Synaxis 28 2 (2010) quaderni 25

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QUADERNI DI SYNAXIS 25 SYNAXIS XXVIII/2 - 2010

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


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In copertina particolare di: PABLO PICASSO, Guernica, olio su tela, 1937 Museo Nacional Reina Sofia, Madrid.


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MODI DELL’IDENTITÀ Colloqui di studio tra lo Studio Teologico S. Paolo e la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Catania

a cura di GIUSEPPE SCHILLACI


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Modi dell’identità : colloqui di studio tra lo Studio teologico S. Paolo e la Facoltà di scienze politiche dell’Università degli studi di Catania / a cura di Giuseppe Schillaci. - Catania : Studio teologico S. Paolo, 2011. (Quaderni di Synaxis ; 25) 1. Identità. I. Schillaci, Giuseppe. 305 CDD-22 SBN Pal0234827 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”


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SOMMARIO

PRESENTAZIONE .

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INTRODUZIONE .

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IDENTITÀ POLITICA (Fabrizio Sciacca) .

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IDENTITÀ RELAZIONALE (Luca Saraceno) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . 1. Identità, ovvero etimologia di un paradosso . . 2. L’identificarsi dell’identità, ovvero l’identità esistenziale 3. Identità identificata, ovvero i luoghi dell’identità . 4. La reciprocità del riconoscimento ovvero l’identità nella differenza . . . . . . . L’IDENTITÀ CELEBRATA. IL RITO, IL SIMBOLO E LA FEDE (Andrea Grillo) . . . . . . . Premessa: identità e “luoghi comuni” . . . 1. Il Movimento Liturgico: la riscoperta del rito come “luogo di identità” . . . . . . . 2. Condizioni esperienziali e scientifiche di questa riscoperta 3. Una ritualità senza religione ed una religione senza riti. 4. La crisi di evidenza del “luogo rituale” nel post-concilio 5. Un abbozzo di identità celebrata . . . Conclusione . . . . . . .

IDENTITÀ E ALTERITÀ NELLA RIFLESSIONE DI PAUL RICOEUR (Giuseppe Schillaci) . . . . . . . . Premessa . . . . . . . .

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1. Chi sono io e che cosa sono io? Stima di se stessi e imputazione: «agisci in modo tale da trattare l’umanità sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo mai come semplice mezzo» (Kant) . . . . . . 2. Sollecitudine per l’altro e responsabilità: «Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te» (cfr. Mt 7,12) (regola d’oro) . 3. Istituzioni giuste e giustizia: “Rendere a ciascuno il suo” . Conclusione . . . . . . . .

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IDENTITÀ E RELAZIONE NEL DIBATTITO SUL DETERMINISMO GENETICO (Roberto Vignera) . . . . . . . .

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L’IDENTITÀ DELLA PERSONA (Matteo Negro) . . . . 1. Persona, forma e natura . . 2. Persona, sostanza e continuità . 3. Identità personale e autoriferimento

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DINAMICHE IDENTITARIE (Grzegorz J. Kaczyn´ski) .

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L’IDENTITÀ CRISTIANA E I SUOI LUOGHI (Giuseppe Ruggieri) . . . . 1. L’identità . . . . 2. I luoghi . . . . 3. Riflessioni inattuali sull’attualità .


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PRESENTAZIONE

Il dialogo dello Studio Teologico S. Paolo con l’Università degli Studi di Catania è ormai una tradizione consolidata che si articola in incontri e confronti su argomenti in cui teologia e scienze umane si misurano con la riflessione e l’acribia metodologica proprie di ciascuna. Quest’anno l’identità è stato l’argomento sul quale ricercatori e docenti dello Studio Teologico S. Paolo e della Facoltà di Scienze Politiche si sono ritrovati per un percorso di approfondimento su fenomeni di mutamento e di “liquidità” della modernità e della postmodernità ma anche della cristianità attuale, che non può non essere interessata dai nuovi ed incombenti assetti identitari e sociali.


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INTRODUZIONE

GIUSEPPE SCHILLACI*

Identità culturale, politica, religiosa; identità fluida, precaria; identità forte, monolitica; identità inclusiva, identità esclusiva: un’identità che si dice in molti modi… I contributi presenti in questo studio si prefiggono di esaminare una questione che interpella noi, uomini di questo nostro tempo, che desideriamo vivere con sempre maggiore consapevolezza l’esistenza quotidiana, per non smarrirci perdendoci dentro una mentalità che non di rado privilegia uno stile, mortificante e senza uscita, di contrapposizione tra identità che confliggono tra di loro senza possibilità di incontro e di confronto. Dalla concezione classica delineata dai contributi di Luca Saraceno e Matteo Negro, alla visione teologica presa in particolare considerazione da Andrea Grillo e Giuseppe Ruggieri. Dall’approccio propriamente politico-sociologico di Fabrizio Sciacca, Roberto Vignera, Gregorio Kaczyn´ski, per giungere alla esemplificazione di tale problematica in un filosofo come Paul Ricoeur di Giuseppe Schillaci, la preoccupazione che attraversa i diversi apporti — risultato del colloquio svoltosi nei giorni 26-27 novembre 2009 tra lo Studio Teologico san Paolo e la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Catania — presenti in questo volume, vuole essere nella sua espressione, non un chiudersi in una visione totalitaria e totalizzante che toglie il respiro ma un dischiudersi ad orizzonti nuovi e offrire al lettore alcune chiavi di lettura che gli permettano di addentrarsi nel nostro presente.

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Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Giuseppe Schillaci

Ci confrontiamo, vivendola, con una crisi sempre più acuta d’identità e di appartenenza da cui scaturisce una conflittualità che genera inimicizia, una paura che genera diffidenza. Inoltre, non essendoci più punti di riferimento solidi, tutto poggia sulle spalle dell’uomo, sempre più fragile e smarrito, il quale privo di forza e di un orientamento sicuro, si sente quasi obbligato a smobilitare. Il disimpegno e la valenza negativa dei legami mostrano un individuo che non riesce a pensarsi e ad andare oltre il carpe diem. Z. Bauman1 nella sua riflessione ha fatto della “liquidità” la cifra che riassume significativamente questa nuova fase nella storia dell’uomo. Il nostro tempo viene pertanto sempre più caratterizzandosi per questo paradigma della “liquidità” dentro il quale non si riscontrano più quelle certezze che scaturivano da strutture solide quali: lo Stato, la famiglia, il lavoro…. Tutto è fluido, cioè non solido; i fluidi, precisamente, sono tali per il fatto che non sono in grado di mantenere a lungo una forma. Proprio nell’attuale contesto storico l’individuo fa molta fatica a ricostruire l’unità personale, perduto com’è nella differenziazione, complessa e disomogenea, delle istituzioni di oggi. All’interno di un tale vissuto esistenziale, in cui le identità sono sempre più deboli e fluttuanti, potremmo pensare a modi di identità che si incontrino, che interagiscano e si sostengano tra di loro ed invece corriamo il rischio concreto e permanente che qualcuno, tali identità, possa usarle come pietre per scagliarle contro gli altri, naturalmente, con la motivazione di difendere i propri, buoni e legittimi, interessi. Affermare un’identità, allora, significa negarla agli altri, in particolare a coloro che non hanno la possibilità e la forza di affermarla, che non hanno rilevanza sociale e perciò vengono esclusi: questi, infatti, sono relegati in una sorta di «‘sottoclasse’ (underclass): esiliate nella regione inferiore, fuori dai confini della società, da quel consesso al cui interno le identità (e quindi il diritto a un posto legittimato nella totalità) possono essere rivendicate e una volta rivendicate devono essere prese in considerazione. […] ‘Identità di sottoclasse’ significa assenza di iden-

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Cfr. Z. BAUMAN, Modernità liquida, Roma-Bari 2008.


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Introduzione

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tità; la cancellazione, o la negazione dell’individualità, di un ‘volto’, quell’oggetto di dovere etico e di cura morale. Ti trovi gettato al di fuori di quello spazio sociale in cui l’identità viene cercata, scelta, costruita, valutata, confermata o rifiutata»2. Una identità “di scarto”, esclusa, in questo orizzonte di riferimento, è una identità negata. Il modo che si concepisce e si costruisce anzitutto con la preoccupazione di difendere la propria identità, rischia non solo di mortificare le altre identità ma anche di generare soggetti umani esclusi. Accanto al pericolo sempre presente nei rapporti interpersonali dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è in atto oggi, anche nelle società più complesse ed evolute, il fenomeno dell’esclusione dell’uomo dalla normale convivenza sociale per paura che questa venga destabilizzata così come ogni identità. Il che significa originare, continuamente e drammaticamente, estranei mai fratelli. Incontro, dialogo, desiderio di capire, sono gli atteggiamenti necessari per non lasciarsi travolgere da posizioni di difesa ma da una comunicazione attenta, costruttiva, pacifica.

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Z. BAUMAN, Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi, Roma-Bari 2008, 44. Bauman sottolinea nello specifico che: «La ‘sottoclasse’ è un eterogeneo insieme di persone il cui bios (ossia la vita di un soggetto socialmente riconosciuto) è ridotto, come direbbe Giorgio Agamben, a zoè (vita puramente animale, in cui tutte le appendici riconoscibilmente umane sono state tagliate via o annullate). Un’altra categoria che subisce lo stesso fato è quella dei profughi, i senza Stato, i sans papiers, i non territoriali in un mondo di sovranità basata sul territorio. Condividono la situazione dei sottoclasse, ma al tempo stesso patiscono una privazione ancora maggiore, perché viene loro negato il diritto a una presenza fisica nel territorio sotto un governo sovrano, fatta eccezione per dei ‘non luoghi’ concepiti appositamente per loro, denominati campi per profughi o per richiedenti asilo, per distinguerli dallo spazio in cui il resto della gente, la gente ‘normale’, ‘completa’, vive e si muove»: ibid., 44-45.


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IDENTITÀ POLITICA

FABRIZIO SCIACCA*

Il principio di identità dice: A=A; ma l’identico è lo stesso, l’eguale a se stesso. Il principio di identità sarebbe a rigore non A=A, ma A è A: a se stesso ogni A è esso stesso lo stesso. L’identità si mostra con il carattere dell’unità, afferma Martin Heidegger rievocando Platone1. Il principio di identità descrive l’essere dell’ente: qualsiasi cosa fuori dell’identità dell’essere dell’ente non descrive la sua identità, ma una contingenza dell’identità. Così l’identità politica — come anche l’identità giuridica — di A, non è in realtà una vera identità perché non dice nulla dell’identità di A in quanto A, cioè di come A sia esso stesso lo stesso con se stesso (la sua stessità), ma è un predicato di A del tutto accidentale. Il che però non vuol dire che ‘identità politica’ non sia qualcosa che non abbia alcun significato specifico: dico semplicemente che identità politica significa eguaglianza in un insieme di co-appartenenti, e precisamente l’eguaglianza dei co-appartenenti a una dimensione politica che è quella della società politica. È evidentemente un uso imperfetto o improprio della parola identità. Dato che identità non significa in origine eguaglianza ma appunto ‘stessità’, identità politica significa qualcosa come eguaglianza dei co-appartenenti a un contesto legittimato da una rilevanza politica.

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Docente di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Catania. M. HEIDEGGER, Identität und Differenz, Pfullingen 1957. Ed. it.: Identità e differenza [1957], a cura di G. Gurisatti, Milano 2009, 28-29. Heidegger si riferisce a Platone, Sofista, 254 d (ed. it. a cura di L. Minio-Paluello, in PLATONE, Opere complete, II, Roma-Bari 1980, 241). 1


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Fabrizio Sciacca

Una compiuta definizione di identità politica si ha in Aristotele: «Il cittadino non è un cittadino in quanto abita in un certo luogo (perché anche i meteci [stranieri greci residenti per un determinato periodo di tempo in Grecia, in una posizione a metà tra i liberi e i non liberi] e gli schiavi hanno in comune il domicilio), né lo sono quelli che godono di certi diritti politici»2 e non di altri. Il cittadino o gode di tale status in senso assoluto oppure non è tale. Solo chi partecipa alle funzioni di giudice o governa è cittadino: perciò solo chi è cittadino in democrazia governa, e solo a causa di ciò egli è cittadino. Applicata ad altri regimi, la cittadinanza non è vera ma falsa. Lo stato è lo stesso finché non muta la sua costituzione: se la sua costituzione muta, lo stato non è più lo stesso rispetto a se stesso, dunque muta la sua identità. Sinché dura la costituzione, lo stato è esso stesso lo stesso con se stesso. In filosofia politica il concetto di eguaglianza ha dunque un referente ben preciso, e questo è tradizionalmente individuato in un luogo istituzionale: la pólis, la società politica. Per secoli si è considerato lo stato il luogo politico del concetto di eguaglianza, avendolo costituito e semanticamente limitato. Oggi lo stato non è forse più il luogo politico esclusivo del concetto di eguaglianza, ma dallo stato bisogna partire, almeno per affermare che il concetto di eguaglianza prende le mosse da quello di politica. Il paradigma aristotelico suggerisce che parlare di eguaglianza implica il riferimento a cose che hanno in comune la quantità; nella società politica, sono eguali gli individui con la stessa quantità di eguaglianza. ‘Eguaglianza politica’ implica il riferimento a individui come destinatari di eguaglianza nella stessa misura. Ma c’è qualcosa che va oltre l’elemento della quantità: si tratta della qualità degli individui. Tale qualità inerisce agli individui politicamente eguali, cioè a quei soggetti che condividono un’appartenenza politica, qualcosa come una cittadinanza3. Chiarisco subito che per appartenenza politica intendo il riferimento a un sistema caratterizzato da processi di formazione di decisioni vincolanti e imperative (contenenti anche valori) dirette agli individui che ne fanno parte. ‘Eguaglianza 2 ARISTOTELE, Politica, III (G), 1, 1275 a. Ed. it. a cura di R. Laurenti, Roma-Bari 19963, 71-72. 3 S. VECA, La filosofia politica, Roma-Bari 2005, 108.


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politica’, inoltre, può essere considerato un concetto particolare di quello più generale di ‘eguaglianza giuridica’, cioè eguaglianza davanti alla legge: in tal senso, emerge la qualità politica di ogni individuo come appartenente a un contesto rispetto al quale la sua capacità di instaurare rapporti con tutti gli altri membri di questa è considerata fungibile. Fungibilità equivale a reciprocità: è il lato che determina l’indifferenza dell’identità politica del soggetto come parte di una relazione tra sé e l’ordinamento. Identità politica non equivale quindi a identità personale: si può predicare la comune identità politica di due cittadini, ma non la stessa identità personale di due esseri umani. Due cose possono essere identiche, non due persone. Questa è una ragione per cui c’è qualcosa di ingiusto nel considerare le persone come strumentali all’uso (lecito o meno) degli scopi di qualcuno. Delimitare o allargare il contesto di quest’appartenenza (o di questa cittadinanza) è un problema di giustizia politica, è un complicato problema di estensione (che si pone, ad esempio, nel rapporto tra ‘giustizia locale’ e ‘giustizia globale’). Se il contesto di appartenenza è parziale, come avviene in un sistema chiuso (uno stato nazionale, ad esempio), l’appartenenza unisce i membri e allo stesso tempo li separa da altri, da altre appartenenze. In genere, la disappartenenza può complicare effettivamente le cose che sono state dette a proposito dell’eguaglianza. Le disappartenenze possono generare interessi differenti e gestiti con modalità conflittuali e violente. Le disappartenenze creano diseguaglianze, e le diseguaglianze possono creare ingiustizie. Tuttavia, il tentativo di superamento delle appartenenze parziali verso un’appartenenza globale comporta problemi di avviamento e anche di manutenzione: non è cosa indolore, e non è detto sia la soluzione migliore. Un’altra considerazione appare utile, se si cerca di individuare le dimensioni differenti di ‘eguaglianza politica’ ed ‘eguaglianza giuridica’. Da un punto di vista teoretico, le due cose non sono omologhe. L’eguaglianza politica si riferisce alla partecipazione alla vita istituzionale dei soggetti appartenenti, cosa che di solito è regolata da norme giuridiche; l’eguaglianza giuridica è l’indifferenza formale di ogni individuo di fronte alla propria legge. Il problema dell’eguaglianza politica attrae quello della sua giustificazione. Oggi è difficilmente sostenibile l’ipotesi hobbesiana secondo cui gli individui


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cercano la coesistenza in un contesto politico perché eguali, in quanto spinti dalla legge naturale against pride che li porta a percepirsi come simili. Non credo che l’eguaglianza sotto la legge possa trovare solido fondamento nel concetto, pure accattivante, di similitudine. Contro Hobbes, se ne rese già conto Kant, comprendendo che tra gli uomini esistono diseguaglianze sostanziali e contingenti: prime fra tutte, quelle di tipo economico4. La contingenza delle condizioni di diseguaglianza sostanziale, allora va superata dall’estensione, formale dell’eguaglianza, cosa che in ragione della sua universalità non può essere sottoposta a condizioni. E se ne rese conto anche Hegel, affermando che dal punto di vista giuridico e politico tutti dovrebbero essere considerati persone. Nelle grandi codificazioni europee dell’Ottocento, corposa è stata l’influenza della filosofia politica e giuridica kantiana, per aver Kant contribuito all’idea di una forma di governo che assicurasse una legislazione universale sotto l’osservanza formale del principio di eguaglianza dei cittadini. E così da Kant (almeno dal Kant della prima Critica) è influenzato l’Allgeimenes Landrecht prussiano del 1794, e dai decisivi scritti kantiani dell’ultimo decennio del Settecento (soprattutto dalla Metafisica dei costumi del 1797) è influenzato il Codice civile austriaco (Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch o ABGB) del 1811, così come del resto il Codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch o BGB) del 1900. L’idea è che l’uomo sia protetto nella sua persona, come possessore di una singola identità, giuridica e politica, nel senso che il singolo viene prima della comunità; e questo fa decisamente da collegamento alla ricca tutela, accordata dal diritto civile ottocentesco europeo, al diritto di proprietà. Ma anche l’idea hegeliana di sistema giuridico contribuisce non poco al disegno delle grandi codificazioni: l’idea, cioè, che soltanto come scienza o come sistema, il sapere riesce a proporsi come effettuale, cioè si fa pratico, vero e reale. Il vero è, hegelianamente, l’intero: tutte le parti delle leggi, delle costituzioni, devono essere comprese in 4

I. KANT, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi [1793], trad. di F. Gonnelli, in ID., Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari 19992, 123-161, II, 136-143.


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un sistema, poiché solo il sistema presenta la caratteristica dell’interezza. Se si staccano da un corpus organico, le regole giuridiche diventano lettera morta e fredda, morte immanente e segno di corruttela dei popoli: con ciò la scienza, ricorda Hegel nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, “invece che sullo sviluppo del pensiero e del concetto”, verrebbe collocata “sulla percezione immediata” e approssimativa e “sull’immaginazione accidentale”5. Con il sistema si ha perciò un procedimento astrattivo, la singola norma riscatta la propria determinatezza particolare nel dominio dell’universale. Così, all’alba della grande codificazione europea, il paragrafo 1 del Landrecht prussiano del 1794 statuisce: Der Mensch wird, in so fern er gewisse Rechte in der bürgerlichen Gesellschaft genießt, eine Person genannt 6. L’uomo è chiamato persona in quanto gode di diritti certi nella società civile.

Hegel, che certo condivideva le ragioni profonde che avevano ispirato la prima norma del Landrecht, sapeva che l’uomo [der Mensch] è sì persona in quanto gode di diritti certi nella società civile, ma non è in questa eguale a nessun’altra sul piano economico e sul piano sociale. Fuori dello stato “individui e popoli non hanno ancora [alcuna] personalità” [Individuen und Völker haben noch keine Persönlichkeit]7, perché fuori della dimensione istituzionale essi non giungono ancora a maturare una piena autocoscienza, «questo puro pensare e sapere di sé»8, vale a dire una piena identità. La persona è 5

G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio [1821], con le Aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Roma-Bari 1999, nuova ed. riv. (per le Aggiunte redatte da Eduard Gans, 275-384, trad. di B. Henry), Prefazione, 8. 6 Allgemeines Landrecht fur die Preussischen Staaten von 1794, Textausgabe mit einer Einfuhrung von Hans Hattenhauer und einer Bibliographie von Gunther Bernert, Frankfurt am Main 1970. 7 HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 35, ann., 47. 8 Ibid., 48.


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puro riferimento a sé, e per dare uno spazio esterno alla propria libertà deve uscire da sé e confrontarsi sul terreno della diseguaglianza, quello del possesso9. Non è affatto detto, allora, che l’eguaglianza sia la condizione normale degli individui. E non è affatto detto che quel che permette l’aggregazione interindividuale sia il senso di similitudine: è molto più verosimile che sia quello di differenza. Dovrebbe dunque essere questo senso del differire a rendere necessario l’accordo e possibile il fatto del pluralismo. Ma non è un senso compiuto, e forse non sarà mai pienamente dispiegato: giustificare le condizioni che rendono possibile il pluralismo rientra tra le competenze della filosofia politica. C’è molto da recuperare, al proposito, nell’intuizione di Hegel secondo cui altra eguaglianza non potrebbe esserci, se non quella che affermi l’eguale destino delle diseguali determinatezze: perché in tal modo il problema dell’eguaglianza non viene (a differenza del modello hobbesiano) messo da parte, poiché non è fatto coincidere con il momento impositivo del sovrano, né sacrifica il principio di indisponibilità dei diritti politici. L’eguaglianza non va poi assimilata alla ‘parità’. L’eguaglianza dice che se alcuni individui condividono assieme ad altri un determinato contesto, o una pluralità di contesti, allora ciascuno deve avere diritto allo stesso sistema di libertà degli altri; il non verificarsi di questa condizione genera ingiustizia. La parità invece non guarda al contesto, è un concetto etico: al di là dei contesti di validità, essa mi dice che tutti meritano eguale considerazione e rispetto in quanto portatori della stessa dignità, al di là delle contingenze determinate dalle lotterie naturali e sociali. Senza questo concetto, i differenti non avrebbero nulla in comune. Il problema dell’etica è che, a differenza del diritto, non ha modo di trovare ragioni d’essere in base a norme, ma in base a ragioni di secondo grado, per così dire: ha bisogno di qualcosa che sia costruita sopra il dover essere delle norme, o sopra le strutture cogenti dell’ordine politico e dell’ordinamento giuridico. Perché debba esistere l’etica in politica, è davvero un mistero. Non esistono ragioni suffi9

Ibid., § 49, ann., 56.


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cienti per asserirlo con certezza. Il punto è, tuttavia, che anche quando abbiamo a che fare con l’etica, salta fuori la nostra attitudine normativa, cioè il fatto che, non appena facciamo una scelta di rilievo istituzionale, l’averla sottoscritta è parte del nostro personale giudizio politico su come vorremmo fosse il nostro mondo. Il che implica anche il contrario: il non averla sottoscritta equivale ad averla giudicata incompatibile con qualche nostra concezione del bene. È per questo che quando si parla di etica politica occorre assumere la prospettiva di una teoria orientata alla giustificazione delle istituzioni e delle scelte prese intorno a queste. Una teoria di questo tipo può contenere l’idea del ragionevole, ovvero l’idea secondo la quale le nostre ragioni personali entrano in gioco assieme alle ragioni degli altri, nella prospettiva del kantiano ‘uso pubblico della ragione’. Quando in politica si parla di ‘giustizia’, tante possono essere le risposte. Comunque vadano le cose, difficilmente una definizione politica della giustizia potrà evitare di fare i conti con concetti come ‘eguaglianza’, ‘equità’, ‘parità’. Si consideri ora il progetto teorico di John Rawls mirante a una giustizia come equità, e il contenuto dei due principi di giustizia: l’eguale diritto in ogni persona ad un sistema pienamente adeguato di eguali libertà fondamentali compatibile con un analogo sistema di libertà per tutti, e il fatto che la sussistenza di ineguaglianze economiche sia sottoposta alla condizione di recare beneficio ai soggetti meno avvantaggiati e collegata a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. Il § 22 di Una teoria della giustizia di Rawls è dedicato alle “circostanze di giustizia”. Esse vengono descritte in termini cooperativi: come le «condizioni normali per cui la cooperazione degli uomini è possibile e necessaria»10. Rawls parla di circostanze oggettive, in riferimento al contesto (un territorio spazialmente definito) e alla situazione delle risorse (di scarsità moderata) e circostanze soggettive, in riferimento agli individui in una dimensione sociale (il fatto di conciliare una attitudine cooperativa, all’elemento del pluralismo dei valori: cioè il fatto che essi abbiano tutto sommato interessi e bisogni simili ma anche concezioni del bene 10 J. RAWLS, Una teoria della giustizia [1971], trad. di U. Santini, revisione e cura di S. Maffettone, Milano 19976, § 22, 117-120.


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diverse). Le circostanze di giustizia sono dunque le condizioni di background che necessariamente si collegano alla domanda di regolazione degli assetti sociali, cui Rawls risponde con l’affermazione necessaria dei principi: «È perciò necessario avere dei principi per scegliere tra i vari assetti sociali che determinano questa divisione dei benefici, e sottoscrivere un accordo sulle quote distributive appropriate»11. I presupposti delle circostanze sono i seguenti: le parti sono persone razionali che, anche nella posizione originaria («l’appropriato status quo iniziale che garantisce l’equità degli accordi fondamentali in esso raggiunti»12), sono a conoscenza delle circostanze medesime. Le parti in posizione originaria sono quasi necessitate a optare, dice Rawls, per i due principi di giustizia, poiché questi giocano il ruolo di garanzie contro i rischi delle lotterie (naturale e sociale). La posizione originaria, basata sul velo di ignoranza delle parti, fa sì che i soggetti della scelta siano dotati di eguale libertà, in quanto razionali e reciprocamente disinteressati: le sole informazioni di cui dispongono sono di carattere generale: la richiesta di risorse quali salute, libertà, un reddito dignitoso, certi poteri morali e certe competenze pratiche (attitudini), e anche una certa dose considerazione di se stessi. Questo aggregato di risorse minime è chiamato ‘beni principali’ (primary goods). Il principio qui rilevante è quello del maximin, che serve a massimizzare i vantaggi per le posizioni più svantaggiate (questo punto enfatizza la differenza con l’obiettivo dell’utilitarismo13: massimizzare l’utilità generale a prescindere dalla sorte dei più svantaggiati).

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Ibid., 118. Ibid., § 4, 32. 13 Per ‘utilitarismo’ qui intendo parimenti una teoria della giustizia, ma calibrata sull’eguale considerazione degli interessi e quindi orientata verso una determinata applicazione del principio di eguaglianza. In tal senso, mi riferisco genericamente all’utilitarismo come a un criterio per la comparazione e l’aggregazione degli interessi e dei desideri individuali. Gli interessi dei singoli individui meritano pertanto eguale considerazione perché, dal punto di vista morale, la vita delle persone ha la stessa importanza e quindi ai loro interessi si deve riservare uguale considerazione. Penso quindi a cogliere nella prospettiva dell’utilitarismo politico un criterio di correttezza morale e non un problema decisionale. Se le persone sono eguali, gli interessi sono eguali; dunque, gli atti moralmente corretti sono quelli che massimizzano le utilità. 12


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Quando le parti, cioè soggetti individualmente disinteressati, non riescono a conciliare la similarità di interessi e bisogni con la diversità di concezioni del bene, nasce il conflitto. Non esistendo una comunità perfetta costituita da individui puri e virtuosi (Rawls fa l’esempio della comunità di santi o di eroi), ma situazioni caratterizzate da imperfezione, il conflitto nasce quando gli interessi si scontrano con gli ideali che possono essere incarnati in una precisa concezione del bene. Non esistendo una comunità perfetta, esistono le lacune e i problemi di giustizia. E non esistendo una comunità perfetta, esistono le condizioni di ingiustizia. Per Rawls, la giustizia è «la virtù di pratiche sociali in cui vi sono interessi in conflitto, o in cui le persone si sentono autorizzate a imporre i propri diritti sugli altri»14. La giustizia politica è, essenzialmente, «la giustizia della costituzione», imperniata sul significato centrale di «eguale libertà»15. Il principio dell’eguale libertà, quando è applicato alla procedura politica definita dalla costituzione, verrà chiamato col nome di principio della (eguale) partecipazione. Esso richiede che tutti i cittadini devono possedere un eguale diritto di partecipare e di determinare il risultato del processo costituzionale che stabilisce le leggi che essi devono osservare. La giustizia come equità parte dall’idea che, dove i principi comuni sono necessari e vantaggiosi per tutti, essi devono essere delineati dal punto di vista di una situazione iniziale di eguaglianza opportunamente definita, in cui ogni persona è equamente rappresentata. Il principio di partecipazione applica questa idea della posizione originaria alla costituzione in quanto sistema di grado più alto delle norme sociali per 14 Ibid., 120. Una definizione di giustizia come virtù morale e come equità è quella proposta da R. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano 2003, 298: «Giustizia (come virtù morale) è la disposizione del volere conseguente al giusto sentire, cioè la disposizione a volere per ciascuno il dovuto secondo il suo valore in quanto persona e individuo unico. Data l’universalità di questo valore in assoluto, la virtù della giustizia è essenzialmente equità. Il suo ufficio è quello di prevenire l’arbitrarietà delle preferenze individuali nelle relazioni con sé stessi e con gli altri, vale a dire quello di filtro critico e depuratore nei confronti della propria spontaneità sentimentale». 15 RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., § 36, 191-192.


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produrre norme. Se lo stato deve esercitare una autorità suprema e coercitiva su un certo territorio, e se deve così influenzare in modo permanente le aspettative di vita degli uomini, allora il processo costituzionale dovrebbe conservare l’eguale rappresentatività della posizione originaria, nella misura in cui ciò è possibile16. Il punto è quello di «costruire una concezione della giustizia per un regime costituzionale tale che coloro che sostengono quel tipo di regime o potrebbero essere indotti a sostenerlo possano fare propria anche quella concezione politica, pur avendo visioni comprensive diverse. È così che arriviamo a pensare una concezione politica della giustizia che parta dalle idee fondamentali di una società democratica e non presupponga alcuna dottrina più ampia; e non frapponiamo ostacoli dottrinari alla possibilità che una simile concezione si guadagni il sostegno di un consenso per intersezione ragionevole e duraturo»17. I problemi di ingiustizia politica sono per Rawls, essenzialmente, problemi di diseguaglianza determinati da disfunzioni distributive. La giustizia politica in quanto giustizia della costituzione appare collegata a due elementi: uno strumentale e uno finale. L’elemento strumentale consiste nel fatto che una costituzione debba essere concepita come una procedura giusta. Una procedura è giusta quando è in grado di soddisfare i requisiti di eguale libertà. L’elemento finale consiste nel fatto che la costituzione, tra tutti gli assetti giusti praticabili sia quello più in grado di raggiungere il risultato più probabile. La costituzione giusta è un tipico esempio di giustizia procedurale imperfetta: una giustizia procedurale si dice imperfetta quando appare capace di garantire il raggiungimento di un risultato, ma senza che ciò implichi il considerare le norme giuridiche capaci di conseguire sempre un risultato corretto18. Giustizia politica come ‘giustizia della costituzione’ è quindi per Rawls applicazione del principio dell’eguale libertà intesa anche 16

Ibid., 192. J. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione [2001], trad. di G. Rigamonti, a cura di S. Veca, Milano 2002, 210-211. 18 RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., § 36, 192. 17


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come libertà partecipativa, fondata sulla eguale titolarità delle persone del diritto «di partecipare e di determinare il risultato del processo costituzionale che stabilisce le leggi che essi devono osservare. La giustizia come equità parte dall’idea che, dove principi comuni sono necessari e vantaggiosi per tutti, essi devono essere delineati dal punto di vista di una situazione egualmente rappresentata»19. Questo punto evidenziato da Rawls mi sembra profili un elemento di forte connotazione della giustizia in senso politico, differenziata dalla giustizia in senso giuridico. Esiste più di un elemento di differenza tra ‘giustizia politica’ e ‘giustizia giuridica’, e ritengo che uno di questi sia connesso all’aspetto messo in luce da Rawls e appena esposto: se adottiamo una accezione di ‘giustizia politica’ collegata a condizioni di eguale libertà partecipativa, il sistema è giusto quando viene soddisfatto il test di equità (intesa come corrispondenza tra distribuzione delle risorse e attese degli individui). Non così per l’accezione di ‘giustizia giuridica’, se assumiamo che essa coincida grosso modo con ‘corretta applicazione delle norme’ da parte degli operatori del diritto. L’ambito semantico di ‘giusto’/‘ingiusto’, nel diritto coincide con quello di ‘valido’/‘invalido’, e il sistema è giusto quando viene soddisfatto il test di validità (questo test è superato quando si risponde affermativamente alla domanda ‘esiste un ordinamento’?). Nella giustizia politica, invece, per superare il test (dell’equità) non basta rispondere ad una domanda di carattere ricognitivo: la domanda è più specifica, da ‘esiste un ordinamento?’ a ‘che tipo di ordinamento è?’. Questo interrogativo non è banale, in quanto produce un risultato sul funzionamento del sistema politico. Dal diritto alla politica si verifica anche l’entrata in gioco di una terza dimensione, quella dell’etica. Conoscere una società politica, sapere come è fatta, può significare anche valutarla: si tratterà di vedere se la nostra società politica soddisfi le nostre richieste (di equità, ad esempio; o le nostre preferenze). Il giudizio politico implica una riflessione, e quindi l’adozione di criteri etici. Per questo il funzionamento di una società politica è vagliato da ciò che noi vogliamo o preferiamo, e quindi da quanto abbiamo la possibilità di far valere la

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Ibid., § 36, 192.


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nostra volontà, con tutto ciò che essa richiede: concezioni del bene, valori, ideali, desideri, preferenze20. L’idea della giustizia distributiva è legata a quella di giustizia procedurale pura, che si ha quando non esiste un criterio a sé stante per un risultato corretto, ma esiste piuttosto una procedura equa e corretta in grado di determinare un qualsivoglia risultato equo e corretto. Un esempio presente in Rawls è quello del gioco d’azzardo: «qualunque distribuzione di denaro pari alla somma iniziale posseduta da tutti gli individui può essere il risultato di scommesse eque». Ma l’idea di Rawls è quella di trattare in termini di giustizia procedurale pura il problema delle quote distributive: per essere pura, la giustizia procedurale deve essere a stato finale, deve cioè essere portata a compimento. In questo tipo di procedura, l’obiettivo è assicurare l’assetto della ‘struttura fondamentale’, cioè «un sistema pubblico di regole il quale definisce uno schema di attività che induce gli uomini ad agire insieme in modo da produrre la maggiore quantità di benefici, e che assegna a ciascuno certe pretese riconosciute a una quota di prodotti»21. Alla giustizia procedurale pura risultano indifferenti i mutamenti, le mutevoli posizioni relative agli individui: l’accettazione dei due principi di giustizia «stabilisce un’interpretazione che scarta come irrilevanti per la giustizia sociale buona parte dell’informazione e delle complicazioni della vita quotidiana»22. Il sistema della giustizia procedurale pura si incardina nel complesso edificio rawlsiano, non ha la pretesa di funzionare da solo: «le nozioni di struttura fondamentale, velo di ignoranza, ordinamento lessicale, posizione meno favorita e anche quella di giustizia procedurale pura» sono elementi che si integrano l’uno con l’altro «così da fornire una ragionevole concezione della giustizia«; non è possibile pensare che «nessuno di essi funzioni di per sé, mentre possono essere sufficienti se considerati insieme»23. 20 Per un approfondimento di questo problema, F. SCIACCA, Filosofia dei diritti, Firenze 2010. 21 RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., § 14, 84. 22 Ibid., 87. 23 Ibid., 88. Ricordo l’enunciazione rawlsiana dei due principi di giustizia, ibid, § 11, 66: «Primo: ogni persona ha un eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri. Secondo: le ineguaglianze


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Secondo la giustizia procedurale pura, le distribuzioni di vantaggi non vanno ponderate con il test dei benefici o delle aspettative collegate ai bisogni degli individui. Tale distribuzione ha invece luogo, deve cioè avvenire, secondo un sistema pubblico di regole (la basic structure), ciò che quindi determina quel che si produce, come e quanto. È chiaro che l’utilitarismo cozza contro questa idea di giustizia procedurale pura, dato che il calcolo utilitaristico prevede «uno standard indipendente per giustificare tutte le distribuzioni»24. Le istituzioni sono perciò «assetti più o meno imperfetti per ottenere questo scopo». Poiché tali arrangements «sono soggetti agli inevitabili vincoli e difficoltà della vita quotidiana, la struttura fondamentale è un caso di giustizia procedurale imperfetta»25. L’utilitarismo non conta le persone, ma, in funzione del calcolo, conta frazioni di persone26. Invece, il principio di differenza enunciato da Rawls al § 13 di Una teoria della giustizia non prevede un calcolo basato sul benessere, né una ricerca dei nostri giudizi su di esso: «non è necessario sapere di quanto [un individuo] preferisce una situazione rispetto a un’altra»27. Secondo il principio di differenza, se «assumiamo come data la struttura delle istituzioni richiesta dall’eguale libertà e dall’equa eguaglianza di opportunità, le aspettative di coloro che sono in una situazione migliore sono giuste se solo se funzionano come parte di uno schema che migliora le aspettative dei membri meno avvantaggiati della società»28. Come osserva lo stesso Rawls rievocando Reason and Society di George Santayana29, anche una condizione di aristocrazia naturale potrebbe soddisfare il principio di differenza. Santayana infatti aveva sostenuto che anche un sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere (a) ragionevolmente previste a vantaggio di ciascuno; (b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti». Una trattazione analitica dei principi di giustizia e delle successive riformulazioni può leggersi in R. ALEXY, La teoria delle libertà fondamentali di John Rawls [1997], trad. di A. Castelli e F. Sciacca, in F. SCIACCA (cur.), Libertà fondamentali in John Rawls, presentazione di S. Veca, Milano 2002, 1-36. 24 RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., § 14, 88. 25 L.c. 26 Ibid., § 15, 89. 27 Ibid., 90. 28 Ibid., § 13, p. 77. 29 G. SANTAYANA, Reason and Society, New York 1905, 109-110.


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regime di aristocrazia naturale può essere giustificato in termini di distribuzioni di vantaggi, sulla base del fatto che se coloro che stanno meglio ricevessero di meno, ciò produrrebbe un danno anche per i meno avvantaggiati. Il principio di differenza è fortemente egualitario: è «da preferirsi una distribuzione eguale a meno che non ne esista un’altra che fa stare meglio entrambi»; a prescindere «da quanto venga migliorata la situazione di uno dei due, non c’è guadagno secondo il principio di differenza a meno che anche l’altro non si avvantaggi»30. Ed è fortemente cooperativo: nella sua riformulazione dell’idea di giustizia come equità, Rawls osserva che «noi postuliamo che la cooperazione sociale sia sempre produttiva e che senza di essa niente sarebbe prodotto e non ci sarebbe niente da distribuire». Il gruppo più avvantaggiato (GPA) e il gruppo meno avvantaggiato (GMA), «che nella figura della Teoria erano x1 e x2, sono dei rappresentanti […] di due gruppi […] impegnati nella cooperazione produttiva». «Uno schema di cooperazione, è determinato in gran parte dal modo in cui le sue regole pubbliche organizzano l’attività produttiva, specificano la divisione del lavoro, assegnano i vari ruoli a coloro che cooperano e via dicendo»31. Anche i sentimenti morali sono tali se possono essere indicatori di un sistema morale di riferimento, vale a dire di «principi che appartengono a parti diverse della moralità»32. Così, non è un sentimento morale l’invidia, che non ha alcuna attitudine cooperativa ed è socialmente svantaggiosa: è solo una forma di «rancore che tende a danneggiare sia il proprio oggetto sia il proprio soggetto»33. C’è qualcosa di molto kantiano in tutto questo. In effetti, Kant annovera l’invidia [Neid] tra i «vizi della misantropia [Lastern des Menschenhasses] opposti direttamente alla filantropia»: «L’invidia (livor), quale tendenza a scorgere con dolore il bene degli altri anche quand’esso non reca nessun danno al nostro proprio bene, tendenza che, quando si traduce in un atto pratico (quello di diminuire questo bene), si chiama invidia qualificata, ma che altrimenti è unica30 31 32 33

RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., 78. ID., Giustizia come equità. Una riformulazione, cit., 69 e 71. ID., Una teoria della giustizia, § 74, 396-397. Ibid., § 80, 434.


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mente gelosia (invidentia), è un sentimento soltanto indirettamente malvagio, vale a dire è un risentimento nel vedere il nostro proprio bene messo all’ombra dal bene degli altri, dipendente dal fatto che noi sappiamo apprezzare il nostro benessere non secondo il suo proprio valore interiore, ma soltanto secondo il paragone che facciamo con il bene degli altri, e che soltanto a questo modo noi ce ne rendiamo sensibile l’apprezzamento. Ed è perciò che, parlando della buona armonia e della felicità di un matrimonio, di una famiglia e simili, si dice che sono degni d’invidia, come se fosse permesso in certi casi invidiare qualcuno. I moti dell’invidia stanno dunque nella natura dell’uomo, ed è soltanto lo scoppio palese di questo sentimento che lo fa degradare nell’odioso vizio di una passione accorata, che finisce col martirizzare chi la prova, e che tende, almeno nel desiderio, a distruggere la felicità degli altri; in conseguenza è contraria tanto al dovere verso se stessi quanto al dovere verso gli altri»34.

L’invidia, per fortuna, non rientra tra i sentimenti morali perché, come direbbe ancora Aristotele, fa parte di quelle azioni e di quelle passioni che non accolgono dentro di esse alcuna medietà, ovvero quello stato abituale che produce scelte razionali: cose che «sono biasimate per essere ignobili a se stesse, e non i loro eccessi né i loro difetti»35.

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I. KANT, La metafisica dei costumi [1797], trad. di G. Vidari, riv. da N. Merker, Roma-Bari 19892, II, § 36, 328-329. 35 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, II (B),1107a. Ed. it. a cura di C. Natali, con testo a fronte, Roma-Bari 20012, 63-65.


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IDENTITÀ RELAZIONALE

LUCA SARACENO*

INTRODUZIONE «Ogni qual volta parliamo di identità, nel fondo della nostra mente si affaccia un’immagine sfocata di armonia, logica, coerenza, tutte quelle cose di cui il flusso della nostra esperienza sembra così abominevolmente priva. La ricerca di identità è l’incessante lotta per arrestare o rallentare il flusso, di solidificare il fluido, di dare forma all’informe»1.

