COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Parere sull’impiego terapeutico delle cellule staminali (27 ottobre 2000), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 2001.


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gica che specifica le SC e dalle loro caratteristiche di differenziazione e plasticità, per cui continuamente la ricerca ci propone novità che illuminano dati precedenti o le contestano totalmente. È un campo aperto che vede le difficoltà della sperimentazione scontrarsi con il bisogno di nuove strade terapeutiche per il bene del paziente. L’impiego delle cellule staminali per generare tessuti ad uso terapeutico solleva sul piano tecnico molti interrogativi tra cui: • quanto “normale” sia il tessuto che ne risulta in termini di velocità di invecchiamento, di effetti da mutazioni dannose, di contaminazione di tessuti diversi, di tolleranza immunologia; • se le cellule staminali prodotte mediante trapianto nucleare da tessuti adulti diano luogo ad uno spettro di tessuti differenziati così ampio quale quello derivato dalle cellule staminali di un embrione prodotto dalla fusione di sperma e uova; • se sia possibile generare il numero di cellule necessario per un impiego terapeutico; • quanto e in che dosi sia efficace l’incorporazione di tessuto sano derivato dalle cellule staminali per riparare un tessuto danneggiato. L’uso terapeutico per scopi di trapianto è la conseguenza più diretta delle SC, e può comportare altri benefici per la salute della gente, che sono la possibilità di utilizzare linee cellulari per testare l’efficacia e la tossicità dei farmaci; di studiare i meccanismi biologici di base che presiedono allo sviluppo di certe patologie; di utilizzare le cellule staminali per risolvere alcuni dei problemi che oggi rendono ancora non adeguatamente diffusa l’applicazione della terapia genica46. Le cellule staminali, di qualunque origine, potranno risolvere i due limiti fondamentali dell’attuale tecnologia dei trapianti: la scarsità di organi e la necessità dell’immuno-soppressione cronica. Da ciò derivano due importanti condizioni per l’uso clinico routinario delle cellule staminali: la quantità e la compatibilità col ricevente, caratteri fondamentali per la loro applicazione terapeutica. I due rischi maggiori che l’uso delle cellule staminali può comportare riguardano comunque il rigetto e la formazione di teratomi. Il primo è quello del rigetto immunologico del trapianto nucleare (cui già si è accennato), che è comune a tutti i trapianti: qui la soluzione teorica 46

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più semplice sarebbe la derivazione di cellule staminali da cellule del paziente stesso, un processo che potrebbe definirsi di autotrapianto cellulare. Il secondo rischio è quello della formazione di tumori provocati da trapianti di cellule staminali che si sono differenziate in modo incompleto o anomalo. Anche in quest’ultimo caso soltanto la sperimentazione, in primo luogo su modelli animali, potrà farci conoscere il comportamento probabile di cellule coltivate in laboratorio, quando siano trapiantate in un organismo; oppure la loro capacità di svolgere funzioni normali, di integrarsi con le cellule esistenti; o infine i fattori che eventualmente le inducano a sviluppare tumori.

3.2. Riflessione etica La ricerca sulle cellule staminali prelevate da tessuti adulti o dal cordone ombelicale o da feti abortiti in modo spontaneo o volontario (in quest’ultimo caso, sulla base di una regolamentazione atta ad escludere ogni rapporto di causalità tra prelievo di cellule o tessuti e aborto) non solleva problemi morali insormontabili. Il punto cruciale del disaccordo che grava sulla ricerca sulle cellule staminali ruota attorno alla liceità della sperimentazione sugli embrioni umani.

3.2.1. Cellule staminali di origine embrionale Gli embrioni in fase precoce di sviluppo possono essere creati attraverso“embrioni soprannumerari” ottenuti tramite tecniche di fecondazione in vitro oppure tecniche di trasferimento nucleare, inserendo il nucleo prelevato da una cellula adulta nella cellula di un ovulo enucleato. È significativo il fatto che, prima ancora di dare l’annuncio dei successi ottenuti nel campo delle cellule staminali embrionali, nel novembre del 1998, la Geron aveva fatto elaborare linee guida per fornire la necessaria copertura bioetica alle ricerche sulle cellule staminali umane di derivazione embrionale47. L’Ethics 47 Cfr. GERON ETHICS ADVISORY BOARD, Research with human embryonic stem cells: Ethical considerations, in Hastings Center Report 29 (1999) 31-36. «Il Comitato è unanime


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Advisory Board è giunto ben presto al documento definitivo, intitolato A Statement on Human Embryonic Stem Cells il 20 ottobre 1998. Le nuove linee guida della International Society for Stem Cell Research (ISSCR)48 costituiscono un decalogo che traccia il solco al di là del quale la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane non può andare, il confine etico di un campo minato in cui si giocherà il futuro della medicina rigenerativa. La scienza detta a se stessa le regole da seguire, in Giappone come negli Stati Uniti, in Europa come in Cina, per la derivazione e l’utilizzo delle linee staminali pluripotenti provenienti da embrioni umani. È la necessità di un organo supervisore, che affianchi il tradizionale processo di peer-review praticato nell’ambiente scientifico. Le linee guida sono state definite da una task force di bioeticisti ed esperti legali di 14 paesi diversi, con l’obiettivo di superare barriere di tipo culturale, politico, religioso e sociale, incoraggiare la collaborazione internazionale. Quando si maneggiano staminali embrionali serve un organo supervisore specializzato, in grado di giudicare non solo i meriti scientifici di uno studio, ma anche l’osservanza del codice etico. Si eviteranno così episodi come quello che ha investito poco più di un anno fa la banca mondiale di cellule staminali su misura, la World Stem Cell Hub, aperta a Seul il 19 ottobre 2005, finita inizialmente al centro delle polemiche perché alcuni ovociti erano stati prelevati alle ricercatrici del centro ed in seguito complenel suo giudizio che la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane può essere condotta in modo etico. Perché tale ricerca sia condotta eticamente nell’attuale contesto, devono soddisfarsi alcune condizioni. Inoltre, sarà necessario un ulteriore dibattito pubblico su una gamma di questioni eticamente complesse generate da questa ricerca. Le condizioni sono: la blastocisti deve essere trattata con il rispetto dovuto (“appropriate”) a tessuto embrionale umano precoce. Le donne o le coppie che donano blastocisti prodotte nel processo di fecondazione in vitro devono dare un consenso pieno ed informato per l’uso delle blastocisti nella ricerca e nello sviluppo di linee cellulari da quel tessuto. La ricerca non includerà nessuna clonazione finalizzata a riproduzione umana, nessun trasferimento in utero e nessuna creazione di chimere. L’acquisizione e lo sviluppo del terreno di coltura (“feeder layer”) necessario per la crescita in vitro delle linee cellulari di cellule staminali embrionali umane non deve violare le norme accettate per la ricerca umana o animale. Ogni ricerca di questo tipo deve essere svolta in un contesto di attenzione per la giustizia globale. Ogni ricerca dovrebbe essere approvata da un Comitato Consultivo di Etica in aggiunta al Comitato Istituzionale di Revisione». 48 Cfr. G. DALEY – L. RICHTER – I. WILMUT et AL., The ISSCR Guidelines for human Embryonic Stem Cell Research, in Science 315 (2007) 603-604.


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tamente screditata a causa della clamorosa frode intentata dal ricercatore Woo Suk Hwang. In questa dichiarazione internazionale, guidelines, si condannano la clonazione riproduttiva, dettato dieci anni fa dalla Dichiarazione universale sul genoma umano e sui diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, e gli esperimenti privi di motivazioni scientifiche e razionali o che sollevano forti perplessità etiche, si richiama alla doverosa cautela nell’autorizzare chimere animali. Si approfondì la questione sul compenso economico per le donne che donano gli ovuli (negli Stati Uniti in cambio di un ovocita si possono ricevere dai 2.500 ai 5.000 $). Una facile fonte di guadagno che potrebbe minare la natura volontaristica della donazione e spingere alcune donne, specie in difficoltà economica, a sottoporsi con leggerezza ai rischi della stimolazione ormonale e del prelievo chirurgico delle uova. Ma secondo altri sarebbe altrettanto scorretto chiedere a una donna di subire queste procedure senza percepire un soldo. È inoltre proibito coltivare in vitro gli embrioni umani per più di 14 giorni. Neppure è lecito l’incrocio di animali per ospitare gameti umani. Ed è obbligatorio richiedere il consenso esplicito del donatore per usare cellule e tessuti a fini scientifici. Le linee guida, valide all’interno della comunità scientifica, sono ovviamente soggette alla legislazione e alla regolamentazione delle singole nazioni. In Italia, per esempio, la manipolazione dell’embrione umano è vietata dalla legge 40, che impedisce anche la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali49. Si potrà beneficiare dei finanziamenti europei stan49 Due scienziati italiani, Tiziana Brevini e Fulvio Gandolfi dell’Università di Milano, hanno annunciato al Congresso della Società Europea di Riproduzione Umana e Embriologia svoltosi a Praga, di avere creato due linee di cellule staminali embrionali umane senza distruggere embrioni vitali. Questa creazione è stata realizzata utilizzando non embrioni fecondati, bensì ovociti (ovvero cellule uovo non fecondate), ed è stata realizzata mediante partenogenesi (una tecnica riproduttiva che non richiede fecondazione utilizzata in natura da alcuni animali, tra cui gli insetti). Il traguardo raggiunto da Brevini e Gandolfi è senza precedenti: attraverso questo metodo di reperimento di cellule staminali embrionali, si evita il sacrificio di embrioni umani vitali, superando i noti dilemmi di natura etica. Anche se, e sono gli stessi ricercatori a dirlo, questo tipo di ricerca è solo all’inizio, essa sembra poter rappresentare una valida alternativa all’utilizzo di embrioni. Una nuova possibilità per la scienza ed una nuova direzione per la ricerca, sulla quale nel prossimo futuro potrebbero essere indirizzati anche gli investimenti per la ricerca italiana. In America ed in Giappone sono promettenti i risultati di ricerche che riescono a regredire le cellule staminali adulte in cellule embrionali, una tecnica a lungo studiata che rappresenta un’alternativa alla fonte embrionale delle cellule staminali.


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ziati dal Settimo programma quadro (Compromessi embrionali, Sì alle staminali embrionali), a cui attingeranno anche Spagna (le staminali parlano Andaluso!), Gran Bretagna, Belgio, Svezia, Svizzera, Olanda e Grecia.

3.2.1.1. La questione degli embrioni soprannumerari Gli embrioni soprannumerari, provenienti cioè dalla fecondazione in vitro e rimasti inutilizzati in situazione di crioconservazione. Per molti studiosi tali embrioni, per il fatto di non essere stati impiantati entro un intervallo di tempo compatibile con un rischio biologico accettabile, sono oggi destinati alla distruzione. La possibilità che alcuni di questi vengano donati da coppie di coniugi ad altre coppie riguarderebbe comunque, al momento attuale, un numero esiguo di casi. L’ineluttabile destino di morte verso cui sono avviati gli embrioni soprannumerari non toglie il significato etico, alla loro soppressione diretta, ma anzi dovrebbe portare ad impedire — come di fatto è previsto in alcune legislazioni — la loro stessa formazione. L’International Bioethic Committee dell’UNESCO ha pubblicato un documento nel 2001 dal titolo The Use of Embryonic Stem Cells in Therapeutic Research, in cui espone la posizione presa nei confronti della sperimentazione sulle cellule staminali. Si lascia ai singoli Stati la discussione sull’uso delle cellule staminali embrionali esaltandone le potenzialità e le applicazioni terapeutiche ed auspicandone la ricerca. Il Parlamento europeo si è dichiarato contrario all’uso strumentale degli embrioni soprannumerari, ma altri organismi si sono mostrati più aperti a soluzioni di questo genere, come la National Bioethics Advisory Commission degli Stati Uniti e questa opinione sta guadagnando favori anche in Francia, Spagna e Germania. La ragione più spesso addotta per usare gli embrioni soprannumerari è che essi sono certamente destinati alla morte e che, quindi, impiegarli per fini utili alle persone non muta il loro destino, mentre procura benefici ad altri. La vita dell’essere umano non può mai essere strumentalizzata e diventare un mezzo per il conseguimento di fini anche se buoni. Dal punto di vista etico, esiste una grande differenza tra il lasciar morire, quando non


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è possibile impedire la morte, e causare la morte, quando l’estinzione della vita dipende da un atto volontario evitabile. In Italia il Comitato Nazionale per la Bioetica, benché in modo non unanime, e la Commissione Ministeriale istituita ad hoc dal ministro Veronesi nel 2000 si sono pronunciati a favore del ricorso agli embrioni soprannumerari altrimenti destinati alla distruzione. Una parte del Comitato ha espresso l’opinione che il rispetto dovuto all’essere umano impedisca l’uso strumentale di embrioni con esito distruttivo che — al momento dello scongelamento per il prelievo di cellule staminali pluripotenti — debbono essere necessariamente ancora vivi per poter essere utilizzati come fonte di cellule staminali. Tale soppressione diretta e intenzionale degli embrioni “sovrannumerari”, anche se operata per finalità di ricerca o terapia, contrasta con il dovere di rispettare la vita umana sin dal concepimento. Coloro che sostengono tale opinione criticano inoltre la pratica di congelare e custodire embrioni umani nelle cosiddette banche di embrioni, in quanto può incentivare anche altri usi strumentali dei medesimi. Le argomentazioni a favore della sperimentazione degli embrioni sovrannumerari (il sacrificio di questi embrioni è proporzionato ai vantaggi sperati; un male minore rispetto a quello maggiore della loro distruzione; una giusta soluzione del conflitto tra diritto alla vita di questo embrione e il diritto del malato a essere curato) si fondano su una visione strumentale dell’embrione umano, al quale non si riconosce ancora il titolo di soggetto e, quindi, eliminabile a vantaggio di un soggetto che è già tale, come si pretende. Inoltre, si osserva che, a partire dal dilemma “l’embrione o viene usato o viene distrutto”, significa accettare, in etica, l’insostenibile equiparazione tra “uccidere” e “lasciar morire”. In breve, le argomentazioni che proibiscono moralmente di creare embrioni per la sperimentazione, valgono anche per la proibizione dell’utilizzo di quelli già esistenti. Nell’un caso come nell’altro, infatti, compare il mancato riconoscimento dell’embrione come soggetto umano e, quindi, la sua possibile strumentalizzazione, almeno nella prima fase della sua esistenza.


