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QUADERNI DI SYNAXIS 26 SYNAXIS XXIX/1 - 2011
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
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DA CENTO ANNI … NEL CUORE DELLA CITTÀ Le Benedettine dell’Adorazione Perpetua a Catania (1910-2010) Atti del Convegno di studi organizzato dal Monastero San Benedetto, dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania e dallo Studio Teologico S. Paolo Catania 24 maggio 2010 a cura di GAETANO ZITO
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Da cento anni nel cuore della città : le Benedettine dell’Adorazione Perpetua a Catania (1910-2010) : atti del convegno di studi organizzato dal Monastero San Benedetto, dalla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Catania e dallo Studio teologio S. Paolo, Catania 24 maggio 2010 / a cura di Gaetano Zito. Catania : Studio teologico S. Paolo, 2011. (Quaderni di Synaxis ; 26) ISBN 978-88-8137-471-7 1. Suore benedettine – Catania – Attività – 1910-2010 – Atti di congressi. I. Zito, Gaetano. 271.9700458131 CDD-22 SBN Pal0236242 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
In copertina: Prospetto della chiesa San Benedetto, Catania, sec. XVIII.
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SOMMARIO
SALUTO DI MADRE GIOVANNA CARACCIOLO OSB AP .
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SALUTO DI ENRICO IACHELLO
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SALUTO DI GIUSEPPE GIARRIZZO .
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SALUTO E INTRODUZIONE AL CONVEGNO DI GAETANO ZITO
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BENEDETTINE A CATANIA. TRA SOPPRESSIONE POSTUNITARIA E CARISMA MECTILDIANO (Gaetano Zito) . . . . . . 1. Monasteri femminili a Catania fino alla soppressione 2. La soppressione . . . . . 3. Pastorale al femminile a Catania . . . 4. Il monastero San Benedetto salvato dalla soppressione 5. Le “nuove” monache . . . . . 6. Il nuovo corso di vita monastica . . .
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19 19 25 29 32 35 41
CATHERINE DE BAR E LA “SCUOLA MISTICA NORMANNA”. P. JEAN-CHRYSOSTÔME DE SAINT-LÔ E JEAN DE BERNIÈRES-LOUVIGNY (Mario Torcivia) . . . . . . . .
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DIONIGI CERTOSINO (1402-1471) E LA PREGHIERA SALMODICA (Roberto Osculati) . . . . . . . . 1. Storia e spirito . . . . . . . 2. Scruta la tua coscienza . . . . . . 3. Rendiamo conforme la nostra vita . . . . . 4. Tutta la perfezione della vita spirituale . . . . 5. Gli affetti dell’orante . . . . . . .
101 105 109 112 113 115
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IL PARADOSSO DELL’AUTOREALIZZAZIONE IN MECTILDE DE BAR: PERDERSI PER RITROVARSI (Antonio Crimaldi) . . . . . .
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LITURGIA E VITA MONASTICA: ASPETTI TEOLOGICO-SPIRITUALI (Ildebrando Scicolone) . . 1. L’Opus Dei . . . 2. Il rituale monastico . . 3. La vita del monaco come liturgia Conclusione . . .
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CONNOTAZIONI DI UNA SECOLARE PRESENZA (Suor Cecilia La Mela OSB AP) . . . .
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TEMPI E GESTI NELLA VITA MONASTICA DELLE BENEDETTINE DELL’ADORAZIONE PERPETUA DI CATANIA (Arianna Rotondo) . . . . . . . . 1. Una ricerca senza tempo . . . . . . 2. Trovare Cristo . . . . . . . 3. Adorare e aderire . . . . . . . 4. Vestali del cristianesimo . . . . . . 5. La corda, la colonna, il cero . . . . . . Conclusioni . . . . . . . .
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CERCARE LA VERA FELICITÀ: UNA RISPOSTA DEL MONACHESIMO ALLE SFIDE E ALLE INSODDISFAZIONI DI OGGI (Suor Mariarenata Quariglio OSB AP) . . . . . 1. Dio ha a cuore la nostra felicità . . . . . 2. La via di san Benedetto: recupero e rifondazione dell’uomo . Conclusione . . . . . . . .
175 175 178 185
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SALUTO DI MADRE GIOVANNA CARACCIOLO OSB AP*
Giovanni Paolo II ha definito il monastero «un’autentica centrale di energia spirituale che si alimenta alla sorgente della contemplazione». E il contemplativo non guarda tanto le cose quanto attraverso le cose, fino al centro. Ecco che il convegno di oggi, inserito a coronamento delle tante iniziative anche a carattere culturale che hanno scandito e arricchito l’anno delle celebrazioni in occasione del primo centenario della presenza delle Benedettine dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento a Catania, vuole essere uno sguardo che ci proietta oltre, un ponte che ci permette di approdare alla riva di un maggiore approfondimento della nostra spiritualità e del significato del nostro esserci come comunità monastica nel cuore della città. Come abbiamo scritto nel libro storico di questi 100 anni edito lo scorso febbraio, il desiderio di condividere è nato spontaneo, direi irrefrenabile, poiché questo evento non è soltanto nostro ma della città e di quanti ci sono vicini. Al termine del libro Come pietre vive è scritto: «È ormai prossimo il momento di levare il cantiere e i relativi ponteggi. Tante pagine abbiamo scritte, adesso viene il tempo del ringraziamento perché il fare memoria è diventata l’espressione orante del nostro cuore, stupore e gratitudine verso lo Sposo che si è fatto operaio per lavorare insieme a noi nella nostra faticosa ma affascinante costruzione… Ci congediamo da tutti quelli che, leggendo queste pagine, hanno unito la loro preghiera alla nostra, ringraziando il Signore per i tanti benefici concessi alla nostra comunità e alla nostra diocesi che è il recinto immediato, la cinta muraria entro la quale si erge la nostra casa di mattoni e quella spirituale. È un tempo di grazia quello che il Signore ci sta donando da vivere perché il ripercorrere questa lunga fetta della nostra storia, il fare memoria di quelle “pietre vive” che con i loro sacrifici e la .
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Priora del monastero San Benedetto di Catania.
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Saluto di Madre Giovanna Caracciolo OSB AP loro preghiera hanno edificato questa casa consegnandola al nostro presente, è occasione di profondo rinnovamento in ciascuna monaca e in tutta la comunità. E davvero tutto è grazia!» 1.
Ringrazio di cuore, anche a nome della comunità, il nostro Arcivescovo che ha seguito con entusiasmo e molto da vicino le iniziative di questo centenario e che, con vivo dispiacere, suo e nostro, non potrà oggi essere presente per sopraggiunti motivi pastorali. 100 volte grazie — è il caso di dirlo — al nostro carissimo cappellano, mons. Gaetano Zito che, con l’apporto decisivo all’organizzazione di questa giornata, ha coronato il suo esserci stato insostituibile compagno di viaggio in questa impegnativa e affascinante avventura del centenario: i suoi saggi consigli nell’elaborare le varie attività inserite nel programma, il suo prezioso apporto alla ricerca archivistica e alla successiva stesura del libro Come pietre vive, la sua paterna cura verso noi tutte, sono state un vero dono. Veramente l’icona evangelica del servizio ad imitazione di Cristo-servo, da lui scelta come programma del suo sacerdozio, si è resa visibile ancor più in questi mesi di lavoro e di comunione. Un sentito, caloroso ringraziamento va al preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, prof. Enrico Iachello, che ha aderito con gioia e grande disponibilità al nostro invito coinvolgendo, a sua volta, gli studenti in questo incontro culturale e spirituale di amicizia che si arricchisce di significati davvero stimolanti; un altrettanto, sentito grazie al prof. Giuseppe Giarrizzo, accademico dei Lincei, per la sua gradita presenza qui, tra noi. Un profondo e affettuoso ringraziamento va poi, ai relatori che hanno preparato con impegno e competenza i loro interventi e che avremo presto il piacere di ascoltare. È un grande piacere che tra questi vi sia la nostra presidente, madre Mariarenata Quariglio, del monastero di Ghiffa, la terra benedetta da cui è stato trapiantato a Catania il seme benedettino ed eucaristico. La missione da lei svolta in questi anni a favore della nostra Federazione sembra culminare per noi in questa giornata di scambio e arricchimento reciproco. In lei 1 Come pietre vive. Le Benedettine dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento a Catania, Catania 2010, 373.
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Saluto di Madre Giovanna Caracciolo OSB AP
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sono presenti tutte le madri e consorelle dei nostri monasteri, alcune delle quali abbiamo la gioia di avere qui tra noi e che ringrazio vivamente: madre Raffaella Brovelli priora del monastero di Ghiffa che ha portato con sé suor Annamaria e la novizia Miriam, e ancora le nostre madri Ildegarde Puorto e madre Paola Gosta rispettivamente priore dei monasteri di Tarquinia e di Roma. Siamo inoltre contente di veder rappresentato il nostro ordine benedettino nella persona del carissimo abate dom Ildebrando Scicolone, docente di Liturgia all’Ateneo Sant’Anselmo di Roma, e ormai di casa in questo monastero. Il suo essere presente oggi è un dono e una grazia. Come non ringraziare il carissimo amico, il prof. Antonino Crimaldi? La sua simpatia e la sua profondità umana e spirituale ci accompagnano ormai da alcuni anni e hanno trovato viva espressione nel libro La sfida del puro amore2 che raccoglie preziose conferenze da lui donate alla nostra comunità sulla nostra fondatrice madre Mectilde de Bar. Con piacere annoveriamo tra gli amici anche il prof. Roberto Osculati. La serietà con cui svolge le sue ricerche, la passione e la cura che continua ad animare il suo lavoro sono per noi stimolo e motivo di stima. Questo convegno ha favorito inoltre l’occasione per conoscere e apprezzare anche don Mario Torcivia che ha accettato con entusiasmo di offrirci una precisa e documentata introduzione al Seicento francese, preparando così il terreno ai relatori che più da vicino presenteranno il pensiero di madre Mectilde de Bar. Infine un caro ringraziamento alla dottoressa Arianna Rotondo che non solo ci arricchirà con il suo intervento, ma già nel periodo di organizzazione del convegno ha prestato il suo aiuto e la sua fine sensibilità per la buona riuscita della giornata di oggi. Quanti, quanti motivi abbiamo per ringraziare il Signore e tutti coloro che ha messo sulla nostra strada! Infine il nostro caloroso saluto di benvenuto vuole abbracciare tutti i presenti e impetrare dal Cielo un’abbondanza di benedizioni, certe che quanto il Signore vorrà dirci attraverso le relazioni che ascolte2 A. CRIMALDI, La sfida del puro amore. Itinerario umano e spirituale di madre Mectilde de Bar, Casale Monferrato 2006.
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Saluto di Madre Giovanna Caracciolo OSB AP
remo sarà un motivo in più per continuarci a sentire tutti in comunione fraterna. Da cento anni nel cuore della città, da cento anni con la città nel cuore, da cento anni con, e per ogni fratello e sorella che il Signore ha affidato alla preghiera di questa comunità. Cosa dunque augurarvi e augurarci? Di continuare ad essere sempre una presenza che sta al cuore di qualcosa di grande, prima di tutto nel cuore di Dio e poi nel cuore di quello che siamo chiamati ad essere, a fare, così come siamo, per diventare sempre più un unico grande cuore che batte perché vive e ama. Ecco allora che un giorno, un anno, dieci anni, cento anni sono e rimangono un unico, prolungato tempo della grazia!
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SALUTO DI ENRICO IACHELLO*
Ringrazio sinceramente la comunità delle benedettine di Catania per aver chiesto alla Facoltà di Lettere e Filosofia di partecipare a questo momento importante della loro storia, al centenario della fondazione, intervenendo con le competenze che sono proprie di una Facoltà umanistica. La partecipazione della Facoltà che rappresento non è retorica o solidaristica, ma concreta e diretta, come dimostra la presenza degli studiosi coinvolti come relatori, il prof. Osculati e la dott.ssa Rotondo, o addirittura come organizzatori, mons. Gaetano Zito, titolare di un insegnamento presso la Facoltà di Lettere. Oltre ad aver accolto positivamente la vostra richiesta, mi sono posto il problema di come fare per consolidare il legame esistente già da tempo fra l’ex monastero dei Benedettini, la nostra sede, e il monastero femminile di San Benedetto. Ricordo qualche anno fa il concerto tenuto nella vostra chiesa e organizzato con la nostra cattedra di storia del cristianesimo: si è trattato di un incontro importante, non più ripetuto, ma che può ancora essere seguito da altre iniziative simili o d’altro genere. La possibilità di uno scambio di proposte è aperta e facilitata dai docenti che con voi hanno contatti costanti, in particolare Gaetano Zito, un interlocutore privilegiato, affinché possano crearsi altre occasioni di incontro e di scambio soprattutto con gli studenti. Credo che un confronto sia necessario oltre che doveroso. Mi ha colpito in tal senso il titolo che è stato dato a questo evento: da 100 anni nel cuore della città. La madre, Giovanna Caracciolo, lo ha sottolineato nel suo intervento di apertura al convegno, ribadendo la presenza di questo monastero nella città e per la città, affermando l’importanza di un legame che scongiuri l’idea di una realtà monastica separata o isolata rispetto al contesto in cui è sorta. Chiaramente queste non sono
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Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.
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Saluto di Enrico Iachello
visioni contemplabili quando si tratta di una comunità operosa, nella sua specificità ovviamente, dentro la città e per la città. Questo m’incoraggia a intensificare i nostri rapporti e a lanciare una prima proposta, altre potremo studiarle con Gaetano Zito e gli altri colleghi: sarebbe auspicabile una condivisione di questo bene rappresentato dalla chiesa di San Benedetto, in cui ci troviamo, un patrimonio di questo monastero, ma anche un patrimonio culturale della città. Abbiamo aperto alla città l’ex-monastero benedettino che ci ospita attivando le visite guidate; sarebbe bello,compatibilmente agli impegni e alle attività che qui si svolgono, abbinare anche la visita di questa chiesa. Disponiamo di un’associazione collaudata di studenti (Officine culturali), preposta all’organizzazione delle visite, che potrebbe prendere contatto con la vostra Comunità e condividere questo progetto. D’altra parte questo splendido gioiello che è la chiesa di San Benedetto, uno dei monumenti pregiati di questa città, ci consente di collaborare per essere, anche in questo modo, nel cuore della città. Grazie veramente di cuore.
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SALUTO DI GIUSEPPE GIARRIZZO*
Grazie a Gaetano Zito che se n’è fatto interprete presso le suore, abbiamo potuto negli anni scorsi raccoglierci in questa chiesa a pregare e ricordar commemorando in una ricorrenza annuale perduti affetti familiari. Se lo ricordo è per scusarmi coi presenti se, commosso, non riuscissi a formulare al convegno di stamane, con la consueta chiarezza, l’augurio più sincero. L’augurio si sostanzia d’una riflessione sulla nostra storiografia, in cui — anche per via del maggior peso accademico del diritto ecclesiastico e del canonico — tuttora la storia ecclesiastica prevale sulla ‘storia religiosa’: la storia dei rapporti fra Chiesa e Stato, considerata nella sua declinazione giuridica, ha fatto argine ai temi e allo spirito della storia religiosa, che nella nostra tradizione che non può certo vantare approcci e ricerche di antropologia religiosa quando si è finora identificata con la storia dell’eresia e degli eretici — collocandosi, per far qualche nome, tra Jemolo e Cantimori. Qui ed ora, sulla soglia di un incontro che festeggia un centenario, Zito e Osculati vorranno in premessa incoraggiare una concezione più ariosa dello spirito e dell’indirizzo della comunità che si festeggia, per sé e per la città in cui si insedia. Urge riaprire il discorso sulla rigidità degli statuti disciplinari, e attraverso la comparatistica storico-religiosa (che ha avuto ed ha anche in Italia figure prestigiose, penso per tutte a Franz Cumont che a Roma ha trascorso l’ultimo tempo di una vita operosa e la cui opera ha influenzato Pettazzoni e la storiografia evangelica) collocarsi entro una rete di relazioni ‘globali’ oggi assai più agevoli che nel passato. E non è certo un caso che sia toccato a don Giuseppe Ruggeri la non facile redazione degli indici del periodico di Alberigo Il cristianesimo nella storia. E’ accaduto a me preside l’aver propiziato un’intesa tra la Facoltà di Lettere e monsignor Luigi *
Accademico dei Lincei.
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Saluto di Giuseppe Giarrizzo
Bommarito per reiterati confronti in materia di storia ecclesiastica a Catania ed in Sicilia, e l’apertura di un colloquio con don Ruggeri per trattare qui temi tra filosofico storico e teologico di particolare delicatezza: e gli atti di quei colloqui sono già raccolti in volumi. L’intervento del preside Iachello e gli atti compiuti confortano pertanto nel proposito di continuare ed allargare il confronto. L’augurio mio è che anche la presente iniziativa si iscriva nel desiderio di attrarre in un campo che resta difficile e pieno di insidie nuovi ricercatori e nuove ricerche. Auguri sinceri di buon lavoro.
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SALUTO E INTRODUZIONE AL CONVEGNO DI GAETANO ZITO*
A nome dello Studio Teologico S. Paolo, e mio personale, un cordiale saluto a tutti i presenti. In special modo alla priora, madre Giovanna Caracciolo, della quale in molti conosciamo ed apprezziamo lo spirito di iniziativa, l’acume e l’apertura nel mettere in dialogo il monastero con la realtà ecclesiale e civile della nostra città. Lo Studio Teologico è stato ben lieto di sostenere la volontà della comunità monastica per la realizzazione di questo convegno di studi. Segno ulteriore dell’attenzione e della disponibilità agli eventi che connotano il cammino delle comunità ecclesiali, in special modo di quelle che vivono nelle diocesi cui esso appartiene. Ad esse, come alle istituzioni laiche, è pronto a dare il peculiare apporto culturale che gli compete. Mi sia permesso, poi, sottolineare che lo Studio Teologico e la comunità di San Benedetto hanno “antichi” legami. Due monache hanno maturato la loro vocazione negli anni in cui sono state alunne del S. Paolo, e vi hanno conseguito il grado accademico del Baccalaureato. Oltre ai legami amicali della comunità monastica con studenti e docenti, nella stessa persona convergono al presente, inoltre, il preside dello Studio e il cappellano della comunità. Entrando nel merito del convegno, anzitutto mi sembra doveroso sottolineare l’importanza della decisione delle monache di volere un convegno di studi nell’ambito del centenario. Monache di clausura che chiedono la competenza specifica a due istituzioni accademiche, la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi e lo Studio Teologico S. Paolo — peraltro adusate ormai a collaborare fin dal 1982 —, invitandole ad offrire in primo luogo alle monache di questa comunità, a quelle dell’Istituto delle Benedettine dell’adorazione perpetua, alla *
Preside dello Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Saluto e introduzione al convegno di Gaetano Zito
comunità scientifica oltre che alla Chiesa e alla città di Catania, i risultati di attenta ricerca e di specifici percorsi di studio, enucleati nelle relazioni concordate. Insieme ad altre iniziative realizzate, nel corso di quest’anno, per evidenziare aspetti particolari di questa ricorrenza, il convegno mira a riconsegnare i tratti salienti della storia e della spiritualità delle Benedettine dell’adorazione perpetua presenti ed operanti a Catania, nel cuore della città, da cento anni. Non è che manchino lavori sull’istituto monastico delle Benedettine dell’adorazione perpetua e la bibliografia, da un ventennio a questa parte in modo particolare, si è arricchita di pregevoli ricerche e di studi puntuali. Soprattutto assistiamo ormai ad una sistematica pubblicazione di materiali che hanno come compito quello di far conoscere sempre più e sempre meglio il carisma e gli scritti della fondatrice madre Mectilde de Bar. Quale può essere, allora, la finalità di questo convegno? In che modo si collegano le relazioni programmate in questo convegno e gli studi di carattere più generale editi in questi anni? Il convegno è stato pensato come un’ipotesi di lavoro: è possibile offrire un percorso unitario, in grado di cogliere aspetti non sufficientemente finora emersi dagli studi editi per la conoscenza della storia della comunità catanese e della spiritualità dell’Istituto monastico? Dopo aver ricostruito il passaggio di testimone a Catania dalle Benedettine alle Benedettine dell’adorazione perpetua (Gaetano Zito), è necessario ricostruire il contesto storico e spirituale in cui si muove Mectilde de Bar nel Seicento francese (Mario Torcivia), il secolo d’oro per eccellenza della storia della spiritualità cattolica. In sequenza, quindi, verranno esaminati: le radici del carisma mectildiano nel ricco e variegato filone della teologia monastica (Roberto Osculati); il cuore dello stesso carisma racchiuso nel concetto cruciale di annientamento, luogo di piena autorealizzazione della monaca (Antonino Crimaldi); la dimensione liturgica della vita monastica ma di una liturgia intesa in dimensione teologica, sorgente di spiritualità, scevra da pastoie rubricistiche e da riduzioni devozionistico-rituali (Ildebrando Scicolone); la individuazione di linee portanti di questa presenza, fili rossi che l’hanno attraversata e la riannodano (suor Cecilia La Mela);
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Saluto e introduzione al convegno di Gaetano Zito
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alcune dimensioni identitarie della comunità monastica di Benedettine dell’adorazione perpetua, racchiuse in tempi, luoghi, simboli, gesti (Arianna Rotondo); la significatività per il presente, infine, di una consacrazione claustrale come “luogo” di felicità e di provocazione alle insoddisfazioni del cuore umano, significatività che è pure apertura al futuro (madre Mariarenata Quariglio). Conosciamo, ormai, tanti risvolti di una secolare presenza grazie al volume Come pietre vive…, frutto di intelligente utilizzo di una fonte storiografica preziosissima, quali gli Annali della comunità. L’auspicio è che la pubblicazione degli atti del convegno possa offrire alle comunità ecclesiali, alla città e ai ricercatori un percorso utile ad “entrare” nella clausura del monastero di San Benedetto e raccoglierne l’armonia della vita monastica e il valore di una presenza che pulsa della storia e con la storia della città. Al contempo, contribuisca a sollecitare la comunità monastica a saper leggere i segni dei tempi della sua presenza nella Chiesa e nella città di Catania. La storia e la spiritualità, ambiti attorno a cui ruotano le relazioni del convegno, offrono sicuri punti di riferimento per cogliere come Dio ha guidato finora questa comunità e come da Lui può continuare a lasciarsi condurre.
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BENEDETTINE A CATANIA. TRA SOPPRESSIONE POSTUNITARIA E CARISMA MECTILDIANO
GAETANO ZITO*
La presenza a Catania delle prime monache benedettine dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento è datata al 19101. Il loro arrivo risponde all’esigenza avvertita soprattutto dall’arcivescovo Giuseppe Francica Nava di rivitalizzare in città antiche e numerose comunità monastiche benedettine femminili, ormai in via di definitiva estinzione dopo la legge del 7 luglio 1866. Fino a questa data, e dalla ricostituzione delle strutture ecclesiastiche dell’isola in età normanna, la città e la diocesi di Catania si presentano impregnate di monachesimo benedettino maschile e femminile. Questa relazione mira, dunque, ad esporre brevemente perché e in che modo, nel contesto storico dell’epoca, si innesta il carisma mectildiano; quale situazione trovano le prime due monache che arrivano da Ronco di Ghiffa; come si avvia con loro il nuovo corso del monastero e lo sviluppo del carisma, da Catania in altri centri dell’isola. 1. MONASTERI FEMMINILI A CATANIA FINO ALLA SOPPRESSIONE Liberata la Sicilia dalla dominazione araba, i normanni procedono alla riorganizzazione ecclesiastica dell’isola con la collaborazione dei monaci benedettini. Alla Chiesa catanese, in particolare, viene data *
Docente di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Il testo è stato preparato per il convegno Dal passato il futuro: la coscienza della tradizione a confronto con l’oggi. Per il primo centenario di fondazione del monastero SS. Trinità delle Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento: 1906-2006 (Ghiffa, VB, 19-23 settembre 2006). Edito in Deus absconditus 98 (2007) 4, 104-125, 1
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Gaetano Zito
una netta impronta monastica. Il conte Ruggero riunisce nella persona del monaco Ansgerio l’ufficio di abate dell’abbazia di Sant’Agata, di vescovo della diocesi assegnandogli un vasto territorio (dalla costa jonica al centro dell’isola), di signore feudale della città. Ansgerio viene fatto venire appositamente dal monastero calabrese di Sant’Eufemia. Qui si era formato alla scuola dell’abate Roberto di Grandmesnil, arrivato da Saint-Évroult: abbazia normanna, proprietà dei duchi di Normandia, fondata intorno al 10502. Catania assurge a centro del monachesimo benedettino in Sicilia. Dall’abbazia di Sant’Agata, progressivamente, per desiderio di osservanza monastica, alcuni monaci danno vita ad altri monasteri alle pendici dell’Etna, fino ad aversi 6 comunità maschili. La sede abbaziale si trasferisce prima a Santa Maria di Licodia e, dalla metà del sec. XVI, torna in città in San Nicola l’Arena. È qui che viene a risiedere l’abate ed è questa comunità che determina ora le sorti del monachesimo benedettino a Catania e nel territorio etneo, fino alla soppressione del 18663. Fondate più tardi rispetto a quelle maschili, al contrario di queste, le comunità benedettine femminili nella diocesi di Catania hanno una storia che, al contrario di quelle maschili, non ha mai subito soluzione di continuità fino al presente, riuscendo a passare indenni anche alle difficoltà seguite alla legge di soppressione del 1866. Per meglio intendere la consistenza della loro presenza, è opportuno tenere in conto viene qui riproposto, con qualche aggiornamento bibliografico, come opportuna integrazione al presente convegno. 2 G. ZITO (cur.), Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna. Atti del I convegno internazionale organizzato dall’Arcidiocesi di Catania (25-27 novembre 1992), Torino 1995. 3 A. LONGHITANO, Conflitti di competenza fra il vescovo di Catania, i benedettini e gli ordini mendicanti nei secoli XV e XVI, in Benedictina 31 (1984) 177-186, 359-386; G. ZITO, Monasteri benedettini della Sicilia orientale il caso Catania, in F. G. B. TROLESE (cur.), Il Monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’Unità nazionale (17681870). Atti del II Convegno di studi sull’Italia Benedettina (Abbazia di Rodengo, Brescia, 6-9 settembre 1989), Cesena 1992, 149-177; ID., Benedettini a Catania tra conflitti e riforma. La visita abbaziale del 1822 a S. Nicola l’Arena, in F. G. B. TROLESE (cur.), Monastica et Humanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco O.S.B., Cesena 2003, 519-560, con bibliografia.
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Benedettine a Catania
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l’estensione territoriale della diocesi dalla rifondazione normanna. Insieme a quello attuale, Ruggero le aveva assegnato gran parte del territorio attribuito a diocesi istituite nei primi decenni dell’Ottocento. In particolare, Caltagirone, Piazza Armerina e Nicosia sorte nel 1817, e Acireale nel 1844 ma autonoma soltanto dal 1872. L’horribilis terraemotus, che nel 1693 ha devastato la Sicilia sudorientale, ha sancito pure la decimazione di una capillare distribuzione di comunità benedettine femminili presenti dall’età medievale in poi: 11 nella città di Catania e 14 nei paesi della diocesi. Insieme a case, chiese e conventi, anche i monasteri femminili della città non sono stati risparmiati: danneggiati o del tutto distrutti, molte monache perite sotto le macerie e alcune comunità monastiche totalmente scomparse insieme al proprio monastero. Nel monastero di San Benedetto, delle 60 religiose presenti, restano in vita soltanto 5 monache. Il vescovo Andrea Riggio, protagonista della ricostruzione della città, ha assegnato al seminario vescovile i beni dei monasteri di Santa Lucia, Santa Maria di Portosalvo e Santa Caterina, considerato che nessuna delle monache è scampata al terremoto. Insieme con i beni, allo stesso seminario, il vescovo ha disposto la consegna di quella parte dei rispettivi archivi recuperata dalle macerie4. Sono soltanto cinque le comunità benedettine femminili che si ricostituiscono in città, insieme ad una di clarisse. La loro originaria fondazione risale ad epoche precedenti. San Giuliano pare debba considerarsi il monastero più antico della città. La prima notizia della sua presenza dentro le mura è del 1212, pur se di questo monastero pare debbano riconoscersi tracce su una collina lontana dal centro abitato risalenti ad una fondazione attribuita a Gregorio Magno. Degli altri quattro monasteri si hanno notizie più certe della loro origine: San Benedetto nel 1334; Santissima Trinità nel 1349; San Placido nel 1400; Sant’Agata nel 16525. In diocesi, dopo alcuni anni dal terremoto, sono in piena attività 19 4
G. ZITO – C. SCALIA, Fonti per la storia della diocesi di Catania: l’Archivio Storico del Seminario, in Synaxis 1 (1983) 294-313. 5 G. B. DE GROSSIS, Catanense dechacordum, 2 voll., Catanae 1642-1647; P. CASTORINA, Cenno storico sui monasteri di Catania, Catania 1864, che però dà la presenza in città di San Giuliano dal 1295; M. L. GANGEMI, San Benedetto di Catania. Il mona-
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monasteri benedettini femminili. Nei cinque di Catania, in particolare, il vescovo Andrea Riggio nel 1712 trova le monache «omnes divino cultui deditas et regularem disciplinam observantes non sine maxima mei animi consolatione»6. Anche dei tre monasteri di Enna e Piazza Armerina apprezza l’esemplarità dell’osservanza. In particolare, uno di Piazza Armerina, per disposizione della fondatrice, è riservato alle figlie della nobiltà; condizione che dura fino al 18207. Altri due monasteri si trovano nei paesi di Agira e Regalbuto; ed uno rispettivamente ad Acireale, Adrano, Calascibetta, e Paternò. Positiva è ancora la valutazione sulla disciplina nei monasteri femminili della diocesi espressa dal vescovo Salvatore Ventimiglia nella sua relazione ad limina del 17628. Ma la vita interna delle comunità monastiche femminili non pare si sia mantenuta così esemplare se, il 15 ottobre 1797, il vescovo Corrado Deodato de Moncada è nella necessità di emettere dettagliate «Istruzioni» per le monache al fine di «inculcare quanto più volte, ed in voce, ed in iscritto, specialmente nelle nostre sagre Visite, abbiamo disposto per promuovere la Regolare osservanza»9. Il vescovo stigmatizza in particolare l’atteggiamento di quelle monache che, provenendo da famiglie nobili e grazie alla dote ricevuta, tendono a condurre in monastero una vita agiata: si permettono una donna a proprio servizio, usufruiscono di denaro per libere spese, esigono la stero e la città nel Medioevo, Messina 1994; EAD. (cur.), Il tabulario del monastero San Benedetto di Catania (1299-1633), Palermo 1999. 6 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1702-1717), in Synaxis 7 (1989) 508. Tutte le relazioni ad limina dei vescovi di Catania, fino al sec. XIX, sono ora contestualizzate ed edite in A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1595-1890), Catania 2009, 2 voll. (Documenti e studi di Synaxis 23. Ricerche per la storia delle diocesi di Sicilia 3/I-II). 7 A. ROCCELLA, Il gran priorato di S. Andrea e i monasteri dei benedettini in Piazza Armerina, Piazza Armerina 1883, 133-152. 8 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1762), in Synaxis 10 (1992) 391. 9 CATANIA. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO (= ASD), Fondo Religiosi e Religiose. Miscellanea, fasc. Istruzioni per i monasteri 1775-1856. Anche i monasteri femminili non sfuggono alle mordaci osservazioni dei visitatori stranieri dell’isola: H. TUZET, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo, Palermo 1988, 395-397.
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distinzione tra coriste e converse; rifiutano il vitto ordinario pretendendo il corrispettivo in denaro «e non potendo restar senza cibo» continuano ad usufruire della dispensa, «con doppia spesa pel Monastero». Per il vescovo tali abusi, «oltre essere contro il Voto di povertà, non è cosa decente per una persona spirituale, e civile, e ci reca non poca meraviglia, come li Confessori, per altro Uomini di talento, possono permetterlo alle loro Penitenti». La condizione dei monasteri femminili della diocesi di Catania rientra nella condizione più generale della vita ecclesiastica e religiosa in Sicilia, per la quale il prete Andrea Pusateri, di Caccamo, agli inizi del sec. XIX, invoca interventi riformatori dalle autorità ecclesiastiche e governative. La situazione critica dei monasteri femminili è da lui attribuita a strategie familiari, che impongono la monacazione alle figliole, e all’età del loro ingresso in monastero. Non potendo costituire la dote nuziale per tutte le figlie, le famiglie preferiscono collocarne una o più in monastero. E vi entrano quando la «naturale femminile verecondia, la loro imbecillità, il timore, che si ha dei parenti, il dolore di dar loro disgusto, quella voce della Natura, che parla nel loro cuore a favore de’ loro Congionti, certi riguardi di un preteso onore, o di qualche temporale interesse», fanno sì che molte accettano passivamente la vita monastica «per vivere in un perpetuo carcere», senza che i vescovi e i loro delegati possano conoscere i veri sentimenti delle novizie nell’ammetterle alla professione. E Pusateri auspica per tutte le ragazze un’educazione pubblica che dia loro «facoltà intellettuali, una istruzione solida, opinioni savie, idee giuste, eccellenti principj di sana Morale», di modo che liberamente possano scegliere di diventare ottime madri, oppure «Santissime Vergini consacrate a Dio»10. Pusateri è voce dell’ampio dibattito che persiste in Sicilia sulla vita dei religiosi, alimentato dal giurisdizionalismo borbonico, favorito dagli influssi della cultura francese illuminista e rivoluzionaria, come dai giudizi pur se veritieri non sempre sereni divulgati dai viaggiatori stranieri nell’isola11. 10 A. PUSATERI, Riforma del clero e del monachismo di Sicilia. Progetto proposto a Sua Maestà Ferdinando III re delle Due Sicilie ec. ec., ai vescovi di questo Regno, e al Siculo General Parlamento, Palermo 1815, 178-184. 11 H. TUZET, Viaggiatori stranieri, cit., 387-388. Sul clima culturale, cfr. G. GIAR-
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Da più parti si avanzano proposte di riforma e si dubita dell’utilità sociale e religiosa dei monasteri e dei conventi, come dei religiosi e delle monache, alla luce di persistenti abusi e soprattutto della non osservanza della vita comune. D’altronde, in Sicilia, rimasta indenne dall’egemonia di Napoleone, i conventi e i monasteri non hanno vissuto quella provvidenziale opportunità di purificazione, come ebbe a considerarla mons. G.A. Sala, segretario della Sacra Congregazione per la riforma dei religiosi, dovuta alle soppressioni napoleoniche degli inizi dell’Ottocento nel resto della penisola12. Per la città di Catania una certa purificazione può, invece, ipotizzarsi accaduta con il terremoto del 1693. La distruzione di conventi e monasteri, con la morte di un rilevante numero di membri, in qualche caso la totale scomparsa della comunità, ha imposto la formazione di nuove generazioni di religiosi. Condizione che, probabilmente sostenuta pure dalla memoria lunga della tragicità dell’evento, potrebbe aver indotto ad una maggiore fedeltà i religiosi protagonisti della progressiva ripresa verificatasi negli anni successivi. In assenza di studi specifici, un segnale potrebbe cogliersi per la vita claustrale femminile, su cui possono incidere orientamenti di riforma del vescovo, nella drastica riduzione da 11 a cinque del numero dei monasteri benedettini femminili, e da tre a uno solo dei monasteri delle clarisse. Permangono, tuttavia, strategie familiari che coinvolgono i cinque monasteri benedettini femminili della città, su una popolazione di poche decine di migliaia di abitanti. Membri della stessa famiglia sono contemporaneamente presenti tra le monache, tra i canonici del capitolo della cattedrale e il capitolo della chiesa collegiata, tra i monaci di San Nicola l’Arena, i docenti dell’Università degli studi e le magistrature cittadine. Tutti ambienti che comportano la stabilitas in città RIZZO, Illuminismo, in Storia della Sicilia, dir. da R. Romeo, IV, Palermo 1980, 711-815; G. MILAZZO – C. TORRISI (curr.), Ripensare la Rivoluzione francese. Gli echi in Sicilia, Caltanissetta-Roma 1991. 12 C. NASELLI, Italia. VIII: Le soppressioni napoleoniche, in Dizionario degli Istituti di Perfezione (=DIP) 5, 211-217; G. MARTINA, Italia. IX: Gli istituti religiosi in Italia dalla Restaurazione alla fine dell’800, ibid., 217-233: 221-222. Per la parte continentale del territorio soggetto ai Borbone, cfr. M. MIELE, Soppressione. 1806-8, 1808-15: Regno di Napoli, ibid., 8, 1850-1858.
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per monaci, monache ed ecclesiastici. Al contrario degli ordini mendicanti che, sebbene la loro presenza sia rilevante, non escludono il trasferimento dei religiosi in altre comunità. A seguito della istituzione delle nuove sedi episcopali, nella diocesi di Catania, insieme con le comunità cittadine, restano quelle di Acireale (fino al 1872), Adrano e Paternò; e dal 1844 vi si aggiunge il monastero di Bronte, territorio per secoli soggetto all’arcivescovo di Monreale. La popolazione delle cinque comunità presenti in Catania, nel 1833, ammonta a 326 donne: 131 professe, 7 novizie, 97 educande e 91 serve13. Alla vigilia dell’Unità, pochi anni prima della soppressione, le monache benedettine della diocesi danno una sostanziale serenità al vescovo Felice Regano: ne registra la regolare osservanza della clausura ma deplora una certa incapacità a saper amministrare con oculatezza le rendite dei monasteri14. 2. LA SOPPRESSIONE Con la legge n. 3096 del 7 luglio 1866 veniva tolta la personalità giuridica alle comunità religiose maschili e femminili: «Art. 1: Non sono più riconosciuti nello Stato gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari e secolari, ed i conservatori e ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico. Le case e gli stabilimenti appartenenti agli ordini, alle corporazioni, alle congregazioni ed ai conservatori e ritiri anzidetti sono soppressi»15. La sua applicazione trova a Catania una complessiva presenza di 124 monache coriste, così ripartite: in Sant’Agata 27 monache; in San Benedetto 33 monache; in San Giuliano 22 monache; in San Placido 18 monache; in Santissima Trinità 24 monache16. 13
ASD, Fondo Statistica, carpetta 2, fasc. 8. A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1844-1856), in Synaxis 13 (1995) 483. 15 Una visione d’insieme in G. MARTINA, Soppressione. 1866: Italia, in DIP, 8, 18721876. Per la soppressione dei religiosi a Catania si può vedere G. ZITO, I francescani a Catania: soppressione e ripresa dopo il 1866, in N. GRISANTI (cur.), Francescanesimo e cultura nella provincia di Catania. Atti del convegno di studio (Catania, 21-22 dicembre 2007), Palermo 2008, 267-287. 16 Per il monastero Sant’Agata: ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 2, 14
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Ad un paio d’anni dalla soppressione, nella sua prima relazione ad limina (15 agosto 1869), l’arcivescovo Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894), già abate di San Nicola l’Arena, informa sulla situazione delle comunità monastiche femminili. Soltanto uno dei cinque monasteri benedettini, quello della Santissima Trinità, è stato chiuso e le monache trasferite in altri due monasteri dello stesso ordine: ne è entrata in possesso l’amministrazione provinciale che lo ha trasformato in educandato femminile17. Attesta l’osservanza della clausura ma deplora inadempienze nella disciplina sulla vita comune. Si è già impegnato ad estirpare abusi, in special modo il vezzo di fare doni ai confessori. Per l’applicazione della legge i monasteri non hanno più risorse finanziarie. Condizione questa che Dusmet considera provvidenziale: le monache possono meglio impegnarsi ad osservare in modo radicale la Regola, presupposto che in futuro, auspica l’arcivescovo benedettino, meglio avrebbe potuto favorire nuove vocazioni religiose18. L’applicazione della legge erode di fatto il patrimonio dei monasteri femminili ma lascia sostanzialmente intatta la composizione e la vita delle comunità monastiche. Al 30 maggio 1878 nelle quattro comunità della città di Catania vi sono ancora 117 monache benedettine. Altre 46 erano nei monasteri di Adrano, Bronte e Paternò. In diocesi restano in attività anche due monasteri di clarisse, con 46 monache, a Catania e Adrano. Mentre in tutta la provincia (con paesi della diocesi di Catania, Acireale, Caltagirone e Nicosia), il censimento fasc. 3, al 1 agosto 1866; monastero San Benedetto: ibid., carpetta 3, fasc. 1, al 19 maggio 1867; monastero San Giuliano: ibid., carpetta 8, fasc. 6, al 12 maggio 1866; monastero San Placido: ibid., carpetta 13, fasc. 3, al 29 maggio 1867; monastero Santissima Trinità: ibid., carpetta 18, fasc. 2 al 19 giugno 1866. Per San Giuliano, si veda ora: S. M. CALOGERO, La badia di San Giuliano in via Crociferi: da monastero di clausura a Camera del Lavoro, Catania 2010. 17 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1869-1890), in Synaxis 14/2 (1996) 278. La sorte del monastero della Santissima Trinità è attestata pure dal questore al prefetto: CATANIA. ARCHIVIO DI STATO (=AS), Prefettura. Affari generali, Inv. 14, pacco 234, fasc. 4. La consegna della chiesa avviene il 20 luglio 1869: ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. f): Santissima Trinità. 18 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1869-1890), cit., 285-286. Nelle successive relazioni ad limina Dusmet fa un semplice richiamo alla persistente presenza in diocesi di comunità monastiche femminili.
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trasmesso dalla prefettura al Ministero dell’Interno registra ancora in attività 37 monasteri con complessive 525 monache19. Una composizione più dettagliata delle comunità benedettine cittadine è comunicata dal questore al prefetto a 16 ani esatti dall’approvazione della legge (7 luglio 1882): in San Giuliano 26 monache, 2 educande e 16 inservienti; in Sant’Agata 18 monache, 2 educande e 14 inservienti; in San Placido 12 monache, 2 temporaneamente fuori monastero per motivi di salute, 6 converse e 14 inservienti; in San Benedetto 30 monache, 7 assistenti e 24 inservienti20. In totale sono ancora presenti in città 88 monache con 85 educande ed inservienti, che vivono con loro nei quattro monasteri. Nei primi anni del Novecento la vita monastica benedettina femminile resiste ancora nelle quattro comunità rimaste in vita nella città di Catania nonostante la legge di soppressione. Le registra il nuovo arcivescovo il card. Giuseppe Francica Nava (1895-1928) nella relazione ad limina del 1908. Le monache sono ora sensibilmente ridotte di numero, anziane e in precarie condizioni di salute. Per quanto possono, tenendo conto anche del contesto culturale e sociale di quegli anni, vivono l’osservanza della Regola e osservano inviolata la clausura monastica. Prive ormai di rendite, si mantengono con la pensione annua versata dalle autorità civili. L’arcivescovo dichiara di non dover intervenire per eliminare abusi gravi e, per arginare il pericolo della loro totale estinzione, ha provveduto a riscattare dal Demanio uno dei monasteri, quello di San Benedetto21. Le monache vivono nei locali del proprio monastero e trovano nell’arcivescovo un tenace sostenitore del loro desiderio di potervi morire, nonostante si riducano ad un numero inferiore a sei per 19
Notizie sui monasteri femminili soppressi, a firma dal prefetto di Catania, in AS, Prefettura. Affari generali, Inv. 14, pacco 234, fasc. 4: monastero Sant’Agata: 20, monastero San Benedetto 22, monastero San Giuliano 20, monastero San Placido 20. Al 22 ottobre 1878 il loro numero è diminuito a causa della morte di alcune monache: monastero Sant’Agata: 17, monastero San Benedetto 54, monastero San Giuliano 19, monastero San Placido 19. Sono le monache cui l’Intendenza di Finanza corrisponde la pensione prevista dalla legge di soppressione: AS, Prefettura. Affari generali, Inv. 14, pacco 234, fasc. 4. 20 Il questore al prefetto, 7 luglio 1882: bid., fasc. 3. 21 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Congr. Concist., Relat. Dioec., Catania, 1908).
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comunità secondo quanto previsto dalla legge22. Francica Nava ne avvalora l’istanza facendo presenti le precarie condizioni di salute di alcune di esse, che ne impediscono il trasferimento, e la pessima impressione che avrebbe provocato nella popolazione l’accanimento dell’autorità pubblica su povere monache vecchie e inferme, qualcuna pure ultra ottuagenaria, paralitica e costretta a letto. Inoltre, l’arcivescovo fa presente che in ognuno dei monasteri vi sono delle donne, entratevi magari come educande, ma ormai anch’esse anziane e senza parenti, che si prendono cura delle monache fin da quando erano in età giovanile23. Fatta eccezione per il monastero di San Benedetto, le altre tre comunità chiudono progressivamente la loro esistenza negli anni successivi. Il monastero di San Giuliano, dove erano state trasferite alcune monache della Santissima Trinità, chiude nel 1919 e i locali con la chiesa vengono consegnati al Demanio24. Nel monastero di Sant’Agata, al 25 agosto 1917, vi sono 7 monache ormai molto vecchie, una centenaria e paralitica bloccata a letto. Con loro vivono necessariamente 6 zitelle per la gestione del monastero e altre 5 a servizio delle singole monache. Al 1923 le monache sono ancora in monastero ma ne occupano ormai soltanto una parte, mentre l’altra è destinata ad usi diversi dall’amministrazione comunale25. L’ultima monaca muore nel febbraio 1929, in condizioni di povertà, e in monastero restano a vivere alcune zitelle che da circa 60 anni sono in clausura26. Nel 1911 le 22 L’art. 6 prevedeva che le comunità «ridotte al numero di sei, potranno venire concentrate in altra casa»: G. D’AMELIO, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano 1961, 529. 23 ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4: ampie testimonianze nei diversi fascicoli relativi ai monasteri. 24 Ibid. fasc. b): San Giuliano. 25 Ibid., fasc. d): Sant’Agata. Nei primi giorni di novembre del 1917 muore la prioressa. 26 Anche le monache di questo monastero hanno del denaro nella cassa diocesana. Ma l’ultima monaca e le zitelle si riducono a vivere di stenti perché la curia decide di «conservare i capitali alla chiesa» e assegnare loro la rendita annua senza decurtare il capitale. «Il fine era santo, […] ma il mezzo non fu né equo, né prudente, perché nel monastero, a causa del rincaro universale, si tirava una vita piena di stenti fino quasi alla fame, e fino al freddo»». Memoria del rettore della chiesa mons. Salvatore Fazio
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monache di San Placido, poiché il loro numero si riduce al disotto di quello stabilito dalla legge di soppressione, sono costrette a lasciare il monastero al municipio. Decidono di trasferirsi in una casa autonoma attorniata da un orto, in un quartiere della città, acquistata da loro ma a nome dell’arcivescovo Francica Nava. Non potendo osservare pienamente l’obbligo della clausura, ottengono che venga mutata da papale in vescovile. L’ultima monaca muore nel 1928 e l’arcivescovo ne devolve beni e capitali a favore del monastero di San Benedetto27. Le poche monache del monastero di San Benedetto, accudite anch’esse da un gruppo di donne in età avanzata, entrate come educande prima della soppressione, accolgono nel 1910 le due monache fatte venire da Ronco di Griffa. Il loro arrivo si innesta in un contesto diocesano di pastorale femminile e di dinamico inserimento delle nuove modalità di vita consacrata sviluppatesi nel corso dell’Ottocento e in diocesi volute dall’arcivescovo Dusmet. 3. PASTORALE AL FEMMINILE A CATANIA Il primo decennio del Novecento, grazie all’impulso dato da Francica Nava, vede avviarsi in diocesi la promozione e lo sviluppo di un’inedita pastorale femminile che favorisce la progressiva acquisizione di un vivace e zelante ruolo ecclesiale e sociale della donna28. La pastorale femminile è segnata da forme associative destinate proprio alla formazione delle ragazze per educarle a vivere la condizione di donne cristiane in uno dei due ruoli sociali loro riconosciuti: spose e madri in famiglia, oppure suore e, progressivamente, consacrate laiche, con un graduale ma deciso superamento della consolidata presenza delle monache di casa. Espressione del tutto privilegiata di associazionismo femminile è la sul monastero di S. Agata: 10 marzo 1931, in ASD, Fondo episcopati. Mons. Carmelo Patané: chiese di Catania, S. Agata al Monastero. 27 ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4, fasc. e): San Placido. 28 Una visione più ampia e articolata, in G. ZITO, Una scommessa della Provvidenza. Maria Marletta nella Chiesa di Catania, Catania 2001.
