Synaxis 27 2 (2009) - quaderni 23

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QUADERNI DI SYNAXIS 23 SYNAXIS XXVII/2 – 2009

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



DEFINITIVITÀ DELLE SCELTE NELLA CHIESA, OGGI Colloqui Interdisciplinari organizzati dallo Studio Teologico S. Paolo negli anni accademici 2007-2008 / 2008-2009

a cura di EGIDIO PALUMBO E VITTORIO ROCCA



SOMMARIO

INTRODUZIONE (Egidio Palumbo – Vittorio Rocca) .

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ORIENTARSI PER SCELTE DEFINITIVE. INFLUSSI E CONDIZIONAMENTI DEL CONTESTO SOCIO-CULTURALE ODIERNO (Antonino Crimaldi) . . . . . . . 11 QUALE MATURITÀ UMANA E SPIRITUALE OGGI PER UNA SCELTA DEFINITIVA. CRITERI DI ORIENTAMENTO E POSSIBILI ITINERARI DI FORMAZIONE (Giuseppe Buccellato) . . . . . . . 33 Premessa . . . . . . . . 33 1. Elementi e indicazioni per una maturità umana e spirituale . 35 2. Criteri di orientamento . . . . . 44 3. Conclusione: indicazioni generali per un itinerario formativo . 50 MUTABILITÀ E IMMUTABILITÀ DI DIO (Francesco Conigliaro) . . . Premessa . . . . 1. Prospettiva cristologica . . 2. Il divenire in Dio . . . Conclusione . . . .

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LA QUESTIONE OGGI DELLA MOBILITÀ DEI VESCOVI E DEI PARROCI. RIFLESSIONE GIURIDICO-STORICO-TEOLOGICA (Adolfo Longhitano) . . . . . . . . 119 1. Il vincolo indissolubile che lega i ministri alla propria Chiesa nell’antica disciplina . . . . . . 119 2. La svolta del periodo feudale . . . . . 123


3. Il romano pontefice unico arbitro della nomina e del trasferimento dei vescovi . . . . . . 4. Dalla parrocchia/beneficio alla parrocchia/comunità: il diverso significato della inamovibilità dei parroci . . . 5. La soluzione contraddittoria della Commissione di riforma del CIC . . . 6. Prospettive di revisione delle norme canoniche . . .

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CRITERI DI DISCERNIMENTO E SUGGERIMENTI PER L’ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE VERSO UNA SCELTA DEFINITIVA OGGI (Giuseppe Buccellato) . . . . . . . 137 Premessa . . . . . . . . 137 1. Riferimenti prioritari e criteri per l’“accompagnamento spirituale” . . . . . . . . 139 2. Il difficile compito dell’accompagnamento spirituale . . 155 Conclusione . . . . . . . . 159 SCELTA DEFINITIVA E FEDELTÀ NEL MATRIMONIO CRISTIANO (Vittorio Rocca) . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . 1. Situazione odierna. . . 2. Un amore fedele . . . . . . . Conclusione . . . . . . . .

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SCELTA DEFINITIVA E FEDELTÀ NEL MINISTERO ORDINATO (Salvatore Consoli) . . . . . . . . Premesse . . . . . . . . I. Scelta definitiva . . . . . . . Sed contra … a proposito di scelta fatta per sempre . . II. La fedeltà . . . . . . . . Sed contra … a proposito di fedeltà . . . . .

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SCELTA DEFINITIVA E FEDELTÀ NELLLA VITA CONSACRATA (Egidio Palumbo) . . . . . . . . 1. Fedeltà creativa e dinamica del carisma dei fondatori/trici. . 2. Stabilità, itineranza, dispersione apostolica . . . 3. Essere segno di gratuità sovrabbondante . . .

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INTRODUZIONE

Le relazioni raccolte in questo volume sono state presentate e discusse in un ciclo di Colloqui Interdisciplinari organizzati dallo Studio Teologico S. Paolo di Catania nel corso degli anni accademici 2007-2008, 2008-2009. L’intento è stato quello di studiare, con metodo e stile interdisciplinari, il significato di una scelta definitiva nella Chiesa oggi, quali le implicazioni culturali, spirituali, teologiche e giuridiche, e quali i percorsi di discernimento e di accompagnamento per favorire una scelta stabile e duratura nel tempo. Abbiamo voluto fare un percorso di riflessione in tre tappe. Nella prima tappa abbiamo analizzato la situazione del nostro tempo. Siamo partiti, con lo studio del prof. Antonino Crimaldi, dall’analisi del contesto socio-culturale contemporaneo, dai più definito come “post-modernità”, evidenziando come esso, caratterizzato dalla spettacolarità delle emozioni, dalla paura e dalla precarietà, influisce e condiziona, positivamente e negativamente, a seconda delle situazioni, l’orientamento e il discernimento verso scelte di vita. Questo pone un problema formativo serio per le giovani generazioni, problema che lo studio del prof. Giuseppe Buccellato sdb ha focalizzato molto bene, tracciando possibili criteri di orientamento e itinerari di formazione per l’oggi che accompagnino la persona, e il giovane in particolare, ad acquisire motivazioni solide e profonde quando è chiamato a compiere una scelta di vita. Nella seconda tappa si sono messi a tema alcune questioni di natura biblico-teologica, giuridico-storico-teologica e teologico-spirituale. Per quanto riguarda la riflessione biblico-teologica, lo studio chiaro e denso del prof. Franco Conigliaro evidenzia come il discorso sulla mutabilità e immutabilità di Dio, assumendo la prospettiva biblica, non può non tener conto dell’evento Cristo Gesù, il “Figlio diventato Figlio nel divenire della storia”, poiché è Cristo Gesù l’esegesi di


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Egidio Palumbo ocarm – Vittorio Rocca

Dio Padre, è in Lui che si rivela e si dona Dio Trinità, è attraverso di Lui che Dio Trinità entra in rapporto con le creature umane, e tale rapporto crea mutamento in Dio e nelle relazioni intratrinitarie, mutamento motivato dalla libertà e dall’amore. Con lo studio del prof. Adolfo Longhitano, attraverso una puntuale analisi giuridica e storico-teologica, si mette in risalto la problematica della mobilità dei vescovi e dei parroci, evidenziandone le contraddizioni emerse lungo la storia fino ad oggi, e avanzando una proposta di revisione delle norme canoniche, affinché tengano conto sia della teologia del ministero ordinato in stretta connessione con la teologia della Chiesa locale, sia della necessità di recuperare, a tutti i livelli, la dimensione sinodale della Chiesa, e ciò per garantire il principio di stabilità nel ministero dei vescovi e dei parroci e un vero coinvolgimento della diocesi e della parrocchia nella nomina e nel trasferimento del proprio vescovo o del proprio parroco. Con lo studio del prof. Giuseppe Buccellato sdb andiamo sul versante teologico-spirituale, dove con competenza, e in continuità con la sua relazione dettata nella prima tappa di questo nostro Colloquio interdisciplinare, vengono tracciati alcuni criteri fondamentali per saper discernere nella persona la retta intenzione, l’autenticità delle motivazioni e la capacità di realizzare l’armonia tra il valore scelto e le motivazioni di fondo; e inoltre si esplicita il compito dell’accompagnamento spirituale attraverso quattro funzioni complementari: oggettivante, di confronto, pedagogica e stimolatrice. Nella terza tappa si è preso in considerazione il vissuto cristiano. Con gli studi dei proff. Vittorio Rocca, Salvatore Consoli ed Egidio Palumbo ocarm, rispettivamente sul matrimonio, sul ministero ordinato e sulla vita consacrata, si è voluto evidenziare come queste tre forme di vita cristiana nella Chiesa, ognuna a suo modo, declinano la fedeltà ad una scelta definitiva. L’analisi di queste forme di vita dal punto di vista del loro vissuto, non esente certo da drammi e lacerazioni, chiede alla persona una fedeltà che sia creativa e non passiva, ripetitiva e omologante; ovvero una fedeltà capace di creare e sostenere relazioni umane autentiche e durature nel tempo, relazioni che riguardano nel concreto sia le dinamiche interne ed esterne della


Introduzione

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comunità familiare e delle comunità di vita consacrata, sia quelle dei presbiteri con la loro comunità ecclesiale. Quali consapevolezze emergono dal Colloquio? Innanzitutto, parlare di “definitività delle scelte” significa evocare il “per sempre” di una scelta e la fedeltà nel mantenerla per tutta la vita. In sede teologica dobbiamo affermare che il “per sempre”, la “fedeltà”, appartiene innanzitutto a Dio. La fede biblica attesta che Dio è il «fedele per sempre» alle sue promesse (cfr. Sal 146,6; Es 34,6; Dt 7,9; 1Cor 10,3), la sua Alleanza è «Alleanza per sempre» (Sal 111, 9); e Cristo Gesù è riconosciuto come il Testimone Fedele del Padre (cfr. Ap 1,5; 3,14): la sua testimonianza, comunicata in parole e opere e nel suo stesso stile di vita, è la stessa ieri, oggi e sempre (cfr. Eb 13,8). In una parola: solo il Dio d’Israele, il Dio di Gesù Cristo sa compiere e mantenere scelte definitive. Questo vuol dire che per il credente nel Dio di Gesù Cristo la fedeltà è un dono di Dio e del suo Spirito. Noi credenti possiamo essere fedeli nelle nostre scelte, se Dio “si fidanza con noi nella fedeltà”, se si lega indissolubilmente a noi, creature deboli e fragili, nella sua fedeltà (cfr. Os 2,22), se ci è donato lo Spirito il cui frutto è la fedeltà scaturita dall’amore (cfr. Gal 5,22). I credenti nel Dio di Gesù Cristo, i “fedeli” (cfr. At 10,45; 2Cor 6,5; Ef 1,1), sono capaci di fedeltà e di vivere scelte stabili e definitive, nella misura in cui sono capaci di accogliere e vivere creativamente, nel divenire e nelle temperie culturali della storia umana, il dono della fedeltà di Dio. Per il cristiano, allora, la fedeltà di Dio è paradigmatica: diventare “imitatori di Dio” (cfr. Ef 5,1; Mt 5,48; 1Pt 1,15), indica che il paradigma e la sorgente del nostro modo di essere fedeli sta in Dio e nel modo con cui Dio manifesta la sua fedeltà. Tuttavia, va anche detto, che accogliere il dono della fedeltà di Dio non elude ma esige la fatica del discernimento evangelico, del decentramento di sé, del confronto con altri, dell’analisi, e infine della decisione. Sta qui, in fondo, il senso di questo Colloquio Interdisciplinare. Inoltre, un’attenzione particolare — visto anche l’attuale ricorrenza dell’Anno Sacerdotale — va riservata alla mobilità “incontrollata” dei vescovi e dei parroci: se è finalizzata ad una promozione o


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Egidio Palumbo ocarm – Vittorio Rocca

avanzamento di carriera — e non poche volte lo è — e non al bene pastorale delle persone e della comunità, allora il ministro ordinato rischia di essere svincolato dal legame, di natura tutta teologica, con la sua comunità e ridotto a semplice delegato o funzionario del suo superiore diretto. Sarebbe un atto di infedeltà al suo ministero. Infine, un’altra consapevolezza: esiste un “vuoto” secolare che sta all’origine del nostro diventare cristiani, ovvero non c’è il cammino di una scelta personale, ma normalmente l’omologazione culturale ad un costume, ad un ethos. Da secoli facciamo l’esperienza al contrario di quello che affermava Tertulliano: vale a dire ormai per noi “cristiani si nasce, non lo si diventa”. Da secoli nelle nostre comunità ci manca — ecco il “vuoto” — l’esperienza catecumenale dell’iniziazione cristiana. E questo vuol dire che diventare cristiani non è considerata la vocazione fondamentale e originaria, la radice di ogni altra vocazione, carisma e ministero nella Chiesa, perché il cristianesimo è stato ridotto ad ethos, a cultura, a civiltà: se si nasce in occidente, di fatto si nasce cristiani, non lo si diventa. E allora, dove sta qui la fatica della conversione e dell’adesione libera, consapevole e matura alla vivendi forma di Cristo Gesù? Se all’origine del nostro essere cristiani non sperimentiamo la fatica della scelta, come saremo capaci di compiere responsabilmente altre scelte fondamentali che sono profondamente vocazionali e che impegnano la nostra esistenza? Come potremo compiere una scelta definitiva nella Chiesa, se già all’origine del nostro inserimento in Cristo e nella Chiesa non siamo educati a scegliere? Forse anche da qui nasce tanta superficialità e instabilità, psicologica e spirituale, nel vivere con fedeltà la propria scelta vocazionale nel matrimonio, nel ministero ordinato e nella vita consacrata. Egidio Palumbo ocarm – Vittorio Rocca


ORIENTARSI PER SCELTE DEFINITIVE. INFLUSSI E CONDIZIONAMENTI DEL CONTESTO SOCIO-CULTURALE ODIERNO

ANTONINO CRIMALDI*

Prima di affrontare l’argomento sul quale mi è stato proposto di soffermarmi e di richiamare l’attenzione, vorrei fare qualche precisazione circa il significato del termine “condizionamento”, che figura nel titolo assegnato al tema di cui siamo invitati a discutere. Nell’accezione comune, esso viene solitamente inteso come “condizionamento in negativo” e viene usato per indicare un insieme di fattori ostativi, di fattori costituenti un ostacolo, un impedimento, un freno, una remora, una seria difficoltà, una forte inibizione ad acquisire, ottenere, realizzare, raggiungere qualcosa che si ritiene desiderabile e auspicabile. Io suggerisco, invece, di adoperarlo in una accezione neutra, in una accezione “aperta”, adatta sia a designare influssi negativi, sia a designare influssi positivi. Sono stato anche tentato di sostituirlo con un sinonimo, con il termine “condizionalità”, prendendolo in prestito da Pareyson, il quale, però, se ne serve per sottolineare la condizionalità storico-temporale della filosofia. Non ho ritenuto opportuna la sostituzione, perché anche la nozione di uso comune si presta benissimo a custodire l’ambivalenza di senso che mi sta a cuore segnalare. E voglio rimarcarla, questa ambivalenza, per non dare per scontato ciò che scontato non è, vale a dire, il fatto che il contesto socio-culturale odierno, al quale si addebita ogni sorta di negatività, individualismo, consumismo, carrierismo, cinismo, amoralismo e immoralismo o, per elevare il livello delle rimostranze, relativismo, scetticismo, soggettivismo *

Docente di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.


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Antonino Crimaldi

ecc., (non nomino, di proposito, il nichilismo: è un problema troppo serio e troppo attinente alla condizione umana per concedere facoltà a chicchessia di spacciarlo, in maniera strumentale, come fenomeno degenerativo di un’intera cultura e, segnatamente, dell’intera cultura dell’Occidente) non consenta alcuna scelta definitiva di vita, alcuna opzione fondamentale a favore di modalità d’esistenza volte a incarnare e perseguire stabilmente ideali e valori morali considerati intrinsecamente validi e, dunque, sommamente desiderabili. È, infatti, opinione largamente diffusa e condivisa quella secondo cui la nostra epoca sarebbe connotata da una sconcertante e sconfortante insensibilità ai valori morali e alla dimensione religiosa, da una forte preclusione a recepire l’appello del principio di responsabilità, da una radicale avversione ad assumere impegni altruistici che esigano rinunzie, “sacrifici”, mortificazioni delle aspettative dell’ego, in vista del perseguimento di una “buona causa”. Al contrario, senza volere negare l’esistenza di Predisposizioni del genere nella mentalità e nel comune sentire dell’uomo contemporaneo, io sono convinto che l’atteggiamento da assumere nel discernere e nell’analizzare le linee di tendenza e la sensibilità collettiva del contesto socio-culturale odierno, debba essere quello di considerarlo, appunto, un contesto che racchiude in sé tutte le caratteristiche di una condizionalità storico-temporale, cioè di una condizionalità, per definizione ambivalente. Da un lato, esso è la nostra “seconda natura” in quanto è ambito di inserimento della vita individuale e collettiva non scelto, ma ereditato; in quanto è punto (provvisorio) d’arrivo di una determinata evoluzione storica; in quanto è regolato e orientato da determinati sistemi di valore, a loro volta selezionati da e nel processo storico; in quanto è prodotto e produttore di determinate forme di coscienza sociale e prodotto-produttore di universi simbolici e linguistici peculiari e necessari a esprimere le molteplici immagini che si “costruisce” di se stesso. Dall’altro, il contesto culturale odierno è anche un “regno della libertà” poiché apre agli individui e ai gruppi umani, in esso inseriti, prospettive, possibilità nuove, opportunità nuove e occasioni di crescita e di miglioramento delle condizioni di vita materiali e spirituali sconosciute alle epoche precedenti, spazi di emancipazione ignoti o ignorati nel passato anche recente. Il mondo contemporaneo produce e appresta risorse intellet-


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tuali, culturali, scientifiche, tecnologiche e umane tali da agevolare, per chiunque sia disposto ed educato a usufruirne con saggezza e accortezza, la libera espansione della personalità, il libero gioco delle iniziative e l’affinamento delle facoltà e delle attitudini umane. Naturalmente, là dove si dilata a dismisura l’ambito del possibile e del realizzabile, là dove è incrementata la disponibilità di mezzi e di risorse, là dove si allontanano i confini della necessità e dell’inevitabile e si amplia lo spazio del libero disporre di sé, si avvicinano e si moltiplicano i rischi del fallimento umano. Si può cedere, così, alla logica dell’accaparramento; si può incorrere in egoismi individuali e collettivi senza freni, in una chiusura narcisistica dell’io; si può attivare la dinamica perversa di un individualismo spietato; la voglia patologica di esaurire ogni progettualità nella immediata fruizione dell’attimo, del presente, perdendo la capacità di sperare e di costruire il futuro. Ma sarebbe, comunque, utopia regressiva, tentativo deleterio, velleitario e perdente il voler porre l’uomo sotto tutela o il volerlo relegare in una condizione di colpevole minorità, per evitargli di affrontare quello che certamente è l’azzardo dell’esercizio della propria libertà. Sebbene appaia sempre più incombente il pericolo di sostituzione delle vecchie forme di schiavitù con nuove forme di asservimento e benché l’epoca nostra ci dia abbondanti esempi di diffusione e proliferazione di tipologie inedite di alienazione individuale e sociale, nessun riscatto umano potrà mai derivare dal togliere all’individuo il diritto di decidere di sé stesso o dall’imporgli coattivamente il dovere di farsi guidare da autorità esterne alla propria coscienza. È, ancora, da tenere in considerazione, quando siamo mossi dall’intenzione di comprendere i segni e le voci del tempo in cui siamo immersi, un altro aspetto — insito nella comprensione stessa — attinente alla condizionalità storica della nostra esistenza individuale e collettiva: il fatto che, di questi segni, noi cogliamo soltanto una parte, quella per la quale la nostra coscienza attuale nutre interesse e alla quale presta attenzione, mentre di altri segni, più o meno importanti, nulla cogliamo o abbiamo propensione a cogliere. Cogliamo, raccogliamo, del patrimonio d’idee e di valori ereditato dalla nostra tradizione culturale, selezioniamo dal patrimonio d’idee e di valori messo a disposizione dalla nostra cultura soltanto quelle idee e quei valori


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da cui, come individui e come gruppi umani, ci sentiamo attratti e sollecitati o perché, in base alle nostre aspettative e condizioni, preferenze etiche e concettuali, presumiamo di poterne ricavare stimoli al miglioramento della nostra vita, o perché ne riceviamo luce per la soluzione di problemi che si propongono a noi con più urgenza e impellenza; mentre altre idee e valori, forse non meno rilevanti, non meno dotati di validità intrinseca, cadono per noi, nell’oblio, vengono da noi trascurati. È questo il limite ermeneutico di ogni comprensione del mondo messo in rilievo da Emilio Betti con la felice denominazione di “fenomeno di angustia o limitazione dell’orbita della coscienza”1. Ne ho voluto far menzione al solo scopo di invitare alla cautela quando si formulano giudizi critici totalizzanti sull’insieme del contesto storico-culturale odierno e di esortare a non emettere, con toni apocalittici, verdetti di condanna definitivi e generalizzati: qualunque giudizio critico non è paragonabile all’«occhio di Dio che giudica il mondo», è, infatti, un giudizio di parte o parziale che dir si voglia, né può darsi giudizio critico che non sia primariamente e principalmente critico di sé medesimo. Ciò premesso, dividerò il testo del mio intervento in due parti. Nella prima cercherò di mettere in evidenza quei mutamenti della mentalità collettiva che, nella cultura contemporanea sembrano costituire un serio impedimento non solo a praticare, ma anche a propor1

«Vi è un dato di fatto che è stato osservato dapprima dallo Herbart nel campo della psicologia individuale, ma che assume una decisiva importanza anche nella storia dello spirito. È il fenomeno di angustia o limitazione dell’orbita della coscienza, per cui, di tutte le idee e nozioni che ognuno di noi porta in sé e di cui può ricordarsi, solo una piccola parte è presente alla coscienza e illuminata dalla sua luce di momento in momento; e quanto più l’attenzione ne accoglie, sceglie e mette in luce un settore o un aspetto, tanto più se ne offusca correlativamente, o ne ricade nell’ombra un altro settore o un altro aspetto diverso» (E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, a cura di G. Crifò, I, Milano 1990, 16). E aggiunge: «Un fenomeno analogo di limitazione in un ambito od orizzonte più o meno angusto è stato poi segnalato […] nel campo della psicologia di popolo, propriamente nella vita delle comunità spirituali, culturali e politiche, l’interesse delle quali si orienta e si polarizza di volta in volta verso determinate idee, o verso problemi e scopi, che soli divengono fecondi e produttivi, mentre altri corrispettivamente perdono la primitiva attualità, attrattiva ed efficienza» (ibid., 17-18).


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re scelte di vita stabili e definitive. Successivamente, cercherò, invece, di evidenziare se e a quali condizioni si possa oggi auspicare ed esigere responsabilmente opzioni fondamentali di questo genere. Convinto, forse per deformazione professionale, dell’idea che la filosofia sia soprattutto, anche se non unicamente, il “proprio tempo espresso in pensieri” e che, insieme con l’arte e con le altre più elevate manifestazioni dello spirito umano sia l’espressione compiuta della consapevolezza di sé raggiunta da un’epoca, attingerò proprio da Nietzsche, dal filosofo contemporaneo che più di altri ha analizzato e criticato a fondo i valori della cultura dell’Occidente, quelle indicazioni basilari che, a mio parere, possono dare notevole apporto alla comprensione del momento storico culturale attraversato dall’Occidente e, anzitutto dall’umanità europea nel suo complesso. Nietzsche è un autore tanto detestato quanto osannato. Alcune sue diagnosi possono risultare sgradevoli, principalmente per chi si ostina a coltivare certezze illusorie, ma non per questo smettono di rivelarsi in modo sostanziale veridiche nel mettere a nudo le tendenze più profonde e i cambiamenti in atto nel “modo di vedere le cose” tipico dell’uomo contemporaneo. Demonizzarlo o esecrarlo per aver descritto con estrema crudezza la crisi di valori in atto nella nostra cultura è operazione da insipienti e nasconde un atteggiamento non meno infantile di quello di un malato che, ridotto all’inattività dalla sua malattia, se la prende con il medico per averla diagnosticata. Non è colpa di Nietzsche, per esempio, se, come ha notato il compianto Franco Volpi, le chiese in Europa sono deserte. Di Nietzsche non mi propongo di ricordare la celebre nozione della “morte di Dio”, né interessa qui stabilire se Dio sia morto o stia poco bene o sia in ottima salute, o si sia eclissato per poi riapparire o sia scomparso per mai più riapparire. Sono fin troppo persuaso che Dio abbia a disposizione ottimi mezzi per difendersi da solo, se questo vuole, o per farsi presente all’uomo quando vuole e come vuole, o per rendersi “credibile”; non ha bisogno di apologeti, bensì di testimoni, e oltretutto è infinitamente al di sopra di qualunque idea o concetto di Dio messi in circolazione dai suoi difensori d’ufficio. Dall’autore dello Zarathustra voglio, invece, prelevare una indicazione decisiva, quella riguardante il “come il mondo vero è diventato una


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favola”, contenuta nell’omonimo capitolo del Crepuscolo degli idoli 2. Essa costituisce, a mio parere, il tutto di cui l’annuncio della morte di Dio è parte e rappresenta un riferimento obbligato, per quanti, ancora oggi, hanno interesse a comprendere il senso di questo annuncio. Il mondo diventato favola è, per Nietzsche, il mondo delle verità e dei valori assoluti che hanno il loro fondamento nella sfera più elevata dell’essere, caratterizzata di perfezione assoluta, stabilità, immutabilità e mai suscettibile, in quanto in sé perfetta, di alcun incremento o decremento di essere, mai sottoposta al divenire. Al sommo di tale sfera, la tradizione metafisica dell’Occidente ha collocato Dio come principio primo di tutti gli esistenti e come garanzia ultima della verità e del valore morale. Ora, proprio questo mondo, all’umanità europea, si è rivelato per quello che è ed è sempre stato, un’invenzione scaturita dal bisogno ancestrale di sicurezza e di rassicurazione, dal bisogno ancestrale di reperire e dare un senso alla propria vita, bisogno che l’uomo da sempre ha avvertito, essendo calato nella dimensione della finitezza, della contingenza, della casualità ed essendo esposto alla deriva del divenire, alla sofferenza, al dolore. Nietzsche intende così rilevare come, al termine di un lungo processo di debilitazione e graduale delegittimazione, abbia ormai esaurito del tutto la sua forza propulsiva l’impalcatura platonica della concezione dell’essere che ha guidato per millenni la metafisica occidentale, consistente nella contrapposizione tra mondo vero, quello della realtà soprasensibile, perfetta, imperitura, eterna, non sottoposta a mutamento e corruzione, e mondo apparente, o sfera dell’essere mutevole, transitorio, caduco. E, soprattutto, si è esaurita l’esigenza di subordinare quest’ultimo al primo, di regolare il caos dell’esistente e di rendere sensato il divenire tramite la postulazione di un fondamento ultimo delle cose che fosse a un tempo “misura eterna” della realtà sensibile e “misura eterna” di ciò che gli enti “oggettivamente” valgono. La scomparsa del mondo vero segna, per Nietzsche, un mutamento epocale di immane portata e dalle conseguenze imponderabi2 Ma si vedono anche le quattro preposizioni contro la tesi del mondo “vero” contrapposto al mondo reale: F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, nota introduttiva di M. Montanari, trad. it. di F. Masini, Milano 200811, 45.


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li: esso non coinvolge soltanto i ceti intellettuali, ma anche l’uomo comune nel suo modo di vedere e di soppesare le cose. Nietzsche osserva a più riprese che tale mutamento è avvenuto perché, a dare inizio alla genealogia del “mondo vero”, non è stato affatto il bisogno di verità, bensì l’esigenza “umana, troppo umana” di sicurezza e di rassicurazione. Dal momento che, nella società contemporanea, questa esigenza ha trovato e trova altri mezzi per essere soddisfatta, come per esempio il ricorso alla tecnica, il suo appagamento per altre vie avrebbe causato un dirottamento dell’attenzione dall’assoluto al relativo, dal cielo alla terra. La liquidazione del riferimento a verità e valori assoluti, destituiti ormai della loro funzione rassicurante, avrebbe determinato, quindi, il crollo del mondo vero costruito dalla tradizione del pensiero metafisico3. Ma non insisterei più di tanto su tale spiegazione. Il filosofo dell’Oltreuomo è radicale nelle sue affermazioni: egli, infatti, non collega la fine del mondo vero soltanto con l’appagamento del bisogno di sicurezza garantito dagli apparati tecnologici messi a disposizione nella società attuale. Se questa fosse l’unica spiegazione del Fenomeno, si potrebbe anche ipotizzare che l’uomo contemporaneo, una volta sperimentata l’inconsistenza di un simile appagamento (e non occorrono virtù profetiche per prevedere ciò), preso da nostalgia per le verità eterne e i valori assoluti, riacquisti l’antica fede millenaria riposta in essi e vi si affidi con rinnovata adesione. Mi si perdoni, se aggiungo, con un po’ 3 Un ragionamento analogo vale anche per spiegare il fenomeno della morte di Dio. Come osserva Gianni Vattimo: «È noto lo schema del ragionamento di Nietzsche: il Dio della metafisica è stato necessario perché l’umanità si organizzasse una vita sociale organizzata, sicura e non esposta continuamente alle minacce della natura — combattute vittoriosamente con un lavoro sociale gerarchicamente ordinato — e delle pulsioni interne, domate da una morale sancita religiosamente; ma oggi che questa opera di rassicurazione è, sia pure relativamente compiuta, e viviamo in un mondo sociale formalmente ordinato disponendo di una scienza e di una tecnica che ci permettono di stare al mondo senza il terrore dell’uomo primitivo, Dio appare un’ipotesi troppo estrema, barbarica, eccessiva; e per di più quel Dio che ha funzionato come principio di stabilizzazione e rassicurazione è anche quello che ha sempre vietato la menzogna, dunque, è per obbedirgli che i suoi fedeli smentiscono anche quella bugia che lui stesso è: sono i fedeli che hanno ucciso Dio…» (G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, Roma-Bari 20024, 10-11).


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di malizia, che questa sembra essere la speranza non troppo segreta, ma comunque ricattatoria, di certi ecclesiastici, paladini dei valori assoluti e funzionari a tempo pieno della verità con la V maiuscola: che il loro gregge fuggito alla ricerca di nuovi pascoli, nuovi pastori, nuovi ovili, deluso e insoddisfatto del tentativo, ritorni negli antichi recinti e si rimetta al seguito degli antichi, collaudati pastori. Nietzsche, al contrario, ribadisce con martellante insistenza il medesimo concetto: il mondo vero è crollato perché edificato sulla menzogna, e sostanzialmente menzognera risulta essere la stessa nozione di “mondo vero”, data la sua radice impura4. Perciò, l’uomo occidentale, divenutone consapevole, non solo se lo lascia definitivamente alle spalle, ma non ne ha alcuna nostalgia, non sente, non avverte più alcuna esigenza o interesse a ripristinarlo o a surrogarlo con invenzioni equipollenti. Il meccanismo mentale in base al quale sono stati prodotti gli assoluti si è inceppato per sempre. Ed effettivamente, quando si pensi alle sorti cui sono andati incontro i fondamenti assoluti dell’essere, della conoscenza, del valore esibiti dalla nostra tradizione filosofica (Dio, la coscienza, la soggettività pensante, la ragione, il trascendentale, l’apriori, la struttura originaria, le “leggi” dell’evoluzione storica ecc.) e alla generale propensione antimetafisica di gran parte della filosofia contemporanea, difficilmente si può mettere in dubbio il lato di verità offerto dalla riflessione nicciana sulla crisi della nostra cultura. La tesi del filosofo, certamente discutibile per molti aspetti (e si farebbe bene a instaurare con lui un confronto critico a tutto campo, partendo dai presupposti e arrivando via via alle conclusioni, senza eludere le questioni di fondo sollevate dalla sua critica) non mi sembra fornisca molti appigli per contestare la visibilità-realtà del fenomeno descritto: l’umanità europea è pervenu4 Il metodo genealogico seguito da Nietzsche si presta a una seria obiezione: spiegare come sia nata e si sia sviluppata un’idea e un valore, non significa affatto spiegare il che cosa di un’idea e le ragioni per cui dev’essere ritenuta vera, il che cosa di un valore e le ragioni per cui esso sia da considerare, appunto, un valore e non un disvalore. Come un fiore profumato può nascere e prosperare in un letamaio, ma né il fiore né il suo profumo sono letame; così un’idea e un valore possono scaturire da aspettative psicologiche eterogenee e, a volte, meschine e inconfessabili, ma né l’una né l’altra sono identici alle loro motivazioni allotrie o impure, o coincidono in toto con esse.


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ta alla fase storica della svalutazione dei valori supremi, è diventata refrattaria ad accogliere qualunque richiamo alla trascendenza e si muove nell’orizzonte della totale immanenza; essa non crede più ad alcuna struttura stabile dell’essere o valenza assoluta del valore, anzi, per essa, semplicemente, non si dà, non v’è alcuna struttura stabile dell’essere, né perenne validità del valore. Andando oltre il dettato nicciano, potrei precisare che l’uomo d’oggi non rifiuta, certo, la stabilità se e nella misura in cui concerne una felice condizione di vita, anzi la auspica e lotta per conquistarla; rifiuta, invece, di annoverare la stabilità tra le cose che sia possibile sperare. È come se il weberiano disincanto del mondo avesse investito anche la fonte sorgiva del desiderio umano, inaridendola, e l’umanità fosse diventata di colpo quam minime credula postero. Riscontro una sorprendente affinità con la conclusione a cui è approdato Nietzsche e una riprova di come la filosofia, seppure in maniera non intenzionale, riesca a esprimere gli umori dell’epoca, nella perentoria affermazione inserita da Heidegger al paragrafo 44 di Essere e tempo, secondo la quale «non esistono verità eterne»: si potrebbe discutere o dimostrare la loro eventuale esistenza, dice Heidegger, qualora si dimostrasse che il Dasein, l’esistente umano, fosse eterno, e ciò non può essere dimostrato. Heidegger formula la tesi dell’inesistenza delle verità eterne in conformità con la posizione espressa nella sua analitica esistenziale, che individua proprio nella temporalità l’essenza costitutiva dell’uomo, il contrassegno della sua finitezza, sicché il tempo rappresenta l’orizzonte ultimo e intrascendibile della destinazione umana. Sempre in base all’analitica esistenziale delineata dall’autore, viene sostenuta l’idea che l’essere umano non potrà mai fare della propria vita un progetto compiuto, non per mancanza di buona volontà o di senso morale, ma a causa della sua costituzione ontologica sospesa tra il nulla della propria provenienza e il nulla della propria fine, e consegnata totalmente alla temporalità e alla finitezza. La totale risoluzione del senso dell’essere (e del senso che l’uomo dà o può dare al suo essere) nel tempo, proclamata dall’ontologia fondamentale heideggeriana, viene ancora enfatizzata e rimarcata nelle frange “estremiste” dello storicismo e dell’ermeneutica filosofica contemporanea.


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Sulla scorta delle dottrine filosofiche e delle visioni antropologiche sopraccennate, non penso sia arbitrario, allora, arguire che esse proiettano nello specchio della teoria l’immagine del tipo umano al quale noi, oggi, apparteniamo e con il quale tutti ci confrontiamo, un tipo d’uomo che ha adottato come massima soggettiva del pensare e dell’agire una regola così sintetizzabile: abitare il provvisorio, installarsi nel provvisorio, ritenere impossibile la speranza di costruire qualcosa che vada oltre il provvisorio e, di converso, scambiare il provvisorio col definitivo. Ora, proporre a un simile tipo d’uomo di assumersi la responsabilità di compiere scelte definitive, a me sembra impresa titanica e oltretutto inutile, inutile in quanto rischia di infrangersi contro le barriere del linguaggio: questo tipo d’uomo parla un’altra lingua, una lingua nella quale il per sempre è bandito per sempre e, quindi, non è neppure concettualizzato e capito. La lingua dove si è parlato di “acquisti perenni” è quella della metafisica classica, di un modo di pensare e concepire l’essere e gli impegni, la vocazione umana, ormai scomparsi; con ciò escludo in maniera radicale che l’uomo contemporaneo sia incapace di uniformarsi pienamente al principio di responsabilità e di prodigarsi con impegno duraturo nel perseguimento di un ideale di vita, anzi proprio in tale capacità vedo un segno chiaro ed evidente della “sostanza invincibile della natura umana”. Voglio soltanto sottolineare come, facendo leva sulla definitività di una scelta a scapito della motivazione intrinseca, quasi che il definitivo avesse un valore in sé e fosse da solo sinonimo e garanzia di autenticità e di validità della scelta, si rischi di non avere interlocutori o di avviare un dialogo tra sordi, ed oltretutto ci si collochi in una prospettiva fuorviante proprio perché si elude di entrare nel merito della scelta stessa. La definitività, infatti, posto che sia un valore o che lo abbia, è soltanto un valore condizionale, subordinato, non primario, vale a dire funzionale al valore intrinseco annesso e connesso alla motivazione per cui si attua la scelta. L’uomo contemporaneo, questo insegna la descrizione nicciana della crisi della nostra cultura, è diventato estremamente diffidente nei confronti di chi presume di possedere verità e valori assoluti, visioni complessive e totalizzanti dell’essere, senza mai sobbarcarsi l’onere di una reale prova veritativa; e, principalmente, ha acqui-


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sito un “fiuto straordinario” nel percepire quanto di relativo si cela, molte volte, negli assoluti che gli vengono proposti. Donde l’invito, lo rivolgo anzitutto a me stesso e poi a chi mi ascolta, a usare con estrema cautela, con “timore e tremore”, il termine “assoluto”, primariamente e sommamente per rispetto della verità. Definitività, desidero ancora far notare, non è neppure sinonimo di istituzionalizzazione: il definitivo non è tale in quanto entra nel circuito di una istituzione, non è ciò che viene istituzionalizzato. Il definitivo può includere questo “passaggio”, ma, non lo dimentichiamo, può vivere benissimo di forza propria. È l’istituzione a essere finalizzata al definitivo, non viceversa, ed essa è tanto più utile quanto più favorisce, come istituzione, quella qualità della relazione umana e delle condizioni di vita che rende l’una e le altre meritevoli di stabilità e di durata. Insomma, se ci si abitua a pensare che l’istituzione è per l’uomo e al suo servizio e non viceversa, non si fa mai dell’istituzione un assoluto celeste o terrestre: la si riterrà, come di fatto è, uno strumento in vista di un fine, uno strumento da utilizzare, adattare, modificare, riformare, ove occorra, per renderlo sempre più idoneo al perseguimento del fine che la persona si prefigge di raggiungere per suo tramite. Passando oltre nell’elencazione dei fattori “impedienti” in relazione alle disposizioni soggettive richieste per compiere scelte di vita stabili e durature, accennerei, senza soffermarmi, al fenomeno culturale che Lyotard ha descritto, in un celebre saggio, quale tratto caratterizzante della transizione della nostra società alla condizione postmoderna: la fine delle grandi narrazioni o dei grandi racconti elaborati dalla nostra tradizione filosofica e, lato sensu, dai ceti intellettuali, sia come fonte di legittimazione del potere e dei poteri delle classi dirigenti, sia come “erogatori” di senso volti a suscitare e incanalare le passioni collettive verso l’attuazione di una qualsivoglia progettualità politico-sociale. Ometto le cause evocate da Lyotard per spiegare l’estinzione dei miti ideologici finalizzati alla prassi. Né discuto, qui, se il collasso delle ideologie egemoni del Novecento sia stata una perdita o un acquisto: per certi aspetti, è stato sicuramente un acquisto. Nessuno, tuttavia, potrà negare che esse (ed è ovvio: non mi riferisco affatto a quelle totalitarie e disumane), sebbene eterogenee e conflittuali, abbiano costituito dei “contenitori di senso” da cui attingere per


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un impegno non effimero di partecipazione attiva alla trasformazione della società, e che la loro scomparsa abbia lasciato un vuoto tutt’ora non colmato. Ma, sempre in collegamento con questa, a volte troppo enfatizzata, transizione al postmoderno, mi preme principalmente sottolineare un altro aspetto, da più parti segnalato, della situazione di vita e del profilo psicologico dell’uomo nell’epoca attuale: il declino della tonalità affettiva, che si palesa in diversi contesti delle relazioni umane attraverso l’incapacità-impossibilità di elaborare, di coltivare le emozioni proprie per tradurle in sentimento, in una risonanza affettiva profonda e persistente nel tempo. Ciò comporta anche l’incapacitàimpossibilità di accogliere, rispettare e custodire l’affettività altrui per corrispondervi adeguatamente. Si tratta, forse, della limitazione più grave e disperante patita dal tipo umano prodotto dal nostro tempo, poiché compromette alla radice la qualità-intensità del rapporto intersoggettivo ed è origine di continua frustrazione. Quanto più si atrofizza la capacità di “sentire”, tanto più si accelera la ricerca di “emozioni forti”, spontanee o artificialmente provocate, per “sentirsi vivi”: l’apatia, la dissipazione dei sentimenti e le pretese di aspettative esorbitanti si intrecciano con la “frenesia di vivere” e di spremere, dal momento e nel momento, l’ultima goccia di gratificazione. Noi, i soggetti della società contemporanea, abbiamo “inverato” lo stadio estetico e la conseguente disperazione descritti e analizzati da Kierkegaard con inarrivabile finezza. Enigma delle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”: soddisfatti, come che sia, i bisogni elementari della sopravvivenza, ci è rimasto il godimento del male di vivere nelle sue infinite variazioni e sfumature. Vi risparmio e mi risparmio, per non infoltire i particolari del quadro deprimente sopra presentato, le analisi di Bauman sulla società liquida e sulle sue paure, le analisi sulla globalizzazione dell’economia e sulla insostenibile (da ogni punto di vista: psicologico, economico, umano, sociale…) precarietà dei rapporti di lavoro che ne deriva: riguardo a quest’argomento, il vecchio Marx potrebbe suggerire riflessioni feconde molto più di tanti studi aggiornati in materia. E poiché, con tutta la buona volontà, non riesco a rimuovere la tentazione di parlarne, cito, per ultimo, un impedimento alle cosiddette scel-


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te definitive rilevabile dall’esperienza quotidiana, ma di cui spesso ignoriamo le radici culturali: concerne l’incidenza che le teorie e la pratica della psicologia in generale, e della psicologia del profondo in particolare, hanno avuto nella trasformazione della mentalità dell’uomo comune, fino a condizionarne gli atteggiamenti in ordine all’assunzione delle responsabilità della vita, a prescindere naturalmente dalla loro validità epistemica e terapeutica. Oggi, si dice che lo psicologo o lo psicoanalista ha sostituito il confessore. Fosse solo questo, poco male. Oggi, si constata, purtroppo, che la deformazione professionale dello psicologo ha contaminato pedagogisti ed educatori e ha reso un pessimo servizio alla funzione educativa insostituibile che i genitori devono svolgere, inducendoli in maniera subdola a una sorta di abdicazione alle prerogative e ai doveri del proprio ruolo. La deformazione consiste nell’interpretare come segno di disagio psichico qualunque comportamento discordante con i valori morali e con le comuni regole della convivenza umana. Consiste nell’interpretare i comportamenti devianti come manifestazioni di patologia psichica. Ecco con quale efficacia e chiarezza Edith Stein descrive cause ed effetti di tale influsso con particolare riferimento alla psicoanalisi: «Noto una prima conseguenza in una stima dell’istinto enormemente cresciuta rispetto al passato. Tenerne conto è diventato, per il giovane stesso e, spesso, anche per i suoi educatori, una cosa ovvia. E “tenerne conto” significa, in gran parte, soddisfarlo e rifiutare la lotta contro di esso perché ritenuta insensata, dannosa ribellione contro la natura. Come seconda conseguenza della psicoanalisi osservo che nei genitori e negli educatori il compito di guidare e di educare è passato in secondo piano rispetto all’impegno a comprendere. Quando come mezzo per la comprensione si usa la psicoanalisi — e questo accade oggi frequentemente, e non solo da parte dell’educatore, ma anche da parte del giovane nei confronti dell’educatore — si corre il grosso rischio di recidere il legame vivo che intercorre tra un’anima e l’altra, che è premessa per ogni azione pedagogica ed anche per ogni vera comprensione»5. 5

E. STEIN, La struttura della persona umana (1932-33), trad. it. di M. D’Ambra, Roma 2000, 42.


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Messo da canto il nostro cahier de doléances, dovremmo adesso chiederci: che cosa resta da constatare, da osservare, ed eventualmente, da apprezzare, da amare e valorizzare nella congiuntura del tempo che ci è toccato vivere? Molto più di quanto sospettiamo o il nostro occhio velato dal pessimismo riesca a vedere. Non sorretto dalla tutela di istituzioni degne di questo nome, perché discreditate e strumentalizzate dai mercanti del tempio, dibattendosi in sacche di solitudine estrema a causa dell’allentamento-sbriciolamento dei legami comunitari, ritrovatosi senza bussola e senza punti di riferimento certi, costretto a navigare a vista in un mare ignoto e periglioso, l’individuo, oggi, è rinviato bruscamente alla sua individualità nuda e cruda. Ne deriva una affannosa e a volte esasperata, continua attenzione alla concretezza del vissuto personale, un impulso incoercibile a prendersi cura di sé, “a prendersi cura della propria anima”, sebbene egli non sappia quale parte di sé meriti di essere coltivata e come coltivarla. Dietro l’affanno, ingiustamente ed erroneamente spacciato per preoccupazione egotica, agisce il bisogno autentico di autorealizzazione. Non è necessario dedurre tale bisogno dal concetto di natura umana che, come sappiamo, si presta a infiniti equivoci. Ricoeur, per esempio, ha saputo descriverlo e ha ottenuto esiti teoretici di grande rilievo in proposito, astenendosi dal ricorso a categorie fissiste e sostanzialiste. Inserendosi esplicitamente in una posizione di ripudio del sostanzialismo dell’essere e procedendo nell’ottica di una ontologia fenomenologica della persona, ha attinto certamente alle diverse fonti dell’ontologia classica, ma rivisitandole da un punto di vista “desostanzializzante”, a partire dalla energhéia dynamis aristotelica, per passare poi, «attraverso il conatus spinoziano, l’appetitus leibniziano, le Potenzen schellinghiane, fino alla potenza nietzscheiana che è “completamente desostanzializzata”»6. Da parte mia, per farmi perdonare le precedenti bordate polemiche, preferisco evidenziarne la portata e la specificità ricorrendo alla formulazione concettuale che ne ha dato A. Maslow, insigne studioso della personalità ed esponente tra i più noti della psicologia sta6

D. IANNOTTA, L’alterità nel cuore dello stesso, intr. a P. Ricoeur, Sé come un altro, trad. it. di D. Iannotta, Milano 20054, 64-65.


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tunitense del Novecento, il quale ha posto l’autorealizzazione (self achievement) al vertice della scala dei cinque bisogni fondamentali dell’essere umano. Essa non implica affatto, per Maslow, il raggiungimento dei traguardi di successo sbandierati dal conformismo sociale, ma il “diventare ciò che ognuno si sente di essere”, l’attuare quelle potenzialità che esprimono più compiutamente il nostro io. Si tratta di un bisogno costitutivamente proiettato verso il futuro in quanto è tensione verso uno scopo o un fine da scegliere e da conseguire. Per questo, secondo Maslow, è importante la credenza in uno scopo, e quanto più nobile è il fine scelto, tanto più elevata la realizzazione di sé. Il soddisfacimento del bisogno dell’autorealizzazione esige l’esercizio oneroso della libertà come capacità di dire di sì a un progetto di vita e di lottare per la demolizione-superamento degli ostacoli che vi si oppongono. Esso, dunque, non è ottenuto con la capacità di dire soltanto no a qualunque proposta o progetto, per tenersi le mani libere, per non sentirsi vincolato a niente, atteggiamento tipico dell’età infantile e adolescenziale, che si traduce spesso in una continua fuga dalla libertà, oscilla continuamente tra gli estremi del gregarismo più abietto e del ribellismo più insulso ed è esposto a ogni sorta di manipolazione da parte dei persuasori occulti o palesi. Ricoeur «iscrivendo in tal modo l’etica nella profondità del desiderio», descrive il bisogno di autorealizzazione come auspicio di una vita compiuta, ed esplicita «l’elemento etico di questo auspicio o di questa aspirazione […] con la nozione di stima di sé». Egli unisce, poi, in un binomio indissolubile la stima di sé e l’assunzione di responsabilità e collega quest’ultima alla “relazione con l’Altro”, all’apertura costitutiva del sé all’altro. Vale la pena di riportare le sue osservazioni al riguardo: «Infatti, quale che sia la relazione con l’altro e con la istituzione […] non si avrebbe un soggetto responsabile se questo non fosse in grado di stimare se stesso in quanto capace di agire intenzionalmente, vale a dire in base a ponderate ragioni, ed inoltre non fosse in grado di iscrivere le proprie intenzioni nel corso delle cose, attraverso iniziative che intrecciano l’ordine delle intenzioni con quello degli eventi del mondo. La stima di sé, così intesa, non è una raffinata forma di egoismo o di


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Antonino Crimaldi solipsismo. Il termine sé mette qui in guardia nei confronti della riduzione ad un io incentrato su se stesso»7.

Ricoeur, inoltre, individua l’ethos della persona in una struttura ternaria: «stima di sé, sollecitudine per l’altro, auspicio di vivere all’interno di istituzioni giuste»8. Potremmo completare il rapido giro delle nostre osservazioni connettendo il concetto di autorealizzazione con una nozione plurimillenaria sempre presente nel pensiero filosofico occidentale, e non solo in quello occidentale, la nozione di eudaimonia o di felicità. Più che in una condizione di vita (alla felicità concorrono una pluralità o molteplicità di fattori mai totalmente dipendenti dalla nostra iniziativa, dal nostro impegno, dalla nostra capacità di saper bene agire e bene operare), io vedo consistere l’eudaimonia in ciò che viene esibito dalla radice etimologica del termine, nel possedere “un buon demone”, “una buona ispirazione”, nel lasciarsi guidare, appunto, dal proprio daimon. Da quanto si è detto si intuisce, allora, come sia possibile e auspicabile compiere e proporre scelte di vita definitiva alla sola condizione che esse concorrano in toto alla realizzazione del sé, escludendo categoricamente condizioni “inautentiche” o, addirittura, in antitesi con tale bisogno. Ne segue che esse non possono essere mai invocate e sollecitate se comportano mortificazione delle potenzialità del proprio essere, abdicazione alla responsabilità personale, riduzione dell’io a pedina di un gioco ritenuto, a torto o a ragione, superiore, attuazione di finalità incompatibili con il soddisfacimento del desiderio di autorealizzazione; e, soprattutto, mai esse sono proponibili per mettere l’io, la persona, al servizio incondizionato di una “istituzione” di qualunque genere, in quanto, così facendo, si subordina, in maniera immorale o amorale, il bene della persona alla logica di autoconservazione-espansione-potenziamento dell’istituzione stessa. Evito, per non dilungarmi troppo e perché rischierei di impelagarmi in una casistica indominabile, di entrare nel merito delle singole opzioni totalizzanti che un individuo può compiere, in base alle sue per7 8

P. RICOEUR, La persona (1992), trad. it. di I. Bertoletti, Brescia 20064, 40. Ibid., 71.


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sonali aspirazioni, in qualunque circostanza della sua vita, ma qualcosa dirò, con parole ben più autorevoli delle mie, riguardo ai criteri che sarebbe opportuno adottare affinché esse conducano all’esito auspicato. Due criteri ci vengono proposti dal sublime understatement di Cartesio nel discorso sul metodo, laddove egli suggerisce ai lettori di attenersi, nelle scelte di vita alle “massime” della cui utilità, validità ed efficacia ha avuto modo di accertarsi per esperienza personale: scegliere la vita che dia il maggiore appagamento, quarta massima della “morale provvisoria”, in evidente connessione con la seconda massima, non cambiare mai la decisione presa. Cartesio si riferisce precipuamente alla scelta di una professione o di un interesse egemone, che sia cioè tale da mobilitare le migliori risorse della personalità e valorizzarle in pieno; si riferisce inoltre, e in modo particolare, alla scelta di vita da lui compiuta, coltivare la scienza con il metodo da lui scoperto, “coltivare la ragione”, “progredire nella conoscenza della verità”; ma è ovvio che le massime di cui vuole “farci partecipi” sono estensibili ad ogni opzione per la quale, parafrasando Heidegger, “ne va del nostro essere”. Cito Cartesio con una buona dose di rimorso, pensando a quanto sia irrealizzabile, per moltitudini di uomini, il sogno di scegliere un’occupazione gratificante, o di avere, come che sia, un’occupazione, un lavoro dignitoso per poter vivere: «Infine, […] pensai bene di fare una rassegna delle diverse occupazioni che gli uomini hanno in questa vita, per cercare di scegliere la migliore; e senza voler dire nulla di quelle degli altri, pensai che non potevo fare meglio che continuare proprio in quella in cui ero impegnato, e cioè dedicare tutta la vita a coltivare la mia ragione e a progredire, per quanto avrei potuto, nella conoscenza della verità, seguendo il metodo che mi ero prescritto. Avevo provato un appagamento così intenso, da quando avevo cominciato a servirmi di questo metodo, che non credevo che se ne potesse provare di più dolce né di più innocente in questa vita; e scoprendo ogni giorno per suo mezzo delle verità che mi sembravano piuttosto importanti, e comunemente ignorate dagli altri uomini, la soddisfazione che ne traevo riempiva a tal punto il mio spirito che tutto il resto non mi toccava affatto»9. 9

R. CARTESIO, Discorso sul metodo, trad. it. di L. Urbani Ulivi, Milano 20063, terza parte, 139.


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A corollario della quarta massima, riporto anche la seconda, dove Cartesio, con un esempio calzante, ribadisce la necessità di essere “fermi e risoluti” non solo nell’orientare la nostra vita verso una determinata direzione, ma pure nel mantenerla costantemente nella direzione intrapresa: «La mia seconda massima era di essere il più fermo e il più risoluto possibile nelle mie azioni e di non seguire con minore costanza le opinioni più dubbie, una volta che mi fossi determinato in quel senso, che se fossero state certissime. Imitando in ciò quei viandanti che, trovandosi smarriti in una foresta, non debbono vagare girando ora da una parte, ora da un’altra, e ancor meno rimanere fermi nello stesso posto, ma continuare a camminare sempre il più dritto possibile nella stessa direzione, e non cambiarla mai per ragioni futili, quandanche forse all’inizio non sia stato altro che semplicemente il caso che li abbia determinati a sceglierla: in tal modo, infatti, se non vanno proprio dove desiderano, alla fine quantomeno arriveranno da qualche parte, dove verosimilmente staranno meglio che in mezzo a una foresta»10.