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3.2.1.2. Cellule staminali e trapianto nucleare (clonazione terapeutica) È molto acceso il dibattito a livello scientifico, etico e giuridico sul ricorso alla clonazione come metodo per creare embrioni. Il prelievo di cellule staminali dall’embrione ne prevede la distruzione, per cui la questione di fondo ci riporta al valore della vita embrionale soprattutto quando sono in gioco gli interessi e i progetti degli esseri umani Nell’ambito delle ricerche sulle cellule staminali, il termine clonazione viene spesso applicato in modo ambiguo. In primo luogo occorre distinguere tra clonazione per scissione e clonazione per trapianto nucleare. La prima consiste nella produzione di più embrioni per separazione delle cellule ai primi stadi di divisione: è stata effettuata con successo su embrioni umani allo scopo di aumentare l’efficacia dei metodi di fecondazione in vitro e della diagnosi pre-impiantatoria. La seconda, associata alla famosa generazione della pecora Dolly, consiste nel rimuovere il nucleo da un uovo (che prende il nome di “ovocita enucleato”) e nel sostituirlo, per “trapianto nucleare”, con il nucleo di una cellula somatica di un paziente (operazione denominata “trapianto nucleare somatico”). Ammettiamo che se si dimostrasse possibile applicare questa tecnica all’uomo: l’embrione che si è formato col trasferimento del nucleo di una cellula qualsiasi (per esempio del sangue) di un paziente affetto da una qualsivoglia patologia (per esempio del muscolo cardiaco) avrebbe cellule staminali pluripotenti che sarebbero tutte geneticamente identiche a quelle del paziente e che quindi, se iniettate nel suo muscolo cardiaco, non dovrebbero produrre alcuna reazione di rigetto. La creazione di cellule staminali mediante questa tecnica renderebbe necessaria la formazione di un embrione il cui sviluppo verrebbe arrestato allo stadio di blastocisti e dal quale si isolerebbero le cellule staminali per poterle coltivare indefinitamente in vitro. Pertanto non si tratta dello sviluppo completo di un embrione dal quale poi si preleverebbero tessuti o organi di ricambio. Se questa tecnica venisse impiegata in un programma terapeutico, lo scopo sarebbe di costituire una fonte adeguata di rifornimento cellulare al paziente. Per ora non si sa come il materiale contenuto nella cellula uovo enucleata riesca a riprogrammare l’attività del nucleo adulto trapiantato. È stata però prospettata la possibilità di creare linee cellulari pluripotenti diret-


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tamente dalle cellule trapiantate dei pazienti. Ciò eviterebbe un passaggio, ossia la formazione di un embrione mediante un vero e proprio autotrapianto. Il trapianto nucleare somatico che qui è stato descritto viene anche chiamato “clonazione terapeutica”: tale denominazione è ambigua perché evoca la duplicazione di individui completamente formati dai quali trarre tessuti o addirittura organi di ricambio. Sono invece le cellule staminali derivate dall’embrione che, coltivate in laboratorio, vengono indotte a differenziarsi in cellule ed eventualmente in tessuti di interesse terapeutico. Ribadisce l’illiceità dell’impiego della tecnica del trapianto nucleare somatico a fini riproduttivi (“clonazione riproduttiva”). In tutto il mondo la grande promessa è questa ed è già tecnicamente possibile: la clonazione terapeutica. Con il trasferimento nucleare (in cui il nucleo di una cellula somatica viene inserito in un ovocita precedentemente enucleato, e poi forzato verso la divisione embrionale) è possibile ottenere linee di staminali specifiche per ogni individuo. Significa avere a disposizione una fabbrica di staminali con lo stesso materiale genetico del donatore per curare malattie come diabete, Parkinson, sclerosi multipla, tumori, o eseguire trapianti senza rischio di rigetto. “Non c’è scienziato che pensi di utilizzare il metodo per la clonazione umana”, dice William Lensch, ricercatore al Children’s Hospital di Boston. Il Comitato Nazionale per la Bioetica non ha trascurato di riflettere sulla rilevanza etica che nelle ricerche sulle cellule staminali acquisiscono non solo lo statuto ontologico dell’embrione, non solo la salute che in prospettiva si intende restituire alle persone malate con l’applicazione di tali ricerche, ma anche l’autonomia della donna nel decidere la donazione delle sue cellule uovo per consentire il trapianto nucleare somatico (la cosiddetta “clonazione terapeutica”) e l’autonomia della donna e della coppia nel decidere la destinazione degli embrioni non impiantati. Per quella parte del Comitato che ritiene accettabile la rimozione e la coltura in laboratorio di cellule staminali da un embrione che non può essere impiantato, assumono quindi particolare importanza due elementi: • la qualità dell’informazione che viene data alla donna e alla coppia in merito all’uso della loro donazione, che può riguardare la ricerca nell’ambito della procreazione assistita o per scopi terapeutici; • la necessità inderogabile del consenso a tale donazione, nel rispetto della privacy e dei principi che regolano il trattamento dei dati


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sensibili, come del resto è previsto dalle norme di quei paesi europei che hanno legiferato in merito alla ricerca sull’embrione. Bisogna comunque puntualizzare come la clonazione dell’essere umano è comunemente condannata, né si può pretendere di distinguere eticamente la clonazione riproduttiva da quella terapeutica poiché ambedue conducono alla riproduzione, dato che si produce un embrione umano. Le ragioni della condanna della clonazione terapeutica li ritroviamo in due principi che così esponiamo: • il principio del rispetto della vita umana in quanto l’embrione viene distrutto dopo il prelievo delle sue cellule staminali. • il principio del rispetto della dignità umana, dato che l’embrione clonato è utilizzato come mezzo per raggiungere lo scopo di un altro ente. L’embrione non può essere creato a scopo della ricerca50, lo stabilisce la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina che tutela il valore etico e giuridico dell’embrione, il quale ha una finalità che lo specifica in quanto persona. Infatti nella clonazione terapeutica l’embrione umano è trattato come mezzo e non come fine, essa dunque costituisce una violazione della dignità della persona umana. Il caso della riprogrammazione del nucleo di cellule somatiche prelevate dal paziente e trasferite all’interno di una cellula uovo precedentemente enucleate è data dal dubbio se tecnicamente si eviti o meno la produzione dell’embrione umano. In linea di principio la proposta della formazione di un corpo non embrionale è affascinante ma non possiamo negare l’azione del patrimonio biologico della cellula uovo ospite (con il sistema mitocondriale) sul nucleo del donatore. Elio Sgreccia51 parla di una sospensione di giudizio sino al momento in cui la scienza non ci offre dei dati più rassicuranti, ma nell’attesa occorre applicare la saggia massima latina in dubio pars tutior erigenda est, bisogna astenersi da tutte quelle azioni che potrebbero favorire la clonazione di un embrione umano.

50 Cfr. COUNCIL OF EUROPE, Convention on human rights and biomedicine, Strasbourg 1996, art. 18, par. 2, 9. 51 Cfr. J. DE DIOS VIAL CORREA – E. SGRECCIA, Cellule staminali autologhe e trasferimento di nucleo: aspetti scientifici ed etici, in L’Osservatore Romano, 5 gennaio 2001, 6.


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3.3. Cellule staminali da feti abortiti Sotto il profilo etico, l’impiego di tessuti di feti abortiti spontaneamente è ritenuto lecito, quando sia giustificato da esclusivi fini di studio, di ricerca e di terapia. Il feto umano è una persona umana, gode del diritto alla vita, si tratta di un essere umano che si trova in una fase del suo sviluppo ed è indirizzato alla conclusione del periodo di gestazione e ad aprirsi al mondo come neonato. La derivazione delle cellule staminali dai tessuti del feto abortito si deve valutare secondo il principio etico che sancisce che il fine non giustifica il mezzo. Non si può uccidere una persona umana innocente per fini scientifici e di ricerca, si viola il principio della tutela della vita umana e quindi il rispetto della dignità umana. Occorre puntualizzare che sarebbe fallace non dichiarare che ci sia l’impiego di tessuti di dubbia origine con l’impossibilità morale di venire a conoscere delle circostanze dell’interruzione di gravidanza, essendo a tutti noto che la fonte principale di tali tessuti sono gli aborti procurati. Il sospetto di una possibile relazione fra induzione dell’aborto e uso dei tessuti embrionali o fetali non è infondato dal momento che spesso si raccomanda52 di realizzare gli aborti in modo da evitare il più possibile la lacerazione dei tessuti da avviare a scopi terapeutici o scientifici. Si tratta di una situazione di delicata entità dato che rientriamo nel contesto della lecita cooperazione al male formale o materiale immediata, comunque illecita moralmente, soprattutto quando materiale fetale di indubbia provenienza coinvolge ospedali e università cattoliche.

3.4. Cellule staminali da tessuto adulto La Pontificia Accademia per la Vita saluta la fonte di cellule staminali da tessuto adulto come «la via più ragionevole ed umana da percorrere per un corretto e valido progresso in questo nuovo campo che si apre alla ricerca e a promettenti applicazioni terapeutiche»53. 52 Cfr. COMITÉ CONSULTATIF NATIONAL D’ÈTHIQUE, Une meme éthique pour tous?, Paris 1997, 215. 53 PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, Dichiarazione sulla produzione e l’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali, cit., 5.


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Diverse sono le fonti da cui poter prelevare le SC adulte ed inoltre non si aprono ad alcun problema etico dato che si tratta di cellule già differenziate. È ragionevole pensare che si tratti di una fonte ricca di prospettive future grazie alle molteplici articoli scientifici pubblicati nell’ultimo decennio. Il prelievo da vivente è regolato da norme, che possono applicarsi al prelievo delle cellule staminali provenienti da organismi umani viventi, in particolare, venga rispettata la dignità e la libertà del donatore e non ci siano danni per la sua integrità e sussistenza, escludendo rischi eccessivi. Inoltre sia previsto ed espresso il consenso informato da parte del donatore. Quando il donatore è un bambino si propone la questione del consenso da parte dei genitori nei confronti di un prelievo da figli minorenni se non è motivato dal bene del minore stesso (es. prelievo di midollo osseo a vantaggio di un fratellino con grave patologia di natura linfoematica).

3.5. Cellule staminali da cordone ombelicale Il prelievo di cellule staminali multipotenti dal sangue cordonale è eticamente accessibile, ma sono stati messi in evidenza alcuni aspetti eticodeontologici di notevole interesse, riassunti in adeguate linee-guida. Si consideri in primo luogo il consenso all’uso di un organo, che alla nascita viene tagliato e poi distrutto insieme alla placenta, ma sul quale la madre del bambino può rivendicare diritti di possesso. C’è poi la questione della tutela della privacy nel caso della creazione di banche delle staminali cordonali per donazioni, ed è attuale il dibattito sulla costruzione di banche private, non eticamente realizzabile per la valenza universale di questo patrimonio biologico che si possiede a livello cordonale. Il principio della solidarietà e della condivisione abbraccia anche questi ambiti della vita umana, in cui la possibilità di un patrimonio immunologico affine consente di donare ciò di cui necessità per guarire.


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3.6. Cellule staminali da liquido amniotico Altra fonte moralmente lecita è, almeno teoricamente, il liquido amniotico. In realtà ancora siamo in una fase iniziale ma la ricerca ha offerto promettenti risultati in merito54. Diversi sono gli interrogativi che nascono da questa tipologia di prelievo: quali sono le modalità con cui viene prelevato il liquido amniotico? Quale la tecnica meno invasiva e nociva per il feto? Quale è il periodo della gestazione migliore per ricavare la quantità maggiore di SC? Quanto volume prelevare? Quanti ml non alterano il feto nel suo processo di sviluppo? È la ricerca a dare le risposte, da queste si potranno eseguire le dovute considerazioni etiche, con la speranza che nessuna vita nel frattempo venga sacrificata.

3.7. Cellule staminali e terapia genica 3.7.1. Cellule staminali germinali Il principio etico fondamentale, che vede coinvolta la terapia genica e le cellule staminali embrionali o, comunque, tutte quelle sperimentazioni che vedono compromessa la linea germinale, è l’intangibilità del patrimonio

54 P. DE COPPI – G. BARTSCH Jr – L. PERIN et AL., Isolation of amniotic stem cell lines with potential for therapy, in Nature Biotechnology 25 (2007) 100-106. Viene detto: «We report the isolation of human and rodent amniotic fluid-derived stem (AFS) cells that express embryonic and adult stem cell markers. Undifferentiated AFS cells expand extensively without feeders, double in 36h and are not tumorigenic. Lines maintained for over 250 population doublings retained long telomeres and a normal karyotype. AFS cells are broadly multipotent. Clonal human lines verified by retroviral marking were induced to differentiate into cell types representing each embryonic germ layer, including cells of adipogenic, osteogenic, myogenic, endothelial, neuronal and hepatic lineages. Examples of differentiated cells derived from human AFS cells and displaying specialized functions include neuronal lineage cells secreting the neurotransmitter L-glutamate or expressing G-protein-gated inwardly rectifying potassium channels, hepatic lineage cells producing urea, and osteogenic lineage cells forming tissue-engineered bone».


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ereditario di un soggetto, che sul piano scientifico trova supporto nel principio della conservazione dell’identità genetica55. Teoricamente esiste la possibilità, eticamente ammissibile, di correggere in vitro il difetto genetico a livello embrionale, per poi re-impiantare le cellule a livello uterino, in questo modo si tratterebbe di un autotrapianto genico. Non si esclude nemmeno la possibilità di un trapianto omologo effettuato attraverso l’utilizzo di un gene sano di un genitore o di un parente compatibile geneticamente. Se il materiale genetico è estraneo sia rispetto alla stessa specie che alla specie diversa, l’intervento non può essere accettato eticamente poiché il mutamento della struttura genomica del paziente porta a effetti non presumibili. Non vengono esclusi dalla riflessione etica i criteri di responsabilità nel decidere quali geni trasmettere alla discendenza, nelle condizioni in cui il gene si inserisca correttamente nei cromosomi e l’identità genetica viene conservata. La scelta dei geni assume un valore etico fondamentale poiché la preferenza selettiva di un genotipo rispetto ad un altro non solo influisce sul singolo ma anche sull’intera collettività: è una preoccupazione legittima che è stata oggetto di riflessione a livello internazionale56. Si tratta di un procedimento tipicamente eugenetico, inammissibile per alcune ragioni sostanziali: «non esistono criteri validi per stabilire quali caratteri fisici o comportamentali debbano essere migliorati o innovati a beneficio dell’individuo e della società; quand’anche risultasse proponibile un intervento a scopo percettivo non vi sarebbe il modo di decidere quali potrebbero essere i destinatari»57.

Il potenziale operativo che la geneterapia germinale possiede, con le sue incertezze biologiche ed i rischi connessi ad esse, risulta particolarmente 55 Cfr. COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Terapia genica (15 febbraio 1991), Roma 1996, 19. 56 Cfr. E. JUENGST – L. WALTERS, Ethical and Social Issues, in W. REICH, Encyclopedia of Bioethics, New York 1995, 919. 57 COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Terapia genica, cit., 20.


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pericoloso per il bene e l’integrità dell’uomo, ecco perché il prof. Sgreccia, nel suo manuale arriva a queste conclusioni: «La terapia genica germinale si esclude per due ragioni diverse: 1) perché le attuali metodiche non consentono di raggiungere il risultato terapeutico mentre si pongono rischi incontrollabili, e questa è una ragione collegata alle attuali conoscenze scientifiche; 2) quando si travalica lo scopo terapeutico e si ricerca una modifica della costruzione genetica: in questo caso l’illecito è assoluto e non e non condizionato dallo stato delle conoscenze, perché si configura un’alterazione contraria al principio di rispetto della vita ed identità biologica e di uguaglianza fra gli uomini»58.