Una sfida e una speranza credo siano sottese e latenti dentro a questa espressione del noto sociologo e filosofo Zygmunt Bauman. Una sfida, anzitutto: il riemergere di un autentico desiderio di identità come reazione alla fluidità del ripetitivo, del qualunque e dell’anonimo, o se vogliamo secondo una triplice scansione hedeggeriana, come resistenza all’inautenticità del ‘si’ (man) nei modi della chiacchiera, dell’equivoco e della curiosità, dentro a un contesto culturale in cui il baricentro del soggetto dalla riflessività del sé sembra sempre più essersi spostato alla serialità della sua gestualità, alla dispersione delle sue intenzioni, alla frammentarietà dei suoi rapporti. Un ricentrarsi sull’identità come risposta dunque al tentativo di abitare l’immagine virtuale di sé piuttosto che di vivere la reale concretezza dell’io; un tentativo di riscrivere lo statuto relazionale dell’identità dell’uomo dei giorni nostri, oggi avvertita sempre più come “identità senza legami” (Z. Bauman)2. Ma al contempo una speranza: che tale ripresa della * 1 2

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Z. BAUMAN, Modernità liquida, tr. it. S. Minucci, Roma-Bari 200814, 88. «L’identità è un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica e ci


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categoria di identità non sia per una contrapposizione ingessata e informe, anche se quanto mai attuale, con la diversità dell’identità altrui3, ma che ad essa si relazioni per un circolare riconoscimento che consenta una più intima e reciproca comprensione del sé. Quali i modi dell’identità? Ogni domandare è possibile solo nella condizione mediana tra un assoluto sapere e un’illimitata ignoranza. La domanda nasce sempre da una socratica sapienza in fieri, mai intesa come possesso e sempre come cammino di ricerca: se poniamo così al centro del nostro convenire la domanda sull’identità e i suoi modi è perché ne abbiamo una qualche conoscenza anche se ci sfugge la comprensione piena del suo statuto. La domanda emerge in fondo quando ciò che pensavamo potesse significare la valenza di un termine, questo viene messo sotto scacco dalla confusione delle molteplici interpretazioni, avvertendo così il bisogno di chiarirne i contorni labili e incerti. Potremmo allora ravvisare già nel titolo del nostro Convegno un desiderio inespresso: imparare l’arte d’essere sé stessi, di diventare un io, proprio perché non pienamente si comprende di esserlo. Filosoficamente si può approdare all’identità puntando alla sua definizione, oppure, ed è a questo complementare, guardando al farsi, al divenire dell’identità, ben sapendo che il modo migliore per darne una definizione è rappresentato dalla ricerca del “come” si costruisce nell’attualità un’identità, del come un soggetto si renda riconoscibile si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora; anche se questo statuto precario e perennemente incompleto dell’identità è una verità che, se si vuole che la lotta vada a buon fine, dev’essere, e tende ad essere, soppressa o laboriosamente occultata» (Z. BAUMAN, Intervista sull’identità, Bari 20099, 13). 3 «Le identità sono fluttuanti, ma c’è sempre qualcuno che le usa come pietre per scagliarle contro gli altri, per difendere i propri interessi. Se è vero, come afferma Noam Chomsky, che una lingua è un dialetto con un esercito alle spalle, anche l’identità, nata come finzione aveva bisogno di un gran dispiegamento di coercizione e convincimento per irrobustirsi e coagularsi in una realtà; e nella storia della nascita e della maturazione dello stato moderno questi due elementi abbondano. Creare identità significa anche negarle agli altri, agli esclusi» (l.c.).


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descrivendo i modi in cui esso acquisisce un volto (prosopon), diventa cioè persona: è mediante la descrizione di questi diversi modi di acquisizione che è dato di avere una evidenza concreta di che cosa sia l’identità, risultato che nessuna definizione difficilmente potrebbe raggiungere. Cercherò di delineare brevemente entrambi gli approcci, quello cioè che partendo dalla definizione ne delinea la caratterizzazione e il secondo che analizza l’identità a partire dai suoi modi, dal momento che il come, la modalità, rappresenta il luogo espressivo e rivelativo dell’identità. E, simmetricamente, credo non si debba trascurare come ogni modalità presupponga l’individuazione di uno o più luoghi che ne determinino proprio la sua caratterizzazione. La tesi di fondo di questo mio intervento è che il modo più proprio e natio dell’identità sia la relazione e che tale modo sia la caratterizzazione di alcuni luoghi antropologici di più marcata dicibilità filosofica. L’identità sta a fondamento del come della relazionalità e nella relazione l’identità trova il suo spazio di riconoscimento. Quattro brevi passaggi: l’identità, l’identificarsi dell’identità, l’identità identificata e la reciprocità del riconoscimento.

1. IDENTITÀ, OVVERO ETIMOLOGIA DI UN PARADOSSO Tenendo per certo quanto Aristotele andava affermando, che cioè «il ‘ciò che è’ (tode ti) è inafferrabile», il solo nominarlo è già tradirlo, tentiamo una definizione preliminare della categoria di “identità” nella consapevolezza di non poterne raggiungere, né tanto meno possedere, un senso pieno. Tre brevissime considerazioni filosofiche. 1) Il concetto di identità si riconduce a quello di unità, il quale comprende due aspetti: in-divisione intrinseca e distinzione da ogni altro: “ogni ente è se stesso e non altro” (unum est indivisum in se et divisum a quolibet alio). Il concetto di identità suppone quindi il concetto di essere, concetto assolutamente primo e indefinibile, e l’esperienza di una diversità. Ogni concezione dell’identità si fonda perciò su questi due elementi: anche la più radicale riduzione di ogni


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realtà all’identità di un unico essere, come quella di Parmenide o di Spinoza, non ha senso se non in funzione di una molteplicità da negare; e anche la più radicale negazione dell’identità di un unico essere, come può essere quella dell’assoluto empirismo di Hume che negava all’io una unità sostanziale riducendo l’identità personale a “fascio di percezioni”, non ha senso se non in funzione di una unità da negare. Così se l’uomo avesse esperienza di un ente solo, avrebbe sì il concetto di essere, ma non quello di uno e identico; e se viceversa i dati molteplici non fossero concepiti come ente, non si potrebbe nemmeno avere consapevolezza della loro molteplicità e diversità4. 2) Nel concetto di identità, l’aspetto dell’indivisione designa etimologicamente la negazione della negazione. Che ogni ente sia indiviso significa che ogni ente è non non-uno. Ogni ente, nella misura del suo essere, è identico a sé stesso, ossia nega la propria negazione. Logicamente ogni concetto si determina come tale negando il suo opposto (ricordando la spinoziana affermazione: omnis determinatio negatio est). Se questo è vero, e cioè che l’identità è negazione della negazione (io sono non non-io), essa è una relazione negativa, mediata, cioè tale da includere in sé stessa la negazione del proprio altro. L’essere è sé stesso in quanto include la opposizione assoluta al non essere: parimenti in modo derivato questo vale per l’identità di ogni ente. Si può formulare la stessa idea dicendo che ogni identità implica sempre la differenza. Così anche il principio di identità non può valere isolatamente senza il principio di non contraddizione5. Ecco così guadagnate due verità fondamentali sull’identità, indispensabili per il prosieguo della argomentazione: l’identità implica insieme e il concetto di uno e di diverso e nel suo essere uno è inclusa altresì la realtà negativa di una relazione implicitamente affermata. La relazione con la differenza sembra così essere già contenuta nello statuto dell’identità.

4 Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Elementi di filosofia, II, Brescia 199915, 28-54; ID., Identità, in Enciclopedia Filosofica, 6, Milano 2006, 5470s. 5 Cfr. A. MOLINARO, Metafisica, Cinisello Balsamo 1994, 94s.


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Potremmo sintetizzare questo iniziale breve percorso con quell’espressione hegeliana che afferma: «[…] sotto un unico e medesimo riguardo, l’oggetto è piuttosto il contrario di se stesso: è per sé in quanto è per altro, ed è per altro in quanto è per sé»6. Che l’ente sia contrario non va però inteso nel senso dell’identità assoluta, bensì nel senso della relazione. L’ente è il suo contrario in quanto è a un tempo per sé e per altro. L’identità relazionale spiega così da una parte l’unità del soggetto riconosciuta tale a partire dalla relazione con l’alterità dell’altrui identità e dall’altra la relazionalità del soggetto resa possibile solo a partire da un’identità permanente. Ogni realtà è se stessa in forza della sua identità essenziale ma questa a sua volta ha un legame con ciò che essa non è e a partire da questa si riconosce. 3) Infine il concetto di identità è strettamente legato, così da com’è emerso nei brevi passaggi sopra formulati, con l’unità della sostanza. Identico è ciò che è uno nella sostanza pur nella molteplicità e nella successione delle sue determinazioni accidentali. Così si dice che un uomo resta identico pur nella diversità dei suoi pensieri, atteggiamenti, relazioni, ecc.. Di contro non possiamo dire che l’unità di un carattere o di un complesso di caratteri comuni a più sostanze costituisca propriamente un’identità. La concezione di identità è strettamente legata a quella di sostanza e da essa dipende. Occorre pertanto guadagnare quest’altra verità. Tre testi aristotelici. a) Nella Metafisica Aristotele afferma che il soggetto individuale è la ousia, ciò che appartiene solo a se stesso e che non può inerire ad altro, è il titolare di una serie di proprietà e come tale è il punto di riferimento di ogni attribuzione, il centro in rapporto al quale è detta ogni altra cosa e dal quale dipende ogni altro significato della realtà. La sostanza di ogni individuo è quella propria (idion) di ciascuno, dal momento che «l’ousia non appartiene a nessuno se non a sé stessa e a chi la possiede»7. Così occorre intendere la sostanza «secondo due significati: (a) ciò che è sostrato ultimo, il quale non viene più predicato di altra cosa 6 7

F.W. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, tr. it. De Negri, I, Firenze 1960, 104. ARISTOTELE, Metafisica, 1038 b 10s; 1040 b 23 s.


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e (b) ciò che, essendo un alcunché di determinato, può anche essere separabile, e tale è la struttura e la forma di ciascuna cosa»8. Per l’Aristotele della Metafisica, così, la sostanza non è relata: non esiste cioè cosa alcuna che abbia esistenza indipendente se non la sostanza, appunto. Solo la sostanza esiste per se stessa: essa è puro inizio e pura fine. b) Anche nella Fisica Aristotele afferma che solamente le sostanze ci sono o non ci sono: sono puro inizio e unica è la loro fine. Per Aristotele tutto è individuale. Ma subito dopo aver affermato che l’essere divenuto in senso assoluto è proprio delle sostanze, aggiunge: «ma apparirà evidente a quanti prendono in esame la cosa che anche le sostanze, e tutto ciò che si dice in senso assoluto, divengono a partire da un certo sostrato. Sempre infatti deve sussistere qualcosa che fa da sostrato e partire dal quale diviene ciò che viene ad essere, come ad esempio le piante e gli animali dal seme»9. Due mi sembrano le sottolineature possibili da marcare in questa espressione. La prima è la relazione tra l’essere e il divenire: la permanenza dell’identità sostanziale presiede al divenire dell’alterità dei suoi atti, ma la comprensibilità della prima resta possibile dalla visibile esplicazione dei secondi. Tale circolarità evidenzia il fecondo rapporto tra l’ontologia e la gnoseologia. La seconda sottolineatura è che anche l’assolutezza singolare della sostanza non può essere un puro inizio: essa rientra nella catena delle relazioni. Così nel momento in cui Aristotele tematizza l’assolutezza del singolare, afferma anche che il singolare non può essere autosufficiente come non lo sono piante, uomini e animali. Nessun inizio è puro, non lo è in natura, ancora meno nelle relazioni umane. Dunque l’identità è vista nell’aspetto della singolarità, ma ciò che viene ad essere entra nell’ordine di un divenire che ne dispiega tutta la sua individualità. Anche ciò che è singolarissimo non può essere separato. Ovvero: nessun ente né naturale né umano, seppur singolarissimo in quanto sostanza e dunque individuo, è autosufficiente.

8 9

ID., Metafisica, 1017 b 23s. ID., Fisica, I, 190 a ss.


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La realizzazione dell’identità non può essere data se non attraverso la relazione con gli altri. c) È questa la grande lezione che emerge con chiarezza soprattutto nel terzo grande scritto aristotelico, l’Etica nicomachea. Il principio di identità (A=A) vale ovviamente anche per l’identità sostanziale dell’uomo, ma questi come identità è chiamato a identificarsi, cioè a farsi idem, divenire se stesso, in altre parole a diventare identico. Nell’Etica appare chiaro che l’uomo diviene sé medesimo, fa se stesso, diviene identico a se stesso nella misura in cui esercita l’abitudine della virtù, abita le scelte, la vita politica, la felicità come fine ultimamente coincidente col bene, il raggiungimento della giustizia, le relazioni di amicizia10. Ad esempio contro il sostenitore dell’autosufficienza della felicità (eudaimon) Aristotele inizia osservando che la felicità non è per l’uomo una sorta di possesso (ktema)11. Infatti il solo possesso della virtù non è sufficiente perché l’uomo possa vivere in modo felice, ma la felicità è piuttosto una attività (energheia), e l’attività è evidentemente un divenire, ossia la realizzazione di una potenza. La vita buona per Aristotele esige che le disposizioni virtuose escano dalla condizione di mera potenzialità e trovino la loro realizzazione nell’attività: in assenza di questa attività anche la migliore disposizione di carattere resterebbe gravemente monca, al punto che la persona del tutto inattiva, una persona ad esempio che trascorra tutta la vita dormendo «nessuno la riterrebbe felice se non per amore di tesi»12. Dunque senza l’energheia anche la migliore disposizione di carattere resta incompleta perché a differenza della mera potenzialità solo l’atto sta dal lato del sapere. La sola possibilità d’essere felici non consente la conoscenza di me né tanto meno della felicità medesima: è l’esperienza della felicità che a tale sapere conduce. 10

«Si ritiene che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione a un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce una vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, ai figli, alla moglie e in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità» (ID., Etica nicomachea, I, 7, 1097b 8 s.). 11 Cfr. ID., Etica, I 7, 1097 a 15 s. 12 ID., Etica, I 3, 1095 b 32 s.


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2. L’IDENTIFICARSI DELL’IDENTITÀ, OVVERO L’IDENTITÀ ESISTENZIALE La metafisica aristotelica, che è andata sviluppando l’idea di identità a partire dalla categoria di sostanza, è anche il linguaggio col quale la tradizione occidentale ha parlato per secoli di “persona”, quel linguaggio che a partire dalla celebre definizione di Boezio (480524) dice della persona come della individua substantia di una natura rationalis13. Il merito di questa definizione è stato di fondare sul livello della sostanza la consistenza ontologica dell’individuo ed ha in questo modo posto in luce il carattere del tutto unico e incomunicabile dell’essere personale. Quando diciamo dell’essere umano come “persona” lo facciamo per caratterizzare l’unicità di un compimento individuale della vita umana, il modo singolare e irripetibile col quale la natura razionale si compie individualmente: una persona è appunto la sostanza individua di una natura razionale. Sotto questo aspetto la definizione boeziana resterà alla base della tradizione medievale. Con tale concezione Boezio, e l’intera tradizione che si ispira al suo nome, hanno inteso garantire e onorare la consistenza e l’unicità ontologica dell’individuo, il suo essere originariamente in sé, la sua originaria aptitudo ad subsistentem in se come la chiama Duns Scoto, una aptitudo rispetto alla quale la relazione con l’altro subentra solo in un secondo momento e quindi conformemente alle categorie aristoteliche, come una modalità accidentale14. Al carattere sostanziale della persona corrisponde anzitutto il legame dell’individuo con ciò che gli è originariamente proprio, l’appropriazione originaria di sé e con ciò la sua incomunicabile soggettività. Di “incomunicabilità” parla appunto Tommaso, di “ultima solitudo” parla Scoto. Ci chiediamo, però, come tale concezione possa coniugarsi con il tratto costitutivo dell’essere relazionale della persona — che in altre

13

BOEZIO, De persona et duabus naturis in Cristo, III, PL 64, 1345. «[…] la relazione, fra le categorie, è quella che ha meno essere e meno realtà ed è posteriore alla qualità e alla quantità […]» (ARISTOTELE, Metafisica, 1088 a 22 s.). 14


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pagine Aristotele ben disegna — quando ad esempio abbiamo visto che nell’Etica parla della felicità o della amicizia? Perché per noi vale l’idea reale che l’accesso all’unicità e alla singolarità della nostra esistenza non avviene prima o senza il rapporto con l’altro. Essere-persona come ha osservato Robert Spaemann15 significa che ogni individuo nella totalità dell’universo che egli occupa, ha un posto unico e insostituibile, un posto definito esattamente solo attraverso di lui; nessuno di noi può tuttavia avere il proprio posto senza uno spazio nel quale altri individui abbiano il loro, ed è solo in questo originario spazio di relazione che scopriamo noi stessi come persone: «il nostro essere-persona non ci è dato prima dell’essere-persona dell’altro». «Per questo l’idea che possa esserci al mondo un’unica persona ci risulta in fondo impensabile: persona è in effetti un nome che noi possiamo declinare solo al plurale»16. Di questa declinazione tuttavia la tradizione teologica del cristianesimo è stata sempre consapevole. È un compito questo che tra gli altri è stato assolto con grande lucidità da Riccardo di San Vittore (ca. 1110-1173) nel IV libro del suo De Trinitate17. Nella critica che rivolge alla ormai celebre definizione di Boezio, Riccardo inizia osservando come l’inadeguatezza di tale definizione emerga già dal fatto che essa si addice all’unica essenza divina più che alle singole persone che in essa sussistono; è l’unica essenza divina, infatti, che dev’essere intesa nel senso della ousia prima di Aristotele e quindi come unica sostanza individuale; questa tuttavia esiste in modo tale che le Persone che la realizzano la trasmettono l’una all’altra ed è solo in tale processo di “donarsi” e del “riceversi”, come scrive Riccardo, che i singoli Soggetti divini hanno la loro realtà. Pertanto per Riccardo di San Vittore la singularis proprietas che si addice in modo unico e incomunicabile alle singole persona divine è in realtà il proprium di

15 Cfr. R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’, tr. it. a cura di L. Allodi, Roma-Bari 20072, 191-208. 16 E. PEROLI, L’altro se stesso. Sulle origini dell’idea di persona, in Hermeneutica (2006) 23. 17 RICCARDO DI SAN VITTORE, De Trinitate, tr. it. a cura di M. Spinelli, La Trinità, Roma 1990, 188.


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una relazione, è il modo rispettivamente unico col quale ciascuna di esse è in rapporto con le altre. La concezione boeziana resta così decisamente insufficiente, perché il concetto aristotelico di substantia rinvia sempre ad un originario essere-per-sé e quindi in qualche modo ad una irrelatività. L’identità invece dei singoli soggetti divini dev’essere concepito come e-vento per essenza interpersonale; è in questo senso che Riccardo può osservare che «le proprietà delle singole persone donano loro non di sussistere in se stesse, bensì di ex-sistere. Ecco perché è più esatto parlare delle persone in termini di ex-sistentia piuttosto che di substantia» (IV 20, 943 d). Diversamente dalla nozione di substantia infatti, l’ex-sistere nell’accezione qui voluta da Riccardo indica etimologicamente un consistere che manifesta in sé una originaria relazionalità e rinvia pertanto a quel carattere ek-statico dell’essere personale per il quale una persona può essere pensata solo in relazione ad altre persone e quindi al plurale: è per questo che il Dio personale dev’essere concepito come il Dio tri-personale. Dunque la persona divina è in sé evento per essenza interpersonale. A me interessa qui far notare come questa concezione abbia altresì offerto un impulso per chiarire l’identità relazionale nella quale consiste anche l’essere dell’uomo, conseguenza a cui nemmeno lo stesso Riccardo pensava di giungere. Questa è del resto la lezione che la teologia del IV secolo sembra ricavare dal racconto sacerdotale della creazione dove l’enigmatico plurale dell’interlocuzione divina, facciamo l’uomo18, viene interpretato coma una manifestazione ad extra dell’unità in sé relazionale, dell’essenziale comunione trinitaria dell’unico fondamento divino in modo tale che la somiglianza con Dio alla quale l’uomo è chiamato a partecipare viene ora anzitutto vista consistere anzitutto nella sua destinazione ad una vita di comunione. Così se persona è un nome che possiamo declinare solo al plurale, il plurale di questa declinazione è inscritta e inabita sin dall’inizio nella costituzione ontologica dell’essere umano, in modo tale che l’unicità e la singolarità di ogni essere personale trovano il loro senso solo in un destino di relazione. L’identità diviene, si fa identica nel cammino di relazione. 18

Gen 1,26.


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3. IDENTITÀ IDENTIFICATA, OVVERO I LUOGHI DELL’IDENTITÀ Con il termine ex-sistentia dunque è salvaguardata sia la consistenza (sistere) della persona, sia il suo riferimento costitutivo a un’unica sostanza, la sua scaturigine, il suo ex-sistere appunto. Il termine ‘esistere’ esprime non solamente il possesso dell’essere ma anche la sua provenienza dall’esterno, cioè il fatto che si possiede l’essere da qualcun altro. Ciò infatti è reso evidente, nel verbo composto, dalla preposizione ad esso aggiunta. Che cosa significa infatti ex-sistere se non sistere ‘da’ qualcuno, cioè aver ricevuto il proprio essere individuale da qualcuno? Coniugata con l’idea dell’umana ragione, il termine esistenza designa in questa il compito o il destino d’essere memoria di un’origine che infinitamente la supera: un esistere che esiste da e per un’ultima sostanza. In quel bellissimo adagio kierkegaardiano de La Malattia mortale, l’io è inteso dal filosofo danese come quel «rapporto che mettendosi in rapporto con se stesso e volendo essere se stesso, si fonda trasparente nella potenza che l’ha posto»19. Dunque l’identità come rapporto che può relazionarsi alla diversità dell’altrui identità a partire da una propria inalienabilità, irripetibilità e singolarità. Traccio le linee di quelli che ritengo essere solo alcuni dei luoghi-simbolo di tale indivisibile organicità, riconoscendo questi come tre spazi antropologici che dispiegano l’identità e che, nel consegnarsi alla relazione con l’alterità, vivono altresì l’esito incerto di una possibile ambiguità. a) Il desiderio, forma della libertà20. Il primo luogo rappresentativo della dinamica fondamentale dell’identità come relazione è il desiderio. Il desiderio è ciò che trasforma, secondo la ben nota distinzione jasperiana, il Dasein (realtà dell’uomo nell’insieme delle sue modalità e dei suoi bisogni puramente esteriori) in Existenz (esserci come capacità di libertà, di

19 20

S. KIERKEGAARD, Malattia mortale, tr.it. M. Corssen, Milano 200111, 158. Cfr. C. VIGNA, Per un’etica del desiderio, in Hermeneutica (2001) 17-40.


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decisione e di vita autentica)21. Il desiderio è hegelianamente espansione di sé, ma anche insufficienza a se stessi. Non desidereremmo se fossimo compiuti e per questo il desiderio è l’iscrizione in noi della necessità di realizzarci unicamente verso l’altro. Il desiderio dice che non mi realizzo se non attraverso l’altro perché da solo non mi basto. Il desiderio vive così nella mediazione del rinvio, nella ricerca di un assoluto compimento di senso. Ma qual è l’oggetto del desiderio? Il desiderio sa che non può essere appagato da qualcosa di determinato: il desiderio cerca un oggetto che non lo neghi come desiderio, e questo oggetto è l’altro come soggetto, ossia un altro essere umano. Solo l’altro come soggetto è una realtà che non è racchiusa nella determinatezza, almeno perché e in quanto se ne predica la trascendentalità. «La soggettività non si apre come soggettività desiderante se non è realizzazione del desiderio della soggettività altra»22. Si staglia così l’ambiguità della natura desiderante dell’identità. Si può per un verso ridurre la soggettività desiderante altrui a oggetto determinato: l’altro può cioè essere ridotto a oggetto della propria soddisfazione. L’esito drammatico è la sua perpetua insoddisfazione (es. Don Giovanni di Mozart, sempre affamato e sempre solo) perché l’oggetto in quanto termine del proprio desiderio non esaurisce ma acuisce il desiderio stesso. Dall’altro il soggetto può muovere il proprio desiderio come attenzione per l’altro in quanto altro, volendo l’altro nella prossimità ma lasciandolo essere nel suo essere altro: è la forma più alta di relazione, perchè è crescita senza distruzione, reciprocità e servizio. Da qui la coniugazione perfetta tra dilectio e delectatio: ho il piacere dell’altro in quanto mi sta a cuore23.

21

Cfr. K. JASPERS, Filosofia, tr.it. a cura di U. Galimberti, Torino 1978, 470. Ibid., 25. 23 Cfr. S. NATOLI, Persona: cura di sé e relazione con gli altri, in Hermeneutica (2006) 29-41. 24 «Tutta la corporeità dell’altro è intrisa di intenzionalità trascendentale: il suo muoversi, il suo atteggiarsi, il suo molteplice modo di stare al mondo sono da noi vissuti, cioè esperiti, come un rimando permanente ad un centro di soggettività che non 22


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b) La corporeità, prospettiva situata24. L’uomo è sempre una identità situata, “gettata” in uno spazio e in un tempo ben determinati. L’uomo è identità corporea, è presente in un corpo di cui ha cognizione oggettiva (io ho un corpo come oggetto tra altri oggetti nel mondo: Körper) e cognizione soggettiva (io sono un corpo, coscienza senziente che vive il corpo come proprio: Leib). L’identità corporea è da intendersi come il “punto zero” (E. Husserl), come il fuoco, il principio di riferimento per ogni rapporto all’essere. L’uomo, corporalmente situato in uno spazio e in un tempo precisi, è apertura di conoscenza sempre prospettica a partire da un qui e ora. Ma è punto zero anche in quanto resta a sé stesso come opacità inoggettivabile, una «ombra che sta al centro» (G. Marcel). Il punto zero, infatti, proprio in quanto punto di riferimento, non può essere messo a distanza: il punto zero è pertanto condizione di senso ma insieme punto cieco a sé stesso, incapace di vedersi: impossibile riflessione sul sé, dunque. Per farlo occorrerebbe sollevarsi al di sopra delle proprie condizioni, ma queste continuerebbero a condizionarci mentre noi cerchiamo di giudicarle. Il circolo potrebbe diventare virtuoso ove due o più prospettive appartenessero nello stesso tempo alla medesima identità: l’una potrebbe trascendere l’altra e insieme valutarne la verità. Tale sembra essere la condizione della visione descritta dall’autore del libro dell’Apocalisse25 dove si parla dei quattro esseri viventi dalle ali cosparse di occhi. L’indigenza del proprio sguardo esige così l’incontro con lo sguardo degli altri, unico che può restituire al sé la verità della propria identità: è l’incontro dei volti (Adamo si riconosce a partire dallo sguardo prospettico di Eva). Anche questo secondo luogo antropologico vive il rischio di un esito incerto nella forma dell’ambiguità. L’altro infatti resta irragè oltre l’immediatezza dell’apparire o non è solo oltre. L’altro è anche lì, come incarnato, e quindi presente, pur essendo in qualche modo condizionato, nel rapportarsi, dalla corporeità in cui abita» (C. VIGNA, Per un’etica, cit., 24). Cfr. V. MELCHIORRE, Corpo e persona, Genova 19973, 37-91. 25 Ap 4,8.


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giungibile e pur sempre esposto al fraintendimento o alla riduzione nel suo aspetto più oggettivabile. È su questa base ad esempio che fiorisce l’angoscia analizzata da Sartre ne l’Essere e il nulla: lo sguardo dell’altro potrebbe assumerci nella sola oggettivabilità del nostro esserci, cosa fra le cose, oggetto fra gli oggetti. Dall’altra il felice guadagno di darsi dell’altro in quanto soggetto e rinunziare alla pretesa di raggiungerne l’origine o, quel che è peggio, di voler possedere il suo punto di vista sul mondo. Riconoscersi come soggetti significa accogliersi reciprocamente quali aperture diverse sul mondo, portatori ognuno d’un senso proprio o d’una propria indeclinabile visione sull’essere. La rinunzia a raggiungere l’altro nella sua ipseità costituisce la concreta possibilità di non tentarne il possesso e di porsi di fronte alle sue espressioni corporee come di fronte a un incessante rinvio di significati. c) Il linguaggio, pensiero che agisce. «La lingua è lo spazio significante in cui ognuno è innato e per mezzo di cui viene formato»26. La parola dunque come spazio significante non è che gesto esteriore di una coscienziale intelligibilità. La parola è atto di sintesi del pensiero e capacità di ricomposizione del tessuto della realtà. La parola diventa «luogo dell’apparire», mentre «procura l’essere alla cosa» (Heidegger); la parola è capacità di dire il mondo, l’io e persino l’Assoluto e nell’esercizio del giudizio nasce e si sviluppa il corpo della conoscenza. È comunque il dirsi di una prospettiva su un mondo che si svela comunque solo nella limitatezza di adombramenti: pertanto la parola vive nell’impossibilità d’essere ultimativa e assoluta. Da qui la pluralità e l’“ecumene dei linguaggi”. «La possibilità dell’elevazione espressiva e l’impossibilità di una dizione assoluta fondano insieme la legittimità e l’esigenza di un pluralismo espressivo»27. La parola è intrinsecamente di natura relazionale e anche in essa si insinua l’ambiguità di una destinazione: può dire la verità delle cose e può, nel dirle, ri-velarle riducendole al silenzio. 26 R. GUARDINI, Mondo e persona, tr. it. di G. Sommavilla, in Scritti filosofici, II, Brescia 2007, 91. 27 V. MELCHIORRE, La via analogica, Milano 1996, 38.


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4. LA RECIPROCITÀ DEL RICONOSCIMENTO OVVERO L’IDENTITÀ NELLA DIFFERENZA

«L’uomo va in cerca di ciò che gli è proprio, ma lo trova più in coloro che gli sono vicini che in se stesso»28. L’espressione di Aristotele credo possa rappresentare la conclusione di questo breve itinerario. Per la sua ontologica finitezza il soggetto è costitutivamente posto nella condizione d’avere bisogno di altri per la determinazione della sua identità. L’intervento di altri soccorre al bisogno di una conferma nell’essere, come afferma Hanna Arendt: «la presenza di altri che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi»29. Possiamo affermare che tramite il riconoscimento di altri il soggetto è consegnato a sé stesso, meglio, trova accesso al processo della propria identificazione. La relazione di riconoscimento non ha il potere di far essere, in senso ontologico di una fondazione, bensì di attivare e in questo senso di far esistere da soggetti. Nel riconoscimento non è in gioco l’essere ma la vita della soggettività; non la struttura ma l’esercizio; non il suo essere persona ma il suo esistere da persona30. La relazione di riconoscimento ha il potere sulla storia del soggetto ma è impotente a far sì che egli sia, semmai può solo far sì che quel soggetto abbia quella modalità esistenziale e non altre, alla pari dei atti: come va salvaguardata la distinzione tra facoltà e atti, tra soggetto e le sue azioni, così va mantenuta la distanza che impedisce l’identificazione della radice della soggettività con la sua condizione relazionale. La certezza dell’“io sono” cartesiano è di per sé vuota di verità, il suo riempimento inizia solo a partire dalla domanda “chi sei?”, la cui unica risposta possibile è la narrazione di una trama di vita che porta in sé la cifra dell’intero movimento di soggettività.

28

ARISTOTELE, Etica, IX, 9, 1169b 35. H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano 1994, 37. 30 Cfr. F. BOTTURI, La generazione del bene, Gratuità ed esperienza morale, Milano 2009, 163-194. 29


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«L’uso dell’espressione “io” non spiega l’identità umana più di quanto un alpinista smarrito non precisi la sua posizione ai soccorritori con un “qui”»31. La scelta del soggetto come di “identità narrativa” (P. Ricouer) consente d’individuare anche il suo legame con chi lo precede, perché ogni soggetto narrante è sempre al contempo un soggetto narrato: nessuno potrebbe narrarsi se non fosse stato già prima narrato da altri. Si scopre così che a nessuno è possibile essere origine assoluta della propria narrazione. Nel nome che ci è stato assegnato si raccoglie implicitamente la narrazione della memoria fondativi del nostro venire al mondo. In tal modo la nostra identità è inseparabilmente connessa al racconto di altri e la propria autocoscienza ne dipende inevitabilmente. Ovviamente tale identificazione del soggetto tramite le narrazioni ricevute non può essere interpretato come riduzione della soggettività a costruzione sociale: che l’identità psicologica sia in qualche modo ricevuta non significa che il soggetto sia come tale il prodotto del riconoscimento ricevuto a scapito della sua autosussistenza psicologica. Con una immagina più ricca e densa suggerita dalla Arendt nel testo La vita della mente, noi entriamo in scena solo in un teatro già allestito da altri e solo se messi in scena da altri. «Gli esseri viventi fanno la loro apparizione come attori su una scena allestita per loro. E allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la sua apparizione, dai suoi simili per recitare la parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta»32. «Ciascuno è attore non autore della propria storia. Soggettività significa necessariamente essere insieme soggetto-di e soggetto-a e l’una cosa è effettiva e costante condizione dell’altra»33. «La consistenza dell’io si risolve in relazioni»34: la relazione non è nulla di accidentale alla sostanzialità dell’identità ma ad essa inerisce 31 32 33 34

D. SPARTI, Soggetti al tempo, Milano 1996, 127. H. ARENDT, La vita della mente, Bologna 2009, 101s. F. BOTTURI, La generazione, cit., 166. E. LEVINAS, Nomi propri, tr.it. F. P. Ciglia, Casale Monferrato 1984, 23.


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intrinsecamente. Non è possibile una esistenza che sia veramente personale senza un autentico incontro con l’altro, senza una reale comunicazione con le altre esistenze. E forse “il collante della fantasia” consiste proprio nella resistente fluidità delle relazioni che disegnano il tratto dell’identità: tale rimane una delle risposte possibili alla pungente analisi disegnata da Bauman nella medesima pagina con cui ho aperto questo mio intervento: «Le identità sono più come leggeri strati di crosta lavica che hanno appena il tempo di indurirsi prima di essere nuovamente risucchiati e fusi dalla colata incandescente […]. Le identità appaiono fissate e solide solo quando sono viste, per un attimo, dall’esterno. Qualsiasi solidità possano avere allorché contemplate dall’interno della propria esperienza personale, essa appare fragile, vulnerabile e costantemente lacerata da forze disgreganti che ne mettono a nudo la fluidità e da correnti incrociate che minacciano di ridurre in pezzi e spazzare via qualsiasi forma possano avere acquisito. L’identità vissuta, frutto di esperienza, può essere tenuta insieme solo con il collante della fantasia»35.

«L’uomo è un nodo di relazioni»36: questa può forse essere l’attualizzazione della celebre espressione aristotelica “diviene ciò che permane”. Permane l’identità come nodo di un flusso convergente di relazioni. La fluidità delle relazioni necessita così della permanenza dell’identità e tale unità si riconosce a partire dalla molteplicità dei suoi vissuti esperienziali. Dinanzi all’io che sta di fronte, «specchio ed eco della nostra essenza»37, l’identità del singolo si riscopre come destinataria di riconoscimento, sguardo prospettico verso l’essere, centro di rinvio, chiamata all’etica del rispetto dell’identità altrui: l’affermazione della mia 35

Z. BAUMAN, Modernità liquida, cit., 88. M. MERLAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, tr.it. A. Bonomi, Milano 1980, 30. 37 F. W. HEGEL, Scritti teologici giovanili, tr.it. a cura di N. Vaccaio – E. Mirri, Napoli 1972, 527. 36


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identità sta nelle parole e nei gesti dell’altro il quale, riconoscendomi, permette a me di accedere alla verità di me stesso come soggetto intenzionale38.

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Cfr. il paradosso hegeliano del servo-signore.


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L’IDENTITÀ CELEBRATA. IL RITO, IL SIMBOLO E LA FEDE

ANDREA GRILLO*

«I riti, più di ogni altro tipo di pratica, servono a sottolineare l’errore di voler includere in concetti una logica fatta per dispensare dai concetti» P. Bourdieu

PREMESSA: IDENTITÀ E “LUOGHI COMUNI” Il percorso attraverso i “luoghi dell’identità” — in tutta la sua ricca articolazione — incontra il terreno simbolico-rituale come *

Docente di Teologia sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Dedico questo saggio alla memoria di Mons. Luigi Sartori. Egli era anzitutto un pensatore appassionato. Così appassionato, e così puro nell’atto del pensare, che dava subito a tutti il gusto e la passione per il pensiero. Ma il suo pensiero restava libero e articolato, epico e furbo, toccante e ironico; sapeva eseguire all’improvviso salti mortali, oppure entrare nel gioco di specchi di ardui paradossi, pur restando sempre incantato davanti ai tramonti e alle albe, ben consapevole di dover attraversare tutto il creato — dal minerale, al vegetale, all’animale — per poter attingere allo Spirito di Dio. Rari sono coloro che sanno parlare bene, ma rarissima cosa è assistere al sorgere del pensiero nella parola: Don Luigi letteralmente “pensava parlando”. Questo accadere miracoloso di una conferenza o di una omelia, di una prolusione o di una barzelletta — sempre costruiti con il gusto per la proporzione delle parti e con modulato tono di voce, ma mai scontati, mai di scuola, mai “riscaldati” — erano tutti calore e pause, profondità e scherzo, solennità e colpo d’ala, commozione e scatto di reni. Come in tutte le formidabili “aperture” che sorprendono l’ascoltatore nelle grandi arie di Giuseppe Verdi, anche in lui, alla terza o quarta ripetizione del tema,


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Andrea Grillo

mediazione originaria dell’identità. La prima questione che voglio affrontare è anzitutto quella di chiarire se tale mediazione rituale della identità sia ancora un “luogo comune”, oppure abbia perso questa sua caratteristica. Intendo qui il termine “luogo comune”, come è evidente, in senso non solo logico, ma anche storico, legato all’ethos e all’habitus, all’esperienza della prassi e all’esperienza della teoria. Sarebbe bello poterne invocare — ancora e nonostante tutto — la “immediatezza”. E molti sono stati i tentativi di ricostituire in qualche modo i diritti della immediatezza di tale mediazione rituale1. Va detto subito che questo lavoro teorico e pratico — ossia la rimotivazione della immediatezza della mediazione simbolico-rituale — è scaturito da una complessa serie di fattori, in cui la cultura tardo moderna, le tradizioni religiose e la coscienza teologica delle chiese si sono spesso incontrate, scontrate, alleate, combattute, coinvolte e coglievi la cosa in modo totalmente diverso, totalmente nuovo e toccante. Se ne usciva edificati da un “concretum” che lasciava dietro di sé tutte le astrazioni, senza mai condannarle, ma quasi prendendo da esse congedo, garbatamente e cavallerescamente, con un sorriso: poiché in lui Blondel non poteva dimenticare Tommaso, né Tommaso smentire Blondel. Forse proprio per questo Don Luigi ha potuto essere un maestro i cui allievi si riconoscono tra loro tanto diversi, così lontani, quasi senza nulla in comune, tranne il loro maestro: perciò ha avuto figli di tutte le razze, di tutte le fedi, di tutte le discipline. Il segreto di questa rara capacità generatrice e rigeneratrice — esercitata per più di 50 anni a Padova, in Italia e nell’Europa che lo ha conosciuto — stava nella libertà con cui si è lasciato toccare fino in fondo dalla realtà della Chiesa e del mondo, dell’uomo e del creato, dello Spirito e della materia, con tutta l’intenzione di non tralasciare proprio nulla del grande libro della natura e della cultura, ma senza la vana pretesa di essere già arrivato all’ultima edizione. 1 Tra i molti tentativi di risposta alla “questione liturgica”, che qualificano la presenza del Movimento Liturgico nella storia dell’ultimo secolo, l’ultimissimo — il Motu Proprio “Summorum pontificum” — è forse, pur nella sua audacia, il più sorprendente e sconcertante: infatti tale documento osa sperare di poter ricostituire — o addirittura re-istituire — il regime rituale preconciliare di 50 anni fa semplicemente “liberalizzando” il rito romano precedente la riforma di Paolo VI. Sembra tuttavia che il problema decisivo rimanga anche oggi — e forse anche più di ieri — quello di “formare alla esperienza rituale”, di “recuperare la liturgia come forma” e non quello di liberalizzare “inclinazioni”, “aderenze”, o “attaccamenti” a usi devoti. Per una riflessione acuta su questo aspetto rinvio al gustoso volumetto di F. CASSINGENA-TRÉVEDY, Te igitur. Le missel de Saint Pie V. Ermeneutique et déontologie d’un attachement, Genève 2007.


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L’identità celebrata. Il rito, il simbolo e la fede

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messe in gioco, secondo modalità e pratiche differenziate ed estremamente complesse. Su questo piano non posso trascurare di dire subito una parola molto chiara — quasi in forma di tesi — sul versante propriamente teologico della questione — che è quello che qui interessa. Ossia il fatto che l’identità credente — ossia l’atto di apertura nella fede all’autorivelazione di Dio — dipenda strutturalmente da una “identità celebrata” — ossia da una mediazione simbolico-rituale della appartenenza (a Cristo e alla Chiesa) — non è mai stato oggetto di una coscienza e di una conoscenza scaturita dal semplice “lavoro teologico”: o, meglio, esso ha potuto sorgere nella coscienza teologica tardo-moderna soltanto attraverso un confronto lungo e profondo, duro e dolce, sofferto e consolante, con le nuove forme del sapere del mondo e della cultura — che non sono ancora (o non sono affatto) un “sapere della fede”, ma senza le quali la fede non giunge mai al sapere e il sapere non trova mai la fede. Con questo intendo dire che una “identità celebrata” — in quanto scopre l’uomo segnato da Dio, di-segnato nel mondo e consegnato a se stesso dal suo “agire simbolico-rituale” — non è mai semplicemente il frutto di una serie di conseguenze interne al sapere della fede, ma comporta una rischiosa e necessaria sporgenza in quelle “scienze aliene”, senza le quali non saprò mai chi sono2! Perché le celebrazioni rituali — per noi il culto cristiano, la liturgia della Chiesa, il mondo dei sacramenti e anzitutto “il rito della messa” — pur con la coscienza del loro carattere “locale” (G. Angelini) — possano essere ancora “luoghi comuni” (R. Barthes), il sapere della fede deve avere 2 Come vedremo, per la comprensione della esperienza liturgica cristiana, l’approfondimento del rito e del simbolo può essere condotto — anche oggi — in due modi assai diversi. Gli esempio più chiari di queste due vie sono i recenti lavori di G. Angelini (Il Tempo e il rito, Assisi 2006) e di A.N. Terrin (Il rito, Brescia 2001). Il primo testo ritiene che ogni spiegazione del rito, quando utilizzi fonti diverse da quelle teologiche, finisca per perderne il senso autenticamente cristiano; il secondo, invece, ritiene che proprio questo procedimento raccomandato da Angelini impedisca di cogliere la dimensione rituale della esperienza cristiana. Tra queste due posizioni, che potremmo collocare agli estremi, si estende tutto lo spettro delle posizioni oggi in campo.