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Pia Unione delle Figlie di Maria, posta sotto il patrocinio dell’Immacolata e di Sant’Agnese, per questo motivo dette anche Agnesine. Associazione promossa fin dalla prima riunione della conferenza episcopale siciliana tenutasi nel 1891. I vescovi, in considerazione dei pericoli per la donna attribuiti alla società moderna, ritengono ormai insufficiente la sola istruzione catechistica per educare le ragazze ad essere buone cristiane. Dispongono, pertanto, che il clero si premuri ad istituire gruppi delle Figlie di Maria in ogni parrocchia, «conoscendosi per l’esperienza che da esse ben regolate ci viene il maggior numero […] delle verginelle intemerate e delle buone madri di famiglia». Nella diocesi di Catania Francica Nava ne chiede una capillare istituzione e stabilisce che tali gruppi siano frutto privilegiato e duraturo della generale missione indetta nel 1901. Appello reiterato in occasione del cinquantesimo anniversario del dogma dell’Immacolata Concezione. Tra il 1899 e il 1924 vengono istituti in diocesi 43 gruppi della Pia Unione delle Figlie di Maria. Gruppi parrocchiali che in diversi casi sono composti da 150 e da oltre 200 ragazze. Oltre alle Figlie di Maria vi sono pure altre forme di associazionismo femminile, di fondazione locale o legate ad antiche e nuove forme di vita consacrata. Realtà che promuove, ovviamente, un cammino spirituale aperto alla risposta vocazionale, con il conseguente sviluppo dell’impianto di comunità religiose femminile di vita attiva e, in seguito, di consacrate laiche in un primo tempo secondo la regola di Sant’Angela Merici e, poi, dell’Opera della Regalità. Le nuove forme di consacrazione religiosa femminile erano state promosse in diocesi fin dagli anni Settanta dell’Ottocento dall’arcivescovo Dusmet. Verso la fine dell’Ottocento in città sono presenti: le Figlie della Carità, fatte venire per prime, operanti in sette istituzioni assistenziali e caritative; le Piccole Suore dei Poveri nell’Asilo Sant’Agata, a servizio dei vecchi indigenti; le Figlie di Maria Ausiliatrice in due case, altre due a Bronte e una a Trecastagni; le Figlie di Sant’Anna a Catania e Adrano. Col successore Francica Nava la presenza delle religiose vede un progressivo sviluppo. Nel 1913 operano a Catania, anche con più di una comunità, le Figlie della Carità, le Figlie di Sant’Anna, le Figlie di Maria Ausiliatrice, le Piccole Suore dei Poveri, le Figlie della Miseri-
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cordia e della Croce, le Serve dei Poveri del Boccone del Povero. Nei comuni della diocesi, oltre alle Salesiane di don Bosco, operano le Figlie di Sant’Anna ad Adrano e le Figlie della Misericordia e della Croce a Paternò. Un ruolo particolare, a favore dell’educazione cristiana delle ragazze, svolge la prima ispettrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice madre Maddalena Morano (1847-1908, beatificata nel 1994), piemontese ma in diocesi dal 1881 e vi resta fino alla morte, alla quale l’arcivescovo affida pure la responsabilità di organizzare e seguire la catechesi femminile in città. La simbiosi tra pastorale femminile e inserimento di congregazioni religiose fondate altrove contribuisce in modo determinante a stimolare la sensibilità spirituale e sociale di ecclesiastici e donne della diocesi, promuovendo pure l’esordio di forme locali di consacrazione. Le Suore del Patrocinio di San Giuseppe nella “Casa della Grazia” a Catania sono istituite nel 1902 dal canonico Francesco Forcisi (18401911) per l’assistenza di fanciulle povere ed orfane. Anche le Suore della Sacra Famiglia sono istituite a favore delle bambine orfane e povere nel comune di San Giovanni la Punta, nel 1896, dal sacerdote Domenico Zappalà (1846-1918). Ma, come altre volte accaduto, in entrambi i casi non si trova chi si assuma la loro guida e si estinguono dopo la morte dei due ecclesiastici. Sorte migliore hanno, invece, altre due fondazioni diocesane. Le Suore Sacramentine, evoluzione delle Dame Sacramentine, nate da un’intelligente e intensa predicazione e pastorale eucaristica, anche con l’apporto di pubblicazioni apposite, messe in atto da una delle figure più zelanti ed esemplari del clero catanese: il canonico Tullio Allegra (1862-1934). Rende la chiesa cittadina di Sant’Euplo, dove è rettore, centro di spiritualità e di formazione per donne ed uomini. A lui, cieco dal 1900, si deve pure la celebrazione del primo congresso eucaristico diocesano (1905)29. Le Suore Serve della Divina Provvidenza, anche loro successiva forma di consacrazione religiosa di una informale associazione di un gruppo di donne laiche aggregate dalla caparbia volontà di una giovane donna, Maria Marletta (1889-1966), 29 G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 369-374; ID., Sacramentine di Catania, in DIP, 8, 166-168.
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che ha a cuore la sorte delle ragazze a rischio di essere iniziate alla prostituzione e apre a loro favore una casa famiglia. La sollecitudine di Francica Nava a favore delle monache benedettine, ormai sulla via dell’estinzione a causa della legge di soppressione, si comprende meglio nell’ambito del contesto appena richiamato. Ritiene suo dovere conservare alla città e alla diocesi di Catania la presenza e l’emblematica significatività ecclesiale della consacrazione claustrale. 4. IL MONASTERO SAN BENEDETTO SALVATO DALLA SOPPRESSIONE All’inizio del Novecento la comunità del monastero di San Benedetto è ormai avviata verso un irrimediabile declino, come le comunità degli altri tre monasteri benedettini femminili ancora in vita. Il raffronto tra il dato del 1882 e quello del 1905 rende in modo evidente la prospettiva cui è destinato anche questo monastero nell’arco di appena più di venti anni. Al 25 settembre 1882 vi sono in monastero 30 monache, 7 educande e 24 donne zitelle per il servizio alle monache; insieme a 9 monache, una novizia e 6 zitelle provenienti dal monastero della Santissima Trinità: 78 donne in tutto30. Ad agosto del 1905 la riduzione è talmente consistente e la certezza della irreversibilità così ineluttabile che angoscia ormai tanto le monache rimaste che l’arcivescovo. Le monache sono ridotte ad appena 5: la badessa suor Agnese Noce, la priora suor Battistina Tornabene e suor Scolastica Musumeci; due sono ancora le monache provenienti dal monastero della Santissima Trinità: suor Rosa e suor Faustina Tornabene; vi sono ancora due novizie ormai “a vita”, una appartenente al monastero di San Benedetto e l’altra quello della Santissima Trinità, perché rimaste tali dopo la legge di soppressione; e 5 educande31. La situazione della comunità monastica di San Benedetto, rispetto alle altre comunità claustrali, sta particolarmente a cuore a Francica Nava anche perché il palazzo di famiglia, dove egli si trasferisce 30
ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 1. ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. a): San Benedetto. 31
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dall’arcivescovado per risiedervi di frequente, si trova dirimpetto al monastero. La convinzione che ormai la comunità è destinata a chiudere e che l’immobile verrebbe requisito dalle autorità governative lo assilla, soprattutto a seguito della riduzione del numero delle monache di una unità al di sotto delle 6 previsto dalla legge di soppressione. Il 28 giugno 1905, infatti, dall’ufficio del Demanio di Catania, per conto della Direzione Generale del Fondo per il Culto, gli viene chiesto di comunicare alle monache l’obbligo di trasferirsi in altro monastero. Francica Nava, a loro nome, chiede che le lascino nel monastero dove hanno sempre vissuto, in considerazione dell’età e delle gravi condizioni di salute; il trasferimento di qualcuna, in particolare, potrebbe pure metterne a rischio la vita32. È a questo punto che Francica Nava matura la decisione di verificare la possibilità di riscattare tutto l’immobile a favore delle monache e avvia l’iter presso i dicasteri della curia romana. Il 31 maggio 1907 la Commissione cardinalizia per le opere di religione, presieduta dal card. Beniamino Cavicchioni, lo autorizza a ritirare 40.000 lire, dal denaro delle monache depositato nella cassa diocesana, per acquistare il monastero33. L’operazione va a buon fine e il 18 ottobre 1909 l’arcivescovo ne fa relazione al prefetto della Congregazione del Concilio, card. Casimiro Gennari. Il monastero è stato acquistato con lo scopo di lasciarvi le monache (di San Benedetto), ormai in pericolo di essere espulse perché ridotte sotto il numero previsto dalla legge di soppressione, e concentrarvi quelle degli altri monasteri della città e diocesi minacciate continuamente di sfratto in ossequio alla suddetta legge. L’acquisto è stato fatto con la somma prelevata, su autorizzazione della Santa Sede, dalle somme depositate dalle stesse monache nella Cassa Diocesana, il cui interesse viene destinato stabilmente al loro sostentamento. «L’immobile comparisce come proprietà mia privata 32
L.c. ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 4. L’amministrazione comunale e la Prefettura avevano rifiutato il monastero e la chiesa perché ritenuti insicuri e di vecchia costruzione. Il costo complessivo del riscatto pare si sia aggirato intorno ad un milione di lire e Francica Nava paga «pur convinto com’era che gli si chiedesse il superfluo»: A. TOSCANO DEODATI, Il cardinale G. Francica Nava, arcivescovo di Catania, Milano, 308. 33
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e sto studiando il modo come assicurarne la reale proprietà all’ente, senza pericolo che potesse per qualunque pretesto essere confiscato dalle leggi eversive». Con l’avallo delle monache, chiede ora l’utilizzo di altre 15-20.000 lire da prelevare dal loro stesso deposito per eseguire lavori di miglioria all’immobile, resisi indispensabili poiché, dopo l’entrata in vigore della legge di soppressione, non era stato più possibile intervenire per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Migliorie che avrebbero permesso di affittare alcuni locali del monastero con una rendita annua di 2000 lire circa. Nella cassa diocesana, comunque, restavano ancora alle monache 175.000 lire di titoli del Gran Libro del Deposito e Prestito34. Recuperato l’immobile e garantita una rendita annua alla comunità monastica, Francica Nava può ora provvedere a garantire un futuro alla vita claustrale a Catania. Sa di non poter contare su nessuna di quelle rimaste nei quattro monasteri cittadini, o negli altri della Sicilia, e la badessa del monastero di San Benedetto non è più in grado di poter esercitare il suo ufficio. Espone quindi la gravità della situazione al pontefice e chiede di poter ottenere il trasferimento da altro monastero di una monaca in grado di poter garantire la regolare osservanza e ridare vigore alla vita claustrale: «Si sente quindi un bisogno estremo di una superiora giovane, che prenda le redini del governo, e se è possibile, ricostituisca una nuova vita nella comunità, aprendo un noviziato, pel quale ci sono alcune domande, anche da parte delle presenti educande. La stessa Badessa lo desidera ardentemente ed è disposta a rimettere nelle mani di Vostra Santità il suo ufficio. L’Eminentissimo Oratore dubita assai che possa trovare in Sicilia una religiosa che abbia tutte le doti di un’ottima superiora, quale conviene che sia per una nuova comunità. Ora in questo estremo bisogno l’Oratore ricorre alla Santità Vostra onde trovare più facilmente detta religiosa e può anche autorevolmente indurla ad accettare detto incarico. L’affare è più urgente di quel che non si crede, poiché la Badessa attuale ha passato gli 80 anni e soffre un male grave, che potrebbe condurla da un momento all’altro alla tomba. Si fa conoscere che il monastero, oltre un grandioso fabbricato, che 34
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ha parecchi corpi redditizi, possiede una rendita annua di lire ottomila circa, con le quali si mantiene la comunità ed il culto della bella Chiesa. Le educande pagano inoltre una tenue retta quadrimestrale»35.
Il 18 agosto 1909 dalla Sacra Congregazione dei religiosi ottiene la facoltà chiesta. Ma come individuare monastero e monache che abbiano energie e forte spirito religioso per farsi carico delle vecchie monache e, al contempo, dar vita ad un processo di rinascita della comunità claustrale? 5. LE “NUOVE” MONACHE La soppressione del 1866 aveva colpito i monasteri di tutta la penisola. Nondimeno diverse comunità erano riuscite a superare la crisi, muovendosi essenzialmente in una duplice direzione: affrontare con coraggio le precarie condizioni economiche, sostenendosi con le elemosine e l’irrisoria pensione accordata loro dal Fondo culto; continuare ad accettare ragazze per il noviziato, con l’espediente di farle figurare come inservienti delle vecchie monache. Giacomo Martina, in un suo fondamentale saggio36, ricorda come la legge del 1866 non proibiva di per sé l’accettazione di novizie ma l’interpretazione datane dalle autorità governative fu radicale e più volte, con apposite circolari, ancora a venti anni di distanza, intervenivano con fermezza per impedire ammissioni di novizie e nuove professioni monastiche. Di fatto, la legge e le circolari ministeriali non riescono a sconfiggere la resistenza delle monache che, al contrario, man mano determinano la soppressione della normativa che voleva sopprimerle. Nei monasteri benedettini catanesi al momento dell’esecuzione della legge del 1866 vi erano novizie, educande e donne gran parte delle quali, entrate sotto forma di servizio alla comunità monastica, erano destinate alla vita claustrale. Le incertezze per il loro futuro 35
ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. a): San Benedetto. 36 G. MARTINA, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878). Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola 31 agosto – 5 settembre 1971). Relazioni, I, Milano 1973, 237-239.
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avevano lasciato molto perplesso l’arcivescovo Dusmet che non aveva permesso la loro ammissione al noviziato e la professione solenne di altre monache37. Anche Francica Nava mantiene tale orientamento, sebbene permetta l’ingresso in monastero di educande. Ma il diniego alla professione monastica presenta ora anche un altro aspetto. Le novizie sono ormai in età molto avanzata e sulle eventuali motivazioni vocazionali alla vita claustrale prevale, verosimilmente, la pluridecennale assuefazione alla vita in monastero. Per realizzare il suo progetto a favore della comunità di San Benedetto, Francica Nava non riesce ad individuare un monastero cui rivolgersi. Sa, però, di poter contare sulla riverenza e l’oculata conoscenza di comunità religiose di un giovane prete siciliano, Giuseppe Vizzini (1874-1935). Docente alla Pontifica Università Lateranense, è uomo di fiducia di Pio X che gli affida la visita apostolica anche di comunità monastiche femminili e nel 1913, appena trentanovenne, lo nomina vescovo di Noto38. È a lui che l’arcivescovo chiede quale monastero benedettino fosse nelle condizioni di inviare almeno una monaca cui affidare la ripresa della vita claustrale a Catania. Pur avendo visitato di recente alcuni monasteri, tra cui quelli di Eboli e Fossano, Vizzini ritiene di non aver incontrato ancora monache in grado di rispondere alla richiesta di Francica Nava. Lo assicura, nondimeno, di potergli dare presto una risposta positiva dopo essersi rivolto ad un suo amico, «benedettino olivetano, lombardo, che è stato incaricato dalla S. C. dei Religiosi di visitare alcuni monasteri»39. Ed infatti, il 9 gennaio 1910 Vizzini può comunicare a Francica Nava «un progetto concreto per la sistemazione del suo monastero benedettino». Ha ricevuto la risposta dall’amico olivetano, Celestino 37 Chiedeva come comportarsi nella prima relazione ad limina del 1869: Longhitano, in Synaxis 14/2 (1996) 289. Nella risposta, la Sacra Congregazione del Concilio lo invita a rivolgersi alla Sacra Congregazione dei vescovi e regolari: ibid., 294. Non risulta, comunque, che durante il suo episcopato siano state permesse professioni monastiche. 38 G. SALETTI, Mons. Giuseppe Vizzini. Vescovo di Noto, antico professore della Pontificia Università Lateranense, Roma 1965; S. GUASTELLA, I vescovi della diocesi di Noto, Noto 2002. 39 Lettera del 4 novembre 1909, inviata da Mondovì dove si trovava in visita apostolica: ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3.
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Colombo: «persona molto stimata a Roma; più volte è stato mandato visitatore apostolico dei monasteri: e ciò è un buon segno»40. Questi gli dà ottime referenze su una benedettina dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento, suor Scolastica Sala, del monastero di Ronco di Ghiffa, già priora a Seregno dal 1894 al 1900: «dal momento che D. Celestino garantisce la religiosa, credo che si tratti di un soggetto veramente serio»41. Colombo aveva chiesto alla comunità se vi fosse qualche monaca disposta a trasferirsi a Catania. La cronaca del monastero registra che «più a titolo di novità che altro, […] si rise dapprima come a cosa mai pensata»42. L’invito arriva in un momento particolare della vita della comunità: è ancora in fase di assestamento dopo il trasferimento da Seregno nel 1906. Come pure, se si considera il momento storico generale, va osservato che non può meravigliare la reazione delle monache, almeno per due ragioni. Sono state educate a considerare dimora definitiva il proprio monastero, dove hanno emesso il voto di stabilità. Di conseguenza, allontanarsene mette in discussione un aspetto peculiare della loro consacrazione. Se conoscono, poi, la posizione geografica di Catania, è probabile che non abbiano cognizione di come poterla raggiungere o, quanto meno, si rappresentano i disagi che un viaggio così lungo comporterebbe per delle monache di clausura. Ciononostante, suor Scolastica manifesta subito e con entusiasmo la sua disponibilità a trasferirsi a Catania. Presi gli opportuni accordi con il monaco olivetano, il 30 marzo 1910 Francica Nava scrive a suor Scolastica per prospettarle la situazione della comunità catanese, il ruolo che avrebbe dovuto svolgervi e la condizione giuridico-econo40
Celestino Colombo (1874-1935), a seguito della predicazione di un corso di esercizi spirituali alle monache, nel 1899, prima del trasferimento della comunità da Seregno a Ronco di Ghiffa, diventa il loro “padre”: se ne prenderà attenta e zelante cura, nella qualità di confessore, direttore spirituale, superiore ecclesiastico, consigliere e guida fino alla sua morte: F. CONSOLINI, Padre Celestino Maria Colombo e le Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento in Italia, in Deus absconditus 86 (1995) inserto di 36 pp. al fasc. 3. 41 ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3. Sull’istituto, cfr. G. LUNARDI, Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento, in DIP, 1, 12551258. 42 ARCHIVIO DEL MONASTERO DI RONCO DI GHIFFA (=AMRG), Annali, 1910, 96.
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mica del monastero, dandole le massime garanzie per la sua venuta ed eventualmente per il suo ritorno a Ghiffa qualora, compiuta la missione, non volesse restare a Catania: «Attualmente esiste nel Monastero una prioressa, ma questa è assai avanzata negli anni, e per i suoi acciacchi non può quasi muoversi dalla sua cella. Del resto non ha doti per governare. Ciò non ostante la comunità si regge benino perchè la sig.a Abbadessa, morta pochi mesi fa, impresse nelle moniali e nelle educande un vero spirito di sottomissione, ubbidienza e pietà. Io ne ho una immediata cura, e mi accorgo che in tutta la comunità regna pace e concordia. Non esistono più moniali professe, all’infuori della prioressa, perchè io non ho permesso alcuna monacazione sino a tanto non fosse comprato il monastero, ciò che è avvenuto qualche anno fa. Quindi la comunità non è composta che di vecchie novizie (due solamente) e di educande, gran parte giovani, le quali desiderano monacarsi. Ecco lo stato della Comunità presente. Ella è desiderata, perchè dia un conveniente indirizzo alle novizie e alle moniali che si devono formare. Troverà un terreno fertile che darà gran frutto di consolazioni alle sue fatiche. Il monastero è ampiissimo, capace di contenere comodamente da 60 a 70 monache. Vi ha una chiesa assai bella, che è una delle migliori di questa città, e vi si compiono tutte le funzioni dell’anno con tutta la pompa del rito. La rendita è sufficiente pel decoroso mantenimento della comunità e della Chiesa. Ella sarebbe, naturalmente, mantenuta a spese del Monastero, e pagherebbe anch’esso le spese di viaggio e tutt’altro che occorrerebbe per la sua venuta e ritorno, se Ella, compiuta la missione, non volesse fermarsi in questa città»43.
La invita, inoltre, a considerare l’opportunità di portare con sé una consorella «affinché Ella avesse una compagna della stessa regione con la quale potesse comunicare con più confidenza le sue idee, e dalla quale potesse essere più facilmente aiutata in qualità di maestra delle novizie. Ma se non è facile trovarla non occorre preoccuparsi. Ci sarà qui chi potrà disimpegnare lo stesso ufficio». In considerazione delle garanzie fornite dall’arcivescovo, la comunità di Ronco di Ghiffa, in seduta capitolare, decide di inviare due 43 AMRG, Carteggi, Catania. Per la chiesa del monastero, cfr. A. DILLON, La chiesa di San Benedetto a Catania e gli affreschi di Giovanni Tuccari, Catania 1950.
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monache, suor Scolastica Sala e suor Matilde Malinverno44, «quest’ultima non quale Maestra delle Novizie, ma quasi una loro sorella maggiore che col buon esempio faciliti l’azione di M. Scolastica e le serva insieme di compagnia nel viaggio e nel soggiorno»45. Inizia, così, un capitolo nuovo della storia delle Benedettine dell’adorazione perpetua in Italia che diviene pure apporto peculiare alla storia di donne consacrate. La notizia è accolta a Catania con particolare soddisfazione, nella certezza che la vita claustrale finalmente avrebbe ripreso vigore. Con i ringraziamenti di Francica Nava, a madre Caterina Lavizzari pervengono pure quelli della priora di San Benedetto, insieme alla garanzia di ubbidire alla nuova superiora, suor Scolastica, «ciecamente e allegramente come ci prescrive la S. Regola»46. Il 19 maggio 1910 Colombo, in qualità di superiore ecclesiastico del monastero, accorda alle due monache il permesso di recarsi a Catania e addita loro i mezzi per conseguire la perfezione religiosa e la santificazione personale e della nuova comunità: l’umiltà, l’abbandono in Dio, lo zelo prudente, la fede viva e la «giustizia d’amore» nel giudicare, il «non abbracciate 44
Sulle due monache ottime referenze dà a Francica Nava il vescovo di Novara, Giuseppe Gamba, il 6 settembre 1910: «Sono poi in grado di poter assicurare V. E. che le due monache inviate sono veramente buone, piene dello spirito religioso ed anche capaci a governare cotesto monastero conforme ai santi desiderii di V. E.. Esse infatti erano due religiose delle più distinte per ogni riguardo qui nella Comunità, della quale io devo lodarmi sinceramente»: ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3. 45 Lettera della priora di Ronco di Ghiffa, madre Caterina Lavizzari, a Francica Nava, 13 aprile 1910: ibid.. Luigia Lavizzari (1867-1931) emette la professione monastica nel 1891 col nome di suor Maria Caterina di Gesù Bambino; dopo qualche anno di vice priora e maestra delle novizie, è priora della comunità dal 1900 alla morte. Al suo coraggio, sostenuta da Celestino Colombo, si deve la decisione di inviare monache in altri monasteri della penisola. Nel 1956 si è aperto il processo informativo diocesano per la causa di beatificazione: La serva di Dio madre Caterina di Gesù Bambino: Luigia nob. Lavizzari 1867-1931, priora delle Benedettine Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento Ronco - Ghiffa (Prov. Novara), Borla, Torino 1965; CONGREGATIO PRO CAUSIS SANCTORUM. NOVARIEN., Canonizationis Servae Dei Caterina a Jesus Infante (Luigia Lavizzari), Priorissae e Sororibus Benedectinis a SS. Sacramento Adorationis et Reparationis Perpetuae Monasterii Ghiffae ad Runchum (1867-1931). Positio super vita et virtutibus, 2 voll., Romae 1995 (=Positio). 46 Lettere del 17 e 18 aprile 1910, in AMRG, Carteggi, Catania.
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molte cose» da fare, la quotidiana lettura del «perfettissimo codice della nostra santificazione», cioè la Regola benedettina47. La partenza da Ronco di Ghiffa avviene il 21 maggio. Prima di giungere a Catania, il 25 maggio, sostano al santuario di Loreto; da Colombo, priore nel monastero olivetano di Foligno; da Vizzini a Roma, che ottiene loro un’udienza pontificia; alla tomba di San Benedetto a Montecassino48. Ricevono una calorosa accoglienza dall’arcivescovo, il quale ne riporta un’ottima impressione, e dalla comunità49 che trovano composta da «una sola Religiosa vecchia col titolo di Prioressa; le altre tutte vecchie educande con due sole novizie vestite del S. Abito da circa cinquant’anni che aspettavano il momento sospirato di poter assecondare i loro santi desideri. La Comunità era composta di ventisette soggetti, tutte di buono spirito, ma per nulla abituate alla vita religiosa». Vi persiste, inoltre, il vecchio abuso di molti confessori, ben sei, «che nuocevano molto con la diversa direzione producendo continui pettegolezzi»50. 47 «Durante la vostra dimora in Catania abbiate sempre in mente che Iddio vi à quivi condotte per la vostra santificazione: lavorate, lavorate, dilette figlie, a vincere i difetti che accompagnano la vostra miseria; e se fino ad oggi il vostro lavoro di perfezione si limitava in voi e per voi, sappiate che in seguito dovrà estendersi anche ad altrui favore». CATANIA. ARCHIVIO MONASTERO SAN BENEDETTO (AMSB), Carpetta Cenni storici. 48 Durante la traghettata «che momento d’angosciosa agonia! Mi si rappresentava la mia diletta M.a Priora che avevo lasciata, il mio Convento... l’idea fosca fosca di quello che avrei trovato... insomma fu tale il dolore che se mi fossi trovata a Genova, sarei stata tentata di ritornare»: AMSB, Annali del Monastero San Benedetto, 19101953, 5. Ampi stralci degli «Appunti» di suor Scolastica Sala sono editi in Tibi honor tibi gloria. 26 maggio 1910 - 1960, a ricordo del cinquantesimo della fondazione delle Benedettine del SS. Sacramento nel monastero S. Benedetto in Catania, Catania 1960, 25-29. Gli Annali del Monastero sono stati assunti come fonte per la stesura del volume a ricordo del centenario della fondazione: Come pietre vive… Le Benedettine dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento a Catania, Catania 2010. 49 Lettera di Francica Nava a madre Caterina: 27 maggio 1910, in AMRG, Carteggi, Catania. A circa un mese dal loro arrivo, l’anziana prioressa, suor Scolastica Musumeci, tesse a madre Caterina gli elogi delle due suore: «E di nostra Madre Superiora Scolastica che dirle? Non so di dove incominciare, tutte le virtù si trovano in lei, che Dio possa darmi grazia benché vecchia di poterle in me ricopiare; ma poi è così cara, che solo vederla io mi sento rinvigorire; e lo stesso posso dirle di quell’angioletta di S.r M.a Matilde, che è un vero esemplare a chiunque ha la fortuna di avvicinarla»: l.c. 50 AMSB, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 6-7.
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Motivo di particolare consolazione, fin dall’arrivo a Catania, è per suor Scolastica Sala l’incontro con il già ricordato, canonico Tullio Allegra: «La ringrazio — scrive all’arcivescovo — d’averci mandato quel Santo e venerabile Canonico Allegra che colla serafica sua parola ci fece gustare momenti di paradiso! Per me, reputo una singolarissima grazia l’averlo avvicinato e conosciuto! Dio è veramente mirabile ne’ suoi Santi!»51. 6. IL NUOVO CORSO DI VITA MONASTICA Ma l’inizio della regolare ripresa della vita claustrale è impedito da alcune situazioni incancrenitesi con gli anni. Anzitutto, le due nipoti della defunta badessa continuano a vivere in monastero. La loro non è una semplice presenza. Nel corso degli ultimi anni, grazie soprattutto al sostegno del segretario arcivescovile, Giovanni Licitri, confessore di una di loro, hanno consolidato un ruolo di governo del monastero, detenendone pure l’amministrazione. Ulteriore conseguenza della gravità degli effetti prodotti dalla legge di soppressione. L’opera di riforma intrapresa dalle due monache “forestiere” e la disponibilità ad obbedire a queste da parte di chi si trova in monastero, ovviamente le irrita. Fanno di tutto, pertanto per screditare suor Scolastica e suor Matilde, inducendo lo stesso Francica Nava, col sostegno di Licitri, a prestar fede «alle false accuse». La situazione diviene talmente intollerabile che Colombo, quando in agosto viene a visitare la comunità, «trovò le cose ben imbrogliate e fu lì lì per farci ritornare al nostro Monastero»52. L’arcivescovo, assente a lungo dalla città per la visita pastorale, interviene ora in modo drastico per sostenere l’opera della nuova superiora e garantire la serena e corretta ripresa della vita claustrale: nomina un unico nuovo confessore per tutte; rimanda a casa quelle donne ritenute di disturbo e di peso alla comunità; concede alle due nipoti della defunta 51
Lettera a Francica Nava del 30 maggio 1910: ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3. Sarebbe interessante approfondire il rapporto tra l’Allegra e le Benedettine dell’Adorazione Perpetua, che trovano una Catania religiosa particolarmente sensibile alla pietà eucaristica. 52 AMSB, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 7.
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badessa, e a due altre donne più anziane, di vivere della carità del monastero, con due domestiche e in ambienti del tutto separati dalla clausura53. Per dare, poi, un regolare andamento anche alla portineria del monastero e ai servizi esterni, suor Scolastica ottiene da Ronco di Ghiffa un’oblata: suor Rosina Crippa (1869-1945). Il «foglio d’obbedienza» inviatole da Colombo il 14 luglio 1910 le delinea lo stile e il percorso di santità proprio di un’oblata: non «servigiana d’un gruppo di suore» bensì, nella carità, nella semplicità, nel timore filiale di Dio, nella conoscenza di se stessa e nella prudenza, chiamata ad essere «imitazione silenziosa e generosamente attiva» di Gesù Ostia che non sempre «sta rinchiuso nel Tabernacolo, spesso esce per le pubbliche vie». E le testimonianze concordano nell’affermare che a questi ideali suor Rosina seppe conformare la propria vita e l’umile servizio, al punto che negli Annali del monastero di Ronco di Ghiffa è ricordata come «un vero S. Felice da Cantalice»54. In poco più di due mesi le principali difficoltà per il nuovo corso del monastero di San Benedetto sono risolte e la comunità è ormai rinnovata. Un’altra questione Francica Nava intende ora affrontare: fare in modo che le monache possano gestire un istituto di educazione ed istruzione per le ragazze. Il progetto rientra nel clima della pastorale femminile diocesana, di cui si è già detto, ma è presumibile abbia per l’arcivescovo un’ulteriore doppia finalità. Anzitutto, evitare il rinfocolarsi delle polemiche ottocentesche sull’utilità sociale di conventi e, in special modo, dei monasteri di clausura. Polemiche non del tutto sopite visto che ancora vi sono monasteri in uso a monache e comunità religiose maschili che, destinate a scomparire dalla legge del 1866, ormai si sono riappropriate di parte dei loro vecchi conventi o ne hanno aperti di nuovi. L’altra finalità può desumersi dal clima culturale e sociale di Catania nei primi anni del Novecento. Clima controllato da una forte presenza 53
AMSB, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 7-9. Copia in AMRG, Carteggi, Catania. Dopo la morte di suor Rosina viene stampata una breve biografia per mantenerne viva la memoria almeno in coloro che l’hanno conosciuta: Suor Rosina Crippa religiosa oblata nel monastero delle Benedettine del SS. Sacramento in Catania, s.n.t. 54
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di massoni, laici e socialisti, che danno vita anche a manifestazioni anticlericali. In questo clima, il progetto di città moderna del socialista Giuseppe De Felice Giuffrida (1859-1920), sindaco e deputato al parlamento, mira a rendere Catania la Milano del Sud. Modernizzazione che, ovviamente, non lascia spazio sociale ai cattolici. In questa prospettiva, la decisione di municipalizzare i servizi pubblici include pure l’istruzione, soprattutto quella elementare. Questa, nel 1908-1909, può contare in città su 330 classi aperte e funzionanti, pur se quasi tutte collocate in locali in affitto. Ma è sulla scelta di maestre e di maestri che si consuma lo scontro tra i poteri forti della città: Municipio, Provveditorato e Consiglio scolastico provinciale. Alla scuola, in special modo, è affidato il compito di educare le nuove generazioni alla modernità che si esprime, di conseguenza, in un chiaro orientamento anticlericale55. Si comprende, allora, perché Francica Nava reputa necessario che anche le monache benedettine si dedichino alla formazione e all’istruzione delle ragazze, gestendo un educandato e una scuola56. A tal fine, chiede ed ottiene da Pio X, 10 agosto 1910, la mutazione della rigida clausura papale, cui il monastero è ancora sottoposto, nella più blanda clausura vescovile: «Beatissimo Padre, dei tanti Monasteri di religiose benedettine che un tempo erano fiorenti in questa Diocesi non rimane sicuro che quello di San Benedetto in Catania, perché fu da me comprato due anni fa dall’Amministrazione provinciale. Delle antiche monache ne sopravvive una sola, quasi ottuagenaria e piena d’acciacchi, sicché può osservare ben poco della regola e per ricostituire la comunità ho fatto venire due religiose benedettine del SS. Sacramento, le quali appartenevano al Monastero di Ronco di Griffa presso il Lago Maggiore. Io vorrei che la nuova comunità avesse lo stesso indirizzo e scopo di quella di Ronco, ammet55 G. GIARRIZZO, Catania, Roma-Bari 1986, 178; G. DI FAZIO, Giuseppe Di Stefano. Cattolici e mondo operaio a Catania, Torino 1997. 56 Particolarmente attive in questo settore, dalla fine dell’Ottocento, sono a Catania le suore Figlie di Maria Ausiliatrice, grazie allo zelo dell’ispettrice Madre Maddalena Morano, che nel 1899 ricevono dal Provveditorato l’autorizzazione per aprire la scuola elementare femminile e il convitto per le ragazze: G. ZITO, Educazione della donna in Sicilia tra Otto e Novecento. Le Figlie di Maria Ausiliatrice e Luigi Sturzo, Roma 2002.
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Gaetano Zito tendo le oblate e occupandosi dell’educazione e istruzione delle fanciulle esterne, per le quali non abbiamo che pochi istituti e insufficienti affatto al gran bisogno di una città di circa 200 mila anime. Ora ad ottenere tutto ciò è di ostacolo la clausura papale che ancora esiste nel detto Monastero per la sopravvivenza della monaca ottuagenaria. Per tale clausura non si possono ammettere le oblate che devono accompagnare le fanciulle esterne e provvedere ai bisogni della comunità, né si può aprire alcuna scuola entro il Monastero. Supplico quindi la S.V. a dispensare su tale precetto, commutandola in quella della clausura Vescovile»57.
Ma bisognerà attendere il 1915, e l’intelligente e vivace opera della nuova priora venuta da Ronco di Griffa nel 1912, madre Domenica Terruzzi (1869-1955), per l’apertura della scuola, che contribuirà a dare un apporto alla formazione cristiana della gioventù femminile della città e al sostentamento economico della comunità58. La concessione della clausura vescovile, però, in certo modo esprime un orientamento difforme da quanto lo stesso Pio X, poco meno di un anno prima, il 13 dicembre 1909, aveva chiesto ad un ordine religioso contemplativo, le Visitandine di Santa Giovanna Francesca di Chantal. Incerte se mantenere l’educandato, il pontefice le invita a dedicarsi esclusivamente alla contemplazione. Questa doveva essere la loro risposta alle esigenze dei tempi. L’attività educativa, per quanto utile, le avrebbe distratte dalla peculiare forma di consacra57 ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. a): San Benedetto. 58 G. SCALIA, Madre Domenica del S. Rosario priora del monastero S. Benedetto e la sua missione benedettina in Catania, Catania 1958, 113-120; COMUNITÀ MONASTICA DI CATANIA, Madre Domenica del Santo Rosario (1869-1955), in Deus Absconditus 100 (2009) 3, 21-24. Con regio decreto del 5 gennaio 1939, n. 419, in esecuzione del testamento olografo di Francica Nava, del 30 settembre 1925, l’istituto scolastico viene eretto in ente morale con la denominazione di “Pio Istituto educativo San Benedetto” e viene approvato il relativo statuto: MINISTERO DELL’EDUCAZIONE NAZIONALE, Bollettino ufficiale. 1. Leggi decreti, regolamenti e altre disposizioni generali, n. 12 del 21 marzo 1939. A favore del monastero San Benedetto Francica Nava devolve beni e capitali degli altri monasteri benedettini che man mano sono costretti a chiudere definitivamente: nel 1916 del monastero Santissima Trinità e, come ricordato, nel 1928 del monastero San Placido. ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. e): San Placido e fasc. f): Santissima Trinità.
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zione. Sull’esempio delle Visitandine, anche altri ordini monastici femminili si orientano a vivere una maggiore separazione dal mondo59. Per il nuovo corso della vita monastica nel monastero di San Benedetto, tuttavia, permane ancora l’ibrida situazione delle antiche educande. Vivono in monastero da molti anni e, come ricordato, tanto Dusmet che Francica Nava, «per le tristi ed incerte condizioni de’ tempi», non hanno permesso loro di emettere la professione religiosa. Fatta eccezione per qualcuna, nell’insieme si presentano come un buon gruppo che non ha dato mai motivo a severi interventi, al contrario hanno dato «prova costante di vera e solida pietà». Suor Scolastica, in verità, ben volentieri le rimanderebbe alle rispettive famiglie, in modo da iniziare una vita comunitaria libera dalle pastoie del passato. Francica Nava, per le anzidette ragioni e tenendo conto delle gravi difficoltà sociali cui sarebbero andate certamente incontro, ritiene piuttosto doveroso lasciarle in monastero «sino a quando la loro dimora non si opponga al buon ordine della comunità». Ma per non porre impedimenti all’opera della nuova superiora, dispone che si costituisca in monastero «una sezione distinta di più vergini ritirate, le quali, pur rimanendo sciolte dagli obblighi dei voti monastici e della vita comune, dipendano dalla medesima Superiora ed osservino esattamente il regolamento speciale che sarà loro imposto», trattandole con carità e prudenza e non alla stregua delle novizie o delle monache60. La vicenda lascia intravedere con evidenza un naturale momento di dissenso tra la nuova superiora e l’arcivescovo, per quanto in entrambi determinato da motivazioni in sé valide. In suor Scolastica prevale l’indubbio zelo, il retroterra culturale e religioso, l’urgenza di ripristinare una puntuale osservanza della Regola. Ragioni che non le permettono di accondiscendere ad una situazione ormai del tutto anacronistica per una comunità monastica. Da parte sua Francica Nava, in effetti, non considera ingiustificata la posizione di suor Scolastica e ritiene legittimo l’orientamento della nuova superiora. Prevale, però, in lui la consapevolezza di non potere obbligare queste 59 Cfr. G. ROCCA, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992, 203-204. 60 Lettera del 4 gennaio 1911 di Francica Nava a madre Caterina in AMRG, Carteggi, Catania.
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donne al nuovo stile di vita monastica e, al contempo, di non poterle rimandare sbrigativamente e in età avanzata in famiglia. Sente la responsabilità di averle accettate in attesa di tempi migliori e aver permesso loro di vivere per tanti anni in monastero. Di conseguenza, chiede a suor Scolastica di comprendere il peculiare contesto in cui è venuta a trovarsi, in modo da evitare ulteriori motivi di attrito in monastero e superare agevolmente ogni sorta di difficoltà. Della severità di suor Scolastica, pur senza sottacere apprezzamenti per l’opera avviata, l’arcivescovo se ne rammarica, in verità, con madre Caterina Lavizzari: «Se sul principio sono apparse, come era da prevedersi, delle difficoltà, che sogliono opporsi a tutte le opere sante, sia per arti maligne del nemico invisibile d’ogni bene e sia per l’umana miseria, non son tali però da non potersi vincere. Parmi anzi che in gran parte avrebbero potuto evitarsi, se questa egregia Superiora, mossa certo dal suo ardente zelo, avesse tenuto conto delle circostanze locali e fosse andata più a rilento nel giudicare e nell’agire»61. La presenza delle nuove suore, la prospettiva concreta di ripresa di una stabile vita claustrale da loro assicurata, il contesto pastorale catanese e l’orientamento vocazionale promosso tra le giovani da alcuni preti, man mano fanno presentare alla porta del monastero diverse giovani che chiedono di farsi monache. Cosicché, firmato il decreto di aggregazione del monastero di San Benedetto all’Istituto dell’adorazione perpetua, il 10 agosto 1911, a distanza di qualche giorno, il 15 agosto successivo, solennità dell’Assunta, Celeste Abbadessa secondo le Costituzioni dell’Istituto, «giorno tanto sospirato», con la consegna dell’abito di postulante alle prime aspiranti, «principiò nel vetusto Monastero di Catania l’Istituto delle Benedettine dell’adorazione perpetua». L’anno successivo, il 15 agosto 1912, dieci di loro, sette corali e tre converse, iniziano il noviziato62. Che a Catania permanesse una disponibilità vocazionale alla vita claustrale Francica Nava lo aveva lasciato intendere a suor Sala nella citata lettera del 30 marzo 1910: l’aggregazione «è un’opera che stimo di grande utilità alle anime desiderose di consacrarsi a Dio nel silenzio del chiostro». 61 62
L.c. AMSB, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 8.
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Ma il 1912, insieme a questa gioia, riserva alla comunità di Catania e a quella di Ronco di Ghiffa un grave lutto: il 26 aprile moriva suor Scolastica Sala, ancora cinquantaquattrenne, appena all’inizio del compito che si era assunto. Su richiesta di Francica Nava, da Ghiffa, il 7 maggio 1912 viene inviata a sostituirla suor Domenica Terruzzi63. L’innesto delle benedettine a Catania è ormai compiuto e bene avviato, con gli ostacoli principali rimossi. La nuova comunità può serenamente intraprendere il cammino di perfezione religiosa secondo le costituzioni benedettino-mectildiane64. Le relazioni con la comunità di Ronco di Ghiffa — e ciò vale anche per le aggregazioni successive — non sono sicuramente vissute in forma di dipendenza giuridica, né così le intende madre Canterina Lavizzari. Si instaura, piuttosto, una dipendenza spirituale e affettiva verso la “madre priora”, più accentuata nelle “figlie” inviate nei diversi monasteri, e ampiamente testimoniata dalle numerose lettere con le quali, in particolare, guida e sostiene l’opera di suor Sala prima e di suor Terruzzi dopo65. Delle monache e del nuovo corso del monastero catanese è ampiamente soddisfatto Francica Nava, che ne segue le vicende da vicino e con grande benevolenza. A distanza di anni, pochi mesi prima della sua morte (7 dicembre 1928, all’età di 82 anni), come in un bilancio al prefetto della Sacra Congregazione dei Religiosi, il card. Camillo Laurenti, sottolinea la validità della decisione di aver acquistato l’immobile e aver affidato la ripresa della vita claustrale alle monache di 63 Il 25 marzo precedente, all’età di 72 anni, era morta anche l’anziana prioressa, suor Scolastica Musumeci, dopo aver emesso i voti dell’Istituto «sul letto di morte»: ibid., 9-10. 64 A seguito della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, 1917, è necessario rivedere il testo delle Costituzioni: sono ancora in vigore quelle approvate da Clemente XI nel 1705. Anche Francica Nava viene interpellato per la loro revisione e più volte interviene presso la Sacra Congregazione dei Religiosi per sollecitarne l’approvazione, ottenuta con decreto di Pio XI del 28 febbraio 1928: ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 34, fasc. Sacra Congregazione dei Religiosi; AMRG, Carteggi, Catania. 65 A suor Sala ne scrive 60 in due mesi e 147 a suor Terruzzi dal 1912 al 1930. Nel 1913, da marzo a giugno, la Lavizzari si reca a Catania e vi torna una seconda volta nel 1922: Positio, 270.
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Ronco di Ghiffa: l’unico monastero femminile rimasto in città è quello di San Benedetto, «da me acquistato, ove esiste una comunità fiorentissima e un collegio di educazione da loro ben diretto per fanciulle di civile condizione»66. La ripresa della vita claustrale a Catania non è dovuta ad una comunità benedettina tradizionale. É piuttosto il frutto maturo di una modulazione, nuova per l’Italia, della Regola: quella, appunto, delle Benedettine dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Impiantatesi dalla Francia in Italia appena nel 1880, in modo rocambolesco ma certo provvidenziale, nell’arco del ventennio successivo devono affrontare non lievi difficoltà per consolidare la loro presenza. È, tuttavia, la disponibilità a rivitalizzare la plurisecolare presenza del monachesimo benedettino femminile a Catania a segnare l’avvio dell’espansione del carisma mectildiano. Da qui, prima in Sicilia e poi, con un percorso ideale di progressiva risalita della penisola, in altre regioni italiane le Benedettine dell’adorazione perpetua hanno dato un significativo contributo a impiantare, o rifondare, la presenza claustrale femminile in diverse Chiese locali. In sequenza, dopo Catania e fino al 1984, da Ronco di Ghiffa sono sorte comunità a: Sortino, Piedimonte Matese (in 2 monasteri preesistenti), Modica, Ragusa Ibla, Teano, Alatri, Lucca, Genova, Gallarate, Noto, Monterchi. Mentre, dal monastero di Milano: Montefiascone, Tarquinia, Roma, Lujan in Argentina trasferito poi a Laveno Mambello67. La legge di soppressione del 1866, in fondo, si è mutata in un’opportunità di riforma per la vita claustrale e di diffusione per le Benedettine dell’adorazione perpetua in particolare. La sua applicazione aveva destinato a scomparire il monachesimo femminile anche a Catania. La volontà di tutelarlo si è trasformata in opportunità di rinnovamento radicale per l’antica comunità di San Benedetto e per altri monasteri italiani, grazie alle monache partite dal monastero di Ronco di Ghiffa. 66 Lettera del 14 aprile 1928 in: ASD, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. e): San Placido. 67 Per lo sviluppo dell’istituto, rimando a: G. ZITO, Le Benedettine dell’Adorazione Perpetua in Italia (1880-1960), in G.B.F. TROLESE (cur.), Il monachesimo in Italia tra
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A ben vedere, poi, identica opportunità era venuta alle Benedettine dell’adorazione perpetua anche dalla legge di soppressione francese del 1904: ai religiosi si proibiva l’insegnamento; le congregazioni insegnanti sarebbero dovute scomparire entro dieci anni e venne loro vietato di ricevere nuove vocazioni. Tra queste vi furono pure le monache del monastero di Arras. La destinazione di alcune di esse nel monastero di Seregno, con pretesa di governarlo per pregresse vicende, determinò il trasferimento di circa trenta monache a Ronco di Ghiffa dove, il 24 ottobre 1906, avviarono la vita monastica68. In entrambi i casi, dunque, insieme con gravi difficoltà, la legislazione civile ha prodotto indubbi benefici per la vita consacrata: dalla sua purificazione, a forme di rinnovata vitalità e vantaggio. Aspetto questo che, se fa dire al credente che è possibile una lettura metastorica degli avvenimenti, chiede alla storiografia di intraprendere nuovi percorsi per una dettagliata tematizzazione di questo, come di altri casi.
Vaticano I e Vaticano II. Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Badia di Cava dei Tirreni, Salerno, 3-5 settembre 1992), Cesena 1995, 331-371. 68 L.c.
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CATHERINE DE BAR E LA “SCUOLA MISTICA NORMANNA”. P. JEAN-CHRYSOSTÔME DE SAINT-LÔ E JEAN DE BERNIÈRES-LOUVIGNY
MARIO TORCIVIA*
Catherine Mectilde de Bar1, per le tante vicissitudini attraversate nella sua lunga vita2, ha avuto modo, diremmo la provvidenziale fortuna, di venire in contatto con diverse personalità della spiritualità francese del XVII secolo, «l’âge d’or de la spiritualité en France»3 — ci riferiamo ovviamente alla scuola francese di spiritualità, della quale madre Mectilde «è incontestabilmente una dei grandi rappresentanti»4 *
Docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Desideriamo ringraziare le Benedettine dell’adorazione perpetua sr. Annamaria [M. Carla] Valli e sr. M. Cecilia La Mela per l’aiuto dato in ordine al reperimento delle fonti e degli studi necessari per la redazione del presente studio. 1 Una buona raccolta bibliografica inerente agli studi su Catherine Mectilde de Bar fino al 1998, la troviamo in: J. LETELLIER, Comme un encens devant la face du Seigneur, in Catherine de Bar 1614-1698. Mère Mectilde du Saint-Sacrement. Une âme offerte à Dieu en Saint Benoît, Paris [1998], 11-95. Lo stesso benedettino, coordinatore per l’edizione completa degli scritti di Mectilde de Bar, quattro anni dopo, aggiorna la bibliografia sulla monaca francese, cfr. Aderire a Dio. Catherine Mectilde de Bar, Milano 2006, specie le pp. 8-36 (or. fr.: 2004; la conferenza è, però, del marzo 2002). Sugli scritti di Mectilde de Bar cfr. M. ALBERT-U. WHALE (edd.), Bibliographia mechtildiana, Köln 2001. 2 Per una sintetica e puntuale — oltreché recente — presentazione della vita di madre Mectilde, cfr. A. VALLI, Catherine Mectilde de Bar. Nota biografica, in Il segreto di Mectilde de Bar. Il vero spirito delle religiose adoratrici perpetue del santissimo Sacramento [1684-1689] (Introduzione, traduzione e note a cura di Annamaria Valli), Milano 2009, VII-X. 3 A. RAYEZ, Française (école), in DS V, 784. 4 L. COGNET, Introduzione, in C. M. DE BAR, Il sapore di Dio. Scritti spirituali/16521675, Milano 1977, 27.
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e «un punto di incontro tra Bérulle, Condren, Jean Eudes e Olier»5, nonché la monaca che rappresenta pienamente le religiose francesi del XVII secolo6 — con le quali la benedettina francese ha percorso tratti di cammino che le hanno permesso di beneficiare della sapienza spirituale di uomini e donne — laici, religiosi/e e ministri ordinati — che l’hanno accompagnata nella conoscenza ed adesione alla volontà di Dio. Desiderando delimitare l’ambito del presente studio, più che presentare tutti i personaggi con i quali madre Mectilde si è relazionata7, abbiamo preferito soffermarci sulla cosiddetta “scuola mistica normanna”, i cui membri erano anche conosciuti come gli “spirituali” di Caen8. Sappiamo infatti che, lasciata l’abbazia di Montmartre, madre Mectilde9, dall’agosto 1642 al giugno 1643 si trova in Normandia10, a 5
M.-C. MININ, Spiritualità mectildiana e Scuola francese, in Deus Absconditus 98 (2007/1) 31. 6 Cfr. M. CARPINELLO, Il monachesimo femminile, Milano 2002, 192. 7 Solo per fare alcuni nomi: il cappuccino fra Benoît de Canfeld (1562-1610), i benedettini riformati della Congregazione di Saint-Vanne et Saint-Hydulphe dom Didier de La Cour de La Vallée (1550-1623) e dom Antoine de l’Escale (1617-1667), le benedettine riformate sr. Marie de Beauvilliers (1574-1657), sr. Charlotte Le Sergent (1604-1677) e sr. Marguerite De Vény D’Arbouze (1580-1626), i benedettini riformati della Congregazione di Saint-Maur dom Claude Martin (1619-1696) e dom Ignace Philibert (1602-1667), i premostratensi riformati dom Épiphane Louys (16141682) e dom Michel La Ronde (+1718), il cistercense riformato dom Louis Quinet (1595-1665), il gesuita p. François Guilloré (1615-1684), oltre ai rappresentanti della cosiddetta “scuola mistica normanna”: il frate del Terz’Ordine di S. Francesco p. JeanChrysostôme de Saint-Lô (1594ca-1646), i laici Jean de Bernières-Louvigny (16021659) e Gaston de Renty (1611-1649) l’arcidiacono don Henri-Marie Boudon (1624-1702). 8 Cfr. M. SOURIAU, Le mysticisme en Normandie au XVIIe siècle, Paris 1923 e C. QUILLET, De la notion de milieu spirituel: les dévots normands dans les années 16401660, in Revue de synthèse, IVe S. (1990/4) 435-458. 9 Ancora religiosa professa del monastero della “Conception de Notre Dame” dell’ordine riformato di San Benedetto, di Rambervillers, diocesi di Toul. 10 Vi ritornerà, chiamata da dom Quinet — che fu anche suo direttore spirituale, (cfr. D.-O. HUREL, Mère Mectilde et les Mauristes, in Catherine de Bar 1614-1698, cit., 100) — dal 28 giugno 1647 al 28 agosto 1650, come priora riformatrice del convento di Notre-Dame-du-Bon-Secours.