Il primo punto si apre alle speranze della scienza, ad un traguardo ulteriore in campo scientifico che riduca i rischi e migliori le metodiche biotecnologiche di ingegneria genetica. Questa posizione deve essere intesa in modo positivo, non si tratta infatti di una negazione assoluta di intervento ma si dichiara che adesso le condizioni e le conoscenze scientifiche non lo permettono. Il secondo punto è espressione del fine proprio della geneterapia che nasce per uno scopo esclusivamente terapeutico, ogni altra meta non può essere accettata.

3.7.2. Cellule staminali adulte e terapia genica Questa forma di terapia genica, che vede le cellule staminali adulte o somatiche come target su cui intervenire a livello genico, rappresenta la via meno controversa di geneterapia dal punto di vista etico. Le questioni etiche inerenti a questo tipo di terapia sono diverse e riguardano: il rapporto rischio-beneficio, la selezione dei soggetti su cui intervenire, il consenso informato, la tutela della privacy. Il rapporto rischio-beneficio fa riferimento alla gravità della malattia, alla possibilità di terapie alternative che possono essere applicate in vista

58

E. SGRECCIA, Manuale di Bioetica, I, Milano 19993, 329.


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dello stesso quadro patologico, e ai probabili benefici e danni che un intervento genetico può determinare. La selezione dei pazienti è un problema antico come la bioetica, in letteratura si riporta il caso di geneterapia somatica su bambini affetti da deficienza ADA, malattia tanto rara che tutti i bambini erano eleggibili per il protocollo59. Comunque, la selezione deve essere fatta dall’équipe medica, secondo dei criteri che sono funzione della severità della malattia e della differente età. La necessità del consenso informato in campo della geneterapia è data dalla specificità del trattamento che coinvolge il paziente nella sua costituzione biologica più intrinseca, dato che si tratta di un intervento particolarmente invasivo. Esiste un problema di fondo che riguarda la complessità degli argomenti scientifici proposti, che richiedono una conoscenza basilare di biologia molecolare. In questo modo si corre il rischio di parlare a vuoto senza che il paziente capisca realmente ciò che avverrà nel suo corpo, è comunque necessario un dialogo continuo tra medico e paziente. I soggetti spesso si trovano in circostanze cliniche disperate, per cui sono vulnerabili psicologicamente e possono essere influenzati dall’opinione dei familiari e dei medici. La loro posizione è molto delicata poiché la decisione presa, che non deve mai precludere la tutela della vita umana, è spesso determinante per il paziente. L’intervento a livello genetico ha bisogno, inoltre, della tutela della privacy del soggetto, poiché fra le nuove terapie la geneterapia desta molto interesse a livello non solo scientifico ma anche pubblico. Questa legittima attenzione deve essere rispettosa della persona umana, della sua condizione patologica e delle sue sofferenze; spesso invece il fare notizia esclude le dinamiche del rispetto ed dell’umana compassio, che dovrebbero creare il giusto equilibrio tra l’interesse pubblico e la tutela della privacy. Queste considerazioni etiche per la terapia genica e le cellule staminali somatiche possono essere considerate come espressione articolata e 59 Cfr. K. CULVER – F. ANDERSON et AL., Lymphocytes as cellular vehicles for gene therapy in mouse and man, in Proceeding of the National Academy of Sciences 88 (1991) 3155-3159.


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specifica di principi etici ben conosciuti: il rapporto rischio-beneficio è legato al principio di beneficenza, la selezione di soggetti per il trattamento terapeutico è espressione del principio di giustizia, il consenso informato e la tutela della privacy sono legati al principio di autonomia60. Oggi, diversi sono i paesi che hanno creato dei meccanismi di controllo nazionali per valutare i protocolli utilizzati per la terapia genica somatica. In Italia, come abbiamo già detto, questa funzione è svolta dall’Istituto Superiore di Sanità, che attraverso i suoi funzionari effettua un controllo continuo sulle sperimentazioni di geneterapia che vengono eseguite all’interno del territorio italiano. Crediamo che sia fondamentale un monitoraggio continuo che sia frutto di una collaborazione tra la competenza scientifica e l’impegno politico che permetta la tutela della vita e la salvaguardia dei principi fondamentali del vivere comune. Il Comitato Nazionale di Bioetica elenca delle condizioni previe affinché l’intervento di geneterapia venga eseguito61: 1) il ricorso alla terapia genica è motivato dalla gravità della malattia e dalla mancanza di una terapia alternativa efficace e con effetti durevoli; 2) l’esito positivo dell’intervento è plausibile e prevedibile in base a un modello scientificamente valido, verificato anche mediante la sperimentazione sull’animale in prove a lungo termine; 3) è trascurabile l’incidenza di effetti collaterali che in ogni caso devono essere commisurati ai benefici attesi. La terapia genica di cellule somatiche, quindi anche di cellule staminali adulte è accettata sia per motivazioni etiche che scientifiche, poiché è assimilabile ad una terapia sostitutiva o ad un trapianto, naturalmente non a livello tissutale quanto molecolare62. 60 Cfr. E. JUENGST – L. WALTERS, Ethical and Social Issues, cit., 918; A. HEDGECOE, Gene Therapy, in Encyclopedia of Applied Ethics, II, San Diego 1998, 383-390. 61 Cfr. COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Terapia genica, cit., 10-11. 62 Cfr. PARLAMENTO EUROPEO, Tutela del diritti umani e della dignità dell’es-

sere umano in relazione alle applicazioni biologiche e mediche, Risoluzione del 20 settembre 1996, in Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, n. C. 320 del 28 ottobre 1996.


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Questo nodo etico che vede la geneterapia paragonata al trapianto ha bisogno di un ulteriore approfondimento. Le procedure di terapia genica presentano metodologie operative ed elementi biologici completamente differenti rispetto ad un trapianto d’organo comunemente inteso. In un trapianto d’organo il rischio è relativamente circoscritto al tessuto trapiantato, che deve ripristinare la funzione fisiologica alterata. Un trapianto genico presenta un’entità di rischio diversa, poiché non solo può determinare un’alterazione dei meccanismi biochimici della cellula target, ma può influenzare e modificare la funzionalità genica delle altre cellule, anche in modo completamente incontrollabile. In questo discorso si inserisce la ricerca e l’applicazione delle cellule staminali somatiche che per la loro capacità plastica possono eliminare queste difficoltà rendendo la geneterapia un approccio sicuro alla cura delle malattie non solo mendeliane. Infatti, la possibilità di possedere delle cellule, che selettivamente si differenziano in un particolare tipo tissutale e come tale vengono modificate geneticamente per gli scopi terapeutici che si vogliono raggiungere, è data esclusivamente dalle cellule staminali adulte che sono prelevate dallo stesso paziente. In tal modo verrebbero ridotte notevolmente anche i problemi annessi al rigetto da trapianto poiché le cellule staminali autologhe vengono prelevate dallo stesso soggetto, e non vanno incontro ad una reazione del sistema immunitario. Inoltre, i due approcci terapeutici necessitano di counselling che presentano entità differenti sia prima che dopo l’intervento. Il trapianto d’organo determina la presenza di un oggetto estraneo all’interno del proprio corpo, che deve essere accettato non solo in termini biologici ma anche psicologici. La realizzazione di biotecnologie mediche che applicano le cellule staminali adulte geneticamente modificate permette al soggetto di non andare oltre il proprio corpo, poiché egli stesso si avvale del patrimonio cellulare che Dio gli ha donato per accorrere in aiuto al suo organismo. Inoltre, il trapianto d’organo deve sottostare ad una serie di procedure legislative che sono accettate a livello nazionale ed internazionale per la


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difesa della vita del donatore e del ricevente o per l’accertamento della morte del soggetto donatore63. Crediamo che la questione dell’associazione geneterapia-cellule staminali adulte se da una parte può essere associata al trapianto d’organo dall’altra si discosta per la peculiare specificità che rende le cellule staminali adulte, cellule d’elezione per i trattamenti di terapia genica.

CONCLUSIONI La possibilità, ormai concretamente dimostrata, di utilizzare cellule staminali da tessuti adulti per raggiungere le stesse finalità che si intendono ottenere con le cellule staminali embrionali indica che questa via alternativa sia la privilegiata per un corretto e valido progresso nel campo della ricerca e delle applicazioni terapeutiche delle cellule staminali64. Appare ormai evidente, sulla base delle ricerche più recenti, che le cellule staminali da tessuto adulto sono quelle più adatte nel contesto delle prospettive terapeutiche mentre quelle embrionali sono da ritenere destinate prevalentemente alla ricerca scientifica, peraltro attuabile, sugli animali. Questa ipotesi è in piena consonanza con i principi contenuti nella “Convenzione per la tutela dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti della Biologia e della Medicina” adottata dal Consiglio dei Ministri d’Europa il 19 novembre 1996. L’art. 2 di tale Convenzione (‘Priorità dell’essere umano’) afferma che «L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sull’interesse della Società e della Scienza».

Il ragionamento addotto nei confronti della rilevanza delle SC adulte toglie ogni dubbio sulla spessore etico delle applicazioni terapeutiche di queste cellule, purtroppo il mondo scientifico si ostina a diffondere l’idea di una importanza esclusiva che le cellule embrionali possiedono per il bene dell’umanità. Si preferisce far passare nell’opinione pubblica un valutazione 63 64

Cfr. E. SGRECCIA, Manuale di Bioetica, cit., 673-703. Cfr. COUNCIL OF EUROPE, Convention on human rights and biomedicine, cit., art. 16.


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sbagliata dell’odierna situazione delle SC dato che oggi, a livello applicativo, le cellule da tessuto adulto hanno dato maggiori risultati rispetto a cellule embrionali. Si vuole celare la verità? Per quali fini? Non è nostro compito giudicare le buone o cattive intenzioni degli operatori scientifici che seguono la strada della ricerca con cellule embrionali, è nostro dovere dare delle indicazioni etiche chiare e precise all’insegna della salvaguardia della dignità dell’uomo sin dal suo concepimento. Tante le parole spese per l’uno o l’altro schieramento di vedute, per i pro ed i contro embrione, tante devono essere le parole che formino le coscienze dei ricercatori verso il bene autentico dell’uomo, verso quella verità che non possiamo noi da soli formulare ma che dobbiamo insieme riconoscere dal sereno confronto tra fede e ragione, tra l’esperienza scientifica ed i valori radicati nella natura stessa dell’uomo.



CELLULE STAMINALI: PROBLEMI GIURIDICI

SALVATORE AMATO*

1. SONO CELLULE COME TUTTE LE ALTRE? Le cellule staminali sono cellule estremamente particolari perché hanno la capacità di rinnovarsi e di differenziarsi in tutti o in gran parte dei sistemi cellulari cui appartengono. Nel caso del corpo umano si possono differenziare in una qualunque delle più di duecento cellule specializzate che lo compongono, aprendo alla ricerca prospettive straordinarie e fino a poco tempo fa assolutamente impensabili come la costruzione di nuove molecole, la riproduzione di organi e tessuti, terapie geniche1… A parte questa loro straordinaria particolarità, sono cellule come tutte le altre che pongono, moralmente e giuridicamente, gli stessi problemi di approvvigionamento, controllo, lavorazione, conservazione, stoccaggio e distribuzione di qualsiasi tessuto biologico. Il problema è la fonte da cui derivano2. A differenza delle cellule staminali adulte che possono essere prelevate, senza arrecare alcun pregiudizio, dalle cellule del sangue del cordone ombelicale al momento della nascita, da alcuni tessuti degli organismi adulti (il midollo osseo, l’epidermide, lo strato di rivestimento dell’intestino, gli elementi corpuscolati del sangue, gli strati proliferativi delle mucose, la parte più interna del cervello…) e, in alcuni casi, dalla riprogrammazione di cellule dei tessuti adulti maturi, le cellule staminali embrionali si possono prelevare solo dall’embrione allo stato di zigote o di blastocisti e dal prelievo, in base alle tecniche attuali, deriva necessariamente la sua * Ordinario di Filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. 1 G. MILANO – C. PALMERINI, La rivoluzione delle cellule staminali, Milano 2005. 2 A. SANTOSUOSSO, Cellule e persone: nobili problemi e problemi dimenticati, in P. DONGHI (cur.), Il governo della scienza, Roma-Bari 2003.


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distruzione o un suo grave deterioramento. Il loro prelievo e la loro utilizzazione comportano, quindi, il problema dello statuto etico e della tutela giuridica dell’embrione. Questo problema diventa particolarmente rilevante nella misura in cui le cellule staminali adulte hanno caratteristiche diverse da quelle embrionali: sono multipotenti, nel senso che hanno una minore capacità di differenziazione rispetto alla totipotenza delle cellule derivanti dallo zigote e dalla pluripotenza di quelle derivanti dalla blastocisti; sono poche e di difficile reperibilità; dopo alcune divisioni cellulari in coltura tendono a perdere una parte delle proprie caratteristiche3. Per questi motivi, molti scienziati non ritengono che la ricerca sulle staminali embrionali possa essere integralmente sostituita da quella condotta sulle staminali adulte, come suggerisce ad esempio il Documento della Pontificia accademia per la vita intitolato Dichiarazione sulla produzione e sull’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali umane4. Mentre scrivo, è stata annunziata dallo scienziato giapponese Shinya Yamanaka la realizzazione di cellule staminali totipotenti, riprogrammando cellule di pelle di topo. Avrebbe individuato i quattro geni che vanno attivati per ottenere questo risultato, per cui pare non vi siano problemi ad applicare una simile tecnologia anche alle cellule umane. Se così fosse, cadrebbe ogni necessità di distruggere gli embrioni o di ricorrere alla clonazione terapeutica. Ian Wilmut, il papà della pecora Dolly, ha già annunciato che rinuncerà a continuare la sperimentazione della clonazione terapeutica umana5. Si aprono, quindi, prospettive che rendono inutili gran parte dei problemi che esaminerò nel corso di questo lavoro. 3 C.A. REDI, Cellule staminali, in G. BONIOLO (cur.), Laicità una geografia delle nostre radici, Torino 2006, 176. 4 Si trovano a commentare questa Dichiarazione D. NERI (Diritto alla salute e nuovi orizzonti della medicina. Il caso della ricerca sulle cellule staminali in C.A. REDI – S. GARAGNA – M. ZUCCOTTI [cur.], Biologia delle cellule staminali. Opportunità e limiti d’impiego, Pavia 2000, 47 ss.) che ne denuncia l’inconsistenza scientifica e M.L. DI PIETRO – R. MINACORI (La ricerca sulle cellule staminali alla luce dei documenti nazionali e internazionali in Diritto di famiglia e delle persone 2 [2002] 652 ss.) che ne riaffermano la centralità etica. 5 Entrambe le notizie, della scoperta di Yamanaka e dell’annuncio di Wilmut, sono pubblicate dal Corriere della sera, 18 novembre 2007, 19.