Per illustrare con quale disposizione d’animo convenga affrontare il matrimonio in modo da renderlo consono, conforme al progetto di autorealizzazione, non trovo di meglio che riportare un brano di Kierkegaard tratto da Aut aut. Il discorso del filosofo danese è rivolto indirettamente “al nostro eroe”, una figura letteraria che rappresenta l’uomo, il quale, disilluso e deluso dall’esperienza dello stato estetico, decide di passare allo stadio etico, cioè alla dimensione di vita in cui vanno affrontati i doveri imposti dalla convivenza umana, sobbarcandosi il cosiddetto “grigiore” della quotidianità. Le parole di Kierkegaard sono dirette all’uomo, ma nulla vieta di riferirle, scambiando le parti, anche alla donna: «Per breve tempo [il nostro eroe] si è lasciato cullare dalla sfiducia nella vita, che gli vuole insegnare che tutto è vanità, che il tempo cambia ogni cosa, e che non bisogna fidarsi di costruire in nessun luogo e perciò non far mai dei piani per tutta la vita. La pigrizia e la viltà in lui 10

Ibid., 135.


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trovarono questa saggezza accettabilissima: è un abito comodo con cui rivestirsi, e non disdicevole agli occhi degli uomini. Ma quando l’ha considerata più a fondo, vi ha visto dentro l’ipocrisia, la frenesia del piacere nelle vesti dell’umiltà, la bestia da preda vestita da pecora, e ha imparato a disprezzarla. Ha compreso che è offensivo, e perciò non bello, volere amare una persona seguendo le forze oscure nel proprio essere, e non seguendo la coscienza; voler amare in modo che si possa pensare la possibilità della fine di questo amore, e che poi si osi dire: io non ci posso fare nulla, i sentimenti non sono in potere dell’uomo. Ha capito che è offensivo, e perciò brutto, volere amare con una parte dell’anima, e non con tutta l’anima; far del proprio amore un momento, e ciononostante prendere tutto l’amore di un altro; volere essere in un certo grado un mistero e un segreto. Ha compreso che sarebbe brutto se avesse cento braccia per poterne in una volta abbracciare molte; egli ha un petto solo e desidera abbracciare solo una donna. Ha compreso che sarebbe un’offesa volersi legare a un’altra persona come ci si lega alle cose finite e casuali, condizionatamente, perché si possa, qualora si mostrassero delle difficoltà, togliersi d’impiccio. Egli non crede che sia possibile che colei che egli ama possa cambiarsi se non in meglio; e se questo dovesse succedere, egli crede nella potenza della relazione perché tutto ritorni ad essere come prima. Riconosce che quello che l’amore esige è come la tassa del tempio, un’imposta sacra che si paga con una moneta siffatta che tutta la ricchezza del mondo non basta a far da contrappeso se il conio è falso»11.

Raccolgo, in ultimo, il suggerimento implicito nell’invito rivoltomi a pronunciarmi sulle scelte definitive nella chiesa, sacerdozio ministeriale (da minus, minore) e vita religiosa.

11 S. KIERKEGAARD, Aut aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, trad. it. di K.M. Guldbrandsen e di R. Cantoni, intr. di R. Cantoni, Milano 200610, 177178. Ho preferito, tra le altre pur pregevoli traduzioni, quella di Remo Cantoni, per un motivo “impertinente”, perché Cantoni sottolinea in Kierkegaard l’autonomia del momento etico rispetto a quello religioso. Ed effettivamente, nel filosofo danese, lo stadio etico non è superato, bensì sospeso da quello religioso, il quale, com’è noto, si fonda sul salto della fede come rapporto assoluto all’assoluto. L’ovvia conseguenza è che, secondo Kierkegaard, ridurre il cristianesimo a puntello della moralità pubblica o privata significa snaturarlo e, in fin dei conti, decretarne la fine.


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A mo’ di premessa (che esprime però la sostanza delle riflessioni che a mio parere sarebbe necessario avviare in proposito) mi sia consentito un accenno allo spirito del cristianesimo e al suo destino, visto che una cristianità, divenuta silente per le compromissioni con il potere e con la logica mondana, ha l’impudenza di interrogarsi sul destino del cristianesimo, anziché sul proprio, ed è tanto più dubbiosa sulle proprie sorti quanto meno disposta ad affidarsi alla forza della fede e alla fecondità della sequela. La connessione con la questione “pratica” qui evocata, spero risulterà evidente da quel che segue. Il destino del cristianesimo è il destino del suo fondatore: il Cristo, la figura della completa riconciliazione dell’umano e del divino (il giovane Hegel), l’uomo che ha ascoltato e assecondato l’anelito del suo essere e di ogni essere, l’«Intrasmutabile figurato» (ancora Hegel), il «sogno ardentemente desiderato» (l’ateo marxista eretico Ernst Bloch), il «folle» totalmente immune dalla morale del risentimento al cui fascino neppure il filosofo dello Zarathustra rimase indifferente, come testimonia un «cantuccio» (Giorgio Colli) dello scritto più polemico contro il cristianesimo, l’Anticristo. Si noti l’intensa malinconia con cui il Cristo guarda alla condizione precaria della propria esistenza, da lui scelta nel segno di una radicale condivisione della precarietà vissuta e sofferta da chi è senza tutela: «gli uccelli dell’aria hanno il loro nido, le volpi del deserto le loro tane, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Egli è sovranamente libero nei confronti dell’istituzione: se ne serve, se occorre, la critica, la demistifica e la condanna se la vede ridotta a strumento di dominio. Mai tollerò nel suo gruppo orgogli di appartenenza («chi non è contro di me è con me») e velleità identitarie («quando avrete fatto questo, direte: siamo servi inutili»). Parlò di una sola roccia sulla quale costruire un edificio stabile: l’ascolto della Parola che annuncia la prossimità di Dio ai piccoli e agli ultimi (e ultimi, a turno, siamo tutti: piccoli no, bisogna diventarlo) e l’osservanza del mandatum novum che la traduce in pratica. Disse ai suoi «sarò con voi fino alla fine del mondo» e nel “voi” non incluse certo i seguaci di Mammona o i gestori delle sicurezze del sacro alla maniera del grande inquisitore dostoevskijano. Disse che il


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suo giogo è leggero e il suo peso soave. Disse, altresì, che era venuto a portare il fuoco sulla terra. È estinto il fuoco acceso da colui che «ha parole di vita eterna», da colui che visse costantemente usque ad finem la vita “della persuasione” (Michelstaedter)? Lo escludo. Non basterà a estinguerlo una «generazione malvagia e perversa» invocante «segni dal cielo», come la nostra (le reviviscenze del sacro, spacciate, ahimè, per «ritorno di Dio» e per clamorose smentite alla sua “morte”), come ogni generazione umana. Non basterà a estinguerlo l’epoca della penuria del senso, a tal punto smarrita da non percepire più la propria penuria (Heidegger). E non riuscirà a spegnerlo neppure il cuore di pietra della cristianità europea, piombata in un’era glaciale di inedite proporzioni. Ora qualcuno penserà che, con l’enfasi di tali considerazioni (avrò pure una qualche scusante nel non seguire, riguardo a Gesù di Nazareth, il consiglio del ne quid nimis), voglia schermare il fatto di non aver proposto alcuna strategia per suscitare e consolidare le scelte definitive nella chiesa, il fatto di non aver detto nulla sul come incrementarle. In realtà, credo di aver detto più del dovuto e, inoltre, con il rischio di esibire una presunzione o una saccenteria dalla quale, almeno intenzionalmente, avrei desiderato tenermi il più lontano possibile. È, infatti, tornando a riflettere sullo spirito del cristianesimo che possiamo misurare la distanza abissale tra la sequela Christi e la prassi delle comunità cristiane; ed è proprio la dolorosa consapevolezza di tale distanza a poterci fornire qualche indicazione giusta ed efficace, non solo a spiegare la lamentata esiguità delle vocazioni ecclesiali, le lamentate defezioni dalle vocazioni ecclesiali (sempre e comunque defezioni, o non piuttosto, in alcuni casi, fughe di salvezza, rimedio a un lacerante sentirsi fuori posto, seppure tardivamente sperimentato?), la loro non infrequente scarsa qualità, ma anche, e soprattutto, a riscoprirne il significato più profondo, senza il quale non sarebbero “scelte di vita”, bensì di morte.



QUALE MATURITÀ UMANA E SPIRITUALE OGGI PER UNA SCELTA DEFINITIVA Criteri di orientamento e possibili itinerari di formazione

GIUSEPPE BUCCELLATO SDB*

PREMESSA Il titolo che è stato assegnato a questa nostra riflessione richiede alcune chiarificazioni. Al termine maturità e ai suoi possibili e variegati contenuti dedicheremo le prime pagine di questo nostro contributo; ci limitiamo qui a mettere in evidenza una possibile via breve per risolvere la questione che ci è stata sottoposta. Una delle principali caratteristiche della persona matura, uno dei criteri di valutazione della maturità menzionati dagli studiosi è proprio la capacità di compiere delle scelte. In buona sostanza un uomo, una donna possono essere considerati maturi quando riescono a fissare in un particolare «luogo» la loro dimora spirituale in modo stabile. Questa considerazione ridurrebbe il nostro compito alla individuazione delle opportune strategie pedagogiche o dei cammini di autoformazione che ci permettano di raggiungere questo importante obiettivo. Proprio in questa prospettiva, comunque, ci sembrava importante considerare, in modo analitico, alcuni obiettivi intermedi, individuando alcune possibili caratteristiche descrittive della maturità umana e spirituale. L’aggettivo «spirituale», in questo particolare contesto, è stato da noi interpretato in senso molto generale e, dunque, senza una accezio*

Docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Giuseppe Buccellato sdb

ne teologica che dica riferimento alla vita nello Spirito o alla santità come contenuto ultimo della maturità cristiana. Ci è sembrato, infatti, che il nostro percorso dovesse prendere le mosse da alcune considerazioni antropologiche, per quanto possibile, generali, valide per tutti. Il «fenomeno» della crisi delle scelte definitive, infatti, può essere considerato, in senso sociale, una delle caratteristiche più rilevanti dell’attuale contesto postmoderno1. Scriveva, pochi anni or sono, il gesuita padre Jean Paul Mensoir, medico e psichiatra: «Oggi tutto avviene come se fosse sempre più difficile fare le scelte importanti, le scelte che fanno vivere, assumersi gli impegni che vogliono essere duraturi — in particolare la scelta di uno stato di vita —; e, comunque, questi processi sono sempre ritardati. La maturazione affettiva delle persone sembra avvenire con più difficoltà, con più lentezza. Vediamo giovani che da un lato in certi ambienti diventano prima autonomi, che apparentemente raggiungono prima l’emancipazione sessuale, e che dall’altro, non si decidono mai a lasciare la propria famiglia. Quanti esempi di ritorno in famiglia dopo il fallimento di un primo tentativo di vita di coppia! Insomma, siamo in una società nella quale i comportamenti adolescenziali durano più a lungo di un tempo»2. Non spetta a questa nostra relazione individuare le cause di tutto questo3 e le caratteristiche peculiari del tempo che stiamo vivendo; soltanto ci sembrava importante sottolineare, fin dalla premessa, la generalità di un fenomeno che non può essere interpretato soltanto a partire da una analisi che abbia come unico paradigma di riferimento la vita cristiana o religiosa4. 1

Sul concetto di postmodernità i riferimenti bibliografici possono essere numerosissimi; segnaliamo, tra gli altri, un intervento di Padre Innocenzo Gargano alla 50a assemblea nazionale dell’USMI, pubblicata con il titolo Post-modernità e vita spirituale, in Il Regno Documenti 13 (2003) 416-430; G. VATTIMO, La fine della modernità, Milano 1999; K. KUMAR, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società postmoderna, Torino 2000; G. CHIURAZZI, Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Milano 2002. 2 J. P. MENSOIR, Percorsi di crescita umana e cristiana, Bose 2001, 85. 3 Il Padre Mensoir, nel testo già citato, segnala in particolare, tra le cause che rendono più improbabili oggi le scelte «definitive», la ricchezza, la iperprotettività, la perdita di consenso sui valori morali, la confusione delle generazioni. 4 Si sono moltiplicate, in questi anni e a diverso raggio, le ricerche e le indagi-


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1. ELEMENTI E INDICAZIONI PER UNA MATURITÀ UMANA E SPIRITUALE Pur consapevoli delle differenti prospettive epistemologiche, e della complessità della materia, riteniamo utile una esemplificazione analitica e «descrittiva», più che una vera e propria «definizione» della maturità umana e spirituale. Il concetto di maturità, infatti, è tanto immediato e intuitivo da comprendere quanto difficile da definire. Tutti intuiscono, ad esempio, la sua relazione con l’età anagrafica, ma, nello stesso tempo, la sua indipendenza da questa. Si può dire, ad esempio, di un ragazzo di dodici anni che è maturo, e di un giovane di venticinque o di un uomo di quaranta che è un immaturo. «Nel suo significato più immediato — scrive lo psicologo Giuseppe Colombero —, il termine maturità evoca un senso di completezza, di lavoro finito, dopo una serie di fasi evolutive che hanno consentito ad un essere vivente di raggiungere lo sviluppo proprio della sua natura. La persona adulta è il risultato di una lunga serie di metamorfosi, di cambiamenti fisici, psichici, spirituali, attraverso i quali si è costruita una individualità che ha analogie con quella di tutti gli altri ma non è uguale a nessuna»5.

ni sulla stabilità e sulla perseveranza nella vita consacrata; basta prendere in esame il contenuto delle relazioni delle assemblee della USG (Unione dei Superiori Generali) per rendersene conto. Si vedano, a titolo di esempio, le relazioni di FR. LUIS OVIEDO OFM, Approccio alla realtà degli abbandoni, del 2005; JOSÉ MARÍA FERNÁNDEZMARTOS SJ, Fedeltà minacciata, fedeltà custodita, sempre nel medesimo anno; FR. JOSÉ RODRIGUEZ CARBALLO, Formare alla vita in pienezza per prevenire gli abbandoni e rafforzare la fedeltà, dell’anno successivo. A volte alcuni di questi studi rischiano di presentare una prospettiva parziale, ad intra della vita consacrata, senza tener conto del fatto che il fenomeno dei cosiddetti abbandoni va studiato parallelamente a quello della crisi delle unioni matrimoniali e delle professioni che richiedono una scelta radicale e unificante, crisi che si estende alla realtà sociale e al vissuto anche di altri contesti religiosi. 5 G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore. Per abitare meglio se stessi, Cinisello Balsamo 1996, 74-75.


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Per esprimere il concetto di maturità pedagogisti, filosofi e psicologi adoperano spesso come sinonimi espressioni quali: «capacità di adattamento», «sanità mentale», «equilibrio psichico», «età adulta», «normalità» e molte altre ancora. Nel complesso, però, dalle riflessioni dei diversi autori si può dedurre che il concetto di maturità è qualcosa di relativo, nel senso che non tutti i settori della personalità e della vita psichica di un uomo, di una donna sono destinati a maturare in eguale misura. In ogni individuo, infatti, un aspetto o una dimensione possono essere più o meno sviluppati rispetto agli altri. «Un soggetto — afferma a titolo di esempio a questo proposito Benito Goya nel suo Vita spirituale tra psicologia e grazia — può godere di una rispettabile maturità intellettuale, mentre può contemporaneamente patire una forte immaturità affettiva. Il concetto è relativo anche per il fatto che mentre indica il conseguimento di un determinato stato, riconosce l’esistenza di ulteriori mete di maturazione»6.

Quest’ultima osservazione ci costringe a cercare di considerare alcuni differenti aspetti della maturità umana, pur riconoscendoli interdipendenti e complementari nel dinamismo intrapsichico che caratterizza la crescita di un uomo, di una donna. Consideriamo, in rapida successione, questi differenti prospettive.

1.1. Maturità biologico-fisica È il primo dei livelli e aspetti che va considerato. Ogni organismo vivente, dal suo concepimento, ha un processo di crescita che passa per diverse fasi o stadi tra i quali non è facile individuare dei veri e propri elementi di discontinuità. Questa semplice considerazione può essere assunta come icona del processo di crescita psicologico e spirituale di ogni individuo della razza umana.

6

Cfr. B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, Bologna 2002, 69-96.


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Rimanendo nell’ambito della sfera fisica, una riflessione attenta andrebbe fatta a partire dal concetto di salute, a cui è connessa, in senso soggettivo e dinamico, la capacità che l’uomo maturo deve avere di prendersi cura di sé. Una vita sobria e regolata (per usare un termine caro alla Storia della Spiritualità diremmo temperante) rappresenta, nel medesimo tempo, un indicatore e una conseguenza di un buon equilibrio psichico. «Già in Grecia e a Roma, oltre che nell’oriente precristiano — sottolinea Duccio Demetrio nel suo Manuale di educazione degli adulti — quest’equilibrio (la medietas) rappresentava una meta auto-educativa perseguita con la frequentazione delle terme, con i massaggi, con le abluzioni rituali […] L’assenza di aggressività — già metodo proprio della cura modale di sé — si ritrova in tutte le pratiche mediche che non possono ristabilire la salute di singoli organi a prescindere dalla salute globale dell’individuo, il quale per guarire deve collaborare con il medico e agire soprattutto sul sistema della sua vita quotidiana»7.

1.2. Maturità intellettivo-cognitiva Sono noti a tutti gli studi del Piaget sulla maturità cognitiva e le diverse teorie e metodi per la valutazione del quoziente intellettivo; tutto questo esula certamente dal campo della nostra riflessione. Ciò che ci preme qui sottolineare, però, in chiave analitica è il contributo che una buona capacità di valutazione ha nella scelta del proprio progetto di vita. Utilizzando lo schema antropologico tripartito, tradizionale nella cultura occidentale, possiamo dire che la volontà, che è una potenza «cieca», si muove ordinariamente verso ciò cui la inclinano gli affetti o verso ciò che l’intelletto le mostra essere il suo bene. In questa prospettiva la capacità di conoscere e valutare il reale, di formarsi opinioni proprie, rispettando ma non sposando acriticamente le opinioni degli altri, di prendere decisioni tenendo conto delle situazioni oggettive comporta una maturità intellettiva i cui processi di 7

D. DEMETRIO, Manuale di educazione degli adulti, Roma 2003, 155-156.


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crescita passano necessariamente anche, ma non soltanto, attraverso le tradizionali tecniche di apprendimento cognitivo (studio personale o indotto, ruolo di un processo, guida…).

1.3. Maturità affettivo-emotiva Potremmo definirla, in senso lato, la capacità di equilibrare adeguatamente la sfera emotiva e quella intellettiva; ne scaturisce, dinamicamente, la disposizione naturale ad offrire e a ricevere affetto. «L’emotività — scrive Padre Giuseppe Colombero — tra i numerosi elementi che costituiscono la personalità, è tra i più difficili da definire, perché concorrono a costruirla fattori di carattere cognitivo, affettivo, organico e spirituale […] La sfera emotiva della persona è la più vulnerabile, ma anche la più forte. Si può vivere e morire per un’idea, è vero, ma solo se è un’idea intensamente amata, sulla quale cioè l’individuo ha investito tutta la carica di energie di cui dispone, compreso l’amore per la vita, cioè per se stesso. Il contenuto dei sentimenti, quali che essi siano, costituisce un polo di attrazione dei pensieri, una forza di gravità, un pondus, per riprendere un termine di Sant’Agostino, — e il peso è una forza — che inclina la persona a canalizzare le energie verso un dato obiettivo»8.

La sfera affettiva, in questa chiave, si presenta come una straordinaria risorsa, perché si configura come il fattore stimolante più efficace verso una canalizzazione delle energie della persona attorno ad un centro unificatore. Nel medesimo tempo, comunque, la maturità emotiva comporta la capacità di riconoscere e accettare le emozioni e la capacità di controllarle adeguatamente, dilazionando, se necessario, la soddisfazione dei propri bisogni. «A cosa deve rinunciare il bambino piccolo? — scrive il gesuita Padre Mensoir — A volere tutto e subito. Infatti egli è abitato da un desiderio di onnipotenza che è stata chiamata la megalomania infantile del 8

G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore, cit., 20-21.


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desiderio. E l’educazione consiste in un succedersi di gratificazioni e di frustrazioni attraverso le quali il bambino a poco a poco passa dal principio del piacere, che regola tutta la sua vita, al principio della realtà; egli entra così nel reale e integra il fatto che non può volere tutto né essere tutto […]. Impara a poco a poco che la realizzazione dei suoi desideri può essere differita, senza eccessiva angoscia»9.

Maturo, in questo senso, è chi è capace di governare se stesso, rimanendo fedele e costante nella ricerca del bene e superando il richiamo degli impulsi e la tentazione di «evitare lo sforzo di crescere»10. «Se vogliamo definire l’immaturità emozionale — afferma molto opportunamente il gesuita ungherese P. Mihály Szntmártoni — possiamo dire che questa è il “bambino nell’adulto”»11.

1.4. Maturità sociale La maturità sociale si esprime, in senso lato, nella capacità di interagire costruttivamente con il mondo. Per usare una espressione cara a Freud potremmo dire che la salute (=maturità) psichica consiste, in definitiva, nell’amare e lavorare12. L’uomo maturo assume responsabilmente il suo «compito» nella società. «La responsabilità consegna l’uomo a se stesso nella misura in cui l’età e la comunità civile lo mettono in grado di disporre liberamente di sé. 9

J. P. MENSOIR, Percorsi di crescita umana e cristiana, Bose 2001, 73. Cfr. A. RONCO, Formazione umana di base del futuro pastore, in E. DAL COVOLO – A. M. TRIACCA (curr.), Sacerdoti per la nuova evangelizzazione, Roma 1994, 165. Il salesiano Don Albino Ronco definisce in questo articolo direttività «l’impegno illuminato, forte e costante con un bene intuito». La capacità di governare se stessi sarebbe proprio il primo frutto di questa direttività. 11 M. SZENTMÀRTONI, Maturità affettiva. Aspetti psico-dinamici, in Orientamenti pedagogici 32 (1985) 121. 12 Cfr. E. ERIKSON, Infanzia e società, Milano1967, 247. 10


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Giuseppe Buccellato sdb Nella e per la responsabilità l’uomo accoglie se stesso come appello e come compito e diventa gestore della propria vita […] L’accusa più squalificante che si possa rivolgere a una persona è quella di essere irresponsabile. Chi non possiede o possiede in misura carente il senso di responsabilità non è affidabile»13.

Il Concilio Vaticano II elenca il senso di responsabilità tra le necessità più significative della nostra epoca: «Siamo testimoni della nascita di un nuovo umanesimo — si legge nella Gaudium et Spes al n. 55 — in cui l’uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e la storia … In tutto il mondo si sviluppa sempre più il senso dell’autonomia e della responsabilità, cosa di somma importanza per la maturità spirituale e morale dell’umanità».

Se si volesse tentare una definizione sintetica di maturità umana, valorizzando l’aspetto sociale, si potrebbe dire che è la capacità di gestire la propria libertà nell’autonomia e con responsabilità14.

1.5. Maturità relazionale È la capacità di avere buone relazioni con gli altri. Chiedendo aiuto alle conclusioni dell’analisi transazionale, possiamo dire che il punto di partenza di ogni relazione serena e, dunque, di una serena convivenza è un sano rapporto con se stessi. Accettare se stesso, la propria storia, riconoscere le proprie potenzialità ma anche riconciliarsi con le proprie «ferite» è necessario per realizzare quel sano amore di sé, che non è orgoglio o narcisismo, ma presupposto indispensabile a delle buone relazioni. Chi non sta bene con se stesso, chi non sa «volersi bene» e accettarsi, finisce con il considerare gli altri dei potenziali «concorrenti». 13 14

G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore, cit., 79-80. Cfr. l.c.


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La questione dell’autostima, poi, acquista un ruolo fondamentale nella leadership. Solo chi sta bene con sé stesso può avere buoni rapporti con i suoi collaboratori e collaboratrici. Ha scritto Anselm Grün nel suo Leadership con valori: «Chi ha interiorizzato scarsa autostima, sminuirà in seguito i propri collaboratori. Per poter credere nel proprio valore è costretto a sminuire altri […] Se invece io mi sono riconciliato con il sentimento della mia insufficienza, allora tratterò con delicatezza i miei collaboratori. Saprò accorgermi di che cosa hanno bisogno, non li umilierò se sono insicuri, bensì li incoraggerò ad essere se stessi. Non mi comporterò in modo autoritario, ma realizzerò l’essenza dell’autorità. Autorità deriva dal latino augere, che significa aumentare, far crescere»15.

1.6. Maturità psicologica La descrizione della maturità psicologica paga un debito, in modo molto più evidente, alle diverse prospettive e scuole. Proviamo a riassumerne rapidamente alcune, esemplificandole16.  Per la psicanalisi di scuola freudiana è maturo chi sviluppa un forte io, chi sa liberarsi dal super-io, dalle voci dei genitori, dalle loro determinazioni, chi prende familiarità con il suo inconscio. «Formarsi una individualità significa attenuare gradualmente l’identificazione con i genitori e le figure significative che popolano l’infanzia, e costruirsi un proprio modo di percepire e organizzare la realtà»17. Chi rimane attaccato a rappresentazioni infantili o a un’ideologia è immaturo, perché cerca di evitare il mondo reale.  Per la psicologia umanistica e transpersonale di Abram Maslow la persona umana è matura solo quando è entrato in contatto con la sua sorgente interiore e con i suoi bisogni spirituali, che 15

A. GRÜN, Leadership con valori, Brescia 2007, 47. Per queste linee sintetiche ci siamo serviti anche di alcune pagine del recentissimo A. GRÜN, Essere persona umana completa. La forza di una fede matura, Brescia 2008, 17-31. 17 G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore, cit., 75-76. 16


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Maslow chiama metabisogni. Egli descrive l’uomo maturo con queste parole: «Possiede un sentimento di appartenenza e di radicamento, il suo bisogno di amore è appagato, ha uno status e un posto nella vita ed è stimato dagli altri, il suo senso di sé e la sua autostima sono abbastanza elevati»18.  Per la psicologia del profondo di Carl Gustav Jung maturare significa sviluppare un io forte, riconciliandosi con le proprie zone d’ombra. Occorre avere il coraggio di scendere negli abissi della nostra anima, dove si trovano tutti gli aspetti che sono stati rimossi e che attendono di essere liberati dalla nostra coscienza; questa sana coscienza di sé può essere definita anche maturità intrapsichica. Nella prospettiva junghiana, comunque, per arrivare alla completezza della persona, occorre dare spazio anche alla dimensione religiosa. Dio, infatti, è un’immagine originaria, archetipo dell’anima. Per giungere alla maturità dobbiamo integrare in noi l’immagine di Dio.  Per la logoterapia di Viktor Frankl l’uomo maturo è quello che ha risolto la sua ricerca di senso, la nevrosi noogena. «L’uomo è, nel più profondo di sé stesso, alla ricerca di senso. È sempre già orientato e teso verso qualcosa che non è lui stesso… Quello che l’uomo cerca non è la felicità ma una ragione per essere felice»19.  Un cenno, infine, può essere fatto alla terapia iniziatica di Karlfried Dürckheim, che recupera in modo significativo il ruolo del corpo come icona della maturità di un individuo. Il modo di stare in piedi, di camminare, la voce, la tranquillità della persona e dello sguardo: tutto manifesta, nel suo stesso corpo, la trasformazione di tutto l’uomo nella trasparenza. «Alla fine — afferma lo stesso Dürckheim — dalla vera maturità umana, dall’unificazione dell’io del mondo con la natura nasce un frutto: è l’essere umano fatto trasparenza, l’essere umano diventato veramente persona che riesce a far risuonare Cristo, in modo percepibile a lui stesso, ma in modo creativo e liberante per quelli che ti circondano»20. 18 Traduzione dal testo originale in A. GRÜN, Essere persona umana completa. La forza di una fede matura, Brescia 2008, 29-30. 19 V. FRANKL, La psychothérapie et son image de l’homme, Paris 1970, 16. 20 Traduzione dal testo originale in A. GRÜN, Essere persona umana completa, cit., 28.


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1.7. Maturità vocazionale-esistenziale Correlato con tutti gli altri aspetti della maturità e, in particolare, con quello sociale (da cui scaturisce la concezione della vita come compito e responsabilità) è quest’ultimo aspetto, che si presta, pertanto, a fungere da sintesi e, in qualche modo, a raccogliere gli elementi necessari per la risposta alla questione che sta alla base del nostro contributo: quale maturità umana e spirituale per una scelta definitiva? La capacità di raggiungere un giudizio oggettivo sulla propria realtà personale, il senso di responsabilità, l’equilibrio e il realismo nel valutare le situazioni e i problemi, una ragionevole fiducia in sé stessi, la capacità di offrire e ricevere affetto, l’affidabilità, una ragionevole tolleranza di fronte ai propri limiti, la concezione dell’esistenza come progetto costruito «intorno» ad un centro unificatore: queste sono tutte qualità fondamentali, ma che sembrano non esprimere ancora il «cuore» della questione. Proviamo ad accogliere l’intuizione con cui Anselm Grün esordisce nella prima pagina del suo Essere persona umana completa. «L’immagine della maturità — scrive l’autore all’inizio del primo capitolo dal titolo Che cos’è la maturità umana — richiama lo sviluppo di un frutto. La maturazione è un processo di crescita. Un frutto è maturo quando è diventato ciò che deve essere per sua natura, quando può essere gustato dagli altri. Una persona è matura quando ha sviluppato il suo essere ed è diventata benedizione per gli altri […] La maturità non è qualcosa che si sviluppa solamente per se stessi, ma è sempre anche qualcosa che costituisce un piacere per gli altri. Il frutto matura perché lo si possa gustare e mangiare»21.

Queste righe del benedettino tedesco ci sembra che aprano la strada ad una interpretazione della mancanza di stabilità di alcune scelte e, nel medesimo tempo, ad un progetto di vita che restituisca motivazioni adeguate ed autentiche al cammino verso la maturità.

21

A. GRÜN, Essere persona umana completa, cit., 7-8.


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Giuseppe Buccellato sdb «Come si gusta volentieri un frutto maturo — aggiunge Grün — così accade anche con una persona matura. Vicino a lei ci si sente bene. L’armonia interiore della sua personalità provoca un’atmosfera positiva anche nel gruppo in cui è inserita. La sua completezza ha un effetto unificante anche per gli altri. La persona matura non ruota attorno a se stessa, ma risponde alle sfide della vita e della situazione in cui si trova partendo dal centro del suo essere»22.

2. CRITERI DI ORIENTAMENTO Le riflessioni che hanno sin qui caratterizzato il nostro contributo, oltre ad essere imperfette e incomplete, hanno anche la caratteristica di essere statiche, di considerare cioè il «prodotto finito», senza prospettare dei percorsi formativi adeguati. È appena il caso di dire che il compito di individuare e costruire degli itinerari pedagogici, in relazione alla crescita verso la maturità, non può essere assolto dal contributo che ci è stato richiesto. Abbiamo voluto però, ugualmente, elencare alcuni criteri di orientamento e, nel paragrafo successivo, alcune linee di approfondimento che possano contribuire, lasciando come sottofondo l’oggi del nostro contesto culturale, a far crescere la probabilità che alcune scelte importanti, come quella dello stato di vita, possano avere buone garanzie di stabilità.

2.1. Verso una conoscenza di sé come compito imprescindibile Scrive Giuseppe Colombero: «La prima cosa da fare […] è prendere possesso di sé, conoscere e riconoscere sé stessi. È necessario, per questo, portarsi al centro, familiarizzare col centro della nostra persona, dove abita il nostro vero io […]

22

Ibid., 8.


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La consistenza e la storia di una persona dipendono, in larga misura, dal grado di autocoscienza, o coscienza di sé, che possiede»23.

È necessario conoscersi, conoscere la verità su noi stessi. La posta in gioco è molto alta: tutta la nostra esperienza spirituale e morale è legata a tale consapevolezza. Una adeguata coscienza di sé, infatti, è il punto di partenza di una vita spirituale «autentica». Si tratta di avere il coraggio di guardare in modo realistico e con verità la nostra esperienza umana, con le sue luci e le sue ombre, per ridurre al minimo le influenze indebite della nostra sfera inconscia e controllare gli impulsi della nostra memoria affettiva24. Come scegliere responsabilmente, se non fissiamo la dimora al «centro» di noi stessi, se «non ci possediamo», se si è mossi da motivazioni o da conflitti inconsci? Non vi è maturità umana o spirituale senza uno sforzo di «essere autentico».

2.2. Verso motivazioni autentiche ed adeguate La questione delle motivazioni è certamente connessa a quella della conoscenza di sé. Il cammino verso la maturità passa inevitabilmente dalla conoscenza delle vere motivazioni che sono alla base del nostro agire. Senza addentrarci in teorie e complesse classificazioni, ricordiamo che una motivazione si può definire autentica quando non c’è differenza tra il contenuto conscio e quello inconscio della motivazione, quando, cioè, il soggetto è consapevole dei veri motivi che sono alla base del suo agire; si dice invece adeguata quando lo è rispetto al valore che rappresenta l’obiettivo concreto della scelta. Possono esserci motivazioni autentiche (cioè vere, consapevoli) che però non sono adeguate al valore scelto; analogamente possono 23

G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore, cit., 48. Con Arnold possiamo definire la memoria affettiva come «il rivivere uno stato piacevole o spiacevole quando si ripropone una situazione simile a quella vissuta nel passato» (cfr. L. BEIRNAERT, Discerniment et psychisme, in Christus 4 [1954] 50). 24


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esserci delle motivazioni che siano inadeguate e in autentiche; tutte le diverse combinazioni sono possibili. Un semplice esempio può contribuire a chiarire queste distinzioni. Posso abbracciare la vita religiosa perché ho scarsa stima della vita matrimoniale (la motivazione in questo caso è inadeguata rispetto al valore scelto). Di questo posso essere cosciente oppure no; in quest’ultimo caso troverò una qualsiasi razionalizzazione, un meccanismo di difesa, che mi protegga: dirò, ad esempio, a me stesso e agli altri che mi sento chiamato da Dio… In questo secondo caso la motivazione espressa non è autentica, non corrisponde al vero impulso che sta alla base del mio agire. La stabilità e l’efficacia di una scelta passano, secondo una delle più note teorie sulla vocazione, dalla convergenza tra il valore scelto, le motivazioni che sono alla base della scelta e gli atteggiamenti, o «stati stabili» dell’individuo. Si tratta della teoria dell’autotrascendenza nella consistenza, teoria formulata alcuni decenni or sono dal gesuita Luigi Maria Rulla25 e che riguarda, in particolare, le vocazioni alla vita consacrata e presbiterale. Una vocazione, secondo Rulla, è inconsistente (cioè «destinata» ad essere instabile o inefficace) quando manca questo accordo tra il progetto di vita scelto, le motivazioni per cui viene scelto e i comportamenti dell’individuo. «Le inconsistenze subconscie poi — afferma — eserciteranno un’influenza particolarmente negativa sulla fedeltà alla vocazione, soprattutto quando la motivazione dominante di un individuo è fondamentalmente, a sua insaputa, incompatibile con la vocazione»26.

La conversione delle motivazioni è un importantissimo obiettivo intermedio verso la maturità; al contrario accade che molte atten25

Si vedano di questo autore e dei suoi autorevoli discepoli: L. M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana. Basi interdisciplinari, Casale Monferrato 1985; L.M. RULLA – F. IMODA – J. RIDICK, Antropologia della vocazione cristiana. Conferme esistenziali, Torino 1986; ID., Struttura psicologica e vocazione, Torino 1977, L.F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, Alessandria 1993. 26 L.M. RULLA – F. IMODA – J. RIDICK, Struttura psicologica e vocazione, Torino 1977, 18.


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zioni formative siano spesso rivolte agli atteggiamenti o, addirittura, ai comportamenti esterni più che ad un cammino di consapevolezza ed, eventualmente, ri-conversione delle motivazioni.

2.3. Verso l’accoglienza della scelta come «rinunzia» La scelta è l’atto con cui, attraverso le fasi del discernimento e della decisione, si esce dal campo delle possibilità, e si entra in quello dell’esecuzione; si pone fine alla fase della ponderazione e si passa all’azione. Scegliere è preferire, pre-diligere, amare una prospettiva più che un’altra, ma è anche, nella maggior parte dei casi, rinunziare a delle altre prospettive. La stessa etimologia del termine decisione dice proprio questo: de-caedere, recidere, troncare. La rinuncia è una componente ineliminabile della scelta. «Di fatto — scrive a questo proposito Giuseppe Colombero — l’essere umano fin dalla nascita e a ogni tappa della sua crescita viene messo di fronte a delle scelte che si possono dire oggettive. Scelte necessarie per passare da una tappa ad un’altra. Ma scegliere ha il suo rovescio che si chiama rinunciare. Non vi è maturazione, vita feconda, felice e creatrice, che non passi attraverso delle scelte e dunque attraverso delle perdite, degli abbandoni, delle rotture, delle morti, cioè quello che gli psicanalisti chiamano castrazioni simboliche. La crescita di un essere passa attraverso delle conquiste, delle acquisizioni — soprattutto all’inizio della vita — ma forse più ancora attraverso delle liberazioni. Qui tocchiamo una struttura fondamentale dell’esistenza: ogni accrescimento di vita, per quanto minimo, passa attraverso una morte»27.

La libertà e dunque la maturità di un uomo, attraversano questo dover scegliere. «C’è una sorta di monoteismo anche qui: non si possono servire tutti gli déi»28.

27 28

J. P. MENSOIR, Percorsi di crescita umana, cit., 71-72. G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore, cit., 83.


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Nel mondo di oggi la fatica di scegliere è diventata quasi patologica, non soltanto in riferimento alle scelte fondamentali ed allo stato di vita, ma anche in relazione all’enorme quantità di opportunità che si presentano al «consumatore» in ogni campo, opportunità rese allettanti dalla globalizzazione e dall’eccesso di informazione mediatica. È evidente che questo ha il suo influsso anche sul permanere, a volte oltre ogni ragionevole limite, della fase adolescenziale e al cronicizzarsi di una vera e propria incapacità di compiere scelte stabili e definitive.

2.4. Verso una affettività ben orientata La sapienza che è contenuta nelle divine Scritture ci viene incontro per qualche momento: Là dov’è il tuo tesoro, proprio lì sarà anche il tuo cuore… Scegliere un sentimento, potremmo dire, è scegliere un padrone da servire. «Le idee collocano l’uomo nella verità o nell’errore — afferma ancora il Colombero — i sentimenti lo collocano nel bene o nel male. Sono essi che fanno di lui un buono o un cattivo, un mite o un violento, e anche un individuo felice o infelice. Essi sono la base del comportamento, nel senso che predispongono la persona a comportarsi, appunto, in quel determinato singolarissimo modo»29.

Alla base di una scelta stabile può esserci soltanto una grande passione che venga costantemente alimentata sino a raggiungere e a rendere operativo ogni dinamismo intrapsichico. Se il tesoro, ad un certo momento del percorso, cambia indirizzo, perde il suo effettivo valore per me, in modo direttamente proporzionale agli anni che mi separano dalla scelta fatta, il livello su cui ritornare ad agire non può essere soltanto intellettuale o morale. Al contrario è l’amore che ha la

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ID., Cammino di guarigione interiore, cit., 21-22.


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capacità di trasformarsi in un grande educatore, di ri-orientare la persona verso il proprio centro unificatore. Questa consapevolezza esige di trasformarsi in una strategia formativa che non privilegi la dimensione intellettuale e conoscitiva; quest’ultima, peraltro, ha essa stessa bisogno di far ricorso alle ragioni del cuore perché la verità ci appaia in tutta la sua luce30.

2.5. Verso l’autotrascendenza Il teologo americano Bernard Lonergan descrive il cammino di maturazione della persona attraverso tre «conversioni», cioè tre processi fondamentali di crescita nella consapevolezza di sé e della propria esperienza: la conversione intellettuale, la conversione etica morale, la conversione religiosa31. Non si tratta di tre «stadi» che si susseguono uno dopo l’altro; non è detto che la conversione intellettuale debba precedere quella morale e che questa, a sua volta, preceda la conversione religiosa. Anzi, molte volte, la conversione intellettuale è l’ultima ad essere raggiunta. L’orizzonte di una conversione «etica», ancor prima che religiosa, implica poi, semplicemente, che il soggetto riconosca sempre più e più profondamente il primato dell’altro, la preminenza del «bisogno», dell’«universo» dell’altro sul nostro. Questa convinzione non può essere soltanto «intellettuale»; esige un coinvolgimento radicale e profondo, una vera, intima rivoluzione copernicana. 30

Scriveva qualche anno or sono Charles André Bernard nel suo Teologia affettiva: «La realizzazione della nostra vocazione divina è di pertinenza principalmente della sfera affettiva. In tal senso la prospettiva cristiana non può significare altro che il primato del cuore sull’atteggiamento gnostico. Tale atteggiamento rinchiude nell’intelligenza quella realtà spirituale che in definitiva vuole possedere; il cuore, al contrario, si proietta in avanti… Simile atteggiamento non è negazione del valore della conoscenza spirituale; indica soltanto che la conoscenza non può essere adeguata all’infinito del desiderio. Senza contestare alla ragione il diritto di verificare la conformità dell’istanza affettiva alle esigenze iscritte nella condizione di creatura, l’amore rivendica semplicemente, ma in modo decisivo, la libertà di andare sempre avanti» (C.A. BERNARD, Teologia affettiva, Cinisello Balsamo 1985, 429-430). 31 Cfr. B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Brescia 1975.


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Questo è il vero orizzonte di una scelta veramente matura: si tratta di trasportare fuori di noi il centro del nostro «sistema solare». Fin quando questo non avviene, il «linguaggio» dell’affettività, della vocazione, dell’amore matrimoniale, in tutte le sue espressioni, rischia di non essere autentico. Non c’è nulla di più ego-centrato di alcuni «gesti» che vengono compiuti, a volte, proprio in nome dell’amore ma che mascherano, in realtà, una ricerca di sé, la soddisfazione dei propri bisogni. Il vertice della maturazione va collocato poi per Lonergan nel valore religioso, cioè in quel valore che solo trascende tutti gli oggetti concreti della nostra esperienza e ci conduce al compimento dell’autotrascendenza, cioè del completo superamento di noi stessi32. L’ampiezza dell’orizzonte della vita di un uomo, di una donna è proporzionato alla loro autotrascendenza, alla loro capacità di andare oltre sé stessi; esso si restringe se la persona non riesce ad autotrascendersi, cresce in ampiezza, in altezza e profondità quando la persona riesce a trascendere sé stessa.

3. CONCLUSIONE: INDICAZIONI GENERALI PER UN ITINERARIO FORMATIVO

«L’opera educativa, per sua natura, è l’accompagnamento delle persone storiche concrete che camminano verso la scelta e l’adesione a determinati ideali di vita. Proprio per questo l’opera educativa deve saper armonicamente conciliare la proposta chiara della meta da raggiungere, la richiesta di camminare con serietà verso la meta stessa, l’attenzione al «viandante», ossia al soggetto concreto impegnato in questa avventura, e dunque ad una serie di situazioni, di problemi, di difficoltà, di ritmi diversificati di cammino e di crescita. Ciò esige una sapiente elasticità, che non significa affatto compromesso, né sui valo32 Cfr. L. MONARI, Le istanze educative nel progetto di Bernard Lonergan. È una conferenza del 2003 di Mons. Monari, reperibile in www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/151/2003-11/05-30/ME231003.rtf. Si veda anche C. LAVERMICOCCA, Educare la fede, in http://www.catechetica.it/testi/contributi/lavermicocca_2004.htm.


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ri né sull’impegno cosciente e libero, ma amore vero e sincero» (Pastores dabo vobis n. 61).

Ogni progetto di vita che debba essere tradotto in un itinerario formativo deve comprendere, sostanzialmente, tre parti che, in ultima analisi, gli danno realismo e concretezza: STATO ATTUALE  RISORSE  STATO DESIDERATO

«Il punto focale del progetto — scrive Louis Jorge González in Sviluppo umano in pienezza — risiede nello stato desiderato»33. «Teologia e scienza dell’educazione — scrive Padre Carballo, il Generale dell’Ordine dei Frati Minori —, a partire da un fecondo dialogo tra loro, possono aiutare in maniera nuova ad integrare questo unico cammino di formazione verso la maturità. Un cammino che ha bisogno, sul versante pratico, della progettazione di un itinerario di crescita e maturità umano-cristiana, che aiuti le persone consacrate a confrontare le scelte operative coscienti con gli obiettivi ed i contenuti professati»34.

La domanda fondamentale, quindi, è: di cosa hanno bisogno i nostri percorsi formativi per garantire una fedeltà dinamica e creativa, capace di rispondere alla chiamata propria di una vita matrimoniale o consacrata stabile? Come assumere, con fede e lucidità, le sfide della realtà attuale? La questione, come sottolineato, non riguarda soltanto la vita presbiterale o religiosa, ma anche gli itinerari di preparazione al matrimonio; ci sembra che gli orientamenti a cui abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti possano trasformarsi, mediati dalla creatività 33 Cfr. L.J. GONZÁLEZ, Sviluppo umano in pienezza. Teologia spirituale, Cantalupa (TO) 2007, 47. 34 J. RODRIGUÉZ CARBALLO, Formare alla vita in pienezza per prevenire gli abbandoni e rafforzare la fedeltà, n. 2. Si tratta di una lettera del 2006 del Ministro Generale dell’ordine dei Frati minori.


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dell’arte educativa, in itinerari e proposte concrete. Vogliamo aggiungere qui in calce, a titolo di conclusione, alcune suggestioni e suggerimenti generali.

3.1. Una attenta diagnosi Ogni formatore deve prendere le mosse da una reale attenzione al viandante; questo non soltanto a partire dalla necessità soggettiva di prendersi cura di…, ma anche a partire dalla realtà oggettiva della persona che abbiamo la responsabilità di accompagnare. Solo una attenta diagnosi può suggerire, in modo creativo, le risorse più adeguate. Ogni intervento va misurato e incarnato in una situazione storica. Ad un uomo o ad una donna aperti al «magis»35 l’ideale può essere mostrato con coraggio, senza paura che la eccessiva luce li «abbagli» e li costringa a volgere altrove lo sguardo. In molti altri casi governerà il principio della gradualità e si dovrà, più semplicemente, individuare la strategia formativa più adeguata.

3.2. Intelletto, affetti, volontà Possiamo dire che la volontà si muove ordinariamente verso ciò cui la inclinano gli affetti o verso ciò che l’intelletto le mostra essere il suo bene; può accadere, comunque, che un uomo si senta attratto da una cosa che ritiene buona, pur non riuscendo a decidere di pagare il «prezzo» che questa decisione comporta. Il dialogo tra queste tre facoltà è così serrato che è veramente complesso tentare di individuare un prima e un poi nel processo che presiede ad ogni decisione. A volte si può scorgere la necessità di illuminare la scelta con «argomenti» di tipo conoscitivo-intellettivi, altre volte la formazione deve essere più attenta alla sfera emotivo-affetti-

35

Cfr. P. BIZZETTI, Gli esercizi spirituali di elezione, in Esercizi per giovani. Appunti di spiritualità n. 25, Roma 1989.


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va, forse più spesso trascurata o considerata, addirittura, rischiosa. L’arte dell’educare farà intuire, volta per volta, l’area da privilegiare.

3.3. Maturità o santità? L’accompagnamento spirituale (in senso stretto) può divenire certamente una importante risorsa verso la maturità umana. «La vita spirituale — ha scritto P. Mihály Szentmártoni — favorisce la attenzione a se stessi. Sono poche le attività culturali o artistiche che esigono tanta attenzione a sé stessi come la religione. Il cristianesimo è un costante richiamo alla conversione, alla purificazione, al cambiamento. La preghiera o la confessione, per dare solo alcuni esempi, sono sempre, secondo la loro stessa natura, attività centrate sulla persona. Il primo effetto positivo di una vita spirituale costante è perciò una maggiore autocoscienza. È utile notare che questo è lo scopo principale anche della psicoterapia»36.

Come cristiani, noi possiamo associare la maturità psicologica alla santità oggettiva, anche se ammettiamo che ci sia una santità soggettiva, possibile pure a chi soffre di turbe psichiche. Di molti santi, infatti, sarebbe facile notare i limiti intellettuali o psichici; questo non significa, però, che l’aspetto umano e psicologico vada indebitamente bypassato.

3.4. Necessità o opportunità del contributo della psicologia Alcuni ordini e congregazioni sembrano avere maturato la convinzione della necessità di una valutazione psicologica dei candidati alla vita consacrata37. 36 M. SZENTMÁRTONI, Vita spirituale e salute mentale, in Rassegna di Teologia 34 (1993) 289. 37 Si veda ad esempio il documento del Segretariato Generale per la


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Se è vero che una persona matura avrà un approccio maturo all’esperienza di fede, è anche vero che una vita cristiana autentica, per quanto detto, può certamente contribuire ad una guarigione radicale e definitiva. «La persona che si avvicina a Dio viene rinnovata. È come se a contatto con la spiritualità cristiana rinascesse (Gv 3,7). Ma se acquisisce una nuova coscienza potremmo dire che anche la consapevolezza del suo “sé” cambia. In pratica entra nella conoscenza di un nuovo sé stesso»38.

Una vita spirituale autentica e costante può avere anche come effetto il rafforzamento della struttura psicologica, cioè del milieu interiore; ciò non toglie che alcune forme o modalità di vita spirituale (in senso stretto) possono anche diventare un ostacolo alla crescita ed all’equilibrio della persona.

3.5. Entrare nel deserto della propria intimità In ogni caso ed in qualunque condizione la necessità di diventare intimi a sé stessi esige un «clima» e dei tempi di particolare raccoglimento. «Il raccoglimento — scrive lo psicologo Giuseppe Colombero — ha il potere di riunire, in un pensiero che trascende la successione cronologica, il passato, il presente ed il futuro. È il presente estatico di cui parla Heidegger, nel quale la persona, in un certo senso, si pone fuori del flusso del tempo e av-viene a sé. È misterioso il potere del raccoglimento di ricapitolare e di ri-presentare alla mente, qui, ora, tutta la storia d’una persona e il suo mondo, vasto come tutto ciò che è spiritua-

Formazione dei Redentoristi, dal titolo La valutazione psicologica dei candidati alla vita religiosa. 38 R. RONCA, La nostra vita è nascosta in Cristo. Da dio la rivelazione graduale dell’essere se stessi, in Il ritorno 2 (2002); citato in http://www.ilritorno.it/es/eshtml/ esv/esv3.htm.


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le […]. È incredibile la conoscenza di sé che la persona acquista quando fissa la sua dimora al centro e familiarizza con il silenzio»39.

3.6. Raccontarsi: autobiografia come cura di sè Il diario spirituale rappresentava una degli strumenti più utilizzati, un tempo, dai maestri di spirito per conoscere e accompagnare il cammino dei loro discepoli; l’autobiografia, poi, è uno dei generi letterari più cari alla storia della spiritualità. Il professor Duccio Demetrio, docente di Educazione degli adulti e di Filosofia dell’educazione presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università degli Studi di Milano ed autore di numerosi e stimolanti trattati40, da molti anni ha individuato proprio nel pensiero autobiografico uno degli strumenti più adeguati per la crescita e la cura di sé. Vogliamo concludere questo nostro contributo proprio con una sua pagina, tratta da uno dei suoi testi più noti, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé: «Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa che ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. È l’evento che conta, che sancisce la transizione ad altro modo di essere e di pensare. È la comparsa di un bisogno che cerca di farsi spazio tra gli altri pensieri, che cerca di rubare un po’ di tempo per occuparsi di sé stessi […] L’autobiografia è una faccenda adulta, e ci ritroviamo adulti quando, ben al di là delle caratteristiche più comuni riconosciuti a tale, e più misteriosa di quanto non sembri, età della vita (autonomia, 39

G. COLOMBERO, Cammino di guarigione interiore, cit., 54-55. Si vedano tra i numerosi altri volumi, in relazione al nostro tema: D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano 1995; ID., L’ educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Roma 1995; ID., Educazione degli adulti: gli eventi e i simboli, Milano 1996; ID., Tornare a crescere. L’età adulta tra persistenze e cambiamenti, Milano 1998; ID., Pedagogia della memoria. Per se stessi, con gli altri, Roma 1998; ID., Manuale di educazione degli adulti, Milano 2003; ID., Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé, Milano 2003; ID., In età adulta. Le mutevoli fisionomie, Milano 2005. 40


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Giuseppe Buccellato sdb responsabilità, potestà, autorità, generatività ecc.), siamo in grado mentalmente di organizzare il nostro passato e di riflettere sul presente […] Ogni autobiografia scritta o narrata, reale o immaginaria, umile o leggendaria è contrassegnata dal numero e dalla qualità delle variazioni ad essa impresse ad opera del suo autore. È la scelta che ci rende adulti: sono le scelte che marcano il tragitto del percorso di crescita che chiameremo di “adultizzazione” e che, naturalmente, inizia molto prima dell’ingresso ufficiale nella vita adulta come bisogno di mettersi alla prova, rischiare, trasgredire. Il bambino e l’adolescente non sanno collegare tra loro le esperienze che connotano e danno forma ad ogni autobiografia. La capacità di stabilire nessi, concordanze, coincidenze si apprende molto avanti negli anni. Il significato della propria vita incomincia a trasparire quando il disegno ha ormai assunto una conformazione ed è riconoscibile»41.

41

ID., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano 1995, 22-23.