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Caen, accanto a madre Laurence de Budos, abbadessa dell’Abbaye de la Sainte-Trinité, «très Canfeldienne de tendances»11. In seguito, grazie all’accoglienza di un gentiluomo, Monsieur de Torp, che la conduce nel borgo di Barbery, vicino al villaggio di Bretteville (Calvados), madre Mectilde incontra (ottobre 1642) l’abate cistercense di Barbery, dom Louis Quinet — «profondamente impregnato delle idee della Scuola astratta»12 di Benoît de Canfeld ma anche di quelle della mistica del Nord: «Il paraît les avoir beaucoup pratiqués et en avoir tiré une synthèse très personelle»13 — riformatore delle abbazie cistercensi di quella regione francese. Da De Torp e Quinet, madre Mectilde venne messa in contatto (ottobre 1642) con gli “spirituali” di Caen14, raggruppati intorno al locale tesoriere di Francia, Jean de Bernières-Louvigny. Tornata nella regione parigina, e precisamente a Saint-Maur-desFossés-lez-Paris, nel giugno del 1643, indirizzata da Jean de BernièresLouvigny — «Obbligatelo con le vostre intime preghiere ad essere sempre il mio padre e il mio caro direttore, perché la bontà di Dio me l’ha dato attraverso di voi»15 — conosce il religioso del Terz’Ordine di 11 L. COGNET, Madre Metilde del SS.mo Sacramento [II], in Ora et Labora 13 (1958/4) 30 (nonostante il titolo, il testo è in lingua francese. Si tratta della conferenza che il noto studioso tenne all’Institut Catholique di Parigi sabato 8 febbraio 1958 (e non il 6 febbraio, come scrive erroneamente Ora et Labora 13 (1958/3) 27) e, alcune settimane dopo, sabato 15 marzo, al monastero delle Benedettine dell’adorazione perpetua della stessa città. Il testo è stato pubblicato, in quattro puntate, in Ora et Labora 13 (1958/3) 27-31; 13 (1958/4) 28-30; 14 (1959/2) 35-39; 14 (1959/3) 33-37. 12 L. COGNET, Introduzione, in C. M. DE BAR, Il sapore di Dio, cit., 11. 13 ID., Madre Metilde del SS. Sacramento [III], in Ora et Labora 14 (1959/2) 35. 14 In questa città, madre Mectilde conoscerà anche Jean Eudes, cfr. P. MILCENT, Jean Eudes (saint), in DS 8, 488-501. Sui due, cfr. CH. BERTHELOT DU CHESNAY, S. Jean Eudes et mère Mechtilde, in Notre vie n. de juillet 1952. 15 C. M. DE BAR, Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 11 novembre 1645 (185) (il nr. tra parentesi corrisponde allo schedario generale alfabetico relativo a tutti i testi di madre Mectilde), cit. in B. PITAUD, La corrispondenza tra madre Mectilde e Jean de Bernières, in Deus Absconditus 89 (1998/3-4) 64; cfr. anche: J. DAOUST, Catherine De Bar. Mère Mectilde du Saint-Sacrement, Paris 1979, 19; M.-C. MININ, Le message marial de Caterine de Bar. Mére Mectilde du Saint Sacrement 1614-1698, Paris 2001, 49; V. ANDRAL, Catherine de Bar Mère Mectilde du Saint-Sacrement 1614-1698. Itinéraire spirituel, Rouen 1997² revue et amplifiée, 223 n. 13 (il testo della benedettina aveva
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S. Francesco, p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, amico e direttore spirituale del sunnominato caennese16. Di questi membri della “scuola mistica normanna”, presenteremo le due figure che maggiormente hanno contribuito alla formazione spirituale di madre Mectilde, in quanto anche suoi direttori di spirito17: Jean-Chrysostôme de Saint-Lô — che la dirigerà dal 1643 al 1646, anno della morte del frate — e il laico Jean de Bernières-Louvigny, che subentrerà al religioso francescano nella direzione di Mectilde de Bar, guidandola fino al 1659, anno della morte del mistico caennese18. Da questi due spirituali madre Mectilde sarà stimolata a vivere il «segreto sentiero che conduce all’amore divino […] il sentiero dell’“abiezione”»19. Infatti, «Non seulement M. de Bernières parle de costituito precedentemente la Parte prima del volume: EAD., Catherine Mectilde de Bar. I. Un carisma nella tradizione monastica, Roma 1988; v’era stata poi, in Francia, una prima edizione privata delle benedettine francesi: Rouen 1990); B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 59. Secondo Derville, fu dom Quinet a far conoscere p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô a madre Mectilde, cfr.: A. DERVILLE, Quinet (Louis), in DS 12, 2851. 16 Cfr. L. COGNET, Madre Metilde del SS. Sacramento [III], cit., 37. Il Cognet, errando, dice che p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô era cappuccino. Anche secondo Documents historiques (p. 64 n. 21) il frate era cappuccino. 17 Da qui la scelta di citare diversi stralci della corrispondenza — custodita nel monastero delle Benedettine dell’adorazione perpetua di Rouen — intercorsa tra i due normanni e Mectilde de Bar. La mancanza, però dell’edizione critica delle opere di madre Mectilde spiega le nostre numerose citazioni indirette, la discrepanza di termini — e, a volte, delle fonti stesse — all’interno delle medesime citazioni, perché riportate diversamente dagli autori da noi citati. Per quanto riguarda le lettere di Jean de Bernières-Louvigny, invece, facciamo notare come, in realtà, non rechino mai madre Mectilde come intestataria. Pertanto soltanto dalla lettura del loro contenuto — anche se non sempre — si può risalire a chi erano inviate. Anche per questo attendiamo l’edizione critica. 18 Sul rapporto tra i due spirituali normanni e madre Mectilde, cfr. M.-C. MININ, Catherine Mectilde de Bar. Alle fonti di un insegnamento monastico inserito nel dinamismo del suo tempo, in Deus Absconditus 98 (2007/4) 5-23 (specie 16-19). Morto p. Jean-Chrysostôme, madre Mectilde: «Ne pouvant pas ensuite, toute éclairée qu’elle était, se conduire autrement que par l’obéissance, elle se mit sous la direction de la mère de Saint Jean l’Evangeliste (madre Charlotte Le Sergent, ndr.), religieuse de Montmartre d’un très grand mérite, qui était Superieure d’une petite Communauté au Faubourg de la Ville-l’Evêque» (P 108bis, p. 43, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 45). 19 Cfr. M. C. VALLI, I grandi incontri di Madre Mectilde: Jean de Bernières e p. Jean
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l’abjection comme le P. Chrysostôme (Œuvres spirituelles, Paris 1687, t. 2, p. 39-40, lettre 14; p. 147-148, lettre 55; p. 151-156, lettre 57), mais quand, en 1652, Dom Quinet, abbé de Barbery, écrit à la demande de Jourdaine de Bernières Les états pénibles et humiliants de Jésus-Christ en la terre, il ne fait que continuer le sillon ouvert par le P. Chrysostôme dans le Traité de la sainte abjection»20. Abiezione è un termine usato nel Seicento francese per definire lo stato di umiliazione, cioè: «per esprimere il nulla della condizione umana e per significare lo stato a cui Gesù è abbassato per amore dell’uomo»21; o, con altre parole: «L’“abiezione” è il risultato dell’umiliazione quando la povertà effettiva e la disistima, fino al disprezzo aperto subìto, connotano in maniera preponderante l’esperienza dell’umiltà»22.
Ma ascoltiamo Jean de Bernières-Louvigny che scrive a madre Mectilde, desiderosa di vivere una “vita nuova”: «Cette vie nouvelle que vous voulez n’est autre que la vie de Jésus Christ, qui nous fait vivre de la vie surhumaine, vie d’abaissement, vie de pauvreté, vie de souffrance, vie de mort et d’anéantissement, voilà la pure vie dans laquelle se forme Jésus Christ, et qui consomme l’âme en son pur et divin amour. Soyez seulement patiente et tâchez d’aimer votre abjection. Vous dites que vous êtes à charge et que vous êtes inutile ; cette pensée donnerait bien du plaisir à une âme qui tendrait au néant. O ! qu’il est rare de mourir comme il faut ! Nous voulons toujours être quelque chose et notre amour-propre trouve de la nourriture partout. Rien n’est si insupportable à l’esprit humain que de voir que l’on ne l’estime point, qu’on n’en fait point de cas, qu’il n’est point recherché ni considéré. Vous ne croiriez jamais si vous ne l’expérimentiez, le grand avantage qu’il y a d’être en abjection dans les créatures. Cela fait des merveilles pour approfondir l’âme dans sa petitesse et dans son néant, quand elle sent et voit qu’elle n’est plus rien qu’object de rebut. Cela vaut mieux qu’un mont d’or. Vous n’êtes pas pourtant dans cet état, car l’on vous aime et chérit Chrysôstome de Saint-Lô, Scuola di cultura monastica, Monastero San Benedetto, Milano, 19 aprile 1999. 20 R. HEURTEVENT, Chrysostôme de Saint-Lô, in DS 2, 884. 21 M. MARCOCCHI, La spiritualità tra Giansenismo e Quietismo nella Francia del Seicento, Roma 1983, 40. 22 Il segreto di Mectilde de Bar, cit., 34.
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Mario Torcivia trop. C’est une pensée qui vous veut jeter dans quelque petit chagrin et abattement. Présentez-là à Notre Seigneur et sucez la grâce de la sainte abjection dans les opprobres et confusions d’un Jésus Christ»23.
PADRE JEAN-CHRYSOSTÔME DE SAINT-LÔ (FRÉMONT 1594CA – PARIS 26 MARZO 1646) Si sconosce il nome di famiglia; sappiamo solo che si chiamava Gioacchino. Religioso penitente del Terz’Ordine di S. Francesco (Terz’Ordine della Penitenza di S. Francesco di Assisi/terziario regolare di S. Francesco) — di cui fu Definitore generale (1625), Provinciale della Provincia di Francia (1634) e della Provincia di S. Ivo (1640) — p. JeanChrysostôme de Saint-Lô24 fu uno dei principali esponenti della «scuola mistica francescana della congregazione francese»25. Il frate fu un direttore spirituale che ebbe un vasto irraggiamento al punto che «On pourrait le nommer le père de l’école mystique normande au milieu du XVIIe siècle»26 perché numerosi furono i suoi 23
Lettre de Jean de Bernières-Louvigny a Mectilde de Bar, s.d., in P 105, p. 481, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, 77-78. 24 Per alcuni studi su Iohannes Chrysostomus a santo Laudo seu Sanlaudensis, cfr.: H.-M. BOUDON, L’Homme intérieur ou la vie du père Jean-Chrysostôme, religieux pénitent du troisième Ordre de S. François, Paris 1684 (ripubblicato: L’Homme intérieur ou vie du vénérable père Jean Chrysostôme, religieux pénitent du troisième ordre de SaintFrançois, in Œuvres complètes de Boudon, coll. Migne, Paris 1856, t. II, 1127-1342), JOANNES-MARIA [VERNONENSIS/JEAN-MARIE DE VERNON], Tertii Ordinis Sti. Francisci Assisiatis Annales Perpetui, Parisiis 1686, Pars Prima, 84; Pars Tertia, 616-617.624-625; L. WADDING, Scriptores ordinis minorum, Roma 1906, 135; Bibliotheca Universa Franciscana, t. II, Matriti 1732, 144; F. DE MARETO, Giovanni Crisostomo di Saint-Lô, in EC VI, 624; M. HERVIN-M. DOURLENS, Vie de la très révérende Mère Mechtilde du SaintSacrement, Paris 1883, 168-204; R. HEURTEVENT, Chrysostôme de Saint-Lô, in DS 2, 881-885; M. SOURIAU Deux mystiques normands au XVIIe siècle. M. de Renty et Jean de Bernières, Paris 1913; G. GUILLOT, Les Pères Pénitents à St.-Lô, Saint-Lô 1914, 58; R. PAZZELLI, Bibliografia del Terz’Ordine Regolare di San Francesco in Francia, in Analecta TOR 23 (1992) 67-88 (specie 76-79). 25 G. ANDREOZZI, Il Terzo Ordine Regolare di San Francesco in Francia e la sua legislazione, in Analecta TOR 23 (1992) 114. 26 R. HEURTEVENT, Chrysostôme, cit., 883.
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discepoli: Jean Eudes, Jean de Bernières-Louvigny, Marie de Vallées, Mectilde de Bar, Henri Boudon, «en un mot tous les mystiques qui se rattachent à l’Ermitage de Caen»27. P. Jean-Chrysostôme fu «le véritable initiateur, l’oracle, le chef discret de toute l’école […] par l’intermédiare duquel ces mystiques, d’ailleurs très modernes, continuent et renouvellent la tradition franciscaine»28. Tema fondamentale di p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô è che la perfezione consiste nel se désoccuper delle creature — al contrario del “lavoro” tipico di Satana, che desidera attirarci verso di loro per allontanarci da Dio — per occuparsi solo di Dio. Certo ciò avverrà nell’eternità, ma già su questa terra dobbiamo percorrere questa strada. Anche perché, creati ad immagine e somiglianza di Dio, come sarebbe possibile non occuparci di Lui e farci irretire dalle creature, situazione che tanto spazio concede al tumulto delle passioni, facendoci abbandonare così la pace? Per p. JeanChrysostôme, l’allontanamento dalle creature, dovere speciale per le anime religiose — e che non esclude, nondimeno, la carità verso il prossimo, come testimoniano le vite stesse di Jean de Bernières-Louvigny e de Renty — avviene attraverso 14 gradi. Fortemente amante della povertà, la istillò ai suoi discepoli, al punto che Jean de Bernières-Louvigny rinunciò all’uso dei suoi numerosi beni, andando anche a mendicare29, e Boudon mendicava alla porta di Notre-Dame di Parigi.
Alla morte del frate, de Bernières ricorda a madre Mectilde l’essere stati ambedue figli di tale padre — per questo la monaca sarà sempre sua sorella — il cui ricordo rinvigorisce l’anima: «ce me seroit grande consolation que vous suffiez ici, afin que nous puissions parler de ce que nous avons ouï dire à notre bon Père, & nous entretenir de ses saintes maximes, en la pratique desquelles l’ame se nourrit & se perfectionne […]. Vous ne laisserez pas d’estre toûjours ma tres-chere Sœur puisque Dieu a nous si étroitément uni, que de nous faire enfans 27
Ibid., 884. H. BREMOND, Histoire littéraire du sentiment religieux en France depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours. VI La conquête mystique **** Marie de l’Incarnation – Turba Magna, Paris 1922, 235. Per l’insigne studioso francese, la scuola di p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô si riallaccia a Benoît de Canfeld, cfr. p. 233 n. 1. 29 Cfr. H.-M. BOUDON, L’Homme Intérieur, cit., 1147.1149.1220.1312. 28
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Mario Torcivia d’un mesme Pere, & d’un si accompli en toutes sortes de vertus. Sçavezvous bien que son seul souvenir remet mon ame dans la presence de Dieu, quand est elle dissispée, & anime son courage à puissamment travailler à la bonne vertu»30.
P. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô condusse madre Mectilde «per vie austere, ma nello stesso senso di Bernières, che fu del resto il suo principale consigliere dopo la dipartita del religioso. Per padre Chrysostôme madre Mectilde scrisse un memoriale autografo del più alto interesse, che mostra soprattutto chiaramente per quali notti dolorose passasse allora la sua vita interiore, e che mette in evidenza il suo carattere profondamente mistico»31. In questa relazione autobiografica del luglio 1643, scritta da madre Mectilde per farsi conoscere dal direttore spirituale32, «Vi si legge che fin dall’entrata al monastero di Rambevillers si sviluppa la sua attrattiva per la contemplazione e la Madre conduce una intensa vita di preghiera fin dal noviziato. Le note caratteristiche di madre Mectilde che la “perseguiteranno” sono il desiderio della vita solitaria, separata dal mondo e un’attrattiva per la preghiera continua, una devozione al Santissimo Sacramento dove Gesù è nascosto e una chiamata ad onorare “per stato” questa vita nascosta»33.
Il frate francescano, inoltre, «le fa scoprire gli stati di annientamento e di abiezione e la invita ad imitare Gesù servo e umiliato. Il Padre le annuncia che ella acquisterà la 30 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XXXV. A une Religieuse [Mectilde de Bar], sur le sujet de l’obeissance, 15 fevrier 1647, in Les Œuvres spirituelles de Monsieur de Bernieres Louvigni ou conduite asseurée pour ceux qui tendent à la perfection. Seconde Partie. Contenant les Lettres qui font voir la pratique des Maximes, Paris 1677², 282-283. 31 L. COGNET, Introduzione, in C. M. DE BAR, Il sapore di Dio, cit., 13. 32 Non abbiamo potuto consultare direttamente il manoscritto, perché custodito presso il Monastero delle Benedettine dell’adorazione perpetua di Rouen. Esistono anche «Une deuxième série de propositions avec réponses, et une troisième série de réponse» (V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 31). 33 M.-C. MININ, Catherine Mectilde de Bar, cit. 18.
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pace nell’anima e riposerà in Dio, ma dovrà anche sopportare molte lotte e tentazioni per giungere al possesso del puro amore. […] Egli la invita anche a coltivare una particolare devozione a Maria. Le fa comprendere che benché la perfezione non consista nelle luci, tuttavia esse servono molto e non bisogna quindi trascurare di istruirsi»34.
P. Jean-Chrysostôme si mostra una guida saggia e, soprattutto, illuminata da Dio nel discernimento di quanto avvertito da madre Mectilde, la quale si accorge subito della stoffa spirituale del frate e ne scrive a Jean de Bernières-Louvigny: «Oh, quanto è angelico quell’uomo e divinizzato dai singolari effetti di una grazia molto intima che Dio versa in lui. Vorrei essere con voi per parlarne a piacimento e ammirare con voi le operazioni di Dio sulle anime elette! Quanto è mirabile Dio in tutte le cose! Ma lo ammiro soprattutto in queste anime. […] Ho avuto l’onore di vederlo e di parlargli per circa un’ora. In questo poco tempo gli ho fatto conoscere la mia vita passata, la mia vocazione e qualche sofferenza che Nostro Signore mi ha inviata qualche tempo dopo la professione. […] Mi ha promesso di prendersi cura della mia guida. […] Gli ho mostrato alcune lettere che mi sono state scritte riguardo alla mia disposizione. Mi ha detto che non hanno nulla a che vedere con lo stato in cui sono e che poche persone avevano la grazia di guidare, cosa che noto per esperienza»35.
Nella Relazione del luglio 164336, madre Mectilde scrive sull’inizio del desiderio di consacrarsi a Dio: «Plus elle croissait en âge, plus ce désir prenait de l’accroissement. Bientôt il devint si violent qu’elle en tomba dangereusement malade… ce désir… épuisait en quelque sorte toute son attention et tous ses senti34
L. c. C. M. DE BAR, Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 30 giugno 1643, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 60. 36 Pensiamo che la Relazione sia stata scritta prima del 18 luglio perché in questa data madre Mectilde scrive a Jean de Bernières-Louvigny comunicandogli che attualmente non può inviargli lo scritto perché troppo lungo ma che lo farà quanto prima, cfr. B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 60. 35
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Mario Torcivia ments. Il ne lui était pas possible de s’en distraire… Dans différentes assemblées de personnes de son âge le désir qui dominait son cœur prenait un tel ascendant sur ses sens même qu’elle était contrainte de se retirer»37.
Nella risposta, il direttore di spirito rivela la sua saggezza: «Je dirais que dans cette vocation je vois beaucoup de Dieu, mais aussi quasi beaucoup de nature. Cette lumière qui pénétrait son entendement venait de Dieu. Tout le reste… était l’ouvrage de la nature»38. E in una famosa biografia della de Bar si relaziona come il p. Jean-Chrysostôme abbia detto ad una consorella di madre Mectilde che la vocazione di quest’ultima «n’était pas seulement une vocation de volonté, comme ont ordinairement les autres personnes qui désirent se consacrer à Dieu… mais que c’était plutôt une passion qui la portait à embrasser ce sant état»39. Sempre nella Relazione, madre Mectilde narra a p. Jean-Chrysostôme di una grazia straordinaria avuta, ma il religioso «l’exhorte à ne pas faire fond sur les grâces extraordinaires sujettes à beaucoup d’illusions, et à fonder sa perfection sur “la mortification et la vertu”. Cela revient comme un refrain dans ses réponses, mais en même temps il ne cesse de l’encourager et d’approuver son cheminement»40. Appena entrata nel monastero di Rambevillers, madre Mectilde «se donne à l’oraison “de bonne sorte”, son attrait pour la contemplation se développe. Sa mère Maîtresse (mère Benoîte) la pousse vers l’oraison passive et silencieuse. Le Père met en garde et encourage en même temps. Il lui conseille de ne pas se livrer sans discerniment à la “passivité”»41. Forti sono, invece, le prove patite a Montmartre: 37 C. M. DE BAR, Relation à p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, juillet 1643 (239), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, 10-11. 38 J.-C. DE SAINT-LÔ, Réponse à Mectilde de Bar, luglio 1643, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 11. 39 Ms. P 101, pp. 4-5 cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 11. 40 V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 31. 41 Ibid., 32.
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«privations, réprobation, peines intérieures, “cachots ténébreux” […]. Elle souffre par une soumission à la divine justice. Le Père lui répond: ce sont des purifications. Il faut les souffrir patiemment et remercier Dieu qui purifie et dispose ainsi à la passivité de la contemplation. “L’âme étant affective, l’opération d’amour refluera en l’appétit sensitif (d’où tourments et maladies). L’âme, se purifiant, cet amour résidera davantage en la partie intellectuelle”»42.
Riguardo, poi, al cibo e al sonno «Il lui recommande: «“Quant à la nourriture et au dormir, c’est à elle d’être fort discrète, comme aussi à toutes les austérités”, “elle aura besoin, d’ailleurs de soulager son corps”. […] Enfin, il l’exhorte à ne pas mettre tout le fond de la perfection sur la seule oraison, mais plutôt sur la tendance à la pure mortification. Il donne des conseils sages et modérés pour la conduite de cette oraison passive»43. In ordine all’Eucaristia, madre Mectilde così relaziona: «En ses communions, elle allait de tout son coeur recevoir son Dieu avec le désir d’être tout à Lui et qu’il fut tout pour elle, mais toujours sans sentiments sensibles, et lorsqu’elle avait communié, elle entrait dans son obscurité ordinaire et captivité sans pouvoir le plus souvent adorer son Dieu, ni parler à sa Majesté. Il lui semblait qu’il se retirait au fond de son coeur ou pour le moins en un lieu caché à son entendement et à son imagination, la laissant comme une pauvre languisante qui a perdu son Tout. Elle cherche et ne trouve pas. La foi lui dit qu’il est entré dans le centre de son âme, elle s’efforce de l’y aller adorer, mais toutes ses inventions sont vaines, car les portes sont tellement fermées et toutes les avenues, que ce lieu est inaccesible, du moins il lui semblait, et lorsqu’elle était en liberté, elle adorait sa divine retraite et souffrait ses sensibles privations, néanmoins son coeur s’attristait quelques fois de se voir toujours privée de sa divine présence, pensant que c’était un effet de sa réprobation. D’autres fois elle souffrait avec patience, dans la vue de ce qu’elle a merité par ses péchés, prenant plaisir que la volonté de son Dieu s’accomplisse en elle selon ce qu’il plaira à sa Majesté”»44. 42
L.c. L.c. 44 C. M. DE BAR, Relation à p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, juillet 1643, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 33. 43
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Il frate francescano «l’exhorte à s’abandonner à la conduite de Dieu car ces peines lui sont données pour la conduire à la pureté de perfection à laquelle elle est appelée, et de laquelle elle est encore bien éloignée»45 e le fa anche una raccomandazione speciale: «Dieu, par une providence toute spéciale, vous oblige à honorer le Saint Sacrement avec une dévotion particulière. Or, c’est dans ce sacrement que Notre Seigneur Jésus-Christ vit e vivra jusq’à la consommation des siècles d’une vie toute cachée»46. E, ancora sulla devozione al Santissimo Sacramento, il p. Jean-Chrysostôme indirizza madre Mectilde verso la comunione quotidiana. Parlando poi della sua indegnità in ordine al servizio divino, madre Mectilde scrive: «Il semble qu’elle aura une joie sensible si on lui disait qu’elle mourrait bientôt; la vie présente lui est insupportable voyant qu’elle l’emploie mal au service de Dieu et combien elle est loin de la sacrée union. Il y avait lors trois choses qui régnaient en elle assez ordinairement; savoir: langueur, ténèbres et captivité»47, cose che, per p. Jean-Chrysostôme, sono «des marques de l’amour habituel qui est en cette âme…»48. Nella seconda serie di domande e risposte tra madre Mectilde e p. Jean-Chrysostôme (luglio 1643): «le Pére modère l’impétuosité de mère Mectilde et l’exhorte à la discrétion, c’est le maître mot de cette série […]. Mére Mctilde: “Mon attrait particulier est un entier abandon de tout moi-même à Dieu et un parfait anéantissement, en un mot, je voudrais être abîmée en Dieu”. Le Père: “Cet attrait serait fort saint, mais il le faudrait ménager discrètement…”. Mectilde: “Est-il bon de se laisser entièrement à l’amoureuse Providence de Dieu et en cet abandon ne prendre pas grand soin des choses temporelles, ni même de ce que l’on deviendra, mais se satisfaire de cette pensée: Je suis toute à Dieu? (Ego Dei sum)”. Le Père: “Il faut user de discrétion: il faut que le spirituel soit très indifférent à tous états, mais ainsi que le 45
V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 33. J. DAOUST, Catherine de Bar, cit., 20. 47 C. M. DE BAR, Relation à p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, juillet 1643, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 34. 48 J.-C. DE SAINT-LÔ, [Réponse à Mectilde de Bar], juillet 1643, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 34. 46
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disait saint Ignace, il doit travailler comme s’il n’était point attaché à la Providence, et en même temps néanmoins il doit tout espérer de Dieu comme si son travaille n’était qu’une chose adjointe”. Mectilde: “En l’oraison faut-il forcer son entendement?...” Le Père: “Il ne faut point forcer son entendement, mais il le faut conduire doucement”… Mectilde: “J’ai un désir ardent de solitude et de me retirer de tant d’occupations…” Le Père: “Il faut tendre à la solitude discrètement… Rester dans l’obéissance»49.
Nella terza serie di risposte, p. Jean-Chrysostôme dà la conferma a quanto avvertito come attraente dalla benedettina50. Al termine di questo scambio epistolare, madre Mectilde relaziona molto onestamente a de Bernières: «Ho ricevuto le mie sentenze dal nostro santo personaggio, il quale mi fa conoscere molto chiaramente lo scarso uso che ho fatto della grazia, e come io non abbia ancora cominciato a praticare la vera virtù»51. Una nota ancora su una particolare richiesta spirituale ed una raccomandazione rivolte da madre Mectilde a p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô: «Mon très Révérend Père, l’obéissance m’a donné dix jours de temps pour entrer en retraite, commençant dès la veille de saint Denys. Je vous supplie, mon très cher Père, de me dire votre pensée et votre sentiment sur cette retraite, à quoi je dois occuper mon esprit et quels doivent être les sujets de mes méditations; je vous supplie aussi de prier notre bon Seigneur pour moi et de m’appliquer votre sainte bénédiction pour commencer cette oeuvre que je désire faire à la plus grande gloire de Dieu. Je vous supplie que je sache de vos nouvelles avant ce temps, si je ne puis avoir la consolation de vous voir. En ce temps je vous écrirai très particulièrement; recommandez-moi, je vous prie, aux saintes prières du bon frère Jean Baptiste et de toutes les bonnes âmes que vous connaissez. Vous savez mes besoins et connaissez mes misères; je me repose sur votre 49
C. M. DE BAR, [Propositions à p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô], juillet 1643, e SAINT-LÔ, [Réponse à Mectilde de Bar], juillet 1643, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 35. 50 Cfr. V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 36-37. 51 C. M. DE BAR, Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 18 luglio 1643, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 60. P. JEAN-CHRYSOSTÔME DE
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Mario Torcivia charité, espérant qu’elle continuera ses effets puisque Notre Seigneur en sera glorifié et que mon âme en pourra être convertie, selon ses désirs»52.
La risposta non si fa attendere: «Notre très chère Mère, Jesus soit votre lumière et votre conduite! Dans votre retraite, tendez à l’amour divin, car vous y avez disposition particulière. Prenez pour vos sujets d’oraison ceux auxquels la grâce vous inclinera intérieurement, auxquels vous pourrez joindre l’amour de Dieu qui vous paraît en l’Incarnation, en la sainte Eucharistie et au crucifiement. Voyez aussi si vous vous porterez aux méditations de l’Etre divin, de l’immensité, bonté, sainteté, infinité et toute-puissance. Ne lisez que des sujets d’amour divin. […] Je tâcherai de vous voir au plus tôt, dans la fin de vos exercices, je prierai chaque jour pour vous, je vous supplie de faire le même, car à présent j’en ai grand besoin. Ecrivez chaque jour ce que vous aurez fait et ensuite je vous en dirai mon sentiment. Bon courage, Dieu est avec vous»53.
Sappiamo inoltre come madre Mectilde fu obbediente ad un comando datole da p. Jean-Chrysostôme54, al quale seguì un voto: «Ve ne prego, chiedete a Nostro Signore questa grazia per me: che possa vivere nel distacco e nella continua morte, che devo avere nei confronti di tutte le creature secondo il comando che mi è stato dato al riguardo e il voto che ho fatto, che consiste in molte cose, tra le quali: 1. Un disprezzo attivo e passivo di tutte le creature. 2. Non compiacere mai alcuna creatura. 3. Non esigere mai il loro affetto. 4. Disprezzare la loro stima e la loro lode come fango. 5. Non avere rispetto umano nelle nostre parole e azioni. 6. Non desiderare la loro approvazione. 7. Non fare né dire mai nulla per imporci al loro spirito né per accaparrarci, poco o tanto, il loro affetto. 8. Non appoggiarci ad esse in alcun modo. 9. Non desiderare nulla da loro, non chiedere loro nulla se Dio o il prossimo non ci sollecitano a 52
EAD., Lettre à p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, 30 septembre 1644 (2135), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 40. 53 J.-C. DE SAINT-LÔ, Lettre à Mectilde de Bar, 1644 (312), cit., in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 40-41. 54 Cfr. C. M. DE BAR, Lettere di un’amicizia spirituale (1651-1662). Madre Mectilde de Bar a Maria di Châteauvieux, Milano 1999, 221 n. 256.
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farlo. 10. Non pretendere né sperare nulla da loro. In una parola, bisogna usare delle creature come se non esistessero, e bisogna esserne staccate al punto che il loro uso o la loro privazione non ci tocchino; usarne come se non ne usassimo, mantenendoci sempre separate da tutto, almeno sul piano dell’attaccamento, servendoci delle creature unicamente per carità e per necessità, sia nei riguardi del prossimo che nei riguardi di noi stesse. Un’anima che non è molto vigilante viene continuamente ferita dalle creature»55.
Purtroppo la direzione spirituale durò pochi anni a causa della morte del priore del convento parigino di Nazareth, «ayant toujours fait un état fort particulier d’elle, et ne se pouvait lasser de s’entretenir de la vie intérieure qu’il trovait qu’elle entendait mieux qu’aucune personne qu’il eut vue. Aussi avait-il accoutumé de dire, quand il venait de la voir, qu’il venait d’un petit lieu où il se recontrait plus de spiritualité renfermée, qu’il n’y en avait dans toute la grande ville de Paris»56. E p. Jean-Chrysostôme «dichiarò un giorno di trovare “più spiritualità nel piccolo resto di Saint-Maur che in tutta la grande città di Parigi, e che, pur essendo un teologo, madre Mectilde gli aveva insegnato dei segreti che non trovava affatto nei libri”»57. E ancora: «Un ami de Bernières écrit […]: “Je n’ai point encore pu voir les religieuses dont notre père Jean Chrysostôme fait une grandissime état, particulièrement de la Mère Mectilde du Saint Sacrement: il dit qu’elle va comme un géant dans les grands voies de l’amour, et qu’elle est fortement fondée en pure vertu”»58. Madre Mectilde, dal canto suo, ha avuto modo di apprezzare pienamente chi è stato il suo direttore spirituale. Lo testimonia la lettera del 16 aprile 1646 inviata a Jean de Bernières-Louvigny: «Il 16 aprile (madre Mectilde, ndr.) esprime tutto il ruolo che quest’ultimo (p. Jean55 EAD., I cattivi effetti che tutte le creature producono nell’anima (n. 3086), in Lettere di un’amicizia spirituale, cit., 221. Tale scritto farà da canovaccio per quanto madre Mectilde affermerà nel Véritable esprit, cfr. Il segreto di Mectilde de Bar, cit., 34-36. 56 Mémoires 1631-1651, in Documents historiques, 68-69. 57 J. LETELLIER, Aderire a Dio, cit., 18-19. Il benedettino sta citando F. GIRY, La vénérable Mère Catherine de Religieuses de l’Adoration perpétuelle, in Vie de saints, t. III, Paris 1719, col. 11. 58 Ms. P 101, p. 151, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire, cit., 37.
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Chrysostôme de Saint-Lô, ndr.) occupava nella sua vita; non piange solo qualcuno che la aiutava molto; rimpiange un uomo che considerava un grandissimo spirituale. Per lei ora si tratta di “conservare tra noi il suo spirito e le sue altissime massime di perfezione che ci insegnava a praticare”. È comunque certa che il padre “è assorbito in Dio in modo ineffabile e che mi dà la gioia della sua felicità”. [… Madre Mectilde], come Bernières, riceve degli aiuti spirituali che interpreta come provenienti da Chrysostome: “Volendo partecipare allo spirito di questo santo Padre, mi pareva che Gesù Cristo mi riempisse del suo, e questo ebbe buoni effetti, almeno mi pare”»59. Sappiamo che madre Mectilde fornì epistolarmente tante notizie ai membri dell’Ermitage sulla morte di p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô e che si adoperò per la pubblicazione dei suoi scritti60. Un mese e mezzo dopo la morte del direttore spirituale, madre Mectilde scrive a Jean de Bernières-Louvigny: «Depuis l’istant de sa mort, il m’a fait changer de disposition… Il me semblait que JésusChrist me remplissait (de son Esprit). Je me trouve changée, mais non au point que j’espère l’être… Je me trouve plus forte et plus abandonnée»61. Ed ecco il racconto della grazia, come ce lo consegna l’abbé Berrant che, a sua volta, l’ha ricevuto dal p. Guilloré: «L’emploi de la mère Mectilde à Saint Maur était de pourvoir aux nécessités journalières de la Communauté. Le dimanche de la Quasimodo, étant à la cuisine occupé dans les fonctions de ce même emploi, mais bien plus du désir qu’elle avait de participer à l’esprit de son bienheureux Père (Chrysostôme), ayant éprouvé depuis sa mort, en plusiers occasions que je serais trop longue à rapporter, des secours qui ne lui laissaient aucun doute de sa béatitude, il lui sembla que Notre Seigneur dans ce moment la remplissait du Sien propre. […] Ce qui produisit dans son âme d’admirables effets. Elle se trouva changée de dispositions intérieures, étant plus courageuse, plus abandonnée et toujours plus fortifiée pour aller à Dieu dans la pureté de ses voies et de son Esprit. Elle fut encore pénétrée d’une lumière qui lui fit connaître, même sensiblement, la manière dont Dieu 59
B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 65. Cfr. R. HEURTEVENT, Chrysostôme, cit., 884. 61 C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 12 mai 1646 (758), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 44. 60
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remplit le monde par son immensité, e que toutes choses sont abîmées en lui comme en leur centre; il lui donna l’intelligence du droit qu’il s’était acquis par sa mort sur toutes les créatures animées et inanimées, et cette impression fut si forte qu’elle resta plusieurs mois gravée dans son âme qui ne voyait que Dieu en tout. Si elle agissait et parlait, c’était sans autre réflexions que sur cette plénitude de Dieu et ce domaine de Jésus-Christ, et tout ce qu’elle touchait semblait perdre son être naturel, tant elle le voyait investi de celui de Dieu»62.
Passano però alcuni mesi e madre Mectilde, scrivendo a Jean de Bernières in ordine alla richiesta avuta di recarsi a Caen per assumere l’incarico di superiora del monastero di benedettine, manifesta il suo dubbio in ordine alla proposta ricevuta adducendo tra le motivazioni anche la seguente: «Je crains de perdre l’esprit d’oraison qui semble prendre quelque petit accroissement, celui de pénitence, de la sainte pauvreté et abjection que notre bienheureux Père (p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, ndr.) nous a si saintement imprimé en nos esprit»63.
JEAN DE BERNIÈRES-LOUVIGNY (1602 – CAEN – 3 MAGGIO 1659) Terziario francescano dall’età di quindici anni, uomo di grande pietà, intorno al quale si riunirono diversi discepoli, pur laico, Jean de Bernières-Louvigny64 fu protagonista di diverse fondazioni religiose 62
[Récit], in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 44-45. C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 6 novembre 1646 (775), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 65. 64 Per alcuni studi su Jean de Bernières-Louvigny, cfr.: F. BOISARD, Notices biographiques, littéraires et critiques sur les hommes du Calvados, Caen 1848, 337-352; H.-M. BOUDON, L’Homme Intérieur, cit., 1311-1319 (ed. 1694: 337-352); H. BREMOND, Histoire littéraire, VI, cit., 229-233; P. CALENDINI, Bernières-Louvigny (Jean de), in DHGE, Paris 1935, t. VIII, 842-843; R. HEURTEVENT, Bernières-Louvigny (Jean de), in DS 1, 1522-1527; ID., L’Oeuvre spirituelle de Jean Bernières-Louvigny, Paris 1938; J. LAFFETAY, Histoire du diocèse de Bayeux, Bajeux 1855, 110-113; E. LAMALLE, Bernières-Louvigny, Jean de, in EC II, 1447-1448; E. LAURENT, Monsieur de BernièresLouvigny. Essai historique sur sa vie et ses écrits, Caen 1872; T. LEBRETON, Biographie normande, t. 1, Rouen 1857, 105; L. LUYPAERT, La Doctrine spirituelle de Bernières et le quiétisme, in Revue d’histoire ecclésiastique t. 36 (1940) 19-130 ; P. POURRAT, La 63
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caennesi, tra le quali le Orsoline in Canada, attraverso Marie de l’Incarnation (M.me Guyart)65: «Avremmo desiderato sentire Bernières quando parlava a madre Mectilde della vita di orazione e della vita eucaristica della sua corrispondente del Canada. Ci è facile quindi immaginare con quale prontezza e fervore ella sia entrata in relazione con dom Claude Martin, depositario del pensiero e delle esperienze mistiche di sua madre, ed egli stesso autore spirituale»66. Dopo aver studiato al collegio dei gesuiti di Caen, sarà diretto da p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô67: «en lui, Jean de Louvigny découvre la guide indispensable de sa vie spirituelle; à son contact, il développe son goût pour l’oraison intérieure et acquiert une bonne culture religieuse et mystique»68. Jean de Bernières-Louvigny fu membro della Société de la sainte abjection, fondata dal francescano, col nome di «frère Jean de Jesus pauvre»69. Il p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô rappresentò una figura di direttore talmente fondamentale che «Ce n’est pas qu’il eût pris d’autre directeur depuis la mort du saint homme, se réglant toujours par le conseils qu’il avait reçus, et demeurant même dans cet état par ses avis»70. Su suo consiglio, Jean de Bernières-Louvigny dà vita (4 febbraio 1645) a Caen, vicino al monastero delle Orsoline — tra le quali c’era sua sorella, la mère Jourdaine de Bernières — ad una casa di ritiri, Spiritualité Chrétienne. IV Les Temps Modernes. 2e Partie. Du Jansenisme à nos jours, Paris 1928³, 136-149. 65 Madre di dom Claude Martin, benedettino maurino di Saint-Germain-des-Près molto vicino a madre Mectilde, a rue Cassette. 66 A. RAYEZ, La spiritualità al tempo di Madre Mectilde de Bar, in C. M. DE BAR, Non date tregua a Dio. Lettere alle monache 1641-1697, Milano 1979, 32. 67 Cfr. D. TRONC, Une filiation mystique: Chrysostôme de Saint-Lô, Jean de Bernières, Jacques Bertot, Jeanne-Marie Guyon, in XVII siècle n. 118 (2003/1) 95-116. Di iniziazione mistica tra p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, Jean de Bernières-Louvigny e Mectilde de Bar, alla luce del pensiero dello Pseudo-Dionigi, parla invece Pitaud, La corrispondenza, cit., 68-69. 68 C. QUILLET, De la notion de milieu spirituel, cit., 438. 69 Cfr. H.-M. BOUDON, L’Homme Intérieur, cit., 1311-1312. 70 Ibid., 1312.
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“l’Ermitage”71, per le anime desiderose di vita contemplativa, e che divenne sede anche della locale “Compagnia del SS. Sacramento”72, fondata (1630) da Gaston De Renty, della quale, alla morte del barone (1649)73, Jean de Bernières assunse la direzione74. Occupazioni principali dei “devoti” dell’Ermitage — «exemple de sociabilité religieuse exceptionnel […] fondée sur le partage du vécu intérieur de la conscience religieuse»75 — erano la visita dei malati, le opere di carità e l’orazione. E proprio «Cette volonté de communiquer et de partager ensemble des états mystique, vécus jusque-là dans la solitude, constitue leur force: toute leur activité charitable ne prend sens que dans le cadre de cette solidarité chrétienne profonde animée par le desir de saisir la présence divine au cœur même de l’être humain et pécheur»76. Nell’Ermitage «tutte le vocazioni cristiane, che davano spazio all’orazione personale prolungata e al discernimento, si trovavano come a casa propria, cogliendosi come realizzazioni parziali e convergenti, degli “stati” di Cristo»77. Questo “luogo santo” era, infine, impregnato dello spirito di p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, come attesta lo stesso Jean de Bernières a madre Mectilde: «Qui godrete della solitudine quando vorrete, e troverete il nostro caro Padre. Coraggio, poiché troverete qui delle persone che hanno il suo spirito; quanto a me, sperimento molto aiuto da lui, al punto che immagino che egli conversi invisibilmente tra noi. Non mancate di recarvi a visitare la sua tomba prima di partire»78. Alla morte di p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, Jean de BernièresLouvigny gli successe come direttore di coscienza non solo di nume71
Cfr. ibid., 1314. Su questa famosa associazione, cfr. A. TALLON, La Compagnie du Saint-Sacrement (1629-1667). Spiritualité et societé, Paris 1990. 73 Sullo stretto legame tra i due, cfr. J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XIII. Sur la mort de Monsieur de Renti, 4 May 1653, in Les Œuvres spirituelles, cit., 212-213. 74 Cfr. C. QUILLET, De la notion, cit., 446ss. 75 C. QUILLET, De la notion, cit., 435.457. Rimandiamo all’articolo per la dettagliata descrizione dell’organizzazione dell’Ermitage e dei personaggi che vi hanno dimorato. 76 C. QUILLET, De la notion, cit., 457. 77 Il segreto di Mectilde de Bar, cit., XLVII. 78 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettera a Mectilde de Bar, 15 giugno 1647, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 70. 72
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rosi laici, ma anche di preti, religiosi e religiose, al punto che gli eremiti di Caen nell’epitaffio composto alla sua morte scrissero: sine infula episcopus79. In questa mansione, Jean de Bernières-Louvigny fu stimatissimo e ritenuto un vero e proprio capo del movimento mistico normanno. Intorno a lui si irraggiarono anime molto elevate in devozione, tra cui Eudes, Boudon e la nostra Mectilde de Bar. E questo nella Francia del XVII secolo che, con l’école française, aveva messo al centro il sacerdozio. Il suo, postumo (1660), Le Chrétien intérieur où la conformité intérieure que doivent avoir les chrétiens avec Jesus-Christ, divisé en huit livres ebbe un successo editoriale che nessun altro testo di mistici francesi dello stesso secolo conobbe80. Secondo Pourrat, alla base della spiritualità di Jean de BernièresLouvigny c’è l’anéantissement di Bérulle, spinto al massimo81. E proprio dall’amore verso il proprio anéantissement e la propria abiezione nascerà nell’uomo l’amour pur che esige la rinuncia ad ogni interesse proprio, anche il più santo, quale quello della salvezza, per vivere pienamente e perfettamente l’abbandono alla volontà di Dio. La pietà, poi, «è a un tempo teocentrica e cristocentrica; ma l’Uomo-Dio gli appare innanzitutto come il modello per eccellenza dell’annientamento, e ama insistere sugli stati abietti a cui Gesù si è abbassato per nostro amore. A essi, per prima cosa, noi dobbiamo aderire attraverso le sofferenze e le croci, che ci condurranno a ciò che Bernières chiama la vita sovraumana. Ma non possiamo raggiungerla che con un totale abbandono a Dio nell’indiffe-
79 Cfr. M. SOURIAU, La Compagnie du Saint-Sacrement de l’Autel à Caen : deux mystiques normands au XVIIe siècle. Monsieur de Renty et Jean de Bernières, Paris 1913, 342. 80 Su quest’opera, cfr. A. VALLI, Louis-François d’Argentan le “Chrétien interieur” e l’“Ermitage” di Jean de Bernières, in Collectanea Franciscana 79 (2009/3-4) 573-602 e EAD., Qualche nota di metodo per rileggere Jean de Bernières (1602-1659), in Ho Theológos n.s. 27 (2009/2) 273-284. Su Les pensée de Monsieur de Bernières-Louvigny ou sentiments du chrétien intérieur sur les principaux mystères de la foi, Paris 1678, cfr. EAD., Les Pensées de M. de Bernières Louvigny, documento del suo vissuto, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 46 (2010/1) 103-132. 81 Cfr. P. POURRAT, La Spiritualité Chrétienne. IV Les Temps Modernes. 2e Partie. Du Jansenisme à nos jours, Paris 1928³, 138-139.
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renza e nel puro amore»82. In Bernières netta è, poi, la distinzione tra vita attiva e vita contemplativa consapevole che la prima può allontanare il contemplativo dalla sua vocazione particolare. Da qui la necessità, per quest’ultimo, di disimpegno dalle creature e di annientamento perché solo a Dio compete tutto l’essere. Per Jean de Bernières-Louvigny, inoltre, «‘le secret de la vie intérieure la plus parfaite est de ne jamais se séparer de Dieu, puisqu’en Lui on a tout’ (Œuvres spirit., p. 277). Cette union à Dieu, assez difficile en soi, est facilité par l’union à Jesus. Son humanité est le modèle de la nôtre. […] Jésus seul, Dieu seul, ce sont des expressions dont l’influence pénètrera tous ceux qui approchent du fondateur de l’Ermitage, et l’on comprend que, plus tard, son fidèle ami Boudon en fasse la devise qui résume toute sa doctrine mystique»83. Jean de BernièresLouvigny fu anche tra gli assertori, per i credenti che avevano ricevuto una vocazione speciale di Dio — non per tutti, per i quali bastava l’orazione comune e ordinaria (la meditazione) — dell’Oraison de simple regard, quella mistica propriamente detta, totalmente passiva.