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Nell’attesa che la sperimentazione confermi questi cambiamenti, un numero imprecisabile di embrioni è distrutto o clonato per la ricerca sulle staminali. Il diritto si trova a dover realizzare un difficile (e forse impossibile) equilibrio tra le esigenze della ricerca e la tutela della vita embrionale. Conflitto su cui si riverberano tutte le discussioni ancora aperte su cosa sia la vita e su dove collocarne l’origine e la rilevanza giuridica. Io non entrerò nel merito di queste discussioni e delle svariate qualificazioni che sono state proposte (pre-embrioni, ovosomi, ootidi, rifiuti biologici, embrioni soprannumerari, embrioni di scorta, embrioni orfani…). Mi limiterò solo a due osservazioni preliminari. Primo: il prelievo di cellule staminali da embrioni può avvenire con diverse modalità, ciascuna delle quali pone particolari problemi etici ed è suscettibile di una specifica qualificazione giuridica. Possono essere ricavate dagli embrioni nei primi stadi di sviluppo creati attraverso fecondazione in vitro: a) specificatamente per la ricerca; b) non più necessari per il trattamento dell’infertilità e destinati ad essere congelati (embrioni soprannumerari); c) già congelati e destinati ad essere distrutti (embrioni orfani). Possono essere anche ricavate da embrioni, nei primi stadi di sviluppo, creati appositamente inserendo il nucleo di una cellula adulta in una cellula uovo a cui è stato rimosso il nucleo (operazione chiamata da alcuni sostituzione del nucleo cellulare e da altri, con maggior pathos, clonazione terapeutica). Una variante di questa tecnica consiste nell’inserimento del nucleo di una cellula di un soggetto umano nella cellula uovo denucleata di un animale, con ottenimento di un ibrido animale-uomo: un artefatto biologico senza una chiara connotazione di specie che dovrebbe servire solo a costituire una riserva di cellule. Come vedremo, alcuni Stati consentono tutto senza limiti, altri vietano tutto senza differenze, altri ancora cercano di trovare soluzioni intermedie. Secondo: siamo ancora in una fase assolutamente sperimentale perché, come è stato recentemente affermato dal Manifesto per la ricerca scientifica sulle cellule staminali: dell’eticità di una “nuova frontiera” (Roma, 12 luglio 2007), «è ancora una ricerca di base, rivolta a comprendere i meccanismi biologici fondamentali del funzionamento di queste cellule. È importante sottolineare con forza che si è ancora in questa fase per non alimentare false speranza o fittizie illusioni in trattamenti “miracolosi”, disponibili dall’oggi al domani. Non siamo ancora giunti a questo stadio,


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anche se ci auguriamo che vi si possa pervenire nel più breve tempo possibile»6. Nel bilanciamento dei valori giudici non entra, quindi, in questione il diritto alla salute e la tutela della vita dei pazienti. Se così fosse, se il rispetto di una vita potenziale o delle opinioni sulla vita potenziale entrassero in conflitto con il rischio attuale per la vita di una persona, le scelte giuridiche, per quanto eticamente sofferte, sarebbero obbligate e la vita in atto o la vita come compiuto valore esistenziale prevarrebbe, in ogni caso, sulla vita in potenza o sulla vita come fatto biologico in via di sviluppo. La sentenza 27/1975 della nostra Corte costituzionale legittimava l’aborto terapeutico sulla base dell’idea che «non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare». È la via adottata, ormai, da quasi tutte le legislazioni e sarebbe difficile che non venisse seguita anche in questo caso. Proprio la legalizzazione dell’aborto giustifica il prelievo e l’utilizzazione di staminali derivanti dalle cellule germinali o dagli organi di un feto abortito, per quanto sussistano non pochi problemi etici. Ad esempio sono attività vietate espressamente dalla legge tedesca sulla protezione degli embrioni (Embryonenschutzgesetz del 13 dicembre 1990). Anche George Herbert Bush aveva escluso dal finanziamento pubblico le ricerche sul trapianto di tessuti neurali fetali per curare il Morbo di Parkinson, temendo che potesse costituire una forma indiretta di incentivo all’aborto. Per gli stessi motivi, il rapporto

del National Bioethics Advisory Commission degli Stati Uniti (1999) consentiva la ricerca, ma a condizione che non vi fosse compravendita di tessuti fetali. Analogamente il Comitato nazionale per la bioetica italiano «ritiene eticamente lecita la derivazione di cellule staminali dalle cellule di feti abortiti spontaneamente o per interruzione volontaria della gravidanza, purché siano attivate procedure atte ad escludere sia rapporti di causalità tra aborto e derivazione delle cellule staminali, sia la collaborazione tra gli

6 Riporto, tra le tante, questa dichiarazione, perché proviene dall’Associazione Luca Coscioni per la ricerca scientifica e dal partito radicale transnazionale. Associazioni che sostengono, da tempo con particolare impegno, la caduta di ogni restrizione sull’utilizzazione per la ricerca delle cellule staminali embrionali.


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operatori corrispondenti e la commerciabilità» (Parere sull’impiego terapeutico delle cellule staminali, Roma, ottobre 2000)7.

2. IL QUADRO NORMATIVO Dinanzi al conflitto tra la libertà di ricerca scientifica e la tutela dell’embrione il nostro legislatore non ha seguito la via tracciata dalla legge sull’aborto. Ha privilegiato incondizionatamente la tutela dell’embrione attraverso la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. L’art. 13 comma 1 vieta, infatti, «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano», salvo che non si perseguano «finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative». Tale disposizione di carattere generale è rafforzata dal divieto della produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione o comunque a fini diversi da quelli previsti dalla legge (art. 13.3a) e dall’ulteriore divieto di interventi di clonazione mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell’embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca (art. 13.3c). Anche le pene sono particolarmente severe. Le violazioni di cui al comma 1 sono punite con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 50.000 a 150.000 euro. In caso di violazione di uno dei divieti di cui al comma 3 la pena è aumentata. È sempre prevista la pena accessoria della sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale. L’art. 14 vieta, poi, «la crioconservazione e la soppressione di embrioni, fermo restando quanto previsto» dalla legge sull’aborto. Si è venuta, così, a determinare una situazione apparentemente paradossale per cui, nel nostro ordinamento, il feto riceve una tutela minore dell’embrione. Il risultato non è il frutto di una valutazione ontologica. L’embrione non ha in sé una dignità maggiore del feto, anche se in fondo la legge finisce per suggerirci qualcosa del genere, ma riceve una tutela più intensa per effetto di un diverso equilibrio di valori: in un caso il diritto della

7 Parere ribadito nel documento del 20 maggio 2005 sulla Terapia cellulare del morbo di Huntington attraverso l’impianto di neuroni fetali.


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madre alla vita o alla salute prevale sul diritto alla vita del feto8 e nell’ altro caso la tutela dell’embrione prevale sulla tutela della libertà di ricerca scientifica. Non vi è nulla di strano in tutto ciò. Una società democratica è chiamata continuamente a effettuare scelte tra valori confliggenti. Queste scelte rispecchiano visioni, culture, sentimenti diversi e sono spesso costruite su maggioranze risicate o precarie, che il tempo modificherà o rinsalderà, perché «l’uomo non è un libro scritto a tavolino», come ci insegna Kelsen9, uno dei maggiori giuristi del ’900. Insisto su questo punto per due motivi. Per prima cosa dobbiamo ricordare che, molto probabilmente, se un domani fosse realmente possibile curare o addirittura salvare la vita attraverso terapie ricavabili solo da cellule staminali embrionali, non sarebbe da escludere che cambi il bilanciamento tra tutela dell’embrione ed esigenze della medicina e si giunga ad un allineamento con la legge sull’aborto. A maggior ragione nell’ipotesi in cui non sia in gioco il diritto alla vita degli embrioni ma, nel caso di embrioni congelati e destinati alla distruzione, la loro dignità o il rispetto per una “estinzione” dei processi vitali che ne rispetti l’ integrità. In secondo luogo non è solo l’Italia ad aver privilegiato la tutela dell’embrione sulla libertà di ricerca. Anzi sotto questo punto di vista, la legge 40, malgrado le violente critiche a cui è stata sottoposta, segue puntualmente i parametri europei e in particolare la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (sottoscritta a Oviedo il 4 aprile 1997 e Protocollo addizionale sul divieto di clonazione di esseri umani del 12 gennaio 1998, n. 168. Entrambi recepiti con la legge 28 marzo 2001 n. 145. L’art. 18 della Convenzione, oltre a vietare al II comma «la costituzione di embrioni umani a fini di ricerca», impone, tutte le volte in cui la ricerca su embrioni in vitro sia ammessa dalla legge, «di assicurare una protezione adeguata dell’embrione». Una formula ambigua, se non ipocrita, perché è impossibile ricercare sull’embrione senza danneggiarlo. Una 8

La legislazione sull’aborto trae sempre origine dalla tutela del diritto alla vita della madre, anche se poi, nell’elaborazione giurisprudenziale, il vero elemento di tutela diventa il diritto di questa alla salute e all’autodeterminazione: P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione. Concretezza dei “casi” e astrattezza della norma, Milano 2007, cap. III. 9 H. KELSEN, Forme di governo e concezioni del mondo, trad.it., in Il primato del parlamento, Milano 1982, 41.


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formula che tuttavia sembra suggerire ai singoli Stati di garantire le forme di tutela più ampie possibili, anche a costo di porre limiti alle esigenze della scienza. Il Protocollo, a sua volta, interdice «tutti gli interventi aventi per fine la creazione di un essere umano identico a un altro vivo o morto» e chiarisce al comma successivo che l’espressione “geneticamente identico” va intesa come avente in comune l’insieme del “nucleo genetico”. Proprio basandosi su queste disposizioni era stata giustificata l’introduzione di una moratoria che vietava la concessione di finanziamenti europei alle ricerche che utilizzavano cellule staminali embrionali. Questa moratoria è caduta nel 2004 e anche l’Italia, nel 2007, ha ritirato la propria adesione alla dichiarazione etica contro la ricerca sulle cellule staminali embrionali per il VII Programma quadro di ricerca relativo al periodo 2007-2013. Cosa è cambiato? Le vicende sulla moratoria mettono in luce quanto l’art. 18 si limiti a offrire una cornice di massima, più di principio che di fatto, in quanto interviene su una situazione normativa, quella dei singoli paesi europei in concorrenza tra loro e con i paesi extra-comunitari, estremamente variegata e in rapida via di mutamento per effetto delle esigenze della scienza e delle pressioni di un mercato in cui la brevettabilità del vivente è diventata uno dei maggiori elementi di profitto. Ci muoviamo infatti tra due poli estremi: da una parte, l’assenza di qualsiasi limite alla ricerca in paesi asiatici come Cina, Singapore e Corea del Sud; dall’altra, il rigido divieto dell’utilizzazione di embrioni per la ricerca in Austria, Irlanda e Italia10. In mezzo stanno i paesi (India, Sud Africa, Israele) che consentono la sperimentazione sugli embrioni (i primi due anche il trasferimento nucleare o clonazione terapeutica) sotto il controllo di specifiche Authority. Vari paesi europei seguono una via intermedia, utilizzando solo gli embrioni residuali, non oltre il 14° giorno di sviluppo (Spagna, Svezia, Danimarca, Finlandia). Solo la Germania (Embryonenschutzgesetz del 13 dicembre 1990) limita l’utilizzazione alla 21a ora dal concepimento. Il parlamento francese con un provvedimento del 22.1.2002 ha vietato ogni forma di clonazione a fini terapeutici, autorizzando la ricerca sugli embrioni in soprannumero derivanti dalla fecondazione assistita. Si potrà anche utilizzare un embrione derivante dalla fecondazione in vitro entro e non oltre 18 10 M. FUSCO, Embrioni clonati: sì da Londra. Una “fuga in avanti” nella sperimentazione terapeutica, in Diritto e giustizia 32 (2004) 8 ss.


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mesi dalla morte del padre e previo assenso scritto dello stesso. La legge belga dell’11 maggio 2003 limita la ricerca agli embrioni soprannumerari, ma consente la clonazione riproduttiva (trasferimento nucleare), quando gli obiettivi della ricerca lo richiedano. Il trasferimento nucleare è, attualmente, ammesso anche in Svezia e Finlandia. L’Inghilterra è il paese europeo che pone meno limiti alla ricerca perché già nel 1984, a partire dal Rapporto Warnock, aveva dato via libera all’utilizzazione degli embrioni nei primi 14 giorni dopo la fecondazione, definendoli pre-embrioni. Nel 1990, con l’Human Fertilisation and Embriology Act, veniva istituiva un’Authority che estendeva la possibilità di ricerca agli embrioni soprannumerari e permetteva la produzione di embrioni destinati esclusivamente alla ricerca. All’Authority veniva assegnato il compito di autorizzare e controllare le singole ricerche che dovevano avere per oggetto solo studi collegati con la contraccezione, il trattamento dell’infertilità, le anomalie geniche e cromosomiche degli embrioni. Nel 2000 la Commissione Donaldson allargava ulteriormente la ricerca a tutte le patologie trattabili con le staminali e ribadiva alcuni principi11. In particolare la legittimità della clonazione terapeutica (cell nuclear repalcement) qualora non vi fossero altri mezzi per raggiungere l’obiettivo della ricerca, con l’esplicito divieto del trasferimento degli embrioni, così ottenuti, nell’utero di una donna, al fine di evitare la clonazione riproduttiva. Escludeva anche la possibilità di «mixing of human adult (somatic) cells with the live eggs of any animal species». Anche questo divieto è caduto perché la Human Fertilisation and Embriology Authority ha autorizzato il Quen’s College di Londra alla creazione di embrioni chimera (ibridi) — ovociti animali in cui viene inserito DNA umano — per produrre cellule staminali. In un’intervista al Corriere della sera (19 settembre 2007) Stephen Minger, uno degli studiosi impegnati in questa ricerca, asserisce che «sono delle cellule in un piattino. Una vita allo stato potenziale […] L’embrione in un piattino non ha alcuna possibilità di diventare un essere umano». Anche la situazione degli Stati Uniti è estremamente articolata: solo 15 Stati hanno una normativa sull’argomento: 6 sono favorevoli, 5 contrari,

11 C. CANALONE S.I., Clonazione e cellule staminali. In margine al Rapporto Donaldson, in Aggiornamenti Sociali 11 (2000) 716 ss.


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4 hanno una posizione intermedia12. Il documento di maggior rilievo è, probabilmente, il Rapporto del National Bioethics Advisory Commission del 1999 che consente l’utilizzazione di embrioni residuali se sussiste il consenso da parte dei donatori, previa informazione sul fatto che a) la ricerca non è a vantaggio degli embrioni utilizzati, b) il rifiuto o l’accettazione da parte della coppia non influenzerà eventuali cure per i donatori, c) gli embrioni utilizzati non saranno trasferiti in utero e verranno distrutti a seguito della ricerca, d) le cellule staminali embrionali ottenute non serviranno per curare i donatori dei gameti. Viene escluso l’utilizzo di embrioni in vitro al solo scopo di ricerca e viene negato, in questo caso, l’utilizzo di fondi federali.