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il coraggio di frequentare, conoscere, interrogare ed ascoltare le ragioni/regioni della prassi e del sapere che si collocano al di qua e al di là di questo “luogo” particolare e specifico. Ossia occorre che la teologia, perdendo la propria autosufficienza di “sapere complessivo”, sappia farsi autenticamente “comprensiva”, assumendo in sé tutta la ricchezza e anche tutta la povertà di altre discipline, che pur fallendo nella risposta ultima — talora in modo davvero clamoroso — sanno però suscitare domande prime e attenzioni elementari che la teologia non padroneggia né ricorda più. Solo queste domande danno senso alle ultime risposte: ma per riuscire a porle e per sapervi rispondere non si potrà mai più rinunciare ad un confronto interdisciplinare con altri mondi del sapere e con altri stili del conoscere: non per rinnovare un conflitto delle facoltà — o per istituire insperate concordanze senza più nessun sapore né vigore — ma per riscoprire ciò che è elementare come “luogo comunicabile” e pertanto come “principio di identità” non ineffabile e perciò non violento e opprimente. Il percorso attraverso cui vorrei brevemente indagare questo debito della teologia (anche, ma non solo “liturgica”) e della coscienza ecclesiale e pastorale nei confronti della “cultura comune” — e che virtuosamente (e vistosamente) ha potuto spesso trasformarsi in un debito che la cultura comune ha contratto nei confronti di una “identità celebrata” cristiana, capace di assumere il reale e non di fuggirlo, di ascoltare la parola e non di giudicarla, di lasciarsi donare la Chiesa e non solo di amministrarla — sosterà in 6 stazioni, con fermate più o meno lunghe, ma spero di un certo interesse. Comincerò da una breve rilettura del Movimento Liturgico e del suo guadagno più significativo (che proprio per questo risulta il più esposto al rischio di dimenticanza e anche di completo fraintendimento); passerò poi a presentare le condizioni esperienziali e scientifiche di questa riscoperta, ossia il contesto degli studi storici, antropologici, fenomenologici, sociologici, psicologici, di ritual studies, cultural studies, neuroscienze, ecc. da cui diverse generazioni di teologi della liturgia hanno già imparato molto. Esaminerò, quindi, le tendenze interne a queste “scienze umane” in rapporto al “rito”, ma poi anche le esitazioni della teologia e della pastorale con le sue insidiose — anche se ben comprensibili — tentazioni “antirituali”; proporrò poi una ripresa della attenzione alla


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“identità celebrata” in una ipotesi di lettura della contemporaneità in termini di “III fase del Movimento Liturgico”, come superamento sia di un modello (relativistico) di Chiesa in termini di “agenzia” — con la presunzione di non aver alcun bisogno di forma e di formazione, fino alla deformazione sfigurata e sfigurante —, sia di un modello (fondamentalistico) di Chiesa come “setta” — che confida disperatamente solo nella “forma” e nella “formazione” e nel restare sempre “in forma” — strutturalmente chiusa su di sé e pervasa dalla autocomprensione angosciata di essere insuperabilmente accerchiata da nemici; infine, per l’ultimo passo, arriverò ad un conclusivo “abbozzo di identità dal rito” con cui proverò a rileggere brevemente l’esperienza sacramentale sotto la luce di quanto teorizzato fino a quel punto, delineando così conclusivamente una lettura dei sacramenti “in genere ritus”.

1. IL MOVIMENTO LITURGICO: LA RISCOPERTA DEL RITO COME “LUOGO DI IDENTITÀ” Il primo passo del nostro percorso deve sostare sul versante che diremmo “interno” della identità celebrata: ossia sulla coscienza che la Chiesa ha saputo maturare circa l’importanza delle azioni simbolico-rituali per la identità cristiana ed ecclesiale. Ciò è tutt’altro che ovvio e può essere compreso solo a patto di fare i conti con la storia complessa degli ultimi due secoli. Dobbiamo chiederci: in che modo la coscienza rituale è riemersa alla luce e alla superficie della identità ecclesiale? Per rispondere a tale domanda, credo che si possa dire che la “questione liturgica” si è posta — a chiare lettere — per la Chiesa cattolica soltanto dopo il grande trauma della “rivoluzione francese” e della nascita dello “stato liberale”.

1.1. La “coscienza rituale” dopo la “perdita” della tradizione Il Movimento Liturgico — che ha subìto un effetto ermeneutico retroattivo tutt’altro che lineare da parte della Riforma Liturgica —


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non è nato per “preparare il Concilio o la Riforma Liturgica”, ma come tentativo di dare risposta (storica, teologica, filosofica e pastorale) alla grande crisi apertasi intorno al valore della liturgia nella determinazione della identità cristiana dopo la vittoria dell’individualismo, dell’ateismo, dell’autonomia, delle soppressioni monastiche e delle secolarizzazioni ecclesiastiche. Qualcuno — dapprima in Francia, in Belgio, in Italia e in Germania, e poi un poco ovunque — ha cercato di ripensare l’identità dei discepoli di Cristo a partire da quelle azioni simbolico-rituali che costituiscono il cuore della liturgia della Chiesa. Il fenomeno, che è ben lungi dal presentarsi come univoco e unitario, costituisce tuttavia la figura interna al cristianesimo — non solo cattolico — degli ultimi due secoli, in cui la comprensione del rito ha mutato di segno ed è passata dall’essere dimensione implicita di manifestazione e strutturazione di una identità ad essere struttura esplicita di articolazione e di esperienza della identità. Questo passaggio da implicito a esplicito — da presupposizione ovvia ad assunzione cosciente — ha portato ad una ridefinizione delle azioni rituali stesse, nonché del loro impatto sulla identità. Esse non sono più anzitutto comprensibili in termini di diritti/doveri, ossia sul piano giuridicodisciplinare, ma sono anzitutto doni, cui si accede su di un piano simbolico-rituale e intersoggettivo; non sono più azioni pubbliche/private, definibili sullo sfondo di verità e norme, ma prassi comunitarie, basate su una relazione di intimità e di familiarità accogliente e confidente; non sono più mass media/funzioni, di valore essenzialmente strumentale e con il fine di manifestare, come protestationes fidei, contenuti di fede già acquisiti, ma sono piuttosto “fontes et culmina” di tutta l’azione della Chiesa, luoghi di elaborazione originaria dell’identità, in cui è l’agire simbolico-rituale a concorrere originariamente nello strutturare l’apertura alla rivelazione nella fede.

1.2. Due riletturae parziali e la “seconda svolta antropologica” Queste precisazioni preliminari indicano già a sufficienza che la comprensione del Movimento Liturgico non può avvenire né soltanto


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con l’impiego di categorie “intrateologiche”, in termini di preparazione della Riforma Liturgica, di ripresa di una identità cristiana “normativa”, di esecuzione fedele di tutte le norme o di rispetto di tutti i contenuti di fede, né mediante categorie puramente extra-teologiche, come ad es. la riproposizione di un modello di “cristianità medievale” per via liturgica nel cuore dell’Europa liberale3. Una chiarificazione del Movimento Liturgico — nel senso della domanda che vogliamo porre nel contesto del nostro percorso — mi pare debba accollarsi l’onere di una prova meno evidente e molto meno lineare, e quindi una fatica in più: ossia poter comprendere questo fenomeno soltanto a patto di mettere in crisi diversi luoghi comuni della coscienza ecclesiale e teologica di oggi. Ad es. e anzitutto, il fatto che il ML è senz’altro “antiliberale”, ma ciò non significa che sia “antimoderno”; il ML, proprio perché riscopre il carattere “fontale” della liturgia, ha di mira la “partecipazione”, al cui scopo anche la Riforma appare solo come “strumento per altro”. Contro le riletture parzialmente arbitrarie di ermeneutiche solo intra- o extra-teologiche, credo che si debba chiarire il ruolo che nel ML ha avuto una lettura “spregiudicata del reale”, che potremmo chiamare “seconda svolta antropologica”: ossia una profonda alleanza, soprattutto nei maestri della prima generazione del ML (nei precursori P. Guéranger e A. Rosmini, e poi in M. Festugière, O. Casel e R. Guardini) di un autentico interesse per quelle forme di “sapere alieno” (sociologico, filosofico, antropologico, fenomenologico, di scienza delle religioni...) senza le quali alla teologia non sarebbe stato possibile riallacciare un rapporto corretto con il proprio “oggetto”4. 3 Il difetto storiografico che qui emerge riguarda così sia il fronte della “storia ecclesiastica” sia quello della “storia della Chiesa” laica: entrambi i versanti sembrano spesso dimenticare l’elemento tipico del Movimento Liturgico, che pare irriducibile a logiche troppo semplici e oppositive. 4 Assolutamente tipico, da questo punto di vista, è il profilo metodologico di un uomo come O. Casel: per ristabilire il primato della cristologia e della pneumatologia nell’esperienza di fede e nel discorso teologico, egli è quasi “costretto” a frequentare la migliore scienza delle religioni, archeologia, filologia del suo tempo (gli anni 20-30 del XX secolo) per venire a capo di un problema non tanto di contenuto, quanto di metodo. Mi pare che ciò rappresenti ancor oggi una provocazione assai feconda, contro tutte le tendenze unilaterali a specializzare la ricerca liturgica in un solo ambito


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E qui dobbiamo formulare una seconda tesi: la riscoperta dell’ “azione rituale” come pertinente al fondamento dell’atto di rivelazione e di fede non è semplicemente un ritorno alla tradizione, ma è un tornare alla tradizione attraverso la mediazione dell’”altro”: la continuità della tradizione può darsi — ed essere compresa nel suo darsi — soltanto mediante una discontinuità preziosa e insostituibile. L’“altro”, con cui la tradizione cristiana si confronta, è duplice. È anzitutto quell’altro che si nasconde in una “antica storia di sé dimenticata”; ma è anche quel sé che parla di una “recente storia dell’«altro da sé» incompreso”. Si tratta di fare i conti con due interlocutori imbarazzanti, ma insostituibili: il “sé come un altro” del passato del I millennio, e “l’altro come un sé ritrovato” della contemporaneità di fine II millennio.

1.3. Lucidità della recezione conciliare: actuosa participatio e identità della Chiesa “per ritus et preces” Il Concilio Vaticano II ha potentemente sintetizzato e rilanciato questa duplice coscienza di una “alterità da reintegrare nella tradizione ecclesiale”5. E nel campo della ripresa di originarietà dell’ “azione simbolico rituale” ciò è stato fatto mediante i due concetti portanti di Riforma liturgica e di Partecipazione attiva. L’interpreta-

disciplinare. La moderna teologia del culto cristiano è nata da una pluralità di discipline, che permettono di ricostruire il presupposto rituale dell’esperienza di rivelazione/fede all’interno di un mondo che si vuole “oltre la tradizione”. 5 Circa la “corretta ermeneutica” del Concilio Vaticano II, ogni giusto scrupolo di garanzia della continuità deve fare i conti con l’idea di Riforma, che, quando non si voglia ridurre il termine a “flatus vocis” puramente retorico, privo di ogni referente e di ogni serietà, comporta sempre un certo grado di discontinuità. Ritornare ad “azioni elementari” — come l’azione rituale, l’ascolto della parola, la relazione ecclesiale e l’apertura al mondo — sono i criteri di una continuità profonda, radicale, strutturale, che comporta inevitabilmente alcune discontinuità superficiali, visibili e assai sorprendenti: è come scoprire — d’un tratto — che non si vive la vita ecclesiale “iuris causa” o “dogmatis causa”, ma che le benedette astrazioni dogmatico-disciplinari sono semplicemente al servizio dell’atto elementare di relazione di ascolto e di culto verso il Signore Gesù.


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zione di questi termini6, nonché dei loro complessi rapporti, ha affaticato il dibattito e la coscienza post-conciliare, determinando le sue fortune come le sue sfortune, il nuovo uso e i nuovi abusi del rito. Per questo è urgente recuperare oggi il contesto in cui nacque tale slancio fecondo. Non solo come “tradizione da recuperare”, ma anche come “alterità da reintegrare”. La riscoperta dell’azione simbolico rituale della Chiesa — come recupero della tradizione più autentica — ha dovuto pagare un grande debito a — ma anche trarre un grande vantaggio da — condizioni culturali, esperienziali e scientifiche, senza la cui considerazione oggi noi possiamo solo ridurci a operare disastri o evocare fantasmi, a seconda del nostro orientamento e delle nostre intenzioni. A questo contributo “altro” rispetto alla tradizione cristiana, ma necessario per recuperarne il senso plenario, dobbiamo ora brevemente dedicarci.

2. CONDIZIONI ESPERIENZIALI E SCIENTIFICHE DI QUESTA RISCOPERTA Alcuni eventi, che la Chiesa non ha determinato, ma che ha largamente subìto e patito, sono una preziosa chiave di lettura per interpretare il contesto culturale “sorgivo” del Movimento Liturgico. Non semplicemente il sorgere del soggetto moderno, con la sua autonomia, libertà ed emancipazione, ma soprattutto — a partire dal XVIII secolo — il costituirsi di nuove forme del sapere che ponevano in crisi le sintesi filosofiche e teologiche della tradizione7, ha determinato nuove forme di riflessione sull’agire simbolico-rituale e sulla sua valenza comunitaria, dossologica, sociologica, psicologica, relazionale. Ciò ha determinato, in larga parte, durante il XIX secolo, la percezione da parte della teologia dei pericoli insiti in questa grande 6

Per la lettura dei quali, oltre che per l’illustrazione dei loro rapporti reciproci, rimando al mio testo Oltre Pio V. La Riforma Liturgica nel conflitto di interpretazioni, Brescia 2007. 7 Sempre impressionante è la gustosa testimonianza di Gilson, quando da giovane studente a Parigi vide trasformarsi alcuni suoi professori di filosofia in sociologi e antropologi, come E. Durkheim e M. Mauss: cfr. E. Gilson, Il filosofo e la teologia, Brescia 1966.


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operazione culturale. La denuncia dell’esito immanentistico e ateo di questa prospettiva — evidentemente non priva di fondamento — ha tuttavia oscurato il grande potenziale di chiarificazione che alla teologia della liturgia poteva venirne.

2.1. Il configurarsi di un interesse antropologico “autonomo” nel XVIII secolo. In effetti, in ambito cattolico sono stati i grandi esponenti del Movimento Liturgico a dialogare fin dall’inizio con queste “pericolose” tendenze. P. Guéranger e la sociologia della prima metà dell’800, M. Festugiere, O. Casel e R. Guardini con la scienza delle religioni del loro tempo, hanno inaugurato uno stile diverso da quello della quasi totalità della teologia sistematica del loro tempo. Contro la contrapposizione frontale, essi hanno preferito mantenere un rapporto dialogico e positivo, lasciandosi suggerire dalle “scienze umane” non il fine o l’oggetto delle proprie scienze, quanto piuttosto le premesse, l’atteggiamento e il presupposto per un corretto approccio al tema stesso. Allora era chiaro — come forse oggi non è più — che la soluzione della “questione liturgica” non consisteva in un qualche salto — più o meno lungo, più o meno deciso — nel passato, ma in una rilettura della tradizione come identità in rapporto all’azione rituale: per questo era necessario confrontarsi seriamente con le nuove discipline. Non per essere alla moda, ma per recuperare il presupposto perduto dell’esperienza teologica. Tutto questo ha comportato, però, un passaggio epistemologico e culturale assai complesso e impegnativo. Ciò che dobbiamo riconoscere — non semplicemente come una perdita, ma anche come una preziosa, anche se delicata e fragile novità — è il fatto che il XX secolo — con lo svilupparsi di queste tendenze del XIX secolo — ha profondamente mutato il concetto stesso di “rito”. Ciò che “rito” significava fino al XIX secolo, con le esperienze politiche, culturali e religiose di quel secolo ha subito profonde modificazioni, estendendo nel XX secolo il proprio significato, emancipandolo dal contesto religioso e applicandolo alle fattispecie più diverse e tra loro lontane: dal comportamento


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animale, al gioco del calcio, dalla guida nel traffico alla dieta dimagrante8. Ma una tale evoluzione non deve sorprendere né può essere guardata semplicemente dall’alto: non c’è nessuna altura che non sia minacciata, come tale, di trasformarsi in una perdita della tradizione in forma “tradizionalistica”, ossia irrigidendo uno dei suoi aspetti più fecondi in una cieca ripetizione senza cuore, né stile, né senso.

2.2. L’emergere di un nuovo concetto di “rito” nel XX secolo Potremmo allora dire che questa nuova “scienza del rito” ha contribuito a modificare l’esperienza del rito che ci è resa accessibile. E qui “garantire e difendere la tradizione” non significa soltanto escludere teoricamente una serie di concetti e di contesti rituali dall’esperienza liturgica cristiana, ma saper rileggere sapientemente la tradizione grazie ai nuovi occhiali che le scienze moderne hanno saputo predisporre anche al servizio della riflessione ecclesiale e teologica. Una certa valutazione positiva della tarda modernità — che nel contesto ecclesiale sembra diventata all’improvviso così difficile — è qui necessaria per capire la risposta del Movimento Liturgico alla questione liturgica. In tal senso dobbiamo liberarci di una inadeguata rappresentazione della teologia del primo novecento, al cui interno, accanto alla stasi subentrata con il sospetto di modernismo, permaneva una grande elaborazione teorica in campi “marginali”, come quelli della ricerca storica sulle fonti e sui padri della Chiesa, come anche una grande ansia di rilettura “moderna” delle istituzioni giuridiche e liturgiche. Non è un caso, infatti, che il Papa Pio X, cui siamo soliti attribuire il più radicale antimodernismo del secolo, appaia come sostanzialmente “modernista” in campo giuridico e in campo liturgico9. 8

Per una puntuale recensione di questo fenomeno cfr. C. Rivière, I riti profani, Roma 1998. 9 Debbo questa acuta osservazione agli studi condotti dal professor Carlo Fantappié sul ruolo di modernizzazione del diritto nella Chiesa che Pio X ha introdotto e che porterà, sotto il successore Benedetto XV, alla redazione del primo esempio di “codificazione moderna” nella Chiesa. Cfr. C. FANTAPPIÉ, Chiesa romana e modernità giuridica, 2 voll., Milano, 2008.


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Per considerare più da vicino un caso esemplare, cerchiamo di considerare, quasi in sinossi, le censure dell’antimodernismo al concetto di “simbolo” e di “esperienza religiosa” e l’uso che O. Casel fa del concetto di “pensiero totale” e di “immagine” per recuperare la verità e l’esperienza del “mistero” nel culto cristiano.

2.3. Excursus: Odo Casel e il modernismo In questo breve excursus vorrei mostrare gli equivoci che possono sorgere nell’interpretare adeguatamente il pensiero di un grande “classico” del ML, ossia di O. Casel, in relazione al modernismo e al suo strutturale “irrazionalismo”. Si è soliti far risalire l’inizio “ufficiale” del Movimento Liturgico all’anno 1909, durante il quale vi fu uno storico convegno a Malines, in Belgio. Due anni prima, nel 1907, era stata pubblicata la famosa Enciclica Pascendi contro il Modernismo. Vorrei tentare di comprendere l’originalità del pensiero di O. Casel partendo proprio da queste due date. In effetti noi non riusciamo più a capire il Movimento Liturgico se non teniamo conto del fatto che il fenomeno del Modernismo (e del corrispettivo anti-Modernismo) ha avuto come due punti chiave della sua argomentazione alcuni assunti di carattere filosofico e teologico circa il simbolo, circa il fenomeno, circa l’esperienza religiosa, che il ML ha utilizzato in modo molto libero e creativo, uscendo dalle contrapposizioni rigide tra pensiero teologico e pensiero antropologico, come anche tra immanenza e trascendenza. Il Movimento Liturgico nasce dunque ufficialmente solo due anni dopo l’enciclica Pascendi, mentre il grande manifesto del Movimento Liturgico, La Liturgie Catholique di M. Festugere, è del 1913, a pochi anni di distanza. Il Movimento Liturgico reintroduce nel discorso ecclesiale, con molta fatica per i primi decenni del ‘900, le tematiche dell’esperienza religiosa, del simbolo, della religione come forma di vita. Queste sue tematiche «antropologiche» risultano tuttavia assolutamente qualificanti per il suo impegno squisitamente teologico. Se proviamo a indagare il testo fondamentale dell’antiModernismo, scopriamo che proprio queste dimensioni, così tipiche


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del ML, vengono colpite con grande durezza e determinazione. Consideriamo due affermazioni molto significative dell’enciclica Pascendi. Ad un certo punto essa afferma (identificando nel simbolismo una delle più gravi malattie del pensiero moderno): «Iterum: philosopho certum est, repræsentationes obiecti fidei esse tantum symbolicas; credenti pariter certum est, fidei obiectum esse Deum in se; theologus igitur colligit: representationes divinæ realitatis esse symbolicas. Hinc symbolismus theologicus» (DS 3487)10.

Ho voluto citare questo passo per sottolineare che nel 1907 in modo autorevole, mediante il Magistero papale, il concetto di simbolo e di simbolismo subisce questo tipo di lettura fortemente antitetica rispetto all’ortodossia: per essa, sconfinare nel simbolo significa mettere i piedi nell’incerto, nell’erroneo, in una parola significa diventare immanentisti. Ma c’è un altro aspetto che ci permette di entrare nel pensiero di Odo Casel con una coscienza più ricca e articolata. Sempre nel medesimo documento si dice che una caratteristica del pensiero moderno — in qualche modo di derivazione kantiana — è quella di pensare che la ragione dell’uomo sia chiusa nei fenomeni, sia limitata dai fenomeni; è la famosa visione kantiana del fenomeno, come confine invalicabile di ogni futura metafisica. Secondo il testo dell’Enciclica questo assunto ha due conseguenze per la teologia: una negazione ed una affermazione. Asserire che la ragione è limitata ai fenomeni ha come conseguenza negativa un certo agnosticismo, cioè una non conoscibilità della realtà, che secondo l’anti-modernismo è il preludio dell’ateismo. Dicendo che la ragione è limitata ai fenomeni, si asserisce che essa non ha fiducia di arrivare alla realtà, quindi è agnostica e atea. Questa è la conseguenza negativa. Ma vi è anche una conseguenza positiva molto interessante. Sul piano positivo si cerca il 10 Ossia, in traduzione: «Per il filosofo modernista è cosa certa che le rappresentazioni dell’oggetto di fede sono soltanto simboliche (qui simboliche vuol dire non reali, l’uso del termine simbolico significa negazione della realtà), per il credente d’altra parte è certo che l’oggetto di fede è Dio in sé (e non quindi un simbolo). (Sulla base di queste premesse) Il teologo (modernista) dice: le rappresentazioni della realtà divina sono simboliche, di qui deriva il simbolismo teologico».


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fondamento della religione nella “immanenza vitale”: il fondamento non è in Dio, perché Dio non è conoscibile, mentre il fondamento viene cercato nell’immanenza vitale, in una sorte di vitalismo, di autoesperienza dell’uomo, e se ne deduce una conseguenza. Desidero citare proprio l’espressione letterale che l’enciclica Pascendi pone sotto condanna (DS 2074): «Quoniam religio vitæ qædam est forma, in vita omnino hominis reperienda est», «Poiché la religione è una certa forma di vita, deve essere cercata esclusivamente nella vita dell’uomo».

Questa è la posizione attribuita ai Modernisti e rispetto a cui l’enciclica di Pio X prende nettamente posizione contraria. In un certo senso il principio dell’immanenza religiosa è un principio che chiude la religione su di sé, rinchiude la religione nell’orbita della piccola, modesta esperienza dell’uomo. È curioso che la riscoperta da parte del Movimento Liturgico del valore originario della liturgia in qualche modo rilegga, invece, sia il simbolo, sia la religione come forma di vita in modo positivo, non cadendo nell’errore modernista. Il Movimento Liturgico è cosciente di questo rischio — cioè del rischio che parlando di simbolo e di esperienza religiosa, non si esca dall’uomo, ma si resti chiusi nell’antropologia — e tuttavia, non rinuncia ad usare in modo forte, come ad es. in Casel, sia il concetto di simbolo, sia il concetto di forma di vita religiosa. In un certo modo esso tende ad affermare: noi non rinunciamo ad andare oltre i fenomeni, ma per andare oltre i fenomeni bisogna passare attraverso i fenomeni. In altri termini, la forma di vita dell’uomo, secondo il ML, non è “esclusiva” rispetto alla relazione con Dio e alla vita divina, ma ne è piuttosto il presupposto che non può più essere rimosso o scavalcato. Questa è l’apparente ovvietà e banalità della più grande scoperta del Movimento Liturgico, secondo la quale non ci si può certo fermare ai fenomeni, e tuttavia, per arrivare alla realtà vera, a Dio, alla Chiesa, a Cristo, alla verità dogmatica, il fenomeno celebrativo, in quanto densamente simbolico ed esperienziale, è forma di vita


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originaria, che non solo non può essere scavalcata, ma che deve rimanere sempre salda come mediazione essenziale di quella realtà e di quella verità. Solo comprendendo il contesto dentro cui si muove il Movimento Liturgico, possiamo capire perché esso impieghi lunghi decenni a farsi apprezzare, e almeno per i primi 20 anni sia stato guardato con sospetto e in fondo sia stato sospettato di modernismo. Tutte le idee che hanno trasformato la teologia liturgica, la teologia sacramentaria nel secolo XX, non entrano in conflitto con la dottrina della Chiesa, ma certo utilizzano in modo diverso le parole che l’antimodernismo definiva come errori irrimediabili. Casel impiega sia il concetto di simbolo, sia il concetto di forma di vita applicata alla religione e alla esperienza rituale della religione, ma non per essere modernista, per negare la trascendenza o per scavalcare la cristologia, né per cadere in una forma di «riduzionismo antropologico», bensì per ritrovare il principio di una esperienza cristologica e pneumatologica nell’ambito più squisitamente teologico11. E non è affatto un caso che Casel segua proprio questa strada, rinunciando alla più consolante e più rassicurante via scolastica e neo-scolastica, che egli riconosceva ormai incapace di “mediare” quell’esperienza e quella simbolicità così tipica del sacramento, proprio perché sembrava opporsi in radice alla riconciliazione tra teologico e antropologico, da cui pure scaturiva come forma di sapere medioevale.

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Bisogna segnalare che di recente, dopo lunghi periodi di parziale o totale fraintendimento, il pensiero di O. Casel è entrato più pienamente all’interno della cultura teologica italiana. Segnalo soltanto due elementi di questa nuova recezione: anzitutto la bella monografia di A. BOZZOLO, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede, Città del Vaticano 2003 (Monumento Studia Instrumenta Liturgica, 30), poi la traduzione dell’ultima opera del teologo tedesco: O. CASEL, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano, Padova 2001 (Caro Salutis Cardo. Studi/Testi, 14), di cui ho curato l’introduzione Odo Casel e il “cuore” della questione liturgica: teologia, filologia e scenze umane nel saggio ‘Fede, gnosi e mistero’, XI-XXXVI. Segnalo, poi, la ricca e articolata rilettura che S. Ubbiali propone in Odo Casel. Il pensiero caseliano ripreso nella sua “Wirkungsgeschichte”, in F.B. TROLESE (ed.), La liturgia nel XX secolo: un bilancio, Padova 2006, 275-338.


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3. UNA RITUALITÀ SENZA RELIGIONE ED UNA RELIGIONE SENZA RITI. In nostro terzo passo si sofferma su alcune conseguenze “esterne” del fenomeno su cui siamo venuti riflettendo fin qui: ossia sull’emanciparsi di un concetto di “rito profano” e sugli esiti inattesi di questo fenomeno culturale, con impatto fecondo, ma anche severo, sulla coscienza ecclesiale e sulla prassi celebrativa.

3.1. Le dimensioni (e derive) rituali della politica, della economia, della formazione Come abbiamo compreso, la questione in gioco, per il rito cristiano, consiste nel tenersi lontano da due rischi di “deriva” che minacciano il senso stesso della faticosa risposta elaborata dal ML alla “questione liturgica”. D’altra parte è proprio in ragione di queste due fin troppo facili derive che il Concilio Vaticano II può oggi cadere inascoltato o diventare addirittura incomprensibile. Si tratta, da un lato, di una prevaricazione con cui la politica, l’economia e la formazione ad esse legate si impossessano della “esperienza rituale”; d’altro lato si tratta della deriva politica, economica o formativa con cui, nella Chiesa stessa, perde autenticità l’azione rituale. Vediamo brevemente ognuna di queste due derive, perché ci servirà per avviarci ai due passi conclusivi. Come ha detto Z. Bauman, la libertà ormai non sta più nel produrre e nel lavorare, ma nel consumare12. Questa osservazione, che si adatta agli ultimi decenni della nostra esperienza, è preziosa per comprendere le derive rituali della politica, dell’economia e della stessa formazione capillare, che attraversa ogni aspetto della vita dei singoli, facendoli appartenere a una infinità di identità mediate da azioni simbolico-rituali secolarizzate: la narrazione dello spot pubblicitario (cui ormai si ispirano anche i telegiornali o le Giornate Mondiali della Gioventù, inseguendo il “grande evento”). La difesa civile nei confronti di queste derive necessita di una grande capacità 12

Cfr. Z. BAUMAN, La libertà, Troina 2002.


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di discernimento, che solo una appartenenza religiosa mediata da azioni simbico-rituali forti è capace di assicurare.

3.2. Le dimensione e derive politiche, economiche e formative dei riti D’altra parte, ed è la seconda deriva, nonostante il ML e la RL, la nostra Chiesa, in tutte le sue espressioni, è continuamente tentata di “utilizzare” i riti per qualche nobile scopo (politico, economico o anche solo formativo), funzionalizzandola ad annunciare la verità morale della condanna del suicidio, o l’intangibilità della famiglia fondata sul matrimonio, o la difesa ecologica della terra, così come Dio l’ha creata. Ma tutto questo trova sempre il rito come “pretesto espressivo” e non come “esperienza fondante”. Non sono i riti la culla dei valori, ma piuttosto i valori autoevidenti approfittano dei contesti rituali per “prendere la parola”. In breve — e in parole molto schiette — mi sembra che nella questione qui analizzata si tratta di evitare la duplice deriva tipica della liturgia: quella che da un lato potremmo definire la pura funzionalizzazione della liturgia ad altro (in quelle che appaiono come “feste di valori civili/ecclesiastici”) e quella invece che si presenta come una vera autoreferenzialità concettualistica e devozionale (in quelle che si direbbero invece “feste di concetti teologici”): al primo gruppo appartiene la logica delle “giornate”, in cui l’atto celebrativo offre soltanto la “cornice” per una assunzione di compiti, progetti o prospettive, non importa se di carattere ecclesiale o civile (dalla “giornata per le chiese nuove” alla “giornata per la pace”, dalla “giornata per le vocazioni” alla ipotetica “giornata a tutela del creato”…); al secondo caso appartiene quella delle “feste” dedicate a “temi teologici” (Trinità, Corpus Domini, Cristo Re…), dove il soggetto della festa diventa suo oggetto, con evidente imbarazzo della struttura celebrativa stessa e a magra consolazione della devozione a-liturgica. Qui si nasconde una vera “crisi di evidenza” del luogo rituale. Soffermiamoci ora su questo delicato e decisivo passaggio.


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4. LA CRISI DI EVIDENZA DEL “LUOGO RITUALE” NEL POST-CONCILIO In modo sorprendente — ma anche comprensibile, se considerato all’interno del breve periodo di sole due generazioni — dobbiamo osservare come tutta l’accurata elaborazione di questioni fondamentali in campo liturgico-sacramentale, maturata in sede intrateologica e sviluppatasi poi nel dialogo tra teologia e altre discipline, con il postconcilio si è quasi totalmente arrestata, almeno per un ventennio. È solo dalla metà degli anni ’80, ma soprattutto con gli anni ’90, che la questione liturgica si è riproposta in tutta la sua urgenza e centralità. Per 20 anni è come se la questione liturgica si fosse identificata semplicemente con il “fare la Riforma”, con la pericolosa tendenza — ancor oggi vivissima — a sovrapporre perfettamente il “fare la riforma” con la risposta alla questione liturgica.

4.1. Il fraintendimento del ML: dal ressourcement, all’assolutizzazione della filologia/storia, alla nostalgia Ma se alla questione liturgica potesse rispondere soltanto la Riforma liturgica, ciò significherebbe che la “questione liturgica” non è affatto una “questione rituale”, ossia una questione di approccio culturale e teologale all’azione simbolico-rituale, ma soltanto questione di testi, gesti e rubriche più o meno adeguate13. E anche oggi le forme di difesa ad oltranza del Concilio Vaticano II o di attacco spietato allo stesso Concilio hanno in comune, molto spesso, la totale incomprensione di che cosa fosse (e ancora sia) veramente in gioco in tutto ciò. Come abbiamo detto, con il XX secolo non solo muta il concetto di rito, ma — come è stato sottolineato anche dal teologo J. Ratzinger in un famoso saggio degli anni settanta14 — muta completamente il 13 Per un accurato approfondimento di questa relazione tra questione liturgica e questione rituale, rimando alle belle pagine di R. TAGLIAFERRI, La “magia” del rito. Saggi sulla questione rituale e liturgica, Padova 2006, (Caro Salutis Cardo. Studi/Testi, 17), soprattutto 17-89. 14 Cfr. J. RATZINGER, Forma e contenuto della celebrazione eucaristica, in ID.,


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concetto di “forma”. Qui è interessante mostrare la stretta coerenza tra il mutare del concetto di forma e il mutare del concetto di rito. Si consideri soltanto la “triade sacramentale” (materia, forma, ministro) e il trasformarsi delle accezioni dei tre termini: si può facilmente osservare come l’azione rituale (il rito in quanto tale) passi dall’essere compreso dalla categoria di ritus servandus, alla cornice pragmatica di un atto essenzialmente verbale, fino alla densità dell’azione simbolicorituale, che mette in relazione evento e vita nella mediazione delicata di una specifica forma esperienziale/espressiva15.

4.2. Il venir meno del compito “attuativo” e lo spazio crescente di tentazione contro-riformistica Ma tutto questo, pur presente all’interno della coscienza teologica dell’ultimo quarantennio, non ha impedito che, contro il ritualismo tardo moderno, emergesse una nuova “sordità rituale”, tipica del postconcilio. Si tratta di una crisi di evidenza del rito in quanto tale: non delle sue funzioni o delle sue pedagogie, ma della giustificazione prima e ultima di questa azione “diversa”, “gratuita” e “senza scopo”, mediante la quale si compiono atti che inaugurano una esperienza “altra”. Proprio ciò che giustificava ultimamente la Riforma Liturgica (ossia la celebrazione di un’unica azione rituale da parte di tutta l’assemblea) è divenuto spesso l’ultima preoccupazione rispetto a tante altre presunte priorità, che tali non sono. L’esito imbarazzante è stato questo: la Riforma ha rimosso ostacoli, ma spesso non ha avviato nessun movimento alternativo rispetto a quello che prima avrebbe ostacolato il movimento possibile. Di qui la consapevolezza attuale che la Riforma Liturgica è stata e rimane necessaria, ma è stata e rimane non sufficiente. La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, (= Già e non ancora, 196), Milano 1984, 33-48. 15 La prima formulazione di questa acuta osservazione circa il “mutamento del concetto di rito” si deve a S. Maggiani, alla sua articolata e appassionata esperienza di ordines rituali.


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In altri termini, e per concludere questo paragrafo, si tratta di acquisire oggi, in modo assai urgente, la delicatezza della mediazione simbolico-rituale, da cui la Chiesa ha bisogno di essere “riformata”16. Ma ciò è possibile solo comprendendo come la RL ha avuto lo scopo di reintrodurre la Chiesa nell’esperienza rituale. Di qui la sua caratteristica di provvedere alla continuità mediante una discontinuità. La pretesa di poter parallelamente accedere alla “liturgia romana” secondo “usi” diversi — che corrispondono a regimi ecclesiali e simbolici diversi — nasconde la possibile incomprensione della questione liturgica in quanto tale. Se il rito “dona identità alla Chiesa”, ciò comporta il bisogno di riconsiderare l’impatto reale della Riforma liturgica sulla vita della Chiesa per le prossime generazioni.

5. UN ABBOZZO DI IDENTITÀ CELEBRATA Prima di concludere, dovremmo poter sostare almeno brevemente sulla concreta determinazione dell’identità cristiana a partire dai riti che scandiscono la sua esistenza17. Ciò comporta, com’è evidente, il verificarsi del presupposto che abbiamo cercato di fissare lungo tutto il nostro percorso argomentativo, e che forse solo ora appare in tutta la sua evidenza: ossia il recupero di un diverso concetto/esperienza di rito, che non sia più semplicemente il ritus servandus, ma che possa essere invece riconosciuto, per dir così, come ritus experiendus. La differenza tra queste due comprensioni/attuazioni del rito segna la distanza e la lontananza del modello di riflessione liturgica degli ultimi 100 anni rispetto alla tradizione pre- e post-tridentina. Solo in questo secondo modello “esperienziale” è possibile elaborare un percorso di “identità rituale” effettiva, anche se esso mette in crisi una identità irrigidita su un registro rituale puramente esteriore e meramente funzionale, per quanto inevitabilmente accompagnato da un’affettività e da un attaccamento grande18. 16

Cfr. R. TAGLIAFERRI, La magia del rito, cit. Per una ripresa più ampia di tutto questo tema rimando al volume: A GRILLO, Grazia visibile, grazia vivibile. Teologia dei sacramenti “in genere ritus”, Padova 2008. 18 Cfr. F. CASSINGENA-TRÉVEDY, Te igitur, cit. 17


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Provo a descrivere l’identità che scaturisce dai riti in forma piana ma non banale, secondo una scansione articolata in 4 passi.

5.1. L’inizio come iniziazione La rivelazione e la fede toccano il singolo uomo nelle mille forme in cui si articola la libertà dello Spirito. Ma la forma “istituzionale” è anzitutto il cammino iniziatico che va dal battesimo, attraverso la cresima, fino alla ripetuta e strutturale esperienza eucaristica. Questo sviluppo interno ha un requisito esterno, ossia di non poter comprendere questo cammino “formaliter tantum”: il rito è una forma, che non si può comprendere formalisticamente. Perciò esso agisce, opera, struttura e segna solo se non lo si riduce al suo “significato”, ma se lo si lascia “sensibilmente significare”. Cristo e la Chiesa entrano in rapporto mediante i semplici segni di “elementi” e “parole”, che spogliano tutti i soggetti delle vesti che non siano ministeriali e portano in primo piano — oltre ogni visibilità immediata — l’invisibile presenza dei veri soggetti. I diritti e i doveri riguardano i ministri, ma l’esperienza profonda è quella dei doni che Cristo e la Chiesa si scambiano — in Spiritu Sancto, tra loro e con il Padre — nella lode, nel rendimento di grazie e nella benedizione. È la dinamica rituale dei sacramenti a salvaguardare questa possibilità che, cioè, tutto il visibile lasci spazio e faccia posto all’invisibile, e che l’invisibile prenda piede e forma nel visibile.

5.2. La crisi e la guarigione La vita cristiana non è “impassibile”, come ricordava Tommaso d’Aquino. Il recupero di una fontalità rituale costringe a ripensare profondamente la pertinenza dei sacramenti di guarigione — penitenza ed unzione dei malati — alle soglie critiche della vita cristiana. Essi non sono in concorrenza con i sacramenti di iniziazione, ma rimediano alla sopraggiunta inevidenza della vita cristiana, per colpa (paenitentia) o senza colpa (unctio infirmorum). In effetti, tanto la


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penitenza quanto l’unzione parlano al cristiano caduto nella disperazione, nella solitudine e nello sconforto, e si distinguono in ragione delle cause di questa condizione: se la penitenza “rielabora”, a partire dal dono di grazia rinnovato, la difficile risposta della libertà segnata e deformata dal nuovo peccato grave, l’unzione si prende cura, con diverso stile ed altra tattica, della condizione di malattia grave, che atterra l’uomo, che lo isola. Ma, nel sacramento, il peccatore e il prostrato diventano soggetti di annuncio della potenza del bene, che supera il male della colpa ed il malanno grave, impedendogli di sfigurare e di perdere il soggetto cristiano. Rinsaldando il legame con la Chiesa, il sacramento apre il soggetto a riconoscere se stesso come alter Christus.

5.3. La vocazione ed il servizio Il cristiano non è un’isola. Anzi, vi sono due sacramenti in cui non è in gioco la salvezza “propria”, ma quella “altrui”. Per questo i sacramenti dell’ordine e del matrimonio si dicono sacramenti “del servizio”: poiché sono le trasfigurazioni del rapporto di “potere”, dell’attrazione tra i sessi e della loro capacità di generazione, al servizio della vita e della salvezza dell’altro. Proprio per questo motivo, in essi, servire ed essere chiamati appaiono legati da un doppio nodo: essi necessitano, proprio per questa loro delicata natura, di un’adeguata formazione, proprio per correlare la “vita di servizio” con una “identità di figli e di fratelli” che non va affatto da sé, e che anzi, proprio nel contesto delicato dell’esercizio del potere e della relazione sessuale vede facilmente messa in dubbio ogni vocazione, sotto la pressione della necessità e dell’inclinazione, dell’autoaffermazione e della dimenticanza dell’altro. Nella loro qualità finale e conclusiva, questi due sacramenti sono capaci di servire la logica eucaristica nella profondità più inaccessibile del quotidiano lavoro e affanno, leggendolo come gioia di misericordia, grazia donata, incontro di pace.


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5.4. Il tempo e lo spazio del lodare, del render grazie, del benedire Tutto questo admirabile commercium accade, come abbiamo detto, non nell’astrattezza di diritti e di doveri, ma nella concretezza di un dono che si manifesta nello spazio e nel tempo. Quanto potremmo osservare a proposito della differenza di approccio tra “paradigma medievale” e “paradigma conciliare” mi pare emerga bene da questo dato elementare: l’identità non comincia da idee chiare e distinte, ma da un impatto spaziale e temporale con l’anticipazione del Regno che è il discepolato di Cristo vissuto e annunciato dalla Chiesa e come provvisoria ma edificante visibilità. Esso è compimento incompiuto: tatto, gusto, olfatto, udito e vista anzitutto descrivono e delineano uno spazio ed un tempo della rivelazione e della fede. Ogni senso del cristiano — se accetta l’originarietà della mediazione cristiana, senza funzionalizzarla e/o strumentalizzarla ad altro — prende sul serio il proprio accedere ad uno spazio/tempo particolare. Il tatto spaziale e temporale della liturgia non è tocco finale, ma esordio promettente e sapiente di ogni chiesa che celebra. Per questo — per accedere a questa dimensione elementare — occorre liberarsi di tutti i dualismi che, pur provenendo da nobili origini e da alte intenzioni, oggi svolgono quasi solo il ruolo infingardo di inserire nuove contraddizioni nel reale, opposizioni ingiuste di interiore/esteriore, di anima/corpo, di instituzione/forma rituale, di necessario/superfluo, di sostanza/accidente. Potremmo dire che lo spazio/tempo, tipici accidenti nella storia della comprensione teologica, debbono risultare oggi tutt’altro che accidentali, anzi, quasi come elementi sovrasostanziali.

