QUADERNI DI SYNAXIS 28 SYNAXIS XXX/1 – 2012
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA 2013
Immagine di copertina: L. ZUCCOLI, Ritratto di A. Rosmini, Casa natale, Rovereto, II metĂ sec. XIX (databile 1851).
COLLOQUI ROSMINI I-II I. Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini (2010) II. La politica di Antonio Rosmini (2012)
Atti dei “Colloqui rosminiani� organizzati dallo Studio Teologico S. Paolo di Catania negli anni accademici 2010-2011 e 2011-2012
a cura di Piero Sapienza
Colloqui Rosmini : atti dei “Colloqui Rosmini” organizzati dallo Studio teologico S. Paolo di Catania negli anni accademici 2010-2011 2011-2012 / a cura di Piero Sapienza. Catania : Studio teologico S. Paolo, 2013. (Quaderni di Synaxis ; 28) ISBN 978-88-97920-02-1 1. Rosmini, Antonio – Atti di congressi. I. Sapienza, Piero. 195 CDD-22 SBN Pal0256700 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
SOMMARIO
Colloqui Rosmini I Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini (2010) COLLOQUI ROSMINI: PERCHÉ? INTRODUZIONE (Piero Sapienza) . . . . . . . . 9 Viene messa in evidenza la novità dell'iniziativa promossa dallo Studio Teologico S. Paolo. Infatti dopo anni in cui il pensiero di Rosmini è stato emarginato dalla cultura ufficiale cattolica, e in particolare dagli studi teologici dei seminari, è significativo il fatto che esso sia proposto agli studenti di teologia. Dato che si tratta di un autore quasi del tutto sconosciuto, viene illustrata la sua vita e le linee fondamentali del suo pensiero, per favorirne un primo approccio. LA CRISI ANTROPOLOGICA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE (Antonino Crimaldi) . . . . . . . . 17 La rivisitazione del pensiero di Rosmini può essere utile allo scopo di “ripensare” i motivi della crisi in cui versa ormai la cultura occidentale, non però a dedurne soluzioni. Il “racconto metafisico” di Rosmini, infatti, è troppo imparentato con la sua visione teologica per suggerire una trama di senso accettabile per l’uomo contemporaneo, tutto proteso all’immanenza, alla terra. Ben più suggestiva risulta, invece, l’esigenza, avvertita e tematizzata dal roveretano, di una integrazione armonica della dimensione dell’umano, in quanto offre spunti preziosi per superare l’anarchia delle sfere di vita nella società contemporanea, anarchia a causa della quale, oggi, si considera la sfera economica “sciolta” da ogni riferimento e subordinazione agli altri valori umani, con le conseguenze che conosciamo.
ROSMINI E IL FONDAMENTO DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA (Umberto Muratore) . . . . . . . . 29 L’autore, passando in rassegna tutti gli esponenti più importanti del pensiero moderno, con un rapido ma significativo profilo storico, evidenzia la progressiva frammentazione e dissoluzione del sapere e del pensiero che si avvita su sé stesso, perdendo di vista la possibilità di una vera conoscenza della realtà e dell’interiorità dell’uomo. Il pensiero di Rosmini, con l’intelligenza amativa, recupera questa possibilità per l’uomo di conoscere sé stesso ed il reale, in quanto intelletto, volontà, azione impegnati in un cammino sapienziale, preservano l’integralità essenziale della persona umana. ROSMINI E LA VISIONE INTEGRALE DELL’UOMO (Lino Prenna) . . . . . . . . 45 La traccia del prof. Prenna si propone di offrire alcune semplici linee dell’interesse di Rosmini per l’uomo. Interesse manifestato fin dalle opere della giovinezza, all’insegna dell’elaborazione di un’antropologia che a seguito della “questione antropologica” dell’opera rosminiana si configura come antropologia integrale, per contestare l’“uomo ammezzato”, oggetto della filosofia del suo tempo. LA VISIONE ANTROPOLOGICA ROSMINIANA DI FRONTE ALLA SFIDA EDUCATIVA (Antonio Staglianò) . . . . . . . . 51 Il pensiero sull’educazione di Antonio Rosmini è ovviamente intrecciato profondamente con il suo tentativo di rifondazione della filosofia e della teologia, passando per ogni ambito tematico dello scibile e dei saperi. La sua pedagogia educativa si fonda su un pensiero concreto, perché educare è “introdurre alla realtà” e questa introduzione alla “realtà” passa per la storia e i suoi appelli. Nel pensiero rosminiano c’è l’urgenza di affermare l’uomo, l'uomo reale totale che non è semplicemente l’insieme di tutte le sue facoltà, ma è l'uomo uno, l’uomo che dalla relazione soprannaturale con Dio recupera la sua integralità. Nel pensiero del Rosmini l’educazione non religiosa fallisce perché non c’è educazione integrale se non c’è un’antropologia integrale. ROSMINIANESIMO IN SICILIA (Salvatore Latora) . . . . . . . . 79 Si deve ai Siciliani l’inizio della rinascita di Rosmini, a cominciare da Giovanni Gentile, che ha avuto il merito di avere valorizzato il pensiero del roveretano. Il testo si diffonde nel citare gli altri autori come Michele Federico Sciacca, creatore della “Cattedra Rosmini” proseguita con i “Simposi Rosminiani”; Vincenzo La Via, che fa riscoprire la originalità rivoluzionaria del Rosmini ai suoi discepoli, nell’Università di Messina e poi in quella di Catania. A Palermo operano per questa rinascita, Santino Caramella, Amato Pojero, con la “Biblioteca filosofica”; sottolineano il valore della spiritualità rosminiana i fratelli Sturzo, l’arcivescovo Cataldo Naro, e gli altri autori, di cui il testo riporta l’elenco insieme con una accurata bibliografia.
Colloqui Rosmini II La politica di Antonio Rosmini (2012) COLLOQUI ROSMINI: LA POLITICA DI A. ROSMINI. INTRODUZIONE (Piero Sapienza) . . . . . .
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ROSMINI E IL COSTITUZIONALISMO EUROPEO (Giuseppe Astuto) . . . . . . . . 97 Il saggio analizza il pensiero di Rosmini e il costituzionalismo europeo, soffermandosi sia sull’opera “La Costituzione secondo la giustizia sociale” sia sulla ricca letteratura esistente. Le questioni principali, che si ricollegano alle riflessioni e alle esperienze europee, riguardano i diritti della persona, la divisione dei poteri e il controllo giurisdizionale sulla legislazione. Individuando dei limiti nelle Costituzioni francese e inglese, l’abate propone la creazione di una giurisprudenza costituzionale (il Tribunale politico) come strumento di difesa nei confronti del legislativo e delle “maggioranze tiranniche”. Su questi temi, anticipati con lungimiranza da Rosmini, si svilupperà in Europa tra Ottocento e Novecento un ampio dibattito giuridico e politico. Dopo le esperienze totalitarie, il costituzionalismo democratico sancisce finalmente il principio del controllo di costituzionalità delle leggi per assicurare l’equilibrio tra i poteri dello Stato. L’UNITÀ D’ITALIA E LA VISIONE FEDERALE IN ANTONIO ROSMINI (Paolo Armellini) . . . . . . . . 109 Per l’unità d’Italia Rosmini pensò nel 1848 ad una soluzione federale che coinvolgesse prìncipi e popoli, contro i modelli di costituzione francese legati al prevalere del legislativo. Risolti i rapporti fra Stato e Chiesa, il suo modello di rappresentanza doveva prevedere la distinzione fra la garanzia dei diritti di proprietà (Dieta) e quella dei diritti di libertà (Tribunale politico). Nel rispetto di consuetudini e tradizioni, la sovranità della Dieta doveva poi lasciare ai popoli ampie autonomie, con la formula dell’unità nella varietà. FILOSOFIA E POLITICA IN ANTONIO ROSMINI (Francesco Conigliaro) . . . . . . . 117 Rosmini ha intrecciato in un modo così efficace “filosofia” e “politica” da dare vita ad una vera e propria “filosofia politica”. Il fulcro teorico di questo settore del suo pensiero è la “persona”, la cui identità viene precisata mediante la definizione “diritto sussistente”. Purtroppo il Rosmini ha intrecciato il plesso tematico persona-libertà personale-diritto-società civile con due dottrine gravide di conseguenze. La prima è quella dell’“essere-ideale-virtuale”, che è certamente l’“essere iniziale” ma che, essendo ben più che l’“essere-ideale-forma-vuota”, compromette, a motivo della pregnanza della virtualità, la novità della storia e la libertà e la creatività della persona. La seconda è
quella della “proprietà”, a cui il Rosmini ha affidato l’effettività socio-politica del suo discorso sulla persona. L’esito è che il Rosmini, benché spinto dall’ansia di custodire la persona, ha finito con il garantire gli interessi. Tuttavia, la teoria rosminiana della persona è e rimane la più importante delle “condizioni decisive” per un possibile ordine socio-politico nuovo, anche se il suo autore ha ricomposto la “piramide” del potere dell’ancien régime, abbattuta dalla Rivoluzione Francese. ROSMINI DI FRONTE LA MODERNITÀ: DIRITTI, ECONOMIA E PERSONA (Salvatore Muscolino) . . . . . . . 157 In questo saggio intendo mostrare alcuni aspetti del pensiero rosminiano utili per la riflessione filosofica cristiana nell’età contemporanea. Vissuto in un epoca molto complessa, Rosmini è stato un pensatore tra i più profetici della cultura cattolica del suo tempo e le sue intuizioni che possono esser utili ancora oggi agli studiosi riguardano ambiti, tra gli altri, come l’economia, la politica, il diritto e l’ecclesiologia. La conclusione del mio articolo è che tutti coloro che si ispirano al Concilio Vaticano II possono trovare nel pensiero di Rosmini una fonte di ispirazione straordinaria. LA CONCEZIONE ANTIPERFETTISTICA DELLA POLITICA IN ROSMINI (Piero Sapienza) . . . . . . . . 175 L’autore illustra che la concezione politica di Rosmini si connota per il suo antiperfettismo, fondato sulla sua concezione antropologica che considera l’uomo nelle sue luci e nelle sue ombre, ovvero nella sua dignità che gli deriva dall’idea dell’essere e nei suoi limiti creaturali e causati anche dalle conseguenze del peccato originale. Rosmini critica il perfettismo politico del socialismo utopistico, tenendosi lontano dai facili ottimismi come pure dal pessimismo e propone un’idea della politica realisticamente intesa come possibilità di perfettibilità. INDICE
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Colloqui Rosmini I Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini (2010)
COLLOQUI ROSMINI: PERCHÉ? INTRODUZIONE
PIERO SAPIENZA*
Lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, con l’anno accademico 2010/2011, dà vita ai “Colloqui Rosmini”. Con questa iniziativa, lo studio del pensiero di Antonio Rosmini viene introdotto nei programmi del S. Paolo per promuoverne la conoscenza tra gli studenti del corso teologico. L’iniziativa si articolerà in due momenti, tra loro collegati. Innanzitutto, ogni anno, lo Studio Teologico attiverà un seminario sul pensiero del roveretano. I percorsi tematici scelti sono i seguenti: la questione educativa; la visione ecclesiologica; l’antropologia soprannaturale. In questo anno accademico il seminario per gli studenti del 1 e 2 anno sarà: “La questione educativa nel pensiero di Rosmini”, in sintonia con il programma pastorale della CEI per i prossimi dieci anni sulla sfida educativa. Ma allo stesso tempo, l’iniziativa intende proiettarsi nel mondo accademico catanese, di modo che la diffusione del pensiero di Rosmini esca fuori dalla cerchia degli studenti di teologia. Pertanto (ed ecco il secondo momento), ad anni alterni sarà organizzato un “Colloquio” di una intera giornata, in collaborazione con l’Università di Catania, aperto al pubblico. L’iniziativa dello Studio Teologico S. Paolo, oltre che opportuna, ci sembra anche molto significativa, perché ancora oggi, per i più, * Docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Piero Sapienza
Rosmini è solo un nome, come il “Carneade” di manzoniana memoria. A tal proposito, mi si permetta qualche riferimento personale: nei miei 35 anni di insegnamento di filosofia nelle Scuole statali non ho trovato un collega che trattasse Rosmini. Quando nel 1971 ho iniziato la mia ricerca per il dottorato sul pensiero di Rosmini, alla Gregoriana esistevano in tutto circa 20 o 30 tesi di dottorato sul roveretano. Una di queste risaliva agli anni ’50 ed aveva come autore don Albino Luciani (poi Giovanni Paolo I), che contestava le tesi del roveretano sul peccato originale. Nel periodo dal 1970 al 1980, in questo Studio, il sottoscritto insegnando Etica, introduceva l’etica di Rosmini: ma si trattava di una scelta personale. Per questi motivi, è sembrato opportuno alla presidenza del S. Paolo che, iniziando questa serie di “Colloqui”, venisse presentato il profilo biografico di Antonio Rosmini. CENNI BIOGRAFICI Antonio Rosmini nasce a Rovereto, nel Trentino, il 24 marzo 1797. È il secondo dei quattro figli di Pier Modesto, patrizio del Sacro Romano Impero, e di Giovanna, dei conti Formenti. Il nostro cresce in un clima familiare sereno e religioso, e dimostra ben presto un’intelligenza vivace e aperta. Frequenta le scuole pubbliche di Rovereto, dalle elementari fino al compimento della scuola di latinità. Antonio vive gli anni dell’adolescenza e della giovinezza fondendo impegno morale e religioso insieme a una grande apertura culturale, che lo spinge a leggere moltissimo, usufruendo della fornitissima biblioteca di famiglia. Nel 1813, ad appena sedici anni, scrive nel suo Diario: «[…] Iddio mi aperse gli occhi su molte cose e conobbi che non vi era altra sapienza che in Dio»1. I frutti dei suoi studi, però, il giovane Rosmini non vuole tenerli per sé, ma desidera condividerli con i suoi coetanei, che spesso riunisce a casa sua. Si comincia a delineare, intanto, la sua vocazione sacerdotale, 1
A. ROSMINI, Scritti autobiografici, Roma 1934, 419.
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che all’inizio incontra l’opposizione dei genitori. Maturata la sua scelta, Antonio si scrive all’Università di Padova, dove dal 1816 al 1819 compie gli studi teologici. Il 21 aprile 1821, viene ordinato sacerdote. I primi cinque anni, vissuti a Rovereto, sono anni decisivi per l’impostazione della sua vita sacerdotale. Il rosminiano padre Bessero-Belti delinea la ricerca interiore del prete roveretano scrivendo: «Portato all’attività, all’intraprendenza, all’organizzazione, a vasti e generosi progetti per il bene del prossimo, egli avverte il pericolo di disperdersi nell’attività e di seguire il proprio impulso nella scelta delle opere da compiere. Vuole, invece, trovare alla luce di Dio il principio ascetico che regoli come norma costante tutta la sua condotta […]». Scoprirà, così, il principio di “passività o indifferenza”, che comporta «una costante disposizione interiore a volere unicamente e totalmente ciò che vuole Dio»2. Nel febbraio 1826, Rosmini si trasferisce a Milano per approfondire i suoi studi e incontra Alessandro Manzoni, con il quale avvia un rapporto di amicizia, destinato a durare per tutta la vita. Leggendo i segni di Dio che lo chiama a intraprendere la fondazione di un nuovo istituto religioso, nel febbraio 1828, all’inizio della Quaresima, Rosmini si stabilisce al Monte Calvario di Domodossola, dove, nella preghiera, nel silenzio e nella penitenza, elabora le Costituzioni della nuova società religiosa, che chiama “Istituto della Carità”. Nel nome stesso si legge la finalità dell’Istituto: esercitare la carità universale verso Dio e verso il prossimo, considerato, quest’ultimo, nella sua integralità. Si tratta, quindi, di abbracciare le esigenze della carità spirituale, morale, intellettuale e materiale, lasciandosi guidare esclusivamente dalla volontà di Dio, secondo il principio che il nostro aveva posto alla base della sua vita. Nel maggio 1829, Pio VIII approva il progetto dell’Istituto e incoraggia Rosmini a proseguire, contemporaneamente, nel suo ministero di scrittore e pensatore, sottolineando che «la Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori solidi», perchè gli uomini bisogna «prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione»3. Rosmini, 2 3
R. BESSERO BELTI, A. Rosmini. Profilo biografico, Stresa 1994, 6. Ibid., 10.
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Piero Sapienza
obbedendo alle indicazioni del Pontefice, segue la formazione dei suoi religiosi e, allo stesso tempo, continua la sua opera di “restaurazione della filosofia”, da porre alla base del rinnovamento culturale cattolico. E attraverso le sue molteplici opere, che spaziano dalla metafisica alla morale, dalla psicologia all’antropologia, dalla pedagogia all’ascetica, dalla politica alla filosofia del diritto fino alla teologia, egli attua la carità intellettuale, operando (come ha ricordato Benedetto XVI il giorno della sua beatificazione avvenuta a Novara il 18.11.2007) “la riconciliazione della ragione con la fede”. Di una fede che è amica della ragione. A Roma, nel 1830, Rosmini pubblica il Nuovo Saggio sull’origine delle Idee. L’opera, fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero, è accolta con grande favore. Insieme pubblica Massime di perfezione cristiana, dove sintetizza la sua dottrina ascetica. Nel 1832, fonda la “Congregazione delle Suore della Divina Provvidenza”, che si prefigge gli stessi scopi dell’Istituto della Carità. Nell’ottobre 1834, Rosmini viene nominato parroco a S. Marco in Rovereto. La scelta degli ultimi caratterizza il suo servizio pastorale. Egli, infatti, già nell’omelia programmatica afferma: «La causa dei poveri sarà cura mia principale». Fedele a questo impegno, comincia a visitare le singole famiglie, per rendersi conto dei loro bisogni materiali e spirituali, giungendo, così, a formulare, in collaborazione con la Congregazione di Carità della città, un piano articolato di interventi. La solidarietà con i suoi poveri, inoltre, Rosmini la esprime dando il suo contributo economico personale e rinunciando a quanto dovutogli per il suo ministero4. In tal modo, egli attua, con esemplare coerenza, quanto avrebbe scritto nelle Cinque piaghe della Chiesa: «Il Clero non deve usare dei beni ecclesiastici se non il puro necessario al proprio sostentamento, impiegando il di più in opere pie, specialmente in sollievo degli indigenti»5. E coloro che “hanno già il sufficiente del proprio” non devono attingere dagli introiti parrocchiali (vd id.). 4 Per la conoscenza del ministero parrocchiale di Rosmini, si veda l’interessante e ampio studio di A. VALLE, Rosmini e Rovereto. 1834-1835 Arciprete decano di S. Marco, Rovereto 1985. 5 A. ROSMINI, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 1967, n. 151, 336.
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Radicato nella prassi dei Padri della Chiesa, Rosmini anticipava il Vaticano II (cfr. Presbyterorum Ordinis, 17). L’organizzazione della catechesi per circa 1.000 fanciulli, le cui classi erano dislocate per tutto il territorio parrocchiale, il ruolo di ispettore scolastico distrettuale, che gli competeva in quanto arciprete decano, la catechesi agli adulti, la rivoluzionaria iniziativa di un Oratorio serale per gli artigiani, giovani e adulti, la cura della liturgia, il ministero della confessione e la disponibilità alla direzione spirituale, il tutto collegato dal filo rosso della carità pastorale, riempivano le giornate di Rosmini, il quale, agli inizi del suo sacerdozio, aveva scritto: «il petto di un Vescovo e di un parroco deve essere un mare di carità»6. L’esperienza parrocchiale di Rosmini si bruciò nel breve arco di un anno (ottobre 1835), a causa di pressioni sull’autorità ecclesiastica da parte del governo austriaco, che guardava con sospetto le iniziative del nostro arciprete, tanto da ingiungergli di chiudere il fiorente Oratorio degli operai, dopo alcuni mesi di attività7. Nel 1838, l’Istituto della Carità con le sue Costituzioni viene approvato definitivamente da Gregorio XVI. Nel 1839, però, la pubblicazione del Trattato della coscienza morale, scatena la prima polemica sulle sue dottrine, che andrà avanti fino al 1843, allorché Gregorio XVI imporrà il silenzio ai Gesuiti e a Rosmini. Nell’agosto del 1848, il governo piemontese di Carlo Alberto, per ottenere l’appoggio di Pio IX contro l’Austria, dietro suggerimento di V. Gioberti, invia Rosmini a Roma. Duplice è lo scopo di questa missione diplomatica: un concordato tra Torino e Roma, e una Confederazione tra gli Stati italiani. Il Papa accoglie con grande stima Rosmini, mostra di apprezzare la sua collaborazione e gli preannuncia il cardinalato per il prossimo dicembre. Sembra, anche, che lo voglia come segretario di Stato. Ma, nel giro di alcuni mesi, gli eventi precipitano: Rosmini si dimette dal suo incarico diplomatico, dato che il governo piemontese aveva cambiato la linea originaria; inoltre, a Roma, a novembre, scoppia la rivoluzione e Pio IX fugge a Gaeta, dove lo segue Rosmini. 6 A. ROSMINI, Lettera alla Marchesa Maddalena di Canossa, 1825, in A. VALLE, Rosmini e Rovereto., cit., 16. 7 Vd. A. VALLE, Rosmini e Rovereto., cit.
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Pio IX, mutati i suoi orientamenti politici, dice a Rosmini: «Caro abate, non siamo più costituzionali»8. Il roveretano nota attorno a sé un’ostilità crescente da parte dell’entourage pontificio e della polizia borbonica, comprende che il suo posto non è più accanto al Papa e si congeda definitivamente da lui nel giugno 1849, per tornare a Stresa, presso la sua famiglia religiosa. Il cardinalato è sfumato. Frattanto, gli avversari di Rosmini avevano ricominciato ad attaccare le sue opere. In particolare, questa volta, sono sotto il mirino Le Cinque piaghe della Santa Chiesa e la Costituzione secondo la giustizia sociale. Ambedue le opere, pubblicate nel 1848, vengono poste all’Indice nel 1849. Rosmini, profeta scomodo e umiliato, ma obbediente si sottomette come “figlio devoto della Chiesa” (come si autodefiniva), conservando inalterato il suo fiducioso abbandono ai disegni della Provvidenza divina, della quale scrive: «Io, meditandola, l’ammiro; ammirandola, l’amo; amandola, la celebro; celebrandola, la ringrazio; ringraziandola, m’empio di letizia» 9. A Stresa, Rosmini trascorre gli ultimi anni della sua vita, sempre più immerso in una profonda esperienza di Dio, occupandosi delle sue due famiglie religiose, continuando i suoi studi e le sue pubblicazioni, disponibile ad accogliere tutti. E infatti, laici, ecclesiastici (come don Bosco), persone dotte e semplici, si recano da Rosmini per chiedere consigli e affidarsi alla sua saggia guida spirituale e intellettuale. Alessandro Manzoni fa parte della cerchia di amici più intimi e assidui. L’attacco scatenato dagli avversari del roveretano, però, non si placa; continua il fitto fuoco delle aspre polemiche. Rosmini non risponde. Pio IX stabilisce che siano esaminate tutte le opere del roveretano. Il responso definitivo si fa attendere quattro anni, e arriva il 15/7/1854 con il decreto Dimittantur, con la piena assoluzione per le opere rosminiane. A distanza di un anno, però, la vicenda terrena di Antonio Rosmini 8 9
Vd. G. B. PAGANI - G. ROSSI, La Vita di A. Rosmini, II, Rovereto 1959, 238 A. ROSMINI, Epistolario completo, Casale Monferrato 1887-1894, X, 603.
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si conclude a Stresa: è il 1 luglio 1855. Al Manzoni che, costernato, in quelle ultime ore, fra l’altro, gli diceva: «[…] la sua presenza tra noi è troppo necessaria», Rosmini rispondeva: «[…] nessuno è necessario a Dio […]. Quanto a me sono del tutto inutile, temo anzi essere dannoso». E concludeva con tre parole, che costituiscono la ricapitolazione del suo itinerario spirituale e il suo testamento di figlio appassionato e devoto della Chiesa: «Adorare, tacere, godere» 10. Ma stranamente, anche dopo la morte di Rosmini, le polemiche sulle sue dottrine non si spensero. In tal modo si arrivò al 1888, allorché venne pubblicato il decreto Post obitum, in cui 40 proposizioni tratte dalle opere del roveretano venivano dichiarate “catholicae veritati haud consonae”. Nella lettera di accompagnamento con cui il Decreto venne inviato a tutti i vescovi si proibiva esplicitamente l’insegnamento del pensiero rosminiano in tutti i seminari. Ciò ha decretato anche la scomparsa del pensiero di Rosmini dalla scena culturale ufficiale del mondo cattolico. Dobbiamo arrivare a Giovanni XXIII (che da Papa meditava gli scritti ascetici di Rosmini), a Paolo VI (che regalava Le 5 piaghe della Chiesa ai membri della curia romana), alla Fides et ratio in cui Giovanni Paolo II annovera Rosmini tra i pensatori che avevano saputo coniugare molto bene fede e ragione. E infine, al card. Ratzinger, che, nel 2001, dichiarando superati i motivi che avevano portato alla pubblicazione del decreto Post obitum, riconosceva l’audacia dell’impresa intellettuale di Rosmini, che aveva saputo affrontare le sfide del pensiero moderno. Nel 1988, dopo cento anni dal Post obitum, un gruppo di intellettuali europei lanciava un appello in cui, fra l’altro, si dichiarava che la cultura e la civiltà europea non potevano prescindere dal contributo di pensiero di Rosmini. Il breve quadro adesso abbozzato ci permette di comprendere la valenza culturale dell’iniziativa del S. Paolo, che vuole istituzionalizzare l’insegnamento del pensiero filosofico e teologico di Rosmini. L’odierno primo “Colloquio”, provvidenzialmente (certamente senza alcuna previsione da parte degli organizzatori), avviene nel 10
Vd. R. BESSERO BELTI, A. Rosmini., cit., 22.
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giorno del 3 anniversario (come sopra ricordato 18.11.2007) della beatificazione di Rosmini. Con il presente “Colloquio”, si vuole affrontare una riflessione di scottante attualità: “Crisi antropologica oggi? La lezione di A. Rosmini”. A. Crimaldi (La crisi antropologica nell’era della globalizzazione), U. Muratore (Rosmini e il fondamento della questione antropologica), L. Prenna (Rosmini e la visione integrale dell’uomo), A. Staglianò (La visione antropologica rosminiana di fronte alla sfida educativa), S. Latora (Rosminianesimo in Sicilia). E infatti, i “Colloqui rosminiani” si prefiggono anche di recuperare il pensiero di autori siciliani che si sono occupati di Rosmini. E certamente, qui l’elenco non è piccolo a dimostrazione che da sempre la fiamma del rosminianesimo è stata sempre viva in Sicilia. Tra i più noti pensatori siciliani basterebbe accennare a V. La Via e G. Cristaldi. E inoltre, bisogna ricordare che don Sturzo, da seminarista leggeva le opere di Rosmini, e comunque non si può dimenticare che M. F. Sciacca, il quale ha rilanciato nel Novecento il pensiero di Rosmini, era un siciliano di Giarre (CT) (un greco di Sicilia, come amava scherzosamente definirsi!). Si va verificando, oggi, quanto scriveva A. Fogazzaro, più di 120 anni fa, commemorando il primo centenario della nascita di Rosmini: «Forse i quarant’anni trascorsi dalla morte di Lui sono ancora troppo pochi e non arrivano alla misura della distanza che si richiede ad afferrare bene l’insieme di un’apparizione così grande. Forse nel 1955, quando sarà passato un secolo dalla sua morte, la colossale figura si disegnerà meglio davanti agli uomini di quel tempo, anche perché poserà su un piedistallo molto più alto»11. I “Colloqui rosminiani”, promossi a Catania dallo Studio Teologico S. Paolo, permetteranno alla figura di Rosmini, con il suo “pensare in grande”, di stagliarsi sull’orizzonte culturale in tutto il suo splendore profetico, non solo culturale, ma anche ascetico e mistico, per parlare ancora una volta all’uomo contemporaneo della nostra società liquida, così da orientarlo nel suo cammino all’alba di questo Terzo millennio.
11 A. FOGAZZARO, La figura di A. Rosmini, in A. VALLE, La vera sapienza è in Dio. A. Rosmini, biografia spirituale, Roma 1997, 328.
LA CRISI ANTROPOLOGICA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE
ANTONINO CRIMALDI*
Il dato dal quale intendo partire per svolgere le mie considerazioni sulla condizione umana nella società contemporanea è la percezione largamente diffusa che l’umanità europea stia attraversando una crisi di cui, noi che siamo contemporaneamente spettatori-osservatori e soggetti coinvolti, a stento riusciamo a delimitare i contorni e a soppesare le ricadute sui diversi ambiti del vivere. Speso sentiamo proporre e riproporre, negli ambienti che coltivano e perseguono finalità pedagogiche e formative e nella riflessione filosofica e antropologica contemporanea, gli stessi interrogativi: che ne è dell’umano nell’uomo della cultura occidentale? Come mai, di fronte alle nuove forme di disumanizzazione e di alienazione della vita individuale e collettiva, che talvolta si aggiungono, talvolta si sostituiscono a quelle antiche, la nostra cultura, la cultura dell’Occidente, dalla cui tradizione noi, ancora oggi, riconosciamo di avere attinto ogni valido incentivo per individuare, comprendere e salvaguardare le peculiarità più elevate dell’umanitas nell’uomo, questa cultura alla quale apparteniamo sembra essere caduta in una fase di stanchezza mortale, di decadenza, in una spossatezza che la debilita a tal punto da non essere più capace di orientare e dirigere con i suoi valori il cuore e la mente degli abitanti della vecchia Europa? Gli interrogativi danno per scontato * Docente di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.
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Antonino Crimaldi
che si sia verificato un arresto delle spinte ideali e della forza propulsiva della nostra cultura e che l’uomo europeo o l’umanità europea dell’epoca attuale viva una esperienza di smarrimento e astenia spirituale a cui sembra mancare perfino quella soglia minima di consapevolezza che potrebbe fare sperare in un principio di superamento. Io credo che occorra accuratamente verificare e vagliare se e in quale misura questa percezione di spaesamento corrisponda effettivamente alla sensibilità e alla mentalità dell’uomo d’oggi o non sia piuttosto la risultante, una sorta di “effetto alone”, delle interpretazioni stereotipe del fenomeno umano nell’odierna società che, pur cogliendo un aspetto incontestabile della sua realtà attuale, impediscono di vedere anche altri aspetti non meno importanti e significativi della sua configurazione complessiva. Perciò penso sia opportuno che io chiarisca, in via preliminare, quale significato annetta all’espressione “crisi antropologica” in relazione al contesto europeo della cultura occidentale e al suo stato presente, e in quale quadro concettuale mi pare possa essere adoperata, per evitare di farla scadere al luogo comune di una sterminata letteratura della crisi e sulla crisi dell’Occidente giunta ormai alla sua fase terminale. Le mie considerazioni dovrebbero sommariamente tracciare le coordinate teoriche e teoretiche, storiche ed ermeneutiche per collocare idealmente le riflessioni che i successivi intervanti dipaneranno sulla visione antropologica e filosofica di Rosmini, l’autore al quale è dedicato questo convegno: interventi tutti sorretti, immagino, dal convincimento di poter ricavare dal pensiero del roveretano risposte valide anche alle domande di senso implicitamente o esplicitamente sollevate dall’uomo contemporaneo e verità incontrovertibili che ne possano illuminare o “riorientare” l’esistenza. Ciò è dovuto al fatto che Rosmini è giustamente ritenuto un classico del pensiero filosofico e, in modo specifico, di quello cattolico, e come per tutti i classici si presume, a buon diritto, che egli ci dia un prezioso sussidio nel proseguire il nostro discorso sull’umano, sulla nostra umanità, sulle condizioni che dovrebbero portarla a piena manifestazione e realizzazione. I classici non stanno né dietro né davanti a noi, ci stanno a fianco e ci aiutano a leggere nelle pieghe della nostra anima o costituzione spirituale, a comprendere sempre più e sempre meglio noi stessi e la quae-
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stio magna della nostra identità personale, il significato profondo del nostro vissuto individuale e collettivo, del nostro esistere o essere al mondo. Ma nessun classico può esimere le generazioni che si succedono nel tempo dal pensare in proprio, sicché nessun classico può essere accostato per trarne lezioni da applicare al presente. Quindi, neppure Rosmini può essere considerato attuale o essere “attualizzato”. Attuale è solo l’impegno a ripensare nell’oggi, nella situazione storica in cui ci è dato vivere la nostra destinazione umana nella totalità delle sue determinazioni. Ciò che i classici racchiudono e trasmettono è patrimonio e parte integrante della nostra tradizione culturale. Il nostro rapporto con i classici è dunque uno dei modi di rapportarci alla nostra tradizione culturale; ma esso, seppure uno dei più significativi, dei più fecondi e dei più vitali, è, pur tuttavia, uno fra i tanti. Questo rapporto non è un ripetere o riproporre, né, tanto meno, un risuscitare il passato, bensì confronto dialettico per una ri-partenza, per una ripresa di tensione ideale, per una ricostituzione di risorse intellettuali e umane in vista di una progettualità nuova e imprevedibile, come nuovi e imprevedibili sono i problemi che si pongono, i compiti che s’impongono via via agli abitatori del tempo. Tanto mi è parso opportuno puntualizzare per mettere in evidenza con quale disposizione mentale mi accinga a dare un qualche modesto contributo alla discussione su Rosmini in questo convegno. Ora, per dare quel chiarimento terminologico a cui ho accennato prima, preciso subito che la locuzione “crisi antropologica” è, per me, semplicemente sinonimo di una situazione umana che esige continuo, approfondito discernimento. Crisi, e perciò critico, è, a mio parere, il naturale modo di rivelarsi nel tempo della costitutiva storicità dell’esistenza umana caratterizzata da incompiutezza radicale, dalla finitezza e dalla temporalità; storicità in virtù della quale l’uomo non è, ma ha da essere, e in base alla quale egli si confronta continuamente, sempre o per lo più, con la possibilità di perdere o ritrovare se stesso, di vivere in accordo o in disaccordo con il proprio sé autentico, di essere “sommerso” o “salvato”, in breve, di attingere, recuperare, attivare e trasmettere le ragioni che rendono sensato il cammino della vita o, al contrario, di non scoprirle, non praticarle, dimenticarle o smarrirle. Quel che l’uomo acquista in perfezione nel tempo è sempre
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insidiato dal pericolo della perdita, quel che l’uomo perde e ciò di cui avverte la mancanza nel tempo è stimolo all’impegno di colmare e perdita e mancanza. Ma ci sono perdite non risarcibili e mancanze incolmabili: le scelte umane sono rischiose perché il tempo non sempre rimedia all’errore, ma spesso se ne fa eco e ne moltiplica gli effetti. Sotto tale profilo, parlare di crisi della condizione umana è soltanto un modo tautologico di designarla nella sua dimensione storico-temporale e non comporta alcun giudizio negativo alcuna valutazione pessimistica della forma in cui tale condizione si presenta in un dato momento storico, quale è, per esempio, quello attuale o, almeno, non comporta mai una valutazione pessimistica maggiore di quelle concernenti altre epoche storiche. Anzi, proprio la sequenza tautologica crisi-storicità-temporalità-condizione umana, l’accezione neutra della parola “crisi”, può servirci egregiamente per giustificare talune definizioni apparentemente paradossali dell’umano, come quella formulata da Ágnes Heller, la quale si riferisce sovente ad una “sostanza invincibile della natura umana”, in quanto qualsiasi perdita o mancanza nell’uomo non si manifesta a tal punto “radicale” da soffocare in toto il desiderio di venirne fuori. Non c’è malattia mortale nell’uomo che possa spegnere in lui l’attaccamento alla salute. Detto altrimenti, non si può ipotizzare nessun tempo e nessun luogo in cui l’uomo sia totalmente alienato e l’umanità una massa damnationis. Ciò non significa che la parola “crisi” non possa, come succede nel linguaggio comune, essere associata all’idea di aporia, distretta, difficoltà, e sia il vocabolo più appropriato per indicare un momento o «una fase della vita individuale e collettiva particolarmente difficile da superare e suscettibile di sviluppi più o meno gravi». E in questo significato abituale voglio anch’io impiegarla qui, allorché con l’espressione “crisi antropologica” non mi riprometto più di designare la penuria di senso della condizione attuale dell’umanità europea, la distretta della coscienza europea in se stesa considerata, bensì l’agonia della cultura europea. Né lo stato di crisi della cultura europea è cosa affatto indifferente alla percezione di sé che l’uomo europeo riesce a raggiungere, o neutra, senza inflesso alcuno sulla stessa coscienza europea. Perché il soggetto individuale e collettivo è in grado di agire nel mondo in maniera positiva ed efficace soltanto se ha una adeguata compren-
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sione del mondo, del proprio mondo, e questa comprensione può darla solo la cultura. Si intuisce allora come una delle cause dell’inquietudine e dello smarrimento dell’uomo europeo sia costituita dal rapporto insoddisfacente, frustrante, che egli è costretto a mantenere con la propria cultura, dal momento che essa non gli fornisce “visioni del mondo”, della realtà, efficaci e plausibili. L’uomo europeo si trova ad essere spiritualmente sano o malato come lo è l’uomo di ogni tempo e latitudine, ma di suo, di esclusivamente suo, ha oggi la mancanza di una casa in cui abitare, poiché la dimora del suo essere, la sua cultura, non lo protegge dalle intemperie. Da questo punto di vista, è innegabile che il comune sentire circa il fatto che la nostra cultura versi, per diverse ragioni, in una situazione di decadenza, di stallo, di paralisi, si alimenti a qualcosa di reale e di oggettivo. Infatti, se non è sicuramente in crisi l’uomo europeo o se lo è, né più né meno, dell’uomo orientale, asiatico ecc., certamente è in crisi il modo di “raccontare” l’umano della cultura europea all’uomo europeo: essa non produce più racconti convincenti. E per “racconto” intendo l’invenzione, l’elaborazione, la codifica, la riproposizione di una qualunque trama ideale, concettuale, valoriale, di una qualunque narrazione “compiuta” e “completa”, nella quale l’uomo d’oggi possa riconoscersi e rispecchiarsi per trarre virtualmente o realmente costellazioni simboliche e proposte di senso per la conduzione della propria vita. Sono entrati in crisi, appunto, i grandi racconti o le grandi narrazioni che la nostra cultura ha prodotto nei secoli attraverso l’arte, la filosofia, la religione, le forme di coscienza collettiva, le pratiche di vita sociale, i valori sedimentati nell’ethos per dare le coordinate ideali al nostro vissuto. Così si è udito discettare di “crisi dei fondamenti” della razionalità filosofica e scientifica, di crisi dei valori, di crisi dei processi educativi e formativi, di crisi della politica, crisi della religione, crisi della morale. Ma ognuno vede come la crisi dei modelli di razionalità non è affatto la crisi della razionalità, come l’impossibilità teoretica di fondare la morale, posto che sussista tale impossibilità, non è affatto la crisi della coscienza morale: l’uomo che voglia essere buono e giusto sa bene cosa deve fare, anche se nessuno riesce a spiegargli perché lo debba fare; la crisi dell’epistemologia e della gnoseologia non implica affatto l’impossibilità di praticare la scienza e l’impossibilità di cono-
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scere validamente; la crisi della religione o delle religioni non implica affatto la scomparsa della religiosità ecc. Nietzsche e i decostruttori della cultura occidentale e della sua tradizione, i distruttori di maschere, i filosofi dell’esistenza, i fautori del pensiero negativo hanno sondato in profondità i motivi e le cause di questo approdo della nostra cultura alla quasi totale afasia o, se vogliamo abusare di uno stereotipo, al nichilismo. Sulla validità delle loro infauste diagnosi non voglio qui né soffermarmi, né pronunciarmi. Mi limito soltanto a un fugace riferimento a Nietzsche perché mi offro lo spunto per pronunciarmi anche sulla credibilità della grande narrazione metafisica contenuta nell’antropologia filosofica e teologica di Rosmini. Che è innegabilmente ancorata, e fortemente ancorata, alla trascendenza, al riconoscimento della dimensione creaturale dell’uomo e della sua costitutiva relazione al divino, come sicuramente alla rivelazione cristiana è connessa la rilevanza antropologica in campo individuale, sociale, storico, attribuita da Rosmini alla presenza del peccato nel mondo e, specificamente, allo status naturae lapsae dell’uomo conseguente al peccato originale, sicché vide bene Pietro Piovani quando nel suo fondamentale contributo all’interpretazione del roveretano (contributo ancora oggi imprescindibile) ebbe ad affermare «c’è una rosminiana metafisica del genere umano, nella quale la dialettica della storia è scoperta dalla teodicea»1. E la teodicea rosminiana, come del resto tutta la teodicea moderna, è sempre Piovani a farlo notare, appare «più vicina di quella classica al mondo della storia e preoccupata anche del male sociale». Ma quale è lo sfondo metafisico su cui Rosmini proietta il dramma del male nella storia e in forza di cui egli ipotizza la sua risoluzione? Una analisi ontologica della “funzione di tutti gli esseri” imperniata sulla visione dell’essere ideale, dove converge il lascito del platonismo e dell’esemplarismo cristiano. Onde segue, proprio “in sede ontologica”, che «nessun essere è estraneo all’idealità dell’essere» e che «ogni essere, con quel tanto di idealità che possiede, cospira al fine ideale della superiore armonia, la quale, per dir così, più che essere prestabilita è continuamente stabilita, ricostituita dalla attività degli esseri, la cui 1
P. PIOVANI, La teodicea sociale di Rosmini, Padova 1957, 119.
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totalità concorre a mantenere integra quella assoluta idealità dell’essere che dalla parzialità provvisoria degli esseri viene offesa»2. Visione ad un tempo potente e rassicurante. Suggestiva e forse anche, oserei dire, vera, della stessa verità che io attribuisco al concetto di “sostanza invincibile della natura umana”, ma è credibile dall’uomo contemporaneo? Vi si può egli rispecchiare e riconoscere? Io non penso che il lato profetico e propositivo dell’indagine di Nietzsche riscuota oggi molto interesse. Penso, al contrario, che l’aspetto diagnostico del suo pensiero sia stato sufficientemente verificato e constatato, laddove esso rileva la refrattarietà dell’uomo occidentale a credere e ad affidarsi, in senso lato, alla trascendenza: quest’uomo vive nel tempo e per il tempo e non demanda ad un altrove di qualunque genere l’obiettivo della propria realizzazione; egli non crede, platonicamente, ad una duplice dimensione dell’essere, sensibile e intellegibile, finito e infinito, caduco ed eterno, imperfetto e perfetto, corruttibile e incorruttibile, transitorio e definitivo, contingente e necessario e, soprattutto, non crede alla subordinazione del primo al secondo. Quest’uomo è completamente votato alla Terra e, quando esprime un minimo di sensibilità morale, vuole essere “fedele alla Terra”. Rivolgere, quindi, a lui un discorso “vecchia maniera”, vale a dire una narrazione, un racconto improntato sostanzialmente al dualismo metafisico di ascendenza platonica, additargli, per riprendere Heidegger, una onto-teologia ispirata alla metafisica classica, annunciargli un cristianesimo pensato con le categorie del pensiero greco classico non può che lasciarlo indifferente, non tanto perché reputa favole tali narrazioni (non condivido in ciò la tesi di Nietzsche e le ipotesi ad essa imparentate), ma perché non le considera coinvolgenti, attendibili, non ritiene che queste fabulae de se ipso narrantur. Desidero, invece, menzionare adesso un altro elemento di disagio della coscienza europea contemporanea per illustrare concretamente come la riflessione di Rosmini, al contrario di quanto da me detto della sua narrazione metafisica, possa stimolarci efficacemente a ripensare la nostra condizione umana. Com’è noto, la modernità si profila nella tradizione della cultura occidentale con l’affermazione dell’auto2
Ibid., 20.