MUTABILITÀ E IMMUTABILITÀ DI DIO

FRANCESCO CONIGLIARO*

PREMESSA Nel discorso teologico della tradizione cristiana Dio viene comunemente presentato anche mediante l’attributo “immutabile”. Con esso i teologi hanno ritenuto di poter disporre di un qualificatore quanto mai opportuno per tenere Dio al riparo dalle conseguenze dei ritmi del tempo e, quindi, per poterne tranquillamente parlare come dell’Eterno e del Trascendente. Sennonché, attorno a questo attributo tradizionale si addensa da tempo e con velocità ed intensità crescenti un grande malessere, che non può non essere preso seriamente in considerazione. Volendosi orientare responsabilmente in una tale situazione, è necessario evitare innanzitutto le tentazioni dell’approssimazione e della superficialità. Ciò significa, ad esempio, non lasciarsi condizionare dalla valutazione negativa che dell’attributo in questione ha fatto Hegel e non cedere alla tentazione di strumentalizzare le fonti, come se, da un lato, tutto ciò che è presente nella tradizione circa l’immutabilità di Dio escludesse quanto oggi si pensa sulla sua mutabilità e, dall’altro, tutto ciò che oggi si dice al riguardo arrecasse pregiudizio all’immutabile natura divina tramandata dalla tradizione1. Ci sono state e ci sono delle ragioni per parlare sia dell’immutabilità che della mutabilità di Dio, ma non tutte risultano dotate di *

Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr. G. EMERY, L’immutabilité du Dieu d’amour et les problèmes du discours sur la «Souffrance de Dieu», in Nova et Vetera 74 (1999) 1, 5-37.


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titoli di legittimità, come nel caso del teismo metafisico. In esso ci sono dei veri e propri eccessi: a dettar legge è l’ontologia, e Dio resta intrappolato nelle maglie dell’onto-teologia e di quella particolare concezione della divinità che ne deriva, che lo collocano all’interno delle leggi dell’essere della metafisica classica e, corredandolo dell’attributo “assoluto”, lo sottraggono ai rischi ed alla problematicità del divenire. Basta una piccola e sommaria ricognizione, per rendersi conto del fatto che il tipo di divinità che ne risulta è congeniale alle grandi religioni di origine occidentale. A questa considerazione non si può non aggiungere la seguente annotazione: non si è lontani dal vero se si afferma che in queste religioni si trova, insieme a tanti straordinari dati luminosi, la possibilità della “perversione di Dio”2. Se ci si interroga sulle cause che hanno dato origine a tutto ciò, si scopre che una parte non piccola del discorso teologico del teismo è costituito da precomprensioni, che determinano la prospettiva all’interno della quale procedere e, addirittura, dettano definizioni, mediante le quali identificare Dio. Di fronte ad una tale situazione, non si può non osservare che tutte le dimensioni del linguaggio religioso-teologico debbono poter sussistere armonicamente con la dimensione “dossologica”; se così non fosse, esse, pur guidando, secondo le loro possibilità, sino alla definizione del divino, finirebbero con il rendere impossibile l’incontro, sia conoscitivo che esperienziale, con Dio. Il linguaggio religioso-teologico attinge ai “giochi linguistici” scaturenti dal nostro ambito percettivo e dall’ambito della nostra riflessione, ma non è mai adeguativo, descrittivo, circoscrittivo e definitorio; piuttosto, è esplorativo, evocativo, dossologico ed orientato escatologicamente: solo nell’éschaton avrà luogo la coincidenza tra il nostro lógos ed il Lógos eterno. Il linguaggio religioso-teologico propone figure linguistiche-limite, che escludono sia il concetto, che renderebbe la realtà evocata captabile per mezzo dell’intelletto umano3, sia la definizione, in quanto porreb2

Cfr. E. BIANCHI, Castigo e giudizio di Dio, in La Stampa, 28 settembre 2001,

1 e 12. 3

Cfr. J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, trad. it., Brescia 19713, 129.


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be la realtà dentro le griglie della conoscenza umana. A. Gesché, adattando a questo contesto tematico e problematico un principio tradizionale dell’antropologia cristiana, dichiara opportunamente: «Certo l’uomo è capax Dei, ma non è assolutamente capax definiendi Deum»4. La pretesa di definire Dio può risolversi in idolatria e può sortire il duplice effetto di occultare Dio, invece di aiutare ad incontrarlo, e di imbrattare la stessa parola-metafora “Dio”5, invece di farne il segno linguistico del Nome da invocare e da santificare. Asserzioni del tipo “Dio è l’essere assoluto”, “Dio è eterno”, “Dio è immutabile”, “Dio è impassibile”, ecc. sono certamente capolavori teologici della riflessione umana, ma, nel contempo, non si può non ammettere che costituiscono anche una magnifica e raffinata invenzione dell’uomo. Se si parla di Dio secondo l’orizzonte da esse aperto e non si prendono tutte le opportune precauzioni, si corre il rischio di fare discorsi teologici molto lontani dall’orizzonte biblico: Dio è sì eterno ed assoluto, ma finisce con il risultare remoto ed indifferente ed il suo agire nei confronti del creato finisce con il venire concepito alla stregua del Deus ex machina del paganesimo greco-romano6. Un Dio siffatto deve essere “disinventato”, come tanti altri prodotti negativi e fuorvianti della storia umana, al fine di potere procedere ad una nuova invenzione, un’invenzione consentita dal teismo autenticamente e pienamente cristiano7. Onde evitare di ripetere gli antichi errori del teismo e procedere lungo il nuovo percorso, occorre stabilire un punto di partenza diverso dalle definizioni previe, e cioè occorre partire da Gesù. Al riguardo, nessun teologo dovrebbe avere dubbi, ma non è così. In ogni caso, quelli che hanno scelto Gesù come punto di partenza del loro discorso sono molti e, a mo’ di esempio, ne ricordiamo qualcuno. K. Barth pone, quale assioma di tutta la sua teologia, l’idea che l’essere, la vita e l’agire di Dio si sono compiutamente rivelati in Gesù; di 4

A. GESCHÉ, Dio, trad. it., Cinisello Balsamo (MI) 1996, 34. Cfr. M. BUBER, Begegnung. Autobiographische Fragmente, Stuttgart 19612, 43. 6 Cfr. D. BONHÖFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere, trad. it., Milano 19693, 265. 7 Cfr. A. GESCHÉ, Le Christ, Paris 2001, 39. 5


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conseguenza, ogni discorso teologico veramente cristiano vi attinge i contenuti e vi verifica le metodologie8. A. Gesché afferma che, se il Dio rivelato si mostra in Gesù, ed in particolare nella sua morte e nella sua risurrezione, la fonte del discorso su Dio deve essere la cristologia quale evento storico posto da Dio sotto i nostri occhi9. G. Ruggieri sostiene che, se la verità, e nel nostro caso la verità del discorso su Dio, ha come luogo proprio la vicenda umana di Gesù, non si può non partire da quest’ultima10.

1. PROSPETTIVA CRISTOLOGICA La linea discorsiva propria per evocare il mistero di Dio e per balbettare qualcosa circa la sua identità è quella aperta dalla prospettiva cristologica. Per fare maggior chiarezza su un dato così importante per ogni discorso teologico e, dunque, anche per quello che stiamo svolgendo, vogliamo fare nostra una formidabile idea del grande Hegel: il Cristo, e segnatamente la sua morte, è il fulcro attorno al quale ruota la totalità delle cose11. Mentre vediamo la nostra situazione discorsiva illuminarsi in virtù di un così vigoroso contributo, prendiamo atto di un documento prodotto, alcun anni or sono, dalla Commissione Teologica Internazionale, la quale ha ritenuto opportuno occuparsi della questione dell’immutabilità e dell’impassibilità di Dio sia perché ne ha avvertito l’urgenza, sia perché ha pensato di mettere in guardia gli studiosi nei confronti del rischio di lasciarsi affasci8

Cfr. K. BARTH, KD. Cfr. A. GESCHÉ, Dio, cit., 30 s. 10 «Se il Nuovo Testamento assegna un “luogo” alla verità, e se questo luogo è la vicenda umana di Gesù (Ef 4,21: la verità è in Gesù), allora siamo obbligati non tanto ad interpretare Gesù a partire da una verità comunque intesa, ma a comprendere il contenuto e le dimensioni della verità a partire da questo luogo» (G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007, 32. Cfr. P.A. SEQUERI, L’interesse teologico di una fenomenologia di Gesù: giustificazione e prospettive, in Teologia 23 [1998] 289-329). 11 Cfr. G.F.W. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della religione, III, trad. it., Bari 1983, 249. Cfr. anche P. CODA, Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel, Roma 1987, 322; ID., La percezione della forma. Fenomenologia e cristologia in Hegel, Roma 2007, 76. 9


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nare e travolgere dalle suggestioni scaturenti dal pensiero dello stesso Hegel, appena ricordato. Così si esprime la Commissione: «Nella teologia di oggi capita spesso, per motivi d’ordine storico o sistematico, che si pongano in dubbio l’immutabilità e l’impassibilità di Dio, soprattutto nel contesto d’una teologia della croce. Così sono sorte diverse concezioni teologiche della “sofferenza di Dio”. Bisogna saper discernere le idee false dagli elementi conformi alla rivelazione biblica. […] 1. I sostenitori di questa teologia asseriscono che le loro idee si trovano nell’antico e nuovo testamento e presso alcuni padri. Ma l’influsso della filosofia moderna ha certo un peso maggiore, almeno nella sistematizzazione di questa teoria. 1. 1. Hegel è il primo a postulare che, per ottenere il suo pieno contenuto, l’idea di Dio deve includere la “sofferenza del negativo”, cioè la “durezza dell’abbandono” (die Härte der Gottlosigkeit). In lui sussiste un’ambiguità fondamentale: Dio ha, o no, veramente bisogno del travaglio dell’evoluzione del mondo?»12.

Il problema è di enorme portata teoretica sia perché ha come contenuto la cristologia, sia perché coinvolge Hegel, uno dei più grandi filosofi tedeschi, il quale ha dedicato riflessioni profondissime alla teologia cristiana, cogliendo in essa con acume incomparabile la centralità della cristologia, e segnatamente della crocifissione di Cristo, nel discorso su Dio Uni-Trino e nel discorso circa la creazione e la salvezza. Data l’importanza dei fattori recati all’evidenza e data la loro pertinenza col nostro argomento, riteniamo utile fermare brevemente la nostra attenzione su di essi. Facciamo ciò attingendo alla ricerca ed alle riflessioni di un grande teologo del nostro tempo, P. Coda, con la consapevolezza di fare un vero e proprio atto di “saccheggio”. Si tratta di una procedura certamente legittima, perché consente a noi, nella presente circostanza, come del resto a tanti altri studiosi, nelle circostanze più varie, di fondare alcune idee sulla base sicura della ricerca e della riflessione di chi ha già indagato accuratamente ed ha

12

COMMISSIO THEOLOGICA INTERNATIONALIS, Theologia – Christologia – Anthropologia (octobris 1982), in EV, 8/448-450.


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meditato a lungo sull’argomento al quale si è interessati13. Ebbene, P. Coda ha portato avanti con il suo acume e la sua genialità di studioso un lavoro di comprensione e di interpretazione del pensiero teologico del grande filosofo Hegel, lasciandosi guidare dall’intento di metterne in luce sia il contributo sia i limiti. Iniziamo citando alcune considerazioni del Coda: «Nella modernità forse nessuno come Hegel ha inteso così fare di Gesù Cristo, prima ancora che il contenuto, la forma stessa del sapere»14; «Merito di Hegel, indubbiamente, è quello di aver messo al centro della riflessione intorno al cristianesimo l’evento della rivelazione cristologica come automanifestazione del Dio Trinità […] e perciò quale rivelazione nella e come storia»15.

La lettura delle pagine teologiche di Hegel suscita immediatamente il convincimento di trovarsi di fronte ad un pensiero veramente profondo, ma non poche sono le perplessità che accompagnano il convincimento acquisito. P. Coda fa ad Hegel ogni possibile concessione, ma non può permettergli di stravolgere l’autentica dottrina cristiana sgorgante dalla rivelazione. Talché, mentre gli fa la massima concessione, gli oppone la massima contestazione, come quando dice: «Hegel e il cristianesimo: una geniale intuizione e un fatale tradimento»16; o come quando lo incolpa di un «fatale fraintendimento della trinitarietà come forma e contenuto della rivelazione»17. Non ci fermiamo sulle considerazioni del Coda sulla genialità del filosofo tedesco18 ed andia13

Cfr. S. VECA, Kant e il paradigma della teoria della giustizia, in G.M. CHIODI – G. MARINI – R. GATTI (curr.), La filosofia politica di Kant, Torino 2001, 143-152. 14 P. CODA, La percezione della forma. Fenomenologia e cristologia in Hegel, Roma 2007, 25. 15 Ibid., 92. 16 ID., Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel, Roma 1987, 355. 17 ID., La percezione della forma, cit., 92. 18 «La genialità dell’intuizione hegeliana sta dunque, a mio avviso, fondamentalmente nel fatto che egli in questo modo ha centrato, come pochissimi altri prima e dopo di lui, la specificità della rivelazione cristiana dal punto di vista logico e ontolo-


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mo al nocciolo di ciò che il teologo torinese chiama il tradimento hegeliano del cristianesimo: «Il “tradimento” […] l’abbiamo in certo modo toccato con mano, cercando di fare emergere la pre-comprensione panteistica e razionalistico-idealistica con cui Hegel s’è avvicinato al centro della rivelazione cristiana»19.

Un esito di tal fatta ha la sua scaturigine in un determinante handicap della Denkform hegeliana, che consiste, nonostante le parole, nel convincimento che Dio sia un unico spirito assoluto, che, lungi dall’essere trinitario, si autoevolve dialetticamente in un monologo chiuso in se stesso20. Il guaio è che ad Hegel manca la mediazione teoretica del gico. Per dirla in altri termini, Hegel ha evidenziato nel centro del mistero cristiano — che egli ha visto condensato nell’Incarnazione e crocifissione del Verbo come epifania del volto trinitario di Dio — la chiave di volta non solo di un nuovo statuto dell’essere ma anche di un nuovo statuto del pensare. È ciò che egli ha voluto esprimere precisamente elaborando la sua Denkform. Quando scrive che “la morte di Cristo è il centro attorno a cui ruota il tutto”, e che “chi non ha compreso che Dio è Trinità non ha compreso nulla del cristianesimo”, Hegel vuole appunto affermare che il mistero cristiano, lungi dall’essere un nebuloso coacervo di verità da credere per mera autorità esteriore, vive invece della luminosità di una verità che è in grado di illuminare tutta la realtà» (ibid., 357). 19 Ibid., 359; cfr. ibid., 345 s. 20 «[…] impersonale è in fondo anche la nozione hegeliana di un unico soggetto assoluto che, secondo le movenze necessitanti e immanenti del suo concetto, si autoevolve in un monologo chiuso in se stesso. L’unica via per evolvere in maniera aderente al mistero cristiano la centrale intuizione hegeliana sarebbe stata quella d’elaborare una Denkform autenticamente e radicalmente trinitaria: non un soggetto che si autoevolve monologicamente secondo un ritmo dialettico, senza rispettare la diversità e annullando la libertà, ma l’Uni-Trinità di un Dio che è co-originariamente Uno e Trino, Uno nella natura, Trino nelle Persone, unità piena e piena libertà. Ma così dicendo tocchiamo quello che, a nostro avviso è l’handicap fondamentale della Denkform hegeliana anche a livello propriamente contenutistico» (Ibid. 364). «È vero che, di per sé, il tipico movimento hegeliano della Aufhebung dovrebbe significare un togliere e un conservare allo stesso tempo: ma, di fatto, non è così. I momenti precedenti al momento finale e reale sono definitivamente tolti: solo il momento conclusivo è effettualmente. È tutto qui l’irrimediabile handicap della dialettica hegeliana, perché in tal modo la Trinità non è trina, ma monistica; il rapporto finale tra Dio e l’uo-


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concetto cristiano di persona e di tutta la fecondità di esso21. Ed è così che in lui l’ortodossia cristiana concernente il mistero del Dio rivelato viene meno22. Insomma, la Trinità hegeliana, ancorché decisamente affermata, si riduce ad un fatto monistico23. In Hegel il monismo raggiunge livelli inimmaginabili, come si deduce da una annotazione del Coda: in Hegel sono operanti due errori: mo non è di distinzione nell’unità, ma di assorbimento dell’uno nell’altro; la storia non è processo libero, ma — paradossalmente — un susseguirsi di momenti che dissolvono senza residui la loro assolutezza nel momento successivo…» (ibid., 323). 21 Il «tradimento [di Hegel consiste] nell’aver ridotto la specificità personalistico-comunionale di questa struttura trinitaria nel ferreo necessitarismo del monologo con se stesso dello spirito assoluto. Se volessimo andare alla radice del problema [..], penso che potremmo dire con buona ragione che al fondo di tutto vi sta, a livello di contenuto — oltreché di forma del pensare — l’oblio hegeliano dell’autentico concetto cristiano di persona» (Ibid. 367 s); «L’elaborazione della Denkform dialettica fatta a prescindere da una corretta mediazione teoretica del concetto cristiano di persona, gli ha però impedito di portare a buon fine la sua impresa» (ibid. 384); «[…] la mancanza del concetto di persona conduce Hegel a introiettare in Dio come momento del suo autocostituirsi, non solo il non divino-trinitario, per cui il Padre non è il Figlio, né lo Spirito Santo, e viceversa (è questo non divino-trinitario che l’evento della croce ci rivela a proposito della natura divina); ma anche il non umano della finitezza e del peccato» (ibid., 320). 22 «In effetti quando la tradizione dogmatica e teologica cristiana ha forgiato questo concetto, l’ha fatto per salvaguardare apofaticamente e per esprimere al meglio il mistero della vita divina che Cristo ci ha rivelato: Dio, l’Uno, è Trino! Dicendo che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono persona, s’è voluto dire che essi sono distintamente sussistenti, ma che la loro sussistenza è tale da esprimersi nella più perfetta relazionalità e immanenza reciproca nell’unico Essere divino. Dio è Uno ed è Trino, perché è Essere costitutivamente tripersonale; e, d’altra parte, il mistero della Persona divina è racchiuso proprio nel mistero dell’intrinseca trinitarietà dell’Essere divino! L’ortodossia del mistero cristiano del Dio rivelato da Cristo sta e cade sulla base di questo concetto di persona» (ibid., 372). 23 «È vero che, di per sé, il tipico movimento hegeliano della Aufhebung dovrebbe significare un togliere e un conservare allo stesso tempo: ma, di fatto, non è così. I momenti precedenti al momento finale e reale sono definitivamente tolti: solo il momento conclusivo è effettualmente. È tutto qui l’irrimediabile handicap della dialettica hegeliana, perché in tal modo la Trinità non è trina, ma monistica; il rapporto finale tra Dio e l’uomo non è di distinzione nell’unità, ma di assorbimento dell’uno nell’altro; la storia non è processo libero, ma — paradossalmente — un susseguirsi di momenti che dissolvono senza residui la loro assolutezza nel momento successivo…» (ibid., 323).


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«1) l’identificazione del piano trascendente della vita divina e di quello immanente della storia; 2) l’assorbimento della tripersonalità divina (e dunque anche della molteplicità delle persone create) nel dispiegarsi dell’unica soggettività assoluta»24.

Andando all’ambito prettamente cristologico delle annotazioni fatte dal Coda al pensiero hegeliano, ne emerge, nonostante le dichiarazioni programmatiche corrette, un “fatale fraintendimento” del mistero del Cristo da parte di Hegel, soprattutto a motivo della “lettura previa”25 da lui fattane, che è all’origine del superamento-toglimento (Aufhebung) della singolarità della figura storica del Cristo in vista della sua universalizzazione: «Il dato decisivo è che, secondo Hegel, la religione cristiana fa valere come sua condizione intrinseca di realizzazione […] la singolarità storica e insieme speculativa del Cristo. E questo in due dimensioni: (1) come necessità della sua presenza storica quale Menschwerdung della natura divina nella storia; e (2) come toglimento/negazione (Aufhebung) della singolarità della sua figura storica attraverso la morte di croce, in funzione dell’universalizzazione del suo contenuto»26.

Si tratta di una esigenza dell’evento dell’Assoluto nella storia27. La valutazione complessiva di P. Coda della cristologia e della teologia tri24

Ibid., 317. Cfr. ID., La percezione della forma, cit., 86, 92. 26 Ibid., 85 s. 27 «La rivelazione dell’Assoluto nella storia presuppone, infatti, come sua ulteriore e definitiva condizione di possibilità, il toglimento dell’esistenza storica del Cristo. E ciò sotto un duplice profilo: (1) quello del Cristo stesso, che solo attraverso l’esperienza della morte può giungere all’autocoscienza assoluta della sua identità con la natura divina; e (2) quello della coscienza storica altra dal Cristo, che solo attraverso il toglimento dell’esistenza storica del Cristo nella morte può far propria tale identificazione. […] Nel toglimento dell’esistenza storica del Cristo — percepita come l’identità effettuale del divino e dell’umano — la coscienza giunge alla percezione compiuta di questa stessa identità in sé, appropriandosene soggettivamente. Si ch’è soltanto questa morte a rendere possibile la rivelazione dell’unità del divino e dell’umano. […] D’altra parte, il toglimento dell’esistenza storica del Cristo è anche neces25


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nitaria di Hegel è sconsolante, in quanto ne mette in luce gli esiti nichilisti: «Il che [l’eliminazione della singolarità del Cristo e dell’Assoluto trino] palesa l’ambiguità dell’hegelismo: perché esso così diventa, in contraddizione con il suo stesso intento, o giustificazione intranscendibile della storicità quale datità di fatto, con la preclusione d’ogni orizzonte protologico ed escatologico di trascendenza, o affermazione nichilistica dell’identità dell’Assoluto e della coscienza finita, i quali, negandosi reciprocamente l’uno nell’altro, finiscono con il convergere nel ni-ente, poiché ciascuno non ha identità sua propria se non nel suo negarsi nell’altro! Motivo radicale della risoluzione storicistica o nichilistica della rivelazione cristologica è, a mio avviso, il fatale fraintendimento della trinitarietà come forma e contenuto della rivelazione che, a sua volta, deriva dall’assorbimento (impossibile!) dell’Esser-Dio di Dio nella coscienza finita per la quale vale l’identica cosa»28.

Ci siamo fermati piuttosto a lungo sulla teologia di Hegel per sgomberare il campo da ogni ambiguità e per porre in modo corretto la questione concernente l’immutabilità e la mutabilità di Dio. Il luogo teologico per porla e per chiarirla correttamente è, dunque, la cristologia che offre un percorso esclusivo, un percorso antico fino al punto di costituire l’itinerario originario di ogni teologia, ma anche nuovo, come risulta dal suo confronto, sia pure iniziale, con la prospettiva teistico-metafisica tradizionale. È proprio l’autentica concretezza della vicenda umana, quale evento storico verificatosi sotto i nostri occhi, che ci presenta e ci fa cogliere la singolarità insuperabile di Gesù. La tradizione chiama questo fatto “incarnazione”, e noi, come vedremo, sario perché sia tolto l’Uno esclusivo dell’autocoscienza del Cristo e questa stessa autocoscienza trapassi, come Spirito, nella comunità» (Ibid. 88 ss); «Hegel sottolinea il valore singolare e intranscendibile della storicità di Cristo come condizione di possibilità perché l’uomo, grazie alla rivelazione, giunga alla certezza, in quanto essere storico, della sua unità con l’Assoluto. Ma il risultato cui perviene la sua esplicazione è d’affermare al tempo stesso, come condizione di possibilità di tale accadimento, il toglimento della singolarità del Cristo e, in definitiva, di quell’Assoluto trino ricercato dalla coscienza umana come patria della propria identità» (ibid., 92). 28 L.c.


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lo spieghiamo come “progetto cristico”. La morte di croce di Gesù, come rivelazione dell’amore della Trinità nei confronti del mondo creato, è gravida di universalità, ma di una universalità che non subentra alla singolarità del Cristo per eliminarla ma che la assume e la conferma; anzi, la morte, alla quale segue la risurrezione, è il transito dall’universalità in nuce del Cristo alla sua universalità pienamente realizzata e proclamata per l’eternità; ma si tratta di una universalità sostenuta dalla singolarità del Gesù di Nazaret pre-pasquale, nei confronti del quale il Cristo risorto, vivente e glorioso è in piena continuità, e prima di ogni altra cosa con la sua individualità. Sicché, si può dire che Gesù di Nazaret, il Cristo glorioso, il Rivelatore, il Salvatore, il Figlio eterno, la seconda Persona della divina Trinità, sono la stessa e numericamente unica Persona, sia pure in fasi diverse di quello che chiamiamo “progetto cristico”. L’universalità, che non fosse il ruolo di questa Persona ma che fosse la dissoluzione di essa in un elemento di dimensioni altre rispetto a quelle individuali precedentemente indicate, cancellerebbe il “non”, che ha il compito imprescindibile di garantire l’unità e la distinzione nella Trinità, quale comunione pericoretica delle persone divine, e nel Cristo, quale Dio-uomo, e la differenza ontologica tra Dio e mondo e tra Dio e uomo. Sulla base di quanto siamo venuti dicendo, sembra scontata la possibilità di affermare sia che il mistero di Dio si coglie nell’incarnazione, sia che l’eternità di Dio è unita in modo non estrinseco alla temporalità. Tutto ciò, se, da un lato, contribuisce a chiarire l’organicità del rapporto tra economia e trascendenza e, quindi, tra Trinità economica e Trinità immanente, dall’altro, non reca alcun pregiudizio alla trascendenza divina. La teologia cristiana in ogni tempo ed in ogni luogo si è sentita impegnata a custodire la trascendenza divina. L’Occidente latino, ad esempio, nell’intento di fornire garanzie teoretiche alla trascendenza divina, elabora la sua riflessione ancorandosi saldamente al noto assioma di origine agostiniana opera Trinitatis ad extra sunt indivisa29. Una 29 «Sed plane fidenter dixerim […] Trinitatem omnipotentem inseparabiliter operari. […] cognoscitur […] inseparabilem Trinitatis operationem etiam in singulis esse rebus, quae vel ad Patrem, vel ad Filium, vel ad Spiritum sanctum demonstran-


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tale posizione ha delle conseguenze. La prima è che l’unico Dio, che certamente è trino ad intra, risulta uno ad extra, provocando l’affermarsi di un monoteismo a-trinitario gravido di conseguenze perniciose per la teologia cristiana. La seconda è che le operazioni divine ad extra, e cioè creazione, redenzione e santificazione, vengono concepite come operazioni dell’unica essenza divina e, quindi, la loro attribuzione alle divine persone non è propria bensì appropriata; e ciò accade nel modo seguente: la creazione, la redenzione e la santificazione, ritenute operazioni proprie dell’unica essenza divina, vengono per ragioni di convenienza e, in ultima analisi, estrinseche, attribuite rispettivamente al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo. La terza conseguenza è l’irrilevanza della cristologia per l’essere e la vita di Dio. A titolo di esempio, fermiamo la nostra attenzione sulla dottrina di san Tommaso d’Aquino, il quale, sulla base delle tesi generalmente condivise dell’onnipotenza e dell’immutabilità di Dio, sostiene una serie di altre tesi, che ci sembrano fortemente problematiche. La prima tesi concerne il contenuto della domanda circa il carattere creato dell’unione ipostatica tra natura umana e natura divina nel Verbo incarnato. La risposta parte dalla dottrina della relatio mixta o, altrimenti detta, relatio non ex aequo, alla luce della quale è stata tradizionalmente trattata la relazione che intercorre tra Dio e la creatura. Secondo questa dottrina, la relazione in questione, se ha, quale terminus a quo, Dio e, quale terminus ad quem, la creatura, come accade nel caso della creazione e nel caso dell’incarnazione, è meramente logica, in quanto non provoca alcun mutamento in Dio, mentre, se ha, quale terminus a quo, la creatura e, quale terminus ad quem, Dio, è reale e, quindi, è causa di mutamenti effettivi nella creatura30. Le ragioni di dum proprie pertinere dicuntur» (Augustinus, De Trinitate, 1V, 21, 30: PL 42, 909 s); «Hae tres personae sunt unus Deus, et non tres dii: quia trium est una substantia, una essentia, una natura, una divinitas, una immensitas una aeternitas, omniaque sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio» (CONCILIUM FLORENTINUM, Bulla unionis Coptorum Aethiopumque Cantate Domino, Decretum pro Iacobitis, in DH 1330). 30 «Cum igitur Deus sit extra totum ordinem creaturae, et omnes creaturae ordinentur ad ipsum, et non e converso, manifestum est quod creaturae realiter referuntur ad ipsum Deum; sed in Deo non est aliqua realis relatio eius ad creaturas, sed secundum rationem tantum, inquantum creaturae referuntur ad ipsum. Et sic nihil


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una dottrina siffatta, per la verità tutt’altro che priva di fascino, sono nel bisogno avvertito dai Padri della Chiesa di distinguere, mediante il concetto di a)pa/qeia, il messaggio cristiano su Dio dal pensiero pagano, che non esita a mettere a tema le passioni ed il pa/qoj degli déi, originati dalla natura divina o da fattori esterni ed in molti casi subìti involontariamente, e nell’esigenza teoretica della Scolastica di mettere a punto argomentazioni capaci di offrire garanzie speculative alla trascendenza di Dio ed alla sua assoluta immutabilità31. L’Aquinate, nel formulare la risposta alla domanda se, nell’incarnazione del Verbo, l’unione ipostatica tra natura umana e natura divina sia qualcosa di creato, s’inserisce in questa tradizione e sostiene che tale unione è una relazione tra le due nature, che, avendo avuto inizio nel tempo ed implicando il mutamento, interessa realmente la natura umana, mentre interessa Dio, nel quale le relazioni reali sono soltanto quelle eterne che escludono ogni tipo di mutamento, in modo soltanto nozionale32. La seconda tesi non tiene conto della relazione di origine di ciascuna delle tre divine persone: dato che la filiazione temporale non costituisce, contrariamente a quanto accade nella filiazione eterna, la persona del Figlio ed è una mera conseguenza della nascita del Figlio prohibet huiusmodi nomina importantia relationem ad creaturam, praedicari de Deo ex tempore: non propter aliquam mutationem ipsius, sed propter creaturae mutationem» (TOMMASO D’AQUINO, STh 1, 13, 7). 31 Cfr. P. Gamberini, O (lo/goj sa/rc e)ge/neto. Tesi sul “divenire di Dio”, in Sc Catt 129 (2001) 280 s. 32 «Respondeo dicendum quod unio de qua loquimur [unio divinae et humanae naturae] est relatio quaedam quae consideratur inter divinam naturam et humanam, secundum quod conveniunt in una persona Filii Dei. Sicut autem in Prima Parte dictum est (q. 13 a. 7), omnis relatio quae consideratur inter Deum et creaturam, realiter quidem est in creatura, per cuius mutationem talis relatio innascitur: non autem est realiter in Deo, sed secundum rationem tantum, quia non nascitur secundum mutationem Dei. Sic igitur dicendum est quod haec unio de quo loquimur, non est in Deo realiter, sed secundum rationem tantum: in humana autem natura, quae creatura quaedam est, est realiter. Ed ideo oportet dicere quod sit quoddam creatum» (TOMMASO D’AQUINO, STh 3, 2, 7); «Esse autem hominem convenit Deo ratione unionis, que est relatio quaedam. Et ideo esse hominem praedicatur de novo de Deo absque eius mutatione, per mutationem humanae naturae, quae assumitur in divinam personam. Et ideo, cum dicitur, Deus factus est homo, non intelligitur aliqua mutatio ex parte Dei, sed solum ex parte humanae naturae» (ID., STh 3, 16, 6).


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nel tempo, l’incarnazione avrebbe potuto avere come protagonista una qualsiasi delle divine persone ed i nomi divini, nell’economia, potrebbero essere scambiati fino a stravolgere la relazione personale di origine, addirittura attribuendo, senza che questo comporti alcuna analoga conseguenza per la Trinità immanente, la filiazione al Padre o allo Spirito33. La terza tesi ignora la “singolarità” dell’evento dell’incarnazione: si potrebbe avere un numero di incarnazioni proporzionato alla potenza della persona divina, e cioè infinito34. La quarta tesi interpreta la ke/nwsij come frutto di un decreto divino: il senso del plesso ke/nwsij-economia viene ridotto ad una dispensatio35 concessa da Dio allo scopo di non consentire alla gloria divina di pervadere totalmente l’umanità di Gesù, fino al punto di renderla impassibile e, perciò, inidonea ad operare la redenzione con la sofferenza. Le tesi tomiste testé esposte non solo non sono più universalmente condivise, ma, a nostro sommesso parere, non sono condivisibili per principio. Ci sembra, infatti, che l’onnipotenza e l’immutabilità di Dio, concepite metafisicamente, mettano in crisi il realismo biblico della cristologia e le stesse condizioni esistenziali dell’incarnazione. La Commissione Teologica Internazionale fa, sull’impassibilità attribuita a Dio, una precisazione di cui è bene tenere conto: «essa [l’impassibilità] non va concepita come se Dio rimanesse indifferente agli eventi umani. Dio ci ama d’un amore d’amicizia, vuole essere riamato. Quando il suo amore viene offeso, la sacra Scrittura parla di sofferenza di Dio; parla invece della sua gioia, quando un peccatore si converte»36. 33 «Ad primum ergo dicendum quod filiatio temporalis, qua Christus dicitur Filius Hominis, non constituit personam ipsius, sicut filiatio aeterna: sed est quidam consequens nativitatem temporalem. Unde, si per hunc modum nomen filiationis ad Patrem vel Spiritum Sanctum transferretur, nulla sequeretur confusio divinarum personarum» (ID., STh 3, 3, 5 ad primum). 34 «Potentia autem divinae personae est infinita, nec potest limitari ad aliquid creatum. […] oportet dicere quod persona divina, praeter naturam humanam quam assumpsit, possit aliam numero naturam humanam assumere» (ID., STh 3, 3, 7). 35 Cfr. ID., STh 3,45,2 ad primum. 36 COMMISSIO THEOLOGICA INTERNATIONALIS, Theologia – Christologia – Anthropologia, cit., in EV, 8/457.


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Se è vero che l’universalità del Cristo non solo non elimina la singolarità del Gesù di Nazaret pre-pasquale ma anzi ne è sostenuta, la prospettiva cristologica da noi assunta, per dare adeguate fondamenta al nostro discorso, deve prendere le mosse da quell’esistente storico-concreto che è Gesù di Nazaret, il quale, se, da un lato, è il custode del mistero più grande, dall’altro, assolve tale compito nella maniera più creaturale, più umana e più ordinaria. Sicché, se il mistero custodito è l’incarnazione del Figlio eterno, il custode, Gesù di Nazaret, vive nella storia e vi affronta ogni rischio. È così che l’incarnazione ha luogo nelle comuni condizioni esistenziali dell’uomo, l’“essere Figlio” è un effettivo “divenire Figlio” ed il Cristo glorioso è per sempre l’“Agnello Immolato”.

1.1. Condizioni esistenziali dell’incarnazione Le condizioni esistenziali dell’incarnazione, presentate soprattutto dal Corpus paulinum, ci mostrano la profondità della penetrazione del Figlio eterno nella storia concreta degli uomini e la forza con cui egli ha intrecciato la sua vicenda con le loro. La Lettera ai Filippesi, proponendo il tema dell’incarnazione kenotica, dà indicazioni eloquenti circa la completa collocazione del Figlio incarnato nelle concrete coordinate creaturali della debolezza, della fatica, del dolore e della morte37. La Lettera ai Romani ci spiega che la “carne”, che il Figlio ha scelto come propria effettiva dimensione creaturale e storico-concreta, è quella profondamente segnata e corrotta dal peccato, con annesse tutte le conseguenze che ne derivano38. La Seconda Lettera ai Corinzi porta l’immedesimazione del Cristo con gli uomini e con la loro effettiva situazione fino alla sua immedesimazione con il peccato, e cioè con l’opposto di Dio39. La Lettera ai Galati attesta l’impegno salvifico del Cristo nei nostri confronti parlando sia della sua immedesimazione con la maledizione, al fine di liberare noi dalle con37 38 39

Cfr. Fil 2, 5-11. Cfr. Rm 8, 3 s. Cfr. 2 Cor 5, 21.


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seguenze nefaste di essa, sia della sua immedesimazione con noi mediante la partecipazione della sua identità di Figlio e del suo stesso dinamismo filiale40. La Lettera agli Ebrei ci esorta a confidare assolutamente in Cristo perché egli, essendo stato sottoposto alle nostre stesse prove, ad eccezione del peccato, può comprenderci pienamente ed essere solidale con noi41. Egli, per essere esaudito, ha elevato a Dio, come tutti gli uomini, il gemito della preghiera e del lamento della vita offesa; e, per conseguire la perfezione ed essere, così, il salvatore del mondo, è passato per la scuola dell’obbedienza e del dolore42. Il Vangelo secondo Giovanni, da parte sua, insegna che il Lógos eterno si fa carne, e cioè si fa esistente storico-concreto, ed anche rivelatore di Dio, in quanto, dall’intimità del Padre, sul cui seno riposa per l’eternità, viene a vivere la sua vita filiale nella condizione-situazione di uomo come colui che compie la fatica continua di montare e smontare la sua tenda tra gli uomini, che, da parte loro, montano e smontano le proprie in tutte le circostanze di luogo, di tempo, di condizione e di situazione43. Testi così concreti indicano che la storia di Gesù di Nazaret offre, tra l’altro, le coordinate ermeneutiche per la corretta comprensione dei numerosi antropomorfismi ed antropopatismi mediante i quali nell’Antico Testamento vengono presentati Dio ed i suoi liberi modi di agire. Si comprende che non si tratta di tentativi di antropomorfizzare ontologicamente Dio o di coinvolgerlo, qualche volta fino alla complicità, nelle vicende storiche e nei disegni dell’antico Israele, bensì di profezie circa il progetto libero di Dio di pervenire a sé mediante il mondo creato e di compromettersi personalmente in esso per condurlo alla salvezza e circa la storia di Gesù di Nazaret, autorivelazione ed autodonazione di Dio in se stesso. Il Figlio incarnato è lo stesso Figlio eterno, generato, però, nel tempo e, in quanto tale, strumento della totale immersione di Dio nel male; ma, essendo Dio e, quindi, santo e senza peccato, il male in questione consiste solo nel 40 41 42 43

Cfr. Gal 3, 13; 4, 4 s. Cfr. Eb 4, 15. Cfr. Eb 5, 7 s. Cfr. Gv 1, 14.18.


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rischio personale da lui corso nella ke/nwsij che ha la sua origine e la sua giustificazione, a livello assoluto, nell’amore eterno di Dio per il mondo44 e, a livello contingente, nel peccato45.

1.2. ”Essere Figlio” e “divenire Figlio” L’incarnazione kenotica fa sì che il Figlio eterno viva nel mondo storico degli uomini come nel proprio mondo e secondo i comuni ritmi creaturali scanditi dalla temporalità, dalla gradualità, dal limite e da ogni altra esperienza, inclusi la fatica, il dolore e la morte. In breve, il Figlio vive non solo nel movimento ma anche “muovendosi”. Il movimento, quale condizione del Verbo Incarnato, deve essere inteso in ogni senso, e quindi non soltanto in senso naturale e storico, e cioè come crescita ed impegno nelle sue varie vicende umane46, ma anche in senso entitativo, e cioè come effettivo incremento di essere. L’incremento di essere in campo propriamente cristologico implica che l’“essere Figlio” sia evento secondo i ritmi del “divenire Figlio”. Il Kérygma originario, e cioè quello formulato quando ancora la cristologia non si era sviluppata e non era stata indotta a fare tutte quelle puntualizzazioni contenutistiche e linguistiche che avrebbero caratterizzato legittimamente la cristologia evoluta, consiste nell’annuncio del fatto che la storia misteriosa di Gesù di Nazaret ha conseguito il suo compimento cristico e filiale nella risurrezione: questo è il senso del discorso tenuto dall’apostolo Pietro il giorno di Pentecoste47 e delle considerazioni fatte dall’apostolo Paolo nel prologo della Lettera ai Romani48. In questi testi trovano la loro realizza44

Cfr. Gv 3, 16. Cfr. G. CHAROT, Il male. Rottura originaria tra l’amore e la potenza nell’atto creatore, in Filosofia e Teologia 9 (1995) 344-370. 46 Cfr. Lc 2, 52. 47 «Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete ucciso» (At 2, 36). 48 «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio — che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costi45


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zione le profezie del Salmo 2 e del Salmo 11049, considerate già nel Nuovo Testamento profezie della risurrezione-esaltazione del Cristo. L’aspetto concretamente più impegnativo e tematicamente più delicato dell’evento-Cristo nella storia è che la filiazione eterna, in virtù dell’incarnazione kenotica, non pure accade nella storia ma anche vi si distende incrementandosi al suo interno secondo i ritmi di ogni altro evento storico, avendo un inizio ed avanzando gradualmente verso il suo compimento. L’unica differenza tra l’evento-Cristo e tutti gli altri eventi personali meramente creaturali è che, mentre questi ultimi hanno un inizio casuale, il primo, in virtù dell’incarnazione, inizia come progetto cristico-filiale. Ma, a parte questo fatto, che pone nella storia di Gesù di Nazaret la necessità divina, l’evento-Cristo si situa e si distende tutto e totalmente nella storia, dove progresso, casualità e libertà regnano sovrane. P. Gamberini si ferma sul “risvolto cristologico” dell’uso del concetto di divenire in campo teologico, e cioè sul fatto che parlare di Gesù come di colui che diventa Figlio di Dio non arreca alcun pregiudizio al dogma dell’unione ipostatica. E dà forza al suo discorso citando una serie di grandi teologi50, come Y. Congar51, H. Kessler52, P. Coda53, W. Pannenberg54, K. Rahner55. Naturalmente, non tutti questi teologi fanno un discorso pienamente esplicito sul divenire Figlio di Gesù di Nazaret. Per tutti citiamo P. Coda, uno dei più giovani del

tuito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 1, 1-4). 49 «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Sal 2, 7); «Oracolo del Signore al mio signore: “Siedi alla mia destra fin ché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (Sal 110, 1; cfr. At 2, 34 s). 50 Cfr. P. GAMBERINI, )O lo/goj sa/rc e(ge/neto, cit., 288 s. 51 Cfr. Y. CONGAR, Credo nello Spirito Santo, trad. it., Brescia 1998, 611 s. 52 Cfr. H. KESSLER, Cristologia, in TH. SCHNEIDER (cur.), Nuovo Corso di Dogmatica, I, trad. it., Brescia 1995, 502. 53 Cfr. P. CODA, Dio uno e trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 115. 54 Cfr. W. PANNENBERG, Teologia sistematica, 2, trad. it., Brescia 1994, 432. 55 Cfr. K. RAHNER, Considerazioni dogmatiche sulla scienza e coscienza di Cristo, in ID., Saggi di cristologia e di mariologia, trad. it., Roma 1965, 231.


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gruppo, il quale, collegando l’evento filiale del Figlio incarnato con l’evento pasquale, così si esprime: «Ma è proprio per fedeltà a Dio e per amore degli uomini che Gesù vive l’esperienza della lontananza da Dio e del rifiuto degli uomini. Ed è così che Gesù “diventa” pienamente e definitivamente Figlio. Come ben comprenderà la lettera agli Ebrei, Gesù “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8). È grazie a questa esperienza abissale di sofferenza e di abbandono che Gesù, nella sua umanità, giunge alla pienezza della sua esperienza e della sua realtà di Figlio. La risurrezione si mostra così come l’attestazione escatologica di questa piena e definitiva figliolanza. Lo capirà molto bene la tradizione apostolica primitiva che applicherà proprio al momento della morte e della risurrezione di Gesù l’espressione del salmo messianico “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato” (Sal 2,7; cf. Eb 1,5; 5,5; At 13,33; Rm 1,4). In questo senso la risurrezione è l’evento della piena e definitiva figliolanza di Gesù»56.

Dopo aver citato questo testo del Coda, il Gamberini non esita a dire: «Non c’è quindi contraddizione se si afferma che Gesù “diventa” Figlio di Dio nel tempo ed “è” Figlio di Dio dall’eternità. Solo mantenendo insieme queste due affermazioni si evita tanto di ridurre la figliolanza divina di Gesù in una forma di adozionismo quanto di sminuire il realismo dei testi evangelici che sottolineano il divenire Figlio di Gesù di Nazaret»57.

Il Gamberini dimentica di inserire nella serie dei teologi citati D. Wiederkehr, il quale nella sua cristologia sistematica58 fa delle riflessioni molto articolate e solidamente fondate allo scopo di spiegare con un discorso unitario e teologicamente corretto l’evento-

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P. CODA, Dio uno e trino, cit., 115. P. GAMBERINI, )O lo/goj sa/rc e(ge/neto, cit., 288 s. 58 Cfr. D. WIEDERKEHR, Linee di cristologia sistematica, in J. FEINER – M. LÖHRER (curr.), Mysterium Salutis, V, trad. it., Brescia 1971, 559-804. 57


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Cristo come “essere Figlio” e “divenire Figlio”. Citiamo soltanto alcuni brevissimi e salienti tratti di un lungo studio del Wiederkehr: «Un tentativo di superare questo svuotamento della storicità umana di Gesù e di recuperare il terreno perduto in una divinità intesa estensivamente è quindi non solo lecito, ma necessario. Di più: se non si vuole pensare in maniera nestoriana, non si potrà estrarre dalla vita storica neppure la persona del Figlio nella sua divinità eterna, altrimenti la storia umana di Gesù non potrebbe essere definita in un senso vero come la storia del Figlio di Dio»59; «[…] l’estensione storica, la storicità umana e il suo carattere di via possono essere assunti e realizzati come forma di dispiegamento della filiazione eterna»60; «Se la filiazione eterna si espleta come esistenza umana, allora essa deve necessariamente compiersi come temporalizzazione storica e anche il cammino solo dalla fine può essere riconosciuto come commino della filiazione e Gesù stesso come Figlio. E non soltanto come se tutto ciò anche prima fosse sempre stato così pur ammettendo che ne fosse stato osservato il segreto, ma perché solo alla fine il cammino della storia umana è stato concluso chiaramente e definitivamente e la persona in quanto soggetto di questa storia ha dato espressione definitiva alla sua esistenza. […] Poiché la filiazione intradivina si è esplicata come storia umana e la recezione intradivina della vita dal Padre come recezione umano-creaturale dell’essere, l’essere-Figlio di Gesù dovette avere il carattere del divenire-Figlio. Certamente, da questo fine siamo poi necessitati a comprendere da questa determinazione e conformazione definitiva della sua storia anche l’intero cammino precedente, la persona e il soggetto di questo cammino: colui che così, mediante la morte e la risurrezione, è divenuto il Figlio deve essere Figlio di Dio già nella sua vita e fin dal principio»61.

59 60 61

Ibid., 689. Ibid., 698. Ibid., 701 s.


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A suo tempo siamo entrati in dialogo con il Wiederkehr62 e, da parte nostra, ci siamo trovati pienamente d’accordo con lui nell’intendere l’“essere Figlio” di Gesù di Nazaret come il “divenire Figlio”. E non può non essere così, se è vero che l’incarnazione kenotica consiste nel trasferirsi nel mondo e nel tempo della filiazione eterna e nel suo lasciarsi determinare e scandire secondo i ritmi del tempo. Nell’eternità la filiazione è la processione del Figlio per generazione nella perfetta e simultanea eÃkstasij di amore della reciprocità pericoretica delle tre divine persone. Nel tempo essa perde la simultaneità e, nel contempo, assume l’estensione storica, diventando un evento disteso nella storia. L’atto di generazione, che nell’eternità pone il Figlio nella simultaneità divina, trasferendosi nel mondo e nel tempo e toccando, per così dire, terra nel grembo verginale di Maria, dà inizio alla storia del Figlio, che è un vero e proprio divenire Figlio. All’inizio di questa storia — e, dicendo questo, ci permettiamo, più che di correggere, di precisare il pensiero degli autori citati dal Gamberini e da noi, al fine di evitare ogni ulteriore equivoco ed ogni possibile critica in termini di “si, però…” — non si trova l’evento filiale compiuto, bensì il “progetto cristico-filiale”, che incomincia a divenire ed a realizzarsi a partire dal misterioso concepimento di Maria, la madre di Gesù. Solo così si comprende che la novità apportata dalla risurrezione-esaltazione alla vita del Gesù prepasquale riguarda non solo i discepoli e la loro conoscenza del mistero del Cristo, non solo il mutamento di condizione dell’evento filiale (caratterizzato dalla fragilità e dalla sofferenza, prima, e dalla gloria, poi), ma anche la stessa dimensione ontologica dell’evento cristico-filiale: dall’incarnazione alla risurrezione l’evento cristico-filiale è in divenire e, quindi, implica incremento di essere. L’evento-Cristo non “scorre” nella storia come una monade compiuta, soddisfatta di sé e chiusa in se stessa, ma “si distende” nell’estensione storica, in quanto accade realmente in essa e secondo i ritmi effettivi di essa. Affinché l’incarnazione kenotica del Figlio sia vera, la storia deve essere la condizione-situazione reale del-

62

Cfr. F. CONIGLIARO, Cristo sacramento, in ID., Ermeneutica e Teologia. La struttura linguistica dell’evento-Dio nella storia, Roma 1986, 83-144.


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l’evento filiale nel tempo e non un mero involucro esterno ed estrinseco. A questo proposito, ci permettiamo di citare alcuni brevi tratti di un nostro scritto che ci sembrano abbastanza eloquenti al riguardo: «La storia umana di Gesù è la filiazione del Figlio innestata nella estensione storica. In tale nuova situazione la filiazione divina accade in maniera storica ed umana e, pertanto, non potendo più essere intesa staticamente come “natura divina”, deve essere tematizzata come “comunicazione dell’essere”, da una parte, e come “recezione dell’essere”, dall’altra. In ogni caso, in chi riceve l’essere c’è l’indisponibilità della propria origine e la progressiva accettazione dell’essere. […] Alla componente verticale dell’accettazione dell’essere corrisponde quella orizzontale della realizzazione piena dell’essere. Sicché, come per ogni esistenza storica così per l’esplicazione storica nell’esistenza umana del Figlio eterno, la completezza della forma di esistenza è raggiunta solo quando la comunicazione dell’essere è completa; e ciò accade alla fine. […] Per Gesù la fine-compimento è la morte-risurrezione-esaltazione. A partire dalla risurrezione-esaltazione, in cui la filiazione si è compiuta ed è stata rivelata, si comprende il senso della morte di Gesù, si superano tutte le ambiguità della recezione umanocreaturale dell’essere da parte di Gesù perché la si intende come esplicitazione della filiazione intradivina, il suo esse ab alio appare evidentemente come esse a Patre, ed il suo incremento di essere non avviene all’insegna della casualità ma come “divenire Figlio” e come realizzazione del “progetto cristologico”. […] Riteniamo che, come non si può chiedere a nessun soggetto storico il pieno senso del suo essere prima che questo si sia pienamente realizzato nella fine-compimento, così non si può considerare l’esistenza storica di Gesù che come un unico processo filiale, in cui ciò che è prima e che è poi ha senso filiale solo all’interno dell’unità del processo e, quindi, solo se è illuminato dalla pienezza di senso della risurrezione. Il Nuovo Testamento sia nelle cristologie a due stadi che in quelle a tre stadi ha potuto fare un discorso cristologico muovendosi all’interno delle tematiche e sulla base delle certezze offerte dalla risurrezione. Innestata nella storia, la filiazione eterna non è più l’ineffabile e perfetta attualità dell’evento ma il processo dell’evento, e, mentre nell’eternità l’atto e l’attualità della filiazione sono l’immediatezza della contemporaneità del mistero della vita tripersonale di Dio, nella storia sono l’intero processo, l’in-


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tera estensione della vita di Gesù, dalla kenosi incarnazione alla risurrezione-esaltazione. Se la simultaneità della attualità eterna fosse riprodotta nella storia, non ci sarebbe né vera kenosi, né vera incarnazione, né vera solidarietà»63; «Il coinvolgimento della totalità delle cose nel Cristo risorto è dovuto alla definitività irreversibile della incarnazione ed all’orientamento del Cristo alla risurrezione, anticipata nell’esistenza storica di lui in virtù della relazione filiale con il Padre e del “progetto cristologico”. Raggiungendo, però, la comunicazione piena della vita filiale nella risurrezione, quando i ritmi storico-temporali vengono superati, il “progetto cristologico” non è se non la presenza prolettica nel processo filiale storico della pienezza filiale»64.

1.3. La gloria dell’Agnello immolato La condizione storica ed i suoi segni interessano l’eventoCristo anche nell’eternità: in lui si trovano per sempre i segni del fatto che lui e con lui il Padre e lo Spirito, ancorché in modo diverso, hanno rischiato personalmente nel mondo, nella storia e nelle vicende tragiche delle creature. Il Libro dell’Apocalisse attesta che nell’eternità viene dato il tributo degli onori divini all’“Agnello immolato”, e cioè al Cristo glorioso, che reca nelle sue carni, e per l’eternità, i segni, ormai gloriosi, della passione65. Ciò significa che il Cristo è “per sempre” il Figlio eterno e la seconda persona della Trinità come Diouomo. Posta l’incarnazione e la risurrezione-esaltazione, l’appartenenza del Figlio incarnato all’essere divino e la sua partecipazione alla vita divina include l’umanità del Cristo, ancorché l’umanità non sia costitutiva dell’essere divino. Se tutto ciò appartiene a Dio “per sempre”, ci sembra ovvio dire che non ci troviamo di fronte a qualcosa di accessorio, di estrinseco e di accidentale, ma a qualcosa a cui l’essere 63 64 65

Ibid., 122 ss. Ibid., 130 s. Cfr. Ap 5,11-14.