3. È LEGALE LA RICERCA CON LE STAMINALI EMBRIONALI? Questo insieme eterogeneo di profili legislativi lascia intuire il motivo per cui l’art. 18 della Convenzione di Oviedo abbia perso sempre più significato. Il 9 luglio 2003 la Commissione Europea, nelle linee guida sul finanziamento della ricerca sulle cellule staminali embrionali, ha avanzato un tentativo di contemperamento tra gli indirizzi contrapposti, proponendo di derivare cellule staminali dagli embrioni soprannumerari donati alla ricerca prima del 27 giugno 2002, data di adozione del programma, qualora questi embrioni siano in ogni caso destinati ad essere distrutti. Mi pare che sia anche estremamente significativo della tendenza a ridurre gli ostacoli alla ricerca l’art. II-63 della futura Costituzione europea quando prevede, tra le norme sul diritto all’integrità della persona, il divieto «della clonazione riproduttiva degli esseri umani». In qualche modo la Costituzione sembra consentire quello che il Protocollo, annesso Convenzione di Oviedo, sembra escludere. In entrambi i casi dobbiamo usare una formula dubitativa, perché l’intendimento del legislatore si nasconde dietro sottili giochi linguistici. Quando il Protocollo usa la formula «tutti gli interventi aventi per fine la creazione di un essere umano identico a un altro vivo o morto» intende veramente tutti? Si riferisce sia alla clonazione terapeutica che alla 12 D.J.H. MATHEWS, La collaborazione degli Stati nella ricerca sulle cellule staminali, Atti del Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica (Roma, 16-18 febbraio 2006), Roma 2007, 158.


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clonazione riproduttiva? E quando la Costituzione vieta la “clonazione riproduttiva” intende solo quella avente per scopo la riproduzione13? Gli interrogativi restano aperti, ma è ovvio che dinanzi alle pressioni della scienza e del mercato le barriere normative siano sempre più fragili. Appare difficile contrapporre le enunciazioni etiche alla constatazione pratica che tanto quello noi vietiamo è consentito altrove: in Inghilterra14, in India, in Cina… E allora che senso ha la politica legislativa del singolo paese? D’altra parte, se osservassimo i recenti interventi della comunità internazionale in bioetica, ad esempio Dichiarazione universale di bioetica e diritti umani dell’Unesco15, non troveremo alcun cenno a questi problemi: tutto rimane nel vago di un’auspicabile collaborazione tra scienza ed etica, mercato e giustizia. In assenza di una chiara presa di posizione internazionale, simile a quella che si sta ottenendo ad esempio contro la pensa di morte, l’asimmetria normativa diventa asimmetria etica e l’una e l’altra incidono sul patrimonio di conoscenze e di opportunità economiche. Ecco perché in vari paesi, e in Italia per effetto della legge 40, si è sollevato il problema giuridico della legalità della sperimentazione con cellule embrionali importate dall’estero. Se uno Stato punisce penalmente la distruzione di embrioni a fini di ricerca, può considerare legittima la sperimentazione su linee cellulari embrionali? E, in assenza di norme chiare ed esplicite, come si deve comportare il singolo ricercatore? Il problema è aperto: negli Stati Uniti, in Germania e Svizzera è stato risolto con un apposito intervento legislativo, che ha autorizzato le ricerche16. Emilio Dolcini ha esaminato la legge 40 proprio sotto questo profilo in un saggio17 di cui condivido integralmente le 13 Il Problema è discusso da D. MIETH, Etica, morale, religione, in A. MCLAREN, La clonazione. Uno sguardo etico, trad. it, Roma 2002, 150 ss. 14 Non a caso l’Inghilterra non ha aderito alla Convenzione di Oviedo. 15 Universal Declaration on Bioethics and Human Rights, adottata per acclamazione il 19 ottobre 2005 dalla XXIII sessione della Conferenza generale dell’Unesco. 16 Per gli Stati Uniti rinvio al saggio già citato alla nota 7 di D.J.H. Mathews. Per la Svizzera al lavoro, contenuto sempre in questo volume, di M. JACONI, Svizzera: le cellule staminali tra scienza e politica, 20 ss. Per la Germania: A. MUSIO, Embrioni israeliani e ricercatori tedeschi: la questione delle cellule staminali in Germania, in Vita e Pensiero 6 (2001) 568 ss. 17 E. DOLCINI, Ricerca su cellule staminali embrionali importate dall’estero e legge penale italiana, in RIDPP (2006) 450 ss.


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conclusioni giuridiche. Prende in esame cinque ipotesi di cui mi limito ad esporne le argomentazioni essenziali: • un divieto esplicito di ricerca sulle staminali embrionali importate dall’estero; • un divieto implicito ricavabile dalla lettera della legge; • la configurabilità di un concorso del ricercatore italiano in un reato che sarebbe commesso all’estero, da parte del ricercatore straniero che ricava le cellule staminali da un embrione umano; • la configurabilità di un delitto di ricettazione nell’operato del ricercatore italiano che riceva dall’estero cellule staminali embrionali; • la punibilità della sperimentazione su embrioni umani compiuta all’estero da un ricercatore italiano. Dolcini esclude che sussista un reato nelle prime due ipotesi, perché la legge vieta la ricerca su “embrioni” e non su “cellule embrionali”. Assimilare l’una situazione all’altra sarebbe escluso, a suo avviso, sia dal tenore letterale della norma e sia dal principio di legalità (art. 25 comma II Costituzione e art. 2 c.p.) che impedisce l’interpretazione analogica in diritto penale (art. 14 delle Disposizione sulla legge in generale). Anche se condivido sostanzialmente le conclusioni di Dolcini, ho qualche dubbio sul fatto che non sia possibile ricorrere all’interpretazione estensiva, includendo nel concetto di embrione quello di cellula embrionale. I nostri giudici abusano continuamente di questo tipo di interpretazione per aggirare i limiti del nullum crimen sine lege e, se lo facessero anche in questo caso, non sarebbe certo il “significato proprio” delle parole a poterli fermare. Semmai si dovrebbe tener presente che, quando gli equilibri costituzionali sono così delicati, appare poco opportuno alimentare un conflitto tra ricerca scientifica e repressione penale in assenza di un chiaro pronunciamento legislativo. Del resto, non mi risulta che siano state iniziate azioni giudiziali di questo tipo. Per integrare la fattispecie di concorso di persone nel reato è, invece, necessario il nesso di causalità tra le due condotte: quella del ricercatore italiano che utilizza le staminali e quello del provider straniero che gliele fornisce. Non basta la sussistenza di un collegamento generico, ma occorre dimostrare che, eliminando mentalmente la condotta del ricercatore italiano, il ricercatore straniero non avrebbe prelevato quelle cellule dagli embrioni. Considerando il modo in cui avviene l’acquisizione di linee cellulari, sembra estremamente difficile che sia possibile riuscire a configurare una


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prova del genere. Ad analoga conclusione si perviene tentando la diversa via dell’incriminazione per ricettazione e cioè per la situazione in cui, fuori del caso precedente di concorso nel reato, si ricevono cose provenienti da un qualsiasi delitto al fine di procurare a sé o ad altri un profitto (art. 648 cp). In questa ipotesi avremmo un delitto commesso all’estero (la distruzione di embrioni) e una condotta penalmente rilevante consumata in Italia (l’utilizzazione di questi embrioni). Per punire in base alla legge penale italiana sono richieste: a) la presenza dell’autore del reato nel territorio dello Stato; b) la richiesta del Ministro della giustizia; c) la doppia incriminazione del fatto: il fatto deve essere previsto come reato sia dalla legge italiana, sia dalla legge dello Stato estero nel quale il soggetto ha agito. Doppia incriminazione che è richiesta anche per la punibilità della sperimentazione su embrioni umani compiuta all’estero da un ricercatore italiano. Da quanto ho osservato nel paragrafo precedente, appare estremamente improbabile che si possa integrare questa doppia incriminazione perché la maggior parte dei paesi autorizza l’utilizzazione di embrioni per la ricerca, quando addirittura non la incentiva. La conclusione alla quale si perviene nel nostro paese, per via interpretativa, è la stessa a cui si è giunti, per via legislativa, in Germania, Svizzera e Stati Uniti: male captum bene retentum. Per quanto l’azione sia in astratto penalmente riprovevole, perché l’embrione non è mero materiale biologico, non sussiste in concreto alcun divieto a trattarlo come materiale biologico.

4. PROSPETTIVE MORALI Anche se si escludono i profili penali, restano aperti i problemi morali. Le distinzioni e condizioni richieste dalle norme, in questo caso, hanno scarso senso perché il ricercatore è posto soltanto di fronte alla propria coscienza e non può ignorare che, se non ci fosse una domanda di cellule embrionali, non ci sarebbe neppure una distruzione di embrioni. Come avvenga questa distruzione, in che paese, in che termini, con quali leggi e procedure, ha pochissimo significato: chi è convinto che l’embrione sia una vita umana non potrà mai accettare di contribuire all’insieme di elementi che ne determinano il sacrificio anche se in nome dell’aumento della conoscenza o del benessere e per quanto sappia di essere solo parte di


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un meccanismo più complesso, alimentato da un mercato globale che andrebbe comunque avanti a prescindere da qualsiasi reazione individuale. Anzi, più esistono condizionamenti culturali più si accresce il dovere di riaffermare l’integralità delle proprie convinzioni. «Tra i sostenitori della ricerca, che utilizza gli embrioni come mero materiale, c’è la tendenza a derivare degli assoluti da alcune opzioni mediche e da potenziali benefici terapeutici. Ma la ricerca utilizza materiale adesso e in modo irrecuperabile. Gli interessi di chi soffre di una malattia sono importanti, ma non devono essere trasformati in assoluti per costringere in quella direzione una società che deve mantenere i propri impegni con tutti i valori morali»18. Questa conclusione è conforme alla logica laica del rispetto integrale di ogni essere umano, che si traduce nel principio kantiano del trattare l’altro sempre come un fine e mai come un mezzo. È anche conforme al pressante insegnamento che ricaviamo dalle dolenti osservazioni di Giovanni Paolo II sulle “strutture di peccato”. Questo tema della “socialità” del peccato costituisce il nucleo della lettura teologica dei problemi del nostro tempo condotta nella Sollecitudo rei socialis del 1987. Qui le “strutture di peccato” assumono una precisa identità: l’imperialismo, che dividendo il mondo in blocchi ideologicamente contrapposti, impedisce l’interdipendenza e la solidarietà; l’idolatria del denaro, della classe, della tecnologia; la brama di profitto e la sete di potere. Siamo di fronte ad “assolutizzazioni di atteggiamenti umani” di cui sono vittime non solo gli individui, ma anche le Nazioni e i gruppi politici, economici, sociali. Si creano, insomma, delle condizioni generali di sviluppo sociale che non sono imputabili a un soggetto in particolare né sono isolatamente un male in sé, tuttavia nell’insieme del loro funzionamento generano sofferenza, discriminazione, emarginazione a causa di una distorta visione dell’uomo e dei suoi interessi. Cosi la ricerca scientifica e la cura della malattia che non sono certamente un male, lo possono divenire quando si eludono sistematicamente le domande sull’inizio e sul senso della vita, sul prezzo dello sviluppo, sulla tutela dei più deboli19. Altrettanto delicato, anche se per ora assolutamente teorico, è il problema della legittimità giuridica ed etica dell’utilizzazione di terapie 18 D. MIETH, I problemi etici concernenti l’utilizzazione di embrioni a scopo di ricerca, in Bioetica 4 (2005) 815. 19 Credo sia questo anche il senso delle riflessioni che Habermas ha condotto in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it., Torino 2002.


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derivanti da cellule staminali embrionali. Dal punto di vista giuridico non credo che possano sussistere ostacoli alla messa in commercio di tali farmaci. Innanzitutto potremmo ricorre all’argomentazione a fortiori, tanto cara ai giuristi: se non è illegale l’importazione di cellule staminali embrionali per la ricerca, a maggior ragione non potrà essere ritenuta illegale l’importazione e la somministrazione di farmaci derivanti dalle cellule staminali per la tutela della salute o addirittura della vita. Come ho già osservato, l’introduzione di queste terapie finirebbe per indurre i giudici ad equiparare il trattamento dell’embrione a quello che riceve il feto nell’ attuale legislazione sull’interruzione volontaria della gravidanza: lo renderebbe sacrificabile di principio tutte le volte in cui fosse necessario salvaguardare valori costituzionalmente rilevanti come la vita o la salute. Eticamente? Se accettiamo la rigorosità del principio kantiano per cui il fine non giustifica mai i mezzi e se portiamo fino alle sue estreme conseguenze l’ammonimento di Giovanni Paolo II sulle “strutture di peccato”, la distruzione di un embrione non potrà mai essere giustificata in alcun modo. Ha ragione Robertson nel sostenere che non vi è nessuna differenza tra il causare un evento e il trarne vantaggio20. Questa distinzione può avere una debole copertura giuridica, ma non ha un fondamento morale: gli Stati che traggono vantaggio da determinate terapie non possono ritenersi immuni da responsabilità per il solo fatto di non permettere che certi atti avvengono nel loro territorio. Basta un esempio: le nazioni che rifiutano la pena di morte, vietano l’estradizione quando il reo possa incorrere in tale pena in altri paesi. Perché dovrebbe valere un principio diverso per gli embrioni? Perché dovrebbe essere possibile tutelarli in un luogo e distruggerli in un altro? Resta però il dubbio: il malato “causa” la morte dell’embrione? Sí, qualora l’embrione venisse creato apposta per curare la sua malattia. No, quando si utilizzano embrioni “orfani” destinati alla distruzione. In questo caso il rapporto di causalità si interrompe: il destino dell’embrione non è stato, neppure indirettamente, deciso dal malato o dai ricercatori. Nessuno pensa che il soggetto che usufruisce degli organi prelevati dalla vittima di un incidente stradale sia il responsabile morale dell’incidente. Questa conclusione non crea un alibi a chi vuole tutelare l’embrione e intanto trarre 20 J.A. ROBERTSON, Causative vs. Beneficial Complicity in the Embryonic Stem Cell Debate, in Connecticut Law Review (2004) 1099 ss.