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nomia e della distinzione delle sfere di vita individuale e collettiva, autonomia del profano rispetto al sacro (secolarizzazione), autonomia e distinzione della politica dalla morale, dell’economia dalla morale e dalla politica, dell’ambito privato dall’ambito pubblico, della morale dal diritto e del diritto dalla morale, e via dicendo. A livello di ricerca teorica tale autonomia e distinzione ha implicato, senza dubbio, lo sforzo di un tenace approfondimento critico delle varie sfere e forme di vita e una loro razionalizzazione e schematizzazione sia sotto l’aspetto concettuale e dottrinale sia nella prospezione ed elaborazione dei principi teorici, dei fondamenti, dei presupposti razionali e delle categorie che dovrebbero chiarificarle e aprirle alla comprensione. Allo stato attuale, tuttavia, l’autonomia e la distinzione si sono trasformate in anarchia e proprio, mi sento di affermare, a causa di un deficit di elaborazione teorica e concettuale, di uno stacco dannoso tra vita e cultura: mancano, perché si è rinunciato stoltamente a pensarle, concezioni complessive e unitarie dell’umano, manca l’intento di riportare il molteplice dei vissuti individuali e collettivi ad un criterio di unificazione che restituisca alla spontaneità e accidentalità delle esperienze la tensione verso la costruzione di una identità ideale accettabile e globalmente gratificante; manca lo sforzo di connettere tra loro i vari ambiti di vita e coordinarli secondo una gerarchia di fini che tutti li rispetti e li valorizzi, senza provocare distorsioni e schizofrenie nella personalità; manca, cioè, lo sforzo di riportare le esperienze individuali e collettive ad una misura umana in se stessa e per se stessa desiderabile in quanto riconosciuta, e fondatamente riconosciuta, giusta. Onde, nella pratica quotidiana l’immediatezza dei bisogni e delle pulsioni si sostituisce alla mediazione della consapevolezza e della ragionevolezza: non si distingue il bene dall’utile o l’utile dal bene, non si distingue il vero dalle disposizioni e inclinazioni soggettive, non si distingue l’essenziale dall’accidentale, non si sottopongono gli interessi immediati e dispersivi della vita all’indispensabile disciplina di una scelta delle priorità da rispettare per non farla piombare nel caos totale. A ciò si deve aggiungere l’effetto perverso che su una cultura debilitata ha esercitato il fenomeno planetario della globalizzazione dell’economia, il quale, seppure ha permesso a milioni di uomini del terzo mondo la fuoriuscita dalla miseria, in Occidente ha
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dato un incentivo, di cui non si sentiva affatto la necessità all’ideologia del liberismo e portato acqua, sporca e putrida, al mulino del pensiero unico che proclama la bontà naturale dell’economia liberista. Onde il lavoro umano viene valutato e considerato non, come dovrebbe essere, fattore indispensabile alla realizzazione dell’individuo e strumento necessario ad ottenere una giusta gratificazione economica, ma semplicemente una variabile dipendente e totalmente subordinata alle ragioni del profitto; donde, l’ipertrofia e la pervasività del capitale finanziario nel circuito dell’economia globale e la scandalosa tolleranza della forbice che divarica il numero dei ricchi, decrescente, dal numero dei poveri, crescente. Rosmini, nella sua riconsiderazione antropologica e teologica della dimensione sociale dell’umano, nella sua riflessione sull’economia, sulla morale, sui mali della società e sui rimedi da opporre ad essi, nel suo ripensamento della politica e delle sue finalità, offre una visione superbamente unitaria dell’uomo e della sua destinazione più propria. Egli, a differenza di non pochi economisti e ideologi a lui contemporanei, non accetta alcuna forma di determinismo economico, alcuna esaltazione dell’indipendenza e dell’autosufficienza dell’economico rispetto alle altre dimensioni della vita collettiva; egli «crede che a combattere l’errore dell’economicismo, della concezione esclusivamente economica della vita, serva validamente la stessa economia, la quale non va confusa con le sue deformazioni»3. Questo sguardo contemporaneamente disincantato e partecipe sull’economico e soprattutto l’interesse filosofico, antropologico, teologico, per l’economico, nutrito appunto da pensatore e da credente dimostra a sufficienza che Rosmini prese a cuore i destini della Terra, come prese a cuore il confronto aperto e spregiudicato con la cultura illuminista, col pensiero moderno nelle sue propaggini empiriste e razionaliste, con la modernità in genere. Oggi, di tale immenso lavorio, anziché ricordare la sua prodigiosa capacità “sistemica” esibita nell’indagine antropologica si ricorda spesso la sua critica spietata al perfettismo e la si contrappone, con qualche buona ragione, ad ogni ideologia che promette la palingenesi totale dell’umano approdando inevitabil3
Ibid., 108.
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mente alla repressione e alla violenza sull’uomo stesso. Un po’ meno, credo, possa e debba servire tale critica a giustificare il gradualismo riformista del pensiero liberale. Rosmini, infatti, mette capo alla demolizione del perfettismo perché ha di mira le versioni plurime del socialismo utopico del primo Ottocento. Invocare la sua motivata requisitoria contro il pensiero utopico nella situazione attuale, in un momento in cui non abbiamo bisogno più di spegnere eccessi di frenesie ideologiche ormai svanite, bensì di pensiero critico e, perché no, di pensiero utopico, per contestare l’esistente e l’inerzia, la rassegnazione di fronte all’esistente, tirare in ballo l’antiperfettismo rosminiano mi sembra proprio operazione inutile e dannosa. Come, se mi è consentito dirlo, non serve neppure riprendere gli accenti del suo cattolicesimo liberale, all’avanguardia per la sua epoca, difficilmente riproponibile al presente, poiché, stante l’inerzia e la rassegnazione di fronte alle distorsioni dell’esistente, non di solo accordo tra le conquiste dell’illuminismo e dell’umanesimo cristiano abbiamo bisogno (che già sarebbe un gran traguardo), bensì della scossa benefica e di una ripresa del radicalismo cristiano, o di un cristianesimo radicale. Di esso è il proclama che “passa la figura di questo mondo”, ad esso appartiene la rivelazione (apocalisse) che ogni mondo umano contrassegnato dall’ingiustizia è, nonostante l’apparenza di perpetuità e irremovibilità, destinato alla sua fine e votato alla distruzione, in esso risuona l’imperativo che questo mondo, ogni mondo umano deve essere giudicato e contestato a misura della sua lontananza dallo statuto della giustizia. Il lasciarsi alle spalle le certezze fondazioniste della metafisica classica imposto da una mutata sensibilità umana potrà tradursi, allora, in un rilancio di opportunità per il pensiero se si comincerà a ripensare alla trascendenza e al trascendente non più come ad una polizza di assicurazione sugli incerti della vita, ma come alla vicina lontananza o lontana vicinanza di un Qualcuno che invita continuamente all’esodo dal legno storto della nostra umanità e dalla “pessima” figura o configurazione di questo mondo, di un Qualcuno che custodisce per l’eterno il nostro sogno umano di compiutezza e compimento. Solo così filosofia e teologia saranno in grado di proporre di nuovo narrazioni convincenti all’uomo europeo e la “passione per la Terra” da cui l’uomo europeo si sente totalmente
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afferrato, purificata dalla volontà di dominio, potrà non essere né ostile né incompatibile con l’autentica passione per il divino. Purché la passione per la terra sia disposta a prelevare dalla “passione per il divino” l’essenza che le è propria, ovvero l’attitudine a custodire e promuovere l’essere e la vita stessa.
ROSMINI E IL FONDAMENTO DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
UMBERTO MURATORE*
1. ALLE RADICI DELL’ANTROPOLOGIA ODIERNA Per saggiare la portata e la coerenza del discorso rosminiano sull’uomo, forse diventa utile ricordare da dove egli è partito ed a quali lacune si augurava di venire incontro coi suoi scritti. Nella Logica Rosmini fa risalire il processo di rovesciamento di prospettiva nello studio dell’uomo ai primi secoli del pensiero moderno. Uno dei più alti esponenti di questo cambiamento è l’inglese Francesco Bacone (Londra 1561-1626). Ci troviamo in un periodo, nel quale il pensiero riflesso o discorso sull’uomo, favorito dalle prime risposte positive che gli giungono dai nuovi campi di indagine, va spostandosi lentamente dall’interno all’esterno. Invece di scavare in interiore homine, il filosofo si rivolge all’esterno dell’uomo, alla natura che circonda l’uomo, alle potenzialità innate del mondo fisico e chimico, ai vantaggi che ne vengono ove si conoscano meglio le leggi dell’universo. È il temporis partus masculus (parto mascolino del secolo), cioè la nascita di un novum organum o nuovo strumento di interpretazione della natura, che ci permetterà di sbarazzarci degli idola del passato (idola tribus, specus, fori, theatri) e di munirci di nuove tabelle scientifiche (tabulae presentiae, absentiae,
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Direttore del Centro internazionale di Studi rosminiani.
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graduum), le quali ci avrebbero condotti ad una buona vendemmia o accumulo di vantaggi. Questa attenzione rivolta alla natura ed alle sue leggi, che in Bacone compie i primi passi ma sarà poi sempre più perfezionata (basti pensare già agli apporti nuovi del nostro Galileo Galilei, di soli tre anni più giovane di Bacone), di per sé era auspicabile, perché complementare alla ricerca precedente e veniva a coprire una lacuna. L’errore dunque non fu farla nascere o svilupparla. Fu invece lasciarsi prendere da un tale entusiasmo verso questo genere di ricerca, che non solo ci si dimenticò della filosofia precedente, ma si cominciò subito a maltrattarla, a coprirla di insulti e di ironie. Di due discipline sorelle, come era giusto fossero la filosofia e la scienza, se ne fece sorelle rivali: la scienza negò cittadinanza alla filosofia ed alla logica metafisica del passato e assorbì a sé anche il titolo di filosofia. Da allora, la metafisica, un tempo ritenuta la regina delle scienze, divenne nell’immaginario di questi filosofi una serva inutile perché sterile, il risus philosophorum. Le conseguenze che ne vennero da questo squilibrio iniziale furono funeste per la comprensione dell’uomo e soprattutto per le fondamenta che la sostenevano. La ricerca scientifica, privata del centro che avrebbe dovuto avere la funzione di coordinamento e di senso delle proporzioni, si sviluppò in ordine sparso. Le varie scienze, più si sviluppavano e creavano altri rami, più perdevano il senso di parentela che le legava tra loro ed alla madre comune, che avrebbe dovuto pur sempre essere l’intelligenza e la volontà umana. Come può capitare ad un gruppo di stelle che si allontanano sempre più dal nucleo originario comune e tra di loro. Da qui ancora, la momentanea infatuazione per qualche scienza alla quale si attribuiva momentaneamente il ruolo di salvatrice dell’uomo, lo smarrimento man mano che la disciplina in cui si credeva risultava impari al suo compito. Si giunse per queste vie ai nostri tempi, nei quali anche l’entusiasmo per la natura e l’esterno dell’uomo vennero a scomparire, si negò all’intelligenza la capacità di dirci la verità circa il senso dell’uomo, alla volontà la capacità di trovare un bene stabile che valga la pena amare. Un approdo cui si è potuto giungere per aver smarrito il centro comune da cui le varie
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scienze partivano, e col centro anche il grado di parentela che le univa in un’unica famiglia. Alle summae medioevali, che questo centro lo mantenevano, si sono sostituite le enciclopedie, cioè la distribuzione non più secondo un ordine che salvava insieme l’unità e la diversità, ma si preoccupava di mantenere un ordine solo utilitario, quello alfabetico. Le stesse università, che erano nate col proposito di convogliare la molteplicità verso l’unità (universitas: i molti che confluiscono nell’uno), cominciarono a coltivare le varie scienze in autonomia, cioè in isolamento l’una dall’altra. La filosofia moderna, scrive ancora Rosmini nel Trattato della coscienza morale, assieme alla perdita del centro dell’uomo per troppa attenzione riservata alla periferia, venne col tempo anche a perdere il giusto equilibrio di rapporto tra il soggetto uomo ed il suo oggetto. Infatti quasi tutta la cultura antica e medievale aveva come centro ordinatore delle sue ricerche il cielo oggettivo dei valori e delle verità intorno alle quali doveva girare l’esistenza umana. L’uomo veniva studiato in funzione di Dio e dei valori e delle verità che lo avrebbero tenuto in comunione con Dio. Le filosofie di Agostino e di Tommaso sono prima di tutto teologie, perché il loro pensiero fisso era conoscere bene Dio per presentarlo all’uomo affinché vi si adeguasse. Col pensiero moderno, sempre più l’attenzione si venne spostando non verso l’oggetto al quale era chiamato il soggetto uomo, ma alle condizioni esistenziali del soggetto che era chiamato a compiere quei doveri. Di conseguenza si moltiplicarono gli studi di psicologia, sociologia, stato soggettivo dell’uomo. Ad esempio, Cartesio nel Discorso sul metodo non parte più dai principi primi di conoscenza insiti nell’uomo, ma dalla possibilità dell’uomo singolo di accedere a quei principi. Le basi non si cercano più nella luce che splende all’interno dell’uomo, ma nello stato esistenziale dell’Io penso. Non l’oggetto pensato, ma l’io che pensa. Ugualmente Loke, Hume, Kant, Fichte hanno voluto studiare le facoltà umane (intelletto, ragione, sensi) invece della essenza oggetto del conoscere. Anche qui, per Rosmini si trattava di una nuova conquista del sapere, quindi di un passo avanti nella conoscenza dell’uomo. L’errore si insinuò nell’aver creduto che questo nuovo settore d’indagine avrebbe potuto sostituire o assorbire i valori della precedente antro-
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pologia. Ci si concentrò decisamente sull’uomo soggetto, sui suoi stati d’animo, sul suo modo di accedere alla conoscenza. La verità oggettiva (tenuta costantemente in un cono d’ombra) finì con l’essere creduta una produzione umana, il bene oggettivo una realtà non raggiungibile scientificamente, Dio un essere di cui non si poteva dimostrare teoreticamente neppure l’esistenza (Kant), l’unica verità concessa all’uomo solo fenomenica (il trascendentale kantiano). Gli entusiasmi kantiani dell’intelletto umano legislatore, che avrebbe dovuto osare ancora di più (sapere aude: abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza), dopo le esaltanti posizioni dell’idealismo e del positivismo, si accasciarono sempre di più verso posizioni più modeste, sino al nichilismo e relativismo odierno. Si comprende, da queste brevi analisi, perché Rosmini nella Introduzione alla filosofia ponga il soggettivismo come la principale causa dello squilibrio odierno del pensiero riflesso riguardo alla conoscenza dell’uomo. Soggettivismo per lui significava ridurre tutto al soggetto uomo, chiudersi sia all’oggetto presente nell’uomo, sia al trascendente cui l’oggetto rimanda. Fuga verso il mondo che taglia le radici dell’essere, rifugio nel soggetto che dimentica l’oggetto. Sono due vie che hanno a loro volta una sola radice: il pregiudizio sensista di partire comunque dall’esperienza dei sensi e di non prendere neppure in considerazione la possibilità che potesse esserci qualcosa di oggettivo e innato all’interno dell’uomo. Fondare l’antropologia su basi troppo ristrette costituisce una lacuna filosofica che si paga sempre più cara, man mano che il pensiero si espande. Nel pensiero antico lo sbilanciamento verso l’oggetto o valore ontologico perenne che abitava l’uomo, aveva portato ad un’ingiustizia verso il soggetto e le sue esigenze. L’amore per la verità, per Dio, per il bene oggettivo finivano col dimenticarsi della fragilità e provvisorietà del soggetto che doveva aderirvi. Nel pensiero moderno, al contrario, l’attenzione esagerata verso il soggetto ha finito col rendere tutto dovuto alla soggettività umana. Così, progressivamente, il diritto finì col prevalere sul dovere, l’emozione sulla saggezza, la precarietà sulla fedeltà, la temporalità sulla perennità, i pezzettini di senso sul senso globale della vita, l’utilità sulla giustizia, la vita terrena sulla vita eterna.
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2. IL CONTRIBUTO DI ROSMINI È all’interno di queste chiavi di lettura dell’uomo, esaltate dai filoni sinora prevalenti del pensiero moderno, che va collocato l’intervento filosofico di Rosmini. La sua è un’opera non di ripulsa delle conquiste legittime della modernità, ma insieme di riconoscimento dei loro meriti legittimi e di smascheramento dei loro abusi, delle loro prevaricazioni. Egli già dalla sua prima opera fondamentale, che è il Nuovo Saggio, si rende conto che il soggettivismo, cioè la tendenza a ridurre tutto alla soggettività dell’uomo, dai sensi si stava spostando nella testa, cioè nel modo di pensare, e dalla testa era penetrato nel cuore, cioè nel comportamento. La filosofia aveva contagiato anche le altre discipline, sicché già ai suoi tempi egli denunciava abbondanti guasti nella letteratura, nella medicina, nella pedagogia, nel diritto, nell’etica, ecc. Il guasto principale stava nel fatto che non si ragionava più sull’uomo integro, ma su una parte dell’uomo quasi fosse il tutto. Ne veniva fuori un profilo di uomo “azzoppato”, “squilibrato”, pendente da una sola parte che, a sua volta, non era neanche qualitativamente la parte migliore dell’uomo. Forte di queste analisi, che gli fornivano lo stato di malattia dell’antropologia moderna, Rosmini inizia a filosofare col proposito di riconquistare l’unitotalità della visione dell’essere (Opuscoli politici) in generale, la integralità dell’uomo in particolare. E per adempiere a tale compito si affida alle due armi principali del metodo filosofico: l’esperienza (interiore ed esteriore) e la riflessione sull’esperienza. Per non fare poi un discorso astratto e avulso dai tempi, parte da ciò che era il problema del secolo: il problema della conoscenza. Il Nuovo Saggio sull’origine delle idee è il frutto di questa prima indagine antropologica. Attraverso una complessa serie di analisi e di sintesi, che si misura costantemente con i principali pensatori antichi e contemporanei, egli giunge a dimostrare che all’origine della conoscenza umana sta come fondamento la visione o idea di un essere la cui essenza è proprio quella di essere intelligibile e trascendente l’uomo. Per cui il principio assoluto della conoscenza umana sta proprio in un matrimonio tra il soggetto uomo e la presenza all’interno dell’uomo
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di un oggetto ideale. La natura di questo oggetto è tale, che non può avere origine dal soggetto, perché l’oggetto a cui il soggetto guarda è un ente ideale, eterno, immutabile, semplice, immune da errore. Le qualità dell’oggetto-essere sono più simili a Dio che al soggetto. Per cui, pur non essendo Dio, il quale è persona mentre qui ci troviamo davanti un ente ideale, l’essere intelligibile di cui l’uomo ha la visione si può chiamare divino e costituisce il divino nella natura (titolo di un’opera), cioè la parte trascendente l’uomo che pur si trova nell’uomo e lo costituisce intelligente. Con questa ricerca e queste conclusioni Rosmini riscopre il primo fondamento solido dell’antropologia che il pensiero moderno ormai andava smarrendo. L’uomo riappare nella luce di un soggetto abitato da sempre dall’essere-verità che lo costituisce uomo, lo illumina, gli garantisce l’oggettività del sapere. L’oggettività, a sua volta, non assorbe in sé la soggettività, perché la soggettività ha la sua base in un reale che viene chiamato sentimento fondamentale o sostanziale corporeo. Il sentimento diventa complementare all’essere intelligibile veduto nell’idea: esso è indispensabile, perché in quell’idea dell’essere virtualmente infinita, contribuisce a portare tramite l’esperienza le definizioni degli enti. Come se l’uomo con la sola idea dell’essere vedesse tutta la verità, ma indefinita, un cielo azzurro senza distinzioni; mentre con l’aiuto del sentimento il suo intelletto potrà in quel cielo vedere i singoli enti che egli viene scoprendo. Il sentimento, inoltre, per sua natura limitato come strumento di esperienza di un universo infinito, porterà alla luce dell’intelligenza solo frammenti di verità ed offrirà il lato della realtà che sperimenta. Sfugge dunque all’uomo sia la conoscenza definita di tutte le cose dell’universo (limitazione che giustifica l’ignoranza dell’uomo), sia la conoscenza piena o integrale delle cose che sperimenta (limitazione che giustifica la parte sana del relativismo). 3. L’IDEA COME ANNUNCIO DI TRASCENDENZA L’analisi dell’essere intelligibile, che si lascia vedere nella prima idea dell’uomo, porta ad un altro fondamento importante: la creatura umana può in modo riflesso risalire con coerenza logica alla notizia
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dell’esistenza di Dio. Infatti l’essere di cui l’uomo ha la visione è un ente infinito ideale, cioè un’idea. L’ente ideale, a sua volta, non può esistere se non diventa espressione di una mente reale. Ma l’infinità, l’oggettività, la semplicità ecc. di questa idea prima non possono renderla figlia della mente umana, che non possiede queste qualità superiori. Bisogna dunque ammettere che l’essere ideale abbia la sua origine nella mente stessa di Dio. L’a-priori trascendentale kantiano in Rosmini diventa un a-priori oggettivo: ci fa conoscere le cose non al modo con cui l’intelletto è obbligato a conoscere i fenomeni, ma in un modo oggettivo, e proprio la fondazione di questa interiorità oggettiva esige che si vada dall’Io trascendentale kantiano alla mente reale assoluta di Dio. Da qui la conseguenza che l’uomo, qualunque uomo, è radicalmente fondato nella trascendenza. Esiste un legame creaturale tra l’uomo e Dio che niente potrà spezzare. Esiste nell’idea dell’essere una eco di Dio che è come il crepuscolo, la luce aurorale annunciante il sole. Con questa importante conquista Rosmini recupera lo sguardo sull’uomo che era stato fornito dalla filosofia antica e medioevale. Per citare solo alcuni esponenti della tradizione filosofica cristiana: l’illuminazione interiore agostiniana, la prova ontologica di Anselmo, l’itinerarium mentis in Deum bonaventuriano, l’uomo “orizzonte” di Tommaso. Ricevono anche luce fresca espressioni bibliche quali: nella tua luce vediamo la luce, la luce che illumina ogni uomo, l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. La via interiore, recuperata e perfezionata da Rosmini, per giungere alla notizia dell’esistenza di Dio, non esclude comunque l’altra via privilegiata da Tommaso, quella a-posteriori che parte dall’effetto esterno per giungere alla Causa Prima. Vuole solo mettere in evidenza la consistenza della visione dell’uomo quale capax Dei, cioè creato con una finestra originaria già esposta alla luce divina e pronta ad accogliere la rivelazione. Tuttavia, la luce interiore aperta alla notizia e comunicazione con Dio non porta l’uomo a poter vedere Dio nella sua essenza. Questa limitazione rende impossibile all’intelletto “vedere” che cosa capita all’interno di Dio. In particolare gli rende impossibile vedere l’atto
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della creazione, un atto i cui effetti si vedono all’esterno di Dio, ma che è compiuto all’interno della Trinità, e come tale resta invisibile. Ora la creazione è il primo anello che congiunge l’universo a Dio. Il fatto che alla riflessione del filosofo questo primo anello manchi, fa ritenere che anche nel nichilismo vi è un nucleo di verità: su questo punto dobbiamo riconoscere di non avere notizie esaurienti. Ma siccome si tratta di un’ammissione che costa al filosofo, il quale finisce col convincersi di poter ragionare su tutto, questo stesso fatto può portare alcuni pensatori ad inventarsi con la ragione ciò che non possono ricevere dall’esperienza. Da qui le teorie creazionistiche dell’idelismo tedesco (Io fichtiano, natura e spirito schellinghiano, spirito hegeliano), teorie che denunciano più un eccesso di immaginazione che una corretta logica filosofica. 4. IL BENE MORALE Una volta assicurata all’uomo la presenza perenne della verità in lui, e la possibilità di definirne i particolari all’indefinito attraverso l’esperienza esistenziale, Rosmini sposta l’indagine sull’altro fondamento dell’uomo, il bene. È il discorso etico, che inizia con l’opera Principi della scienza morale e prosegue poi con le due Antropologie (in servizio della scienza morale e soprannaturale) per concludere infine con la Psicologia. Con queste ricerche egli rivendica all’uomo la possibilità di accedere ad un bene che non sia solo soggettivo, ma anche oggettivo, cioè che abbia la stesa consistenza della verità. Egli aveva presente la soluzione kantiana, che sosteneva il bene morale essere solo giustificato dalla ragione pratica ma non dalla ragione speculativa. Kant non poteva concludere diversamente, perché si era pregiudicata la libertà di indagine con le tesi della Critica della ragion pura: se l’intelletto non poteva accedere al noumeno, non era in grado di indicare all’uomo il sentiero di come procurarsi il bene in sé. Invece l’idea rosminiana dell’essere, che era luce in grado di farci conoscere gli enti nella loro essenza, poteva indicare all’uomo che cosa era bene per lui. L’essere intelligibile, visto sotto l’aspetto di rivelatore del bene degli enti, acquista una luce nuova, quella di essere legge per
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l’uomo. Entro l’essere stesso che l’uomo vede, c’è l’esigenza di riconoscere lui stesso e tutto ciò che egli ci fa vedere. Da qui la base etica per l’uomo: l’essere ideale si trasforma in imperativo categorico, legge fondamentale o principio di scienza morale che comanda alla volontà di ogni individuo: Riconosci ogni ente per quello che è. C’è dunque una legge interiore di bontà oggettiva, legge ideale che ha radice nella verità, che mostra ad ogni uomo la via da seguire per mantenersi giusto. Questa legge non può essere soggettiva, cambiante secondo la cultura e le passioni soggettive dei tempi, perché radicata nella stesso oggettività ideale della verità che abita l’uomo. Il riconoscimento dell’oggettività della morale è un riportare l’equilibrio all’interno dell’uomo. Ciò però non significa che Rosmini rinneghi le esigenze dell’altro polo umano, quello della soggettività. E che egli sia sensibile a riconoscere gli sviluppi di quest’altro polo lo dimostrano proprio le opere citate, nelle quali cerca di indagare le debolezze della natura umana, dei suoi impulsi, dei complessi giochi della coscienza riflessa, delle resistenze delle pulsioni: tutte condizioni esistenziali che limitano la libertà umana, rendendola fallibile non solo per malizia ma anche per ignoranza e per mancanza oggettiva di forze intellettive e volitive. Direi che proprio la sensibilità di Rosmini a tenere compresenti, nella sua visione dell’uomo, i due poli dell’oggettività e della soggettività, fanno di lui un educatore e formatore esemplare. Le esigenze dell’oggetto danno alla sua dottrina pedagogica il carattere della fermezza, dei valori quali la verità e la bontà oggettive che non sono negoziabili. Mentre le altrettante esigenze della soggettività della creatura umana le danno il carattere della mitezza, della pazienza. L’uomo dunque fallibile per i suoi limiti, ma perfezionabile per le sue potenzialità. L’uomo consapevole di un destino difficile e arduo da raggiungere, ma che non rinuncia a rialzarsi dalle sue cadute, per continuare l’ascesa verso le altezze assegnategli. 5. LA FELICITÀ Oltre che essere abitato dall’essere verità, oltre che possedere una legge morale che lo spinge verso il bene oggettivo, l’uomo possiede in
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sé un istinto sensibile e volitivo che lo spinge verso il godimento. C’è un godimento dei sensi che porta spontaneamente verso il piacere sensibile, e c’è un godimento della volontà che porta verso il bene intellettuale oggettivo. Quest’ultimo, quando è abbracciato liberamente e consapevolmente dalla volontà, costituisce il frutto maturo del comportamento morale responsabile. Esso non esclude il piacere soggettivo, ma lo ordina e lo mantiene nei suoi limiti legittimi, in modo che possa essere convogliato verso il godimento oggettivo. La gioia che nasce dalla virtù è una primizia di quella che poi sarà la beatitudine o felicità piena nel regno dei cieli. L’uomo ne ha diritto, perché egli è sentimento, quindi vita, accumulo progressivo di essere. Per cui il suo cammino sulla terra diventa anche un cammino progressivo verso la felicità piena. Sulla felicità come diritto dell’uomo Rosmini ha delle pagine molto belle in quasi tutte le sue opere. Per lui il “godimento” dello spirito è un’esigenza della quale non si può privare l’uomo. Però bisogna stare attenti, perché il sensismo e l’utilitarismo possono deviare nell’uomo questa ricerca della propria felicità, ponendogli dei bersagli falsi: cosa molto facile, perché la felicità è una meta che viene posta sempre davanti all’uomo sotto forma di promessa, di bene da raggiungere, di oggetto non ancora posseduto e del quale non si ha ancora esperienza. Vediamo allora un Rosmini che nelle sue opere mette in guardia, ad esempio, da un Ugo Foscolo, maestro esemplare di quanti, come il contemporaneo di Rosmini Giacomo Leopardi, sostenevano che la felicità era una illusione necessaria all’uomo. Rosmini, contro costoro, rivendica per l’uomo un diritto reale alla felicità, un bisogno non ingannevole ma sincero della natura umana. Invece di una pia illusione per lui il bisogno di felicità è un altro segnale sia di una felicità perduta per la quale si mantiene viva la nostalgia (e in questo ricorda Biagio Pascal), sia della incompletezza dell’uomo in cerca di perfezionamento. Ancora vive sono le pagine di Rosmini contro i rappresentanti di un’altra cattiva dottrina, quella dell’utilitarismo. Questi ultimi, figli a loro volta del soggettivismo, tendevano ad assorbire la felicità che viene dal riconoscimento del bene oggettivo, in quella sottospecie di
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felicità che invece incontriamo nel soggetto uomo, sotto forma di godimento dei sensi e dell’utile. Ancora negli scritti di Politica da un lato ricorda ai governatori che l’appagamento dei cittadini è un segnale efficace di buon governo, dall’altro li invita a non sviare il desiderio di felicità dei cittadini verso beni che questa felicità non la possono dare. Sul lato opposto, egli si stacca dalla concezione kantiana che la coltivazione della virtù o bene oggettivo debba perseguirsi al di fuori del godimento soggettivo. Quest’ultimo, come abbiamo visto, è legittimo nella misura in cui si conforma al bene oggettivo. Infine, nella Teodicea e nella Teosofia, si spinge a descrivere la felicità dei beati nel cielo, quando l’uomo diventa finalmente bellezza microcosmica e plaude con la sua intelligenza all’intelligenza potente e buona di Dio. 6. IL BENE RELIGIOSO La tendenza naturale e legittima dell’uomo verso la verità, il bene e la felicità, così chiare per chiunque studi la creatura intelligente senza pregiudizi o passioni, deve tuttavia fare i conti con interferenze altrettanto naturali che lo spingono da altre parti e comunque disturbano quotidianamente il suo percorso. Come se un torrente incontrasse durante il suo percorso delle frane e dei massi che tentano di bloccare o di deviare il suo scendere tranquillo. La presenza di queste perturbazioni, e della loro insormontabilità con le sole forze naturali (Kant li raccoglieva col termine male radicale) ci segnala uno squilibrio della natura umana che non è stavolta solo culturale, ma naturale. In sostanza, l’uomo avverte in sé un destino che la legge morale gli impone di raggiungere, ma per la cui realizzazione gli mancano le forze sufficienti. Per cui si può trovare, come san Paolo, a fare il male mentre vorrebbe il bene. È la dottrina pascaliana della miseria dell’uomo, dell’uomo miserabile. Per superare questa impotenza Rosmini, in armonia con la tradizione cristiana, apre il discorso sulla Rivelazione. All’antropologia naturale aggiunge un’antropologia soprannaturale (titolo di un libro). Discorso nuovo per la filosofia moderna, ma necessario proprio per
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riportare questa filosofia sotto l’orizzonte reale della situazione esistenziale. Ostinarsi ad ignorare la visione teologica dell’uomo, pensare di poter emanciparsi da essa, comporta il rischio altissimo di darci visioni dell’uomo che per forza rimangono astratte, parziali, troppo anguste. Forse un tempo si era mancato a tenere conto dell’uomo naturale, ma oggi si sbaglia dal polo opposto nel pretendere che possa esserci una filosofia dell’uomo avulsa dalla teologia. La rosminiana antropologia soprannaturale fa proprio leva sull’impotenza congenita dell’uomo a raggiungere il destino cui è chiamato, descrivendo l’intervento diretto di Dio teso a sbloccargli la salita verso la perfezione. Dio interviene per innestare nell’intelligenza dell’uomo la luce della grazia, e nella volontà l’istinto dello Spirito Santo. Tra gli effetti di questi doni vi è un tale potenziamento delle capacità intellettuali e volitive, da farne un uomo nuovo. Con l’aiuto della grazia gli ostacoli rimangono, ma non sono più invincibili. Anzi, con la nuova luce di verità e col nuovo fuoco di carità l’intelletto e la volontà ricevono un’acutezza ed un ardire tale, da dar vita a scoperte e ad azioni prima impensabili. Rosmini è convinto che siano stati proprio questi doni nuovi a dare ai popoli cristiani uno slancio inarrestabile anche nel campo puramente terreno: fiorire di scoperte geografiche, scienze e tecniche nuove, astronomia, penetrazione nei segreti più intimi della natura, coraggio e tenacia nel perseguire gli ideali, ecc. Tutto divenne possibile, perché l’esperienza della comunione con la grazia di Dio diede all’uomo la gradevole sensazione che alle sue potenzialità contratte ora si offriva un campo indefinito, quello della storia e della scienza, sul quale esercitarsi in libertà che prometteva di venirne a capo. La stessa visione di un cielo oltre il cielo terreno, possibile dopo che Cristo ha sconfitto per noi la morte e dato un senso superiore alle fatiche ed alle sofferenze, diede all’uomo la convinzione che con l’aiuto di Dio tutto diventava possibile. Si poteva d’ora in poi volare sulle ali di aquila, scaldare i muscoli delle potenzialità umane in ogni settore. Ora si capiva meglio perché Dio, creando l’uomo, lo ha costituito re dell’universo ed ha messo ogni cosa sotto il suo governo. È grazie alla nuova consapevolezza apportata dal cristianesimo,
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scrive Rosmini nella Filosofia della politica e nella Filosofia del diritto, che i popoli dell’ellenismo e del basso impero romano hanno potuto rialzarsi dalla loro condizione morale con la convinzione di potercela fare. Sono queste novità che hanno gettato nuova luce sulla dignità della persona umana, preparando sotto la cenere durante il medioevo il fuoco delle democrazie liberali. È ancora grazie al vento del cristianesimo che le civiltà possono interrompere e invertire in ogni momento l’andamento ciclico naturale che le vede nascere fiorire e morire. Infine si deve al nuovo uomo cristiano la forza di volontà per mantenersi fedeli e perseveranti in convivenze altrimenti molto fragili quali il matrimonio, la vita sacerdotale, la vita consacrata. Riflessioni di questo genere, continua Rosmini, dovrebbero mettere in guardia i contemporanei a non guardare con sufficienza verso la religione, quasi come una dottrina che all’uomo ormai possa dire poco o niente. Essi si stanno nutrendo dei frutti di quell’albero, e sarebbe insensato tagliare l’albero solo perché al momento hanno di che mangiare. Come uccidere la mucca che ci va fornendo il latte, estinguere alla fonte il ruscello dal quale beviamo a valle. 7. PROFILO DELL’UOMO ROSMINIANO Vorrei terminare col tentativo di tracciare, come in una sintesi, un breve profilo dell’uomo, quale risulta dalla visione rosminiana. L’uomo dunque nasce con tre semi di bene: un intelletto reale con la visione della verità intera ma indefinita; una volontà aperta al bene in generale ma ancora non posseduto; un sentimento vitale in cerca di vita da incorporare. Questi tre minuscoli semi sono già di per se stessi aperti all’essere che è fuori di loro: come degli archi tesi che chiedono di scoccare la freccia. Sono le basi che lo spingono a uscire da se stesso ed a mettersi in comunicazione (oggi si direbbe in rapporto relazionale) con l’ente finito e infinito che sta fuori o sopra di lui Queste tre potenzialità fondamentali conservano in lui, sempre, la spinta originaria verso, rispettivamente, la verità, la virtù o bene oggettivo, la felicità. Per cui l’uomo è radicalmente esposizione, comunione, dialogo permanente col mondo; ma anche dinamicità, perché in continua costruzione e formazione.
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A dirigere l’individuo verso la propria perfezione è la libertà, una forza reale che ha luogo nella volontà ed ha il compito di convogliare e ordinare tutte le potenze dell’uomo verso un obiettivo comune a tutto l’individuo. La libertà non si manifesta subito nell’uomo, perché per agire egli ha bisogno di calcolare gli effetti della sua azione e misurare i singoli atti in rapporto al fine che si propone. Non si nasce dunque liberi, ma lo si diventa. Inizierà a funzionare in lui nel momento in cui avrà l’uso della ragione, cioè la capacità di riflettere e valutare ciò che fa. Tutto filerebbe liscio se la libertà, una volta conquistata, fosse in grado di comandare senza resistenze a tutte le potenze interne all’uomo: senso, istinto, immaginazione, intelletto, ragione. Invece egli fa presto l’esperienza di essere un “guazzabuglio” (Manzoni), dove ogni facoltà spinge a colmare le sue esigenze senza riguardo alle esigenze di altre facoltà. Dovrà dunque agire con vigilanza, come chi si trova al timone della nave durante la tempesta; con obiettività, cioè senza lasciarsi trascinare dalle lusinghe di qualche facoltà; con giustizia, cioè donando a ciascuno il suo senza indulgenze o arbitrio. Ad aiutarla in questo difficile compito vi è la coscienza, che se mantenuta pulita sa dirle se è bene o male ciò che sceglie. La libertà dunque vive nell’uomo come un equilibrio dinamico, per conservare il quale bisogna agire e vigilare. Come stare in bicicletta. Presto però la libertà farà un’altra imprevista scoperta. Sperimenterà i suoi stessi limiti. Si accorgerà, ad esempio, che è soggetta a lasciarsi prendere dalla fretta, soprattutto in momenti di urgenza, finendo con l’agire in modo non conforme a quanto era giusto. Altre volte la sua scelta è stata condizionata dall’astuzia di qualche facoltà, che le ha fatto credere giusto ciò che invece non lo era. In altre azioni la ragione non è stata così matura da farle presente gli effetti perversi di un’azione che invece credeva buona. Ma soprattutto scoprirà la cosa più amara: essa non è in grado di compiere sempre ciò che pur vorrebbe. Si trova cioè a fare il male pur volendo il bene. Una situazione esistenziale che tutti continuiamo a provare e che ci porta a pentirci, a fare propositi per il futuro, a commettere sempre gli stessi tipi di peccato. Quest’ultima consapevolezza la metterebbe nella disperazione di
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non poter stare all’altezza degli imperativi interiori a lei impartiti, e quindi nella tentazione di gettare la spugna e di accodarsi volta per volta alla facoltà prevalente. A toglierla da tale situazione interviene il soccorso della grazia. La grazia o bene soprannaturale non le toglie il comando, non cambia la legge morale, non fa rinsavire le facoltà. Essa si limita a dare maggior luce all’intelletto che a sua volta porge queste verità alla ragione, e maggior forza alla volontà, che così si trova in grado di far rispettare i suoi comandi. Offre cioè alla libertà gli strumenti di poter mantenere il controllo e la supremazia su tutto l’uomo. Ma sarà sempre la libertà a dover decidere e scegliere che cosa fare. Resta nelle sue mani la salvezza o perdizione dell’uomo. Perché la volontà possa giovarsi dell’aiuto della grazia, dovrà accettarlo aderendovi con la fede (che è poi un fidarsi di Dio). Per accettarlo dovrà riconoscere la propria insufficienza (considerarsi povera di spirito, cioè di salvezza) e contribuire concretamente nel vissuto alle indicazioni che la grazia le mette a disposizione. Scortata dalle luci della ragione e della grazia (scienza e fede), ogni persona potrà compiere, se lo vuole, un cammino esistenziale che è itinerario di crescente perfezione, e bussare da “sapiente” alle porte dell’eterno, dove potrà congiungersi al Creatore dal quale era partito. Si può raccogliere questo breve profilo in una delle più belle definizioni che Rosmini dà dell’uomo nell’opera Teosofia: l’uomo è una potenza, l’ultimo atto della quale consiste nel ricongiungersi a Dio per intelligenza amativa. L’intelligenza amativa è la parte migliore della persona umana: è l’intelletto che tramite la ragione riflessiva o consapevole sfocia nell’amore, il quale a sua volta si esteriorizza nell’azione. Sicché, conclude Rosmini, quello che l’intelletto vede, il cuore senta e l’opera manifesti. Intelletto, volontà, azione impegnati in un cammino sapienziale. Abbiamo qui l’integralità essenziale della persona umana, l’uomo che da seme e promessa di vita diventa passo dopo passo albero sapiente e ricco di frutti.
ROSMINI E LA VISIONE INTEGRALE DELL’UOMO*
LINO PRENNA**
1. RIUNIRE L’UOMO, “MISERAMENTE AMMEZZATO” È acquisizione condivisa, da parte degli studiosi, che la “lettura” del pensiero di un autore non possa prescindere dalla genesi storica, dalla temperie culturale e dalla progressiva elaborazione che ne scandisce lo sviluppo: è un principio di cautela e quasi di prudenza intellettuale che vale, in modo particolare, per Rosmini, la cui opera, pur disseminata in tanti scritti e definita nell’impianto strutturale di articolazione, risulta di fatto incompiuta e non definitiva. D’altra parte, la diversità delle materie trattate, la mobilità del vocabolario adottato per nominarle, l’attitudine analitica e quasi dispersiva del “prete roveretano” possono favorire letture parziali e riduttive, inadeguate a cogliere l’unità complessa dell’opus rosminiano. Ricordo appena che Rosmini stesso stabilisce, sin dagli scritti giovanili, quali “caratteri” di una filosofia vera, l’unità e la totalità. Certamente il convegno — al quale auguro un felice esito, scusandomi della sopraggiunta impossibilità di presenza — avrà fornito, nelle prime relazioni, criteri metodologici e strumenti di lettura. Qui mi limito solo a qualche indicazione. *
Traccia della relazione che l’autore non ha potuto svolgere, perché impossibilitato ad essere presente ai Colloqui. ** Docente di Pedagogia generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia.
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La prima riguarda la progressiva elaborazione di una antropologia compiuta nel “sistema della verità” pensato da Rosmini. È noto che le opere di esplicita denominazione antropologica appartengono al secondo periodo della produzione rosminiana, volendo adottare il 1830 come anno di conclusione del primo periodo e di inizio del secondo. Ma, come si è fatto per le opere politiche, parlerei di una antropologia prima e di una antropologia seconda. Appartiene, per esempio, al primo periodo il Saggio sull’Unità dell’educazione, nel quale con terminologia ancora provvisoria ma già orientata alla concezione unitaria e trinitaria dell’essere, il giovane Autore raccoglie la totalità dell’uomo nelle tre facoltà che lo costituiscono, intelletto, cuore, vita e individua nella forma della verità il principio oggettivo, generativo della sua unità. L’altra indicazione riguarda la legittimità di assumere l’antropologia come “questione” primaria, risolutiva delle altre questioni filosofiche e, perciò, chiave ermeneutica dell’intera opera rosminiana, quale qui viene proposta. Le riserve potrebbero nascere dal fatto che Rosmini, mentre enuncia le finalità che ha inteso perseguire con l’elaborazione della sua dottrina (“combattere gli errori”; “ridurre la verità a sistema”; elaborare “una filosofia che possa essere solida base delle scienze.. e di cui possa valersi la teologia..”1) sembra escludere la questione antropologica. In realtà la passione per l’uomo attraversa e sostiene tutte le pagine della sua singolare scrittura. All’inizio della sua Psicologia, quasi manifesto programmatico dell’impresa a cui si accinge, dopo aver denunciato lo spezzettamento dell’uomo provocato dalle “filosofie dell’errore” dichiara di voler “riunire quest’uomo così miseramente ammezzato”, poiché “l’uomo è uno, e però la scienza dell’uomo è pure una”2. A questa scienza, opportunamente , riserva il nome di Antropologia.
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Degli Studi dell’Autore, 2-18. Psicologia, 6-7.
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2. DALL’ESSERE ALL’UOMO La scienza dell’uomo segue la scienza dell’essere, come i saperi particolari seguono il sapere universale. Così, dopo avere elaborato la dottrina dell’essere, con la relativa classificazione delle scienze dell’oggetto, Rosmini passa alla elaborazione della dottrina dell’uomo e alla classificazione delle scienze del soggetto. In realtà, lo “studio dell’uomo” e l’esplorazione di quell’”immensa terra” che è il cuore umano avevano scandito e giustificato gli studi politici del giovane Rosmini. E proprio quegli studi lo avevano convinto che è illusorio ritenere di poter conoscere l’uomo, sottraendolo al suo naturale rapporto “con tutto l’Essere”. Dunque, come dice Rosmini stesso con felice espressione, le scienze nelle quali ha precedentemente ordinato la “dottrina dell’Essere in universale” si possono considerare come una “grande Prefazione al trattato dell’uomo”. La precisazione indica anche la destinazione antropologica dell’intera riflessione filosofica e la finalità morale del “sistema della verità”: “Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell’uomo, è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poiché la verità migliora sempre l’uomo”3. Come ho già accennato, Antropologia, secondo Rosmini, può opportunamente definirsi la “scienza della natura umana”. Ora, poiché l’uomo appartiene all’ordine della natura ma anche all’ordine della grazia, dovrà essere considerato in una antropologia naturale e in una antropologia soprannaturale. Sono due sezioni di un’unica antropologia, che Rosmini considera ed elabora congiuntamente anche se distintamente. 3. L’ANTROPOLOGIA MORALE Antropologia in servizio della scienza morale è il titolo che Rosmini volle dare alla sua antropologia naturale, nella convinzione che la scienza morale, per l’applicazione dei suoi principi, non possa prescin3
Come si possano condurre gli Studi della Filosofia, 1.