CONCLUSIONE La pensabilità dei riti cristiani apre alla loro rinnovata vitalità e plausibilità nella vita cristiana: non come un ornamento in più, o come un dovere in più, ma come un’esperienza/espressione del dono che costituisce la Chiesa nella sua identità più radicale. Solo una teologia paziente e audace, ad un tempo pudica e radicale, è stata capace — a suo tempo — di ricomprendere questa spor-


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genza rituale della rivelazione e della fede. Se anche noi, oggi e domani, ne saremo ancora all’altezza, potremo non solo lasciarla in eredità ai nostri figli, ma sapremo impostare anche le premesse perché possa essere accessibile, plausibile e addirittura entusiasmante per i nostri nipoti. In questo caso, ancora una volta, il vero pensiero pensa la realtà della comunione non solo in orizzontale, ma anche in verticale. Per questo occorre una nuova radicalità teologica — fuori da ogni ipotesi di radicalismo — e una autentica pudicizia del pensiero — fuori da ogni pornografia spettacolare e cortigiana. Al teologo che vuol dare la parola all’azione simbolico-rituale non si addice né il ruolo di capoclack o di lustrascarpe, né quello di oppositore ad oltranza o di specialista in tiro al bersaglio19. Il rispetto critico e la critica rispettosa sono parte essenziale del ministero teologico: senza queste caratteristiche (che sono virtù da esercitare) possiamo fare tutto nella Chiesa, meno che teologia. E non è affatto detto che un uomo, dopo tanti anni di studio, non debba scoprire, guardandosi nel profondo, che la sua vera vocazione era in realtà un’altra. Siamo tutti fatti così, provvidenzialmente poco trasparenti a noi stessi. Mi si permetta di chiudere con le parole sagge di un grande uomo del XX secolo — M. De Certeau — che ammoniva — 40 anni or sono — a tener viva la coscienza precaria, e perciò decisiva, del lavoro teologico per l’autenticità della esperienza cristiana. Diceva così: «Rifiutando di dare a se stessi il posto della verità, [i cristiani] possono confessare la loro fede in ciò che osiamo chiamare Dio – Dio, indissociabile per noi dall’esperienza che rende gli uomini contemporaneamente irriducibili e necessari gli uni agli altri. Non so che cosa diventerà la religione domani, ma credo fermamente all’urgenza di cercare questa teologia pudica e radicale»20.

19

Il mondo, e in certi casi persino la Chiesa, ha bisogno anche di questi servizi. Ma essi, nella loro specifica funzione apologetica e/o offensiva, non sono mai compatibili con il lavoro teologico, anzi lo smentiscono e lo sfigurano irrimediabilmente. 20 M. DE CERTEAU, La debolezza del credere, Troina 2006, 239.


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Mi pare che proprio da questa teologia — radicale e pudica — debba ripartire e debba alimentarsi quella III fase del ML che non si attende da noi nessun radicalismo, ma una sana ed audace radicalità; nessun tradizionalismo, ma la paziente speranza del pudore. Un’ “identità celebrata” non è affatto uno scherzo o un accidente: essa riguarda il fondamento stesso dell’actus fidei. Se ci accontentassimo di meno di questo, avremmo reso vano tutto il lavoro che il Movimento Liturgico e la Riforma Liturgica hanno preparato per noi. Se invece lo sapremo valorizzare — nella comprensione e nell’azione, nella mente e nel corpo — allora ci saremo messi in relazione con quel “fons” e con quel “culmen” da cui scaturisce e fiorisce tutta l’azione della Chiesa. Perché l’intellectus ritus possa aiutare l’intellectus fidei, tenendolo lontano da ogni intellettualismo. In questo lavoro di riconciliazione tra fenomeno e fondamento della fede non c’è nulla che sia efficace quanto i riti, i quali — per indicare da ultimo ciò che sembra più urgente alla coscienza teologica ed ecclesiale di oggi — costituiscono quel genere di fenomeni che, «più di ogni altro tipo di pratica, servono a sottolineare l’errore di voler includere in concetti una logica fatta per dispensare dai concetti» (P. Bourdieu).


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IDENTITÀ E ALTERITÀ NELLA RIFLESSIONE DI PAUL RICOEUR

GIUSEPPE SCHILLACI*

PREMESSA Identità culturale, politica, religiosa; identità fluida, precaria; identità forte, monolitica; identità inclusiva, identità esclusiva: un’identità che si dice in molti modi… Tale complessa questione abbiamo voluto pensarla dentro quell’orizzonte speculativo che privilegia la riflessione etica. Un orizzonte che ha portato il filosofo francese, di origine ebraica, Emmanuel Levinas a parlare di etica come filosofia prima: «Essere o non essere — è proprio questo il problema? È questa la prima e l’ultima questione? L’essere umano consiste davvero nello sforzarsi d’essere e la comprensione del senso dell’essere — la semantica del verbo essere — è davvero la prima filosofia che s’impone a una coscienza, la quale sarebbe fin dall’inizio sapere e rappresentazione, e manterrebbe la propria baldanza nell’essere-per-la morte, si affermerebbe come lucidità di un pensiero che pensa fino alla fine, sino alla morte e persino nella sua finitudine — già o ancora buona e sana coscienza che non s’interroga sul suo diritto d’essere — sarebbe angosciata o eroica nella precarietà della sua finitudine? Forse che, invece, la prima questione non è sollevata dalla cattiva coscienza? La cattiva coscienza — instabilità diversa da quella con cui mi minacciano la mia morte e la mia sofferenza — pone la questione del mio diritto all’essere che è già la mia responsabilità per la morte di altri, interrompendo la spontaneità, senza circospezione, della mia ingenua perseveranza. Il diritto all’essere e la legittimità di tale diritto non si riferiscono in fin *

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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dei conti all’astrattezza delle regole universali della Legge, ma in ultima analisi, alla stregua di questa stessa legge e della giustizia, al per l’altro della mia non-indifferenza alla morte alla quale — oltre la mia fine — s’espone nella sua stessa dirittura il volto altrui. Che mi guardi (regarde) o meno, esso mi riguarda (regarde). Questione in cui l’essere e la vita si destano all’umano. Questione del senso dell’essere — non ontologia della comprensione di questo verbo straordinario, ma l’etica della sua giustizia. Questione per eccellenza o la questione della filosofia. Non già: perché l’essere anziché il nulla, ma in che modo l’essere si giustifica»1. In un contesto come questo in cui viene posta una particolare attenzione all’etica forse potremmo provare anche a chiederci: in che modo l’identità si giustifica? Dell’identità e dei suoi modi o dei suoi luoghi è nostro desiderio delineare alcuni tratti, da non inquadrare, però, soltanto in una ricerca di carattere epistemologico; non un’identità chiusa dentro una preoccupazione solipsistica ed egocentrica, volta a giustificarsi e a comprendersi sempre all’interno di un orizzonte autoreferenziale, ma una identità da proiettare in un percorso di riconoscimento dell’alterità. Il che significa ripensare l’identità nella sua origine, cioè nella sua costituzione ontologica. Paul Ricoeur2 è un filosofo che nella sua riflessione ha prestato uno speciale interesse alla prospettiva etica, giungendo pure a definirne l’ambito: «chiamiamo ‘impostazione etica’ l’impostazione della ‘vita buona’ con e per gli altri in delle istituzioni giuste»3. La sua è una impostazione che tenta di scorgere, in ultima analisi, la modulazione dell’identità all’interno di una progressione che riguarda il dinamismo del riconoscimento, vale a dire come egli precisa: 1 E. LEVINAS, Ethique comme Philosophie première, Paris 1998, 107-109; il corsivo è nel testo. 2 Paul Ricoeur nasce il 27 febbraio 1913 sulle rive del Rodano nella città di Valence muore a Chatenay-Malabry il 20 maggio 2005. Cristiano di confessione protestante ha tenuto distanti la sua fede e il suo cammino filosofico. Gabriel Marcel, Emmanuel Mounier ed Edmund Husserl sono alcuni dei filosofi con cui egli ha avuto modo di confrontarsi e che hanno avuto un’influenza fondamentale nel suo percorso di maturazione filosofica. La sua è un’opera aperta, ci troviamo dinanzi ad un pensiero polifonico sempre aperto al dialogo e che invita al dialogo. 3 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Paris 1990, 202; il corsivo è nel testo.


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Identità e alterità nella riflessione di Paul Ricoeur

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«il riconoscimento di qualche cosa in generale, il riconoscimento di qualcuno, il riconoscimento di se stesso, e, alla fine del percorso, il riconoscimento reciproco»4.

Questa prospettiva etica del riconoscimento, che porta alla scoperta dell’alterità come dimensione costitutiva dell’identità, vorremmo mostrarla lasciandoci guidare da Ricoeur e dalla sua etica ternaria della persona. Luoghi o modi di identità da cogliere nella stima di sé, nella sollecitudine per l’altro, nelle istituzioni giuste. Una identità segnata da passaggi ricchi e suggestivi: dall’imputazione — alla responsabilità — alla giustizia.

1. CHI

SONO IO E CHE COSA SONO IO?

STIMA

DI SE STESSI E IMPUTA-

ZIONE: «AGISCI IN MODO TALE DA TRATTARE L’UMANITÀ SIA NELLA TUA PERSONA, SIA NELLA PERSONA DI OGNI ALTRO, SEMPRE COME SCOPO MAI COME SEMPLICE MEZZO»

(KANT)

Il punto di partenza in questa nostra riflessione, visto da una prospettiva strettamente filosofica, non può che essere il cogito cartesiano. È quel cogito che si pone o che si autopone. Non si può, a nostro parere, non prendere in considerazione la radicalità di un progetto che vede il cogito costituirsi come la chiave di volta di un sistema, che si pone così alla base della comprensione di un’esistenza; un cogito che, tuttavia, ad un certo punto, deve fare i conti con la sua messa in questione. Il pensiero contemporaneo infatti, in particolare con Friedrich Nietzsche, mette in evidenza la sua inevitabile crisi. Un cogito sempre più debole che stenta a trovare ragioni, motivazioni, senso. Dentro questa dimensione, duplice e ambivalente, di esaltazione e di svalutazione del cogito vorremmo, tuttavia, cercare di cogliere la sua importanza e la sua consistenza. Il tentativo di Ricoeur parte da un progetto fondamentale: ricostruire il concetto di identità personale. Ma come intenderla? Come identità idem o come identità ipse? 4 ID., Il riconoscimento, il dono, in Il Regno-attualità 6 (2004) 178. Cfr. ID., Parcours de la reconnaissance, Paris, 2004.


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Identità come medesimezza o identità come ipseità? Egli mostra come vi sia una dialettica, una distanza tra queste due dimensioni dell’identità: medesimezza e ipseità. Nella prefazione del suo saggio Soimême come un autre, evidenzia come tale questione entra nella dialettica tra il sé e l’altro da sé. Ora, però «finché si rimane nel cerchio dell’identità-medesimezza, l’alterità dell’altro da sé non offre niente di originale: ‘altro’ figura […] nella lista degli antonimi dell’‘identico’, accanto a ‘contrario’, ‘distinto’, ‘diverso’»5.

Il problema dell’identità si pone diversamente se, invece, poniamo l’uno accanto all’altro ipseità e alterità: «Un’alterità che non è — o che non è soltanto — un termine di paragone come suggerito dal nostro titolo, un’alterità tale che possa essere costitutiva dell’ipseità stessa. Sé come un altro suggerisce fin dall’inizio che l’ipseità del se stesso implica l’alterità ad un grado così intimo che l’una non si lascia pensare senza l’altra, che l’una passa piuttosto nell’altra — come diremmo in linguaggio hegeliano. Al come vorremmo annettere la significazione forte, legata non soltanto ad una comparazione — se stesso somigliante a un altro —, ma ad una implicanza: sé in quanto […] altro»6.

In questo quadro di riferimento, secondo il nostro autore, «per identità possiamo intendere due cose differenti: si può avere presente la permanenza di una sostanza immutabile che il tempo non altera: parlerei in questo caso di medesimezza (mêmeté). Ma abbiamo un altro modello di identità»7,

che si esprime in una identità che mantiene se stessa nella promessa. Questo altro modello di identità si richiama alla tenuta di sé, cioè ad 5

ID., Soi-même comme un autre, cit., 13. Ibid., 13-14; il corsivo è nel testo. 7 ID., L’etica ternaria della persona, in ID., Persona, comunità e istituzioni, San Domenico di Fiesole (FI) 1994, 91. 6


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Identità e alterità nella riflessione di Paul Ricoeur

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un soggetto che si consegna e si impegna nel momento stesso in cui dice: io prometto. La promessa implica e richiama il rapporto con un altro. La promessa, quindi, oltre alla tenuta di sé è la consegna di sé a un altro. L’identità, in questo senso, viene allora posta da Ricoeur all’interno di una polarità che non si può ridurre soltanto alla questione del chi o del che cosa: «Non voglio limitarmi a opporre puramente e semplicemente medesimezza e ipseità, come se la medesimezza corrispondesse alla questione del ‘Che cosa?’ e l’ipseità alla questione ‘Chi?’. In un certo senso, la questione ‘che cosa’ è interna alla questione ‘chi’. Posso porre la questione ‘chi sono io?’ senza interrogarmi su ‘ciò che io sono?’. La dialettica della medesimezza e dell’ipseità è così interna alla costituzione ontologica della persona»8.

È senza dubbio all’interno di questa costituzione ontologica della persona che si deve provare a scorgere la questione dell’identità. In particolare, Ricoeur distingue queste due polarità dell’identità che vengono da lui inscritte, con lucidità e profondità, nella dimensione storica, mediante le categorie del tempo e del racconto. Egli, infatti, proprio all’interno della dimensione temporale ricerca la mediazione tra queste due polarità dell’identità. Soprattutto attraverso la nozione, fortemente evocativa, di identità narrativa penetra in quello stadio intermedio che riconcilia medesimezza e ipseità. «L’identità narrativa può essere vista come uno stadio intermedio tra la stabilità di un personaggio (nel senso psicologico del termine) e il modello della tenuta del sé, esemplificato dalla promessa»9.

La riflessione filosofica che Ricoeur porta avanti, nel suo itinerario speculativo, ponendo l’accento sulla nozione di identità narrativa, sembra decisamente privilegiare la dimensione dell’autocomprensione, collocandosi così nel solco della migliore tradizione riflessiva 8 9

L.c. ID., L’identità personale. Il Self, in ID., Persona, comunità e istituzioni, 62-63.


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francese. Ricerca esistenziale ed esigenza riflessiva sono posti sempre, nell’arco della sua speculazione, in vista di una più consapevole comprensione di sé. In questa prospettiva anche l’incontro dialettico tra il mondo del testo e il mondo del lettore può contribuire alla propria comprensione di sé. Per cui scrive Ricoeur: «l’autocomprensione è da parte a parte narrativa. Comprendersi è recuperare la storia della propria vita ora, comprendere questa storia, significa farne il racconto, secondo la procedura dei racconti, siano essi storici o fittizi, che abbiamo compreso e amato. Così diventiamo lettori della nostra propria vita, secondo l’auspicio di Proust in quel testo magnifico del Tempo ritrovato […]. “Ma per ritornare a me stesso, pensavo più modestamente al mio libro, e sarebbe anche inesatto dire, pensando a quelli che lo leggeranno, ai miei lettori, poiché essi non sarebbero secondo me i miei lettori, ma i lettori di se stessi, dal momento che il mio libro è solo una sorta di lenti ingrandenti che l’ottico di Combray offriva a un compratore; il mio libro, grazie al quale fornirò loro il mezzo di leggere in loro stessi”»10.

La nozione di identità narrativa abbandona, anche nel linguaggio, quella dimensione di immutabilità propria di una realtà cosificata, per assumere la capacità propria di autocomprensione che possiede colui che racconta la propria storia; autocomprensione che passa attraverso il riconoscimento del proprio cambiamento. L’identità di una persona non è l’identità di una cosa o di una struttura. Per tale motivo, sottolinea Ricoeur, «L’esame della nozione di identità narrativa offre l’occasione per distinguere l’identità del sé da quella delle cose; quest’ultima va ricondotta in ultima istanza alla stabilità, ossia all’immutabilità della struttura, illustrata dalla formula genetica di un organismo vivente; l’identità narrativa, per contrasto, ammette il cambiamento; questa mobilità è quella dei personaggi delle storie che noi raccontiamo; essi sono coinvolti insieme alla storia stessa. La nozione di identità narrativa è molto importante per una ricerca sulle identità dei popoli e delle 10 ID., Per una autobiografia intellettuale, in ID., Persona, comunità e istituzioni, 53. Si vedano i tre volumi di P. RICOEUR, Temps e récit, 3 voll., Paris 1983-1985.


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nazioni, poiché porta lo stesso carattere drammatico e narrativo che si rischia troppo spesso di confondere con l’identità di una sostanza o di una struttura. A livello di storia dei popoli, come degli individui, la contingenza delle peripezie contribuisce al significato globale della storia raccontata e a quella dei suoi protagonisti. Riconoscerlo è liberarsi da un pregiudizio che concerne l’identità rivendicata dai popoli nella forma dell’arroganza, della paura o dell’odio»11.

Da tale nozione scaturisce l’importanza e la necessità di sottolineare sempre più, per esempio, il carattere della persona umana. Carattere che indica quell’insieme di disposizioni durature per cui noi riconosciamo le caratteristiche peculiari che tratteggiano l’identità della persona, o, ancora, che rinvia a quella disposizione che la persona umana mostra nella promessa ad una parola data e che ci consegna l’esperienza di una fedeltà in un rapporto vissuto con rispetto, fiducia, riconoscenza. Tutto ciò enuclea la consistenza di una identità che si apre serenamente al rapporto con l’altro. L’approdo di un tale riconoscimento è la stima di sé. La stima di sé non è da intendere come un momento di chiusura narcisistica, ma è anzitutto l’esperienza del proprio sé. In questa prospettiva ricca di senso, affiora la consistenza di un soggetto capace di prendere coscienza di sé, di condurre la propria vita e quindi di essere protagonista nella sua esistenza temporale. Una persona capace di prendere la parola, di agire, di promettere, di mantenere la parola data. Tutto questo dentro un rapporto di continuo riconoscimento e di reciprocità. Rispetto e stima sono atteggiamenti fondamentali che consentono la chiarificazione della nozione di identità. In particolare, nella struttura ternaria della persona, secondo Ricoeur, la stima di sé e il rispetto sono il primo passo per cercare di delineare l’identità della persona umana come soggetto di imputazione: «la stima di se stessi e il rispetto di se stessi insieme definiscono la dimensione etica o morale della ipseità. Definiscono il soggetto umano come soggetto di imputazione»12. 11 12

ID., Chi è il soggetto di diritto?, in ID., Persona, comunità e istituzioni, 69. ID., L’identità personale. Il Self , in ID., Persona, comunità e istituzioni, 64.


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La questione dell’identità può anche essere posta allora in questi termini: «in che modo stimiamo o rispettiamo noi stessi? La risposta è: ci stimiamo in quanto capaci di designare noi stessi come locutori delle nostre narrazioni, come agenti delle nostre azioni, come gli eroi e i narratori delle storie che noi raccontiamo di noi stessi. A queste capacità vengono aggiunte quelle di valutare le nostre azioni in termini di ‘buono’ e ‘obbligatorio’. Ci consideriamo meritevoli della nostra stima. Rispettiamo noi stessi come meritevoli di giudicare le nostre azioni imparzialmente. La stima di se stessi e il rispetto di se stessi sono in ogni esempio indirizzati a un soggetto meritevole»13.

Rispetto, stima e capacità di rispondere dei propri atti sono questi gli aspetti fondamentali che mostrano il tratto identitario di una persona. La ben nota formula etica di Immanuel Kant, nella sua fondazione della metafisica dei costumi, che dichiara, «agisci in modo tale da trattare l’umanità sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo mai come semplice mezzo», indica la reciprocità del rispetto. Questa formulazione etica mostra, secondo Ricoeur, il quadro di riferimento dentro cui bisogna comprendere la stima di sé: «Non posso esprimere stima di me stesso senza ascrivere all’altro la stessa capacità di stimarsi come un soggetto capace. Come me tu puoi designarti come un soggetto capace o un soggetto responsabile delle sue parole, delle sue azioni»14.

Ci troviamo dinanzi ad un soggetto umano degno di rispetto, ma nello stesso tempo capace di rispondere dei propri atti e quindi di sopportarne le conseguenze. Cosicché egli è colui che può essere imputato con il pronome relativo chi?:

13 14

Ibid., 65. L.c.


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«Chi è colui che parla? Chi ha compiuto tale o talaltra azione? Di chi è questo racconto? Chi è responsabile di questo danno o di questa azione cattiva verso un altro?»15.

Stima di sé e rispetto di sé si riferiscono, pertanto, ad un soggetto capace di imputazione etico-giuridica, che richiama la dimensione del riconoscimento e della reciprocità intersoggettiva. Il riconoscimento è costitutivo sia di se stessi che dell’altro. L’apparire dell’altro, che mi rende responsabile e mi chiama alla responsabilità, viene pensato da Ricoeur dentro questo fondamentale dinamismo di riconoscimento.

2. SOLLECITUDINE

PER L’ALTRO E RESPONSABILITÀ:

«FAI AGLI ALTRI QUELLO CHE VORRESTI FOSSE FATTO A TE» (CFR. MT 7,12) (REGOLA D’ORO)

Una vita compiuta parte da un soggetto capace di stima di sé, cioè parte da un soggetto capace di assumersi le conseguenze dei propri atti, un soggetto capace di imputazione. La stima di sé — come già accennato — non è una forma raffinata di egoismo o di solipsismo. «Il termine sé è là per mettere in guardia contro la riduzione ad un io centrato su se stesso. In un certo senso, il sé al quale va la stima — nell’espressione di sé — è il termine riflessivo di tutte le persone grammaticali — anche la seconda persona […] non sarebbe una persona, se io non potessi sospettare che, rivolgendosi a me, ella si sa capace di designare se stessa come colei che si rivolge a me, e così si rivela capace di stima di sé, definita dall’intenzione e dall’iniziativa»16.

Il percorso speculativo di Ricoeur anche nel saggio Soi-même come un autre17 si sviluppa essenzialmente come un’ermeneutica del sé. Quale 15

ID., Chi è il soggetto di diritto?,in ID., Persona, comunità e istituzioni, 67-68. ID., L’etica ternaria della persona, cit., 79. 17 Occorre notare a proposito del titolo del saggio che “Si tratta di una espressione che Paul Ricoeur ricava dal senso preciso di una frase del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: ‘spento che fosse in noi ogni orgoglio, bisognerebbe che ci amassimo come qualunque dei membri sofferenti di Cristo’. Non è senza 16


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sorta di essere è il sé? Il sé nella prospettiva indicata dal nostro filosofo si può cogliere più propriamente nel rapporto dialettico tra ipseità e alterità: «dialettica della reciprocità e del riconoscimento. L’alterità non si aggiunge dal di fuori come per prevenire una sorta di deriva solipsistica, ma appartiene alla dinamica del senso e «alla costituzione ontologica della ipseità»18.

Nella riflessione filosofica di Ricoeur l’alterità ha, però, un significato polisemico alla stregua della polisemia della ipseità: «la polisemia dell’ipseità, sottolineata per prima, serve in qualche modo da rivelatrice riguardo alla polisemia dell’Altro, che si pone dinanzi al Medesimo, nel senso di se stesso»19.

L’alterità viene portata alla luce da una triplice dimensione: il corpo proprio o la carne, l’alterità d’autrui, la coscienza. L’alterità nel cuore stesso della ipseità agisce, lavora, come passività. Secondo il nostro autore «il termine ‘alterità’ resta riservato al discorso speculativo, mentre la passività diviene l’attestazione stessa dell’alterità»20. interesse ricordare che questa espressione si incontra anche, verbatim, nella Fenomenologia dello spirito di Hegel”: PIERRE-JEAN LABARRIÈRE, Logica, fondamento dell’etica. Autosostanza e relazione, Cantalupa (TO), 20. Il testo di Bernanos recita precisamente: «N’importe! C’est fini. L’espèce de méfiance que j’avais de moi, de ma personne, vient de se dissiper, je crois, pour toujours. Cette lutte a pris fin. Je ne la comprends plus. Je suis réconcilié avec moi-même, avec cette pauvre dépouille. Il est plus facile que l’on croit se haïr. La grâce est de s’oublier. Mais si tout orgueil était mort en nous, la grâce des grâces serait de s’aimer humblement soi-même, comme n’importe lequel des membres souffrants des Jésus-Christ»: Georges Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris 1936, 252. Ricoeur non nasconde una sorta di incanto dinanzi a questo testo che egli cita in una nota del saggio in questione Soi-même comme un autre, 36 nota 3. 18 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., 367. 19 Ibid., 368. 20 L.c.


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Tutto ciò per impedire che il cogito prenda il posto del fondamento: un cogito, come abbiamo visto, che proprio per questo non è né esaltato né umiliato21. Una identità pensata in termini di passività vuol dire che l’alterità è nel cuore stesso della ipseità. Perciò egli assume come ipotesi di lavoro «il tripode della passività, e quindi dell’alterità. Innanzitutto, la passività riassunta nell’esperienza del corpo proprio, o meglio, […], della carne, in quanto mediatrice tra il sé e un mondo esso stesso preso secondo i suoi gradi variabili di praticabilità e dunque di estraneità. In seguito, la passività implicata dalla relazione di sé con l’estraneo, nel senso preciso dell’altro da sé, e dunque l’alterità inerente alla relazione di intersoggettività. Infine, la passività più dissimulata, quella del rapporto di sé con se stessi che è la coscienza, nel senso di Gewissen più che di Bewusstsein. Ponendo, così, la coscienza come terza in rapporto alla passività-alterità del corpo proprio e quella d’autrui, sottolineamo la straordinaria complessità e la densità relazionale della meta-categoria dell’alterità»22.

Sulla straordinaria complessità e densità di relazione della meta-categoria dell’alterità non possiamo fermarci molto, ma è evidente l’importanza che riveste per il problema dell’identità. Non possiamo pensare di delineare luoghi e modi dell’identità, senza cogliere la ricchezza propositiva in senso teoretico speculativo dell’alterità e come attestazione concreta della passività. L’identità che si lascia raggiungere e interpellare dalle diverse accezioni di alterità non può che definirsi in termini di passività.

21

Cfr. l.c.: «La vertu principale d’une telle dialectique est d’interdire au soi d’occuper la place du fondement. Cet interdit convient parfaitement à la structure ultime d’un soi qui ne serait ni exalté, comme dans les philosophies du Cogito, ni humilié comme dans les philosophies de l’anti-Cogito. J’ai parlé dans la préface de cet ouvrage di Cogito brisé pour dire cette situation ontologique insolite. Il faut maintenant ajouter qu’elle fait l’objet d’une attestation elle-même brisée, en ce sens que l’altérité jointe à l’ipséité, s’atteste seulement dans des expériences disparates, selon une diversité de foyers d’altérité». 22 Ibid., 368-369.


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a) La prima accezione di passività-alterità rinvia all’esperienza fondamentale per l’uomo, per ogni uomo, del corpo proprio23. È nel proprio corpo che il soggetto ravvisa l’azione di un agente che agisce dal fuori. Il soggetto è inteso qui come realtà che subisce, che patisce. Normalmente si parla di un uomo che agisce ma è anche colui che nello stesso tempo patisce. In questa interrelazione tra agente e paziente si rivelano vari gradi di passività per cui «il corpo proprio si rivela essere il mediatore tra l’intimità dell’io e l’esteriorità del mondo»24. Particolarmente significativa la riflessione di Maine de Biran dal quale dipendono diversi autori che hanno posto l’attenzione all’interiorità: da Maurice Blondel a Michel Henry. Questa prima accezione ci conduce a distinguere tra corpo oggetto e corpo soggetto. La lingua tedesca ci aiuta distinguendo Körper e Leib. Il corpo in senso fisiologico e biologico è espresso con il termine Körper, mentre il corpo come realtà vissuta ed esperimentata è espresso con il termine Leib. Husserl, nelle sue Meditazioni cartesiane, introduce questa distinzione: «tra i corpi di questa Natura, ridotta a ciò che mi appartiene, trovo il mio proprio corpo organico (Leib) che si distingue da tutti gli altri corpi per una particolarità unica; è, in effetti, il solo corpo che non è soltanto corpo, ma precisamente corpo organico»25.

Michel Henry, facendo propria questa distinzione di Edmund Husserl, precisa che il corpo corrisponde al termine tedesco Körper, mentre la carne corrisponde al termine Leib26. Il corpo proprio si riferisce chiaramente al corpo soggetto che prova, che sente se stesso e non ad un corpo oggetto. Il corpo che prova se stesso è il soggetto incarnato. L’esperienza della passività, così come viene presentandosi, non può essere considerata se non a partire da questa prima dimensione 23 Sul tema del corpo si veda il mio saggio Essere come dis-inter-esse. Dalla corporeità alla carità, Firenze 2006, 7-45. 24 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., 372. 25 E. HUSSERL, Méditations cartésiennes, Paris 1986, 80. 26 Cfr. M. HENRY, Incarnation. Une philosophie de la chair, Paris 2000.


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di alterità che è la corporeità. La prima delle alterità è basilare perché sorga la seconda, l’alterità dell’altro: «Senza la prima alterità — dice Derrida interloquendo con il pensiero di Levinas — quella dei corpi (e autrui è dall’inizio del gioco un corpo), la seconda non potrebbe sorgere. Bisogna pensare insieme il sistema di queste due alterità, l’una iscritta nell’altra»27.

b) L’alterità d’autrui è pertanto la seconda accezione di alteritàpassività con la quale, secondo Ricoeur, bisogna fare i conti. Nella dialettica tra identità e alterità, viene messo in luce che l’alterità non è da pensare soltanto come una contropartita dell’identità, ma appartiene alla costituzione intima di quest’ultima, oltre a costituire il senso stesso di questa dialettica. Nella relazione intersoggettiva, secondo il nostro autore, la dialettica identità-alterità non è unilaterale: «vorrei mostrare essenzialmente che è impossibile costruire in modo unilaterale questa dialettica, sia che si tenti con Husserl di derivare l’alter ego dall’ego, sia che con Levinas si riservi all’Altro l’iniziativa esclusiva di chiamata del sé alla responsabilità»28.

Sono questi due movimenti complementari: dall’io all’altro, dall’altro all’io che attestano questa dimensione di passività. Ora, si capisce l’alterità a partire dall’identità o l’identità a partire dall’alterità? La passività è in particolare attestata dalla relazione del sé con l’estraneo, così come viene descritta dall’opera di E. Levinas, alla quale il nostro autore riserva qualche critica, a proposito della estraneità e ambivalenza dell’altro e della relazione asimmetrica tra l’io e l’altro29. L’identità si 27

J. DERRIDA, L’écriture e la différence, Paris 1967, 183. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., 382. 29 Cfr. ibid., 392. Si veda a tal proposito: P. Ricoeur, La persona, Brescia 1998, 41-42: «Benché sottoscriva le analisi di Levinas sul volto, l’esteriorità, l’alterità, perfino il primato dell’appello venuto dall’altro sul riconoscimento di sé da parte di sé, mi pare che l’istanza etica più profonda sia quella della reciprocità, che costituisce l’altro in quanto mio simile e me stesso come il simile dell’altro. Senza reciprocità — o, per usare un concetto caro a Hegel, senza riconoscimento — l’alterità non sarebbe quella 28


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mostra concretamente nel volto dell’altro, dal quale mi giunge una voce come un comando. Il volto è l’espressione di una esteriorità e di una infinità che lasciano immaginare una ulteriorità mai riconducibile alla semplice visione o descrizione. Il corpo che mostra il suo volto è l’espressione di una identità mai esauribile in un concetto. Il volto mostra i tratti della ineffabilità: «L’essere umano non ha soltanto un corpo, ma anche un volto. Un volto non può essere trapiantato o scambiato con un altro. Un volto è un messaggio, spesso all’insaputa della stessa persona. Non è forse il volto umano un misto vivente di mistero e significato? Tutti lo vediamo e nessuno riesce a descriverlo. Non è forse un miracolo straordinario che tra tante centinaia di milioni di volti non ve ne siano due uguali? E che nessun volto rimanga perfettamente uguale per più di un attimo? È la parte del corpo più esposta, la più nota, ed è anche la meno descrivibile, un’incarnazione dell’unicità. Chi può guardare un volto come se fosse un luogo comune?»30.

È inevitabile su questa nozione un riferimento, seppure succintamente, al pensiero di Levinas. È lui che più di tutti ha messo l’accento su questa nozione, che riveste i tratti di un nuova categoria filosofica. Nuova non solo perché mette in discussione le categorie tradizionali, ma anche perché non corrisponde al tradizionale schema conoscitivo. Il volto, infatti, non lo si conosce, cioè non è oggetto di conoscenza, ma lo si incontra. Il volto, in altre parole, si presenta in una relazione etica e non in un processo conoscitivo. Levinas dice a tal proposito: «mi domando se si può parlare di uno sguardo rivolto al volto; infatti lo sguardo è conoscenza, percezione. Penso piuttosto che l’accesso al volto è immediatamente etico. Quando lei vede un naso, degli occhi, una fronte, un mento, lei può descriverli, si rivolge verso altri come verso un oggetto. La maniera migliore di incontrare altri è di non di un altro da sé, ma l’espressione di una distanza indiscernibile dall’assenza. Altro mio simile: questa è l’aspirazione dell’etica nei confronti del rapporto tra la stima di sé e la sollecitudine». 30 A. HESCHEL, Chi è l’uomo?, Milano 1971, 67-68.


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notare neppure il colore dei suoi occhi! Quando si osserva il colore degli occhi non si è in relazione sociale con altri. La relazione con il volto può certo essere dominata dalla percezione, ma ciò che è specificamente volto è ciò che non vi si riduce»31.

Il volto non può essere rinchiuso in una definizione. Incontrare un volto è avvicinarsi ad una apertura profonda e ad una identità inesauribile, in questo senso allora egli ribadisce che: «Il volto non è l’accostamento di un naso, di una fronte, di occhi eccetera; è tutto questo, certo, ma prende il significato di un volto mediante la dimensione nuova che esso apre nella percezione di un essere. Attraverso il volto, l’essere non è solo rinchiuso nella sua forma e a portata di mano: è aperto, si installa in profondità e, in questa apertura, si presenta in qualche modo personalmente. Il volto è un modo irriducibile secondo cui l’essere può presentarsi nella sua identità»32.

Il volto rivela innanzitutto una identità. È l’identità e l’epifania dell’altro. L’altro si offre a me, nella sua condizione di alterità, nel suo corpo, esibendo la sua identità nel volto. Il volto è essenzialmente l’identità dell’altro che, nondimeno, dice e ridice anche la mia identità: «il volto è l’identità stessa di un essere [umano]. Esso vi si manifesta di persona, senza concetto. La presenza sensibile di questo casto lembo di pelle con fronte, naso, occhi, bocca, non è un segno che permette di risalire verso la realtà significata, né una maschera che nasconde la realtà. La presenza sensibile qui si desensibilizza per lasciar apparire direttamente colui che si riferisce soltanto a se stesso, colui che è identico a se stesso»33.

È questo il nuovo nome dell’essere secondo Levinas; un essere non da concettualizzare, ma da incontrare senza contraccambio o 31 32 33

E. LEVINAS, Etica e Infinito, Roma 1984, 99-100. ID., Difficile liberté, Paris 1963, 20. ID., Moi et totalité, in Revue de métaphysique et de morale 50 (1954) 369.


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corrispettivo alcuno. L’incontro con il volto è l’incontro etico con un corpo che si espone, che si denuda sebbene di una nudità dignitosa. Il volto si esprime esponendosi alla minaccia e all’offesa, tuttavia resiste pur essendo indifeso: «C’è innanzitutto la dirittura stessa del volto, la sua esposizione diretta, senza difesa. La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c’è una povertà essenziale; ne è prova il fatto che si cerca di mascherare questa povertà assumendo delle pose, dandosi un contegno. Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere»34.

Il volto è l’esperienza dell’altro nella sua alterità e nella sua inviolabilità. Il volto, nel momento stesso in cui si espone, mi invita al rispetto. Nel volto è iscritta una domanda e un comando. È questa la sua povertà e la sua autorevolezza. Il corpo più esposto a qualsiasi violenza è la parola che mi chiama a rispondere con senso di responsabilità: «Volto e discorso sono legati. Il volto parla. Parla in quanto è lui che rende possibile e inizia ogni discorso. […] Il discorso e, più esattamente, la risposta o la responsabilità, è questa relazione autentica»35.

L’espressione che manifesta il volto, non mira ad un possesso o ad un potere, mi rivolge la parola, è dialogo. Il corpo come volto si consegna simultaneamente come espressione e parola; il volto dunque si esprime e parla, mi dice la sua identità presentando anche la sua fame, la sua indigenza. Il volto si presenta come un interlocutore che tuttavia fa irruzione a bruciapelo nella mia vita. Si presenta senza mediazione, è esposto nella sua nudità indigente; l’altro viene a visitarmi nel volto del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero. È il corpo martoriato delle vittime, degli ultimi, degli indigenti che non 34 35

ID., Etica e Infinito, cit., 100. Ibid., 102.


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finisce di interpellarmi. Il volto è presenza di un’alterità irriducibile ad ogni pretesa omologazione; è l’identità che non è posta da me, ma che viene a me da altrove. Identità altra! Il corpo dell’altro si consegna nel volto come una messa in questione della mia stessa identità, da cui ripartire continuamente. Il corpo dell’altro, che si presenta a me come volto, è allora una epifania che mi chiama ad uscire da me stesso e andare incontro all’altro. Non sono io a prendere l’iniziativa, ma sono come condotto fuori da me, espulso da me stesso per essere responsabile dell’altro, chiamato pertanto a prendermi cura dell’altro. Il corpo della vittima è un’autentica chiamata a divenirne responsabile. Il rapporto che si instaura tra me e l’altro è un compito e una responsabilità senza fine. Il corpo dell’altro, proprio nella sua più nuda indigenza, nel suo essere senza difesa, grida la sua invocazione ed anche la sua resistenza. È la resistenza etica di chi non ha resistenza. Il corpo dell’altro, esposto alla violenza, non oppone una forza più grande, ponendosi nella stessa logica della violenza, ma esibisce la non resistenza del volto da cui scaturisce la parola originaria: «tu non mi ucciderai». «L’infinito paralizza il potere attraverso la sua resistenza infinita all’omicidio, che, dura e insormontabile, brilla nel volto dell’altro, nella nudità totale dei suoi occhi senza difesa, nella nudità dell’apertura assoluta del Trascendente. C’è qui una relazione non con una resistenza molto grande, ma con qualcosa di assolutamente Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza — la resistenza etica»36.

Dall’estrema povertà ed indigenza mi giunge una parola non di lotta, ma un grido e una domanda di aiuto da accogliere e amare. È l’invito a donarmi, in concreto, a strapparmi il pane dalla bocca per rispondere alla sua indigenza e nutrire la sua fame. Quando il corpo non è percepito più come volto siamo sulla strada della violenza, ossia siamo sulla strada della riduzione dell’altro a puro oggetto o strumento di piacere. Guardare l’altro e non percepirlo più come volto vuol dire avere imboccato questa via in cui non 36

ID., Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, La Haye 1984, 173.


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c’è il riconoscimento, ma l’asservimento dell’altro; non si guarda un volto, ma ci si appropria di un oggetto! Nel momento in cui si guarda l’altro non perché l’altro è un volto che mi riguarda, ma perché precisamente senza volto, lo abbiamo cosificato e annullato come altro. Non ha un volto, non ha un’identità! Lo si può accantonare, manipolare, violentare. È un corpo senza volto. Guardare faccia a faccia l’altro è un invito al dialogo e alla parola, non alla violenza. Un’identità che si misura con l’alterità, cioè con un’altra identità, è chiamata a riscoprire sempre più se stessa, l’identità più profonda, che non ha in sé la propria ragione d’essere. Essere in altro! Essere dall’altro! Essere altro… c) Detto questo della seconda, bisogna dire della terza passività, la più dissimulata ma con la quale non si può non fare i conti. Si tratta del rapporto di sé con se stessi, della coscienza, nella quale Ricoeur scorge la verticalità di un richiamo, la profondità di una voce. Nella coscienza egli vede una forma originale di dialettica tra ipseità e alterità. La voce della coscienza! La voce è metafora di una coscienza che non solo ascolta e dialoga con se stessa, ma ascolta e dialoga con un altro; è voce di un altro che si presenta come «una dissimmetria notevole, che possiamo dire verticale, tra l’istanza che richiama e il sé richiamato. È la verticalità del richiamo, pari alla sua interiorità, che fa l’enigma del fenomeno della coscienza»37.

Ascoltare la voce significa essere ingiunti da un altro per cui la coscienza si scopre progressivamente come passività. La coscienza sperimenta pertanto la propria passività nell’essere richiamata, ingiunta: «la passività dell’essere-ingiunto consiste nella situazione di ascolto in cui il soggetto etico si trova posto in rapporto alla voce che a lui è rivolta alla seconda persona. Trovarsi interpellato alla seconda persona, nel cuore stesso dell’ottativo del vivere-bene, quindi dell’in37

P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., 394.


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terdizione di uccidere, quindi ancora della ricerca appropriata alla situazione, significa riconoscersi ingiunti a vivere-bene con e per gli altri in delle istituzioni giuste e di stimare se stessi come portatori di questa aspirazione. L’alterità dell’Altro è allora la contropartita, sul piano della dialettica dei ‘grandi generi’, di questa passività specifica dell’essere-ingiunto»38.

L’ingiunzione è la struttura stessa dell’ipseità, l’alterità dimora nel cuore stesso dell’identità. Di fronte all’alternativa tra l’estraneità di Martin Heidegger o l’esteriorità di Emmanuel Levinas, Ricoeur afferma risolutamente: «opporrò con ostinazione il carattere originale e originario di ciò che mi sembra costituire la terza modalità di alterità, cioè l’essere-ingiunto in quanto struttura dell’ipseità»39.

Questa è la risposta che Ricoeur riserva a Levinas a conclusione del suo saggio Se stesso come un altro: «Condividendo con E. Levinas la convinzione che l’altro è il cammino obbligato dell’ingiunzione, mi permetterò di sottolineare […] la necessità di mantenere una certa equivocità sul piano puramente filosofico dello statuto dell’Altro, soprattutto se l’alterità della coscienza deve essere tenuta come irriducibile a quella dell’altro. Certo, E. Levinas non manca di dire che il volto è la traccia dell’Altro. La categoria della traccia sembra così correggere e completare quella di epifania. Forse il filosofo, in quanto filosofo, deve confessare che egli non sa e non può dire se questo Altro, fonte dell’ingiunzione, è un altro che io posso guardare in faccia o che mi possa squadrare, o i miei antenati di cui non c’è alcuna rappresentazione tanto il mio debito nei loro confronti è costitutivo di me stesso, o Dio — Dio vivente, Dio assente — o un posto vuoto. Su questa aporia dell’Altro, il discorso filosofico si arresta»40.