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vantaggio dalla sperimentazione sugli embrioni. Anzi, ne accresce la responsabilità. L’unico modo per garantire realmente l’embrione è rendere attuale ed effettivo il suo diritto alla vita, favorendo e incentivando l’adozione degli embrioni orfani, come ha raccomandato il Comitato nazionale di bioetica nella Dichiarazione sull’Adozione per la nascita (APN) degli embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita del 18 novembre 2005. Se il diritto alla vita dell’embrione rimane nascosto dentro le provette, se diventa un diritto alla “non morte” o meglio alla “estinzione biologica” (come recitano le Linee guida della legge 40 nel Decreto ministeriale 21 luglio 200421), appare sempre più difficile elaborare seri argomenti giuridici, accettabili richieste politiche, valide argomentazioni morali per impedire la sua utilizzazione come riserva di cellule in favore di chi sta soffrendo e di chi sta morendo. L’embrione va tutelato nella sua realtà vitale e non nella sua configurazione biologica. Il Cristianesimo presuppone, attraverso la creazione biblica e il mistero dell’incarnazione di Gesù, che «nessuna delle forze presenti nel mondo può essere considerata come divina […] La Creazione è separazione; né il mondo, né la vita, né il corpo sono Dio»22. Noi cristiani ci troviamo di fronte a un delicato equilibrio per cui dobbiamo evitare ogni naturalizzazione della vita divina (buddhismo) e anche ogni divinizzazione della vita naturale (paganesimo). L’embrione sembra proprio lo strumento per mettere alla prova la nostra capacità di seguire, in tutta la sua misteriosa complessità, l’ammonimento divino, perché è, nello stesso tempo, struttura biologica ed esistenza umana, già vita e intanto non ancora vita. Dove ci dobbiamo soffermare? Sul già o sul non ancora? Tutti coloro che ritengono che sia decisivo il già si oppongono recisamente a ogni rischio di manipolazione per cui negano persino che sia legittima l’adozione degli embrioni perché lo scongelamento potrebbe determinarne la distruzione e perché sarebbe in ogni caso un ipotesi di fecondazione eterologa. A mio avviso, questa visione corre il rischio di trasformarsi in un’involontaria divinizzazione della natura, più pagana che cristiana: fa dell’embrione un feticcio di ghiaccio, si appaga del suo essere già vita e si ferma lì, a questo presente 21

O meglio «la coltura in vitro del medesimo deve essere mantenuta fino al suo estin-

guersi». 22 X. LACROIX, Il corpo di carne. La dimensione etica, estetica e spirituale dell’amore, Bologna 1996, 182.


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senza un futuro. La possibilità dell’adozione rispecchia, invece, la tragedia del non ancora: una tragedia che non è risolta dalla mera preservazione biologica, perché è solo nella sua dimensione esistenziale che l’embrione incontra Dio. Nella celletta frigorifera c’è vita, ma non esistenza. Che senso ha affermare il diritto a una vita che non sarà mai vita, il diritto a una sopravvivenza che non sarà mai esistenza, il diritto a una dimensione senza fine (lì nel ghiaccio per l’eternità) perché senza inizio? Questa considerazione mi induce a guardare con favore i tentativi, recentemente ripresi dal Comitato Nazionale per Bioetica nel documento sul “destino degli embrioni derivanti da PMA e non più impiantabili” (26.10.2007), di elaborare una teoria della “morte organismica” dell’embrione, corrispondente alla perdita della capacità delle cellule di dividersi e crescere in maniera integrata e differenziata, anche se singole cellule sono ancora vive23. Durante la crioconservazione una parte del patrimonio genetico si deteriora e un’altra rimane vitale. Se il deterioramento raggiunge un certo livello, l’embrione cessa di svilupparsi, non potrà mai diventare un bambino. È una situazione diversa dalla perdita viabilità, cioè della capacità di nascere vivi. Tutti gli embrioni morti non sono viabili, ma non tutti gli embrioni non viabili sono morti. Qui non si tratta di prendere in considerazione la capacità dell’embrione di restare attaccato all’utero materno, ma la cessazione irreversibile della divisione cellulare. «Nonviability, defined as the incapacity to develop to live birth, differs from organismic death; all dead embryos are, of course, nonviable, but most nonviable embryos are not yet dead. Morphological criteria for nonviability include abnormal cleavage, loss of cells, and loss of cytoplasm. But it is the functional criterion — failure to cleave at 24 hours — that, while not by itself proof of irreversibility, likely correlates». Si potrebbe allora proporre, in analogia con il concetto di morte cerebrale elaborato per consentire il prelievo di organi “a cuore battente” da un soggetto ancora biologicamente vivo, che l’embrione sia “considerato” morto quando si arresta irreversibilmente lo sviluppo della divisione cellulare piuttosto che quando sono morte tutte le sue cellule («an irreversible 23 Penso in particolare al saggio di D.W. LANDRY – H.A. ZUCKER, Embryonic death and the creation of human embryonic stem cells, in The Journal of Clinical Investigation 114 (2004) 1184 ss. (http://www.jci.org).


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arrest of cell division rather than the death of each and every cell is the appropriate measure of organismic death for the embryo»). Non sarebbe allora scorretto eticamente affermare che l’embrione è ormai un insieme di cellule vitali, ma non viventi nel senso di capaci di determinare lo sviluppo di una vita umana: non sarà mai vita come il soggetto di cui è stata accertata la morte cerebrale non sarà più vita. Perché, in questo caso, le cellule dell’embrione “dichiarato” morto non potrebbero essere utilizzate per la ricerca scientifica, come si utilizzano gli organi, quando è accertata la morte, o qualsiasi altra cellula del corpo umano? Il problema è costituito dalla mancanza di criteri scientificamente “certi” e dall’assenza di tecniche non invasive per accertare questo criterio di morte dell’organismo biologico. «Criteria for determining irreversibility are lacking, but the approach is clear; natural history studies of cleavage arrest will provide an initial definition that can be refined as elucidation of the mechanisms regulating growth and arrest yield biochemical markers for irreversibility. Based on our analysis, we believe that many embryos generated for IVF are dead at the organismic level and yet, due to mosaicism, are likely donors of normal blastomeres». L’unico modo per verificare la condizione delle cellule è scongelare l’embrione, ma lo scongelamento, se non segue l’impiantato nell’utero materno, determina la morte… Se fosse scongelato per l’adozione? Se, a seguito di questa richiesta, se ne accertasse la cessazione irreversibile della capacità di sviluppo? La morale non si costruisce sui “se”, ma i “se” alimentano la discussione morale: allora io credo sia fondamentale incominciare a interrogarsi sul momento in cui un blastomero rimane una cellula e quando diventa un bambino. La clonazione di Dolly è avvenuta, se non ricordo male, prelevando una cellula della mammella. Allora le cellule della mammella sono bambini?



RIPENSARE IL SIGNIFICATO DELLA VITA E DELLA PROCREAZIONE NELL’ETÀ DELLE TECNOLOGIE RIPRODUTTIVE E DELLA MEDICINA RIGENERATIVA: INTERROGATIVI E PROSPETTIVE

VITTORIO ROCCA*

INTRODUZIONE «Che cos’è l’uomo?». Questa domanda ha acquistato una diversa attualità da quando è diventato possibile «fabbricare» l’uomo o meglio — secondo la terminologia tecnica — riprodurlo «in vitro». Questo nuovo potere, che l’uomo si è conquistato, ha portato con sé anche un nuovo linguaggio. Mentre l’origine dell’uomo veniva finora espressa attraverso i concetti di «generazione» e di «concezione» e la teologia ne comprendeva il processo complessivo nel concetto di «procreazione umana», ora sembra che la parola «riproduzione» sia in grado di descrivere con maggior precisione la trasmissione della vita umana. Ma l’origine di un nuovo essere umano è qualcosa di più di una «riproduzione»? In che cosa consiste e quali conseguenze etiche derivano da questo «di più»? Tale domanda ha assunto un’attualità nuova e scottante da quando è diventato possibile «riprodurre» l’uomo in un laboratorio, a prescindere da una donazione interpersonale, senza un’unione corporea tra uomo e donna. Da un punto di vista fattuale è diventato possibile separare l’evento naturale-personale dell’unione dal processo puramente biologico1. *

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. «Il linguaggio umano della procreazione […] è continuamente sostituito e mischiato con quello della biologia e della medicina. Spariscono il padre e la madre e subentrano oociti e spermatozoi, sparisce la relazione sessuale e compaiono siringhe e sonde, svanisce il grembo ed emerge l’utero, sfuma la donna e appare la sua funzionalità biologica. Non è una questione di poco conto: ogni trasformazione linguistica è anche una trasforma1


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Vittorio Rocca

Afferma uno scrittore, facendosi portavoce di un sentire comune: “Noi ci troviamo in un mare burrascoso senza una mappa precisa di viaggio, perché aderiamo sempre di più a una visione della vita umana che ci dà un enorme potere sulla vita e, nello stesso tempo, ci nega ogni possibilità di regole non arbitrarie per guidare il suo uso”2. L’approccio con il quale ripensare il significato della vita e della procreazione nell’età delle tecnologie riproduttive e della medicina rigenerativa che ci interessa in questa sede è quello etico. Non è certo l’unico, ma tra i tanti è un approccio legittimo e necessario dal momento che il “senso etico” appartiene essenzialmente e in modo irrinunciabile all’uomo. È l’approccio proprio della cosiddetta “bioetica” (bios ed ethos: etica della vita), che riguarda il comportamento dell’uomo nei confronti della vita, propria e altrui, sotto la visuale del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito. Ma l’approccio etico rimanda a uno più radicale: quello propriamente antropologico, che riguarda la “verità”, la “realtà” dell’essere stesso dell’uomo. Solo affrontando la domanda più elementare e nel contempo la più complessa: «Che cosa è l’uomo?» o meglio: «Chi è l’uomo?», è possibile dare risposta alla domanda sulla bontà o meno dell’agire umano nei riguardi della vita. La questione della vita umana è al cuore della bioetica. Essa infatti nasce da un’urgenza pratica: stabilire criteri morali, largamente condivisi, per regolare gli interventi della scienza medica sulla vita. Una delle grandi tentazioni della nostra epoca è quella di guardare la medicina come una semplice pratica tecnologica, dimenticando l’approccio interpersonale. Questa oggettivazione della vita umana è portata ad un zione di visuale. Questi cambiamenti dicono che (questa tecnica) resta un atto medico, che come tale risponde alla logica interna della medicina, ai criteri e alla funzionalità che essa impone. Sebbene per le attese della coppia il figlio non sia pensato e vissuto come un ‘prodotto’, egli di fatto si trasforma, nel momento in cui la generazione è affidata alla medicalizzazione della vita, in un ‘oggetto’ biologico. In questo processo consiste lo stravolgimento della generazione umana: l’origine dell’uomo avviene secondo i tempi e i luoghi della tecnologia, della produzione, organizzazione e suddivisione sociale del lavoro»: A. PESSINA, Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano 1999, 123. 2 L.R. KASS, Life, Liberty and the Defense of Dignity. The challenge for Bioethics, San Francisco 2002, 133-139.


Vita e procreazione nell’età delle tecnologie riproduttive

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livello ancora più elevato nelle tappe iniziali e finali della vita. Le questioni della vita e della morte rischiano di diventare questioni di “prodotti”, amministrati da una mentalità tecnologica. Le nuove tecnologie riproduttive permettono infatti non solo di dominare, ma di intervenire all’interno, nella struttura intima dell’esistenza umana. Questa capacità invasiva dei mezzi artificiali, comunque la si voglia interpretare, pone interrogativi etici che dovranno sempre più confrontarsi con la rapida e profonda trasformazione subita da un ambiente umano tecnologizzato e affrontare nuove urgenze e nuove sfide. Il contesto socioculturale odierno è contrassegnato dalla presenza di “segni” ambivalenti e talora contraddittori riguardo al tema della vita. Da un lato è cresciuta la coscienza dei diritti umani con il rifiuto chiaro di pratiche — ad esempio la pena di morte — che attentano alla dignità della persona; dall’altro però, si moltiplicano, anche come conseguenza del progresso delle tecniche della scienza biomedica, interventi che sembrano negare il rispetto della vita, sopprimendola o privandola della sua qualità umana. Ma ciò che ancor più stride è il divario esistente tra le teoriche proclamazioni ideali e i comportamenti concreti: mentre infatti si insiste nel voler tutelare categorie di persone che vivono condizioni di particolare fragilità — bambini, anziani, malati, ecc. — si intensifica nel contempo una mentalità destinata ad accrescerne la precarietà. L’uomo contemporaneo ha intuito di essere attore di una rivoluzione scientifica densa di profonde implicazioni sociali e culturali, dal momento che, mediante l’utilizzo delle biotecnologie, gli è stato possibile intervenire sulla vita e sulla morte, alterandone non soltanto i confini, ma la stessa fenomenologia. Nel corso della seconda metà del XX secolo molte pratiche mediche si sono modificate al punto di non essere più conformi alle esigenze tradizionali della prassi medica, e questo ha impedito di definirne con chiarezza la legittimità o la potenziale negatività, usufruendo soltanto di criteri strettamente terapeutici. Dal momento che alcune pratiche nuove mettono in crisi le rappresentazioni consolidate e contravvengono ai principi tradizionali dell’etica medica, bisogna chiedersi attraverso quali processi e mediante quali criteri devono essere stabilite le nuove regole. Questo, in fondo, è il compito che si è assunta la bioetica: capire il senso dei nuovi interventi per garantire il


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progresso della scienza medica attraverso l’applicazione delle biotecnologie, al fine sì di migliorare la salute dell’uomo, ma senza mai dimenticare che egli vive anche e soprattutto di elementi simbolici e di immaginario. La rivoluzione biotecnologica ci obbliga a considerare con molta attenzione i nostri valori più profondi e a chiederci con molta serietà quale siano le domande fondamentali sul significato e lo scopo dell’esistenza. Offriamo alcune piste di riflessione sulla vita umana.