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uni-trino di Dio è volto “da sempre”, e cioè qualcosa che nell’eternità e per l’eternità è stato oggetto della sua volontà e del suo desiderio. I teologi sono sempre più orientati a liberare l’eternità e la preesistenza da una imbarazzante acronicità e ad identificarle con la trascendenza di Dio e con la sua incondizionata volontà di autodonarsi senza fine: l’autodeterminazione trascendente di Dio consiste nell’assolutezza della sua autodonazione. Ci sembra che W. Kasper ed E. Jüngel, ma si tratta solo di esempi, abbiano contribuito notevolmente alla comprensione di questo fatto. Il primo scrive: «L’eternità di Dio, in altri termini, non dev’essere compresa come un’autoidentità rigida, astratta, irrelata. L’identità di Dio sta nel suo diventar-altro; l’eternità di Dio si manifesta allora nella storia attraverso la sua fedeltà. L’eternità non va determinata soltanto in modo negativo, come acronicità […]. Riemerge il significato profondo dell’idea della preesistenza. Questa non significa un prolungamento del tempo all’indietro, verso l’eternità, ma sta piuttosto ad indicare che nel suo Figlio Dio, fin dall’eternità e in libertà, è un Dio della storia ed ha sempre “tempo” per l’uomo»66.

Il secondo si esprime in maniera non meno decisa del primo: «Una dottrina di Dio orientata all’uomo Gesù deve perciò stabilire due cose: Dio proviene da Dio e solo da Dio, non viene determinato da nessuno e da nulla altro che da se stesso; egli stesso si determina a non essere senza l’uomo-Dio. Questo è il senso dell’affermazione neotestamentaria della preesistenza del Figlio di Dio identificato con Gesù. Dio viene dunque, come affermava a ragione la tradizione, da se stesso a se stesso, senza aiuto estraneo. Ma Dio conformemente alla sua propria autodeterminazione viene a se stesso in modo tale che così facendo viene all’uomo, e in modo tale che solo così viene all’uomo. Dio proviene da Dio, ma non vuole venire a sé senza di noi. Dio viene a Dio, ma con l’uomo. Perciò appartiene già alla divinità di Dio anche la sua umanità. Questo è ciò che la teologia deve finalmente imparare»67. 66

W. KASPER, Gesù il Cristo, trad. it., Brescia 1975, 258. E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, trad. it., Brescia 1982, 58. 67


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2. IL DIVENIRE IN DIO Siamo autorizzati ad adottare il termine ed il concetto di divenire in campo teologico e ad attribuirlo come predicato a Dio non dal teismo ontologico, che è una costruzione dei teologi, bensì dalla storia di Gesù di Nazaret, che ci è proposta dalla rivelazione e che ci mostra l’evento-Cristo nell’atto di realizzarsi nella concretezza storica.

2.1. Non de necessitate essentiae ma de necessitate amoris L’autorivelazione di Dio nell’evento-Cristo ci presenta un Dio che si autodetermina nell’amore. Nel mistero della Trinità immanente ciò è un fatto necessario, in quanto le tre divine persone hanno in comune l’unico essere divino secondo la ta/cij della relazione di origine che norma l’evento trinitario, ma è anche un fatto progettuale e quindi libero, in quanto le medesime tre divine persone, nell’ eÃkstasij di amore della perixw/rhsij, si donano reciprocamente lo stesso unico essere divino e vivono l’unica vita divina. Nell’economia il Dio uni-trino si dimostra assolutamente ed eternamente deciso ad accogliere in sé il creato allo scopo di farlo partecipe della sua stessa vita e, addirittura, di renderlo un momento di essa. La cristologia ci fa comprendere non solo il fatto, ma anche il perché ed il come Dio non vuole pervenire a se stesso prescindendo dal mondo. La tradizione ci trasmette un principio interpretativo di questo fatto, allo scopo di aiutarci a capacitarcene: Bonum est diffusivum sui. Si tratta certamente di un principio corretto, ma non del tutto idoneo ad esprimere adeguatamente dimensioni essenziali dell’autodeterminazione divina nell’amore, quali sono la dimensione personale e la dimensione trinitaria. L’accoglienza da parte di Dio del creato in sé, quale momento della sua stessa vita, è una effettiva novità ed implica il divenire; un divenire che è non solo conforme all’essere di Dio ma anche esigenza di tale essere; una esigenza da intendere non nel senso di bisogno o di esigenza de necessitate essentiae, ma nel senso di libera autoderminazione nell’amore o di esigenza de necessitate amoris. Dialogando con K. Barth, E. Jüngel afferma che Dio è “Essere nel divenire”, ma


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si affretta subito a fare delle precisazioni al fine di aiutare il lettore a superare lo sconcerto che potrebbe derivargli da una locuzione di tal fatta: «Qui non si parla del “Dio che diviene”. L’essere di Dio non viene identificato con il divenire di Dio; si cerca invece di localizzare l’essere di Dio ontologicamente. […] “Divenire” dice dunque il modo in cui è l’essere di Dio, e può perciò essere inteso come il luogo ontologico dell’essere di Dio. Per prevenire qualsiasi malinteso, diciamo subito: anche il luogo ontologico dell’essere di Dio è il luogo della sua scelta. Se Dio viene inteso come colui che sceglie, l’essere di Dio è già pensato come essere nel divenire. Questo circolo ermeneutico si fonda su un circolo ontologico che indichiamo con la localizzazione “l’essere di Dio è nel divenire”. La localizzazione ontologica dell’essere di Dio nel divenire tenta di pensare teologicamente in che maniera Dio è il vivente»68.

Il Barth, con cui E. Jüngel dialoga, afferma che Dio è un essere “in movimento” e che “cammina”, e lo è fin dall’eternità, in quanto è “Essere nell’atto”, e si rivela come tale nell’evento cristico, che è il concretizzarsi fondamentale e centrale nell’ad extra, cioè nella dimensione della rivelazione, della “decisione originaria”, presa da Dio liberamente e per amore, di andare in esodo nell’umanità di Cristo e, mediante essa, nel mondo per portarvi a compimento lo scopo dell’elezione69. Secondo questa linea discorsiva, l’immutabilità di Dio, di cui bisogna continuare a parlare, consiste nella sua trascendente ed assoluta capacità di libera ed infallibile autodeterminazione nell’amore. Il suo essere, la sua sostanza, la sua vita, la sua necessità, la sua libertà sono amore; il suo stesso nome è amore. Il Von Balthasar propone la sua seguente interpretazione della rivelazione del nome Dio in Ex 3,14:

68

ID., L’Essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di Karl Barth, trad. it., Casale Monferrato (AL) 1986, 69. 69 Cfr. K. BARTH, KD II/1, 288; KD I/1, 329; KD II/2, 8, 13; E. JÜNGEL, L’Essere di Dio è nel divenire, cit., 82 s.


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«Io sono fatto così che sono e sarò in ogni istante e in ogni situazione colui che è presente, attuale, reale»70.

È come dire che Dio nell’economia abbraccia con costanza assoluta ogni essere perché nell’immanenza è “culla” assoluta dell’essere. La libera autodeterminazione divina nell’amore, se nell’immanenza ha la consistenza della perixw/rhsij, e cioè dell’ininterrotta autocomunicazione delle tre divine persone secondo la relazione di origine, nell’economia si configura come esodo di Dio da se stesso alla ricerca delle creature, che, in quanto sono segnate dal limite della creaturalità e dal vulnus del peccato, sono, come abbiamo già osservato, “altro” rispetto a Dio. Le coordinate economiche vengono poste dalla passione del Figlio, in cui il Lógos è in esodo nell’“altro” da Dio, e cioè nelle creature, fino a consumarsi di amore per esse; il Padre è in esodo perché è a¦rxh¢ dell’incarnazione kenotica del Figlio, che genera nel tempo, e della sofferenza del Figlio incarnato, che invia nel mondo a fare uno scambio di posto e di destino con le creature, ponendosi, in tal modo, nel polo originante della relazione che lo congiunge al Figlio unigenito in condizione kenotica. Questi, con la sua sofferenza e con la sua morte di croce, imprime una vibrazione dolorosa all’intera relazione trinitaria che lo ha generato nel tempo, fino al polo, in cui si trova il Padre, il quale, così, soffre a causa della passione e della morte del Figlio unigenito incarnato; lo Spirito è in esodo perché geme, con le labbra del Figlio incarnato, l’Abbà della preghiera fiduciosa nel Getsemani e l’Abbà del lamento inenarrabile sulla croce. Ci sembra di poter dire che la kenosi del Lógos pone in essere un nuovo canone ermeneutico, e cioè un nuovo criterio di intelligibilità teologica: vengono superati l’intellettualismo di tipo parmenideo, che fa coincidere l’intelligibilità con l’essere, e l’intellettualismo di tipo cartesiano, che fa consistere la regola dell’intelligibilità nel principio delle idee chiare e distinte, e viene adottato come criterio di intelligibilità il Cristo che soffre e che muore e che, in quanto tale, implica in un certo modo il non-essere ed il caos. La kenosi del Lógos è la dire70

H.U. VON BALTHASAR, La persona del dramma: L’uomo in Dio, in ID., Teodrammatica, II, trad. it., Milano 1982, 263.


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zione oggettiva sicura verso la realtà di Dio, che è al di là di ogni nostro concetto e di ogni nostro discorso. Dunque, il tópos per attribuire dei predicati a Dio è la kenosi71. Ciò significa che ogni attributo di Dio deve essere pensato in armonia con questo dato, altrimenti non è veramente teologico. Oltre tutto, stando alla rivelazione, la kenosi quale tópos degli attributi di Dio è stata indicata dallo stesso Dio mediante l’incarnazione del Figlio. Gli attributi di Dio, specie infinitezza, immutabilità ed immortalità, debbono essere pensati insieme alla morte di Gesù; se ciò non è possibile, debbono essere rifiutati72. Si può dire che il Padre agisce tenendo conto delle richieste temporali del Figlio incarnato73, ma si può anche dire che le richieste del Figlio incarnato rivelano il modo in cui le tre divine persone vivono la loro vita nella perixw/rhsij trinitaria. Si può ancora dire che il Padre ha inviato il Figlio nel mondo ad incarnarsi kenoticamente anche perché, volendo pervenire a se stesso insieme alle creature e secondo la logica che ne consegue, aveva bisogno di un interlocutore umano, che fosse non trascurabile per principio (si tratta del Figlio incarnato, dell’uomo-Dio) e che, in un certo qual modo, lo costringesse a lasciarsi definire all’interno del rapporto con il suo interlocutore74. Tutto ciò è effettivamente accaduto perché il Figlio incarnato è morto sulla croce ed è risorto, mostrandosi come evento-segno esplicativo e come epifania assoluta della vita trinitaria75. La croce ci parla intrinsecamente di Dio in quanto ci rivela le vibrazioni vitali interpersonali del Dio trino. Sulla croce Dio si nasconde sub contrario76, ma si rivela direttamente come amore, perché, in

71 72

Cfr. G. BOF, Dio e il mistero cristiano, in Hermeneutica (1994) 154-171. Cfr. ID., Dire Dio, in R. GIRARDI (cur.), Pensare a Dio oggi, Roma 1988, 145

s., 151. 73

Cfr. A. MANARANCE, Il monoteismo cristiano, trad. it., Brescia 1988, 247. Cfr. J. MOINGT, Gratuité de Dieu, in RSR 83 (1995) 355. 75 P. CODA, dialogando con Hegel, vede in questi dati dei contributi notevoli offerti dal grande filosofo tedesco alla comprensione delle religione cristiana (cfr. P. CODA, Il negativo e la Trinità, cit., 313, 346; ID., La percezione della forma, cit., 76). 76 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, Giro d’orizzonte tra il pluralismo teologico, in ID., Gesù e il cristiano, trad. it., Milano 1998, 304. 74


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seguito al rifiuto dell’uomo, soffre e si lascia colpire ben oltre l’umanità di Cristo e fin nell’intimità trinitaria: «Il dramma tra l’uomo e Dio raggiunge qui la sua akmé, poiché la perversa libertà finita getta tutta la sua colpa su Dio come sull’unico imputato e capro espiatorio, e Dio se ne lascia totalmente colpire non solo nell’umanità di Cristo ma nella sua stessa missione trinitaria, dove, nel mistero dell’ottenebrazione e dell’alienazione tra Dio e il Figlio portatore del peccato, compare l’onnipotente impotenza dell’amore di Dio»77;

ciò è vero fino al punto che il dramma del peccato coinvolge la stessa Trinità78; il Dio trascendente nella croce si rivela direttamente come amore assoluto capace di tutto, anche di passio79. Insomma, la croce, in quanto nasconde Dio sub contrario, manda in frantumi tutti gli assiomi sull’immutabilità e sull’apátheia di Dio80, ma, in quanto lo rivela direttamente come amore, fa evitare alla teologia i rischi implicati nella ripresa da parte di Hegel della teologia luterana del sub contrario81, e cioè i rischi della sua riduzione ad un dato di dialettica filosofica. Per riprendere le considerazioni della duplice esigenza presente in Dio, l’esigenza de necessitate essentiae e l’esigenza de necessitate amoris, riteniamo che si possa sostenere che in Dio tutto è, nel medesimo tempo, necessario e libero: l’essere, gli attributi, l’agire, l’immanenza, l’economia. Questa asserzione, apparentemente contraddittoria, non risulta più tale se alla sua offerta di senso si dà, quale fondamento, il mistero del Cristo. Infatti, è tenendo conto della dinamica di questo mistero, che si può sostenere legittimamente che in Dio l’essere è e-statico, e cioè implica la donazione reciproca dell’essere tra le tre divine persone della Trinità nell’ eÃkstasij di amore della perixw/rhsij. Così, in Dio l’essere e-statico è l’atto di essere di Dio-Amore, 77

H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, IV: L’azione, cit., 312. Cfr. ibid., 313. 79 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, V: L’ultimo atto, trad. it., Milano 1986, 219-226. 80 Cfr. E. JÜNGEL, Dio, mistero del mondo, cit., 483. 81 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, La teologia dei tre giorni, cit., 55. 78


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dell’Essere uni-trino, della divina Trinità. L’ eÃkstasij della Trinità immanente è de necessitate essentiae, in quanto l’essere assoluto è trino e le processioni intratrinitarie sono necessarie, ed anche de necessitate amoris, per la ragione che tutto questo in Dio è anche progetto libero, e cioè interpersonale autodonazione e-statica nell’amore. L’ eÃkstasij della Trinità economica è anch’essa sia de necessitate amoris, in quanto è libera ed interpersonale autodonazione nell’amore, sia de necessitate essentiae, in quanto l’autodonazione intratrinitaria è il DioEssere-Atto-Amore.

2.2. Il páthos del Dio-agápe La teologia scolastica, facendosi guidare dall’intento di garantire la trascendenza divina, ha assunto una prospettiva metafisica ed ha parlato con convinzione dell’immutabilità di Dio. La teologia, che si nutre direttamente del messaggio biblico, avendo la molteplice esigenza di garantire sia la trascendenza divina che la dimensione storico-salvifica della rivelazione, si spinge fino a presentare Dio capace di compromettersi personalmente e liberamente nella storia del mondo e degli uomini. La croce, come abbiamo già cercato di chiarire supra, attesta in modo inequivocabile tutto questo. L’a)pa/qeia, che i Padri della chiesa mettono a tema per salvaguardare il Dio annunciato da Gesù di Nazaret da forme involontarie di pa/qoj, fortemente compromettenti per la trascendenza divina e tipiche delle divinità grecoromane, ha un posto significativo nella storia della teologia cristiana sia per le buone intenzioni degli autori che l’hanno adottata sia per gli scopi positivi conseguiti nelle varie epoche culturali nelle quali è stata proposta. La Commissione Teologica Internazionale ha fatto una presentazione sintetica e precisa di questo particolare argomento: «Senza dubbio, i padri sottolineano (contro le mitologie pagane) l’a)pa/qeia di Dio, senza negare per questo la sua compassione per la sofferenza del mondo. Per essi il termine a)pa/qeia indica il contrario di pa/qoj, parola che designa una passione involontaria, imposta dall’esterno, o anche come conseguenza della natura decaduta. Quando


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ammettono passioni naturali e innocenti (come la fame o il sonno), le attribuiscono a Gesù Cristo o a Dio in quanto egli sente compassione per le sofferenze umane […]. Talora si esprimono pure in forma dialettica: Dio in Gesù Cristo ha sofferto in un modo impassibile, perché lo ha fatto in virtù d’una libera scelta (GREGORIO TAUMATURGO, Ad Theopompum IV-VIII»82.

Tuttavia, non si può dire che l’a)pa/qeia appartenga al nucleo centrale del messaggio cristiano, anche perché non rende adeguatamente conto di tutte le forme incondizionate, libere e volontarie di pa/qoj di cui Dio è protagonista, forme ampiamente attestate dalla rivelazione biblica e pienamente armonizzabili con la trascendenza divina. Se il pa/qoj implica mutabilità e divenire, è previamente necessario intendersi sul significato di tali lemmi, in modo da conoscere i dati che essi mettono in circolo in campo teologico. Innanzitutto, ci sembra necessario dire che Dio non può né annientare se stesso né creare un altro Dio, e cioè in Dio non c’è, in senso ontologico, nessun transito né dal non-essere all’essere, e viceversa, né dalla potenza all’atto, e viceversa; non c’è alcun rischio di caduta ontologica. Se si parla di divenire in Dio, occorre escludere in ogni senso il mutamento nel suo essere, nella sua natura, nella sua essenza e nella sua sostanza. Dio è “atto puro” sia a livello ontologico, perché è atto assoluto di essere (ipsum esse subsistens) e soprattutto perché è essere-agápe83, sia a livello personale, perché è assolutamente autopossesso e relazionalità, sia infine a livello di dinamismo vitale e progettuale, perché è amore assolutamente libero ed incondizionato. Con queste esplicitazioni del senso dell’“atto puro”, attribuito a Dio quale predicato, siamo andati oltre il fronte ontologico della comprensione del mistero di Dio, pur avendone assunte tutte le esigenze imprescindibili. Ci sembra di dovere ancora precisare che l’esse ut actus purus raggiunge il livello dell’assoluta perfezione nella Trinità. Ma, proprio a tale livello, l’essere deve dimi-

82 COMMISSIO THEOLOGICA INTERNATIONALIS, Theologia – Christologia – Anthropologia, cit., in EV, 8/453. 83 Cfr. P. CODA, Trinità e ontologia dell’agape, in CredOg 21 (2001) 121, 118 s.


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nuire per lasciare spazio al Dio vivente; e lo stesso si dica del discorso sul primo nei confronti del discorso sul secondo.

2.3. Multitudo trascendens: “dare tutto” – “ritenere tutto” Il discorso teologico trinitario predica dell’unità anche la molteplicità, che, per riprendere il pensiero dell’Aquinate, non è quella numerica e quantitativa, inapplicabile a Dio, bensì la multitudo trascendens, che nella realtà, che è oggetto del discorso, esclude soltanto la divisione; tale multitudo può essere attribuita a Dio84. La tomistica multitudo trascendens ci conduce speditamente alla Trinità ed al suo dinamismo vitale intrinseco, che, secondo il linguaggio teologico tradizionale, consiste nelle processioni divine, nelle relazioni interpersonali tra le tre divine persone e nel volgersi del Dio uni-trino verso l’economia per compiervi le divine missioni. La tradizione cristiana, che da Dio esclude decisamente ogni mutamento, in quanto questo implica il passaggio dalla potenza all’atto, non può escludere il dinamismo, perché il Dio, che essa adora ed annunzia, è il Dio vivente ed amante della vita. La distinzione tra genna/w (genero) e gi/gnomai (divento) e l’adozione di e)kpo/reusij , poste solennemente in essere dalla comunità cristiana del IV secolo rispettivamente a Nicea nel 325, quale scelta antiariana, ed a Costantinopoli nel 381, quale scelta antimacedoniana, intendono, oltre che fare luce circa i rapporti interpersonali tra le tre divine persone secondo la ragione di origine, anche escludere il passaggio dalla potenza all’atto 84

«Nos autem dicimus quod termini numerales, secundum quod veniunt in praedicationem divinam, non sumuntur a numero qui est species quantitatis; quia sic de Deo non dicerentur nisi metaphorice […]; sed sumuntur a multitudine secundum quod est transcendens. Multitudo autem sic accepta hoc modo se habet ad multa de quibus praedicatur, sicut unum quod convertitur cum ente ad ens. Huiusmodi autem unum, sicut supra (q.11 a.1) dictum est, cum de Dei unitate ageretur, non addit aliquid supra ens nisi negationem divisionis tantum: unum enim significat ens indivisum» (STh 1, 30, 3); «[…] multitudo trascendens, quae non addit supra ea de quibus dicitur, nisi indivisionem circa singula. Et talis multitudo dicitur de Deo» (TOMMASO D’AQUINO, STh 1, 30, 3 ad secundum)


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in Dio Padre che genera il Figlio unigenito consostanziale85 e che spira lo Spirito, degno degli stessi atti di adorazione e di lode di cui sono destinatari il Padre ed il Figlio86. Di conseguenza, i lemmi genna/w ed e)kpo/reusij esprimono un movimento vitale, che, lungi dall’indicare passaggio dalla potenza all’atto, che è il movimento tipico delle realtà finite, evoca la vita ineffabile delle tre divine persone quale evento di eÃkstasij di amore nella reciprocità della perixw/rhsij. I teologi si sono fermati ad approfondire il dinamismo della Trinità immanente. Una impostazione ci sembra particolarmente degna di nota e congeniale alla sensibilità del nostro tempo, e cioè quella che mette a tema la presenza in Dio di un “non” originario, di un “non-essere” volto ad esprimere non un deficit di essere bensì l’“essere-nell’altro” per assoluto ed incondizionato amore. Il punto di partenza per cogliere questo dato fondamentale è il crocifisso, la cui morte, in quanto implica il “non” detto alla vita da Gesù di Nazaret con la morte di croce, è un atto di amore e di libertà, che sgorga dalla vita divina e, nel contempo, ne rivela l’intimo dinamismo, quale vita di amore in quanto Trinità, vita dell’Uno Assoluto caratterizzata dalla rinunzia a sé volta all’alterità nell’evento dell’autodonazione reciproca. Hegel, insieme ai dati condivisibili e non già ricordati, annota che la negazione al livello più alto dell’essere, che è la dottrina cristiana della Trinità, esprime libertà, garantisce la differenza ed è via all’unità dinamica87. Per l’approfondimento di questo punto del nostro discorso, ci piace fare riferimento, più che a teologi contemporanei, autori di riflessioni profondissime ed efficacissime al riguardo88, ad un teologo 85

Cfr. CONCILIUM NICAENUM I, Symbolum Nicaenum, in DH 125. Cfr. CONCILIUM CONSTANTINOPOLITANUM I, Symbolum Constatinopolitanum, in DH 150. 87 Cfr. G.F.W. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., 53. Cfr. anche P. CODA, Il negativo e la Trinità, cit., 289, 321. 88 Cfr. G. GRESHAKE, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, trad. it., Brescia 2000, 232 s.; P. CODA, Evento pasquale. Trinità e storia. Genesi, significato e interpretazione di una prospettiva emergente nella teologia contemporanea. Verso un progetto di ontologia trinitaria, Roma 1984; ID., Dio uno e trino, cit.; ID., La Trinità delle persone come attuazione agapica dell’essere uno. Il contributo di A. Rosmini per un rinnovamento della teo-ontologia trinitaria, in K.H. MENKE – A. STAGLIANÒ (curr.), Credere pensando. Domande alla teologia contemporanea nell’orizzonte del pensiero di Antonio 86


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del XIX secolo, ad A. Rosmini, che ha colto con eccezionale lucidità la fecondissima funzione dinamica esercitata dal “non” nel mistero della Trinità immanente, evento purissimo ed ineffabile di essere-nell’altro. Parlando della relazione che intercorre tra il Padre, che genera, ed il Figlio, che è generato, il Roveretano afferma che è una relazione tra due persone uguali, perché consostanziali, e distinte, ma solo per la ragione di origine; ed aggiunge che la personalità del Padre consiste nel “dare tutto” al Figlio89. Approfondendo il tema delle processioni divine, A. Rosmini fa un’altra serie di annotazioni importanti per far comprendere la sua concezione della Trinità, e noi, da parte nostra, ricordiamo soltanto la seguente: il Padre compie l’atto del “dare tutto” due volte, e cioè con la generazione del Figlio e con la spirazione dello Spirito santo: entrambi i casi implicano un “dare tutto” ed un “ritenere tutto”90. Alcune delle idee suggeriteci dal Roveretano Rosmini, Brescia 1997, 251-272; ID., Trinità e ontologia dell’agape, in Credere Oggi 21 (2001) 121, 116-125. 89 «Così si ha nelle due persone identità perfetta e numerica di essere, e solo diversità di modi che definiscono le due persone per le coscienze diverse sussistenti. E nell’una di queste coscienze personali non c’è niente più che nell’altra, eccetto che l’una ha la propria personalità che non è l’altra. Ma che una persona manchi dell’altrui personalità, non è un difetto o imperfezione; poiché avendo ciascuna tutto per sé ed in sé, e questo tutto essendo numericamente identico, ciò che resta solo diverso è l’origine, la prima dando e avendo sempre dato tutto alla seconda, il qual atto di dare è ella stessa [a questo punto il Rosmini cita l’Aquinate: Relatio autem in Deo est substantia eius – Tommaso d’Aquino, De potentia, 8, 1, ad 8], onde ella stessa non sarebbe, se non desse e avesse sempre dato tutto alla seconda. Dal che segue, che nella prima non c’è vera priorità, e nella seconda non c’è posteriorità, ma sono simultanee e coll’atto stesso costituite. La differenza dunque nascente puramente dall’origine non importa né perfezione, né imperfezione, né maggioranza, né minorità, né priorità, né posterità, ma solamente importa la costituzione di Dio uno e trino» (A. ROSMINI, Teosofia, 8 voll., Roma-Milano 1838, 1941, n. 1320). 90 «Essendo l’essere, scevro da limitazioni, un’intellezione sussistente, e questo essere intellezione intendendo pienamente se stesso, avviene che intendendo se stesso sussistente generi sussistente se stesso come oggetto. Nell’oggetto dunque del suo intendere pone tutto se stesso sussistente, dà tutto se stesso intelligente a se stesso inteso, il che è la generazione eterna del Verbo; e ama se stesso inteso pienamente, di che la terza persona sussistente termine e consumazione dell’atto amativo. Essendo tale dunque la natura divina, ella rinchiude necessariamente il concetto di un eterno dare se stesso per que’ due modi che si chiamano con vocaboli consacrati generazio-


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con le pagine della sua Teosofia sono, anche tenendo conto del contesto teologico generale nel quale vengono formulate, un contesto pervaso dalla Scolastica decadente, notevoli per finezza e profondità. Quelle maggiormente in armonia con il contesto del nostro discorso riguardano la vita divina cui ciascuna delle tre persone partecipa in condizioni di assoluta e perfetta simultaneità, coequalità e coeternità. All’interno di questo evento ineffabile la perfezione compiuta della prima persona consiste nell’atto di totale autodonazione di sé alle altre, in virtù del quale atto hanno luogo sia il “dare tutto ad altri” che il “ritenere tutto”. Nel contesto del discorso concernente le persone, il “dare tutto” ed il “ritenere tutto” coincidono perfettamente. Se si confrontano le idee rosminane ricordate con quelle contenute in un breve testo di H.U. Von Balthasar si ha l’opportunità di capacitarsi delle forti possibilità di penetrazione teoretica dell’insondabile mistero trinitario di cui è dotata l’impostazione che stiamo prendendo in esame: ne e spirazione. L’atto dunque del principio fontale della divina Trinità è un atto che tende sempre in un altro, e in un altro, e quest’altro e altro, l’ha sempre ab aeterno raggiunto e di sé promanato. Ma se quest’altro e altro fosse fuori del principio producente, in tal caso il principio con quell’atto avrebbe cercato un termine fuori di sé, e così sarebbe stato imperfetto e insufficiente a se stesso. I due termini dunque proceduti così dal principio rimangono nel principio, ma nello stesso tempo sussistono in se stessi per loro proprie e personali coscienze, per le quali l’uno di essi sa di essere generato, e l’altro sa di essere spirato, mentre il principio ha la coscienza personale di essere principio generante, e spirante insieme col suo generato. In quanto dunque i due termini promanati rimangono nel Principio che di sé li produce e promana, in tanto compiono la stessa persona che è Principio, e costituiscono la sua sapienza e bontà, essenziale ad essa, ed essenziale siccome comunicata alle altre due persone. Onde, in questa costituzione della divina Trinità, nell’operazione del principio si distinguono logicamente, non realmente, due note o condizioni: 1° un dare tutto ad altri; 2° un ritenere tutto, ossia un mettere tutto in atto in se medesimo: di maniera che l’essenza divina, che è nel principio e che viene comunicata, è messa in atto per lo stesso atto pel quale sono messe in atto le divine persone distinte realmente tra loro. Di che risulta, che il dare tutto se stesso al proprio oggetto e all’oggetto amato è quell’atto con cui si costituisce il principio stesso nell’ultima e infinita sua perfezione. Onde, l’essere i termini altri dal principio è ciò che costituisce il Principio e la sua perfezione; perché questo né sarebbe, né s’intenderebbe, né sarebbe perfetto se non producesse di sé que’ termini, che come tali sono altri da lui, mentre l’atto del produrli è lo stesso Principio producenteli in se stesso, e altri da se stesso» (ibid., n. 1383).


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Se si assume questa impostazione, ci si viene a trovare all’interno di un transito concettuale di portata capitale, e cioè il transito dall’ontologia dell’essere all’ontologia della dedizione92.

2.4. Dall’eternità al tempo: una somiglianza sempre maggiore Le missioni trinitarie, che sono l’impegno delle tre divine persone ad extra, e cioè nell’economia, si verificano secondo la ta/cij delle relazioni interpersonali della Trinità immanente. Le considerazioni di K. Barth sull’identità tra la realtà del Dio della rivelazione e della salvezza e la realtà del Dio che vive nella profondità inesplorabile della sua eternità93 e quelle di K. Rahner circa l’identità tra Trinità economica e Trinità immanente94 riprendono e ripropongono in prospettiva nuova spunti sia di antiche dottrine patristiche sia della tradizionale teologia sistematica circa l’identità tra le missioni divine e le processioni divine, con la differenza che, mentre gli effetti delle processioni sono in seno alla stessa Trinità in quanto sono il Figlio generato e lo 91

H.U. VON BALTHASAR, Le persone del dramma: l’uomo in Dio. Teodrammatica II, trad. it., Milano 1982, 243. 92 Cfr. P. SEQUERI, La nozione di persona nella sistematica trinitaria, in A. PAVAN – A. MILANO, Persona e personalismi, Napoli 1987, 309-331. 93 Cfr. K. BARTH, KD I/1, 503. 94 Cfr. K. RAHNER, Osservazioni al trattato dogmatico «De Trinitate», in ID., Saggi teologici, trad. it., Roma 1965, 605-631; ID., Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in J. FEINER – M. LÖHRER (curr.), Mysterium Salutis, III, trad. it., Brescia 19723, 413-434; ID., La Trinità, trad. it., Brescia 20084, 81-100.


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Spirito Santo spirato, gli effetti delle missioni sono tra le creature e consistono nell’economia salvifica. È come dire che la Trinità, autorivelandosi ed autodonandosi in se stessa, rivive nelle creature la vita divina che possiede nell’eternità, e la rivive in modo nuovo, e cioè rischiando personalmente nell’incarnazione kenotica del Figlio e nel gemito dell’Abbà emesso dallo Spirito per bocca del Figlio agonizzante nel Getsemani e morente sul Calvario. Perfino l’abbandono del Figlio incarnato da parte del Padre deve essere compreso come l’atto d’Essere del Dio-agápe, che è la Trinità95. Ciò significa che l’abbandono del Figlio nel tempo è da intendere come continuazione nell’economia dell’eterno atto di eÃkstasij, mediante il quale il Padre cede il proprio essere al Figlio nell’ eÃkstasij reciproca, che è lo Spirito. A tale proposito, alcuni grandi teologi usano parole dotate di grande efficacia. H.U. Von Balthasar collega l’autodonazione di Dio nell’incarnazione con la sua autodonazione interpersonale nella vita intratrinitaria: «L’esternarsi di Dio (nella incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nell’esternabilità eterna di Dio, nella sua donazione tripersonale»96.

K. Barth, nell’essere di Dio quale actus in se stesso, vede la passione e l’obbedienza del Figlio che patisce e le considera azioni divine: la «passione di Dio dev’essere intesa fin dall’inizio come azione divina»97; appartiene «alla vita immanente di Dio che vi sia presente come evento anche l’obbedienza»98. Se le cose stanno come abbiamo appena finito di dire, e cioè se è la vita della Trinità immanente a trasferirsi nell’economia, non si deve pensare che il tempo è pervaso dall’eternità ed i suoi ritmi sono stati soppiantati dall’eternità? Quanto abbiamo già acquisito dalla cristologia ci autorizza a rispondere negativamente a questa domanda. Di fatti, 95

Cfr. P. CODA, Dibattito, in P. CODA – E. SEVERINO, La verità e il nulla. Il rischio della libertà, Cinisello Balsamo (MI) 2000, 70. 96 H.U. VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, trad. it., Brescia 1971, 40. 97 Cfr. K. BARTH, KD IV/1, 280. 98 Cfr. ibid., 209. Cfr. E. JÜNGEL, L’Essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di Karl Barth, trad. it., Casale Monferrato (AL) 1986, 149.


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l’incarnazione kenotica non consiste nell’assunzione della natura umana da parte del Figlio eterno99, ma nell’accadere della filiazione eterna nel tempo, secondo i ritmi del tempo e nella condizione-situazione di chi vive nel tempo, e cioè delle creature. Quindi, la domanda che s’impone riguarda, semmai, il rischio che il tempo ed i suoi ritmi soppiantino l’eternità. In tal modo, il discorso che stiamo facendo perviene ad uno snodo cruciale: la novità che l’incarnazione kenotica, che è divenire e movimento, pone in essere in Dio è anche mutamento nel senso entitativo del termine? Certo è che il tempo non soppianta l’eternità per la semplice ragione che non è in grado di imporsi ad essa; è, invece, essa stessa che discende e si situa nel tempo, fino ad assumerne i ritmi, con quell’atto divino assolutamente libero che è l’incarnazione kenotica del Figlio eterno. Origene esprime a suo modo un’idea riconducibile a quella appena esposta, ed aggiunge la motivazione: «Primum passus est, deinde descendit et visus est. Quae est ista quam pro nobis passus est passio? Caritas est passio»100.

Nel dolore e nella morte, che di per sé sono oscurità, la libertà dell’amore del Figlio incarnato sconvolge l’ovvia e naturale logica degli eventi, rendendoli capaci di esprimere dialetticamente realtà luminose. La tensione dialettica è una caratteristica costante dei discorsi che riguardano questo argomento. Se ci fermiamo a considerare i Padri che hanno parlato della sofferenza di Dio in termini di sofferenza di amore e di eccedenza dell’essere divino, e tra essi si distinguono Origene101 e Gregorio il 99

La presentazione dell’incarnazione del Figlio eterno in termini di “assunzione” della natura umana è certamente ortodossa, in quanto riprende il dogma calcedonese e viene riproposta costantemente nella teologia e nella predicazione ecclesiale, ma corre il rischio, nonostante tutte le buone intenzioni di chi la adotta, di essere interpretata in senso monofisita, perché può far pensare che il Verbo abbia estrapolato, assumendola, la natura umana dalla sua effettiva concretezza e l’abbia resa incapace, sollevandola fino al proprio livello, di operazioni autenticamente umane. 100 ORIGENE, Homilia VI in Ezechielem, VI, 6, in PG 13, 714. 101 «Pater quoque ipse et Deus universitatis, longanimis et multum misericors et miserator, nonne quodammodo patitur? An ignoras quia quando humana dispensat,


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Taumaturgo102, si deve dire che non hanno mai pensato di coinvolgere la natura divina e che, quindi, è insensato contrapporre loro il Damasceno, come se le asserzioni di quest’ultimo circa l’impassibilità della natura divina costituissero, rispetto alle loro posizioni, un progresso fatto dalla riflessione cristologica e trinitaria nel settore dell’immutabilità divina103. Anche i teologi mettono in evidenza il carattere dialettico in questione. Ad esempio, il Von Balthasar si esprime in modo inequivocabile: «I concetti di “povertà” e “ricchezza” diventano dialettici, ciò che qui non sta già a significare che l’essenza di Dio sia in sé (univocamente) “kenotica” e che quindi un solo concetto possa comprendere il fondamento divino della possibilità della kenosi e la kenosi stessa (in questa direzione si collocano alcuni errori dei moderni kenotici), bensì che — come ha tentato di dire alla sua maniera Ilario — la “potenza” divina è così costituita che può gestire in se stessa la possibilità di un autoannichilimento, qual è quello dell’incarnazione e della croce, e sostenere questo annichilimento fino alla fine»104.

Alle considerazioni del Von Balthasar uniamo quelle del Kasper, che sono dotate di non minore acutezza ed efficacia: «L’autoalienazione di Dio, la sua impotenza e sofferenza non esprimono, come invece negli esseri finiti, una carenza, un destino ineluttabile. Se Dio soffre, egli soffre in modo divino, cioè la sua sofferenza è espressione della sua libertà. Dio non viene colpito dalla sofferenza ma si lascia da essa colpire in libertà. Egli non soffre come le creature, per mancanza d’essere, bensì per amore e nel suo amore, che è la sovrabbondanza del

passionem patitur humanam?» (ibid., 714 s.); «Compatitur Deus miserando: non enim visceribus caret» (ibid., 811). 102 Cfr. GREGORIO IL TAUMATURGO, A Teopompo, sulla impassibilità e passibilità di Dio; cfr. anche L. ABRAMOWSKI, Die Schrift Gregors des Lehrers “Ad Theopompum” und Philoxenus von Malburg, in ZKG 89(1978) 273-290. 103 Cfr. GIOVANNI DI DAMASCO, De fide orthodoxa, III, 26, in PG 94, 1093-1096. 104 H.U. VON BALTHASAR, Le persone del dramma: l’uomo in Dio. Teodrammatica II, trad. it., Milano 1982, 243.


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Francesco Conigliaro suo essere. Riconoscere a Dio un divenire, una sofferenza, un movimento non significa riconoscerlo come Dio-in-divenire, capace di raggiungere la propria pienezza d’essere soltanto mutando: questo passaggio dalla potenza all’atto è assolutamente da escludersi in Dio. Riconoscere a Dio un divenire, un movimento, un soffrire significa invece riconoscerlo come pienezza d’essere, come pura attualità, come sovrabbondanza di vita e di amore. Appunto perché onnipotenza dell’amore, Dio può, per così dire, anche permettersi l’impotenza dell’amore, cioè entrare nella sofferenza e nella morte senza soccombere»105.

Da parte loro, i grandi pronunciamenti conciliari sull’immutabilità di Dio hanno mostrato di avere compreso, e fin dall’inizio, la portata analogica e, quindi, dialettica e non univoca dell’attribuzione a Dio del concetto di immutabilità. Le asserzioni che il Concilio di Nicea del 325106 ed il I Concilio di Costantinopoli del 381107 fanno circa l’immutabilità di Dio intendono escludere ordinatamente la creaturalità del Lógos e dello Spirito Santo. I concili di Efeso del 431108 e di Calcedonia del 451109 mirano anche, ciascuno a suo modo, a precisare l’impassibilità, secondo la natura divina, del Lógos incarnato, che invece, secondo la natura umana, è passibile. Il Concilio Lateranense IV del 1215, nel parlare dell’impassibilità di Dio, si lascia guidare soltanto dall’intenzione di affermarne la trascendente semplicità e la perfetta unità110. Il Concilio Vaticano I del 1870, che definisce l’immutabilità di Dio, intende con decisione escludere ogni possibile confusione tra Dio e mondo e negare l’appartenenza di un qualche frammento della storia e del creato alla trascendente realtà divina111. Su questi dati e solo 105

Cfr. W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, trad. it., Brescia 1984, 264 s. Cfr. CONCILIUM NICAENUM I, Symbolum Nicaenum, in DH 125 s. 107 Cfr. CONCILIUM CONSTANTINOPOLITANUM I, Symbolum Constatinopolitanum, in DH 150. 108 Cfr. CONCILIUM EPHESINUM, Epistula (II) Cyrilli episcopi Alexandrini ad Nestorium, in DH 251a-251e. 109 Cfr. CONCILIUM CHALCEDONENSE, Symbolum Chalcedonense, in DH 300-303. 110 Cfr. CONCILIUM LATERANENSE IV, Caput I De fide catholica, in DH 800 s. 111 Cfr. CONCILIUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica Dei Filius de fide catholica, Caput I De Deo rerum omnium creatore, in DH 3001 ss. 106


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su questi il magistero delle grandi assisi conciliari ricordate vincola la comunità cristiana. Una sana ermeneutica preferisce la regola dell’interpretazione restrittiva del magistero dei testi conciliari, nel senso che esso è limitato alle questioni che con la loro problematicità hanno interpellato la comunità cristiana al tempo in cui i concili sono stati convocati e celebrati. In concreto, il magistero dei grandi eventi ecclesiali ricordati si identifica con l’intenzione didattica da essi espressa negli ambiti tematici e problematici dell’immutabilità e dell’impassibilità di Dio, che sono stati trattati e che noi abbiamo recato all’evidenza, e non consiste e non può consistere nella sua estensione generalizzata a tutti gli ambiti nei quali compaiono i lemmi immutabilità ed impassibilità o mutabilità e passibilità. La dimensione dialettica sulla quale stiamo fermando la nostra attenzione è presente in modo più o meno esplicito nei documenti magisteriali ricordati, ma raggiunge un livello molto alto di espressione nei documenti del Concilio Lateranense IV: «inter creatorem et creaturam non potest tanta similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda»112.

In questa dottrina l’analogia entis raggiunge il livello massimo, in quanto viene messa a tema la dissomiglianza sempre maggiore, che si viene a determinare tra creatore e creatura, all’interno di una pur grande somiglianza. È come dire che l’uomo, quando, sulla base delle sue possibilità, tenta di colmare conoscitivamente lo iato che lo separa da Dio, non può non assistere all’inabissarsi di Dio nella sua totale alterità. A detta di E. Jüngel, E. Przywara, che prende atto del grande lavoro fatto dal Lateranesne IV nel settore dell’analogia113, oscilla tra due proposizioni: “dissomiglianza sempre maggiore all’interno di una pur grande somiglianza” e “somiglianza sempre maggiore all’interno di una tanto grande dissomiglianza”, ma propende per la prima, in quanto, secondo lui, l’analogia entis raggiunge l’acme nella formula del Lateranense IV. E. Jüngel, però, non si ferma a queste annotazioni, ma, 112 113

CONCILIUM LATERANENSE IV, Caput II De errore abbatis Ioachim, in DH 806. Cfr. E. PRZYWARA, Analogia entis. Metafisica, trad. it., Milano 1995, 313-335.


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ponendosi nell’ottica degli eventi della rivelazione e dell’incarnazione, secondo cui Dio, provenendo dall’abisso della sua totale alterità, discende verso l’uomo lungo un percorso di sempre maggiore affinità, fino a portare la somiglianza tra creatore e creatura al massimo grado possibile, opta per la seconda proposizione114. È come dire che Dio, quando, in virtù della sua eterna onnipotenza, della grandezza sconfinata del suo amore e dell’assoluta incondizionatezza della sua libertà, vuole colmare lo iato che lo separa dalle creature, si rende talmente prossimo ad esse da correre personalmente nella storia i loro stessi rischi. In ogni modo, sia che si segua la linea ascendente del Lateranense IV e di E. Przywara sia che si segua la linea discendente proposta da E. Jüngel, l’esito è sempre quello della tensione dialettica di cui si diceva. Nell’evento dell’incarnazione il tempo non soppianta l’eternità, ma le si offre come luogo dove rivelarsi, mostrarsi e farsi conoscere e dove presentare i suoi progetti. L’economia cristica, con al centro la kenosi dell’incarnazione, non solo impegna le tre divine persone ma anche le rivela: il Padre, in quanto è principio del Figlio per generazione e dello Spirito per spirazione, dimostra di non volere essere Dio solo per se stesso e chiama le altre due persone a prendere parte ad un possesso equiessenziale della medesima divinità, ed esse rispondono non accaparrandosi autonomamente e separatamente la divinità in questione, ma concorrendo, ciascuna a suo modo, al possesso interpersonale di essa. In questo processo di autodedizione reciproca c’è non soltanto l’atto assoluto dell’ eÃkstasij dell’amore, che spinge le tre divine persone della Trinità ad offrirsi reciprocamente come amore l’unico essere divino, ma anche una distanza infinita assoluta, che le rende per l’eternità protagoniste e custodi del possesso interpersonale ed equiessenziale della divinità: il Padre, in quanto principio, lo pone, il Figlio lo accoglie con un atto eterno di eucaristia e lo Spirito lo conferma e lo suggella. H.U. Von Balthasar scruta all’interno di questa distanza, che ha la sua origine nel Padre, e vi scorge ogni altra possibile distanza115. Vi scorge anche la possibilità della distanza più gran114 115

Cfr. E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo, cit., 367-389. « Il Padre […] è questo movimento di donazione, senza trattenersi come per


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de: il no opposto non solo al comandamento di Dio ma addirittura al suo stesso essere: «Nell’amore del Padre si trova una rinuncia assoluta ad essere Dio solo per se stesso, un lasciar andare dell’essere divino e, in questo senso, una (divina) a-teità (naturalmente dell’amore), che non è lecito confondere in nessun modo con l’ateismo intramondano ma che tuttavia fonda (superandola) tale possibilità»116.

La ragione più profonda di tutto questo è la kenosi dell’incarnazione che interessa direttamente lo stesso Padre e che il Von Balthasar chiama sovrakenosi: «Noi non sapremo mai esprimere la profondità abissale dell’autodonazione del Padre, il quale, in una eterna ‘sovrakenosi’, si ‘priva’ di tutto ciò che egli è e può per produrre un Dio consostanziale, il Figlio. Tutto ciò che si può pensare e immaginare di Dio è, in anticipo, incluso e superato in questa destituzione di sé che costituisce la persona del Padre e, al tempo stesso, quella del Figlio e dello Spirito»117.

2.5. Potenza e impotenza La ragione originaria della mutabilità di Dio e di ogni discorso al riguardo è nel misterioso intreccio in Dio di potenza ed impotenza, che si rende evidente già nella kenosi dell’autodonazione intradivina. Ma si rende evidente anche al di fuori di Dio, e cioè sia nella creazione del mondo, ed in particolar modo nella creazione di creature intelcalcolo qualcosa. Questo atto divino che genera il Figlio come la seconda possibilità ad aver parte all’identica divinità e ad essere essa stessa, è la posizione di una distanza infinita assoluta, all’interno della quale tutte le altre possibili distanze possono essere incluse e comprese, le distanze che possono aggiungersi all’interno del mondo fino a non escludere il peccato» (H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, IV: L’azione, cit., 301). 116 L.c. 117 H.U. VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni, cit., 22.


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ligenti e libere capaci di autodeterminarsi perfino in opposizione con la libertà divina, sia nell’economia salvifica, in cui Dio si consuma di amore per le sue creature. In entrambi i casi la potenza di Dio è assoluta. Nel caso della creazione, perché pone in essere, e dal nulla, l’intera realtà e le creature costituite a sua immagine e somiglianza. Nel caso della salvezza, in quanto genera il proprio Figlio nel mondo con l’evento dell’incarnazione kenotica affinché realizzi una duplice forma di solidarietà con l’umanità e con il creato: prendere su di sé il peccato del mondo e portarlo sulle proprie spalle fino alla morte di croce; assimilare alla propria identità filiale l’intera umanità, alla quale si è reso simile e si è indissolubilmente congiunto con l’incarnazione, fino a condividere con essa, una volta risuscitato e glorificato, il posto, che nell’intimità dell’essere divino uni-trino è assegnato a lui quale Figlio eterno incarnato e glorioso. Il Padre fa spazio nell’intimità dell’essere divino all’umanità del Figlio, che così ha parte alla pericoresi delle tre divine persone appartenendo personalmente ad una soltanto di esse e pericoreticamente a tutte e tre, e, per mezzo di essa ed insieme ad essa, vi accoglie le creature umane ed ogni altra creatura. La rivelazione non ci propone eventi economici capaci di rappresentare, più e meglio di quelli indicati, il dispiegarsi della potenza divina. La creazione e la salvezza mostrano anche l’impotenza di Dio. E innanzitutto perché nel mondo è presente, in modo sconvolgente ed in ogni senso, il male. Il problema impegna da sempre l’uomo e tutte le sue possibilità e capacità di riflessione e di azione118. La sua trattazione raggiunge livelli altissimi di tensione in ambito teologico, quando, irrompendo in esso nella sua forma tangibilissima del dolore, minaccia di travolgere Dio relegandolo nel non senso e dichiarando falsa l’idea che la creazione sia opera di un Dio creatore buono119. La lunga riflessione sulle immani sofferenze subite da Israele a causa della Shoah scatenata dal nazionalsocialismo nel corso degli anni ’30 e ’40 del secolo XX, hanno indotto H. Jonas a farsi di Dio l’idea di un 118

Per orientarsi cfr. F. CONIGLIARO, Libertà male Dio, Monreale (PA) 2002. Cfr. G. BÜCHNER, Dantons Tod, in ID., Werke und Briefe, München 1973, 3040; cfr. anche J.A. ESTRADA, ¿Desde el sufrimiento encontrarse con Dios?, in Communio 32 (1999) 103-115. 119


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essere debole ed in divenire: egli viene nel mondo, caratterizzato dal divenire, e, spogliandosi della propria divinità, vi corre ogni rischio, fino ad esserne travolto. Il rischio più grave, per altro effettivamente incorso, è quello dell’incapacità di salvare il popolo dell’antica alleanza: insieme ad esso subisce il male da impotente nell’impotenza. Non si tratta di un caso isolato, in quanto è la stessa creazione dell’uomo libero ad avere come conseguenza la privazione di Dio della sua potenza. Date l’incontestabilità del male, soprattutto come si è manifestato ad Auschwitz, e l’innegabilità della libertà dell’uomo, non si può continuare a parlare di un Dio onnipotente. Ovviamente, Dio non cessa di essere Dio, ma, essendo in divenire, alla fine e solo alla fine, quando il corso del divenire si sarà concluso, riconquisterà la propria divinità e si rivelerà nella sua piena realtà120. Come si vede, nel trattare il problema del male in ambito teologico, H. Jonas ha adottato il metodo dialettico hegeliano ed è pervenuto ad una sintesi, che, però, risulta incapace di accogliere il dato biblico, che in modo inequivocabile attribuisce a Dio la potenza creatrice e salvifica. D’altra parte, la presenza del male nel mondo fa divieto di attribuire a Dio l’onnipotenza senza corredarla di qualificatori opportuni, che le consentano di offrire senso in sintonia con la rivelazione. Non si tratta di ricorrere a strategie di immunizzazione, ma di consentire al messaggio rivelato di pervenire a noi il più possibile integro e di illuminare i nostri discorsi. Orbene, la Scrittura ci autorizza a parlare della debolezza di Dio nel contesto teologico della kenosi e della solidarietà del Cristo, il quale si situa nel limite dell’impotenza volontariamente e, come abbiamo già detto, de necessitate amoris, in cui è strutturalmente implicata la libertà. Di conseguenza, se vogliamo continuare a parlare della debolezza e dell’impotenza di Dio, non abbiamo altra possibilità teologicamente corretta che quella della tematizzazione del rischio volontario scelto da Dio contestualmente al progetto della creazione, e soprattutto della creazione della creatura intelligente e libera121. 120

Cfr. H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz Auschwitz. Una voce ebraica, trad. it., Genova 1989, 35 s.; ID., Philosophische Untersuchungen und metaphysische Vermutungen, Frankfurt a.M. 1992, 209-255. 121 Cfr. J. BEMPORAD, Cosa possiamo dire di Dio noi ebrei dopo l’Olocausto?, in


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Nell’incondizionata creazione della creatura libera e nell’averla affidata, insieme all’intero creato, alla sua responsabilità si trova l’origine della debolezza e della vulnerabilità di Dio122.

2.6. Dio, che “diventa” non “per se stesso” ma “per noi”, “diventa” anche “in se stesso” Se la parola-chiave di tutto il discorso precedentemente fatto è libertà, occorre trarre coerentemente alcune conseguenze: il rischio corso da Dio può essere compreso correttamente soltanto in una unità organico-sistematica con la libertà; il mutamento ed il divenire in Dio non accadono nell’essenza divina, come se implicassero il passaggio dalla potenza all’atto, ma nelle tensioni personali intradivine e nel rapporto interpersonale che lega Dio alle sue creature, a partire da quelle intelligenti e libere; il mutamento nelle tensioni divine interpersonali non arreca alcun pregiudizio alla realtà delle relazioni e delle processioni intratrinitarie, che costituiscono il Dio uni-trino. Queste considerazioni sono premesse del seguito del discorso che concerne l’incarnazione kenotica e la conseguente variazione di modalità da essa provocata nella sempre immutabile relazione che intercorre tra Padre, Figlio e Spirito. Per approfondire questo fatto, ci sembra opportuno dialogare con alcuni autori. Il primo è un autore da noi già più volte citato, e cioè P. Gamberini, il quale a più riprese si pronuncia a favore di una impostazione abbastanza diffusa. Svolgendo la VI Tesi, si ferma sul pensiero di Filossèno di Mabboug († 523), padre della chiesa giacobita, e ne raccoglie la distinzione tra “divenire con mutamento”, che implica il passaggio dalla potenza all’atto e dal non-essere all’essere, ed il “divenire senza mutamento”, che s’identifica con l’incarnazione.