38 39 40

Ibid., 406; il corsivo è nel testo. Ibid., 408-409; il corsivo è nel testo. Ibid., 409.


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Le considerate tre modalità di alterità rivelano altrettante esperienze di passività per tentare di pensare o ripensare l’identità a partire dall’Altro, per cui conclude Ricoeur: «solo un discorso altro da se stesso, direi plagiando Parmenide, e senza avventurarmi oltre nella foresta della speculazione, conviene alla meta-categoria dell’alterità, pena il sopprimersi dell’alterità che diventerebbe medesima di se stessa»41.

L’Altro così si presenta non solo come una apertura ma come un’origine, un principio vero e proprio.

3. ISTITUZIONI GIUSTE E GIUSTIZIA: “RENDERE A CIASCUNO IL SUO” La questione dell’identità e dell’alterità si mostra in tutta la sua problematica ricchezza intersecando queste due modalità, appena esaminate, proprie di un’etica della persona umana che ha stima di sé e che è capace di sollecitudine per l’altro, prendendosene cura. Questo intreccio mostra una modalità ulteriore che scaturisce dal rapporto stesso tra il sé e l’altro. Nello specifico, il rapporto asimmetrico con l’altro — per utilizzare un termine caro a Levinas — lascia lo spazio ad un terzo, che fa diventare il rapporto da asimmetrico simmetrico. Si tratta di un terzo non escluso ma incluso! In tal modo fa irruzione, nella esistenza personale e intersoggettiva, quella realtà che chiamiamo istituzionale, non come posta accanto alla vita, ma facente parte della vita stessa. Vivere una vita compiuta con e per gli altri, in delle istituzioni giuste, è l’auspicio formulato più volte dal nostro Ricoeur: «Introducendo il concetto di istituzione, faccio riferimento ad una relazione all’altro che non si lascia ricostruire sul modello dell’amicizia. L’altro è il vis-à-vis senza volto, il ciascuno, di una distribuzione giusta. Non direi che la categoria del ciascuno si identifica con quella dell’a41

Ibid., 410.


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nonimo, secondo un’identificazione troppo rapida l’on di Kierkegaard e di Heidegger. Il ciascuno è una persona distinta, ma che io non raggiungo se non mediante i canali dell’istituzione»42.

L’istituzione indica precisamente la struttura concreta che permette il vivere insieme di una comunità storica. Il rapporto con l’altro, se fosse unico, si svilupperebbe essenzialmente nella linea dell’amicizia, della generosità e della gratuità. Chi ama veramente non pensa mai al contraccambio, all’interesse, al tornaconto. Per cui amare veramente significa consegnarsi, donarsi. Se l’io fosse solo dinanzi ad un tu si troverebbe nella condizione di donargli tutto. Un io nel suo rapporto di amicizia e amore nei confronti del tu gli deve pertanto tutto! Se ci troviamo dinanzi una prospettiva che chiamiamo asimmetrica il tipo di rapporto che ci si presenta non ha bisogno di compensazione. Il rapporto simmetrico esige invece l’equiparazione, la giustizia. Quando nel rapporto a due, infatti, fa irruzione il terzo, il rapporto diventa istituzionale, si equipara: «Ciò che distingue la relazione con l’altro nell’istituzione dalla relazione di amicizia nel faccia a faccia, è precisamente questa mediazione delle strutture di distribuzione, alla ricerca di una proporzionalità, degna di essere chiamata equa»43.

Giunti a questo punto, Ricoeur si domanda: cosa mancherebbe ad un soggetto che è capace di stima di sé, di rispetto di sé, di sollecitudine per l’altro? Cosa manca ad un soggetto per essere vero soggetto di diritto? La risposta è: «Gli mancano le condizioni di attualizzazione di queste attitudini. Queste hanno in effetti bisogno della mediazione continua di forme interpersonali di alterità e di forme istituzionali di associazione, per divenire poteri reali a cui corrispondono diritti reali. Precisiamo. In effetti, prima di tirare le conseguenze da questa affermazione per la filosofia politica e la filosofia del diritto, occorre intendersi su quelle che si 42 43

ID., L’etica ternaria della persona, cit., 80. Ibid., 81.


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Giuseppe Schillaci sono chiamate forme interpersonali d’alterità e d’associazione. L’analisi deve portare non solo sulla necessità di una mediazione che si può chiamare mediazione dell’altro in generale, ma su quella di uno sdoppiamento dell’alterità stessa in alterità interpersonale e alterità istituzionale. In effetti, per una filosofia dialogale c’è il rischio di limitarsi alle relazioni con l’altro che solitamente si pongono sotto l’emblema del dialogo tra l’io e il tu. Solo queste relazioni meritano di essere qualificate come interpersonali. Ma a questo faccia a faccia manca la relazione al terzo, che sembra altrettanto originaria quanto la relazione al tu»44.

In ultima analisi cosa significa o meglio cosa apporta l’ingresso del terzo nel rapporto interpersonale, in cui io sono responsabile dell’altro? Cosa implica un rapporto in cui fondamentalmente occorre aver cura della cura? La prossimità del terzo è l’ingresso della giustizia cioè la comparazione tra gli incorporabili. Il terzo, così come viene elaborato e pensato da Levinas, reclama l’uguaglianza della fraternità: «Il terzo non è una sorta di turbamento all’interno della relazione bipolare, ma l’umanità intera che incombe»45.

Questo cammino che porta ad una vita buona, etica, compiuta, felice, conduce ognuno, lungo un percorso di maturazione che gli permetta intanto di scoprire se stesso e l’altro come capaci, come soggetti di diritto. Questa reciprocità del se stesso come un altro dischiude un’altra dimensione: l’altro dell’altro, il terzo. Che io non conosco, che io non vedo, ma verso il quale ho delle responsabilità: il terzo è l’anonimo46. Il tema del terzo ci richiama — all’interno della 44 ID., Chi è il soggetto di diritto?, in ID., Persona, comunità e istituzioni, 70-71; il corsivo è nel testo. Ricoeur vede in questo un momento fondamentale del passaggio dal soggetto capace al soggetto di diritto, cioè al costituirsi del cittadino: “solo la relazione al terzo, situata sullo sfondo della relazione al tu, dà una base alla mediazione istituzionale richiesta dalla costituzione di un soggetto reale di diritto, in altre parole di un cittadino”: l.c.. 45 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Levinas, Acireale, 1996, 242. Si veda in particolare il problema del terzo in ibid., 240-249. 46 Cfr. F. POCHÉ, Penser avec Arendt et Levinas. Du mal politique au respect de l’autre, Lion 1998, 111: «Le tiers ce peut être celui qui ramasse les poubelles du quar-


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questione che ci siamo posti: i modi dell’identità — l’importanza delle strutture del vivere insieme di una comunità storica, di un popolo, di una nazione, di una regione… L’ingresso del terzo schiude, non solo da un punto di vista teorico, la dimensione concreta della cittadinanza e della vita politica. Il terzo è l’umanità intera che incombe! Di qui l’importanza, per la realizzazione dell’identità personale e per una vita capace di prendersi cura dell’altro, di una idea della giustizia e di istituzioni giuste. Questa dimensione introduce la categoria del ciascuno che si sviluppa innestandosi in questo itinerario, proposto da Ricoeur: attribuire a ciascuno il suo rivela l’ideale della giustizia che completa il percorso che dalla stima e realizzazione di sé giunge alla sollecitudine per l’altro. Alla luce di queste considerazioni sarebbe interessante pure approfondire la sempre più attuale questione del rapporto tra etica, istituzioni e politica47. Ricoeur riferendosi al saggio di John Rawls, Teoria della giustizia, si lascia condurre dalla regola fondamentale della distribuzione che aspira ad essere quanto più equa possibile guardando tuttavia al più debole: «di Rawls assumerò soltanto la suggestione che a differenza dell’utilitarismo anglosassone in cui la giustizia è definita dalla ricerca del massimo vantaggio per il maggior numero, la giustizia nella spartizione dell’ineguale è definita dalla massimizzazione della parte più debole. Si ritrova in questa preoccupazione per il più sfavorito l’equivalente della ricerca del riconoscimento sul piano dell’amicizia e delle relazioni interpersonali. Ma non bisogna attendersi dalla relazione di giustizia in un sistema di distribuzione quel tipo di intimità che raggiungono le relazioni interpersonali sigillate dall’amicizia. È ciò che fa precisamente della categoria del ciascuno una categoria irriducibile all’altro della relazione amorosa e amicale. Questa incapacità del ciascuno di giungere al livello dell’amico non segna alcuna inferiorità etica: la grandezza etica del ciascuno è indistinguibile dalla grandezza etica della giustizia, secondo la formula romana ben conosciuta: attribuire a ciascuno il suo»48. tier, mais que l’on ne voit jamais parce qu’il passe lorsque l’on est absent; ou bien encore celui qui trie le courrier que l’on reçoit, bref l’anonyme». 47 Su questo punto si veda: P. RICOEUR, Il giusto,Torino 1998. 48 ID., L’etica ternaria della persona, cit., 81.


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In questa sua riflessione il nostro autore si ispira chiaramente al personalismo del suo maestro Emmanuel Mounier. Tuttavia più che assumere la dialettica a due termini di quest’ultimo, la quale si basa su persona e comunità, egli propone la dialettica a tre termini: stima di sé, sollecitudine per l’altro, istituzioni giuste. Questa dialettica a tre termini, secondo Ricoeur, non respinge quella a due termini ma la completa. Le relazioni interpersonali hanno come parametro di riferimento l’amicizia, mentre quelle istituzionali hanno come ideale la giustizia. In tal contesto, pertanto, è necessario distinguere nettamente le relazioni interpersonali dalle relazioni istituzionali. La giustizia è irriducibile all’amicizia e all’amore: «distinguendo così chiaramente tra amicizia e giustizia, si preserva la forza del faccia a faccia, pur donando un posto al ciascuno senza volto. In altre parole, sotto il termine altro, bisogna distinguere due idee distinte: l’altro e il ciascuno; l’altro dell’amicizia e il ciascuno della giustizia. Nello stesso tempo, non li si separa, nella misura in cui appartengono all’idea di ethos che abbraccia in un’unica formula, ben articolata, la cura di sé, dell’altro e dell’istituzione»49.

Il riconoscimento del faccia a faccia è il presupposto fondamentale da cui si dispiega lo spazio pubblico del patto e dell’istituzione. È il compimento delle potenzialità umane che costituiscono una via concreta della convivenza sociale e politica, dentro un’orizzonte in cui è possibile arginare e allontanare ogni genere di conflitto. L’estensione dei rapporti mostra l’importanza del vivere insieme di una comunità storica, un popolo, una nazione, una regione, una classe: «a questo volere vivere insieme l’istituzione politica conferisce una struttura distinta da tutti i sistemi caratterizzati come […] ‘ordini di riconoscimento’. Con Arendt, ancora, si chiamerà pouvoir (potere) la forza comune che risulta da questo voler vivere insieme e che non

49

Ibid., 82.


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esiste che fino a quando questo è effettivo, come le esperienze terrificanti della disfatta, in cui il legame si disfa, ne danno la prova in negativo. Come indica la parola, il potere politico è, attraverso tutti i livelli di potere considerati prima, in continuità con il potere con cui abbiamo caratterizzato l’uomo capace. A sua volta, esso conferisce a questo edificio del potere una prospettiva di durata e di stabilità e, ancora più, fondamentalmente, l’orizzonte della pace pubblica, intesa come tranquillità dell’ordine»50.

La giustizia è quindi il valore che scaturisce da questo livello istituzionale e conduce al di là della semplice distribuzione: «‘Rendere a ciascuno il suo’ questo è il suo motto. L’applicazione della regola della giustizia alle interazioni umane suppone che si possa considerare la società un vasto sistema di distribuzione, ossia di spartizione dei ruoli, dei pesi, dei compiti, ben al di là della semplice distribuzione sul piano economico dei valori mercantili»51.

A proposito della questione dell’identità, secondo Ricoeur, la mediazione istituzionale, vale a dire l’appartenenza a un corpo sociale e politico, è necessaria per uno sviluppo pieno e integrale della persona umana: «Senza la mediazione istituzionale, l’individuo non è che un abbozzo d’uomo; la sua appartenenza ad un corpo politico è necessaria per il suo sviluppo umano e, in questo senso, essa non può essere revocata. Al contrario, il cittadino che nasce da questa mediazione istituzionale non può che augurarsi che tutti gli esseri umani gioiscano come lui di questa mediazione politica che, aggiungendosi alle condizioni necessarie che dipendono da un’antropologia filosofica, divengono una condizione sufficiente della transizione dall’uomo capace al cittadino reale»52.

50

P. RICOEUR, Chi è il soggetto di diritto?, in P. RICOEUR, Persona, comunità e istituzioni, 73-74; il corsivo è nel testo. 51 Ibid., 74. 52 Ibid., 76.


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CONCLUSIONE In questo nostro studio abbiamo cercato di esaminare una questione che interpella noi, uomini di questo nostro tempo, che desiderano e si sforzano di vivere con sempre maggiore consapevolezza l’esistenza quotidiana, per non smarrirsi e perdersi dentro una mentalità che non di rado privilegia uno stile, mortificante e senza uscita, di contrapposizione tra identità scagliate tra di loro come pietre. Incontro, dialogo, desiderio di capire, sono gli ingredienti necessari per non lasciarsi travolgere da posizioni di difesa ma da una comunicazione attenta, costruttiva, pacifica. Il percorso di Paul Ricoeur, che abbiamo preso in considerazione, mira a comporre il passaggio dall’identità all’alterità e quindi cerca nella sua riflessione di integrare mutualità e dissimmetria. Conciliare gli opposti? Mettere in relazione simmetria e asimmetria? Ma nello specifico, in questo nostro tentativo di comprensione e di ridefinizione dell’identità, cosa bisogna privilegiare? Bisogna dare il primato all’identità sull’alterità o viceversa all’alterità sull’identità? Sulla questione dell’identità e dell’alterità, questo breve approccio alla riflessione di Ricoeur ci ha offerto la possibilità di ritrovare innanzitutto l’imprescindibile e incondizionato rispetto per la persona umana, considerata sempre per se stessa, vale a dire, sempre più come un fine e mai come un mezzo. E poi ancora, la irrinunciabilità alla dimensione di alterità che non solo mette in questione, ingiunge, ma essenzialmente e più fondamentalmente costituisce l’identità stessa, fin nella sua struttura più intima. Tutto questo abbiamo cercato di pensarlo dentro quel percorso etico, proposto da Ricoeur, che ha come fine una vita buona con gli altri in delle istituzioni giuste. Da tale prospettiva categorica traspare, se si vuole, un ideale e un compito, perché nella persona si realizzi quella pienezza di umanità alla quale è chiamata. È l’umano dell’uomo che deve venire fuori, in una continua nascita. Identità e alterità ci consegnano un percorso da cui scaturisce un’eccedenza di senso. Il riconoscimento di una identità ci conduce al riconoscimento di qualcuno, di un anonimo, di uno sconosciuto che invoca ed esige giustizia; è il riconoscimento di un chi


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e non di un cosa. Un chi che possiede delle capacità per cui egli riconosce la propria dignità riconoscendo la dignità all’altro: da ciò scaturisce stima di sé e fiducia in sé. Il riconoscimento dell’identità trova la sua origine nel riconoscimento dell’alterità. In questo senso, l’alterità dell’altro mi interpella alla responsabilità e alla sollecitudine per l’altro. Prendersi cura dell’altro è la voce che giunge da altrove, ma è anche l’ingiunzione che sgorga dall’interiorità, dalla coscienza stessa. Una alterità nel cuore stesso dell’identità che la costituisce e la dispiega. Si dischiude così uno scarto che rivela l’altezza di una dissimmetria e la profondità di un senso. L’alterità asimmetrica offre alla nostra riflessione lo spiraglio sempre benefico del dono e della gratitudine. La nozione di identità narrativa, che abbiamo incontrato, ci pone lungo quella traccia che indica sempre un rinvio oltre noi stessi: noi siamo eredi di una lunga storia. Tutto ciò ci fa pensare non ad una identità monolitica, forte, ma passiva, cioè che riconosce un’origine, un’alterità costitutiva; è infatti generata da un altro e che si lascia continuamente rigenerare. Abbiamo parlato di una identità che riconosce se stessa e riconosce l’altro da se stessa, la quale si riconosce quindi nell’atto stesso in cui accoglie questa precedenza. È una identità che diviene. Il motto di Pindaro “divieni quello che sei” è un invito alla persona a mettersi in cammino e a lasciarsi docilmente e permanentemente mettere in questione per una crescita umana piena, più accogliente, più matura. Questa ermeneutica di identità e alterità ci ha persuasi a pensare che non è l’io all’origine del senso. Un senso ci è dato; lo ritrovo, lo riconosco nella misura in cui io sono capace di consegnarmi, di donarmi… Il senso lo scorgo in un itinerario di dono e lo trovo donandomi. In questa prospettiva allora sarebbe particolarmente significativo dire e raccontare di una identità che, espropriandosi di sé, si consegna senza alcun tornaconto, disinteressatamente; di una identità compassionevole che accoglie, sempre e comunque, ogni altro chinando lo sguardo, con assoluta gratuità; di un’identità non arrogante, mite ed umile di cuore, ma questo forse è già altro!


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ROBERTO VIGNERA*

Tema di grande rilievo tra quelli posti all’interno dei confini istituzionali dell’indagine sociologica, il ruolo dei fondamenti bio-evolutivi e dei processi culturali nella strutturazione dell’identità ha offerto da sempre grandi opportunità per allestire piani di dibattito su alcuni dei dilemmi fondamentali dell’agire sociale. Ciò, naturalmente, prescindendo dalle diverse scelte di ordine meta-teorico o di orientamento metodologico in conto delle quali si è di volta in volta deciso di operare all’interno di tale ambito tematico; e per ciò stesso, quindi, non considerando che tale scenario di rilevanza possa essere stato definito in modo preponderante nel cuore delle prospettive storicocomparative classiche — per autori come Marx, Durkheim, Tönnies o Weber — piuttosto che nel contesto di teorizzazioni altrettanto celebri dovute alla determinazione intellettuale di esponenti della riflessione sociologica più matura come Parsons o Merton. Espresso in forma di raffigurazione dicotomica di ordine elementare — soprattutto nella sua veste più nota: ereditarietà Vs. apprendimento — il tema in questione lo si è ritrovato spesso tra quei riferimenti stenografici attraverso i quali si son delimitati concettualmente diversi dominii di indagine sia nelle loro entità semplici, sia nei loro aggregati più complessi. La sua rilevanza, in breve, è maturata tra quelle raffigurazioni selettive a scansione binaria della realtà sociale che hanno talmente tanto pervaso di sé il corredo analitico delle scienze sociali da apparire ormai più che costitutive dei suoi diversi

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Docente di Sociologia generale presso l’Università degli Studi di Catania.


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livelli d’indagine e delle relative concettualizzazioni sostantive. Come espediente delimitativo di piano teorico ed empirico, quindi, non avrebbe potuto che innestarsi trasversalmente rispetto a queste, per quanto i vari accenti fossero posti di volta in volta su contrapposte forme di solidarietà sociale o di relazioni di scambio economico, su antinomici orientamenti di ruolo o di canoni di razionalità, su diverse disposizioni degli attori in rapporto ai processi decisionali, piuttosto che sugli scenari di allestimento e di enfatizzazione dei criteri normativi di adeguamento a determinate mete culturali. Le sue mille metamorfosi, in breve, si sono affermate in conto di un variegatissimo spettro di referenza; per quanto, evidentemente, siano maturate più spesso in riflesso della più ampia tra tali raffigurazioni oppositive (Natura – Cultura) e siano state innestate nel cuore del più controverso dei nodi irrisolti che la riflessione sociologica abbia mai posto a se stessa – i caratteri della relazionalità fra attori e condizioni strutturali d’azione – all’interno di orientamenti alla definizione degli ordini di grandezza e degli oggetti di indagine in cui sono prevalsi ora i rinvii alle proprietà strutturali e culturali di un contesto (structure), ora i riferimenti alle prerogative di un ordine di realtà (agency) ritenuto ben diverso e irriducibile al primo come scenario morfogenetico dei rapporti sociali [Archer, 2003, tr. it. 2006]. Su un piano più specifico, è certamente noto come l’argomento in esame sia stato prevalentemente inserito tra i classici della letteratura sociologica dedicati ai percorsi di socializzazione, ai complessi rapporti tra ruoli sociali e struttura psichica, tra identità e dinamica storica, tra eredità genetica e adattamento a modelli culturali nella strutturazione del Sé. E ciò, nella sistematica del conoscere delle scienze sociali — ora per enfatizzare gerarchie sovraordinali, ora per sottolineare l’incidenza di una radicale polarità tra i vari livelli interpretativi — ha finito per opporre la biologia alla psicologia, entrambe alla sociologia, l’antropologia alla storia, questa alla psicologia e naturalmente alla linguistica. La consapevolezza, in particolare, che qualsiasi ipotesi di confronto tra i caratteri della costituzione organica, delle forme e dei processi culturali, dell’oggettività strutturale e dei fattori deliberativi-riflessivi dell’agire individuale dovesse risolversi nella presa d’atto, oltre che di una dualità ontologica, di una priorità


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di incidenza causale degli uni sugli altri, di una residualità degli uni rispetto agli altri, si è consolidata così tanto da rendere sempre meno estese le aree di dialogo interdisciplinare attraverso cui delineare più opportunamente i nessi di mutua interdipendenza tra i diversi fondamenti dell’agire. E così, aggiungiamo, si è riservato spesso alle scienze sociali l’onere di far fronte inappropriatamente agli interrogativi più rilevanti su tali fattori, su tali condizioni di vincolo o di opportunità; per quanto, evidentemente, non fosse poi così indubitabile che proprio tali fattori potessero apparire come entità irrelate tra di loro nei concreti progetti d’azione modellati da attori in conto della loro quotidiana riflessività interiore. Certo, delle grandi opportunità di scambio tra diverse aree di indagine ci sono state; soprattutto tra gli anni ’40 e ’60, anni in cui, per intendersi, Gerth e Wright Mills teorizzavano sui rapporti tra Carattere e Struttura sociale; Parsons illustrava alcune fondamentali interconnessioni tra Personalità e Struttura sociale; Merton, dal canto suo, profilava i nessi di interconnessione tra le stesse componenti facendo ricorso ai legami tra struttura della personalità e organizzazione burocratica; mentre Smelser elaborava ulteriormente il piano analitico dedicato ai Sistemi di personalità e ai Sistemi sociali nell’ambito dell’analisi del comportamento collettivo. Delle grandi opportunità ci sono state, dicevamo, con l’analisi sociologica intenta a misurarsi con la biologia, la psicologia, la psicologia sociale, la psicanalisi e l’antropologia culturale senza timori reverenziali, ma guardando oltre i propri confini teorici e le proprie scelte metodologiche, attraverso alcune delle firme più autorevoli del panorama scientifico del tempo quali quelle, per l’appunto, di Parsons, Shills, Bendix, Festinger, Bateson, Merton, Inkeles, Bales, Goffman, Coleman, Clausen, Kohn e di altri ancora. Appare del tutto naturale, d’altra parte, che ciò si sia configurato in tali termini; con un’evidente frammentarietà degli allestimenti, intendiamo dire, con i relativi contenuti strutturati intorno ad aspetti sostantivi così tanto eterogenei da includere: gli atteggiamenti iperprotettivi in ambito familiare, la genesi della malattia mentale e del comportamento deviante, la coesione di gruppo e l’ostilità estroflessa, il taboo dell’incesto e la socializzazione del bambino, gli effetti dei modelli di ruolo genitoriale sul comporta-


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mento criminale, la cultura adolescenziale e la struttura della competizione nelle società industriali, le disfunzioni delle burocrazie, l’autoritarismo e il comportamento politico, il ruolo dei leaders nei processi di mutamento sociale, la sensazione di imbarazzo in relazione a determinate organizzazioni sociali ecc. Così come, per altri versi, non potrà sorprendere affatto che nel tentativo di affrancarsi da orientamenti cognitivi prettamente speculativi o privi di rilevanza teoretica nello studio delle inter-relazioni tra tali livelli d’analisi si siano poste in risalto delle clausole di diverso ordine in conto delle quali dover modellare un quadro analitico realmente accurato. Innanzitutto, in senso metateorico, verrà infatti affermata l’esigenza di assumere sia la personalità sia i sistemi sociali come entità solo analiticamente indipendenti. Correlativamente, dovendo cioè aver cura di distinguere in primo luogo tra identità personale, identità sociale e identità professionale, dovendo cioè collocare il sentimento di continuità del Sé nel cuore dei mutamenti che costelleranno le esperienze individuali quotidiane — soprattutto all’approssimarsi di quei momenti in cui sarà più evidente l’entità (solo percepita?) del cambiamento (inabilità, uscita dal mondo del lavoro, dissoluzione di legami affettivi) — gli accenti saranno posti più che sui sentimenti di identità maturati in rapporto ad un’esperienza profonda di riflessione su di sé — sulla propria storia, quindi, sulle proprie speranze e sui progetti cui si associeranno linee d’azione fondate su esigenze di coerenza personale (identità personale) — sulla consapevolezza delle appartenenze sociali, sgombrando così il campo da quelli che probabilmente sono stati da sempre avvertiti come i più ingombranti equivoci di fondo da cui affrancarsi: che l’identità personale, cioè, potesse maturare ed essere rappresentata al di fuori di rapporti di relazionalità; che si potesse prescindere dalle forme di riconoscimento sociale per strutturare un’identità personale; che sul piano cognitivo si potesse fare a meno di tener conto di una processualità nel corso della quale l’individuo avrebbe colto, interpretato, ed elaborato reattivamente un’immagine di Sé sulla scorta di quanto tale relazionalità avrebbe prodotto. Posta così, nella sua formalizzazione più compiuta, al punto di interconnessione fluida tra due grandi sistemi d’azione — la Personalità e il Sistema sociale — e altrettanti due sistemi di non-


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azione — la Cultura e l’Organismo — ecco allora la strutturazione dell’identità profilarsi nelle sue valenze più interessanti. Innanzitutto, perché, attraverso il riferimento sovraordinale alla cultura, si preciseranno proprio i termini condizionali in cui accogliere i suoi caratteri come riferimenti alla componente organica, ponendo in una relazione di non assimilabilità, ad esempio, modelli estetici e comportamentali riferibili a civilizzazioni culturali (l’essere circoncisi o infibulate) con tratti estetici e comportamentali che da questi possono prescindere (l’essere eterosessuali, piuttosto che omozigoti). Ma quel che più conta, posta in tale luogo teorico di interconnessione, la strutturazione dell’identità in rapporto agli elementi strutturali e alle dinamiche di un sistema sociale non avrebbe riguardato affatto persone, ma ruoli; non individui in carne e ossa, ma attori in ruolo in rapporto con gli oggetti sociali del loro ambiente; attori in interazione con altri attori nei più diversi quadri situazionali. Pertanto, locuzioni retoriche riferibili a modi di identità — “non è più lui”, “è fuori di sé”, “è l’ombra di quello che ricordavamo” — solo in tal senso avrebbero potuto riferirsi ad un soggetto identico numericamente a se stesso nel suo tempo biografico, consapevole della sua unicità, della continuità esistenziale del proprio Sé al di là dei contesti di mutamento nella costituzione biologica e culturale, e per ciò stesso diverso da ogni altro oggetto del suo ambiente sociale. La loro componente predicativa, inoltre, non avrebbe posto necessariamente in discussione classi di appartenenza o identità di specie; non avrebbe messo in discussione la permanenza dei loro referenti in un ambito di designatori rigidi (come il nome proprio o più in generale i dati anagrafici). E neppure avrebbe messo in discussione la pertinenza del contesto di riferimento all’interno del quale valutare le varie performances di ruolo. Ciò, magari, sarebbe avvenuto in seguito; quando proprio in rapporto a queste ultime, in rapporto cioè al passato, ad una tipicità d’agire, si sarebbe affermata una non più sostenibile appartenenza e per ciò stesso l’adesione ad altri parametri valutativi di identità. Parsons, autore di primissimo piano tra quelli cui tale formalizzazione teorica sarà legata, considererà l’identità come la base stabile della personalità, come quel sistema attraverso il quale gli attori, attingendo all’universo dei simboli, dei valori, delle ideologie (cultura),


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coordineranno la personalità come sistema d’azione dotato di senso agli occhi propri e a quelli degli altri. La sua particolare cura per mantenere ben evidente quanto fluidi potessero essere i confini tra il sentimento di appartenenza ad un determinato gruppo (identità sociale) nelle sue componenti condizionali — la presenza cioè di un qualche principio di categorizzazione, di identificazione e di confronto — e quello di coerenza personale (identità personale) nelle sue componenti di continuità, di distinzione e di capacità di riconoscersi e di essere riconosciuti, lo indurrà a definirla come un sistema di controllo dell’apparato simbolico. Un sistema informato al principio dell’evoluzione dei sistemi viventi, e in particolare delineato concettualmente salvaguardando il riconoscimento della connessione tra l’evoluzione organica e quella della cultura umana. Gli anni in cui i percorsi preferenziali dell’analisi sociologica sulla strutturazione del Sé si definiranno sostanzialmente in finalità congiunta rispetto alla delineazione di universali culturali, di modelli culturali globali, di modelli d’azione nazionali, facendo riferimento in primo luogo al concetto di personalità di base, vedranno prevalere tali coordinate interpretative in nome dello struttural-funzionalismo. Ma già nel corso degli anni ’60 l’eclissi della sintesi teorica parsonsiana si profilerà in modo sempre più evidente. Progressivamente, non vi sarà più un centro intellettuale idoneo a organizzare la comunità sociologica, a dargli coerenza intorno a tali temi. Rimarranno quelli che Gouldner definirà come «frammenti di un sapere enciclopedico destinati a dissolversi nell’entropia» [Gouldner, 1970, tr. it. 1972, p. 242]. E ad opera dello stesso Parsons, quel momento di grande scambio interdisciplinare nato dalle esigenze teoretiche di chi si era approssimato ai confini della propria disciplina, già a partire dalla costruzione sempre più formalizzata del sistema sociale, tenderà man mano a ripiegare su se stesso, a favore di una propensione ad orientare l’analisi verso quelle componenti di maggior rilievo per il loro carattere culturale (la cultura stessa, la politica, l’economia). Lo scenario dominante che si profilerà da adesso in poi sarà quello della sociologia critica europea e nordamericana; con quest’ultima rappresentata, tra gli altri, dai coniugi Lynd e da Riesman, da Wright Mills e dal citato Gouldner, con i suoi ben noti punti di rilievo


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posti sul condizionamento reverenziale della disciplina nei confronti dell’ordine economico e politico, sull’astrazione dei suoi percorsi di indagine da qualsiasi riferimento a specificità storiche, sul disinteresse mostrato da alcuni dei suoi più celebri protagonisti nei confronti degli antagonismi e delle conflittualità strutturali. Intorno agli interpreti di primo piano di ciò che per anni era stato accreditato dei riguardi riservati al modello interpretativo dominante per l’indagine sociologica maturerà tutto il discredito riservato a chi – questo sarebbe stato l’atto d’accusa prevalente – si riteneva avesse operato nell’acritica interpretazione della realtà secondo modelli culturali prevalenti in un determinato assetto sociale, nella sua insensibilità nei confronti della manipolazione ideologica e in un costante asservimento fideistico nei confronti del potere politico ed economico. Tramontata, infatti, la fase di più acceso entusiasmo nei confronti del progetto parsonsiano di integrazione teorica prenderà corpo una fase di deflagrazione di tale ambito disciplinare in cui emergeranno dei personalissimi accostamenti ai suoi oggetti; come se, in altri termini, quel che più contasse adesso, dopo gli anni di predominio del linguaggio delle strutture e delle funzioni, fossero gli intenti rifondativi votati ad affermare in primo luogo impianti teorici di livello analitico ben diverso. Prospettive drammaturgiche, impianti costruttivisti, riletture dei principi della fenomenologia e dell’ermeneutica, riduzionismi psicologici: venuta meno la fiducia nei confronti delle strutture generali di spiegazione, i più diversi e singolari riferimenti alla teoresi – molto spesso tanto più affascinanti quanto più legati alla interpretazione di quadri situazionali micro-interattivi – inizieranno ad imporsi come espressione di interessi specifici e settoriali; con tutte le loro categorizzazioni (più o meno indeterminate) fatte valere come barriere di non assimilabilità nei confronti non soltanto degli altri ambiti disciplinari, ma perfino della tradizione stessa. Alla ricerca delle più singolari specificazioni dei propri oggetti, alla proliferazione dei versanti di ricerca iper-specialistici, si giungerà attraverso il prevalere delle scelte teoriche e metodologiche del singolo ricercatore rispetto a qualsiasi altra prospettiva interpretativa che non fosse da questi condivisa, e quindi affermando il fondamentale principio dell’autovalutazione, dell’autoreferenzialità. Nei riguardi di quel quadro interpretativo


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ormai considerato del tutto inattuale per confrontarsi con la cultura hippy e psichedelica, come ritenere di poter nutrire, d’altra parte, delle attese tali da poterlo ancora definire come modello unitario del comportamento umano e delle sue motivazioni? Come ritenere di poter procedere nella complessa ricerca di categorie sociologiche elementari che salvaguardassero la concretezza delle individualità poste nelle pieghe della loro quotidianità, la fluida imprevedibilità delle esistenze individuali, assumendo ancora il più discusso dei riferimenti e delle sue dicotomizzazioni — quello di ruolo, con le sue ben note specificazioni di orientamento (variabili strutturali) e di modalità qualitative di differenziazione (strumentali-espressivi) — intorno al quale proprio la teoria dei sistemi sociali di Parsons si era originariamente formalizzata? Tali dicotomizzazioni, direbbe Bauman [2000, tr. it. 2002], appartenevano a quei criteri ordinatori della realtà sociale tipici della modernità non ancora investita dalla sua stessa fluidità. E Parsons, in tal senso, è teorico della modernità più di ogni altro; con tutte le categorie dualistiche, con tutte le opposizioni binarie che si esprimeranno nella sua teorizzazione già a partire dalla variabilità strutturale all’interno della quale a suo avviso si sarebbe definito l’agire sociale. L’inguaribile teorico di Harvard definirà i propri intenti cognitivi traendo spunto da quelle grandi narrazioni ideologiche ancora così incidenti nei primi decenni del ‘900 che riuscivano ancora ad elaborare stabili opposizioni binarie di senso rispetto alle quali poter definire identità: lavoro-capitale, pubblico-privato, sacro-profano, ascrittoacquisito, parte-totalità, razionale-irrazionale ecc.. Ma tali opposizioni binarie intorno alle quali si sarebbero strutturati alcuni dei più celebri emblemi di identità quale destino avrebbero visto compiersi? Quale forza reattiva avrebbe innescato il loro essere percepiti come luoghi concettuali di inautenticità, come categorizzazioni espressive di orientamenti teorici nell’ambito dei quali il tema dell’identità sarebbe stato affidato ad un’astratta analisi sistemica? Parsons uscirà di scena avendo già assistito al declinare del proprio impianto teoretico e al progressivo venir meno dell’interesse da parte degli studiosi di scienze sociali per gli aspetti macrosociologici e strutturali [Coser, 1983]. Il radicalismo di Charles Wright Mills,


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il pan-conflittualismo di Ralph Dahrendorf, l’anti-determinismo normativo di Dennis Wrong, il riduzionismo psicologico e situazionale di George Homans e Herbert Blumer, quello etnometodologico di Garfinkel, lo scetticismo di Alvin Gouldner, e naturalmente altri ancora, saranno questi i riferimenti che domineranno la scena in un’ampia concordanza di orientamento critico rivolto nei confronti di un quadro interpretativo dell’agire sociale in cui degli attori ipersocializzati ai valori comuni e ai fini collettivi — questo sarebbe stato il tema del contendere — avrebbero visto modellare le loro l’identità intorno ai criteri di orientamento di ruolo istituzionalizzati rispetto ai temi dell’indipendenza e dell’acquisitività. E non dimentichiamo, d’altra parte, le oscure profezie di Herbert Marcuse, che proprio negli stessi anni avrebbe posto i dilemmi della strutturazione della personalità nel cuore della discrepanza tra eros e civiltà, tra liberazione potenziale e repressione effettiva, sulla scorta di una ben nota tesi su quel principio normativo dei rapporti umani celebrato nella società industriale moderna: la performance, la produzione [Marcuse, 1964]. Parsons stesso, tuttavia, tra la prima metà degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, quando improvvisamente avrebbe rivalutato i modelli evolutivi, avrà l’opportunità di rendersi conto di quanto pressante fosse divenuto il peso che le acquisizioni garantite dalla biologia molecolare, e più in generale dallo studio sistematico delle basi biologiche del comportamento sociale, avrebbero esercitato su alcuni dei focal concerns più emblematici per le scienze sociali1. E tutto ciò, ben prima che Edward Wilson proponesse l’idea di considerare la sociologia e le altre scienze sociali come le ultime branche della biologia in attesa di essere incorporate nella “sintesi moderna”» (Wilson, 1975; tr. it.: 1979, p. 4). Tutto ciò ben prima che la flessibilità e la variabilità del comportamento sociale, le forme che assumeranno le loro organizzazioni, la molteplicità dei modelli e dei processi culturali, e naturalmente le qualità comportamentali individuali sottese a questi, fossero in 1

Ricordiamo, tra l’altro, che nell’edizione originale de La struttura dell’azione sociale, siamo quindi nel 1937, egli stesso raccomanderà al lettore, nelle note bibliografiche, di considerare con attenzione ciò che “La sintesi moderna” stava proponendo in campo genetico.


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qualche modo ridefinite secondo i criteri interpretativi della genetica comportamentale; con tutte le più evidenti implicazioni che ciò avrà sul progetto di biologizzare l’etica e di veder coincidere i principi dell’evoluzione sociale con la più compiuta esplicitazione dei meccanismi biologici e neuronali. Nella prima circostanza il delicato rapporto tra identità e relazione sarebbe stato ricalibrato secondo una valenza sovraordinale assegnata soprattutto alle concrete dinamiche di vita quotidiana, alla rivalutazione dei concreti mondi vitali, alle esperienze situazionalmente specificate di individui impegnati quotidianamente non nella realizzazione di forme interattive più o meno standardizzate, ma nella costruzione interpersonale dei significati dei loro modi d’agire. Nell’altra, tuttavia, si sarebbero ribaltati radicalmente alcuni termini di ordinalità del precedente quadro interpretativo, assegnando proprio alle strutture bio-evolutive elementari del comportamento (quelle sottese alle grammatiche generative, all’istinto morale, a quello altruistico, al senso artistico ecc.) un ruolo di primaria importanza nella definizione delle identità [Pinker, 2002; tr. it. 2005]. Le neuroscienze e le scienze cognitive, infatti, avrebbero iniziato a giocare un ruolo sempre più determinate nello scardinare il più deleterio tra i pregiudizi che per così tanto tempo avevano afflitto le scienze sociali: che i processi educativi, cioè, i processi di apprendimento, e più in generale l’ambiente sociale, le costruzioni culturali e le convenzioni collettive, costituissero gli unici fattori incidenti nel determinare il nostro profilo individuale e di attori sociali. Nel versante più specifico della psicologia cognitiva evoluzionista — seguendo soprattutto le indicazioni provenienti dagli studi sperimentali di fisiologia compiuti agli inizi degli anni ’70 da Benjamin Libet [2004; tr. it.: 2007] — avrebbe iniziato a definirsi come ambito di studio autonomo quello dedicato alle basi neurali della coscienza, con una particolare sensibilità rivolta all’idea che i processi decisionali si costituissero come forme di adattamento biologico, come funzioni di obiettivi evoluzionistici, non come meccanismi razionali. E naturalmente, non si sarebbe trattato soltanto di questo. Sempre negli stessi anni, anche i lavori di Dawkins [1976; tr. it.: 1992] avrebbero suscitato tanto scalpore e altrettanta avversione;


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soprattutto tra coloro i quali — sebbene nient’affatto propensi a concedere alcunché alle alternative ad una selezione cieca, non definibile in termini teleologici o di funzioni di utilità — non avrebbero accolto la sua traslazione di scala nel considerare l’unità fondamentale della selezione evolutiva: dalla specie, dall’individuo, al gene, all’interazione tra unità replicative di ordine biologico (geni) e unità replicative di ordine culturale (memi)2. E d’altra parte, che dire delle idee di William Hamilton e Robert Trivers applicate all’evoluzione dei processi comunicativi, dell’altruismo, dell’aggressività e del senso morale? Cosa rilevare dell’irrompere sulla scena, in anni a noi più prossimi, delle tesi di Herrnstein e Murray sull’ereditarietà delle facoltà intellettive, o delle altrettanto note critiche di Judith Harris volte a ridefinire proprio i limiti dei processi educativi3? Con il mondo dei simboli e dei valori, dell’intenzionalità e della coscienza, con il mondo delle relazioni sociali, in breve, ridefinito secondo le scansioni fondamentalmente casuali dell’evoluzione biologica e affidato all’utilizzazione analogica della teoria molecolare del codice genetico come teoria generale dei sistemi viventi, gli interpreti dell’analisi sociologica solo con estremo disagio avrebbero potuto proporsi come interlocutori di sociobiologi, biologi molecolari e neurofisiologi, con i quali condividere un qualsiasi piano di confronto per ridefinire le cadenze di una disputa per certi versi eterna, quella sulle determinanti naturali e culturali del comportamento. A maggior ragione, naturalmente, se tale piano di confronto fosse stato allestito intorno al tema della strutturazione dell’identità secondo una riconsiderazione più matura e meno preconcetta dei limiti naturali dell’agire rispetto al peso delle responsabilità individuali, al libero arbitrio, ai

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Tra questi ricordiamo naturalmente Stephen Jay Gould e Richard C. Lewontin (2006), che della sociobiologia di Wilson e delle tesi coevolutive di Dawkins saranno i critici più irriducibili. 3 Di Hernstein e Murray (1994) è molto noto per le polemiche che ha suscitato The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, New York; mentre di Judith Harris (2000) ricordiamo in italiano Non è colpa dei genitori. La nuova teoria dell’educazione, Milano.