Già nel 1958 Cognet afferma come la Mectilde de Bar sia stata profondamente influenzata da Jean de Bernières-Louvigny, non tanto per il tempo trascorso con lui, quanto per il lungo rapporto epistolare intercorso tra i due84: dalla fine del 1642 alla morte del caennese (1659)85: «La personalité de celui-ci était à la fois très forte et très atta82 L. COGNET, Introduzione, in C. M. DE BAR, Il sapore di Dio, cit., 12. Secondo Jean Leclercq, la spiritualità di Bernières è soltanto cristocentrica, cfr. Una scuola di spiritualità benedettina: le Benedettine dell’Adorazione perpetua, in Non date tregua a Dio, cit., 13 (or.: Une école de spiritualité datant du XVIIe siècle: les bènédictines de l’adoration perpétuelle, in Studia Monastica 19 (1977/2) 433-453 e 20 (1978) 397-409; tr. it.: Una scuola di spiritualità benedettina: le benedettine dell’adorazione perpetua, in Ora et Labora 32 (1977) 55-75 e 34 (1979) 96-105). 83 R. HEURTEVENT, Bernières-Louvigny, cit., 1525. 84 Sull’epistolario tra i due cfr.: B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 57-82. Nell’articolo (p. 59), il sulpiziano scrive come le prime due lettere di Jean de BernièresLouvigny a Mectilde de Bar che si possiedono recano come data febbraio 1643; la prima di madre Mectilde a Jean de Bernières-Louvigny è invece del 30 giugno dello stesso anno. Nel 2004 Letellier dà notizia che il sunnominato religioso sta preparando uno studio sull’epistolario, cfr. J. LETELLIER, Aderire a Dio, cit., p. 17, n. 12. 85 Le monache benedettine custodiscono ben 145 lettere indirizzate da madre Mectilde a Jean de Bernières-Louvigny, cfr. Documents historiques, 65 n. 21 (per lo stesso testo, a p. 34; per la Nota tecnica, ne Il sapore di Dio, 38; per Daoust, Mère
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chante, et d’autre part, la mère Mectilde qui avait déjà certainement subi l’influence Canfeldienne, était toute prête à la compléter par les aspects, plus centrés sur le Christ, de la piété de Bernières, et cela explique qu’elle y entre si facilement»86. Dal 1647 al 1650 ritroviamo madre Mectilde nuovamente a Caen e, precisamente nel monastero di Notre-Dame du Bon-Secours, in qualità di riformatrice: «Autant de raisons pour que de plus en plus elle s’imprègne à sa manière, mais d’una manière très profonde aussi, de la spiritualité du groupe [de] Bernières»87. E ancora, secondo Heurtevent: «Si Mechtilde du Saint-Sacrement a fondé les bénédictines de l’Adoration perpétuelle du Saint-Sacrement c’est qu’elle a été determinée à le faire par Jean de Bernières et soutenou par l’appui moral et matériel des membres de l’Hermitage de Caen»88. Nel 1965 Cognet ritorna a parlare del mistico normanno, evidenziando come: «Nel Bernières la madre incontrò una delle personalità religiose più interessanti del XVII secolo. Piissimo, considerato da tutti i suoi ammiratori come un santo, dotato di elevatissimi doni soprannaturali, Bernières ricopriva il ruolo di un vero e proprio direttore laico, e la sua influenza si estendeva a largo raggio. Non pubblicò nulla mentre era in vita, ma dopo la sua morte dalle sue lettere e dalle sue note vennero tratte diverse pubblicazioni di una fedeltà purtroppo assai sospetta. Tuttavia il loro studio è indispensabile per ben comprendere il pensiero di madre Mectilde, che del resto utilizzò ulteriormente tali opere»89.
Per Cognet, diverse sono le fonti di Jean de Bernières-Louvigny: la mistica renano-fiamminga, Benoît de Canfeld, Caterina di Genova, Bérulle, visto dalla prospettiva di de Condren, che madre Mectilde Mectilde épistolière, in Catherine de Bar 1614-1698, cit., 148; e per Letellier, Aderire a Dio, 17 n. 12, le lettere sono 137). 86 L. COGNET, Madre Metilde del SS. Sacramento [III], cit., 36. 87 Ibid., 37. 88 R. HEURTEVENT, Compagnie du Saint-Sacrement, in DS 2, 1311. Per Rayez in questa affermazione «C’è verosimilmente un po’ di esagerazione» (La spiritualità al tempo, cit., in C. M. DE BAR, Non date tregua a Dio, cit., 34). 89 L. COGNET, Introduzione, in C. M. DE BAR, Il sapore di Dio, cit., 11.
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tantò apprezzo: «Abbiamo qui la vita di Condren. La prestai a un ecclesiastico ma gliela farò chiedere per darla a voi. Questo gran santo fu una vera vittima, in vita e in morte»90. Ma anche Giovanni della Croce: «mais Bernières n’en pas moins sa physionomie bien particulière: tout son “rien” semble se cristalliser autour de “Jésus pauvre, abject et souffrant”, autour de “l’amour de l’abjection”»91. Madre Mectilde si fida talmente di Jean de Bernières, da ritenerlo l’unico capace di comprendere ciò che lei vive spiritualmente e manifesta nei suoi scritti, che desidera non siano palesati ad alcuno: «car de plus de mille personnes vous n’en trouverez pas une de ma voie ni qui luit soit arrivé tant de choses»92. Inoltre, è certa che è strumento di Dio per lei: «Credete, mio amatissimo fratello, che gli effetti della vostra santa carità verso di me sono estremamente mirabili, e non sono in grado di comprendere come Nostro Signore vi dia una così grande bontà per una povera peccatrice; vuole convertirmi per mezzo vostro, ne ho le prove sicure perché grazie agli aiuti che mi avete dati e procurati, sono uscita da certi stati interiori a cui le mie imperfezioni mi tenevano legata»93.
Per questo madre Mectilde, di continuo, lo invita a scriverle: «J’ai trouvé long votre silence…»94, «Ecrivez-moi… si vous y êtes poussé par le Saint Esprit»95, «ne m’oubliez pas, écrivez-moi»96, «Quanto a me, mio carissimo fratello, vi sono debitrice per la più breve delle vostre lettere che la vostra bontà si prende pena di scrivermi, e mi dà un bene90 C. M. DE BAR, Le lettere a madame de Rochefort, Lettera I, 28 giugno 1652, in EAD., Il sapore di Dio, cit., 236. 91 V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 58. Nelle pagine immediatamente seguenti, Andral relaziona sulla buona conoscenza che madre Mectilde aveva del mistico spagnolo. 92 C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, mars 1644, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 55. 93 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, in ms. P. 101, p. 176, 18 agosto 1644, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 62-63. 94 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 21 octobre 1644 (61), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 55. 95 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 3 janvier 1644, cit. l.c. 96 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 29 janvier 1645, cit. l.c.
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ficio interiore ed una consolazione più grande di quella che avrei se mi donaste degli imperi»97, «un pauvre petit mot […] S’il ne vous le permet (le trait intérieur, ndr.), je n’en veux pas»98. Pur rispettando sempre i silenzi di Bernières: «Non osavo interrompere il vostro silenzio perché avevo appreso che eravate nelle gioie del divino Sposo. È ciò che mi ha fatto restare ai piedi di Gesù Cristo, soffrendo per suo amore la privazione delle vostre amate notizie, perché era questo il suo beneplacito, deliziandomi di sapervi tutto occupato in lui e di lui»99. E quando «Le bon père Chreysostôme tombe malade, Bernières devient “l’ange” de mère Mectilde»100, senza cessare di rimanere «mon bon, mon très cher et très intime frère»101. Quando poi il frate morirà (26 marzo 1646), Jean de BernièresLouvigny diventa per madre Mectilde padre e fratello102: «sono inconsolabile, e benché la mia gioia più cara sia nella volontà di Dio, la sua maestà permette che io senta questa perdita fino in fondo; mi sento così priva di appoggio da non sapervelo esprimere. […] Carissimo fratello, abbiate pietà di me, e per l’amore che questo santo Padre vi portava, siate per me in questo mondo ciò che egli era»103. Neanche quindici giorni dopo, madre Mectilde scrive ancora a Jean de Bernières-Louvigny perché capisca meglio qual è la sua nuova funzione: «La vostra umiltà vi ha fatto dire ciò che non dovete pensare, mio carissimo fratello; a me che sono la stessa debolezza e povertà, è permesso ricorrere a voi e il nostro santo Padre (p. JeanChrysostôme de Saint-Lô, ndr.) me l’ha ordinato nella sua ultima visita, di modo che voi sarete d’ora in avanti sia il mio padre che il 97 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 14 dicembre 1647, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 67. 98 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 14 juillet 1651, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 78. 99 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 3 maggio 1647, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 69. 100 V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 56. 101 Ibid., 51. 102 Cfr. (1061), ibid., 57. 103 C. M. DE BAR, Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 28 marzo 1646, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 65.
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fratello carissimo, sperando che il santo amore che ci unisce vi darà sufficiente carità per aiutarmi»104. E l’anno dopo: «Seguirò in tutto il vostro parere, perché voi avete buona parte alla grazia e allo spirito del nostro buon Padre, ed è ciò che mi faceva accettare più volentieri il nostro risiedere a Caen. Questo degno Padre mi ha lasciata in un inizio che chiede di essere coltivato con la continuazione delle sue massime e dei suoi sentimenti, ed io pensavo di ricevere questa grazia dalla vostra carità, se il buon Dio mi avesse avvicinata a voi, ma poiché non lo vuole, la sua santa volontà sia fatta»105.
Per questa ragione madre Mectilde anela ad avere incontri spirituali con Jean de Bernières-Louvigny: «Votre saint entretien que je désire autant qu’il m’est possible sans me retirer de la soumission que je dois avoir à toute privation»106, «Mon âme aime et chérit la vôtre plus intimement, plus cordialement et fortement que jamais… Plût à Dieu vous tenir une ou deux heures à notre parloir. A Dieu jusqu’à lundi, je ne peux me pouvoir mortifier de me priver de vous écrire le plus souvent que je poutrrai, je vous conjure de l’agréer»107. E ancora, sulla tenerezza: «Mon âme ressent une grande tendresse pour la vôtre»108 e sull’annientamento: «Il y a des degrés dans le saint anéantissement, je n’y suis pas encore tout-à-fait, j’ai bien besoin d’un entretien avec notre bon frère (Bernières)»109. Jean de Bernières-Louvigny, pur non cessando di donare l’aiuto richiestogli da madre Mectilde, resta però stupefatto: «Tutto ciò che mi stupisce, è che voi vi sentiate aiutata da me che sono quello che Dio sa»110. 104
EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 10 aprile 1646, cit. l.c. EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 16 febbraio 1647, cit. ibid., 68. 106 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 18 janvier 1647 (630), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 57. 107 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 5 novembre 1648 (804), cit. ibid., 72. 108 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 7 décembre 1648 (169), cit. l.c. 109 EAD., Lettre à Roquelay, 22 février 1653 (842), cit. ibid., 86. 110 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettera a Mectilde de Bar, 1 febbraio 1647, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 70. 105
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Il mistico caennese, però, oltre a venire in aiuto di madre Mectilde, è da lei sostenuto spiritualmente: «Perdetevi, fratello carissimo, e fratello davvero caro, e lasciatevi consumare nel divino silenzio con cui lo Spirito Santo vi attira; ma vi scongiuro, non osservatelo verso di me, perché Nostro Signore non vuole che abbiate qualche riserva o ritegno con la vostra povera e indegna sorella. Comprendo bene, mi pare, la ferita che vi lavora così dolcemente, cedetevi soavemente alla sua santa violenza e continuate a dirmi il vostro pensiero, ve ne scongiuro con molta insistenza»111.
Per questo motivo l’unione tra i due si presenta realmente profonda…: «La mia anima ama e predilige la vostra più intimamente, più cordialmente e intensamente che mai, e non so chi renda così stretta questa unione, vista l’impurità della mia e quanto sono lontana dalla minima perfezione che la grazia ha invece stabilito nella vostra. Tuttavia la vostra santità è la mia, e desidero per voi tutto ciò che io vorrei possedere per appartenere più puramente a Gesù Cristo. A questo riguardo dunque, mio fratello carissimo, sopportate la mia libertà che vi scongiura di rimanere nella fedeltà al vostro sacrificio»112.
… anche perché ambedue favoriti di grazie divine: «Il est necessaire que celuy qui marche, & celui qui conduit soient favorisez de graces de Dieu d’une maniere particuliere: autrement ils demeureront tous deux en chemin, & n’iront pas jusq’au point de la conformation parfaite»113. Tale profonda unione ricorda bene altri legami esistenti tra grandi santi. A tal proposito, Andral riferisce — e commenta — un episodio della vita di madre Mectilde e Jean de Bernières, espunto, perché censurato, dal ms. P 101: 111
C. M. DE BAR, Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, pre-26 ottobre 1648, cit. ibid., 70-71. 112 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 5 novembre 1648, cit. ibid., 71. 113 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XXV. A la mesme Religieuse [madre Mectilde], contenant un abregé de la voix mystique, 20 Octobre 1654, in Les Œuvres spirituelles, cit., 244-245.
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«Bernières est venu voir mère Mectilde à Paris, les voilà tous deux au parloir, perdus en Dieu. Cet entretien dura plusieurs heures, si bien qu’ils en oublient de prendre leur repas, au grand désespoir de la Soeur tourière et de la Communauté. Ils étaient tous les deux plus ou moins en extase… Pourquoi s’en étonner? Cela n’arrive-t-il pas à sainte Thérèse avec saint Jean de la Croix? Et saint Benoît avec sa soeur Scholastique, n’ont-ils pas passé la nuit à louer Dieu?»114.
Scorriamo ora alcune lettere della corrispondenza tra queste due figure spirituali del Seicento francese. Nella prima lettera di Jean de Bernières a madre Mectilde che possiediamo, il mistico normanno — non ancora direttore spirituale di madre Mectilde — non esita a manifestarsi incapace in ordine alla direzione spirituale: «mia cara sorella, io non voglio più apparire come padre spirituale per voi; non sta a me fare l’esperto delle cose devote; quanto al resto, c’è molto di “natura” in tutto questo; non ne farò più nulla, a meno che voi non mi diciate di farlo. Ma state attenta alla guida di Dio su di me; sono molto imperfetto e spregevole, mentre appaio diverso tra le spose di Cristo; non sono degno di baciare la terra sulla quale camminano»115.
Nella lettera seguente116 troviamo una richiesta ben precisa, espressa con linguaggio crudo, di Bernières a madre Mectilde in ordine alla correzione fraterna: «Sono spinto ad affidarvi una commissione che vi scongiuro di eseguire fedelmente: siete la migliore amica che io possieda al mondo, almeno, così credo; siatelo nell’eseguire questa commissione: appena scoprirete che il mio cuore non sarà conforme a quello di Gesù, prendete un rasoio, apritemi il costato e strappate questo cuore miserabile»117. In una lettera scritta dopo il 15 febbraio 1644, madre Mectilde, a causa dei numerosi impegni di p. Jean-Chrysostôme, chiede a Jean de Bernières di occuparsi talvolta di lei: «supplico la vostra carità di accettare che io mi rivolga qualche volta a voi per riceverne ciò che richiede 114
V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 101. J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettera a Mectilde de Bar, 2 febbraio 1643, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 59. 116 Senza data, ma, alla luce dei contenuti espressi, vicina a quella precedente, cfr. l.c. 117 ID., Lettera a Mectilde de Bar, febbraio? 1643, cit. l.c. 115
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la mia necessità e ciò che la gloria di un Dio vi obbliga a darmi»118. Ed ancora, a fine marzo: «Spero molto dalla vostra carità; siate semplice con me quanto io lo sono con voi e non respingete le mie umili preghiere, dopo che avrete riconosciuto le mie indegnità. Attraverso la conoscenza delle mie necessità sarete doppiamente obbligato a soccorrermi, la carità perfetta richiede questo da voi»119. In una lettera indirizzata a Jean de Bernières, madre Mectilde parla dell’amore misericordioso di Dio verso di lei: «Ne pouvant me persuader que la Majesté adorable d’un Dieu daignât bien abaisser les yeux pour regarder la plus impure des créatures et la plus sale néant qui fut jamais sur terre… Si elle me mandait que la très sainte et très amaible justice de mon Dieu m’abîmerait au centre des enfers, je n’aurais nulle difficulté de porter croyance à une telle sentence. Car en esprit j’y suis en quelque manière abîmée, ne voyant aucune place qui me soit convenable que le plus affreux de ces cachots que je porte par hommage à la divine, très sainte et amoureuse justice de mon Seigneur et de mon Dieu, que j’aime d’une tendresse égale à sa sainte miséricorde. Si j’osais je dirais davantage, prenant un plaisir plus grand dans l’effet de la première que de l’autre, parce que je vois una main d’amour qui fait justice à soi-même, faisant ce que mon amour-propre m’empêche de faire. Aimez Dieu pour moi, mon très cher frère, voilà tout ce que je puis dire dans l’état présent»120.
Cinque giorni dopo, madre Mectilde scrive un’altra lettera a Bernières per manifestargli il suo programma: «Mon actuelle occupation est de tendre à lui et d’être à lui sans aucune réserve»121. Ed ancora, l’anno seguente: «Le plus intime sentiment qui me possède est de rentrer en Dieu. Cette simple pensée est mon occupation ordinaire et le plus intime de mes désirs… la mort, l’anéantissement est mon affection… La vue de ma misère est actuelle, mais je me réjouis en 118
EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, post 15 febbraio 1644, cit. ibid., 62. EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 31 marzo 1644, cit. l.c. 120 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 13 août 1644 (2276), cit. in V. ANDRAL, Itinerair spirituel, cit., 39. 121 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 18 août 1644, cit. ibid., 40. 119
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Dieu qui est la souveraine perfection et qui est suffisant à soimême»122. Il 1645 è l’anno in cui sia Jean de Bernières che madre Mectilde con altre consorelle, che si trovano a Saint-Maur-des-Fossée, si manifestano reciprocamente il desiderio di ritirarsi in solitudine. Due sono le fonti. La prima è tratta da una vita di madre Mectilde: «La mère Mectilde écrivit deux lettres à m. de Bernières a Paris, dans lesquelles elle lui représente au vif les grands désirs qu’elles avaient pour la solitude. Elle lui fit aussi savoir qu’elles sont déjà au nombre de cinq qui avaient ce dessein, qu’elles le prient de prendre cette affaire en mains, et d’avertir en même temps le père Chrysostôme pour en savoir son sentiment là-dessus»123. La seconda è una lettera di madre Mectilde a Jean de Bernières-Louvigny: «(Je) vous assure de la constante et ferme résolution des cinq solitaires qui augmente tous les jours dans l’affection à une sainte retraite telle que votre bonté se propose de nous faire observer, nos désirs sont extrêmes… Et comme je ne reconnais au ciel ni en la terre point de bonheur plus grand que celui d’aimer Dieu d’un amour de pureté, faisant quelques fois réflexion sur le genre de vie que nous prétendons d’embrasser, il me semble que c’est le chemin raccourci qui conduit au sacré dénuement… Il faut être pauvre de toutes sortes pour l’amour de celui qui nous appelle dans sa voie»124.
Il 4 luglio 1645 madre Mectilde risponde a Jean de Bernières per confortarlo perché finanziaramente non è in grado di sostenere il progetto eremitico delle religiose: «È in questo momento che sarete il nostro vero Padre nella povertà e nell’abiezione, perché mi pare che non vi possa essere l’una senza l’altra. […] Se egli (Dio, ndr.) vi riduce a vivere di elemosina, sarà per consumare la perfezione di essere più conforme a Gesù povero, disprezzato e annientato… è una grande grazia che Dio fa ad un’anima che riduce a mendicare e senza appoggio all’infuori della sua amorosa Provvidenza. È abbastanza 122 123 124
EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 25 janvier 1645, cit. ibid., 41. Ms. N. 250, p. 53, cit. ibid., 42. C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 30 juin 1645 (1386), cit. l.c.
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Mario Torcivia misericordioso per farvi entrare in questo stato. Un po’ di pazienza e ne vedremo i frutti. […] Vi confesso che la lettura della vostra lettera mi ha molto stupita. Dio lavora quando noi non ci pensiamo. Facciamo tutto il possibile con puro e santo abbandono alla guida di Dio»125.
Lo stesso giorno, madre Mectilde scrive al suo direttore spirituale per manifestargli la fermezza in ordine al progetto eremitico. Nella risposta, il religioso invita alla pazienza: «Un peu de patience pour votre ermitage, entrez maintenant dans la pure solitude du coeur»126. Sempre il 4 luglio, Jean de Bernières-Louvigny si attiva per il progetto della monache scrivendo ad un amico: «j’ay trouvé cinq ou six personnes, de rare vertu, & attirées extraordinaiment à l’oration et à la solitude, qui desirent se retirer dans quelque ermitage pour y finir leur vie, & être dans l’éloignement du monde, dans la pauvreté & l’abjection, & inconnuës aux seculiers qu’elles voudroient point voir, mais estre connuës à Dieu seul. Il y a long temps que Notre Seigneur leur inspire cette maniere de vie. J’aurois grand desir de les y servir au dehors, & favoriser leur solitude, puisque nous avons attrait à ce genre de vie, qu’elles entreprennent sans vouloir se multiplier, ni augmenter de nombre, mesme en cas de mort. C’est un petit tropeau de victimes qui s’immoleroient les unes après les autres à Dieu. Ce sont d’excellentes dispositions que les leurs, & leur plaisir seroit de mourir dans les miseres, la pauvreté & les abjections, sans estre vuës, ni visitées de personnne que de nous. Cherchez donc un lieu pour ce sujèt, où elles puissent demeurer closes et couvertes, en lieu sain, & auprès de pauvres gens ; car le dessein est d’embrasser & de marcher dans les grands voies, & les états pauvres & abjets de JESUS. Tous esprits ne seroient pas capables de telles choses, mais ces personnnes sont fortes en nature, & en graces. Faites donc ce dont je vous prie sur ce sujet, & sur tout gardez le silence, sans en parler à personne du monde»127.
125
EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 4 luglio 1645, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 64. 126 J.-C. DE SAINT-LÔ, Lettre à Mectilde de Bar, post 4 juillet 1645, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 43. 127 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XIX. Au mesme ami intime, 1645. 4 Juillet, in Les Œuvres spirituelles, cit., 53-54 (tale lettera la si ritrova anche in ms. P 101, p. 199).
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Otto giorni dopo, Jean de Bernières invia un’altra lettera agli amici caennesi: «Cherchez tous ensemble par-delà une maison qui soit propre à nos ermites, leur dessein est approivé… La mère Mectilde est une âme toute de grâce…»128. In novembre, madre Mectilde scrive a Jean de Bernières che sta ritirandosi per un mese con p. Jean-Chrysostôme129: «È dunque oggi che entro nella privazione della vostra cara presenza e devo adorare la divina Provvidenza che dispone così, lasciandovi andare volentieri e con umile sottomissione laddove vi chiama, perché il suo santo amore ci ha uniti per l’eternità, andate presto ovunque dove la gloria vi chiama; non vi perderò di vista davanti alla sua maestà, ma nel nome di Gesù e della sua santa Madre, ricordatevi qualche volta di pregare Dio per me»130.
E continua: «Je ne puis vous dire les bons effets que vos écrits font en moi…»131, e «particolarmente le vostre disposizioni presenti, quando la carità vi spinge a scriverne qualcosa»132. Rivolge poi una richiesta a Jean de Bernières in ordine a p. Jean-Chrysostôme: «Obbligatelo con le vostre intime preghiere ad essere sempre il mio padre e il mio caro direttore, perché la bontà di Dio me l’ha dato attraverso di voi»133, […] «Je vous supplie, envoyez-moi la suite de votre disposition présente… […] A Dieu, le cher amant de mon Dieu!...»134. Alcuni giorni dopo, madre Mectilde rivela a Bernières quanto vive il proprio cuore: «J’ai plus de passion que jamais de me retirer en solitude pour me délaisser toute à Jésus… vivre sans l’aimer, c’est 128 ID., Lettre à [les amis de Caen], 12 juillet 1645, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 43. Il progetto eremitico non si realizzò. 129 Cfr. B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 64. 130 C. M. DE BAR, Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 11 novembre 1645, cit. l.c. 131 EAD., Lettre a Jean de Bernières-Louvigny, 11 novembre 1645 (185), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 56. 132 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 11 novembre 1645, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 64. 133 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 11 novembre 1645, cit. l.c. 134 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 11 novembre 1645 (185), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 56.
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mourir»135 e gli chiede come sta: «Ditemi, vi prego, in confidenza e in vera semplicità ciò che prova al presente la vostra anima, ciò che soffre e ciò che riceve da quell’influsso di amore che sperimenta, non dissimulate, parlate semplicemente. […] Il santo personaggio che mi avete dato come guida (p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, ndr.), mi ordina di rivolgermi a voi per ricevere qualche aiuto nel mio dolore»136. L’anno seguente ancora una lettera di madre Mectilde a Jean de Bernières: «Notre Seigneur m’a fait beaucoup de miséricordes (qui me plongent dans le) silence… La puissance et très adorable main de mon Dieu me touche et m’attire efficacement… Il me semble que je commence à vivre depouis que mon Dieu règne plus absolument en moi»137. Abbiamo già detto, parlando di p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô, dell’indirizzo dato a madre Mectilde in ordine alla comunione quotidiana. Diretta ora da Jean de Bernières-Louvigny, madre Mectilde gli scrive, il 7 luglio 1646, per manifestargli il desiderio della comunione quotidiana. Ottenuto il permesso, madre Mectilde gli scrive un’altra lettera: «Bisogna parlare delle nostre Comunioni. Il mese scorso mi avete ordinato di comunicare quotidianamente, vi dirò che sono stata tentata più di sei volte a non perseverare. Vedendo quelle orribili infedeltà che sono in me e che la mia anima è tutta impura, il timore mi afferrava; e poi il pensiero del vostro comando mi fortificava e mi faceva comunicare. Ho pregato molto, perché piaccia alla divina volontà di farvi conoscere le mie miserie, affinché mi manifesti attraverso voi la sua santissima volontà. Ho avuto qualche aridità a metà del mese e, verso la fine, più amore e desiderio di fedeltà, nella pura adesione a Dio solo»138.
135
EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 15 novembre 1645 (428), cit. l.c. EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 15 novembre 1645, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 65. 137 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 10 février 1646 (794), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 43-44. 138 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 26 agosto 1646, cit. in J. DAOUST, Il messaggio eucaristico di Catherine de Bar. Madre Mectilde del SS. Sacramento. 16141698, Milano 1983, 45. 136
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Agli inizi di gennaio del 1647, apprendiamo di una malattia di Jean de Bernières, che tanto pensiero procura a madre Mectilde: «Dateci qualche volta vostre notizie senza scomodarvi, e dello stato della vostra malattia; temo che essa possa strapparvi come nostro buon Padre dopo molta sofferenza. Ahimé se questo succedesse, mi troverei molto povera di grandi amici; ma se Dio lo vuole, bene, vi sacrifico. Egli non vede l’ora di vedermi tutta sola, senza aiuto e senza appoggi se non Dio solo nel quale mi riposo»139. Riguardo all’incarico di superiora nel monastero di Caen (1647) — di cui abbiamo già scritto supra — madre Mectilde si rimette totalmente a Bernières — «Choisissez pour moi ce qui est le plus de Dieu»140 — avvertito come consolatore in questo delicato frangente: «Vos saintes instructions sont la seule consolation qui me reste dans la douleur que mon peu anéantissement me fait ressentir sur cette élection»141. Nel 1650 madre Mectilde viene eletta priora a Rambervillers, ma ritorna la guerra in Lorena e madre Mectilde scrive a Bernières perché non sa cosa fare: «C’est ici une étrange solitude… [… mais] je ne veux rien faire de ma volonté»142. L’eremita di Caen le risponde il 14 febbraio 1651: «Je répondrai brièvement à vos lettres, […]. Je ne vous ai jamais oubliée devant Notre Seigneur, quoi que je ne vous aie pas écrit, notre union est telle que rien ne la peut rompre. Ces souffrances, nécessités et extrémités, où vous êtes, me donneraient de la peine si je ne connaissais le dessein de Dieu sur vous, qui est de vous anéantir toute, afin que vous viviez toute à lui, qu’il coupe, qu’il taille, qu’il brûle, qu’il tue, qu’il vous fasse mourir de faim, pourvu que vous mourriez toute sienne, à la bonne heure. Cependant, ma très chère Sœur, il se faut servir des moyens dont la Providence vous fera ouverture pour vous tirer du lieu où vous êtes, supposé l’extremité où vous réduit la guerre. J’ai bien considéré tous les expédients contenus dans 139 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 18 gennaio 1647, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 67. 140 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 11 mai 1647, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 49. 141 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 15 juin 1647 (1966), cit. ibid., 57. 142 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 7 janvier 1651 (2158), cit. ibid., 72-73.
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Mario Torcivia vos lettres ; je ne suis pas capable d’en juger, je vous supplie aussi, de ne vous pas arrêter à mes sentiments. Mais je n’abandonnerai pas la pauvre Communauté de Rambervillers, quoique vous fussiez contrainte de quitter Rambevillers; c’est-à-dire qu’il vaut mieux que vous retiriez à Paris pour y subsister, et faire subsister votre refuge qui secourera vos Sœurs de Lorraine; que d’aller au Pape pour avoir un couvent, ou viviez solitaire, ou que de prendre una abbaye: La divine Providence vous ayant attachée où vous êtes, il faut mourir, et de la mort de l’obéissance et de la croix. […] Dieu pourvoira à vos bésoins, si vous n’abandonnez pas les nécessités spirituelles de vos Sœurs. Voilà mes pensées pour votre établissement, que vous devez suivre en toute liberté! Pour votre intérieur, ne vous étonnez pas des peines d’esprit et des souffrances que vous portez parmi les embarras et les affaires que votre charge vous donne, puisque ce sont vos embarras et affaires de l’obéissance. Les portant avec un peu de fidélité, elle produiront en votre âme «une grande oraison», que Dieu vous donnera quand il lui plaira. Soyez la victime du son bon plaisir, et le laissez faire. Quand il veut édifier dans une âme une grande perfection, il la renverse toute; l’état où vous êtes est bien pénible, je le confesse, mais il est bien pur. Ne vous tourmentez point pour votre oraison, faites-la comme pouvez, et comme Dieu vous le permettra, et il suffit. Ces unions mouvementées, ces repos mystiques que vous envisagez ne valent pas la pure souffrance que vous possédez, puisque vous n’avez ce me semble ni consolation divine, ni humaine. Je ne puis goûter que vous sortiez de votre croix, par ce que je vous désire la pure fidélité à la grâce, et que je ne désire pas condiscendre à celle de la nature. Faites ce que vous pourrez en vos affaires pour votre Communauté, si vous soins ont succès à la bonne heure; s’ils ne l’ont pas ayez patience, au moins vous aurez cet admirable succès de mourir à toutes choses. Si vous étiez comme la mère Benoîte, religieuse particulière, vous pourriez peut-être vous retirer en quelque coin; mais il faut qu’un capitaine meure à la tête de sa compagnie, autrement c’est un poltron. Il est bien plus aisé de conselleir aux autres que de pratiquer. Dieu ne vous déniera pas ses grâces… Courage, ma chère Sœur, le pire qui vous puisse arriver c’est de mourir sous les lois de l’obéissance et de l’ordre de Dieu. A Dieu, en Dieu, je suis de tout mon cœur, ma très chère Sœur, votre très humble, obéissant, frère Jean hermite, dit Jesus pauvre»143.
143
Ms. P. 101, p. 320, cit. ibid., 73-75. Il testo lo troviamo, seppur con data diversa, anche in J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XXXIX. A la Superieure [Mectilde de Bar] d’une grande Communauté, ruinée par les desordres de la guerre, 1651. 3. Aoust, in Les Œuvres spirituelles, cit., 107-111.
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Nel 1651 madre Mectilde è a Parigi, e da questa città scrive a Jean de Bernières-Louvigny: «Je suis dans un lieu où les serviteurs de Dieu sont en gran nombre […] … mais Notre Seigneur ne veut pas que je fasse en cela ma fortune. Il me retire dans le fond où je trouve en Lui seul infiniment plus par la sainte union que tout ce que les créatures me peuvent donner par leur éloquence… O que c’est un grand secret d’être seule avec Dieu seul et de laisser faire son ouvrage. […] Je trouve quantité d’âmes qui vont à Dieu mais j’en trouve peu dans la profonde voie de mort et d’anéantissement… Cette voie n’est pas connue… il faut pourtant laisser tout mourir afin que Dieu seul soit!»144.
Tra la fine di luglio e i primi di agosto 1651 madre Mectilde si ammala. Alcuni mesi dopo, relaziona a Jean de Bernières su quanto avvertito: «J’aurais bien voulu vous écrire durant le fort de ma maladie. J’avais besoin de votre secours, mais… je ne pouvais tenir ma plume… Dieu est admirable dans ses conduites, il me mène à la mort et me remet dans la vie… (J’étais dans un entier abandon…) une impuissance de faire autre chose que de me laisser dans cet état de mort pour me rendre sans réserve à celui qui pouvait me donner la vie…»145. L’anno seguente madre Mectilde fa esperienza del niente e del consequenziale silenzio intorno alla propria esperienza spirituale e ne scrive a Jean de Bernières-Louvigny: «Je ne sais et ne connais plus rien que le tout de Dieu et le néant de toutes choses. J’ai bien passé par le tamis, depuis que je vous ai écrit… Je vous dirai un jour les miséricordes que Notre Seigneur m’a faites depuis un an et demi, et qu’il les a bien augmentées depouis quelque mois. J’observe tant le silence pour les choses intérieures que j’ai perdu l’usage d’en parler… Je n’ai pas la liberté intérieure de communiquer»146, al punto che pochi giorni dopo apprendiamo che anche la corrispondenza epistolare con Bernières si è interrotta: 144 145 146
80.
C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 3 juin 1651, ibid., 78. EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 25 novembre 1651 (796), cit. ibid., 79. EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 7 septembre 1652 (799), cit. ibid., cit.,
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Mario Torcivia «Il me semble que je vois un peu plus de séparation des créatures, et que même je dois m’abstenir de la conversation des saints qui sont sur la terre, à raison de la malignité de mon orgeuil ou de la subtilité de la vanité… Je suis en état d’observer plus de silence que du passé et de me tenir dans mon néant où l’on m’a fait reculer d’une étrange sorte pour en trouver le fond, et là, n’être plus trouvée des créatures. O quel bonheur d’avoir trouvé le centre de son néant. […] Je n’écris plus, même à notre très bon M. de Bernières. Ce n’est pas que j’aie volonté de rien lui cacher, mais ma loi m’abîme dans le néant et je ne trouve rien à écrire parce que je ne puis dire ce que je voudrais pouvoir exprimer, si Notre Seigneur me le permettait…»147.
È l’esperienza del “centro del nulla” e, due mesi dopo, ne scrive a Jean de Bernières, inviandogli il testo di p. Jean-Chrysostôme de SaintLô, La Sainte Abjection: «Notre Seigneur me fit la miséricorde de me faire rentrer d’une manière toute particulière dans le centre de mon néant où je possédais une tranquillité extrêmes, et toutes ces petites bourrasques […] ne pouvaient venir jusqu’à moi parce que Dieu, si j’ose parler de la sorte, m’avait comme cachée en Lui… Cela a bien détruit mon appui et ma superbe qui m’élevait de pair avec les saints, et à qui ma vanité semblait se rendre égale! Oh! Je suis bien désabusée de moi-même. Je vois bien d’autre oeil mon néant et l’abîme des mes misères! J’etais propriétarie de l’affection et de l’estime des bonnes âmes. Notre Seigneur a rompu mes liens de ce côté-là… Il m’a semblé que Notre Seigneur faisait un renouvellement en moi d’une manière bien différente des autres dispositions que j’ai portées en ma vie: il me dépoullait même de lui-même et m’a fait trouver repos et subsistance hors de toutes choses, n’étant soutenue que d’une vertu secrète qui me tenait unie et separé. C’est que Notre Seigneur me fait trop de miséricordes»148.
Agli inizi del nuovo anno madre Mectilde scrive a Jean de Bernières per essere aiutata nel discernimento in ordine alla fondazione del nuovo Istituto: 147
EAD., Lettre à fr. Luc de Bray, 24 septembre 1652 (658), cit. ibid., 81. EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 23 novembre 1652 (830), cit. ibid., 82.84. 148
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«Il n’y a que moi qui suis sous la presse et qui ai sujet de trembler. J’ai déjà voulu rompre trois ou quatre fois, mais parce que cette oeuvre pourrait être anéantie en même temps, l’on m’en fait scrupule de péché d’y resister ou d’empêcher l’effet… Je ne sais, mon très cher frère, si je dois tout quitter, ou soutenir le poids qui sans doute me fera succumber, je n’ai point de fond intérieur pour y subvenir, et je ne vois en moi que misères si effroyables que la moindre seriat capable de me faire mourir, si Notre Seigneur ne me soutenait… Je voudrais bien m’en retirer si j’en savais le moyen. C’est donc à vous que j’ai recours en cette angoisse… Déterminez-moi et me dites absolument ce que je dois faire pour la gloire de Notre Seigneur. Vous savez quelque chose de ma voie et ce que Dieu veut de moi»149.
Quasi a metà del 1653, madre Mectilde percepisce meglio il “nulla” e ne scrive a Jean de Bernières-Louvigny: «Le silence et la solitude est ma vie! […] Je commence à bien voir d’une autre manière que du passé le néant de toutes choses et le misérable amusement des âmes qui ne se rendent pas tout à Dieu… Mon âme semble ne vouloir plus rien en ce monde ni en l’autre que de se laisser toute à son Dieu et qu’il soit en elle selon son bon plaisir… […] Je ne sais si je vais à la perfection dans l’état où je suis, je ne vois plus rien. Dieu, Dieu et il suffit car je sais seulement qu’il EST»150.
In giugno, Jean de Bernières desidera affidare la direzione di madre Mectilde al gesuita Paul le Jeune/Lejeune (1591-1664). Madre Mectilde, anche se non entusiasta per paura che possa mettere scompiglio nella sua anima151 accetta, anche se due mesi dopo rivela a Bernières: «Le vostre care lettere mi fanno meglio di tutte le direzioni delle altre persone. Credo che sia a causa dell’unione in cui il nostro buon Padre ci ha uniti prima della sua morte, esortandoci a continuarla e a consolarci reciprocamente. Non vi chiedo tuttavia altro se non secondo l’ordine che 149 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 2 janvier 1653 in P. 101, 430 (1057), cit. ibid., 84-85. 150 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 3 mai 1653 (811), cit. in ibid., 92. 151 Cfr. EAD., Lettre à Roquelay, 22 juin 1653 (1049), cit. ibid., 93.
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Mario Torcivia ve ne sarà dato interiormente, perché voglio imparare a perdere tutto per non avere altri che Dio solo, nel modo in cui gli piacerà»152.
In settembre, madre Mectilde scrive a Jean de Bernières per comunicargli la propria insoddisfazione in ordine al gesuita e perché intervenga su di lui per: «togliergli il pensiero che io voglio essere trattata dolcemente, e non posso sopportare l’adulazione, non prendo un direttore per questo, ma perché mi dica le mie verità e i miei difetti»153. E continua: «Lo accolgo come mio direttore perché Dio vi ha dato l’idea di donarmelo. Non ho altra attrattiva che la sottomissione che devo a voi e allo Spirito di Dio che credo ci abbia dato questo pensiero, perché voi non fate nulla al di fuori di questo moto divino»154. La lettera prosegue quindi con la manifestazione della situazione spirituale vissuta da madre Mectilde: «Sapendo che il grande segreto è non essere tenuta da niente e non tenere nulla se non Dio solo, è chiaro che non si hanno parole per parlarne. Una cosa mi scoraggia nel parlare di ciò che avviene in me, è la perdita di tempo in cui vedo alcune anime in questo paese; ne conosco che perdono tutte le loro grazie a vanificarle in osservazioni, parole e scritti. […] Ora, poiché non avevo alcuna fede nelle mie idee e mi appoggiavo soltanto al beneplacito di Dio, a cui sono intimamente abbandonata, credevo di non aver tanto bisogno di una direzione serrata, ossia di un direttore che fosse da me tutte le settimane, perché non sarei in grado di costringermi ad annotare tutti i miei pensieri e le mie operazioni»155.
Non sapendo, inoltre, se quanto le capita sia reale o inganno, madre Mectilde opta per il silenzio e l’abbandono: «Ma paix est grande et ma joie intime, toutefois sans attache… Je me vois sur la terre quasi comme n’y étant point, et cependant je suis, avec ses dispositions, le
152 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 9 agosto 1653, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 76. 153 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 2 settembre 1653, cit. l.c. 154 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 2 settembre 1653, cit. l.c. 155 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 2 settembre 1653, cit. ibid., 77.
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néant, la misère et le péché même. Le moyen d’accorder tout cela? C’est ce qui me fait taire»156. Immediata è la risposta di Jean de Bernières-Louvigny: «Mon stile a toûjours esté & est encore de ne rien proposer aux ames où elles aient rebut, et j’attends che la grace leur donne une inclination contraire; jusqu’à ce temps là je le laisse dans la liberté, & ne le veux pas contraindre. Si vous continuez à n’avoir point d’ouverture de cœur à N. ne vous violentez pas»157, pur riconoscendo al padre gesuita tante ottime qualità spirituali. Pochi giorni dopo, Jean de Bernières-Louvigny offre un bel pensiero a madre Mectilde: «Je reviens à ce qui vous dites, que si vous aviez un Directeur, il faudroir luy dire ce qui se passe dans votre interieur de temps en temps, & ne le sçachant pas, vous ne le pouvez pas; aussi vous sçavez mieux que moi qu’il ne faut dire que ce que l’on connoist simplement, & naîvement, & le Directeur éclaré entendra ce que vous n’entendez pas; & quand vous ne pourrait luy rien dire, il ne laissera pas de comprendre ce que vous voudriez dire»158.
Umiliata e ferita nel proprio orgoglio, per alcune situazioni avvenute, madre Mectilde apre il proprio cuore a Bernières: «J’avais une joie si extrême de ce que Dieu faisait son oeuvre en détruisant mon orgeuil et ma propre excellence que je ressentais un amour sensible pour tous ceux qui m’humiliaient… Ces petites rencontres, m’ont à ce que je crois, fait beaucoup de bien et je puis dire avec un peu d’expérience que Dieu nous fait une merveilleuse grâce quand il nous abandonne à la croix des humiliations, des souffrances, etc… Car je ne vais que de moment en moment: j’oublie tout, mais je ne m’oublie pas assez 156 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 2 septembre 1653, cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 93. 157 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XLV. Touchant la conduite des Directeurs, 1653. 4. Septembre, in Les Œuvres spirituelles, cit., 123. 158 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XXVIII. Ad une personne fort spirituelle, touchant les communications aux Directeurs, & aux autres que l’on peut aider, 1653. 7. Septembre, in Les Œuvres spirituelles, cit., 257.
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Mario Torcivia moi-même. Je ne fais plus d’austérité particulières, il y a longtemps que cet attrait n’est plus, ma générale pénitence, c’est d’être dévorée par la sainte et amoureuse Providence, d’être toujours disposée pour faire ce que Dieu veut. [..] Hé, bien, mon très cher frère, je me suis bien épanchée aujourd’hui avec vous! Mon esprit a produit plus que je ne pensais…»159.
Nel marzo 1654, madre Mectilde scrive a Jean de BernièresLouvigny ancora sulla questione del direttore spirituale: «Tutto quello che posso dirvi, mio carissimo fratello, è che questo buon Padre non ha ancora approfondito le mie disposizioni più intime; ho troppa poca testa e capacità per esprimerle. […] Credo che se potessi parlarvi, mi comprendereste facilmente, perché avete tanta bontà da abbassarvi alla mia piccola via per darmi istruzioni. […] Parlate a p. Lejeune come Dio vi ispirerà, è mia intenzione non tacergli nulla e rimanere sotto la sua guida per quanto la divina Provvidenza ordinerà; essa me l’ha donato, ella me lo conserverà quanto le piacerà»160.
Quattro giorni dopo, madre Mectilde chiede a Jean de Bernières che l’intero Ermitage preghi per la nuova fondazione: «Je vous supplie de m’aider à mourir parfaitement. […] Associez cette pauvre pètite maison à votre saint ermitage et faites prier Dieu pour nous afin que nous pouissions être tout à fait anéanties et n’être plus rien en nous pour être tout à Jésus et en Lui… Je me recommande à tous et le prie nous obtenir la grâce de silence, de retraite et de néant pour toutes les âmes qui viendront céans, car c’est l’esprit de la fondation»161.
Il 29 dello stesso mese Bernières scrive una lettera nella quale emerge un po’ di contraddittorietà riguardo ai consigli dati a madre Mectilde: 159
C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, pre-25 novembre 1653 (745), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 94. 160 EAD., Lettera a Jean de Bernières-Louvigny, 16 marzo 1654, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 79. 161 EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 20 mars 1654 (1125), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 96-97.
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«Je ne sçai pas le particulier de votre oraison. Vous avez le bon M. N. auprès de vous, auquel Notre Seigneur a donné grace pour aider les ames de votre état, ses conseils vous seront tres-bons; & quand Dieu voudra que vous nous mandiez quelque chose de votre oraison, nous vous dirons nos petites pensées en toute liberté & simplicité; mais ne le faites que quand Dieu vous en donnera le mouvement. Car il vaut bien mieux demereur perduë en Dieu, que de sortir par soy-mesme sous pretexte de charité à produire nos pensées & et non sentiments au dehors»162.
A maggio, anche Jean de Bernières-Louvigny capisce definitivamente che p. Le Jeune non è adatto a madre Mectilde: «Ho appena ricevuto le vostre ultime e mi sento spinto a rispondervi subito per dirvi che lo stato interiore in cui siete non permette di poter fare una lunga dichiarazione delle vostre disposizioni interiori a colui che prendete come direttore; poiché la grazia vi pone nella morte e nel nulla, non dovete sottrarvene sotto alcun pretesto, dovete rimanere tutta perduta e abbandonata alla guida divina. […] coloro che vi incalzano e vi perseguitano, se non lo fanno per provarvi, sembrerebbero non capire quello che Dio fa a voi, dovrebbero rispettare la sua opera e non guastarla né distruggerla. […] Comincio a credere che colui del quale mi parlate non ha la grazia per guidarvi interiormente, benché sia un apostolo e un santo; ma queste eminenti qualità non vi obbligano a volere da lui una cosa che Dio sembra non volere. Confesso che è un’umiliazione non entrare nello spirito di un uomo così grande e che egli non gusti ciò che Dio fa gustare a voi; le grazie sono diverse, una sola persona non ha l’esperienza di tutte. […] non giudichiamo tuttavia ancora in modo definitivo, parlerò con lui e poi vi scriverò; credo che si svelerà con me, ma lo lascerò parlare per primo, perché se il sentiero mistico non gli è rivelato, non gli dirò nulla, ma [gli parlerò] soltanto di cose esteriori a cui mi applica. […] Se di tanto in tanto volete scrivermi tre righe sulla vostra condizione spirituale, vi manderò con tre altre righe i miei brevi pareri. Credo che dobbiamo ridurci a sostenerci reciprocamente e a servirci, il nostro buon Padre me l’ha detto spesso; facciamolo dunque finché Dio ce lo comanda con la sua Provvidenza. Non ci vogliono grandi discorsi per
162 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XLI. A la mesme Superieure, sur la grandeur de son institut, 1654. 29. Mars, in Les Œuvres spirituelles, cit., 305.
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Mario Torcivia manifestare la propria interiorità, né angustiarsi per questo: le anime della medesima vi si intendono con mezza parola»163.
Il mese dopo, madre Mectilde scrive a Jean de Bernières-Louvigny: «Je tends à être toute anéantie dans le bon plaisir de Dieu qui est l’âme de mon âme et la vie de ma vie… Je ne veux plus rien attendre ni recevoir des créatures si ce n’est la contradiction ou le mépris… Il me semble que j’ai une plénitude de misère. Voilà une grande contrariété et cependant cela ne me trouble pas, je ne m’afflige plus de tout de ce qui m’aurait fait peine autrefois […]. J’ai quelquefois des distractions dans le temps de l’oraison et de la sainte messe, et ces jours passées je voyais d’une manière ineffable comme Jésus répare dans le très Saint Sacrement. Cela fut bien étendu, et j’appris comme nous devions faire l’amende honorable que nous sommes tous les jours obligées de faire dans cette maison devant le très Saint Sacrement. Après, j’ai reçu encore une autre intelligence qui fait, ce me semble, de bons effets, où j’ai appris qu’il n’y avait que Jésus Christ digne des regards et de l’amour de son Père. Cela me porte à m’oublier moi-même et attendre que toute cette petite Communauté le fasse aussi, nous oubliant touetes et oubliant aussi les créatures pour être toutes occupées de Jésus Christ en la manière qu’il lui plaira. […] Le petit noviciat fait très bien; il semble entrer dans l’esprit de saint Benoît qui est de mort et de séparation… Je vous recommande instamment cette petite troupe que doit être les victimes du très Saint Sacrement»164.
All’inizio del 1655, madre Mectilde scrive a Jean de BernièresLouvigny per parlare di sé e della nuova fondazione: «Il me semble que la plus grande et la dernière de mes joies serait de vous voir et entretenir encore une fois avant de mourir, et autant qu’il m’est permis de le désirer, je le désire, mais toujours dans la soumission, car la Providence ne veut plus que je désire rien avec ardeur. Il faut tout perdre pour tout retrouver en Dieu. […] ce petit trou solitaire (il monastero fondato, ndr.)… s’il m’était permis de me regarder en cette maison, je 163 J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettera a Mectilde de Bar, 18 maggio 1654, cit. in B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 80. 164 C. M. DE BAR, Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 23 juin 1654 (1162), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 97-98.
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serais affligé de son établissement, me sentant incapable d’y réussir. Mais il faut tout laisser à la disposition divine. […] Il me semble aussi que je n’ai point d’ambition de faire un monastère de parade. Au contraire, je voudrai un lieu très petit et où on ne soit ni vu ni connu de que ce soit. Il y a assez de maisons éclatantes dans Paris et qui honorent Dieu dans la magnificence. Je désirerais que celle-ci l’honorât dans le silence et dans le néant. […] un mot, je vous supplie»165.