E. BACCARINI – L. THORSON (curr.), Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l’oggi, Milano 1998, 78. 122 Cfr. B. REY, Tout-puissance et faiblesse de Dieu, in La vie spirituelle 154 (2000) 48.


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La conseguenza è che il divenire uomo non serve a Dio per diventare se stesso, ma per donarsi gratuitamente per amore. Dunque, «“Dio diventa senza cambiare poiché diventa per noi e non per se stesso”. Dio non ha bisogno di essere quello che non è ancora. Se Dio diventa uomo, non lo diventa perché non è ancora Dio ma perché è amore gratuito e disinteressato. Con divenire senza mutamento, dunque, Filossèno intende che Dio “diventa per noi e non per se stesso”»123.

Svolgendo la X Tesi, così scrive: «Dio non diventa ciò che non è, ma diventa ciò che è in relazione col creato. Dio è amore originariamente e incondizionatamente in sé; allo stesso tempo diventa amore per noi»124.

Non si vede come non si possa essere d’accordo con il Gamberini sia circa il fatto che Dio entra in rapporto con le creature secondo il modo in cui egli è e vive, sia circa il fatto che egli, realizzando tale rapporto, resta ciò che è, con la sola eccezione che lo è anche in rapporto con le creature e non più soltanto in sé, sia, infine, circa l’atto opportuno di indicare quest’ultimo fatto con il termine “diventa”. Ora, a noi il discorso del teologo napoletano pare riduttivo, in quanto sembra che l’evento del “diventare”, da esso messo a tema, riguardi soltanto l’ad extra di Dio, cosa che aprirebbe la via per un ritorno alla vecchia teoria della relatio mixta. A parer nostro, invece, il fatto che all’essere ed alla vita di Dio si aggiunge il rapporto con le creature è già una novità e, ancora di più, è fonte della novità in Dio o, se si vuole, del suo divenire. Infatti, entrare in rapporto con le creature è causa di mutamento in Dio perché provoca non solo azione e reazione in lui, ma anche una variazione all’interno delle relazioni intratrinitarie, e non nel senso che tali relazioni vengano meno o subiscano mutamenti nell’ambito del loro legame con l’origine, bensì nel senso che il loro rela123 P. GAMBERINI, )O lo/goj sa/rc e)ge/neto, cit., 278. Il Gamberini cita A. DE HALLEUX, Philoxène de Mabbog. Sa vie, ses ècrits, sa theologie, Louvain 1963, 344. 124 P. GAMBERINI, )O lo/goj sa/rc e)ge/neto, cit., 285.


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zionarsi con le creature, con un legame che va ben oltre il rapporto che lega il Creatore alle creature, apporta una novità nella stessa vita divina e, dunque, un mutamento ontologico, non del tipo del transito dalla potenza all’atto, ma nelle tensioni vitali intradivine del Dio-agápe, in quanto si rapportano con le creature. Inoltre, si può essere d’accordo con il Gamberini anche circa il fatto che nell’incarnazione Dio «diventa per noi e non per se stesso», in quanto si tratta di un dato più che ovvio: l’incarnazione non è de necessitate essentiae e, dunque, non è un fatto che serve alla realtà di Dio perché sia tale, ma è de necessitate amoris, e cioè è un atto di amore eterno della divina Trinità che deborda liberamente ed incondizionatamente nel mondo della creazione. Tuttavia, dire che Dio “diventa per noi” non basta, in quanto, anche se è corretto sostenere che non diventa “per se stesso”, non si può negare che diventi “in se stesso”, come il variare delle tensioni vitali intradivine del Dio-agápe, a motivo del loro rapportarsi con le creature, attesta. Andando, poi, a J. Moltmann, ci troviamo di fronte a parole forti ed inequivocabili ed alla presentazione del variare delle tensioni vitali intrinseche che attraversano la Trinità in occasione del suo impegno principale tra le creature, e cioè l’incarnazione kenotica del Figlio: «Il Padre consegna il proprio Figlio alla croce, per diventare il Padreche-consegna. Il Figlio è colui-che-è-consegnato a questa morte, per diventare il Signore sui morti e sui viventi. E se Paolo qui pone l’accento sul “Figlio proprio” di Dio, lo fa per esprimere il concetto che quel “non risparmio” e abbandono coinvolgono il Padre stesso. Abbandonando il Figlio, il Padre abbandona anche se stesso. Consegnando il Figlio, si consegna anche il Padre, benché non alla stessa maniera. Se Gesù infatti soffre l’agonia dell’abbandono, non però la morte stessa, perché la morte non può essere più “sofferta” in quanto la sofferenza presuppone la vita, il Padre invece, che l’abbandona e lo consegna, soffre la morte del Figlio nel dolore senza fine dell’amore. […] Per capire ciò che sulla croce si è verificato tra Gesù e il suo Dio e Padre, bisognerà esprimersi in termini trinitari. Il Figlio soffre l’agonia, il Padre soffre la morte del Figlio. Il dolore del Padre qui è della stessa intensità della sofferenza sperimentata dal Figlio morente. La mancanza del Padre, che il Figlio prova, risponde alla mancanza del


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Figlio che il Padre sente. E se Dio si è costituito Padre di Gesù Cristo, nella morte del Figlio egli soffre anche la morte del suo essere-Padre. In caso diverso, la dottrina trinitaria si muoverebbe ancora su uno sfondo monoteistico»125.

Le tensioni personali che intercorrono tra Padre e Figlio, tensioni che implicano identità e differenza, vicinanza e lontananza, amore ed abbandono, non riguardano soltanto le prime due persone della Trinità, ma coinvolgono anche lo Spirito, il quale, nella prospettiva della kenosi, si trova ad assolvere il ruolo personale del “noi” non solo nella festa ineffabile della comunione intratrinitaria ma anche nell’infinito dolore dell’amore che, per così dire, squassa la comunione delle tre divine persone in occasione della passione e della morte del Figlio incarnato. La parola di J. Moltmann ci sembra ancora una volta dotata di particolare efficacia: «l’unità non implica semplicemente l’eguaglianza di natura, ma anche l’intera e profonda differenza e diseguaglianza dell’avvenimento della croce. Sulla croce il Padre e il Figlio sono separati nel modo più profondo nell’abbandono e al medesimo tempo uniti nel modo più intimo nella consegna. Ciò che scaturisce da questo avvenimento che coinvolge il Padre e il Figlio è lo Spirito […]. Nel suo amore il Figlio soffre l’abbandono del Padre nella propria agonia, il Padre soffre nel suo amore il dolore della morte del Figlio. Ciò che da questo avvenimento risulta dovrà essere allora compreso come il Figlio che il Padre consegna e come il Figlio che si consegna alla morte, quindi come lo Spirito che produce l’amore nelle persone abbandonate, lo Spirito che richiama i morti alla vita»126.

Ovviamente, non si tratta né di teorizzare il teopaschismo come mutamento ontologico in Dio, né di reintrodurre l’antico errore del patripassianismo, perché già da lungo tempo rifiutato dalla comunità cristiana, né di creare un nuovo analogo errore circa lo Spirito Santo, in 125 J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, trad. it., Brescia 1973, 284. 126 Ibid., 285 s.


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quanto Dio non subisce alcun mutamento ontologico e al Padre ed allo Spirito non viene attribuita né la sofferenza né la morte che il Figlio incarnato sperimenta personalmente, ma soltanto di perseguire i due scopi seguenti. Il primo è quello di sbloccare una teodicea tutta presa dall’esigenza di salvare l’idea di Dio da ogni rischio di mutamento127. La tensione, che fa seguito allo scompiglio che l’evento dell’incarnazione kenotica suscita tra queste idee, guida fino alla formazione di un’altra idea: Dio entra nella sofferenza non solo liberamente e volontariamente ma anche in forza della sua vitalità trinitaria128. Pertanto, i nostri pensieri su Dio debbono fare il percorso seguente: «Dio si rivela come talmente divino e, dunque, così potentemente dinamico da essere egli stesso colui che per amore o, meglio, in quanto amore realmente (non logicamente) “in” Gesù Cristo nasce, vive, sente, soffre e perfino muore, sempre restando immutabilmente se stesso e anzi proprio così realizzando se stesso come il Signore, il Dio vivente»129.

Il secondo scopo è quello di mettere a tema la partecipazione del Padre e dello Spirito agli avvenimenti della passione e della morte del Figlio incarnato, in quanto indissolubilmente congiunti con lui in virtù delle relazioni intratrinitarie: il Padre vi partecipa in forza della relazione di amore che lo lega al Figlio; lo Spirito vi prende parte in virtù sia dell’Abbà che geme nel Figlio al Getsemani e sul Calvario, sia dell’unione intima di amore che mantiene tra Padre e Figlio anche nella para/dwsij del Figlio da parte del Padre, un atto quest’ultimo che ha la sua motivazione nell’amore130. Quanto accade nelle relazioni intratrinitarie a causa dell’incarnazione kenotica del Figlio eterno, è il fondamento e la norma di quel127 Cfr. A. KREINER, Dio nel dolore. Sulla validità degli argomenti della teodicea, trad. it., Brescia 2000, 144-165. 128 Cfr. D. GONNET, Anche Dio conosce la sofferenza, trad. it., Magnano (BI) 2000, 7. 129 Cfr. A. MILANO, Quale verità, cit., 314. 130 Cfr. Gv 3,16; Rm 8,32; Gal 2,20.


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lo che può accadere ed accade di fatto in Dio impegnato a rischiare personalmente nei rapporti interpersonali con cui si lega liberamente ed incondizionatamente alle sue creature intelligenti e libere. La vicenda della croce, vissuta dal Figlio incarnato nell’economia, rivela la Trinità e la rivela come amore, e precisamente come amore che è solidale, che accoglie, che sostiene, che condivide, che salva. La croce è evento trinitario certamente in questo senso, ma, onde evitare di fare un discorso inadeguato, e cioè incapace di farci comprendere che la croce penetra fin nell’intimità della Trinità, occorre fare ulteriori precisazioni, come le seguenti: la reciprocità tra la rivelazione e l’essenza del Dio Uni-Trino significa, tra l’altro, che la locuzione giovannea “Dio è amore” non è separabile dalla para/dwsij del Figlio e che le vicende della Trinità economica, oltre a rivelare la Trinità immanente, si ripercuotono su di essa131. Esprimersi in questo modo equivale a dire che Dio si automedia nel crocifisso. Se ci si ferma a questo punto, non è difficile ottenere il consenso dei teologi contemporanei. Ma, se si va oltre, l’accordo si spezza. E le difficoltà sorgono proprio quando le tensioni della croce vengono trasferite nella Trinità immanente. In questo fatto viene vista una reinterpretazione dell’assioma rahneriano “La Trinità economica è la Trinità immanente, e viceversa”132 e, in particolare un accoglimento del famoso “viceversa”. Per esemplificare, facciamo riferimento a due teo131

Facciamo queste precisazioni insieme al Moltmann: «la proposizione neotestamentaria “Dio è amore” riassume la consegna del Figlio ad opera del Padre e non può mai venir dissociata dall’avvenimento del Golgotha se non snaturando il proprio senso. Naturalmente la tesi dell’identità fondamentale fra Trinità immanente e Trinità economica rimarrà equivoca finché ci si arresta alla distinzione, perché suggerisce un dissolvimento dell’una nell’altra. Ciò cui essa deve servire ad esprimere è la reciprocità tra l’essenza e la rivelazione, tra l’interno e l’esterno del Dio Uno e Trino. La Trinità economica non rivela soltanto la Trinità immanente ma si ripercuote pure su essa. […] Nel concetto di “rapporto reciproco” non si equipara il rapporto che Dio ha con il mondo con il rapporto che egli ha con se stesso ma si afferma che il primo incide su quest’ultimo, anche se primariamente da questo determinato» (J. MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio, trad. it., Brescia 1983, 174). 132 Cfr. K. RAHNER, Osservazioni al trattato dogmatico «De Trinitate», in ID., Saggi teologici, cit., 605-631; ID., Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in J. FEINER – M. LÖHRER (curr.), Mysterium Salutis, cit., 413-434; ID., La Trinità, cit., 81-100.


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logi: ad H.U. Von Balthasar e ad A. Staglianò, il quale dà forza alle sue argomentazioni facendo riferimento al pensiero del teologo svizzero. Scrive il Von Balthasar: «[…] cristianamente parlando, la Trinità economica appare certo come una traduzione della Trinità immanente, questa però, come fondo portante della prima, non può essere propriamente e semplicemente identificata con la prima. Giacché altrimenti la trinità immanente ed eterna di Dio rischia di risolversi nella economica; in parole più chiare, Dio rischia di essere ingoiato nel processo del mondo e di non poter ritornare a se stesso che attraverso questo processo»133.

Lo Staglianò134 raccoglie delle frasi di J. Moltmann, nelle quali si dice che la kenosi della croce “tocca” la vita della Trinità immanente e si mostra di condividere e di reinterpretare il “viceversa” rahneriano: «Se il motivo fondamentale di conoscenza della Trinità è la croce, alla quale il Padre attraverso lo Spirito consegna il Figlio per noi, nel fondamento trascendente di questo avvenimento non si potrà più pensare una Trinità sostanziale in cui non siano presenti croce e consegna»135; «La Trinità economica non rivela soltanto la Trinità immanente ma si ripercuote pure su essa»136; «Il dolore della croce connota la vita interiore del Dio Uno e Trino dall’eternità e per l’eternità»137; «Alle opera trinitatis ad extra rispondono fin dalla creazione del mondo le passiones trinitatis ad intra»138; 133

H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, III: Le persone del dramma: l’uomo in Cristo, trad. it., Milano 1983, 468. 134 Cfr. A. STAGLIANÒ, Il Mistero del Dio Vivente, cit., 490 s. 135 J. MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio, cit., 174. 136 L.c. 137 Ibid., 175. 138 Ibid., 174.


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«la proposizione neotestamentaria “Dio è amore” riassume la consegna del Figlio ad opera del Padre e non può mai venir dissociata dall’avvenimento del Golgotha se non snaturando il proprio senso»139.

Il teologo calabrese, da qualche mese vescovo di Noto, ferma la sua attenzione sull’avverbio “mai” dell’ultimo testo moltmanniano citato e da noi messo in evidenza per dire che esso offre un senso corretto soltanto a livello rivelativo-conoscitivo. Egli sostiene che l’automediarsi della vita immanente di Dio nel crocifisso è possibile soltanto sul piano rivelativo-conoscitivo, ma non su quello costitutivo-ontologico. Dopo di che fa questa precisazione: «A scanso di equivoci, infatti, è necessario affermare che Dio, nel suo essere uno e trino non ha bisogno della croce e del processo del mondo per divenire se stesso»140.

Alcuni anni or sono, occupandoci del problema del male, ci siamo imbattuti nella medesima questione sollevata dallo Staglianò, ed oggi ci piace riportare alcune nostre considerazioni di allora: «Mentre ci dichiariamo pienamente d’accordo con questa posizione per quel che concerne il processo del mondo e la sua esclusione dall’evento-Dio, pensosi ci chiediamo se la croce rispetto a Dio può essere confrontata con il processo del mondo. Ci dichiariamo d’accordo proprio perché non intendiamo incorrere nel rischio, implicito nello hegelismo, di fare del mondo un momento necessario all’essere di Dio. In Hegel, infatti, Dio, quale Spirito assoluto, diviene colui che è, percorrendo una storia, il proprio curriculum vitae; tra Dio e mondo c’è una speciale unità, che implica la concretezza e la differenziazione; Dio è superiore ad ogni cosa, ma è in relazione necessaria con tutto; il Dio vivente è colui che si fa storia141. La croce, invece, a nostro sommesso

139

Ibid., 174: sottolineatura nostra. A. STAGLIANÒ, Il Mistero del Dio Vivente, cit., 491. 141 Per l’approfondimento e per i riferimenti bibliografici di questi pregnanti concetti hegeliani rimandiamo a due profondi conoscitori del pensiero teologico hegeliano: H. KÜNG, Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, pro140


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Francesco Conigliaro parere non è un momento del divenire di Dio, bensì un momento dell’essere di Dio. E siamo pensosi proprio per questa ragione»142.

Riteniamo di doverci fermare su una delle idee espresse in questa nostra citazione, al fine di evitare equivoci, soprattutto con A. Staglianò. Quando diciamo che la croce è un momento dell’“essere” di Dio” intendiamo dire che la passione e la morte del Figlio incarnato provocano dei mutamenti nella Trinità immanente, mutamenti, ovviamente, non entitativi bensì relazionali; e diciamo ciò non nel senso che le relazioni e le processioni trinitarie vengono meno, ma nel senso che la croce squassa le tre relationes subsistentes, e cioè le persone divine nelle loro mutue relazioni. La ragione assoluta e suprema di tutto è la libertà, la quale, da un lato, esclude ogni forma di necessità intrinseca e/o estrinseca, cosa che ci costringerebbe ad interpretare la croce, come del resto anche il mondo, hegelianamente, e cioè ci obbligherebbe a vedere in essa una tappa imprescindibile del curriculum vitae del soggetto assoluto ed un momento del processo di identità tra infinito e finito e tra Dio e mondo, e, dall’altro, si manifesta nella libertà assoluta dell’amore reciproco delle tre divine persone, che è il presupposto di quell’evento di amore assoluto che si verifica nel tempo e nella storia, e cioè della croce del Cristo, e che in tale evento storico si rivela volontariamente ed incondizionatamente, al fine di indicare alle creature libere la via della salvezza. È tale libertà assoluta del Deus Trinitas, che vive come Amore, di Amore e nell’Amore e si rivela e si autodona come tale, che garantisce la trascendenza divina perfino in quella trappola pregna di movimento storico-contingente e progettata dalle creature libere che è la crocifissione di Cristo. Dio si rende presente nel suo contrario, che è finitezza, morte e peccato, senza, però, alienarsi in esso proprio perché è assoluta libertà di Amore e nella morte di croce si rivela come tale e rivolge l’invito a tutte le creature a partecipare all’eterna festa dell’Amore.

legomeni ad una futura cristologia, trad. it., Brescia 1972, 238, 339, 340, 522; P. CODA, Il negativo e la Trinità, cit., 314 s., 344, 426-440; ID., La percezione della forma, cit. 142 F. CONIGLIARO, Libertà male Dio, cit., 114.


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3. CONCLUSIONE Alla fine del percorso da noi fatto intorno al problema della mutabilità e dell’immutabilità di Dio, riteniamo opportuno ricordare una considerazione fatta da S. Kierkegaard alla conclusione della parabola del re innamorato da lui raccontata nella sua opera Briciole Filosofiche: il fatto che il re, per conquistare la donna amata, che è di umili origini, non ricorre alla forza di seduzione della grandezza e della ricchezza, cosa conveniente per un re e massimamente sconveniente per l’amore, ma assume la forma di servo, al fine di stabilire una relazione di amore sulla base di una simmetrica e vera reciprocità, è per il filosofo danese una ragione validissima per fare una considerazione molto illuminante sull’incarnazione kenotica scelta da Dio per autorivelarsi: «Ogni altra rivelazione sarebbe per l’amore di Dio un inganno»143. Una considerazione di questo genere è dotata di una grande forza di persuasione, ma non solleva neppure minimamente il velo del mistero che ricopre l’evento evocato: la comunità cristiana non finirà mai di impegnarsi a fondo attorno ad esso. A questo proposito, tornano utili alcune parole autorevoli del pontefice Giovanni Paolo II, il quale aveva chiara l’idea della centralità della kenosi sia nell’autorivelazione del mistero di Dio che nella comprensione di esso e, di conseguenza, era convinto della necessità che i teologi ne facciano l’ambito privilegiato della loro ricerca e della loro riflessione: «Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l’intelligenza della ke/nwsij di Dio, vero grande mistero per la mente umana,

143 «Ma la figura di servo non è un vestito, perciò Dio deve soffrire tutto, sopportare tutto, provare tutto, aver fame nel deserto, aver sete nei tormenti, essere abbandonato nella morte, proprio come l’ultimo. Ecco l’uomo! perché la sua sofferenza non è soltanto la sofferenza della morte, ma tutta la sua vita non è altro che una storia di sofferenza, ed è l’amore che soffre, l’amore che dà tutto ed è lui stesso nel bisogno. […] Ogni altra rivelazione sarebbe per l’amore un inganno […]. Ogni altra rivelazione sarebbe per l’amore di Dio un inganno» (S. KIERKEGAARD, Briciole Filosofiche, trad. it., Brescia 1987, 87 s.).


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Francesco Conigliaro alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l’amore che si dona senza nulla chiedere in cambio»144.

Accanto alle parole di Giovanni Paolo II poniamo quelle di un significativo teologo del nostro tempo, A. Milano, il quale indica nell’amore la parola-chiave per indagare e per capire: «Alla luce di Cristo si può comprendere senza turbamento che l’essenza di Dio è capace di pa/qoj poiché è capax crucis ed è capax crucis perché è capax charitatis»145.

Ci sembra di poter condurre ad unità organica tre pregnanti locuzioni di queste due citazioni: capax crucis, capax charitatis e “senza nulla chiedere in cambio”. Dio, soggetto delle tre locuzioni, autodonandosi assolutamente come amore fino a consumarsi di amore, ha posto in essere atti assoluti allo stato puro; pertanto, non ha bisogno di chiedere né il contraccambio né alcuna forma di garanzia. Egli con assoluta libertà ed in modo assolutamente pieno corre il rischio delle creature chiamate, secondo il grado di essere a loro partecipato, all’esistenza, alla vita ed alla libertà. Il rischio che egli corre non arreca alcun pregiudizio alla sua assolutezza, in quanto che egli è e resta sempre ed assolutamente essere, libertà ed amore. Sulla base di quanto siamo venuti dicendo, l’essere, l’essenza, la sostanza e la natura di Dio sono esprimibili organicamente mediante il lemma amore, che ci conduce direttamente nello spazio semantico della reciprocità e della libertà delle tre relationes subsistentes. Il livello del nostro discorso è assoluto, ed a tale livello ciascuno dei lemmi usati è capace di assumere ed esprimere organicamente, come il lemma amore, il senso di tutti gli altri, anche se questi, provenendo dal linguaggio umano e da tutte le sue caratteristiche limitazioni, evocano la realtà di Dio sotto profili diversi. In questo contesto tematico, il lemma alla luce del quale reinterpretare gli altri è libertà, ma si è subi144 145

308.

GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio (14.09.1998), 93. A. MILANO, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, Bologna 1999,


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to costretti a misurarsi con la tensione che si attiva tra esso, che esprime dinamismo e movimento, e altri, che, offrendo senso sul fronte entitativo, hanno una portata essenzialistica ed escludono il movimento ed il mutamento. Il che significa che la metafisica giova per sottoporre a controllo la rigorosità logica dei nostri concetti circa Dio e la capacità delle nostre argomentazioni di evocarne correttamente la misteriosa realtà, ma non per creare idee che possano avanzare diritti logici anche sul messaggio biblico concernente Dio. Il Dio rivelatosi in Cristo è un Dio che vive ed ama, che è infinitamente ed ineffabilmente capace di pa/qoj, che agisce e reagisce, che è assolutamente fedele all’impegno di amore fino a consumarsi di amore e per amore. Un Dio siffatto è capace di sottrarsi non pure alle leggi dell’essere, ma anche alle esigenze della sua stessa natura. In merito Gregorio di Nissa ha parole sbalorditive: «Che la potenza divina abbia fatto qualcosa di grande e di elevato è cosa corrispondente alla sua natura. […] Ma il fatto che sia disceso nell’umiltà umana dimostra una ricchezza di potenza, che non si arresta nemmeno davanti alle cose che sono contro la sua natura»146.

Dio agisce così non perché costretto da necessità intrinseche e/o estrinseche, ma perché spinto da un “eccesso” di amore e di libertà147, e cioè perché in lui tutto deborda assolutamente e liberamente. Non dobbiamo dimenticare per nessuna ragione che stiamo parlando del Dio rivelato in Cristo, il quale, in quanto Agnello Immolato, nell’eternità reca i segni dell’immolazione, mentre nel tempo ne patisce realmente ed interamente i tormenti. Nella drammaticità della storia di Gesù di Nazaret l’Eterno si dà definitivamente. Ai tormenti di Gesù di Nazaret e proprio ad essi la Trinità è volta da sempre. H. Küng trova la ragione di tutto ciò nel divenire. E mentre, da una parte, esclu146

GREGORIO DI NISSA, Oratio Catechetica Magna, 24, in PG 45, 64; la trad. it. è di C. Moreschini: cfr. GREGORIO DI NISSA, Grande discorso catechetico, in ID., Opere, trad. it., Torino 1992, 177. 147 Cfr. R. BERZOSA MARTÍNEZ, El mal, ¿antiteodicea, proteodicea o pisteodicea?, in Lumen 48 (1999) 472.


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de che si possa parlare del divenire in Dio in sintonia con Hegel, in quanto nel sistema di questo grande filosofo tedesco tale divenire è trattato contestualmente alla tematizzazione della visione monistica dello Spirito, dall’altra, fa alcune precisazioni di grande portata teologica per la comprensione del mistero di Dio nel suo luogo più proprio, che è il mistero del Cristo: a) nel divenire kenotico dell’incarnazione Dio non smarrisce e non incrementa la sua divinità, ma si rivela in forza della sua stessa divinità; b) ciò non accade né a causa dell’essere divino, né contro di esso, ma in conformità ad esso; c) il divenire de facto di Dio è espressione di libertà e, nel contempo, è fondato sull’essenza divina; d) la possibilità del divenire in Dio non indica né carenze né potenzialità, bensì possanza, sovrabbondanza ed onnipotenza148. Distendendosi kenoticamente nella storia, l’evento-Cristo ha una tappa determinante nella croce, che, oltre ad essere parte integrante di tale evento, è anche un momento rivelativo della Trinità e del suo mistero, in quanto dà indicazioni circa il modo in cui ciascuna delle tre persone della Trinità, pur in maniera diversa, rischia personalmente nell’economia. Ciò significa che Dio progetta la sua azione nell’economia secondo ciò che egli stesso è e secondo il modo in cui egli stesso vive. E Dio, se si media nell’umanità di Gesù di Nazaret e, addirittura, nella sua corporeità, che è afferrabile, imprigionabile e capace di sofferenza, di umiliazione e di morte, è l’assoluto che con libertà ed 148

«Poiché Dio diviene uomo nel Logos e poiché “non è un Dio di disordine, ma di pace” (1Cor 14,3), la fede potrà rendere comprensibile come un tale “divenire” di Dio non avvenga nell’infedeltà, ma nella fedeltà verso se stesso e la propria essenza. Nella genesi, nella kenosi dell’incarnazione, Dio non si perde e neppure si conquista, ma si attesta e si rivela come colui che è. In questo “divenire” singolare, Dio si elargisce, ma non si distrugge. Dio non diviene per smarrimento della propria divinità e nemmeno per acquistare il proprio carattere divino, ma in forza della sua stessa divinità. Questo umanizzarsi di Dio non avviene a motivo del suo essere, ma neppure contro il suo essere, bensì conformemente al suo essere. Il suo essere è così infinitamente sublime da sopportare un tale divenire, cosicché Dio può divenire e diviene di fatto. In questo senso, il divenire de facto di Dio, che deriva dalla suprema libertà della grazia, appare fondato nella sua essenza divina. L’essenza immutabile, trascendente di Dio contiene, nella sua splendida libertà, la “possibilità” del divenire. “Possibilità” non nel senso di carenza, potenzialità, bensì della possanza, della sovrabbondanza, dell’onnipotenza. L’essere di Dio è nel divenire» (H. KÜNG, Incarnazione di Dio, cit., 546 s).


Mutabilità e immutabilità di Dio

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umiltà rischia personalmente per ciò che è piccolo e fragile ed è talmente segnato dal limite della creaturalità e dalla tragedia del peccato da essere “altro” rispetto a Dio. Il lanciarsi della Trinità nella totale alterità mediante l’incarnazione kenotica del Figlio è un fatto di libertà sostenuta dall’amore. Così è Dio: è assolutamente essere-attoamore-libertà. Ebbene, dire che in Dio l’essere è uguale alla libertà non significa inserire in lui la processualità entitativa, quasi che si tratti di un werdender Gott, ma attribuirgli il dinamismo personale, che è vibrante di tensioni vitali più di ogni altro dinamismo e, lungi dal modificare l’essere, non solo non lo smentisce mai, nonostante il continuo variare delle forme d’impegno, ma anzi lo riconferma ininterrottamente. La croce, ancorché squassi le relationes subsistentes e riveli il variare dell’atteggiarsi di Dio nei confronti delle creature, non arreca alcun pregiudizio all’evento eterno dell’ eÃkstasij di amore, in virtù del quale le tre divine persone, pur rimanendo realmente distinte, nella perixw/rhsij e secondo la dinamica di essa, hanno tutto in comune in forza del divino essere uni-trino e del progetto di amore reciproco. I teologi kenotici dei secoli XIX e XX, dei quali ricordiamo soprattutto i protestanti tedeschi G. Thomasius, K.T.A Liebner, F.H.R.F. Frank e W.F. Gess e gli anglicani Ch. Gore, F. Temple e R. Sbranet, rimanendo sotto l’influsso hegeliano, sembrano condurre l’evento cristologico lungo la pista di una sorta di divenire entitativo di Dio. La loro insistenza sulla kenosi è dovuta all’intento legittimo di dare molto spazio al realismo terreno di Gesù di Nazaret; solo che non tengono adeguatamente conto del paradosso che caratterizza l’incarnazione kenotica del Figlio eterno e, conseguentemente, spiegano l’evento dell’incarnazione come divenire, finendo coll’approdare alla effettiva morte di Dio. La possibilità ed il fatto del dolore in Dio si pongono in virtù di quel libero modo di essere e di agire di Dio, chiamato dal Von Balthasar l’«inermità dell’amore assoluto»149, che ha luogo per il concorso di due fattori complessi: il congiungimento misterioso in Dio di potenza e di impotenza e l’integrità della libertà creata anche di fronte all’onnipotenza della divina bontà. I due fattori sono sempre in ten149

H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, IV, cit., 306.


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sione e finiscono con il produrre uno spazio in cui l’assoluta accondiscendenza del Dio uni-trino fa spazio al “no” della creatura libera, fino a subirne le conseguenze: «Ma se ci si domanda se c’è dolore in Dio, ecco la risposta: in Dio c’è il punto d’innesto per ciò che può diventare il dolore, quando la mancanza di prudenza e calcolo con cui il Padre si dà via (e tutto ciò che è suo) — il che conduce essenzialmente alla divina mancanza di circospezione nella totale riconoscenza e prodigalità del Figlio e dello Spirito che viene donato con lui — urta contro una libertà che non intende rispondere a questa generosità, ma indugiare e mantenersi entro il calcolo della sua egoistica autonomia»150.

Nel caso del dolore, in Dio non si manifesta l’impotenza ma la potenza nella sua forma più propria che è l’amore151. In Dio l’amore è la soluzione dell’impossibile dialettica tra libertà e necessità e tra potenza ed impotenza. Tutto questo ha un nome: Gesù Cristo; e cioè l’amore divino per l’uomo, un amore più forte della morte152. Per concludere, è forse opportuno osservare che solo la metafora che Dio è fragile perché è amore salva lo stesso Dio dall’assedio insostenibile del male153. Il male, in quanto deborda in ogni senso rispetto alla capacità della creatura umana di commetterlo, di portarne il peso e di vincerlo, pone l’uomo di fronte ad un dilemma radicale, qual è quello di chiudersi o di aprirsi alle sollecitazioni dell’essere154. Il semplice fatto di porre la domanda sul male è chiamare all’esistenza la roccia (Fels) su cui possono radicarsi sia la critica dell’antico convincimento circa la creazione quale opera di un Dio creatore buono, 150

Ibid. 305. Cfr. E.A. JOHNSON, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, trad. it., Brescia 1999, 520. 152 Cfr. K.H. MENKE, Der Gott, der jetzt schon Zukunft schenkt. Plädoyer für eine christologiche Theodizee, in H. WAGNER (cur.), Mit Gott streiten, cit., 105-115. 153 Cfr. P. DE BENEDETTI, Quale Dio? Una domanda dalla storia, Brescia 1996, 40. 154 Cfr. Ph. MADRE, Lo scandalo del male. Sofferenza degli uomini e Compassione di Dio, trad. it., Milano 1996, 95. 151


Mutabilità e immutabilità di Dio

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sia l’ateismo come negazione di Dio155. Tuttavia, parlare di un Dio che si sottopone liberamente al rischio della fatica del divenire e del mutamento per essere vicino alle creature, che fanno le medesime esperienze, e che si rivela come il Dio assolutamente immutabile nell’amore e, quindi, come il salvatore del mondo, apre ampie schiarite di speranza e di vita.

155 Cfr. G. BÜCHNER, Dantons Tod, in ID., Werke und Briefe, München 1973, 3040; cfr. anche J.A. ESTRADA, ¿Desde el sufrimiento encontrarse con Dios?, in Communio 32 (1999) 103-115.



LA QUESTIONE OGGI DELLA MOBILITÀ DEI VESCOVI E DEI PARROCI Riflessione giuridico-storico-teologica

ADOLFO LONGHITANO*

Lo studioso che volesse trovare nel codice di diritto canonico vigente la norma che disciplina la mobilità dei vescovi si accorgerà, alla fine della sua ricerca, che l’argomento è del tutto ignorato. Il tema, accorpato con quello della nomina, deve essere affrontato sulla base delle indicazioni date dal can. 377: «Il sommo pontefice nomina liberamente i vescovi». Un principio già affermato nel codice del 1917, quando, a conclusione di un lungo iter, era stato attribuito al solo romano pontefice una potestà esercitata inizialmente da persone diverse1.

1. IL VINCOLO INDISSOLUBILE CHE CHIESA NELL’ANTICA DISCIPLINA

LEGA I MINISTRI ALLA PROPRIA

Se prendiamo in esame i testi più antichi, troviamo che la scelta dei vescovi era fatta dalla comunità in tutte le sue componenti, * Ordinario emerito di Diritto Canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Le indicazioni sulla prassi seguita per la scelta e la nomina dei vescovi nella Chiesa antica si trovano in L. THOMASSIN, Vetus et nova Ecclesiae disciplina circa beneficia et beneficiarios, II, Venetiis 1730, 298-430; A. FAIVRE, Naissance d’une Hiérarchie. Le premières étapes du cursus clérical, Paris 1977; P. STOCKMEIER, La scelta del clero e del popolo nella chiesa primitiva, in Concilium 16 (1980) 7, 20-30; F. SARRAZIN, La nomination des évêques dans l’Eglise latine, in Studia Canonica 20 (1986) 367-407; J. GAUDEMET, Église et cité. Histoire du droit canonique, Paris 1994.


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oppure dal sinodo provinciale d’intesa con la comunità interessata. In ognuno di questi due modelli, in uso nelle chiese dei primi secoli, la comunità nella scelta dei vescovi aveva un ruolo fondamentale2. Il problema della mobilità non si poneva neppure, perché vigeva il principio dell’ordinazione relativa. Il vescovo, essendo stato ordinato per prestare il suo servizio in una Chiesa, non poteva esercitare il ministero altrove3. Si incominciò a parlare di trasferimento a partire dal IV secolo, dopo la pace di Costantino, per far cessare una prassi di disordini affermatasi in qualche regione come effetto delle persecuzioni. Il concilio di Nicea nel 325 prescriveva al c. 15 in modo chiaro: «Per i molti tumulti ed agitazioni verificatisi, è sembrato opportuno stroncare assolutamente la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi, né presbiteri, né diaconi si trasferiscano da una città all’altra. E se qualcuno agisce contro questa disposizione del santo e grande concilio e seguisse l’antico costume, il suo trasferimento sarà nullo e dovrà ritornare alla chiesa per cui fu ordinato vescovo, o presbitero, o diacono»4.

Si noti il tono perentorio con cui è formulata questa proibizione che riguarda tutti i ministri: vescovi, presbiteri e diaconi5. Doveva trattarsi di una norma così evidente che i padri conciliari non avvertirono la necessità di giustificarla con un argomento di ragione o con un argomento teologico. Il sinodo di Alessandria, celebrato nel 339, per contestare la re2

L’intera comunità cristiana appare coinvolta nella scelta dei suoi ministri fin dalle più antiche testimonianze del Nuovo Testamento (At 1, 15-26; 6, 1-7), della prima lettera di Clemente ai Corinzi (44, 3), della Didachè (15, 1), della Tradizione Apostolica, 2, delle Costituzioni Apostoliche (VIII, 4, 2), di s. Leone papa (Ep. 14, 5 Ad Anastasium, PL 54, 673). 3 W. M. PLÖCHL, Storia del diritto canonico, trad. it., I, Milano 1963, 191. 4 Conciliorum oecumenicorum decreta (=COeD), Bologna 1991, 13. 5 I presbiteri e i diaconi, in forza dell’ordinazione, erano vincolati alla diocesi non al servizio di una determinata chiesa. Sono le prime indicazioni delle norme che formeranno l’istituto giuridico dell’incardinazione.


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golarità del trasferimento del vescovo Eusebio da Beirut a Nicomedia, non si appellò all’argomento di ragione, che vede nella stabilità dei capi la garanzia di una buona amministrazione. La norma era motivata con un argomento teologico: il vincolo che legava il vescovo alla Chiesa per la quale era stato ordinato era indissolubile, come quello che legava uno sposo alla sua sposa6. In altre parole: il vescovo con l’ordinazione contraeva un matrimonio spirituale con la propria Chiesa, alla quale doveva rimanere fedele per tutta la vita. Quest’analogia, sviluppata negli scritti dei Padri7, era abbastanza comune e ad essa si faceva ricorso non solo per contestare la regolarità del trasferimento dei vescovi. Si veda, ad esempio, il discorso che s. Pier Crisologo, vescovo di Ravenna dal 425 al 451, tenne per la consacrazione del vescovo di Voghenza Marcellino: egli lo considerava figlio primogenito del matrimonio che lo univa alla sua Chiesa8. La norma formulata dal concilio di Nicea fu confermata dai concili locali di Antiochia nel 3329, di Cartagine nel 40110 e dal concilio di Calcedonia nel 45111. Tuttavia nello stesso periodo si cominciò a distinguere fra la traslazione ricercata dal vescovo per ambizione e quella disposta dal sinodo per necessità o utilità della Chiesa. Il concilio di Cartagine del 397 disponeva: «il vescovo non cerchi per ambizione il trasferimento da una sede poco importante ad una prestigiosa [...]. Tuttavia, se lo richiede il bene della Chiesa, i vescovi riuniti nel sinodo lo trasferiranno, dopo aver ricevuto la richiesta dei presbiteri e dei laici»12.

6 R. NAZ, Translation d’office, in Dictionnaire de Droit Canonique (=DDC), VII, Paris 1965, 1319-1325. 7 S. Gregorio Nazianzeno e s. Gregorio Nisseno, vissuti entrambi nel IV secolo, si servono nei loro scritti di questa analogia: PG 36, 273; PG 46, 852. 8 Sermone 175, PL 52, 656-658. 9 Decreto di Graziano, II parte, C. VII, q. I, c. 25. 10 Ibid., c. 21. 11 «Nei confronti dei vescovi e dei chierici che passano da una città all’altra, si è deciso che conservino tutto il loro vigore quei canoni che sono stati stabiliti dai santi padri su questo argomento»: COeD, 90. 12 Decreto di Graziano, II parte, C. VII, q. I, c. 37.


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La distinzione introdotta da questa norma intende offrire una soluzione per risolvere i casi più difficili che potevano presentarsi nei diversi luoghi. Il concilio si limita a fare un’affermazione di principio senza esemplificare. L’espressione «bene della Chiesa» è alquanto vaga e in teoria potrebbe essere applicata a molteplici situazioni. Si noti però che la traslazione non avveniva automaticamente, ma era frutto di una decisione collegiale dei vescovi riuniti nel sinodo, che dovevano accogliere e valutare la richiesta dei presbiteri e dei laici. La norma, pertanto, intendeva salvaguardare i diritti di tutti e difficilmente avrebbe potuto introdurre una prassi tale da vanificare il principio della stabilità. Troviamo indicazioni più precise nell’epistolario di s. Gregorio Magno. A volte la traslazione si rendeva necessaria, perché il vescovo era stato espulso dalla propria diocesi invasa dai barbari. Il papa afferma che in questo caso al vescovo poteva essere affidata un’altra diocesi; tuttavia se la situazione fosse tornata alla normalità, egli avrebbe dovuto ritornare alla propria sede di origine13. In un altro intervento il papa sembra affermare un principio generale. Il diacono Pietro aveva chiesto al papa se era lecito ad un vescovo abbandonare la sua chiesa. S. Gregorio rispose: «Spesso nell’animo dei perfetti c’è un travaglio sul quale non possiamo tacere; costoro, notando che il loro lavoro non porta alcun frutto, decidono di trasferirsi altrove per essere in grado di operare con profitto. Perciò anche quel noto evangelizzatore che desiderava essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, per il quale il vivere era Cristo e il morire un guadagno {cf Fil 1, 21-23} e che non solo desiderava i combattimenti delle passioni ma spingeva anche gli altri a sopportarli, avendo subìto a Damasco la persecuzione, per poter superare il muro chiese una sporta e una corda e volle essere calato giù di nascosto. Possiamo affermare che Paolo abbia avuto paura di morire, quando egli stesso afferma che desiderava ardentemente avvicinarsi a Gesù? Egli, constatando che in un determinato luogo poteva portare un frutto minore, conservò se stesso per svolgere altrove un lavoro più

13

Ibid., c. 42.


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fruttuoso. Infatti il grande guerriero di Dio, non volendo rimanere chiuso dentro le mura, si diresse verso il campo di battaglia»14.

S. Gregorio in questo caso affronta il problema da una prospettiva diversa: non è più il sinodo a valutare il bene della Chiesa, ma il singolo vescovo. Stando all’autorità di questo brano — inserito da Graziano nel suo Decreto — un vescovo se si fosse reso conto che nella diocesi per cui era stato ordinato non esistevano più le condizioni per svolgere con frutto il suo ministero, avrebbe potuto andare altrove. L’esempio di s. Paolo dovrebbe limitare il caso alla necessità di sfuggire ad una persecuzione; ma il principio affermato è generale, perciò avrebbe potuto essere applicato anche a difficoltà di altra natura.

2. LA SVOLTA DEL PERIODO FEUDALE Le norme sulla nomina dei vescovi e sulla stabilità del clero all’interno della diocesi per la quale era stato ordinato subirono un brusco cambiamento durante la crisi feudale e la lotta per le investiture15. Nell’ordinamento della cristianità la figura del vescovo aveva acquisito una notevole rilevanza sociale e politica. Una serie di competenze di natura economica e politica avevano fatto di lui uno dei protagonisti della società. La sua scelta non obbediva solamente ai tradizionali criteri del buon governo della Chiesa, ma doveva soddisfare altre esigenze. Lo stesso rilievo va fatto anche per gli altri membri del clero, titolari di benefici. Se all’origine il beneficio era funzionale all’ufficio — si ricordi l’antico adagio «beneficium propter officium» — nel tempo il rapporto si capovolse: l’ufficio era conferito per poter disporre del beneficio. I benefici più pingui divennero oggetto del desiderio dei chierici e dei loro protettori; la corsa al loro accaparramento quando diventavano vacanti fece venir meno il vincolo che legava il chie14 15

7, 31-41.

Ibid., c. 49. J. GAUDEMET, Dalla elezione alla nomina dei vescovi, in Concilium 16 (1980)


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rico alla propria Chiesa16. Queste situazioni accelerarono il passaggio dalla prassi delle ordinazioni relative, che legano indissolubilmente il chierico ad una Chiesa, a quelle assolute: il chierico riceveva l’ordine sacro che avrebbe potuto esercitare dovunque17. In questo difficile periodo storico la comunità cristiana nella nomina dei vescovi e nella scelta dei titolari dei benefici fu costretta a far fronte allo stesso tempo: alle ambizioni di coloro che volevano intraprendere una carriera prestigiosa, alla lotte interne delle diverse fazioni, alle pressioni dei prìncipi laici che cercavano di condizionare le assemblee elettive o le autorità competenti alla scelta dei candidati. La scelta dei vescovi solitamente era fatta dai canonici della cattedrale, che operavano in rappresentanza di tutto il clero; il ruolo del popolo era stato da tempo limitato alla sola acclamazione del nuovo eletto. Alcuni brani delle false decretali, redatte in questo periodo, ci danno la possibilità di conoscere allo stesso tempo gli abusi più frequenti nel trasferimento dei vescovi e i rimedi che proponevano gli anonimi riformatori della Chiesa. In un brano attribuito a papa Evaristo si legge: «L’uomo non può commettere adulterio contro la propria sposa come il vescovo non può peccare contro la propria Chiesa, cioè abbandonarla dopo essere stato consacrato per il suo servizio. Come alla sposa non è lecito abbandonare il proprio sposo per unirsi in matrimonio con un altro mentre egli è ancora in vita e macchiarsi di adulterio, anche nell’ipotesi che il marito l’abbia tradita, ma secondo l’insegnamento dell’apostolo deve riconciliarsi con il marito o restare non sposata, così alla Chiesa non è lecito allontanare il proprio vescovo o separarsi da lui per accoglierne un altro mentre il primo è ancora in vita: o si riconcilia con il proprio vescovo o resta priva del pastore per non incorrere nel peccato di fornicazione o di adulterio»18.

16

G. MOLLAT, Bénéfices ecclésiastiques en Occident, in DDC, II, Paris 1937, 406-

449. 17 La prassi delle ordinazioni assolute fu importata nell’Europa continentale dai monaci irlandesi nell’VIII secolo (W. M. PLÖCHL, Storia, cit., I, 427). 18 Decreto di Graziano, II parte, C. VII, q. I, c. 11.


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In un altro brano attribuito a papa Antero si cercava di dare una giustificazione alla prassi ormai dilagante dei trasferimenti e di ricondurla entro i limiti di una ragionevole disciplina: «Sappiate che i cambiamenti dei vescovi sono leciti se fatti per necessità o per utilità comune, non di propria volontà e per ambizione. San Pietro, nostro maestro e principe degli apostoli, dalla città di Antiochia per pubblica utilità fu trasferito a Roma, perché in essa potesse offrire un servizio migliore. Anche Eusebio da una piccola città per autorità apostolica fu trasferito ad Alessandria. Similmente Felice dalla città per la quale era stato ordinato per scelta dei cittadini, a motivo della sua dottrina e della buona condotta per mandato di questa Santa Sede e con il parere concorde dei vescovi, dei presbiteri e del popolo fu trasferito ad Efeso. Egli non passò da una città all’altra, né fu trasferito da una città minore ad una maggiore; questo stesso non lo fece di propria iniziativa e per ambizione, non fu cacciato via con la forza dalla propria sede, o costretto dalla necessità o dall’utilità del luogo o del popolo, né con superbia ma con umiltà fu trasferito da altri. Infatti come i vescovi hanno la potestà di ordinare regolarmente i vescovi e gli altri sacerdoti, così ogni qualvolta lo esige la necessità o l’utilità hanno la potestà di cambiare e di insediare nei modi sopra indicati, tuttavia non senza il consenso e l’autorità della sacrosanta romana sede. Infatti altro è il motivo dell’utilità, altro quello dell’avarizia, della presunzione e del proprio arbitrio»19.

Il ricorso all’autorità del papa sia nella nomina dei vescovi sia nel loro trasferimento apparve l’unico rimedio per far fronte ad una situazione di estremo disagio nella Chiesa. Se si considera la prassi seguita costantemente dalla Chiesa fino a quel periodo, l’intervento del papa avrebbe dovuto essere considerato un rimedio temporaneo, legato alla difficoltà del momento. L’eccezione, invece, divenne la regola, legittimata con il ricorso alla plenitudo potestatis del romano pontefice20. 19

Ibid., c. 34. J. GAUDEMET, Dalla elezione, cit. Sulla figura di Innocenzo III si vedano: R. NAZ, Innocent III, in DDC, V, Paris 1953, 1365-1418; H. JEDIN (cur.), Storia della Chiesa, trad. it., V/1, Milano 1972, 194-222. 20


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3. IL ROMANO PONTEFICE UNICO ARBITRO DELLA NOMINA E DEL TRASFERIMENTO DEI VESCOVI

Innocenzo III, che governò la Chiesa dal 1198 al 1216, in una lettera al patriarca di Antiochia espone i princìpi dottrinali che regoleranno il trasferimento dei vescovi come disciplina immutabile: «Se il vincolo spirituale è più forte di quello carnale non si può dubitare che Dio Onnipotente abbia riservato solamente al giudizio del romano pontefice lo scioglimento del vincolo esistente fra il vescovo e la sua Chiesa, così come ha riservato al suo giudizio lo scioglimento del vincolo carnale che c’è fra lo sposo e la sposa, ordinando che nessuno osi separare ciò che Dio ha unito. Infatti non per potestà umana ma piuttosto per potestà divina è sciolto il matrimonio spirituale allorquando mediante il trasferimento, la deposizione o la cessazione un vescovo è rimosso dalla sua sede per l’autorità del romano pontefice che, come si sa, è il vicario di Cristo. Pertanto questi tre provvedimenti non sono riservati al romano pontefice per disposizione canonica ma per decisione divina»21.

L’affermazione per diritto divino della potestà esclusiva del papa nella nomina e nel trasferimento dei vescovi costituì il fondamento di una disciplina nuova, scoperta dopo più di un millennio, in netto contrasto con la più antica tradizione della Chiesa. Da una prassi eminentemente collegiale, nella quale erano salvaguardati i diritti e le aspettative delle comunità locali, si passò ad una concezione autocratica della Chiesa, nella quale uno solo, anche se investito di un’autorità particolare, divenne l’interprete e l’arbitro delle attese, delle necessità e del discernimento nelle molteplici situazioni in cui si trovavano le comunità cristiane delle diverse regioni. La possibilità di disporre dei vescovati, o per nomina o per trasferimento, offrì ai papi il vantaggio non indifferente per soddisfare molti appetiti. Scrive a tal proposito il noto storico delle istituzioni ecclesiastiche Jean Gaudemet:

21

Decretali di Gregorio IX, libro I, titolo VII, c. 2.


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«La consistenza dei redditi, il prestigio del titolo suscitano numerosi candidati. Come un tempo facevano i signori, i papi possono ora servire famiglia e familiari. Alla loro ‘clientela’ personale si aggiungono quelle del seguito, specialmente dei cardinali, i quali sollecitano per i propri familiari ricchi vescovati. Anche i prìncipi chiedono al pontefice di poter disporre di benefici a favore di parenti, di ufficiali, di consiglieri [...]. Alle sollecitazioni si aggiungono i profitti. Dalla metà del secolo XIII, il vescovo in occasione della sua conferma o della sua nomina da parte del papa, oltre alle spese di cancelleria, deve dare un contributo finanziario»22.

Frattanto alla crisi del periodo feudale seguì quella provocata dal grande scisma d’occidente e dal tentativo di riforma di Lutero. Il concilio di Trento avrebbe dovuto affrontare il problema disciplinare dopo aver definito la dottrina sul sacramento dell’ordine. La discussione fu aspra e si giunse al punto di rottura23. Per evitare il peggio si ripiegò su un testo di compromesso, che non risolveva i punti controversi e lasciava immutate anche le norme sulla nomina e sul trasferimento dei vescovi. Il can. 8 della sessione XXIII sul sacramento dell’ordine afferma in modo lapidario: «Se qualcuno dirà che i vescovi scelti per l’autorità del romano pontefice non sono vescovi legittimi e veri ma un’invenzione umana, sia anatema»24. Nella maggior parte dei casi il papa si limitava a nominare i candidati scelti dai prìncipi cristiani: i re di Spagna, di Francia, di Portogallo… che avevano ottenuto questo privilegio25. La nomina e il trasferimento dei vescovi obbedivano ormai alla logica della carriera: 22

J. GAUDEMET, Dalla elezione, cit., 40-41. H. JEDIN, Storia del concilio di Trento, trad. it., IV/2, Brescia 1982, 76-115. 24 COeD, 744. Una sintesi storico-dottrinale sul sacramento dell’ordine è sviluppata da R. TURA, Ordine, in Dizionario teologico interdisciplinare, II, Torino 1977, 645-660. 25 In Sicilia durante il periodo spagnolo furono presentati come vescovi un gran numero di prelati provenienti dalla Spagna, verso i quali il re aveva debiti di stima o di gratitudine. La richiesta del parlamento di affidare gli uffici pubblici (compresi i vescovadi) a siciliani si concluse con il compromesso dell’alternanza: dopo un vescovo non siciliano il re si impegnava a presentare un vescovo siciliano (A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania [1595-1890], I, Firenze 2009, 25-27). 23


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il candidato era nominato per una sede minore; se dava buona prova di sé — sotto il profilo più politico che pastorale — era trasferito ad una sede di maggior prestigio e più remunerata. Le piccole diocesi potevano essere considerate una sorta di laboratorio sperimentale per consentire ai vescovi di prima nomina di fare esperienza in vista di traguardi più prestigiosi26. Il principio ribadito dal concilio di Trento non sarà più messo in discussione. Gli interventi normativi riguarderanno solamente le procedure di preparazione della nomina papale: accoglimento della presentazione del candidato, una formale raccolta di informazioni in un processo svolto sommariamente, comunicazione in concistoro delle decisioni prese dal papa27. Il codice di diritto canonico del 1917 non fa che codificare il principio generale affermato nel concilio di Trento e la prassi vigente da secoli. Il codice del 1983 dà l’impressione di introdurre un cambiamento nella norma; infatti il can. 377 § 1, dopo aver riproposto il testo del codice pio-benedettino: «Il sommo pontefice nomina liberamente i vescovi», aggiunge un comma che potrebbe dare l’impressione di una svolta significativa: «oppure conferma quelli che sono legittimamente eletti». Il cambiamento è solo apparente, perché i casi di elezione ai quali si accenna nel canone sono i residui privilegi riconosciuti ai capitoli cattedrali di alcune diocesi di Germania, Austria e Svizzera28. Negli altri paragrafi di questo canone sono indicate le procedure previste per la presentazione dei candidati da parte dei singoli vesco26

Nel secolo XVII i vescovi Ottavio Branciforte e Marcantonio Gussio furono trasferiti a Catania da Cefalù, diocesi di prima nomina (ibid., 133-135; 217-219). Lo spagnolo Giovanni Torres Osorio fu nominato prima vescovo di Siracusa, poi trasferito a Catania, a Oviedo e chiuse il suo ministero a Valladolid (ibid., 91-105). 27 Nel processo le informazioni sul candidato e sulla diocesi che avrebbe dovuto governare erano date da conoscenti ed amici indicati dalla stessa persona interessata, che si limitavano a mettere in evidenza le sue buone qualità per l’ufficio di vescovo. Sull’origine di questo processo e la procedura seguita si veda D. GEMMITI, Il processo per la nomina dei vescovi. Ricerche sull’elezione di vescovi nel sec. XVII, NapoliRoma 1989. 28 M. RIVELLA, Modalità speciali di designazione di alcuni vescovi, in Quaderni di Diritto Ecclesiale 12 (1999) 35-45.