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dere dalla conoscenza dell’uomo, al quale intende applicare quei principi. Perciò, la finalità di questo studio è “conoscere l’umana natura in rispetto alla moralità”, cioè conoscere l’uomo in quanto autore e soggetto delle azioni morali. Ma l’intenzione di Rosmini è anche quella di dichiarare che la dimensione morale accompagna costantemente l’agire umano e non vi è cosa alcuna “che abbia a che fare con l’uomo” che non sia riferibile alla sua moralità. L’intero trattato non è che lo sviluppo della definizione che Rosmini dà dell’uomo: “soggetto animale, intellettivo e volitivo”. È una definizione che intende completare quella aristotelica nella quale manca, soprattutto, il riferimento alla volontà, facoltà morale dell’uomo. Ma intende anche correggerla, riportando all’intelletto e non alla ragione, la facoltà originaria della conoscenza. Come l’essere, anche l’uomo riflette e ripete in sé, nell’unità inscindibile che lo costituisce come soggetto, la trinità delle forme, ideale, reale, morale, riconducibili rispettivamente, al principio intellettivo, al principio sensitivo, al principio volitivo. L’intelletto è facoltà conoscitiva perché dotata dell’idea dell’essere, principio formale delle conoscenze. Il sentimento costituisce la natura animale ed è facoltà percettiva, principio nell’ordine della realtà. La volontà, facoltà che tende al bene, è il principio attivo che decide delle azioni. Intelletto, sentimento, volontà sono le facoltà originarie che costituiscono l’intera dotazione umana. La trattazione rosminiana si conclude con alcune intense pagine sulla dimensione personale dell’uomo, nella quale risiede il principio soggettivo. La persona, “principio attivo supremo”, è il principio di unità dell’uomo e di ordinazione delle sue facoltà. 4. L’ANTROPOLOGIA SOPRANNATURALE Oltre all’antropologia razionale, il progetto unitario di esplorazione dell’uomo disegnato da Rosmini comprende, come già accennato, una antropologia positiva. Mentre l’Antropologia morale, composta negli anni 1831-1832, sarà pubblicata nel 1838, l’Antropologia soprannaturale, iniziata nel maggio del 1832 e portata avanti con saltuaria rego-
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larità fino all’aprile del 1836, rimarrà opera incompiuta e sarà pubblicata postuma, in tre volumi, nel 1884. Secondo Rosmini, l’ordine delle “cose soprannaturali” è analogo all’ordine delle “cose naturali”. Perciò, come nell’uomo “ naturalmente costituito”, c’è “un primo lume interiore”, criterio delle certezze naturali, così, nell’uomo “soprannaturalmente costituito”, c’è un altro lume, principio di intelligenza soprannaturale e criterio di certezza delle “cose di Dio”. “Il primo lume che rende l’anima intelligente è l’essere ideale e indeterminato:l’altro primo lume è ancora l’essere, ma non puramente ideale, ma ben anco sussistente e vivente”. Il lume naturale è un riflesso, una luce del Verbo di Dio “che illumina ogni uomo”; il lume soprannaturale è il Verbo stesso. L’idea è una similitudine di Dio e contiene l’essere in forma iniziale; il Verbo è l’immagine di Dio e l’essere completo. Attraverso il Verbo, “carattere della sostanza del Padre”, Dio si rende percettibile realmente all’uomo. L’unione con Cristo o incorporazione è ritenuta da Rosmini il “principio” religioso e teologico del cristianesimo, tutto compendiato dalla “solenne parola in Christo”. Questa unione, spiega Rosmini, ha due momenti. Il primo è opera di Dio solo che fa nascere l’uomo nuovo; il secondo “è la diffusione nell’uomo della grazia abituale e santificante che viene dal carattere” e richiede la collaborazione della “volontà credente”.
LA VISIONE ANTROPOLOGICA ROSMINIANA DI FRONTE ALLA SFIDA EDUCATIVA
ANTONIO STAGLIANÒ*
Il mio contributo per questa prima edizione dei Colloqui rosminiani, promossi dallo Studio Teologico S. Paolo di Catania, è rivolto a esplorare l’apporto che l’antropologia di A. Rosmini può offrire all’odierna “emergenza educativa” e alla conseguente “sfida educativa”, nella presente temperie culturale (evocativamente denominata “post-moderna”) e nella prospettiva della “nuova evangelizzazione” (sintagma che oggi sintetizza la strategia pastorale con la quale la Chiesa cattolica intende fronteggiare i problemi posti alla fede cristiana dalle trasformazioni culturali in atto, vorticosamente cangianti)1. *
Vescovo di Noto. Questa epoca «ci spinge a vivere sempre più schiacciati sul presente e nella provvisorietà, rendendo sempre più difficile l’ascolto e la trasmissione della memoria umana, e la condivisione di valori sui quali costruire il futuro delle nuove generazioni […] negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli interrogativi critici rivolti alla Chiesa e ai cristiani, al volto di Dio che annunciamo. Il compito di evangelizzazione si trova così di fronte a nuove sfide, che mettono in discussione pratiche consolidate, indeboliscono percorsi abituali e ormai standardizzati» (SINODO DEI VESCOVI, La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Lineamenta, Città del Vaticano 2011, n. 3, 16). Appare necessario operare un doveroso “discernimento” dentro le sfide dell’oggi. È tempo di Nuova evangelizzazione: la quale «non è una reduplicazione della prima, non è una semplice ripetizione, ma è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo» (ibid., n. 5, 22). 1
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Pare però opportuno — prima dell’approfondimento specifico e sull’esempio degli antichi maestri —, procedere anzitutto ad una sorta di explicatio terminorum, ossia ad una illustrazione chiarificatrice dell’esatto significato ermeneutico dei termini posti in gioco all’interno della presente questione. Com’è noto, i termini, le parole, i lemmi, cui spesso si ricorre in sede scientifica, non esprimono semplici suoni evocativi (non sono un flatus vocis), più o meno comprensibili, ma dovrebbero, piuttosto, veicolare concetti, realtà, ovvero forme creative ideali attraverso cui emerge la bellezza tanto misteriosa eppure tanto vicina dell’Essere ideale nella grande vicenda della storia degli uomini. 1. L’EDUCAZIONE TRA “EMERGENZA” E “SFIDA”: EXPLICATIO TERMINORUM
In definitiva, relativamente al nostro ambito di studio, è necessario chiedersi, allora, che cosa si vuole intendere esattamente con i termini sfida educativa, emergenza educativa e visione antropologica. Si è dinanzi a dei binomi concettuali tanto usati quanto, purtroppo, tristemente misconosciuti, travisati o — peggio ancora — tragicamente abusati. L’emergenza riferisce di un “disastro/condizione grave di disagio” cui occorre porre rimedio nel più breve tempo possibile, mobilitando le forze per dare la dovuta priorità alla questione senza lasciarsi distrarre da altri problemi. Sorge immediata la domanda: “perché l’educazione è oggi in emergenza?” La sfida, invece, ha a che fare più direttamente con l’impegno a “uscire fuori” (Heraus-forderung) dall’emergenza: e l’educazione può riuscire se trova risposte concrete alle domande: “che fare?”, “in che direzione andare concretamente?”, “a quali pensieri attingere per le riforme necessarie in campo educativo?”, “quali luoghi creare e abitare, perché eccellenti e di successo nell’impresa educativa”? È sul campo della concretezza, allora, che l’educazione cristiana, sfidata dall’emergenza educativa dell’attuale socio-cultura, costituisce a sua volta una “sfida” (una possibilità di uscir fuori dall’emergenza) restituendo all’umano dell’uomo quella bellezza ormai oscurata dalle
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tante forme di barbarie (esterne ed interne) che deturpano il volto umano delle persone, dei gruppi, delle società e delle nazioni2. Si comprende già da queste prime battute che i termini in gioco sembrano “abitare” lo stesso spazio semantico. In realtà, sono evidentemente diversi e sottolineano approcci differenti: emergenza non nel senso di una difficoltà transitoria ma stabile, una crisi che si prolunga e permane nel tempo. In tal senso, l’educazione, come sfida, è propriamente la via, il cammino, il percorso da seguire per potersi togliere fuori dall’emergenza, dal disagio e dal disastro. Il Cardinale Camillo Ruini, Presidente del Comitato CEI per il Progetto culturale, nella prefazione del Rapporto- Proposta dal titolo La sfida educativa, così si esprime: «nel nostro tempo l’educazione è diventata, in maniera nuova, un problema. Soprattutto, sono diventati più incerti e problematici i rapporti tra le generazioni, in particolare riguardo alla trasmissione dei modelli di comportamento e di vita»3. 2 Quanto al suo tempo, il Rosmini così si esprimeva: «È certamente l’educazione delle venienti generazioni uno di que’ preziosi mezzi che possono mettere il mondo al coperto dalle estreme sciagure, e fargli acquistare un aspetto meno odioso, per così dire, agli occhi dell’Onnipotente, è l’educazione quella che può cogliere i frutti della vittoria e riparare le devastazioni della guerra: quella che può ridurre di bel nuovo all’aperta luce la timida virtù rinserrata ne’ cuori, e restituire ad essa l’imperio intero del mondo sì visibile che invisibile: è l’educazione quella di cui si contesta il bisogno da tutti, e si sente nella stessa misura che quello della religione: quella che si domanda ai pastori de’ popoli, e che i sapienti che trattano la causa degli uomini sollecitano qual mezzo di salute, acciocch’ègli non giunga forse troppo tardi, e quando già il male sia stato divenuto irreparabile» (A. ROSMINI, Sulla Unità dell’Educazione, Roma 1913, 18. Seguiremo questa edizione perché disponibile). 3 L’analisi fatta dal Comitato Cei per il Progetto Culturale vanta il contributo di professori e di pensatori che hanno lavorato con impegno a questo testo: si tratta, infatti, di un tentativo di studiare la condizione nella quale oggi versa la nostra società. L’obiettivo del testo è quello di provocare una riflessione non solo sulle cause ma anche sulle direzioni che bisogna intraprendere per affrontare questa sfida (cfr. COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA [cur.], La sfida educativa, Rapporto-proposta sull’educazione, Bari 2009). Per il Cardinale Ruini, «l’educazione è un processo umano globale e primordiale, nel quale entrano in gioco e sono determinanti soprattutto le strutture portanti – potremmo dire i fondamentali – dell’esistenza dell’uomo e della donna: quindi la relazionalità e specialmente il bisogno di amore, la conoscenza, con l’attitudine a capire e valutare, la libertà, che richiede anch’essa di essere fatta crescere ed educata, in un rapporto
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Non siamo certamente profeti di sventura — respiriamo infatti l’ottimismo realistico della fede cristiana —, ma la condizione esistenziale e culturale in cui versiamo è così grave che può essere bene descritta dall’espressione di Nietzsche: «il sole si è oscurato, noi cadiamo da tutte le parti, perché non c’è più né destra né sinistra, né alto né basso e la nostra vita è un permanente cadere». Oggi è tutto così frammentario, tutto così leggero da apparire insostenibile, tanto da postulare una insostenibile leggerezza dell’essere, poiché tutto è così provvisorio e privo di senso. Nell’attuale scenario culturale emergono gruppi considerevoli di persone tra cui effettivamente circola — specialmente tra i giovani — una teorizzazione del non-senso; e, con esso, l’annullamento di qualsiasi direzione di senso. Ne consegue una rinuncia a priori per ogni forma di fatica nella ricerca della verità. Oggi, forse, il piacere ha soppiantato il sacrificio e la ricerca della verità, mentre tutto è consumo e pertanto tutto si vende e si compra. Umberto Galimberti, nel suo libro L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, individua nel nichilismo la causa profonda del non-senso giovanile, dove non c’è spazio per le certezze e per i valori, essendo ogni valore svalutato dal nichilismo4. In una prospettiva concreta dell’esistere, nella quale abitiamo, quale sarà allora il cammino da riprendere per approdare a terra e per ricominciare a scoprire una nuova bellezza? Cerchiamo, allora, una nuova direzione di senso e scopriremo una nuova bellezza per la nostra umanità. La sfida educativa oggi è in primo luogo una sfida costante con la credibilità e l’autorevolezza di coloro che hanno il compito di educare» (Prefazione, ibid., X). 4 È l’epoca delle “passioni tristi”, di cui il disinteresse della scuola (con le tante forme di bullismo) è un segnale significativo. L’indagine di Galimberti prosegue investigando l’analfabetismo emotivo dei giovani, la seduzione della droga, entrando anche nel gesto estremo del suicido e dell’omicidio, registrando anche l’angoscia dell’inquietudine. Anali interessanti, condivisibili nel momento descrittivo. La via per uscirne appare del tutto ingenua e astratta: « e se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonía?» (U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano 2007, 14).
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culturale e antropologica. Benedetto XVI ha individuato il centro cruciale di questa sfida nel relativismo contemporaneo che si impone come una “dittatura”, per la quale tutto è relativo: verità, senso di giustizia, capacità di essere prossimi agli altri5. Il pensiero di Rosmini — inquadrato in questo genere di problematiche culturali — è evidentemente antirelativista, emergendo proprio dall’esigenza di rifondare la filosofia su quelle basi metafisiche che il sensismo del XVI secolo aveva eroso e il soggettivismo di Kant si era impegnato a far morire definitivamente. Ai Prolegomeni per ogni metafisica futura di Kant, Rosmini crea il suo “Sistema della verità”, che — dalle indagini gnoseologiche fino a quelle metafisiche e teosofiche — mostra criticamente come sia possibile la metafisica pur partendo dall’uomo, recependo cioè la “svolta verso il soggetto”, tipica dell’epoca moderna. 1.1. L’educazione come “pensiero concreto” Il pensiero sull’educazione di Antonio Rosmini è ovviamente intrecciato profondamente con il suo tentativo di rifondazione della filosofia e della teologia, passando per ogni ambito tematico dello scibile e dei saperi. Tuttavia, occorre affermare, anzitutto, che per Rosmini, l’educazione non è tema da svolgere solo speculativamente. D’altronde, educare, dal latino e-ducere ovvero portare fuori (condurre fuori), significa anche organizzare, progettare, ossia avere un obiettivo che non va solo pensato, ma vissuto soprattutto come esperienza concreta. 5 Radicato e diffuso nella mentalità, secondo Benedetto XVI, il relativismo «è diventato una sorta di dogma», che per altro ha contagiato anche diversi cattolici, i quali — nonostante gli espliciti e diretti attacchi del Magistero della Chiesa universale contro il relativismo e la sua concezione destabilizzante della realtà (in tutti i suoi settori della vita umana, sociale, morale, culturale e politico) — ritengono di poter essere relativisti, confondendo — se non vado errato - il relativismo filosofico con quello che potremmo chiamare il “relativismo escatologico”, per il quale tutto (ovviamente tutto) è relativo rispetto all’Eschaton. Ho dedicato a questo un capitolo, contraddicendo il relativismo del cattolico Antiseri in A. STAGLIANÒ, Su due ali. L’impegno della ragione responsabilità della fede, Città del Vaticano 2004.
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L’educazione è infatti “arte”. Per Rosmini «educazione è l’arte di educare l’uomo»6. Francesco Paoli — che fu collaboratore stretto di Rosmini —, introducendo la pubblicazione di alcune opere postume sotto il titolo “Pedagogia e metodologia”, così scrive agli educatori italiani: «Antonio Rosmini non attese soltanto alla speculazione colla vasta e sottile sua mente, ma applicò anche il suo gran core e tutte le sue forze all’azione per giovare in ogni possibile modo a’ suoi simili. Tra l’altre cose per questo s’adoperò molto nel formare degli Educatori, non soltanto collo scrivere di cose pedagogiche, ma coll’istituire eziandio un Collegio di Educatori a parte nell’Istituto da lui fondato, e nominato della Carità»7. Difatti, Rosmini, nel suo disegno educativo, amava riferirsi alle madri come a delle “intelligenze osservatrici” dei fanciulli, riconoscendo a queste una vocazione del tutto particolare, un istinto rivolto all’interazione naturale nell’accogliere i propri bambini8. 6 Così in A. ROSMINI, Scritti pedagogici, a cura di G. Picenardi, Stresa 2009, in cui vengono ripubblicati una serie di scritti rosminiani sul tema educativo, in particolare il Saggio sull’unità dell’educazione, stampato nel 1827 per la prima volta a Milano nel primo volume degli Opuscoli filosofici. Qui, tra le altre interessanti affermazioni è stabilita la tesi (assioma) secondo cui una vera educazione non può non essere religiosa, diversamente non è educazione. 7 F. PAOLI, Agli educatori italiani, in A. ROSMINI, Scritti pedagogici, a cura di G. Picenardi, Stresa 2009, 6. 8 L’esperienza concreta è più importante della speculazione astratta in tema educativo. Uno dei più profondi conoscitori del pensiero e dell’opera del Rosmini che fu anche Padre generale dell’ordine dei rosminiani lo sottolinea in queste due citazioni. La prima: «Rousseau, sempre duro coi fanciulli di cui non penetrò giammai il segreto dell’animo, vuole che ogni rifiuto dei genitori sia irrevocabile, e che un no da loro pronunciato sia come un muro di bronzo. Io non conosco più bella confutazione di questa eccessiva severità che quella che ne fa una madre, cioè Mad. Guizot nelle sue Lettres de famille sur l’éducation. L’amore e l’intelligenza donata da Dio alle madri è un fatto di natura sua propria, che meriterebbe d’esser profondamente meditata dal filosofo». La seconda: « La facilità con la quale i fanciulli più teneri ricevono costantemente in sé e gustano l’idea di Dio (idea che par pure così alta) e la credenza della sua sussistenza, trovano appoggio in una legge interna della intelligenza. Non mi appello ai filosofi, che parlano del fanciullo senza conoscerlo; ma alle madri intelligenti e osservatrici, e a tutti quelli che trattarono i fanciulli dalla prima infanzia» (G.
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Si evince come il pensiero educativo di Rosmini sia essenzialmente un pensiero concreto, parte dalle esperienze elementari, anche perché non vuole, con la sua riflessione e con la sua speculazione, sovraccaricare nulla rispetto all’esperienza delle cose, rispetto alla realtà stessa. Con la sua riflessione vuole semplicemente esplicitare la prassi dell’agire. In tal senso la composizione di testi teoretici non risulterà mero esercizio speculativo, ma si porrà, in prima istanza, come approfondimento compatibile e concreto, calato nel vissuto dell’esperienza raccolta sul campo della scuola e dei seminari. 1.2. L’educazione compromessa da libri inadeguati Rosmini, nella sua celebre opera Le cinque piaghe della Santa Romana Chiesa intravede nella piaga della mano destra del Cristo l’insufficiente istruzione del clero, espressione che, in maniera un po’ forzata e un po’ più dura, è detta “ignoranza del clero”. L’affondo critico del Rosmini trova nella formazione dei seminari il “punto dolente”: certo l’ignoranza del clero si perpetua all’interno di impianti educativi piuttosto scarsi che determinano una precarietà nell’impostazione dell’itinerario formativo. L’epoca del Rosmini è quella della maturazione (ma anche già del decadimento) delle idee filosofiche dei Lumi, delle sue istanze anticlericali e antireligiose (secondo i dettami dei maestri della Rivoluzione francese e dell’Enciclopedia francese: Voltaire, Diderot, D’Alembert, Condillac e il suo sensismo e materialismo dell’Home machine). Non ci sono più grandi visioni, non ci sono più progetti capaci di presupporre una visione integrale dell’uomo. Il rinnovamento della filosofia (cioè una radicale conversione culturale) appariva indispensabile per metter mano a un nuovo progetto educativo che puntasse a educare l’uomo intero, coltivando la personalità dell’uomo, accrescendola fin su la vetta della piena umanità (= la santità). Rosmini è consapevole delle “difficoltà culturali dell’epoca” e vuole indagare nelle cause reali che determinavano tale condizione di BOZZETTI, Rosmini educatore, in ID., Opere Complete, 3 voll., a cura di M.F. Sciacca, Milano 1966, vol. III, 3297-3298).
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insufficiente istruzione del clero. Nel farlo, non si arresta soltanto alla costatazione teorica del problema, ma, in positivo, indaga sul rilievo dato all’istruzione all’interno del percorso educativo e, in modo particolare nei seminari, ai testi scolastici in essi adoperati: “testi senza sangue”, «libri minuti e parziali, opere individuali, dove tutto è povero, freddo; dove l’immensa verità non comparisce che minuzzata, e in quella forma, in che una menticina l’ha potuta abbracciare; e dove all’autore spossato nella fatica del partorirla, non è restato vigore d’imprimere al libro altro sentimento che quello del suo travaglio». A questi libri «si condanna barbaramente e ostinatamente la gioventù», la quale, sedotta da questo “libri corrompitori” sviluppano una disaffezione reale allo studio e un rigetto effettivo anche alla verità ivi contenute9. Come si vede, la sua constatazione teorica sull’educazione di Rosmini diventa allora iniziativa e progettazione di nuovi programmi scolastici e di indicazioni circa la scrittura di testi idonei, cioè compatibili e corrispondenti all’approfondimento e alla mediazione pratica delle idee educative fondamentali da “verificare sul campo”: nel suo testo — Sull’unità dell’educazione —, dopo aver chiarito il fine, l’unità e il metodo dell’educazione, immagina una necessaria riforma complessiva degli studi e della comunicazione educativa che parta dai primi mesi dell’esistenza fino alla maturità del livello universitario, non senza offrire orientamenti pratici sulla modalità dell’insegnamento, 9 A. ROSMINI, Delle Cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di N. Galantino, Cinisello Balsamo 1997, 162. Mi verrebbe da pensare alla “bignamizzazione” diffusa dei testi scolastici attuali (in questa direzione si sta andando anche nella produzione teologica odierna, dominata dalla temperie economicistica che punta più al guadagno commerciale che non alla valorizzazione della “scrittura creativa e pensata”). Il rischio è appunto quello di produrre testi-bignami in vista del superamento degli esami scolastici e universitari. Il “bignami” è un testo sintetico e assolutamente scarnificato, dove non esiste nessuna attitudine al pensiero cogitante e nessun stimolo alla concettualizzazione. Si presenta invece ma solo un insieme di dati su temi specifici della disciplina (bis-)trattata. Sono questi prodotti terribili, nei quali non c’è un vero studio. Testi disorientanti che però sono congeniali all’epoca post-moderna del “gioco d’azzardo”, del “gratta e vinci”. Talvolta — se si è fortunati — si riesce con l’assimilazione nozionistica di questi testi a superare l’esame con Trenta e lode senza però imparare niente, senza fare esperienza del pensare, dell’intelligere, della sintesi (che presuppone lo studio analitico dei problemi).
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quanto alla comunicazione orale e alla testimonianza dello stile e della vita dell’educatore10. Per il resto, una delle Sue argomentazioni — interessanti anche per noi, per lo sviluppo del nostro tema — riguarda il modo con cui viene trattato in questi testi la questione del soprannaturale nell’uomo: l’educazione è sempre fondata su una antropologia. La visione dell’uomo è — d’altronde — la fonte o anche il paradigma fondante dell’educazione come pensiero che si fa concreto nell’iniziativa educativa. La domanda decisiva è allora: educazione si’, ma quale antropologia? 2. IL FILOSOFICO “SVISCERATO” DAL TEOLOGICO L’integralità dell’antropologia richiede anche un suo approfondimento “teologico”, perché il soprannaturale non si giustappone al naturale come suo momento estrinseco o separato, ma piuttosto interiore ed esaltante, come vedremo. Qui tocca subito ricordare che, secondo la nostra interpretazione, in Rosmini, è il “teologico” (l’antropologia soprannaturale) a orientare la riflessione dell’antropologia filosofica (l’antropologia in servizio della scienza morale) e non viceversa11. 10
Infatti: «la cosa principale è quella di ridurre la vita del giovane in perfetta concordia cogl’insegnamenti», perché è «facile al precettore l’intonare meravigliose sentenze agli orecchi dell’allievo, difficile il farle seguire. Perché se per intonarle basta a lui il conoscerle, perché riesca a farle eseguire debbe tenerne egli stesso la pratica e precedere coll’esempio» (A. ROSMINI, Sulla Unità dell’Educazione, 120-121). 11 L’affermazione di questo primato del teologico è il frutto sintetico della mia personale ricerca sul Rosmini, cui facciamo riferimento per la documentazione necessaria a quanto in questa sede si va affermando in modo per altro sintetico (Cfr. A. STAGLIANÒ, La “Teologia” secondo Antonio Rosmini. Sistematica-critica-interpretazione del rapporto fede e ragione, Brescia 1988; ID., Il metodo teologico in Antonio Rosmini, in Asprenas 32 (1985) 135-156; ID., La figura di teologia in A. Rosmini, in Vivarium 7 (1986) 1-2, 75-87; ID., Rilettura di proposizioni rosminiane, in Rassegna di Teologia 28 (1987) 374-401; ID., Epistemologia e teologia: per un apporto rosminiano al problema contemporaneo, in M.A. MARASCHINI (cur.), Rosmini pensatore europeo, atti del Congresso internazionale 26-29 ottobre 1988, Milano 1989, 425-430; Teologia, fede e ragione, L’apporto di Rosmini all’epistemologia teologica, in La Scuola cattolica 124 (1996) 69-110; L’autonomia della ragione nel pensare teologico-filosofico di A.Rosmini, in La Scuola cattolica 125 (1997) 633-660. Questa visione originale, come approccio ai problemi entrerà ovviamente anche nella riflessione sulle questioni di tipo sociale e politico e più ampiamente religioso.
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Attenzione, la prospettiva teologica “comanda” quella filosofica e ne “giustifica” la sua stessa autonomia. Rosmini ha la consapevolezza del lavoro maieutico nella sua opera filosofica: «parmi venir fuori dalle viscere della cristiana teologia una filosofia consentanea all’Evangelo»12. La “maieutica socratica” come figura della sua epistemologia scientifica è chiara: la prospettiva del Rosmini è apologetica e così emerge chiaramente dappertutto: suo grande interesse è sempre quello di mostrare con argomentazioni convincenti la “sapienza del cristianesimo”. Le sue opere teologiche restarono incompiute e inedite. L’edizione critica in corso così le raccoglie: [I. Il linguaggio teologico; II. Antropologia soprannaturale; III. L’Introduzione al Vangelo secondo Giovanni; IV. Scritti teologici minori; V. Il razionalismo che tenta di insinuarsi nelle scuole teologiche]. Da prospettive diverse, esse puntualizzano il tema del soprannaturale, considerato da Rosmini la “questione religiosa del tempo”, a causa dello spirito razionalistico, che, penetrato in teologia tramite il protestantesimo, irretendo anche alcuni teologi cattolici, misconosce l’azione reale di Dio nell’essenza dell’anima umana, estenua il soprannaturale, promuovendo il naturalismo13. Così, soprattutto in Antropologia soprannaturale (1884), ponendo nel concetto di soprannaturale il proprio punto di partenza teologico, aggancia immediatamente al mistero cristologico e trinitario: il soprannaturale è, infatti, per identità, la grazia di Cristo che agisce nell’uomo. Con Cristo e per Suo mezzo, essa è l’azione di tutta la Trinità. Così, l’Adamo innocente, l’uomo peccatore, l’uomo santificato, 12
Afferma testualmente il Rosmini: «Ora egli è appunto questa filosofia, che giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposti di aiutare perché venga alla luce, facendo anche noi (se ci è permesso di usare in un altro senso la frase di Socrate) l’ufficio, quasi direi, d’allevatrice» (A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, I, Roma 1983, 482). 13 L’antropocentrismo di R. è strettamente metodologico, la sua antropologia non è antropocentrica. Il tema di Dio trova, infatti, nell’uomo il costante punto di riferimento, non tanto perchè di Dio non si potrebbe discorrere se non partendo dall’uomo e dalla sua capacità linguistica, ma più profondamente perchè, in definitiva, il Dio di cui si tratta è il Dio che si è automanifestato ad un partner creandolo e redimendolo, cioè costituendolo come uomo e santificandolo con la sua opera salvifica storicamente data in Gesù Cristo.
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avranno rosminianamente riferimento a Cristo. La grazia di Cristo, — ma la “grazia di Cristo è Cristo stesso”—, dà unitarietà a tutta la riflessione. Dall’inizio, Cristo come “Verbo occulto” opera nelle vicende storiche della creazione, e poi, nelle tappe che scandiscono la storia di salvezza, dal peccato d’origine alla venuta di Cristo, nel cui evento il Verbo è “manifesto” ed opera per lo Spirito Santo la sua redenzione, in quell’avvenimento radicale dell’incontro con Dio che è la Chiesa, nella quale l’uomo riceve la grazia dei sacramenti. La grazia, cristicamente determinata, è quell’elemento unitario che impedisce una tematizzazione separata e assolutamente autonoma dell’uomo e di Dio. L’uomo è l’uomo inabitato da Dio-Trinità (la grazia è triniforme, verbiforme, spiritiforme: linguaggio che intende rispettare l’economia storica della rivelazione) e Dio è l’inabitatore dell’uomo. Al di là dell’opposizione tra antropocentrismo e teocentrismo, qui è ampiamente documentata la struttura cristocentrica del tema teologico che stabilisce la centralità dell’azione di Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, a cui tutto viene riferito, dalla protologia all’escatologia14. Tenendo presenti queste brevi considerazioni sulla singolarità dell’approccio rosminiano, si comprendono meglio le affermazioni seguenti sul perché, di fatto, l’educazione umana (qua talis) debba essere, per il Roveretano, unicamente religiosa. Fondare infatti l’educazione umana su una antropologia integrale comporta inequivocabilmente questa conclusione, come tesi ovviamente da giustificare in sede critica. 3. L’EDUCAZIONE DOVRÀ ESSERE UNICAMENTE RELIGIOSA Questo interrogativo si im-pone necessariamente, soprattutto perchè i risultati delle indagini teoriche del Rosmini sull’unità dell’educazione — quanto al fine, quanto agli oggetti e quanto al metodo —, Lo portano a stabilire la seguente massima: «non solo dunque debb’essere religiosa l’educazione, ma debb’essere, per dir così, unicamente religiosa» e aggiunge «questo è il primo passo, che gli uomini debbono 14 Per maggior dettagli cfr. A. STAGLIANÒ, La centralità di Cristo nella teologia di Antonio Rosmini, in La Scuola Cattolica 116 (1988) 137-165.
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fare con coraggio» per “uscir fuori” (ecco il senso della “sfida”) «di queste loro tenebre, fuori di quest’aria grave e nebbiosa, in regioni più pure e salubri, s’avvedranno con una gioia improvvisa, come il Cristianesimo sia quello che forma il bene degli uomini anche in questa vita»15. Perché della necessità della religione cristiana, della luce del Vangelo? O per dirla con le parole del Rosmini: «perché l’educazione dell’uman genere debb’essere accompagnata dalla Religiosa?». Contrariamente a quelli che «escludono quasi la religione dall’educazione»16. La risposta è semplice: «la religione in fatti è quel solo principio che può dare all’educazione umana l’unità; ed è perciò che l’idea della vera educazione umana è germinata, si può dire, e fiorita al mondo dallo spirito del Cristianesimo»17. Certo, qui si innesta una digressione importante che Rosmini non manca di fare — questo pensatore non nasconde niente, niente mette “tra parentesi” con la pretesa di poter procedere senza “pregiudizi” o “senza precomprensioni”, specie quando il “pregiudizio sarebbe la fede cattolica o il cristianesimo in generale, allo scopo di conseguire un livello più razionale e pertanto più dialogico — sul rapporto tra religione e società, nella linea di mostrare i benefici che alla società derivano dalla fecondità in essa della religione18. Rosmini è consapevole della posta in gioco. Si tratta di una fondamentale “controversia culturale sull’umano” da portare avanti senza timore o complessi di inferiorità. Questa controversia — secondo il dettato rosminiano, nella descrizione sintetica prodotta dal grande Roveretano — oppone (dialetticamente e non per forza controversisticamente) “lo spirito del Cristianesimo” e lo “spirito del mondo, sedi15
A. ROSMINI, Sulla Unità dell’Educazione, 23. Ibid., 21. 17 Sicché prima dell’avvento del cristianesimo — bella è l’immagine del Rosmini —, il mondo appariva come «un’immensa boscaglia dove senz’arte e senz’opera di ragione crescevano a caso tronchi infruttiferi, e pruni selvaggi» (ibid., 23). 18 Non possiamo diffonderci su questo e allora si veda utilmente A. STAGLIANÒ, Rosmini: “Una Chiesa libera per una società libera”. Il contributo della Chiesa al rinnovamento della società in, Antonio Rosmini. Il ruolo della Chiesa tra fede, ragione e bene comune, Roma 2009, 97-122 (Quaderni della Segreteria Generale CEI). 16
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cente filosofico” quanto all’educazione19. Basti provocatoriamente una considerazione che tocca direttamente l’attuale “emergenza educativa”: l’uomo ridotto a consumo (“Consumo, dunque sono”, direbbe Z. Bauman). Per Rosmini: «lo spirito della educazione antica tendeva all’unità degli oggetti, perché tutto riduceva, come a un solo fine e principio, a Dio: lo spirito della educazione moderna all’opposto tende alla molteplicità degli oggetti, perché considerando le cose naturali e sensibili senza riferirle alla loro cagione primitiva, esse si disgregano e spargono fra di loro; e l’essere disordinate è ciò che le moltiplica». Il vanto dei “novatori” (laici e irreligiosi) è quello di attendere alle cose concrete, alle cose materiali di questa vita (attaccamento alla terra). Purtroppo però, la “terra senza il cielo” non esiste nella natura delle cose stesse, direbbe il Rosmini, sicché l’appagamento cercato non si trova e l’uomo resta sempre inquieto — «poiché con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire nelle cose sensibili appagamento»20. 19 Ieri, ai tempi del Rosmini, come oggi. Occorre non chiudere gli occhi su questo problema indulgendo a facili, quanto astratti, irenismi e concordismi. È necessaria invece la “fatica del pensare cogitante” che sa dialetticamente assumersi le responsabilità della propria intelligenza, del proprio logos, non nascondendo le difficoltà della comunicazione di quanto possa essere evidentemente eccedente o comunque non riducibile alle prospettive moderne sull’uomo. Il riduzionismo antropologico è una delle dominanti del pensiero debole occidentale, da osservare e dialetticamente fronteggiare se si vuole dare respiro umano all’educazione qua talis. Con un uomo “ridotto” e ricondotto alle sue condizioni materiali di esistenza, senza idealità e apertura al trascendete, l’educazione scade e si impoverisce, si dimezza e al massimo raggiunge i grandi livelli della formazione tecnica, utile a fare (nemmeno all’agire, se è possibile oggi distinguere tra fare strumentale e agire dotato di senso). Interessante è in merito la lezione di Karol Woityla (cfr. A. STAGLIANÒ, Ecce homo. La persona, l’idea di cultura e la questione antropologica in Karol Wojtyla, Siena 2007). 20 Ecco per Rosmini “il vero punto in cui differiscono lo spirito del mondo e lo spirito di Dio sull’educazione”: «Lo spirito del mondo mette per base l’attaccamento alla terra, perché nella terra confina tutta la sua felicità: lo spirito di Dio mette per base il distacco dalla terra, perché mette nell’altra vita la compiuta felicità. E questo non può dar adito alla “calunnia” secondo la quale il cristianesimo si disinteresserebbe in modo negligente del governo delle cose utili in questa vita: «La Religione non ci tiene indietro al promuovere le scienze e le arti umane: non fa che dare un motivo diverso da quello del mondo a promuovere tali cose; il mondo le vuol promosse come fine; la Religione come mezzo; il mondo dà per motivo l’Orgoglio o l’Egoismo; la Religione, la Carità» (A. ROSMINI, Sulla Unità dell’Educazione, 52-53).
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L’uomo non è una monade, senza porte e senza finestre. È trama di relazioni significative e fondanti che lo costituiscono e lo determinano nella sua più profonda identità. La relazione ultima è assolutamente fondante è proprio quella con Dio e con il Dio della fede cristiana, la Trinità dell’agape e dell’amore, senza il quale — realmente — l’uomo si perde e svilisce nella sua dignità profonda. Ha detto Giovanni Paolo II: «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor hominis, 10). La prospettiva teologica del Rosmini indaga sulla radice ultimissima di questa dignità inalienabile dell’uomo e lo scopre nel suo essere persona, l’altro di una relazione amativa che soltanto può compiere di bellezza e di verità la sua esistenza. 4. L’UOMO-PERSONA FONDAMENTO DI OGNI EDUCAZIONE Rosmini è uno dei grandi protagonisti del personalismo come visione del mondo e della realtà che pone al centro la persona: lo è stato in tempi in cui l’individualismo (che chiudeva l’uomo in se stesso) era dominante. Lo può essere anche oggi, quale faro luminoso affinché si superino le odierne forme degradanti dell’umano nell’uomo. La visione rosminiana dell’uomo-persona discende direttamente dalla rivelazione e dalla fede cristiana e poi si sviluppa dentro riflessioni filosofiche “potenti”, “forti”, “rigorose” capaci di liberare dalle pastoie costringenti di ideologie e sistemi che deturpano il volto dell’uomo, dentro processi di mercificazione, di massificazione e di omologazione, nei quali l’uomo è ridotto a un numero, senza nome, senza volto (come tra i prigionieri di un carcere, tra gli internati di un Lager) o, ancor peggio, a una funzione, a un mero strumento per “far qualcosa d’altro da lui”. Rosmini teologo della persona afferma che il soggetto-uomo non è una «monade impenetrabile», ma piuttosto capacità di trascendenza e di autotrascendimento, nella dimensione interpersonale della comunità “io-tu”, come in quella sociale del “noi”. In queste dimensioni l’uomo vive e realizza se stesso, poiché non gli sono estrinseche ma interiori, in quanto l’uomo-persona opera e vive
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“insieme” con gli altri, così si compie. L’uomo non è solo razionalità, ma è profondamente relazionalità, relazione amativa, cioè fatto per amare, per il dono. L’essere-persona è la sua natura. La persona appartiene al suo essere, non al suo divenire: persona si è, non si diventa. Perciò sul piano dell’educazione e dell’evangelizzazione, la lezione di Rosmini va riascoltata, perché potrebbe essere un utile e prezioso strumento per quanto la Chiesa italiana — dall’ultimo Convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona agli attuali Orientamenti per il nuovo decennio — Educare alla vita buona del Vangelo —, sta proponendo. Si sta molto insistendo sulla necessità che il cristianesimo odierno si eserciti in modo da rigenerare la “cultura”: la testimonianza della speranza esige una fede adulta che ispiri comportamento e stili di vita alternativi a quelli diffusi dalla società del benessere e dei consumi. Sono stili che fanno profumare la vita di Vangelo, improntati alla essenzialità, alla sobrietà, al rispetto, al dialogo, alla sincerità, all’umiltà e soprattutto alla gratuità che apre gli occhi sui veri e plurali bisogni del prossimo. Il cristianesimo — nel vissuto delle persone e delle comunità — diventa allora profezia per il mondo, denuncia di ogni vanità che rende la vita dell’uomo superficiale in tanti modelli di pensiero della cultura contemporanea. Da questi modelli può prendere le distanze perché positivamente vive del Vangelo che predica e che sa offrire come speranza per la vita, perché questo Vangelo non è semplicemente una dottrina, ma è una Persona vivente. È Cristo risorto dai morti, fondamento ultimo di una trama di relazioni amative, tutte orientate dal suo gesto eucaristico, il dono della vita fino alla morte per amore. Antonio Rosmini ha definito la persona umana proprio come una “relazione amativa”: si è non solo “individui”, ma soprattutto persone. Il suo insegnamento sulla persona umana è allora di grande attualità per il cattolicesimo italiano che — dopo Verona — vuole incentrare ogni iniziativa pastorale proprio sulla persona. L’uomo non è mai riducibile a qualcosa, essendo sempre “qualcuno”, con un nome, con un volto, con una parola, con un cuore inquieto che si compie nell’amore.
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5. L’EDUCAZIONE FONDATA SU UNA VISIONE INTEGRALE DELL’UOMO La radicazione teologica del mistero dell’uomo impedisce di avere dell’uomo una visione semplicemente “filosofica”. Questo non vuol dire che la visione filosofica non abbia peso di verità e non serva a nulla. Si vuole invece affermare che ad una compiuta concezione filosofica dell’uomo si può giungere solo nella visione “integrale” che non disdegna di confrontarsi e di “integrare” criticamente la dimensione propriamente teologica dell’essere umano (la relazione fondante e costitutiva dell’uomo che è quella con Dio). Vale la pena allora qui riprendere alcune intuizioni rosminiane, non certo più per il suo linguaggio o il suo modo di procedere che è quello ottocentesco. È vero ci si stanca a leggere, però la stanchezza è compensata dalla profondità del pensiero e dal fatto che tutto ciò apre la mente, offrendo categorie concettuali anche “nuove”. Sarebbe interessante poterle sviscerare, ma non è questa la sede, semmai rimando alla mia ricerca dottorale sulla Teologia di Rosmini, già precedentemente citata. Sottolineo però che alcune di queste categorie concettuali sono veramente nuove: alcune, per esempio, sono state scoperte solo tardivamente anche dalla teologia contemporanea. Come pensare, ad esempio, l’inabitazione reale di Dio nell’essenza dell’animo umano? Per Rosmini, in virtù della grazia di Dio, l’uomo è deiformato, cristiformato e, poiché Dio è Uno e Trino, l’uomo è patriforme, filiforme, spiritiforme. Bisogna intendere forma e formale in senso scolastico, non nel senso comune, attuale. È necessario che la forma sia ideale e che sia vera forma e, quindi, che la grazia reale sia per l’uomo azione reale: la grazia di Dio inabita realmente la persona umana dell’uomo, perciò Dio-Trinità inabita realmente l’uomo che è per questo trini-forme. Nell’uomo il Dio Trinità è teologicamente sua forma. Oltre una serie di dicotomie dualistiche insanabili e sterili in cui buona parte della teologia contemporanea è incorsa, lavorando di metafora, oggi l’interrogativo è: come pensare oggi questo essere di Dio forma dell’uomo, e dunque “interiorità reale costitutiva dell’essere umano soprannaturalizzato e tuttavia “oggettiva” rispetto all’uomo, perché l’uomo è l’uomo e non è Dio e Dio è Dio e non è l’uomo?
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Antonio Rosmini, già nell’800, insegnava in maniera positiva come pensare l’esistenza di una casualità formale oggettiva, il cui contenuto teologico è raggiunto da De la Taille e da Rahner con la categoria della causalità quasi formale, per significare l’inabitazione dello Spirito nell’uomo: dove però (nella versione dei contemporanei) “causalità formale” è quella cosa di cui però non si può dire nient’altro che un quasi. L’osservazione di Rosmini invece mira alla definizione positiva e teoretica di questa causalità formale oggettiva (definizione che risulta certamente più bella che non “quasi formale”). Ecco l’urgenza di affermare l’uomo reale, anzi dell’uomo reale totale, che non è semplicemente l’insieme di tutte le sue facoltà (volontà, corpo, sentimento, intelligenza corporea, razionalità, etc.). L’uomo non è solo questo. Se si pensa che l’uomo sia semplicemente e solo questo, allora si parla solo dell’uomo in astratto. L’uomo totale è l’uomo uno. È l’uomo che non è se stesso senza una relazione con Dio, senza la presenza di Dio. Per cui le scienze non devono dimezzare l’uomo in quanto la realtà è sì molteplice, ma la molteplicità della realtà non deve essere accolta separatamente, perché la realtà è una e molteplice: le scienze devono poter già ben armonizzare la realtà dell’uomo oltre che essere in armonia tra di loro (psicologia, antropologia, sociologia, teologia, etc.). Certo vale anche e necessariamente per la teologia e l’antropologia: non sono tra di loro separate, ma entrambe riflettono sull’uomo; specialmente dopo la svolta antropocentrica, che ci ha istruito sul fatto che alla fin fine non si può parlare nemmeno di Dio, se non a partire dall’uomo e viceversa, ogni vero discorso su Dio è inevitabilmente un discorso sull’uomo, dall’uomo e per l’uomo. È chiaro, tuttavia, che questo non funziona in una società che si è organizzata solo intorno all’uomo, al suo corpo e alla sua mente: ecco perché la contesa moderna del nichilismo contemporaneo con l’esito odierno della secolarizzazione, consiste nel fatto che l’uomo sia pensabile autonomamente a prescindere da Dio. Teologicamente però, e cristianamente, la perdita di Dio (l’ateismo dell’epoca moderna) come l’Altro della relazione costitutiva dell’umano, porta alla perdita dell’uomo o ad un suo necessario “superamento” o verso il basso (animale e cose inanimate, oggetto a disposizione per la manipolazione) o verso l’oltre della condizione
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post-umana o super umana (Nietzsche). La tradizione ebraico-cristiana ci ha istruito abbondantemente sul perché questo avviene, per necessità di cose, con la sua teologia dell’alleanza. Lavoriamo un poco sulla categoria d’alleanza: il Dio di Abramo fa alleanza con l’uomo Abramo, l’uomo di ‘El Shaddai. Nella discorsività del nostro linguaggio, l’alleanza con Abramo presuppone le due realtà contraenti “come esistenti”: Dio e l’uomo. Ma è solo una apparenza del linguaggio, perché se la categoria di Alleanza la trasportiamo — come si deve — all’atto creativo originario, allora comprendiamo che l’uomo è creato e nasce dentro questa specifica caratteristica ontologica: nasce come alleato di Dio. Questo vuol dire che fuori dalla relazione con il Dio creatore l’uomo semplicemente non è: semplicemente l’uomo non esiste. Per cui il rapporto con Dio è determinante e decisivo per la definizione dell’essenza dell’uomo: senza Dio nessun uomo esiste, non esiste Dio e non esiste l’uomo, perché l’uomo è la sua relazione con Dio. Per questo, storicamente parlando — secondo Rosmini — senza l’essere ideale (il divino nell’uomo creatura costituito dal divino) non c’è umanità. Il divino non è l’uomo, ma è nell’uomo senza essere l’uomo. Questo “divino” nell’uomo è frutto — nella visione di Rosmini — dell’astrazione teosofica (immaginate Dio astratto della sua realtà d’essere Dio, passatemi la formulazione “Dio succhiato dal suo essere”). Cosa difficile da immaginare e da comprendere, ma concettualmente funzionale ad affermare almeno due cose: anzitutto che il divino nell’uomo non è Dio (contro ogni forma di panteismo) e poi che il “divino” ha a che fare con Dio (essendone una sua astrazione), per cui l’uomo è per natura capax Dei, apertura infinita, disponibilità a ricevere Dio tale che se Dio entrasse personalmente nell’uomo non si troverebbe affatto estraneo, ma si sentirebbe in qualche modo a “casa propria, senza ovviamente confondersi o “mischiarsi” con l’uomo. È il divino che è nell’uomo a costituire l’uomo intelligente. Perciò, creaturalmente, a prescindere dalla sua relazione con Dio, non esisterebbe l’uomo intelligente. Così, l’essere ideale costituisce in profondità l’uomo: è questo ciò che permette nell’uomo quella conoscenza oggettiva della realtà e dell’umano, nell’avanzare dei tempi e delle stagioni, in ogni approfondimento intelligente e non negligente del sapere.