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processi decisionali, alle ineguaglianze sociali, e più concretamente, ai processi educativi, all’integrazione culturale, all’agire economico ecc.4. Nondimeno, è pur certo che dagli anni ’80 in poi si sarebbe sempre più incisivamente proposto il progetto di ridisegnare il ruolo giocato dalle componenti culturali in conto dell’incidenza di meccanismi mentali generativi universali. L’idea stessa di assegnar loro una pervasività incondizionata di modellamento delle identità individuali e sociali sarebbe stata ritenuta ormai null’altro che un’ingenua residualità storica, inidonea a dar conto di una natura umana molto più complessa nella sua plasmabilità geneticamente condizionata. Da alcuni versanti di indagine dedicati all’evoluzione culturale — si pensi ancora alla memetica di Richard Dawkins — si sarebbe arrivati perfino a raccomandare di ridurre questa agli stessi meccanismi operanti nell’ereditarietà biologica, teorizzando l’incidenza di mutazioni che sarebbero intervenute nei confronti delle unità di evoluzione culturale negli stessi termini in cui si è soliti descriverle proprio in quella biologica. E tutto ciò, fino a lambire i confini del nostro presente. Seguendo adesso i migliori auspici affinché la riflessione sui modi dell’identità possa costituire per scienze biologiche, le scienze cognitive, le scienze sociali e la riflessione filosofica, un’opportunità in più per connettersi più proficuamente tra loro, quali conclusioni poter trarre? Quali scenari futuri poter prefigurare sulla scorta di tali premesse? Abbiamo già citato Bauman; e lo ricordiamo ancora nelle sue cupe raffigurazioni del venir meno di tutte quelle certezze intorno alle quali si è strutturata la nostra modernità, nella sua lucida caratteriz4

Wilson, Dawkins, Dennett e Pinker, da una parte, Gould, Lewontin e Rose dall’altra, sarebbero stati i protagonisti di un confronto serratissimo, condotto nel corso degli anni senza esclusione di colpi. Certo, non sempre le loro prese di posizione si sarebbero modellate intorno alla determinazione a voler procedere in conto di esclusive finalità cognitive. In alcune circostanze, addirittura, soprattutto nel caso di Pinker, sarebbero state indicate come esempi di soft science. Nondimeno, tutto ciò si sarebbe realizzato soprattutto nei loro lavori di impianto divulgativo, dove a prevalere sarebbero state più le implicazioni di ordine politico connesse alle loro tesi che altro.


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zazione di una realtà in cui il rapidissimo mutare dei quadri situazionali non avrebbe più consentito che le modalità d’agire potessero consolidarsi in procedure, in modelli istituzionalizzati d’agire. E l’identità? Il paradosso dell’individualismo così come delineato dall’autore — la pretesa di essere tutti diversi, cioè, che avrebbe reso per ciò stesso ognuno uguale all’altro — sembrerebbe in tal senso non lasciare margini alla sua strutturazione se non affidandola alle vertiginose dinamiche del mercato dei consumi, alle strategie di appagamento di desideri narcisistici e al loro luogo privilegiato di celebrazione: il corpo. Mentre la contraddizione più vivida del presente, ben esemplificata dal crescente divario tra l’individuo de jure (in riferimento cioè al complesso diritti-doveri) e l’individuo de facto (in riferimento alle dinamiche di autoaffermazione) si riproporrebbe comunque sotto il peso dei processi di privatizzazione e di sfrenata deregolamentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali, nell’ambito dei quali si darebbe l’opportunità di osservare soltanto azioni, non processi di interazione e ancor meno di confronto. Per i teorici di Francoforte, nota ancora il sociologo polacco citando proprio Adorno e Marcuse, l’affermarsi di un’identità si realizzava innanzitutto attraverso il tentativo di affrancarsi dai vincoli e dalle standardizzazioni della società industriale. Era questa la relazionalità fondamentale in conto della quale definirne i confini. Ma adesso? Nulla del genere potrebbe più valere nella nostra modernità. La spinta verso l’individualizzazione dei legami sociali sembrerebbe piuttosto portare con sé l’idea di un’identità calibrata intorno a mille paure e mille desideri, non importa di cosa. Non smettere mai di desiderare e non smettere mai di aver paura: queste sarebbero le consegne in conto delle quali definire la nostra identità; e tutto ciò, evidentemente, lungo il realizzarsi di una vita precaria e incerta, sebbene ancora orientata verso ulteriori mete di modernizzazione, in cui non sarebbe più possibile neanche imparare dalle esperienze pregresse, dagli errori. All’interno di un quadro del genere, allora, potremmo forse considerare l’opportunità che l’acquisizione e l’affermarsi di un’identità possano realizzarsi anche attraverso meccanismi meno impalpabili di quelli fondati sull’identificazione e sulla natura autoreferenziale del


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desiderio? Potremmo forse pensare che proprio la ridefinizione del rapporto tra Natura e Cultura possa preludere alla contestualizzazione di una nuova relazione dalla quale derivare i tratti distintivi della nostra identità? Certo, per realizzare un simile progetto occorrerebbe in primo luogo rinunciare a quegli inutili anatemi indirizzati nei confronti del riduzionismo biologico. In un mondo che si è strutturato intorno ai propri codici simbolici e ai propri valori, intorno all’intenzionalità ed all’assunzione di decisioni e scelte, non potrebbe mai venir meno l’interesse per i percorsi di socializzazione, per i complessi rapporti tra ruoli sociali e struttura psichica, tra identità organica e dinamica storica, tra eredità biologica e adattamento a modelli culturali nella strutturazione del Sé. L’inconfutabile conclusione, insomma, che l’identità biologica non sia niente di più del prodotto del patrimonio genetico non potrebbe contraddire l’altrettanto inconfutabile evidenza pronunciata in riferimento ad una condizione umana vissuta in un universo culturale, in primo luogo linguistico. Piuttosto, non si è ancora nelle condizioni di poter procedere sulla scorta di queste due affermazioni per stabilire quali siano i reali confini dei due ambiti. Negli effetti, una genetica del comportamento non mediata da condizioni particolari, come quelle patologiche [Hardy J., Singleton A., 2009], sebbene annunciata, non esiste ancora in senso stretto5. Né, forse, esisterà mai; considerando, cioè, come la sua mancata realizzazione possa non essere esclusivamente dettata dalle nostre attuali lacune scientifiche. Poi, naturalmente, dovremmo esorcizzare alcune paure. In primo luogo, quella di dover ridefinire le gerarchie dei fattori di controllo dei sistemi di strutturazione delle identità in conto di meccanismi semplici e chiari, ma ciechi e senza scopo. E poi, la paura di dover prendere atto della non perfettibilità della condizione umana. Paura di dover considerare, cioè, come la nostra identità non sia così dinamica, o modificabile esclusivamente in base a vincoli culturali; come i suoi modi, in altri termini, non siano definibili soltanto in rife5 Ci riferiamo, in particolare, alla tanto discussa formula “un gene, un comportamento” spesso adottata da alcuni “ultradarwinisti” come Dawkins.


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rimento ad un insieme di aspettative normative relative al rapporto tra uomo e ambiente sociale. Infine, dovremmo assumere la consapevolezza che il ricorso alla Natura come ultima narrazione ideologica dalla quale derivare tracce di una qualche forma di normatività possa tradursi in una grande illusione, poiché questa sembrerebbe proprio non aver alcun progetto da indicare a tutte le identità che la definiscono. Come concetto essenzialmente vuoto, addirittura, potrebbe perfino dar sostegno, come storicamente è accaduto, a impronunciabili derive verso l’orrore, verso l’abisso. Già, ma questo è il punto. Il grande timore di non poter prevedere fin dove ci si possa spingere nel ridefinire i limiti di incidenza della nostra identità biologica — nella sfera morale, nell’ambito lavorativo, nelle dinamiche affettive, nelle politiche assistenziali, nelle pratiche educative, nelle misure di controllo sociale, ecc. — perché mai dovrebbe impietrirci al punto da far apparire meno dolorosa una realtà in cui gli stessi effetti negli stessi ambiti siano generati in nome della “complessità”, della “globalizzazione” o della “liquefazione della modernità”? Perché questi ultimi concetti non dovrebbero apparirci come altrettanto vuoti e idonei a dar sostegno a chi volesse imbastire progetti ancor più desiderosi di esplorare i nuovi confini dell’orrore e dell’abisso?

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L’IDENTITÀ DELLA PERSONA

MATTEO NEGRO*

1. PERSONA, FORMA E NATURA Una delle implicazioni più gravi delle trasformazioni radicali in atto ai nostri giorni è che la crisi di molti modelli e paradigmi epistemologici si tramuti in una sorta di relativismo sistematico, spargendo scetticismo e incertezza. Sul piano antropologico questo genere di relativismo rischia di approdare ad un esito imprevedibile e inquietante, e cioè alla dissoluzione dell’identità della persona umana. Come ha intuito Edith Stein, «[t]utta l’evoluzione moderna dello spirito inclina a dissolvere il concetto della persona, ovvero a equipararlo a quello della forma, o dell’individualità, o della personalità»1. È innegabile che l’autonomizzazione di ciascuna di queste rationes abbia contribuito in modo determinante alla confusione e ai gravi errori riduzionistici di oggi. La nostra tesi è che solo cogliendo sinotticamente le tre prospettive, senza scinderle, si possa invece restituire un’idea della persona priva di contraddizioni e sufficientemente forte da sostenere anche le sfide dei nostri tempi. Dei tre approcci menzionati dalla Stein il primo è classicamente di stampo formalistico. A questa concezione si rifanno, in modo diversificato, l’essenzialismo metafisico e il naturalismo scientifico. La persona umana viene sussunta al piano descrittivo delle qualità categoriali specifiche di una determinata classe di genere. Il suo statuto

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Docente di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Catania. R. GUARDINI, Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, Brescia 2000, 150. 1


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Matteo Negro

ontologico viene così dedotto dalle caratteristiche della specie: la forma specifica della persona è dettata dall’insieme delle proprietà qualificanti tutti gli individui della specie. Ovviamente, da un punto di vista logico, questo è l’approccio più sostenibile. Le proprietà della classe “persona” non possono che essere universali, dal momento che va soddisfatta l’esigenza di includere tutti gli individui all’interno di tale classe. La domanda doverosa è se sia possibile includerli davvero tutti, ma questo ancora una volta dipende dall’ampiezza intensionale del termine “persona”. Più si restringe il campo di senso del termine in questione, più aumenta la sua inclusività. Così, se, ad esempio, si connotasse la classe in questione solo a partire dalle caratteristiche di una razza ben specifica, caucasica o africana, è palese che solo un numero ristretto di individui avrebbe titolo all’appartenenza di classe. Tutti gli altri rimarrebbero esclusi dalla definizione. L’esempio per ovvi motivi mostra la parzialità di una simile scelta, anche se, com’è noto, in altre epoche o contesti l’accostamento non appariva privo di senso. L’egalitarismo moderno ha svolto un ruolo non indifferente nell’influenzare il tentativo di universalizzare il concetto di persona o individuo umano. Per favorire il “processo” logico di universalizzazione e garantire la massima estensione è necessario ridurre in maniera verticale l’intensione del termine. Quindi, il problema fondamentale del formalismo è il reperimento di una o più proprietà specifiche in grado di garantire il massimo grado di universalità. Appare subito evidente come non sia sufficiente l’attribuzione di proprietà di genere come “essere”, giacchè l’essere è coestensivo a tutta la realtà. Neanche la sottodeterminazione di “essere vivente” o “vertebrato” è sufficiente a massimizzare le proprietà dell’essere persona. Come ben si vede, il processo di specificazione è tale in forza della competenza epistemologica, in grado di dare conto in maniera oggettiva delle proprietà di specie. La competenza epistemologica, di tipo scientifico-naturale, è decisiva in riferimento alle proprietà che l’osservazione e la pratica sperimentale possono cogliere e misurare. Tuttavia, tale tipologia di competenza trova un inevitabile punto di arresto nella sussistenza di due limiti, un limite fattuale e un limite di principio. La prima limitazione trae origine dal fatto che le conoscenze all’interno di un determinato settore scientifico sono, per forza di cose, sempre perfettibili,


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L’identità della persona

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rivedibili e migliorabili, anche grazie alla continua evoluzione degli strumenti tecnologici. La seconda limitazione è di tipo “metafisico” in senso lato, ed è dipendente dalla numerosità e dalla varietà degli approcci scientifici. Non è possibile, in via di principio, sommare i risultati di ogni ricerca al fine di ottenere un quadro definito e completo dell’oggetto studiato, proprio perché ogni scienza possiede dei propri criteri di referenzialità: oltre al metodo, al linguaggio e alla teoria, ogni scienza ritaglia i propri oggetti, la cui realtà non è sovrapponibile alla realtà degli oggetti delle altre scienze. La materia della fisica non è la materia della biologia o della chimica, e spesso alcuni termini possono avere sensi e riferimenti diversi. In questo senso, la limitazione è metafisica, giacché “l’intero dell’esperienza”, per usare un’espressione di Evandro Agazzi, pur rimanendo una prospettiva teorica irrinunciabile, non può mai essere un risultato acquisito2. Stante la limitazione metodologia evidenziata, come sarebbe dunque possibile giungere ad una soddisfacente enucleazione di proprietà costitutive della persona in quanto tale? Sembrebbe un’impresa impossibile. Il formalismo metafisico (essenzialismo) e il formalismo naturalistico condividono uno schema logico, di matrice aristotelica, che funge da vincolo forse troppo rigido nell’enucleazione delle proprietà specifiche della classe della persona, come di qualsiasi altra classe dell’universo. Il punto, ovviamente, non è tanto quello di gettare alle ortiche i metodi classificatori tradizionali o quelli più recenti (teoria dei tipi, prototipicità…), ma di giungere ad una categorizzazione compatibile con il realismo epistemologico. È il senso dell’indicazione di Edith Stein in merito a questo nodo: «Se si potesse individuare la “differenza specifica”, che distingue l’ “essere umano” dall’ “essere vivente”, non si dovrebbe, per questo, pensare che ciò che determina la struttura dell’essere umano sia la “composizione” di “genere” e “differenza specifica”. A questo punto sorge la domanda se si tratti proprio di intendere il rapporto tra “essere vivente” ed “essere umano”, come rapporto fra genere e specie, come accade nella tradizione. Da un punto di vista logico è 2 Cfr. E. AGAZZI, The Human Being as a Person, in Forum Trends in Experimental and Clinical Medicine 4 (1994) 221-232.


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Matteo Negro certamente possibile, poiché si possono individuare un carattere permanente comune ed uno distintivo. Da un punto di vista ontologico, tuttavia, non mi pare possibile, se con genere si indicano le idee mediante le quali i diversi ambiti dell’essere si unificano in se stessi e si distinguono gli uni dagli altri. Infatti, considerati così, l’ “essere vivente” e l’ “essere umano” sono idee generiche aventi lo stesso ordine. Concepiamo la specie, ontologicamente, come ciò che propriamente dà la forma, che determina la struttura e le qualità dell’individuo reale. Le specie animali sono differenziazioni dell’idea generica di animale e ci indicano ciò che l’individuo è: leone, orso, ecc. Solo se si intende I’idea generica come forma originaria dalla quale si devono far derivare geneticamente tutte le differenziazioni dell’intero ambito dell’essere, allora il genere stesso diventa specie, cioè forma realiter determinante, e gli individui di tutto il genere diventano membra, formate in maniera varia, di un’unità reale che le comprende tutte. Se, dunque, quello che l’essere umano è in quanto tale è ciò che, negli individui umani, dà propriamente la forma ed è quanto ci dà la risposta alla domanda su cosa quest’uomo sia, allora dovremo parlare, allo stesso tempo, del genere e della specie uomo»3.

La tesi qui sostenuta, con la sua radice nella fenomenologia husserliana e le sue riverberazioni sino ai nostri giorni, se applicata all’individuo umano, in quanto «soggetto alla legge della coazione e alla legge della libertà»4, porta alla conclusione che la forma originaria del genere e la forma specifica tendono a identificarsi nel darsi concreto dell’unità reale. Nel caso della persona, la differenziazione specifica tocca il cuore stesso della forma generale. Due conseguenze possono essere tratte: la prima è che l’unità reale degli uomini non sia in nessun caso assimilabile alla categoria generale e astratta di umanità; la seconda, più rilevante, è che la categoria generale “essere umano” è sin da subito specificata dall’ “essere persona”, cioè contiene in sé la forma specifica della singola persona, analogamente a quanto si può asserire delle creature angeliche5. 3

E. STEIN, La struttura della persona umana, Roma 2000, 140-141. Ibid., 171. 5 Ibid., 143: «Giungiamo, dunque, a non considerare l’individuo umano come esemplare di una specie umana universale, ma come determinato da una forma sostanziale propria e unica che va intesa come specificazione dell’idea del genere. Se, 4


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Secondo una concezione neoaristotelica dell’identità personale (Spaemann) il termine “persona” non può essere definito a partire da una qualsiasi proprietà sortale (qualitativa), ma designa sempre un soggetto, identico numericamente a se stesso. “Persona” non designa quindi una classe di appartenenza comune a tutti gli individui; al contrario ogni individuo umano si rapporta alla propria classe di appartenenza (l’identità di specie), come se fosse l’unico elemento di quella classe. Questo spiega perché, mentre il termine “natura umana” caratterizza la specie, il termine “persona” è in qualche modo un designatore rigido, al pari di un nome proprio. Da questo punto di vista, natura umana e persona sono equivalenti. Il che significa che l’identità di specie è riconoscibile pienamente in ogni individuo umano, dal momento che ogni individuo è perfettamente uomo, in quanto perfettamente se stesso. Anche in questo caso si danno almeno due conseguenze. In primo luogo, che la condizione dell’uomo è la pluralità. In secondo luogo, che se tutti gli uomini sono persone, allora può essere rifiutato il criterio gradualistico, per il quale solo chi detiene in modo ottimale determinate caratteristiche (coscienza, linguaggio, abilità pratiche…) è più persona di altri. Invece la forma generale (la classe) è specificata da ogni singola persona concreta (estensione equivalente a un solo individuo). Come dire che ogni singola persona concreta, quale che sia la sua costituzione, è istanziazione unica della classe di appartenenza, cioè della forma generale6. Solo questo schema può includere il fatto, ad esempio, che la libertà personale implichi, in un all’infuori del genere “uomo”, che può realizzarsi nella fattispecie solo negli individui, cioè come specie dell’umanità, che va considerata come un grande individuo. Gli individui umani sono membra di questo grande individuo e le sue forme sono forme delle membra». 6 R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa e “qualcuno”, RomaBari 2005, 18-19: «se noi definiamo determinati individui come “persone”, non lo facciamo nella misura in cui essi appartengono a una determinata classe o in quanto istanziazioni [meglio di istantaneizzazioni, ndr] di un concetto generale. Piuttosto con questo termine noi intendiamo il fatto che essi, rispetto a ciò che sono, si comportano, con la classe o la specie a cui appartengono, diversamente da come si comportano gli elementi normali di una classe con questa loro classe, cioè facendone parte. Le persone appartengono sempre a una specie naturale, ma vi appartengono diversamente dal modo in cui gli altri individui appartengono alla loro specie».


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universo dominato da vincoli deterministici, la capacità di imprimere una forza originaria (volontaria) non direttamente proporzionale alla forza esterna. Immersa nel regno della natura, cui è ascrivibile la sua struttura fisica, la persona è in grado di elevarsi e di costituirsi asimmetricamente rispetto alla definizione generale. Ciò equivale ancora a dire che la struttura fisica della persona non può essere né condizione sufficiente né necessaria per l’identità della persona. Come ha colto bene Edmund Runggaldier, nei suoi lavori di metafisica analitica della persona, questo è uno dei motivi per cui il quadridimensionalismo (spazio-temporale) della rappresentazione scientifica non può essere applicato allo studio della persona umana, giacché ne restituirebbe un’immagine puramente convenzionalistica7. Cercheremo di rendere ragione di questa tesi.

2. PERSONA, SOSTANZA E CONTINUITÀ La persona umana, nella sua fisicità e, in qualche misura, anche dal punto di vista dei processi psicologici di base, appartiene indubbiamente al mondo della natura quadridimensionale ed è dunque soggetta alla variazione temporale. Tuttavia, è innegabile che la persona non coincida con la sua natura fisica. Essa le sta di fronte, ma non le appartiene: la persona appartiene solo a se stessa. Come ha scritto Romano Guardini, «[d]all’esperienza di questo stare di fronte 7 E. RUNGGALDIER, Operatio demonstrat substantiam, in B. NIEDERBACHER – E. RUNGGALDIER (curr.), Was sind menschliche Personen? Ein akttheoretischer Zugang, Frankfurt 2008, 21: «Man kann für wissenschaftliche Zwecke den methodischen Vier-Dimensionalismus gelten lassen, aber für eine umfassende Deutung des Menschen ist es dennoch angebracht anzunehmen, dass menschliche Personen dreidimensional sind. Für rein wissenschaftliche Zwecke dürfte es zwar günstig sein, so an die Wirklichkeit heranzugehen, als ob alles auch zeitlich ausgedehnt wäre und sich nichts durch die Zeit bewegte. Daraus folgt aber nicht, dass dem tatsächlich so ist. Die Voraussetzungen unserer Lebenswelt, unseres Handelns, unserer Entscheidungen und Emotionen sprechen für eine ontologischen Drei-Dimensionalismus […] Vertritt man eine vier-dimensionalistische Raum-Zeit-Ontologie, so wird man jegliche Konstitution von Dingen oder sonstigen Einheiten, auch von Personen, konventionalistisch deuten».


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si genera una seconda forma fondamentale dell’interpretazione dell’esistenza: quella del soggetto»8. L’insieme dei predicati, fisici o psichici, che descrivono l’individuo umano da una prospettiva formale, cioè come un oggetto, un “qualcosa”, non sono sufficienti a determinare l’identità del soggetto, cioè del “qualcuno” 9. Gli individui umani vanno piuttosto associati alle sostanze aristoteliche, oggi ridenominate “continuanti tridimensionali” o endurers. Essi si mantengono identici a se stessi, benché ovviamente il loro corpo subisca nel tempo delle trasformazioni10. Il concetto viene introdotto bene da Runggaldier: Nelle ontologie quadridimensionali non è possibile che si dia alcuna identità diacronica e perciò neppure è possibile un’identità personale nel tempo. Se infatti tutto è esteso anche temporalmente e quindi è composto da fasi o “parti” temporali, allora nulla può muoversi da se stesso attraverso il tempo. Affinché il discorso attorno all’identità diacronica sia generalmente sensato, devono potersi dare individui tridimensionali, che esistono come interi in diversi momenti del tempo. Essi non possono essere temporalmente estesi, ma devono sempre esistere nel tempo11.

Già in Aristotele il nesso fra natura e sostanza è strettissimo e irrevocabile. Naturale è soltanto la sostanza: «[d]egli enti alcuni sono per natura, altri per altre cause […] la natura è un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente». Degli oggetti prodotti artificialmente «nessuno di essi, infatti, ha in se stesso il principio della produzione, ma alcuni lo hanno in altre cose e dall’esterno, come la casa e ogni altro prodotto manuale; altri in se stessi, ma non per propria essenza, bensì in quanto 8

R. GUARDINI, Mondo e persona, cit., 28. R. SPAEMANN, Persone, cit., 40: «Quando noi diciamo di qualcuno che è una persona, diciamo che egli è “qualcuno”, dunque un individuo e un essere unico, che non può essere inteso come conseguenza casuale di un suo predicato o della totalità dei suoi predicati. Ciò che egli può sempre essere, lo è in modo da non determinare chi egli sia». 10 Cfr. E. RUNGGALDIER, Operatio demonstrat substantiam, cit., 17. 11 Ibid., 23 (traduzione mia). 9


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accidentalmente potrebbero diventar causa a se stessi […] ha natura tutto ciò che ha tale principio. E tutte queste cose sono sostanze, perché esse sono un sostrato e la natura è sempre in un sostrato»12. Sulla natura umana la posizione di Aristotele è in linea con tali premesse. Anzi è proprio rispetto all’uomo che ha senso distinguere fra sostanze e accidenti, giacché la sfera delle “affezioni” umane è più ampia di qualunque altra: l’uomo in quanto produttore, artefice di elementi accidentali, rientra a pieno titolo in una molteplicità di schemi descrittivi. E, come precisa Aristotele, qualunque predicato si utilizzi per definire l’essenza dell’uomo, esso farà sempre riferimento ad un accidente. La natura dell’uomo risiede invece nel “sostrato”; l’essenza dell’uomo è ciò in virtù di cui i suoi accidenti esistono: il suo specifico principio di vita e movimento13. Non va inoltre dimenticato che tale principio sostanziale anima degli individui la cui esistenza è 12

ARISTOTELE, Fisica, in Opere, vol. 3, Bari 1987, II, 192b (corsivo mio). ID., Metafisica, in Opere, vol. 6, Bari 1979, IV, 4, 1007a: «Nulla vieta, infatti, che lo stesso oggetto sia uomo e bianco e numerose altre cose; tuttavia, quando ci si domanda se è vero o non è vero che questo dato oggetto sia uomo, bisogna dare una risposta che abbia un unico significato, senza aggiungere, peraltro, che quel dato oggetto è anche bianco e grande. E in verità gli accidenti sono infiniti e non è possibile enumerarli […] Allo stesso modo, pertanto, anche se il medesimo oggetto è per diecimila volte uomo e non-uomo, alla domanda se un tale oggetto è un uomo non si deve mai rispondere aggiungendo che esso è nello stesso tempo anche non-uomo, a meno che non si aggiungano nella risposta anche tutte quante le altre cose accidentali che quel dato oggetto è o non-è; ma se si fa questo, non si può discutere più. Insomma, coloro che ragionano in questo modo sopprimono la sostanza e l’essenza. Infatti essi sono costretti ad affermare che tutte le cose sono accidentali e che non esiste una determinata cosa che è essenzialmente animale. Se, infatti, ci sarà una determinata cosa che è essenzialmente “uomo”, questa non si identificherà né con “essere nonuomo” né con “non-essere uomo” (quantunque queste siano negazioni di quella); infatti, quello che allora si intendeva significare era un’unica cosa, vale a dire la sostanza di una data cosa. Ma significare la sostanza di una data cosa vale come dire che l’essenza di tale cosa è appunto quella e non altro. Se, invece, l’essere essenzialmente uomo si identifica con l’essere essenzialmente non-uomo o col non-essere essenzialmente uomo, allora l’essenza sarà qualche altra cosa, e di conseguenza essi saranno costretti ad ammettere che nessuna cosa ha una definizione di tal genere, ma che tutte le cose sono accidentali. E in verità proprio in questo consiste la differenza tra sostanza e accidente: il bianco è accidentale all’uomo perché questi è bianco, ma il bianco non è la sua essenza. Ma se si afferma che tutte le cose sono accidentali, non vi sarà un oggetto primario in virtù del quale gli accidenti esistono, dal momento che 13


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ben delimitata nel tempo e nello spazio. L’orizzonte fondamentale, l’autentico punto di fuga della filosofia naturale aristotelica nell’esame dello statuto dell’uomo consiste nell’affermazione del principio vitale e non meccanico degli individui14. Successivamente il cartesianismo ha senza dubbio assestato alla nozione di natura umana un colpo decisivo, favorendone il disincantamento e il progressivo appiattimento su un modello di tipo meccanicistico. Ciò che nell’uomo è naturale coincide gradualmente con il naturale tout court, che si delinea come una forma a sé stante, al pari della materia. Con Cartesio si frantuma l’unità sostanziale. Il problema dell’identità viene dunque slegato dalla sostanzialità. Il self diventa (con Locke e Cartesio) il soggetto psicologico. Il diaframma interpretativo dell’identità umana che la scienza ha posto in essere, che ha trovato anche nel cartesianismo un valido supporto, non riuscendo a dar ragione dell’esperienza spirituale e interiore, ha provocato un sostanziale oblio dell’umano nella sua integralità. In antitesi alle premesse cartesiane si può argomentare che, sebbene l’essere persona comporti anche il possesso di proprietà di tipo spirituale, la privazione totale o parziale di tali qualità non ne modifica in alcun modo lo statuto ontologico15. Il concetto di persona, per dirla con Strawson, è logicamente antecedente a quello di coscienza individuale16. Perché è necessaria e non solo opportuna una precisazione di questo genere? I motivi sono almeno due. Il primo l’accidente sta sempre a significare il predicato di qualche sostrato. In tal caso, allora, non si potrà evitare il processo all’infinito del predicato» (corsivo mio). 14 R. SPAEMANN, Persone, cit., 149: «La “forma” aristotelica non è superveniens, non è una sovrastruttura su un’entità già presente o su una pluralità di tali entità, che le congiunga a una superiore unità accidentale, come il membro di un’associazione all’associazione stessa. La “forma” è piuttosto il principio strutturale di un’unità vivente e questa è una realtà elementare, le cui parti esistono soltanto come parti. Le parti sono soltanto virtuali entia per se, enti autonomi, che diventano tali soltanto se l’unità vivente si dissolve, cioè quando l’”anima” scompare». 15 E. AGAZZI, The Human Being as a Person, cit., 227: «[C]onsciousness is a consequence of the intrinsic structure of human nature, in the form of something that a man can have, and normally also really has, but is no substantial characteristic of him, since it may be acquired, lost, weakened, suspended, without making of it a non-man». 16 Cfr. P.F. STRAWSON, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, London 1959, 101-103.


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motivo è che il concetto di persona non implica necessariamente la congiunzione, come riteneva Strawson, di due tipi di predicati, i P-predicati (che attribuiscono a un individuo stati di coscienza) e gli M-predicati (che attribuiscono a un individuo caratteristiche fisiche); esso implica invece che le due tipologie di predicati siano in relazione di disgiunzione inclusiva. Come dire che tale entità non sarà persona se e solo se entrambi i tipi di predicati saranno insieme assenti, se cioè quell’individuo non sarà in possesso di nessuna caratteristica corporea e di nessuno stato di coscienza. Il corollario di quanto detto sopra è che la negazione (il non possedere una delle due proprietà) non indebolisce lo statuto della classe, né diminuisce lo statuto ontologico del singolo individuo. Agazzi su questo punto sottolinea chiaramente come attraverso la negazione semplice non si pervenga ad alcuna caratterizzazione fattuale della relazione sussistente fra un soggetto e una proprietà. Affinché la negazione sia costruttivamente determinante non è pertanto sufficiente adottare il metodo della relazione diadica (oppositiva), poiché essa non lascia spazio alle cosiddette vie di mezzo, alle asimmetrie. Solo il criterio della negazione triadica, e in particolare della privazione, può essere utilizzato costruttivamente al fine di includere dei gradi di negazione17. Il secondo motivo per cui è opportuno precisare la priorità logica del concetto di persona ci viene fornito dalle riflessioni di Agazzi e Spaemann sulla questione del rapporto fra riferimento e proprietà. Agazzi segnala l’inopportunità di interpretare lo statuto della persona alla luce di caratterizzazioni predicative ispirate a concezioni antropologiche di diversa impronta. Il fondamento del rispetto così come dell’intangibilità della persona va ritrovato più alla radice, al livello del sostrato — per utilizzare il termine aristotelico —, 17

E. AGAZZI, The Human Being as a Person, cit., 223: «“person” denotes the referent, while “consciousness” denotes a property of a referent, so that one must be open to admit, from a strictly ontological point of view, that: (a) certain persons might not possess (under certain circumstances) the property of consciousness; (b) certain non-persons might possess the property of consciousness, this property being understood in an analogical sense according to the different referents for which it is affirmed (or denied)».


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che costituisce appunto il riferimento ultimo di tutti i predicati dell’io18. Si tratta senza dubbio di una critica mossa al relativismo, che tende soprattutto oggi a mettere tra parentesi l’oggettività della nozione di persona e che opera una certa confusione tra interpretazione e ontologia, tra piano dei predicati e piano della realtà. Una realtà come quella della persona (ma ciò vale per qualsiasi livello di realtà) non può essere considerata tale solo in quanto perfetta esemplificazione di proprietà al loro massimo grado (per esempio, essere in perfetta salute, in possesso di tutte le facoltà fisiche e intellettive, perfettamente in grado di compiere certe operazioni, ecc.)19. Come si è detto, la condizione di ciascun individuo è invece quella di una inevitabile e parziale privazione, intesa come parziale possesso di una o più proprietà costitutive della propria essenza; tuttavia, tale condizione non compromette in alcun modo il sostrato ontologico, che ha il compito “naturale” di individualizzare e umanizzare delle funzioni o delle proprietà altrimenti astratte20. Come rileva Spaemann, «[m]entre il termine “uomo” indica una specie, una classe naturale, che è definita 18 L.c.: «if we admit as a general principle simply the respect of man as such, we are led to legitimate the non-respect of man as such, i.e. to legitimate non respecting those human individuals which may accidentally turn out not to be persons». 19 R. SPAEMANN, Persone, cit., 30-31: «La natura rationalis esiste in quanto essere-se-stesso (Selbstein). Questo però significa che l’individuo che esiste in tal modo non può essere descritto adeguatamente da nessuna descrizione possibile. Detto in altri termini: la sua denominazione non può essere sostituita da nessuna descrizione. Persona è qualcuno, non qualcosa, non la pura istanziazione di un’essenza, indifferente a questa sua istanziazione». 20 E. AGAZZI, The Human Being as a Person, cit., 226: «If we were to pretend that a being, in order to really be what it is, should possess all its properties in the maximal degree, we would make the absurd claim that everything must be perfect in its proper genus, in order to belong to this genus, while everything existing is limited, this limitation meaning in particular absence of perfection in the possession of its characteristic properties […] the constitutive essence of the ontological substratum must be distinguished from the essence of the properties with which it is normally endowed, and can accidentally or temporarily be deprived of; these properties are only a constitutive part of its essence which is among its possible possessions, but in any case fall under its proper essence [...] privation is the suppression of a having or possession of a property, and not an alteration of nature in the being which has the property. We have thus three elements: the possessor (the ontological substratum), the property, and the having or possession of the property. Privation only takes the posses-


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dai differenti predicati dei suoi elementi, “persona” non significa la classe, ma essenzialmente l’elemento di una classe, non in quanto elemento di questa classe, ma in quanto individuo. La persona, scrive Tommaso, non è un nomen intentionis, ma un nomen rei […] “Persona” non è dunque un concetto di classe, ma un “nome proprio generale”»21. L’individuo non rimane pertanto in balia della natura in senso generale, ma è egli stesso il principio della propria natura (animal rationale). Ecco perché non ha senso parlare di “persone potenziali”: si può parlare di potenzialità in relazione ad una proprietà fenotipica che matura nel tempo (la coscienza, l’intelligenza, l’abilità ecc.), ma non in relazione al sostrato, che in quanto tale, come afferma Spaemann, è la condizione trascendentale delle altre possibilità e non è soggetto alla variazione temporale. La persona, infatti, in quanto sostanza, non è un evento, e quindi, a differenza di questo, non ha parti temporali. Come nota giustamente Allegra, «mentre un oggetto sarebbe “totalmente presente” nelle varie fasi della sua esistenza, un evento sembra composto di una serie di eventi più brevi, ovvero consistere della loro somma»22.

3. IDENTITÀ PERSONALE E AUTORIFERIMENTO Accanto all’approccio formalistico e sostanzialistico all’identità personale non è possibile non collocare l’approccio fenomenologico, che intende esplorare le proprietà distintive dell’identità umana a partire dall’esperienza che il soggetto fa di se stesso. “Soggettività” e “personalità” assumono un ruolo chiave in questa prospettiva e denosion […] This conception is far from abstractly hypostasizing the having, but rather underscores the deep relation between this having and being [corsivo mio]. Indeed it is through this having that a feature or property, which is abstract and ontologically non existent without a possessor, receives the pervasive characters of its possessor. This is why even the biological functions of the human body are human and not simply animal functions: a truth which has been forgotten for too long a time, and comes back again nowadays». 21 R. SPAEMANN, Persone, cit., 33. 22 A. ALLEGRA, Substance strikes back. Un capitolo di metafisica analitica, in Iride 22 (2009) 56, 112-113.


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tano un livello di realtà che, tuttavia, non è contrapposto ai due livelli sin qui descritti. Come osservava Edith Stein, «[l]’io non è una cellula cerebrale: ha un senso spirituale che è accessibile solo nei nostri vissuti. Ed anche la localizzazione dell’io può essere determinata solo a partire dal vissuto»23. Il vissuto, cioè la memoria biografica, narrativa e introspettiva del soggetto è per certo ciò che si caratterizza come appannaggio esclusivo, e quindi intrasferibile, dell’individuo umano. È dal proprio vissuto che una persona riconosce se stessa come distinta dalle altre. Naturalmente la corporeità, come si è visto, gioca un ruolo cruciale nella sua individuazione, ma non può essere considerata al di fuori dalla relazione con l’interiorità. Negli animali, e in particolar modo presso le specie più evolute, questo genere di relazione traspare pressoché indefettibilmente: il corpo manifesta l’interiorità e l’interiorità si riversa nel comportamento esteriore. L’espressione corporea animale rivela appieno la sfera intenzionale che in qualche modo la determina. Edith Stein aveva colto perfettamente il senso di quest’esperienza: «Ciò che emerge attraverso l’espressione corporea è un’interiorità in un senso ancor più proprio, non la mera percezione di ciò che al corpo vivente accade dall’esterno e il reagire verso l’esterno, ma uno stato interiore»24. Rispetto all’esperienza dell’essere umano, Lynne Rudder Baker ha tuttavia evidenziato un aspetto ulteriore: «una persona ha la capacità di una prospettiva in prima persona in modo essenziale mentre il corpo che la costituisce ha questa prospettiva solo in modo contingente. […] Una prospettiva in prima persona rende possibile una vita interiore»25. Cerchiamo di soffermarci per un momento sulla relazione fra prospettiva in prima persona e interiorità. Per la Baker la capacità del soggetto di enunciare un discorso in prima persona non è la conseguenza dell’autocoscienza, ma la sua condizione necessaria: «Una prospettiva in prima persona sottende tutte le forme di autocoscienza»26. Questo ci sembra un punto decisivo. L’autocoscienza, e con essa ogni forma di autorappresentazione, è 23 24 25 26

E. STEIN, La struttura della persona umana, cit., 130. Ibid., 87. L.R. BAKER, Persone e corpi, Milano 2007, 73. Ibid., 74.


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possibile in ragione del fatto che il soggetto è capace di autoriferimento, cioè è in grado di costruire un discorso su se stesso, ma anche sulla realtà esterna (attraverso l’oratio obliqua), partendo dal riferimento ultimo e inequivocabile cui rinvia il termine “io”. Quando dico “io”, faccio riferimento solo a esclusivamente a me stesso, senza alcun margine d’errore. Ogni coniugazione ulteriore, ogni articolazione successiva (il “tu”) poggia su questa premessa. Io riconosco all’altro, il “tu”, la stessa capacità di autoriferimento che mi contraddistingue. Non è necessario che tale relazione di autoriferimento sia cosciente o che si avvalga di descrittori semantici27. Anche in condizioni di prematurità o immaturità psicologica, o di deficit cognitivo grave, fenomeni che impediscono al soggetto di avere coscienza di sé, l’autoriferimento è possibile, perché si struttura come pura relazione denotativa fra il segno e la realtà personale28. Anche Robert Spaemann si muove su questa linea di pensiero: Qualcosa […] può essere identificato soltanto se viene identificato come un così-e-così, come qualcosa di qualitativamente determinato: come un qualcosa che, per mezzo di un’espressione sortale, viene attribuito a una determinata specie. Ma proprio questo non vale per l’identificazione mediante il pronome personale “io”. Qualcuno si può certo ingannare riguardo a chi e che cosa egli sia per qualcun altro. Può anche ignorare la propria situazione spaziale e temporale. Dopo un incidente, nel quale egli abbia perduto contemporaneamente memoria e vista, può domandare “chi sono?”, “dove sono?”, può addirittura aver dimenticato di essere un uomo. Ciononostante, sulla referenza 27

R. SPAEMANN, Persone, cit., 36: «Ciò che è singolare può essere identificato solo in relazione a qualcuno che lo identifica, e precisamente come qualcosa che è cosìe-così. Questo non vale per colui che indica. Egli si trova nella particolare situazione di potersi specificare con chiarezza, senza doversi includere in una specie e senza dover determinare la propria posizione in relazione alla posizione degli altri. “Io” si riferisce a un individuo senza la necessità di passare attraverso un “significato”, e cioè senza determinare un contenuto. Le persone sono individui in un modo non comparabile». 28 L.R. BAKER, Persone e corpi, cit., 168: «Ciò che ha di peculiare la prospettiva in prima persona è il fatto che, da questa prospettiva, io non identifico affatto me stesso. Non colgo me stesso sulla base di ciò che appare, della memoria, di un qualche tipo di continuità corporea o di altri criteri. […] Da una prospettiva in prima persona c’è sempre un’asimmetria fra se stessi e chiunque altro»


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dell’ “io” non grava alcuna indeterminatezza, dal momento che questa referenza è puramente numerica, indipendente da ogni determinazione qualitativa. “Io” si riferisce a chi dice “io”, indipendentemente da tutto ciò che egli ancora è29.

Così anche quando parlo dell’altro, attribuendogli una determinata proprietà, come ad esempio “Eluana non cammina” o “Eluana è in coma”, non posso non presupporre che quell’attribuzione di stato implichi un livello che è prioritario, e cioè l’attribuzione di riferimento30. Eluana potrebbe non avere coscienza di sé, potrebbe non sapere più nulla di sé, e potrei essere io insieme ad altri ad avere coscienza di lei e a ricostruire la sua memoria biografica; cionono-

29

R. SPAEMANN, Persone, cit., 11-12. Rispetto a quest’aspetto sono certamente illuminanti le considerazioni della Baker sulla distinzione fra fare un riferimento in prima persona e attribuire un riferimento in prima persona (in 2007, 80): «Vorrei, ora, illustrare la differenza fra fenomeni forti e deboli della prima persona in termini grammaticali. A questo livello, possiamo distinguere tra fare un riferimento in prima persona (come quando Smith dice “io sono alto”) e attribuire un riferimento in prima persona (come quando Smith dice “Jones desidera esser alta”). Nel secondo caso, Smith attribuisce a Jones un desiderio che Jones potrebbe esprimere dicendo “io vorrei essere alta” o “io vorrei che fossi alta”. L’attribuzione di un riferimento in prima persona occorre nel discorso indiretto, in una proposizione introdotta in italiano da “che” e preceduta da un verbo psicologico (o linguistico). Tuttavia — e questo è il punto importante — non soltanto attribuiamo un riferimento in prima persona ad altri, ma possiamo attribuirlo anche a noi stessi, come quando Jones dice “io vorrei essere alta”. Una persona che pensa “io sono alta” può distinguere se stessa dagli altri; una persona che pensa “io vorrei esser alta” può concettualizzare questa distinzione, può pensare se stessa in quanto se stessa. La prima proposizione fa un riferimento in prima persona, l’ultima attribuisce (e fa) un riferimento in prima persona a se stessa. La capacità di attribuire a se stessi un riferimento in prima persona nel discorso indiretto (“io vorrei che fossi alta”) è un indicatore di fenomeni forti della prima persona». Anche altri filosofi, come Hector-Neri Castañeda e Roderick M. Chisholm, hanno dedicato ampio spazio nelle loro ricerche alla questione dell’attribuzione diretta e indiretta. Chisholm, in particolare, nel noto volume The First Person (1981), ha proposto, attraverso una serie di argomentazioni, che per ovvie ragioni in questa sede non possono essere riprese, di ricondurre ogni forma di attribuzione al prototipo dell’autoattribuzione (de se) (cfr. M. NEGRO, Oltre le apparenze. La filosofia della percezione di R.M. Chisholm, Milano 1995). 30


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stante questa condizione non le pregiudica il riferimento a se stessa, cioè al fatto inoppugnabile di essere qualcuno. Il tema del riferimento dell’io è comunque storicamente controverso, giacché contravviene a un sacro principio della logica moderna (da Frege in poi), per il quale non si dà mai un riferimento (Bedeutung) senza un significato (Sinn). È invece perfettamente legittimo l’inverso, e cioè che un termine abbia un significato anche senza un riferimento. “Unicorno” o “fenice” sono termini che non hanno un riferimento nella realtà, avendo un’estensione nulla, mentre il loro significato è noto a molti. Il nesso fra un termine e il suo riferimento non può non includere quindi anche il nesso fra il termine e il suo significato. Ciò che appare controverso è che si diano dei termini con una funzione puramente denotativa e che nel contempo non siano dei semplici “indessicali”, cioè delle unità grammaticali che fungono unicamente da indicatori (“qui”, “questo”, “oggi”, “ora”, ecc.). È il caso del pronome “io”. In alcune lingue l’uso del pronome alla prima persona può essere addirittura pleonastico (ad esempio nella lingua latina), perché inglobato nella forma verbale. Può svolgere una funzione indicale o ostensiva e tuttavia non può essere analizzato alla stregua di un qualunque indessicale, checché se ne dica. Il pronome alla prima persona è piuttosto da considerare un quasi-indessicale; da un lato, infatti, esso ha un rapporto diretto e indefettibile con il suo riferimento, dall’altro, però, il suo “riferirsi a” è assolutamente prototipico e unico nel suo genere, e sfugge ai principi logico-formali della semantica di Frege. Ha osservato bene Thomas Schärtl: «Si potrebbe ritenere — seguendo alcune allusioni di Ludwig Wittgenstein e il contributo aggiuntivo di Elizabeth Anscombe — che l’uso dell’espressione “io” non abbia a che vedere con il gioco del significare e del riferirsi. Oppure si potrebbe parlare di un caso particolare del significare e del riferirsi, che […] forse è addirittura prototipico»31. Sulla scia della riflessione di Hector-Neri Castañeda si può azzardare che, da un canto, come già ribadito, l’espressione “io” sia contrassegnata nel suo uso da 31 TH. SCHÄRTL, Personensein – Indexikalität – Selbstbewusstsein, in B. NIEDERBACHER – E. RUNGGALDIER (curr,), Was sind menschliche Personen? Ein akttheoretischer Zugang, Frankfurt 2008, 83 (traduzione mia).