1. ACCOGLIENZA DELLA VITA COME MISTERO E DONO La tentazione del “tutto spiegare”, del voler arrivare alla soluzione di ogni problema — che ha le sue radici nel positivismo scientista — conduce all’oggettivazione estrema e al dominio incondizionato. L’assumere come criterio di giudizio il paradigma utilitarista basato su parametri di mera efficienza economica porta a discriminare tra vita e vita, negando valore a quelle esistenze incapaci di produttività, intese come peso per la società. Recuperando la categoria di “mistero”, come orizzonte di comprensione della realtà, si può invece restituire alla vita la pienezza della sua dignità umana. L’assunzione del mistero non presuppone di per sé una visione religiosa del mondo e non comporta la rinuncia all’utilizzo intelligente della ragione. Condizione essenziale è il superamento dei modelli di razionalità ideologici e strumentali, per far spazio ad una ragione aperta ed umile, che non indaga con una volontà di potenza nel tentativo di accaparrarsi la realtà, ma si impegna al contrario, con tutte le sue forze, a penetrarla nel rispetto di ciò che non è mai totalmente prevedibile e dominabile. Bisogna operare un passaggio di fondo, sulla scorta dell’insegnamento di Lévinas: dalla pretesa della totalità alla ricerca dell’infinito. La razionalità simbolica di cui si parla rinuncia alla presunzione di una conoscenza totalizzante, per aprirsi, invece, a delle dimensioni interiori e trascendenti la realtà, rinviando costantemente “oltre”. Il mistero provoca domande assolute al di là delle nostre credenze religiose e ideologiche, poiché è un tema universale, che si ritrova in tutti gli esseri umani. L’accoglienza della vita come “mistero” è la condizione antropologica necessaria per comprendere che essa è “dono”. La vita è qualcosa che


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l’uomo non possiede, ma dalla quale è posseduto e partecipa, anche se in maniera sempre limitata e parziale. Per questo motivo essa è realtà indisponibile, sulla quale la persona non può decidere in modo assoluto. Dire “vita umana” è dire sempre “uomo vivente”, con valore di soggetto e non di oggetto; la vita umana deve essere voluta per se stessa, non per altro o per altri. Essa non ha valore strumentale: la sua validità non è misurata dal grado di utilità, ma dalla verità che esprime, non vale in quanto serve a qualcosa o a qualcuno, la vita umana vale in sé e per sé, ha sempre valore di fine, mai di mezzo. In nessun modo il figlio può essere considerato come un oggetto che si produce e si possiede, sul quale si possa pretendere di esercitare un diritto o un potere. Il figlio è persona e quindi è un soggetto libero degno di rispetto. La sua dignità deve essere riconosciuta dai genitori e da tutte le altre persone. Guardando un bambino, e la sua presenza di persona, bisogna riconoscere il mistero della vita di cui l’uomo non è padrone. Generare un figlio non significa quindi in alcun modo causare la sua esistenza: il figlio non è mai, direbbe il filosofo Marcel, “qui per me”, non dipende da me e non mi appartiene, così come io stesso non appartengo a me stesso e non ho in me la possibilità di donarmi l’esistenza3. Il figlio è una realtà unica, originale e “altra” rispetto ai genitori. Non si può volerlo ad ogni costo, a soddisfazione di un desiderio o come risposta alle proprie attese4. Accogliere la vita come dono vuol dire quindi vivere in un atteggiamento di servizio e non di dominio.

3

Cfr. G. MARCEL, Homo viator, Roma 1980, 117-156: «Il voto creatore come essenza della paternità». 4 «L’altro è colui che viene prima dell’io e che, presentandosi all’io, gli chiede di essere accolto e riconosciuto […]. Il bambino-altro non è un peso per i genitori, ma è la voce che li chiama per nome e rivela la loro identità; le sue prime parole sono: papà e mamma! L’altro-bambino ha il potere di far nascere l’io e il noi dei genitori alla loro vera identità, mostrando ad essi il loro specifico volto, la loro specifica vocazione a servire la vita dell’altro, diventando un io e un tu»: V. MANNUCCI, Sul senso del nascere, in Rivista del clero italiano 74 (1993) 195.


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2. PROMUOVERE LA VITA UMANA NELLA SUA DIMENSIONE DI QUALITÀ La vita umana non può essere ridotta a vita meramente biologica; è vita personale da salvaguardare e promuovere nella sua interezza. Il tema della “qualità della vita”, presente con forza nella cultura contemporanea, pone immediatamente l’attenzione sull’importanza delle relazioni nella costruzione identitaria di ognuno. Qualità della vita significa infatti qualità delle relazioni della persona con se stessa (si pensi all’importanza della corporeità), con gli altri e con la natura; significa inoltre pienezza di vita personale e relazionale. La relazione con la persona dell’altro è l’esperienza etica originaria. Da qui emerge con grande forza l’insorgere della dimensione etica nell’incontro col volto dell’altra persona: «La relazione al volto è immediatamente etica. Il volto è ciò che non si può uccidere: ciò il cui senso consiste nel dire “tu non mi ucciderai”»5. Lo scarto tra vita biologica e vita personale è perciò evidente: è ovvio che la pienezza della realizzazione umana sia strettamente dipendente dalla qualità di vita che si conduce e che tale qualità è condotta fondamentalmente dal livello dei rapporti che si cerca di attuare. Sacralità della vita e qualità della vita non sono di per sé principi contrapposti, ma sono istanze complementari da mediare nella concretezza esistenziale. Se il criterio della “sacralità” sembra fissare un limite che normalmente non va sorpassato, il criterio della “qualità” indica in positivo le mete da perseguire per un’autentica promozione della vita umana. La difficoltà invece sta nell’individuare parametri plausibili per la definizione della “qualità”, superando un’interpretazione rigidamente utilitarista, che, circoscrivendo tutto al benessere materiale o al rispetto delle scelte individuali, finisce per assegnare valori disuguali alle vite umane, incorrendo così in pericolose forme discriminatorie. Nella visione ebraico-cristiana la vita umana — dono di Dio — acquisisce vera autenticità solo attraverso lo sviluppo di relazioni contrassegnate dalla logica del dono, nell’attuazione cioè di un cammino di comunione tra persone. Al discepolo di Gesù non può bastare la semplice difesa della vita fisica; egli è chiamato a promuovere la vita umana nella sua 5

E. LEVINAS, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Roma 1984, 101.


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dimensione qualitativa, alimentando tutti quei processi che favoriscono la crescita delle relazioni interpersonali. Se si vuole salvaguardare la vita fisica dai numerosi attentati che si consumano contro di essa è questa la strada da percorrere. La promozione di una vita umana qualitativamente significativa, capace di restituire valore alle relazioni, è la migliore difesa della vita fisica. Per i cristiani la qualità della vita umana trova la sua espressione più alta nel rapporto con l’amore. La qualità delle relazioni è in definitiva legata ai livelli di interpersonalità e di comunione che si riescono a istituire6. Vivere significa amare e amare vuol dire donarsi. La vita umana viene percepita come valore e come realtà ricca di senso quando si ama e si è amati. La persona è quindi chiamata ad amare e a lasciarsi amare. L’amore, ci ha ricordato magistralmente papa Benedetto XVI, in quanto dono di sé all’altro, è pertanto il contenuto fondamentale della vita, il suo valore supremo, ciò che dà ad essa senso e orientamento. L’amore rappresenta per il cristiano la sintesi di tutti i valori e il parametro valutativo della condotta morale. Dio stesso è teneramente bisognoso d’amore, di relazione, di libertà. Di qui l’esperienza dell’incontro con l’altro, con un “tu”, come apertura al mistero. Il mistero dell’incontro con l’altro “rimanda al tema dell’amore come a-mors, ciò che va al di là della morte, amore come luogo in cui la morte intesa come fine e come vuoto viene sconfitta nella relazione, nella reciprocità, nella comunione e nella speranza”7. Il Vangelo — la “Buona Notizia” — è la risposta alla domanda che tutti gli uomini si pongono. Incontrare l’altro nell’amore e nella libertà. Amerai il prossimo tuo come te stesso. “In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto”8.

6 7 8

Cfr. G. PIANA, Perché la vita sia “buona notizia”, in Presbiteri 35 (2001) 671-681. A. MELUZZI, ErosAgape. Un’unica forma d’amore, Roma 2006, 22. BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 1.


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3. IL RISPETTO DELLA VITA Il comandamento biblico «Tu non ucciderai» (Dt 5,17; Es 20,13) testimonia l’importanza assoluta assegnata alla vita. La riflessione antropologica contemporanea (si pensi ad esempio alla fenomenologia) conferma, sulla base di motivazioni razionali, questa indisponibilità della vita umana, come conseguenza del valore che occorre riconoscere al singolo individuo per se stesso e insieme alla dimensione relazionale dell’esistenza che implica sempre responsabilità verso l’alterità. La prima e più efficace forma di difesa della vita è costituita dalla creazione di condizioni strutturali e culturali che consentano ad ogni uomo di fare esperienza di una vita umanamente ricca di senso. È essenziale restituire alla vita il carattere di esistenza carica di significato ed ampliare il concetto di morte a tutti quegli aspetti di indigenza che concorrono a renderla meno degna di essere vissuta. Solo in tale contesto è possibile tessere relazioni improntate ad una reciprocità che promuove la comunicazione e fa crescere la comunione interumana. Il rispetto della vita umana presuppone pertanto l’impegno a lottare contro le numerose componenti di morte presenti nella società; un impegno volto a debellare le prevaricazioni dell’uomo sull’uomo, le pesanti sperequazioni tra persone e classi sociali, le forme di marginalità e violenza che attentano allo sviluppo della vita. La riqualificazione culturale della vita umana ha inoltre a che fare anche con la coltivazione di atteggiamenti interiori incentrati sui valori menzionati, come l’attenzione alla dimensione misterica, la percezione che l’esistenza è frutto di un dono, la ricerca di relazioni autentiche, che sfociano pienamente solo nell’esperienza gratuita ed intensa dell’amore. La cultura della vita implica soprattutto la capacità di riconciliarsi con la propria finitudine creaturale, acquisendo una stile di esistenza sapienziale, che libera dalla paura e apre il cuore alla fiducia e alla speranza9. 9

Quando si attende un figlio c’è sicuramente gioia, ma spesso anche paura. Paura che non sia perfetto, timori per il suo futuro, preoccupazioni per le responsabilità che comporta. Come giustamente fa notare Angelini, non è questione di egoismo quanto «dello strutturale individualismo della cultura del nostro tempo […]. L’individualismo, dunque, distinto dalla categoria morale dell’egoismo, è quel modo di vedere e di vivere che procede dalla rappresentazione dell’identità personale del singolo come costituita a monte rispetto a ogni suo rapporto sociale»: G. ANGELINI, Il figlio, una benedizione, un compito, Milano 1991, 88.


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Ripensare il significato della vita oggi significa fare realisticamente i conti con i propri limiti e le proprie possibilità. Riconoscere i propri limiti, oltre ad essere segno di vera maturità umana, è anche condizione per poter mettere a frutto, in modo corretto ed efficace, le proprie possibilità in termini pienamente umani. Nell’odierno sistema scientifico-tecnologico è stato seriamente compromesso il valore della costante “Uomo”, indispensabile per ricercare e conservare l’equilibrio dell’intera società. Soltanto dalla ricerca di questa costante si può riscoprire il senso dei limiti e ricavare anche la nostra responsabilità nei suoi riguardi. «È necessario trasformare il sistema scientifico-tecnologico chiuso, oggi prevalente, in un sistema aperto, in cui il vero valore “Uomo” è riconosciuto e, quindi, la sua dignità e i suoi diritti, ma anche la sua responsabilità e i suoi doveri. Soltanto in questo modo la scienza, la tecnologia e la medicina in particolare, possono trovare il modo di rispondere alle esigenze di ogni persona umana, decidendo quando e in quale forma questo o quel comportamento è eticamente corretto, e creare così un vero progresso sociale»10.

CONCLUSIONE In una sua lucida pagina, Romano Guardini ha scritto che «l’uomo è inviolabile non già perché vive e ha quindi “diritto alla vita”. Un simile diritto l’avrebbe anche l’animale, perché anch’esso vive […]. Ma la vita dell’uomo non può essere violata perché l’uomo è persona. Persona non è un che di natura psicologica, ma esistenziale. Nel suo fondamento non dipende da età, condizioni fisicopsichiche o doti naturali, ma dall’anima spirituale che è in ogni uomo»11.

10

A. SERRA, Le prospettive eugeniche della riproduzione tecnicamente assistita. La diagnosi genetica reimpianto, in J. DE DIOS VIAL CORREA – E. SGRECCIA, La dignità della procreazione umana e le tecnologie riproduttive. Aspetti antropologici ed etici. Atti della Decima Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (20 – 22 febbraio 2004), Città del Vaticano 2005, 139. 11 Il diritto alla vita prima della nascita, Vicenza 1985, 19-20.


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Il panorama antropologico ci si presenta come segnato da un vasto e accentuato pluralismo: le visioni dell’uomo sono molte, sono diverse, talvolta così diverse da risultare contraddittorie. È allora inevitabile che al pluralismo antropologico faccia seguito il pluralismo etico. Per questo si potrebbe parlare non tanto di “bioetica” al singolare, quanto invece di “bioetiche” al plurale. Questo stesso pluralismo racchiude una significativa sollecitazione: proprio perché riguarda l’uomo — nella questione fondamentale e fondante della sua vita — il pluralismo chiede a tutti coloro che hanno a cuore “la sorte” e dunque il senso e il destino dell’uomo come tale, di incontrarsi, di confrontarsi, di dialogare tra loro sui più diversi problemi della bioetica. Non è possibile applicare all’uomo le biotecnologie prescindendo da considerazioni etiche. Oggi la scienza non può non interrogarsi sull’impatto e l’incidenza che ogni nuova conoscenza ha sull’umano e sull’insieme della vita. Noi non possiamo certo rinunciare alla libertà della scienza, ma la scienza non può prescindere dal legame che ha ogni nuova conoscenza con l’insieme della realtà. Non può non interrogarsi sull’impatto del sapere scientifico sull’uomo. In una società pluralista è legittimo che vi siano tanti punti di vista e tante opinioni differenti, ma tutti hanno il dovere di interrogare la coscienza e la ragione e domandarsi qual è il minimo etico al di sotto del quale si va contro i valori essenziali per ogni persona. L’etica non vuole ostacolare il progresso scientifico, anche in campo medico, ma le suggerisce gli orientamenti davvero umani verso cui muoversi e i “paletti” al di là dei quali andare diventerebbe assai rischioso: la medicina non può essere considerata una scienza fine a se stessa, ma ha da mettersi al servizio della persona e perciò non può non rispettarne la dignità, la libertà, la sua verità integrale. Questa responsabilità diventa enorme quando si tocca l’ambito della generazione della vita umana. L’uomo deve guardarsi costantemente dalla tentazione di fare della sua ricerca un valore assoluto, perché questa può conservare il suo significato veramente e pienamente umano solo e nella misura in cui si pone al servizio della persona e della vita che, tramite la scienza e le tecnologie, si è chiamati responsabilmente a proteggere e a far crescere. Certamente anche leggi buone e tempestive possono aiutare, ma la scienza corre oggi più veloce dei parlamenti. Si esige quindi un soprassalto


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di coscienza e un di più di buona volontà per far sì che l’uomo non divori l’uomo, ma lo aiuti e lo promuova. In tutta questa materia occorre che ciascuno faccia la sua parte: gli scienziati, i tecnici, le università e i centri di ricerca, i politici, i governi e i parlamenti, l’opinione pubblica e anche i credenti. Per quanto riguarda la Chiesa, è importante sottolineare soprattutto il suo compito formativo. Essa è chiamata a formare le coscienze, a insegnare il discernimento del meglio in ogni occasione, a dare le motivazioni profonde per le azioni buone. A mio avviso non serviranno tanto i divieti e i no, soprattutto se prematuri, anche se bisognerà qualche volta saperli dire. Ma servirà soprattutto una formazione della mente e del cuore a rispettare, amare e servire la dignità della persona in ogni sua manifestazione, con la certezza che ogni essere umano è destinato a partecipare alla pienezza della vita divina e che questo può richiedere anche sacrifici e rinunce. Ritroviamo qui, con un’urgenza particolarmente forte, la necessità del dialogo. Ovviamente un dialogo destinato a far sì che la conoscenza reciproca possa condurre a una convergenza, anzi a una condivisione più o meno ampia, come premessa per una prassi sempre più comune e condivisa. È opportuno qui citare, a conclusione, un passo della lettera enciclica di Giovanni Paolo II dedicata al tema della vita: «La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve forza e luce straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. Nella vita c’è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti»12.