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Kant aveva insegnato che non è più possibile pensare l’uomo nella sua totalità, il mondo nella sua totalità, l’anima nella sua totalità e Dio nella sua totalità. Erano paralogismi della mente: la nostra testa funzionerebbe — secondo Kant — attraverso le categorie di Aristotele che costituiscono lo “schematismo trascendentale” con il quale noi conosciamo le realtà che si presentano davanti ai nostri occhi (gli occhi della ragione autonoma). In realtà non è così, perché ciò dichiarerebbe la fine di ogni possibile metafisica futura e dunque di ogni conoscenza che pretendesse essere oggettiva (difatti per Kant la verità oggettiva non potrebbe sussistere). Le nostre conoscenze sarebbero solo soggettive, non esisterebbero verità assolute e se ciò che meritava questo aggettivo (assoluto) venisse travolto dal soggettivismo: esisterebbe solo una verità soggettiva. Ma una “verità soggettiva”, assolutamente tale non è più in sostanza “verità”, non sarà mai la verità. Ora, la verità per definizione è condivisibile universalmente. Se non esistono verità assolute, non esiste nemmeno la visibilità dell’Assoluto, la dicibilità dell’Assoluto. Il soggettivismo che si è sviluppato in varie forme da Cartesio fino a Nietzsche ha progressivamente svuotato di realtà l’essere, perché lo ha a poco a poco svuotato della sua relazione ontologica al Trascendente, privandolo della sua stessa trascendenza. Questo ha portato molti autori — cosiddetti post-moderni — alla postulazione di un relativismo valoriale, per cui non esistono valori fissi e immutabili. Se l’assolutezza dell’esperienza umana non esiste, tutto è relativo all’uomo e di conseguenza non possiamo pensare valori che non siano “negoziabili”. Il famoso fossato di Lessing ritorna a non essere più saltato: eppure Lessing c’era riuscito, perché capì filosoficamente come l’assoluto e il relativo possono stare insieme in una visione totale che resti storica e non risulti ideologicamente totalizzante e non dia adito a nessun totalitarismo. Oggi, invece, come ai tempi del Rosmini, una certa frangia culturale — spesso troppo vincente — sulla base di una chiara affermazione antropologica, e non solo gnoseologica, sostiene che l’uomo, in quanto è condizionato e, dunque, “un soggetto che guarda le cose dal proprio punto di vista”, non può pervenire alla Verità, non può accettare nulla di vero, di stabile. Così, la realtà allora è destinata a svanire. È necessario — diversamente — recuperare una visione
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“realista” del reale. Non ovviamente nel senso del realismo ingenuo, ma del realismo critico. Il realismo critico propiziato dalla visione antropologica e gnoseologica del Rosmini, fondate sull’idea dell’essere o essere ideale, costitutivo della persona intelligente e aperta al Trascendente, pare essere una via ripercorribile, non nella battuta e nella ripetizione, ma nella creatività di chi con intelligenza riascolta una lezione troppo a lungo messa da parte per motivi extrateoretici. Secondo una visione realista e personalista del Rosmini, infatti, la persona è capace di conoscere la verità, perché l’intelligenza funziona come uno specchio: l’intelligenza è aperta alla totalità del reale, ha relazione originaria con tutte le cose e perciò le conosce nell’oggettività del loro specifico essere. L’intelligenza dell’uomo, in virtù dell’essere ideale che splende alla sua mente, è intelligenza teoretica, attiva cioè il theorein come sguardo sulla realtà mentre la realtà si manifesta così come è, oggettivamente, e non come l’occhio del soggetto “vuole” o “può” vederla, soggettivamente. 6. I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL ROSMINI CIRCA L’UMANA EDUCAZIONE
Dopo queste necessarie premesse di carattere antropologico (teologico e filosofico), possiamo ora con maggiore facilità leggere e comprendere dalla penna stessa del Rosmini “cosa è educare?”. Nel suo modo di procedere, stabilisce un “supremo principio” dell’educazione umana e poi due principi della sua applicazione, secondo il seguente schema: «Supremo principio dell’umana educazione». a. «Si conduca l’uomo ad assomigliare il suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo»21. «Principio primo, dell’applicazione del principio a». 21 22
Ibid., 35. Ibid., 37.
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b. «Nello spirito dell’uomo la cognizione e l’amore di Dio debbe introdursi come essenziale e necessario, la cognizione e l’amore delle altre cose come accidentale: Dio come principio ordinatore di tutte le altre cose, e le altre cose come quelle che debbono da lui ricevere la ordinazione»22. «Principio che contiene il mezzo dell’applicazione del principio b». c. «La natura primitiva degli uomini non può essere riparata se non dopo la sua distruzione: e ogni assimilamento in noi dell’ordine delle cose, cioè ogni nostra perfezione, non si può in nessun modo conseguire, che nell’ordine nuovo della grazia, cioè incorporati a Gesù Cristo»23. «Principio secondo dell’applicazione del principio a». d. «Si dia la cognizione di tutte le cose, perché sia adoperata tanto quanto abbisogna la propria debolezza e imperfezione per andarsene a Dio, e quanto può giovare alla infermità degli altri, alla quale vuole la carità che si soccorra»24.
Alcune brevi considerazioni potranno ritornare utili per leggere questi principii intravedendone il significato per l’odierna sfida posta al problema educativo. 1. Cos’è allora l’educazione? Certo è arte: la capacità, — cioè — di introdurre l’uomo alla realtà per poterla governare, orientare, dirigere, darle un senso o anche scovarne il senso. La realtà è creazione di Dio, la realtà è così! È inutile l’illusione di volerla trasformare a partire da settori particolari, approcci, sensazioni e emozioni varie. Si pensi all’amore come problema umano: cos’è l’amore se non un valore non negoziabile? Il rapporto amativo nasce e si invera nel riconoscimento dell’altro per quello che è. L’amore non è la proiezione del tuo sentimento sull’altro, ma è la tua capacità di riconoscere l’altro così come è. La realtà della conoscenza “funziona”, in quanto le cose delle realtà che nominiamo non sono astratti nomi (secondo l’adagio nominalistico nomina nuda tenemus). Ogni realtà, in quanto reale — la totalità
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Ibid., 44. Ibid., 47.
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della realtà delle cose, come la totalità della realtà delle persone umane sono — ha capacità simbolica, ha una intelligenza interiore, che Rosmini ha capito bene: ogni realtà è gravida di un significato e svolge un significativo simbolismo teologico per cui tutte le realtà, nella loro unitotalità, sono ordinate, sono un’unica cosa, benché molteplici, coordinate da un fine e il fine della realtà è Dio stesso. Dio, comunque Lo si intenda o vuole, è il “fine ultimo di ogni cosa reale”, a fortiori “il fine ultimo dell’uomo”: la realtà creata, nella sua totalità è come una promessa di felicità fatta all’uomo = suo carattere simbolico. L’assimilazione delle cose non può accadere senza in qualche modo “assimilarne il fine ultimo”; tutta la realtà: tutte le cose e lo stesso uomo in quanto realtà creata non possono essere apprezzate nella loro realtà senza la loro relazione al fine ultimo = Dio. Propriamente parlando la loro specifica ordinazione a Dio costituisce la loro precipua realtà ontologica, potremmo tradurre. Allora, se educare è introdurre alla realtà reale del tutto e questo comporta la recezione del fine ultimo del tutto, come si potrà educare con gli strumenti che la modernità e la postmodernità mettono a nostra disposizione? Come educare, cioè dove condurre l’uomo con la secolarizzazione, con la morte di Dio, con il principio di autonomia dell’individuo, con la post-human condition? Inoltre, se educare è introdurre alla realtà reale con lo sguardo del theorein che lascia essere le cose così come sono nella loro realtà e non le rende frutto delle nostre proiezioni, oggi, come educare con il virtuale e il conflitto delle interpretazioni, senza lo zoccolo duro di “valori assoluti”, o come si dice oggi con un eufemismo non-negoziabili, oggi, quando per dirla con Nietzsche, “l’essere rotola verso un X”, e tutto è frammento, provvisorietà, indecidibilità? Per Rosmini, l’educazione richiede integralità come unità e coerenza: «adunque lo spirito della nostra Religione vuole che consideriamo l’uomo tutto insieme: vuole che tutto in esso armoniosamente proceda — Debbono armoneggiare le scienze, debbono armoneggiare le facoltà. L’armonia delle scienze è la somma legge nel trattato degli oggetti della educazione: l’armonia delle facoltà è la somma legge nel metodo». 2. L’educazione deve tener conto della fragilità della condizione umana che non è semplicemente limitata dal punto di vista della sua
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conformazione ontologica per la sua obiettiva creaturalità (l’uomo non è Dio), ma anche indebolita nella condizione esistenziale a causa del peccato originale. La grazia è allora necessaria alla perfezione dell’uomo, cioè all’assimilazione delle cose da parte dell’uomo nel suo cammino di maturazione: la grazia di Cristo è necessaria all’educazione. Con la considerazione del peccato originale, l’antropologia teologica e filosofica diventa “concreta” contro ogni forma di razionalismo e di pelagianesimo. Si nega la realtà del peccato originale infatti non solo quando — come fa il razionalismo — si ritiene che non è mai esistito, ma anche quando si nega la radicalità delle sue conseguenze nella vita ordinaria dell’uomo. Per il pelagianesimo, infatti, e la sua concezione del peccato originale tamquam spoliatus a nudo, con il peccato Adamo perse i doni preternaturali, ma restò intatto nella sua realtà e capacità umana, non è, fu vulnerato. Pertanto non avrebbe bisogno della grazia di Dio, se non come possibile “modello”, ma non come “balsamo” che dovrebbe invece sanare qualche ferita (come è invece nella posizione antipelagiana del tamquam vulneratus a sano). Ora, la storia dell’uomo dimostra la sua condizione di natura lapsa che non può essere dimenticata o nascosta dai razionalisti astratti di tutti i tempi (anche oggi c’è gente che reinterpreta il peccato originale in modo da farlo scomparire del tutto). Il perfettismo dei tempi del Rosmini negava il peccato originale, ritenendolo il residuo di una mentalità vecchia. L’antropologia del Rosmini “sfida” il progetto educativo odierno, secolarizzato e razionalistico, che immagina di poter dischiudere davanti all’uomo itinerari di perfezionamento senza nemmeno introdurre la parola “Dio” perché ciò sarebbe un’offesa alla libertà autonoma dell’uomo. 3. Si apre allora il grande problema, centrale per l’educazione umana e cristiana, della libertà da educare: per educare alla libertà quale sarà il rapporto tra “libertà dell’uomo” e “volontà di Dio di salvarlo”. Qual è il rapporto tra libertà e grazia? Possiamo dire che Dio sia un’offesa alla mia libertà? Dio è invece il principio che permette la stessa libertà, che libera la libertà, la causa dall’origine e la propizia con la sua vicinanza25. Per meglio capire come questo sia 25 Cfr. A. AUTIERO – A. GENOVESE (curr.), Antonio Rosmini e l’idea della libertà, Bologna 2001.
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possibile Rosmini introduce delle distinzioni interessanti, come quella di peccato e colpa, di volontario libero e volontario non libero, solo per fare qualche esempio. Volontario non è identico a libero (l’errore dei razionalisti è proprio proclamare questa identità): «la parola volontario non significa altro che volontario, cioè cosa voluta, cosa appartenente alla volontà»; in verità «ciò che è voluto può essere voluto in due modi, perché la volontà opera in due modi, cioè necessariamente, e liberamente. La parola volontario esprime il genere, il necessariamente e il liberamente esprimono due differenze specifiche di questo genere; sicché vi è un volontario necessario ed un volontario libero»26. Esiste pertanto un peccato necessario e non libero (il peccato originale originato) e un peccato libero e colpevole (il peccato di Adamo). Sono distinzioni che aiutano a capire, a togliere quanto alla intelligenza umana sembra razionalmente assurdo. L’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma vive dentro una drammatica della libertà nel cosmo e nella società. In questa drammatica — sia come singola persona che come comunità — si evidenza di continuo non soltanto un limite antropologico (per cui si dice: “ciascuno ha i suoi limiti”), ma soprattutto si manifestano debolezze, barbarie, errori rivelatori di una ferità profonda che necessita d’essere risanata. Non esiste allora un uomo completo, secondo una visione integrale dell’uomo, tale che non debba fare i conti con il peccato originale e con la grazie che dinamizza la nostra quotidiana libertà contro il male, rendendola libera veramente. Il peccato originale non è certo il “più antico”, perché “più antica” è la grazia di Dio e la sua misericordia. La misericordia di Dio in una umanità ferita che va educata. C’è una ferita che non è psicologica, è una ferita nell’anima. È proprio quella ferita nell’anima che sta alla base di tutte quelle forme di barbarie umana cui assistiamo nella società contemporanea. La restaurazione dell’uomo non può progettarsi astrattamente, quasi fosse l’uomo da solo a doversi ri-ordinare: da qui l’importa pubblica e politica del cristianesimo per creare un 26 A. ROSMINI, Il razionalismo che tenta di insinuarsi nelle scuole teologiche, Roma 1992, p. 114.
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habitat degno dell’uomo e della sua rinascita spirituale, morale. La perfezione rende forti (= nobilmente uomini) e si compie con con l’aiuto ai fratelli, con il diventare prossimo (Adoratori del Padre = Dio come fine ultimo, porta ad amare i fratelli, “custodi degli altri”): la pratica dell’educazione è la partecipazione alla comune umanità, cioè all’amore in cui soltanto si trova la felicità (l’uomo è un essere intelligente che tende alla felicità e la vuole). Ecco perché è centrale per l’educazione la persona umana, intesa come relazione amativa (capacità di in oggettivazione) contro l’odierno individualismo e la sempre più crescente desolidarizzazione sociale del tempo presente: nel mondo globale «l’altro» non esiste più. 7. CONCLUSIONE Pertanto, per educare la persona umana è necessario “introdurre alla realtà” che, attraverso la storia e i suoi appelli, ci sfida realmente attraverso il bisogno dell’altro che vive al mio fianco. Non esistono altre forme per introdurci in questa “realtà”, la quale diventa “perfezione” nella carità. Il sensismo e il materialismo (in tutte le forme) riducono l’uomo e non possono perciò educarlo. L’educazione infatti esige “principi sani” e “ideali alti” per ottimizzare le energie positive presenti nell’uomo e limitare (fino a farlo possibilmente sparire) l’istinto al male, sempre incalzante: «solo le grandi convinzioni formano i grandi caratteri morali, de’ quali questa nostra età è sì strema a cagione appunto che furono scosse e quasi distrutte dai sofisti e da’ semidotti le sincere e profonde convinzioni»27. 27 ID. Logica, a cura di E. Troilo, 2. voll., Milano 1942-1943, n. 870, 52. Il riferimento è ai sensisti e ai materialisti che riducono la conoscenza a sensazione. Senza grandi visioni non si educano gli uomini alla “grandezza d’animo” e non si vince la mollezza dei “tempi del declino”. Diversamente pensa Rosmini: «io vorrei che si parlasse ai giovinetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi» (ID., Lettera ad A. Piantoni del dicembre 1845, in Epistolario completo, vol. IX, 435). In questo c’è anche la responsabilità dell’educatore, la sua testimonianza e il suo esempio, ma anche la sua sapienza: «la cosa principale è quella di ridurre la vita del giovane in perfetta concordia cogl’insegnamenti», perché è «facile al precettore l’intonare meravigliose sentenze agli orecchi dell’allievo, difficile il farle seguire. Perché se per intonarle basta
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Il processo di perfezionamento non è mai concluso, è un cammino continuo, è un progetto che introduce nella realtà e gradualmente educa chi lo percorre. È necessario però la riscoperta di una armonia interna alle potenze proprie dell’uomo in quanto natura e in quanto persona28. C’è chi invoca il ritorno alle virtù, come habitus, capace di dare più spazio alla libertà educata al bene, al bello, al vero. Volendo ricapitolare quanto detto alla luce del titolo affidatomi — La visione antropologica rosminiana di fronte alla sfida educativa — possiamo dire: non c’è educazione integrale se non c’è un’antropologia integrale29. L’uomo è integralmente se stesso solo quando la relazione con Dio è una relazione soprannaturale sul piano dell’esperienza, dell’economia della grazia operata dalla grazia. È questo il dato che ho voluto recuperare e che giustifica il perché un’educazione non religiosa rischia di non pervenire al suo oggetto e quindi rischia di non essere “educazione”. È l’impostazione propria del Rosmini, che per altro — come abbiamo esplicitato — Egli sostiene e documenta di continuo. Per Lui, a base della dottrina teosofica (compimento della filosofia progressiva) sta l’augusto mistero della Santissima Trinità. D’altra parte, Padre, Figlio, Spirito Santo sono “relazione amativa”: Padre e Figlio non sono la stessa cosa, non sono identici, ma sono idemici; sono relaa lui il conoscerle, perché riesca a farle eseguire debbe tenerne egli stesso la pratica e precedere coll’esempio» (A. ROSMINI, Sulla Unità dell’Educazione, 120-121). 28 Fa bene I. Petriglieri a recuperare la lezione di Antonio Rosmini sul tema dell’educazione, ponendolo accanto ad altri “grandi”, come Blondel: «sulla base della distinzione tra persona e natura, Rosmini afferma che, mentre la prima consta di un principio ontologico immutabile, la seconda annovera tra le sue potenze il principio intellettivo-volitivo, per cui l’educazione deve vertere al perfezionamento di questo principio. Ne segue che lo sviluppo della componente intellettiva o animale dell’uomo conduce alla perfezione della natura, che in ogni caso si deve ritenere successiva alla perfezione della persona; se avvenisse il contrario ne deriverebbe un guasto morale. I valori contingenti, come la ricchezza, il possesso dei beni, la carriera, se diventassero il fine prioritario, metterebbero in ombra, fino ad annullarlo, il valore intrinseco della persona: non migliorerebbe che una sola parte dell’individuo, tradendo così il principio fondamentale dell’unità dell’educazione» (I. PETRIGLIERI, La fede cristiana e la bellezza dell’umano: educare alla vita della persona, in Vivarium n.s. 19 (2011) 75. 29 Tema svolto con ampiezza da P. SAPIENZA, Eclissi dell’educazione? La sfida educativa nel pensiero di Rosmini, Città del Vaticano 2008.
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zione amativa, l’Uno nell’Altro, senza che ognuno perda se stesso; l’Uno accoglie l’Altro, senza esser totalmente l’Altro. Padre, Figlio e Spirito Santo sono comunione perché sono persone in relazione amativa, in questa capacità — cioè — della persona di essere felice senza perdere la propria identità sta tutta la felicità dell’uomo razionale che tende ad essere felice e può esserlo perché persona. Educare la persona significa educare alla relazione amativa, affinché gli uomini siano capaci di un amore reale, vero, tale da permettere a ognuno di essere nell’altro senza perdere se stesso. Questa struttura, che è la struttura generativa dell’amore, può assumere “la forma amativa” in grado di rendere l’uomo educato, bello e felice.
ROSMINIANESIMO IN SICILIA
SALVATORE LATORA*
1. DA UN’IPOTESI ALL’INIZIO EFFETTIVO Qual è stata l’origine di questi Colloqui Rosminiani? A Stresa, dove vado ormai da parecchi anni per i Simposi Rosminiani, su mia proposta, ho avuto una esortazione-mandato, da parte del Direttore, padre Umberto Muratore, perché nascesse anche a Catania, e lo Studio Teologico S. Paolo sarebbe preferito, una sezione del Centro Studi rosminiani; del resto, egli mi diceva, la rinascita degli studi su Rosmini si deve a studiosi siciliani, come Michele Federico Sciacca, Vincenzo La Via, Peppino Pellegrino, don Giuseppe Cristaldi ecc. Esisteva già in Sicilia una lunga tradizione di estimatori e studiosi del pensiero e dell’opera del Rosmini, malgrado la condanna delle quaranta proposizioni, basta ricordare i nomi, oltre a quelli citati, di Giovanni Gentile, Angelina Lanza, Giuseppe Rizzo, Vincenzo Di Giovanni, Santino Caramella, Mario e Luigi Sturzo, anche se una recente pubblicazione di Francesco Paoli cita una serie di scuole rosminiane, tranne gli studi sul roveretano in Sicilia1. Michele Federico Sciacca, presentando il volume di Giuseppe Rizzo, La filosofia cristiana di Antonio Rosmini e altri studi, Milazzo *
Docente emerito di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. F. PAOLI, Della scuola di Antonio Rosmini, a cura di Pier Paolo Ottonello, 2006.Per precisione, o forse per giustificazione, conviene ricordare i dati biografici del Paoli (1808-1891). 1
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1965, plaudendo all’iniziativa editoriale del prof Giuseppe Pellegrino nel raccogliere in tre volumi gli scritti del sacerdote Rizzo, acuto e appassionato studioso del Roveretano, così scriveva: «Né il Rizzo è stato un solitario in Sicilia: uno dei centri più fecondi di studi rosminiani, infatti, tutto l’ambiente della”Biblioteca filosofica” era fortemente interessato al Rosmini, studiato, oltre che dal Gentile, da mons. Trippodo, P. Di Rosa, Maggiore, Angelina Lanza ecc.; lo stesso Amato Pojero sollecitava al Rizzo, tanto stimato, conferenze e discussioni sul Roveretano; successivamente il Carabellese ha continuato la tradizione che ancora oggi è viva, come dimostra la pubblicazione di questi scritti, il Convegno di Milazzo, l’insegnamento di Vincenzo La Via e dei suoi scolari, l’interesse che per Rosmini hanno altri docenti dell’Università dell’isola come Caramella, Attisani, Bonafede, Incardona ecc.»2. 2. QUALE RUOLO HA AVUTO LA FIGURA E L’OPERA DI ANTONIO ROSMINI IN ITALIA E SPECIALMENTE IN SICILIA, ALLA FINE DELL’OTTOCENTO E AGLI INIZI DEL NOVECENTO? Negli anni in cui si avvertivano radicali cambiamenti nella società civile è facile individuare due orientamenti, che poi è una costante dei movimenti cattolici e non solo: da un lato i democratici cristiani e dall’altro i cattolici intransigenti. È qui che la funzione del Rosmini e di tanti altri, come Sturzo, ha avuto il ruolo di stimolo e di guida culturale, religiosa e politica per una via di cambiamento e innovazione. Libera chiesa in libero stato: è questo «il senso del pensiero dei democratici cristiani che chiedevano una riforma dello Stato per dare più spazio alla società. Si muovevano nella tradizione cattolica siciliana che aveva difeso il principio di sussidiarietà che riconosceva a ogni corpo sociale autonomia nella specificità delle proprie finalità rispetto allo stato»3. Come nel Medioevo il sapere veniva esposto nelle 2
G. RIZZO, La filosofia cristiana di Antonio Rosmini , Milazzo 1965, IV. F.M. STABILE, La Chiesa nella società siciliana, Caltanissetta-Roma 1992, 111. «Si riproponeva la visione di Lamennais e di Ventura, ma anche di Rosmini e di tanti altri cattolici che nel legame con il popolo e non con il potere politico avevano guardato alla libertà della Chiesa e che facevano coincidere gli interessi della democrazia con 3
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Summae, così le summe dell’epoca moderna sono costituite da Rosmini, Maritain e dai Fratelli Sturzo. 3. STUDIOSI E CENTRI CULTURALI Giovanni Gentile, Michele Federico Sciacca, Vincenzo La Via, Santino Caramella, Giuseppe Pellegrino, Angelina Lanza, i fratelli Mario e Luigi Sturzo; le tre Università siciliane, la Biblioteca Filosofica di Palermo, diretta da Giuseppe Amato Pojero, le 18 diocesi di Sicilia: attraverso queste personalità e istituzioni passa e si sviluppa il rosminianesimo di Sicilia, che ha caratteri di originalità e creatività, non di semplice ripetizione devozionale o celebrativa, anche trattandosi di un grande come Rosmini, purtroppo condannato e poco conosciuto. Si parte da Gentile (Castelvetrano 1875-Firenze 1944) e dal suo Rosmini e Gioberti che è già il titolo della sua dissertazione di laurea del 1897 (aveva allora 22 anni!) presso la facoltà di Pisa e che poi diventa il volume, edito da Nistri, Pisa nel 1898. Parecchi degli Autori sopra citati sono stati discepoli di Giovanni Gentile e sentono ancora il fascino di quella personalità. In pagine limpide e incisive, direi fondamentali, Michele Federico Sciacca (Giarre 1908 – Genova 1975) scrive che quella del Gentile è “una interpretazione” che «ha il merito di avere rinnovato e promosso gli studi rosminiani, di averli orientati verso un’impostazione veramente speculativa (al di fuori delle polemiche di carattere teologico e confessionale) e in stretto rapporto con il pensiero moderno da Cartesio allo Hegel. Essa, però, ha avuto il torto, a nostro avviso, di accreditare e diffondere un Rosmini “non rosminiano”, un Rosmini che non è Rosmini»4, perché l’ha visto alla luce del suo hegelismo o gli interessi del cristianesimo e viceversa. La connessione tra mutamenti sociali e politici in senso democratico e lo scioglimento dei legami tra mondo clericale e potere, e cioè riforma della chiesa, diventava la chiave di volta del programma democratico cristiano» (ibid., 112). Ma anche:«La intuizione più rilevante del clero democratico cristiano, e soprattutto di Luigi Sturzo, fu quella di cogliere il nesso tra azione pastorale e condizioni politiche e sociali»( ibid., 79). Si Vedano di Rosmini , Le cinque piaghe della Santa Chiesa; e di L. Sturzo il criterio della Diarchia. 4 M.F. SCIACCA, Interpretazioni rosminiane, Milano 1958, 54.
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meglio Attualismo vedendo l’idea dell’essere in senso immanentistico e accettando la concezione del napoletano Spaventa sulla circolazione del pensiero, secondo cui la filosofia italiana del Rinascimento con Campanella e Bruno ha anticipato Cartesio e Spinoza, così come Vico è il precursore di Hegel ; la filosofia ritorna poi in Italia con Rosmini e Gioberti. Mentre, sostiene lo Sciacca, lo sforzo teoretico del grande Roveretano nell’ambito del pensiero moderno è ben più significativo di quello che intende il Gentile. Rosmini non è il Kant italiano,che anzi, tutto il pensiero moderno da Cartesio in poi rappresenta una deviazione dalla linea classica e cristiana. «Per Rosmini la verità è oggettiva e trascendente la ricerca e l’umana ragione; l’uomo “scopre” non crea la verità; giudica per mezzo della verità che intuisce e non è giudice (ne è giudicato) della verità; non c’è la verità perché il pensiero la pensa, ma c’è il pensiero in quanto pensa la verità che è al di là, indipendentemente da esso. Era questo il nucleo metafisico fondamentale della filosofia classica sia greca che cristiana, e, di quest’ultima, sia di tipo agostiniano che tomista. Restaurare questo concetto della verità dentro il pensiero moderno, è il compito che il Rosmini si assume ed è quello che fa l’originalità del suo pensiero e caratterizza la sua particolare posizione storica»5. Ma Michele Federico Sciacca non è solo scopritore dell’importanza di Rosmini e ripetitore pedissequo del suo pensiero, ma è creatore di un sua propria filosofia che è quella dell’integralità, come ben vide, una figura centrale nell’Università di Palermo: Santino Caramella, genovese di nascita, ma siciliano di adozione, professore di filosofia nelle università di Catania e di Palermo, in due saggi utilissimi per inqua5 Ibid., 59. Fondamentali per chiarezza e profondità sono le pp. 66-67, in cui vede il Rosmini come il più moderno dei moderni. Il pensiero moderno ha sviluppato due concetti propri di Agostino e del migliore agostinismo medievale:«l’interiorità della verità e la concezione della filosofia come approfondimento della vita spirituale […] Ma l’immanentismo moderno si ferma all’in interiore homine habitat veritas, sopprimendo il trascende et te ipsum. Perciò l’interiorità idealistica è spuria; in essa la vita spirituale è destinata a perdersi, come infatti è avvenuto. Rosmini riporta in seno al pensiero moderno, di cui condivide l’esigenza di interiorità il senso vero di essa […] e precisamente la concezione dell’idea come oggetto o lume della mente, cioè l’oggettività dell’idea o della verità».
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drare la posizione storica dello Sciacca6, e per rilevare anche lui l’importanza centrale del Rosmini. Nella filosofia dell’integralità Sciacca concepiva la necessità di una visione integrale della vita, come l’unica che potesse salvare la cultura dal dissolvimento in cui la portavano il relativismo e lo scetticismo imperanti nel mondo contemporaneo. Un altro filosofo creativo, animatore di due scuole con forti interessi rosminiani, a Messina e a Catania è Vincenzo La Via. Vincenzo La Via (Nicosia, 28-1-1895 – S.Gregorio di Catania 1982) compie i suoi studi a Roma, dove si laurea in filosofia avendo avuto come maestri B: Varisco,G. Barzellotti e G. Gentile. Insegna dapprima nei licei e poi nelle università di Genova, di Urbino, di Messina, dove è preside della Facoltà di Magistero; presiede nel 1948 il XV Congresso Nazionale di Filosofia, è presidente del Comitato dei docenti universitari cattolici e copre la carica di Rettore dello studio teologico per laici. Nella città dello stretto dove insegnò per 16 anni dette corpo alla sua identità filosofica “L’assoluto realismo” e fonda una scuola attorno alla rivista Teoresi (1946) di cui è direttore. Qui lo seguono fervidi ingegni come Guido Ghersi, Francesco Mercadante, Filippo Bartolone, Mario Manno, ecc. Nel 1957 è chiamato a Catania, dove insegna filosofia teoretica nell’Università e pedagogia nell’istituto di Magistero, fino all’anno 1965 quando va fuori ruolo, ma prosegue la sua attività di ricerca attorno a “Teoresi” fino al 1980, anno della cessazione della rivista. Anche a Catania costituisce per dir così una “ seconda scuola”, seguito da discepoli, altrettanto impegnati e prestigiosi come Mariano Cristaldi, Antonio Brancaforte, Eduard Landolt, Rosario Vittorio Cristaldi, Salvatore Latora ecc. 6 S. CARAMELLA, Il pensiero filosofico in Sicilia dall’età antica alla contemporanea, a cura di F. Armetta, Caltanissetta-Roma 1995, 317-324, 442-456. Per Michele Federico Sciacca cfr. in F. ARMETTA (cur.), Dizionario Enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia, Caltanissetta-Roma 2010, la voce omonima a cura di G. Nicolaci, vol. VI, 2905-2919. S. LATORA, Due filosofi siciliani a confronto: La Via-Sciacca, in LAOS 1-2 (2008). Nello stesso Dizionario la voce: Giovanni Gentile è nel vol. IV, 1422- 1437, a cura di G.L. Bonanno e F.S. Calcara. E la voce: Santino Caramella (Genova 1902 – Palermo 1972) a cura di F. Armetta, vol. I, 472-483. S. LATORA, Ricordo di Santino Caramella, in Teoresi 1-2 (1972). Questo recente Dizionario Enciclopedico, in sei volumi, è uno strumento valido, anzi indispensabile per la nostra ricerca.
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Abbiamo già scritto che come Michele Federico Sciacca va ricordato per la istituzione della “Cattedra Rosmini” e per l’instancabile opera di ricerca, per far conoscere l’autentico pensiero del filosofo cristiano di Rovereto e dissipare dubbi e incertezze interpretative; così, un altro siciliano, Vincenzo La Via, attraverso un implacabile e logico argomentare con un inimitabile stile essenziale, fa riscoprire la originalità rivoluzionaria della filosofia rosminiana «come necessaria via da percorrere per la cercata “restituzione della filosofia a se stessa”, e, con ciò dell’uomo alla interezza del suo esser “persona” o «coscienza e libertà”»7. Generalmente si sostiene, continua il La Via, che il merito del Rosmini consista nella critica radicale dell’empirismo e del soggettivismo ed è vero, ma bisogna comprendere la sorgente di tale critica che consiste in ciò che Rosmini ha chiamato il “sistema di verità”. Ora tante obiezioni e discussioni sulla filosofia rosminiana nascono da un equivoco iniziale in campo gnoseologico, quello cioè «di raffigurarsi il rapporto conoscitivo come un rapporto da istituire fra il soggetto e la verità»8. Mentre il grande merito del Rosmini sta proprio nel superamento di quella ingannevole apparenza che pretende di anticipare il soggetto al rapporto originario e fondante che lo costituisce come soggetto: è quella infinità ideale della pura idea dell’essere, per virtù della quale il soggetto può conoscere la propria finitezza e contingenza. Così il Rosmini«ha potuto fornire alla speculazione il criterio valido che permette di riprendere il filo d’oro della “filosofia perenne”, incautamente e rovinosamente spezzato quando fu avanzata (con ugual senso, per quanto con diversa forza, da Cartesio e da Kant) appunto la famosa istanza, falsamente ritenuta “critica”, di una mediazione giudicativa assoluta del fatto universale del conoscere da parte del soggetto pensante e dubitante»9. Altri discepoli a Catania seguono il La Via, come Mariano 7
S. LATORA, la filosofia di Rosmini nei pensatori di Sicilia, in Rivista Rosminiana
CI (2007) 4, 370. 8 V. LA VIA, La base teoretica del rapporto di filosofia e religione nel pensiero di Antonio Rosmin, in Teoresi 3-4 (1955) 313; ID., La fondazione rosminiana della pratica, in Teoresi 4 (1954). La Via ha raccolto poi i due magistrali saggi nel volume: La problematica etico-religiosa in Antonio Rosmini, Catania 1964. 9 Ibid., 315.
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Cristaldi, con il volume: Rosmini antiromantico (Catania,1967)10, Rosario Vittorio Cristaldi con:Rosmini e il problema del finito11, Antonio Brancaforte12, e il sottoscritto che ha presentato su varie riviste il resoconto dei Simposi Rosminiani13. Un’altra figura di rilievo nell’ambito catanese è Don Giuseppe Cristaldi (Catania, 11 febbraio 1918 – Acireale, 12 marzo 1998), poliedrica figura di sacerdote, filosofo, teologo, studioso profondo di Rosmini e Newman14. Studioso assiduo della figura del Rosmini, su cui ha scritto diversi e interessanti volumi15 è don Piero Sapienza, sacerdote della Diocesi di Catania, Direttore della Pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Catania, ma anche Delegato in ambito regionale della Sicilia, mentre collabora con L’Ufficio Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana. Della scuola messinese di Vincenzo la Via ricordiamo: Francesco Mercadante, Giuseppe Pellegrino, studioso, editore delle pubblicazioni 10
Cfr. S. LATORA, La Via, in Dizionario enciclopedico, cit., vol. IV, 1726-1732; S. LATORA, Mariano Cristaldi, originale discepolo della scuola del La Via, studioso di Rosmini, in LAOS 2 (2010). 11 Cfr. R.V. CRISTALDI, Saggi di filosofia del finito, Messina 1978. 12 A. BRANCAFORTE, Discussioni Rosminiane, Catania 1968; ID., La tematica linguistica rosminiana, Catania 1974; ID., Uomini e problemi della Biblioteca filosofica di Palermo, Catania 1979. 13 S. LATORA, Il sacro e la storia. Le civiltà alla prova. Terzo Simposio presso il centro internazionale di studi rosminiani di Stresa. Contenuti e spunti di riflessione, in Synaxis 2 (2002); ID., IV Corso: Umanità globalizzata, in Itinerarium 12 (2004); ID., V Corso: Cristianesimo senza teodicea, in Synaxis 1 (2006); ID., VII Corso: Dove va il pensiero cattolico oggi- Riflessioni in margine, in Synaxis 1 (2007). 14 G. CRISTALDI, Antonio Rosmini e il pensare Cristiano, Milano 1977 (con ampia scelta di brani antologici dalle opere più significative del Rosmini). A lui è stato dedicato un ampio Convegno ad Acireale nei giorni 7-8 aprile 2008, di cui sono pubblicati gli Atti: Credere Pensando. L’itinerario filosofico-teologico di Giuseppe Cristaldi (a cura di Antonino Franco e Giuseppe Rossi). Come a cura di Antonino Franco è la voce: Giuseppe Cristaldi, in Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e dei teoloci di Sicilia, vol. II, cit., 792-801. 15 P. SAPIENZA, Il valore della persona nel pensiero filosofico di A. Rosmini –Serbati, Roma 1974; ID., Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico politica, Acireale (CT) 1990; ID., Rosmini, un profeta scomodo, Roma 1999; ID., Eclissi dell’educazione? La sfida educativa nel pensiero di Rosmini, Città del Vaticano 2008.
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rosminiane e delle opere di Angelina Lanza-Damiani;Filippo Bartolone, Mario Manno, Carmelo Amato16. 3.1. I Fratelli Mario e Luigi Sturzo In un recente nostro saggio ci siamo chiesti: quale conoscenza delle opere del Rosmini e quali influssi del pensiero del Roveretano sono riscontrabili negli scritti e nella molteplice attività del Fratelli Sturzo?17. Bisogna però precisare, che, contrariamente a quella che è una opinione comune, gli Sturzo sono due: oltre a Luigi (26 nov. 1871Roma 8 agosto 1959), famoso come fondatore del Partito Popolare Italiano, c’è un altro fratello, Mons. Mario (Caltagirone, 1 novembre 1861 – Caltagirone, 12 novembre 1941), vescovo di Piazza Armerina 16
Oltre agli Autori che parteciparono al numero speciale di Teoresi (1955), dedicato a Rosmini, ricordiamo: F. BARTOLONE, Rosmini e “l’assoluto realismo” di Vincenzo La Via, in Rivista Rosminiana 59 (1965) 3-4; cfr. la voce omonima, a cura di Carmelo Amato, in Dizionario Enciclopedico, vol. I, cit., 195-200. M. MANNO, Interpretazioni rosminiane: idea e realtà, idea e esistenza nel numero speciale di Teoresi dedicato a Rosmini, cit., 327-351. G. PELLEGRINO, Sulle orme del Rosmini: Angelina Lanza Damiani (con «inediti autobiografici»). Ibid., 352-415. Su questa mistica rosminiana, scrittrice e poetessa, cfr. G. GIURINTANO (cur.), Lanza Damiano Angelina, in Dizionario Enciclopedico, vol. IV, cit., 1670-1674. F. MERCADANTE, tra le sue numerose ricerche studi e volumi rosminiani sempre utili e stimolanti, citiamo: Gnoseologia, Morale e Pedagogia (Brani dalle opere del Rosmini, scelti e ordinati con una ampia Introduzione del Mercadante e una prefazione di Vincenzo La Via); Il regolamento della modalità dei diritti – Contenuto e limiti della funzione sociale secondo Rosmini, Milano 1975; Dalla condanna alla riconciliazione. Rosmini nel nuovo millennio, in RIFD 4 (2001) 433-458. Carmelo Amato, Discepolo del La Via, studioso assiduo del Rosmini, che è presente in tutti i suoi scritti: Pensiero ed essere, Messina, 1968; Allarme sull’Occidente. Problematiche attuali nella luce di verità eterne, riproposte e aggiornate da A. Rosmini, Milazzo 2005; Rapsodia di pensieri, Milazzo 2006; Io chi sono? La risposta di un rosminiano nel bicentenario della nascita di A. Rosmini, Messina 1997; Una carrellata di metafisica per anoressici, Omaggio ad Antonio Rosmini per la sua beatificazione, in Itinerarium 16 (2008) 38, 89-107; Heidegger, il Rosmini del 1900, in Itinerarium 14 (2006) 32. 17 S. LATORA, Itinerari della santità nelle opere dei fratelli Sturzo e influssi del pensiero rosminiano, in Etica contemporanea e santità. Atti del VI Corso dei Simposi rosminiani (Stresa, 24-27 agosto 2005) 245-257.
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(1903-1941), vescovo sociale, che ebbe grande influsso sull’opera del fratello come dimostra l’ampio carteggio, (I-V), anche se in modo dialettico, che i due, forte personalità, si scambiarono quasi giornalmente durante gli anni dell’esilio di Luigi. Lo studio comparato del loro carteggio ci fa vedere come in loro ci sia un chiaro progetto di rinnovamento religioso e civile, (che abbraccia globalmente gli aspetti culturali, filosofici, teologici, ecclesiali, socio-politici, estetici, una vera Summa moderna!), che si lega a quello risorgimentale di Rosmini e Gioberti e più da vicino agli aspetti innovativi della Rerum Novarum di Leone XIII. Come il progetto dei cattolici, Gioberti, Rosmini, Ventura et alii, rispetto a quello illuministico e liberale, è stato un «sogno infranto», ma solo momentaneamente, per contingenze storiche; così può dirsi del progetto di rinnovamento dei Fratelli Sturzo. Anche gli Sturzo sono stati due riformatori profetici, a cui furono tarpate le ali, ma che, momentaneamente impediti, ritornano di attualità, come araba fenice, perché puntavano sul problema italiano, e non solo, ancor vivo e attuale del rapporto fra Chiesa e società civile, fra cristianesimo e modernità18. Se esaminiamo storicamente i fatti non possiamo non rilevare che il legame fra Chiesa e società civile, così debole nella società italiana, esige un nuovo tipo di cultura, filosofica, teologica, sociale, politica; un rinnovamento religioso ed ecclesiale: questo intuì Rosmini e questo intuirono i fratelli Sturzo, ancor prima del Vaticano II. Il rapporto fra L. Sturzo e Rosmini è ormai storiograficamente assodato, per ciò che riguarda l’antiperfettismo della politica, e la concezione dello stato contro ogni sua assolutezza, se si pensa che negli anni Trenta sono dominanti le tre grandi dittature: fascista, nazional-socialista e bolscevica. Il rapporto va visto storicamente, con tutte le variazioni e limitazioni che la questione comporta, come abbiamo cercato di dimostrare in quel saggio citato sulla scorta di studiosi dell’argomento come G. Campanini, M. D’Addio, G. De Rosa, M. Pennisi, A. Di Lascia. Solo che questi Autori hanno trattato del 18 Ibid., 245. Cfr. S. LATORA, Mario e Luigi Sturzo. Per una rinascita culturale del cattolicesimo, Catania 1991; S. LATORA, La vocazione universale alla Santità in Mario e Luigi Sturzo, Città del Vaticano 2010; S. LATORA, Voci filosofiche del nostro tempo.Percorsi di una cultura socio-politica, Cosenza 2010.
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rapporto a due: Rosmini – Luigi Sturzo, mentre noi abbiamo orientato la nostra ricerca su un rapporto a tre: Rosmini – Mario e Luigi Sturzo19. Il criterio generale è evidente: In linea con Rosmini, ma, dopo Rosmini, gli Sturzo, rosminiani creativi! 3.2. Mons. Cataldo Naro È costante in Cataldo Naro, eccezionale arcivescovo e grande uomo di cultura, l’apprezzamento, oltre che dei fratelli Sturzo, anche del pensiero e della profonda spiritualità cristiana di Antonio Rosmini, tanto da includere, nella sua raccolta di Preghiere (p. 749) L’«Atto di Annientamento con Antonio Rosmini», perché egli si ispirava ai santi Padri della Chiesa per essere convinti che «perfetto teologo non può essere mai di quelli, che non congiungono allo studio la santità della vita e l’esperienza de’ veri eterni»20. 3.3. Altri autori che con i loro studi continuano l’interesse per Rosmini. Eugenio Guccione nei suoi lavori, volumi, e Convegni da lui diretti ritornano spesso le idee,le opere del Rosmini e dei rosminiani. Oltre alle opere in bibliografia, citiamo: Presenza e limiti della cultura cattolica21. 19 Mario Sturzo, nel suo volume Il problema della conoscenza. Lezioni di filosofia per i licei, secondo i nuovi programmi, Roma MCMXXV, dedica tutto un capitolo al problema della conoscenza secondo Rosmini ed espone le critiche dal suo punto di vista che è quello del Neo- sintetismo, mentre le finalità sono simili a quelle del Rosmini: svelare le contraddizioni dovute al carattere analitico, o meglio, analiticistico delle filosofie moderne. 20 A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, I, Roma 1983, 231. La citazione è tratta dal volume: Sorpreso dal Signore. Linee spirituali emergenti dalla vicenda e dagli scritti di Cataldo Naro, Caltanissetta-Roma 2010. Il saggio è del vescovo di Noto, A. STAGLIANÒ, Abbiamo bisogno di uomini che tengono lo sguardo dritto verso Dio. Ricordando l’amico Cataldo Naro, 209-211. C. NARO, La spiritualità “spoglia” del vescovo Sturzo, in La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, vol. I, CaltanissettaRoma 1994, 516-519. 21 E. GUCCIONE, La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, cit., 819-855.