Di questa lettera abbiamo la risposta di Bernières: «Je ferai tout mon possible pour aller à Paris cet été prochain, afin de vous entretenir encore une fois durant cette vie: puisque si cela arrive, c’est doit estre apparemment la derniere; ou parce que la mort nous surprendra, ou parce que la faiblesse de mes yeux ne me permettra plus de faire voyage […]. Je vous confesse, ma chere Sœur, que c’est la plus haute fortune qu’une créature puisse faire en la terre, de sortir de soi-mesme pour entrer en Dieu, & y vivre de la mesme vie de Dieu; c’est doit estre la fin principal de toutes nos actions & souffrances, lesquelles ne sont que disposer l’ame à ce bienheureux état: mesme tous les dons, graces, lumieres, mouvements, ne sont que pour y preparer, il faut avoir courage, mai en verité l’on a bien besoin d’une grande patience, & longanimité, & c’est le moyen de obtenir. Je ne vous desire que ce seul bonheur en cette vie, & si nous nous voyons jamais, n’attendez point d’autre discours de moi, que de vous déduire les merveilles d’une âme qui est dans le néant, & qui subsiste en Dieu seul, tant pour vivre que pour operer. C’est l’image de JESUS CHRIST qui n’a point d’autre suppost que celui du Verbe divin, & dont la vie par consequent & toutes les operations, ont esté divines; c’est le principe qui fait la grandeur de nos actions, & de notre vie; & c’est Dieu seul qui s’écoulant en nous, & nous aneantissant heureusement, nous fait estre, & vivre de luy. Que les moments d’une telle vie le contentent, & le glorifient. Pour arriver là, vous faites tres bien de ne point rechercher l’éclat, ni la magnificence pour votre maison, & de ne mettre aucun appui sur les créatures. L’abjection, la pauvreté, la petitesse, le mépris attirent plus JESUS CHRIST dans un Monastère, que tous les autres moyens, dont la prudence humaine se sert»166. 165 166
EAD., Lettre à Jean de Bernières-Louvigny, 26 janvier 1655 (878), cit. ibid., 99.100. J. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY, Lettre XL. A la mesme Superieure, en laquelle il
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Abbiamo parlato dell’annéantissement in Jean de BernièresLouvigny. Ebbene è proprio l’eremita di Caen a far scoprire a madre Mectilde quanto da lui denominato “la terra dell’annientamento”167, espressione che diverrà cara anche a madre Mectilde, la quale così si esprime in una conferenza: «Beati i miti perché possederanno la terra. Cosa pensate di questa terra data ai miti? È la terra dell’annientamento, perché mite significa una persona dolce, benefica, che porta la pace ovunque e la possiede in sé, così che essendo esente dalle passioni la persona si conosca; conoscenza che la pone nel nulla, dove si trova ogni sorta di grazie e benedizioni, dove le è data quella terra fortunata che racchiude lo stesso Dio»168.
E infine: «A Dieu, ma très chère Mère, Messieurs de Bernières et Roquelay vous saluent. Ils font des merveilles dans leur ermitage; ils sont quelquefois plus de quinze ermites. Ils demandent souvent de vos nouvelles. Si notre bonne Mére Prieure voulait écrire de ses dispositions à M. de Bernières, elle en aurait consolation, car Dieu lui donne des lumières prodigieuses sur l’état du saint et parfait anéantissement»169, che «‘non è altro che una morte mistica; è un’operazione che distrugge l’essere corrotto del peccato che è in noi e fa prendere una nuova vita in Cristo Gesù, come dice san Paolo. O quali meraviglie racchiude questo annientamento’»170. Tre anni dopo madre Mectilde invita ancora sr. Dorotea a scrivere a Jean de Bernières-Louvigny: «Monsieur de Bernières vous salue. explique, 1655. 2. Fevrier, in Les Œuvres spirituelles, cit., 296-298 (il testo, in alcune parti divergente, è riportato anche in ms. P. 101, p. 633 C VII, p. 24). 167 Cfr. B. PITAUD, La corrispondenza, cit., 61. 168 C. M. DE BAR, N. 2606 Bienheureux les débonnaires car ils possèderont la terre (=CC 180), cit. in M.-C. MININ, Catherine Mectilde de Bar, cit., 17. 169 EAD., Lettre a la Révérende Mère Dorothée [Heurelle], le jour St. Mathieu 1654 [21 septembre], in EAD., Lettres à ses Monastères Lorrains, in EAD., Lettres inédites, Rouen 1976, 163. Facciamo notare come nelle lettere alle monache, madre Mectilde parli sovente di Jean de Bernières-Louvigny a madre Dorothée, che seguendola a Caen dal 1647 al 1650 come maestra delle novizie, ebbe modo di conoscere gli “spirituali” di Caen; don Roquelay era il segretario di Jean de Bernières-Louvigny. 170 V. ANDRAL, Appendici/Annientamento, in C. M. DE BAR, Non date tregua a Dio, cit., 249.
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Ecrivez-lui si vous y avez inclination: je lui enverrai vos lettres, au cas qu’il soit de retour»171 Sabato 3 maggio 1659 muore Jean de Bernières-Louvigny e madre Mectilde ne dà comunicazione ad una consorella di Rambervillers…: «Notre Seigneur a tiré M. de Bernières, notre cher frère, dans son sein divin, pour le fair jouir d’un repos éternel, samedi dernier, 3 mai. Après avoir soupé, sans être aucunement malade, il s’entretint à son accoutumée avec ces Messieurs, et après, s’étant retiré et fait ses prières pour aller coucher, il s’en est allé dormir au Seigneur, de sorte que sa maladie et sa mort n’ont pas duré le temps d’un demi quart d’heure. Voilà comme Notre Seigneur l’a anéanti. J’en suis touchée en joie et en douleur, mais la joie l’emporte de beaucoup, d’autant que je le vois réabîme dans son centre divin où il a tant respiré durant sa vie. Que faisons-nous sur la terre, si non de soupirer après Jésus Christ pour être réunis à lui? Nous sommes sorties de Dieu et nous y devons rétourner; hors de là l’âme n’a point de repos et n’en pourra jamais trouver. Ce grand saint est mort avant que de mourir, par un anéantissement continuel en tout et par tout, et nous pouvons dire de lui ce que dit l’Ecriture: Beati mortui qui in Domino moriuntur. O ma très chère Mère, en puissions-nous dire autant les unes des autres! Mourons incessamment, mourons toujours, car, dès que nous cessons de mourir, nous cessons de vivre. Je voudrais vous dire en secret qu’on me veut persuader que je n’ai que cette année à vivre. Gardez-vous de dire ceci à notre Révérende Mére Prieure. La très sainte volonté de mon Dieu soit faite! Je ne tiens plus à rien qu’à la corruption de moimême qui est effroyable. Priez Dieu qu’il la consomme et que je meure avant que de mourir, c’est mon désir plus que jamais. Je suis fort excitée à cela et, à tout perdre, il me semble que tout s’abîme à tout moment et que je ne dois plus rien avoir que la mort intérieure à laquelle je dois una grande fidelité»172,
… e ad un caro amico, frate del Terz’Ordine Regolare di S. Francesco, 171 C. M. DE BAR, Lettre a la Mère Dorothée [Heurelle] à Rambervillers, Paris, Saint Alexis, 21 juillet 1657, in EAD., Lettres à ses Monastères Lorrains, in EAD., Lettres inédites, 1976, 173. 172 EAD., Lettre à la Mère Dorothée [Heurelle], Paris, mai 1659 (146 B505), in EAD., Lettres inédites, cit., 182-183; (A. VALLI, ne Il segreto di Mectilde de Bar, cit., 131-132 n. 5, erroneamente, la attribuisce a madre Benoîte de la Passion).
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appartenente forse alla cerchia di Jean de Bernières-Louvigny 173, che si trovava a Roma, manifestando l’estrema solitudine nella quale si trova: «Cette mort qui me serait très sensible si je ne la regardais dans l’ordre du bon plaisir de Dieu, et ne le trouvais plus proche de nous que lorsqu’il vivait parmi nous»174. CONSIDERAZIONI FINALI Al termine di questa disamina dei rapporti spirituali tra Mectilde de Bar e i due membri eminenti della “scuola mistica normanna”, desideriamo proporre alcune note volte ad evidenziare e riprendere alcune caratteristiche della relazione spirituale presentata. Una prima considerazione riguarda la profonda importanza che la direzione spirituale riveste nel cammino di un credente. Madre Mectilde ha potuto beneficiare dell’accompagnamento di due grandi spirituali normanni del XVII secolo e questo si è notato per le altezze spirituali da lei raggiunte. Direzione spirituale vissuta in gran parte attraverso lo scambio epistolare che rende realmente presente, anche se non fisicamente, colui che accompagna. Da qui, abbiamo ascoltato, le reiterate volte in cui madre Mectilde, resasi conto della qualità spirituale del suo direttore, esorta Jean de Bernières-Louvigny a scriverle. Abbiamo visto come al frate francescano madre Mectilde abbia svelato totalmente il proprio cuore scrivendo una vera e propria relazione sulla propria vita. L’apertura del cuore, lo svelamento dei pensieri, d’altra parte, è una delle costanti della direzione spirituale. Al padre spirituale non si tiene nascosto nulla perché possa essere aiutato a scoprire e a leggere le mozioni dello Spirito presenti in colui che è diretto. P. Jean-Chrysostôme invita, inoltre, madre Mectilde a non basarsi sulle grazie straordinarie ma a condurre una vita ordinaria nella penitenza e nell’esercizio delle virtù e come la incoraggi perché non si perda d’animo in occasione delle inevitabili difficoltà che ogni 173 C. M. DE BAR, Lettres à ses Monastères Lorrains, in ID., Lettres inédites, Rouen 1976, 174 n. 1. 174 EAD, Lettre à frère Luc de Bray, 27 juin 1659 (1163), cit. in V. ANDRAL, Itinéraire spirituel, cit., 108.
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cammino cristiano e religioso comporta. Anche questo appartiene alla tradizione cristiana della direzione spirituale che non esalta mai la straordinarietà ma mira a che vengano fedelmente osservate, nella quotidianità, le radicali esigenze evangeliche. Interessanti poi alcuni interventi del francescano nei riguardi di madre Mectilde: l’invito a frenare ogni impetuosità del carattere, ad usare discernimento, ad ascoltare innanzitutto quanto la Grazia instilla nel cuore, a pregare reciprocamente perché anche colui che segue ha bisogno del ricordo al Signore da parte di chi è seguito, e, soprattutto, l’invito a vivere secondo lo spirito di povertà e di abiezione, categorie tanto care a p. Jean-Chrysostôme de Saint-Lô. Del rapporto con Jean de Bernières-Louvigny ci piace evidenziare come sia un rapporto di direzione spirituale che presenta però anche una dimensione paritaria. Spesso, infatti, i contenuti delle comunicazioni epistolari fanno emergere chiaramente come i due si trovino, dal punto di vista spirituale, sullo stesso piano. Riguardo ad una specifica lettera, mi piace evidenziare alcuni temi presenti nella epistola scritta da Bernières il 14 febbraio 1651: • il profondo e non “rompibile” legame esistente tra i due, anche se Jean de Bernières-Louvigny. non risponde a madre Mectilde; • pur non essendo capace di operare un discernimento preciso su quanto dire a madre Mectilde, Jean de Bernières-Louvigny la invita a non fermarsi ai suoi sentimenti; • l’invito alla fedeltà obbediente alla comunità nella quale madre Mectilde si trova, anche se si avverte il desiderio di un nuovo luogo, perché posta là da Dio stesso; • il legame profondo tra custodia della comunità e custodia divina: Dio infatti si prenderà cura di madre Mectilde se lei si sarà presa cura della comunità; • la profonda libertà che madre Mectilde deve avere nell’assumere il pensiero di Jean de Bernières-Louvigny su quanto richiestogli; • il consiglio sul far orazione: farla come viene e come Dio lo permette e questo deve bastare; • Dio rivolta totalmente un credente proprio perché vuole renderlo perfetto; • la perfetta indifferenza in ordine a quanto capiterà.
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CONCLUSIONE La storia ci insegna come ciascuno di noi è sempre il risultato di quanto ricevuto da altri e donato agli altri. Anche nel campo della vita spirituale tale regola mantiene la sua attualità al punto che, sovente, è difficile delineare con precisione in un credente quanto mutuato dalle singole fonti di spiritualità — viventi o “librarie” — dalle quali si è attinto, ma anche quanto respirato dai fatti storici vissuti. E il caso di madre Mectilde pensiamo che manifesti bene quanto testé affermato: gli otto anni tra le Annunciate — seguite dai Cordiglieri ma di spiritualità renano fiamminga secondo la prospettiva canfeldiana — la scelta benedettina, la conoscenza di premostratensi, cistercensi riformati, gesuiti, oltreché ovviamente di benedettini, la direzione spirituale di un terziario regolare e di un laico, l’Ermitage — questo circolo di devoti normanni tanto addentro nelle questioni dello Spirito come anche nelle attività caritative — la mistica renano-fiamminga, la scuola “astratta” di Benoît di Canfeld, l’école française, la sicura conoscenza di quanto vissuto dalla mistica Marie de l’Incarnation (M.me Guyart) grazie al particolare rapporto avuto con don Martin, l’amicizia spirituale con signore dell’aristocrazia, la conoscenza degli scritti di Caterina da Genova e di Giovanni della Croce, come il particolare periodo storico nel quale ha vissuto, contrassegnato da guerre e invasioni di Stati e, dal punto di vista religioso, dalla lotta tra protestanti e cattolici con tutto quello che ha comportato specialmente in ordine alla concezione e alla devozione eucaristica. Tutte queste persone, queste scuole di spiritualità, questi avvenimenti storici hanno certamente influito e formato madre Mectilde, nulla togliendo, però, alla sua grandezza e alla sua originalità. Infatti: «Ella ha saputo trarre profitto da tutti questi contatti, senza però uniformarvi la propria vita spirituale: a contatto con gli altri è divenuta se stessa»175. Ed ancora, come afferma quel profondo conoscitore della spiritualità cristiana che è stato don Divo Barsotti, madre Mectilde, pur essendo stata influenzata da tanti, «non è scolara di alcuno: la sua 175 A. RAYEZ, La spiritualità al tempo di Madre Mectilde de Bar, in C. M. DE BAR, Non date tregua a Dio, cit., 26-27.
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dottrina raggiunge una semplicità, una grandezza che è propria soltanto dei maestri. Le influenze furono totalmente assimilate ed hanno dato origine a una dottrina sobria, ferma, veramente classica»176. Terminiamo pertanto, facendo nostro l’augurio che il summenzionato mistico toscano formulò nell’ormai lontano 1977: «Quando disporremo di tutti gli scritti si potrà far giustizia a Mectilde De Bar, con uno studio che dovrà riconoscere pienamente la sua grandezza»177. Nell’attesa della prossima pubblicazione della ponderosa biografia di madre Mectilde scritta dal sulpiziano Poutet, attendiamo quanto prima l’edizione delle Opere complete di madre Mectilde178, perché si possa avere finalmente una conoscenza compiuta di questa grande mistica del XVII secolo, presente, attraverso le sue Figlie, anche nella nostra Sicilia.
176 D. BARSOTTI, Prefazione all’edizione italiana, in C. M. DE BAR, Il sapore di Dio, cit., 30. 177 Ibid., 31. 178 Nel 2002 dom Joël Letellier dà notizia che l’edizione è in corso di elaborazione e consterà di circa 13 volumi di testi mectildiani, cfr. J. LETELLIER, Aderire a Dio, cit., 36. La mancanza della suddetta edizione spiega, pertanto, le nostre numerose citazioni indirette, la diversità di termini — e, a volte, delle fonti stesse — all’interno delle medesime citazioni, perché riportate diversamente dagli autori da noi citati.
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DIONIGI CERTOSINO (1402-1471) E LA PREGHIERA SALMODICA
ROBERTO OSCULATI*
«Poiché la salmodia è un soliloquio dello Spirito Santo con l’anima religiosa e devota, è evidente che nessuno possa conoscere veramente e per esperienza l’efficacia dei salmi se non colui che canti le parole santissime dei salmi con animo limpido, fermo e libero, rivolto a Dio con la mente pura e fissa, attento con grande diligenza al significato delle parole e dando ad esse forma e pronuncia come se provenissero dal suo affetto»1.
* Docente di Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. 1 DIONYSIUS CARTHUSIANUS, In psalmos omnes davidicos, Colonia 1534, f. IIIIr. Questo raro volume è conservato presso le Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero di Catania assieme ad una intera collezione di opere del monaco fiammingo stampate nel corso del XVI secolo. Esso fa parte di una edizione promossa dai certosini di Colonia nei primi anni della riforma luterana. Secondo i suoi confratelli del secolo successivo, Dionigi proponeva a tutto il cristianesimo occidentale, travolto da molte contrapposizioni, i caratteri della teologia monastica come sequela personale e comunitaria di Cristo basata sulle Scritture. L’aspetto fortemente liturgico, affettivo, pratico ed irenico di questo indirizzo spirituale si distingueva da una teologia di carattere astratto e giuridico, propensa alle rigide definizioni, ai formalismi concettuali e alla disputa. Rimasta ai margini delle grandi contrapposizioni ecclesiastiche, la tradizione monastica mostra sempre il carattere profondamente evangelico e benevolmente umano della imitatio Christi. Rispecchiandosi nel dettato profetico e neotestamentario come ideale per la propria esistenza, è più propensa all’autocritica e all’umiltà che alla condanna e all’esclusione. Sui caratteri del cristianesimo occidentale nel XV secolo vedi il grande affresco di L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, I-III, Roma 1958-1959. Sulle tensioni interne del cattolicesimo romano nei decenni successivi all’inizio delle riforme nordiche vedi ad esempio la biografia C. QUARANTA, Marcello II Cervini (1501-1555). Riforma della chiesa, concilio, inquisizione, Bologna 2010, dedicata ad uno dei protagonisti di questa epoca.
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Le parole dello Spirito divino, creatore e santificatore di tutto l’universo, hanno assunto la capacità di rivolgersi con immediatezza ad ogni essere umano nel suo rapporto con il mistero delle origini e della fine. La paternità divina si effonde nella Parola increata e nella sua incarnazione, questa a sua volta raggiunge nella effusione dello Spirito ogni condizione umana per donare ad essa la vera conoscenza e l’amore compiuto. L’opera di testimonianza concreta, di intelligenza viva, di conversione e di amore è svolta dalle Scritture e in particolare da quelle che, come i salmi davidici, invitano ad immedesimarsi nelle loro parole. Il testo salmodico ora è la voce stessa di Cristo, ora parla di lui; altre volte dà la parola al suo mistico corpo o ne indica il cammino. Ora esprime la fede e l’amore di chi ha raggiunto la perfezione, ora il dolore e la penitenza del peccatore; ora propone il desiderio inesausto dei giusti, ora le difficoltà dei deboli e dei sofferenti. Chi vuole davvero celebrare la liturgia proposta dal più che millenario uso ecclesiastico o dedicarsi alla lettura «è necessario che conformi il suo affetto al significato dei salmi e che si appropri della somiglianza con tutte le figure di cui abbiamo detto»2. Conformemente alla grande visione teologica del monaco certosino, l’essere umano, sviato dal peccato delle origini e disperso nella varietà inconsistente del mondano, non è abbandonato ad un destino di errore e di morte. La provvidenza dell’unico Padre di tutti, la solidarietà del Figlio con coloro che sono partecipi della sua umanità, l’azione universale dello Spirito, si fanno sempre vicini alla debolezza umana. La guidano, la soccorrono, l’associano alla forza creatrice e redentrice del divino, perché arrivi alla meta ultima della definitiva comunione con l’origine di ogni verità e giustizia. Questa presenza efficace si vela tuttavia in parole umane: esse discendono verso tutto ciò che è molteplice, debole, contraddittorio, per elevarlo a poco a poco verso l’unità, la forza, la solidità del vero. Molto spesso nelle sue opere il monaco richiama colui che indica come “divinissimus theologus”, quel Dionigi Areopagita che ai suoi tempi appariva ancora il discepolo ateniese dell’apostolo Paolo (Atti 17,34). In realtà si trattava di un acuto pensatore cristiano del secolo V che voleva fornire alla 2
DIONYSIUS CARTHUSIANUS, In psalmos omnes davidicos, f. IIIIv.
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concretezza storica della parola biblica una cornice filosofica ispirata al neoplatonismo. Si trattava di scorgere un disegno universale che dall’ineffabilità divina discendesse nel più profondo dell’esperienza umana per liberarla dalle tenebre in cui si era avvolta. La parola della Scrittura si pone tra quella misteriosa di Dio, fatta carne umana in Cristo, e le vuote parole del male, perché nessuno sia abbandonato all’ignoranza e alla confusione. È quasi una universale tessitura, multiforme e multicolore, dove tutto si raccoglie in un grande disegno di giustizia, grazia e pace. La condiscendenza divina, in questa forma comprensibile, può toccare l’intelligenza ed il cuore di chiunque. Il monaco del XV secolo, non meno di altri grandi pensatori cristiani precedenti, ripropone una visione teologica che egli pensava fosse un parallelo o una esplicazione dell’evangelo di Paolo. Nello stesso tempo viene incontro alle esigenze di razionalità, universalità ed armonia che sono caratteristiche della cultura europea del suo tempo. L’organismo ecclesiastico occidentale sembrava essersi caricato di molti pesi ingombranti, appariva compromesso con una mondanità invadente, sembrava incapace di dare testimonianza delle verità più profonde ed universali dell’evangelo. Queste contraddizioni, irrisolte ed evidenti agli occhi di molti, nel secolo successivo avrebbero condotto alla separazione della chiesa d’occidente. Ma molti da tempo ritenevano necessario porsi di nuovo e al più presto alla scuola delle Scritture, lo chiesero molte volte e ne proposero gli esempi, soprattutto nei loro commenti ai salmi, agli evangeli e alle lettere di Paolo. Il mistero stesso dell’incarnazione suggeriva la necessità di affidarsi alla sequela della Parola divina fatta carne umana, il dono dello Spirito esigeva una trasformazione interiore ed esteriore del mistico corpo di Cristo, che è la chiesa, secondo l’ esperienza dei primi testimoni. La Scrittura, in base all’insegnamento più tradizionale, doveva costituire la guida di questo processo di redenzione individuale e collettiva, di riforma interiore ed esteriore. I salmi ne erano una continua profezia capace di penetrare e trasformare tutti gli aspetti della vita umana per condurla alla sua vera meta. L’eruditissimo e fervente monaco certosino era convinto che, se si fosse accettato di porsi a questa scuola sublime e pratica, ne sarebbero seguiti lo sradicamento dei vizi, il raggiungimento della virtù, la
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pienezza della perfezione, la fede, l’amore, l’umiltà, la mitezza, la pazienza. La preghiera avrebbe espresso il ringraziamento per i doni ricevuti, il superamento dell’errore, la lode a Dio. Avrebbe raccomandato sempre l’impegno per il bene ed il rifiuto del male. La mente si sarebbe distaccata dalle illusioni terrestri per elevarsi all’origine di ogni verità ed amore. Infine l’anima avrebbe imparato a porsi sempre con gratitudine e fiducia alla presenza del divino. Analogamente alla natura nei suoi caratteri fondamentali e alla totalità della Scrittura, la preghiera profetica della salmodia avrebbe costituito una solida scala, discesa dall’altezza incommensurabile del divino. Salendo a poco a poco i suoi gradini, ognuno avrebbe potuto liberarsi da ogni ombra di male. La ripetizione continua della salmodia, caratteristica della vita monastica, aveva il compito di esercitarsi in questa lunga ascensione, camminando su passi segnati con cura e aperti a chiunque ne accogliesse il dono quotidiano. Dante, nel linguaggio simbolico del Paradiso, aveva usato proprio questa tradizionale figura. Nel cielo di Saturno, dedicato alla vita monastica secondo il modello austero di Benedetto e Pier Damiani, essa indica la comunione con il divino tipica del monachesimo (Paradiso XXI-XXII). Spesso la salmodia fa ascoltare profeticamente la voce di Cristo oppure parla di lui, lo rende presente all’intelligenza e all’affetto dell’orante, lo prende per mano. Davide, il principale profeta della preghiera biblica, con il suo sguardo ispirato e con il suo animo trascinato oltre le ristrette dimensioni della sua vita, tratteggia con precisione i passi del maestro evangelico e li propone a tutti i suoi futuri discepoli. Essi costituiscono il suo mistico corpo, che va formandosi nella sua pienezza lungo tutto il corso della storia. È necessario porsi con tutta l’intelligenza spirituale e con tutto l’impegno dell’amore al seguito della scuola che unisce le origini alla fine, la creazione all’apocalisse. Nel commentario alle singole composizioni il monaco raccoglie una tradizione interpretativa che vede in Girolamo, Agostino3 e Cassiodoro4 i suoi principali maestri. Ma anche Cassiano, Bernardo, Ugo di 3 4
AGOSTINO DI IPPONA, Esposizioni sui salmi, I-IV, Roma 1967-1977. CASSIODORO, Expositio psalmorum, I-II, Turnhout 1958.
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San Vittore e Nicola di Lira fanno parte di questa lunga storia teologica. Alle loro spalle compare spesso anche Tommaso d’Aquino5 per la sua capacità di fornire una visione organica delle dottrine cristiane, profondamente connesse tra loro e indispensabili per dare un preciso orientamento morale alla vita della chiesa e dei singoli. Il commento alla salmodia biblica, iniziato nel 1434, era il primo passo di una presentazione di tutta la Bibbia in base all’esegesi patristica e medievale. Con certosina erudizione e pazienza ed un grande fervore l’opera enciclopedica fu portata a termine nel 1457. Per circa due secoli ebbe una larga diffusione per cadere poi nell’oblio di fronte ad altri interessi teologici ed ecclesiastici, nonostante le riedizioni della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX. 1. STORIA E SPIRITO A proporre in modo profetico la figura evangelica di Gesù, le vicende della chiesa, l’impegno dell’anima fedele, la meta finale dei giusti fu chiamato Davide. Egli fu afferrato dallo Spirito divino perché, con la sua parola dai molteplici significati, insegnasse a passare dalla storia esteriore alla realtà nascosta del mistero divino. Protagonista e cantore di una vicenda individuale, ha avuto il compito di prefigurare per mezzo di essa i caratteri essenziali dell’evangelo. La sua storia è un continuo accenno a quanto la supera e la conclude. Egli fu il più grande tra gli annunciatori della salvezza, perché “ha profetizzato in modo più eccellente ed evidente riguardo ai misteri di Cristo”6. Per comprendere nella sua interezza il messaggio spirituale della salmodia occorre considerarla secondo quattro prospettive diverse e complementari: 5
TOMMASO D’AQUINO, In psalmos Davidis lectura, in Opera, XIV, Parma 1863, 148353. Una trattazione completa della teologia cristiana attraverso il commento ai salmi biblici ebbe una grande diffusione lungo tutto il secolo XVI sia da parte cattolica che protestante. Erede, tra molti, di questa tradizione spirituale fu anche il cardinale Roberto Bellarmino con la sua Explanatio in psalmos, Roma 1611, molte volte riedita. Per una presentazione moderna della teologia dei salmi vedi J. TRUBLET – A. SOLIGNAC, Psaumes, in Dictionnaire de spiritualité, XII, Parigi 1986, coll. 2504-2568. 6 DIONYSIUS CARTHUSIANUS, In psalmos omnes davidicos, cit., f. Ir.
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«La Sacra Scrittura viene spiegata in quattro modi: alla lettera ovvero storicamente e in modo spirituale o mistico. Ma l’intelligenza spirituale è triplice: allegorica, tropologica o morale e anagogica. La storia infatti insegna che cosa è stato compiuto, l’allegoria che cosa occorre credere, la tropologia che cosa occorre fare, l’anagogia che cosa si deve sperare. Il significato storico ovvero letterale è il fondamento o la base degli altri modi di comprendere [...] Il significato allegorico si verifica quando dalla parola o dall’azione di qualche persona si comprende qualcosa d’altro che appartiene a Cristo e al suo mistico corpo, che è la chiesa, come quando quegli eventi, che nel Vecchio Testamento secondo la lettera capitarono ai santi padri, sono intesi relativamente a Cristo oppure quelle cose che si riferivano alla sinagoga sono riferite alla chiesa. Tutti questi eventi capitavano loro in modo figurato e sono stati scritti per nostro insegnamento. Il significato tropologico si verifica quando quelle cose che sono scritte e recitate riguardo a Cristo o ai santi sono adattate e spiegate a vantaggio della nostra educazione morale. Il significato anagogico si verifica quando, a partire dagli eventi svoltisi nel tempo, essi sono condotti alla contemplazione delle realtà eterne e quelli che si riferiscono alla chiesa militante vengono riportati allo stato della chiesa trionfante»7.
Il procedimento capace di passare dalla lettera allo spirito, dall’evento storico all’esistenza personale, è caratteristico della Scrittura stessa, che fornisce da sé i più importanti canoni interpretativi. Ad esempio la manna ottenuta da Israele nel deserto, nel Nuovo Testamento indica il cibo eucaristico, il nutrimento spirituale dei giusti, il banchetto finale del regno. Il cibo materiale viene sostituito, nell’interpretazione allegorica, dal Cristo che si fa nutrimento, dall’intima alimentazione spirituale secondo il significato tropologico, dalla speranza del banchetto finale secondo quello anagogico. La salmodia deve essere continuamente riletta e rivissuta secondo una linea ininterrotta che va dalle esperienze caratteristiche di Israele, all’umanità di Cristo, alla vita dei suoi discepoli, all’attesa della vita eterna. L’orante e il lettore devono immergersi in questa corrente spirituale che percorre le opere divine di salvezza nelle loro tappe fondamentali. Immedesimandosi nella preghiera di Davide incontreranno il Cristo
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Ibid., f. IIIr.
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evangelico, ne imiteranno il faticoso cammino per giungere con lui e tutti i suoi discepoli al Regno. Questa è, secondo il monaco certosino, la natura spirituale della preghiera, che si modella secondo le vicende fondamentali della storia biblica. Essa, prese le mosse da un evento esteriore, si trasforma in una condizione interiore dell’orante e della sua comunità. Tutto il passato diventa sempre di nuovo presente e si apre verso il futuro. Tale è pure la natura più propria della fede, che procede da una storia o da una parola ristrette nel loro tempo e spazio per divenire poi una esperienza viva ed universale. Istruiti dal singolo evento e dalla concatenazione di una lunga serie di fatti, si deve passare alla realtà centrale dell’umanità di Cristo. Ma essa esige la conformazione personale con lui e l’attesa della realtà ultima. Così «l’intenzione del libro dei Salmi è di mostrare i misteri di Cristo e così di sollevare, rinnovare e rendere felice attraverso Cristo, l’uomo nuovo, il genere umano caduto e reso deforme nell’antico Adamo»8. La recitazione liturgica non deve essere una pura ripetizione materiale di frasi senza vita, quasi fossero sufficienti semplici formule per incontrare il divino. Si tratterebbe, pur nella correttezza esteriore, di una falsificazione delle Scritture. La parola dello Spirito è fonte di vita ed esige di tramutarsi nell’esperienza più intima di colui che la usa e ne fa la guida della sua esistenza. Né basta l’intelligenza astratta di una storia antica: è necessaria invece una identificazione interiore, appassionata, quotidiana con realtà un tempo profetizzate, ma sempre di nuovo presenti nell’intimo e pronte a tradursi in azioni. Lungo tutto il suo voluminoso commento il monaco si sforza di penetrare attraverso la via della preghiera d’Israele nella totalità del mistero cristiano. Ogni minima espressione richiama una lunga catena di altri insegnamenti che provengono da Cristo stesso e dai suoi massimi testimoni. Tra la salmodia e l’evangelo non si pone alcuna barriera, mentre l’una si profonde nell’altro e quello trova là le sue origini. Il monaco sa che si potrebbero interpretare i testi nei limiti della fede antica d’Israele, ma è il Nuovo Testamento stesso a suggerire quel
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Ibid., f. IIIr.
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dinamismo profetico che ha creato una profonda affinità e vuole continuamente rinnovarla nel pensiero e nell’azione. Sia l’interpretazione storica, come quelle mistiche ed in particolare quella tropologica o morale delineano quel panorama spirituale entro cui si muove la fede quale imitazione della vita di Cristo. L’animo deve aprirsi a tutte le prospettive che la parola divina propone nei suoi diversi aspetti. La speranza e la sofferenza di Israele, i singoli tratti dell’itinerario evangelico, le preoccupazioni morali degli apostoli, le difficoltà individuali della conversione dalla colpa, l’impegno incessante del distacco dalle illusioni terrene, la ricerca di solidità, di giustizia, di pace costituiscono i temi caratteristici della preghiera salmodica. Essa risuona nel modo più vivo ed organico qualora se ne colga la connessione con tutte le altre testimonianze della parola biblica, che l’accolgono, la sviluppano, la dirigono verso la comunione ultima con il mistero divino. La prospettiva finale di ogni commento ai singoli testi è l’esperienza individuale, l’adesione personale del singolo. La sua esistenza immediata, sollecitata dal canto salmodico, accoglie in sé e rivive pienamente la profezia di Davide, la verità di Cristo, l’adesione al suo mistico ed universale corpo. Ognuna delle trattazioni relative ai singoli salmi si conclude con una sintesi rivolta direttamente al lettore: nella sua intimità e nelle sue azioni esteriori la voce profetica acquista vita sempre di nuovo. Nell’esistenza individuale, vissuta in comunione con l’universale disegno della redenzione, si ripropone l’opera dello Spirito, che supera ogni tempo e spazio per raggiungere chiunque si apra alla sua azione. Quanto nella storia è essenziale si rinnova e diviene vita attuale nella realtà di ognuno. Il pericolo più grande in cui si possa incorrere è la costruzione di un grandioso apparato ecclesiastico che di fatto ignori le verità su cui afferma di basarsi e che finge di celebrare ogni giorno. Sfogliamo ora qualche pagina dell’imponente volume per coglierne direttamente qualche tratto scelto in base alla triplice divisione in gruppi di cinquanta componimenti.
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2. SCRUTA LA TUA COSCIENZA Il Salmo 13 (14) (Dixit insipiens in corde suo) è un severo ammonimento nei confronti di chi si illude di non dover mai rendere conto di se stesso al giudizio divino. Il monaco così conclude il suo commento: «Esamina e scruta diligentemente la tua coscienza e, se avrai trovato in te qualcosa di questi vizi, fai penitenza e stai attento in seguito. Non vivere come se Dio non esistesse, ma cammina con reverenza e timore di fronte a Dio, comportati nel coro come se Dio fosse presente e ti guardasse, in tutte le cose in maniera degna, devota e timorosa, avendo sempre presente nel cuore ciò che è stato detto: “Il Signore ha guardato dal cielo i figli degli uomini per vedere se ne esiste uno dotato di comprensione e che cerca Dio” e inoltre “Maledetto colui che compie con negligenza l’opera di Dio”»9.
Il Salmo 16 (17) (Exaudi Domine) esorta alla fiducia, nonostante le miserie e le prove dell’esistenza umana: «Quanto grande è l’efficacia di questo salmo! Quanto grandi e ferventi orazioni sono contenute in esso! Il loro ardore ha un dolce gusto per colui che canta questo salmo con mente limpida. Specialmente quei tre versetti, mostra le tue misericordie ed i due seguenti, sono completamente pieni del fuoco dello Spirito santo e di ogni affetto santo. [...] Tutte le volte, o fratello, che sei schiacciato dalle tue miserie, tutte le volte che sei affaticato dalle prove grida al Signore: “Mostra le tue misericordie in me, tu che salvi coloro che sperano in te”. Sforziamoci dunque sempre e soprattutto nel tempo della preghiera di purificare in questo modo la nostra anima da inutili fantasmi, così che possiamo cantare questo salmo con attenzione e con gusto e di ottenere largamente l’effetto delle sue preghiere»10.
Il Salmo 18 (19) (Caeli enarrant) è adatto ad esprimere la gratitudine nei confronti di tutti i benefici divini:
9 10
Ibid., f. XXIXr. Ibid., f. XXXIIIr.
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«Con quale animo grato e devotissimo questo salmo deve essere cantato da ogni cristiano. In esso vengono indicate le fondamenta della fede cristiana. Vi sono contenuti in modo meraviglioso la predicazione degli apostoli, l’incarnazione della Parola, il dono della legge evangelica, il riconoscimento della propria fragilità e della misericordia divina. Ogni fedele in modo tanto più dolce canterà questo salmo, in modo più intimo e puro lo condividerà, quanto più ardentemente ama il bene comune ovvero la fede cattolica e l’incarnazione di Cristo»11.
La passione di Cristo è il tema fondamentale del Salmo 21 (22) (Deus, Deus meus), che prelude ai racconti evangelici e vi si rinnova: «Questo salmo è bellissimo in modo straordinario e del tutto pieno di ogni devozione e deve essere cantato con una fedele e religiosa partecipazione alla passione di Cristo. Colui che lo proclamasse senza partecipazione non so se sia gradito a Cristo e lo ami. Non c’è infatti un salmo che in modo così evidente, preciso ed appropriato descriva la passione di Cristo come questo, in modo tale che appaia più una storia che una profezia [...]. Deve essere spiegato pertanto in modo diligente e partecipe, per quanto il Signore si degnerà di concedere, questo salmo dolcissimo e ripieno di meravigliosa efficacia. Le sue singole parole sono come fiaccole dell’amore divino, che è lo Spirito Santo. Quanto limpidamente e con partecipazione il santissimo Davide vide la durezza, l’orrore e tutto lo svolgimento della passione del Signore e che si deve condividere la sofferenza del Cristo che soffre»12.
Il sentimento della gratitudine e della gioia ritorna con il Salmo 22 (23) (Dominus regit me): «In questo salmo breve per parole, ma non breve per efficacia il deiforme profeta ha ricordato i molti e grandi e principali benefici divini. Pertanto è opportuno che cantiamo questo salmo tanto più con il cuore, con gioia e devozione, quanto è nostro dovere amare più ardentemente un tale benefattore, riconoscere, stimare ed amare con più diligenza i suoi doni amore-
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Ibid., f. XLIv. I Ibid., f. XLIIIIr.
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voli e generosissimi. Certamente colui che recita con attenzione questo salmo pronunciandolo con passione può accendersi nell’amore di Dio»13.
Una sintesi completa della fede evangelica è contenuta nel Salmo 30 (31) (In te,Domine, speravi): «Ecco quale salmo limpido, ricco di misteri e di sentimenti, in cui sono contenute preghiere così ardenti, in cui abbondano parole di buona speranza, in cui si ricorda la copiosità della dolcezza divina, in cui è spiegata la fragilità della debolezza umana e si mostra che cosa si deve sopportare se scegliamo di seguire le tracce di Cristo. Pertanto con quanta dedizione di amore ardentissimo, con quanta fiducia di speranza e con quanto fervore di preghiera è opportuno che cantiamo un salmo così splendido, soprattutto a Compieta»14.
Il Salmo 41 (42) (Quemadmodum desiderat cervus) indica il desiderio del bene supremo, cui ogni anima illuminata dalla verità aspira. Insieme mostra la brama struggente di partecipare alla mensa dell’eucaristia e si adatta alla sua celebrazione. Da quel cibo e da quella bevanda si trae quanto libera dalle angustie del male che da ogni parte si affollano come i cani a caccia del cervo sfinito dalla corsa. Il Salmo 43 (44) (Deus, auribus nostris audivimus) si conforma alla chiesa qualora subisca persecuzioni; il successivo esalta le nozze tra Cristo e la sua mistica sposa ovvero la chiesa oppure l’anima o Maria. Il Salmo 45 (46) (Deus noster refugium et virtus), nonostante la sua brevità appare intenso e profondo: «La fede vi è rafforzata, la speranza in Dio fondata, la fortezza sollecitata, gli inizi della chiesa nascente sono spiegati, la grazia del battesimo è lodata, i benefici di Dio ricordati, l’incarnazione di Cristo indicata, i fedeli sono invitati a considerare le opere divine, la potenza divina è proclamata, una dolcissima e paterna ammonizione divina è contenuta, la grandezza del salvatore è indicata e si ritorna al primo, sommo e soavissimo beneficio divino ovvero alla sua incarnazione e il salmo termina con questo
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Ibid., f. XLIXv. Ibid., f. LXIVv.
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dono, perché non venga pressoché dimenticato. Sforziamoci pertanto di cantare nel modo più devoto un salmo così fecondo e bello»15.
3. RENDIAMO CONFORME LA NOSTRA VITA La fiducia nella protezione divina, cui è necessario sempre appellarsi oltre ogni preoccupazione o impegno, è suggerita dal Salmo 56 (57) ( Miserere mei, Deus) e il monaco si rivolge ai suoi lettori: «Rendiamo conforme la nostra vita al significato di questo salmo, in modo che davvero quanto vi è scritto si adatti a noi, la nostra anima non si allontani mai dalle ali della protezione divina e dica a Dio, come il santo Giobbe: “Ponimi accanto a te e la mano di chiunque mi attacchi”»16.
Il raccoglimento dell’anima nel bene supremo del divino è presentato dal Salmo 61 (62) ( Nonne Deo subiecta erit anima mea?). Le parole divine sono come un fuoco che brucia di amore, invitano all’obbedienza, esortano alla fedeltà e alla lode. Pertanto «l’anima nostra sia sempre soggetta a Dio e raccolta in modo così devoto e puro da pronunciare con ardore e gusto le parole di questo salmo, da effondere confidenzialmente il suo cuore davanti a Dio, senza legare il suo cuore alle realtà esteriori, ma da ergersi, rendersi semplice, fissarsi pienamente davanti a Dio»17.
Il Salmo 68 (69) (Salvum me fac) è un circostanziata profezia della passione di Cristo ed ogni suo tratto si riferisce a quegli eventi, come gli evangeli stessi ricordano. La chiesa tuttavia deve seguire in ogni tempo con fiducia la medesima difficile via del suo mistico capo e maestro. La vicenda emblematica si ripete nella vita di ogni discepolo ed indica la totale purificazione dal mondano necessaria per aderire totalmente al divino18. La gioia invece è il tema del Salmo 75 (76) (Notus in Iudaea, Deus), che invita a diventare nel proprio intimo la nuova dimora spirituale di Dio: 15 16 17 18
Ibid., f. CIv. Ibid., f. CXXVr. Ibid., f. CXXXIVv. Ibid., ff. CXLIIIr-CXLr.
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«Ecco abbiamo ascoltato un salmo gioioso, gradevole e colmo di lodi di Dio. Dobbiamo pronunciarlo con intima dolcezza, letizia di cuore e intelligenza attenta, in quanto noi ed ognuno di noi possiamo essere la Giudea, avendo fiducia nel Signore con la fede e l’azione, essere Israele, contemplando la sua gloria con volto scoperto e così con un cuore pacificato e puro prepariamo al Signore una abitazione dentro di noi»19.
Quando viene recitato il Salmo 88 (89) (Misericordias Domini), bisogna osservare che «abbiamo cantato un salmo grandioso per le parole ed i significati, pieno di misteri e degno di ogni lode»20. Esso esalta infatti la misericordia di Dio verso la fragilità di tutti gli esseri umani assieme a quella di Cristo, che li sostiene e soccorre nel loro difficile cammino terrestre. 4. TUTTA LA PERFEZIONE DELLA VITA SPIRITUALE Nell’introduzione al terzo gruppo dei salmi, quasi riprendendo un filo che lega l’amplissimo commento, viene sottolineato come essi uniscano la confessione della colpa da parte del peccatore e la richiesta di perdono, la lode rivolta a Dio e l’esaltazione del suo amore. Davide, nella sua persona profetica, ha indicato in maniera emblematica queste tre caratteristiche in cui «si raccoglie tutta la perfezione della vita spirituale». Il peccato indica il punto iniziale dell’esperienza umana, la lode rende simile agli angeli per poi partecipare in modo sempre più vivo e profondo alla natura divina21. Due composizioni parallele mostrano il progressivo elevarsi dell’anima che voglia seguire l’istruzione interiore proposta dalla preghiera profetica. Il Salmo 102 (103) ( Benedic, anima mea) esprime la condizione penitenziale di chi ha percepito la fragilità dell’essere umano, ma subito il Salmo 103 (104) (Benedic, anima mea) si eleva alla gratitudine e alla lode. La coscienza della miseria deve trasformarsi in lode della potenza misericordiosa di Dio: 19 20 21
Ibid., f. CLXXIIr. Ibid., f. CCVIIIv. Ibid., f. CCXXVIIr.
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«Ecco abbiamo ascoltato un salmo del tutto degno di ogni lode, completamente ricolmo di ogni consolazione e soavità, che deve essere ripetuto da noi peccatori rivolti alla santa penitenza, dolce e ricco di gusto. Quando lo cantiamo, è bene che dal ricordo dei benefici divini siamo accesi in modo veemente dall’amore del nostro Dio, siamo spinti con tutto il cuore alla sua lode. E, per essere considerati come degni esaltatori, sforziamoci di servire Cristo con cuore puro, di disprezzare tutte le realtà carnali, mondane, temporali e inconsistenti, di contemplare con cuore unito e fermo quell’unica cosa che sola è necessaria, a cercarla, amarla e onorarla tanto più intensamente e frequentemente quanti più numerosi benefici abbiamo ricevuto. Per questo infatti Cristo afferma in Luca “a chi è stato donato molto, molto sarà richiesto”»22.
Il Salmo 108 (109) (Deus laudem tuam) aiuta ad immedesimarsi nella passione di Cristo, ad imitare la sua preghiera per i persecutori, a liberarsi da ogni sentimento negativo nei loro confronti in modo da «seguire in tutto le tracce di Cristo”, che è la regola fondamentale di ogni vero discepolo. Ma nel Salmo 109 (110) (Dixit Dominus Domino meo) Cristo appare nella sua duplice natura umana e divina, nella sua ascensione al Padre, di cui condivide l’eternità e la natura, nel suo universale dominio, nel suo sacerdozio, nella sua definitiva funzione di giudice. E noi dobbiamo recitarlo «con molta riverenza, con la massima devozione, con una contemplazione profonda», in modo da capire intellettualmente ed assaporare nell’affetto il suo insegnamento23. Nel Salmo 110 (111) (Confitebor tibi) il profeta esalta il cibo eucaristico a nome proprio, quasi antivedendolo, della chiesa e di ciascuno dei fedeli. Il Salmo 116 (117) (Laudate Dominum) raccoglie tutta la dottrina disseminata nella salmodia, in particolare la misericordia di Dio verso la fragilità degli esseri umani. Richiede pertanto di essere recitato con «una fiamma di santa devozione»24. Una lunghissima meditazione sulla parola divina è fornita dal Salmo 118 (119) (Beati immaculati), che insegna ad immedesimarsi con tutta la propria esistenza nella presenza amorosa e redentrice del 22 23 24
Ibid., f. CCXXXIIIIr. Ibid., ff. CCLVv - CCLVIIv. Ibid., f. CCLXVIv.
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Dionigi Certosino (1402-1471) e la preghiera salmodica
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divino, quale si manifesta soprattutto negli eventi evangelici25. I successivi quindici salmi graduali, secondo l’interpretazione del monaco, vogliono indicare i gradini dell’ascensione spirituale verso la comunione piena con il divino. Occorre anzitutto abbandonare il vizio, chiedere l’aiuto divino, imparare ad amare, avere fiducia nella misericordia di Dio. In seguito è necessario esprimere la gratitudine, stabilirsi con fermezza nella nuova via, esaltare i benefici ricevuti, estirpare la superbia, eliminare il timore, esercitare la pazienza, la penitenza e l’umiltà. Bisogna infine edificare in se stessi la dimora spirituale di Dio ed esercitare l’amore fraterno, “che unisce la molteplicità delle persone e rende ogni cosa comune”. L’ultimo gradino porta tutto a conclusione in modo da essere completamente avvolti dall’amore di Dio26. 5. GLI AFFETTI DELL’ORANTE Nelle pagine conclusive della sua opera il fervente ed erudito certosino vuole fare emergere quali siano i principali moti dell’animo o affetti o sentimenti suggeriti dalla preghiera salmodica. Una grande visione teologica, quale è quella fornita dalle Scritture e per molti secoli studiata ed esposta dai maestri della cristianità, non deve essere oggetto di una pura ricerca concettuale né di una contemplazione astratta. Colui che, con lo studio e soprattutto attraverso la celebrazione liturgica, entra in contatto con la vita divina deve esservi coinvolto con tutto se stesso. Non può rimanere uno spettatore neutrale o provvisorio, ma deve diventare protagonista della storia esemplare che gli è posta davanti. L’intelligenza deve trasformarsi in partecipazione amorosa, in imitazione, in affetto intimo ed operoso. Al seguito di Ugo di San Vittore viene proposta una serie di atteggiamenti spirituali suscitati dalla preghiera che fa propria la voce ed il sentimento del salmista. Essi sono l’amore, lo stupore, la gratitudine, l’umiltà, la tristezza, il timore, l’indignazione, lo zelo, la sicurezza. Ma il monaco dell’epoca umanistica ritiene che questo elenco possa diventare molto più articolato, dal momento che la preghiera profetica dello 25 26
Ibid., ff. CCLXIXr - CCLXXXv. Ibid., ff. CCLXXXv - CCXCVIr.
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Spirito raccoglie ed ordina tutte le esperienze umane. Così essa affronta le condizioni del desiderio, della pochezza, della grandezza, della pietà, della durezza, della speranza, dell’audacia, dell’impazienza, della pigrizia, della vanagloria. Il salterio è una grande galleria di esperienze umane, che vengono mostrate in modo esemplare, confrontate, ordinate, accolte o respinte secondo un disegno ultimo di grazia e di giustizia. La linea che unisce tutte le figure che appaiono nella scenografia dei salmi conduce dalla colpa iniziale alla profezia, al Cristo, alla chiesa, al singolo individuo. Storia, profezia, dottrina e morale si uniscono nell’unico disegno che raccoglie tutta l’umanità, oggetto della grazia universale, ma sempre più vicina all’universale giudizio. Per il lettore o cantore di ogni tempo «è di grande utilità sapere in che modo debba comportarsi in tutte queste condizioni e variare i suoi sentimenti, i suoi concetti, le sue intenzioni in modo improvviso e molteplice così da cantare la salmodia con verità, con purezza e con frutto»27. A questo scopo, riguardo a due temi principali come la compunzione e l’amore di Dio, vengono forniti elenchi dei salmi in cui questi sentimenti sono espressi in modo più evidente. Inoltre una raccolta di centocinquanta preghiere, una per ogni salmo, viene fornita perché, in modo sintetico ed intenso ogni composizione si trasformi in una esperienza di comunione personale con Dio. Ecco le espressioni suggerite dal Salmo 150 (Laudate Dominum): «Dopo avere espulso da noi tutti i vizi spirituali, infondi, Signore, ai sensi l’unzione dello Spirito Santo. Resi sua dimora, tutto il nostro spirito lodi te, Signore del cielo»28.