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vi o delle conferenze episcopali e per il processo informativo che il legato pontificio deve portare a termine prima di consegnare una terna di nomi alla Congregazione per i vescovi29. Trattandosi di procedimenti vincolati dal segreto pontificio, non è facile individuare il vero responsabile della scelta definitiva. Quando la nomina riguarda un candidato proveniente da altra regione si può solamente escludere la responsabilità dei vescovi della conferenza episcopale interessata.

4. DALLA

PARROCCHIA/BENEFICIO ALLA PARROCCHIA/COMUNITÀ: IL

DIVERSO SIGNIFICATO DELLA INAMOVIBILITÀ DEI PARROCI

La norma che disciplina la stabilità dei parroci segue un iter diverso, sia perché le parrocchie cominciarono a sorgere intorno al IV secolo con l’evangelizzazione delle campagne, sia perché il loro ordinamento giuridico non seguì un modello unitario nelle diverse regioni. Lo stesso concilio di Trento, pur esortando i vescovi a dividere il territorio della diocesi in parrocchie e di affidare a un parroco stabile la cura delle anime, non volle introdurre una disciplina uniforme e obbligatoria. Le situazioni erano così varie che la dottrina e la giurisprudenza si trovarono in difficoltà a indicare gli elementi costitutivi della parrocchia e del parroco. La tesi prevalente affermava che il presbitero per essere considerato parroco doveva esercitare la cura delle anime in nome proprio e stabilmente; pertanto i cosiddetti “vicari amovibili a discrezione del vescovo” non potevano essere ritenuti parroci30. La stabilità voluta dal concilio, intesa come inamovibilità, riguardava solo i veri parroci e per giustificarla i canonisti facevano riferimento all’allegoria del matrimonio utilizzata in passato per i 29 Gli ultimi interventi sulla procedura di nomina dei vescovi sono illustrati da H. ZAPP, La nomina del vescovo secondo il diritto vigente e lo schema del «Liber II de Populo Dei» (1977), in Concilium 16 (1980) 7, 107-116; J.-B. D’ONORIO, La nomination des évêques. Procedures canoniques et conventions diplomatiques, Bourges 1987; G. SARZI SARTORI, La designazione del vescovo diocesano nel diritto ecclesiale, in Quaderni di Diritto Ecclesiale 12 (1999) 7-34. 30 A. LONGHITANO, La parrocchia fra storia, teologia e diritto, in La parrocchia e le sue strutture, Bologna 1987, 5-27.


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vescovi31, non tenendo presente tuttavia che la parrocchia aveva seguito un iter diverso. La parrocchia, più che una comunità di fedeli era considerata un beneficio, e la stabilità o inamovibilità intendeva salvaguardare il diritto del parroco ad un equo sostentamento, non il bene delle anime da assicurare nell’esercizio del suo ministero32. Sebbene i vescovi durante il concilio Vaticano I e nei lavori della prima codificazione avessero chiesto di abolire l’inamovibilità dei parroci, il legislatore confermò l’indirizzo del concilio di Trento e, con una scelta di compromesso, nel codice del 1917 previde una duplice tipologia di stabilità: maggiore e minore (can. 454 § 2). In linea di principio le parrocchie di nuova erezione dovevano prevedere la nomina di un parroco inamovibile (la stabilità maggiore); tuttavia per motivi particolari i vescovi, dopo aver ascoltato il capitolo della cattedrale, potevano stabilire che il parroco godesse della stabilità minore (can. 454 § 3)33. I commentatori del codice, per giustificare l’inamovibilità dei parroci, di solito non si appellavano a motivazioni teologiche; superato il rigido riferimento al beneficio, preferivano dedurre le loro conclusioni dalla natura di questo ministero: un sacerdote non accetterebbe con entusiasmo l’ufficio di parroco e non si impegnerebbe ad elaborare un programma pastorale di ampio respiro se avesse il timore di essere trasferito da un momento all’altro in una sede diversa o ad altro ufficio34. 31

K. MÖRSDORF, Kirchenrecht, I, München-Paderbon-Wien 196411, 467. È la conclusione alla quale arriva F. CLAEYS-BOUUAERT, Cure, in DDC, IV, Paris 1949, 889-900. 33 L. DAL LAGO, L’inamovibilità dei parroci dal concilio Vaticano I al Codice di diritto canonico del 1983, Padova 1991, 47-69. 34 F.M. CAPPELLO, Summa iuris canonici, I, Romae 1961, 472; S. ALONSO MORAN, «De los parrocos (can. 451-470)», in Comentarios al Código de derecho canónico, I, Madrid 1963, 729. Erano queste le motivazioni contenute nel decreto della Congregazione Concistoriale del 20 agosto 1910, citato come fonte del can. 454 § 1 CIC 1917: «La Chiesa [...] per stimolare i sacerdoti ad assumere con maggiore generosità l’ufficio di parroco, liberi dal timore che il vescovo potesse rimuoverli a sua discrezione, ha affermato il principio generale che dovessero rimanere stabili nell’esercizio del loro ministero; tuttavia poiché si tratta di una stabilità richiesta dal bene delle anime, la prudenza ha richiesto che non venisse imposta in modo tale da trasformarsi in danno» (P. GASPARRI [cur.], CIC Fontes, V, Typis Polyglottis Vaticanis 1951, 35). 32


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Dopo l’indizione del concilio Vaticano II, quando i vescovi furono invitati a far pervenire alla commissione preparatoria suggerimenti per i temi da affrontare, una delle proposte più ricorrenti fu quella di abolire l’inamovibilità dei parroci. I vescovi consideravano la norma vigente un limite alla loro azione di governo e volevano essere liberi di nominare e di rimuovere un parroco quando lo avessero ritenuto opportuno. Nelle commissioni incaricate di preparare i diversi schemi fu respinta decisamente la proposta di nominare i parroci a tempo determinato o di renderli amovibili a discrezione del vescovo. Al concetto negativo di “inamovibilità” si preferì quello positivo di “stabilità”35. Il decreto Christus Dominus 31 affermò il principio generale: «I parroci nella loro parrocchia devono poter godere di quella stabilità nell’incarico, che il bene delle anime esige» e diede tre indicazioni per la revisione delle norme relative: a) abolire la distinzione fra parroci amovibili e parroci inamovibili prevista dal codice del 1917; quindi per tutti doveva restare la stabilità minore; b) semplificare il sistema della rimozione dei parroci, in modo da consentire al vescovo di provvedere in modo più conveniente al bene delle anime nel rispetto dell’equità naturale e canonica; c) invitare i parroci a voler rinunziare al loro incarico se per l’età avanzata o per altra grave ragione non possono più svolgere nel modo debito e con frutto il loro ufficio36. Con queste indicazioni il concilio invitava a stabilire un giusto equilibrio fra le esigenze di tre diversi soggetti: la parrocchia (il bene delle anime), il parroco (stabilità dell’incarico), i vescovi (una procedura più semplice per la rimozione dei parroci nei casi di necessità); inoltre con l’invito alle dimissioni a 75 anni eliminava gran parte del contenzioso derivante dall’età avanzata e dalle non buone condizioni di salute dei parroci. Nel motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6 agosto 1966 (I, 20 § 1-2) le indicazioni date dal concilio furono rese esecutive, in attesa che la materia fosse definita nel codice di diritto canonico37. 35

L. DAL LAGO, L’inamovibiltà dei parroci, cit., 71-104. A. FAVALE (cur.), Ufficio pastorale dei vescovi e le Chiese orientali cattoliche, Torino-Leumann 1967, 360-363. 37 Il documento prescriveva: «20 § 1. Il vescovo può, restando salvo il diritto 36


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5. LA SOLUZIONE CONTRADDITTORIA DELLA COMMISSIONE DI RIFORMA DEL CIC

La commissione che preparò gli schemi del nuovo codice formulò una bozza di canone che avrebbe dovuto tener conto delle diverse esigenze. Il testo era così formulato: «Chi è preposto alla cura pastorale in quanto parroco della parrocchia sia nominato a tempo indeterminato. Può essere nominato a tempo definito dal vescovo diocesano se così fu disposto con un decreto della conferenza episcopale»38.

È interessante seguire il dibattito del coetus incaricato di esaminare i rilievi fatti dagli organi di consultazione. Una delle proposte pervenute suggeriva di introdurre per tutti la nomina a tempo determinato. Il segretario della Commissione si dichiarò contrario ad accoglierla, perché a suo dire «il parroco deve godere di una certa stabilità e non deve essere lasciato in balia delle decisioni del vescovo»39. vigente per i religiosi, legittimamente rimuovere qualsiasi parroco dalla sua parrocchia, ogni qual volta il suo ministero, anche se egli non ha commesso colpa grave, è reso pregiudizievole o almeno inefficace per una delle ragioni indicate dal diritto o per una ragione simile secondo il giudizio del vescovo: fino a che il codice non sarà rivisto, si segua la procedura stabilita per i parroci amovibili (cann. 2157-2161 CIC), e resti salvo il diritto delle chiese orientali. § 2. Se il bene delle anime, o i bisogni ovvero l’utilità della chiesa lo richiedono, il vescovo può trasferire un parroco dalla parrocchia che egli regge in modo utile, ad un’altra parrocchia o qualsiasi altro ufficio ecclesiastico. E, se il parroco si rifiuta, il vescovo deve, perché il trasferimento sia validamente decretato, seguire in tutto la procedura di cui si è parlato sopra. § 3. Affinché la disposizione del decreto Christus Dominus, n. 31, possa essere portata ad effetto, tutti i parroci sono pregati di presentare spontaneamente la rinuncia all’ufficio al loro vescovo non oltre i 75 anni compiuti. Questi, tenuto conto di tutte le circostanze personali e locali, deciderà se accettarla o differirla. Il vescovo provveda al conveniente mantenimento e alloggio dei dimissionari» (Enchiridion Vaticanum, II, Bologna 1976, 721-723). 38 Nello Schema canonum libri II de populo Dei del 1977 si legge il testo seguente: «can. 355 (CIC 454) – Qui in paroecia pastorali curae praeficitur qua paroeciae parochus, ad indeterminatum tempus nominetur; ad certum tamen tempus ab Episcopo dioecesano nominari potest, si ita ab Episcopali Conferentia regionis, per decretum ad normam can. 205 editum, permissum fuerit». 39 Communicationes 13 (1981) 272.


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Il segretario nella sua osservazione riconosce la possibilità di un conflitto fra l’esigenza del parroco alla stabilità/inamovibilità e quella del vescovo ad una maggiore facilità nella rimozione e nei trasferimenti. Occorreva salvaguardarle entrambe senza legare le mani al vescovo con una nomina a tempo indeterminato e senza lasciare il parroco «in balia delle decisioni del vescovo» con una nomina a tempo determinato40. Ma la bozza di canone predisposta non subì mutamenti sostanziali nella discussione del coetus41, pertanto non si riesce a capire in che modo il segretario intendesse raggiungere lo scopo di trovare un punto di equilibrio fra il bisogno di stabilità e la richiesta di mobilità. Nel testo approvato troviamo la giustapposizione di due affermazioni contraddittorie: nella prima parte, con l’uso del verbo oportet, si afferma solennemente il principio della stabilità, richiesto dal bene delle anime e dal rispetto dei diritti del parroco: «è necessario che il parroco goda di stabilità». Onde evitare che il termine “stabilità” sia inteso in senso generico42, si aggiunge l’espressione: «perciò venga nominato a tempo indeterminato»43. Nella seconda parte è prevista l’eccezione di una nomina a tempo determinato, con il ricorso ad una formula più blanda: «nominari potest» (può essere nominato). Tuttavia questa possibilità non è definita dal legislatore con una deci40

L.c. Dopo la discussione del coetus il testo del canone fu così formulato: «Parochus stabilitate gaudeat oportet ideoque ad tempus indefinitum nominetur; ad certum tamen tempus ab Episcopo dioecesano nominari potest, si id ab Episcoporum Conferentia regionis per decretum ad normam dan. 245 § 1, admissus fuerit» (l.c.). Troviamo questo stesso testo, con qualche variante marginale, nel can. 522 del codice promulgato. 42 Nel codice di diritto canonico l’aggettivo “stabile” e l’avverbio “stabilmente” sono usati in contesti diversi; ci limitiamo a citare solo alcuni esempi: l’ufficio ecclesiastico è definito come incarico costituito stabilmente (can. 145); i laici di sesso maschile possono essere assunti stabilmente ai ministeri di lettore e di accolito (can. 230 § 1); la parrocchia è definita come comunità di fedeli costituita stabilmente (can. 515 § 1); il cappellano è il sacerdote cui viene affidata in modo stabile la cura pastorale, almeno in parte, di una comunità o di un gruppo particolare di fedeli (can. 564); la vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici è una forma stabile di vita... (can. 573 § 1). 43 Communicationes 13 (1981) 272. 41


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sione super partes, ma è demandata alla deliberazione dei vescovi, uno dei soggetti titolari di una particolare esigenza nella soluzione di questo problema. Era prevedibile che i vescovi in conferenza episcopale facessero passare la proposta da sempre avanzata di una nomina a tempo determinato respinta dal Vaticano I, dal Vaticano II e in modo ambiguo dalla Commissione di riforma del codice. Non devono sorprendere, pertanto, le diverse soluzioni date dalle conferenze episcopali a questo problema: per le conferenze di Francia e Canada il tempo minimo è di sei anni rinnovabili44; per la conferenza italiana di nove anni. Ancora più sorprendente è l’attuazione di questa norma: i vescovi, non solo hanno capovolto le due ipotesi trasformando l’eccezione in regola e la semplice possibilità in un obbligo, ma in alcune regioni hanno introdotto la prassi di attuare una rotazione dei parroci ad ogni scadenza del mandato, con buona pace del principio di stabilità affermato dal concilio Vaticano II e dal codice di diritto canonico45. A conclusione di questo complesso iter normativo, è arduo definire il ministero del parroco. Certamente non è un padre; può essere considerato un buon funzionario, che dovrà limitare i suoi progetti pastorali al mandato ricevuto e sperare nella benevolenza del vescovo per una eventuale riconferma.

6. PROSPETTIVE DI REVISIONE DELLE NORME CANONICHE Nella mia sommaria esposizione delle norme che disciplinano la stabilità dei vescovi e dei parroci ho dovuto iniziare la ricerca partendo dalla Chiesa primitiva, che di solito è considerata come un modello ideale di riferimento. Visto che non è possibile riproporre ai tempi nostri — in un contesto completamente diverso — la disciplina della Chiesa antica, l’analisi delle soluzioni prese in esame può aiutarci 44 A. BARRAS, Les communautés paroissiales. Droit canonique et perspectives pastorales, Paris 1996, 119-120. 45 Un’attenta analisi del can. 522 del CIC, con i suggerimenti per evitare l’evidente contraddizione del testo, è fatta da F. COCCOPALMERIO, La parrocchia tra concilio Vaticano II e Codice di diritto canonico, Cinisello Balsamo 2000, 163-172.


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almeno a individuare alcune istanze da tenere presente in una eventuale revisione delle norme canoniche. Ritengo che le attuali carenze della normativa riguardino soprattutto due aspetti: a) la poca attenzione rivolta alla teologia del ministero ordinato; b) la mancanza della dimensione sinodale nella Chiesa a tutti i livelli. La Chiesa antica, nella scelta dell’ordinazione relativa e nell’analogia del vincolo matrimoniale che il vescovo stabilisce con la propria Chiesa, dimostrava di avere sviluppato una teologia dell’ordine sacro in stretto rapporto con l’ecclesiologia: se per gli apostoli e i loro collaboratori era prioritario l’annuncio “a tutte le genti”, che poteva richiedere la necessità di spostarsi da un paese all’altro, per i ministri della generazione successiva divenne prioritario il servizio stabile alla comunità di appartenenza. L’ufficio di presiedere non era spiegato come necessità sociologica, ma teologica. L’allegoria del matrimonio, del corpo mistico e della paternità spirituale, il riferimento alla nozione di “diaconia”, che troviamo negli scritti del Nuovo Testamento e dei Padri, rinviano ad un vincolo profondo che si instaura fra i ministri e gli altri fedeli della comunità. Nei confronti dei cristiani di Corinto s. Paolo rivendica un ruolo di padre: «potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri; io invece vi ho generato in Cristo mediante il Vangelo» (1 Cor 4, 1; 15)46. L’ufficio di padre non può essere concepito a tempo determinato, perché il padre deve educare e accompagnare fino alla piena maturità i figli che ha generato. Sono queste le premesse che devono giustificare il principio della stabilità nel ministero dei vescovi e dei parroci. La prassi incontrollata della mobilità sembra invece privilegiare nella concezione del ministro l’aspetto manageriale, l’efficienza, la capacità di innovare, elementi che possono avere un significato nella gestione di un’azienda, non nella Chiesa. In un mondo che ha fatto della precarietà una delle sue caratteristiche, la Chiesa deve svolgere un ruolo profetico dimostrando di credere ancora nei vincoli stabili e duraturi. 46 Una trattazione del ministero ordinato in stretto rapporto con la teologia della Chiesa locale è sviluppata da HERVÉ LEGRAND, in Iniziazione alla pratica della teologia, trad. it., II, Brescia 1986, 147-355.


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L’altra carenza, che penso sia necessario sottolineare nell’attuale normativa canonica sulla nomina e il trasferimento dei ministri, riguarda la sinodalità47. Oggi parliamo volentieri di “comunità diocesana” e di “comunità parrocchiale”, ma queste espressioni fanno riferimento a un modello ideale, non alla realtà concreta. La diocesi e la parrocchia possono essere considerate più come centri di servizi, che come luoghi nei quali si manifesta la presenza salvifica di Cristo nel segno della comunione. La prassi secolare del modello monarchico nel governo della comunità cristiana ha fatto venir meno nei fedeli — chierici e laici — la coscienza di una partecipazione responsabile alla vita e alla missione della Chiesa. Pertanto si può affermare che nelle diocesi e nelle parrocchie del nostro tempo manca la dimensione comunitaria e la prassi sinodale. L’idea di riproporre l’elezione dei ministri trova un primo ostacolo insormontabile nell’individuazione dei membri della comunità che dovrebbero eleggerli e nella procedura più opportuna da seguire per evitare che al fine del bene delle anime si sostituiscano interessi di altra natura. Tuttavia queste difficoltà di tipo strutturale non devono far considerare la prassi vigente come l’unica possibile. Oggi né la diocesi, né la parrocchia sono minimamente coinvolte nella nomina e nel trasferimento del proprio vescovo o del proprio parroco. L’unica partecipazione richiesta è quella di accogliere i ministri scelti dall’alto. Il compito di individuare e attuare il bene delle anime è demandato a una sola persona (il papa o il vescovo). Se dobbiamo formulare un giudizio a partire dalle scelte concrete, possiamo essere tentati di affermare che in molti casi una certa ragion di stato prevalga sul sensus Ecclesiae e che l’istituzione sia considerata fine a se stessa, con delle esigenze proprie che possono prevalere sul bene delle anime. Si pensi alla decisione non rara di privilegiare nella scelta dei ministri il criterio di far concludere al candidato una brillante carriera o di trovare una collocazione ad una persona che deve esercitare il ministero, perché ha ricevuto l’ordine sacro. È difficile intravedere la possibilità di un cambiamento delle norme vigenti in un prossimo futuro. 47

Il significato di questa dimensione costitutiva della Chiesa è illustrato da S. DIATeologia. Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 1522-1531.

NICH, Sinodalità, in


CRITERI DI DISCERNIMENTO E SUGGERIMENTI PER L’ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE VERSO UNA SCELTA DEFINITIVA OGGI

GIUSEPPE BUCCELLATO SDB*

PREMESSA L’intervento di questa sera prende le mosse dal nostro precedente contributo dal titolo: Quale maturità umana e spirituale oggi per una scelta definitiva. Criteri di orientamento e possibili itinerari di formazione. Il termine spirituale era stato preso, in quella sede, in senso molto generale e, dunque, senza una accezione teologica che dicesse riferimento alla vita nello Spirito, al discernimento spirituale come vera «chiave di tutta la morale neotestamentaria»1. Pur recuperando le conclusioni di una riflessione «incarnata» in una antropologia aperta al trascendente, faremo qui riferimento in modo più esplicito alle dinamiche di una esperienza spirituale2 che pur sorgendo dalla coscienza di desideri e tendenze «soggettive», dice riferimento all’Altro, alla prospettiva di una vita concepita come compito o vocazione, come ricerca di una salvezza integrale che si dischiude — come afferma Paolo — solo attraverso l’attitudine a «discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12, 2-3). In quest’ottica, la prospettiva di una scelta definitiva viene illuminata dalla consapevolezza che il Dio di Gesù Cristo si dona in *

Docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. F. ROSSI DE GASPERIS, Il discernimento spirituale del cristiano oggi, Roma 1988, 101. 2 Per un approfondimento sul tema della esperienza spirituale si veda in particolare il noto testo di G. MOIOLI, L’esperienza spirituale. Lezioni introduttive, Milano 19942. 1


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maniera totale, definitiva e personale ad ogni uomo, e che ogni scelta di uno stato di vita permanente acquista la sua luce ed il suo più pieno significato nel suo essere sacramento della fedeltà di Dio. La consegna radicale della propria esistenza ad un uomo, ad una donna, ad una congregazione religiosa, ad una particolare porzione del popolo di Dio (parrocchia, diocesi…) rappresenta una risposta di fede all’autotrascendenza di Dio, la cui missione salvifica ha inizio nel suo uscire da sé per andare incontro all’umanità che soffre gli effetti di quella solitudine nella quale si è auto-proiettata, in conseguenza del peccato. La risposta che l’uomo, la donna sono chiamati a dare è, dunque, di natura teologale, richiede una conversione, un orientamento complessivo della persona. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le tue forze (Mc 12,30). «In questo incendio di amore dello Spirito — commenta San Giovanni della Croce — Dio tiene concentrate tutte le forze, le facoltà e gli appetiti dell’anima, sia spirituali che sensitivi. Egli desidera che l’anima impieghi armonicamente le sue forze e le sue virtù in questo amore; e così osservi realmente il primo comandamento che, non disprezzando nulla dell’uomo e senza escludere niente di suo da questo amore, dice: Tu amerai il Signore tuo Dio…»3. L’autodonazione di Dio richiede una conversione, che non è soltanto distanza dal peccato, ma soprattutto superamento di una vita mediocre, tiepida4, e positivo orientamento verso un concreto progetto di vita che, indipendentemente dal suo contenuto, venga scelto «in pienezza». «Una conversione, scelta fondamentale o risoluzione ferma e decisa — sottolinea a questo proposito Luis Jorge González nel suo Sviluppo umano in pienezza — diventa sterile quando non ci si converte ad un progetto pratico, semplice ed appassionante»5. Il cammino verso questa consegna radicale della propria esistenza, verso la definitività delle scelte, dunque, è il medesimo che con3

S. GIOVANNI DELLA CROCE, 2 Notte 11,4. Cfr. Ap 3,16. 5 L. J. GONZÁLEZ, Sviluppo umano in pienezza. Teologia spirituale, Cantalupa 2007, 46. 4


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duce ad una vita cristiana in pienezza e i criteri di discernimento sono gli stessi che ci accompagnano in una sana pedagogia alla santità. L’attenzione all’oggi, a cui ci rimanda il titolo del nostro contributo, ci restituisce, però, il compito di individuare alcune priorità, di fare alcune sottolineature, che prendano le mosse dall’attuale contesto religioso e culturale. Le considerazioni che faremo, dunque, non hanno un criterio esaustivo, ma si collocano all’interno del quadro generale che abbiamo descritto nel nostro precedente contributo, il «fenomeno» della crisi delle scelte definitive, elemento caratteristico dell’attuale contesto postmoderno.

1. RIFERIMENTI PRIORITARI E CRITERI PER L’“ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE” Il tema dei criteri di discernimento in vista di un accompagnamento spirituale verso una scelta che abbia una fondata garanzia di stabilità, è stato soprattutto affrontato, in questi anni, in vista dell’ ammissione dei candidati al presbiterato o alla vita religiosa6. I criteri indicati in questo particolare contesto, in qualche caso, possono dare delle indicazioni anche in relazione ad altre scelte e ad altri percorsi «vocazionali»; in altri casi, comunque, essi appaiono parziali e poco inclini ad inserire la chiamata alla vita presbiterale o religiosa in un contesto più ampio, a sottolineare i punti di contatto che esistono con altri cammini di crescita e con le disposizioni o attitudini che riguardano, più in generale, ogni scelta definitiva. 6

Si vedano, a titolo di esempio, i volumi Discernere e accompagnare. Orientamenti e criteri di discernimento vocazionale, a cura dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1995; E. FORTUNATO, Il discernimento. Itinerari esistenziali per giovani e formatori, Bologna 1999. Si vedano anche la Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri, del 4 novembre del 2005 e il più recente Orientamento per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio, sempre della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, che porta la data del 29 giugno 2008.


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«Risulta manifestamente illusorio — afferma a questo proposito Lucio Pinkus — pensare a dei criteri oggettivi, nel senso quasi di strumenti asettici, che un determinato esperto (o équipe) potrebbe applicare, per ottenere delle risposte; essi possono essere, invece, come dei traccianti per un confronto nella reciprocità […] Ritengo che, solamente se inseriti in una dinamica di dialogo condotto in determinate condizioni, i criteri possano aiutare a far emergere indicazioni e motivazioni per scelte, rispondenti al bene della persona nella fedeltà alle esigenze del vangelo»7. La preoccupazione attuale dei responsabili dei percorsi formativi nei seminari e nelle famiglie religiose è evidente; di proporzioni notevolmente diverse, ma fortunatamente in crescita, è la cura con cui gli operatori pastorali verificano, invece, la idoneità dei candidati al matrimonio; eppure, proprio in questo ambito, si constatano i fallimenti più evidenti di una pastorale a volte troppo preoccupata di distribuire sacramenti senza suscitare una reale sete di Dio o intercettarla con risposte adeguate, proponendo una visione più integrale e radicale del messaggio cristiano.

1.1. Il contributo della dottrina classica sul «discernimento degli spiriti» Prima di suggerire qualche riflessione più aderente all’attuale contesto culturale e religioso, ci siamo chiesti: quali contributi possono emergere, in relazione al nostro tema, dalla dottrina sul discernimento degli spiriti, così come ci è stata tramandata, in particolare, dalla tradizione ignaziana? Molti anni or sono, nell’enciclica Divinum illud, il papa Leone XIII8 ha affermato che il vero inizio di una vita spirituale autentica è segnato dal presentarsi, alla coscienza dell’uomo, di inclinazioni, desi7 L. M. PINKUS, Crtiteri per il discernimento e l’accoglienza di nuove vocazioni, in Discernimento e processi formativi: una responsabilità condivisa, Roma 2007, 7475. Si tratta di una delle relazioni tenute al 46° convegno della CISM (Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori). 8 Cfr. AAS 29 (1897) 653.


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deri, tentazioni, mozioni spirituali che non sono «prodotti» dalla propria elaborazione volontaria, come altri fenomeni psicologici, ma che hanno la caratteristica di imporsi «dal di fuori». Il discernimento di questi spiriti è, come sappiamo dalla dottrina classica, uno degli elementi fondamentali di ogni decisione o scelta e, in ogni caso, una risorsa a disposizione anche dell’accom–pagnatore spirituale, in vista di un’attenta diagnosi o di una adeguata terapia. Semplificando, potremmo dire che il compito di una guida è quello di cercare di mettere in atto una «vera e propria azione pedagogica, con mete esplicitamente educative»9, ma in una particolare prospettiva: quella del rapporto tra due credenti10. «Il rapporto spirituale autentico e pieno — afferma P. Bernard — suppone la concordanza di vedute sulla finalità essenziale della vita spirituale, che consiste nel cercare Dio all’interno della vita concreta»11. Il termine spirituale, dunque, non è qui da intendersi in senso lato o generico, ma in relazione allo Spirito Santo, del quale evoca il ruolo, l’importanza ed il primato. «Entrambi, direttore e diretto — sottolinea Padre Maurizio Costa — nel colloquio sono innanzi tutto discepoli di un solo Maestro; prima di essere in ascolto l’uno dell’altro dovrebbero essere preoccupati di ascoltare lo Spirito tramite l’altro»12. «Lo Spirito Santo che è nel mondo e lo mantiene in vita — precisa Ermanno Ancilli — conduce gli uomini attraverso il discernimento a scoprire il significato spirituale di tutto ciò che esiste nel mondo e per cui il mondo stesso esiste»13. L’ accompagnamento spirituale emerge, in questa luce, come un aiuto in vista della maturità nella fede e nella vita spirituale14. «La vita 9

A. MERCATALI, Padre spirituale, in S. DE FIORES – T. GOFFI (curr.), Nuovo Dizionario di Spiritualità, Roma 1126. 10 Cfr. M. ROTSAERT, Accompagnement spirituel et pastorale des vocations, in Seminarium 35 (1995) 546. 11 C.A. BERNARD, L’aiuto spirituale personale, Roma 19853, 35. 12 M. COSTA, Direzione spirituale e discernimento, Roma 1993, 52. 13 E. ANCILLI, Direzione spirituale, in E. ANCILLI (cur.), Dizionario Enciclopedico di Spiritualità, Roma 1990, 800. 14 Cfr. M. RUIZ JURADO, El discernimiento espiritual. Teología. Historia. Práctica, Madrid 1994, 290.


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spirituale — precisa ancora Maurizio Costa — non consiste solo in speculazioni, ma nella decisione della libertà che, in ogni circostanza concreta, sceglie e compie la volontà di Dio e cerca di conformarsi sempre meglio al piano concreto salvifico di Dio. La vita spirituale non è una ideologia, non è una morale, ma è una vita, è un’esperienza, è un dialogo nel quale Dio manifesta la sua volontà e rende nota la sua chiamata»15. Al centro del discorso sulla direzione spirituale si colloca dunque la ricerca della volontà di Dio16 e dei mezzi per comprenderla, innanzi tutto, ma anche per amarla e per realizzarla. «Questa attitudine di costante dipendenza da Dio — afferma Gilles Jeanguenin — suppone un discernimento che gli permetta abitualmente di liberarsi dalle molteplici illusioni che lo minacciano, originate dalle insidie dell’amor proprio e dello spirito mondano, per lo più dall’attività instancabile del demonio. Suppone una trasformazione e una cristificazione. E qui acquista il suo ruolo la collaborazione strumentale e sussidiaria della direzione»17. Il direttore, attraverso un attento discernimento, è chiamato a riconoscere, nell’esperienza spirituale del discepolo, la presenza di eventuali condizioni sfavorevoli o affetti disordinati per aiutarlo a disporsi adeguatamente e, positivamente, a contribuire, con sapienza educativa, allo sviluppo delle disposizioni convenienti e delle corrispondenti virtù. In ultima analisi si tratta di educare i necessari atteggiamenti interiori che favoriscano un autentico discernimento spirituale personale e, nel nostro caso particolare, possono costituire un significativo presupposte ad una scelta «per sempre».

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M. COSTA, Direzione spirituale e discernimento, Roma 1993, 26-27. Nel modo di concepire la volontà di Dio, come sottolinea P. Maurizio Costa, si può cadere in due opposti estremi. C’è chi, in un’ottica esclusivamente soggettivistica, sottolinea il protagonismo dell’uomo, capace di costruire la sua esistenza in modo autonomo, alla luce della sua «coscienza» e quasi indipendentemente dal rapporto con una verità trascendente; all’estremità opposta c’è invece chi concepisce il fare la volontà di Dio con atteggiamento legalistico e quasi farisaico, come obbedienza ad una verità esterna (M. COSTA, Direzione spirituale e discernimento, cit., 27-28). 17 L.c. 16


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Merita di essere citata una nota pagina riassuntiva del gesuita Giovan Battista Scaramelli, nel suo Discernimento degli Spiriti per il retto regolamento delle azioni proprie ed altrui, tabella che servirà di canovaccio a molti studi successivi. Nonostante lo schema dello Scaramelli abbia quasi tre secoli, lo riportiamo qui, a livello indicativo, pur non considerandolo un riferimento assoluto. La struttura dell’uomo, infatti, come osserva ancora Jeanguenin che la riporta nel suo Discernere, pensare e agire secondo Dio18, è assai più complessa (biologica, fisica, psicologica, spirituale) e ciò che influenza il pensiero dell’uomo e le sue scelte va oltre la semplice distinzione tra spirito buono e spirito cattivo19. SPIRITO BUONO SPIRITO CATTIVO PER L’INTELLIGENZA 1. Ricerca della verità 1. Compiacenza nella menzogna 2. Nulla di inutile 2. Cose futili, inutili, vane 3. Tenebre o false luci nell’imma3. Illumina l’intelligenza ginazione 4. Docilità intellettuale 4. Ostinazione di giudizio 5. Discrezioni (discernimento) 5. Esagerazione, eccesso 6. Pensieri umili 6. Orgoglio, vanità PER LA VOLONTÀ 1. Pace interiore 1. Turbamento, inquietudine 2. Umiltà vera, effettiva 2. Orgoglio, falsa umiltà 3. Fiducia in Dio e diffidenza di sé 3. Presunzione e disperazione 4. Volontà flessibile, facilità ad aprirsi 4. Ostinazione, cuore duro e agli altri chiuso 5. Retta intenzione nelle azioni 5. Intenzione distorta 6. Pazienza nei dolori del corpo e 6. Impazienza nelle prove dell’anima 7. Mortificazione interiore 7. Ribellione delle passioni 18

Cfr. G. JEANGUENIN, Discernere, pensare e agire secondo Dio, Roma 2008, 4041; vedi anche C. BRASSEVIN, Le Discernement des esprits, Paris 1893; J. DE GUIBERT, Leçons de théologie spirituelle, Toulouse 1955, 307. 19 Cfr. G. JEANGUENIN, Discernere, pensare e agire secondo Dio, cit., 41.


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8. Semplicità, veridicità 9. Libertà spirituale 10. Cura di imitare Cristo 11. Carità dolce, buona, che si dimentica di sé

8. Doppiezza, finzione 9. Cuore prigioniero delle cose terrene 10. Avversione per Cristo 11. Zelo falso, amaro, farisaico

SEGNO DELLO SPIRITO DUBBIO O SOSPETTO 1. Dopo aver fatto bene una scelta di uno stato davanti a Dio (matrimonio, vita religiosa, ecc.), aspirare a un altro. 2. Essere portato a cose insolite, singolari, che non sono in rapporto con il proprio stato. 3. Amore di cose straordinarie nell’esercizio della virtù. 4. Talvolta ricerca di esagerate penitenze esteriori. 5. Desiderare troppe consolazioni sensibili. 6. Consolazioni e gioie spirituali continue, mai interrotte. 7. A volte anche le lacrime possono essere sospette. 8. Rivelazioni frequenti in persone di bontà mediocre.

Le sottolineature in tabella sono nostre e suggeriscono alcune possibili controindicazioni in relazione al discernimento sulla perseveranza nella scelta «definitiva» di uno stato di vita.

1.2. La «retta intenzione» Anche l’espressione «retta intenzione» paga il suo debito ad una impostazione classica, ma il contributo che può dare alla nostra riflessione sulla stabilità delle scelte è probabilmente più ricco e significativo. Ad una pagina di Giacomo Alberione affidiamo il compito di chiarirne il significato con una immagine: «La retta intenzione significa fare le cose per Dio, per l’eternità, nello spirito di fede. L’intenzione è retta quando va a Dio. E l’intenzione, invece, non è retta quando non va a Dio. L’intenzione può essere anche che ci allontani da Dio, quando, cioè, quello che noi abbiamo in mente nell’ope-


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rare non sia buono, cioè, che abbiamo in mente fini cattivi. Retto significa quello che va senza curve, senza voltare a destra o a sinistra. Una retta congiunge due punti. Quando le azioni partono da noi e sono dirette verso il Signore, allora sono sulla retta, e la nostra intenzione si dice retta»20. «Uno degli aspetti più difficili del discernimento — scrive a questo proposito il gesuita Manuel Ruiz Jurado — è quello della retta intenzione […] Non è sempre facile da riconoscere con la sola osservazione di alcune attività o per la sola dichiarazione della persona. A volte una è l’intenzione prevalente, anche se ve ne sono altre che si uniscono a quella e la inquinano; ma può essere verificata, perché in assenza delle motivazioni secondarie è capace di restare prevalente. Altre volte quell’intenzione prevalente si va aprendo la strada a poco a poco, fino ad assorbire e centrare totalmente la persona, attraverso la assimilazione vitale delle motivazioni cristiane»21. In modo più esplicito, possiamo affermare che uno dei compiti e delle «sfide» principali dell’accompagnamento spirituale è proprio il discernimento sulla retta intenzione; non basta, infatti, scegliere un valore, ma, come diremo più esplicitamente, deve esserci, perché ci sia una buona garanzia di perseveranza, un accordo tra il valore scelto e le motivazioni per cui il valore viene abbracciato. «Il solo desiderio di diventare sacerdote — afferma una recente istruzione della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica — non è sufficiente e non esiste un diritto a ricevere la sacra Ordinazione»22. Probabilmente, la medesima considerazione andrebbe fatta oggi, con maggior senso di responsabilità, anche in vista dell’ammissione al sacramento del Matrimonio. Leggiamo nel Direttorio di Pastorale Familiare: «Per una autentica pastorale familiare è necessario innanzi tutto mettere in atto una complessiva, articolata e capil20

G. ALBERIONE, in www.alberione.net/operaomnia/capitolo.php?titlib=129& caput=27.%20RETTA%20INTENZIONE. 21 M. R. JURADO, Il discernimento spirituale. Teologia, storia, pratica, Cinisello Balsamo1997. 22 Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri, 4 novembre del 2005, n. 3.


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lare azione educativa, per far crescere ogni persona come tale e, cioè, nella libertà che si apre all’amore e alla donazione di sé. Si tratta, pertanto, di aiutare ciascuno a maturare in quella libertà radicale, che consiste nel decidere di sé stessi secondo il progetto che Dio iscrive nell’essere dell’uomo: un progetto che ha come centro e contenuto fondamentale l’amore, sull’esempio e nella misura di Gesù Cristo, alla cui immagine siamo predestinati ad essere conformi (cfr. Rom 8, 28-30). In questa prospettiva ogni azione educativa possiede una sua intrinseca dimensione vocazionale: è aiuto offerto ad ognuno perché possa riconoscere e seguire la sua vocazione fondamentale all’amore nel matrimonio o nella verginità, compimento della consacrazione battesimale, e vivere così la sua missione nella Chiesa e nel mondo»23. Afferma la Familiaris consortio al n. 67, a proposito dell’atteggiamento con cui i fidanzati devono accostarsi all’esperienza matrimoniale: «Non si deve dimenticare che questi fidanzati, in forza del loro battesimo, sono realmente già inseriti nell’Alleanza sponsale di Cristo, con la Chiesa e che, per la loro retta intenzione, hanno accolto il progetto di Dio sul matrimonio e, quindi, almeno implicitamente, acconsentono a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il matrimonio»; e, analogamente, il Codice di Diritto Canonico, a proposito dei candidati alla vita presbiterale afferma: «Siano promossi agli ordini soltanto quelli che, per prudente giudizio del Vescovo proprio o del Superiore maggiore competente, tenuto conto di tutte le circostanze, hanno fede integra, sono mossi da retta intenzione, posseggono la scienza debita, godono buona stima, sono di integri costumi e di provate virtù e sono dotati di tutte quelle altre qualità fisiche e psichiche congruenti con l’ordine che deve essere ricevuto» (can. 1029). C’è una effettiva analogia tra tutte le vocazioni cristiane: a ciascuna di esse è richiesta la medesima autenticità, cioè di essere una vera risposta ad una vera chiamata24.

23 24

CEI,

Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, n. 28. Cfr. M. ORAISON, Vocazione fenomeno umano, Bologna 1971, 107.


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1.3. Verso motivazioni autentiche ed adeguate25 Le considerazioni sulla retta intenzione, più attinenti all’ambito della teologia morale o spirituale, si arricchiscono con il contributo delle scienze psicologiche. In questo ambito si preferisce parlare di motivazioni. La nozione di motivazione è basilare nella psicologia della personalità. «La motivazione — afferma P. Aquiléo Fiorentini dei Missionari della Consolata — è un fenomeno dinamico che agisce come un impulso del comportamento umano. È uno stimolo, una forza che proviene tanto dall’ambiente esterno come dal mondo interiore, che spinge l’individuo in direzione di un obiettivo da raggiungere e che corrisponde alla soddisfazione di una necessità»26. Le motivazioni raramente sono semplici. Ogni scelta significativa, infatti, é originata da una pluralità di motivi più o meno consapevoli e «decisivi». Le motivazioni coscienti, inoltre, possono spesso coprire tendenze nascoste, recondite e sconosciute allo stesso soggetto che opera la scelta. Questo avviene anche per le motivazioni che sono all’origine di una scelta di fede, motivazioni che possiamo definire soprannaturali. Le intenzioni espresse o verbalizzate non sempre sono quelle che muovono veramente verso il valore scelto. «Ci sono comportamenti apparentemente uguali — afferma Alessandro Manenti — che nascono da motivazioni qualitativamente diverse […] È difficile che la nostra azione sia solo e sempre espressiva dei valori, un puro distillato del Vangelo. Generalmente è mischiata a motivazioni meno nobili e genuine»27. In termini psicologici, possiamo chiamare autentiche delle motivazioni che appaiono per quelle che sono; non c’è, in questo caso, nessuna distanza tra le motivazioni espresse dal soggetto e quelle che muo25 Cfr. A. FIORENTINI, Le motivazioni vocazionali, in http://it.ismico.org/content/view/274/46/. 26 L.c. 27 A. MANENTI, Vocazione psicologia e grazia. Prospettive di integrazione, Bologna 1992, 32.


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vono realmente il suo mondo interiore verso la scelta operata. Al contrario, abbiamo delle motivazioni non autentiche «quando i valori percepiti dal soggetto — afferma Alessandro Manenti — non sono quelli che dovrebbero veramente spingere all’azione, ma sono semplicemente dei valori sostitutivi (pertanto non autentici); sono maschere di altri veri motivi che l’individuo, per un processo di rimozione inconscia, non riconosce. Sembra essere animato da altri motivi, ma in realtà sono solo frutto di meccanismi di difesa messi in pratica»28. Il soggetto non ha, quindi, coscienza che la sua inclinazione non è frutto del valore che egli coglie a livello cosciente, ma scaturisce da un altro bisogno rimosso dalla sfera conscia, che viene poi, in molti casi, razionalizzato. Ha scritto Charles André Bernard: «È una conquista definitiva della psicologia del profondo l’aver messo in luce come i nostri atti (apparentemente) retti da motivi chiari e buoni, possono derivare in effetti da pulsioni non controllate e nemmeno consce […] Tali motivazioni traggono la loro origine dalla storia personale, oppure da pressioni ambientali ed è chiaro che le decisioni prese sotto la pressione di simili motivazioni vanno considerate con molta cautela»29. Un’altra importante distinzione può essere fatta tra motivazioni adeguate e motivazioni inadeguate. Con riferimento al valore o alla scelta che viene perseguita, una motivazione si dice adeguata quando è proporzionata alla dignità del bene che viene desiderato. Ci si può sposare, ad esempio, per risolvere il problema del proprio sostentamento o abbracciare il celibato perché non si ha nessuna stima della vita di famiglia o per un desiderio di libertà; simili motivazioni, anche se autentiche (cioè portate a livello di coscienza) sarebbero inadeguate, perché non proporzionate al valore scelto. L’accompagnamento spirituale deve contribuire a ridurre al minimo, l’influenza di motivazioni inconsce, attraverso un discernimento motivazionale che passi da una buona conoscenza di sé, e a far crescere delle motivazioni adeguate allo stato di vita che viene scelto, considerato in una corretta prospettiva e nel quadro complessivo dei valori cristiani. Ci sembra di poter dire che all’origine di molte sconfitte, di 28 29

L.c. C.A. BERNARD, Teologia spirituale, Roma 1983, 352.


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molti allontanamenti e defezioni, ci sia una mancanza di consapevolezza dei veri motivi del proprio agire o il supporto di motivazioni insufficienti, che, alla distanza, non sono più adatte a sostenere la scelta fatta.

1.4. Autorealizzazione o autotrascendenza? L’autorealizzazione è la tendenza a trovare in sé stessi l’orizzonte delle proprie scelte di vita; il punto di partenza, la motivazione principale è la ricerca di sé. Se la persona, nel suo sforzo di auto-definizione, nella ricerca del suo futuro e della sua identità si concentra in modo esclusivo su questo aspetto soggettivo della realtà, ci sarà il pericolo di una autoconcentrazione, di un egocentrismo, una preoccupazione di sé di tipo narcisistico, che chiude la persona ad un contatto autentico con gli altri. Gli altri vengono, in qualche modo, «strumentalizzati», «usati» per soddisfare il proprio bisogno materiale o spirituale. È appena il caso di dire che nel contesto culturale attuale, caratterizzato dal soggettivismo, e da una diffusa «ipertrofia dell’io», questa tendenza esasperata all’autorealizzazione, al soddisfacimento dei propri bisogni, si presenta come uno dei più grossi ostacoli verso la definitività delle scelte. Questa particolare prospettiva può coinvolgere sia le cosiddette vocazioni «di speciale consacrazione» che la scelta del matrimonio cristiano. Un’osservazione di Mihály Szentmártoni ci costringe, però, a riflettere: «Non può sfuggire l’impressione — afferma il gesuita ungherese — che, specialmente tra i religiosi e le religiose ci sia un gran numero di persone che si sono intrappolate in una chiusura narcisistica: la vita religiosa serve ad ottenere la perfezione, che diventa così fine a se stessa […] La conseguenza: una vita spirituale “borghese”; inoltre, l’autodefinizione di fronte agli altri diventerà non più uno sforzo per inserirsi in un contesto comunitario, ma un tentativo egocentrico di sfruttare gli altri a profitto dell’ideale narcisista di sé»30. 30

M. SZENTMÁRTONI, Psicologia della vocazione religiosa e sacerdotale, Roma 1995, 35.


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In realtà, ci sembra che questo bisogno di autodefinizione, questa ricerca di sicurezza e di identità, che il più delle volte non affiora alla coscienza del soggetto e rimane latente, possa essere la vera causa di molti abbandoni, che possono o meno concludersi con una riappropriazione di quanto si era donato in modo «definitivo», ma non per una «giusta causa». «La persona che nel profondo è rivolta a se stessa — scrive Rupnik nel primo volume del suo Il discernimento — cioè che cerca ancora sé stessa, forse nelle azioni quotidiane si può camuffare dietro a gesti belli, religiosi, sacrosanti; tuttavia essi non riescono a smuovere il suo fondamentale attaccamento alla propria volontà»31. Il superamento della visione narcisistica e lo strutturarsi di una autentica prospettiva autotrascendente avviene, secondo il filosofo e teologo canadese Bernard Lonergan32, grazie ad un dinamismo progressivo e circolare che implica tre differenti conversioni, quella intellettuale, quella morale e quella religiosa, che si sviluppano secondo una gradazione progressiva d’orizzonte, ma anche secondo un intreccio indissolubile. Già nel nostro precedente intervento, a proposito di Lonergan e del suo concetto di conversione, affermavamo: «Non si tratta di tre “stadi” che si susseguono uno dopo l’altro; non è detto che la conversione intellettuale debba precedere quella morale e che questa, a sua volta, preceda la conversione religiosa. Anzi, molte volte accade esattamente il contrario e la conversione intellettuale è l’ultima ad essere raggiunta. L’orizzonte di una conversione “etica”, ancor prima che religiosa, implica poi, semplicemente, che il soggetto riconosca sempre più e più profondamente il primato dell’altro, la preminenza del “biso31

M. I. RUPNIK, Il discernimento, I, Roma 2002, 58. Tra i molti studi esistenti su Lonergan, si vedano, perché particolarmente attinenti al nostro contributo: P. TRIANI, Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan ad una «filosofia» della formazione, Milano 1998; L. MONARI, Le istanze educative nel progetto di Bernard Lonergan, Relazione tenuta al Convegno Educare insieme, il ruolo della scuola nella comunità educante nella Diocesi di Piacenza-Bobbio il 23 ottobre del 2003 (www.chiesacattolica.it/cci_new/ documenti_diocesi/151/2003-11/05-30/ME231003.rtf); C.M. MARTINI, Bernard Lonergan al servizio della Chiesa, in La Civiltà Cattolica, 2005, I, 329-341; V. DANNA (cur.), Bernard Lonergan. Il metodo teologico, le scienze e la filosofia, Torino 2006. 32


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gno”, dell’”universo” dell’altro sul nostro. Questa convinzione non può essere soltanto “intellettuale”; esige un coinvolgimento radicale e profondo, una vera, intima rivoluzione copernicana». È in gioco, direbbe Lonergan, la nostra attitudine ad «innamorarci». «L’innamoramento — scrive nel suo notissimo Il metodo in teologia — rappresenta un inizio nuovo, un esercizio della libertà verticale nella quale il proprio mondo viene sottoposto a una nuova organizzazione. Ma l’eccezione più importante al detto latino Nihil amatum nisi praecognitum (la conoscenza precede l’amore), viene dal dono che Dio ci fa del suo amore, il quale amore inonda il nostro cuore. Allora siamo nello stato dinamico dell’essere innamorati. Ma chi sia colui che noi amiamo non è dato né è ancora capito. La nostra capacità di autotrascendenza morale ha trovato un adempimento il quale reca una gioia intima e una pace profonda. L’amore ci rivela valori che prima non apprezzavamo, il valore della preghiera e dell’adorazione, del pentimento e della fede. Ma se vogliamo sapere che cosa stia avvenendo dentro di noi, se vogliamo imparare a integrarlo con il resto della nostra vita, dobbiamo indagare, investigare, domandar consiglio. È così che, nelle cose della religione, l’amore precede la conoscenza e, poiché questo amore è dono di Dio, lo stesso initium fidei è dovuto alla grazia di Dio»33. Convertirsi vuol dire, dunque, cambiare il criterio delle proprie decisioni, passando dalle soddisfazioni ai valori, dal piacere alla beatitudine. Questo ci permette di «consegnarci totalmente e per sempre, senza condizioni, restrizioni, riserve»34.

1.5. La teoria della autotrascendenza nella consistenza La teoria della autotrascendenza nella consistenza è una teoria complessa e strutturata, che già da più di trent’anni, ha tentato di analizzare il fenomeno della perseveranza e della efficacia nella vita religiosa e presbiterale. Nonostante questa teoria sperimentale sia nata 33 34

B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Roma 2001, 142-143. Ibid., 240. Cfr. V. DANNA (cur.), Bernard Lonergan, cit., 68-70.


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per interpretare questa particolare tipologia di scelte, abbiamo voluto riassumerla, nelle sue linee essenziali, innanzi tutto perché offre una sorta di prospettiva sintetica, rispetto ai criteri di discernimento e alle indicazioni fin qui prospettate; inoltre crediamo che alcune delle sue conclusioni possano essere considerate delle buone ipotesi per interpretare anche il fallimento di altre «scelte definitive», come quella matrimoniale. Il riferimento a Lonergan, innazi tutto, è evidente già dalla formulazione del nome35. La teoria integra i valori spirituali contenuti nel pensiero del gesuita canadese con le nozioni psicologiche, in un insieme logico e coerente. Una scelta vocazionale che abbia fondate garanzie di perseveranza, non si può verificare sulla base di un desiderio di autorealizzazione, ma deve scaturire dalla volontà di realizzare un valore oggettivo che trascende la persona. Inoltre ritorna, in questa teoria, il tema delle motivazioni e del loro accordo consapevole con il valore che è alla base della scelta che si opera. Nonostante alcune difficoltà terminologiche e la sua strutturazione piuttosto rigida, è un teoria efficace e feconda per entrare dentro le dinamiche intrapsichiche della vita umana. «Si segnala — scriveva Amedeo Cencini alcuni anni or sono — per l’ampio respiro antropologico e la concezione interdisciplinare, in cui vanno a confluire armonicamente teologia, filosofia, psicosociologia, psicologia del profondo»36. Il Padre Luigi Maria Rulla, fondatore di questa scuola, definisce consistente la personalità di un sacerdote o di un religioso dove si accordino armonicamente i tre cosiddetti contenuti dell’io e cioè: i bisogni, i valori, gli atteggiamenti37. 35 Lo studioso canadese, nato a Buckingham nel Quebec nel 1904 e morto a Pichering nel 1984, fu docente alla Universita Gregoriana di Roma dal 1953 al 1965. 36 A. CENCINI, Il contributo delle scienze umane nella formazione al discernimento, in S. BISIGNANO (cur.)Formazione al discernimento nella vita religiosa, Roma1987, 176. Per i fondamenti della teoria si vedano i due volumi: L. M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana. Basi interdisciplinari, Casale Monferrato 1985; L.M. Rulla – F. IMODA – J RIDICK, Antropologia della vocazione cristiana. Conferme esistenziali, Casale Monferrato 1986. 37 Per elaborare la sintesi della teoria ci siamo serviti, oltre che dei due testi di Rulla già citati, del volume di M. SZENTMÁRTONI, Psicologia della vocazione religiosa e sacerdotale, cit., 45-57.