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Francesco Conigliaro Teologia Trinitaria e Comunità politica nel pensiero di Antonio Rosmini, saggio edito in Synaxis22 – Teologia e Teologi di Sicilia tra i due Concili Vaticani23. Salvatore Muscolino, giovane studioso siciliano che ha scritto articoli e diversi volumi su problematiche attinenti al pensiero e all’opera del Rosmini24. Rosalia Azzaro Pulvirenti, studiosa siciliana, anche se lavora a Roma.Si interessa del pensiero e delle problematiche rosminiane, specialmente negli Autori di area russa25. 4. FONTI BIBLIOGRAFICHE ARMETTA F., (cur.), Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e dei teologi di Sicilia. Secc.XIX e XX, voll. I-VI, Caltanissetta-Roma 2010. La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, voll. I-II, Caltanissetta-Roma 1994. ZITO G., Storia delle Chiese di Sicilia, Città del Vaticano 2009. ZITO G.(cur.), Chiesa e società in Sicilia, Atti del I Convegno internazionale, organizzato dalla Arcidiocesi di Catania, voll. I-II-III, Torino 1995. DI GIOVANNI V., Storia della filosofia in Sicilia, Appendice di aggiornamento di Giuseppe Maria Sciacca, voll. I-II, Bologna 1985. DI CARLO E., La filosofia del Rosmini in Sicilia, a cura di P. Pellegrino, Roma-Stresa 2001. CARAMELLA S., Il pensiero filosofico in Sicilia dall’età antica alla contemporanea, a cura di F. Armetta, Caltanissetta-Roma 1995. 22
F. CONIGLIARO, in Synaxis 1 (2007). ID. , in: La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, cit., vol. II, 549-641. 24 S. MUSCOLINO, Attualità della prospettiva antiperfettista della politica rosminiana, in Synaxis 2 (2007); Volumi: Il problema della legge naturale in San Tommaso e Rosmini, Palermo 2003; Genesi e sviluppo del costituzionalismo rosminiano, Palermo 2006; La via del pensiero autentico. Martin Heidegger tra oriente e occidente, Palermo 2008; Persona e mercato. I Liberalismi di Rosmini e Hayek a confronto, prefazione di Flavio Felice, postfazione di Markus Krienke, Soveria Mannelli 2010. 25 R. AZZARO PULVIRENTI, Metropolita Kirill, «Dignità dell’uomo e diritti della persona», in un saggio di presentazione: Libertà e responsabilità, in Rivista Rosminiana 1 (2011) 39-52. 23
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Colloqui Rosmini II La politica di Antonio Rosmini (2012)
COLLOQUI ROSMINI: LA POLITICA DI A. ROSMINI. INTRODUZIONE
PIERO SAPIENZA*
1. I “Colloqui Rosmini”, l’iniziativa che lo Studio Teologico S. Paolo ha lanciato sin dal 2010 si colloca molto bene in un panorama culturale nazionale, e internazionale, che da diverso tempo va riscoprendo il patrimonio fecondo di pensiero di Antonio Rosmini (proclamato “beato” il 18 novembre del 2007). Occorre ricordare che gli studi rosminiani sono giunti ormai a quella che gli studiosi definiscono quarta fase: quella, cioè, dell’approfondimento del pensiero di Rosmini, in dialogo con i maggiori pensatori della storia. Infatti la prima fase è stata quella in cui lo stesso Rosmini si difese dalle accuse che gli venivano mosse sul piano filosofico e teologico; la seconda fase è stata legata al tentativo di evitare la condanna postuma (1888) delle 40 proposizioni, dichiarate dalla Santa Sede “haud consonae veritati catholicae”; la terza fase (che ebbe tra i maggiori protagonisti M.F. Sciacca) ha visto la diffusione e la riabilitazione del pensiero del roveretano. A proposito della quarta fase, ci sembra significativa la recente pubblicazione di un numero unico della rivista dei domenicani di Bologna “Divus Thomas” (gennaio/aprile 2011), dedicata al rapporto tra il pensiero di Rosmini e quello di Tommaso D’Aquino (dove appaiono anche i contributi di tre dei nostri relatori odierni: M. Krienke, S. Muscolino, P. Sapienza), che
* Docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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spiana le antiche questioni in cui si evidenziavano insanabili contrasti tra i due grandi pensatori. 2. In questi ultimi due anni, il pensiero di Rosmini è stato diffuso tra gli studenti del nostro Studio Teologico, sia a partire dal 1 Convegno Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini (18 novembre 2010), ma anche grazie alla istituzionalizzazione di seminari per gli studenti del 1 e 2 anno, i quali hanno avuto la possibilità di accostarsi alle opere del roveretano, sia affrontando la questione educativa (di grande attualità in un tempo di “emergenza educativa”), sia quella del rapporto tra etica ed antropologia (è il seminario di questo anno accademico 2011/2012). 3. Con l’odierno Colloquio La politica di Antonio Rosmini, attraverso l’apporto di studiosi rosminiani, si vogliono delineare alcuni aspetti fondamentali del pensiero politico di Rosmini. In una fase storica in cui la politica in Italia (per limitarci al nostro Paese) è investita da una crisi profonda, caratterizzata da una caduta di stile, come pure da una dialettica che manifesta una debolezza culturale ormai evidente, per mancanza di idealità e di proposte di alto profilo, con contenuti sempre più scadenti, che non riescono a mordere la realtà e la concretezza dei bisogni della gente, ci sembra che scavando nel pensiero politico del roveretano possiamo trovare alcune linee di fondo, che possono orientare un percorso per un sano rinnovamento socio-politico che punti al bene comune della polis. 4. Rosmini si muove nell’orizzonte culturale del suo tempo volendo intercettare le sfide che provengono dalla modernità. Il suo impegno teoretico si svolge a tutto campo. Essendo convinto che le filosofie sensiste e materialiste avevano provocato più guasti delle invasioni barbariche, corrompendo la Morale, il Diritto, la Pedagogia, la Politica, aveva elaborato un piano enciclopedico, che prendeva le mosse dalla restaurazione delle rovine della filosofia, convinto che quando i mali sono profondi bisogna avere il coraggio di andare alla radice, e non accontentarsi di rimedi palliativi, superficiali. Per questo, egli che giovanissimo si era dedicato agli studi politici, li interrompe nel 1827, perché si convince che prima bisogna elaborare una salda base metafisica su cui edificare una compiuta riflessione politica, capace di rinnovare la comunità politica. Bisogna dire, pertanto, che la problematica
Colloqui Rosmini: La Politica di A. Rosmini. Introduzione
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sociale e politica fu sempre al centro degli interessi culturali di Rosmini, sin dai suoi primi scritti giovanili (ad esempio il Panegirico di Pio VII del 1823) fino alle opere della maturità. E in questo anno che chiude le celebrazioni nazionali dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ci piace sottolineare come in diverse occasioni è stato sottolineato che Rosmini deve essere annoverato tra coloro che hanno contribuito a costruire l’unità del nostro Paese. E non solo per il celebre Saggio sull’unità d’Italia, pubblicato nel 1848. Pertanto, non si può assolutamente accettare il giudizio di Benedetto Croce, secondo cui Rosmini «era interamente sordo alla storia e alla politica»1. 3. A partire da queste brevi osservazioni, si spiega la scelta degli argomenti che oggi saranno trattati dai nostri relatori. Giuseppe Astuto: Rosmini e il costituzionalismo europeo; Paolo Armellini: L’Unità d’Italia nella visione politica di Rosmini; Francesco Conigliaro: Filosofia e politica in Rosmini; Markus Krienke: Rosmini anticipatore della svolta personalistica nell’etica sociale cristiana2; Salvatore Muscolino: Rosmini di fronte alla modernità: diritti, economia e persona; Piero Sapienza: La concezione antiperfettistica della politica in Rosmini.
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B. CROCE, La filosofia nei licei, Lettera a R. Franchini, 18.4.1952, in R. BESSERO BELTI, Rosmini “interamente sordo alla storia e alla politica”?, in Rivista rosminiana 2 (1952) 139-142. L’autore, presbitero rosminiano e grande studioso di Rosmini, dimostra ampiamente l’infondatezza dell’affermazione crociana. 2 Il contributo di Marus Kienke non è pervenuto in tempo per la stampa del presente volume.
ROSMINI E IL COSTITUZIONALISMO EUROPEO
GIUSEPPE ASTUTO*
«V’ha due maniere di Costituzioni politiche: le une formate brano a brano, senza un disegno premeditato, rappezzate e rattoppate incessantemente secondo il contrasto delle forze sociali e l’urgenza degli istituti e dei bisogni popolari; le altre create d’un solo tratto, uscite belle e compiute come una teoria della mente, come Minerva dalla testa di Giove. Quelle sono poste in atto prima che scritte, queste prima scritte che poste in atto. Le Costituzioni anteriori al 1789 appartengono, la maggior parte, alle prime: tale fu la Costituzione della Repubblica veneta, tale è ancora la Costituzione inglese. La Francia della rivoluzione, indignata con il passato, esclusi i fatti anteriori, prese la prima carta bianca, vi scrisse su una Costituzione, e comandò alla nazione di darle eseguimento. La Costituzione inglese le fu certo a modello, ma rimase la differenza immensa dell’origine: opera quella degli avvenimenti, e però ella stessa un fatto, in qualunque modo si voglia giudicare; questa, lavoro speculativo del pensiero, e però uno scritto»1. Così Rosmini inizia il volume su La Costituzione secondo la giustizia sociale, pubblicato nel 1848 alla vigilia della “primavera dei popoli” e della formazione di movimenti nazionali in Europa, inter* Docente di Storia e Filosofia delle Istituzioni politiche presso l’Università degli Studi di Catania. 1 A. ROSMINI, La Costituzione secondo la giustizia sociale, con un’appendice sull’Unità d’Italia, Milano 1848, in ID., Scritti politici, seconda edizione accresciuta, a cura di U. Muratore, Stresa 2010, 45.
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rogandosi sulle esperienze costituzionali del passato. La sua tesi è la seguente: mentre le Costituzioni anteriori al 1789 si basavano sulle necessità reali delle popolazioni, le Costituzioni francesi furono costruite con un semplice tratto di penna, uscite «come Minerva dalla testa di Giove». Secondo Rosmini, queste ultime non avevano garantito il buon rapporto tra i diversi poteri dello Stato, la giustizia politica e il riconoscimento dei diritti. L’opera di Rosmini, che si colloca nel periodo della maturità, affronta quindi il tema del costituzionalismo europeo, individuando tre punti fondamentali: i diritti della persona, la divisione dei poteri e il controllo giurisdizionale sulla legislazione. 1. Cominciamo dai diritti e, naturalmente, dalle novità istituzionali emerse durante la Rivoluzione francese. Diritti e Costituzione hanno trovato espressione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789): «ogni società, — così recita l’art. 16 — che non garantisce i diritti e non separa i poteri, non ha Costituzione». In questa enunciazione sta il principio della Costituzione come atto che garantisce i diritti e separa i poteri. Con un lessico tipicamente giusnaturalistico i diritti fondamentali non si “creano”, ma si “dichiarano”, perché i diritti esistono da sempre come retaggio ineliminabile della natura umana. Nasce lo Stato di diritto con una Costituzione liberale che, in contrapposizione al regime assolutista, si basa sulla presunzione generale di libertà a favore degli individui. Questo modello, affermatosi nella Francia rivoluzionaria in modo contraddittorio, diventerà il punto di riferimento dei singoli Stati nazionali del secolo XIX. Quali influssi hanno queste vicende sulla formazione culturale e religiosa di Rosmini? Nato alla fine del Settecento (a Rovereto nel 1797) Rosmini vive in gioventù il periodo dell’esperienza rivoluzionaria e il lungo dominio napoleonico, che hanno messo duramente alla prova il mondo cattolico. Lo smantellamento della Chiesa di ancien régime e il tentativo di creazione di una nuova religione repubblicana costituiscono le tappe di una profonda e traumatica ridefinizione dei rapporti tra Stato e Chiesa e tra Chiesa e società. Proprio nel momento del più violento attacco contro la Chiesa e, soprattutto, contro il Papa Pio VII, l’Europa conosce un esteso movimento di risveglio religioso.
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Il pensiero cattolico, rispondendo alla svalutazione tutta illuminista della religione, comincia a stabilire un nesso stringente tra cristianesimo e civiltà e, nel clima romantico di inizio Ottocento, cerca di inserire i nuovi soggetti del secolo — le nazioni — all’interno di una storia unitaria del continente cristiano. Molti giovani sacerdoti e laici, di fronte all’indebolimento delle Chiese nazionali sul piano dottrinale e istituzionale, vedono nel Papa il difensore del diritto e della civiltà e nella Chiesa cattolica il punto di riferimento per la riaggregazione ecclesiale. In Italia, questa cultura e questa sensibilità «neo-ultramondana» svolgono un ruolo decisivo tanto nel legittimare le prime rivendicazioni nazional-patriottiche, quanto nell’avvicinare settori importanti del mondo cattolico all’idea nazionale e liberale. Una parte della cultura, che si oppone agli esiti dispotici e imperiali dell’esperienza rivoluzionaria, vede il Papa come il perno dell’identità nazionale e la sua presenza nel suolo italiano come garanzia di libertà patria. Proprio attorno alla figura di Pio VII, l’oppositore di Napoleone e il restauratore della sovranità pontificia, si manifestano segnali di quel neoguelfismo che segnerà la cultura cattolica degli anni successivi. Al momento della sua morte (1823) tra i molti panegirici ed elogi funebri spicca lo scritto di Rosmini (Panegirico alla santa e gloriosa memoria di Pio Settimo pontefice Massimo). In questo scritto il giovane sacerdote riprende i temi propri della cultura ultramondana di questi anni (la libertà e l’unità della Chiesa, il ruolo del papato nell’Europa), alla cui elaborazione ha contribuito De Maistre con l’opera Du Pape. Facendo esplicito riferimento al rapporto tra papato e nazione italiana, Rosmini però si muove in un orizzonte politico e religioso diverso: la difesa dell’«italica libertà» deve essere soccorsa dal Papato, visto come autorità religiosa e non come principe temporale. Nella riflessione di Rosmini degli anni Venti e Trenta, pur non mancando ampi riferimenti all’idea d’Italia come nazione cattolica, resta centrale la rivendicazione della libertà della Chiesa e la proposta di una profonda riforma delle istituzioni liberali. Cosciente della crescente secolarizzazione della società, l’abate si convince che ormai il mantenimento del potere temporale del Papa è anacronistico e che il recupero del messaggio originario del cristianesimo, fondato sulla verità e sulla giustizia, implica il ritorno alla funzione universale di
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difesa dei diritti delle persone e dei popoli. Come realizzare questi principi? Qual è il senso dei diritti nel dibattito politico-giuridico della prima metà dell’Ottocento? Su questi temi nell’Italia della prima metà del secolo XIX gli schemi teorici e le argomentazioni sono divergenti. Per Romagnosi, legato all’antropologia filosofica illuminista, l’individuo è definibile a partire dalla logica del bisogno, dell’interesse e dell’impulso autoconservativo. Per Rosmini, che si contrappone a questa visione e alla sua etica utilitaristica, l’essere umano è una persona, considerata sempre come fine e mai come mezzo: «ogni società umana — scrive l’abate — non è che l’unione di più persone fatta ad intendimento di procacciarsi un vantaggio comune; le persone dunque in questa unione tengono tutte insieme la parte di fine, e a tutte egualmente si riferisce il vantaggio che aspettasi di trarre dall’associazione»2. All’azione che concerne propriamente la persona dell’uomo appartiene la libertà: «l’uomo con l’atto libero esce dal circolo di se stesso soggetto, diventa arbitro fra tutto ciò che è soggettivo, e tutto il resto dell’essere quanto ve n’ha, il che è quanto dire diventa arbitro fra finito e infinito, fra sé e Dio. […] Anzi può dirsi di più, che questo solo principio della libertà formi tutta la potenza e l’attività dell’uomo; perocché in esso solo, per dirlo nuovamente, sta il vero agire della persona»3. Per Rosmini la persona, libera di scegliere, si propone come il fondamento del diritto e dei diritti. Il diritto, infatti, come Rosmini precisa nella Filosofia del diritto, presuppone l’uomo come autore delle sue operazioni, concependole nei limiti della legge morale: «il diritto — scrive l’abate — è un’attività soggettiva, personale, esercitata dal soggetto mediante una volontà razionale (libertà), non inutile, lecita (non opposta alla legge morale) in relazione ad altri soggetti razionali cui incombe il dovere di rispettarla»4. I diritti, quindi, presuppongono il primato di un dovere che deriva dall’essere stesso dell’uomo. 2 A. ROSMINI, Filosofia della politica, in Opere di Antonio Rosmini, vol. 33, a cura di M. D’Addio, Roma 1997, 131. 3 Ibid., 384-385. 4 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, Padova 1967, vol. I, 108.
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Con questa concezione Rosmini si avvicina alla tensione etica di Mazzini. Proprio in quegli anni il rappresentante della democrazia italiana ed europea pensa all’individuo come membro di un ente collettivo e definisce “religiosa” la sua azione. Quando parla di religione, egli non fa riferimento al rigore teologico della trascendenza cattolica, ma a un Dio immanente alla storia, per il quale si sacrifica il particolarismo e si cerca di raggiungere un bene più alto e duraturo. Il soggetto-di-bisogni (Bentham, Constant, Romagnosi), l’individuo ispirato dall’etica del sacrificio (Mazzini), la persona aperta al trascendente (Rosmini): queste immagini della soggettività non potrebbero essere più diverse. Tuttavia ciascuna di esse trova una ragion d’essere nell’ambito del sistema costituzionale. 2. Il costituzionalismo moderno, maturato nel corso dei secoli XVII e XVIII, trova una sistemazione nella prassi di vincolare il sovrano in nome dei diritti. Attribuita al Parlamento, la sovranità è ammissibile nell’ambito del rispetto della Costituzione, quel complesso di regole scritte o non scritte, che legittimano l’istituzione monarchica e le rappresentanze parlamentari. Si definisce perciò costituzionale quella forma di Stato basata sulla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) che si sostituisce storicamente alla monarchia assoluta. I diritti, quindi, pongono limiti al sovrano, ma al contempo ne chiedono l’intervento per assicurare la loro garanzia e l’esecuzione. Durante la Rivoluzione francese, l’ambiguità del rapporto fra i diritti e il sovrano emerge in piena luce e raggiunge la parabola conclusiva durante il periodo del Terrore, quando il potere mostrerà la sua terribile capacità invasiva nei confronti dei soggetti. Rosmini, riflettendo sul fenomeno del “dispotismo”, individua una profonda continuità tra il sovrano “legibus absolutus” e l’“assolutismo” del potere legislativo di ordine democratico-rivoluzionario, dal momento che per quest’ultimo la “maggioranza” diventa ultima istanza di legge e di diritto. Lettore attento di Tocqueville, egli condivide con questo studioso i limiti della Rivoluzione francese, che aveva cambiato la forma di governo, ma non aveva trovato alcun rimedio contro la tirannia. Il fenomeno del dispotismo per l’abate va cercato nello squilibrio tra potere politico-sociale e diritto. «Il dispo-
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tismo — scrive Rosmini — non si coglie se non si prescinde dalla forma di governo e non lo si raggiunge nel suo originale civile. […] La società civile stessa deve essere purgata dal dispotismo, cioè deve essere sottoposta al suo vero diritto, e non forgiata sopra un diritto preteso, che le dà piena balia di fare tutto ciò che può e vuole»5. Questa è la prima riflessione di Rosmini sul costituzionalismo, che si trova nel volume intitolato Della naturale costituzione della società civile degli anni 1826-1827 e rimasto inedito a causa del clima politico ostile. Il concetto di Costituzione, con il quale l’abate cerca di superare il trauma giacobino e di adeguare strategie di difesa, si trova sviluppato nelle grandi opere della Filosofia della politica (1837-1839), della Filosofia del diritto (1841-1843) e de La Costituzione secondo la giustizia sociale (1848). Già nella prima di queste opere prevede la creazione di un “potere amministrativo” e di un “Tribunale politico”. Mentre il “potere amministrativo”, la cui elezione è legata al censo, svolge compiti governativi sulla regolazione dei diritti e sull’evoluzione sociale ed economica, il “Tribunale politico”, scelto tramite un suffragio libero e universale, rappresenta l’istanza di appello dei cittadini per garantire i diritti del singolo e delle minoranze. Il pensiero politico-costituzionale di Rosmini è esposto in modo organico nel volume La Costituzione secondo la giustizia sociale, una rielaborazione organica del progetto per lo Stato romano, ripensato come prototipo di Costituzione applicabile ai vari Stati italiani. Convinto costituzionalista, l’abate vede nella Costituzione lo strumento per edificare le nuove società civili e per sancire il definitivo passaggio dalla società signorile a quella di uomini liberi. Ne esalta pertanto il ruolo fondamentale ai fini di una ordinata convivenza e invita lo stesso Pontefice a concedere la Costituzione, che dovrebbe sancire il riconoscimento della persona e dei suoi diritti. D’accordo con Tocqueville, Rosmini compie una netta distinzione tra la democrazia americana e quella francese. La prima, formatasi mano a mano sui bisogni reali della popolazione, non è inquinata da anticlericalismo. La seconda, in quanto espressione di un teoria, si è 5 A. ROSMINI, Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, 7.
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rivelata artificiale e mostra insofferenza per l’alleanza tra trono e altare. Passando al continente l’abate ritiene che la Costituzione inglese derivava dagli avvenimenti, mentre quella francese era frutto di un lavoro speculativo, e quindi una “teoria”. Così cerca di dimostrare che le Costituzioni di tipo francese erano cronicamente instabili per l’incapacità di comporre i conflitti sociali e per la mancanza di giustizia politica che non garantiva il riconoscimento dei diritti della persona nei confronti dello Stato. Al centro della critica di Rosmini sta il concetto della volontà generale teorizzato da Rousseau come espressione della maggioranza, un concetto vago e astratto che reca in sé il germe del dispotismo. «Insomma — scrive l’abate — tutte le Costituzioni modellate alla francese lungi dall’essere liberali, siccome professano, nascondono il più enorme assolutismo nel loro seno. Lungi dall’essere fondate sui principi del diritto, sono dedotte da principi di una filosofia utilitaria e sensistica, che a un calcolo sempre sbagliato, di pubblica utilità sacrifica la ragione, l’onestà, la giustizia. Lungi dall’essere conformi alla natura dell’uomo e della convivenza sociale, sono il dettato e l’espressione di astrazioni vane e di teorie inapplicabili alle realtà sociali»6. Rosmini non si limita ad attaccare il volontarismo giacobino. Deficitario è a suo avviso anche il costituzionalismo postrivoluzionario che, incapace di garantire adeguatamente la libertà-la proprietà, continua ad attribuire al legislativo un potere smisurato e foriero di un assolutismo rivestito di legalità. È allo strapotere delle Assemblee rappresentative che occorre porre un argine. A questo scopo Rosmini raccomanda di fare della rappresentanza uno specchio fedele della proprietà, in modo da diminuire il rischio di attentati (formalmente legali) ai diritti fondamentali dei soggetti. La tutela della proprietà e la sua effettiva inviolabilità rappresentano il caposaldo della Costituzione. Per Rosmini, quindi, il meccanismo rappresentativo serve ad eleggere non i detentori di un astratto potere di decisione, ma gli esponenti degli interessi socialmente rilevanti. Occorre perciò assicurare una precisa corrispondenza fra proprietà e diritto di voto, facendo in modo 6
A. ROSMINI, La Costituzione secondo la giustizia sociale, cit., 48.
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che il peso elettorale di un cittadino sia un fedele specchio dell’entità del suo patrimonio. Solo a questo patto i diritti civili (la libertà-la proprietà) non sono messi a rischio dal meccanismo rappresentativo. Per giustificare questo sistema, radicalmente contrastante con il suffragio universale, Rosmini parte dal presupposto che «gli uomini sono uguali per ciò che riguarda il diritto naturale, ma non ne viene mica che debbano essere uguali anche in una società che stringono fra di loro». «La convivenza civile — continua l’abate — è una società, una società speciale. […] Ora, secondo i più semplici elementi di questo diritto speciale universale, colui che conferisce di più nel fondo sociale deve essere a parte di maggiori utili, e conseguentemente deve influire di più nel regolamento della società, nella quale egli è più interessato»7. All’eguaglianza naturale non corrisponde quella sociale. Tutti, anche i non contribuenti, godono di elettorato passivo, ma solo coloro che pagano l’imposta hanno l’elettorato attivo. Se al contrario fosse accolto il principio dell’eguaglianza dei soggetti e i diritti politici fossero svincolati dalla proprietà, i molti sarebbero prevalsi sui pochi alimentando la minaccia (paventata da tutto il primo liberalismo europeo) del dispotismo, quello esercitato da una maggioranza parlamentare formalmente legittima, ma incline a travolgere i diritti e le libertà individuali. La stessa logica si trova nell’istituzione di due Camere legislative: la prima eletta dai proprietari maggiori, la seconda da quelli minori. In tal modo i proprietari, esercitando un reciproco controllo, limitano la prevaricazione dell’una sull’altra. L’intesa delle due Camere, necessaria per l’approvazione delle leggi, finisce per tradursi «in una naturale transazione, perocché i due interessi opposti trovano vantaggio il farsi delle reciproche concessioni, e così i vantaggi e i danni equamente si ripartono, e se n’ha una pratica soluzione di quel problema dei massimi e dei minimi che si presenta in tutte le collisioni fisiche o morali»8. Per Rosmini il diritto di voto riservato ai contribuenti è un corollario del principio in base al quale lo Stato riceve la sua esistenza proprio dai contribuenti. Tutto ciò, però, non comporta che la società 7 8
Ibid., 177-178. Ibid., 191-192.
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civile non deve essere benefica nei confronti dei non abbienti, rigettandoli dal proprio seno: «Che la società civile — scrive l’abate — riconosca per suoi membri anche quelli che nulla contribuiscono al fondo sociale onde ella trae l’esistenza e l’attività, non viene prescritto dal diritto di natura e di ragione, ma insinuato dallo spirito del Vangelo che esclude dal mondo la schiavitù. Tutti gli uomini redenti da Gesù Cristo sono liberi, sono fratelli. La società civile cristiana riconosce come tali anche i poveri, e li ammette gratuitamente nel suo seno tutelandoli con giustizia, beneficandoli con carità: il che però non importa la necessità che ella attribuisca loro altresì un potere politico, il quale non sarebbe che pernicioso, ingerendo in essi la tentazione di abusare di esso per tirare a sé le altrui proprietà, nelle quali acquisterebbero influenza»9. La proposta del voto proporzionato all’imposta attirerà numerose critiche. Rosmini sarà irremovibile nel mutare le sue convinzioni. D’altra parte si deve considerare che sul ruolo centrale del nesso “libertà-proprietà” esiste una significativa convergenza nella prima metà del secolo XIX. Siamo di fronte a un tema che sta conquistando (o ha già conquistato) in Europa e in America il favore di un’opinione pubblica certo non unanime, ma largamente maggioritaria. Anche chi diffida della deriva radicale della Rivoluzione francese e sente il bisogno di maneggiare con cautela il pericoloso principio di eguaglianza, è disposto a indicare nella valorizzazione della libertàproprietà il messaggio accettabile, la parte sana, il nucleo razionale di quella esperienza. Il rapporto libertà-proprietà è un punto essenziale nelle concezioni rosminiane. Su altri punti, invece, l’abate dimostra di accogliere parzialmente alcuni aspetti della Costituzione francese e americana. Nel suo progetto manca una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino per difficoltà di definire tali diritti. Rosmini, però, pone dei principi fondamentali allo Stato: esso non può creare e cancellare a suo arbitrio un diritto, ma deve riconoscerlo e fornirgli le occasioni per il suo sviluppo. Per evitare lo sconfinamento oltre i suoi poteri legittimi, l’art. 2 della Costituzione così recita: «I diritti di natura e di 9
Ibid., 197.
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ragione sono inviolabili per ogni uomo». Così poi motiva questa scelta nella parte esplicativa: «Conviene riconoscere che sopra la società civile, sopra il popolo, sopra l’umanità intera vi ha una giustizia eterna: che a questa l’umanità intera deve ubbidire, che questa giustizia non emana né dal popolo né dalle Camere né dai re, né dalla volontà dell’uomo. Non emana al tutto, ma solamente è come è Iddio nel quale ella ha sede. Conviene riconoscere e confessare che avanti tutte le leggi positive della civile società ve ne hanno delle altre, a cui quelle della società devono conformarsi sotto pena di essere nulle, come non avvenute: si deve riconoscere che i diritti dell’uomo antecedono a tutti quelli che l’istituzione della società civile gli può attribuire. Si deve ammettere un diritto di natura e di ragione precedente alla civile convivenza, che deve essere rispettato da tutte le disposizioni civili. Conviene che questo diritto naturale e razionale sia riconosciuto dalla Costituzione della società civile come suo fondamento»10. Accolti i principi del costituzionalismo europeo e, soprattutto, delle carte moderate del tempo, Rosmini prevede la netta separazione dei poteri dello Stato in esecutivo, legislativo e giudiziario, ciascuno autonomo e indipendente. In tal modo si evita la dannosa confusione del potere unico e, soprattutto, la formazione di un governo parlamentare basato sulla fiducia delle Camere, che porta alla ingerenza dei partiti politici nell’attività di governo. Poiché lo Stato deve realizzare la giustizia della società, egli vuole evitare che i partiti, espressione di interessi privati, siano di ostacolo alla realizzazione del bene comune. La Costituzione, pertanto, deve prevedere un esecutivo forte, munito del potere di iniziativa legislativa avente precedenza su quella delle Camere, e con a capo un monarca costituzionale o un presidente della Repubblica. 3. La proposta principale (e più originale) riguarda la predisposizione di un controllo giurisdizionale sulle decisioni del legislativo. Sin dagli anni giovanili Rosmini ha pensato a un Tribunale politico con il compito di assicurare la giustizia negli atti esecutivi e legislativi. Ha constatato che era difficile istituire questo organo nel passato per l’as10
Ibid., 63.
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senza del progresso dei lumi e di una moralità avanzata, ma con l’incivilimento della società, portato dal cristianesimo, e con l’affermazione della concezione del bene pubblico, esso poteva assicurare la subordinazione dell’utilità alla giustizia e la tutela dei diritti dei più deboli e delle minoranze11. Ripreso e approfondito nella Filosofia del diritto e nella Naturale Costituzione della società civile, il tema trova infine una sistemazione ne La Costituzione secondo la giustizia sociale. Per Rosmini ormai diventa chiaro che i diritti fondamentali trovano la loro consacrazione nella Costituzione, che per non rimanere «una carta scritta senza voce» deve avere un’apposita istituzione investita del compito di garantire il rispetto dei diritti fondamentali da parte del legislatore. A tale scopo è chiamato un organo composto dal Tribunale politico e dalla Suprema Corte di giustizia politica, i cui membri sono eletti dal popolo con voto universale e uguale fra gli eleggibili alla Camere con almeno 40 anni compiuti (articoli 81-84). «Questa istituzione — scrive Rosmini — contribuirà grandemente a ottenere che lo Statuto fondamentale sia nel fatto una verità. Negli altri sistemi si compone, e si promulga una Costituzione, e poi è lasciata sola: non v’ha alcun potere espressamente incaricato di custodirla: quindi se ne incarica il popolo, ne fa giustizia: ma non sono civili se non quelle nazioni, che alle vie di fatto sostituiscono le decisioni giuridiche dei Tribunali. Laonde non può dirsi che il governo costituzionale sia entrato a pieno nell’ordine della civiltà in fino a tanto che non sia istituito un potere, il quale pronunci sulle infrazioni che possono commettersi della Costituzione stessa: allora questa non è più una carta scritta senza voce, le è data la vita e la parola»12. La superiorità della Costituzione sulla legge e la creazione di una giurisprudenza costituzionale appaiono a Rosmini la difesa più efficace nei confronti di quella “maggioranza tirannica” che costituisce l’incubo ricorrente dei liberalismi ottocenteschi. Il Tribunale politico, sovrastante al potere legislativo e garante della giustizia sulla politica, completa la netta separazione tra il potere esecutivo e quello giudiziario. 11 12
A. ROSMINI, Politica Prima, a cura di M. D’Addio, Roma 2003, 787 ss. A. ROSMINI, La Costituzione secondo la giustizia sociale, cit., 235.
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Garantendo l’equilibrio tra forza fisica (Stato) e forza morale (Chiesa), questo organo diventa «vindice del diritto naturale e razionale contro tutti gli altri poteri dello Stato che ne attentassero la violazione»13. Persuaso che solo il giudizio di costituzionalità delle leggi potrebbe assicurare la superiorità del potere giudiziario sull’esecutivo, il primato della giustizia sulla politica, Rosmini arriva a ipotizzare un vero e proprio esame preventivo di legittimità costituzionale delle leggi: «Allora — scrive l’abate — quando le Camere avessero approvato un progetto di legge che si potesse credere contenere qualche ingiustizia, rimarrebbe in arbitrio del sovrano, prima di dare o negare la sua sanzione, di rimettere la cosa alla decisione del Tribunale politico supremo. Qualora questo Tribunale giudicasse il progetto di legge ingiusto, esso non potrebbe portarsi più alla sanzione del Principe, ma cadrebbe da se stesso senza che il Re si mettesse in lotta con le Camere: queste non potrebbero più proporlo né modificarlo. La pubblicità dei dibattimenti (art. 92), la numerosità dei giudici, i motivi formulati, sarebbero guarentigie necessarie della integrità della sentenza data dalla suprema Corte in cosa così rilevante, e il popolo in corpo, cioè l’opinione pubblica, costituirebbe l’imponente sanzione di tali solenni decisioni»14. Il Tribunale politico conferisce allo Stato un vero e proprio carattere di giustizia, tutelando i diritti personali che devono essere eguali per tutti. Il sovrano, finalmente sotto controllo, non avrà dunque nessun altro compito se non quello di assicurare il rispetto della Costituzione. Siffatte domande, destinate a dominare il dibattito politico del secondo Ottocento, troveranno finalmente attuazione nel Novecento con l’emergere del costituzionalismo democratico. Dopo le esperienze totalitarie (fascismo, nazismo e comunismo), nelle democrazie contemporanee il controllo di costituzionalità si è sempre più configurato come uno strumento essenziale non solo per la tutela dell’integrità dei principi costituzionali ma anche per la ricerca di punti di equilibrio equi e ragionevoli. Da questo punto di vista Rosmini si può ritenere un precursore. 13 14
Ibid., 65. Ibid., 233.
L’UNITÀ D’ITALIA E LA VISIONE FEDERALE IN ANTONIO ROSMINI
PAOLO ARMELLINI*
1. PREMESSA Quando si parla di Risorgimento si evoca anche una idea cristiana, quella del risorgere dell’anima e del corpo insieme nel momento del giudizio finale. Ad essa è congeniale l’idea politica di una nazione che cammina in amicizia con Dio e non in contrapposizione con Lui1. A Rosmini questo destino dell’Italia è chiaro sin dal Panegirico alla santa e gloriosa memoria di Pio VII Pontefice Massimo, steso a Rovereto a *
Docente di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi “Sapienza” di Roma. 1 Sull’idea e la storia del Risorgimento cfr. G. FORMIGONI, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 2010; M. BELARDINELLI, Il Risorgimento e la realizzazione della comunità nazionale, Roma 2011. Sul risorgimentalismo di Rosmini cfr. A. ROSMINI, Scritti politici, a cura di U. Muratore, Stresa 2010; ID., Della Missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49, a cura di L. Malusa, Stresa 1997; F. TRANIELLO, Rosmini nel Risorgimento, in ACCADEMIA ROVERETANA DEGLI AGIATI (cur.), L’opera e il tempo di Antonio Rosmini, Brescia 1999, 175-189; A. DEL NOCE, Rosmini e la categoria filosofico-politica di Risorgimento, in G. NOCERINO (cur.), Rivista Rosminiana di Filosofia e di Cultura, a. CIV, f. I, gennaio-marzo 2010, 3-19; L. MALUSA, Dal Piemonte a Roma: la Missione del ’48, in U. MURATORE (cur.), Rosmini e la cultura del Risorgimento. Attualità di un pensiero storico-politico, Stresa 1997, 149-170. Assai suggestive le interpretazioni filosofiche del realismo rosminiano contenute in C.V. GROTTI, La rivincita di Rosmini. Itinerari del pensiero nel nuovo millennio, Stresa 2011 e in R. PEZZIMENTI, Persona, società Stato. Rosmini e i cattolici liberali, Roma 2012.
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ventisei anni per onorare la memoria del papa che aveva tenuto testa a Napoleone. L’Italia era in pugno degli austriaci sin dal 1815. Nell’omelia Napoleone e Pio VII si fronteggiano rappresentando l’uno il potere temporale e l’altro il potere spirituale. Il primo ha dato una svolta alla storia moderna, ha attraversato l’Europa rovesciando regni e imperi secolari e spargendo inquietudini nuove; con le repubbliche sorelle (cisalpina, ligure e romana) aveva risvegliato in Italia anche l’idea di repubblica e poi di un regno d’Italia. Ma era illusorio attendersi indipendenza dallo straniero. Venezia fu da lui ceduta all’Austria col Trattato di Campoformio del 1797; fece però alitare sull’Italia il vento della Rivoluzione francese. Napoleone è l’alfiere di una politica che pretende di non avere limiti, inaugura la stagione politica dei governi che invadono i diritti altrui con la forza e l’arbitrio. Dietro il tratteggio della figura di Napoleone si intravede quella dell’imperatore austriaco Francesco I d’Asburgo, che legava all’Impero i destini della Chiesa con vincoli non legittimi e opprimeva paesi non appartenenti di diritto al suo impero. Gli si oppone nel discorso di Rosmini la mite figura del papa Pio VII, simbolo di un capo religioso, debole, anziano, disarmato ma forte dello spirito del Vangelo. Umiliato, esiliato, incarcerato finirà per vincere. Così egli lo aveva conosciuto a Roma ormai vegliardo. Il Panegirico di Pio VII è già un programma politico, in cui si avverte che il futuro delle nazioni si giocherà fondamentalmente con o senza Dio2. Se i due poteri si comportano correttamente nel rispetto reciproco delle loro funzioni sarà un bene per tutti. Se prevarrà lo scontro fra Stato e Chiesa nella presunzione di ciascuno di assorbire l’altro, si apriranno tensioni nocive al popolo. Nella preghiera finale Rosmini invoca l’indipendenza, la felicità e il riposo, ma ottenuti in modo mansueto senza violenza chiedendo a Dio di aiutare i patrioti, senza opporsi al Papa, che è stato un dono prezioso e che sarebbe stato un non senso scartare e un’utopia abbattere. Esso andava integrato con altri poteri (economia, scienza, forza militare, ragione, lumi, progresso, scienza) non alternativi ma complementari. Quella di Rosmini non è una logica fondata sull’aut/aut, ma 2 Cfr. A. ROSMINI, Panegirico alla santa e gloriosa memoria di Pio Settimo Pontefice Massimo, Modena 1831.
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sull’et/et. Chiedere a Dio la consapevolezza degli italiani sui propri destini significava invocare il risveglio di potenzialità insite nella loro natura, cioè di grandi cose da compiere conquistata l’indipendenza e l’unità, dovendo camminare insieme principi e popolo, in spirito evangelico di solidarietà. La felicità agognata nel riposo è quella non del violento, corrosa dalla vanagloria del potere, ma del giusto che ritorna in possesso di ciò che gli è dovuto. L’Italia dovrà ritrovare unità, indipendenza, libertà ed equilibrio interno non con lo sconvolgimento e le passioni della Rivoluzione francese, con l’annesso spirito di conquista ed usurpazione, ma con la mite fermezza del diritto sanzionato dalla giustizia. Da simpatizzante della Restaurazione Rosmini approderà poi ad un moderato liberalismo e tenterà di delineare per l’Italia uno Stato unitario di forze differenti ma per lui complementari3. Egli immaginava la bellezza di tale unità con lo stare insieme di Stati differenti che si riconoscevano i diritti maturati sui propri territori dalle diverse popolazioni. Nel saggio Delle dottrine politiche di Dante egli aveva sentito «l’urgenza di riunire in un corpo solo tutti gli italiani, pungendo i partiti e tutto quello che avesse idea di privato e di municipio»4. Il realismo politico di Machiavelli gli aveva insegnato a guardare l’Italia unita al di là degli ardori di un Foscolo. I suoi studi sulla lingua italiana segnano il senso di una ricerca di una cultura e di una lingua comune che un popolo 3 Cfr. U. MURATORE, Rosmini per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, Stresa 2010; L. MALUSA, Antonio Rosmini per l’unità d’Italia. Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano 2011; D. FISICHELLA, Il caso Rosmini. Cattolicesimo, nazione, federalismo, Roma 2011; Antonio Rosmini e il problema storico dell’unità d’Italia, Atti del IX Corso dei Simposi Rosminiani (Stresa, 25-28 agosto 2010), in Rivista Rosminiana di Filosofia e di Cultura, a. CV, f. II-III, aprile-settembre 2011. Sul costituzionalismo rosminiano cfr. M. NICOLETTI, La riflessione politica di Rosmini: quale costituzione per l’Italia?, in ACCADEMIA ROVERETANA DEGLI AGIATI (cur.), L’opera e il tempo di Antonio Rosmini, cit., 143-159; ID., La libertà e le sue garanzie nel costituzionalismo rosminiano, in A. AUTIERO – A. GENOVESE (curr.), Antonio Rosmini e l’idea di libertà, Bologna 2001, 171-203, M. CIOFFI, Il costituzionalismo albertino e il costituzionalismo rosminiano, in G. PICENARDI (cur.), Rosmini politico. Tra unità e federalismo, Stresa 2011, 123-158. 4 Cfr. A. ROSMINI, Sopra alcune idee politiche di Dante, (24 agosto 1822), SERENA (cur.) in Atti della I.R. Accademia di scienze lettere e arti degli Agiati di Rovereto, s. III, vol. XVII, 1911, 3-19: 8.
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deve avere. Aderì alla Società dell’Amicizia cattolica sostenuta da Cesare d’Azeglio collaborando al giornale “L’Amico d’Italia”. Tuttavia capì che ad un popolo serve non solo la lingua, ma un’etica ed una religione che leghino i cittadini, come capisce Manzoni in Marzo 1821: «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue e di cor». In questo periodo rimane ancora convinto che si potessero salvare i vecchi regimi pur attraverso una energica politica di riforme. Era cioè dell’idea che si potesse restaurare la lingua italiana del TreCinquecento. Non aveva ancora capito le ragioni dei novatori rivoluzionari da tradizionalista avverso a Napoleone. I movimenti francesi del sensismo e dell’utilitarismo, sacrificano lo spirito, la verità, la giustizia al senso e all’utile; l’idealismo tedesco poi ne affida il controllo alla esuberanza della ragione, annullando la fede, l’amore. Invece verità e carità nella sua visuale cristiana si sostengono reciprocamente e così si arricchiscono. 2. DALLA METAFISICA ALLA POLITICA Spostatosi in Piemonte Rosmini diede inizio ad un ordine religioso nuovo e coi pedagogisti del tempo pensò a nuovi metodi di educazione che fossero capaci di rigenerare non solo la borghesia ma tutto il popolo, attraverso l’istituzione di una educazione pubblica e di scuole popolari. Con queste nuove idee Rosmini si riavvicina alla politica, studiando i fondamenti e i principi che reggono lo Stato e le sue leggi. E’ del 1838 la Filosofia della politica e del 1843 la Filosofia del diritto, che ripercorrono su nuove e più profonde basi gli studi giovanili5. Scompare la simpatia per la Restaurazione, si avverte l’influsso di Tocqueville. Negli anni Trenta scoppiano nuove insurrezioni che
5 Cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura e introduzione di M. d’Addio, Roma 1997; ID., Filosofia del diritto, 6 voll, Milano 1967-69. Sullo sviluppo del pensiero politico rosminiano cfr. F. TRANIELLO, Società religiosa e società civile in Rosmini (1966), Brescia 1997; C. RIVA, Attualità di Rosmini, Roma 1970; G. CAMPANINI, Rosmini politico, Milano 1990; E. BOTTO, Etica sociale e filosofia della politica, Milano 1992; G. CAMPANINI, Politica e società in Antonio Rosmini, Roma 1997; M. D’ADDIO, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Roma 2000.