27 28
Ibid. f. CCCXVIIIr. Ibid., f. CCCXXVIv.
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IL PARADOSSO DELL’AUTOREALIZZAZIONE IN MECTILDE DE BAR: PERDERSI PER RITROVARSI
ANTONIO CRIMALDI*
Voglio, anzitutto, ringraziare gli organizzatori del convegno per il fatto di avermi dato, di nuovo, l’opportunità di ricordare Mectilde de Bar, questa grande figura della spiritualità, sia mistica sia monastica. Cercherò nel brevissimo tempo che mi è riservato per farlo, di partire da una mia personale perplessità riguardo all’efficacia di “commemorazioni” del tipo di quella che stiamo attuando. Tale perplessità, la quale non concerne certamente l’importanza e il rilievo spirituale e storico del personaggio da noi celebrato, man mano che ascoltavo le diverse relazioni di questa mattinata, relazioni molto interessanti, molto belle, finiva con l’occupare tutto lo spazio della mia riflessione e con il fare affiorare alla mia mente una serie di interrogativi stringenti: a proposito di Mectilde de Bar, che ne è oggi della sua spiritualità? Come possiamo recepire, oggi, le direttive di questa spiritualità? E poi: può dirci ancora qualcosa questa spiritualità? E in che misura ci può dire qualche cosa? Perché l’assillo che, in un certo senso, mi tormenta tante volte quando mi confronto con i testi “spirituali” del passato e, dunque, anche con i testi di Mectilde, è esattamente il costatare come ci sia una distanza abissale del linguaggio di questi testi dal linguaggio dell’uomo comune d’oggi e dal nostro linguaggio abituale, nel senso che anche noi apparteniamo ad un’epoca in cui certi tipi di linguaggio, certi valori, un certo genere di sensibilità o sono andati smarriti oppure si sono sommersi nel mare del tempo, in attesa, forse, che possano riemergere * Docente di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.
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Antonio Crimaldi
chissà come, chissà dove, chissà quando. Sto cercando di dire che, a mio avviso, il compito fondamentale di chi interroga le grandi figure del passato, il compito più urgente da assolvere, è quello di tradurre il loro linguaggio nel linguaggio nostro contemporaneo, il compito, cioè, di riproporre i grandi temi della spiritualità di queste grandi figure oltremodo significative dalle quali ci separa una notevole distanza storica, nel linguaggio che noi oggi parliamo e comprendiamo, se vogliamo portarli di nuovo all’attenzione dell’uomo contemporaneo. Ciò significa che bisogna, prima, saper interpretare le domande esistenziali dell’uomo contemporaneo per sapere se e in qual misura i tesori della spiritualità del passato possano ancora oggi costituire un “serbatoio” di senso da cui attingere per ricavarne delle risposte. Intanto, una costatazione banale è che il carisma di Mectilde de Bar è ancora vivo e attuale perché c’è una comunità, ci sono comunità che si ispirano ad esso. Ricordando la sua figura, stamattina è stata sottolineata la spiritualità mistica; probabilmente, anzi mi auguro e penso e ritengo opportuno che questa prospettiva venga integrata da altri interventi con l’analisi della spiritualità monastica, perché, in Mectilde de Bar, le due spiritualità convergono. E tuttavia, non riesco ad esimermi dal pensare che, anche per “le sue” comunità monastiche o nelle sue comunità monastiche, si ripropone il problema di cui ho parlato dianzi. Andando ad analizzare gli scritti mectildiani, noi troviamo un vocabolario, un lessico, un modo di esprimersi, diciamo, completamente opposto alle aspettative normali e comuni dell’uomo contemporaneo, opposto se non addirittura ostico e ripugnante alla sua “normale” sensibilità umana. Stamattina abbiamo sentito parlare di “abiezione”, di “annientamento”, di umiliazione, di distacco, di crocifissione; abbiamo sentito risuonare più volte l’esortazione a seguire il Cristo umile e umiliato, a seguire il Cristo che si è fatto nulla per condividere il nulla della condizione umana. Insomma, tutto questo fraseggio è esemplato, sempre e comunque, sulla figura inesauribile, immensa, del Cristo Redentore. Si prende quindi come punto di partenza il fatto che Dio “sì è abbassato” assumendo la condizione umana, e che, assumendo la condizione umana, ha assunto tutte le derive della condizione umana, quindi tutti i problemi della temporalità, tutti gli inghippi, gli enigmi e, in un certo senso, tutte le difficoltà, tutti i limiti della creatura umana.
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Il paradosso dell’autorealizzazione in Mectilde de Bar
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Ora, il punto è esattamente questo: si è abbassato sì, si è fatto nulla, sì, si è umiliato nella condizione di servo, sì, però portando l’infinita ricchezza dell’Eterno. Quindi la sua umiliazione è rivelativa di un orizzonte immenso di grazia, quindi di serenità, di pace, di sublimazione dell’umano. Insomma non si capisce la “categoria” o, meglio, l’evento dell’incarnazione del Verbo, se non ritornando al tema dell’umiliazione che è affrontata per elevare. L’umiliazione non è mai, nel cristianesimo, considerata fine a se stessa, bensì in funzione di una “condivisione” del destino umano; l’abiezione non è considerata mai fine a se stessa, bensì come identificazione con il Cristo che fa dono “integrale” del suo essere umano e divino per promuovere, potenziare, portare a totale compimento “l’essere” dell’uomo, a partire dall’essere di ogni uomo considerato e trattato come ultimo e, perciò, non riconosciuto nella sua dignità di uomo. Umiliazione, abiezione, sacrificio, espiazione, rendersi “vittima” ecc. ecc., sono termini che devono, nella prospettiva cristiana, sempre e comunque indicare un potenziamento dell’umano, un’elevazione dell’umano. Se le due cose non vengono messe insieme, si perde di vista completamente il cristianesimo, la spiritualità monastica, la spiritualità della mistica. Se si trascura, poi, l’impronta marcatamente cristiana e cristocentrica della mistica “cristiana”, essenzialmente cristiana, nulla potrà distinguerla da una qualunque “pratica” di annientamento promossa, per esempio, dalla spiritualità buddista. In Mectilde la caratura cristocentrica dell’annientamento è proclamata costantemente a chiare lettere: «L’annientamento non è altro che una morte mistica; è un’operazione che distrugge l’essere corrotto del peccato che è in noi (corsivo mio) e fa prendere una nuova vita in Cristo Gesù, come dice S. Paolo. Oh quali meraviglie racchiude questo annientamento!»1.
In base a tali considerazioni, ho cercato, mi sono sforzato di mettere, allora, in relazione questo messaggio di Mectilde de Bar con le “attese” della cultura e con le “scoperte” della psicologia contemporanea. Nella società odierna si punta tutto l’interesse sull’autorealizza1 V. ANDRAL, Catherine Mectilde de Bar. I. Un carisma nella tradizione ecclesiale e monastica, Roma 1988, 295.
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zione dell’io, non si parla mai di rinuncia, non si punta mai sul sacrificio, sull’abnegazione, e questa realizzazione è sempre e comunque vista come valorizzazione dell’individuo, come espletamento delle doti e delle attitudini dell’individuo, sicché l’autorealizzazione è sinonimo di gratificazione. Una scelta di vita che non porti alla gratificazione connessa con l’estrinsecazione del sé, con il potenziamento della propria personalità, con la valorizzazione dei doni della propria personalità, non è una via da scegliere, ma da evitare in modo assoluto: sarebbe da masochisti scegliere, appunto, una via della rinuncia, dell’abbassamento e della mortificazione del sé; già la vita in quanto tale abbonda di prove dure e umilianti per molti esseri umani, ci mancherebbe, poi, che a ciò si aggiungessero le esperienze di umiliazioni cercate per libera scelta. Si può censurare questo atteggiamento diffuso dell’uomo contemporaneo? No, di certo! E non è forse questo, il ragionamento che facciamo noi stessi, al di là di ogni pia riflessione suggerita dagli scritti mistici più sublimi? Eppure, a volerli leggere in profondità, anche tali scritti, se non ci lasciamo fuorviare dalle patine del tempo, dalla terminologia desueta, da una qualche dissonanza (apparente!) dal nostro modo di vedere e di sentire, parlano a noi in un linguaggio comprensibilissimo, a condizione che abbiamo la pazienza di ascoltarli, ed ascoltarli sino in fondo. Anch’essi, infatti, mirano a descrivere vie, processi, itinerari che conducono all’autorealizzazione, propongono una saggezza eterna, perenne, da spendere per affrontare un problema eterno, perenne. Solo che, nel senso della mistica, l’autorealizzazione è vista come l’intima unione con Dio, come il pervenire a quel momento, diciamo, di assoluta gratuità che caratterizza proprio l’unione con Dio. L’unione con Dio è esattamente l’incontro di due gratuità: l’infinito amore di Dio per l’uomo e, in risposta, l’amore gratuito della creatura, dell’uomo verso Dio. Tutta l’ascesi, tutta la spiritualità della mistica consiste nel raggiungimento della gratuità dell’amore e, dunque, nella purificazione delle motivazioni che governano e guidano la condotta umana per renderli conformi al progetto esistenziale di “incontrare” Dio, l’amore assoluto e l’assoluto dell’amore. Purificarsi, per i mistici, per Mectilde, significa esattamente tendere a raggiungere la purezza del cuore e la purezza del cuore è la semplicità del cuore, semplicità che consiste nel non
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“contaminarlo”, anzitutto. Consiste, tale semplicità, nel non contaminare assolutamente le motivazioni dell’amore con motivazioni che sono estranee alla logica dell’amore. Dubito che l’uomo contemporaneo sia “assetato e affamato” di Dio, probabilmente l’uomo non lo è e non lo è mai stato, perché la fame e la sete di Dio la può dare e provocare soltanto Dio, ma non dubito affatto che l’uomo contemporaneo abbia fame e sete di amore puro, sebbene non sappia da dove provenga e come ottenerlo. Perché noi, qualunque individuo umano, desidera, desideriamo, di essere incondizionatamente accettati nel nostro essere, desideriamo di essere amati “senza secondi fini”, per noi stessi, non per quanto possiamo dare in forza del principio di prestazione. Allora, tutto il processo ascensionale di purificazione contemplato dalla mistica è sempre in vista di un positivo, non mai in vista della negazione della personalità; purificarsi è esattamente raggiungere via via, con gradualità, un livello di elevazione e di “disinteresse” che consentirà alla fine di tutto il percorso, del processo, veramente di “gustare” Dio e chi “gusta” Dio, ottiene la beatitudine, acquista la vita che è veramente vita, essendo Dio stesso amore incondizionato, infinita, gratuita accettazione dell’umano e, dunque, la realtà assoluta che rende possibile il sogno “inconsapevolmente” sognato dall’uomo, quello di essere eternamente accolto ed eternamente redento, eternamente riconosciuto ed eternamente incardinato in una relazione d’amore. C’è, ancora, all’interno di questo processo un altro aspetto significativo, un aspetto da poter valorizzare oggi più e meglio del passato in quanto corrisponde pienamente alla consapevolezza dell’uomo contemporaneo e contiene un’esigenza messa in luce, tra l’altro, dalle ricerche della psicologia del profondo, dalla psicanalisi, dai grandi filosofi definiti “maestri del sospetto”, dai grandi demistificatori della trasparenza della coscienza — mi riferisco per esempio a Nietzsche — la quale si affianca alla propensione a potenziare la propria personalità, ma non la sostituisce: è l’esigenza di acquisire una continua diffidenza nei confronti della soggettività. L’uomo contemporaneo ha imparato a diffidare della propria soggettività, a diffidare della “limpidezza” delle motivazioni che stanno a monte dei suoi comportamenti, sa che dietro gli ideali più sublimi si cela, si può nascondere il marcio,
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un lerciume inconfessabile a se stessi e agli altri. Ciò può sfociare in una sorta di sacralizzazione delle tendenze “naturali” inconsce e in un esercizio deleterio di denigrazione dell’umano che spaccia totalmente ogni forma di idealità per epifenomeno di aspirazioni sordide inconsapevolmente o coscientemente rimosse e sottratte alla vista, ma non si tratta di un approdo necessario e inevitabile, tutt’altro. La psicanalisi ci ha messo al cospetto di una soggettività oscura, opaca, che non si possiede, una soggettività in preda a pulsioni che lavorano sotterraneamente e non emergono mai alla consapevolezza. Nietzsche ci ha messo di fronte ad una soggettività che è sempre e comunque una maschera, ha messo in luce il fatto che questa soggettività non attingerà mai una profondità che non c’è, proprio in quanto, secondo Nietzsche, non c’è un fondamento, non c’è un centro dell’anima da raggiungere: ciò che emerge è, né più né meno, cio che è sotto la superficie, deformato però sotto una maschera, chiamiamola così, di accettabilità e di perbenismo. Ora questa diffidenza nei confronti della soggettività è molto ben rappresentata dalla spiritualità mistica. Nella spiritualità mistica emerge proprio un soggetto, una soggettività che è un groviglio di motivazioni contrastanti, un groviglio cioè di contraddizioni, il luogo cosciente di aspirazioni nobilissime ancorate nella melma di inclinazioni grette e meschine. Nella spiritualità mistica il passo che avvia l’itinerario di avvicinamento verso Dio è costituito dall’esigenza di bonificare la palude del cuore, dal momento che il cuore umano, per sua natura, è un “cuore pazzo”, un cuore in cui abitano pulsioni che sono in contrasto con l’esigenza profonda di vita che caratterizza la stessa soggettività. La diffidenza, la sana diffidenza nei confronti del sé, nel pensiero dei mistici è il punto di partenza della considerazione della condizione umana, che per essi coincide in tutto con la condizione creaturale. Quando noi leggiamo le pagine di Mectilde intrise da accenti di pessimismo profondo, e anche le pagine dei mistici, scopriamo che lei si sente una peccatrice, che i mistici più sono tali più si sentono lontani da Dio, più si sentono e si proclamano peccatori: ed è il sentire di cristiani, noi potremmo dire, molto, molto impegnati, di cristiani che hanno preso sul serio il cristianesimo. Cosa potremmo e dovremmo dire noi cristiani comuni paragonando la nostra vicenda ed
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esperienza di vita alla spietata autoanalisi che conducono i mistici nei confronti della loro soggettività? Qui i casi sono due: o sono dei bugiardi o sono degli ipocriti. Perché sentirsi peccatori se si sentono invasi da Dio e condotti dalla grazia? E perché sentirsi peccatori e proclamarsi tali se sono ben consapevoli di avere scelto un cristianesimo molto impegnativo sul piano pratico? Non si percepiscono mai come una élite, non si sentono mai appartenenti ad una aristocrazia dello spirito, si sentono sempre, ed è una costante che impressiona, ad un livello più basso di tutte le creature, si sentono assolutamente miseri, profondamente miseri. Donde il concetto di abiezione che è un’idea tipica della mistica, l’abbiamo visto dalla prima relazione, abiezione a cui segue l’abbandono che è, a sua volta, la reazione positiva al senso di abiezione, al sentirsi assolutamente miseri, totalmente indigenti di fronte a Dio e agli uomini. Verrebbe da chiedersi dove sia andata a finire la ventata rivoluzionaria e innovativa dell’Umanesimo. Il secolo di Mectilde è il secolo di Cartesio, il secolo dell’esaltazione della soggettività come autopossesso, come autotrasparenza. E tuttavia è anche il secolo di Pascal, con la ri-scoperta della miseria dell’uomo. Le due cose non sono inconciliabili. Ritengo, anzi, che la sottolineatura della miseria, nel linguaggio della mistica: “dell’abiezione”, possa costituire, tutt’oggi, la base per la riproposizione di un umanesimo, per così dire, integrale. Non solo nel significato conferito al termine da Maritain, ma nel senso di aprire una prospettiva, uno sguardo, il più possibile integrali, completi, sulla condizione e sulla realtà umana. Ora, da che cosa scaturisce il senso del peccato dei mistici, di una Mectilde de Bar, una volta escluso che siano dei bugiardi e degli ipocriti? Ma il peccato altro non è che la “normale”, onesta, constatazione del fatto che, né dal punto di vista umano, né dal punto di vista cristiano, siamo come vogliamo essere, come desideriamo essere e come dobbiamo essere per essere all’altezza del nostro essere. Non siamo mai come dobbiamo essere. Senso del peccato, tradotto nelle parole dell’uomo odierno, il quale, perduta completamente la nozione di peccato, non per questo si è sottratto alla sua potenza di devastazione, è la lancinante sensazione di essere sempre, invariabilmente, dolorosamente, al di qua del
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nostro io “ideale”. Che è ben diverso dall’idealità del nostro io, in quanto l’idealità dell’io è ciò che egli immagina per sé come ideale, mentre l’io “ideale” è quella progettualità dell’io che scaturisce dalla verità profonda, “disincantata”, a volte odiosa (il sé detestabile di Pascal, il “sé” oggetto di condanna da parte della giustizia divina in Mectilde, il “sé degno dell’ira di Dio”) faticosamente raggiunta, attinta dall’io al riguardo della propria in-consistenza esistenziale. In parole povere “l’io ideale” fa sempre i conti con quello che Freud chiama il principio di realtà. Il principio di realtà è il principio di verità. Alla luce della rivelazione cristiana, il principio di realtà, che è principio di verità, ti dice: sei infinitamente lontano da quell’amore puro che, tuttavia, in te, come creatura umana, lascia una traccia. E questa traccia, in quale forma ci si offre alla considerazione attenta, dis-illusa, del nostro essere? Come nostalgia, nostalgia di questo “amore puro”, non come possesso, né tantomeno come concettualizzazione di una esperienza impossibile, frutto di sogno utopico: può un malato sognare una salute mai sperimentata, mai constatata in sé e in altri? Se noi, dunque, capovolgiamo la prospettiva e vediamo tutto il percorso mistico, non tanto alla luce dell’avvio, ma alla luce dell’approdo, ci rendiamo conto che il mistico, i mistici, a differenza dell’uomo comune, hanno scoperto in proprio la provenienza, la direzione e la meta di questa nostalgia, mentre noi credenti anagrafici o ordinari ne abbiamo solo una vaga nozione astratta, labile, intermittente e, per lo più, riposta nel libro dei sogni. E l’approdo, la meta, è esattamente la seguente: l’intima unione dell’umano e del divino, l’intima unione dell’immanenza e della trascendenza, l’intima unione del cielo e della terra, ferma restando la com-presenza delle due realtà: il cielo si “apprende” se si attraversa la terra, non rinunciando alla terra, “vivendo” la terra, il tutto della condizione umana, il tutto del sentire, del patire umano, il tutto delle “passioni”, delle inclinazioni umane, attraversando la terra si apprende il cielo, le cosiddette vie del cielo. La meta retro-agisce sul cammino e gli impone la sua giusta misura: è la giusta misura che fa della terra, della nostra terra, una terra feconda, che trasforma un terreno sterile in un terreno produttivo. Produttivo per la terra stessa, per i terrestri, non per gli abitanti del cielo. Appartiene alla giusta misura, mantenersi costantemente nella
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verità del proprio essere. La vigilanza continua che la mistica inculca al soggetto credente che si affida al suo Signore nell’itinerario di ascensione deve consistere, afferma Mectilde, nel saper correttamente valutare le proprie inclinazioni, le proprie disposizioni, correttamente valutare il tenore dei legami intersoggettivi, correttamente valutare la portata e l’onestà del proprio impegno: è un bagno di verità. Nel secolo in cui Mectilde scrive, noi incontriamo Cartesio e l’ho citato, ma anche Spinoza. Questi filosofi lasciano pagine penetranti sulle passioni umane, entrambi sono maestri, e sommi maestri, nel descrivere le passioni umane. Il Seicento è, dunque, il secolo della grande scoperta del soggetto e delle sue complicazioni. Poi se lo si guarda dall’ambito della vasta letteratura che possiamo definire moralistica, è il secolo dei grandi moralisti, di coloro che indagano a fondo sul comportamento umano e cercano di attuare un’indagine a tutto campo sul retro-scena, sul retroterra, su ciò che sta non di fronte all’intelligenza, ma dietro l’intelligenza e la orienta. Io penso e ritengo che la mistica del Seicento possa essere inserita a buon diritto in questo grande movimento della modernità che è, insieme, scoperta dell’importanza del soggetto e della soggettività, ma anche scoperta della profonda ambiguità dell’uno e dell’altra. Oggi, se guardiamo un poco, alle pennellate catastrofiche con le quali viene dipinta la realtà contemporanea, possiamo farci l’idea che il nostro tempo è il tempo della penuria estrema, della carenza estrema del senso e del significato della vita; non sono io ad usare queste parole, le usa Heidegger in un contesto diverso: è il tempo dell’oblio dell’essere, dice Heidegger, e questo oblio lo possiamo costatare a tanti livelli. Alcune manifestazioni di esso sono l’amoralismo, l’immoralismo, il cinismo, tutti i vari ismi che vengono in mente; donde lo smarrimento, l’angoscia, l’incapacità di progettare e sperare. Ma forse non c’è più nemmeno l’angoscia, posto che sperimentiamo perfino l’impossibilità a provare sentimenti e da molti si ritiene che tutto sia emozione che si esaurisce nel momento, in un momento. Stando, perciò, a questo quadro catastrofico, noi potremmo concludere che siamo ormai, se non nell’inferno, nell’anticamera dell’inferno. In realtà, se facciamo i conti con la storia, abbiamo aperto il campo per ben altre considerazioni. In ciò gli storici ci danno un
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aiuto enorme. Essi sono veramente preziosi perché non solo ci fanno capire il passato, ma anche tante cose che si ripropongono al di là del tempo e dello spazio. La storia è certo distanza, ma è una distanza che va colmata, in quanto non possiamo capire ciò che siamo ora senza recuperare alla memoria ciò che siamo stati. E gli storici ci prestano un servizio prezioso e indispensabile, purché non finiscano col somigliare, come nota acutamente Cartesio, a quei viaggiatori che andando a spasso per i paesi stranieri si dimenticano della patria e non vi fanno più ritorno. Tanto ho detto per affermare una tesi contestabilissima, ma da me ritenuta valida. Non c’è stata mai epoca storica in cui l’uomo non sia stato l’uomo che conosciamo oggi. C’è stato mai un momento in cui gli uomini sono stati angeli, felici e soddisfatti della propria sorte, moralmente ineccepibili? C’è stato un momento in cui il cristianesimo sia diventato sostanza di vita per moltitudini di uomini? Penso proprio di no. C’è stata epoca in cui non si sia avvertita la penuria di senso? Il crollo del mondo antico, le paure del medioevo, le rotture continue, le fratture della storia, l’illuminismo, sì anche l’illuminismo, l’età aurea dell’ottimismo della ragione, tanto ottimista non è stato se ha messo in evidenza anche i limiti della ragione umana. E allora, di che cosa ci meravigliamo? L’oscuramento delle evidenze nella società contemporanea: ma quando mai le evidenze umane non sono state oscurate? Sempre l’uomo ha sperimentato un rischio continuo, uno scontro profondo e immane tra le cosiddette ragioni della luce e le ragioni della tenebra. Se, traendo spunto dal Vangelo di Giovanni, prendiamo atto che il luogo dello scontro perennemente aperto è il cuore dell’uomo, ieri come oggi come domani, allo stesso tempo queste voci dei mistici, la voce di Mectilde, che vengono da lontano, che difficilmente riusciamo ad ascoltare, e parlano un linguaggio che difficilmente riusciamo a capire, queste voci, questa voce, ci toccano e ci coinvolgono, poiché esprimono la lotta di sempre, non una lotta che appartiene ad un’epoca, ad una cultura, ad una civiltà, bensì la lotta incessante destinata ad essere combattuta, per parafrasare ancora Giovanni, da ogni uomo che viene in questo mondo. Perciò ho la convinzione che l’attualità del carisma di Mectilde de Bar consista nel mettere in evidenza il carattere conflittuale, agonico
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e agonistico della ricerca dell’autorealizzazione nella creatura umana e, soprattutto, il carattere paradossale della spinta all’autorealizzazione: più vuoi avere e meno sei. Il paradosso dell’autorealizzazione, così come ci è dato dal punto di vista umano, ubbidisce a questa formula: tutto ciò che tu vuoi accumulare nel senso dell’avere riduce sempre il tuo essere; o sei, o hai! O realizzi la tua soggettività nel segno del possesso, dell’accaparramento a tutti i livelli (non parlo solo di possesso di beni materiali, posso parlare di possesso come carriera, carrierismo, ambizione mal riposta, ricerca del prestigio, gusto del prevaricare e del dominare, affettività egoistica e possessiva, ecc.) perdendo completamente te stesso, o ascolti l’anelito del tuo essere, salvando le ragioni del tuo vivere. La via della mistica seguita da Mectilde propone il paradosso in questi termini: attento! Quello che tu ritieni e chiami realizzazione, è morte, è de-realizzazione. Quello che invece tu ritieni morte, la rinuncia, il sacrificio delle tue aspettative egoistiche ed ego-centriche, è vita. Se vuoi la vita, e questa vita la vuoi in sovrabbondanza, devi attivare in te le ragioni della vita, della vita che sia veramente vita. A misura che tu accogli e attivi in te queste ragioni della vita che è veramente vita, sentirai tu stesso l’esigenza di mortificare quelle ragioni che si oppongono alla vita. Che cosa è, dunque, il cosiddetto sacrificio, la cosiddetta “mortificazione”? È sterilizzare tutto quello che in te è morte. Sacrificarsi, nel senso cristiano, nel senso della mistica, nel senso di Mectilde, è esattamente dare la morte alla morte. Se si colloca tutta la spiritualità in questa ottica, dare la morte alla morte, si può anche guardare con meno pregiudizio e con più simpatia a tanti slogan della modernità che sono slogan, i quali vanno presi sul serio, perché celano sempre esigenze profonde. L’esigenza dell’emancipazione (non voglio padroni), l’esigenza di liberazione dall’alienazione (non voglio essere coartato nell’esercizio delle mie facoltà), l’esigenza di un rapporto umano accettabile, gratuito e autentico (non voglio essere trattato come oggetto, bensì come persona: vedi caso, è il nocciolo cristiano dell’imperativo categorico di Kant). Quando, oggi, si parla di emancipazione, di dignità maschile e femminile, di diritti umani, di relazioni umane e sociali improntate al rispetto della concreta individualità umana, a che cosa si mira? Non si mira forse ad una valorizzazione dell’uomo che non sia assolutamente
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Antonio Crimaldi
sacrificata e subordinata a nessun idolo inventato dall’uomo? Si mira ad una valorizzazione dell’umano che sia tale per sempre. E si dà, per questa valorizzazione, traguardo più alto di quello illustrato, per la via dell’esperienza vissuta, dai mistici cristiani, l’infinita sollecitudine del Dio di Gesù Cristo per la creatura umana, fino ad elevarla alla vita divina trinitaria e ad inserirla in essa? Vorrei leggervi solo qualche brano di alcune lettere di madre Mectilde; mi pare un passo molto pertinente, quello del settembre 1662, che mette in evidenza quello che ho cercato di dire, la diffidenza della soggettività nei confronti di se stessa, coltivare una sana diffidenza e poi, soprattutto, bonificare continuamente la palude delle ragioni sommerse delle nostre scelte: «Di solito compiamo le nostre azioni secondo il nostro modo di vedere e avendo di mira solo le nostre inclinazioni»2.
Nei termini della mistica questa è la condizione dell’uomo naturale. Adesso cosa propone madre Mectilde? Fa una costatazione: «Perciò non bisogna stupirsi se le facciamo così imperfettamente e avanziamo così poco nella virtù. Ve lo dicevo non molto tempo fa: a una religiosa, per essere ben presto perfetta, non chiederei altro che di avere di mira unicamente e in tutte le sue azioni, anche le più piccole, la santissima volontà di Dio. Nostro Signore nel Vangelo dice una bella parola a questo proposito: Se il vostro occhio è semplice… Sì, sorelle mie, se l’occhio della vostra anima è semplice, guardando unicamente Dio in tutto ciò che fa, senza ripiegamenti su di sé, né sulle creature, tutto il vostro corpo sarà luminoso, cioè tutte le potenze della vostra anima, tutte le sue facoltà, saranno rischiarate da quel bel sole eterno, Gesù Cristo: mirando a lui e avendolo per oggetto, alla sua luce conoscerete i vostri minimi difetti»3.
La continua vigilanza-diffidenza nei confronti del soggetto ha di mira il raggiungimento di un cuore puro. Il cuore puro consente di 2 C. M. DE BAR, Attesa di Dio. Riflessioni sulla Regola di San Benedetto, Milano 1982, 57. 3 L.c.
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percepire fino in fondo la luce del Cristo; la luce del Cristo rivela te a te stesso, rivela la tua dimensione umana e ti restituisce la verità sul tuo essere, ma questa stessa luce è fonte di gioia e di vita. Attraverso questa luce conoscerete i vostri minimi difetti. Ecco perché le deficienze della soggettività, al di là della vigilanza del soggetto, hanno bisogno di rivelazione; è la stessa rivelazione della luce che mette in evidenza quei difetti minimi che sfuggivano anche al controllo più vigile della consapevolezza. «Potete anche soffrire molto per le impressioni spiacevoli che sentite quando a nostro Signore piace lasciarvi alla potenza delle tenebre, ma non vi è peccato se non quando la vostra volontà vi aderisce…»4.
Allora, concludendo, l’austerità del cristianesimo, la spietatezza, la durezza del cristianesimo non la si può né accettare né comprendere se effettivamente non si mette in luce il lato adorabile ed amabile del cristianesimo, la dolcezza del cristianesimo, la mitezza del Cristo e del cristianesimo e, nello stesso tempo, la progettualità immensa che il cristianesimo affida e consegna all’ascesi umana.
4
Ibid., 58.
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LITURGIA E VITA MONASTICA: ASPETTI TEOLOGICO-SPIRITUALI
ILDEBRANDO SCICOLONE*
Facilmente si associa il termine liturgista a quello di benedettino. Ciò non è esattamente vero, perché si diventa liturgista, cioè cultore della liturgia, quando la si studia a livello scientifico. In un certo senso però si può giustificare l’associazione, in quanto il monaco vive in un clima liturgico, a tal punto che la vita monastica spesso si identifica con il culto divino, in quanto di questo culto è permeata tutta la sua giornata. Scopo della vita monastica, per dirla con Perfectae caritatis 9, è quello di “prestare umile e nobile servizio alla maestà divina” nel monastero. Parlando di una comunità di Benedettine dell’adorazione perpetua, nate nel XVII secolo, vedo necessario mettere in evidenza una differenza di fondo tra il primo ed il secondo millennio della storia del Cristianesimo. Si tratta ovviamente di una considerazione molto generica, perché un millennio è troppo lungo e troppo vario, per considerarlo nel suo insieme. Però, generalmente parlando, si può notare una grande differenza fondamentale: Nel primo millennio, caratterizzato dall’opera dei Padri della Chiesa, il centro del pensiero cristiano e della vita ecclesiale era Dio e il suo mistero salvifico. La Chiesa viveva della liturgia, che si andava formando proprio nei secoli IV-VII, da papa Damaso a papa Gregorio, passando per Leone I, Gelasio, Vigilio, e respirando il pensiero di Ambrogio, Agostino, come anche degli orientali Basilio, Giovanni Crisostomo e altri. La Liturgia celebrava il mistero salvifico, era considerata “opus Dei”, cioè azione divina, nella quale si rende presente *
Docente di Liturgia presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma.
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l’evento della nostra redenzione operata storicamente dal Cristo. Così la Pasqua è la festa primordiale, celebrata prima “ogni volta”, specialmente ogni settimana, e poi - solennemente - nella pasqua annuale. Il Natale è visto come l’evento per cui Dio si fa uomo, perché l’uomo diventi Dio. Maria è la Madre di Dio, immagine della Chiesa; i santi sono soprattutto i martiri, cioè i grandi testimoni della fede. Nel secondo millennio, il centro del mondo diventa l’Uomo. Per cui, anche celebrando i misteri liturgici, si guarda più all’umanità di Gesù. A Natale egli è il bambino, che nasce povero in una mangiatoia; la Pasqua diventa la “passione” di un bravo giovane, esempio di tutti gli innocenti perseguitati, ecc.. Maria è la Madre di Gesù, la Madonna dei cavalieri, la grande protettrice dei suoi figli; i santi sono i nostri intercessori, specializzati per le varie malattie, e patroni di varie categorie di persone, associazioni, confraternite, ecc. Si aggiunga il fatto che il popolo non comprendendo più il latino, sostituisce alla partecipazione liturgica, le pratiche devozionali in lingua volgare; della liturgia vengono spiegati, in modo allegorico, più i gesti (baci, croci, inchini…) che il contenuto dei testi sacri. In particolare, l’eucaristia, nel primo millennio, è la celebrazione massima della Pasqua, l’azione di grazie a Dio per l’evento salvifico, il memoriale attualizzato di questo evento, per trasformare sempre più l’assemblea in corpo di Cristo. La celebrazione è unica e comunitaria, la sacra sinassi. Nel secondo millennio, si ha la scissione tra Messa ed eucaristica, ridotta questa alla sola presenza del Corpo sacramentale di Gesù, l’ostia santa, oggetto (!) più di adorazione, che sacramento (cioè segno e strumento) della nostra assimilazione a Cristo. I trattati medievali e poi la riflessione scolastica, culminata nel Concilio di Trento, mentre accentueranno il culto eucaristico, lasceranno la Messa come era diventata, un rito celebrato dal solo prete, in latino, per lo più sottovoce, mentre il popolo vi assiste, facendo altro, cioè le sue devozioni. In quanto monache, voi siete del primo millennio; in quanto adoratrici, nascete nel secondo, e dopo Trento. Non sarebbe arrivato il tempo, dopo il Vaticano II, di fare una sintesi, dato che siamo nel terzo millennio? Per tentare questa sintesi, rivediamo quanto si può ricavare dalla Regola di san Benedetto, per quel che riguarda la liturgia monastica.
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Lo faccio, riprendendo un mio studio del 1980, in occasione del XV centenario della nascita di san Benedetto. Prendendo in mano la Regola benedettina (= RB), sarebbe necessario innanzitutto collocarla nel suo ambito storico, e in modo particolare studiarne le fonti. Non è però il caso di rifare sempre tale lavoro, dal momento che basta rimandare ai vari studi sulla questione. Ciò vale soprattutto per il rapporto con la Regola del Maestro (= RM)1. Non posso nemmeno fermarmi a vedere quale era lo stato della liturgia cristiana in Occidente, ed a Roma in particolare, dalla fine del sec. V alla prima metà del sec. VI. Ricorderò semplicemente che, per quanto riguarda la liturgia eucaristica e sacramentale, siamo nel periodo della nascita e dello sviluppo della ontologia latina, ad opera specialmente dei papi Leone I (440-461), Gelasio I (492-496) e Vigilio (537-555). Sono preziose testimonianze di tale epoca i Sacramentari Veronese e Gelasiano2. Per la liturgia di lode, al contrario, che ci interessa maggiormente in questo studio, bisogna accontentarsi di indizi, che possono solo giustificare tentativi di ricostruzione3. Mi limito qui a leggere la Regola, guardandola con l’occhio del liturgista. Scopro così che possiamo parlare di liturgia nella RB a tre livelli, che possiamo raffigurare in tre cerchi concentrici. Dividerò perciò il mio studio in tre parti, secondo questi tre aspetti della visuale liturgica di Benedetto. 1. L’OPUS DEI Il cerchio più interno e costituito da ciò che san Benedetto chiama “opus Dei” . Il lettore della Regola viene colpito dal grande numero 1
Basta passare in rassegna l’abbondante bibliografia in A. WATHEN, Introduzione allo studio della «Regula Benedicti» (pro manuscripto) Roma 1977/78, vol. I, specialmente 12-13 e 21-26. 2 Cfr. L. C. MOHLBERG, Sacramentarium Veronense, coll. «RED 1», Roma 1956; Liber sacramentorum romanae aeclesiae ordinis anni circuli, «RED 4», Roma 1960. 3 Tentativi di questo genere sono stati fatti da C. CALLEWAERT, Liturgicae Institutiones. Tractatus secundus: De Breviarii Romani liturgia, Bruges 19372; Laudes matutinae in Officio romano ante regulam S. Benedicti, in Collationes Brugenses 28 (1928); Vesperae antiquae in officio praesertim romano, in ibid. 29 (1929); De parvis horis romanis ante S. Benedictum, in ibid. 30 (1930).
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di capitoli dedicati alla preghiera (8-20) e il visitatore di un monastero dalla frequenza delle ore di preghiera e dalla loro relativa lunghezza. Il termine “opus Dei”, osserva A. Wathen4, non si trova mai nel codice liturgico, ma in altri passi della Regola e ben 16 volte, dal cap. 7 al 67. Possiamo ben dire che la preghiera anima tutta la Regola. Tornando ai capitoli del codice liturgico (8-20) che va opportunamente integrato con i capp. 42, 43 e 52, si può subito osservare che san Benedetto, oltre a darci uno schema e uno stile di preghiera, ci rivela anche una sua visuale liturgica. Il confronto con la RM ci mostra come Benedetto ha rielaborato lo schema di preghiera di quella con delle motivazioni e indicazioni ben precise e per noi preziose. E, se dopo tanti studi5 sulla struttura dell’ufficio benedettino, non è il caso di riprenderla qui, mi sembra opportuno fare emergere tali motivazioni e indicazioni. 1.1. La Pasqua centro del tempo Un primo elemento da notare è la divisione dell’anno, della settimana e del giorno liturgico. L’anno di san Benedetto è diviso al cap. 8, in due parti: inverno ed estate. L’inizio dell’inverno è posto al primo di novembre, l’inizio dell’estate a Pasqua. Al cap. 41, parlando dell’ora dei pasti, la divisione è più particolareggiata: l’anno è qui diviso in 4 parti: da Pasqua a Pentecoste, l’estate, l’inverno (questa volta dal 13 settembre «ad caput Quadragesimae»)6, la quaresima fino a Pasqua. 4 A. WATHEN, Introduzione allo studio della «Regula S. Benedicti» (pro manuscripto), vol. 3: La sezione disciplinare, Roma 1977/78, p. 87: «Nel codice liturgico propriamente detto si trovano queste denominazioni: divina opera (16 T), opus divinum (19,2), officium (8 T), servitutis officia (16,2), servitium (19,3), servitus (16,2), nocturna laus (10 T), laudes creatoris nostri (16,5), oratio (17,5)». 5 Oltre agli studi di A. DE VOGUÉ, La Règle de Saint Benoit, t. 7, Paris 1977, di G. PENCO, S. Benedicti Regula, col. «Biblioteca di studi superiori 29», Firenze 19702, ci riferiamo al recente studio di G. RAMIS MIQUEL, La ordenacion del oficio divino de la Regula Benedicti come relectura de la Regula Magistri, in Hacia una relectura de la Regia de San Benito (XVII Semana de Estudios monasticos), col. «Studia Silensia 6», Silos 1980,171-210. 6 Cfr. G. PENCO, «Usque caput Quadragesimae». Sull’inizio della preparazione alla Pasqua nella Regula S. Benedicti, in Rivista liturgica 41 (1954) 217-231.
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Al cap. 48, l’anno è diviso in tre parti — dalla Pasqua agli inizi di ottobre, da ottobre alla quaresima, dalla quaresima a Pasqua. Queste ultime due divisioni, che vanno da Pasqua a Pasqua, mi rivelano una preoccupazione liturgica, più che astronomica. A differenza del Maestro, che conosce tutti i cicli dell’anno liturgico, nominando il Natale (con 8 giorni di preparazione), l’Epifania, la centesima, la settuagesima, e poi sessagesima, quinquagesima, quaresima, tricesima e vicesima, Pasqua, la RB ricorda soltanto la quaresima e il tempo pasquale. Ciò non dice che Benedetto non conosca anche le altre fasi o gli altri cicli, ma significa che, in una regola monastica molto più essenziale e di maggior respiro, si dà solo rilievo a ciò che il legislatore considera di vitale importanza. C’è ancora da sottolineare che tutte le distinzioni della RM sembrano da mettere in relazione con la pratica ascetica del digiuno, che va aumentando di intensità man mano che ci si avvicina alla Pasqua, mentre la RB non ha tanto preoccupazioni ascetiche, quanto motivazioni liturgiche in senso stretto: egli segue più il calendario ufficiale della chiesa romana, che un calendario monastico-ascetico. La settimana di Benedetto riceve tutto il suo significato dalla domenica, giorno di inizio del cursus ebdomadario (RB 18,6)7. Il giorno viene scandito secondo una interpretazione8 di due versetti del salmo 118: septies in die laudem dixi tibi (v. 164) e in media nocte surgebam ad confitendum tibi (v. 62). Così san Benedetto prescrive sette ore di preghiera durante il giorno: Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta, e la preghiera di notte. Lo schema quindi è di 7+1, mentre il Maestro, unendo i notturni e il mattutino in un’unica ora, osserva solo il «sette volte al giorno». Sembra evidente che Benedetto abbia voluto correggere questa interpretazione, quando dice: de his diurnis horis dixit: septies... nam de nocturnis vigiliis idem ipse propheta ait: media nocte... (RB 16, 3-4). Ora lo schema 7+1 non nega il valore simbolico del 7, ma lo completa
7
Cfr. J. GAILLARD, Le dimanche dans la Règie de S. Benoit, in VSS 4 (1948) 468-488. A. DE VOGUÉ, Septies in die laudem dixi tibi. Aux origines de l’interpretation benedictine d’un texte psalmique, in RBS 3/4 (1975) 1-5. 8
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nell’8. Perché, se il 7 è la perfezione nel tempo, l’8 è il completamento escatologico9. A metà della notte allora noi vegliamo, a somiglianza della grande veglia pasquale, per attendere il ritorno di Cristo glorioso. Delle 7 ore diurne maggiore importanza hanno per Benedetto le lodi mattutine e il vespro. I termini che usa per queste due ore sono enfatici, e diverranno poi classici nella tradizione liturgica: Matutinorum sollemnitas e vespertina sinaxis (RB 17, 12). Il sorgere del sole è da porre in relazione con la risurrezione di Cristo, e il suo tramonto con la morte di Cristo. La celebrazione delle lodi mattutine, d’altra parte, condiziona anche l’ora delle vigilie notturne, specialmente in estate: «da Pasqua invece… l’ora della levata si regoli in modo che all’ufficio notturno, dopo un brevissimo intervallo… seguano subito le Lodi che devono recitarsi al primo albeggiare» (RB 8,4). Le lodi mattutine e vespertine ancora sono caratterizzate dalla recita, ad alta voce, da parte dell’abate, della preghiera del Signore (RB 13,12-14), e dai cantici evangelici del Benedictus e del Magnificat. Dal momento che abbiamo sottolineato la prospettiva pasquale della divisione del tempo, notiamo qui ancora una differenza con la RM, che conferma quella prospettiva. Alla «vigilia» domenicale, Benedetto aggiunge un terzo «notturno», che non sembra essere altro che un ufficio della risurrezione, chiamato anche «vigilia cattedrale» presso gli orientali10. Dopo tre cantici dell’AT, cantati con l’alleluia, si leggono quattro letture del NT con i rispettivi responsori. Quindi «l’abate intoni l’inno Te Deum laudamus. Finito questo, l’abate legga un brano del vangelo, mentre tutti stanno in piedi con ogni onore e riverenza. Alla fine tutti rispondono Amen, e l’abate soggiunga immediatamente l’inno Te decet laus» (RB 11,7-10). Il testo non indica quale sia il brano evangelico, che probabilmente era quello del giorno; ma sappiamo che in oriente, alla vigilia cattedrale, si leggeva sempre uno 9 Cfr. C. SCORDATO, Il settenario. Verso la ricomprensione dell’universo sacramentale: Agostino e Tommaso d’Aquino, in Ho Theologos. Cultura cristiana di Sicilia 23 (1979) 45-90. 10 L’argomento è stato studiato da J. MATEOS, La vigile cattedrale chez Egérie, in OCP 27 (1961) 281-312; L’office monastique à la fin du IV siècle: Antioche, Palestine, Cappadoce,in OC 47 (1963) 53-88.
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dei racconti della risurrezione, che (caso unico!) non veniva proclamato dal diacono, ma dal vescovo stesso, l’apostolo testimone della risurrezione di Cristo. Gli elementi di questa vigilia cattedrale, divenuta vigilia domenicale monastica, indicano anche che Benedetto, nella strutturazione dell’ufficio, sceglie da diverse tradizioni liturgiche. Se infatti il Te Deum laudamus ci riporta a Milano, il Te decet laus ci rimanda in Oriente, mentre i cantici della Scrittura provengono dalla chiesa romana. Diamo adesso uno sguardo alla struttura dell’ufficio, o al cursus ebdomadario, non tanto per vedere il posto dei singoli salmi, né per rifarne la storia, ma solo per notare che Benedetto è il primo che nella tradizione monastica elabora un cursus. Mentre infatti, prima di lui e fino al Maestro, i monaci pregavano un certo numero di salmi ad ogni ora, ma currenti psalterio, cioè seguendo l’ordine canonico del salterio, la RB ha una scelta di salmi per determinate ore, lasciando solo per le vigilie notturne i rimanenti da dirsi per ordine. Così, a grandi linee, per le vigilie restano i salmi dal 20 al 108, al Vespro sono assegnati i salmi dal 109 al 147 eccetto i salmi dal 118 al 127, riservati per le ore minori della domenica e di tutti i giorni. I primi 19 salmi sono collocati all’Ora di Prima. Sono scelti invece singolarmente i salmi delle Lodi mattutine: dopo il salmo 66 senza antifona, si canta ogni giorno il 50 (Miserere, poi due salmi scelti «secondo la consuetudine», e cioè, nell’ordine, i salmi 5 e 35, 42 e 56, 63 e 64, 87 e 89, 75 e 91, 142 e il cantico del Deuteronomio, che si divide in due parti. Ai due salmi infatti, negli altri giorni, segue un cantico dell’Antico Testamento «secondo l’uso della chiesa romana»11. Quindi seguono le laudes, cioè i salmi 148-150. A Compieta si ripetono sempre i tre salmi 4, 90 e 133. Per la prospettiva pasquale, di cui abbiamo sopra parlato, si osservi che i salmi del Vespro sono, in genere, i salmi dell’Hallel, cioè i salmi che venivano cantati nella Cena pasquale ebraica. La dimensione pasquale dell’opus Dei ci viene fortemente indicata dall’intero capitolo che la RB dedica all’alleluia. È il cap. 15: in quali tempi debba dirsi 11 RB 13,10. La «consuetudine» di cui parla poco prima si riferisce essa pure all’uso della chiesa romana?
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l’alleluia. Anche qui Benedetto comincia dalla Pasqua e conclude con la Pasqua12. 1.2. Spiritualità liturgica I capitoli 19 e 20 ci permettono di indicare alcune linee di teologia dell’ufficio o, più in generale, della preghiera del monaco. Innanzitutto il senso della presenza di Dio. Ubique credimus divinam praesentiam... maxime tamen hoc sine aliqua dubitatione credamus cum ad Opus divinum adsistimus. La presenza di Dio è una idea prevalente in tutta la Regola. É il fondamento di tutta la vita spirituale del monaco (cfr. RB 7. 10-16). L’avverbio maxime sottolinea una presenza particolare di Dio durante la preghiera. Ciò richiama spontaneamente i recenti documenti della Chiesa, specialmente la costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II, all’art. 7, dove si insiste sulla presenza di Cristo nelle azioni liturgiche, vista come una presenza attiva, che rende possibile ed efficace il dialogo tra Dio e l’uomo. In tanto l’uomo può parlare a Dio, in quanto questi è presente e l’ascolta, dopo che Dio ha parlato e il monaco ha ascoltato. Un secondo elemento è la partecipazione «piena, attiva e cosciente» del monaco alla preghiera. L’esortazione sic stemus ad psallendum, ut mens nostra concordet voci nostrae è diventata un testo classico, ripresa anche dal recente Concilio (SC 90). La preghiera liturgica non può ridursi alla pura soddisfazione di un obbligo giuridico (officium, pensum, servitutis), ma deve diventare una laus, una oratio. Altro elemento è la semplicità delle forme di preghiera. Se confrontiamo la RM con la RB ci accorgiamo della semplificazione operata dalla seconda. Il cap. 20 dice esplicitamente: «E siamo convinti che non saremo esauditi per le molte parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione delle lacrime. Breve perciò e pura dev’essere la preghiera, salvo che non la protraggano l’ardore e l’ispirazione della grazia divina». E nel cap. 52, parlando della preghiera personale, si dice: «Ma anche se in altri momenti uno desidera pregare in segreto 12 Come contenuto non e una novità. Anche il Maestro ha la stessa prassi solo che la sospensione dell’alleluia avviene subito dopo l’Epifania, incominciando con la Centesima la preparazione alla Pasqua.