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Il bisogno viene definito come una tendenza soggettiva all’azione. Può essere pensato come la motivazione che sta alla base della scelta del valore. I valori rappresentano il riferimento oggettivo, esterno a noi. Gli atteggiamenti, infine, sono per Rulla delle predisposizioni a rispondere ad uno stimolo esterno, che esercitano una influenza direttiva sulla persona38. Facciamo un esempio, per comprendere meglio. Abbiamo detto che una vocazione si dice consistente quando valori, bisogni e atteggiamenti sono in accordo tra loro. Supponiamo di considerare un religioso che abbia scelto il valore della vita comunitaria. Può darsi che questo nasca da uno o da dei bisogni che si accordano perfettamente con il valore (bisogno di comunicare, bisogno di solidarietà da dare e da ricevere…) come può darsi che questo tragga origine da bisogni che poco si accordano con il valore in questione (bisogno di fuggire dal mondo, bisogno di migliorare la propria condizione sociale…). Può accadere comunque, anche in questo secondo caso, che gli atteggiamenti siano invece in accordo con i valori scelti; dunque il religioso o la religiosa è osservante, ha strutturato i suoi comportamenti in modo da rispondere adeguatamente alla domanda sociale. Siamo però di fronte a quella che Rulla chiama inconsistenza psicologica, cioè ad una mancanza di accordo tra bisogni da una parte e valori e atteggiamenti dall’altra. Un altro esempio, un po’ più delicato. Supponiamo che un presbitero abbia scelto il valore della vita celibataria spinto dal bisogno di restare libero, di non dovere dipendere da nessuno, o da una tendenza profonda che non lo inclina ad una relazione eterosessuale. Anche qui, gli atteggiamenti esterni potrebbero essere in accordo con la vita celibe, ma il percorso che sarà chiamato a fare è quello di prendere coscienza delle vere motivazioni che stanno alla base della sua scelta; questo non lo «guarirà» immediatamente, ma certamente lo porrà in una condizione di grande onestà dinanzi a sé stesso e agli altri, 38

In realtà questa definizione di atteggiamento, che Rulla adopera, corrisponde più alla nozione usuale di comportamento reattivo. Quando si parla di atteggiamento o habitus, in genere si fa riferimento a qualcosa di più profondo che coinvolge l’intimità della persona.


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atteggiamento che attenuerà le conseguenze di quella inconsistenza; ci sono malattie fisiche, spirituali o psicologiche che sono destinate a rimanere croniche, ma il sapere di averle può permetterci di controllarle e di ridurre al minimo le conseguenze negative. Vi è anche un altro caso di inconsistenza, che Rulla definisce sociale. Qui la rottura è più completa, più manifesta. I bisogni sono in disaccordo con i valori ma in perfetto accordo con gli atteggiamenti che, dunque, non hanno più nulla a che fare con la vita che si è scelta. Un ultimo caso si verifica quando i bisogni profondi della persona sono in perfetto accordo con i valori, ma gli atteggiamenti tendono a risentire di una organizzazione precedente e si manifestano in discordanza con i valori e i bisogni; si tratta generalmente di personalità che possono apparire contestatarie. In questo caso, contrariamente a quanto si crede, la situazione è meno grave; Rulla dice che la vocazione è consistente, anche se solo psicologicamente e non ancora socialmente; più grave è il disaccordo tra motivazioni e valori, anche se gli atteggiamenti esterni sono conformisti. In ogni caso la minore o maggiore gravità di una inconsistenza è legata al suo essere più o meno consapevole, cioè al cammino che il soggetto ha fatto per portarla a livello di coscienza. Riassumendo in un quadro sintetico si ha:

BISOGNI (o motivazioni)

VALORI

ATTEGGIAMENTI

GIUDIZIO

disaccordo

disaccordo

inconsistenza sociale (ribelli)

disaccordo

accordo

inconsist. psicologica (conformisti)

accordo

disaccordo

consistenza psicologica (pellegrini)

accordo

accordo

consistenza sociale (ben integrati)

Il problema fondamentale della vita presbiterale e religiosa di oggi, ma anche quello della vita matrimoniale, è quello di costruire una


Criteri di discernimento e suggerimenti per l’accompagnamento spirituale 155

unità profonda della persona che nasca da questa armonia tra il valore scelto e le motivazioni profonde per cui è stato scelto (quelle vere…). Notiamo invece che nel valutare l’idoneità di un candidato alla vita presbiterale o nel valutare le disposizioni ad abbracciare la vita matrimoniale, si dà un peso maggiore agli atteggiamenti, ai comportamenti esterni, che invece rappresentano, alla fine, la dimensione che più facilmente può tendere al cambiamento, anche… in corso d’opera. Anche nel caso del matrimonio, dunque, una corretta consapevolezza del valore dell’esperienza matrimoniale e l’accordo o il disaccordo di questo valore, con gli atteggiamenti e le motivazioni (che in questo caso dovrebbero concentrarsi sull’obiettivo autotrascendente di costruire la propria vita come un dono per la felicità dell’altra/dell’altro) possono essere considerati un elemento di discernimento in vista della futura stabilità della unione.

2. IL DIFFICILE COMPITO DELL’ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE La prima vera sfida che scaturisce dall’esperienza educativa è la sua originale irripetibilità. Non esistono leggi universali, non esiste il prototipo di uno sposo o di un religioso fedele, su cui uniformare dei «processi produttivi». «L’educabilità umana — ha scritto a questo proposito la pedagogista Edda Ducci — porta in sé l’irripetibilità, che distingue l’essere umano dagli altri esseri e il singolo umano dagli altri umani. Nell’orizzonte cristiano viene chiamato in causa lo spessore massimo della libertà nella linea creaturale, e tutti gli elementi che confluiscono nel senso complesso e appropriato di identità […]. Il prorompere della persona, auspicabile e disorientante, resta imprevedibile e non arginabile nella sua parte preziosa e unica. Le istituzioni, anche quelle più complete e motivate, fanno fatica ad accogliere questo evento; quando non sono addirittura impari a riceverlo. Al sapere educativo è richiesto […] (di) intrecciare rischiosamente obbedienza e disobbedienza»39. 39

872.

E. DUCCI, Pedagogia in Dizionario di Pastorale Vocazionale, Roma 2002, 871-


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A questa sfida, in particolare, sono chiamate a rispondere le tradizionali strutture formative per i candidati al presbiterato o alla vita religiosa. Il rischio più grosso è quello di «uniformare» i comportamenti esterni, senza far crescere le motivazioni profonde. L’altra, inevitabile incognita dell’esperienza educativa è la sua replicabilità nel tempo, oltre che nei differenti contesti culturali. Difficile, dunque, fare emergere delle indicazioni che abbiano la pretesa di essere veramente efficaci, per tutti e dovunque. Ciononostante proviamo a tracciare alcuni compiti o funzioni dell’accompagnamento spirituale, in vista non soltanto della scelta iniziale, ma anche durante il percorso o nel tempo della crisi, al fine di costituire un quadro di riferimento sintetico ed essenziale40. Il ruolo dell’accompagnatore si può esplicitare in quattro, complementari funzioni: oggettivante, confrontativa (di confronto), pedagogica, stimolatrice.

2.1. Funzione «oggettivante» L’accompagnatore, situandosi come una sorta di specchio nei confronti dell’accompagnato, lo aiuta a costruire pazientemente una conoscenza realistica di sé. Come è possibile una consegna radicale di sè se «non ci si possiede», se si è mossi da motivazioni o da conflitti inconsci? Non vi è maturità umana o spirituale senza uno sforzo di «autoanalisi». La presenza della Grazia non dipende dalle disposizioni della persona; ma la capacità di rispondere alla Grazia, invece, è in stretta relazione con la maturità psicologica della persona. Da tale maturità dipende la possibilità che la risposta della persona alla Grazia tocchi il bene reale o solo il bene apparente, che sia appropriata o no alla crescita umana, che la persona scelga il Regno di Dio o sé stessa. Aiutare la persona a crescere nella sua dimensione psicologica vuol dire ridurre il rischio che le persone fuggano da sé stesse o cerchino in 40 Ci serviremo del testo di L. RUBIO MORAN – J. GARCIA VELASCO, Algunas pistas sobre el acompañamiento y el discernimento de las vocaciones, in Seminarios 35 (1989) 26-58.


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modo esagerato gratificazioni narcisistiche. «Non esiste dicotomia — sottolinea ancora Alessandro Manenti — tra crescita spirituale e crescita psicologica. Più l’uomo vive i valori proposti da Cristo e più vive in intensità la sua umanità: alla luce di quei valori vive la propria esperienza umana in modo più assoluto e radicale, trovando continuamente in essa un significato inedito inesauribile. I valori evangelici hanno la capacità di vivificare e animare tutte le strutture psichiche dell’uomo e rifiutano di chiudersi in una qualsiasi espressione particolare dell’uomo, esaurendosi in essa»41.

2.2. Funzione «di confronto» L’accompagnatore è chiamato a confrontare costantemente la prospettiva scelta con il valore che in essa è contenuto. In particolare egli sa che ogni scelta «opzione per il Regno» esige un impegno totale e coinvolgente. «La decisione — scrive Amedeo Cencini — dovrebbe essere espressione di un coinvolgimento sempre più totale delle funzioni psichiche (cuore–mente–volontà) da cui possa nascere — a sua volta — una motivazione altrettanto totale, non solo cerebrale–teologica (“è Dio che mi chiama”) o etico-volontaristica (“è giusto fare questo tipo di scelta”) o emotivo–sentimentale (“questo tipo di vita mi piace…”), ma una motivazione piena, in grado di attingere proprio per questo la realtà dell’oggetto ideale vocazionale, scelto e amato con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze (cfr. Dt 6, 5)»42. Il ruolo della guida dovrà essere anche quello di favorire un confronto tra l’ideale effettivamente perseguito e le esigenze concrete che conseguono da tale ideale. Chi conosce il bene, direbbe probabilmente Socrate, non può che orientare le proprie scelte nella direzione della propria vera felicità. L’accompagnamento verso la scelta dello stato di vita dovrebbe contribuire a «rivestire di bontà» ogni particolare prospettiva vocazionale; più quest’opera è convincente all’inizio, duran41

A. MANENTI, Vocazione psicologia e grazia, cit., 85. A. CENCINI, Segni predisponenti, in Dizionario di Pastorale Vocazionale, Roma 2002, 1046. 42


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te il cammino o nel tempo della «crisi», più è garantito il buon «risultato» del processo di accompagnamento.

2.3. Funzione pedagogica La visione psico-analista classica, generalmente, crede poco nelle possibilità di prendere in mano la propria vita e di darle un nuovo orientamento, poiché nella pratica pensa che l’inconscio prende le redini di comando sulla persona. La linea umanista risponde al problema della crescita in modo diverso: per mezzo della teoria dell’autonomia funzionale dei motivi, le motivazioni possono svilupparsi e crescere, e portare la persona a godere dei beni superiori, a sentire nuovi gusti di vivere, a rispondere positivamente ad un invito a trascendersi e ad autotrascendersi. In questa graduale conversione delle motivazioni, il ruolo di una guida può essere determinante. Inoltre, l’accompagnatore ha il compito fondamentale di costruire una sana e graduale pedagogia della fede. Ogni scelta definitiva di un credente, infatti, scaturisce da un atto di fede, così come ogni defezione, a parer nostro, si connota, in modo più o meno cosciente, come una vera e propria crisi di fede. «L’atto di fede — scrive ancora Cencini — all’interno di una logica che fa spazio al mistero, è proprio quel punto centrale che consente di tenere insieme le polarità a volte contrapposte della vita, e che forse emergono in modo particolare proprio nella ricerca e opzione vocazionale, sempre misteriosa e paradossale, perennemente tesa tra la certezza della chiamata e la coscienza della propria inettitudine, tra la sensazione del perdersi e del ritrovarsi, tra la grandezza delle aspirazioni e la pesantezza dei limiti, tra Grazia e natura, tra Dio che chiama e la persona che risponde»43.

2.4. Funzione stimolatrice L’accompagnatore stimola l’accompagnato durante il processo di 43

Ibid., 1052.


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discernimento e lo sostiene nei possibili momenti di difficoltà; guida alla ricerca più consapevole dei valori, aiuta ad interiorizzare le esigenze evangeliche, aiuta a formulare un progetto sempre attraente e coinvolgente. In ogni caso sa che il presupposto fondamentale che sta alla base di una scelta di vita radicale è la struttura complessiva della personalità. Un io forte, capace di comportamenti originali e autonomi, sarà sempre più guidato da processi che superano la necessità di soddisfare i bisogni in modo immediato; un io debole, incapace di autocontrollo e di progettualità, non sarà capace di differire la soddisfazione del piacere, e, in genere, di una scelta che coinvolga tutti i dinamismi interni e che abbia una fondata speranza di «successo». Nella maggior parte dei casi non si tratta, soltanto, di stimolare la volontà, ma anche di «rivestire di bontà» una determinata prospettiva contribuendo ad arricchire anche la componente intellettiva delle motivazioni. L’esercizio abituale della volontà, comunque, se non è sostenuto dall’amore rischia di arricchire la componente egocentrica della personalità. Non si tratta, puramente, di far crescere in modo narcisistico la capacità di «essere padroni a casa propria», ma di stimolare la componente oblativa, di imparare a possedersi per donarsi: integrità della persona per l’integralità del dono di sé. La struttura della personalità, inoltre, è il risultato di un insieme di componenti e di fattori che spesso appartengono (o non appartengono) ad un patrimonio pregresso alla relazione di accompagnamento spirituale. Ciò non toglie che un’autentica esperienza di fede può rappresentare un momento di interiorizzazione e di crescita in sinergia di tutte le diverse componenti della personalità.

CONCLUSIONE Un piccolo racconto ci arricchisce della suggestione di una metafora. «Davanti ad una grotta c’era un monaco con la faccia rossa, ma rossa davvero. Mi sorrise e disse: “Scommetto che ti stai domandando come mai la mia faccia è così rossa. Ora ti racconto. Avevo cinquant’anni


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Giuseppe Buccellato sdb quando morii. Quando mi presentai al Giudizio mi chiesero: “Cosa hai realizzato nella tua vita?” Fu lì che diventai rosso come un gambero, e supplicai che mi dessero ancora un po’ di tempo. “Bene”, risposero, ti daremo altri sette anni”. Ritornai alla mia grotta. Entrai e proseguii verso l’interno, addentrandomi dove non ero mai stato prima, sempre più avanti, sempre più giù. Camminai, credo, per parecchi giorni, ma era così buio che non potevo distinguere il giorno dalla notte. Volevo solo nascondermi, mi vergognavo della mia faccia tanto rossa. E avevo bisogno di tempo per pensare; pensare a come avrei utilizzato quei sette anni. Ma avevo anche paura. Non sapevo che cosa avrei trovato là in fondo, e non ero neppure sicuro che sarei poi riuscito a trovare la strada per tornare indietro. Ma continuai ad andare avanti. A un certo punto cominciai a sentire il rumore di acque scroscianti. Sai cos’era? Erano tutte le lacrime del mondo. Lacrime amare, di paura, di dolore, di angoscia, di delusione, di rabbia. Le lacrime di tutti. E anche le lacrime più dolci, quelle che versiamo per amore, per il ritorno di una persona cara, per uno scampato pericolo, per la gioia. Così seppi della morte di Cristo e della sua risurrezione. Credo ch’io fossi al centro della terra perché, mentre non udivo parole di sorta, udivo tutte le lacrime, facendo l’esperienza di una comunione totale. La solitudine non esisteva più. Non so per quanto tempo rimasi in quella condizione di comunione totale - giorni, settimane. Ma infine decisi come passare i miei sette anni. Sarei tornato all’imbocco della grotta per portare la gente avanti e indietro fino a quelle profondità»44.

Questo, in definitiva, è il compito che attende ogni discernimento spirituale: si tratta di imparare a scendere, con coraggio, nelle profondità della propria esperienza, per scoprire che quello che ci viene affidato è più importante delle proprie preoccupazioni egocentriche, per poi, tornare all’imbocco della grotta per indicare ad altri la strada, la via della verità e della conoscenza di sé, e aiutare ciascuno a fare della propria vita un dono per sempre, un frutto maturo e gustoso, buono per essere mangiato.

44

P. D’AUBRIGY, Il secondo libro degli esempi, Milano 1985, 165.


SCELTA DEFINITIVA E FEDELTÀ NEL MATRIMONIO CRISTIANO

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PREMESSA È per una felice casualità che mi è stato chiesto di svolgere questa relazione quando il Natale è ormai imminente. La festa natalizia dovrebbe, infatti, portare inevitabilmente a riflettere sulla fedeltà, perché l’Incarnazione altro non è che il gesto supremo della fedeltà di Dio all’uomo. La fedeltà coniugale è evidentemente una pallida ombra della eminente fedeltà di Dio: ogni volta che una coppia riesce a viverla, realizza la misteriosa presenza di Dio nella relazione fra uomo e donna. Non ha come presupposto la reciprocità e la bilateralità, non si basa su uno scambio di diritti e doveri: “io ti sono fedele a condizione che tu mi sia fedele”. Il modello è l’amore di Dio: generoso, indefettibile, unilaterale, che prescinde, in qualche modo, dalla risposta. Ecco allora che, se inteso così, l’amore non può avere coordinate spazio-temporali definite, deve essere necessariamente eterno: o è eterno oppure non è. E se certo possono capitare difficoltà, non possiamo tuttavia accettare che sia scadente e che si spenga al più leggero dei venti. Se l’amore si realizza nel perdono, nella capacità di superare gli ostacoli, di costruire un futuro per sé e per i figli, allora suo elemento essenziale non può non essere la continuità, che non significa monotonia o ripetitività. Non parliamo in termini statici, ma dinamici: l’a*

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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more è un cuore vivente che ha bisogno di essere custodito, curato e irrobustito ogni giorno con impegno intellettivo e pratico. Una vera e propria arte che va appresa e praticata con dedizione. Oggi, forse, l’aria che respiriamo rende complicato amare davvero; è più facile pensare solo a sé stessi mentre è estremamente difficile rinunciare ad un pò di sé per far spazio ed accogliere l’altro. Procederò nell’esposizione sviluppando due punti. In primo luogo affronterò il rapporto che intercorre tra fedeltà e famiglia nella situazione odierna; successivamente approfondirò il significato teologico ed antropologico di un amore fedele.

1. SITUAZIONE ODIERNA Siamo consapevoli della vulnerabilità e della fatica dell’istituto coniugale moderno, ma non sarebbe corretto cedere a facili pessimismi. La vita familiare di oggi — nonostante sia spesso relegata all’isolamento, costretta a ripiegarsi su sé stessa per sopravvivere e non più sostenuta dalla rete tradizionale di legami socio-culturali — ha invece molto guadagnato in interiorità ed in profondità religiosa rispetto al passato. È un segnale sul quale anche la Chiesa può lavorare. Il giudizio che oggi si dà sul matrimonio moderno è spesso peggiorativo. Anche una certa predicazione non risparmia critiche. A ragione però si può dubitare che questo giudizio poco sfumato sia del tutto giusto. Negli ultimi centocinquanta anni la struttura della società ha subìto delle trasformazioni imponenti, che non accennano affatto ad arrestarsi. Alcuni studiosi, invitando a considerare la vita coniugale moderna alla luce delle suddette trasformazioni sociali, convengono nel sostenere che mai come oggi il matrimonio è stato riportato con tanta aderenza alla sua forma autentica1. 1 Per una lettura dell’attuale situazione del matrimonio e della famiglia cfr. G. CAMPANINI, Realtà e problemi della famiglia contemporanea, Cinisello Balsamo 1989; ID., L’evoluzione storica della famiglia dal dopoguerra ad oggi, in La Famiglia 41


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1.1. La stabilità prima dell’800 Prima dell’Ottocento, la stabilità del matrimonio e della famiglia derivava in gran parte da situazioni oggettive e da fattori estranei al matrimonio stesso. L’insieme della comunità familiare composta da nonni, genitori, figli, nipoti e anche dipendenti e che abbracciava a volte l’intero vicinato ed il paese, veniva a formare una unità (anche economica) di carattere patriarcale ed autoritario. La piccola famiglia e la comunità più vasta cui quella apparteneva si fondevano l’una nell’altra e non vi era separazione netta tra le due; il matrimonio segnava l’ingresso in questa “comunità lavorativa”, che coincideva con la grande famiglia cui accennavamo sopra. Questo non significa che l’aspetto soggettivo e personale del matrimonio mancasse del tutto: esso era sempre presente, ma silenzioso, quasi nascosto, e certo in secondo piano. Il matrimonio sanzionava di fatto lo stato di una giovane coppia entro la comunità lavorativa più ampia della famiglia stessa.

1.2. Trasformazioni sociali Le trasformazioni strutturali introdottesi nella società in seguito all’industrializzazione e all’urbanesimo, hanno chiaramente modificato i costumi e con essi l’assetto della vita familiare. Una quantità di funzioni sociali esplicate precedentemente dalla grande famiglia sono state assunte da unità esterne: questo processo ha portato in definitiva alla situazione di oggi in cui la macchina dello Stato, nei suoi aspetti economici, sociali e politici, si è arrogata quasi tutte le funzioni dell’antica unità familiare. Una conseguenza importante di queste perdite funzionali è che il matrimonio e la famiglia si sono per così dire ripiegati su se stessi. (2007) 239, 6-13; V. MELCHIORRE (cur.), La famiglia italiana. Vecchi e nuovi percorsi, Cinisello Balsamo 2000; P. DONATI, Manuale di sociologia della famiglia, Roma 1988; M. VIDAL, Il matrimonio tra ideale cristiano e fragilità umana. Teologia, morale e pastorale, Brescia 2005.


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Il cambiamento sociale ha, però, offerto una maggiore libertà di azione all’aspetto personale e soggettivo della vita coniugale. Dovendo contare solo sulle proprie risorse, la coppia è stata costretta a riflettere sulla sua natura essenziale, quella di essere una famiglia appunto, una coppia, coltivando la vita intima, segreta, anche perché tutti gli altri aspetti sono stati assorbiti dai vari settori specializzati della società moderna. In un contesto sempre più tecnicizzato e funzionalizzato, che rende indubbiamente difficile la vita familiare, il matrimonio è divenuto un’oasi, un rifugio, una zona di sicurezza. La società moderna ha messo il matrimonio in questa posizione. Oggi le giovani coppie si rendono conto di dover edificare il proprio matrimonio come una roccaforte. Poiché con le nozze non viene più concessa agli sposi alcuna sicurezza, essi sono costretti a crearsela da sé con tanta più urgenza proprio perchè la casa non costituisce più il luogo di lavoro: la professione non contribuisce più all’unione della famiglia, ma al contrario tende a dividere i due coniugi, che spesso sono occupati in luoghi diversi e solo alla fine della giornata si ritrovano nella vita familiare.

1.3. Qual è la più grave “malattia” di cui soffre la coppia moderna? Paradossalmente la coppia moderna soffre soprattutto del fatto di essere coppia. Prima, come accennato, esisteva la famiglia, che aveva altri tempi, altre distanze, altre finalità, un’altra vitalità basata sulla sua intrinseca fecondità, non solo riproduttiva. La coppia è un’invenzione recentissima, è un’illusione un po’ neoromantica, un po’ razionalista basata sulla convinzione che i meccanismi funzionali in grado di mettere insieme un uomo e una donna siano gli stessi che possono mantenerli insieme a lungo. Ma è un errore. Questa incapacità di crescere, di “coevolvere” insieme è una delle malattie principali di due coniugi. La coppia si trova così a dover trovare tutto al suo interno, nella reciproca dipendenza e nel dialogo interno delle due persone, in una situazione isolata in cui devono dipendere l’uno dall’altra. La relazione interpersonale dello stato matrimoniale è così divenuta il sostegno


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principale della vita coniugale e familiare. Non essendoci più una autorità paterna che dirige la vita lavorativa della comunità familiare, si attribuisce un’importanza sempre più grande all’unità ed all’affetto, alla reciproca fedeltà ed alla stretta interdipendenza tra moglie e marito e tra genitori e figli, dove ogni membro della famiglia può trovare l’appoggio di tutti gli altri in caso di bisogno.

1.4. La fedeltà nella cultura contemporanea È appena il caso di ricordare che già solo pronunciare la parola “fedeltà” ci mette in rotta di collisione con la cultura contemporanea, per la quale questa parola ha quasi cessato concretamente di avere senso. Parlare di fedeltà con giovani e magari anche con giovani coppie significa esporsi al ridicolo, all’accusa di essere persone fuori dal mondo oppure di appartenere alla generazione che ha perso i contatti con la vita di oggi2. Se sotto alcuni aspetti l’antico modello di fedeltà è superato, per altri aspetti è realtà con la quale dobbiamo confrontarci, anche come credenti, pur sapendo di andare contro corrente. Dobbiamo guardarci bene dal demonizzare la cultura contemporanea e idealizzare il passato. Quando scaviamo nella storia dei costumi, nella vita quotidiana, vediamo che le indicazioni che la Chiesa 2 Sul tema della fedeltà e dell’indissolubilità cfr. Affetti e legami. Saper coniugare insieme tenerezza e stabilità, in Famiglia Oggi 30 (2007) 4 (numero monografico); M. BARBAGLI, Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia e in altri paesi occidentali, Bologna 1988; G. BOTERO S.J., La fedeltà coniugale. Un problema d’attualità nella prospettiva del futuro, Roma 2002; C. BORGHESI, Una scelta definitiva nel tempo della provvisorietà?, in Credere Oggi 23 (2003) 4, 136, 9- 22; G. CAMPANINI, Fedeltà e tenerezza – La spiritualità familiare, Roma, 2001; G. CERETI, Indissolubilità e cultura contemporanea, in Credere Oggi 9 (1989) 4, 52, 68-81; A. FUMAGALLI, Amore coniugale e indissolubilità matrimoniale, in Credere Oggi 23 (2003) 4, 136, 39-52; La fedeltà, in Communio 214 (2007) (numero monografico); G. MANZONE, Il significato etico del legame coniugale indissolubile, in La Scuola cattolica 125 (1997) 1, 109-142; G. MURARO, Prometto di esserti fedele sempre, Casale Monferrato 1992; P. RUDELLI, Matrimonio come scelta di vita. Opzione – vocazione – sacramento, Roma 2000.


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ha sempre proposto in questo ambito sono state sistematicamente e largamente disattese; a mano a mano che vanno avanti gli studi sui costumi familiari e sessuali dell’epoca medievale3, emergono dei dati inquietanti (a chi esprime preoccupazioni per il relativamente alto numero dei figli nati fuori dal matrimonio — in Italia ci avviamo al 10% di figli nati fuori dal matrimonio — bisogna ricordare che, da indagini molto serie, risulta che in età medievale e in epoca moderna la maggior parte dei bambini erano concepiti fuori dal matrimonio; le convivenze di fatto, le unioni più o meno durature, i rapporti sessuali fuori del matrimonio erano quasi la regola). Quindi non c’è alcuna “età d’oro” alla quale riandare. C’è però una realtà effettivamente da constatare: la fedeltà oggi è una virtù fortemente contestata. L’impopolarità della fedeltà deriva dall’incapacità della maggior parte degli uomini del nostro tempo di realizzarsi nell’orizzonte del tempo lungo, della lunga durata. È vero che gli innamorati continuano a pronunziare le antiche e bellissime parole “per sempre”, ma è un “per sempre” che non va nelle profondità del loro essere, è un “per sempre” che viene pronunziato con una sorta di riserva mentale; “per sempre” (si intende, implicitamente) “fino a quando ci ameremo”, essendo altrettanto pacificamente inteso che quando si cesserà di amarsi si potranno inseguire altri amori, realizzare altri rapporti, determinare altre convivenze. C’è una sorta di paura della durata, che caratterizza le giovani generazioni. Noi ormai siamo gli uomini del tempo breve: le cose durano poco; la mobilità che ci attraversa ci riduce sempre a considerare tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi come destinato alla breve durata. Studiosi della globalizzazione calcolano che le future generazioni cambieranno nel corso della loro vita due o tre mestieri e due o tre luoghi di residenza. La pressione culturale e legislativa tende a far passare come 3 Cfr., tra i vari studi sull’argomento, A. CARPIN, Il sacramento del matrimonio nella teologia medievale. Da Isidoro di Siviglia a Tommaso D’Aquino, Bologna 1991; M. PELAJA – L. SCARAFFIA, Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Bari 2008.


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situazione normale quella della famiglia aperta, che si rompe, della famiglia a tempo. Un punto caratteristico dell’atteggiamento con il quale ci misuriamo è proprio quello dell’essere ristretti al momento presente. Si “naviga a vista”. Questo è un problema che non tocca solo il matrimonio e la famiglia, ma salta sempre fuori quando si parla delle vocazioni ministeriali, del servizio ecclesiale, della vita religiosa. Oggi un giovane è generosamente disponibile per qualcosa che abbia un arco temporale delimitato. Si trova estremamente in difficoltà a decidere per tutta la vita. Questo accade non perché i giovani d’oggi siano emotivamente più fragili. In realtà i giovani sono sempre stati fragili. È la società di oggi ad essere diversa. I nostri ragazzi sono cresciuti senza tanti fratelli o cugini, circondati solo da adulti o vecchi che proiettavano su di loro aspettative, desideri, bisogni affettivi propri. Sono cresciuti in una specie di narcisismo che ha fatto di loro degli eterni fanciulli portati in “processione” da famiglie frequentemente disperate. A volte (ma neanche tanto raramente se pensiamo che un terzo delle famiglie si separa) si sono trasformati addirittura in “viaggiatori con la valigia”, dovendo spostarsi continuamente tra la casa del padre e quella della madre divorziati. Questi “viaggiatori con la valigia” sono destinati a moltiplicarsi e questa è una fonte di fragilità. Così com’è fonte di fragilità il fatto che essi appartengono a una generazione che per la prima volta ha la sensazione che la propria vita, dal punto di vista materiale, non sarà migliore di quella dei genitori o dei nonni. E anche questo crea una diffusa ipocondria sociale. La società è caratterizzata da questa continua commistione di nuovi luoghi e di nuovi mestieri, è la società della breve durata. Di fronte a questa realtà la Chiesa ha l’apparentemente assurda pretesa di fondare un luogo che è della lunga durata, un luogo appunto caratterizzato dalla fedeltà. E la fedeltà è sempre stata difficile, ma è diventata ancor più difficile per il contrasto che si viene a stabilire tra il tempo lungo della relazione coniugale ed il tempo breve di tutte le cose che ci circondano e che in qualche modo ci condizionano. L’antropologia postmoderna comporta una visione dell’uomo


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che parte da una concezione individualista della vita, che mette la chiave per la realizzazione umana nello stesso “io”: identificazione dell’io, affermazione dell’io, preoccupazione per l’io... La crisi attuale che verte sull’indissolubilità — la tendenza a considerarla come un “anti-valore” — trova per lo più spiegazione in questo individualismo. L’individualismo fa sì che si consideri il matrimonio da un punto di vista fondamentalmente egocentrico, pensando non di dare, bensì di ottenere, sotto la guida di un solo criterio: “questa unione, questo legame, questa sistemazione, mi renderà felice?”. Allora il matrimonio diventa, nel migliore dei casi, un tentativo di accordo fra due individui, ciascuno ispirato dal proprio interesse, invece di presentarsi come un compito comune nel quale due persone desiderano costruire insieme un focolare domestico da condividere fra loro e con i loro figli. In questo contesto il fenomeno che maggiormente sta caratterizzando la realtà del matrimonio oggi in Italia è un rilevante spostamento cronologico, quale non si è verificato in nessun altro Paese europeo, nella creazione di una propria famiglia: l’idea permane, anche in termini tutto sommato tradizionali, ma ci si ritiene pronti al grande “salto” sempre più tardi. Sia l’età media del matrimonio che della nascita del primo figlio è cresciuta più in Italia che negli altri Paesi europei, ed è ormai abbondantemente sopra i trent’anni. Se all’adolescenza prolungata aggiungiamo la giovinezza lunga, con relativo fidanzamento “interminabile”, si arriva ormai quasi alla soglia dei quarant’anni. Per un arco estremamente lungo della vita (e soprattutto negli anni migliori, che dovrebbero essere i più ricchi di energie, sogni, progetti) i giovani non creano un progetto autonomo, non tagliano il cordone ombelicale (che li tiene legati alla loro famiglia), non accettano il rischio, la battaglia, la radicalità di una scelta definitiva (perché tale è, per sua caratteristica intrinseca, la scelta del matrimonio, anche in tempi di divorzio facile). Di conseguenza, è facile che — quando la scelta viene effettuata — significhi più spesso il tentativo di sostituire un caldo grembo materno (quello della famiglia d’origine) con un altro (il nuovo nucleo) piuttosto che la partenza verso un’assunzione di autonomia e responsabilità più difficili da interpretare, certo, ma più ricche e fecon-


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de; il tentativo di passare direttamente da un privato ad un altro, piuttosto che sottoporre il proprio progetto alla sfida del confronto con la sfera pubblica, sociale, istituzionale. Inoltre il tempo intermedio tra quando si dipende ancora dalla famiglia d’origine a quando si dà vita alla propria (che, come abbiamo visto, si sta dilatando a dismisura) che è tipico della nascita e del rafforzamento della relazione di coppia, più che animato da una progettualità forte, sembra tendenzialmente riempito da un trascinarsi privo di idealità, timoroso della definitività e dell’impegno totale, pronto a condividere più la routine quotidiana “come se fossimo marito e moglie” piuttosto che il gesto forte e chiaro della scelta matrimoniale. È questo, probabilmente, il senso dell’affermazione, spesso ricorrente tra le coppie conviventi, di non vedere alcuna differenza tra l’essere sposati e il non esserlo. Quindi, la complessità italiana può essere delineata attraverso il paradosso, secondo cui da un lato, nell’immaginario, la famiglia tiene ancora, come valore importante, condiviso, cruciale per l’esistenza e la crescita degli individui; mentre dall’altro lato, sempre meno il matrimonio - in quanto legame istituzionale della coppia pubblicamente e socialmente riconosciuto - viene visto come l’ossatura portante, l’architrave fondamentale che sorregge la famiglia stessa e tende ad essere posticipato, privatizzato, facilmente rimpiazzato dalla “convivenza” priva di riconoscimenti ma anche di pressioni esterne. Sembra si stia verificando, per fare un esempio, una divaricazione simile a quella realizzatasi negli ultimi decenni tra sessualità e procreazione, un tempo intimamente legati ed ora anche materialmente disgiunti4. Nonostante l’aumento dei divorzi la famiglia piace agli italiani: il 90,1 per cento è soddisfatto dei rapporti familiari. Insomma, dai dati Istat emergono luci e ombre della famiglia italiana e forse lo spunto per richiamare a una doppia responsabilità: la società deve offrire un sostegno reale alle famiglie; le famiglie hanno 4 Secondo i dati Istat nel 2007 le nozze celebrate sono state 242 mila, pari ad un tasso del 4,1 per mille, contro i 270 mila del 2002. Rilevante invece l’incremento del numero di coppie che formano una famiglia al di fuori del vincolo coniugale: aumentano infatti le coppie che decidono di fare un figlio senza essere sposate e che rappresentano il 18,6% del totale rispetto al 12,3% del 2002 (fonte: www.istat.it).


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a loro volta il compito di tenere fede al proprio progetto e di ri-generare le persone e la società.

2. UN AMORE FEDELE Alla luce della situazione odierna analizzata, pur consapevoli della vulnerabilità del matrimonio moderno, lungi dal cedere a facili pessimismi, emerge l’invito a leggere questo tempo come una stagione di grazia per approfondire il senso dell’alleanza matrimoniale, in quanto essa appare ora nella sua più nuda verità. Quando ci guardiamo intorno e vediamo come due giovani, in un’esperienza di lotta assai dura, cercano di costruire vitalmente il loro matrimonio, altro non vediamo che questo. Il fatto poi che tanti sforzi sono palesemente coronati da successo ci autorizza ad affermare che la vita familiare moderna ha molto guadagnato in interiorità e in profondità religiosa rispetto al passato. Di fronte a una famiglia moderna, che nonostante il suo isolamento, riesce a raggiungere tanta profondità nelle relazioni interpersonali che sono praticamente l’unico sostegno rimasto a sorreggere l’intero edificio, non si può che provare altro che rispetto ed ammirazione. Constatiamo come da noi la famiglia, pur a fronte delle profonde trasformazioni strutturali e culturali che sembrano travolgerla, resiste. Essa, infatti, corrisponde alla natura più intima e profonda della persona umana, alla sua struttura e dinamica relazionale. In questo scorcio di storia emergono dalla sua esperienza molti valori ed aspetti positivi: una nuova attenzione per la relazione personale, fondata sulla tenerezza, sulla logica del dono e dell’accoglienza, su una visione più positiva e serena della sessualità; un diffuso desiderio di spiritualità coniugale e familiare; una maggiore consapevolezza delle responsabilità nel procreare e nell’educare; una più consistente apertura alla solidarietà. Sono valori che caratterizzano il vissuto quotidiano di molte delle nostre famiglie e che aprono la strada verso una migliore comprensione del “mistero grande” posto da Cristo nel cuore di ogni uomo e di


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ogni donna che si uniscono nel sacramento del Matrimonio. Sono segni di speranza che lasciano intravedere il Vangelo dell’amore e della vita.

2.1. Il segreto della fedeltà Come è possibile vivere la fedeltà in una società che tende a cancellare dalla vita degli sposi il “per sempre”? Il segreto della fedeltà sta nel fatto che, durante gli anni che precedono il matrimonio5, si coltivi una profonda conoscenza vicendevole, evitando così che, dopo il matrimonio, si possa avere la percezione amara di avere sposato “non si sa chi”. È necessario che, una volta sposati, si tenga conto che talvolta i matrimoni falliscono perché non si presta attenzione alle piccole cose di ogni giorno6. Si potrebbe dire: “ai dettagli”. Essi sono invece molto importanti perché costituiscono il linguaggio che esprime la qualità della persona, il suo orizzonte di vita, la sua sensibilità per l’altro, l’interrogarsi continuamente su come esprimere amore con attenzione alla quotidianità. La fedeltà nel tempo deve essere sostenuta da una scelta di trasparenza. Il che significa: escludere le ambiguità e le doppiezze, tenendo realisticamente conto del fatto che la condizione feriale espone gli sposi a continui incontri ed a impreviste sollecitazioni che possono mettere in discussione l’amore fedele e sospingere su sentieri che, in

5 La scelta di vita fedele ed indissolubile va collocata nell’itinerario verso il matrimonio. Cfr. AZIONE CATTOLICA ITALIANA, Fidanzamento tempo di grazia, un itinerario educativo, Cinisello Balsamo 1991; B. BORSATO, Sposarsi nel Signore, Bologna 1991; G. MURARO, Prometto di esserti fedele sempre, cit.; S. PAGANI, Un momento per capirsi e per sognare, in Famiglia oggi 13 (1990) 43, 20-34; A. SCOLA, Il fidanzamento: dono e impegno in preparazione al matrimonio, in Il fidanzamento. Tempo di crescita umana e cristiana. Cinisello Balsamo 1998, 202-219. 6 Sul tema del fallimento matrimoniale cfr. Affrontare il fallimento, in Credere Oggi 19 (1999) 5, 113 (numero monografico); ARCIDIOCESI DI TRENTO, COMMISSIONE DIOCESANA FAMIGLIA, La crisi di coppia evento fallimentare o occasione di crescita?, Strumento di lavoro per sensibilizzare le comunità cristiane sul disagio relazionale degli sposi, Trento 1999; G. PIANA, Affrontare il naufragio di un matrimonio, in Credere Oggi 23 (2003) 4, 136, 53-64.


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realtà, portano altrove. Questo contesto socio-culturale chiede che ci si guardi negli occhi ogni giorno senza mai schivare questo confronto.

2.2. Alla ricerca della fedeltà Facciamo qualche riflessione. Dobbiamo prima di tutto sgomberare il campo da un’accezione negativa della fedeltà, profondamente errata ed anche profondamente anticristiana: quella cioè di essere fedeli puramente per obbligo, sulla base del dovere di rispettare un certo contratto, un certo patto, senza fare della fedeltà un sentimento profondo che abbraccia tutta la persona, sarebbe un atto di ipocrisia e sarebbe alla base di frustrazioni, di risentimenti, magari di nevrosi. Non è possibile annunziare la fedeltà in negativo, come rifiuto dell’adulterio, come astensione dall’adulterio; dobbiamo invece costruirla in positivo, come la capacità di fare della relazione di coppia qualche cosa che sa rinnovarsi giorno per giorno, come un rapporto che sa guardarsi ogni volta con occhi nuovi, con spirito nuovo, che dà dunque senso e significato alla vita. La sola fedeltà degna di questo nome non consiste nel tenere fede, contro la ragione ed i sentimenti attuali, ad un passato ormai morto, ma è un atteggiamento strutturalmente creativo. Dunque la fedeltà, non come ripetizione di un gesto del passato, nel quale una volta ci si è incontrati, ci si è amati e si è vissuti insieme; ma uno slancio creatore, qualche cosa che fa fare ogni giorno un passo in avanti, un salto di qualità alla relazione di coppia. Fedeltà non come ancoramento al passato, ma come orientamento al futuro; una fedeltà non passiva, ma attiva, non ripetitiva, non abitudinaria, ma capace di costruire quotidianamente un nuovo modello di relazione. Tutto questo non è facile, perché ciascuno di noi è attento al nuovo e proiettato nel nuovo. La novità normalmente la si cerca non nel coniuge che si è una volta incontrato, ma in un’altra futura successiva esperienza di amore ed è per questo che la fedeltà deve andare in profondità, scavare fino alle radici dell’essere, per mettere alla


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luce anche aspetti conflittuali a lungo latenti, che però è bene che emergano anziché rimanere sepolti. Solo agendo così si può aspirare ad una fedeltà autentica, caratterizzata da tre importanti aspetti: ascolto, misericordia, progetto.

2.3. L’ascolto Non si può essere fedeli ad un altro se non si ha una fondamentale capacità di ascolto dell’altro. È l’ascolto che riguarda l’espresso, ciò che l’altro esplicitamente ci dice, ma riguarda e deve riguardare anche l’inespresso, ciò che l’altro non ci dice, ciò che l’altro magari non ha il coraggio di dire, ma che pure giace nelle profondità della sua persona. Non si realizza un’autentica fedeltà coniugale se non si è capaci di ascoltare e interpretare l’altro anche nei suoi silenzi eloquenti, che vanno trasformati, alla fine, in parola. Per imparare ad amare bisogna imparare a spegnere quell’assordante rumore di fondo che spesso ci impedisce di guardarci dentro e di guardare l’altro. Un chiasso che non ci permette di amare l’altro come noi stessi, perché non ci fa incontrare noi stessi. Ma se per poter amare l’altro bisogna avere la capacità di sostare nel “deserto”, è anche vero che l’identità e la profondità della conquista di sé sono il risultato di una relazione. Quindi non c’è relazione senza deserto, ma non c’è intimità con sé stessi e conoscenza di sé senza relazione. Se ci pensiamo bene, anche l’approdo del monachesimo è uno straordinario amore erotico con la dimensione del divino: anche al centro della solitudine, c’è una relazione, sempre e comunque. L’incontro con l’altro apre al Mistero, dischiudendoci alla nostra non autosufficienza, proiettandoci alla dimensione dell’ascolto e, soprattutto, alla sensazione che quella scintilla divina che c’è in noi può trovare conferma e realizzazione soltanto nel rispecchiamento e nell’incontro con l’altro7. 7

Tempo fa mi ha colpito un’intervista che il regista Ermanno Olmi ha rilasciato ad un giornale, in cui parlava del suo rapporto coniugale (è uno dei pochi uomi-


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2.4. La fedeltà come misericordia Ciò che importa è realizzare all’interno della vita coniugale uno spazio di misericordia. Misericordia nel senso di riconoscimento dei limiti propri, delle debolezze proprie, ma anche dei limiti e delle debolezze dell’altro. Dalla misericordia nasce, se necessario, il perdono, senza i quali credo che non vi sia spazio per la fedeltà, essa, talvolta, se necessario, dev’essere unilaterale. L’idea di una fedeltà esclusivamente bilaterale è impraticabile. Il matrimonio diventa sacramento per i coniugi, prima ancora che per la comunità, perché è l’altro — mai riconducibile a te, nella sua invincibile alterità — che ti fa fare esperienza del totalmente Altro, perché è il suo amore, la sua capacità di accoglienza e perdono, che ti fa fare esperienza di Colui che è Misericordia. La vita degli sposi è vita teologale: consapevoli di vivere una scheggia, un frammento di un progetto universale, consapevoli di non aver ricevuto altro compito se non quello di rendersi trasparenti al fluire della vita, alla forza creatrice; i coniugi diventano capaci di fede, di speranza e di carità: si fidano a tal punto dell’alleanza di un Dio fedele da concedersi fiducia e da giocarsi insieme la vita; sperano a tal punto nel Dio della storia, che porterà a compimento la sua creazione, da accettare di formulare insieme progetti per il futuro; si sentono a tal punto amati da un Dio che ha deciso di manifestarsi come Amore, da alimentare incessantemente una comunione che si espande dalla coppia alla famiglia e da questa alla società. Se il sacramento è segno efficace di una realtà trascendente, il matrimonio, l’amore di due coniugi, è sacramento se riesce a manifestare un Amore che è fonte e sorgente dell’amore umano. Il matrini di cinema che, probabilmente, ha un matrimonio felice ed è vissuto in una lunga fedeltà coniugale). In un passo della sua intervista, a proposito proprio dell’ascolto, Olmi esce in questa espressione che mi sembra molto bella e che mi ha fatto pensare: “Qualche volta mia moglie ed io non ci parliamo, ci intendiamo così, a gesti, con gli sguardi. Mi piace, quando mia moglie è nella casa, ascoltare il suo fruscìo”. Al di là di questa espressione, bella, credo che oltre al “fruscio” ci debba essere anche l’ascolto delle parole: la fedeltà non può costruirsi che attraverso l’ascolto.


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monio tra due cristiani è un’unione debole e fragile come ogni unione umana ma che può trovare una speranza inesauribile nella dimensione del già e non ancora, nella convinzione che non c’è rottura, lacerazione, morte, che non possa essere riparata, guarita, vinta. E se l’amore è così, non importano le mutazioni dei tempi, descritte anche nella pagina del vangelo di Matteo (cfr. cap. 7): cadde la pioggia, strariparono i fiumi, vennero i terremoti, soffiarono i venti, ma la casa non crollò perché era fondata sulla roccia dell’amore di Dio per noi e dell’amore reciproco al quale avevamo dato fiducia. Questa fiducia reciproca è un miracolo, il miracolo sponsale: avere davvero fiducia di un altro e prendersi cura di lui senza condizioni. È quell’amore che vince il mondo, supera le invidie, le guerre e gli odi; quell’amore per cui la terra è bella e senza il quale la terra sarebbe un covo di serpenti, dove tutti si invidiano, si mordono, si avvelenano. Invece la terra è bella perché ci sono persone che sanno fidarsi l’una dell’altra; è l’affidamento fondamentale che gli sposi rappresentano nella Chiesa e nella società. Un segno di pace in una terra senza pace. Lo ha detto efficacemente papa Benedetto XVI: «Oggi si arriva alla crisi nel momento in cui si vede la diversità dei temperamenti, la difficoltà di sopportarsi ogni giorno, per tutta la vita. Alla fine, allora si decide: separiamoci […]. Nella crisi, nel sopportare il momento in cui sembra che non se ne può più, realmente si aprono nuove porte e una nuova bellezza dell’amore. Una bellezza fatta solo di armonia non è una vera bellezza. Manca qualcosa, diventa deficitaria. La vera bellezza ha bisogno anche del contrasto. L’oscuro ed il luminoso si completano. Anche l’uva per maturare ha bisogno non solo del sole, ma anche della pioggia, non solo del giorno ma anche della notte […]. Per me ha un valore simbolico il fatto che il Signore porti per l’eternità le stimmate. Espressione dell’atrocità della sofferenza e della morte, esse sono adesso sigilli della vittoria di Cristo, di tutta la bellezza della sua vittoria e del suo amore per noi. Dobbiamo accettare, sia da sacerdoti sia da sposati, la necessità di sopportare la crisi dell’alterità, dell’altro, la crisi in cui sembra che non si possa più stare insieme. Gli sposi devono imparare insieme ad andare avanti, anche per amore dei bambini, e così conoscersi di nuovo, amarsi di


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Vittorio Rocca nuovo, in un amore molto più profondo, molto più vero. Così, in un cammino lungo, con le sue sofferenze, realmente matura l’amore»8.

2.5. La fedeltà come progetto Credo che la cosa più difficile, il rischio della coppia coniugale, soprattutto quando si va avanti con gli anni, sia il mantenimento dello status quo, della salvaguardia di una situazione esistente, di una fedeltà essenzialmente abitudinaria. La capacità di progetto, la capacità di costruire insieme è fondamentale per vivere in modo autentico la fedeltà: essere fedeli l’uno all’altra perché si sa costruire sempre qualche cosa di nuovo; questo è più facile negli anni giovanili e più difficile negli anni della maturità o della vecchiaia, ma in ogni età della vita c’è, o ci dovrebbe essere, questa capacità di progetto. L’amore umano è troppo sottoposto all’altalena delle emozioni, agli influssi della società, alla propria storia personale; per poter essere fedele sempre, ci vuole la compagnia efficace di Cristo per poter amare in pienezza, per poter scorgere nuove forme d’amore anche dove sembra non ci sia altro che sofferenza. La fedeltà, nel mondo in cui viviamo, è altamente improbabile. Per questo oggi più che mai la fedeltà coniugale è una sorta di sacerdozio, nel quale l’incontro con il corpo del partner, dopo cinque, quindici, trent’anni, è quasi un miracolo. Nelle generazioni che ci hanno preceduto c’era una specie di compressione e rallentamento della sessualità. Oggi, invece, la possibilità di avere rapporti promiscui, diversi, paralleli e la nostalgia dell’emozione del primo incontro, spinge gli uomini e le donne lontano da questo mistero di totalità che è la sponsalità. Senza l’aiuto di una grazia particolare, senza una vera sacramentalità che trasformi il matrimonio in un grande sogno spirituale, la fedeltà rischia di essere impossibile. La logica profonda che ha guidato la vita di Gesù è stata la fedeltà a Dio ed all’uomo fino in fondo, il completo dono di sé, la soli8

Incontro con i sacerdoti della Diocesi di Albano, 31 agosto 2006, in L’Osservatore Romano (supp. del venerdì), 8.9.2006, 10.


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darietà più forte del tradimento. È la logica della croce, che Gesù annunzia e propone ai suoi discepoli. È la logica che anche gli sposi, come discepoli di Gesù, sono chiamati a vivere nella via del matrimonio. La fedeltà nuziale, il “per sempre” diventa così per gli sposi luogo concreto nel quale vivere ogni giorno la sequela del Signore Gesù. Da questo punto di vista, la fedeltà coniugale non é soltanto un simbolo che rimanda al di là di sé stesso, ma é già anche partecipazione alla fedeltà di Dio. Possiamo accettarci reciprocamente in questa forma definitiva ed incondizionata solo perché siamo già stati accettati definitivamente e incondizionatamente. La fedeltà coniugale é dunque un luogo di possibile esperienza della trascendenza9. Il matrimonio cristiano ha nella fedeltà di Dio la propria speranza ultima di resistere alle intemperie della vita. Non basta la scelta dei coniugi per garantire la stabilità di un rapporto, ma è necessario l’amore provvidente di Dio. L’amore non è uno scherzo ma una scelta impegnativa. Appassionata ma definitiva, coinvolgente ma che cerca sempre la riconciliazione. La bellezza sacramentale della vita matrimoniale diventa segno tangibile di Dio. Ecco perché ogni momento della vita cristiana si inquadra nella dimensione della reciprocità sponsale: se vogliamo cogliere i contorni del volto di Dio dovremmo scorgerlo nell’amore di due sposi.

CONCLUSIONE Colpisce il fatto che, quando l’Antico Testamento parla di Dio attraverso alcune immagini, quella che assolutamente prevale su ogni altra è precisamente l’amore sponsale, fatto di libertà, ricco di soggettività, qualificato dal rapporto interpersonale. Proprio questa esperienza umana viene assunta quale simbolo della storia di Dio con l’uomo: quella che noi chiamiamo la storia della salvezza. Il papa dedica 9

Cfr. W. KASPER, I valori umani del matrimonio, in Teologia del matrimonio cristiano, Brescia 1979, 11-27.