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preparano alle rivoluzioni per l’indipendenza del 18486. Egli scrive per contribuire al bene comune nella fiducia per il singolo e la comunità. Etica, diritto e politica hanno per oggetto il bene umano, la morale quello in tutta la sua estensione, il diritto in relazione alla giustizia, la politica in relazione alla distribuzione di quei beni che riguardano l’utile sempre in vista della giustizia. La politica è l’arte del governo delle persone, che sono diritto sussistente (non hanno cioè diritti, ma sono esse stesse essenzialmente diritto), per la natura infinita del divino presente alla mente dell’uomo nella forma dell’essere ideale, unica sulla terra, che esige il dovere di rispettarla. Una politica senza morale produce o anarchia o dispotismo, che finiscono per misconoscere entrambi la dignità della persona. L’uomo per Rosmini è più che un membro della sfera della politicità, perché egli ha diritti-doveri che oltrepassano quelli del cittadino. Ogni persona ha vincoli religiosi che lo pongono sin dalla nascita in relazione con Dio in virtù della presenza nell’uomo del divino nella natura che Dio stesso ha infuso nell’uomo, producendo una distinzione fra le sue potenze e facoltà naturali, che gli provengono dai genitori, e la persona che appartiene solo a Dio (società teocratica). Inoltre ha dei vincoli di sangue che lo legano alla famiglia (società domestica). Infine ha una libertà tale da essere il primo artefice del proprio destino e di partecipare quindi a una molteplicità di società diverse dalla società civile, che è la più grande fra esse e ha lo scopo di tutelarne i diritti e stabilire i doveri. Il suo potere è solo quello di regolare così la modalità dei diritti senza poterli porre. Invece per lo Stato hegeliano i diritti-doveri scaturiscono dalla eticità. Per il Roveretano lo Stato non crea i diritti, ma li riconosce come consustanziali alla persona e suo compito specifico è quello di regolare la modalità di esercizio di essi. Quando il politico non percepisce questi limiti dello Stato, usa le forze messe a sua disposizione dalla collettività per interferire in sfere non di sua competenza (Chiesa, famiglia, e altre forme di società) diventando intemperante. 6 Per la vita e le opere di Rosmini nel suo insieme cfr. M. DOSSI, Profilo filosofico di Antonio Rosmini, Brescia 1998; U. MURATORE, Conoscere Rosmini. Vita, pensiero, spiritualità, Stresa 2002; C.M. PAPA, Rosmini: Conoscere e credere. Storia della causa, prefazione di G. De Rita, Roma 2007. Sul piano metafisico cfr. M. KRIENKE, Wahrheit und Liebe bei Antonio Rosmini, Stuttgart 2004.
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Ma anche individui e comunità, se non trovano nello Stato la sua controparte, strappano e mantengono ingiusti privilegi, protezioni private che collidono con la giustizia sociale. Nella Politica Prima7 emerge la sua avversione dopo i moti del 182021 nei confronti degli insorti seguaci della Rivoluzione francese i quali intendono cambiare le cose con la violenza scaturita dalle pulsioni popolari. Ma egli viveva ancora legato ai giudizi negativi di un casato legato ad un ambiente periferico e provinciale dell’Austria radicalmente antifrancese. Da patriota pronunciò parole di riprovazione nei confronti di legittime autorità costituite. Inoltre la Santa Alleanza del Congresso di Vienna sconsigliava l’insurrezione popolare perché essa era una roccia compatta. Poi gli insorti non avevano mezzi militari sufficienti, come aveva ammonito già in occasioni precedenti lo stesso Machiavelli. Essi erano inoltre divisi fra loro, senza armi, confusi e privi di temperamento. Egli disse che sognano infine come poeti associati in brigate di compagnoni. Soprattutto la “fogna francese” aveva fatto importare la mala pianta del sensismo che genera figli ammorbati dalla mollezza della cultura illuminista. Ma Rosmini avvertiva, da giovane prete colto e animato dall’amore per la Chiesa, che nell’assetto uscito dal Congresso di Vienna qualcosa non andava. Le contestazioni insufficienti chiedono però qualcosa di nuovo. Egli nel 1826-27 trascorse un periodo fecondo a Milano, dove fermentavano idee nuove e incontrò fra gli altri Tommaseo e Manzoni. Quest’ultimo è tra l’altro l’autore convertito dalle idee sensiste al cattolicesimo, avendo scritto gli Inni sacri e le Tragedie insieme a Marzo 1821. Egli diede a Rosmini da leggere la bozza dei Promessi sposi, mentre aveva già scritto la Morale cattolica. Rosmini capiva ormai che la Rivoluzione francese non è tutta da scartare. Lasciò perdere i manoscritti politici, incompleti non solo sul piano della stesura ma anche su quello della fondazione razionale. Su impulso di Tommaseo e Manzoni si dedicò a più solidi studi di metafisica, che daranno luogo al Nuovo saggio sull’origine delle idee pubbli7 Cfr. A. ROSMINI, Politica prima, a cura e introduzione di M. d’Addio, Roma 2003; G. SOLARI, Studi rosminiani, a cura di P. Piovani, Milano 1977; L. BULFERETTI, Antonio Rosmini nella Restaurazione (1942), a cura di U. Muratore, Stresa 1999; G. CAMPANINI, Rosmini politico, Milano 1990, 29-48; S. MUSCOLINO, Genesi e sviluppo del costituzionalismo rosminiano, Palermo 2006.
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cato nel 1830 a Roma insieme alle Massime di perfezione cristiana coll’imprimatur del pontefice. Decise all’improvviso però di ritirarsi al Sacro Monte Calvario di Domodossola, dove scrisse le Costituzioni dell’Istituto della Carità, che saranno approvate nel 1835, in una solitudine spirituale che per lui significava anche e soprattutto fuga dal pericolo della mondanità in cui rischiava di circoscrivere la sua attività di scrittore e pensatore nella rumorosa nebbia di Milano. Dopo aver scoperto e giustificato l’origine della conoscenza nell’idea dell’essere intesa come forma infinita della verità presente nell’intelletto, la quale grazie alla sua necessità e universalità pone l’uomo nella capacità di conoscere tutte le cose esterne del mondo reale grazie al fatto di essere l’essere iniziale nella mente che pone l’uomo virtualmente aperto alla infinita determinazione della realtà avvertita dalle modificazioni del sentimento fondamentale corporeo dando luogo alla conoscenza della ricchezza delle cose finite del mondo colla percezione intellettiva, Rosmini affronta sotto la luce di un nuovo principio del suo sistema enciclopedico anche i problemi politici. Egli si trova su una posizione epistemologica nuova che supera sia le contraddizioni del sensismo sia quelle del fideismo tradizionalista. Si mise sulla strada di oltrepassare definitivamente la visuale e dell’utilitarismo e del conservatorismo. Si rese conto allora che il nucleo fecondo delle insurrezioni va conservato anche se va ripulito, perché portano ad evidenza nella coscienza di larghi strati della popolazione quei diritti umani a lungo obliati. In fondo l’infinito valore della dignità umana è un’idea genuinamente evangelica, che si radica nel riconoscimento della universale presenza nell’animo umano di un principio trascendente e infinito che fonda la dignità di ciascuno e che contesta qualsiasi forma di asservimento dispotico. Tutto va ripensato alla luce di una solida filosofia. La dottrina politica, cioè l’azione, deve seguire ad una sana dottrina speculativa, che ben conosce il cuore umano. Nei successivi dieci anni vediamo Rosmini allora ricercare la verità che fonda la conoscenza e il suo legame colla legge morale. Egli avverte con Silvio Pellico e Alessandro Manzoni che l’Italia risorgerà non solo nel corpo ma anche nella testa, affrontando il problema della lotta fra bene e male nelle radici, cioè negli intelletti, dove poi verità ed errore scenderanno, insediandosi nella volontà e nei comportamenti. Curare il capo degli italiani è la
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suprema carità, quella intellettuale. Risorgere si può solo sulle solide basi della cultura e non sulle sabbie mobili della politica dei sensisti. Lo stile italiano sta in ciò, che l’indipendenza e la libertà va cercata anzitutto lontano dai pregiudizi, dalle passioni e dalla dipendenza altrui. Per Rosmini, quando il cittadino ritiene di essere diventato un soggetto sottoposto ad un’ingiustizia, avverte un risentimento giuridico nei confronti di una politica che ha perso il senso del limite, facendo nascere una burocrazia elefantiaca. Il politico che conosce la funzione dello Stato nel limitarsi a regolare le modalità dei diritti può più facilmente perseguire il suo scopo, che consiste nel portare all’appagamento gli animi dei cittadini, non riducendosi questo né al puro benessere economico, che può essere indefinitamente aumentato coi piaceri e lussi materiali, né alla beatitudine eterna che concerne la vita ultraterrena, essendo la felicità pubblica da commisurare ai mezzi a disposizione della nazione. L’appagamento è infatti uno stato interiore di benessere generale in cui tutto l’uomo, anche la sua parte intima ed invisibile, cioè morale e intellettuale, si ritiene soddisfatto. In vista dell’appagamento il possesso dei beni esteriori e dei piaceri fisici e intellettuali ha una importanza subordinata al bene morale. Benessere e progresso vanno promossi, ma non fuori dal contesto etico, senza il quale nell’uomo si creano scissioni e conflitti presto pronti ad esplodere all’esterno. I fatti presto smentiscono la divisione fra eudemonologia ed etica. Anche il politico allora deve conoscere il cuore umano, magari facendosi affiancare da qualche amico filosofo. La vita politica ha infatti una dimensione visibile, che corrisponde ai progressi e alla crescita dei beni esterni, e una dimensione invisibile legata al grado di appagamento dell’animo interiore di ciascuno dei cittadini. Le due cose non procedono però insieme. La società infatti può apparire solida e florida, ma dentro di sé può risultare di fatto povera e fragile, pronta cioè a sparire. Più crescono divisioni fra società visibile e società invisibile, più crescono conflitti e scontenti. La responsabilità sta nell’aver offeso la giustizia, che, quando è umiliata oltre ogni limite di tollerabilità, torna a risplendere negli animi dei popoli che rinvigoriti da questa consapevolezza vogliono farsi giustizia da sé contro i principi tiranni. Questo è successo con la Rivoluzione francese. Nella Filosofia della politica allora Rosmini sostiene che al politico
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è affidato il compito di governare gli uomini in modo lungimirante e duraturo, affinché i suoi decreti siano efficaci. Tale compito è più facile se egli sa leggere nei cuori dei cittadini individuando il loro grado di contentezza. Così egli deve conoscere la topografia del cuore. La folla di norma bada agli effetti immediati e visibili e in genere non prevede gli effetti remoti delle sue azioni. La ragione pratica delle masse è una sorta di sapienza diffusa nel popolo che si concentra nel reperimento dei beni materiali senza guardare alle conseguenze più lontane nel tempo di tali scelte. La ragione speculativa degli individui più dotati di sapienza mira alla riflessione sugli esiti remoti dell’azione politica, guardando alla situazione globale con saggezza. La cultura dell’effimero non produce alla lunga grande beneficio al popolo. Fa parte della lungimiranza del politico distinguere ciò che è essenziale alla società da ciò che è accidentale. Il capitale umano spirituale, morale e culturale di solito è meno visibile ai più e sembrano beni lontani dal cuore dei cittadini, le cui istanze quotidiane distolgono lo sguardo da essi. Ma dai beni sostanziali di un popolo dipende la sua stabilità, la forza della sua coesione e la resistenza agli urti esterni. Soltanto nei popoli giovani è viva la coscienza della maggiore importanza dei beni sostanziali, che sono l’unità ottenuta con la costituzione, la preminenza della virtù sui piaceri e la tutela dei diritti fondamentali (diritto alla verità, alla virtù e alla felicità). Tale coscienza è custodita da individui di elevato sentire8. Come l’individuo anche la società ha un suo divenire. La fase finale del completo allentamento morale, che porta a privilegiare i beni sensibili e i lussi su quelli sostanziali e morali, è quella della vecchiaia di chi ha smesso di agire e vuole godersi il benessere acquisito. È il momento della preminenza dell’eudemonologia senza più freni morali che si esaurisce nel godimento dell’effimero ed è prossima a precipitare nell’abisso. L’appagamento non viaggia né in compagnia del solo aumento di beni materiali né col crescere della cultura, ma dipende dalla presenza di valori e virtù morali nella società. Questa è un complesso dinamico che tende a sviluppare potenzialità intellettuali, morali e spirituali. Il vero progresso della società ha le sue leggi. Il politico saggio sa leggere lo stato attuale di tale sviluppo storico del suo 8
Cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit.
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popolo con sano realismo, dimostrando di saper camminare con lui. Gli sbandamenti si hanno colla tendenza alla reazione o coll’inclinarsi verso la rivoluzione. Il reazionario viene detto teorico della resistenza perché crede di poter bloccare l’evoluzione in corso. Il rivoluzionario vuole invece sconvolgere le leggi del cambiamento. Il primo sopravvaluta i mali del cambiamento, il secondo ne sopravvaluta i beni, tanto da identificare la civiltà col progresso. Ma per Rosmini altro è movimento e altro è progresso. Il bene sta solo nell’appagamento, che non trova in un movimento disordinato una stabile base, ma nel reale progresso che tiene conto dell’unità fra beni morali e bei materiali. Reazionari e rivoluzionari producono necessariamente ingiustizia, perché partono da un’idea astratta di uomo, frutto della loro fantasia e prescindono dalla persona concreta, i cui diritti vengono sacrificati alle loro astrazioni. In mezzo ad essi ci sono i politici perfettisti che chiedono alla società ciò che essa col suo attuale sviluppo materiale e culturale non può dare. Poi ci sono gli utopisti puri. Il realismo politico è quello di chi sa leggere la realtà dei fatti e sa cosa ottenere oggi e chiedere in futuro. L’uomo porta in sé un’esigenza d’infinito che la realtà finita non può soddisfare. La beatitudine eterna si potrà raggiungere solo quando il desiderio d’infinito incontrerà una realtà infinita, che è ciò che avverrà alla fine dei tempi e nell’aldilà. L’etica conduce sulla soglia di questo incontro. Il politico deve soltanto agevolare il cammino verso questa meta della società, che così contribuisce all’appagamento. Ci si trova fuori di questo cammino invece quando si vuole sostituire per l’uomo l’oggetto infinito della sua felicità ultima con qualche oggetto finito, cioè con degli idoli terreni. Allora vediamo il popolo correre verso questa mèta come se fosse l’orizzonte ultimo dei suoi desideri, caricandolo di promesse che non può mantenere mai. Iniziano le storie delle infelicità umane che allontanano l’uomo dall’appagamento. Oggetti che possono sostituire l’oggetto infinito capace di soddisfare pienamente il cuore umano sono il piacere, la ricchezza, la potenza, la scienza, la gloria. Il più illusorio di questi beni è la ricerca della felicità nell’inganno della perpetua agitazione, per cui si crede che nella quiete sta la morte e nel movimento sta la vita. Questa profonda inquietudine è un sentimento menzognero proprio di una grandezza diabolica. Quando l’oggetto è lontano, nasce la guerra fra i soggetti in
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corsa verso il traguardo usando ogni mezzo, anche disonesto, per ottenere tale bene assoluto sacrificando gli altri beni. In un secondo momento l’inquietudine cresce perché si crede che non si abbia a sufficienza quel bene e ci si affanna nell’accumularlo. In una terza fase, quando ci si accorge dell’imbroglio, all’inquietudine succede l’amarezza e la frustrazione propria di un amore ingannato. Ma una società turbolenta e scontenta non è nell’interesse del politico, che realisticamente deve promuovere in modo ordinato il raggiungimento dei desideri dei cittadini con i mezzi proporzionati a propria disposizione. Ciò porta effettivamente alla stabilità e al progresso dei popoli. Per riassumere la posizione politica di Rosmini ci è utile un commento di Augusto Del Noce che così ha scritto nel settembre del 1982 in una sua pagina di una sua conferenza sull’attualità della dottrina sociale cristiana: «Giovedì della scorsa settimana parlavo a Stresa, in un convegno del “Centro Internazionale di Studi Rosminiani” sulla “riscoperta” del Rosmini politico. Se anche questo non fosse l’argomento centrale del mio discorso, non potevo mettere da parte la sua critica del perfettismo, definito da me quel sistema che crede possibile la perfezione nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione, dimenticando che non si ha nelle cose umane miglioramento di qualsiasi genere che non avvolga con sé qualche nuovo male, per una legge profonda, ontologica, ineliminabile. Il che non vuole affatto autorizzare un pessimismo quietistico, ma l’opposto, fondare l’idea di perfettibilità, nel senso che la lotta contro il male e la realizzazione di un sempre relativo perfezionamento — osserva Del Noce — è compito dell’individuo ed è quindi lotta che può, sì, minimizzare il male, vincibile in questo preciso momento, ma non estinguerlo nella sua radice. Quel che più importa è che l’origine dell’errore perfettistico deve essere ricercata nella prevalenza accordata alla facoltà di ordinare che presenta allo spirito le qualità separate delle cose rispetto alla facoltà di pensare che concepisce le cose nel loro essere intero. L’uso legittimo della facoltà di ordinare è, per Rosmini, di rimuovere dal perfezionamento sostanziale dell’umana società i difetti accidentali, e in questo senso la sua funzione di grande utilità per il progresso sociale. Se però la si assolutizza nascono forme di perfettismo, ognuna fondata sull’isolamento
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di una qualità: sul particolare uso politico della libertà e della giustizia. Ora, per Rosmini, i secoli dell’età moderna, a differenza del Medioevo sono stati appunto caratterizzati dalla prevalenza della facoltà di ordinare e dal conseguente perfettismo. Seguendo il suo pensiero, potremmo dire — conclude Del Noce — che le forme essenziali del perfettismo sono il liberalismo (astrazione del momento della libertà) nella conseguenza che gli è essenziale, il liberismo economico nelle varie forme in cui si presenta e che caratterizzano oggi l’occidentalismo, e il comunismo (astrazione del momento della giustizia)»9. 3. SVILUPPI DEL COSTITUZIONALISMO ROSMINIANO Nel considerare Rosmini come autore di testi costituzionali è d’uopo ricordare come in gioventù egli sia stato profondamente influenzato dalla “metafisica della sovranità” di De Maistre e dalla scienza politica di von Haller. Dal primo egli ricavava l’avversione per le costituzioni prodotte da un legislatore (individuo o assemblea) e fondate sull’astratta ragione illuminista in contrasto con la storia e la tradizione. A garanzia degli ordinamenti politici stanno proprio la continuità e la durata della tradizione, che da secoli sta a difesa dei valori e degli interessi dei popoli. Dal secondo riprendeva la riflessione tesa a richiamare il valore dell’esperienza al cospetto dell’ideologia, del concreto svilupparsi del divenire storico contro le astratte metafisiche della ragione illuminista. La sua reazione alla visione di un potere concepito su uno schema astratto è fondata sulla difesa di interessi patrimoniali dati dal possesso fondiario. La formazione cattolica di Rosmini lo portava a esaltare le virtù e i pregi del mondo contadino e agricolo e ad apprezzare il ruolo moderato di élites prevalentemente aristocratiche dei possessori terrieri nel contesto dello Stato moderno. Egli però rifiutava la mistica dell’Antico Regime basata sul puro diritto divino e si separava anche dal dispotismo illuministico tendenzialmente giurisdizionalistico e livellatore spesso elevato a modello dai 9
Cfr. A. DEL NOCE, Il pensiero cattolico di fronte ai nodi della crisi culturale moderna, in L’impegno sociale dei cattolici nell’ora presente, Atti del convegno Diocesano (Lodi, 4-5 settembre 1982), 25.
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sovrani della Restaurazione. Evitò poi di discutere i modelli dell’octroi francese del 1814 e della Costituzione di Cadice del 1812, inapplicabili in Italia, come in seguito dimostrò l’esperienza dei moti del 1820-21. Egli era sostanzialmente estraneo al centralismo delle carte che tendevano a rifarsi a schemi formulati durante il periodo della Rivoluzione francese e napoleonica. Eppure la dottrina giuridica e pubblicistica italiana del primo Ottocento riecheggiava i modelli elaborati oltr’Alpe nelle carte costituzionali che Rosmini apertamente condannava, poiché in fondo accettava dal Cuoco l’avversione per i prodotti giuridici della pura astrazione dottrinale concepiti e introdotti senza alcun rapporto con usi, tradizioni e bisogni dei popoli. Accettava cioè del Cuoco lo storicismo giuridico, anche se da avversario del costituzionalismo francese non si spingeva fino al punto di negare validità assoluta alle carte scritte, come aveva fatto invece in Inghilterra Edmund Burke10. Occorre tener conto che Rosmini dal 1832 teneva nel cassetto l’opera Cinque piaghe della Santa Chiesa e pensava già allora ad un modello di Chiesa lontana dai compromessi temporalistici che la stringevano11. Nel 1832 era salito al trono pontificio Gregorio XVI che era legato a Rosmini da sincera e profonda stima soprattutto per le sue doti di scrittore. C’erano stati i fatti dell’insurrezione delle Romagne e delle Legazioni e c’era un Memorandum delle potenze europee che spingeva per riforme da attuare nello Stato della Chiesa. Ma la condanna dell’ “Avenir” e di Lamennais suggerirono a Rosmini un atteggiamento prudente. Contro la Chiesa trionfante Rosmini contempla una Chiesa crocefissa come lo fu Cristo. Essa è un corpo mistico che prolunga nella storia quello di Cristo. Storia sociale e Chiesa sono correlate dal fatto che il secolare processo di penetrazione del cristianesimo nella società ha ferito il corpo mistico coi limiti e le imperfezioni delle cose umane. Il Medioevo in particolare, 10 Cfr. C. GHISALBERTI, Rosmini e il costituzionalismo risorgimentale, in P. PELLEGRINO (cur.), Rosmini e la storia, Stresa-Milazzo 1984, 139-158. 11 Cfr. A. ROSMINI, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Trattato dedicato al clero cattolico (con aggiunte e chiarificazioni inedite), a cura di C. Riva, Brescia 1966, poi in Edizione Nazionale Critica a cura di A. Valle, Roma 1981; ora anche nell’ed. a cura di N. Galantino, Cinisello Balsamo 1997. Si veda anche l’articolo di G. SALE, Rosmini: i dolori dopo le “Piaghe”, in Avvenire, 28 dicembre 2010.
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come osserva Rosmini, ha visto l’ingresso dei vescovi nei governi politici. Fra le altre piaghe c’è la cattiva educazione del clero, basata non più sui testi dei padri della Chiesa ma su angusti manuali scolastici. La ricerca di ricchezze da parte del clero ha corrotto la loro naturale missione di pastori. La divisione fra vescovi e popolo si può sanare soltanto ritornando all’antica pratica dell’elezione da parte del popolo. La liturgia è ormai lontana dal sentimento popolare. Infine l’ingerenza del potere politico nella nomina dei vescovi intacca la libertà della Chiesa nel suo proposito di evangelizzazione universale. La Chiesa delle origini per lui era unita, mentre il feudalesimo si basava sull’idea opposta delle divisioni e delle individualità signorili che si impongono ai sudditi e agli schiavi. Ma la schiavitù e la sottomissione sono elementi antisociali da storicizzare, perché giuridicamente superabili. Le Cinque piaghe saranno pubblicate nel 1848 insieme con La Costituzione secondo la giustizia sociale, giungendo alla messa poi all’Indice delle sue opere il 30 maggio 184912. Rosmini sperava che il cauto riformismo di Pio IX potesse avere successo e trarre beneficio dalle sue ardite idee. Ma i vecchi gregoriani gli erano ostili. Poi Pio IX non era un intellettuale o un erudito, ma un pastore buono e nonostante ciò vi fu un avvicinamento. Rosmini si schierò con coloro che chiedevano al Papa una moderata forma di costituzione e gli fece pervenire un suo progetto. La riforma di Pio IX nel 1848 suscitò entusiasmi, ma le agitazioni furono sollevate per sollecitare riforme, libertà e indipendenza dallo straniero austriaco. Già nel 1843 Gioberti nel Primato civile e morale degli italiani tentò di rafforzare il sentimento nazionale non in senso anticattolico, ma proponendo una soluzione consona alla tradizione italiana, che era prima di tutto cattolica: una confederazione di Stati presieduta dal pontefice, che così manteneva lo stato pontificio. Il biennio neoguelfo (1846-48) sembrò confermare la speranza di Gioberti. Spezzata questa speranza egli abbracciò la causa sabauda col Rinnovamento civile che immaginava l’unità d’Italia sotto l’azione militare e politica della casa Savoia. L’unità doveva realizzarsi però dopo che il mosaico 12 Fondamentale lo studio di L. MALUSA (cur.), Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice, Stresa 1999.
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italiano si fosse semplificato nei tre regni del Nord, del Centro e del Sud. Quello di Gioberti fu un espediente per conciliare l’unità d’Italia con la presenza dello Stato pontificio. Dopo che la speranza si mostrò infondata egli abbracciò la causa unitaria abbandonando il suo confederalismo. Ma fu Gioberti che disse che nella Roma papale si doveva garantire la libertas ecclesiae. Allora su questa scia Rosmini, pensando di conciliare i valori e gli interessi della tradizione cattolica con quelli del nuovo liberalismo scrisse un Progetto di costituzione per lo Stato romano, che si inscriveva fra i disegni che accompagnavano la redazione del testo dello Statuto fondamentale per lo Stato della Chiesa concesso da Pio IX nella primavera del 1848 durante i moti costituzionali italiani, per quanto poi non giunse in tempo nelle mani del pontefice che da poco lo aveva già promulgato. Due erano gli istituti che Rosmini prevedeva: il voto proporzionale e il Tribunale politico. Il voto proporzionale negava l’universalità del suffragio e l’eguaglianza giuridica dei cittadini nel godimento della partecipazione di essi al voto, perché si collegava direttamente alla proprietà, differenziando i grandi dai piccoli proprietari. Si dava così peso nel momento elettorale alle risorse economiche con due distinte Camere: quella dei grandi proprietari e quella dei piccoli possidenti, per cui nel Parlamento si dovevano registrare le differenze sociali nel provvedere alle casse statali e impedire la legge agraria e il comunismo. Il legislativo tanto amato dai francesi era dunque ridimensionato col bicameralismo. Poi egli progettò una serie di tribunali politici posti a tutela dei diritti naturali, pubblici e privati dei singoli, per controllare la legittimità e la costituzionalità delle leggi e poter giudicare i ministri. Al vertice di tale architettura stava il Sacro Collegio cardinalizio, cui era affidata la custodia giuridica dello Stato pontificio con l’ufficio del Supremo Tribunale politico. Ciò era in linea con la visione del neoguelfismo. Gli eleggibili devono essere per Rosmini uomini legati al credo del cattolicesimo, non interdetti, incensurati penalmente, italiani13. Nel 13
Cfr. A. ROSMINI, Progetto di costituzione per lo Stato romano, in ID., Progetti di costituzione. Saggi editi ed inediti sullo Stato, a cura e con introduzione di C. Gray, Milano 1952, 3-59.
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Progetto di Costituzione per lo Stato romano, inviato al cardinal Castracane nel marzo 1848, egli mostrava quindi la preoccupazione che il potere temporale del pontefice, indispensabile alla missione spirituale della Chiesa, non contrastasse con la ricerca di unità e indipendenza della penisola italiana. Le carte costituzionali del suo tempo suscitarono smodate ambizioni di ascendere nella scala sociale, provocando la nascita di parti estreme con la prevalenza della Camera dei deputati posta allo stesso livello della Camera di rappresentanza della grande proprietà; essa poteva chiedere persino la negazione della libertà religiosa in opposizione dell’autorità della Chiesa. Gli ordinamenti liberali erano spesso laicisti e questo pregiudicava l’azione indipendente del pontefice, la libertà dell’elezione del Papa da parte del Sacro Collegio. Nell’opera sulla Missione a Roma. Commentario, il Roveretano lasciava scritte le sue riflessioni sull’esperienza che aveva fatto nel 1848-49 a seguito del Papa a Roma e Gaeta, ma su indicazione del regno sabaudo, che lo aveva inviato in quanto rappresentante del Piemonte nel consesso dei plenipotenziari che avrebbero dovuto scrivere la costituzione dell’Italia unita da venire. Egli era allora il collaboratore stretto del re Carlo Alberto che avrebbe dovuto perorare davanti al Papa con moderazione il progetto unitario di una confederazione. Invano però egli aveva atteso una formale lettera d’incarico soprattutto per stipulare un concordato fra i due soggetti statali. In alcuni articoli pubblicati dal 1 luglio al 5 agosto 1848 sul “Il Risorgimento” di Camillo Benso conte di Cavour egli fece conoscere le sue idee politico-costituzionali relative alla riunificazione delle regioni dell’Alta Italia, intesa come baluardo per la difesa della penisola e passo necessario per unificarla nel prossimo futuro. Prima occorreva realizzare un Regno dell’Alta Italia, che significava fare un passo decisivo verso la liberazione del nostro paese dallo straniero e verso un’amalgama di popolazioni dei diversi Stati conservati nelle loro tradizioni eppure solidali attraverso la medesima ispirazione all’indipendenza. L’ordinamento pontificio non si doveva infatti omologare agli altri Stati. Nello scritto su La costituente del Regno dell’Alta Italia Rosmini scriveva che Dio non aveva mai abbandonato l’Italia e si vedeva già che la Provvidenza scaccia l’oppressore
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austriaco14. La pacifica vita della nazione deve essere affidata ad un ordinamento costituzionale che ne forma durata e stabilità. Egli era contrario alla rivoluzione permanente di stampo francese che vedeva la costituzionalizzazione del potere come frutto della onnipotenza della volontà costituente del popolo, che crea continuamente e incessantemente nuove forme ordinamentali. Tutto ciò è solo un convulso succedersi di forme costituzionali come ha ben mostrato la storia costituzionale francese dal 1789 al 1848, così instabile e fragile. Il costituzionalismo francese è risultato essere un modello astratto pensato dalle intelligenze a tavolino, basandosi sul rifiuto a priori del passato. Esso prevedeva carte costituzionali uscite belle e pronte dalle teorie della mente e non rispettose della concreta realtà storica. Per questo non sono poi durate a giudizio di Rosmini. Certo, la realtà dei fatti va normata dalla ragione, ma il politico non è un astratto creatore onnipotente che dal nulla trae la materia del diritto. Nella Costituente del Regno dell’Alta Italia egli immaginava un atto generico di una costituzione, cioè un’assemblea costituente che si assumesse il compito di formulare la legge fondamentale scritta della nazione. Ma non bisognava seguire servilmente i modelli stranieri, che, come quello francese, rifiutavano la storia e l’esistente a favore di altri che celano in sé il dispotismo che fa del popolo la nuova potestà legislativa assolutamente arbitra delle leggi. Il germe del dispotismo cioè stava per Rosmini annidato nell’assolutismo non soltanto dei regnanti tirannici ma anche di assemblee popolari e di maggioranze parlamentari che assolutizzano il legislativo. Così i diritti preesistenti di individui, famiglie, comunità e società minori rispetto a quella civile non trovano adeguato riconoscimento. Inoltre il popolo non si sente vincolato dalle leggi costituzionali che intende cambiare continuamente per seguire il corso delle circostanze. Lo strumento giusto per frenare l’onnipotenza del legislativo veniva individuato da Rosmini nel Tribunale politico, cioè in una istituzione nuova nella formulazione, ma che affondava le sue radici storiche nella creazione di un eforato superiore alle leggi ordinarie, perché era 14 Cfr. A. ROSMINI, Scritti politici, cit., 267-324; G. DI CAPUA, La collaborazione di Rosmini al “Risorgimento” di Cavour, prefazione di A. Meccanico, Venezia 2011.
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posta a difesa dei diritti universali di ogni persona di fronte allo strapotere della società civile che si esprime normalmente nella rappresentanza della Dieta centrale (le due Camere riunite). Nel Progetto di costituzione per lo Stato romano infatti, anche diplomaticamente dati i tempi, egli vedeva il Papa come capo del Concistoro e protettore della Corte, non affatto come il presidente della Dieta. 4. L’ORDINAMENTO DELLO STATO NELLA COSTITUZIONE SECONDO LA GIUSTIZIA SOCIALE
Le vicende dell’unità d’Italia da Antonio Rosmini furono viste e vissute a partire dalla sua piena appartenenza al Piemonte, sua patria elettiva, malgrado non indifferenti divergenze di vedute esistessero coi suoi rappresentanti. Egli, da suddito di Sua Maestà Imperiale di Austria Francesco II, finì per gravitare sulle vicende politiche lombarde e piemontesi perché fu respinto dalle terre trentine e dal regno lombardo veneto. In questo quadro di pace maturò nel 1848 l’incarico della missione a Roma, operando con spirito di servizio e collaborazione con sua Maestà Carlo Alberto, ma non perdendo mai di vista gli interessi della nazione italiana e soprattutto della cristianità, tanto che, ad onta di vizi di teoreticismo, comprese subito le conseguenze della politica dei Savoia e di Pio IX in ordine all’equilibrio europeo. Egli allora svolse presso il Papato una trattativa in relazione all’idea di una Lega tra gli Stati italiani in vista di una confederazione, come raccontò nello scritto Della Missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49. Commentario, scritto nel 1850 ma pubblicato postumo per l’editore Paravia nel 188115. Alle omissioni dell’edizione del 1881 si sono aggiunte poi le considerazioni ora note nell’edizione diretta da Luciano Malusa, ove Rosmini risulta più critico nei confronti del Papato e di Carlo Alberto. In questa opera il Roveretano lasciò scritte le sue riflessioni sull’esperienza che aveva fatto nel 1848-49 a seguito del Papa a Roma e Gaeta, ma su invito appunto del regno sabaudo. 15 Cfr. A. ROSMINI, Della Missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49, cit.
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La pubblicazione nel 1848 delle Cinque piaghe fu accompagnata dalla uscita dalla Costituzione secondo la giustizia sociale, all’interno di un quadro storico in cui Pio IX appariva un Papa capace di caute riforme, malgrado la presenza di prelati conservatori in seno alla corrente dei gregoriani in curia. Purtroppo Papa Mastai Ferretti non era un intellettuale o un teologo esperto, ma piuttosto un vescovo buono e un pastore di anime amato e rispettato dal popolo. All’uscita delle Cinque piaghe Pio IX fece sapere a Carlo Girardi, che era il procuratore presso la Santa Sede dell’Istituto della Carità, di voler incontrare Rosmini, che però si trattenne in Piemonte. Ricordiamo l’esultanza di vasti strati del popolo cristiano verso Pio IX ma anche il fatto che esultanze ed agitazioni erano motivate dalla richiesta di riforme, libertà e soprattutto indipendenza dallo straniero, che era Metternich. Questi nell’andare a Londra disse espressamente il 2 agosto del 1847: «L’Italia è un nome geografico. La penisola italiana è composta da stati sovrani e mutualmente indipendenti»16. Voleva scoraggiare atteggiamenti benevoli nei confronti delle aspirazioni all’indipendenza da parte degli italiani. Ma proprio questioni di diritto pubblico portavano la maggioranza degli italiani a ritenere fondata la loro aspirazione all’indipendenza costituendo uno Stato sovrano e indipendente. Rosmini era fra questi. Altro serio problema era il fenomeno del pauperismo, la coscienza della miseria di vasti strati della popolazione, legata alla nuova industrializzazione, che era un terreno fertile per la propagazione delle idee rivoluzionarie orientate a rendere tutti gli uomini uguali e fratelli: il proletariato delle sempre più grandi città industriali e le sacche di sempre maggiori povertà delle campagne. Ciò era intollerabile per il rispetto della dignità delle persone e dei lavoratori. Sorgevano correnti di pensiero come il socialismo utopistico (Saint Simon, Fourier, Owen, Blanqui, Blanc, Proudhon) con cui Rosmini polemizzò nel Saggio sul comunismo e il socialismo, che però non prende in esame la dottrina marxista17. La questione sociale è per lui 16 K.W.L. VON METTERNICH, Correspondence respecting the Affairs of Italy 184647, citato in G. CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, vol. III, Milano 1979, 48. 17 Cfr. A. ROSMINI, Saggio sul comunismo e sul socialismo, introduzione di
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vitalissima e i nuovi Stati devono farsene carico, programmando quello che egli chiama “beneficenza statale”. Non si doveva procedere con la severa ragione né con il puro sentimento né in vista del puro interesse, ma attenendosi alla giustizia, perché la beneficenza può riuscire, anziché di vantaggio, di grave danno non solo alle nazioni ma anche alla stessa classe indipendente: la beneficenza governativa può risultare crudele. Lo Stato deve risolvere bene la questione, assicurando il minimo vitale a tutti per il diritto universale a vivere. Non deve lasciar soli i cittadini in caso di calamità e carestia per il dovere di solidarietà e per la tranquillità della società. Occorre smettere di tassare gli indigenti. Ma la beneficenza statale non può estendersi fino a garantire a tutti i cittadini quei diritti che un governo non è capace di mantenere, come il diritto al lavoro, perché si rischia di far credere giusto ai cittadini ciò che è impossibile. Né la beneficenza statale può a suo arbitrio ridistribuire i beni degli altri in nome di un’astratta uguaglianza. Togliere con la legge a chi possiede per darlo a chi non ha vìola da una parte il diritto di proprietà e trasforma dall’altra la beneficenza in diritto. Esso inasprisce così i conflitti: si innesca la percezione del furto ingiusto e la convinzione di essere povero per colpa di altri. Esso inaridisce i cuori abituando la gente a demandare al governo e alle sue leggi la questione della povertà. Occorre che il governo distingua la beneficenza spontanea (da incoraggiare con l’educazione alla carità evangelica) e la giustizia sociale (da perseguire con l’azione legislativa accompagnata dalla forza). Lo Stato per Rosmini non deve ridistribuire in modo forzato i beni ma amministrarli saggiamente. Eguaglianza delle condizioni significa come per Tocqueville che ognuno deve poter liberamente concorrere alla conquista di qualsiasi bene sociale e il governo deve garantire il rispetto delle regole. Chi crede che prendendo il potere possa disporre di ogni cosa attua un dispotismo che è arbitrio governativo, del tutto simile all’assolutismo monarchico. I rimedi del socialismo utopistico (abolizione della proprietà, nazionalizzazione dell’industria e del commercio, uguaglianza dei salari e delle condizioni sociali) sono espressione del nuovo L. Compagna, Roma 2008; B. BRUNELLO, Introduzione a A. ROSMINI, Ragionamento sul comunismo e sul socialismo, Milano 1948, V-XXV.
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dispotismo politico. Sotto l’influenza cristiana negli Stati c’è stata la incomprensione della massima di S. Paolo per cui «ogni potere viene da Dio» (Rm 13,1) che voleva solo sottolineare come ogni diritto sia una facoltà o potere sacro ed inviolabile perché tutelata dalla giustizia posta nei cuori da Dio come imperativo. Ma il laicismo si è sviluppato quando, per compiacere ai re, gli spiriti servili l’hanno interpretata come se il potere governativo dei principi venisse da Dio e fosse dotato di quella insindacabilità che risponde solo a Dio. Occorreva per le nuove democrazie liberali legati alla stagione postrivoluzionaria liberarsi di questo equivoco e affrontare le nuove tirannie: i diritti appartengono alla persona, singola ed associata, e non si possono alienare, mentre i compiti dello Stato e del governo vanno snelliti facendo sì che esso non diventi il Leviatano inteso come giudice inappellabile di ogni diritto e di ogni dovere. Torniamo all’opera la Costituzione secondo la giustizia sociale, ove il tema fondamentale è la polemica con le costituzioni francesi. Le democrazie francesi non si sono formate sui bisogni reali della popolazione; esse sono poi inquinate dal clima anticlericale che è scaturito dalla collusione di potere fra Chiesa e assolutismo monarchico e perciò sono insofferenti per l’alleanza fra trono e altare. Non è avvenuto così in America ove si è affermato un pluralismo perché è possibile pregare in libertà. Invero ci sono due forme di costituzione: «le une formate brano a brano, senza un disegno premeditato, rappezzate e rattoppate incessantemente secondo il contrasto fra le forme sociali e l’urgenza degli istinti e dei bisogni popolari; le altre create d’un sol tratto, uscite belle e compiute come una teoria della mente, come Minerva dalla testa di Giove. Quelle sono poste in atto prima che scritte, queste prima scritte che poste in atto»18. Quelle francesi sono cioè scritte a tavolino, non come quelle veneziana, inglese e americana che sono intese come opera di avvenimenti; esse sono mero frutto di speculazione. Sottomettere il fatto alla ragione, la pratica alla teoria è un generoso pensiero che però è la riprova che la perfezione di una teoria sta nel fatto conseguente. Esse sono frutto del sensismo e dell’utilitarismo. Poi creano un cattivo rapporto fra potere politico e ricchezza e mancano 18
A. ROSMINI, Scritti politici, cit., 45.
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di giustizia politica, non riconoscendo i diritti della persona nei confronti dello Stato. Il vizio non sta nell’anticlericalismo di matrice volterriana, ma anche nella teoria della volontà generale di matrice rousseauiana, la quale è un concetto vago, astratto ed indeterminato che reca in sé il germe del dispotismo che intende combattere. La costituzione consta di 92 articoli e si poggia su due cardini: il voto proporzionato alla ricchezza e alla proprietà e il Tribunale politico. Ci deve essere una doppia rappresentanza con due Camere legislative di uguale numero di membri, elette dai soli proprietari contribuenti, una dai proprietari maggiori e una dai proprietari minori. La forma di rappresentanza universale è affidata al Tribunale politico eletto a suffragio universale ed uguale, cioè su base democratica. La costituzione riconosce due distinti ordini di diritti, quelli di libertà, uguali in tutti gli uomini e garantiti da giudici eletti con suffragio universale, e quelli di proprietà, ineguali e garantiti da governanti eletti dai possidenti. Dice Rosmini: «Due sono i bisogni della società, due li scopi di ogni Governo: la giustizia e l’utilità. Tutti i diritti degli uomini si riducono a due gruppi, al gruppo di quelli che si raccolgono sotto il nome di libertà, e sono il libero onesto esercizio di tutte le facoltà, e al gruppo di quelli che si raccolgono sotto il nome di proprietà. Le Costituzioni moderne difettano per l’uno e per l’altro capo. Esse non rendono giustizia a tutti, poiché contro il potere politico le minorità e gli individui non hanno alcun richiamo: non havvi tribunale a cui possano ricorrere nel caso di violata giustizia. Il potere legislativo si suppone infallibile, e perciò gli si dà l’onnipotenza; all’incontro la giustizia verso le minorità può essere violata anche nella formazione delle leggi»19. I rimedi sono «1. la istituzione di tribunali di giustizia; 2. il voto proporzionato all’imposta diretta che ciascun cittadino paga allo Stato. L’uno tutela i cittadini contro qualunque ingiustizia, anche commessa in nome del potere e della legge, l’altro promuove tutte le oneste utilità a favore di tutti equamente e proporzionalmente»20. Invece le costituzioni moderne non tutelano efficacemente i diritti di libertà e di proprietà. Le costituzioni francesi celano 19 20
Ibid., 50. Ibid., 51.
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un’altra forma di assolutismo, perché sono dedotte dalla filosofia utilitaristica e sensistica, che, al calcolo sempre inesatto della pubblica utilità, sacrifica la ragione, l’onestà e la giustizia. Sono frutto di teorie astratte inapplicabili alla realtà sociale21. All’art. 27 si prevede il voto proporzionato alla ricchezza: «Gli uomini sono uguali perciò che riguarda il diritto naturale, ma non ne viene mica che debbano essere uguali anche in una società che stringono fra loro»22. All’uguaglianza naturale non segue cioè necessariamente quella sociale. Per questo motivo tutti quindi devono godere, anche i non proprietari, dell’elettorato passivo, ma coloro che non pagano imposte non devono avere diritto di elettorato attivo. Gli artt. 50-52 parlano delle due Camere composte da un numero eguale di rappresentanti. Il legislativo ha due classi di proprietari che li rappresentano, esercitando il reciproco controllo perché non prevarichino l’uno sull’altra. Quando Alessandro Pestalozza gli obiettò che ai non contribuenti era vietato così il diritto di voto, egli oppose che così si sarebbe ingiustamente prodotto una lesione della proprietà. La rappresentanza non deve essere illusoria ma effettiva e si dichiarò a favore della rappresentanza reale per l’amministrazione degli interessi. Era rimasto cioè legato ad una idea patrimonialistica del consorzio umano, con la visione che le Camere rappresentano le proprietà e non gli individui e cioè gruppi organizzati intorno ad interessi particolari. Nei confronti dei non abbienti la società civile non può essere altro che benefica, ma non deve rigettare dal suo seno i poveri e gli indigenti. Lo spirito del Vangelo deve escludere dal mondo la schiavitù, tutti i redenti da Cristo sono fratelli e la società civile cristiana deve riconoscere come tali anche i poveri ammettendoli gratuitamente, tutelandoli con giustizia e beneficiandoli con carità. Punto qualificante della costituzione è la separazione dei poteri, che è una garanzia del governo costituzionale. Si ha così la divisione dei poteri, con il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Rosmini intendeva evitare la dannosa confusione del governo unico, soprattutto delle Camere, che è in balìa dei partiti i quali s’ingeriscono nelle 21 22
Cfr. ibid., 52. Ibid., 181.
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questioni di governo difendendo interessi egoistici e privati. Occorreva evitare degenerazioni contro il bene comune. Per questo l’esecutivo deve essere forte, munito di iniziativa legislativa che ha precedenza di discussione e votazione su quello delle Camere (art. 11). A capo deve essere quindi un monarca costituzionale o un presidente della repubblica. Non ci deve essere una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino per la difficoltà di definirne in modo appropriato i termini e per la loro scarsa efficacia. Basta ricordare fra i principi dello Stato «i diritti di natura e di ragione inviolabili per ogni uomo». Così egli lo motivava: «Convien riconoscere che sopra la società civili, sopra il potere, sopra l’umanità intera vi ha una giustizia eterna: che a questa l’umanità deve ubbidire, che questa giustizia non emana né dal popolo né dalle Camere né dal re, né dalla volontà dell’uomo: non emana al tutto, ma solamente, è, come è Iddio, nel quale ha sede. Convien riconoscere e confessare che avanti tutte le leggi positive della civile società ve ne hanno dell’altre, a cui quelle della società devono conformarsi sotto pena di esser nulle come non avvenute: si deve riconoscere che i diritti dell’uomo antecedono quelli che l’istituzione della società civile gli può attribuire: si deve ammettere un diritto di natura e di ragione precedente alla civile convivenza che deve esser rispettato da tutte la disposizioni civili»23. Quindi Rosmini si propone di tutelare e ampliare l’uguaglianza e la libertà dei cittadini rispetto alle costituzioni moderate del tempo difendendone le istanze rispetto al legislativo e all’amministrazione. C’è la libertà di parola, di pensiero, di stampa, associazione, ma soprattutto di movimento, dato che emigrare in ogni parte del globo è un diritto di natura (art. 26). C’è la garanzia di libertà d’azione della Chiesa che può comunicare direttamente sulle materie ecclesiastiche: i concili, la nomina dei vescovi a clero et populo, le materie morali ed educative. Egli osserva che la costituzione toscana ammette gli acattolici negli impieghi amministrativi e militari. La religione cattolica non deve essere religione di Stato, come è scritto nello Statuto albertino del 1848, perché essa non ha bisogno di protezioni dinastiche ma di libertà, senza la quale non 23
L.c.