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per conto proprio (sibi secretius), semplicemente entri e preghi, e non a voce alta, ma con le lacrime e il fervore interno». Non si prescrive, né si indica un metodo di preghiera, come in seguito se ne proporranno nella tradizione cristiana. Una simile libertà dalle forme la ritroviamo qua e là nella RB. Così coloro che sono lontani dall’oratorio o in viaggio, preghino là dove si trovano «come possono» (RB 50,4). Così pure, se per un caso, dovessero alzarsi più tardi, «bisognerà ridurre qualcosa delle letture o dei responsori» (RB 11,12). Ciò però si badi bene che non succeda. Il principio infatti che domina tutta questa materia è che nihil operi Dei praeponatur (RB 43,3). L’animo con cui si deve correre all’opus Dei è espresso dal termine festinare, che troviamo in RB 22,6: festinent se invicem praevenire ad opus Dei, cum omni tamen gravitate et modestia, e in RB 43,1: ad horam divini officii, mox auditus fuerit signus, relictis omnibus quaelibet fuerint in manibus, summa cum festinatione curratur, cum gravitate tamen... Tale festinatio autorizza il monaco ad invocare la corrispondente festinatio divina all’inizio di ogni ora di preghiera: Domine, ad adiuvandum me festina. A mo’ di corollario, però, notiamo che è presente in RB un rituale della preghiera. Vi è intanto una varietà e una ricchezza di formule: salmi, letture, responsori, versetti, benedizioni, cantici, inni, litanie. Alcuni di questi elementi sono addirittura introdotti da Benedetto, come gli inni, che la liturgia romana non conosce ancora, e che il nostro legislatore prende dalla tradizione milanese: li chiama infatti ambrosianum (RB 9,4; 12,4; 13,11; 17,8). Ma vi è anche una multiforme gestualità: le letture si ascoltano stando seduti, ma ci si alza per il Gloria dell’ultimo responsorio; le letture si leggono nell’apposito codice, posto sul leggio. Il cap. 9 è un meraviglioso esempio di rituale. Nel tempo invernale determinato sopra, si dice anzitutto per tre volte il verso: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam, a cui si aggiunga il salmo terzo col Gloria; poi il salmo 94 con l’antifona o leggermente modulato; quindi si dica l’inno e poi sei salmi con le antifone. Cantati i salmi, si dica il verso e l’abate dia la benedizione; sedutisi poi tutti sugli scanni, dei fratelli leggano a turno dal codice sul leggìo tre lezioni, a cui s’intercalino tre responsori. Due responsori si cantino senza il Gloria:
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e appena egli comincia a cantarlo, immediatamente tutti si alzino dai loro sedili per onore e riverenza alla santa Trinità.
Vari sono infine i modi di cantare i salmi: cum antiphona aut certe decantandus, il salmo invitatorio (RB 9,3); sine antiphona in directum (RB 12,1), il salmo 66 all’inizio delle Lodi, subtrahendo modice (RB 13,2); in directum (RB 17,6) i salmi delle Ore minori, se la comunità è piccola. Un momento di preghiera comporta quindi tutto un rituale: suona il segno, si lascia quel che si aveva tra le mani, si corre con gioia, si canta, si ascolta, ci si siede, ci si alza, si abbandona il coro in silenzio… 2. IL RITUALE MONASTICO Attorno a questo nucleo centrale della liturgia monastica, che ha il suo cuore nella Pasqua e nell’oratorio, ruota (secondo cerchio) tutto un complesso di riti che la comunità compie in diverse circostanze. Anche qui la RB semplifica di molto la RM. Mentre in questa A. de Vogué riscontra una ventina di riti, in Benedetto ne troviamo solo sette13. Essi sono: 1. Preghiere prima e dopo i pasti (RB 43, 13-17) 2. Entrata e uscita dei settimanari di cucina (RB 35) 3. Entrata del lettore alla mensa (RB 38) 4. Riconciliazione degli scomunicati (RB 44) 5. Accoglienza degli ospiti (RB 53) 6. Professione dei monaci (RB 58) 7. Uscita dal monastero e ritorno (RB 67). Di questi riti, molto spesso solo abbozzati in RB, il de Vogué analizza solo il secondo, come specimen, per notare come san Benedetto, se non riprende tutti i riti presenti in RM o tutti gli elementi di un rito, non per questo li nega o li abolisce. La RB riprende solo quelli in cui ha da proporre qualche modifica. (Diverso è il caso della benedizione 13 Cfr. A. DE VOGUÉ, Le rituel monastique chez S. Benoit et chez le Maître, in Rev. Bén. 71 (1961) 233-264.
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dell’abate, di cui Benedetto non parla, pur supponendola (cfr. RB 65,6), perché il sistema di elezione abbaziale è diverso nelle due regole). Noi ci fermiamo qui a vedere solo due rituali, che, per certi aspetti, sono simili. Intendo parlare dell’accoglienza degli ospiti e della professione dei monaci. Le somiglianze di tali rituali hanno portato, nella tradizione monastica, ad operare una loro certa fusione (vedi la lavanda dei piedi ai novizi, presa dal rituale di accoglienza degli ospiti). 2.1. Rito per l’accoglienza degli ospiti Il cap. 53 sull’accoglienza degli ospiti è senza dubbio uno dei più belli della RB. Oltre ad una visuale teologica, per cui l’ospite che si accoglie è Cristo stesso, che in essi si adora, vi troviamo un vero e proprio rituale: «Appena dunque è stato annunziato un ospite, il superiore e/o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità; ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui nella pace» (RB 53, 3-4).
Più sotto il rituale si fa più dettagliato, anche se sembra da riordinare: «Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all’orazione, e dopo sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato. Si legga dinanzi all’ospite la legge divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di premurosa benevolenza. Il superiore per riguardo all’ospite rompa pure il digiuno... L’acqua alle mani la versi agli ospiti l’abate; i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l’abate che tutta la comunità, e finita la lavanda dicano questo verso: Suscepimus, Deus, misericordiam tuam in medio templi tui» (RB 53, 8-14).
Riordinando, avremmo il seguente schema rituale: — Accoglienza — Lavanda delle mani e/o dei piedi — Nell’oratorio: lettura divina — Preghiera — Verso: Suscepimus... — Bacio di pace.
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Qualcosa è previsto anche al momento della partenza, dato che al cap. 53,6 si dice: «Perfino nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o che partono». C’è in questo rituale un percorso (siano condotti) che inizia dalla porta d’ingresso al monastero e culmina nell’oratorio. 2.2. Rito della professione monastica Il rituale della professione è ovviamente più complesso, ma la struttura e soprattutto il percorso ha la stessa direzione. Colui che viene per far vita monastica (ad conversationem), deve insistere per entrare, addirittura 4 o 5 giorni (RB 58,3). Superate queste difficoltà, fa il primo passo: sia accolto nella cella degli ospiti per alcuni giorni. Da qui andrà ancora più avanti e sarà introdotto nella cella dei novizi. Qui farà la sua esperienza, a sua volta scrutato da «un anziano adatto a guadagnare le anime». Durante l’anno di prova, il novizio esce qualche volta dal noviziato e viene a contatto con la comunità, almeno perché gli si legga la regola, e gli si dica: «Ecco la legge, sotto la quale tu vuoi militare; se puoi osservarla, entra; se non puoi, vai pure liberamente» (RB 58,10). Si riconduce quindi in noviziato. Alla fine del periodo di prova, il novizio è pronto per l’ultimo passo: entra ufficialmente nell’oratorio. Qui, davanti a Dio, ai Santi, all’abate e alla comunità, fa la sua professione. Il testo scritto della sua petitio lo fa camminare ancora verso l’altare: su di esso egli depone la carta della sua professione. Quindi egli canta il verso: Suscipe me, Domine... che la comunità ripete per tre volte. Poi il novizio si prostra ai piedi di tutti, perché preghino per lui, e da quel giorno egli sarà considerato come membro della comunità. Fatta così la professione, e avendo rinunziato ai propri beni in favore dei poveri o del monastero, il neo-monaco viene spogliato degli abiti propri e rivestito delle vesti del monastero. Il rituale è ricco: gli elementi essenziali sono i movimenti e i gesti. A differenza della RM, non ci sono molte parole o dialoghi. Le uniche espressioni verbali sono: 1. Ecce lex..., che, tra l’altro, viene detta non necessariamente dall’abate il verbo è impersonale dicatur ei.
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2. La promessa dei tre voti: stabilità, conversione dei costumi e obbedienza. 3. Il verso del Salmo 118,116: Suscipe me, Domine... Sono più importanti i gesti, dicevamo: leggere, firmare e deporre la petizione sull’altare, cantare il Suscipe, prostrarsi ai piedi di tutti, stare in coro al posto assegnato, essere spogliato e rivestito. Considerando poi tutto il cammino del novizio, appare chiaro il suo percorso, in una direzione precisa: fuori — porta — foresteria — noviziato — oratorio — altare. Possiamo rassomigliare questo percorso a quello che fa il catecumeno, nel processo della iniziazione cristiana: fuori — catecumenato — battesimo-cresima — assemblea — comunione. (porta) (navata) (altare) Il culmine è sempre l’altare, sul quale si celebra il sacrificio pasquale. 3. LA VITA DEL MONACO COME LITURGIA Il terzo cerchio più esterno è costituito da tutta la vita del monaco, che Benedetto vede in una dimensione cultuale, cioè liturgica. Nel Prologo (45), il legislatore monastico presenta la vita che vuole restaurare come una «scuola del servizio del Signore». L’espressione viene tradotta letteralmente e gli autori la intendono come «una scuola di perfezione cristiana» (15). Ma si potrebbe intendere in un senso ancora più forte: nel monastero si impara a diventare «servi di Dio», nel significato che ha il «servo di Jahvè», come un uomo scelto da Dio, perché offra la sua vita in riscatto per molti. Tale significato sarebbe avvalorato dalla stessa espressione, se tentassimo di tradurla in greco. In questo caso il testo suonerebbe: tés kyriakés scholè leitourghìas. A questo proposito bisogna ricordare che nel NT il termine leitourghìas ha diversi significati: «servizio» in genere (Rm 13,6; 15,27; Fi 2, 25.30; 2 Co 9,12; Eb 1,7.14), «servizio» liturgico-rituale dell’AT (Le 1,23; Eb 8,2.6; 9,21; 10,11), liturgia come culto rituale cristiano (unico testo in At 13,2), e liturgia come culto spirituale (Rm 15,16; FI 2,17). Prendendo il termine in quest’ultimo significato, che è caratteristico
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del NT e molto sottolineato nei primi secoli della storia cristiana, il monaco, come e meglio di ogni cristiano, è un liturgo. La vita monastica come culto spirituale trova una sua descrizione nella conclusione del Prologo alla RB: «con l’avanzare nelle virtù monastiche (conversationis) e nella fede, il cuore si dilata e la via dei divini precetti si corre nell’indicibile soavità dell’amore, cosicché, non discostandoci mai dal magistero di Dio, e aderendo alla sua dottrina nel monastero con perseveranza sino alla morte, ci associamo con la sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere partecipi del suo regno». Abbiamo qui gli elementi portanti di una liturgia cristiana: l’ascolto della Parola di Dio (magistero e dottrina), il mistero di Cristo, e la nostra partecipazione ad esso. A questi tre elementi possono infatti ridursi le attività del monaco: rispettivamente la lectio divina, l’opus Dei, il lavoro. Tutta la vita del monaco diventa allora una liturgia: tutto il tempo (perseverando fino alla morte), tutto lo spazio (nel monastero), tutti gli arnesi (considerati «come vasi sacri dell’altare»: RB 31,10), tutte le persone (nelle quali bisogna vedere Cristo), tutti gli atteggiamenti (vedi il 12° grado di umiltà: RB 7,62-66). Una dimensione della liturgia e della preghiera è il suo carattere dialogico. Ora il rapporto che il monaco ha con Dio non è altro che un dialogo e una tensione reciproca. Prendiamo ad esempio il termine «cercare». Nel Prologo (14), è Dio che «cerca» il suo operaio, e questi deve rispondere e dichiarare la propria disponibilità. Nel cap. 58,7 è invece il monaco che viene per «cercare» Dio. Altra importante dimensione della liturgia è la tensione escatologica. Ebbene, la vita del monaco può essere definita come una vita di attesa. Il monaco attende (un’attesa che è dinamica, perché è desiderio e ricerca) la santa Pasqua (RB 49,7). Essa è propria del tempo di quaresima, ma questa deve essere una costante attitudine del monaco (RB 49,1). Tutta la vita del monaco deve essere indirizzata’14 verso la Pasqua, attesa «con la gioia dello Spirito santo» (RB 49,7). Ma questa Pasqua che si attende, è già presente nella gioia dello Spirito e nella carità perfetta (RB 7,67). Ciò nonostante il monaco attende di essere pienamente consorte del suo regno (Prologo 50) e di essere condotto 14
A. LENTINI, San Benedetto, La regola Montecassino 19802, 31.
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insieme a tutti i confratelli «alla vita eterna» (RB 72,12). Tale dialettica tra l’essere già e il diventare ancora è manifestata nella dialettica tra i verbi statici (stare, habitare) e quelli dinamici (pergere, ambulare, currere, perducere, pervenire). Una liturgia cristiana infine si caratterizza per l’aspetto comunitario. Come è la comunità che fa la liturgia, così pure è la liturgia che fa la comunità e la manifesta. Ora la comunità è al centro della preoccupazione della RB, dal momento che Benedetto intende rinnovare la «fortissima schiera dei cenobiti» (RB 1,13). Essa si manifesta ordinata proprio nella liturgia: sic accedant ad pacem, ad communionem, ad psalmum imponendum, in choro standum (RB 63,6). Sembra veramente degno di nota che in questa breve elencazione dei luoghi in cui la comunità si manifesta nel suo ordine, non ci siano altre occasioni che non siano liturgiche. Lo «stare in coro» poi, in un certo senso, definisce il monaco nell’ambito della comunità. Quel posto determina quel monaco, e in questo senso gli viene assegnato il giorno della professione e diventa il «suo» posto (RB 43,4: non stet in ordine suo in choro). CONCLUSIONE Ho parlato di tre cerchi concentrici; avrei potuto chiamarli tre livelli o tre profondità. Forse è meglio farli diventare una spirale che sale. Si avrebbe in questa immagine una certa sintesi tra circolarità e percorso. I tre cerchi infatti potrebbero rimanere separati, e non vi è dubbio che il pericolo della loro separazione esiste, nella vita. Altro sarebbe, in questa tentazione, il tempo della preghiera, altro il tempo del lavoro e della vita. La spirale invece unifica. Per il monaco non c’è soluzione di continuità tra preghiera, lectio, lavoro e vita. Il filo che unifica il tutto è il «servizio divino», e cioè il culto a Dio. Il Concilio Vaticano II avrebbe così individuato bene lo specifico del monachesimo, quando ha descritto: «ufficio principale dei monaci è quello di prestare umile e insieme nobile servizio alla divina maestà entro le mura del monastero, sia dedicandosi interamente al culto divino con una vita di nascondimento, sia assumendo qualche legittimo incarico di apostolato o di carità cristiana» (Perfectae caritatis 9).
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Quei tre livelli sono convergenti verso l’opus Dei. Esso è il punto di arrivo, «il centro del centro». Questo non deve portare a dire che il monaco è per il coro, o che la vita monastica sia semplicemente contemplativa, nel senso che il termine avrà in seguito. La vita monastica vuole essere semplicemente evangelica. Cristo, tutto per il Padre e tutto per i fratelli, è il modello di uomo e di monaco, che Benedetto ha davanti. Ma appunto per ciò, Cristo è l’unico mediatore sacerdote, pontefice, liturgo.
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CONNOTAZIONI DI UNA SECOLARE PRESENZA
SUOR CECILIA LA MELA OSB AP*
La vita monastica è stata definita come una “epiclesi dello Spirito sul mondo”, cioè una discesa di rugiada benefica di presenza spirituale attraverso il cuore orante di coloro che si consegnano totalmente al Mistero di Dio nella preghiera continua, nell’ascolto della Parola, nella vita fraterna e operosa come quella benedettina. L’evento giubilare dei 100 anni di presenza del carisma benedettino-eucaristico nella città di sant’Agata è un dono dato non soltanto alla nostra comunità ma anche alla nostra bella Chiesa di Catania e a quanti ci sono vicini. Rileggere stasera alcuni elementi salienti di questo percorso della grazia nella vita quotidiana della comunità è un voler racchiudere l’anima di questo centenario in una sorta di lettura sapienziale che si fa ulteriore spunto di meditazione e quasi sintesi e bilancio di quanto abbiamo vissuto in questo anno ricco di eventi e soprattutto di abbondante benedizione. Il primo biografo di san Benedetto, papa Gregorio Magno, nel secondo libro de I dialoghi ci tramanda che il nostro santo Padre, sul finire della sua vita terrena, dopo un tempo di prolungata e intima preghiera ebbe una visione: «Fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole»1.
Nel XXII canto del Paradiso Dante, rievocando questa immagine, esprime mirabilmente in versi il fatto che non si era rimpicciolito il *
Monaca del monastero San Benedetto di Catania. GREGORIO MAGNO (S.), Vita di San Benedetto e la Regola, introduzione di Attilio Stendardi, Roma 1995, 100. 1
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Suor Cecilia La Mela OSB AP
mondo, ma si era dilatato lo sguardo di Benedetto! E vorremmo proprio farci accompagnare da questa immagine nel breve viaggio che adesso faremo tra le pagine della storia sacra che Dio ha voluto scrivere con noi e con chi ci ha precedute in questi 100 anni di grazia. Storia che si è voluta in un certo senso, e per quanto era possibile, racchiudere in un libro che fosse prezioso scrigno di memorie dato a noi ma anche a coloro che, con rispetto e stima, sono voluti entrare in questa realtà che non è estranea al loro percorso quotidiano, né alla missione della nostra diocesi e alla vitalità della nostra città, ma si inscrive e armonizza con il tratto di strada che, ogni giorno, ci è donato di percorrere insieme. Ecco perché la frase-slogan di questo speciale anno giubilare opportunamente è stata: «Da cento anni… nel cuore della città». Il libro Come pietre vive, presentato lo scorso 9 febbraio dopo una lunga, appassionante e coinvolgente gestazione, ci ha permesso, e continua a permettercelo, di focalizzare gli eventi determinanti, i passaggi nodali di questa nostra bella e ricca storia. È come un riflettore, una lente di ingrandimento che ci permette di dilatare il nostro sguardo per afferrare in modo globale la pienezza di questi 100 anni individuando di volta in volta i singoli avvenimenti, ciascuno come raccolto in questo unico, grande raggio di sole che è il coinvolgersi continuo di Dio nel nostro vissuto personale e comunitario. Brevemente vorremmo evidenziare le tre parole chiave del titolo di questa conferenza: connotazioni – secolare – presenza. Il termine connotazione ci rimanda a qualcosa di specifico, una sorta di stampo caratterizzante che imprime una certa originalità a quanto è stato vissuto nel corso di questi 100 anni. Cercheremo di lasciarci guidare da una sorta di filo rosso che congiunge vari avvenimenti significativi in una sorta di lettura trasversale che vuole cogliere e condividere, con chi è oggi presente, i connotati salienti di questa nostra spiritualità non disincarnata, ma inserita e inscritta in un contesto e in un tempo preciso. Vengono i brividi a pronunciare la parola secolare... Da un secolo il carisma di madre Mectilde de Bar pulsa ed è fecondo anche a Catania. Qui però il termine è usato nella valenza plurale, secolare non come 100 anni soltanto, ma nel senso di una cronologia che va oltre e ci fa sentire un anello di una lunga catena che continua a raggiungerci
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Connotazioni di una secolare presenza
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nel nostro oggi. La presenza benedettina, a partire dal 1092, anno di rifondazione della nostra diocesi, è stata per lungo tempo a Catania, come in tutta la Sicilia, particolarmente rilevante. Fondate più tardi rispetto a quelle maschili (il primo monastero benedettino femminile della diocesi risale al 1158 con una fondazione ad Adrano) anche le comunità femminili costituirono una significativa presenza in diocesi. A partire dal 1300 o poco giù di lì, anche la città di Catania si arricchì di parecchi monasteri benedettini femminili: il nostro risale al 1334 anche se è sito nel luogo attuale dal 1355. Prima del terribile terremoto del 1693 a Catania se ne contavano 11, ridotti poi a 5 dopo questa immane catastrofe. Questi ultimi erano, oltre al nostro, quelli di San Giuliano, San Placido, Santissima Trinità e la badia di Sant’Agata. Dopo la soppressione del 1866, questi monasteri si avviarono inesorabilmente all’estinzione. E infatti, ad uno ad uno, furono chiusi. Anche il monastero di San Benedetto si incamminava verso la stessa fine, ma l’imperscrutabile mano della Provvidenza ha permesso che sopravvivesse, anche se pagando l’alto prezzo della riduzione drastica dei soggetti, poiché la legge di soppressione proibiva l’accettazione delle novizie e quindi nuove monacazioni, il conseguente invecchiamento della comunità e l’inevitabile rilassarsi dell’osservanza monastica. Successivamente, con il mutare del quadro politico e i nuovi impulsi suscitati dallo Spirito all’interno della Chiesa, grazie all’impegno e alla saggezza di sacerdoti e religiosi, la vita ecclesiale, e quella consacrata in particolare, riprese la sua incidenza nei diversi settori della diocesi, sia in ambito religioso che sociale. Tra questi animatori della rinascita e del rinnovamento ecclesiale vi era il cardinale Giuseppe Francica Nava. Nel volume sulla storia delle Chiese di Sicilia edito l’anno scorso da mons. Gaetano Zito, leggiamo: «Francica Nava favorì in ogni modo l’impianto e l’attività delle comunità religiose femminili […] Riuscì anche ad evitare la chiusura di almeno uno dei monasteri femminili, quello di San Benedetto: riscattò monastero e chiesa e nel 1910, da Ronco di Ghiffa, ottenne l’invio di due monache benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento che rivitalizzarono la comunità in via di estinzione»2. 2
G. ZITO (cur.), Storia delle Chiese di Sicilia, Città del Vaticano 2009, 384.
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Ed è con questo stupore e con la consapevolezza di essere le uniche eredi di una secolare presenza benedettina che viviamo il nostro essere nel cuore della città e della diocesi come impegno e responsabilità, cercando di tenere desta la fedeltà alla nostra vocazione, quasi raggiunte e sollecitate dalle tante monache che hanno pregato e sofferto, a volte vissuto anche nella contraddizione, in tanti secoli e in parecchi monasteri disseminati nel territorio diocesano e non solo a Catania. Una presenza, dunque, che non si riduce al semplice esserci, ma continuamente ci sollecita e ci fa essere le custodi di una consegna molto più grande di noi, che ci trascende e ci fa sentire, pur con la nostra fragilità e i nostri limiti, privilegiate testimoni di tanta ricchezza spirituale. Presenza che non può non essere avvolta dalla secolare tradizione che ci ha precedute e ci accompagna ancora nel cammino monastico. Vorremmo adesso puntare la nostra attenzione accendendo i riflettori su tre connotazioni che, come un lungo fiume, lungo il percorso ingrossano le loro acque per riversarle e fonderle poi nel loro sfociare in mare. Il primo elemento saliente non può non essere l’Eucaristia. La Regola di San Benedetto declinata in questa comunità monastica secondo il carisma di madre Mectilde de Bar, favorisce una particolare attenzione all’Eucaristia. Dalle pagine dei nostri Annali, condensate e offerte all’attenzione dei lettori grazie al libro Come pietre vive, la visione dell’Eucaristia che emerge è quella di uno stupore continuo. In fondo, le varie celebrazioni di questo speciale anno centenario hanno voluto esprimere in pieno il significato del termine Eucaristia che, dal greco, vuol dire ringraziamento. E l’Eucaristia, supremo ideale della nostra spiritualità, è stata e continua ad essere il filo rosso che lega continuamente lo spiegarsi della nostra storia determinandola ed orientandola. Le due prime monache venute da Ghiffa per operare l’innesto eucaristico nell’antico monastero di san Benedetto, madre Scolastica Sala e madre Matilde Malinverno, sono definite “missionarie dell’Ostia” da padre Celestino Maria Colombo, l’abate olivetano che tanta parte ebbe nei piani della provvidenza nella realizzazione di questo grande disegno a favore del nostro monastero. Così, dall’abbazia di
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Santa Maria in Campis di Foligno, scriveva il 19 maggio 1910 alle due madri prima che queste lasciassero il monastero di Ghiffa: «Dinnanzi all’umile Tabernacolo dove avete tutto donato e ricevuto l’eredità di figlie del SS. Sacramento, voglio dire lo spirito Eucaristico, umiliatevi per un’ultima volta ed a Gesù-Ostia consegnate i vostri giorni futuri»3.
Madre Scolastica, incoraggiata dalla sua priora di Ghiffa, madre Caterina Lavizzari, oggi venerabile, cercò subito di introdurre nell’attempata ma fervorosa comunità l’ideale dell’adorazione perpetua, che però non fu possibile avviare del tutto per la carenza numerica dei soggetti. È dal 12 maggio 1912 che l’adorazione in questo monastero è perpetua. Dopo la morte di madre Scolastica avvenuta il 26 aprile 1912 e l’arrivo della nuova priora, madre Domenica Terruzzi, le condizioni erano più favorevoli all’avvio di questa pratica, anche perché il numero della comunità si era notevolmente accresciuto. Illustri personaggi connessi anche al nostro monastero hanno avuto un particolare legame con l’Eucaristia. Primo fra tutti il cardinale Giuseppe Francica Nava. La lettera pastorale per la quaresima del 1915, che porta il significativo titolo Il culto esteriore, esprime in pieno lo zelo e l’amore per l’Eucaristia che il Cardinale coltivava nella sua vita interiore riversandolo poi su tutta la diocesi. In quegli anni, infatti, era un crescendo di impegno pastorale e attività associative atte a promuovere proprio la devozione al Santissimo Sacramento. La lettera fu scritta per inculcare nei fedeli quella pratica eucaristica che, liberata da un certo devozionismo sentimentale, spingesse le anime ad un contatto con il Cristo vivo per imitarlo e così rendere eucaristica la vita: «Il culto esteriore ha ragion di essere in quanto è segno e mezzo del culto interiore. È segno, perché con esso manifestiamo esternamente gli atti e i sentimenti di venerazione e di amore che nutriamo nelle anime nostre verso Dio e tutto ciò che intimamente a Lui si riferisce»4. 3
Cfr. Tibi honor Tibi gloria. A ricordo del cinquantesimo della fondazione delle Benedettine del Santissimo Sacramento nel monastero San Benedetto in Catania, Catania 1960. 4 G. FRANCICA NAVA, Il culto esteriore. Lettera pastorale per la Quaresima del 1915, in Bollettino ecclesiale della Archidiocesi di Catania, XIX (1915) 32.
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Molto del fervore eucaristico della nostra comunità, nei suoi primi anni di ripresa, lo si deve anche alle diverse visite che vi fece il canonico Tullio Allegra. Purtroppo di lui ci è rimasto soltanto qualche accenno in alcune lettere di madre Scolastica Sala e madre Domenica Terruzzi che ne esaltavano la bontà, la santità e l’ardore eucaristico. È certo che il suo influsso deve essere stato davvero prezioso in quegli anni di “rodaggio”… Ma tra gli avvenimenti più significativi legati all’Eucaristia vi è senza dubbio il XVI congresso eucaristico nazionale celebrato a Catania dal 6 al 13 settembre 1959. Esso ha trovato una comunità viva e vitale pienamente coinvolta nell’evento grazie anche al fervore e alle grandi idee organizzative della terza priora, madre Maria Rosario Viganò. Nell’annuale lettera circolare inviata ai vari monasteri della nostra Federazione, in quella del 1959, e poi pubblicata nel primo numero del 1960 dalla rivista Deus Absconditus (anno 51°), le nostre sorelle relazionarono tra l’altro che «la nostra chiesa visse ore di emozione speciale – ed era ovvio, essendo essa il focolare eucaristico permanente di Catania: ebbe ogni giorno almeno una santa messa prelatizia con discorso la mattina, e almeno un’ora di adorazione il pomeriggio, celebrate e predicate sempre da eccellentissimi vescovi; e rimase continuamente aperta per le veglie le intere notti. A quelle tra noi che non potevano alzarsi la notte per mattutino o il turno d’adorazione, giungendo in coro presto il mattino, era dato vedere subito le luci fiammeggianti dell’altare maggiore intorno al Rex pacificus, che non aveva sospeso neppure un minuto le sue divine udienze, e sentire già parecchi sacerdoti celebranti e gruppi di persone in devota preghiera». Anche lo speciale anno dell’Eucaristia, indetto da Giovanni Paolo II per il 2005, ci ha viste particolarmente attente e in sintonia con le iniziative programmate dalla nostra diocesi. Il secondo filo rosso che attraversa la storia di questi cento anni si intesse in collegamento al primo. Si tratta del nostro intenso legame con i vescovi e il clero catanese. Così si esprimeva la nostra attuale priora, madre Giovanna Caracciolo, nel suo saluto in occasione dell’incontro con il nostro arcivescovo, mons. Salvatore Gristina, e alcuni sacerdoti lo scorso 25 febbraio:
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Connotazioni di una secolare presenza
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«Eccellenza Reverendissima, con grande emozione accolgo e saluto Lei e i sacerdoti qui presenti ringraziando il Signore per averLe ispirato, per quest’anno sacerdotale, la bella iniziativa di un momento di fraternità presbiterale presso i cinque monasteri di clausura della diocesi. Iniziativa che ha riscosso una cordiale e profonda risonanza presso il clero e quei fedeli che ne sono stati “indirettamente” irradiati […]. Che cosa posso io dire a voi, carissimi fratelli che vivete così intimamente l’identificazione con Cristo sacerdote e pastore? Siete gli unti del Signore, coloro che ci spezzate il pane della Parola e dell’Eucaristia. Cosa posso dirvi io? Posso soltanto starvi accanto come madre e sorella, insieme alle altre monache di questo monastero. Starvi accanto, come lo siamo sempre, esserci e pregare per voi. Tutti i sacerdoti sono oggetto privilegiato della nostra adorazione. È insita nella nostra specifica vocazione la missione orante di servire la causa del Sacerdozio coltivando soprattutto la pratica più bella che dà forza nel cammino di ogni giorno: la devozione all’Eucaristia. Non c’è Sacerdozio senza Eucaristia, né Eucaristia senza Sacerdozio e anche noi, come Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento, siamo chiamate a diventare sempre più frumento di Cristo affinché tutta la nostra vita, in unione al sacrificio eucaristico e per l’intercessione della Vergine Maria, diventi pane per la fame del mondo. Ancor più nel rinnovato slancio che la grazia del nostro centenario di presenza a Catania, sta rinnovando e rinvigorendo nella gioiosa fedeltà al nostro carisma».
Scorrendo le pagine del nostro libro, ma prima ancora quelle degli Annali e di tante lettere conservate in archivio, quanta presenza sacerdotale! Prima di tutto gli amati pastori che ci hanno sempre incoraggiate e sostenute, i cappellani, i confessori e tanti, tantissimi sacerdoti che hanno accresciuto il fervore eucaristico in questa comunità. In questi cento anni, inoltre, tanti sacerdoti, specialmente durante l’episcopato di mons. Carmelo Patanè e di mons. Guido Luigi Bentivoglio, sono stati ordinati in questa chiesa. In occasione della mostra vocazionale allestita in seminario dal 16 al 24 ottobre 1965 nella ricorrenza del XXV di sacerdozio dell’allora rettore mons. Rocco Enrico Rapisarda, nel padiglione dedicato alla vita consacrata era illustrata anche la nostra presenza con queste parole:
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«Lo spirito benedettino col suo carattere liturgico, universale, contemplativo, è la tela su cui lavorò madre Mectilde del SS. Sacramento, la quale volle dedicare al grande mistero eucaristico anime che fossero avide di riprodurre in sé gli aspetti sacerdotali di Gesù nell’Eucaristia, mediante una vita di orazione continua congiunta all’offerta di sé come vittima riparatrice ed espiatrice, a gloria del Padre per la salvezza delle anime»5.
Il legame tra Eucaristia e sacerdozio è reso particolarmente visibile nella giornata della grande riparazione che, ogni giovedì prima delle ceneri, viene celebrata in tutti i monasteri del nostro Istituto e, dunque, pure a Catania. Essa ci permette di vivere un intenso momento di incontro, scambio e preghiera anche con i fedeli, condividendo con quanti sono presenti il nostro specifico carisma di adorazione e riparazione. La prima giornata eucaristica celebrata nel monastero di Catania è del 1911, l’anno dopo l’arrivo di madre Scolastica da Ghiffa. Da allora, ogni anno, essa vede la presenza di numerosi fedeli e la celebrazione di diverse sante Messe e ore eucaristiche. Negli ultimi anni, anche in base alla riforma liturgica postconciliare, le diverse celebrazioni sono più semplificate, ma rimane immutato lo spirito che le anima. Questa della grande riparazione, e le seguenti due giornate delle Quarantore, sono tra i momenti più forti che condividiamo con i nostri fratelli e sorelle nella fede che abitano nel nostro territorio. Ed è questa la terza connotazione che vogliamo sviluppare. La comunità monastica è sempre presente e viva e offre con gioia il suo umile servizio liturgico e di preghiera, a cominciare dalla santa Messa feriale e domenicale cui partecipano in molti, il canto del vespro il giovedì e la domenica pomeriggio, la lectio divina del giovedì, il triduo pasquale e svariati momenti in cui gruppi ecclesiali o parrocchie partecipano a veglie eucaristiche o altri tipi di incontro nella nostra chiesa. Questo nostro sentirci parte viva della città scaturisce dalla nostra costante attenzione all’Eucarestia celebrata ed adorata e che ci porta ancor più ad aprirci alle attese e ai bisogni di chi ci vive accanto. Il nostro monastero oltre ad essere un centro pulsante di vita 5 Guida alla mostra delle vocazioni, Catania – Seminario arcivescovile, 16-24 ottobre 1965, 13.
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Connotazioni di una secolare presenza
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eucaristica, offre anche un servizio di promozione culturale grazie alla gestione di una scuola che, dal 1916, ha formato intere generazioni di giovani, e di valorizzazione del patrimonio artistico con l’accoglienza di turisti e scolaresche per visite alla nostra chiesa, fiore all’occhiello della Catania barocca. Questa nostra costante interazione spirituale con la città e la diocesi è un dono e un incentivo che ci sprona sempre più ad essere gioiosamente a servizio della Chiesa. Espressione massima di questa comunione che si traduce in gesti ben precisi è il sentito omaggio alla Patrona di Catania della quale siamo “tutte devote tutte”. In lei ammiriamo un modello di incondizionato amore a Cristo, fino al dono di sé, nel quale specchiarci. Il volto della vergine e martire Agata attraversa la nostra storia e imprime ad essa una peculiarità tutta particolare: dalla sincera devozione nutrita da ciascuna di noi ai vari momenti in cui la comunità è coinvolta più da vicino, sia con l’accoglienza annuale della reliquia che sosta tra le nostre mura, sia con la veglia di preghiera e la partecipazione ai momenti nodali della festa cittadina seguita, per quanto ci è possibile, tramite la diretta televisiva. E ci sentiamo davvero sorelle e compagne di viaggio, insieme ad Agata, dei tanti devoti e cittadini che ogni giorno dell’anno percorrono le nostre strade, lavorano, amano, soffrono in questa nostra bella città. Dal 1987 è divenuta tradizione l’esecuzione dell’ormai celebre canto Stans beata Agatha eseguito dalle nostre cantore sul sagrato della chiesa, nella monumentale e suggestiva via Crociferi, la mattina del 6 febbraio, al passaggio del busto reliquiario che rientra in cattedrale. Negli anni precedenti le nostre monache assistevano in silenzio al passaggio della Santa da dietro le finestre della scuola ed era ugualmente una grande emozione, acuita dall’atmosfera della notte e dalla suggestione di quell’amato busto reliquiario attorniato da fiori e ceri accesi. Dal 2007 l’esecuzione del canto è preceduto da un breve momento di preghiera, centrato soprattutto sulla liturgia della Parola, e che diventa preziosa occasione per lasciare nel cuore dei devoti l’autentico messaggio cristiano della festa. Per concludere questo viaggio tematico tra le pagine del libro Come pietre vive vorremmo ricordare, invocandone l’intercessione, altre due Presenze speciali nella nostra vita personale e comunitaria
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e care anche ai catanesi. Si tratta della Vergine Maria che, per i nostri monasteri dell’adorazione perpetua è la celeste Abbadessa e del beato cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, amato pastore della nostra diocesi e confratello nell’ordine benedettino. È bello, proprio in questo mese di maggio, nel giorno della festa di Maria Ausiliatrice e in prospettiva della solennità del Corpus Domini concludere con l’auspicio che il cardinale Francica Nava fece alla comunità agli inizi del suo irradiarsi nel cuore di questa città: «Io credo che il Signore voglia che si introducano in questo monastero due devozioni, l’una a Gesù Sacramentato, l’altra a Maria Santissima perché queste buone religiose arrivarono a Catania per il giorno del Corpus Domini e nel mese di Maria. È dunque una combinazione felicissima ed un intreccio di cose troppo chiare a dimostrare il divino volere su questo»6.
Vorrei infine augurare a me stessa e alla mia amata comunità, ciò che Hans Urs von Balthasar annotava nell’opera Sponsa Verbi: «Il monastero ha nella Chiesa una visibilità, anche se quello che si vede è anzitutto un muro. La stabilitas di cui fanno voto i benedettini, dà al legame fra il prescelto e Dio una forma terreno-sacramentale di definitività […] Non si deve sottovalutare la forza di questo segno anche nel caos spirituale di oggi e nella corsa di questa nostra età della tecnica. Una città senza monasteri manca di un cuore. Certo: quel che conta è che un monastero sia vivo»7.
La grazia di questo centenario ci aiuti a continuare ad essere semplicemente, ma fedelmente delle “pietre vive”!
6 Cit. in Come pietre vive. Le Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento a Catania, Catania 2010, 27. 7 H. U. VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, Brescia 1969, 361-362.
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TEMPI E GESTI NELLA VITA MONASTICA DELLE BENEDETTINE DELL’ADORAZIONE PERPETUA DI CATANIA
ARIANNA ROTONDO*
Ipse victima sacerdotii sui, et sacerdos suae hostiae. (Paolino di Nola)
Questo contributo intende essere una riflessione sul senso che oggi ha il carisma benedettino secondo l’interpretazione mectildiana e sul valore di questa particolare forma di vita monastica vissuta nella città di Catania, nel cuore del suo centro storico. Attraverso un breve percorso sugli aspetti fondamentali della spiritualità benedettina indicati dalla madre Fondatrice e una descrizione della prassi liturgica che scandisce il tempo della vita individuale e comunitaria all’interno del monastero, spero di riuscire a trasmettere il fascino, i valori, i modelli e i linguaggi, a primo acchito inattuali, che ne fanno ancora oggi un possibile cammino di ricerca alla scoperta di Dio e dell’uomo. Anni fa, nella sua tesi di laurea, Carmen Rapisarda, vicina all’operato di questo monastero, mostrò come la vita delle Benedettine si inserisse all’interno di un contesto cittadino distante dalle sue regole e dalle sue aspirazioni: percorrendo la via Crociferi, luogo di ritrovo giovanile, e i dintorni affollati di pub, si stenta ad immaginare che proprio lì, a tutte le ore del giorno e della notte, una comunità monastica claustrale prega e opera. L’opinione comune manifesta indifferenza o piuttosto perplessità verso * Ricercatore in Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.
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la scelta radicale della clausura, di solito considerata inutile rispetto all’operato di frontiera, più visibile e di più facile comprensione. L’esistenza di una realtà monastica così consolidata e radicata nel territorio, attiva nel campo dell’istruzione e impegnata in una costante attività catechetica, ha suscitato l’interesse e la curiosità di un’Istituzione accademica come la Facoltà di Lettere e Filosofia, che le è vicina nello spazio e idealmente nello spirito, dal momento che ha la sua sede nell’ex-monastero benedettino di San Nicolò l’Arena. La cattedra di Storia del cristianesimo crea da tempo occasioni di studio e di collaborazione con le Benedettine. Anni fa, proprio come discente del corso di Storia del cristianesimo tenuto dal prof. Osculati, ho avuto modo di visitare per la prima volta la bellissima chiesa del monastero femminile, come attività integrativa delle lezioni. L’obiettivo era quello di offrire agli studenti un sussidio visivo ed estetico alla lettura e allo studio del Nuovo Testamento, in particolare del testo dell’Apocalisse. All’interno della navata con lo sguardo rivolto verso l’alto, quasi confuso tra le tinte degli affreschi e il racconto iconografico della storia benedettina, era percepibile quanto quello spazio fosse un vero e proprio teatro, in cui si intendeva celebrare un incontro. Nell’ascesa, che dallo scalone iniziale trascina lo sguardo verso l’Agnello trionfante che sovrasta l’altare, le monache dovevano sentirsi accompagnate verso il loro Sposo, scelto gradino dopo gradino. Le volte e le pareti affrescate dell’edificio sacro raccontano ancora oggi la storia del carisma benedettino, una storia antica di bellezza, ricercata e amata, che pulsa nella diuturna celebrazione di una liturgia di corpi, di voci; nello snocciolarsi delle vite di donne, come grani di un rosario di carne e respiro. 1. UNA RICERCA SENZA TEMPO La fondazione dell’Istituto delle Benedettine dell’adorazione perpetua è legata ad un momento di crisi della storia europea, a quel secolo contraddittorio che fu il ’600, segnato da gravi conflitti politicoreligiosi. Gli stenti e gli orrori della guerra non piegano la volontà di Catherine de Bar, determinata nel vivere una vocazione senza compromessi. Piuttosto a confermarla provvede quel fervore spirituale che in quei decenni animava la Francia, in seno ad un rinnovato
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cattolicesimo chiamato ad affrontare la sfida calvinista. In questa temperie matura e si compie l’avventura di questa donna che trova nella spiritualità benedettina, animata dal carisma dell’adorazione, una via di purificazione e d’incontro col Divino da proporre all’umanità del suo tempo. Entrata giovanissima nel convento delle Annunciate di Bruyères, Catherine patisce le conseguenze della guerra dei Trent’anni: la sua comunità è dispersa ed ella esule viene accolta dalle Benedettine di Rambervillers nel 1639. Affascinata dalla Regola di Benedetto ne fa la bussola della sua vita: emette la professione nel 1640 e prende il nome di Mectilde. La sua vicenda personale e spirituale è segnata dall’itineranza; i continui trasferimenti, a Saint-Michel e a Montmartre le consentono incontri importanti, che ne irrobustiscono la fede e ne confermano la vocazione. Ha modo di confrontarsi con grandi figure del suo tempo come Vincenzo de’ Paoli, la riformatrice Maria de Beauvilliers e ancora Jean de Bernières. In Francia una nuova corrente teologica aveva messo al centro la sovranità di Cristo; il riconoscimento della sua divinità e lo stupore dinanzi al mistero della sua umanità erano diventati il criterio assoluto della vita religiosa. Al misticismo di Pierre de Bérulle, «apostolo dell’incarnazione», si era affiancata la riflessione di Charles de Condren sul ministero sacerdotale, la cui alta dignità consisteva nel suo essere partecipazione all’opera redentrice di Cristo. La spiritualità sacerdotale e l’importanza dell’esperienza interiore nella vita ecclesiastica erano state oggetto del pensiero di Jean-Jacques Olier1, che Mectilde de Bar dimostra di conoscere a fondo. Ella raccoglie questa eredità spirituale, se ne lascia ispirare; immagini, interpretazioni e simboli di tale mistica francese sono riconoscibili nei suoi scritti e sono spesso utilizzati come chiave ermeneutica della Parola rivelata e fissata nelle Scritture, fondamento e giustificazione di ogni liturgia. Il Nuovo Testamento, la lettura della vita di Gesù contemplata in tutte le sue fasi, dalla nascita alla risurrezione, l’apostolato paradigmatico di Paolo, le indicano la strada da seguire per trovare Cristo e rimanere alla sua presenza. Questo percorso viene messo a servizio di una chia1 Cfr. R. OSCULATI, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, 2, Cinisello Balsamo 1997, 337.
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mata che la sottrae al progetto di una vita eremitica per consacrarla alla fondazione di un nuovo ordine, che metta in atto ciò che una voce interiore le aveva suggerito: «Adora e sottomettiti a tutti i disegni di Dio, che al presente ti sono sconosciuti»2. Pertanto dopo complesse vicissitudini di natura burocratica, dopo un discernimento sul vero progetto divino cui votare se stessa, il 25 marzo 1653 è riconosciuta dalla Chiesa, nella sostanza anche se non subito nella sua forma giuridica definitiva, la nuova comunità religiosa che Mectilde de Bar ha concepito e inteso fondare. È la solennità dell’Annunciazione: per la prima volta nella cappella del Bon Amy, l’umile dimora in affitto abitata dalla Fondatrice insieme alle poche consorelle, viene esposto il Santissimo Sacramento. Si realizzava finalmente quel progetto, da tempo auspicato, di innestare nel fecondo contesto benedettino francese un Istituto dedicato all’adorazione perpetua: era stato questo, qualche decennio prima, il sogno di Angelica Arnauld, testimone attiva di una vita eucaristica negli ambienti monastici di Port-Royal des Champs e di Parigi. Mectilde de Bar, sollecitata dalle sue benefattrici, in particolare dalla Contessa de Châteauvieux, nella quale aveva risvegliato l’amore e il carisma dell’adorazione e che aveva trovato in lei la guida spirituale per un radicale cammino di vocazione, accoglie questo mandato come sosta al suo peregrinare e come espressione del disegno divino su di lei. Per affrontare la responsabilità affidatale si appella alle indicazioni della Regola benedettina sull’abbandono all’opera divina e sulla direzione delle anime. Benedetto aveva così prescritto: «[l’abate] soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, ma pensi sempre che si è assunto l’impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto: “Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù” e anche: “Nulla manca a coloro che lo temono”» (RB 2,33-36).
2
C. M. DE BAR, Lettere di un’amicizia spirituale 1651-1662, Milano 1999, 8.
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Madre Mectilde aveva sperimentato questo monito di cercare il regno di Dio e la sua giustizia in modo radicale: aveva vissuto da esule per anni fra gli orrori della guerra e gli stenti della povertà. Accettare la filantropia delle nobildonne, affascinate dal suo carisma e dalla sua autorevolezza spirituale, diventa l’ennesimo atto di abbandono e insieme di responsabilità verso le altre consorelle che l’avevano fino a quel momento seguita incondizionatamente. Prima del carisma e della profondità del pensiero teologico, ciò che colpisce di Mectilde de Bar è la testimonianza di un’anima inquieta mai paga di cercare e fedele ad una vocazione nutrita costantemente. Nel suo rigore, nella durezza “mistica” del suo linguaggio e nell’intransigenza della sua volontà emerge il bisogno, proprio della sua epoca ma sempre attuale, di ritrovare una modalità radicale per vivere pienamente l’antico messaggio cristiano, l’unica risposta possibile alla drammatica frattura protestante e alla follia delle guerre. La stella polare della spiritualità mectildiana è senza dubbio la Regola benedettina, riletta alla luce dei «segni dei tempi», con l’obiettivo di rinverdirne le intuizioni universali, in particolare il radicamento profondo nella Scrittura, nell’insegnamento e nell’esempio di Gesù. I detti e i fatti del «fondatore del cristianesimo» — per usare un’espressione di C. H. Dodd — sono incardinati in un modello di vita consacrata, che guidi alla comunione totale con Lui. In un articolato percorso ascetico verso una perfezione interiore, espressa nell’armonia della vita monastica e nella testimonianza resa al mondo, la Regola benedettina guida al raggiungimento di una saggezza che è insieme umana, cristiana e mistica. Mectilde de Bar sostiene la necessità di un percorso sia individuale sia comunitario per il raggiungimento di quest’obiettivo: l’impostazione pragmatica del carisma benedettino rende comprensibile il senso di una vita religiosa che è anche contemplativa. Orazione e lavoro, scrupolo liturgico e obbedienza sono i valori che la spiritualità benedettina ha conservato nei secoli. Quanto sono comprensibili questi valori oggi? Una simile proposta di vita cristiana appare di difficile lettura perché distante dalle esigenze e dalle prospettive della società attuale. Nella nostra epoca, ad esempio, quali profanazioni sono perpetrate contro l’Eucaristia? E da chi? I gesti eclatanti a cui allude con turbamento Mectilde de Bar
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nei suoi scritti, (se si escludono rari episodi…) forse oggi si sono trasformati in misconoscenza e indifferenza3. Si potrebbe aggiungere che anche di un valore come quello dell’obbedienza, su cui la Fondatrice insiste spesso, è cambiata la percezione; l’obbedienza è di rado percepita come una virtù, come atto di libertà. Il senso comune la collega immediatamente all’autorità e la considera un atto di sottomissione, piuttosto che una concessione motivata da un’autorevolezza riconosciuta. 2. TROVARE CRISTO La spiritualità benedettina nell’interpretazione mectildiana si fonda su un cristocentrismo puro e autentico. La figura di Cristo è comprensibile nel mistero trinitario: l’incarnazione del Figlio ha consentito l’irruzione del Divino nella storia e ha mostrato il vero volto del Padre con l’effetto di avvicinarlo agli uomini, suoi figli, incapaci con i loro mezzi di conoscerlo. Cristo ha posto le basi per una nuova alleanza/relazione fra Dio e l’umanità, realizzata nell’Eucaristia. Bérulle aveva espresso con afflato mistico l’importanza della ricerca del Figlio di Dio, che mai deve cessare, perché chi cerca trova sempre. Si trova Cristo nelle sue tre dimore, le più alte, spirituali e divine: nel seno del Padre, nell’umanità, nel cuore e nel seno della Vergine. Conduce proprio qui l’itinerario benedettino di Mectilde de Bar, al mistero eucaristico in cui, per usare ancora il linguaggio bérulliano, si trova, si contempla e si imita il Figlio di Dio incarnato. L’autentica esperienza di Cristo si compie nell’Eucaristia, considerata «nel suo aspetto pasquale»4, ossia come momento di passaggio dalla morte ad una nuova vita in Cristo. Egli è il vero sacerdote e l’autentica vittima. 3
Alcune risposte a questa domanda, fornite prevalentemente da un campione di studenti universitari, si possono leggere nella relazione compilata da Suor MARIA CECILIA LA MELA OSBap sul tema: «I giovani italiani di oggi e la testimonianza di madre Mectilde de Bar sulle profanazioni eucaristiche (cfr. Il vero spirito cap. I)», presentata al Convegno Internazionale di Studi su Madre Mectilde de Bar a Rosheim (Francia) nel marzo 2011. 4 Cfr. J. LECLERQ OSB, Una scuola di spiritualità benedettina: le Benedettine dell’Adorazione perpetua in C. M. DE BAR, Non date tregua a Dio, Milano 1979, 17.