12 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium Vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana (25.01.1995), 101.



CONCLUSIONI

Il dibattito sulle cellule staminali, sulla procreazione assistita e sul valore della vita che nasce, dalle relazioni che abbiamo ascoltato, si presenta molto acceso e controverso. Il disaccordo non riguarda, in verità, gli scopi della ricerca, poiché in merito esiste un vasto consenso. Si tratta di finalità che coincidono con uno dei compiti fondamentali della medicina: guarire gli esseri umani nel modo più efficace possibile. La divergenza riguarda la provenienza embrionale di alcune linee cellulari e certi aspetti delle metodologie di derivazione. Si ritiene che due affermazioni sono determinanti in tale questione: l’embrione è un essere umano con potenzialità di sviluppo (e non un essere umano potenziale); l’embrione, come ogni essere umano, ha diritto alla vita. Per un’adeguata comprensione, non si tratta di proiettare nell’embrione l’idea di persona fatta e finita, ma nemmeno di coltivare un’idea di persona che possa prescindere da quest’inizio. Il legame tra embrione e persona va considerato come un processo unitario, dinamico e continuo, tanto che il rispetto che si deve all’embrione è rispetto alla persona umana nelle sue diverse fasi, a cominciare dal concepimento. La soluzione della controversia sulla sperimentazione degli embrioni umani varia a seconda della posizione assunta: alcuni, infatti, affermano che l’embrione umano è un essere umano a partire dal momento della fecondazione; altri che non è possibile dirimere facilmente la controversia in materia, ritenendo che l’embrione meriti una tutela crescente proporzionale al suo sviluppo. L’ampiezza e la radicalità di tale dibattito nasce da un dissenso che ha la sua radice in convinzioni antropologiche filosoficamente e/o religiosamente fondate. È rilevabile un valore unanimemente condiviso che è il rispetto dovuto alla vita umana. Non vi è chi non accetti questo principio, anche se poi esiste una diversità sui modi concreti di manifestare tale attenzione nelle circostanze reali della vita.


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La saggezza e la prudenza, che vengono da più parti invocate, dovrebbero essere fatte proprie particolarmente dagli scienziati e dai teologi. È necessario che la riflessione etica sia intesa non solo come mero ragionamento volto alla soluzione dei casi difficili che i progressi della biomedicina rendono sempre più numerosi, ma come criterio di senso che si ponga in modo critico e costruttivo nei confronti della ricerca scientifica e delle sue applicazioni per l’uomo. Questo criterio di saggezza e di prudenza comporta la risposta alla domanda del “come si agisce”, del “perché si agisce” e soprattutto “se sia lecito farlo”. La giustificazione “terapeutica” delle attività della scienza è senza dubbio importate ma non possiede il carattere della giustificazione assoluta. Curare è certamente una delle pratiche più nobili dell’umanità. Ma curare vite umane ledendo o al limite sopprimendone altre, qualunque sia lo stadio della loro evoluzione, è un principio da rifiutare. Gli scienziati si trovano oggi di fronte a questa scelta: proseguire in sperimentazioni che mirano ad un promettente futuro per l’umanità sotto il profilo della conoscenza scientifica e di eventuali applicazioni biotecnologiche, ma che richiedono la manipolazione e la soppressione di innumerevoli vite umane nelle prime fasi del loro sviluppo; ovvero avvalersi di altri metodi, già concretamente disponibili o in fase di ricerca, che non ledendo alcun principio etico, si possano ritenere ancora più utili ed efficaci per l’obiettivo finale delle sperate applicazioni terapeutiche. La rinuncia all’uso delle cellule staminali embrionali non comporta alcuna reale limitazione nelle prospettive scientifiche e terapeutiche ed obbedisce ad una esigenza bioetica irrinunciabile. Come scienziati, come teologi e uomini di cultura non possiamo accettare che il dibattito in corso si riduca ad una contrapposizione tra fede e scienza o fede e ragione o cattolici e laici. Il problema interroga prima di tutto la ragione. Il riconoscimento dell’embrione umano come individuo personale è frutto della ragione umana, che segue una riflessione di natura antropologica ed etica a partire dai risultati scientifici, empiricamente dimostrati. La prima ragione morale consiste nel bene oggettivo dell’essere umano, a cominciare da quella fase iniziale dello sviluppo su cui si tenta di intraprendere la ricerca. Il bene dell’uomo predomina su ogni tipo di riflessione addotta,


Conclusioni

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perché questa ha sempre in primo piano la salvaguardia della dignità dell’embrione. Siamo anche in presenza di due diritti che spesso vengono comparati: il diritto dei malati ad essere curati ed il diritto degli embrioni alla vita, l’uno non si contrappone all’altro ma il riconoscimento della dignità dell’embrione come individuo umano pone il malato e l’embrione ad una parità etica. Non possiamo negare la speranza, insita in ciascuno di noi, di poter superare le difficoltà incontrate fino adesso nella ricerca per debellare le malattie non facilmente guaribili, intraprendendo i tentavi più disparati e percorrendo tutte le strade, eticamente possibili, che il ragionamento scientifico pone innanzi. La via delle cellule staminali da tessuto adulto (o da cordone ombelicale o da tessuto fetale proveniente da aborto o da riprogrammazione delle cellule adulte), essendo priva di questioni etiche, è rispettosa insieme delle aspettative dei malati e dell’incondizionata dignità dell’uomo. Il problema ricade nella sfera filosofico-antropologica, in cui la speranza ha il compito di rendere possibile un futuro per l’umanità, attraverso quelle capacità che Dio ha concesso a ciascun uomo. Però la questione della speranza e, connessa ad essa, quella del futuro assumono dei connotati più ampi tanto da diventare la questione del senso della vita in questo mondo. Nell’ambito delle biotecnologie la ricerca e gli scienziati, che la portano avanti, non escano fuori da questa prospettiva, infatti se è vero che la sperimentazione segue dei protocolli tecnici ben prefissati non si può negare che anche in laboratorio ci siano delle scelte di ordine morale da fare. La speranza è tradita quando si rinviano o si negano totalmente le domande di giustizia, di pace e di salvaguardia dell’uomo e del creato. La volontà deliberata del ricercatore — che è chiamato a scegliere come oggetto della propria attività di ricerca ciò che è «conforme al bene della persona nel rispetto dei beni per essa moralmente rilevanti»1 — non potrà non rivolgersi anzitutto verso quella via di indagine conoscitiva che

1 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Veritatis Splendor (06.08.1993), 78, in AAS 85 (1993) 1133-1228.


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prevede l’isolamento e la manipolazione delle cellule staminali umane da adulto. L’uso di queste cellule non rappresenta un limite alla ricerca scientifica ma un trionfo della ragione umana, che discerne il bene dell’uomo attraverso gli occhi della fede, capace di salvare il principio della vita e quello della ricerca. Una celebre massima di Epicuro recita così: L’ingegno non è sapienza. Potremmo aggiungere che l’ingegno non coincide con la sapienza quando non è a servizio dell’uomo, della sua dignità ed integrità personale, quando non si pone nella prospettiva del rispetto della vita e della sua intrinseca finalità al bene, quando è mezzo di una scienza che percorre l’indiscriminata strada dei profitti. L’ingegno del ricercatore non è sapienza quando non riconosce negli embrioni cellule che sono persona. Antonino Sapuppo


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«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma


A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento


R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite Synaxis XXV/2 - 2007

«Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia» M. GUASCO, Evoluzione dei modelli di prete nella storia recente G. RUGGIERI, Nuovi modelli di clero? Le sfide attuali A. NEGLIA, Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia. Le sfide attuali C. LOREFICE, La forma “cristica” di una figura “a-tipica”: Pino Puglisi


Collane di Synaxis «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312 AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2006, pp. 424 AA. VV., Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 312 AA. VV., Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, Giunti, Firenze 2007, pp. 240


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288. P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158. A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524. G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418. A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032.


G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240. F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168. F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo morte, Giunti, Firenze 2006, pp. 240.

II

e la

G. SCHILLACI, Essere come dis-inter-esse. Dalla corporeità alla carità, Giunti, Firenze 2006, pp. 120. L. SARACENO, La vertigine della libertà. L’angoscia in Sören Kierkegaard, Giunti, Firenze 2006, pp. 216. F. CONIGLIARO, Proceduralità e trascendentalità in J. Habermas. Una tensione non-contemporanea e il suo significato antropologico, etico e politico, Giunti, Firenze 2007, pp. 360. A. MINISSALE, Bibbia e dintorni. Saggi esegetici e scritti d’occasione, Giunti, Firenze 2007, pp. 384. Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168. A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.


QUADERNI DI SYNAXIS 17

LA BIBBIA LIBRO DI TUTTI? Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalle Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania (3-4 aprile 2003)

a cura di GIUSEPPE RUGGIERI

G. RUGGIERI, Premessa • J.-L. SKA, La bibbia un libro aperto o sigillato? • R. ANTONELLI, Leggere la Bibbia • G. RUGGIERI, La Bibbia libro di tutti? • A. SOMEKH, La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista dell’ebraismo • F. KABBAZI, Il Corano libro esoterico? • A. MINISSALE, La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del cattolicesimo • S. ROSTAGNO, La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del protestantesimo • B. CLAUSI, L’esegesi patristica. Un percorso di lettura • C. MARTELLO, Allegorismo e saperi profani nell’esegesi esamerale del XII secolo • N. MINEO, Lettura dell’ “Inno ai Patriarchi” di Giacomo Leopardi • G. PERSICO, Rivisitazioni bibliche e pratica tipologica nella letteratura vittoriana • G. PULVIRENTI, Apocalisse e utopia nella lirica espressionista tedesca • G. SCHILLACI, Dirsi nell’umiltà della Parola


QUADERNI DI SYNAXIS 18

EUPLO E LUCIA 304-2004 Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia Atti del Convegno di Studi organizzato dall’Arcidiocesi di Catania e dall’Arcidiocesi di Siracusa in collaborazione con Facoltà di Lettere e Filosofia, Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Catania Associazione Internazionale di Studio su Santità Culti e Agiografia Studio Teologico S. Paolo Catania-Siracusa 1-2 ottobre 2004 a cura di TERESA SARDELLA – GAETANO ZITO S. PRICOCO, Introduzione • F.P. RIZZO, Il Cristianesimo siciliano dei primi secoli. Ruolo primario delle Chiese di Siracusa e di Catania tra III e IV secolo • V. GROSSI, La letteratura martiriale nella storiografia patristica • A. DI BERARDINO, Il modello del martire volontario • R. BARCELLONA, Leggende gregoriane su santi siciliani • F. SCORZA BARCELLONA, La passione di Euplo nella storiografia ecclesistica e regionale • C. CRIMI, S. Agata a Bisanzio nel IX secolo. Rileggendo Metodio patriarca di Costantinopoli • A. HEINZ, Agata, Lucia ed Euplo nella tradizione liturgica medievale • A. CAMPIONE, La Sicilia nel Martirologio Geronimiano • G. OTRANTO, La Sicilia paleocristiana nei concili di III-IV secolo • T. SARDELLA, Roma e la Sicilia nella promozione del culto dei santi siciliani: il pontificato di Simmaco • A. ACCONCIA LONGO, Santi siciliani di età iconoclasta • R. GRÉGOIRE, I testi agiografici: tra fonti bibliche, relazioni con ebraismo ed islamismo, ed influssi eterodossi • F. RIZZO NERVO, Lucia nelle altre vite di santi • R. OSCULATI, “Lege vitas sanctorum”: Cornelio a Lapide, il Nuovo Testamento e il martirio spirituale • B. BERTOLI, Il corpo di santa Lucia a Venezia • A. MILANO, Conclusioni


QUADERNI DI SYNAXIS 19

IO SONO L’ALTRO DEGLI ALTRI L’ebraismo e il destino dell’Occidente a cura di GIUSEPPE RUGGIERI

G. RUGGIERI, Io sono l’altro degli altri: introduzione alla lettura • M. MORIGGI, Le prescrizioni alimentari ebraiche • T. SARDELLA, Gerarchie e identità religiose

nei

primi

secoli

dell’era

cristiana:

cristianesimo

e

ebraismo • M. MORSELLI, La Qabbalah di Elia Benamozegh, un maestro dell’ebraismo sefardita e italiano • G. PULVIRENTI, Una smorfia grottesca nella Vienna ebraica • B. MAJ, Scrittura e teologia. Il “caso Kafka” nel confronto Scholem-Benjamin (1933-1938) • R.M. MONASTRA, L’ebreo nella letteratura italiana: appunti in margine a due testi di metà Ottocento • E. CRISTOFARO,

Una

figura

paradossale

della

legge:il

DE

Diritto

razzista• G. SPECIALE, Giudici e razza negli anni della discriminazione. Voci dalle sentenze (1938-1942) • F. GIOVIALE, “Un vivo che passa”. Nozioni e implicazioni su Shoah e cinema (a proposito di Polanski) • R. OSCULATI, Razionalità filosofica, mito religioso, esperienza umana in Hermann Cohen • G. RUGGIERI,

L’essenza

del

giudaismo

secondo

Franz

Rosenzweig • G. SCHILLACI, Ebraismo e cristianesimo in Emmanuel Levinas • F. MIGLIORINO, Di una postfazione affidata alle scritture sapienti di Franz Rosenzweig


QUADERNI DI SYNAXIS 20

REPRAESENTATIO Sinodalità ecclesiale e integrazione politica Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania Catania 21-22 aprile 2005 a cura di ADOLFO LONGHITANO

A. LONGHITANO, Introduzione • A. GANGEMI, Il concilio di Gerusalemme in At 15,1-35 e le tradizioni giudaiche • V. PERI, Carattere storico delle istituzioni, funzioni e concezioni sinodali • O. Condorelli, Sinodalità, consenso, rappresentanza: spunti ricostruttivi nel pensiero canonistico e teologico medievale (secoli XII-XV) • A. Lupano, Tra Chiesa e Stato assoluto: la sinodalità nel giurisdizionalismo subalpino • E. Castorina, Le “dimensioni” della rappresentanza politica (crisi della sovranità nazionale e nuovi percorsi istituzionali) • A. Cariola, La regola di maggioranza • N. Parisi, Rappresentanza e rappresentatività nell’Unione europea. La difficile via dell’Organizzazione alla legittimazione democratica • A. Bettetini, Formazione della volontà collegiale, principio democratico e verità nel diritto della Chiesa • A. Longhitano, «Repraesentatio» e partecipazione nell’ordinamento diocesano • N. Capizzi, La struttura sinodale nelle chiese luterane. Il caso della Baviera • G. RUGGIERI, «Communio» e «repraesentatio»


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