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può esercitare liberamente il suo ministero. Per esempio la libertà di insegnamento spetta alla Chiesa, ma è ostacolata dallo Stato che interferisce nella sfera religiosa con detrimento dei diritti fondamentali della Chiesa. Lo Stato deve invece garantire alla Chiesa di essere maestra e giudice della dottrina dogmatica e morale nell’insegnamento. Questa garanzia non è data alla Chiesa ma ai popoli. Sin dagli anni giovanili Rosmini si applicò allo studio del Tribunale politico come garante della giustizia nella dinamica politica e amministrativa, come suprema istanza di controllo giudiziario degli atti sia esecutivi che legislativi e di risoluzione dei conflitti politici in generale secondo giustizia. In Della naturale costituzione della società civile scritta nel 1827 e poi apparsa con modificazioni nell’edizione postuma nel 1881, ma rivista nel 1848 come secondo volume non pubblicato della Filosofia della politica, c’è la sua prima ipotesi in questo senso24. Nella storia sono sempre esistiti forme di tribunali civili preposti alla soluzione dei conflitti in materie di interesse privato, ma niente è stato fatto circa gli interessi politici. C’è invece la necessità di un giudizio politico indipendente, attraverso la edificazione costituzionale di un Tribunale politico, che esige un progresso dei lumi e una moralità avanzata nel genere umano. Occorreva però che l’influenza del cristianesimo si fosse imposta nei secoli. Occorreva che tale influenza facesse avvertire il bene comune di tutti e di ciascuno come superiore al bene pubblico, ovvero del corpo sociale nel suo insieme. Alla giustizia politica doveva potersi appellare ogni persona singola o collettiva per la tutela dei diritti individuali o di minoranza, contro l’oppressione della maggioranza di un dato corpo politico. Tale tesi fu ripresa nella Filosofia del diritto, ai parr. 1602-1610, coll’idea della istituzione del Tribunale politico, che è il rimedio contro le ingiustizie prodotte dalla maggioranza contro le minoranze, soprattutto dopo che le rivoluzioni hanno con la forza rovesciato l’ordine costituzionale e non hanno offerto mezzi legali per difendere i diritti dei singoli e delle minoranze. Il dispotismo è rimasto oggi mascherato nei nuovi governi costituzionali, provocando il pericolo di nuove forme di risentimento 24 Cfr. A. ROSMINI, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1888.
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giuridico dei popoli incamminati di rivoluzione in rivoluzione verso un nuovo asservimento dei soggetti a inattesi dispotismi. La giustizia sociale è garantita solo dall’esistenza di un Tribunale politico venerabile e indipendente, chiamato a censurare le ingiustizie degli atti di governo, di tutte le leggi, eccetto la costituzione che è il vero codice del suddetto tribunale, come afferma Rosmini nei parr. 81-82 della Costituzione secondo la giustizia sociale. Esso deve garantire i diritti di natura e di ragione, assicurare la difesa del bene comune, comporre i contrasti fra interessi e valori morali, vigilare su tutti i poteri dello Stato e sulla conformità delle leggi alla costituzione e giudicare sulle infrazioni alla legge fondamentale commesse dal Governo e dalle Camere contro i singoli e le minoranze. Esso sovrasta al potere legislativo, è custode della naturale costituzione della società, è garante del primato della giustizia sulla politica, completa la divisione dei poteri, elimina i danni del potere unico. Infine garantisce l’equilibrio fra la forza fisica e la forza morale, è organo della giustizia politica, fa assurgere lo Stato al rango morale per il fatto che esso è garante dei diritti di libertà della persona, i quali non sono più garantiti solo dall’autorità esterna della Chiesa. Ciò avrebbe garantito la superiorità dei potere giudiziario sul potere politico. Esso sarebbe superiore allo stesso potere del Re. Lo statuto non sarebbe così in balìa della volontà popolare, ma sarebbe una verità che si pronuncia contro le infrazioni che possono commettersi contro la libertà. In appendice alla Costituzione secondo la giustizia sociale apparve lo scritto Sull’unità d’Italia, che è un inno al diritto degli italiani a percorrere ogni via per la unificazione che superasse la circoscrizione territoriale corroborato da sole transazioni politiche fino ad allora non soggette a contestazione. Occorreva per lui eleggere un’Assemblea costituente che formulasse una costituzione comune per l’Alta Italia (regno sardo, Lombardia, Veneto). I padri costituenti devono per Rosmini essere saggi, liberi da pregiudizi, capaci di prendere da ogni parte il buono, ma anche di rigettare errori, coscienti della loro responsabilità e di fornire all’Italia una base seria. Quindi occorreva evitare i modelli costituzionali che il tempo ha rivelato labili, perché promettevano una cosa e ne partorivano un’altra: le costituzioni alla francese che, come quella americana, rivendicavano i diritti universali
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di libertà, uguaglianza e fratellanza, ma poi li sconfessavano con leggi che dovevano realizzarli. Era per esempio risultato espressione di libertà abolire la proprietà privata, sopprimere gli ordini religiosi, costringere il clero al giuramento, pena la minaccia addirittura del carcere e della ghigliottina se non ci si allineava al potere in carica. Poi c’era la prevenzione verso la sfera religiosa di matrice volterriana anche fra i lettori più moderati del Risorgimento. Invece per Rosmini il clero non può andare contro il bene del popolo, è amico delle libertà e predica la fraternità universale, come promette la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Nel saggio Sull’Unità d’Italia, quindi, egli prese posizione allora a favore dell’unità della penisola con la formula del federalismo, che non indebolirebbe ma rafforzerebbe l’unità nazionale attraverso il riconoscimento delle preesistenti legittime diversità. La futura confederazione deve essere presieduta dal Papa, che è garanzia, priva di forza, dell’unità nazionale. Così l’unità organica della penisola non sarebbe omologante ma avrebbe conciliato l’unità con la permanenza del potere temporale del pontefice. L’Italia federale avrebbe mantenuto ampie autonomie ai singoli Stati, rappresentando tale soluzione un’autorevole forma di federalismo per aggregazione: «L’unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è per l’Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà; tale sembra dover essere la formulazione dell’organizzazione italiana»25. Lo Stato non deve creare i diritti, ma regolare il naturale esercizio in ordine non soltanto ai diritti innati, ma anche a quelli acquisiti, frutto della libera iniziativa di individui e comunità, che nelle svariate attività del tempo acquisiscono proprietà e diritti diversi per quantità e qualità. Agire secondo giustizia significa non annullare, inglobandoli i diritti, ma riconoscerli. Stato unitario non vuol dire Stato accentratore, che spiana le differenze, le disuguaglianze e le eminenze. Non ci deve essere solo l’eminenza della capitale, perché l’Italia è frutto di quattro secoli d’invasione, di dissoluzione, di divisioni intestine, ma anche di potenziale organizzazione realistica: «Non trattasi di organizzare un’Italia immaginaria, ma l’Italia reale colla sua schiena dall’Appennino nel 25
A. ROSMINI, Sull’Unità d’Italia, in ID., Scritti politici, cit., 252.
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mezzo, colle sue maremme, colla sua figura di stivale, colla varietà delle sue stirpi non fuse in una sola, colle sue differenze de’ suoi climi, delle consuetudini, delle sue educazioni, de’ suoi governi, de’ suoi cento dialetti, fedeli rappresentanti della sociale nostra condizione»26. 5. CONCLUSIONI Nell’appendice Sull’Unità d’Italia Rosmini finalmente immaginava il suo Stato federale. Egli intendeva conciliare le esigenze del grande Stato moderno con le disparità delle condizioni degli Stati esistenti, che non devono perdere la loro specificità individuale. Il suo federalismo evitava una concezione fittiziamente unitaria. La unificazione concreta doveva sintetizzare l’unità dello Stato con la molteplicità delle sue membra identificate con le sue storiche componenti. Egli cioè intendeva evitare sia il particolarismo individualistico dei molteplici municipi sia il totalitarismo della monolitica unità dello Stato accentratore burocraticamente organizzato. Il federalismo permetteva a suo dire la bellezza di una unità nella varietà. Sette Stati si sarebbero dovuti unire in una Dieta e ogni Stato avrebbe dovuto mantenere la sua Camera con la sua sovranità legislativa. Alla Dieta, eletta proporzionalmente alla popolazione italiana, sarebbero spettati compiti comuni di difesa dell’interesse dell’Italia: uguali leggi commerciali, penali, politica monetaria, politica estera e militare. Il resto poteva essere legittimamente regolato dalle leggi di parlamenti particolari.
26
Ibid., 251.
FILOSOFIA E POLITICA IN ANTONIO ROSMINI
FRANCESCO CONIGLIARO*
1) Nel pensiero di A. Rosmini l’esistenza umana e tutti i suoi aspetti particolari si attuano nell’ambito della tensione dinamica esistente tra “essere ideale infinito” e “realtà finita”. Nella politica questo fatto non è immediatamente evidente, ma, come risulta dall’impostazione generale del pensiero rosminiano, è sempre sullo sfondo e può essere inferito dalla teoria rosminiana della moralità, che è volta alla convergenza tra infinito e finito. A parer mio, l’analisi del pensiero politico rosminiano non può non partire dal problema suscitato da questa esigenza. In virtù della formalità che lo struttura, e cioè dell’essere ideale presente alla sua mente, l’uomo si sente chiamato a realizzare incessantemente il valore morale, che egli è in quanto persona. Tale impegno lo coinvolge completamente, perché implica l’adesione volontaria, libera, personale e storica all’essere ideale, “primo logico”. Il Rosmini concepisce la politica come uno dei settori più significativi della sua ricerca e della sua riflessione, che è filosofica e che, secondo il suo intendimento, deve rimanere tale. Pertanto, i problemi politici vengono considerati o sviluppi, o dati emergenti, o aspetti pratici di questioni filosofiche. È mia intenzione presentare il pensiero politico del Rosmini nella sua relazione strutturale con la sua filosofia. A mio avviso, l’errore di * Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania e di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Palermo.
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molti studiosi del pensiero rosminiano è quello di trattare, come parti complete ed autonome, alcuni settori di questo pensiero. E, siccome alcuni di questi settori sono straordinari — e ricordo a mo’ di esempio le dottrine circa la persona, la libertà, i diritti ed il tribunale politico, — gli studiosi, che se ne sono occupati, non si sono risparmiati nelle loro espressioni enfatiche e celebrative. In realtà, senza nulla togliere ai meriti del Roveretano e dei suoi studiosi, ritengo che lo studio della politica del Rosmini, integrato nella sua filosofia, consenta e, ancora di più, esiga un approccio più prudente e più problematico. Il politico, secondo Rosmini, non è un ambito originario, bensì derivato, in quanto è uno dei possibili modi di venire all’atto da parte dell’essere ideale. Pertanto, si trova nella fase pratica del processo di realizzazione dell’idea. L’essere ideale entra nella prassi penetrando, nella storia, per mezzo della persona e, nello spazio sociale, per mezzo del politico; ed è in grado di farlo sia perché, in virtù del “sintesismo” dell’essere, ha la capacità di affermarsi secondo l’idea, secondo la realtà e secondo la moralità, sia perché, in quanto è virtuale, deve solo distinguere nelle modalità appropriate ciò che esso in modo indistinto è e possiede. Mentre dico questo, desidero recare all’evidenza un fatto gravido di conseguenze: l’idea di essere si arricchisce del qualificatore “virtuale”; sicché, si deve parlare di “essere-ideale-virtuale”. Una tale impostazione colloca le idee e la prassi in una prospettiva piramidale, con al vertice il massimamente indistinto, perfetto, sicuro, logico. E non si tratta soltanto dell’ordine ideale e dell’ordine pratico in generale, ma dei singoli dati di ogni ordine. Sicché, si può dire che filosofia, etica, diritto e politica sono congiunte al vertice. Di tutto ciò si possono individuare delle ragioni molto interessanti. Una consiste nel fatto che la politica non è tanto una elaborazione di nuove modalità di situarsi nello spazio sociale, quanto piuttosto un tentativo di sottrarre la concezione della società alle ideologie perfettistiche e totalitarie del tempo e di fondarla sulla religione cristiana. Un’altra è che il progresso, ancorché avanzamento, implica sempre il rapporto con il passato, esige il rifiuto di cose ed eventi volti a spezzare tale legame, come ad esempio la Rivoluzione Francese, ed in una certa misura implica la “riduzione al principio”. Una terza ragione è in una concezione della società civile che riproduce nella sostanza la struttura pira-
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midale dell’ancien régime e che, dunque, alla sommità ha il potere, il cui titolo legittimo è nella proprietà e nella sua inviolabilità. Ci sembra opportuno insistere sul ruolo che la Rivoluzione Francese ha nella mente e nella riflessione del Roveretano. Egli ne ebbe l’incubo e, quando ne parla in generale, ricorre a qualificatori molto eloquenti e rivelatori di uno stato d’animo e di una mentalità: “ingiuste violenze fecero inorridire i buoni”, “masnada di assassini”, “movimento irreligioso ed empio”, “licenza scambiata per libertà”1. È vero che, parlando della società francese pre-rivoluzionaria, il Rosmini afferma che si tratta di una società violenta perché retta dal dispotismo arbitrario, da istituzioni che impediscono il progresso, ma afferma anche che tale società fu travolta da una violenza di segno contrario: alla violenza delle istituzioni signorili si oppose la violenza delle masse2. Al tempo della Filosofia del Diritto il Rosmini si è già fatta un’opinione negativa dell’“elemento signorile”, ma ciò non gli impedisce di giudicare negativamente l’“elemento sociale”: esso, infatti, si è abbandonato agli eccessi rivoluzionari contro l’elemento signorile, ha infranto ogni giustizia ed ha finito con l’instaurare una nuova tirannide, quella del “Diritto sociale” sul “Diritto individuale”, cui appartiene il “Diritto signorile”, e sul “Diritto familiare”3. Il Rosmini si lascia condurre, ma non travolgere dalla sua logica politica, che è piramidale. Pertanto, in tale logica, che conserva anche perché gli consente di integrare in un unico schema ed in un unico discorso le tematiche dell’intera sua riflessione, egli innesta delle dottrine che la sottopongono a pressioni fortissime. Si tratta delle grandi tensioni teoretiche della persona, della libertà, della giustizia e dell’uguaglianza. 2) Il Rosmini pone ed affronta i problemi dell’essere lasciandosi condurre da una esigenza di unità e di totalità. La conseguenza di tutto questo è che ogni dato particolare mutua l’intelligibilità dal sistema di 1 Cfr. A. ROSMINI, Filosofia del diritto (= FD), (1841-1845), EN Padova 1967-1969, vol. II, 2080 nota 1. 2 Cfr. FD, vol. II, 2080. 3 Cfr. FD, vol. II, 2081.
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totalità: «[…] perocché indi imparai, che “il migliore o il più alto sapere non è quello de’ particolari, né tampoco quello de’ generali; ma sì quello che acuisce la mente fino a vedere i particolari dentro de’ generali”. Ora generalmente sono le verità che illuminano le menti delle plebi; contemplarle fino a vedere in esse, quasi in loro propria sede lucidissima, i veri particolari, ecco il compimento del sapere, il sommo dell’umana sapienza»4. Tuttavia, l’uni-totalità, se, da un lato, è l’alveo nel quale la molteplicità dei fenomeni scorre ed acquista razionalità, dall’altro, può rivelarsi fagocitatrice dell’autonoma concretezza della storia. L’essere ideale infinito è, secondo il Rosmini, il fondamento “oggettivo” della razionalità, ma ciò, lungi dal rasserenare il discorso, lo turba, perché la storia non sembra più un processo libero, bensì un processo determinato a priori in senso mono-accentuativo. Ovviamente, un tale rischio è contrario alle intenzioni del Rosmini, ma ciò non toglie che la sua riflessione vi si trovi di fronte. In termini sostanziali, possiamo dire che il Rosmini si trova di fronte al rapporto tra contingente ed assoluto. Solo l’entusiasmo di ammiratori può trovare l’originalità e la fecondità della Filosofia del Diritto del Rosmini in quanto segue: «Fondare nell’assoluto il movimento della contingenza, dare all’assoluto tutta la libertà di movimento della contingenza ed alla contingenza tutta la libertà di movimento nell’assoluto»5. Anche andando oltre il Rosmini ed arrivando ai nostri giorni, una tale procedura è carica di rischi. Nel corso di un recente Congresso internazionale su L’uomo dell’età moderna e la Chiesa, tenuto presso la Pontificia Università Gregoriana nel novembre 2011, lo storico della filosofia P. Henrici, professore emerito della Pontificia Università Gregoriana, ha detto ciò che segue: «Tanto il Platonismo quanto l’Aristotelismo e lo Stoicismo, come anche i loro derivati cristiani avevano sempre considerato l’universale, l’idea platonica, l’ordine cosmico o le idee divine come fondamentali e primarie. L’universale è l’oggetto principale della mente umana, la quale si impegna a comprenderlo, costituendo la scienza e le scienze, che saranno sempre scienza 4 5
FD, vol. I, 8.
M.T. ANTONELLI, Introduzione a A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, in G. ROSSI (ed.), Antologia rosminiana, Torino 1963, vol. II, 204.
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dell’universale»6. Sulla base di questo modello di razionalità, non solo è concepibile attingere l’oggettività, l’assetto normativo assoluto e l’universo dei valori, ma è anche possibile ipotizzare l’unità culturale e la riduzione dei linguaggi ad un unico linguaggio. Come si può notare, si tratta dell’apogeo della ragione classica, la quale opera mostrando i connotati di una struttura naturale necessitante ed apriorica e risulta dotata di assolutismo non soltanto ontologico ma anche metodologico. Se ciò fosse vero, la pur poderosa dottrina rosminiana della persona si ridurrebbe a poca cosa e la sua teoria della libertà rischierebbe di ridursi alla scoperta della necessità. Si tratta di discorsi già fatti da G.W.F. Hegel almeno nell’Estetica e da F. Engels nell’Antidühring. Ma, finora, abbiamo a che fare con problemi. Per trovare la soluzione dobbiamo ripercorrere l’itinerario filosofico del Rosmini e vedere se vi si propone un percorso di libertà per l’uomo vivente e se ciò che questi progetta e realizza è frutto di libertà o di necessità. Dunque, dobbiamo risalire fino al fulcro della riflessione rosminiana, che è costituito dall’“essere ideale infinito”. Per avere idee chiare sulla dottrina dell’essere ideale, occorre studiarla nell’intera opera rosminiana. I primi vigorosi passi riguardo alla dottrina dell’“essere ideale” sono stati fatti dal Rosmini nell’opera Nuovo Saggio sull’origine delle idee (1830). L’“essere ideale” rivela la sua presenza in una delle attività emblematiche dell’essere umano, che è la “percezione intellettiva”. Il Rosmini ce ne dà una chiara definizione: «La percezione intellettiva è l’atto con cui la mente apprende come oggetto un reale (un sensibile), ossia lo apprende nell’idea»7. Può essere utile conoscerne una definizione più completa: «Ora, mettendo in moto anche la mia facoltà di conoscere (la ragione), suppongo che quest’agente, percepito passivamente dai miei sensi, io lo venga a conoscere in sé, ossia intellettualmente. Che cosa succede in tale atto intellettivo dello spirito mio? Non altro se non un intero paragone che io fo tra la passione ricevuta da’ 6
P. HENRICI, La filosofia moderna, l’uomo moderno e la Chiesa, in Il Regno 57 (2012), 1114, 11. 7 A. ROSMINI, Nuovo Saggio sull’origine delle idee (= NS), (1830), EN Roma 1934, 418.
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miei sensi in particolare, e propriamente il termine di questa passione, cioè il sentito, e l’idea di esistenza: allora io trovo un rapporto tra il sentito e l’esistenza di un agente diverso da me, e dico a me stesso: “ciò che sento è un agente che ha l’esistenza (in un dato grado e modo assegnatomi dai sensi)”. Così io formo il giudizio, nel quale consiste la mia percezione intellettuale di quell’ente corporeo: mediante questo giudizio io considero quell’ente come posto nella congerie degli enti, se così lice esprimersi; e però lo contemplo sotto un aspetto universale; lo contemplo come avente un’esistenza in sé, indipendentemente da me, dalla mia passione, e da qualunque altro ente. Da questa analisi della percezione intellettuale risulta, che la “percezione intellettuale, non è che la visione del rapporto che passa tra un sentito (termine della passione) e l’idea di esistenza”»8. In tali testi rosminiani si trovano due tipi di analisi della percezione intellettiva: l’analisi fenomenologica e l’analisi trascendentale. La prima ci descrive il fatto e la seconda ne spiega le ragioni profonde. La fusione degli esiti delle due analisi ci consente di cogliere la struttura trascendentale in virtù della quale i fenomeni di percezione intellettiva si verificano in un certo modo. La percezione intellettiva è un atto di conoscenza che accade secondo la modalità dell’affermazione ed ha una funzione costitutiva. La mente, nell’atto di conoscenza, opera una sintesi tra l’“essere ideale” ed il “reale”; il risultato di questa operazione è l’“ente”. Il “reale” è conosciuto mediante l’“essere ideale”, che è l’esemplare della totalità delle cose e di ciascuna di esse ed è presente nella mente in virtù dell’intuito di cui essa è capace9. Nell’atto di conoscenza intellettiva, il soggetto umano pronuncia le cose conosciute, ma l’uomo può fare ciò perché il Verbo le ha pronunciate e le ha rese pronunciabili. Sicché, il legame ontologico, che congiunge le cose a Dio, assume un assetto gnoseologico quando il medesimo essere per la percezione intellettiva viene posto in relazione con la mente umana10. 8 9
NS, 359; cfr. NS, 340. Cfr. A. ROSMINI, Teosofia (= Teosofia), (1859-1874), EN Roma-Milano 1938-1941,
466. 10 Cfr. A. ROSMINI, L’introduzione del vangelo secondo Giovanni commentata (= IVG), (1882), EN Padova 1966, lez. VI; cfr. Teosofia, 464, 484.
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La percezione intellettiva ha una struttura trascendentale ed una dinamica sintetica, che il Rosmini formula attingendo sia alla grande tradizione platonico-agostiniana sia alla più recente tradizione kantiana, e la formula per superare quelli che, secondo lui, sono i sistemi che possono arrecare un grave pregiudizio all’oggettività. L’analisi trascendentale della percezione intellettiva porta il Rosmini a cogliere ciò che, secondo lui, è l’origine della conoscenza umana: l’“essere ideale”, oggetto dell’intuito. Per costatarne la presenza è sufficiente l’esame trascendentale dell’esperienza, ma per coglierne la struttura occorre ricercarne l’origine ed esaminarne le proprietà. L’“essere ideale” non ha origine nella sensazione e neppure in una qualche attività creativa del soggetto; resta la possibilità dell’innatismo: «Rimane che l’idea dell’essere sia innata nell’anima nostra; sicché noi nasciamo con la presenza e con la visione dell’essere possibile sebbene non ci badiamo che assai tardi»11. Essendo congenita alla mente, l’idea dell’essere è simultanea alla creazione ed ha origini divine; pertanto, la questione della sua origine va studiata insieme con la creazione e va messa in rapporto con il Verbo, che è principio di ogni sussistenza e di ogni forma12. L’atto creativo è un evento molto complesso, ed il Rosmini lo esplicita con la descrizione della creazione. Si tratta di una descrizione, che, indulgendo ad antropomorfismi, distingue l’opera della creazione in due momenti ed in tre operazioni: Dio concepisce il mondo e poi lo crea; ma per passare dal primo momento al secondo, compie tre atti: l’“astrazione divina”, l’“immaginazione divina” e la “sintesi divina”. Per ovvie ragioni, mi fermerò e brevissimamente sulla prima operazione. Nell’astrazione divina, concepita analogamente all’astrazione umana, Dio distingue l’inizio dal termine, cioè astrae l’essere dalla sussistenza, ottenendo così l’“essere iniziale”: «La prima operazione della suprema intelligenza per riguardo all’essere finito fu quella che chiamerò astrazione divina. Mediante questa operazione l’intelligenza dell’Essere assoluto liberamente astrasse dall’assoluto l’essere iniziale, cioè, oltre intendere l’Essere assoluto oggettivo, ella fece un 11 12
NS, 468. Cfr. IVG, lez. XXXIX.
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altro atto di intelligenza col quale nell’Essere assoluto distinse l’inizio dal termine e vide quello separato da questo, non perché nell’Essere assoluto obiettivo fosse veramente separato, ma perché ella lo separava per astrazione mentale»13. L’essere iniziale, ottenuto con la prima operazione, è l’esemplare del mondo presente nella mente divina. Esso è un astratto divino, poiché è un’appartenenza del Verbo, ma non ne ha la sussistenza: non esiste in sé, bensì relativamente alla mente divina14. L’essere ideale, considerato rispetto a Dio, è la “sussistenza per sé manifesta” e, considerato rispetto all’ente finito non ancora esistente, è semplicemente “idea”. Alla mente umana per illuminazione viene comunicata l’idea dell’essere in universale15, che ha origine in Dio, e, una volta comunicato, perde la sussistenza, ma, a parte l’imperfezione derivante da tale perdita, conserva ogni altra perfezione della trascendenza16. Questa concezione rosminiana, totalmente indimostrabile, come è indimostrabile l’illuminazione, chiamata da N. Incardona, uno dei più oscuri studiosi del Rosmini, “preistoria metafisica”17, è stata valutata negativamente da un fine conoscitore del pensiero rosminiano, G. Bonafede, il quale la giudicava “mitica”18. Personalmente, non ho difficoltà ad attribuirle il qualificatore di “romanzo metafisico”. Se l’illuminazione fosse dimostrabile, Rosmini sarebbe il vero genio del Cristianesimo, ma ohimè, non lo è. Del resto, è lo stesso Rosmini a dichiarare l’essere ideale oggetto di un “atto di fede” naturale che precede la ragione19. 3) Il senso ed il significato dell’essere ideale non sono segnati da perfetta univocità, ma vengono precisati gradualmente in una progres13
Teosofia, 461. Cfr. Teosofia, 461. 15 Cfr. IVG, lez. XII. 16 Cfr. Teosofia, 1182. 17 Cfr. N. INCARDONA, Radicalità e filosofia, Palermo 1969, 94. 18 Cfr. G. BONAFEDE, La percezione intellettiva, Palermo 1955, 177-182. 19 Cfr. A. ROSMINI, Degli studi dell’Autore (= DSA), (1851), in ID., Introduzione alla Filosofia, (1851), Roma 1979, 82; cfr. DSA 34. 14
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sione speculativa che va dall’“essere ideale forma vuota” all’“essere ideale virtuale”. Non si tratta di una successione qualificabile come perfettamente graduale, quasi che ogni fase esprima una teorizzazione inequivocabile, ma piuttosto di una evoluzione di pensiero, i cui vari momenti hanno una coerenza sostanziale. La prima fase della teorizzazione si svolge attorno all’idea di essere intesa come “forma vuota”; la seconda, invece, si sviluppa sulla base dell’idea aggettivabile con il qualificatore “virtuale”. È doveroso annotare che non si tratta di variazioni di piccolo momento e prive di conseguenze; e ciò va detto sia per i livelli teoretici della riflessione rosminiana sia per i livelli di essa che concernono la prassi. Il Rosmini interpreta l’essere ideale forma vuota in termini di tabula rasa: «La tavola rasa è l’essere indeterminato, presente al nostro spirito. Questo essere, non avendo alcuna determinazione, è come una tavola perfettamente uniforme, non ancora tracciata o scritta da carattere di sorte. Perciò essa riceve in sé qualunque segno e impressione che vi si faccia; il che vuol dire, che quell’idea, l’essere del tutto indeterminato, si determina ed applica ugualmente a qualunque sentito, forma, o modo ci si presenti mediante i sensi esterni od interni. Quello dunque che vediamo fino dalla nascita, non sono caratteri, ma è un foglio di carta, dove nulla è scritto, e nulla quindi leggervi potevamo: è un foglio che ha la sola suscettibilità (potenza) di ricevere qualunque scrittura, cioè qualunque determinazione d’esistenza particolare»20. Ho già detto che nel Rosmini non c’è un passaggio radicale dall’essere ideale forma vuota all’essere ideale virtuale. Forma vuota e virtualità contraddistinguono ordinatamente e con sostanziale coerenza la prima e la seconda fase del pensiero rosminiano, ma ciò accade come ispirazione fondamentale, che, soprattutto nella seconda fase, non sempre riesce ad emergere. Nella prima fase la dottrina della forma vuota viene messa in difficoltà dalle caratteristiche dell’essere ideale, desunte dalle idee platoniche ed appartenenti inequivocabilmente all’innatismo plurimo; nella seconda fase, dominata dalla virtualità, è la forma vuota a creare non pochi problemi. Per farci un’idea di ciò che il Rosmini intende per virtualità, ricor20
NS, 539; cfr. NS, 479.
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diamo alcuni testi della fase matura della sua riflessione. Nella Teosofia (1846-1854, pubblicata postuma a partire dal 1859) leggiamo: «Dire che l’essere iniziale può divenire le entità — cessando di essere iniziale, almeno puramente iniziale — è il medesimo che dire che egli è in potenza tutte le entità, ossia che ha virtualmente tutte le entità nel suo seno»21. Nel Degli studi dell’Autore (1851) troviamo: «Questa verità, che è l’essere per sé intelligibile, e che, senza che manchi cos’alcuna (giacché se mancasse qualcosa all’essere, non sarebbe più l’essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale»22. È anche possibile vedere, come accade nella Teosofia, forma vuota e virtualità intrecciarsi: «Ora, noi vedemmo che, entro i limiti della natura umana, l’essere non si manifesta se non con una capacità, un immenso vuoto da riempire, o se si vuol meglio, un abisso profondo nel quale c’è tutto, e per la cupa oscurità nulla si vede. L’essere dunque così manifesto all’uomo, con questa infinita virtualità, infinita estensione e nulla comprensione, deve essere l’oggetto e il principio della moralità naturale»23. A parte le fluttuazioni rosminiane tra le due forme di essere ideale, ritengo di dover dire qual è, a mio sommesso parere, il motivo per cui il Rosmini si orientò sempre più nella direzione dell’essere virtuale: egli fece ricorso all’a priori per garantire teoreticamente la necessità dell’esperienza; sennonché, l’essere ideale forma vuota, che pure, come l’a priori kantiano, può garantire la necessità dell’essenza delle cose, non è idoneo a garantire le necessità delle essenze determinate e, conseguentemente, viene superato dall’essere virtuale proprio perché questo, contenendo virtualmente tutte le entità, riesce sempre ad amministrare tutti i dati provenienti dall’esperienza. Non si può fare a meno di sostenere che il Rosmini, mediante la sua concezione della virtualità, trova la sua sicurezza speculativa nel platonismo, il cui innatismo plurimo, per un verso, viene assorbito mediante la trascendentalità kantiana, che secondo il Rosmini pecca per difetto, e, per un
21
Teosofia, 132. DSA, 71. 23 Teosofia, 881. 22
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altro verso, “viene contrabbandato” per mezzo di Agostino e del Leibniz (idee eterne e monadi). Nel contesto della virtualità la funzione dell’esperienza sensibile è necessaria come nel caso della forma vuota, in quanto in entrambi i casi nessun atto secondo di conoscenza è possibile senza il contributo dei sensi; solo che l’esperienza sensibile, mentre nel secondo caso concorre come con-causa24, nel primo ha la funzione di fare passare all’atto ciò che la mente possiede già virtualmente: «Questa verità, che è l’essere per sé intelligibile, e che, senza che manchi cos’alcuna (giacché se mancasse qualcosa all’essere, non sarebbe più l’essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale; e però queste a principio non si vedono in lei le une dalle altre né separate né distinte, e nell’atto loro proprio, ma tali vi si scuoprono, quando lo stesso spirito umano, aiutato da’ sentimenti corporali, coll’uso di diverse attività conoscitive, attua quello che vede in potenza, e quello che già possiede implicito, se lo rende esplicito, quello che è indistinto, distinto»25. Il Rosmini esclude l’innatismo plurimo, perché lo giudica erroneo per eccesso26, ed afferma l’innatismo della sola idea dell’essere, pregna però di tutto lo scibile. Egli chiama la pregnanza dell’essere ideale “germe”, ed affida all’esercizio della razionalità il compito di farlo germogliare27. Il rapporto dialettico tra “germe” e “razionalità” esercitata conferma l’esclusione dell’innatismo plurimo, erroneo per eccesso, e l’affermazione dell’innatismo della sola idea dell’essere, pregna però di tutto lo scibile. La dottrina rosminiana dell’essere ideale-virtuale è una dottrina poderosa, ma apre una serie di problemi molto seri. Ricordiamo l’ontologismo, i rapporti tra il divino e Dio, la riduzione della conoscenza ad affermazione. Il problema più serio per il contesto del nostro discorso è quello del determinismo. Per la verità, si tratta di una forma 24
Cfr. A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, (1883), Roma 1983, I, sez. II, c. I,
a. 2. 25 26 27
DSA, 71; cfr. Teosofia, VI, 300 ss.. Cfr. NS, 301.
Cfr. A. ROSMINI, Psicologia, (1846-1850), EN Milano 1941-1951, 14.
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raffinata di determinismo: la struttura apriorica della mente, ancorché dotata di consistenza trascendentale, non sarebbe niente di più di una formalità determinata e determinante, una pienezza ideale originata nell’eternità e chiamata a tradursi sul piano pratico; il tempo sarebbe una ripetizione dell’eternità; l’uomo avrebbe il compito di operatore di tale ripetizione; la libertà sarebbe conoscenza della necessità. 4) Il trasferimento dell’idea nella realtà può accadere secondo il concetto estetico, secondo il concetto scientifico, secondo il concetto tecnico, secondo il concetto antropologico, secondo il concetto politico, ecc. In questo momento a noi interessa il rapporto tra idea e realtà secondo il concetto politico. La competenza ed il compito della politica consistono nella cura dell’adattamento dell’idea alla realtà sociale e civile. In questo campo l’essere ideale, se è forma vuota, non s’impone alla prassi, ma, se è virtuale, rende il discorso molto più complicato. La filosofia della politica in Rosmini è una scienza deontologica ed è impegnata a realizzare nella società civile il dover essere, al fine di produrre un’armonica corrispondenza tra essere ideale ed ordine delle cose, di innestare la tensione deontologica nella società civile, talché essa possa orientarsi secondo l’universale e possa, così, evitare di essere travolta dal contingente e dal congiunturale. La filosofia politica rosminiana è il raccordo tra politica e ragioni filosofiche. Ciò accade con ragioni e modalità diverse: coglie il livello della formalità e lo colloca nella società civile; pone i fini prossimi della società all’interno del fine ultimo; fa della società civile il luogo privilegiato dell’incremento dell’umanizzazione e dell’orientamento fondamentale dell’uomo; mette in rapporto dialettico persona e società, definendo l’una “luogo” dell’altra, e attiva una sorta di petitio principii di grande efficacia e fecondità teoretica: la persona, in quanto luogo della società interna, dell’eticità e del diritto, scandisce i ritmi della società esteriore, la quale, in quanto ambito della produzione giuridica, è il luogo dell’evento della persona. Una volta prodotto teoreticamente il “luogo” della persona e l’evento stesso della persona, la filosofia politica rosminiana, che nelle linee discendente ed orizzontale conserva la sua applicabilità diretta, nella linea ascendente consegna le fila del suo discorso ai settori etici e metafisici
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dell’antropologia filosofica ed alle esigenze della teologia. È a questo punto che il fine ultimo della società, l’appagamento che è di competenza della filosofia politica, assume la fisionomia dell’essere ideale infinito, che viene dall’essere reale infinito (Dio) e ad esso conduce. La pregnanza dell’essere ideale virtuale, termine e, nel contempo, inizio di ogni processo, secondo la mia impressione, ha, nella riflessione rosminiana, una funzione determinante. 5) Ci veniamo a trovare di fronte ad una domanda di capitale importanza: esercitando il suo ruolo nella teoria e nella prassi, l’“essere ideale” è una forma che genera libertà, originaria concretezza storica ed autonomia etico-morale-pratica oppure è una forma di necessità universale? Chi si ferma al Nuovo Saggio sull’origine delle idee (1830) acquisisce una certa concezione dell’essere ideale: una concezione generalissima, rispetto a cui tutti gli “enti” sono autonomi. Ciò vale anche per la “politica” e la “scienza della politica”, che così rimangono autonome rispetto alla filosofia. D. Galli, fondandosi sulle tesi del Nuovo Saggio, procede in questo modo: «Per il Rosmini di innato c’è solo l’idea dell’essere, che per giunta è indeterminatissima, e tutto il contenuto del sapere si attinge dall’esperienza sensibile, ad eccezione dei modi propri ed intrinseci dell’essere, che si conoscono per mezzo della rivelazione, che pure un’esperienza è, ma di ordine superiore. Di conseguenza una scienza politica a priori non ha fondamento; e la stessa filosofia della politica altro non può essere che riflessione e approfondimento della scienza della politica, un suo sviluppo interno e l’esplicazione di ciò che vi è implicato e che a una osservazione frettolosa e superficiale rimane occulto»28. Si tratta di una interpretazione certamente corretta, ma parziale. Infatti, l’Ideologia rosminiana, e cioè la teoria rosminiana circa la formazione delle idee e circa la conoscenza, non si riduce alle tesi del Nuovo Saggio. Essa si evolve da concezione dell’“essere ideale-forma vuota” a concezione dell’“essere idealevirtuale”. E si comprende subito che pensare ai vari tipi di prassi riconducendoli all’“essere ideale-forma vuota”, quale principio formale, o 28
D. GALLI, Studi rosminiani, Padova 1957, 126.
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all’“essere ideale-virtuale”, quale principio anch’esso formale, è cosa ben diversa. Nel caso della virtualità, ogni evento prassico potrebbe venirsi a trovare all’interno di una dinamica deduttiva, con conseguenze gravissime sul fronte della novità, e ciò riguarderebbe ogni cosa, e sul fronte della libertà, e ciò riguarderebbe specificamente le attività umane. Il Rosmini, pur tenendo l’attenzione rivolta alla realtà storica, non può rinunciare alla sua esigenza speculativa, alla quale egli attinge la possibilità stessa di presentare una teoria aderente alla realtà e dunque, opera una essenzializzazione speculativa ed una conseguente riduzione selettiva dei contenuti. Il Rosmini è attento alla storia ed è pronto a tener conto di ogni genere di produzione storica negli ambiti degli avvenimenti, delle dottrine sociali, delle dottrine politiche, delle dottrine giuridiche e della cultura in generale. Ma, che la storia sia riuscita, oltre che a sollecitare, anche ad alimentare la logica rosminiana è una questione diversa. 6) La dottrina dell’essere ideale è il fulcro teoretico dell’intera riflessione rosminiana. In particolare, l’essere ideale è l’origine remota della funzione di razionalizzazione della politica nello spazio sociale e della sua finalizzazione all’autotrascendimento in “eudemonologia”: la “società giusta” si risolve in “società buona”, che è il luogo della dinamica eudemonologia dell’esistenza degli uomini. Le luci e le ombre della dottrina politica rosminiana si giocano in rapporto a ciò. Ogni parte della realtà, in quanto ha in sé, quale elemento formale, l’essere ideale, possiede un frammento della pienezza e del suo dinamismo. Di conseguenza, la tensionalità trascendentale dell’essere irrompe irresistibilmente nel fenomeno umano, senza che possa essere bloccata da un qualsiasi ostacolo. L’effetto maggiormente degno di nota è la persona umana, espressione iconica vivente e consapevole del “sintesismo” dell’essere e della sua nativa capacità creativa. La persona è l’esistenzializzazione della trascendenza dell’essere in una serie infinita di relazioni sussistenti, che si rapportano le une alle altre secondo le modalità del diritto e della libertà. Pertanto, è per mezzo della persona che l’essere fluisce nell’ordine storico e nell’ordine socio-politico.
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Solo che, per quanto la persona venga definita “relazione sussistente” e “diritto sussistente” e la società venga definita “persona di persone”, la “persona” rischia di essere situata nello spazio sociale solo con una dimensione individuale, e la relazionalità e la socialità, che le appartengono strutturalmente, non hanno competenza nei diritti ma solo nella “modalità dei diritti”. Ciò è vero fino al punto che, secondo il Roveretano, la persona singola resta libera di aderire o meno alla società civile. La ragione più radicale dell’inceppamento della persona, che pure è manifestazione della formalità e della trascendentalità, sulle soglie dell’effettività socio-politica, si trova nella “gabbia ideologica” costruita dal Rosmini e consistente nella dottrina dell’essere idealevirtuale. Come abbiamo già visto, tale dottrina sorge per la ragione teoretica di garantire nell’esperienza le componenti dell’oggettività, della necessità e dell’universalità e prende decisamente l’itinerario kantiano della trascendentalità e dell’a priori, ma si sostanzia dell’innatismo plurimo platonico, sia pure tematizzato, come ho già rilevato, mediante Agostino e mediante Leibniz. Questo nucleo dottrinale, se, da un lato, dà sicurezza speculativa al Rosmini, da un altro lato, ne segna profondamente il pensiero, perché vi esercita un ruolo con modalità trascendentali. Le conseguenze sono serie: tutti e singoli i contenuti della conoscenza e della prassi sono virtualmente presenti nel principio formale; il processo storico viene analizzato alla luce di una logica selettiva; la storia si riduce ad un fluire fenomenologico della trascendentalità. Insomma, non c’è né inizio, né progresso, né fine al di fuori dell’essere ideale-virtuale. L’impressione generale, che se ne ricava, è la caduta verticale dell’autenticità e della novità. Infatti, la libertà, che si esprime secondo la logica dettata dall’essere ideale-virtuale, si riduce a conoscenza della necessità; la politica non è altro che arte del superamento delle difficoltà provenienti dallo spazio sociale e della creazione dei dispositivi di potere deputati all’eliminazione delle dottrine sociali discordi e concorrenti. Ma ci sono altre serie conseguenze. Ad esempio, la teorizzazione della proprietà come dottrina della derivazione dei diritti e della rappresentanza, e cioè come titolo affinché la “persona individuale”
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faccia parte della “persona sociale”, mette a nudo gli aspetti nominalistici, inefficaci e velleitari dell’affermazione della mobilità sociale e dell’uguaglianza giuridica delle persone. Il Rosmini afferma inequivocabilmente che la fruizione dello spazio sociale è in proporzione alla “messa”: «I. — i singoli sozi debbono volere il bene comune e concorrere alla sua produzione od acquisto in quel modo che è prescritto, cioè o per atti propri personali, o per le cose esterne da loro messe in comune; II. — conviene distribuire ai singoli sozi una porzione del bene sociale acquistato in proporzione della loro messa, cioè della quantità dell’opera personale o dei beni esterni che ognuno contribuì al bene comune»29. Altro esempio: un aspetto particolare della gabbia ideologica in cui si trova la concezione politica rosminiana è il sistema di uni-totalità che si regge, in un primo momento, sulla religione cattolica e, in un secondo momento, sulla moralità da essa proposta. Il discorso si complica ulteriormente quando Dio viene posto in ogni itinerario eudemonologico, quale termine ultimo, e la virtù, dono della provvidenza, viene presentata come l’unica strategia efficace contro le cause della crisi socio-politica. Così, ci si viene a trovare di fronte all’essere ideale-virtuale che racchiude la politica in un sistema di uni-totalità secondo due dimensioni: una orizzontale ed una verticale. La prima riduce la politica ad una tautologia ripetitiva; la seconda la priva dell’autonomia che le spetta. Si tratta di problemi che ancora ai nostri tempi impegnano e non poco l’uomo, la società e la chiesa. Altro esempio: secondo il Rosmini, il diritto viene realizzato nella libertà personale. Ecco perché questo tipo di libertà è il principio formale dei diritti. Fino a quando si parla di libertà personale, il discorso non incontra nessuna difficoltà; appena, però, ci si occupa dell’esercizio della libertà nella società civile, sorgono difficoltà, perché in questo caso il concetto di libertà non risplende più nella sua purezza formale, ma implica la sintesi di persona, libertà e proprietà. Dalla proprietà dipende la “messa”, che scandisce la definizione della “libertà sociale” in termini quantitativi e qualitativi. 29 A. ROSMINI, Compendio di etica, (1845), EN Roma 1937, 462; cfr. FD, vol. II, 244 ss, 341, 1650, 2082.