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Col battesimo ogni cristiano partecipa di questa duplice condizione: condivide questo sacerdozio e assume la qualità di vittima. In questo senso la madre Fondatrice pensa all’adorazione perpetua, come «la pratica, il mezzo e il segno di quella vita pasquale che è il frutto dell’Eucaristia»5. Nel culto dell’ «ostia di redenzione», citando un’espressione bérulliana, la monaca sperimenta un diuturno rinnovamento spirituale in cui adorazione e riparazione sono strettamente congiunte. Si tratta della ricerca costante di una saggezza dell’amore, di un amore perfezionato nell’adorazione, che, come suggerisce la stessa etimologia del termine, mira ad avvicinare, a portare come sigillo sulle labbra oranti il Cristo, il Divino fatto carne, e renderlo vicino a sé nella riparazione dei peccati degli uomini. L’intuizione mectildiana si nutre dell’immaginario teologico del suo tempo, che vedeva nel mistero eucaristico essenzialmente la Presenza reale e nell’adorazione un caposaldo della vita spirituale e dell’esperienza di fede, anche se non necessariamente riferita all’Eucaristia. Per le Benedettine l’adorazione così intesa diventa un ministero, attorno al quale ruota tutta la vita monastica: «fino a che punto deve estendersi quest’adorazione? A tutti gli istanti della nostra vita e a tutta la capacità del nostro essere»6, spiega la Fondatrice. Non ha sedi preposte, non soggiace a limiti spaziali né temporali: l’adorazione è un atto di fedeltà. Si può adorare Dio ovunque, soprattutto nell’altro. Tale esperienza produce un rinnovamento individuale, ma trova il suo vero senso come atto corale, comunitario. Le monache pregano e lavorano insieme in una casa comune, «nel tempio del Signore e alloggiano sotto un medesimo tetto con Lui»7. Ovunque si trovino impegnate nelle loro occupazioni si sentono intimamente connesse al loro Sposo: «non abbiamo che da rivolgere a Lui il nostro cuore, poiché le mura non gli impediscono di vederci e di sentirci»8. Nell’orazione e nell’ad-orazione incontrano Cristo a cui 5
Ibid., 18. V. ANDRAL, Appendici, cit., 247 7 C. M. DE BAR, Capitoli e conferenze. La vita religiosa – Il ciclo liturgico, Alatri 1998, 473 (Conferenza del 21/11/1662: Festa della Presentazione di Maria al tempio). 8 L.c. 6
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si sentono assimilate; da quest’unione traggono linfa d’amore per il prossimo. Tutta la persona è coinvolta in questa dinamica partecipazione alla vita divina, realizzandosi sia nella sua dimensione verticale sia in quella orizzontale: nella salvezza di se stessa la monaca salva gli uomini; come Cristo è vittima d’amore, un amore che sa affratellare l’umanità e ricondurla al Padre. 3. ADORARE E ADERIRE Mectilde de Bar con una sintesi efficace spiega come dare seguito e continuità a questa particolare vocazione eucaristica: «Non ci sono che due cose da fare nella vita per appartenere a Dio: adorare e aderire sempre»9. La Fondatrice indirizza le sue monache su questo duplice binario, adorazione e adesione a Dio, che corre in un tempo e in uno spazio minuziosamente disciplinati, secondo lo spirito benedettino: il corpo e lo spirito devono essere unificati, sperimentando in ogni istante l’ascolto, la preghiera, l’obbedienza. Come adorare? Madre Mectilde trova un modello di adorazione nel racconto della Natività. Riflettendo sul mistero dell’Epifania10, esalta l’unicità di questo evento, come prima adorazione in assoluto che Gesù riceve: il primo omaggio pubblico che il mondo gli tributa è attraverso i Magi. Essi sono un modello di autentica adorazione, vissuta come vocazione da compiere con fiducioso abbandono e della quale ringraziare offrendo i doni più preziosi. Hanno lasciato tutto per cercare il Re dei re, lo hanno trovato affidandosi al mistero di una stella. I loro doni lo hanno riconosciuto come Dio (l’incenso), creduto come uomo (la mirra), venerato come sovrano (l’oro). Madre Mectilde con la sua lettura allegorica e spirituale del racconto evangelico intende sollecitare l’emulazione dei tre saggi venuti da Oriente: «fate lo stesso oggi. Uscite dalla terra del vostro io, dalla vostra casa e dal luogo di vostra conoscenza. Abbandonate i vostri interessi come hanno
9
V. ANDRAL, Appendici, cit., 248. Lettera 63 (n.120) a Maria de Châteauvieux in C. M. DE BAR, Lettere di un’amicizia spirituale 1651-1662, Milano 1999. 10
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fatto loro e venite ad incontrare Gesù a Betlemme. Seguite l’ispirazione, che è la stella. Uscite dalle vecchie abitudini dei vostri sensi e del vostro spirito, abbandonatevi alla guida [di Dio]»11.
Dell’esperienza dei Magi bisogna imitare soprattutto l’epilogo: dopo aver reso omaggio a Gesù essi se ne tornarono per un’altra strada; cioè, secondo l’interpretazione mectildiana, non ripercorrendo più i sentieri troppo battuti e paludosi del «camminare nelle creature e nel nostro io. Bisogna prendere un altro sentiero segreto e lontano da Erode che rappresenta l’orgoglio. E qual è questo sentiero? É la pura fede […]. I Magi lasciano Gesù per andare a manifestare Gesù e noi dobbiamo lasciare noi stesse per glorificare Gesù, per manifestarlo e farlo conoscere»12.
Bisogna lasciare se stessi, evitare i labirinti dell’orgoglio e dell’egocentrismo: la vera adorazione esige la testimonianza e l’annientamento. Cerchiamo di comprendere allora in cosa consiste quest’ultimo ingrediente così necessario. 3.1. L’annientamento «Gesù Cristo vive in noi e la nostra azione è semplicemente quella di aderire a Lui in umiltà e semplicità di cuore e di spirito. Non temere di stare senza far nulla alla presenza di Dio, perché Dio non vuole null’altro da noi che il silenzio e l’annientamento»13.
La vera adorazione esige una spoliazione di sé, un annientamento, presentato come atto di volontà e libertà, dinamico abbandono, che scioglie ogni resistenza affinché il Divino prenda possesso dell’anima. Che cosa bisogna annientare o distruggere? Non l’intelligenza né la memoria, ma la volontà nell’abbandono e nella disponibilità. «L’anima 11
V. ANDRAL, Appendici, cit., 282. Ibid., 283. 13 Citato in M.M. BERAUX, San Benedetto da Norcia e Madre Mectilde de Bar in Deus absconditus Atti del Convegno di spiritualità monastico-eucaristica 8-15 maggio 1980, Monastero SS. Trinità, Ronco di Ghiffa 1980, 52. 12
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annientata è resa pura capacità di Gesù Cristo, essa non gli è più contraria». Ma questo comporta sofferenza, «uno stato di morte dell’io»14,che è la prova dell’intervento divino. «Possiate vivere morendo e morire vivendo»15, ribadisce Mectilde de Bar, indicando a Maria de Châteauvieux la necessità di disoccuparsi di sé16, di credere senza affannarsi in un sapere vano che fa brancolare nel buio. Perché «la fede non sta nel conoscere molto, ma nel credere e nel sottomettersi alle verità che essa ci obbliga a credere»17. Occorre che lo spirito sia avvinto (così traduco il captiver metildiano) alla continua presenza di Dio, in un silenzio che cattura e dispone l’anima nuda di fronte alla Verità, in un atteggiamento di totale umiltà, disinteressata alla reputazione che alimenterebbe timori vincolanti, in uno stato di totale accettazione, «senza accusarsi cercando dei torti immaginari e senza scusarsi inventando le giustificazioni»18. Il linguaggio usato per spiegare l’annientamento è spesso crudo, quasi violento: valgano per tutte, le parole scritte a Maria de Châteauvieux: «lasciatevi sgozzare, dato che siete vittima. Adorate la mano preziosa e adorabile che vi crocifigge, e state ben attenta a non considerare nulla nell’ordine delle creature»19. Il modello esemplare di annientamento è individuato proprio in Gesù Bambino, per la sua purezza e semplicità, per la piccolezza di fronte al Padre. La grazia della sua nascita e della sua infanzia è ciò a cui la monaca deve aspirare: «La nascita di Gesù nel tempo è avvenuta e non avverrà più, ma la grazia della sua nascita ha una durata eterna. Egli nasce misticamente nelle nostre anime attualmente, quando dimoriamo nelle tenebre luminose della fede, i nostri sensi sono annientati e siamo nel silenzio e nella solitudine, distaccati da tutto quello che non è Dio»20. 14
Lettera 48 (n.2258) a Maria de Châteauvieux, cit. Lettera 47 (n.1474) a Maria de Châteauvieux, cit. 16 Lettera 56 (n.966) a Maria de Châteauvieux, cit. 17 L.c. 18 M. DUPUY, Il Breviario indirizzato a madame de Chateauvieux in C. M. DE BAR, Lettere di un’amicizia spirituale 1651-1662, Milano 1999, 35. 19 Lettera 47 (n.1474) a Maria de Châteauvieux, cit. 20 Lettera 62 (n.1339) a Maria de Châteauvieux, cit. 15
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Solo dimenticandosi di sé, svuotandosi, si può lasciare spazio alla Presenza viva di Cristo nell’Eucaristia, la bussola di una fede che occorre non solo confermare ma soprattutto affermare. Tale esigenza è avvertita da madre Mectilde con molto pathos, specialmente di fronte agli oltraggi subiti dal Santissimo Sacramento: «lo strappano dal suo trono e ne fanno quello che non si può esprimere»21. Anche per questo, ma non solo, le Benedettine devono partecipare al mistero pasquale di Cristo, facendosi con Lui ostia consacrata al Padre, annientandosi per la sua giustizia, immolandosi per riparare la sua gloria. Nel tentativo di comprendere il concetto stesso di riparazione, bisogna innanzitutto evitare di ridurlo ad un atto di mortificazione o rinuncia. Non si richiede alla monaca di tenere un atteggiamento masochistico, piuttosto di non voler vivere per se stessa ma per la gloria di Dio. Se la vittima vuole vivere per sé e agisce per se stessa allora si fa vittima di sé, si idolatra. Proprio per non cedere a questa tentazione deve costantemente «disoccuparsi di sé». Leclerq ha scritto che la riparazione «altro non è che un nome diverso di ciò che si è sempre chiamato penitenza e che oggi si preferisce riallacciare al concetto di riconciliazione»22. Aggiungerei che la riparazione mectildiana passa sempre attraverso la vita personale della monaca che ad essa si vota. Riparare per i peccati dell’umanità implica un lavoro faticoso di giudizio di sé, una krisis, un’obiezione di coscienza, un doloroso discernimento: viene spontaneo ripensare a quell’annientamento, che insieme alla conversione di sé (è forse questa la croce di cui parla Gesù e che ogni uomo deve portare?) consente di poter guadagnare anche quella dell’umanità. L’amore come dono totale di sé, eucaristico potremmo aggiungere, è il vero riscatto, la vera riparazione. É l’esito felice di un’autentica imitatio Christi: essere vittima è infatti una qualità e una condizione che tutti i cristiani, non solo pochi eletti, ereditano col battesimo. Così scrive la Fondatrice nella lettera (n. 742) indirizzata alla comunità di Parigi: «Vi invito a raddoppiare la vostra fedeltà per diventare vere vittime, mie care figliole, questa non è una qualità nuova, è un 21
V. ANDRAL, Appendici, cit., 238. J. LECLERQ OSB, Una scuola di spiritualità benedettina: le Benedettine dell’adorazione perpetua in Non date tregua a Dio, Milano 1979, 23. 22
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titolo che Gesù Cristo ci ha impresso nel battesimo, con l’obbligo di renderlo efficace». Risuonano le parole di Paolo nella lettera ai Romani: «Se infatti siamo stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (6,5). Assumere la condizione di ostia e vittima è un dovere cristiano. 4. VESTALI DEL CRISTIANESIMO La preghiera, secondo san Benedetto, è Opus Dei, perché in essa si compie l’ascolto e l’esperienza della Parola divina; è nutrimento della fede, la conferma, la rende attuale. È «un’attività dunque che è sì interiore ma anche tende a manifestarsi; personale, ma che fa comunione e comunità con Dio e con i fratelli; individuale, che va al sociale, perché tutti guidati dallo stesso Spirito “festinamus ad patriam coelestem”»23.
La preghiera liturgica è centrale nella vita benedettina perché gli elementi fondamentali che costituiscono la vita monastica, come l’ascolto e l’obbedienza alla parola, il rapporto con Dio che diventa amore per il prossimo e servizio, sono tutti messi in atto. La liturgia ritma il tempo, scandisce le ore; la preghiera è un’attività primaria e imprescindibile, sorvegliata nella forma e nei contenuti. Benedetto nella sua Regola dà indicazioni precise su come pregare l’Opus Dei. La preghiera appare come una disciplina della mente, del cuore e del corpo. La disposizione è determinante: si può riconoscere la presenza divina cui l’ufficio rende gloria solo grazie all’esercizio della virtù della «riverenza», su cui si fonda l’umiltà della monaca. Bisogna stare attenti non solo a come si prega o si canta ma anche al contenuto di ciò che si pronuncia, alla Parola di Dio: la monaca deve comprendere le parole che dice col cuore e con la mente. Prega in coro, anche se l’efficacia della sua orazione sta in una coralità interiore, che vuole mente e corpo protesi allo stesso modo verso l’incontro col Divino presente, 23
P.D.E. ZARAMELLA OSB, Il valore della presenza benedettina nella storia dell’istituto metildiano, frutto dello stesso ordine benedettino in Deus absconditus. Atti del Convegno di spiritualità monastico-eucaristica 8-15 maggio 1980, Monastero Santissima Trinità, Ronco di Ghiffa 1980, 36.
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vissuto con timore, in un dialogo ispirato dalla sapienza delle parole recitate o cantate e dalla compostezza con cui vengono pronunciate. Compito giornaliero della comunità monastica è l’ufficio divino «destinato alla santificazione e alla salvezza dei cristiani», un atto d’amore che le Spose dell’Agnello compiono mentre i cristiani e l’umanità tutta sono impegnati negli affari temporali. L’Ufficio divino richiede un’attenzione costante che prevede tre modalità: bisogna concentrarsi sulle parole pronunciate, sul loro senso, e su Dio, oggetto della preghiera. Le indicazioni inerenti all’Opus Dei sono essenzialmente due: si deve recitare senza interruzioni e, qualora vi fossero, nulla deve essere ripetuto. Le monache devono parteciparvi con religioso rispetto: non si parlerà se non per stretta necessità o sottovoce, evitando comunque di bisbigliare. La compostezza richiesta all’orante esige un’unità di corpo e spirito. Il Cerimoniale, seguito dalle Benedettine dell’adorazione perpetua, riserva particolare attenzione al linguaggio del corpo, ausilio ed espressione di una corretta disposizione interiore e dell’esercizio delle virtù richieste. Le indicazioni della stessa madre Mectilde, raccolte nel Cérimonial – Lille in uso fin dal 1840 presso il monastero di Parigi e a cui si attinge ancora oggi, sono molto chiare sulla partecipazione del corpo nel donarsi a Dio: «In tal modo il corpo, per le diverse posizioni che prende nella preghiera, entra a suo modo nei sentimenti dell’anima»24. Le posture e gli atteggiamenti fisici, minuziosamente descritti e disciplinati, mirano ad una perfetta corrispondenza fra disposizione interiore e gesto esteriore; tale liturgia trova la sua ermeneutica nel racconto biblico. Le monache devono stare in piedi come gli Angeli, sempre pronti a fare la volontà divina; stando sedute, mostrano fermezza incrollabile nel servizio divino; inchinandosi, emulano il rispetto profondo dei Cherubini presso l’arca. Con la genuflessione compiono un atto di riparazione della derisione dei soldati nel pretorio; inginocchiarsi è un gesto di penitenza e umiliazione. La prostrazione rievoca il rispetto dei ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse; è abbas24
FEDERAZIONE
DEI MONASTERI DELLE MONACHE
BENEDETTINE
DELL’ADORA-
ZIONE PERPETUA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO – GRUPPO DI GHIFFA, Cerimoniale della
nostra Venerata Madre Fondatrice aggiornato secondo le ultime Istruzioni Liturgiche, Alatri 1980, 4.
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samento di fronte alla regalità divina. Fra tutte le posizioni — spiega la Fondatrice — «la più gradita a Dio è quella dove vi è meno della nostra scelta»25, a ricordare la necessità di una disposizione interiore all’abbandono, perché la Presenza divina la possieda. Il Cerimoniale prescrive che ogni gesto o cerimonia siano compiuti con uniformità, nel modo migliore e corretto. È raccomandata la coralità dei gesti e la loro simultaneità. Sono di due specie gli inchini e le prostrazioni. In precisi momenti del tempo liturgico o dell’ufficio giornaliero le monache sono tenute a distinguere gli inchini semplici, con la sola inclinazione del capo, da quelli mediocri, con inclinazioni di capo e spalle; la prostrazione grande, di tutto il corpo, da quella piccola, in ginocchio curvando capo e spalle. Un rito importante, per il suo valore simbolico, è la processione, compiuta per rendimento di grazie, per implorare misericordia o per invocare aiuto. Madre Mectilde spiega così l’antico rituale di movimento: «Le nostre suore potranno considerarsi come viaggiatrici attraverso il deserto di questa vita, sull’esempio degli Israeliti, sospiranti la Terra promessa. Potranno anche onorare interiormente i passi di N.S. Gesù Cristo sulla terra»26. Una riflessione particolare meritano la musica e il canto, elementi non accessori, piuttosto ingredienti fondamentali della lode divina. Il canto ha lo scopo di glorificare Dio ed edificare chi ascolta; pertanto madre Mectilde raccomanda zelo, fervore e amore nell’esecuzione, una voce alta e piacevole, che scandisca sillabe e accenti, senza precipitazione. Nel canto è necessario essere in accordo, perché si sia una voce sola «come a volersi aiutare a vicenda a scalare fino al cielo per attirare sulla Chiesa le benedizioni più abbondanti»27. Una particolare predilezione è riservata al canto gregoriano, che, insieme ad altre tipologie ammesse, deve interpretare necessariamente alcune parti della Liturgia delle Ore, soprattutto quelle per loro natura liriche, come gli inni e i salmi, eseguite da due cori che si alternano o cantano all’unisono. 25
L.c. FEDERAZIONE cit.,16. 27 Ibid.,18. 26
DEI MONASTERI DELLE MONACHE BENEDETTINE,
Cerimoniale,
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Estrema cura è richiesta per la Salmodia: bisogna rispettare la corretta accentazione secondo la metrica latina, le pause e controllare il tono della voce; le parole devono essere pronunciate «posatamente, gravemente, con fermezza». 5. LA CORDA, LA COLONNA, IL CERO Ogni giorno una monaca compie il rito di riparazione: con la corda al collo, inginocchiata alla colonna recita una preghiera di riparazione, riconoscendo e portando non solo i propri peccati ma quelli di tutti i fratelli, in particolare dei più lontani, e di chi oltraggia Gesù nell’Eucaristia. Il primo atto solenne di riparazione fu compiuto dalla reggente Anna d’Austria, che dinanzi all’ostensorio di rue Férou, con la corda al collo e il cero acceso sulla colonna di riparazione, lesse un’ammenda onorevole, con cui riconosceva le sue colpe e chiedeva perdono per le profanazioni eucaristiche commesse durante i tristi eventi di quell’epoca. L’ammenda onorevole ricorda la pena, introdotta in Francia dal XV al XVII secolo e inflitta previamente all’esecuzione capitale per pubblici delitti. Il condannato, in camicia, con un cero in mano e la corda al collo, in ginocchio confessava pubblicamente il suo crimine e chiedeva perdono. Adottando questo rituale madre Mectilde ha inteso indicare la solidarietà nel peccato che ogni monaca deve manifestare, perché la riparazione non deve essere un pregare Dio da giusti, affinché usi misericordia verso chi ha sbagliato, ma un invocarlo riconoscendosi peccatori. La corda, segno di schiavitù e della prigionia del peccato, avvince nel corpo e nello spirito e rende complici della follia d’amore che è stata l’Incarnazione nella storia umana: Cristo ha partecipato della finitezza umana, ha patito oltraggi e derisione alla colonna, si è fatto servo col gesto della lavanda dei piedi. Il cero acceso simboleggia la luce pasquale che arde al centro del coro, il dono dello Spirito che conduce ad una vita nuova. Il rito della riparazione assume un significato più ampio nel giorno della Solennità dell’Annunciazione, in cui si ricorda il giorno di nascita dell’Istituto e si ripara per tutte le offese recate alla Vergine durante l’anno e per le mancanze commesse dalle religiose. Maria è la sola degna riparatrice degli oltraggi patiti da Cristo: riprendendo un’antica
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consuetudine medievale madre Mectilde le riconosce il ruolo di Abbadessa. In coro le monache adorano il Verbo nel momento in cui ha sposato l’umana fragilità. A mezzanotte si prostrano con la corda al collo mentre la Priora legge un atto in cui si celebra il mistero dell’Incarnazione, presentato come atto di donazione reciproca della Madre e del Figlio. Cristo, «sceso in questo abisso di annientamento infinito», ha innalzato la Vergine alla dignità di Madre di Dio; la Vergine ha reso omaggio al Verbo divino con «l’annientamento profondo», nel quale si è inabissata per rendersi degna di Lui. CONCLUSIONI In un’epoca in cui il cristiano dovrebbe trovare solo in Gesù Cristo il vero pastore della sua vita, senza idolatrare le mediazioni e spettacolarizzare i riti, in una società dalla «vita liquida» — secondo la suggestiva definizione di Zygmunt Baumann — in cui tutto è frenetico e non c’è tempo per imparare dalle esperienze, e in cui l’eternità è bandita ma non l’infinito28, l’esperienza benedettina dell’adorazione perpetua appare una via sconcertante ma ancora possibile. La radicalità della scelta che presenta al mondo, reputata dai più anacronistica per la costante disciplina e per il disinteresse verso le comuni preoccupazioni, rappresenta, a mio parere, un possibile modello di confronto per l’uomo di oggi, smarrito nella ricerca affannosa di riferimenti, confuso e affetto da pigrizia di fronte ad una posizione da prendere, eppur sempre desideroso di capire, affamato com’è di senso. L’attualità del messaggio evangelico risiede anche nella scelta di un’esperienza controcorrente, nel riconoscimento di una vocazione che ha attraversato i secoli e che ancora richiede che il cristianesimo diventi uno stile di vita e non una summa di precetti accettati con buonismo, senza possibilità di prassi. Il teologo gesuita Felix Körner, riflettendo sul cristianesimo, inteso come religione complessa, ne ha individuato i suoi punti di forza nella divinità che si è messa in gioco 28 Z. BAUMANN, Vita liquida, Milano 2006, Introd., XV: «finché dura, infatti, il presente può essere esteso oltre ogni limite, […] non si sente la mancanza dell’eternità: anzi la sua perdita può persino passare inosservata».
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nella storia e nel fatto che l’uomo abbia trovato la sua identità solo attraverso gli altri. Tuttavia il fatto che l’uomo abbia una vocazione che non riesce a sviluppare con le sue forze costituisce un suo punto debole. Mi sembra che proprio a questa insufficienza Mectilde de Bar, guidata dalla Regola benedettina, abbia dato una risposta possibile: la forza dell’uomo consiste nell’esercizio della sua libertà, concepita come atto di volontà che ne realizza la vocazione. Per il cristiano tutto si riassume nell’esperienza dell’amore insegnato e mostrato da Gesù, quel «puro amore» mectildiano, bello e pieno di fascino, proprio di un cuore non diviso fra Dio e le creature.
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CERCARE LA VERA FELICITÀ: UNA RISPOSTA DEL MONACHESIMO ALLE SFIDE E ALLE INSODDISFAZIONI DI OGGI
SUOR MARIARENATA QUARIGLIO OSB AP*
Il titolo che mi è stato affidato non è davvero dei più semplici. Ma non potevo sottrarmi alla richiesta che benevolmente e forse un po’ inconsapevolmente — vista la qualità della relatrice! — la cara Madre M. Giovanna, mi ha rivolto. Desidero fin d’ora sgombrare il campo da un equivoco: non attendetevi una relazione con pretese di scientificità. La mia non è una trattazione di teologia monastica sul tema della felicità e neppure un’analisi sociologica del nostro tempo. Il mio punto prospettico è, piuttosto, quello di una monaca che ha maturato alcune convinzioni di fondo attraverso gli incontri o con le giovani candidate alla vita monastica — sono formatrice ormai da parecchi anni — o con le persone che sempre più frequentemente bussano alla porta di un monastero. Il titolo di questa relazione parla di “risposta del monachesimo alle sfide e alle insoddisfazioni di oggi”. Credo che san Benedetto non abbia mai voluto fornire risposte, soprattutto teoriche, ai problemi del suo tempo, per certi aspetti simili al nostro. Ma la sua proposta di vita, il suo messaggio è estremamente eloquente anche oggi. 1. DIO HA A CUORE LA NOSTRA FELICITÀ Riguardo al tema specifico che mi è stato proposto, quello della felicità, posso dire che nella Regola esso affiora già dalle prime * Monaca del monastero SS. Trinità di Ronco di Ghiffa (VB) e al tempo del convegno Presidente della Federazione Italiana dei Monasteri delle Monache Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento.
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battute. Recita infatti il Prologo: «E poiché tra la folla degli uomini il Signore cerca il suo operaio, di nuovo dice: “Chi è l’uomo che vuole la vita e brama di vedere giorni buoni?”. Che se tu all’udirlo rispondi: “Io”, così Dio ti soggiunge: “Se vuoi possedere la vera ed eterna vita, frena la tua lingua dal male e le tue labbra non proferiscano inganno; allontanati dal male e fa’ il bene; cerca la pace e seguila”: E quando avrete ciò fatto, gli occhi miei saranno su di voi, e le mie orecchie saran pronte alle vostre suppliche, e prima ancora che m’invochiate, vi dirò: “Ecco, son qui”»1. San Benedetto non sta definendo altro se non una delle maggiori urgenze dell’uomo, quella di essere felice. Il Creatore sa, poiché ci ha strutturati Lui così, creandoci, che l’uomo porta in sé un forte anelito alla felicità. Ed è bello e significativo che una regola scritta in epoca medievale, già dal suo inizio, prospetti la ricerca della felicità come qualcosa di lecito e, addirittura, incoraggiato da Dio stesso. Se spesso l’iconografia ci tramanda un Benedetto piuttosto serio, austero, un po’ tenebroso per via della lunga barba bianca e dell’abito nero, in realtà il sottofondo della Regola e del cammino di umanizzazione del monaco è proprio la sua ricerca di felicità, perché prima di tutto ricerca di Dio. Il salmo 128 non ci promette forse tutto questo? «Sarai felice e godrai d’ogni bene». Mentre il mondo sembra evolversi e cambiare con una velocità indescrivibile, mentre centinaia di uomini si spostano da un continente all’altro per i motivi più diversi, c’è una cosa che accomuna tutti gli uomini di tutti i tempi, il voler essere felici, il desiderare “di vedere giorni buoni”, il “possedere la vera ed eterna vita”. É interessante notare come nel passo del Prologo appena citato, Dio sia presente nel farsi quasi portavoce del bisogno di felicità dell’uomo. La Regola di Benedetto, quindi, sin dalle prime battute, respinge decisamente la tentazione terribile che ha insidiato i progenitori e che perdura in molti uomini e donne di ogni tempo: quella di considerare Dio come un concorrente dell’uomo, un ostacolo alla realizzazione di una vita piena e dunque felice. Presentando Dio come colui che cerca “qualcuno che desidera la vita”, san Benedetto vuole 1 BENEDETTO DA NORCIA, Regola, versione di A. Lentini, Montecassino 19794, Prologo 14-18. L’espressione “dies bonos”, qui resa con “giorni buoni”, viene a volte tradotta con “giorni felici”.
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dirci anzitutto che Dio ha a cuore la nostra felicità. Oserei dire che Egli ne è addirittura il custode. Nel Prologo si parla di questo sguardo, di questo occhio di Dio sull’uomo. “Non è un occhio cattivo che ci sorveglia — ha ricordato il Papa non molti mesi fa — ma è la presenza di un amore che non ci abbandona mai e ci dona la certezza che è bene essere, è bene vivere. É l’occhio dell’amore che ci dà l’aria di vivere”2. Uno sguardo, dunque che ci rassicura sulla possibilità di essere veramente felici. Già dall’antichità i filosofi hanno proposto ciascuno una sua via per raggiungere la felicità e, ai nostri tempi, basti guardare uno spot pubblicitario per capire come anche sottilmente il messaggio della felicità trasudi ovunque. Sui cammini e i veri esiti di questa ricerca di felicità, senza voler cadere nel catastrofismo, il quadro attuale che gli studiosi ci forniscono non è dei più incoraggianti. Basti solo pensare al fenomeno della depressione, dei suicidi, soprattutto fra i giovani, del ricorso alla droga, all’alcool e alle più svariate e devastanti forme di “stordimento”: fenomeni che stanno raggiungendo proporzioni preoccupanti, soprattutto nelle società più ricche e industrializzate le quali, non a caso, sono definite “società depressive”. Depressione e tristezza — afferma in un interessante articolo sull’accidia il gesuita p. Giovanni Cucci — si presentano come fenomeni in preoccupante crescita nelle società occidentali, colpendo in particolare la fascia di età che dovrebbe essere la più aperta alla vita3. La radice ultima di questo profondo e diffuso malessere che fa emergere le contraddizioni di un mondo sempre più insofferente verso fondamenti e punti di riferimento etici, va forse ricercata, suggeriscono alcuni esperti, nelle proposte culturali che i media veicolano continuamente e il cui messaggio di fondo è: ciò che ci si sente di fare è lecito4. Ma è questa la vera felicità? C’è un vuoto angosciante nell’uomo d’oggi che “dà origine a dipendenze e comportamenti estremamente pericolosi per sé e per 2 3 4
BENEDETTO XVI, Omelia dei Vespri, Cattedrale di Aosta, 24 luglio 2009. G. CUCCI, L’accidia, male del nostro tempo, in La Civiltà Cattolica, 2010, I, 55. Cfr. ibid., 56.
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altri, con esiti spesso tragici: gesti di violenza estrema, crudeltà perpetrate con indifferenza, dipendenza da sostanze, dall’alcool, da internet”5. All’origine di tutto ciò, spesso vi è una situazione di estrema solitudine, di vuoto interiore e, in definitiva, di infelicità. Il monachesimo ha una valida proposta alternativa? Sono profondamente convinta di sì. 2. LA VIA DI SAN BENEDETTO: RECUPERO E RIFONDAZIONE DELL’UOMO Tra tutte le definizioni di monaco che nel corso dei secoli sono via via affiorate, rimane a mio avviso insuperata per sinteticità ed efficacia quella fornita da Paolo VI nell’omelia pronunciata alla Abbazia di Montecassino il 24 ottobre 1964. Il Pontefice parla del monaco come dell’uomo “ricuperato a se stesso”. L’uomo, cioè, completamente uomo, consapevole della propria dignità altissima di creatura voluta, pensata, plasmata da Dio a sua immagine, orientata al bene, al vero, al bello. É questa la via tracciata da Benedetto nella sua Regola, la sfida che ha attraversato i secoli e che propone anche all’uomo d’oggi: non un cammino funambolico, non una via esoterica ma semplicemente la scoperta (o la riscoperta), il ricupero della propria umanità, la presa di contatto, attraverso il silenzio, della propria realtà e della propria vocazione divina6. Compito arduo e affascinante dell’avventura terrena dell’uomo non è diventare “qualcuno”, come predicano i falsi “maestri”, ma diventare “se stessi” che è un traguardo ben diverso. E per ottenere questo risultato, non siamo in gara con nessuno, ma solo in cammino; un cammino faticoso, ma che non comporta stress, anzi, consente di cercare e trovare quella felicità che l’uomo continuamente rincorre. La via della felicità autentica, dunque, passa anzitutto attraverso il riconoscimento di Dio e il conseguente riconoscimento della nostra grandezza e insieme finitezza di creature uscite dalle sue mani. Non può quindi esaurirsi nei meri valori umani, per quanto nobili e altis5 6
Cfr. ibid., 54. Cfr. Gaudium et Spes n. 22.
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simi; al di fuori dell’orizzonte della trascendenza l’uomo potrà certamente esprimere un alto ideale di vita, ma difficilmente la grandezza e la dignità umana emergeranno in tutto il loro spessore e si dispiegheranno in tutte le loro potenzialità7. L’efficientismo convulso e ingoiante dell’uomo contemporaneo s’illude di risolvere le problematiche del cuore umano partendo dalla teoria che necessitiamo di una rifondazione delle strutture, delle società, delle nazioni, ecc., ossia partendo dall’esterno, dalla manipolazione e trasformazione di quanto ci circonda. La mia personale esperienza di vita — di ex-giovane insoddisfatta, dalla vita banale, dissipata e superficiale recuperata dalla Regola benedettina alla sua identità di donna umanamente, culturalmente e spiritualmente realizzata — mi fa sostenere che si tratta piuttosto di ripartire dalla “rifondazione della persona”, cioè di se stessi. É sotto gli occhi di tutti che pure scoperte scientifiche più illuminate, in cui l’uomo d’oggi ripone esagerata fiducia, non sanno sempre dare speranze affidabili, non sono affatto in grado di rinnovare l’uomo dal di dentro, come presuppongono, e di conseguenza l’intera umanità, perché la rifondazione dell’humanum comincia dall’amore. Teilhard de Chardin, grande teologo francese, purtroppo incompreso, affermava che L’AMORE é l’energia pulsante del cosmo. E chi é questo Amore se non lo stesso Creatore dell’universo? Quale uomo non sente impellente il desiderio di essere amato per poi distribuire a sua volta inconsapevolmente quanto ricevuto? Gesù non ha forse detto che c’é più gioia nel dare che nel ricevere? É come se Gesù volesse dirci: “Bando al sacrificio della nostra vita sull’altare dell’egoismo che ci fa perdere il baricentro della vita!”. 7 La presente convinzione si è ulteriormente rafforzata in me dopo la recente lettura di un interessante volumetto che raccoglie un’antologia di aforismi di Schopenauer. In esso viene espressa una nobile e apprezzabile “saggezza umana” che, tuttavia, si rivela a mio avviso insufficiente a fornire la chiave dell’autentica felicità. SCHOPENAUER, Consigli sulla felicità, Mondadori 2007. Cfr., per una prospettiva monastica e dunque di ben più ampio respiro, la relazione sintetica ma illuminante di G. ARIOLI, Dalla ricerca di Dio la maturità e l’equilibrio della persona: risposte della Regula Benedicti alle sfide dell’oggi, in Deus absconditus 98,4, ottobre-dicembre 2007, 138-142.
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Preparazione alla mia scelta monastica — come processo di conversione e rifondazione della mia vita — fu l’incontro che ebbi con la lettura di S. Giovanni Eudes, contemporaneo della nostra Fondatrice, Mectilde de Bar, il quale sosteneva che ogni cristiano è “monaco nel cuore” avendo come professione il Battesimo, per regola la Parola di Dio e per monastero la volta del cielo. Invito anche voi a fare questa gratificante esperienza interiore augurandovi di crescere per questa via di umanizzazione che porta all’imitazione di Cristo e raggiungere così la statura alta di santità che Dio ha disposto per ognuno di noi dall’eterno. Che cos’è un santo se non l’uomo pienamente realizzato? Per trovare o ritrovare la felicità, l’uomo deve ritrovarsi nella sua pienezza e armonia, in una nuova “configurazione umana”. Chi può giocare questa sfida che porta a liberare la libertà dell’uomo introducendolo sui sentieri della vera felicità, quella che non tramonterà più? Solo il “Dio con noi”, l’infinito fattosi finito, uomo palpabile, uno di noi, perché potessimo avere relazione con Lui. E’ un Dio che ascolta, al quale possiamo parlare, e un Dio che risponde. Quel Dio-con-noi iniziato sul Sinai e compiuto in Gesù Cristo. Il nome di Dio non é una parola, è una persona che abita con noi: é Gesù Cristo. Nulla anteporre all’amore di Cristo8: questa massima-invito appare in forma esplicita due volte nel testo della Regola di Benedetto, ma riaffiora continuamente come sua logica portante; essa ci ricorda che la felicità non è qualcosa, bensì Qualcuno. È Dio che rende l’uomo felice: la proposta radicalmente evangelica di san Benedetto e veicolata attraverso generazioni e generazioni di suoi figli e figlie afferma che la felicità dell’uomo non dipende dai suoi beni ma dal rapporto intimo e filiale con il Dio che lo ha creato, che è Padre e amore senza limiti. La visione antropologica dell’esperienza monastica esalta quindi il senso positivo dell’uomo e della vita e si propone come spazio di umanità nuova perché riceve da Cristo pienezza di contenuto9. La via di Benedetto non ha nulla a che fare con uno spiritualismo disincarnato: oggi spesso si percorrono cammini cosiddetti “spirituali” 8 9
Cfr. RB 4,21; 72,11. Cfr. C. PICCARDO, Pedagogia viva. Citeaux novecento anni dopo, Milano 1999, 20.
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i quali, in realtà sono delle pseudo-spiritualità, delle vere e proprie fughe dalla realtà e dalle responsabilità della vita, delle pseudomistiche basate sull’emotività irrazionale o su quel panteismo naturalistico così caro alla New Age. San Benedetto non invita a fuggire da se stessi: in questo senso la proposta benedettina non consente fughe nell’irreale o irresponsabili rifiuti della realtà che, conducono nell’immediato a “felicità” (e uso le virgolette) episodiche ma che a lunga distanza, portano solo angoscia e insicurezza. Al contrario, l’umile conoscenza e accettazione di sé, compiuta sotto lo sguardo paterno e luminoso di Dio schiude un cammino di conversione e di realizzazione di sé nel dono e nella gratuità. Vorrei ora solo accennare brevemente a tre valori tipici della Regola Benedettina che a mio avviso possono costituire una risposta alla ricerca della vera felicità. a. Il silenzio É la condizione essenziale per ascoltare Dio e se stessi. Oggi non sappiamo più ascoltarci, non solo reciprocamente, ma non sappiamo ascoltare neppure noi stessi: e a quanta infelicità l’uomo va incontro se non sa ascoltarsi nella propria verità! Il silenzio è anche il necessario antidoto all’intossicazione di parole che caratterizza l’uomo contemporaneo. É spazio di riflessione, di revisione della propria vita e delle proprie scelte. Spazio necessario per il nostro equilibrio! Ma non solo. Il silenzio aiuta a recuperare un uso buono e costruttivo della parola come strumento di dialogo, di intesa, di accoglienza dell’altro. Da modalità di affermazione di sé, in san Benedetto la parola recupera il suo ruolo di strumento di comunione10. E quanta felicità può scaturire da rapporti segnati da parole “buone”, che edificano! b. La liturgia, scuola di gratuità e gratitudine Credo che uno dei più pericolosi nemici della felicità sia un atteggiamento largamente diffuso a tutti i livelli, dai quadri strategici della 10 Cfr. M. FIORI, C’è qualcuno che desidera la vita? La visione dell’uomo nella Regola di San Benedetto, Bologna 2009, p. 89.
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politica e dell’economia sino all’uomo comune: è ciò che definisco la “logica di mercato”. Essa non tocca solo l’ambito economico tout court, ma sembra aver invaso tutti gli spazi della vita. Con le sue lenti deformanti, fa sì che tutto sia mercificato, tutto sia valutato in base ai criteri di efficienza e produttività: i rapporti, le persone, i beni, la stessa vita umana e persino Dio. L’uomo viene in questo modo privato di un atteggiamento fondamentale per il raggiungimento della felicità: quello della gratitudine. Atteggiamento purtroppo sottovalutato, eppure essenziale per l’equilibrio e la felicità e tutt’altro che irrilevante per favorire la gioia di vivere11. Nella liturgia, che occupa il posto centrale nella vita monastica, si celebra “semplicemente” Dio, senza fini specifici, come ha sottolineato Benedetto XVI. Ed è interessante notare come il Papa metta in relazione gratuità della preghiera e felicità: «Nella vita dei monaci, la preghiera ha una speciale importanza: é il centro del loro compito professionale. La loro vita é adorazione. […] Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino, viene perciò con ragione chiamato“officium”. É il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. […] Allo stesso tempo l’Officium” dei consacrati é anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva ci aspetta soltanto la morte. No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio é entrato nel nostro mondo 11
Rimando, su questo tema, a un interessante e illuminante articolo: G. CUCCI, La gratitudine, radice del ben-essere, in La Civiltà Cattolica, 2008, IV, 466-473. Si vedano, in particolare le pp. 467-470, in cui viene documentato, studi alla mano, come la gratitudine sia un efficace antidoto alla tristezza e alla depressione.
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con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine»12.
Con la sua vita liturgica, il monaco desidera celebrare la vita, la sua quotidianità, non certo ponendosi accanto alla realtà del mondo, ma desiderando che il mondo stesso diventi “ostia vivente”, diventi liturgia. É sempre Teilhard de Chardin a rivelare la sua geniale intuizione affermando che alla fine avremo una liturgia cosmica e il cosmo diventerà ostia vivente (Papa Benedetto XVI, Omelia ai Vespri, Cattedrale di Aosta 2009). La spiritualità benedettina ed eucaristica vissuta nelle Comunità che hanno fatto proprio il carisma di madre Mectilde de Bar si pone esattamente in questo orizzonte di pura lode che sfocia in un’autentica gioia, come ha affermato madre Mectilde: «Che bella orazione rallegrarsi che Dio sia quello che è!...Partecipate al godimento che Dio prende in se stesso, adorate le sue divine perfezioni, gioite perché egli sarà sempre lo stesso per tutta l’eternità»13.
c. La vita comune, terapia contro il soggettivismo e l’individualismo Nell’era del villaggio globale, dove i mezzi di comunicazione consentono di raggiungere in tempo reale persone ed eventi in ogni angolo della terra, paradossalmente la solitudine è una realtà che pervade un numero sempre maggiore di esistenze. La solitudine rappresenta una delle “infelicità” più diffuse. La vita monastica, nel suo equilibrio tra solitudine e comunione, nella ricchezza delle relazioni (paterna/materna, filiale, fraterna) nello spazio e nell’importanza attribuiti al dialogo, può rappresentare un autentico modello alternativo di umanità ma anche rimedio contro la passione dell’autoesaltazione e dell’autoreferenzialità. Aprirsi sempre più alla spiritualità di comunione, come la Chiesa chiede ai religiosi (cfr. Ripartire da Cristo, 29), significa preparare il terreno più propizio a una nuova pienezza di vita. Non si tratta di idealismo. Le parole del penultimo capitolo della 12
BENEDETTO XVI, 9.9.2007, Abbazia di Heiligenkreutz. C. M. DE BAR, Attesa di Dio. Riflessioni sulla Regola di San Benedetto, Milano 1982, 161. Le sottolineature sono mie. 13
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Regola, sono un compendio di una sapienza pratica ed esprimono più che altrove l’impressionante realismo della spiritualità benedettina: vorrei rileggerle con voi: «Esiste uno zelo cattivo e pieno di amarezza, che separa da Dio e conduce all’inferno; ma c’è anche uno zelo buono, che allontana dai vizi e avvicina a Dio e all’eterna vita. Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore. Essi, dunque, si prevengano nello stimarsi a vicenda; sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna»14.
Non si tratta forse di linee di pensiero e di condotta che, se assunte, renderebbero più “umana” e dunque più felice ogni convivenza? Comprendersi reciprocamente nei propri limiti, nelle proprie debolezze, imparare a preoccuparsi della felicità e del bene altrui più che al proprio, guarendo da quella infiammazione patologica dell’io che è l’individualismo, vera minaccia per ogni convivenza, non significa forse diventare uomini e donne nuovi, felici e portatori di felicità? Chi sono le persone più felici, anche nelle nostre comunità? Quelle che sanno fare della loro vita un dono, nelle piccole cose di cui è intessuta la quotidianità. L‘insegnamento fondamentale della Regola, nel suo straordinario realismo, è che la vita, ogni vita, può e deve diventare luogo di felicità. Ciò che san Benedetto mette in luce in tutta la sua regola è che i “giorni buoni”, i “giorni felici” non sono una realtà riservata a pochi o confinata ad alcuni momenti di particolare grazia. Perché Cristo è la sorgente della felicità: più noi aderiamo a Lui, più non anteponiamo nulla a Lui, più la nostra vita sarà attraversata e abitata dalla vera gioia, che può convivere anche con la sofferenza e la fatica. E questo è un grande messaggio di speranza. 14
Il testo è citato secondo la traduzione delle Benedettine dell’Isola San Giulio.
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Fratel Michael Davide Semeraro, un monaco benedettino, nel suo ultimo libro, Patire le beatitudini, così scrive: «Le Beatitudini sono una scuola di felicità. Ciò che nella tradizione ellenistica è appannaggio degli dei, insigniti appunto dell’attributo makarios (beato), nel cuore e attraverso lo sguardo del Signore Gesù diventa la condizione propria di chi, apparentemente e chiaramente, si troverebbe dall’altra parte della barricata […] Mentre nell’antichità gli uomini — salvo rare eccezioni — erano esclusi dalla divina beatitudine, ora attraverso le parole e il gesto del Signore Gesù tutti gli uomini, qualunque sia la loro condizione e attraverso ogni condizione, possono imitare Dio, somma beatitudine, come dice Tommaso d’Aquino, partecipando della sua gloria e della sua felicità. Una felicità quindi che si fonda sulla condivisione e non sull’esclusività e tale da potersi coltivare in una umanità radicata e radicale […]. Le Beatitudini sono l’attestazione che la realtà, così come essa è, può diventare un luogo e un modo di felicità. Esse sono la sfida in base alla quale si può credere che non c’è niente altro che possa rendere felici se non quello che si è e ciò che la vita ci permette di essere»15.
CONCLUSIONE Ecco il ruolo di una comunità monastica. Essere segno di questa speranza. Dire, con la vita dei suoi membri che, sì, una nuova umanità è possibile per tutti. Scrive Anselm Grün, autore benedettino molto letto: «Da Benedetto noi possiamo imparare ad ascoltare di nuovo Cristo. Benedetto vuole esporci il Vangelo di Cristo e incamminarci a una forma tangibile di vita. Se una piccola comunità riflette Gesù, diventa lievito per questo mondo. Ciò che Gesù ha detto e fatto diventerà visibile nella concordia dei monaci, nella loro arte e nella loro sapienza, nel loro modo di lavorare, di pregare e di trattare le realtà del mondo. Noi Benedettini non sappiamo dire se oggi rispecchiamo Gesù. Ma intuiamo che vale la pena, nello spirito di Benedetto, calcare sempre fedelmente le orme del Vangelo e rendere trasparente agli uomini di oggi lo spirito di Gesù in una spiritualità con i piedi per terra. E con la nostra vita possiamo anche noi contribuire a permettere che in molti punti di questo 15
M. SEMERARO, Patire le beatitudini, Molfetta (BA) 2010, 16-17.
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mondo, degli uomini ottengano collaborazione e gioia per vivere insieme da fratelli e insieme costruire il futuro di un mondo sempre più umano e sempre più cristiano»16.
Il monastero diventa allora il luogo dove si deposita e si svela agli altri il segreto della felicità. Un canto risuona nel monastero: ecco che nella città c’è un luogo visibile dove è già dato di gustare un pezzetto di cielo; c’è una dimora, una casa della gratitudine e della benedizione dove si brama di vedere giorni buoni e di possedere la vera ed eterna vita, dove ci si allontana dal male per fare il bene e si cerca la pace per seguirla. Come già sottolineato stamani, “Una città senza monasteri manca di un cuore”17. Ne sono profondamente convinta. E non solo perché la vita monastica si propone per la sua esemplarità. Ma anche e soprattutto perché — lo credo fortemente — dalla “scuola di felicità” che è il monastero, può giungere al mondo, nella dinamica della salvezza, un supplemento di speranza e quindi di gioia. Concludo evocando a questo proposito la voce di una testimone di speranza e di gioia, oltre che di grande vitalità, del mondo monastico italiano: madre Cristiana Piccardo, trappista18. Queste parole vogliono esprimere il mio augurio più affettuoso a questa cara Comunità di Catania, perché sia sempre consapevole del suo ruolo all’interno di questa città e della Chiesa intera e continui attraverso i momenti “pubblici”, senz’altro importanti, come le diverse manifestazioni di questo Centenario, o nel silenzio dell’adorazione e dell’offerta, ad essere quella punta di lievito di felicità che fa fermentare di speranza la pasta del mondo.
16 A. GRÜN, Benedetto da Norcia. La Regola per l’uomo d’oggi, Cinisello Balsamo (MI) 2006, 104-106. 17 H. U. VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, Brescia 1969, 361-362. 18 Nata a Genova nel 1925, è entrata alla Trappa di Vitorchiano, divenendo Abbadessa dal 1964 al 1998 e fondando la Comunità di Valserena nel 1968. Interprete intelligente e longanime del rinnovamento monastico italiano, ha dato vita a fondazioni in Sudamerica e Indonesia. Attualmente vive nella Comunità di Humocaro, in Venezuela, della quale è stata Badessa per diversi anni.
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«… siamo certe che, nella dinamica della salvezza, ciò che è stato importante e prezioso nella nostra piccolissima realtà può avere un significato che va ben oltre noi. […] Siamo certe che, nel respiro della Chiesa, ciò che è vissuto in un punto nascosto è a beneficio del tutto. […] …abbiamo sempre creduto e crediamo che il carisma monastico possa essere un talento prezioso per questo nostro mondo di oggi; e ci sono momenti storici in cui ciò che solitamente rimane nascosto è bene sia detto»19.
Sia così, ogni giorno, per voi e per ciascuna delle nostre comunità monastiche. Grazie!
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C. PICCARDO, Pedagogia viva. cit., 15.
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