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una relazione referenziale ed ontologica, e dall’altro sia messa in crisi la distinzione fra estensione e intensione32. Estensione ed intensione divengono in qualche modo sensibili ai contesti (context-sensitive) e rappresentano delle cosidette “guise” dell’io33, come ha intuito, a nostro avviso correttamente, lo stesso Castañeda: Gli usi indessicali del pronome in prima persona non hanno, perciò, alcun contenuto in terza persona, che sia questo dimostrativo o no. Come ho spiegato quasi venti anni fa, il riferimento dimostrativo in terza persona a se stessi […] non è identico al riferimento in prima persona a se stessi in quanto se stessi […] Ne consegue che gli usi indessicali del pronome in terza persona hanno come riferimenti esclusivi delle guise molto speciali. Essi sono molto speciali in quanto si riferiscono ad una guisa che è costituita essenzialmente dal costituirsi di una prima persona rispetto a se stessa. L’essenza della sostanza di un io è proprio il concepire se stesso come un soggetto qua soggetto34.

Così, per riprendere l’esempio precedente, quando dico “Eluana non parla” o “Eluana vorrebbe parlare” faccio o attribuisco un riferimento in terza persona. In questo caso, il riferimento in terza persona implica un riferimento in prima persona, cioè il riferirsi di Eluana a se stessa, ovvero il riferirsi del suo io a se stesso come soggetto. La relazione fra il soggetto e se stesso rimane asimmetrica, giacché il soggetto potrebbe addirittura non conoscere la sua vera identità, ma non 32 Ibid., 103: «Gewissermaßen handstreichartig entledigt sich Castañeda des Fregeschen Sinns als Vermittlungsinstanz im Vollzug des Referierens. Ist nach dieser Revolte die klassische Unterscheidung zwischen Extension und Intension noch sinnvoll? Um es auf eine Formel zu bringen: Nein – extensionale Kontexte sind […] intensionale und umgekehrt». 33 H.-N. CASTAÑEDA, The Self and the I-Guises, Empirical and Transcendental, in J.G. HART – T. KAPITAN (curr.), The Phenomeno-Logic of the I. Essays on SelfConsciousness, Bloomington 1999, 191: «obviously, once the contrast between primary referent and primary sense disappears, the remaining entities are the primary referents, indeed the only referents of singular reference, and they turn out to be governed by different laws. Certainly, the principles governing the vanished Fregean semantic contrast go by the board. Hence it is somewhat of a misnomer to call them senses. Let us call them individual guises». 34 Ibid., 187 (traduzione mia).


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potrebbe sbagliarsi sul riferirsi a se stesso35. Com’è stato opportunamente notato, l’oggetto di riferimento del quasi-indessicale “io” rimane “sottile”, pressoché impalpabile (in un senso quasi humiano o kantiano), a differenza degli oggetti spessi e densi cui si riferiscono le proposizioni sull’esperienza ordinaria36. Non possiamo pertanto non concordare con Schärtl, quando osserva che «il miglior modo di descrivere la modalità unica delle persone inizia dalla descrizione di una speciale attività: l’autoriferimento»37. Alla luce di quanto precisato in quest’ultimo punto, si può chiarire meglio la questione assolutamente centrale relativa all’identità diacronica. Come è possibile che la persona P1 nel tempo t1 e la persona P2 nel tempo t2 siano la medesima persona? In altri termini, rifacendosi al linguaggio di Roderick Chisholm, mentre il corpo è un ens successivum, ed è quindi scomponibile in fasi, la persona (il self) rimane identica a se stessa38. Ma come si giustifica quest’affermazione, se non attraverso la prospettiva in prima persona? Come ci ricorda appunto la Baker, «[i]n questo senso, una persona P1 a t1 è la stessa persona P2 a t2 se e solo P1 e P2 hanno la stessa prospettiva in prima 35

L.R. BAKER, Persone e corpi, cit., 87: «Non solamente c’è qualcosa a cui “io” si riferisce ogni qualvolta viene usato in modo letterale e sincero, ma anche, da una prospettiva in prima persona, non potremmo mai usare “io” in modo letterale e pensare di riferirci a qualcun altro oltre a noi stessi. Ciò che io considero essere me stesso è me stesso: i pronomi in prima persona, nei loro usi tipici, sono immuni dall’errore referenziale di cui sono suscettibili, invece, i nomi […] In breve, ci si può inconsapevolmente riferire a se stessi in terza persona, ma da una prospettiva in prima persona non possiamo non sapere a chi ci stiamo riferendo». 36 TH. SCHÄRTL, Personensein – Indexikalität – Selbstbewusstsein, cit., 107: «Castañedas Guise-Theorie versucht, das Selbstreferieren in seiner Bezüglichkeit noch einmal einzuholen, muss aber am Ende zugestehen, dass der Bezugsgegenstand dünn bleibt. Wenn das ,,ich” in der Tradition Humes und Kants geradezu als schwarzes Loch betrachtet wird, dann hat das eine gewisse Berechtigung. Was die Selbst-Referenz einerseits trifft, ist ein lch-Guise; dieses lch-Guise ist ontologisch ,Dünn’ und bleibt dünn. Aber darin liegt andererseits auch ein erheblicher Vorteil: Es kann gar nicht mit den ,,thick particulars” den alltäglichen Gegenständen der Welt, die ihrerseits doxastische ,,chunks“ von Guises sind, verwechselt werden». 37 Ibid., 112 (traduzione mia). 38 Cfr. R.M. CHISHOLM, On the Simplicity of the Soul, in J.E. TOMBERLIN (cur.), Philosophy of Religion, 1991, 167-181 (Philosophical Perspectives 5).


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persona»39. L’io è indivisibile, non è né un evento né un processo, ma è il riferimento ultimo della prospettiva in prima persona, e il corpo proprio, per quanto divisibile e parcellizzabile, entra in qualsiasi momento della sua esistenza in una relazione in prima persona; il corpo cambia, ma è vissuto in qualsiasi istante come corpo dell’io, anche se dovesse mancare, per una qualsiasi ragione o condizione, la consapevolezza della sua trasformazione temporale: Io sono la persona S con il corpo c se e solo se la prospettiva in prima persona che ho ora include anche una relazione in prima persona al corpo c. È possibile che nessuno sappia se la persona S di ottant’anni sono io. Io posso essere a conoscenza di tutti i fatti personali del caso: posso sapere ora cosa accade al mio corpo, al mio cervello e tuttavia non sapere ora se il corpo e il cervello risultanti saranno i miei; posso sapere come cambieranno i ricordi che sembrano essere miei e non sapere se la persona con questi ricordi sono io. Ma c’è un modo per accertare se la persona S di ottant’anni sono io: la risposta a tale questione dipende dal fatto che la mia prospettiva in prima persona includa o meno una relazione in prima persona al corpo di S. Inoltre, se ho una relazione in prima persona con un corpo particolare in un dato momento temporale, allora conosco questo fatto in questo momento determinato (anche se non posso prevedere in anticipo che avrò una relazione in prima persona con quel corpo). È possibile che l’identità (o la non identità) della persona S a t e S’ a t’ sia inconoscibile, ma il realismo sulle persone ammette che ci possano essere dati di fatto inconoscibili»40.

Nel tempo il mio io intrattiene una relazione unica con il mio corpo, il quale inevitabilmente cambia e subisce ogni tipo di modificazione. La relazione esclusiva è possibile perché il corpo può essere vissuto soltanto da me ed entra a far parte della relazione referenziale. “Io” indica solo me stesso, e nell’indicare me stesso indica in ogni momento del tempo il mio corpo, che ovviamente cambia. Solo in questo senso il corpo può essere riconosciuto come mio, come dipendente ontologicamente da me. A questo va aggiunto che la continuità 39 40

L.R. BAKER, Persone e corpi, cit., 162-163. Ibid., 165-166.


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corporea non è né sufficiente né necessaria per l’identità personale, dal momento che la continuità corporea può essere persino difficile da dimostrare e, allorquando fosse possibile, la dimostrazione potrebbe benissimo avvenire per così dire dall’esterno, cioè ad opera di un altro soggetto. Qualora si dimostrasse, nei termini di un’ontologia quadridimensionale, che il mio corpo di adesso è in continuità con il mio corpo all’età di due anni, non si determinerebbero per questo le condizioni per affermare che in questo lasso di tempo è di me che si parla. Nei termini in cui la questione è posta, neanch’io sarei in grado di dimostrare la persistenza della mia identità. Senza la mia relazione in prima persona con il corpo, quest’ultimo rientrerebbe a pieno titolo fra gli oggetti dell’universo che, in un’ontologia quadridimensionale, sono inevitabilmente soggetti a descrizioni di tipo processuale, o addirittura, in linea di principio, potrebbe, sulla base di interventi tecnologici, essere manipolato a tal punto da divenire un puro oggetto artificiale, dipendente in via esclusiva da una progettualità esterna. Alla luce di quanto sin qui svolto, la risposta più adeguata all’analisi d’apertura di Edith Stein e nello stesso tempo la migliore conclusione per questo breve contributo, che intende però essere un programma di ricerca per i prossimi anni, le rinveniamo nelle considerazioni illuminanti di Romano Guardini: «Le riflessioni precedenti hanno separato tra loro i diversi ‘strati’ per poterli distinguere più nettamente; in verità essi sono intersecati tra loro, ciascuno assunto di volta in volta nella struttura di senso superiore. La forma si presenta solo come vivente, l’individuo unicamente come abitato dallo spirito concreto; tutto insieme ma caratterizzato ineliminabilmente dal fatto che si trova nello stare in sé e nella capacità d’iniziativa propria della persona. La pienezza e forma d’esistenza umana si realizza solo nella misura in cui la personalità trova valorizzazione»41.

41

R. GUARDINI, Mondo e persona, cit., 156.


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DINAMICHE IDENTITARIE Un fatto sociale e un problema sociologico ´ SKI* GRZEGORZ J. KACZYN

Il concetto sociologico d’identità1 ha la propria storia sociale che possiamo definire come processo di razionalizzazione di un fenomeno sociale nella fase della sua configurazione; il che non è altro che un processo di mutamento sociale. Il suo significato, quindi, ha subìto e subisce fluttuazioni legate alla dinamica del suo contesto sociale. Nei termini proposti da Anthony Giddens, possiamo dire che il linguaggio sociologico è fortemente esposto al meccanismo di reflexivity ovvero al ritorno delle sue categorie al linguaggio corrente di cui gli individui si servono nelle definizioni degli atteggiamenti, dei comportamenti sociali e così via. Tuttavia, il bisogno di avere a disposizione un vocabolario concettuale e terminologico proprio che si traduce nella precisazione dei termini, eliminando tutti gli involucri dei significati «non-scientifici», corre il rischio di trasformarsi in una produzione di termini e concetti così perfetti, formalmente, che diventano privi di senso empirico [cfr. Mokrzycki, 1980: 78]; una sorta di ipostasi. L’impegno con cui certi metodologi affrontano tale compito assomiglia all’attaccamento di un falegname ai propri arnesi — pialle, tenaglie, scalpelli ecc. — tenuti in stato di tale perfezione che egli li usa sempre con la paura di rovinarli. A simili questioni non si può sottrarre neanche il concetto d’identità, tanto più in quanto ultimamente il discursus identitario è *

Docente di Sociologia presso l’Università degli Studi di Catania. Il presente saggio contiene ampi frammenti del mio volume Processo migratorio e dinamiche identitarie (Milano 2008, 193-208). 1


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diventato, in un certo senso, una moda intellettuale. Per taluni la questione dell’identità costituisce una sorta di nuovo paradigma delle scienze sociali. [Melchior, 1993: 234]; per altri il grande interesse che suscita la questione è piuttosto il risultato di un’enfasi intellettuale, una forma di ossessione sui generis o persino un’isteria d’identità [Dupin, 2004]. Si ha l’impressione che l’identità sia divenuta uno slogan trasversale di ambienti non solo accademici, ma in genere intellettuali, sebbene non ci sia accordo sul significato semantico del concetto. In altri termini, a nessuna delle discipline umanistiche è riuscito, per così dire, di appropriarsi del concetto di identità che ha conservato un involucro semantico non intellettuale, grazie al quale il suo utilizzo dà l’impressione di reciproca comprensione che sostanzialmente è spesso illusoria, giacché nel contenuto di tale involucro entrano anche nuovi ma nascosti significati, ossia criptosensi. Inoltre, molti testi sull’identità sono meritoriamente e logicamente incompatibili sicché vi è in essi menzione di fenomeni del tutto diversi. Da qui la moltitudine ed eterogeneità di giudizi, definizioni, opinioni, ecc. talora contrastanti ma intellettualmente interessanti, perché formulati da diverse posizioni; non solo da posizioni scientifiche. «Il gran parlare di identità — annota in modo lapidario Jerzy Szacki [2004: 16] — non ha sortito frutti, purtroppo fino adesso, con una concettualizzazione più ampia della problematica in proposito e con la formulazione di una teoria sull’oggetto». Ryszard Kapus´cin´ski [2002: 25] scrive che a cavallo dei secoli XX e XXI «il problema più irritante e infuocato divenne non la ricchezza, ma l’identità»; lo stesso, ma diversamente, affermò una volta Jean Baudrillard, dicendo che l’uomo moderno «non cerca la fama, ma l’identità». Zygmunt Bauman [2001: 471] precisa: «L’identità è divenuta un prisma attraverso il quale gli altri aspetti tematici del mondo moderno sono sperimentati, osservati e studiati»; e altrove afferma: «la personalità davvero postmoderna si distingue dalla mancanza di identità» [1993: 14]. In questo contesto stonano le affermazioni sull’impossibilità empirica di studiare l’identità che «con la progressiva conoscenza della personalità umana si rivelerà inutile» [Kozielecki, 1986: 333]. Georg Elwert [1997: 258] osserva che il termine identità «non è quasi mai operativo», che «il più diffuso è il suo uso presso cui l’identità significa un sentimento ideo-


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logico nascosto dietro l’aspetto del concetto scientifico». Enzo Colombo [2007: 11] afferma che l’identità «arriva forse a indicare troppe cose e cose troppo importanti. Condensa così fittamente la nostra esperienza da divenire un buco nero; insondabile, onnivoro. Non c’è nulla da spiegare perché il termine parla da sé, è nell’esperienza condivisa, diviene uno stato del mondo». Tzwetan Todorov [2004: 107], però, è convinto che gli europei dovrebbero perfino creare un esercito per difendere la propria identità e Samuel Huntington [2003: 15], indirettamente, gli dà ragione affermando che i conflitti culturali e civilizzatori sono in fondo conflitti di identità. Ma i problemi per la comprensione del concetto di identità non nascono unicamente sulla base dei tentativi della sua semantizzazione e della concettualizzazione teorica. Già il senso corrente di questo concetto non è del tutto univoco; le sue definizioni sembrano tanto ovvie e banali da sconfinare nel paradosso. Infatti, in tutti i dizionari moderni il significato di identità è indicato come essere lo stesso, in diverse situazioni e tempi. Nasce tuttavia un interrogativo: qualsiasi cosa o persona può essere quello che non è, o non essere quello che è? Quando, in che senso, oggettivo o soggettivo? Per questo, specie nel caso dell’identità individuale, questo concetto si manifesta come una sorta di ossimoro: come cioè l’individuo può essere un altro di sé? Il suo sentimento di identificazione può essere diverso da quello che è nella sua coscienza? E se questo è possibile, allora l’identità è quella che è o quella che l’individuo pensa che sia? Com’è noto, il termine odierno del concetto di identità deriva dal tardo latino identitate che indicava l’unità e l’immutabilità della persona o della cosa. Nel pensiero filosofico tradizionale, l’identità era una categoria logica e metodologica; il principio logico dell’identità affermava che ogni concetto si identifica con se stesso, che ogni cosa è quella che è. Le cose naturali rimangono tali finché esistono; la filosofia aristotelica, infatti, sosteneva che la loro nascita e trasformazione differisce sostanzialmente dai mutamenti che sopravvengono. La psicologia ha fatto sua questa norma affermando che identità significa coscienza di sé come individuo stabile nel tempo e diversa da altre. Quando, e non tanto tempo fa, si parlava di identità, il significato corrente di tale concetto indicava la stabilità e la sostanziale immuta-


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bilità dell’individuo o del gruppo in rapporto ad una struttura sociale relativamente solido. In altre parole, indicava il suo indirizzo sociale e culturale (professione, posizione, provenienza, nazionalità, credo, ecc.), che implicite ne indicava anche la posizione assiologica (visione del mondo, stile di vita, ecc). Mentre nell’odierno contesto multiculturale, interetnico, globale e fluido, si verifica proprio il contrario: parlando di identità si parla piuttosto delle sue trasformazioni, ossia, nella fattispecie, di non identità. Lo sostenne fortemente Karl Dedecius, mostrando che nel concetto di identità scompare attualmente il suo significato fondamentale lo stesso, significato centrale, integrante. Lo stesso ha lasciato il posto ad altro, che ha acquisito quasi uno status symbol. Identità, oggi, significa piuttosto essere continuamente un altro, e questo in una certa misura rappresenta un fenomeno sociale che Adam Kuper [2005: 202] ha definito in modo azzeccato come celebrazione della differenza. Non sarà errato ritenere che questo genere di criptoambivalenza meritoria del concetto di identità, in un modo o nell’altro, si manifesta nei tentativi di scientizzarlo. Nonostante tutto, il valore di questo concetto non lo si può ridurre ad un requisito della moda, né ad una finzione euristica. Non è nemmeno una sorta di ipostasia. Nessun concetto nasce nel vuoto sociale e culturale; persino la moda e forse soprattutto la moda. La nascita di un nuovo concetto significa infatti che è nato un nuovo fenomeno; un fenomeno nasce con la nascita del suo nome, scompare il concetto, scompare il fenomeno, direbbe Roland Barthes. Un’idea simile è stata espressa da Zygmunt Bauman [1993: 7]: «Percepiamo i fenomeni soltanto quando essi diventano un ‘problema’… La percezione del fenomeno avviene dopo la formulazione del problema che è un riflesso del compito che ci poniamo». Sembra che la situazione attuale semantica (e forse anche ontologica) del concetto di identità riveli i sintomi di ciò che potremmo definire come il passaggio dalla scoperta dei fatti alla scoperta dei problemi. In altre parole, l’identità nella riflessione scientifica non funziona solo come fatto, ma come problema. Che sia veramente una sfida scientifica dettata dai bisogni del tempo e non solo una nuova moda intellettuale lo testimonia anche il fatto che è riuscita ad attrarre l’attenzione di molti importanti autori e autorità


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come Giovanni Paolo II [Memoria e identità, 2005] e Vaclav Havel [1994]. Who we are? è il titolo del libro di Samuel Huntington [2004]. Ebbene, alla luce di una semplice analisi ermeneutica del concetto, pare ovvio che il motivo fondamentale della questione dell’identità stia nella dialettica delle relazioni fra individuo e società. Nella prospettiva sociologica questo significa che l’identità è diventata un problema sociale percepito e vissuto a livello individuale e in tale prospettiva, quindi, va affrontato. Proseguendo tale ragionamento dobbiamo anche osservare che il problema è apparso nel contesto delle trasformazioni delle società complesse, nelle quali un ruolo fondamentale è svolto dal processo di individualizzazione e cioè un mutamento radicale dello status dell’individuo come persona sociale e delle sue relazioni con i gruppi e le collettività. Infatti, nelle società cosiddette tradizionali, l’identità non era sentita come problema; la definizione sociale dell’identità di ciascuno era tanto ovvia che nessuno si poneva la domanda su chi è lui e chi è l’altro. Il problema nasce con la società moderna, più precisamente: contemporanea, in cui l’individuo diventa un riferimento centrale di tante libertà, quindi, anche della libertà di autodefinirsi; come effetto del crescente ruolo di soggettività dell’individuo, la definizione sociale del soggetto perde la propria ovvietà. Dal punto di vista sociologico la questione si pone, quindi, a livello strutturale; prima i riferimenti dell’individuo alle sue appartenenze di gruppo appagavano i suoi bisogni sociali, oggi la biografia dell’individuo dipende sempre di meno dalle sorti delle collettività spostandosi ad esso stesso. Il soggetto diventa sempre più incisivo nell’ontologia sociale. Peter Berger [1987: 49-53] afferma che tale passaggio è endemico della trasformazione della società di fato alla società di scelta; la prima va letta come tradizionale, la seconda come moderna. La vita diventa «una biografia di scelta» e non «una biografia scritta prima da qualcuno» [Beck, BeckGernsheim, 1996: 25]. La libertà di scelta, il moltiplicarsi delle scelte vitali e l’aumento dell’individualismo, che segna profondamente la società attuale, fa sì che, come osserva Ernst Bloch, «sistemarsi nell’universo» (sich in der Welt einrichten) è diventata una vicenda più impegnativa di quanto non lo fosse nella società tradizionale. Anche, o forse soprattutto, nella definizione della propria identità.


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Daniel Bell [1998: 126] osserva in proposito: «A una domanda classica: ‘Chi sei?, la risposta tradizionale era: ‘Sono figlio di mio padre’ (E questo è evidente nei patronimici russi o nel sistema arabo di mettere i nomi ad es. Ali ben Ahmed, e anche nei nomi antichi inglesi come Johnson, Thomson ecc.). Oggi si risponde: ‘Io sono me stesso, con ciò che faccio e scelgo testimonio chi sono io’. Questo mutamento di auto-identificazione è un sintomo della modernità». Sinonimo della società moderna e complessa è la società aperta, il cui attributo strutturale si traduce in una nuova, più larga apertura verso gli altri. Anche questo fattore ha contribuito in modo non indifferente alla nascita della questione dell’identità, in quanto anche la definizione dell’altro ha perso la propria ovvietà. Nella strategia delle relazioni con gli altri il sapere chi sono loro ha una valenza fondamentale e condiziona ugualmente la risposta alla domanda chi siamo noi. Infatti, molti concetti teorici di Erwin Goffman sono legati a questo tipo di incertezze identitarie degli individui in tale contesto. Il problema si è amplificato con tutti i processi in atto che sono indicati come interculturalismo, globalizzazione, migrazione di massa, ma che non sono altro che delle configurazioni della mobilità sociale, sia interna che esterna. In paesi come Stati Uniti o Francia, circa la metà della popolazione cambia il luogo di abitazione; il che in categorie sociali significa cambiare i legami sociali, cambiare i propri riferimenti d’identità. Le grandi agglomerazioni urbane facilitano questo, ma anche la creazione delle folle solitarie, come diceva David Riesman [1950]. In tale ambiente, osserva Bauman [1993: 8] «è facile nascondersi, ma è difficile anche trovare il proprio posto — riconosciuto da tutti, non messo in dubbio, assicurato nel futuro. L’uomo appare agli altri soltanto con un frammento della propria persona, conosce i frammenti degli altri soltanto dalla percezione esterna […]. Quando gli incontri sono effimeri, è facile […] far sembrare di essere diverso da come si è in effetti; come allora distinguere la verità dalla finzione? E in fondo cosa significa ‘essere qualcuno per davvero’?». Con la diversificazione degli universi vitali, i confini identitari, che una volta coincidevano con quelli di ceto, gruppo, professione, vicinato, nazionalità, si sono, potremmo dire, offuscati; essi hanno perso sia la loro gerarchia sociale sia il loro carattere socialmente imperativo;


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sono gli individui che devono ridisegnare i loro confini dove finisce l’identità di sé e l’identità dell’altro, devono quindi ridisegnarli continuamente. Nel contesto di una mobilità sociale - soprattutto quella in cui avviene un cambiamento radicale del proprio universo vitale come nel caso dell’emigrazione di qualsiasi tipo, la domanda chi sono gli altri, si pone con una forte insistenza e frequenza e fa nascere, di conseguenza, la domanda chi sono io, che diventa una domanda quasi esistenziale. È una condizione conosciuta bene da chi appartiene alla comunità che da secoli vive nella diaspora, in condizione di homeless, «senzatetto» (o «escasato»). Daniel Bell [1961: 477], rivelando la propria esperienza, scrive: «L’ebreo è senzatetto. Il presente è la sua unica realtà. Non avendo il futuro, non ha né continuità né futuro. (…) Non ho trovato un posto definitivo per me perché non ho delle risposte definitive». Non è difficile indicare il motivo perché anche Martin Buber ha fatto una simile riflessione. Erik Erikson è stato il primo non-filosofo ad occuparsi teoricamente della questione dell’identità indicando il bisogno, anzi la necessità di inserirla nell’ambito delle ricerche interdisciplinari sulle trasformazioni della società moderna quindi delle ricerche macrostrutturali. Tale questione, però, era già da tempo presente nel discursus sociologicus. Ha ragione Loredana Sciolla [2002: 26] quando scrive che è stato William Thomas [1997], nel suo lavoro Old World Traits Transplanted, a mettere in luce per la prima volta «lo stretto rapporto esistente tra identità e cultura, tra concezione di sé e forme del riconoscimento sociale». Basti tornare ai lavori di Charles Cooley, Georges Mead e ai coltivatori dell’interazionismo simbolico per rendersi conto di quanto interesse abbiano prestato all’analisi dell’identità individuale nel contesto delle sue reti di azioni e relazioni sociali [cfr. Strauss, 1969]. Sociologicamente parlando, l’interazionismo simbolico si era formato, però, nel periodo sbagliato; sbagliato per tre motivi. Come prima cosa, va ricordato il fatto che quando l’interazionismo simbolico cominciava a formarsi come orientamento indipendente teorico negli anni Trenta, soprattutto grazie alla scuola di Chicago, che in modo implicito portava avanti gli studi sul metodo


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qualitativo, proprio in quel periodo, ha preso il vento la tendenza verso la quantificazione dei metodi della ricerca sociologica, la cosiddetta sociologia scientifica, assecondata da una forte corrente critica contro l’approccio qualitativo. In tale contesto il noto Appraisal di Blumer [1939], in cui troviamo una critica metodologica del Contadino polacco [1968], era in un certo senso un autogol metodologico: allora quasi tutti hanno percepito soltanto la prima parte della sua lezione e cioè la critica del metodo, ignorando la seconda parte e cioè l’intento della critica stessa che doveva servire al miglioramento del metodo qualitativo applicato. Il secondo motivo era semplice; era una conseguenza implicita del modo di intendere la sociologia, almeno fino agli anni Sessanta. Lo stile di pensiero sociologico non comprendeva la realtà microstrutturale ovvero l’individuo e le sue relazioni con gli altri nello spazio delimitato dai piccoli gruppi, quindi tutto ciò che era oggetto dell’interesse di studio dell’interazionismo simbolico. Tale problematica la sociologia nella sua corrente dominante la lasciava alla psicologia sociale, puntando l’attenzione su problemi macrostrutturali come stratificazione e mobilità sociale, movimenti sociali, conflitti e così via. Infine, il terzo motivo era legato in un certo senso al precedente in quanto determinato da un’ingombrante eredità sociologica classica in cui non c’era posto per un individuo come autore sociale che influisce su certe strutture sociali. Basti ricordare Marx, Spencer e Durkheim; l’individuo era concettualizzato come un effetto dell’interiorizzazione dei valori sociali, un riflesso della sua posizione nella struttura sociale. «Chi dopo Freud avrà il coraggio di attribuire una qualsiasi importanza alla coscienza individuale?» si chiedeva Alain Touraine [1974: 179]. In poche parole, la prospettiva di considerare la società dal punto di vista dei suoi partecipanti, in riferimento alla loro identità, offerta dall’interazionismo simbolico, era definito antisociologico. È stato un grande merito di Erikson rivelare l’importanza di tale problematica, ma questo non sarebbe stato notato se fosse mancata la coincidenza contestuale di cui si è accennato poco prima e cioè la trasformazione in corso delle strutture sociali in cui si osservava sempre di più la rilevanza della soggettività nell’insieme dei fattori


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agenti. La società della seconda metà del Novecento, ma soprattutto quella più tardi indicata come post-moderna, e adesso come globalizzata, non poteva essere descritta e spiegata con gli attrezzi sociologici in uso, perché, se da una parte l’individuo e le sue azioni non potevano essere compresi tramite le sue posizioni esclusivamente strutturali (professione, istruzione, status ecc.), dall’altra la stessa struttura sociale non poteva essere ugualmente compresa senza i riferimenti all’agire individuale. Tutto ciò conduceva alla graduale ma sempre maggiore considerazione dell’attore sociale con tutti i suoi attributi fra i quali l’identità, appunto. La società attuale diventa sempre meno trasparente [Fitoussi, Rosanvallon, 2000]; la diversificazione e la stratificazione della realtà sociale non vengono tanto determinate dalle forme di vita collettive quanto dalle variabili topologiche e biografiche in stretto legame con l’autodefinizione del soggetto. «Le convinzioni e le norme della vita collettiva rimpiccioliscono assieme alle istituzioni» [Fitoussi, Rosanvallon, 2000: 30]. La rilevanza sociale dell’individuo trova uno spazio sempre più largo nelle riflessioni sulla soggettività nell’ambito della teoria sociologica; il che porta direttamente all’attenzione euristica sul concetto d’identità. L’orientamento indicato come sociologia per la persona potrebbe essere inteso quale uno dei suoi riflessi teorici; è un orientamento che possiamo indicare come controtendenza al modello dell’individuo ipersocializzato. In tale senso va intesa la critica del concetto di ruolo sociale da parte di Touraine [1979: 179], che secondo lui esprime una forma di sociologismo in quanto definisce l’uomo tramite i ruoli sociali che non gli lasciano lo spazio sociale per esprimere la sua soggettività. Ovviamente, tale critica sbaglia il bersaglio nel caso delle teorizzazioni del ruolo sociale offerte da Znaniecki e Goffman, nelle quali è prevista un’interpretazione innovativa, quindi anche creativa, dei ruoli sociali da parte dell’individuo. Ad ogni modo, l’orientamento soggettivistico nella teoria sociologica si fa sempre più largo spazio per i motivi menzionati prima ed altri. Questo significa che il soggetto può influenzare la configurazione delle strutture sociali. «Nel linguaggio sociologico [Sztompka, 1989: 17] compaiono nuovi termini: morfogenesi, trasformazione, strutturazione, il divenire sociale, la costruzione sociale della realtà, la costru-


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zione della storia». Concetti questi che non sono altro che espressioni euristiche degli approcci teorici in cui vengono respinti i seguenti assunti: • una visione statica della realtà sociale; • l’approccio reificante del sistema sociale e cioè il concetto del sistema sociale come ente sopraindividuale e omeostatico; • l’idea della predestinazione sociale che esclude l’influenza degli individui sui fini e sulla dinamica del sistema sociale [cfr. Sztompka, 1989: 19]. È ovvio che in tale prospettiva cambia pure l’approccio sociologico all’identità, quindi la concettualizzazione delle sue manifestazioni che sono determinate dalla traiettoria sociale che si effettua in modo dialettico fra il soggetto e le diverse entità sociali. Si tratta quindi di due entità identitarie: sociale e collettiva. La prima fa parte della persona sociale, dell’individuo; l’altra distingue la specificità delle collettività nelle loro diverse manifestazioni sociali. La prima si forma durante il processo di socializzazione e si traduce nella coscienza individuale di appartenere ai gruppi sociali in cui un dato individuo esiste; la seconda si crea tramite la sentita comunanza valoriale da parte degli individui che si esprime in forme sociali come collettività e gruppi, dando loro una specificità distintiva. La prima si manifesta come sé, come coscienza di sé; la seconda invece si manifesta come noi, sempre nella coscienza soggettiva, dato che nessuna collettività ha un organo di autocoscienza analogo all’autocoscienza soggettiva; la radice ontologica è quindi la stessa. La prima e la seconda svolgono le funzioni integrative di fondo: la prima a livello di personalità soggettiva (europeo, italiano, uomo, medico, padre, cattolico), la seconda a livello di struttura sociale (Europa, Italia, genere, professione, famiglia, religione). Ambedue, quindi, svolgono una funzione locativa nel senso sociale (noi e gli altri) con tutta la simbolica e le relative dimensioni spaziali e temporali. In fondo, entrambe le identità, sociale e collettiva, non sono altro che l’aspetto identitario dei processi di soggettivazione ed oggettivazione nella costruzione sociale della realtà indicati da Berger e Luckmann [1969: 234-247]. Essi però sconsigliano di parlare di identità collettiva, considerandola una forma di ipostasi, di reificazione quando è staccata dal soggetto. Non sarebbe difficile dimostrare che


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tale precauzione epistemologica ha delle profonde radici antihegeliane portate in extremis. Infatti non tutti la condividono. Richard Jenkins [1996] afferma che nella sociologia l’identità collettiva è spesso separata da quella sociale (individuale). Tale operazione si basa su un presupposto, implicito o esplicito, secondo cui una di esse è più reale dell’altra. La dicotomica divergenza nell’approccio sociologico all’identità ha i sintomi di una controversia fra il nominalismo e il realismo che fa venire in mente tutte le discussioni sull’esistenza degli enti sociali, quindi anche la questione della coscienza sociale, provocate dal sociologismo soprattutto da quello durkheimiano. Ebbene, non è necessario condividere gli assunti del postmodernismo, cominciando dal carattere antilogico del termine stesso, per constatare che la riflessione sull’identità svolta nell’ambito della sua corrente sociologica continua e sviluppa, in un certo senso, le proposte su questo campo elaborate dall’interazionismo simbolico. Con i concetti di identità che la definiscono come una componente sociale dinamica, liquida (Bauman), riflessiva (Giddens), narrata nella continua elaborazione (Melucci), tale sociologia ha rafforzato la prospettiva costruzionista che si oppone a quella sostanzialista. Questi due approcci costituiscono un’altra controversia in seno alla sociologia attuale che in certi contesti ha delle conseguenze anche ideologiche. «Nessuno nasce donna»; con quest’aforisma di Simone de Beauvoir si potrebbe sintetizzare il punto di vista assunto dal costruzionismo sociologico in materia di identità. In termini più esatti possiamo notare che il paradigma costruzionista non accetta l’esistenza di una struttura stabile identitaria; essa viene elaborata in continuazione nelle relazioni sociali nelle quali agiscono diversi fattori di carattere valoriale, politico o economico ecc. In tale modo sia l’identità sociale sia quella collettiva sono frutto di una continua costruzione della realtà sociale. Sicché entità sociali come nazione, etnia, classe ecc. non esistono come enti autonomi, separati dall’agire e dalla coscienza individuale, soggettiva, ma esistono come costruzione condizionata contestualmente. Il sostanzialismo, chiamato anche essenzialismo sociologico, com’è facile dedurre, ammette l’esistenza di una struttura relativamente stabile e duratura sia dell’identità sociale sia di quella collettiva.