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a questo tema numerose pagine dell’Enciclica Deus caritas est10. Possiamo affermare che la storia della salvezza è una storia matrimoniale; perciò è anche vero il contrario: ogni storia matrimoniale è storia della salvezza! Ma la rivelazione dell’identità profonda dell’uomo e del volto di Dio la troviamo nel Nuovo Testamento. È Gesù a farcela conoscere. Nel Nuovo Testamento Dio radicalizza il suo amore fino a diventare egli stesso, nel suo Figlio, carne della nostra carne: il farsi uomo da parte di Dio è motivo del suo eccessivo amore per l’umanità, che è irreversibile e definitivo. Non c’è altra spiegazione dell’evento dell’incarnazione. L’uomo che sa di essere stato creato a immagine di questo Dio vede tracciata la via sulla quale inoltrarsi. In Gesù Cristo, nato per noi e che per noi ha dato persino la vita, scorgiamo ancor più chiaramente svelato che l’amore vero è dono di sé ed è caratterizzato da un “sì” reciproco che non va cancellato. La testimonianza fondamentale del matrimonio cristiano sta nella premura che l’amore sponsale fiorisca, che si affrontino con questa intima decisione i giorni facili e quelli che potrebbero spegnere la gioia e il dono di sé fino al sacrificio. Questa testimonianza deve essere alimentata quotidianamente dalla preghiera, dall’ascolto della Parola. È decisione di dare a Dio il primo posto. È coraggio di qualificare la domenica come giorno di illuminazione e di nutrimento per poter ben affrontare la vita della famiglia lungo la settimana.

10

Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est (2005), dedica tutta la prima parte a “L’unità dell’amore nella creazione e nella salvezza”, nn. 2-18.


SCELTA DEFINITIVA E FEDELTÀ NEL MINISTERO ORDINATO

SALVATORE CONSOLI*

PREMESSE 1. Per questo intervento ho scelto come punto di riferimento quasi esclusivamente Giovanni Paolo II — interventi pastorali e documenti magisteriali — sia perché ha trattato abbondantemente i temi del nostro colloquio sia perché, ritengo, ha ben sintetizzato un discorso caro alla letteratura spirituale della Chiesa nell’intento di affidarlo ai ministri ordinati di oggi. 2. In questo intervento parlo solo del presbitero, accennando appena qualcosa riguardo al vescovo e meno ancora riguardo al diacono.

I. SCELTA DEFINITIVA Il documento preparatorio al Sinodo dei vescovi del 1990 su «La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali» evidenzia «la fragilità psicologica di numerosi candidati al sacerdozio nel mondo occidentale, la loro titubanza di fronte a un impegno definitivo […]»1. Il documento «Nuove vocazioni per una nuova Europa», nel 1997, vede nei giovani di oggi la presenza di un’identità incompiuta e * Ordinario emerito di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Lineamenta, n. 3.


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debole, da cui deriva un’indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale e afferma: «hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si interrogano circa il loro essere»2. E la CEI, nel 1999, nella Nota «Linee comuni per la vita dei nostri seminari», mette in luce come il giovane prete è messo a dura prova nel suo equilibrio anche da una caratteristica della società contemporanea che è la provvisorietà «ovvero l’enfasi sul “qui e ora”, senza ancoraggi nel passato e senza proiezioni verso il futuro. Le scelte attinenti a sfere rilevanti della vita, una volta considerate irreversibili, tendono sempre più ad essere considerate reversibili»3. La stessa CEI, nel 2006, nella terza edizione di «Orientamenti e norme per i seminari» tra i tratti derivanti dalla fragilità psicologica annovera «la fatica a portare avanti progetti di lungo respiro, la difficoltà nel maturare scelte definitive»4 e, per questo, nei candidati al presbiterato richiede una personalità matura che garantisca la fermezza di volontà, la coerenza, la fedeltà, la perseveranza5.

1. Scelta libera Giovanni Paolo II afferma che il presbitero «prende la decisione per la vita nel celibato solo dopo essere giunto alla ferma convinzione che Cristo gli concede questo “dono” per il bene della Chiesa e per il servizio degli altri. Solo allora s’impegna ad osservarlo per tutta la vita. È ovvio che una tale decisione obbliga non soltanto in virtù della legge stabilita dalla Chiesa, ma anche in virtù della responsabilità personale. Si tratta qui di mantenere la parola data a Cristo ed alla Chiesa. Il mantenimento della parola è, insieme, dovere e verifica della maturità interiore del sacerdote, è l’espressione della sua

2 PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 1998, n. 11c. 3 CEI, Nota, n. 42. 4 CEI, La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, Città del Vaticano 2007, n. 1. 5 Cfr. ibid., nn. 90-91.


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dignità personale»6: il perseverare è, pertanto, prova di umanità e di dignità oltre che di fedeltà a sé stesso ed alla propria coscienza. E aggiunge che i coniugi che vivono la loro scelta nelle prove e nelle tentazioni «hanno diritto di aspettarsi da noi […] il buon esempio e la testimonianza della fedeltà alla vocazione fino alla morte, fedeltà alla vocazione che noi scegliamo mediante il sacramento dell’Ordine, come essi la scelgono mediante il sacramento del Matrimonio»7: è una analogia che non consente di additare con enfasi e insistenza le infedeltà del matrimonio — cosa che spesso fa la pastorale ecclesiastica — ma di analizzare il fenomeno presente anche nel vissuto del ministero ordinato. E, a più riprese, ribadisce: «la dignità umana richiede che manteniate questo impegno, che manteniate la vostra promessa a Cristo, quali che siano le difficoltà che potrete incontrare e quali che siano le tentazioni a cui potrete essere esposti»8; si tratta di un impegno serio e irrevocabile, pertanto «È importante che l’impegno sia preso con piena coscienza e libertà personale»9. Viene sottolineato che si tratta di un dono sia da parte di Dio che da parte del presbitero: « […] noi sacerdoti sappiamo che non stiamo solo ricevendo un dono; stiamo dando un dono. Stiamo offrendo il dono di tutta la nostra persona a Cristo e alla Chiesa, un dono offerto liberamente e consapevolmente e con gratitudine. E questo dono, come il dono di sé da parte di Cristo, richiede sacrificio. La promessa del celibato è un legame permanente. Sappiamo che saremo per sempre fedeli nell’amore celibe […]»10: e, in verità, non va dimenticato che, secondo le scienze umane anche l’accoglienza di un dono è dono, perché nell’amore dare e ricevere non fanno che una cosa sola11. 6 GIOVANNI PAOLO II, Lettera del Giovedì santo 1979, in Cari sacerdoti. Raccolta antologica a cura di D. Coletti, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, 33-34. 7 Ibid., 35. 8 ID., Ai seminaristi, Filadelfia (USA) 3 ottobre 1979, in Cari sacerdoti, cit., 291. 9 L.c. 10 ID., Ai sacerdoti e ai seminaristi, Melbourne (Australia) 28 novembre 1986, in Cari sacerdoti, cit., 363. 11 Cfr. X. LACROIX, Perché parlare della durata e della fedeltà in una cultura del provvisorio e della fragilità?, in La Scuola Cattolica 136 (2008) 393.


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E viene ribadito che «La perseveranza e la fedeltà alla vocazione ricevuta consiste non soltanto nell’impedire che questo amore si indebolisca o si spenga, ma consiste principalmente nel risvegliarlo e fare che cresca ogni giorno più»12: è un dono che per durare deve essere rinnovato continuamente. La scelta chiama in causa la libertà: «La libertà, dunque, è essenziale alla vocazione, una libertà che nella risposta positiva si qualifica come adesione personale profonda, come donazione d’amore, o meglio come ri-donazione al Donatore che è Dio che chiama, come oblazione»13. Tutta l’opera di preparazione, pertanto, consiste nell’aiutare e nel garantire «una risposta cosciente e libera di adesione e di coinvolgimento di tutta la persona a Gesù Cristo che chiama all’intimità di vita con lui e alla condivisione della sua missione di salvezza»14. Per quanto riguarda in particolare il «dono del celibato» bisogna adoperarsi a che libertà e grazia garantiscano che «colui che lo riceve rimanga fedele per tutta la vita e compia con generosità e con gioia gli impegni che vi sono connessi»15.

2. Scelta fatta per sempre Il presbiterato, oltre la chiamata e la missione, comporta anche la consacrazione: «E la consacrazione tocca e pervade la persona in tutta la sua esistenza»16; e, richiamandosi alla dottrina del Tridentino sul carattere indelebile, Giovanni Paolo II afferma: « […] si è sacerdoti

12

GIOVANNI PAOLO II, Ai sacerdoti, religiosi, seminaristi, Santiago del Cile 1 aprile 1987, in Cari sacerdoti, cit., 369. 13 ID., Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis (= PDV) , n. 36; cfr. anche il n. 37. 14 Ibid., n. 42. 15 Ibid., n. 50. 16 ID., Ai sacerdoti e religiosi, Torino 3 settembre 1988, in Cari sacerdoti, cit., 197.


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per tutta la vita o non si è sacerdoti, esattamente come si è battezzati o non si è battezzati»17. La consacrazione colloca il presbitero in uno stato di esclusiva proprietà del Signore, per cui con forza il Papa afferma: «a Lui avete consacrato la vostra esistenza»18. Giacché il sacramento dell’Ordine configura il presbitero a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa, ne segue che «La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore»19. Il «Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri» del 1994 collega espressamente la sponsalità del presbitero a quella del vescovo e su di essa fonda il dovere di fedeltà alla Chiesa-Sposa, affinché «quasi icone viventi del Cristo Sposo, possano rendere operante la multiforme donazione di Cristo alla sua Chiesa»20; lo stesso Direttorio precisa che il “dono” del celibato il presbitero «lo assume per tutta la vita, rafforzando questa sua volontà nella promessa già fatta durante il rito dell’ordinazione diaconale»21. Paolo VI aveva presentato la scelta del celibato per il presbitero come «solenne momento, che deciderà per sempre di tutta la sua vita»22 evidenziandone l’impegno di «perfezionare sempre più e sempre meglio la sua irrevocabile offerta, che lo impegna a una piena, leale e reale fedeltà»23. Secondo la CEI il periodo di preparazione ha lo scopo di aiutare a «fissare lo sguardo su Cristo “Pastore supremo”, per rispondere

17 ID., Incontro con i sacerdoti, religiosi, religiose e catechisti, Libreville (Gabon) 17 febbraio 1982, in Cari sacerdoti, cit., 247. 18 ID., Ai sacerdoti e religiosi, Lima 1 febbraio 1985, in Cari sacerdoti, cit., 180. 19 PDV, n. 29. 20 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 1994, n. 13. 21 Ibid., n. 58. 22 PAOLO VI, Lettera enciclica Sacerdotalis caelibatus, n. 72. 23 Ibid., n. 73; cfr. anche il n. 82.


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al suo amore con un amore altrettanto fedele e generoso che si traduca nel dono totale di sé al servizio della Chiesa e del mondo»24. È opportuno notare che tutta la vita «vale soprattutto per il ministero sacerdotale, il cui compito è quello di attualizzare la donazione di Gesù agli uomini, e lo può fare in modo credibile solo impegnando tutte le proprie forze e l’intera vita. La vocazione sacerdotale è essenzialmente una vocazione vitale»25.

Sed contra … a proposito di scelta fatta per sempre Il pensiero della tradizione spirituale e della Chiesa così come è presentato da Giovanni Paolo II è propositivo, logico e attraente: s’impone con forza la domanda se le strutture ecclesiastiche, oggi, siano in grado di aiutare a vivere tale ideale. Si ha il dubbio che la Chiesa, paradossalmente, non sia sufficientemente attrezzata a far vivere l’ideale che propone: mi limito a due semplici accenni.

1. I luoghi di formazione Se è vero che «La decisione di impegnarsi tutta la vita è prova di maturità e la fedeltà a quest’impegno rivela la linearità di una personalità forte e coerente»26, la perplessità nasce seriamente dal prendere in considerazione i seminari di oggi: se siano realmente in grado di aiutare in tal senso, cioè di far leva sul valore del dono, sulla libertà e sulla responsabilità. Comunque un segnale certamente positivo è il recentissimo documento della Congregazione per l’Educazione cattolica sul ricorso a esperti in scienze psicologiche: ricorso opportuno non solo per l’e24 25

CEI, La formazione dei presbiteri, cit., n. 8. G. GRESHAKE, Essere preti. Teologia e spiritualità

del ministero sacerdotale, Brescia 1984, 160. 26 A. FAVALE, Spiritualità del ministero presbiterale. Fondamenti ed esigenze di vita, Roma 1985, 151.


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ventuale terapia di disturbi psichici dei candidati al presbiterato ma anche per un valido sostegno allo sviluppo delle qualità umane e relazionali indispensabili al ministero e alla vita dei presbiteri. Tra le qualità particolarmente vengono evidenziate la capacità ad essere fedeli agli impegni assunti, la libertà e la responsabilità che danno senso al donarsi a Dio con una risposta cosciente e libera di adesione e di coinvolgimento di tutta la persona a Gesù Cristo27.

2. Il non riconoscimento dell’evoluzione della libertà Si hanno delle serie perplessità per quanto riguarda l’attuale prassi seguita dall’autorità ecclesiastica riguardo alla riduzione allo stato laicale dei presbiteri che lasciano il ministero; essa si fonda sulla domanda se l’interessato sia stato libero al momento dell’ordinazione, dato che la libertà è una condizione necessaria per ricevere il sacramento. Sembra semplicistico, infatti, distinguere tra libero e non libero senza «riconoscere che le forme della crescita e della maturazione umane sono troppo ricche e troppo diversificate per rientrare negli schemi delle […] definizioni oggettivistiche»28. Non riconoscendo il diritto ad uno sviluppo della libertà, la Chiesa «alla fine non ha che un unico mezzo per mostrarsi mite nei confronti dei suoi sudditi, vale a dire la grazia della mancanza di libertà. La cosa più incredibile in queste procedure è il fatto che si trovano sempre delle persone in fondo abbastanza ragionevoli (psicologi pastorali, medici, terapeuti) disposte a recitare una parte in questa farsa […] E poi, che razza di Chiesa è questa che si vede costretta a dichiarare i suoi migliori amici momentaneamente pazzi per riconciliarsi con loro?»29.

27 Cfr. CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio, 2008, nn. 5, 8, 9, 17. 28 E. DREWERMANN, Funzionari di Dio. Psicodramma di un ideale, Bolzano 1995, 437. 29 Ibid., 439.


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II. LA FEDELTÀ La fedeltà del presbitero a livello esistenziale ha diverse declinazioni o sfaccettature: il suo valore dipende dal simultaneo realizzarsi in tutti gli aspetti

1. Fedeltà a Cristo La fedeltà innanzitutto è adesione a Cristo — il Buon Pastore — modello dell’essere e dell’agire del presbitero. Giovanni Paolo II è chiaro: «Il sacerdote trova sempre, ed in maniera immutabile, la sorgente della sua identità in Cristo Sacerdote. Non è il mondo a fissare il suo statuto, secondo i bisogni o le concezioni dei ruoli sociali. Il prete è segnato dal sigillo del Sacerdozio di Cristo, per partecipare alla sua funzione dell’unico Mediatore e Redentore […] Un servizio che dev’essere completamente ispirato dall’amore per le anime, a somiglianza di Cristo che offre per loro la sua vita»30. Ovviamente si tratta di una fedeltà responsabile, dato che « […] la nostra identità di preti si manifesta nel dispiegamento “creativo” dell’amore per le anime comunicato da Cristo Gesù»31. Valida la sottolineatura secondo la quale «La relazione del sacerdote con Gesù Cristo e, in Lui, con la sua Chiesa si situa nell’essere stesso del sacerdote, in forza della sua consacrazione/unzione sacramentale, e nel suo agire, ossia nella sua missione o ministero»32. Compito fondamentale di un presbitero, pertanto, è «una piena adesione al modello originario e normativo del Buon Pastore, ed insieme di promuovere una armoniosa integrazione della identità umana, cristiana e sacerdotale […]»33. Viene ribadita più volte la necessità 30

GIOVANNI PAOLO II, Lettera del Giovedì santo 1986, in Cari sacerdoti, cit., 86. Ibid., 87. 32 PDV, n. 16. 33 GIOVANNI PAOLO II, Ai membri del Consiglio della segreteria del Sinodo dei vescovi, Roma 15 febbraio 1990, in Cari sacerdoti, cit., 210. 31


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della fedeltà alla identità sacerdotale che consiste nel riprodurre Cristo e, particolarmente, la sua carità pastorale34. Il legame sacramentale con Cristo Capo, Pastore e Sposo, attraverso la fedeltà, «chiede di essere assimilato e vissuto in maniera personale, cioè cosciente e libera, mediante una comunione di vita e di amore sempre più ricca e una condivisione sempre più ampia e radicale dei sentimenti e degli atteggiamenti di Cristo Gesù»35. La CEI insiste sull’amore del presbitero nei confronti del Buon Pastore: «Se il ministero presbiterale non originasse da questo amore, scadrebbe a prestazione di un funzionario, anziché essere il servizio di un pastore che offre la vita per il gregge. Da ciò risulta che l’amore per Cristo costituisce la motivazione prioritaria della vocazione al presbiterato»36.

2. Fedeltà alla missione Giovanni Paolo II richiama con insistenza un tema caro alla tradizione spirituale: «la fedeltà alla missione sacerdotale, che è fedeltà d’amore all’annuncio del Vangelo, al servizio dei sacramenti, al sostegno delle comunità cristiane in un attaccamento senza pecche alla Chiesa ed ai suoi responsabili»37. La fedeltà alla missione ha pure il valore di essere un segno della fedeltà di Dio: «Ciò che il popolo aspetta da voi più che da chiunque altro è la fedeltà al sacerdozio: questa è un modo per far conoscere alla gente la fedeltà di Dio […] In un mondo così segnato dalla instabilità, come quello di oggi, noi abbiamo bisogno di più segni e di

34 Cfr. ID., Ai sacerdoti, Nepi 1 maggio 1988, in Cari sacerdoti, cit., 275; Alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Roma 14 aprile 1989, ibid., 278; Ai sacerdoti diocesani e religiosi, Guadalupe (Messico) 27 gennaio 1979, ibid., 394; cfr anche PDV, nn. 22-23. 35 PDV, n. 72. 36 CEI, La formazione dei presbiteri, cit., n. 13. 37 GIOVANNI PAOLO II, Incontro con i sacerdoti, religiosi, religiose e catechisti, Libreville (Gabon) 17 febbraio 1982, in Cari sacerdoti, cit., 247.


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più testimoni della fedeltà di Dio nei nostri confronti e della fedeltà che noi dobbiamo a lui»38. Alla coscienza della grandezza della missione bisogna che segua l’impegno nella fedeltà ad essere «depositari ed amministratori dei misteri di Dio, strumenti di salvezza per gli uomini»39. I lavori del Sinodo dei vescovi del 1990 evidenziano le sfide del mondo moderno ma sottolineano che i presbiteri «devono mantenersi attenti a comprendere questo mondo per inserirsi in esso nella fedeltà alla loro vocazione e alla loro missione propria e per portare ad esso il Vangelo»40: è la formazione permanente che garantisce tale necessaria fedeltà.

3. Fedeltà al ‘proprio’ popolo Nella letteratura postconciliare l’appartenenza alla Chiesa particolare, oltre che fatto giuridico, è considerata come valore spirituale ed opportunamente si precisa che nel delineare la configurazione del presbitero e della sua vita spirituale le «concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere»41. Giovanni Paolo II richiede «L’impegno verso il popolo, specialmente verso i più poveri. Dovete essere fedeli»42. La fedeltà comporta che «Il sacerdote ha bisogno di conoscere le vere condizioni di vita delle persone che serve, e deve vivere fra di loro come un vero fratello in Cristo. Non può mai separarsi dalla comunità»43. 38 ID., Ai sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi, Maynooth (Irlanda) 1 ottobre 1979, in Cari sacerdoti, cit., 335. 39 ID., Ai sacerdoti e religiosi, Terni 19 marzo 1981, in Cari sacerdoti, cit., 145. 40 Lineamenta, n. 32. 41 PDV, n. 31. 42 GIOVANNI PAOLO II, Ai sacerdoti, seminaristi, religiosi, Stettino (Polonia) 11 giugno 1987, in Cari sacerdoti, cit., 378. 43 ID., Ai seminaristi e ai novizi, San Antonio (Texas) 13 settembre 1987, in Cari sacerdoti, cit., 381.


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Parlando della paternità (addirittura della maternità) spirituale del presbitero, il Papa dice che «Normalmente, essa è legata al servizio di una determinata comunità del Popolo di Dio, in cui ognuno si aspetta attenzione, premura, amore. Il cuore del sacerdote, per essere disponibile a tale servizio, a tale sollecitudine e amore, deve essere libero. Il celibato è segno di una libertà, che è per il servizio»44. La CEI afferma «come l’appartenenza e dedicazione sponsale a una Chiesa particolare rappresentino davvero un valore spirituale»45 e, pertanto, tale appartenenza fa parte della spiritualità propria del presbitero diocesano. E, in verità, non bisogna dimenticare che la fecondità — nel nostro caso la paternità spirituale — è tra i primi posti tra le finalità del legame: essa, infatti, è l’incarnazione del dono, la sua manifestazione esteriore e il suo prolungamento verso l’avvenire46.

4. La fedeltà è possibile con/in Cristo Il dovere della fedeltà chiama in causa la questione dei mezzi, delle risorse per mantenersi fedeli. A chiare lettere Giovanni Paolo II dice che «la fedeltà è ottenuta e mantenuta mediante l’unione con il Signore, con il rinnovamento costante e profondo di preghiera e sacramenti»47; come pure ricorda che «la perseveranza nella fedeltà è prova non di forza e coraggio umani, ma dell’efficacia della grazia di Cristo. E così, se perseveriamo, dobbiamo essere uomini di preghiera che, attraverso l’Eucaristia, la liturgia delle Ore e i nostri incontri personali con Cristo, troviamo il coraggio e la grazia di essere fedeli. Siamo quindi fiduciosi, ricordando le parole di San Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà forza”»48; ed insiste sulla necessità di una sempre più stretta unione con Cristo, 44 45 46 47

ID., Lettera del Giovedì santo 1979, in Cari sacerdoti, cit., 33. CEI, La formazione dei presbiteri, cit., n. 17. Cfr. X. LACROIX, Perché parlare, cit., 389. GIOVANNI PAOLO II, Ai religiosi, Fatima 13 maggio 1982, in Cari sacerdoti, cit.,

156. 48

ID., Ai seminaristi, Filadelfia (USA) 3 ottobre 1979, in Cari sacerdoti, cit., 291.


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nostra ragione di vita e nostra forza49; e ribadisce che «è necessario seguire Cristo, con uno sforzo continuo di identificazione in Lui e con la Sua causa»50. Inoltre, insiste sulla necessità che il presbitero diventi sempre più “amico” di Cristo51. La perseveranza nel ministero suppone necessariamente che «Dobbiamo conoscere il Pastore molto bene; è necessario un rapporto profondo e personale con Cristo, sorgente e modello supremo del nostro sacerdozio, un rapporto che richiede l’unione nella preghiera»52. Il Direttorio parla della necessità di «coltivare e approfondire il proprio rapporto esistenziale con la persona vivente del Signore Gesù»53. Chiara e convincente la seguente indicazione: «La preghiera rappresenta un criterio importante per l’autocomprensione sacerdotale. Qui, infatti, il prete è costretto a chiedersi chi egli propriamente sia: se un manager della pastorale od un uomo di Dio, se un funzionario od uno che ispira la sua attività al proprio essere-con-Cristo. Se non accompagnata dalla preghiera, con l’andar del tempo la pastorale s’appiattisce e, nel miglior dei casi, degenera nella burocrazia»54. E in verità non si può dimenticare quanto scrive Lacroix: «la fedeltà chiede la fiducia, la fiducia chiede la fede, la fede si traduce nella fedeltà. La fiducia è l’anima della fedeltà […] La fiducia nell’al49

Cfr. ad es. ID., Ai sacerdoti e religiosi, Terni 19 marzo 1981, in Cari sacerdoti,

cit., 145. 50

ID., Ai religiosi, Fatima 13 maggio 1982, in Cari sacerdoti, cit., 153. Cfr. ad es. ID., Lettera del Giovedì santo 1983, in Cari sacerdoti, cit., 52; Lettera del Giovedì santo 1988, ibid., 111; Ai sacerdoti e seminaristi, Fulda (Germania) 17 novembre 1980, ibid.,143. 52 ID., Ai sacerdoti, Miami (USA) 11 settembre 1987, in Cari sacerdoti, cit., 468. Saggia l’indicazione di Paolo VI sulla ricchezza che si ha «nell’approfondire ogni giorno nella meditazione e nella preghiera i motivi della sua donazione e la convinzione di aver scelto la parte migliore. Egli implorerà con umiltà e perseveranza la grazia della fedeltà, che non mai è negata a chi la chiede con cuore sincero, ricorrendo ai mezzi naturali e soprannaturali di cui si dispone»: Lettera enciclica Sacerdotalis caelibatus, n. 74. 53 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 1994, n. 40. 54 G. GRESHAKE, Essere preti, cit., 219-220. 51


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tro acquista tutta la sua forza se io credo che in lui […] c’è una sorgente di vita […]»55. Gesù Cristo vivente, risuscitato, è nell’Eucaristia e, quindi, l’amicizia con lui la si coltiva con una intensa vita eucaristica: comunicando al corpo dato e al sangue versato, si entra nella circolazione di vita che unisce profondamente a lui.

5. Fedeltà e formazione permanente A partire dal Vaticano II si è progressivamente presa coscienza della necessità della formazione permanente e la Pastores dabo vobis afferma a chiare lettere: «La formazione permanente è espressione ed esigenza della fedeltà del sacerdote al suo ministero, anzi al suo stesso essere»56 e, in modo più forte, la qualifica come «“fedeltà”al ministero sacerdotale e come “processo di continua conversione”»57. E non bisogna dimenticare che «amare significa essere convocato ad un lavoro su di sé e sulla relazione»58, che comporta tempo e impegno come pure l’accettazione «di essere modificato dalla relazione, impegnandovi la mia stessa identità […] L’alleanza come tale comporta qualcosa di irreversibile […] L’alleanza può anche essere definita come l’entrata di due storie l’una nell’altra […] Fare alleanza significa consentire a impegnare il proprio essere anche nella relazione»59. E credo che il compito della formazione permanente possa essere ben compreso ed assolto con l’ausilio dell’affermazione di Teresa d’Avila: «La pazienza ottiene tutto»60.

55

X. LACROIX, Perché parlare, cit., 390. PDV, n. 70. 57 L.c.; cfr. anche CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, cit., n. 87. 58 X. LACROIX, Perché parlare, cit., 380. 59 Ibid., 383. 60 Poésies, in Oeuvres complètes, Paris 1995, 1242. 56


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Sed contra … a proposito di fedeltà Sorge ancora una volta la domanda se oggi il clima ecclesiale aiuti veramente i presbiteri a vivere la fedeltà a Cristo, alla missione e al popolo. Mi limito a tre osservazioni che fanno propendere per una risposta negativa. 1. Contesto ecclesiastico carrieristico Il presbitero deve passare, anche se faticosamente e quindi lentamente, dall’immaturità psichica alla piena maturità in Cristo. L’ambiente ecclesiastico spesso lo induce a smettere di pensare con la propria ragione e ad inserirsi in modo acritico nel sistema: si pensi alle allettanti sirene che sono il rapido avanzamento nella carriera e le altre ricompense del sistema clericale; e non si può negare che, con una certa frequenza, l’identità ecclesiastica fa passare in secondo piano l’identità battesimale. Intanto, una vera maturità si ha quando egli, accanto alla fierezza della vocazione presbiterale, «è ancor più orgoglioso della sua vocazione battesimale ad essere un discepolo e un santo. Ha il coraggio di opporsi lealmente, qualora gli sembri che la linea di condotta ufficiale della Chiesa non sia fedele al Vangelo di Cristo. Si sente incoraggiato da quegli “amici di Dio e profeti” con cui forma la comunione dei santi […]»61. Il presbitero deve trovare il coraggio e i necessari percorsi per essere sé stesso ed al contempo uomo della Chiesa, evitando un duplice rischio: la via degli “ecclesiastici servili e pii” o quella dell’“individualismo distruttivo” che vede come nemici da evitare sia il vescovo che la chiesa. Si tratta di armonizzare la vera fedeltà al Vangelo con la fedeltà alla Chiesa, la padronanza di sé con la deferenza al vescovo. La sfida di una fedeltà adulta è proprio quella di essere uomo della Chiesa e di essere anche sé stessi; ciò è reso possibile da un impe61

D. COZZENS, Verso un volto nuovo del sacerdozio. Riflessione sulla crisi spirituale del sacerdote, Brescia 2002, 98.


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gno personale con la Parola e la persona di Gesù Cristo, che certamente lo libererà «dal peso di cercare di essere speciale, di essere il primo agli occhi […] del suo vescovo e dei confratelli»62 e gli farà sperimentare la libertà di essere guidato da Dio e sostenuto dalla pace di Cristo. Si fa notare che un’attenzione particolare va nell’affrontare e nel correggere l’inconscio: «Clericalismo, elitarismo, carrierismo, legalismo, invidia e competizione sono alcuni di questi atteggiamenti e comportamenti. Quando è in balia di queste forze psichiche, il sacerdote può facilmente iperidentificarsi nel suo personaggio sacerdotale e perdere così il contatto con la sua identità battesimale […] Il suo personaggio sacerdotale diventa l’incrollabile identità e la fonte della sua consolazione. Rompe così il delicato equilibrio tra la sua identità battesimale e quella sacerdotale»63. Questo ideale di “essere prete”, “essere se stesso” ed “essere cristiano” comporta un serio lavoro formativo a far maturare una solida identità e autocoscienza umana e cristiana prima ancora che presbiterale.

2. Fedeltà come uniformità La fedeltà è diversa a seconda dell’orizzonte nel quale si posiziona: ad esempio uniformità o multiformità, subordinazione controllabile o corresponsabilità matura. B. Häring alla luce del Vaticano II parla di fedeltà creativa ed è convinto che «la ‘fedeltà creativa’ è molto più esigente della fedeltà uniforme e controllabile fin nei minimi particolari»64; essa implica una vigile attenzione al momento presente, camminare pieni di speranza e con senso di responsabilità verso il futuro.

62

Ibid., 108. Ibid., 86. 64 B. HÄRING, Programma per una vita riuscita. Le virtù del cristiano maturo, Brescia 1996, 57. 63


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Romano Guardini presenta la fedeltà come «una forza che vince il tempo, cioè il mutare e il perire, ma non come la durezza della pietra in rigida fissità, bensì come forma vitale, che cresce e crea»65; essa è resa possibile dall’ «esistere in ordine all’altro e riserbarsi a lui […] sapersi responsabile per l’altro […]»66; così «supera mutamenti, svantaggi e pericoli»67. Viene, oggi, ribadito che «Fedele si può essere soltanto nei confronti di una persona, mai nei confronti di princìpi […] Fedeltà è sempre fedeltà ad un tu, dunque fedeltà nei confronti di una persona»68: a livello formativo, dunque, il problema vero per un presbitero è la relazione che riesce a stabilire prima e a vivere dopo con la persona di Cristo, il resto ne sarà una conseguenza. Non va dimenticato che «La fedeltà viene nel mondo da Dio. Noi possiamo essere fedeli perché Egli lo è e perché Egli ci ha destinati, noi sue immagini, ad essa»69.

3.

Attuale prassi dei facili trasferimenti

Nei primi tempi la Chiesa propendeva per l’inamovibilità dei ministri ordinati soprattutto per due ragioni: in primo luogo per il vincolo indissolubile di matrimonio spirituale che veniva contratto tra la chiesa ed il titolare; in secondo luogo per il pericolo dell’ambizione e dell’avarizia70. Il can. 15 del Concilio di Nicea è preciso: « […] né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all’altra […] questo suo trasferimento sarà senz’altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono». Il canone 6 del Concilio di Calcedonia è sulla stessa linea quando afferma: «Nessuno 65

R. GUARDINI, Virtù. Temi e prospettive della vita morale, Brescia1972, 80-81. Ibid., 81. 67 Ibid., 83. 68 A. GRÜN, Leadership con valori, Brescia 2007, 77-78. 69 R. GUARDINI, Virtù, cit., 87. 70 Cfr. G. DAMIZIA, voce Inamovibilità, in Enciclopedia Cattolica, t. VI, Città del Vaticano 1951, 1741-1742. 66


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[…] può essere ordinato in modo ‘assoluto’ ma dev’essergli chiaramente assegnata una chiesa nella città od in campagna o nel luogo della memoria di un martire od in un convento. Il sacrosanto concilio decide che l’imposizione delle mani su un ordinato in modo ‘assoluto’ è invalida […]»71. La proibizione è ripresa da diversi Concili e ripetuta da Leone I il quale decreta che un vescovo che si è trasferito « […] a cathedra quidam pellatur aliena, sed carebit et propria: ut nec illis praesideat quos per avaritiam concupivit, nec illis quos per superbiam sprevit»72: tale norma successivamente viene resa più flessibile. Nonostante le possibili giustificazioni a motivo delle mutate circostanze storiche, da più parti si fa difficoltà a capire i facili e continui trasferimenti di vescovi e parroci: come può la loro “non stabile” e “non fedele” sponsalità spirituale essere d’esempio e di conforto alla sponsalità matrimoniale che si predica “stabile” e “fedele”? Sembra, poi, che al principio classico della «salus animarum» ed alla preoccupazione di garantire le condizioni per fare sperimentare la paternità spirituale sia ampiamente subentrato quello mondano della carriera in base a degli scatti. Personalmente, trovo saggi e utili per l’oggi due Apoftegmi dei Padri del deserto contro il facile spostarsi di luogo in luogo: «come l’aquila che si allontana dalle uova le rende improduttive e sterili, così si raffredda e muore la fede di un monaco o di una vergine se errano di luogo in luogo»73: l’uccello che abbandona la sua covata mette a rischio la fecondità e rischia il raffreddamento. «Un albero non può dare frutto se è spesso trapiantato, allo stesso modo un monaco non può dare frutto se si sposta di luogo in luogo»74. Quello che accade oggi aiuta la pastorale e il pastore oppure non finisce per burocratizzare l’una e rendere funzionario l’altro?

71

Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1958, 66. Nonostante le varie interpretazioni — comunità locale o vescovo competente per più comunità — sembra che nell’antichità l’ordinazione normale fosse appunto quella ‘relativa’, cioè quella che si riferiva ad una determinata comunità: cfr. G. GRESHAKE, Essere preti, cit., 126-134. 72 Ep. 14: PL 54, 674. 73 Vita e detti dei Padri del deserto, Roma 1975, 194. 74 Ibid., 109.



SCELTA DEFINITIVA E FEDELTÀ NELLA VITA CONSACRATA

EGIDIO PALUMBO OCARM*

Con il matrimonio vissuto nel Signore e il ministero ordinato, anche la vita consacrata esprime in modo pubblico davanti alla Chiesa, attraverso un rito liturgico proprio — il Rito della Professione Religiosa — la scelta definitiva di seguire Cristo vivendo il carisma di un determinato fondatore/trice, in una forma di vita che assume i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, e i valori teologico-spirituali e le dinamiche socio-psicologico-relazionali della vita fraterna in comunità. Ma come si configurano la scelta definitiva e la fedeltà nella vita consacrata? La loro configurazione possiamo evidenziarla attraverso una triplice prospettiva ermeneutica: (1) quella del carisma dei fondatori/trici (1); quella della stabilità dei monaci, della itineranza dei frati e della dispersione apostolica delle congregazioni diaconali (2); e, infine, quella della gratuità sovrabbondante (3).

1. FEDELTÀ CREATIVA E DINAMICA DEL CARISMA DEI FONDATORI/TRICI Ogni Ordine e Congregazione Religiosa esprime la sua modalità di sequela Christi e del suo evangelo, che rimane sempre la regola suprema, attraverso la rilettura evangelica del suo fondatore/trice e del suo rispettivo carisma fondazionale. Forma di vita fraterna in comunità *

Docente di Teologia della vita consacrata presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania


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e consigli evangelici, assieme anche ad una modalità specifica di vivere l’unica missionarietà della Chiesa, tutto questo passa attraverso la rilettura del carisma del fondatore/trice. Da qui si comprende che nella vita consacrata la scelta definitiva e la fedeltà riguardano sempre la sequela di Cristo, ma nella modalità del carisma del fondatore/trice, una modalità trasmessa e custodita dalla sana tradizione, eppure sempre da approfondire e da riattualizzare secondo la sensibilità teologica e socio-culturale del tempo presente. Da questo punto di vista nella vita consacrata la scelta definitiva e la fedeltà assumono, o dovrebbero assumere, una fisionomia creativa e dinamica. Il carisma del fondatore/trice, che determina lo stile di vita comunionale e missionario di un Ordine e Congregazione, non è un pezzo da museo da custodire, ma una tradizione viva da interpretare e vivere, creativamente e con sano discernimento, secondo la sensibilità teologica, spirituale, antropologica e culturale della Chiesa del tempo. Se all’origine del carisma dei fondatori/trici c’è l’esperienza creativa e creatrice dello Spirito Santo (cfr. Mutuae Relationes, n. 11; Vita Consecrata, n. 36), la definitività della scelta e la fedeltà non può non essere creativa, proprio in obbedienza allo Spirito che ha generato tale carisma. E allora, nella vita consacrata la scelta definitiva è evangelicamente autentica se con il tempo rende le persone disponibili al rinnovamento del proprio stile di vita, se li rende capaci, a volte, anche di rifondare il proprio Ordine o Congregazione Religiosa. Scelta definitiva e fedeltà non sono sinonimi di fissità e immobilismo; la vita consacrata non garantisce uno stato di vita “a lunga conservazione”… La storia l’ha dimostrato: molti Ordini sono scomparsi come soggetti ecclesiali; e così accadrà, pensiamo, anche nel futuro. Per questo l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Vita Consecrata, al n. 37, nel contesto della fedeltà al carisma dei fondatori/trici, parla di fedeltà creativa e dinamica: «Gli Istituti sono dunque invitati a riproporre con coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei fondatori e delle fondatrici come risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi. Questo invito è innanzitutto un appello alla perseveranza nel cammino di santità,


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attraverso le difficoltà materiali e spirituali che segnano le vicende quotidiane. Ma è anche appello a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le forme, quando è necessario alle nuove situazioni e ai diversi bisogni, in piena docilità all’ispirazione divina e al discernimento ecclesiale. Deve rimanere, comunque, viva la convinzione che nella ricerca della conformazione sempre più piena al Signore sta la garanzia di ogni rinnovamento che intenda rimanere fedele all’ispirazione originaria».

2. STABILITÀ, ITINERANZA, DISPERSIONE APOSTOLICA Che nella vita consacrata la scelta definitiva e la fedeltà di per sé non includano l’idea di vacua fissità e di continua mobilità fine a se stessa, è attestato da tre aspetti che in un certo modo la caratterizzano: la stabilità, l’itineranza, la dispersione apostolica. La stabilità è tipica della tipologia dei monaci, l’itineranza della tipologia dei frati cosiddetti “mendicanti”, la “dispersione apostolica” della tipologia delle congregazioni diaconali, ovvero di quelle che esprimono il loro carisma attraverso una diaconia specifica. Stabilità, itineranza e dispersione, ognuna a suo modo, mostrano come la definitività di una scelta e la fedeltà possono essere vissute in maniera diversa, purché sempre nell’orizzonte della sequela Christi.

2.1. La stabilità dei monaci Studi approfonditi sulla vita monastica1 e in particolare sulla Regola di Benedetto (= RB) mostrano che la stabilità, non dice sem1 Cfr. J. LECLERCQ, Nuovo elogio della stabilità, in Ora et labora 48 (1993) 98197; ID., La stabilità secondo la Regola di S. Benedetto, in Ora et labora 35 (1980) 1017; A. DE VOGÜÉ, Persévérer au monastère jusqu’à la mort. La stabilité chez S. Benoît et autour de lui, in Collectanea Cisterciensia 43 (1981) 337-365; C. FALCHINI, Volto del monaco, volto dell’uomo. Saggio di antropologia monastica nella “Regola” di Benedetto, Magnano (BI) 2006, 127-133.


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plicemente stabilità in un luogo, permanenza nei recinti del monastero, ma indica una realtà molto più profonda. Innanzitutto, per Benedetto la stabilità ha una valenza spirituale: — salvaguardare il monaco dallo spirito di mondanità, senza separarlo fisicamente dal contesto del mondo e dalle relazioni umane; — salvaguardare il monaco dall’autoreferenzialità, quando si sottrae alla legge evangelica dell’obbedienza e diventa arbitro di se stesso. E ancora, per Benedetto la stabilità ha una valenza relazionale: impegna il monaco ad essere fedele alla comunità dei fratelli. Nella Regola di Benedetto, infatti, non si parla di “stabilitas loci”, come spesso si dice. Questa idea di “stabilità nel luogo” appartiene alla Regola del Maestro (cfr. RM 6,1-2), regola che costituisce una delle fonti principali della Regola di Benedetto. Benedetto, però, qui non segue il Maestro, ma usa l’espressione “stabilitas in congregatione” (RB 4,78), ovvero stabilità in una comunità di fratelli che sono stati convocati dalla Parola del Signore. Inoltre, Benedetto usa il termine “monastero” non tanto per indicare l’edificio in cui dimora la comunità, quanto per indicare la comunità stessa, la comunità dei fratelli, all’interno della quale è possibile vivere l’obbedienza al Signore e l’incontro interpersonale con Lui2. Dunque la stabilità monastica dice un atteggiamento interiore di stabilità e maturità spirituale personale e, nel contempo, dice fedeltà alla comunità dei fratelli, perché la comunità è il luogo concreto dove vivere la sequela Christi e l’obbedienza al suo evangelo. Al riguardo è significativo l’episodio narrato da Gregorio Magno nella sua biografia su Benedetto, scritta nei Dialoghi III,16. Sul monte Marsico vi era un eremita di nome Martino, il quale nella grotta in cui abitava si era legato ai piedi con una catena, per non andare oltre un certo limite del suo luogo di abitazione. Benedetto lo venne a sapere, e gli inviò un suo discepolo a dirgli: «Se tu sei vero servo di Dio, non sia una catena di ferro a tenerti legato, ma la catena di Cristo».

2

È importante osservare che in RB 61,6.8 sono espressioni sinonimiche «essere associato al corpo del monastero» ed «essere incorporato alla comunità».


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L’episodio, al di là della verità storica dei fatti, comunica un insegnamento: la vera stabilità sta nel legame interiore con Cristo e con la sua legge di amore che relativizza ogni norma e regolamento.

2.2. L’itineranza dei frati Anche riguardo all’itineranza3 bisogna andare oltre il senso comune del vagare di qua e di là o della mobilità come semplice trasferimento da un luogo ad un altro. Possiamo dire che l’itineranza dei frati è, fondamentalmente, la chiamata ad evangelizzare nella compagnia degli uomini, come gli apostoli inviati dal Signore a due a due per le vie del mondo, nelle case e nelle città. Questa capacità di movimento — complementare alla stabilità monastica — esige per i frati uno stile di vita, ovvero: — la capacità di saper discernere ciò che lo Spirito dice oggi alle Chiese e i sentieri che Egli sta aprendo nella storia del nostro tempo; — la capacità di essere disponibili al cambiamento di mentalità per superare ogni forma di immobilismo e di attaccamento al proprio io; — la consapevolezza che si evangelizza in uno stile di vita povero e mite; — e quindi la consapevolezza che in questo mondo siamo non padroni ma ospiti, stranieri e pellegrini, perché sempre in cammino verso il Regno, verso il Signore che viene e che proprio per questo ci pone in una condizione di ricerca permanente, in uno stato di “fame” e di “sete” permanenti, come veri e propri “mendicanti” bisognosi di essere “nutriti” dagli altri, di sedere alla “mensa dei poveri”, di imparare dagli altri, anche da coloro che la pensano diversamente… 3 Cfr. L. DE CANDIDO, I Mendicanti. Novità dello Spirito, Roma 1983, 77; C. A. AZPIROZ COSTA, «Camminiamo con gioia e pensiamo al nostro Salvatore». Alcune riflessione sull’itineranza domenicana, Lettera del Maestro Generale dell’Ordine, Roma 2003; L. PADOVESE (cur.), Pellegrini e forestieri. L’itineranza francescana, Bologna 2004.


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Così scrive Francesco d’Assisi nella Regola bollata al cap. 6,1s (FF 90): «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo il Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia».

E nel Testamento scrive: «Si guardino i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non siano come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini» (Testamento, 24; FF 122).

2.3. La “dispersione apostolica” delle congregazioni diaconali Intendiamo per congregazioni diaconali, come già accennato, quelle che esprimono il loro carisma attraverso una diaconia specifica. Il riferimento esemplare è quello della Compagnia di Gesù, fondata da s. Ignazio di Loyola nel 1540, anno dell’approvazione del papa. Diciamo che è esemplare perché lo stile di vita e di governo dei Gesuiti fu assunto come modello dalle congregazioni diaconali sorte nelle epoche successive. L’avventura carismatica di s. Ignazio4 iniziò a Parigi nel 1537 con altri sei compagni i quali si legarono reciprocamente con il voto di povertà e castità allo scopo di eseguire un lavoro missionario e di ospitalità a Gerusalemme o andare senza domandare in qualsiasi luogo dove il papa avesse ordinato loro. Quando nel 1543 Ignazio fu eletto primo superiore generale, dopo che nel 1540 la Compagnia ebbe la conferma del papa, egli inviò i suoi compagni prima in tutta Europa e poi in tutte le regioni del mondo come “corpo disperso” per la missione.

4

Cfr. M. RUIZ JURADO, Il Pellegrino della volontà di Dio. Biografia spirituale di sant’Ignazio di Loyola, Cinisello Balsamo (MI) 2008.


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Nelle Costituzioni di Ignazio più volte è scritto che il genere di vita, la vocazione della Compagnia di Gesù è «di andare per le varie parti del mondo», «di andare qua e là e vivere in qualsiasi parte del mondo dove si spera maggior servizio di Dio e aiuto delle anime» tutte le volte che è comandato dal papa o dal superiore (Costituzioni, 92.304.588.636). Questa “dispersione apostolica”5 chiede di essere disponibili alla mobilità, perché l’uomo idoneo alla missione è proprio l’uomo disponibile alla mobilità, l’uomo sempre pronto “giorno e notte con i fianchi cinti” (cfr. Formula Istituti, 4). Per Ignazio non si tratta di semplice disponibilità pragmatica e organizzativa, ma di un profondo atteggiamento spirituale personale e comunitario. Infatti per il nostro fondatore la mobilità scaturisce dalla capacità di discernere se le mozioni interiori — appunto ciò che ci mettono in movimento — vengono o no dallo Spirito (cfr. Costituzioni, 92.627) e se sono finalizzate alla sequela del Signore con «la libera disposizione» della persona «e di tutte le cose» (Costituzioni, 424). Perciò la mobilità è la capacità a lasciarsi spingere dall’amore di Dio, «in modo che colui che sceglie senta prima di tutto in se stesso che quell’amore, che più o meno egli ha verso la cosa che sceglie, è soltanto per il suo Creatore e Signore» (Esercizi Spirituali, 184), per il maggior servizio di Dio e per il bene universale (cfr. Costituzioni, 618). Non crediamo di essere lontani dal pensiero di Ignazio se nella “dispersione apostolica” intravediamo l’evocazione della parabola evangelica del Seminatore che “sparge/disperde” il seme della parola di Dio a piene mani su tutti i terreni del mondo o situazioni umane (cfr. Mc 4,2-9.13-20 e parall.). Ed è significativo che nella parabola, secondo la narrazione di Marco e di Luca, seme della parola di Dio e ascoltatori vengono in un certo modo ad identificarsi: è come se semeascoltatori-evangelizzatori diventassero quasi un tutt’uno . Ed è ancora significativo che l’apostolo Pietro, indirizzando la sua prima lette5

Cfr. I. IGLESIAS, La contemplazione e la disponibilità, in Lo spirito della Compagnia. Una sintesi, Roma 1978, 47-73; J. GARCÍA DE CASTRO, Comunidad, in GEI (edd.). Diccionario de Espiritualidad Ignaciana, Bilbao-Santander 2007, 364-365; A. ÁLVAREZ BOLADO, Cuerpo apostolico, in ibid., 533-534.


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ra ai cristiani, li chiama «eletti, stranieri della dispersione [o diaspora] nel Ponto, nella Galazia…» (1Pt 1,1). Questa “dispersione/diaspora” evoca il fatto che i cristiani, scrive ancora Pietro, sono stati «rigenerati non da un seme incorruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23). La “dispersione apostolica”, dunque, non è semplice disponibilità ad andare in ogni luogo, ma indica la seminagione della parola di Dio attraverso l’esistenza diventata “seme”, l’esistenza rigenerata dalla parola di Dio e diventata eco della parola di Dio dei compagni di s. Ignazio di Loyola e di ogni fratello e sorella delle molteplici congregazioni diaconali presenti nella Chiesa. Nei decreti approvati dalla XXXV Congregazione Generale dei Gesuiti, svoltasi a Roma dal 7 gennaio al 6 marzo 2008, il secondo decreto, che riguarda la riflessione sul carisma della Compagnia, citando una omelia dell’ex generale p. P.-H. Kolvenbach, afferma che «un monastero stabile non ci serve, poiché abbiamo ricevuto l’intero mondo per annunciare la buona novella […] noi non ci chiudiamo nel monastero, ma rimaniamo nel mondo tra la moltitudine degli uomini e delle donne che il Signore ama, e che sono nel mondo» (Decreto 2,23).

E più avanti, al par. 24, afferma: «Come il mondo cambia, così cambia il contesto della nostra missione, mentre nuove frontiere ci mandano segnali a cui dobbiamo essere pronti a rispondere. Così ci immergiamo più profondamente in quel dialogo con le religioni che può mostrarci che lo Spirito Santo opera in tutto il mondo che Dio ama. Noi ci rivolgiamo anche verso la “frontiera” della Terra, sempre più vittima del degrado e dello sfruttamento. Qui, animati dalla passione per la giustizia ecologica, incontreremo una volta ancora lo Spirito di Dio che cerca di liberare una creazione sofferente, che ci chiede un po’ di spazio per vivere e per respirare»6.

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Il Regno-Documenti 15 (2008) 479.


Scelta definitiva e fedeltà nella vita consacrata

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3. ESSERE SEGNO DI GRATUITÀ SOVRABBONDANTE La forma di vita cristiana che denominiamo “vita consacrata” è un dono gratuito di Dio e del suo Spirito per l’edificazione della Chiesa (Lumen Gentium, n. 43; Perfectae Caritatis, n. 1) ovvero è un carisma dello Spirito che la Chiesa ha ricevuto, ha riconosciuto e fedelmente conserva. Ma il Concilio Vaticano II aggiunge anche che la “vita consacrata” appartiene essenzialmente alla vita e alla santità della Chiesa (Lumen Gentium, n. 44) ovvero è un carisma che di per sé non appartiene alla struttura gerarchica della Chiesa, come invece il ministero ordinato. Infatti si ha Chiesa se il popolo di Dio ha il ministro ordinato che presiede l’eucaristia. D’altronde, tutti sappiamo che la vita consacrata è apparsa nella Chiesa solo intorno al IV secolo d.C., con i monaci anacoreti che vanno nella solitudine del deserto per vivere fedelmente la vita cristiana. Dunque per qualche secolo la Chiesa ha vissuto senza la vita consacrata, e perciò la vita consacrata di per sé non è finalizzata a costituire l’esistenza stessa della Chiesa. Che cosa vuol dire, allora, che la vita consacrata, come afferma il Concilio, appartiene alla vita e alla santità della Chiesa? Vuol dire che essa, secondo la logica evangelica di Lc 17,10, non è “utile”, ovvero non è funzionale né a se stessa né a garantire l’esistenza della Chiesa. La vita consacrata esiste nella Chiesa per pura gratuità; tutto quello che essa è e fa, lo è e lo fa, non per trarne un vantaggio personale, ma per gratuità, soltanto per l’edificazione della comunità ecclesiale e la promozione della persona umana. Questa è la vocazione e la ministerialità fondamentale della vita consacrata: essere umile segno di gratuità vissuta nel Signore, cioè di quella gratuita fondata nel Signore che chiama i suoi ad essere «schiavi [douloi] inutili» (Lc 17,10), ovvero schiavi che dal loro servizio non ricercano un utile proprio, perché, a differenza del servo/diacono, lo schiavo non si appartiene: egli è stato espropriato di tutto, perché appartiene solo al Signore; egli vive ed agisce nella più completa gratuità. La storia della vita consacrata attesta che non pochi fondatori/trici hanno insistito presso i loro fratelli e sorelle sulla gratuità da testimoniare nello stile di vita e nell’esercizio della diaconia. Sulla gratuità, troviamo illuminanti le conclusioni di Giovanni


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Paolo II nella esortazione apostolica Vita Consecrata. Assumendo come icona biblica la pagina evangelica dell’unzione di Betania (cfr. Gv 12,1-8), il papa afferma che la vita consacrata non si pone nell’ottica di «una cultura utilitaristica e tecnocratica, che tende a valutare l’importanza delle cose e delle stesse persone in rapporto alla loro immediata “funzionalità”» (Vita Consecrata, n. 104), ma è «segno di una sovrabbondanza di gratuità, quale si esprime in una vita spesa per amare e per servire il Signore, per dedicarsi alla sua persona e al suo Corpo mistico» (l.c.). E scrive ancora il papa: «“Che sarebbe il mondo se non vi fossero i religiosi”? Al di là delle superficiali valutazioni di funzionalità, la vita consacrata è importante proprio nel suo essere sovrabbondanza di gratuità e d’amore» (n. 105). Solo così, rimanendo fedele a questa sua vocazione fondamentale, a questa sua scelta definitiva vissuta nel Signore, la vita consacrata sarà capace di diffondere nella “casa di Betania”, ovvero nella comunità ecclesiale e nel mondo, il profumo di Cristo (cfr. Gv 12,3; 2Cor 2,14-16), vale a dire la sua vita donata con sovrabbondanza e senza misura (cfr. Gv 13,1).




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