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Abraham Maslow [1968: 4], uno dei suoi rappresentanti, afferma che l’identità è «debole, delicata e sottile, facilmente dominata dall’abitudine, da una pressione culturale o da atteggiamenti ostili. Anche se è debole, essa scompare raramente. […] Anche se viene contestata la sua esistenza, persiste sempre sotto una superficie, tende con insistenza a realizzarsi». Benedict, Linton e Kardiner, per indicare soltanto dei nomi noti nell’ambito dell’orientamento sviluppatosi attorno alla questione cultura-personalità, sostengono che esistono certe regole specifiche di ogni cultura che producono certi tipi di personalità. Così è vista anche l’identità collettiva che ha una lunga tradizione filosofica; il concetto di nazione come entità naturale animata dal proprio Volksgeist (spirito nazionale), proposto da Herder, può essere considerato come protoparadigma di questo approccio. L’identità, a seconda delle circostanze, è più forte o più debole. Molti sono i fattori che la rafforzano e mantengono. Leszek Kołakowski nel saggio O toz˙samos´ci zbiorowej (Sull’identità collettiva) [1995] nomina cinque di tali fattori. Il primo è l’idea dello spirito nazionale; il secondo, l’esperienza della continuità, ossia la memoria storica; il terzo, l’anticipazione, ossia la direzione del futuro; il quarto, l’identità terrena, ossia la localizzazione nel territorio; il quinto, l’ultimo, la coscienza di un definito inizio. Sono quindi elementi che in notevole grado condizionano la durata dell’identità. Secondo Anthony Smith [1991: 11-12] l’identità nazionale si basa sulla core ethnic community of nation, la quale si perpetua nella memoria sociale, nella coscienza dei suoi membri e nella loro appartenenza, solidarietà e condivisione dei valori. La sostanza dell’identità sociale e individuale è il corpo e la mente, di quella collettiva sono invece la lingua, i costumi, il territorio ecc. Ebbene, tutte le controversie ontologiche per quanto importanti teoricamente e, si teme, irrisolvibili, hanno una certa valenza pragmatica, attuale e, ritengo, di una certa urgenza se prendiamo in considerazione il fenomeno migratorio nella nostra realtà, fenomeno in cui, appunto, la questione di identità sembra centrale in quanto inevitabile, anzi determinante nel processo di integrazione degli immigrati alla società di arrivo. Già le considerazioni evidenziate in proposito ci


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bastano per ritenere che le identità migratorie, sia di carattere sociale (individuale) sia collettivo, in quanto risultato delle particolari configurazioni socio-culturali ed altre, si presentano piuttosto come forme amorfe del processo migratorio che per definizione è poco governabile. In tal senso tutti i riferimenti concettuali a proposito delle identità hanno un valore molto relativo. Così, ad esempio, il discorso sull’identità tardomoderna si presenta più che altro come una metafora euristica e non come un modello di riferimento. La fluidità, l’instabilità e perfino l’antilogicità dell’identità postmoderna possono essere un riferimento strutturale alla dinamica delle trasformazioni dell’identità nel processo migratorio, ma non un riferimento motivazionale. La costruzione, o forse meglio la ricostruzione, della propria identità da parte dell’immigrato non è il frutto di una libera scelta ma di una necessità con tutte le conseguenze esistenziali. L’immigrato non può prendersi il lusso di non scegliere, di non modificare la propria identità perché rischia di cadere nella trappola della liminalità [cfr. Kaczyn´ski, 2010: 138-162]. Anzi, qualsiasi decisione in proposito ha delle conseguenze incisive sulla sua posizione sociale nella società di accoglienza e in quella di origine, con il rischio peraltro per l’immigrato di cadere in un’altra trappola: trovarsi nella confusione dell’identità [Erikson, 1974: 167-246]. Tuttavia, i suoi riferimenti d’identificazione non sono ridotti a un mero bipolarismo determinato dalla società d’origine e da quella di arrivo. Nel contesto migratorio il processo d’identificazione risulta molto vasto; in esso il ruolo più incisivo lo svolgono tre fattori: sociale, culturale e religioso. Infatti, questi tre fattori li troviamo in tre tipi di identità collettiva che risultano dominanti nelle dinamiche identitarie condizionate dal processo migratorio. Essi sono: nazione, etnia e religione con tutte le loro espressioni reali e simboliche a livello sociale e culturale. Volendo, però, seguire con il dovuto rigore l’obiettivo del nostro saggio non possiamo riprendere i tanti aspetti discutibili di questi concetti per discuterne, ma accettiamo le loro definizioni più concilianti e operazionali di cui si serve la maggior parte degli autori [cfr. Znaniecki, 1952; Chałasin´ski, 1968; Kłoskowska, 2007; passim; Smith, 1986; passim; Fenton, 2003]. Ebbene, la nazione è qui intesa come grande collettività umana


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unita da una comunanza di cultura; è una comunità di valori autotelici e di simboli che li esprimono. La nazione, al contrario dello stato, è una collettività sociale con carattere di comunità culturale ma che si esprime o tende ad esprimersi con la forma politica del proprio stato. Invece, per quanto riguarda il gruppo etnico, si crede che il suo concetto sia stato proposto da Max Weber [1980: I, 393 (L. I, §2)], ma per la verità (cronologica) il primo autore ad introdurre questo concetto nella teoria sociologica è stato Ludwik Gumplowicz [1887]. Ad ogni modo, riferendosi in parte a questi autori ma non soltanto, il gruppo etnico si può definire come collettivo, fondato sulla convinzione condivisa dai suoi membri di avere le stesse origini di sangue e di parentela e di appartenere a una cultura relativamente distinta. Va notato, però, che sempre di più l’etnicità, specialmente dopo vari contributi, in particolar modo quello di Frederik Barth [1969], è intesa nei termini di collettività culturale, linguistica e territoriale che nel contesto anglosassone assume i connotati di una collettività, gruppo o comunità che fa parte di un contesto sociale più ampio [cfr. Glazer, Moynihan, 1975]. In tal senso, il gruppo etnico è il segmento di una società i cui membri si considerano e sono ritenuti appartenenti a una cultura comune. In questa diversità identitaria collettiva s’inserisce il fattore religioso come uno dei più forti in questo ambito, in quanto legato strettamente ai valori di fondo, ai valori sacrali. Il fatto è che, quasi per definizione, tali gruppi sono più deboli, sicché sono denominati come gruppi di minoranza o semplicemente minoranze nazionali, etniche, religiose e anche razziali quando un tratto somatico si rivela distintivo in sintonia con quelli sociali e culturali. Così si costruisce un paesaggio multinazionale, multietnico e multirazziale di una società la quale non va intesa come sinonimo di società multiculturale [cfr. Cesareo, 2000: 13]. Attualmente, in Europa vivono circa 300 minoranze etniche; il che vuol dire che un europeo su sette appartiene ad una minoranza etnica. Inoltre, delle quasi 90 lingue parlate in Europa soltanto 37 sono riconosciute come lingue ufficiali. Nel contesto europeo tale situazione è da ritenere soprattutto come un suo bagaglio storico. Guardando invece le società multiculturali e multietniche in una prospettiva più vasta e contemporanea esse sembrano distinguere


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quel tipo di società che Michael Walzer [2000: 21-51] indica come società immigrata (USA, Canada, Australia ecc.). Difatti, tale caratteristica sempre di più s’inserisce nei tratti comuni degli stati europei per effetto dell’immigrazione di massa confermate dalle statistiche, in un certo senso, impressionanti. La nascita e la crescita delle minoranze etniche e culturali di origine migratoria si basa sul semplice meccanismo di integrazione sociale, che, però, a livello di esperienza soggettiva risulta complicatissimo; in esso un ruolo centrale lo svolge il processo di identificazione orientato verso i valori familiari, del proprio gruppo, della propria cultura e della propria religione. È un meccanismo identitario, si può dire, in cui si manifesta una strategia dialettica, effettuata da una parte degli immigrati, più o meno consapevolmente, di optare per una nuova identificazione socio-culturale e, contemporaneamente, di non rinunciare all’identificazione originale. È un processo in cui nasce un’identità bipolare, composita o duale, identità con trattino (hyphenated), come nota Walzer [2000: 46], e diffusa soprattutto negli Stati Uniti (ad es. Italian- American, African-American) in quanto società di immigrati. È un processo di cui un’analisi approfondita e originale ci è stata offerta da Jerzy Smolicz [1979; 2000] e Antonina Kłoskowska [2007]. Smolicz [2000: 55], basandosi su ricerche empiriche in Australia, ha individuato i sistemi culturali costruiti da membri delle minoranze etniche e in seguito ha formulato i quattro tipi ideali (nel senso weberiano) dell’australiano di origine etnica: (1) high ethnic (etnico deciso), (2) bicultural (biculturale), (3) new hybrid (nuovo ibrido) e (4) anglosassone (assimilato). Essi si traducono in termini di processo di identificazione in quattro tipi di identità. Kłoskowska [2007: 150], anche lei poggiandosi su un vasto materiale empirico, ha preso in considerazione la questione dell’identità nazionale che in diversi contesti sociali si esprime in termini etnici. Come concetto analitico di fondo, l’autrice propone l’unità definita come valenza che esprime l’appropriazione della cultura quindi interferisce sul processo di identificazione nazionale. La ‘valenza’ è intesa «non soltanto come assimilazione di una parte essenziale della cultura nazionale, tra cui la parte canonica, ma, innanzitutto, come riconoscimento di quella cultura come propria, vicina, rispondente alle


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necessità della hybris, ossia alle necessità di rafforzare il senso del proprio valore, la propria dignità, il senso di partecipazione alla comunità». In tale prospettiva «la valenza culturale designa il sentimento del legame con la cultura etnica o nazionale riconosciuta come la propria, che costituisce l’eredità culturale del proprio gruppo» [2007: 180-181]. Di conseguenza, Kłoskowska propone i quattro tipi possibili di identificazione nazionale: (1) monolitica, o integrale, (2) doppia, (3) incerta e (4) cosmopolitica. Questi, a livello di appropriazione di una cultura nazionale, definita come valenza culturale, si traducono in quattro categorie: (1) univalenza, (2) bivalenza, (3) ambivalenza e (4) polivalenza. Anche questi vanno intesi come tipi di identità nazionale (etnica) a livello soggettivo. Per quanto riguarda la formazione e la dinamica delle minoranze etniche, nell’ambito del processo migratorio, va anche precisato che esse si costituiscono, nella maggior parte, sulla base dell’identità definita da Smolicz come biculturale e da Kłoskowska come bivalente. Nella maggior parte delle minoranze etniche vi si possono collocare anche altri tipi di formazione e di dinamica — tranne quelli del tutto assimilati — ma soprattutto, vi predominano l’etnico deciso e l’univalente. Questi due ultimi tipi, non di rado, cadono nella condizione identitaria che definirei come sindrome di Galatea, riferendomi a un racconto mitologico su Pigmalione e Galatea (OVIDIO, Metamorfosi, X, 243). Pigmalione, figlio di Belos, re di Cipro, si innamorò di Afrodite che non ricambiava il suo amore. Egli, quindi, scolpì nell’avorio la sua immagine che chiamò Galatea e mettendosi con lei a letto supplicò Afrodite della sua clemenza. Afrodite, accogliendo le sue suppliche, animò la scultura e Galatea divenne la moglie di Pigmalione con la quale ebbe due figli, Pato e Metarma. Così Pigmalione riuscì a mantenere il trono di Cipro. Racconto questo che sembra una quanto mai adeguata metafora per esprimere certe esperienze vissute dagli immigrati indicati come univalenti, fortemente nostalgici. Infatti, l’immagine della patria degli immigrati, in particolar modo degli esuli, spesso viene da loro stessi idealizzata in modo piuttosto inconsapevole e che alla fine domina nella loro identificazione culturale, determinando o, forse


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meglio, ostacolando la loro integrazione nella società ospitante. La definizione della patria, idealizzata, immaginata e, in fondo, irreale diventa un elemento di riferimento valoriale della realtà dell’immigrato e quindi un elemento reale della sua personalità. Diventa una patria-Galatea, scolpita dalla nostalgia degli immigrati-Pigmalioni. In tal modo la sindrome di Galatea va intesa come un particolare aspetto dell’effetto Pigmalione con cui viene indicata la metamorfosi di un essere inanimato in un essere vivente grazie alla forza dell’amore e del desiderio. In termini più tecnici, tale fenomeno si traduce nell’autorealizzazione delle aspettative e previsioni; Bernard Shaw vi dedicò una commedia teatrale (Pygmalion, 1912) mentre Robert Rosenthal e Lenore Jacobson hanno pubblicato un volume Pigmalione in classe [1999], ormai noto, in cui, basandosi su dati empirici, hanno mostrato una forte correlazione fra le aspettative degli insegnanti e lo sviluppo intellettuale degli allievi. Con la sindrome di Galatea si vuole cogliere una correlazione inversa e cioè come influiscono le aspettative idealizzate sul soggetto che le costruisce. Non è difficile rintracciare persone che manifestano i sintomi della sindrome di Galatea nell’ambiente migratorio soprattutto fra le minoranze etniche che si distinguono per una forte tendenza separatista. La ghettizzazione è un fenomeno che esemplifica meglio tale configurazione identitaria. Nel paesaggio urbano di Germania, Olanda o Francia si notano quartieri interi e palazzi che sono una riproduzione socio-culturale di villaggi turchi, marocchini o algerini. Zdzisław Mach [1998: 26-27] parla di un simile fenomeno chiamandolo «il mito del Paradiso Perduto» che si manifesta nel caso degli emigrati forzati. Costoro, non preparati, in tutti i sensi, a lasciare il proprio paese ed a costruirsi una nuova vita in un altro, assumono un atteggiamento negativo verso la nuova realtà confrontandola con la realtà del mondo lasciato che hanno dovuto abbandonare e che viene idealizzato. Tuttavia, la coltivazione della propria identità etnica o religiosa può anche rivelarsi in tempi più lunghi come via di integrazione, anche se spesso non è priva di conflitti sociali come evidenziano diversi movimenti di risveglio etnico (ethnic revival). Un esempio interessante di tale processo è la nascita dell’identità islamica in Europa [Kaczyn´ski, 2008: 231-258; 2009]. È un fenomeno del tutto nuovo ma


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che fa parte di nuovi fattori etnici che sono sempre più visibili nella realtà europea. Pertanto, penso che esso sia di importanza non trascurabile nel discorso sulle dinamiche identitarie nel contesto migratorio, anche in Italia. Ma è una questione che va affrontata in un altro luogo e tempo.

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L’IDENTITÀ CRISTIANA E I SUOI LUOGHI

GIUSEPPE RUGGIERI*

1. L’IDENTITÀ Definire l’identità cristiana non è facile, perché il problema è appesantito da varianti e complicazioni varie che vanno accuratamente analizzate, pena una definizione ideale soltanto, senza referente storico. Canonicamente il cristiano è il battezzato. Ma tutti sappiamo che questa determinazione canonica non è sufficiente, giacché al di là dell’appartenenza canonica, occorre poi che il battezzato viva il suo battesimo e sia coerente con esso. L’identità cristiana non è quindi riducibile a quella canonica, a meno che non vogliamo ridurla ad un fatto giuridico amministrativo come la registrazione all’anagrafe civile. Non vale a tal proposito l’obiezione — fondata sulla concezione cattolica dei sacramenti — che nel battesimo è Dio stesso che opera già ciò che è significato (l’impressione del carattere e l’inserzione in Cristo) e che quindi il battesimo è sufficiente per definire l’identità del cristiano. Infatti il battesimo ha un rapporto costitutivo con la confessione di fede. Questa, perché il battesimo sortisca i suoi effetti dovrà essere comunque ratificata, quando il battezzato diventa consapevole. E il problema così viene semplicemente spostato. Al di là dell’aspetto canonico, oggi, soprattutto nel mercato mediatico, viene ribadito l’aspetto culturale. Solo fino a qualche decennio fa questo sembrava essere un discorso chiuso con alcune facili letture della secolarizzazione, per cui si preferiva parlare di un’e* Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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poca post-cristiana, dove i cristiani non fanno valere “pubblicamente” (ma attenzione al significato dell’avverbio “pubblicamente”) la loro identità. La nuova comprensione della laicità dello Stato, che possiamo anche fissare con esattezza con la sua recezione nella sentenza della Consulta del 1989, permette oggi di far valere anche nello spazio pubblico la propria identità religiosa. Da questo punto di vista, cristiano sarebbe colui il quale persegue quei valori che storicamente hanno segnato la cosiddetta societas cristiana. Il cristianesimo riacquisterebbe, quindi, in un contesto pluralistico e in concorso con le altre religioni o con le altre identità culturali, la funzione della religione civile, quella funzione che cioè aveva giocato grosso modo dal IV secolo fino alla rivoluzione francese. Non solo, quindi, il cristianesimo scandisce i momenti chiave della vita delle persone (dalla nascita con il battesimo, alle nozze, ai funerali), ma concorre a stabilire i simboli e i valori del riconoscimento collettivo che danno legittimità alle scelte politiche ultime: si pensi alla giustificazione o meno di una guerra, ma anche alle leggi sulla bioetica, sul matrimonio, sull’insegnamento scolastico. Non entro nel merito di questa caratterizzazione culturale dell’identità cristiana, delle sue radici storiche, della varietà delle forme che essa assume anche nel presente: dall’America del Nord a quella del Sud, dalla Germania all’Italia, dalla Polonia alla Russia e via dicendo. Noto soltanto che essa non pregiudica la coerenza o meno delle singole esistenze e non pregiudica ancora per se stessa il senso effettivo dell’identità cristiana. In Italia, per limitarci al cortile di casa nostra, abbiamo assistito allo spettacolo di uomini notoriamente adulteri farsi promotori della difesa della famiglia. E soprattutto non entro nella problematica complessa della religione civile e della sua funzione nelle società che possiamo chiamare non soltanto postcristiane, ma anche postsecolarizzate. Ma il dibattito sulla secolarizzazione, da Carl Schmitt a Hans Blumenberg, da Marcel Gauchet a Jean-Paul Willaime non può considerarsi chiuso e richiederebbe un convegno a sé. Se vogliamo allora cercare di comprendere cosa possa essere l’identità cristiana, la differenza specifica di una persona che si ritenga cristiana rispetto ad altre identità come quella sessuale, quella umana


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in quanto tale, quella delle razze e delle culture, quella religiosa (si danno cioè ebrei, cristiani, musulmani e via dicendo), siamo semplicemente rimandati al rapporto tra una persona o anche un gruppo umano e Gesù di Nazaret, confessato come salvatore e quindi come fondamento e punto di riferimento determinante della propria esistenza. Nel rapporto con Gesù Cristo le altre identità scolorano: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3, 28).». L’affermazione di Paolo tuttavia è un po’ troppo forte, giacché egli stesso fa valere poi, di fronte ai problemi posti nella concretezza della vita e della missione ecclesiale, alcune di queste differenze come quella tra giudei e greci, o tra uomo e donna, per cui possiamo intendere l’affermazione soltanto nel senso che l’identità cristiana relativizza le altre. Questa nuova identità data dal rapporto con Gesù Cristo non è né un’identità naturale, né statica. Non è naturale, come può essere l’identità sessuale, quella razziale o altro ancora. Essa sorge infatti con la decisione della fede del singolo. Ma non è nemmeno statica, giacché si può perdere e, per altro verso deve crescere. Nessuno come Paolo manifesta, con le stesse oscillazioni del suo linguaggio, questo carattere dinamico dell’identità cristiana: per un verso con la dialettica tra indicativo e imperativo, tra presente e futuro; per altro verso con la sua affermazione esplicita di non essere ancora arrivato alla meta, ma di correre verso di essa (Fil 3, 13-14). Basta leggere il cap. 6 (quello relativo al battesimo) e il cap. 8 (sull’attesa della rivelazione dei figli di Dio e sul dinamismo dello Spirito nei cristiani) della lettera ai Romani per afferrare questo dinamismo sotteso all’identità cristiana. Inoltre questa identità non è semplicemente sostitutiva dell’identità culturale e religiosa, ma come ho già accennato convive con esse. Essa possiede certamente tratti culturali e si declina anche in uno stile religioso di vita (credenze, osservanza di tempi, riti, pratiche), ma non può essere ridotta ad una specifica cultura o religione. La chiesa primitiva ha tracciato, sia pure attraverso contrasti e conflitti, per i giudeo-cristiani che rimanevano in tutto e per tutto ebrei, un cammino diverso da quello tracciato per gli etno-cristiani. Se ciò che unificava i due gruppi era la fede nello stesso Gesù Cristo, morto e risorto, diversa era poi la configurazione concreta, dal punto di vista religioso


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e del costume e dallo stesso punto di vista dottrinale. Basta leggere il Dialogo con Trifone di Giustino, scritto verso il 160, per rendercene conto. Sappiamo inoltre dalle lettere di Paolo che ad Antiochia, negli anni 50 del primo secolo, i due gruppi (o almeno quello giudeocristiano) non ritenevano possibile celebrare l’eucaristia in comune con gli altri. Infine, ancora nel II secolo i giudeo-cristiani di cui ci parlano le Pseudoclementine, ribadiscono che l’unica cosa che li unisce agli altri cristiani è il riconoscimento di Gesù come Messia. Forse il motivo per cui furono banditi dalla grande chiesa fu, non tanto l’ortodossia o meno della loro fede, ma il carattere intollerante con cui la vivevano, fino ad escludere l’uso di alcuni libri del Nuovo Testamento, soprattutto le lettere di Paolo, e a voler imporre agli altri questa esclusione. Nel III secolo la stessa celebrazione del battesimo è differente nelle diverse chiese: quelle di lingua siriaca, quella orientale e quella occidentale, e all’interno di questa tra le chiese della Gallia da una parte e quelle romane e africane dall’altra1. La specificità culturale dà cioè ogni volta una sagomatura diversa all’identità cristiana. Tertulliano affermava che cristiani si diventa e non si nasce. Ma il soggetto che diventa cristiano in questo divenire conserva il suo codice genetico culturale, lo modifica e lo trasforma, ma non lo perde. Chi parla di cristianesimo al singolare soltanto, non si rende conto che questo non è mai esistito e che si dà una pluralità di cristianesimi dove il rapporto fondamentale con Gesù Cristo assume forme culturali diverse. Una delle testimonianze più affascinanti in questo senso è la stele di Xi’an, testimonianza della presenza cristiana in Cina. La stele fu eretta nel 781 e descrive la “religione della luce” che venne fatta conoscere il 635 dai monaci nestoriani provenienti dal paese di Da Qin (Siria o Persia?). Sulla falsa riga del simbolo niceno-costantinopolitano, il cristianesimo viene ivi presentato con un grande prestito di immagini buddiste e manichee (i manichei erano arrivati in Cina prima dei nestoriani). Ma secoli più tardi Matteo Ricci, presentando il cristianesimo ai cinesi, ritiene che il buddismo sia una corruzione 1 P. BRADSHAW, The Search for the Origins of Christian Worship. Sources and Methods for the Study of Earl Liturgy, London 1992.


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della saggezza cinese delle origini e vuole piuttosto presentare un cristianesimo come compimento della saggezza antica, senza altre mediazioni culturali che non siano la saggezza di Confucio e del Tao. Esiste a questo punto un grosso problema, quello della traduzione e dell’universalizzazione della propria identità particolare. Levinas distingue tra l’alfabeto greco e la saggezza greca. Gli ebrei hanno usato l’alfabeto greco per universalizzare il messaggio biblico, ma mediante la saggezza greca quel messaggio non è comprensibile2. Ugualmente Taubes sostiene che Paolo, il quale sarebbe rimasto ebreo, anche se scrive greco pensa in un idioma diverso, magari vicino alla mentalità jiddish ma non certamente al pensiero greco-occidentale3. Non sono così sicuro di queste distinzioni così nette. Non esistono identità che non siano anche frutto di contaminazioni, anche sul piano delle “saggezze” estranee. L’alfabeto, la grammatica e la sintassi comportano già questo. Basti pensare alla traduzione della teshuvah ebraica nella metanoia della lingua greca. Dal “ritorno” al “cambiamento della mente” qualcosa cambia. E infine questa identità cristiana si rapporta e si definisce ogni volta non solo rispetto al proprio passato, ma anche al presente delle altre identità religiose. Non parlo del dialogo interreligioso, ma di qualcosa di più radicale e profondo che, in qualche modo, si verifica solo nel cristianesimo quando alcuni spirituali si incontrano con alcune grandi tradizioni religiose dell’umanità, come il buddismo e l’induismo. Infatti se non sembra possibile il caso di un musulmanoindiano, è possibile, nel senso che esiste storicamente, il caso di un induismo cristiano, di un buddismo cristiano. Non è facile il discorso su ognuna di queste esperienze, ma penso soprattutto all’amico di De Lubac, Jules Monchanin che ordinato presbitero, nel 1938, si trasferì nell’India del Sud dove si mise a disposizione della chiesa di Tiruchirapalli. Dopo qualche anno, assieme al benedettino Henri Le Saux, fondò nel 1949 l’ashram della Trinità, assumendo il nome di Swami Parama Arubi Anandam (= Felicità dello Spirito Santo). 2

Cfr. ad esempio E. LEVINAS, Trascendenza e intelligibilità, Genova 2009,

3

J. TAUBES, La teologia politica di San Paolo, Milano 1997.

38-41.


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Monchanin credeva profondamente che la spiritualità hindu potesse arricchire e vivificare il cristianesimo. Come ho detto, non credo però che possa darsi, o almeno io non conosco, il caso di un islamo-cristiano nel senso religioso di questo connubio, ma solo nel senso esoterico, come ad esempio è stata l’esperienza, ma attraverso una risoluzione in qualche modo metafisico-filosofica delle rispettive identità, cristiana e islamica, di un René Guénon (1886-1951). Tutto questo è sufficiente per farci dire che l’identità cristiana denota un processo dinamico che si dispiega ogni volta in un contesto relazionale che attraversa sia l’interiorità della singola persona che i contesti vitali e culturali in cui essa è inserita e che essa non è mai astraibile da questo contesto stesso. Senza voler quindi disquisire sul significato del termine identità, il teologo ha per così dire una scelta obbligata. Il termine, infatti, può essere inteso nel senso della differenza specifica: ciò che mi distingue da un altro. Oppure possiamo intendere l’identità non come differenza, ma come relazione-a e come modalità della relazione-a: qual’è il mio modo di rapportarmi a un altro. Nel primo caso (è il senso della parola “cristianesimo” in Ignazio di Antiochia) l’identità è virtualmente nemica dell’identità altrui. Nel secondo caso è inseparabile dalle altre identità: è il volto dell’altro che permette di scoprire il mio. Ci sono due culture a confronto: Parmenide (fino a Hegel e Marx) da una parte, il motivo cristiano dell’uomo come immagine di Dio in una visione radicalmente relazionale, quale hanno sviluppato i Padri della chiesa dall’altra. Penso qui soprattutto alla teologia dell’immagine ricalcata su Cristo immagine di Dio.

2. I LUOGHI Parlando dei luoghi dell’identità cristiana non penso ai luoghi in cui i cristiani abitano, ma a quelli nei quali quest’identità si alimenta. Come in tutte le grandi tradizioni religiose, anche nel cristianesimo esistono dei riti per così dire fondativi, nei quali l’identità si costituisce e si alimenta.


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L’uomo infatti è un essere simbolico in tutte le dimensioni della sua esistenza e il rito che, non è certamente specifico o esclusivo del cristianesimo, è il luogo in cui la dimensione simbolica articola e rende possibile la sua esperienza religiosa. Non è mia intenzione qui giustificare la convinzione della dimensione simbolica costitutiva dell’esperienza umana e del suo ruolo nella conoscenza. Non dovrei soltanto rimandare alla fenomenologia delle religioni, ma dovrei rifare altresì la storia della filosofia moderna a partire almeno dalla Critica del giudizio di Kant, per arrivare a Cassirer e Ricoeur e, in Italia, Melchiorre4. Per quel che riguarda in particolare il rito, mi limito a rimandare a quel grande capolavoro che è La stella della redenzione di Franz Rosenzweig, il quale ha mostrato come sia possibile capire la specificità ebraica e quella cristiana (per lui era quella protestante) solo analizzando i rispettivi riti. Chi vuole provare l’emozione della scoperta dell’identità ebraica, dovrebbe rileggere sempre la stupenda interpretazione dello Yom Kippur che egli fa, senza dimenticare che il suo ritorno all’ebraismo proprio alla vigilia del suo passaggio al cristianesimo, fu determinato dall’esperienza concreta della celebrazione dei “giorni terribili”. Ciò detto, vorrei partire dalla semplice affermazione del catechismo, secondo cui si diventa cristiani con il battesimo. Citando il Catechismo romano, redatto dopo il Concilio di Trento, anche il Catechismo della chiesa cattolica, redatto dopo il Vaticano II, afferma che il battesimo è il sacramento della “rigenerazione” cristiana mediante l’acqua e la Parola. L’immagine usata è quella giovannea della nuova nascita (Giov 3) e non quella paolina (Rom 6) della partecipazione alla morte e risurrezione del Cristo. Ma la sostanza del discorso è quella. La pratica del battesimo cristiano è testimoniata fin dalle origini, anche se queste non sono del tutto chiare5. È discussa tra gli esegeti la storicità del fatto che Gesù stesso abbia battezzato, stando 4 Cfr. Le voci “simbolismo” e “simbolo” in Enciclopedia filosofica 11, Milano 2006, 10632-10643. 5 Per l’origine del battesimo cristiano in quanto tale mi limito a rimandare a S. LÉGASSE, Naissance du baptême, Paris 1993; U. SCHNELLE, Taufe II, in TRE (2001) 663-674.


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almeno a quanto dice Giov 3, 22. Forse lo fece nel primo periodo della sua attività, prima ancora di iniziare la sua attività vera e propria di esorcista e di predicatore del Regno. È anche incerto il battesimo dei primi discepoli (Giov 13, 10?). Sta il fatto che, già circa 5 anni dopo la morte di Gesù, Paolo è stato battezzato e che ben presto per l’ingresso nella comunità dei seguaci di Gesù il battesimo diventa il luogo obbligato. Già dal secondo secolo abbondano i testi che mostrano il battesimo di Gesù ad opera di Giovanni come modello esemplare del battesimo cristiano, soprattutto per il dono dello Spirito, che il cristiano riceve come già Gesù. Tralascio qui la discussione sul battesimo dello Spirito distinto dal battesimo dell’acqua. Fino al IV secolo compreso, come ho già detto, esiste una pluralità irriducibile di riti battesimali: chiesa siriaca, chiesa bizantina, chiesa romana, chiesa gallicana, chiesa egiziana (diverso è il posto dell’unzione legata al dono dello Spirito — che nella chiesa siriaca precede ad esempio l’immersione — o della professione di fede — anteriore al rito dell’immersione, o contemporanea alla triplice immersione nella chiesa romana, etc). Ma non è questo il fatto che suscita le nostre domande. Questo fatto è costituito piuttosto dalla prassi del battesimo dei bambini appena nati o comunque incapaci di una decisione consapevole per la fede in Gesù Cristo. Certamente l’uso è antico. Non si può escludere che esso sia già testimoniato nel NT, ma nemmeno si può provare con certezza (Mt 19, 14: «non impedite che i bimbi vengano a me», è a questo proposito un cavallo di battaglia; la “casa” di Cornelio non è una prova); Policarpo nel 155 ca (ma l’oscillazione arriva al 166) afferma che ha servito per 86 anni il suo Signore (Mart. Pol. 9, 3). È da intendersi tutta la vita o soltanto il periodo dopo il battesimo? Comunque questa è una prova che già nel primo secolo si battezzavano bambini. Nell’Apologia prima di Giustino si parla di uomini che sono stati discepoli fin dall’infanzia (ek paidòn). Quindi anche nel II secolo c’è la pratica. Ma non sta a me dirimere la controversia tra Joachim Jeremias e Kurt Aland 6. Infatti il nostro problema 6 J. JEREMIAS, Die Kindertaufe in den ersten drei Jahrhunderten, Göttingen 1958; Nochmals: die Anfänge der Kindertaufe. Eine Replik auf Kurt Alands Schrift:


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non verte sulla data di inizio del battesimo in quanto tale, ma sul fatto in sé. È certo però che nel III secolo sorge la disputa sul battesimo dei bambini. L’uso, ormai affermato, a molti apparve problematico. Si poneva, infatti, soprattutto il caso di uomini che avevano offerto agli idoli dopo essere stati battezzati da bambini. Il canone 1 del concilio di Elvira (Granada, 306-309 ca) tratta esattamente di questo caso, che è di un’estrema attualità e rivela la natura del nostro problema: «Placuit inter eos, qui post fidem baptismi salutaris, adulta aetate, ad templum idolatraturus accesserit, et fecerit, quod est crimen principale (et summum scelus) placuit, nec in fine eum communionem accipere.» (Mansi II, col. 5-6). La rigidità del canone spagnolo è ovviamente indice della prassi contraria e del resto le maglie della prassi penitenziale si allargarono sempre di più. Ma al di là della rigidità del canone di Elvira, il problema esplode per poi scomparire nel IV secolo. Giacché il problema è proprio questo: come può essere luogo della formazione dell’identità cristiana un evento che sfugge alla consapevolezza dell’uomo. Nel caso dei lapsi dell’antichità, battezzati da bambini e passati a pratiche idolatriche, la chiesa difatti stabiliva una prassi penitenziale per l’effettiva acquisizione dell’identità, che nei fatti coincideva con la prima formazione. Il catecumenato che preparava al battesimo e lo rendeva significativo per il processo di identità personale del cristiano veniva cioè di fatto sostituito da una prassi penitenziale postbattesimale. E giacché di per sé la chiesa antica distribuiva l’eucaristia ai bambini battezzati, questa prassi penitenziale avveniva dopo l’intero ciclo dell’iniziazione cristiana. Ma anche questa sostituzione del catecumenato con la prassi penitenziale va considerata obsoleta. Di fatto la penitenza della chiesa, come processo di una sola volta nella vita, perde man mano il suo significato fino ad essere progressivamente sostituita a partire dal VI secolo dalla cosiddetta penitenza tariffata ad opera dei monaci irlandesi. E il catecumenato decade del tutto a partire dal V secolo. La “Die Säuglingstaufe im NT und in der Alten Kirche, 1962 (TEH NF 101); K. ALAND, Die Säuglingstaufe im NT und in der Alten Kirche. Eine Antwort an Joachim Jeremias, 1961 (TEH NF 86).


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funzione del catecumenato e del rito battesimale che lo concludeva, ai fini della formazione dell’identità cristiana, pertanto deve essere considerata obsoleta, a partire da quando la natura sociale del cristianesimo (per cui vale che ormai cristiani si nasce e non si diventa) rende insignificante culturalmente e personalmente il processo battesimale (ivi implicito il catecumenato) come luogo di formazione dell’identità cristiana. Lungo i secoli della societas christiana la funzione del vecchio catecumenato fu assunta dalla cultura stessa dominante, filtrata dalle famiglie. La propria identità religiosa, nella fattispecie quella cristiana, era “data” dalla società ai singoli, con tutte le inevitabili conseguenze. Era il costume dominante che segnava “anche” l’identità cristiana. In Occidente, inoltre, i riti dell’iniziazione vennero dissolti in una pluralità di occasioni: il battesimo venne separato dalla prima recezione dell’eucaristia e dalla cresima. La catechesi venne spostata a dopo il battesimo (anche se non dobbiamo enfatizzare la dimensione dottrinale di questa catechesi) come premessa alla prima comunione e risultava e risulta ancora inadeguata ad un’effettiva formazione dell’identità cristiana, proprio perché effettuata in un’età ancora troppo immatura (per lo più prima dei dieci anni). La formazione dell’identità vera e propria venne affidata quindi ad una pluralità di luoghi: la famiglia e, con il progredire negli anni del bambino, all’ambiente extrafamiliare, nel quale la parrocchia, a partire dall’Ottocento, costituisce un fattore sempre più insignificante. Per ciò stesso, dal punto di vista della fede cristiana autentica, cioè della sequela Christi, sorgevano enormi difficoltà. Per secoli, senza che lo si affermasse esplicitamente, si definì quindi una doppia identità: quella della «turba credentium» per dirla con Giovanni Cassiano (360/362 – 432/435) e quella di coloro che restavano fedeli alla «ecclesiae primitivae forma». Oppure, per usare termini francescani, si distinse tra la «forma evangelii» e la «forma ecclesiae romanae». Conseguentemente, per la formazione dell’identità cristiana in senso autentico, si crearono altri luoghi, alternativi a quelli tradizionali dell’iniziazione. Non è un caso che nella tradizione monastica si assunse il lessico battesimale e lo si applicò alla vita religiosa: dal termine stesso di «professio» a quella di fratello e sorella che designano ormai non i


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comuni cristiani, ma gli appartenenti ad una famiglia monastica o religiosa. Sfogliando quel meraviglioso strumento di conoscenza della vita della chiesa che è il Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis di Ch. Du Cange, alla voce fraternitas, vengono documentate 8 diverse accezioni. Di esse 5 sono specificamente ecclesiali. Tra queste solo una è riferita alla chiesa in quanto tale. Per il resto è la fraternità monastica l’analogato primario. La fraternità è “ceto di fratelli, cioè dei monaci”; “società stretta tra i monaci di monasteri diversi, mediante cui comunicano a tal punto nei propri beni da essere considerati come fratelli dello stesso monastero …”; “prestazione fatta ai monasteri di coloro che avevano accolto la loro fraternità”; “fraternità si dice dei laici che venivano ammessi a partecipare ai suffragi e ai benefici dei monaci”. Facendo un salto enorme nel tempo più vicino a noi, occorre prestare qui attenzione al significato che per il nostro problema rivestono sia l’Ottocento che la prima metà del Novecento. La Rivoluzione francese e la secolarizzazione che investe tutte le regioni europee, posero infatti in termini nuovi il problema dell’identità cristiana, tagliandone in linea di principio la dimensione culturale e sociale (nei fatti le cose non sono così nette). Per un verso la Restaurazione e la reazione intransigente cercarono in tutti i modi di rifiutare ciò che era avvenuto e continuarono a sognare un’identità cristiana socialmente, culturalmente e politicamente garantita. Per altro verso, in quello stesso periodo, maturarono anche gli anticorpi positivi che avrebbero portato ad una reazione più costruttiva nei confronti dei mutamenti della modernità e a un rinnovamento della vita ecclesiale stessa: in Francia, dapprima, sia pure in un clima restaurativo, fece i primi passi il movimento liturgico, che poi si irrobustì in tutta Europa; testimoni del vangelo vissuto fecero scoprire alla chiesa tutta il volto nuovo di una presenza amica nella società, della vita cristiana senza privilegi e sostegni di tipo giuridico e politico, della povertà come stile stesso della vita e della presenza cristiana. La strettoia dottrinale della Neoscolastica, che fu lo strumento teorico della Restaurazione, fu aperta con la riscoperta della ricchezza della teologia patristica, molto più consona ad una chiesa che non vive più in una societas christiana; la Scrittura e i Padri vennero a loro volta


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progressivamente studiati anche dai cattolici con i metodi della moderna indagine storico-critica; dalle terre di missione mosse i primi passi il movimento ecumenico che nessuna resistenza avrebbe mai più fermato. Con un efficace termine francese, quello del ressourcement, si indicò il recupero delle proprie ispirazioni originarie da parte della chiesa tutta. Il Vaticano II, che conclude questa storia, ha rappresentato il tentativo di un grande ritorno alle origini cristiane proprio per una riproposizione del luogo dell’identità. Per un verso, abbattendo, almeno in linea di principio, la linea di demarcazione tra la duplice identità cristiana, quella dei “perfetti” (si parlava di uno stato di perfezione oggettiva determinata dall’osservanza dei cosiddetti consigli evangelici) e quella dei comuni cristiani, ha sanzionato la comune chiamata alla santità (Lumen gentium, cap. 5). Per altro verso ha indicato due luoghi fondamentali per la formazione dell’identità cristiana: la liturgia e l’ascolto della Parola di Dio. La liturgia, che viene presentata come sorgente del dinamismo (virtus) e punto alto di arrivo (culmen) dell’azione della chiesa, perde la sua connotazione di culto pubblico che ancora condizionava la Mediator Dei di Pio XII e diventa invece il luogo in cui i cristiani fanno esperienza concreta dell’opera della redenzione. La Parola di Dio, attraverso la testimonianza ispirata delle Scritture canoniche, viene messa al centro della vita ecclesiale tutta come suo criterio ultimo. Un’altra iniziativa ha inoltre incoraggiato il Vaticano II, quella del ripristino del catecumenato (SC 64; AG 14), da non confondere con l’esperienza del movimento neocatecumenale. In Europa, la ripresa del catecumenato si deve alla Francia, negli anni 50, specialmente a Lione (dal 1953) e a Parigi. Il Vaticano II, confermando questi impulsi, rappresenta una svolta importante nel processo di restaurazione e di sviluppo del catecumenato. Anche se, in senso proprio, l’istituzione catecumenale riguarda le persone che si rivolgono alla Chiesa domandando il battesimo, per estensione sono considerati anche soggetti del catecumenato i battezzati non educati nella fede o che non hanno ricevuto tutti i sacramenti dell’iniziazione (eucaristia e confermazione: Ordo Initiationis Christianae Adultorum, Città del Vaticano 1972). Oggi si parla cioè anche di catecumenato a proposito dei cristiani battezzati


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che, avendo abbandonato in qualche modo la fede e la vita cristiana, sentono il bisogno di fare un cammino di re-iniziazione alla fede. Sono diverse le forme oggi in uso di catecumenato, nel senso sopra spiegato7.

3. RIFLESSIONI INATTUALI SULL’ATTUALITÀ Le considerazioni svolte fino adesso non vorrebbero ignorare il presente. Giacché il teologo deve anche prendere atto di esso e interpretarlo alla luce della lezione globale della Tradizione. Il problema dell’identità cristiana e dei suoi luoghi, infatti, nell’età contemporanea è surdeterminato dall’evoluzione dei processi identitari in genere e dalle sue connessioni, almeno in Occidente, con l’evoluzione delle società secolarizzate. Ho già accennato prima alla complessità delle letture della secolarizzazione. Il termine stesso è stato ferocemente, e ritengo fondatamente, criticato, soprattutto da Hans Blumenberg, perché non coglierebbe il significato stesso dell’età moderna. Ma come ho già accennato non voglio entrare nel merito del dibattito e dall’altra parte non voglio nemmeno ricorrere alla lettura brillante che un autore fortunatissimo e molto letto come Zygmunt Baumann fa della situazione religiosa e culturale del nostro tempo, anche se di lui recepisco soprattutto le riflessioni sul comunitarismo. Tenendo presente, tuttavia, tutto questo, mi pare che oggi ci sia una notevole resistenza alle vie indicate dal Vaticano II. La soluzione data dal concilio al fondo riproponeva la via antica. Data per scontata la prassi del battesimo dei bambini, il concilio ha affidato a due luoghi classici della formazione dell’identità la soluzione delle difficoltà: la liturgia e l’ascolto della Parola. La liturgia soprattutto, in quanto luogo di formazione della comunione ecclesiale, voleva superare per un verso l’identità societaria dominante nella precedente fase storica e, per altro verso, in quanto esperienza di un’identità donata, tendeva a superare le strettoie del gruppismo e del parrocchialismo: le celebrazioni liturgiche infatti, come recita la SC al n. 26, sono azioni di tutto il 7

Per l’esperienza francese, che resta la più avanzata, si veda G. CORDONNIER du catéchuménat, in Croissance de l’Église 111 (1994) 5-84.241.

ET AL., Photographie


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popolo radunato attorno al suo vescovo. La recezione di queste due indicazioni conciliari è tuttavia un processo non compiuto, che si afferma tra molte perplessità. Non debbo qui informare sulle vicende della Costituzione liturgica, del rito postconciliare dell’eucaristia, della lingua latina, del senso stesso che si dà alla participatio actuosa etc. Accanto ad accoglienze convinte ci sono resistenze fortissime e quel che è peggio, attuazioni puramente ritualistiche e di fatto nominali soltanto. Queste ultime non negano e non contestano, formalmente anzi accettano, ma svuotano totalmente di senso la riforma liturgica e la privano dei suoi effetti. L’altro luogo indicato dal concilio, la pratica costante dell’ascolto della Parola, soffre anch’esso per due motivi: una conoscenza diffusa della Scrittura e delle regole elementari della sua interpretazione (frutto di tutta la ricerca esegetica di più di tre secoli, da Richard Simon — la sua Histoire critique du Vieux Testament è del 1672 — ai nostri giorni) è ancora patrimonio di pochi. Ma soprattutto, presso gli stessi operatori pastorali, è rara la capacità di una lettura esistenziale che non ignori il testo ma si fondi su di esso e si tenga lontana dalle letture moralistiche e totalmente arbitrarie. A fronte di queste difficoltà dell’attuazione del Vaticano II emergono al presente due fenomeni che ritengo concomitanti, presenti per lo meno all’interno delle chiese cattoliche e protestanti (conosco meno la situazione delle chiese ortodosse). Mi riferisco al comunitarismo da una parte e all’entusiasmo dall’altra. Il comunitarismo, anche nella sua versione cristiana, fornisce alle persone un contesto di identificazione e di riconoscimento vicendevole assolutizzando, per così dire, l’appartenenza comunitaria. Sono infatti le regole di appartenenza comunitarie che diventano il criterio ultimo non solo dell’appartenenza, ma delle stesse decisioni e dei comportamenti. Non sto qui a discutere del perché e dei motivi per cui il comunitarismo oggi si impone anche come stile di identità cristiana. Basta leggere Baumann, per comprendere a iosa le cause e le modalità. Ma basti anche dire che, a differenza delle sue modulazioni comunitaristiche, l’identità cristiana, che è sempre anche identità ecclesiale e appartenenza ad una chiesa precisa, non fa della lealtà all’organismo ecclesiale, e tanto meno a quello della singola comunità o della speci-


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L’identità cristiana e i suoi luoghi

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fica famiglia religiosa o del movimento, il proprio riferimento ultimo. Ogni norma umana, compresa quella della chiesa, è normata dall’autorità della Parola di Dio testimoniata sia dalla Scrittura che dalla Tradizione ecclesiale. Nella Tradizione cristiana è valso sempre, anche per la chiesa cattolica, il criterio della coscienza e quello di un’oggettività del «depositum fidei» o dello «status ecclesiae» che diventano norma critica di ogni «status ecclesiae». Nelle chiese protestanti questo criterio viene invece declinato nella forma dello status confessionis. Fu in nome di questo criterio che durante l’epoca nazista, accanto alla chiesa luterana ufficiale controllata dal vescovo del Reich, sorse la chiesa confessante in opposizione a Hitler. E nella tradizione ortodossa vale, molto più che nelle altre chiese, che sia la Tradizione incarnata nella liturgia, a offrire questo criterio di oggettività, in maniera forse più efficace dei criteri preferiti nelle altre confessioni. Il comunitarismo oggi costituisce di conseguenza una delle linee di resistenza maggiori all’attuazione del Vaticano II, nonostante le professioni di ubbidienza all’autorità ecclesiastica. Il concilio ultimo della chiesa cattolica in ultima analisi costituisce infatti dal punto di vista storico la ripresa della grande Tradizione della chiesa, rompendo gli argini angusti che aveva imposto l’ecclesiologia della Restaurazione ottocentesca. L’altro fattore di resistenza è costituito dal fenomeno sempre nuovo dell’entusiamo, degli Schwärmer. Storicamente esso è maggiormente legato alla tradizione protestante, ma il pentecostalismo oggi è presente anche nella chiesa cattolica. Il cristianesimo africano soprattutto (si pensi al fenomeno delle “chiese indipendenti”) e quello sudamericano ne sono particolarmente segnati. Non conosco bene la situazione della chiesa ortodossa, ma qui il fenomeno mi sembra, salvo smentite, quasi totalmente assente. Non ho formule facili per spiegare la pregnanza del fenomeno che, soprattutto dopo la II guerra mondiale, si è imposto sia col moltiplicarsi delle sette e dei movimenti che col pullulare di innumerevoli chiese pentecostali. Ma anche qui è mia convinzione che la formazione dell’identità venga affidata a esperienze soggettive, che non vuol dire individuali, dove non trova spazio l’oggettività stessa dell’esperienza cristiana.


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Per finire mi pare che, se vogliamo riflettere in maniera seria sull’identità cristiana, a meno che non vogliamo rifugiarci in formule ultimamente prive di referente storico, ci troviamo davanti ad un fenomeno che, nell’età contemporanea, ha acquisito una mobilità e una complessità difficili da dominare. Resta la formula del catechismo. Ma la difficoltà di coglierne nel concreto la valenza effettiva, mostra la complessità del processo storico in atto, dove le chiese sono chiamate a reinterrogarsi sulla natura e sull’attualità al tempo stesso del vangelo di Gesù di Nazaret, a motivo del quale esse esistono.


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