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Ultimo esempio: quanto all’uguaglianza, fino a quando si rimane entro i limiti dell’ontologia personale, il discorso rosminiano è adeguato alla persona, alle sua caratteristiche ed alle sue esigenze. Infatti, si può parlare di uguaglianza degli uomini ma non di uguaglianza dei diritti e dei cittadini, di uguaglianza naturale ma non di uguaglianza politica ed economica. Una tale concezione suppone la confusione non casuale ma certamente teoretica tra i diritti della proprietà ed i diritti della persona. La verifica di queste annotazioni è sia nella teoria della rappresentanza, che ancora una volta scavalca la tensionalità personale e si configura come rappresentanza rigorosamente censitaria, sia nella concezione della democrazia, che, iscrivendo l’origine del diritto nella proprietà, lo colloca nella stessa fonte del dispotismo, sia infine nell’idea di tribunale politico, che, ancorché proposto come la massima espressione del costituzionalismo in quanto riconosce l’umanità che è nella persona, non si vede come possa tecnicamente operare in modo democratico. Infatti, la rappresentanza nelle istituzioni è propria del modo in cui la persona si situa nello spazio socio-politico, e questo è legato alla proprietà. L’uguaglianza sociale in Rosmini non è mai uguaglianza personale. Dopo questi esempi, mi sembra di poter dire che il pensiero politico del Rosmini lascia trasparire una grande tensione etica, dovuta al personalismo, tuttavia risente della particolare filosofia dell’autore: le tensioni personalistiche, che pure premono fortemente per diventare discorso e prassi concreta nello spazio socio-politico, sono incapaci di vincere le forze a-personali dell’individualismo, della proprietà e della teocrazia. 7) Avviandomi alla conclusione, faccio soltanto delle annotazioni. Il Rosmini ha il merito di avere dato una fortissima densità filosofica alla politica. Pertanto, il suo è un vero discorso filosofico-politico. Venendo ai contenuti, non si può non dire che si rimane affascinati dalla concezione rosminaiana della persona, sia per la sua profondità abissale sostenuta ed alimentata dalla trascendentalità, sia per la sua identificazione con il diritto, sia, ancora, per il suo ruolo ontogenetico nei confronti dei diritti, sia, infine, per la sua funzione di principio ermeneutico supremo del politico. Strettamente congiunta con la
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persona è la libertà personale, principio formale dei diritti. Se il Rosmini avesse sviluppato il plesso persona-libertà personale-dirittosocietà civile come unico discorso, avrebbe creato una concezione politica dotata di rara efficacia. Purtroppo, egli ha fatto due passi gravidi di conseguenze. Il primo è quello dell’“essere-ideale-virtuale”. Certamente si tratta dell’“essere iniziale” e, in quanto tale, si potrebbe pensare di ricondurlo all’“essere-ideale-forma-vuota” e, conseguentemente, di liberarlo della “pregnanza” della virtualità, ma l’essere virtuale, che è senza dubbio “forma”, come l’esse ut actus della tradizione tomistica, è anche molto di più, e cioè è anche tutto ciò che è contenuto nella pregnanza della virtualità. Le conseguenze di una tale concezione compromettono la novità della storia e la libertà e la creatività della persona. Il secondo è quello della “proprietà”. Il Rosmini ha ritenuto di dovere affidare l’effettività socio-politica dell’intero suo discorso alla mediazione della categoria proprietà. Il suo intendimento era di garantire il proprium della persona, che nella proprietà ha una delle sue più concrete pertinenze30; l’esito, invece, è stato quello di lasciare la persona in balia di energie a-personali, che per principio impediscono all’universale umano di situarsi in modo indiviso nello spazio socio-politico; nell’ansia di custodire la persona, il Rosmini ha finito con il garantire gli interessi. I seguaci del Rosmini non dovrebbero enfatizzare il vigoroso contributo dato dal loro maestro al personalismo fino al punto di ignorarne gli aspetti problematici ed i limiti gravissimi31. Occorre ancora rilevare che la spinta personalistica del Rosmini è troppo forte perché possa essere soffocata e bloccata; conseguentemente, dà vita a delle dottrine che, per quanto risentano della deviazione prodotta dallo scoglio della proprietà, costituiscono delle acquisizioni poderose. Il riferimento più qualificato è il “tribunale politico”, un istituto costituzionale anomalo, ma l’unico capace di fare risuonare le voci che la proprietà preferirebbe soffocare. Se il plesso, 30
Cfr. FD, vol. I, 128, 187-190, 295. Cfr. M.F. SCIACCA, Premesse a AA.VV., Il pensiero giuridico e politico di Antonio Rosmini, Firenze 1962, V; G. AMBROSETTI, L’ispirazione di Rosmini nella soluzione oggi del problema della giustizia sociale, in Rivista Rosminiana 78 (1984) 97-129. 31
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di cui si parlava, fosse prolungato con il sintagma “tribunale politico” al fine di ottenere un plesso più ricco — persona-libertà personalediritto-società civile-tribunale politico — e la rimanente dottrina politica rosminiana potesse essere liberata dal grave limite della concezione della proprietà, potremmo affermare di trovarci di fronte ad una riflessione filosofico-politica di prima grandezza. Se volessimo ancora una volta ricorrere all’immaginario per indicare la posizione rosminiana nell’ambito del pensiero politico, potremmo esprimerci così: dopo che la Rivoluzione Francese ha mandato in frantumi la “piramide” della logica del potere dell’ancien régime, il Rosmini è riuscito a ricostruirla, lasciando, però, ben visibili i segni delle vecchie e delle possibili fratture. Anch’egli ha nascosto nella piramide una carica esplosiva: la sua vigorosa concezione della persona umana, la più importante delle condizioni decisive per un possibile ordine socio-politico oggettivo.
ROSMINI DI FRONTE LA MODERNITÀ: DIRITTI, ECONOMIA E PERSONA
SALVATORE MUSCOLINO*
La presente relazione sarà articolata in tre parti: nella prima, presenterò alcune mie considerazioni sul rapporto di Rosmini con il pensiero moderno e del modo in cui possiamo far interagire la sua filosofia con le sfide del nostro tempo; nella seconda parte, da considerarsi quale continuazione logica della prima, cercherò di mettere in evidenza quel complesso nucleo tematico che a mio avviso è la parte più interessante e feconda del pensiero rosminiano al fine di comprendere, e verrò così alla terza ed ultima parte, le ragioni che stanno dietro il crescente interesse nei riguardi di questo filosofo da parte di studiosi di varia estrazione. 1. ROSMINI PENSATORE MODERNO? Uno dei massimi interpreti del pensiero di Antonio Rosmini è stato senza dubbio il filosofo cattolico Augusto Del Noce personaggio di grande statura nel panorama filosofico italiano del secondo dopoguerra e che è da considerarsi a tutti gli effetti come colui che, insieme a pochi altri studiosi, più si è sforzato di comprendere il posto di Rosmini nella storia della filosofia. A sua volta, non è esagerato affermare che l’interpretazione che Del Noce propone della storia della filosofia moderna si nutra di un confronto serrato con la filosofia di Rosmini. Come noto, la *
Docente di Etica e Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Palermo.
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tesi di Del Noce è che se consideriamo Cartesio come il padre della filosofia moderna è possibile far derivare dall’opera del filosofo francese due opposte linee filosofiche: la prima, destinata a rimanere minoritaria, include pensatori come Vico, Pascal, Malebranche e il nostro Rosmini; la seconda, quella storicamente vincente, è la linea che porta da Leibniz verso Hegel e Marx cioè verso il materialismo e l’ateismo. Nel primo caso abbiamo a che fare con una ragione che non si chiude in se stessa generando un pensiero immanente mentre nel secondo caso assistiamo esattamente al processo inverso. Di qui, come noto agli specialisti del pensiero delnociano, la tesi secondo la quale l’ateismo è il problema della filosofia moderna caratterizzata, a partire da Marx, dalla risoluzione della filosofia in politica. Scrive Del Noce: «l’ateismo radicale, come punto di arrivo del razionalismo, rappresenta la chiave di volta dell’intera opera di Marx»1. Senza addentrarci nella valutazione dell’ipotesi storiografica delnociana, perché non è questa l’occasione idonea per questo genere di analisi, vorrei solo mettere in evidenza quegli aspetti del pensiero di Rosmini che permettano di coglierne il rapporto positivo con il pensiero moderno. Innanzitutto dovremmo rispondere alla seguente domanda: cosa intendiamo con l’espressione pensiero moderno o modernità? Ritengo che potrebbe andar bene un’accezione generica della parola modernità, cioè quella che vede il pensiero europeo impegnato a riflettere su alcuni temi quali lo Stato nazionale, la separazione politica-religione, la Rivoluzione francese e, ovviamente, il nascente fenomeno dell’economia capitalistico-borghese. Sono consapevole di essere generico nell’indicare tali temi ma volendo essere il più descrittivo e neutrale possibile, ritengo necessario non affibbiare alla modernità caratteri troppo specifici per due ragioni: la prima è che il dibattito sul modo di intendere la modernità è vastissimo e ci porterebbe molto lontano dai temi che discutiamo e la seconda è che le linee di riflessione qui indicate mi sembrano abbastanza esplicative di ciò a cui normalmente pensiamo quando ci riferiamo al periodo storico noto
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Cfr. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Bologna 2010, 130.
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come età moderna e soprattutto sono esplicative dei caratteri che Rosmini percepiva come tipici del periodo storico in cui viveva. Con questo quadro storico-concettuale mi pare che si possa affermare che il pensiero di Rosmini rientri effettivamente nella categoria di pensiero moderno2, non solo perché ha riflettuto sui temi che suggerivo pochi istanti fa ma perché ha cercato soprattutto di innalzare la filosofia cristiana del tempo al livello del dibattito presente in Europa senza assumere né posizioni premoderne né tantomeno antimoderne e tutto ciò con risultati sicuramente originali e importanti anche se, naturalmente, suscettibili di discussione. Ricordo due esempi di questo complesso rapporto tra Rosmini e la modernità. Il primo è quello relativo alla concezione dello Stato (tralasciamo in queste sede le differenze tra i concetti rosminiani di società civile e di Stato considerandoli come sinonimi). Rosmini si schiera senza dubbio a favore di una concezione “debole” dello Stato che lo pone senza dubbio agli antipodi rispetto alla sensibilità di un Hegel o di coloro che vedono nell’affermazione dello Stato il compimento della modernità. Ma ad uno sguardo più attento è possibile osservare come per Rosmini, coincidendo la quintessenza della modernità con il principio di persona, sarebbe solo una soluzione costituzionale di tipo federale e antistatalista quella che permetterebbe il compimento della modernità e non la divinizzazione dello Stato che, al contrario, ne rappresenterebbe un tradimento. Il secondo esempio riguarda invece il rapporto con la tradizione patristica e scolastica. Pur dichiarando in più luoghi di richiamarsi all’insegnamento di Agostino, di Bonaventura o di Tommaso d’Aquino, Rosmini cerca di non “ripetere” alla lettera quello che questi autori hanno sostenuto in campo gnoseologico, morale o teologico ma ha cercato di reinterpretare alla luce delle istanze del pensiero moderno quelle verità che egli ritiene proprie della tradizione cristiana. Questa suo sforzo, potremmo dire, di “traduzione” è naturalmente oggetto di controversie tra gli studiosi: c’è chi sostiene che il tentativo rosminiano di una sintesi tra tradizione e modernità non sia 2 Per una opinione diversa cfr. D. CASTELLANO, La verità della politica, Napoli 2002, 113.
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riuscito, altri sono convinti del contrario, altri ancora sostengono, come ricordavo prima, che l’importanza di Rosmini sia addirittura quella di essere un pensatore premoderno cioè non partecipe degli errori dovuti al principio del soggettivismo e al liberalismo. All’interno di questo dibattito, un dato importante per comprendere la “fortuna” di Rosmini nei decenni successivi alla sua morte è che i sostenitori della filosofia tomista hanno visto per lungo tempo nel sistema rosminiano un frutto del pensiero moderno inconciliabile con i principi della filosofia classica dell’essere e questo dato in parte è all’origine delle ostilità da parte di certa cultura cattolica nei confronti del filosofo. Rispetto a questo dibattito, la situazione è oggi più serena grazie sia alla riabilitazione del pensiero di Rosmini da parte del precedente pontefice sia alla mole di studi prodotta che ha mostrato la piena ortodossia del sistema filosofico rosminiano. Rispetto al passato dove io stesso ho fatto mia l’interpretazione delnociana sulla modernità di Rosmini oggi avverto qualche perplessità non tanto su questo punto quanto sull’esistenza di questo duplice percorso all’interno della filosofia moderna i cui termini sarebbero alternativi perché il discorso mi pare bisognoso di maggiori articolazioni e non è questa ovviamente l’occasione per svolgere un ragionamento su tale tema. Mi limiterò però a menzionare due aspetti, a mio avviso, indicativi: innanzitutto, da un punto di vista metodologico, se la filosofia moderna nella sua linea vincente si caratterizza per un elemento fortemente sistematico, allora Rosmini mi pare un pensatore sicuramente più affine ad un Kant o ad un Hegel che non ad un Pascal o a un Vico; in secondo luogo, sul discorso ben più complesso relativo al rapporto con la trascendenza penso che almeno nel caso di Hegel la classica interpretazione cattolica che lo considera un filosofo immanentista vada maggiormente articolata perché difficilmente Hegel può essere “liquidato” come colui che prepara soltanto il terreno per l’ateismo marxista3. In questo senso, tanti autorevoli teologi, e penso ad Hans Küng o Wolfgang Pannenberg o l’italiano Piero Coda hanno scritto pagine importanti sulla centralità del cristianesimo nell’eco-
3
A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., 26.
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nomia del sistema hegeliano che deve perciò essere considerata una filosofia ricchi di spunti anche per la teologia cristiana4. Personalmente quindi considero l’interpretazione delnociana interessante da un punto di vista ermeneutico se guardiamo soprattutto agli scritti politici di Rosmini che per questa ragione mi sembrano i più attuali anche se aspetti sicuramente interessanti sono quelli legati, ad esempio, all’ontologia trinitaria che ultimamente sta interessando soprattutto i teologi. La chiave di volta della filosofia politica di Rosmini è la dottrina dell’antiperfettismo, e qui sia Del Noce che Piovani hanno visto bene5, che rappresenta a mio avviso anche la parte più attuale del suo pensiero perché è la parte che maggiormente sembra tenere in conto l’elemento storico e contingente. Gli scritti teoretico-morali, per quanto rappresentino un corpus senza dubbio imponente e ricco di intuizioni interessanti, mi sembra invece che necessitino di un approfondimento ulteriore per stare oggi sul mercato delle idee. Spesso gli interpreti del pensiero teoretico di Rosmini si sono limitati e si limitano a difendere il suo pensiero senza prendere in considerazione in modo adeguato certi sviluppi del pensiero contemporaneo limitandosi così ad un dialogo critico con i sistemi di Kant, Hegel o contro l’interpretazione proposta da Gentile. Questa scelta è assolutamente legittima, per carità, ma secondo me ad un prezzo abbastanza elevato ossia quello di non riuscire spesso ad interloquire adeguatamente con le sfide del nostro tempo. Per esempio, da alcuni anni nell’ambito degli studi tomisti nell’area linguistica inglese, ma con interessanti contributi anche in Italia, esiste un filone noto come “tomismo analitico” che si prefigge il compito di far dialogare la filosofia tomista con il complesso mondo della filosofia analitica e questo potrebbe essere una sorta di modello metodologico con il quale affrontare anche lo studio del pensiero di Rosmini. Da parte mia, ho cercato in alcune occasioni di far fronte a questa lacuna provando a 4 Klaus Müller, teologo di Münster, sostiene per esempio che se oggi la teologia cristiana vuole realmente sviluppare un discorso sulla creazione che sia “credibile” non può non fare i conti con l’idealismo tedesco: cfr. K. MÜLLER, Per una teologia autocosciente. Lezioni su religione e modernità, Lugano 2010. 5 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., 518 ss.
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recuperare certe intuizioni di Rosmini (da lui stesso non adeguatamente tematizzate) sul problema del linguaggio o del diritto6 così come altri studiosi hanno cercato, per esempio, di mostrare la sensibilità comune, fermo restando le differenze, tra l’attenzione rosminiana verso la persona e la “Svolta antropologica” proposta da Karl Rahner7 il tutto proprio con il fine di dialogare positivamente col pensiero contemporaneo piuttosto che decretarne, a priori, soltanto i limiti e gli errori. Nel caso del pensiero politico, ritengo tuttavia che questo tentativo di dialogo sia obbiettivamente più facile perché la teoria dell’antiperfettismo rende per principio la filosofia rosminiana in grado di dialogare con la contemporaneità sul tema del totalitarismo, del liberalismo, delle libertà e dei diritti non perché Rosmini abbia anticipato alcunché ma perché nel preciso momento storico in cui ha operato egli ha colto una serie di contraddizioni o snodi concettuali problematici per la cultura moderna e per la filosofia e religione cristiana. E come cercherò di mostrare nel proseguo di questa relazione, è mia convinzione che per la cultura filosofica cristiana sia importante oggi recuperare quello “spirito” che ha animato la speculazione rosminiana. 2. MERCATO E DIRITTO: LA CENTRALITÀ DELLA PERSONA Che la Rivoluzione francese sia un termine di riferimento centrale per comprendere la dinamica interna al pensiero rosminiano è ormai un dato acquisito dalla critica. Sebbene Rosmini inizialmente, e sotto l’influsso dei cosiddetti tradizionalisti, ha un atteggiamento di profonda critica verso la Rivoluzione nel corso del tempo questo giudizio si indebolisce per una serie di ragioni storiche e concettuali dovute, quest’ultime, all’evoluzione del suo stesso pensiero. Da un lato la diffusione delle idee liberali e costituzionali e dall’altro la volontà di combattere certi errori del pensiero moderno spingono Rosmini ad 6 Cfr. S. MUSCOLINO, Contributi per un dialogo con il tomismo analitico, in DIVUS THOMAS 64 (2011) 1, 306-340. 7 Cfr. M. KRIENKE, Rosmini e il tomismo trascendentale, in Divus Thomas 64 (2011) 1, 341-388.
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elaborare un progetto di enciclopedia che permetta di rinvigorire il pensiero cristiano riuscendo a farlo dialogare criticamente con i sistemi di Kant, Hegel, Fichte e con l’Enciclopedia degli illuministi francesi e che permetta anche di comprendere le dinamiche in atto nella società ottocentesca italiana ed europea. La prima pagina di quell’opera straordinaria che è la Filosofia del diritto è una prova tangibile di come Rosmini voglia che la sua riflessione filosofica parta dall’esperienza concreta, «Voce di molti oggidì, Rosmini scrive, si leva a dimandare a governi una legislazione certa, unica, universale, ovvero ad applaudir loro perché colla formazione de’ Codici tale la resero. È certo ingratitudine ella sarebbe il disconoscere i nobili miglioramenti da’ governi nelle leggi arrecati durante lo scorso secolo e in questo: noi poi facciamo ancora sinceri voti, acciocchè tutte le nazioni, anzi tutto il mondo possa finalmente ottenere quella desiderata perfetta legislazione che sia certa, unica ed universale»8. Da questo punto di vista allora, gli scritti politici occupano uno spazio centrale nell’enciclopedia rosminiana perché, dopo la Rivoluzione, il bisogno di un ripensamento generale delle categorie proprie della modernità impone innanzitutto una riflessione sull’essenza stessa della società e sull’essenza dei diritti soprattutto in un’epoca in cui i processi di codificazione e di costituzionalizzazione caratterizzano la storia politica e giuridica europea. Mi sembra utile, a questo punto, fare una precisazione a riguardo della parola “politica”. Come è stato giustamente notato, l’analisi della categoria della politica agli occhi di Rosmini include, in un certo senso, quella di discipline affini come la morale, il diritto, l’economia, la finanza e quindi ripropone al suo interno il problema stesso incontrato per l’elaborazione dell’Enciclopedia delle scienze: trovare, cioè, un principio che permetta di armonizzare in un’unità coerente una pluralità di discipline rispettandone allo stesso tempo l’autonomia9. Se la filosofia politica ha come compito quello di individuare «l’intima 8
A. ROSMINI, Filosofia del diritto, Padova 1969, vol. I, 1395. Cfr. M. D’ADDIO, La politica nella enciclopedia delle scienze, in P. P. OTTONELLO (cur.), Rosmini e l’enciclopedia delle scienze, Atti del Congresso Internazionale diretto da M. A. Raschini, Napoli 22-25 ottobre 1997, Firenze 1998, 375. 9
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ragione o l’ultime ragioni onde i mezzi politici possono ottenere i loro effetti»10 appaiono evidenti le ragioni perle quali egli identifica il fine della società nell’appagamento dei suoi consociati e appaiono evidenti anche le ragioni per le quali negli anni ’20 il giudizio di Rosmini sulla Rivoluzione non è positivo: ciò è da attribuire al fatto che Rosmini coglie di quell’evento soprattutto gli aspetti negativi ossia la soppressione dei diritti individuali, l’atteggiamento anticlericale, o ancora la scelta dello strumento rivoluzionario per la soluzione dei problemi socio-politici. A partire dagli anni Trenta, invece, la prospettiva di Rosmini si allarga sensibilmente. Con la scoperta dell’idea dell’essere come fulcro attorno al quale edificare la sua Enciclopedia cristiana, Rosmini si trova in parte ad affrontare gli stessi problemi ai quali tentava di dare una risposta negli anni ’20 con la Politica prima ma con una sensibilità profondamente diversa. Riflettendo a fondo sulla centralità della “persona umana” sede dell’idea dell’essere, il filosofo di Rovereto si trova a riflettere sul senso complessivo della storia umana e sul significato che l’evento rivoluzionario francese riveste al suo interno. Nel libro V della già citata Filosofia del diritto, Rosmini occupandosi della società civile scrive in modo emblematico che nel 1789 la società civile divenne violenta «per il bisogno irresistibile d’infrangere le sue pastoje e procedere innanzi»11. Ma cosa è questo “bisogno” irresistibile di cui parla Rosmini? Per rispondere a questa domanda proviamo a descrivere i caratteri che avrebbe la “società civile pura” nella raffigurazione che ci presenta Rosmini. In primo luogo, la società civile pura sarebbe una società in cui le leggi e i governi non intralciano i diritti di ragione e di natura; in secondo luogo, tutti i cittadini sarebbero uguali di fronte alla legge e, infine, tutti coloro che sono fuori dalla società civile sarebbero trattati come essere umani a tutti gli effetti. Questi tre caratteri della “società civile pura” implicano a loro volta otto conseguenze a livello socio-politico che qui elenco rapidamente: 10 11
A. ROSMINI, Filosofia politica, Roma 1997, 44. A. ROSMINI, Filosofia del diritto, cit., vol. V, 1395.
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1) che la giustizia sia uguale per tutti 2) che vi sia un regime di libera concorrenza 3) che ognuno, in base al merito, possa ascendere la scala sociale 4) che ci sia uno sviluppo dell’industria e della cultura 5) che una fascia più ampia possibile della popolazione viva nel benessere e che tutti abbiano, comunque, un livello di vita che sia sostenibile 6) che la popolazione sia proporzionata alla produzione 7) infine, sviluppo della religione e di tutti quegli istituti che si occupano della carità verso i popoli12. Se rileggiamo criticamente tutti gli elementi che dovrebbero caratterizzare la “società civile pura”, appare chiaro come il riferimento all’economia politica e al mondo economico reale faccia da sfondo a tutto il discorso rosminiano. Una filosofia politica e giuridica “moderna” deve riflettere su questi fenomeni emergenti ai quali si accompagnano lati oscuri ma anche lati positivi. Diversi studiosi, di recente, stanno concentrando la loro attenzione proprio sulla lettura che Rosmini fa della nascente economia anche sulla base del dibattito italiano di quel tempo caratterizzato proprio da una particolare attenzione dedicata al tema della “felicità pubblica”. Senza dubbio, sono presenti diversi spunti interessanti disseminati qui e lì negli scritti di Rosmini riguarda la scienza economica e sebbene egli non abbia mai dedicato un’opera sistematica a questo tema è fuori discussione che anche su questo punto egli intraveda una significativa differenza rispetto all’età medioevale che viene assunta quasi a modello da certa cultura cattolica del suo tempo ostile verso le idee economiche liberali13. La riflessione rosminiana quindi si caratterizza all’interno della cultura cattolica ottocentesca per uno sguardo profondo e acuto sulle dinamiche reali che animano la società ma questo non implica il venir meno di uno sguardo critico verso l’esistente che provi ad orientarlo e a correggerlo dove ciò sia necessario. Lo snodo centrale di questa riflessione, a mio avviso, rimane la concezione del diritto che Rosmini ci offre. La celebre definizione della «persona dell’uomo come diritto umano sussistente» risponde proprio all’esigenza di non ridurre l’uomo alla società ma di garantirle 12 13
Ibid., 1391 ss. Cfr. P. PIOVANI, La teodicea sociale di Rosmini, Brescia 1997 [1957], 67.
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un primato ontologico su quest’ultima. La difesa decisa del diritto di proprietà, considerato da Rosmini come un vero e proprio prolungamento della persona, al di là di alcuni limiti come quello sul suo rifiuto del suffragio universale risponde proprio all’esigenza di garantire uno spazio inviolabile per la stessa persona contro quei macrofenomeni che rischiano di fagocitarla: da un lato l’economia e il surplus di beni di consumo e dall’altro lo Stato (moderno!). Identificare diritto e persona significa per Rosmini mantenere al centro della riflessione filosofica la categoria del soggetto, in questo fedele alla tradizione moderna, ma senza assorbirla o porla in seconda istanza rispetto appunto al mercato o allo Stato. Bisogna evitare dunque gli eccessi della concezione etica hegeliana che, secondo Rosmini, ha trasformato lo Stato in un Dio vivente annullando quindi l’individuo a suo vantaggio, ma bisogna evitare anche l’approccio di economisti come Melchiorre Gioia o gli utilitaristi convinti che la panacea di tutti i mali sia l’aumento della produzione di beni di consumo. Il problema dell’utilitarismo come filosofia della società è quello, secondo Rosmini, di ridurre tutto al principio dell’utilità compreso il principio della giustizia. Invece, come mostrano i suoi scritti sul costituzionalismo, sul Tribunale politico, sui diritti, il problema della giustizia, considerato prioritario per una seria riflessione sulla società, è molto più complesso e va affrontato a partire dalla persona e dal riconoscimento di una sfera inviolabile a tutela di quest’ultima. Rosmini invita così a guardare l’essere umano in modo ampio senza ridurlo a quello che oggi chiamiamo homo economicus come se l’unico suo orizzonte fosse il consumo. Rosmini esorta con il suo linguaggio a non trascurare la dimensione spirituale del soggetto a vantaggio soltanto di quella materiale. E se un sociologo come Bauman di recente ha intitolato un suo libro Consumo, dunque sono! allora possiamo riconoscere la profondità delle intuizioni rosminiane a riguardo. L’esperienza umana è innanzitutto un’esperienza di relazione all’interno della società domestica e della società teocratica non a caso considerate da Rosmini società naturali e non artificiali come la società civile. L’uomo ha una vita che si articola soltanto nel rapporto con gli altri suoi simili senza che questo significhi, però,
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ridurlo a tali relazioni. Così è possibile rileggere, a mio avviso, la polemica con i vari socialismi che, pur animati dalle migliori intenzioni, finiscono con l’anteporre i diritti del gruppo o della società a quelli degli individui. Questo misconoscimento del valore assoluto della persona è inammissibile come nel Novecento la storia ha tragicamente mostrato. Rosmini quindi si trova alle prese con tutt’una serie di nodi teorici e politici che impongono una riflessione a tutto campo che va appunto dalla morale alla politica, dalla pedagogia alla stessa teologia e il filo conduttore di questa riflessione è, come detto, la persona umana la quale cosa autorizza gli studiosi a parlare di “personalismo rosminiano” benché il personalismo, come noto, sia un termine utilizzato per la prima volta nel 1903 dal filosofo francese Charles Renouvier. La sensibilità di Rosmini a questo riguardo è molto marcata come si evince dal titolo di alcune opere quali Antropologia in servizio della scienza morale o Antropologia soprannaturale. Certamente non bisogna commettere l’errore di connotare il personalismo rosminiano con caratteri che sono propri del personalismo contemporaneo che, per esempio in un autore come Mounier, assume contorni differenti rispetto a quelli di Rosmini. Comunque, è indubbio che l’attenzione che Rosmini dedica al tema della persona umana è un importante segnale all’interno della cultura cattolica del tempo che a livello delle gerarchie assume politiche conservatrici e indirizzi contrari a un dialogo reale con la modernità come auspicato dai vari sostenitori del movimento cattolico-liberale. Proprio il terreno del diritto e quello del costituzionalismo sono i luoghi, a mio avviso, dove maggiormente emerge la profondità dello sguardo rosminiano nei confronti dei processi storico-culturali e che valsero a Rosmini, non a caso, la messa all’Indice. Da questo punto di vista, le opere politiche e giuridiche per essere pienamente comprese all’interno della riflessione rosminiana sulla modernità vanno lette insieme a Le Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Questo testo è già composto tra il 1832 e il 1833, viene parzialmente rivisto alla fine del 1847 e viene infine pubblicato nell’aprile del 1848 quando agli occhi di Rosmini l’atmosfera sembra propizia. L’accettazione della soluzione costituzionale e del principio di laicità
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sono funzionali e subordinati ad una profonda riforma interna alla Chiesa che distolga quest’ultima dalle questioni temporali per rinvigorirla piuttosto nella sua missione spirituale. In un bel saggio di alcuni anni fa, lo storico Francesco Traniello mostra come dietro le analisi svolte nelle Cinque piaghe vi sia uno sfondo nettamente cristocentrico comune, peraltro, all’ecclesiologia propria di Rosmini. In sostanza, questa l’ipotesi suggerita da Traniello, le piaghe della Chiesa rappresenterebbero il segno reale della sua vocazione a rappresentare Cristo le cui piaghe permisero ai discepoli di credere alla Resurrezione. Detto in altri termini, il mistero della Chiesa è analogo al mistero del Cristo per cui le piaghe rappresentano non soltanto un limite ma un segno della sua duplice natura, umana e divina. Se le piaghe sono storicamente attribuibili al feudalesimo, questa la diagnosi rosminiana, se cioè esse sono state un male necessario relativo ad un momento storico in cui la Chiesa doveva cristianizzare la società, esauritasi tale fase, si rende necessario una sorta di cambio paradigmatico. Rosmini parla di una nuova età della Chiesa e del mondo che si è appena dischiusa e che trova nella Rivoluzione francese un suo momento fondamentale di frattura con l’epoca precedente14. Il discorso sull’ideale della società civile di cui abbiamo parlato prima si salda a questo punto con quello sulla riforma della Chiesa che permetta di aprire una fase nuova, successiva a quella post-tridentina nei cui confronti Rosmini mostra di non nutrire particolari simpatie15. Se si guarda, infatti, alle piaghe individuate da Rosmini e le relative proposte per guarirne la Chiesa, appare evidente come quest’ultime siano pensate per un reale coinvolgimento di tutto il popolo: la separazione clero/fedeli, l’elezione e la disunione dei vescovi, la ricchezza della Chiesa… sono tutti sintomi di una Chiesa che non è più percepita come “comunione”16 bensì come “organizzazione” con tutti i 14
Cfr. F. TRANIELLO, Le piaghe di Cristo come paradigma della storia della Chiesa secondo Rosmini, in M. KRIENKE (cur.), Rosmini e la filosofia tedesca, Soveria Mannelli (CS) 2008, 473-485. 15 Cfr. ibid., 483. 16 «Il pensiero del Rosmini rappresenta, soprattutto nella cultura cattolica italiana ottocentesca, il momento di maggior consapevolezza della dimensione ecclesiale del cristianesimo: la maggior attenzione è volta ad un ripensamento del significato della
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fenomeni, oggi diremmo con un lessico politologico, di potere e di gerarchizzazione. Allora il discorso rosminiano assume una profondità e una complessità straordinaria perché si situa al crocevia di una serie di questioni politiche, sociali, teologiche, ecclesiologiche e storiche. Il carattere enciclopedico della ricerca di Rosmini permette al filosofo di guardare alle dinamiche in atto ai suoi tempi con uno sguardo volto alla totalità del reale e questo è sicuramente uno degli elementi maggiormente interessanti e stimolanti per chi si accosta oggi, in un epoca votata alla specializzazione, all’opera del Roveretano. La centralità della persona, in cui si riassume la modernità di Rosmini, è un qualcosa che assume per certi versi un valore profetico se guardiamo alla storia posteriore della Chiesa fino al Concilio Vaticano II ed è proprio questo quello su cui verte la terza ed ultima parte di questo mio intervento. 3. L’EREDITÀ DI ROSMINI Fin ora la mia attenzione si è indirizzata al tema della storia, della persona e dell’economia che rappresentano un vero e proprio blocco tematico con il quale Rosmini sente il bisogno di confrontarsi in modo sistematico. E questi temi non a caso sono quelli sui quali noi cattolici siamo oggi chiamati a riflettere potendo appropriarci, questa almeno la mia idea, proprio dell’eredità di Rosmini ma non perché nelle sue opere siano presenti ricette preconfezionate per i problemi di oggi (anche se certamente alcune sue idee mostrano un’indubbia attualità) ma piuttosto perché lo “spirito” con il quale il filosofo di Rovereto ha affrontato le sfide del suo tempo è stato uno spirito “realista” quindi sempre valido. Gli studiosi hanno più volte mostrato apprezzamento per il “realismo” rosminiano che inserisce, peraltro, il filosofo in un’importante tradizione del pensiero italiano anche se questo realismo, a me Chiesa come comunità di credenti, come corpo mistico, configurantesi in una società stretta tra Dio e gli uomini, presente e agente nella storia» (F. TRANIELLO, Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna 1966, 354-355).
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pare, non deve essere limitato soltanto ai suoi scritti politici ma ad uno sguardo più attento anche ad altre parti della sua opera pur con i limiti prima evidenziati. Infatti, gli accenni che abbiamo già fatto alla riflessione contenuta nelle Cinque Piaghe, ma anche l’impostazione metafisica che sta dietro la Teosofia (Rosmini parla di una metafisica aperta all’esperienza che superi, quindi, le metafisiche razionalistiche moderne!) mi sembrano mostrare una sensibilità filosofica cristiana, quella di Rosmini, attenta a leggere la storia non per applicare griglie o categorie preconcette ma piuttosto per aiutare il cristiano a orientarsi al suo interno senza incorrere in errori quali quelli in cui cadono filosofie come quella hegeliana in campo teoretico o i vari socialismi in ambito socio-politico. In sostanza, l’eredità del pensiero rosminiano è oggi un’eredità importante come è stato ormai riconosciuto dallo stesso magistero e deve essere valorizzata in quei tratti che ancora oggi possono essere utili per una riflessione filosofica interessata a “pensare” la storia. In questo senso, ritengo che oggi lo studio di Rosmini dovrebbe, per esempio, esortarci a ripensare l’eredità del Concilio Vaticano II, del cui inizio quest’anno celebriamo i cinquant’anni, che è stato un evento centrale per l’autocomprensione stessa della Chiesa nel suo rapporto con il mondo. Da questa visuale ritengo di non sbagliare se dico che lo “spirito” della filosofia di Rosmini è molto vicina ad alcuni degli snodi concettuali più importanti del Concilio proprio in merito al rapporto con la modernità, alla tematizzazione del principio di persona, al riconoscimento della Chiesa come “popolo di Dio”, al riconoscimento del valore della laicità dello Stato e dunque alla legittimità delle istituzioni liberal-democratiche… Oggi, quindi, sono convinto che lo studio di Rosmini possa aiutare quei cattolici impegnati nel dibattito culturale che devono ripensare il concetto di diritto, quello di persona, il rapporto religione-politica senza che questo implichi la caduta nei due eccessi del laicismo da un lato o di una concezione teocratica della politica dall’altro. Ed è sicuramente merito della religione cristiana il riconoscimento dell’importanza della dignità della persona che tra percorsi tortuosi se non, talvolta, oscuri ha influenzato positivamente la società europea e nordamericana contribuendo all’evoluzione, come dicevamo, verso lo
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Stato di diritto. Questo è un punto sul quale ormai anche intellettuali non credenti come il filosofo tedesco J. Habermas hanno riconosciuto il merito del cristianesimo. Già a partire dai suoi scritti degli anni Novanta fino al celebre dialogo con Ratzinger17, Habermas sostiene che è innegabile che la religione cristiana sia stata il motore evolutivo interno di quella che oggi chiamiamo cultura occidentale e quindi il patrimonio delle religioni, e in primo luogo del cristianesimo, deve essere tutelato nella discussione pubblica senza cadere nei dogmi laicisti o scientisti che vorrebbero marginalizzare le religioni relegandole alla sfera privata. E proprio sul tema del rapporto religione-politica, mi sembra, che Rosmini abbia avuto un’intuizione importante, quella per cui il cristianesimo non deve essere definito religione di Stato come pure lo Statuto Albertino, entrato in vigore proprio nel marzo del ’48, prevede: la Chiesa, scrive Rosmini nel progetto di Costituzione, ha soltanto bisogno di essere libera. Quindi nessuna contaminazione tra politica e religione ma al tempo stesso nessuna assolutizzazione della politica in quanto tale perché anche questa seconda prospettiva va incontro a problematiche serie. Lo sguardo del cristiano, quindi, deve essere uno sguardo vigile nei confronti di quei movimenti o di quei sistemi di pensiero che in nuce portano il germe della negazione della persona. Avviandomi alla conclusione mi sembra di poter dire che l’opera di Rosmini necessiti oggi di un ripensamento che permetta da un lato di coglierne alcune idee aventi un carattere profetico su alcune questioni importanti e dall’altro anche lo “spirito” con il quale egli ha riflettuto sulle problematiche del suo tempo. Per noi oggi diventa un imperativo riflettere su quel nesso indissolubile rappresentato dal trinomio diritto-economia-persona per ripensare una società più “umana” cioè una società che in realtà sia a servizio delle persone e non viceversa. Rosmini ha intuito che il mercato e i beni di consumo non possono diventare i valori fondanti della società per quanto importanti essi siano. Questo messaggio di subordinazione dell’economia all’etica è oggi di grande attualità e l’eredità di Rosmini possiamo dire che sia 17
2005.
Cfr. J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, trad. it., Venezia
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stata raccolta, in modo inconsapevole naturalmente, dalle riflessioni di autorevoli economisti come Amartya Sen che si interrogano oggi sulle modalità di contenimento dell’ideologia liberista o neoliberista18. Possiamo affermare, senza esagerare, di trovarci oggi in una situazione molto vicina a quella in cui si trova Rosmini che rifiuta sia l’idea del socialismo, perché negatore dei diritti civili come la proprietà, sia quella del capitalismo, che il filosofo immagina come società il cui fine sia la produzione smisurata di beni di consumo. Oggi, dopo il fallimento dei sistemi di economia pianificata e con le nefaste conseguenze derivanti dagli sviluppi recenti dell’economia capitalistica, la necessità di superare questa scelta tra libero mercato ed economia pianificata verso una “terza via” (da alcuni anni questa espressione va di moda!) è un compito soprattutto per la cultura cattolica e cristiana impegnata a non perdere di vista un principio fondamentale quello per cui la nostra esperienza terrena è un esperienza transitoria, fallibile, aperta alla trascendenza e in nessun modo bisognosa di un’assolutizzazione di valori mondani qualunque essi siano. Il mito illuminista del progresso a tutti i costi o della crescita economica come soluzione di tutti i problemi sono proprio gli assoluti con i quali siamo oggi chiamati a confrontarci. Ed è per questo che oggi i temi del lavoro, della sanità, della difesa del Welfare state mi sembrano i temi più urgenti sui quali i cristiani devono impegnarsi per dare un contributo costruttivo alla società contemporanea. Il valore della laicità dello Stato e della politica risiede allora nella garanzia dei diritti della persona portatrice di una dignità che è suo compito realizzare al prezzo anche dell’errore. In questo senso, mi pare, che il messaggio complessivo di Rosmini, cioè la valorizzazione della persona, trovi adeguato riconoscimento all’interno della cultura cattolica soltanto a partire dal Concilio Vaticano II dove nel documento Dignitatis humanae si riconosce il valore fondante della libertà religiosa come diritto fondamentale dell’uomo in quanto tale. Quindi la lettura più appropriata del pensiero rosminiano o, detto in altri termini, il modo che abbiamo oggi di raccoglierne e svilupparne 18 Tra i molti testi in cui Sen affronta queste tematiche cfr. A. SEN, L’idea di giustizia, trad. it., Milano 2010.
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l’eredità è quello, come suggerivo prima, di tutelare le acquisizioni del Concilio Vaticano II come momento decisivo nella storia della Chiesa in ordine al riconoscimento necessario del principio di persona di cui Rosmini, già nell’Ottocento, si è fatto promotore.
LA CONCEZIONE ANTIPERFETTISTICA DELLA POLITICA IN ROSMINI
PIERO SAPIENZA*
1. IL FONDAMENTO DELL’ANTIPERFETTISMO POLITICO NEI LIMITI DELL’UOMO Nella visione antropologica di Rosmini, l’uomo viene considerato nelle sue luci (la sua dignità che proviene dall’idea dell’essere, il “divino” che è in lui), ma anche nelle sue ombre, nella sua opacità (la limitazione creaturale e quella morale, che ha le sue radici nel “peccato originale”). E infatti, osserva il nostro: «nell’uomo si ammira una singolare contrarietà di natura, per la quale ora egli ci si mostra manifestamente in essere limitato, ed ora ci si ingrandisce e ci apparisce come infinito: egli è veramente un essere misto di finito e infinito»1. E poiché «la ragione di tutti gli avvenimenti sociali si trova nell’uomo, elemento della società»2 allora appare evidente che una simile impostazione antropologica implica delle conseguenze, che si riflettono sulla concezione della politica. Al tempo di Rosmini erano di moda i modelli socio-politici, tipici del socialismo utopistico, che immaginavano delle società perfette, che *
Docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 A. ROSMINI, Principi della scienza morale e Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale, a cura di D. Morando, Milano 1941, 82. 2 A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, 329.
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si sarebbero potute realizzare se gli uomini avessero accettato e seguito gli schemi elaborati a tavolino dagli studiosi di cose politiche. Rosmini fa i conti con il pensiero politico dei vari Saint-Simon, Constant, Fourier, Owen: nuove versioni aggiornate dell’utopismo politico perfettistico, che ha le sue radici ne La Repubblica di Platone per arrivare fino a La Città del Sole di T. Campanella e a La Nuova Atlantide di F. Bacone o a Il Nuovo contratto sociale di J.J. Rousseau. Per non parlare delle propaggini del marxismo o, ancora, dello scientismo contemporaneo. In generale, il “perfettismo” è definito da Rosmini come quel «sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane»3.Applicato in politica, il perfettismo fa sognare Stati e governi ideali, che pianificano strutture socio-politiche ed economiche assolutamente perfette, capaci di garantire l’annullamento di tutti i mali sociali e la distribuzione di benessere, prosperità e felicità a ogni membro della società. Ma una simile concezione non tiene conto delle premesse antropologiche sopra accennate. Anzi, si fonda su «un baldanzoso pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi […] con mancanza assoluta di riflessione ai naturali limiti delle cose»4. Si tratta di un errore antropologico grave. La conseguenza è che ogni sistema perfettistico pecca di astrattezza e astoricità e dimentica che nella storia umana i beni e i mali saranno, sempre e necessariamente, mescolati tra loro. Pertanto, è un’assurda e dannosa utopia immaginare una società felice dove scomparirà ogni forma di male sociale: ingiustizie, oppressioni, disuguaglianze, violenze ecc. Chi diffonde queste idee vende alla gente pericolose illusioni e menzogne. Il «gran principio della limitazione delle cose»5, pertanto, deve essere tenuto presente nell’elaborazione dei vari modelli politici. Invece, le ideologie perfettistiche, pur nelle loro svariate forme, sono accomunate dal rifiuto di tale principio, di cui Rosmini tratta ampiamente nella Teodicea che, come nota Piovani, può considerarsi «una critica del perfettismo», poiché essa dimostra «le ragioni della finitu3
Ibid., 111. L.c. 5 L.c. 4
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dine dell’uomo e della limitazione del bene nel mondo»6. In tal modo, la Teodicea (che Piovani definisce, in modo significativo, come Teodicea sociale) si collega con la Filosofia della politica e con l’Antropologia in servizio della scienza morale. I limiti dell’uomo possono ricondursi, sostanzialmente, alle tre cause seguenti. In primo luogo, le limitazioni della persona umana sono dovute alla sua contingenza creaturale. Tale origine ontologica dei limiti umani si inscrive nella legge universale cui è sottoposta tutta la creazione: «la limitazione [...] entra nella natura di tutte le cose fuori di Dio»7. Rosmini, enunciando questa legge, riprende un motivo già presente in tutta la tradizione scolastica. Il fatto stesso di essere “creatura”, di essere “altro” dal Creatore, di non essere “da sé”, già implica un’originaria limitazione. Tale limitazione, scrive il roveretano, «è così connaturale alle creature tutte che sarebbe un assurdo il pensare che queste esistessero prive di essa»: in altre parole, si tratterebbe di una contradditio in terminis, perché equivarrebbe ad affermare che «dovrebbero essere creature senza essere create»8. Le conseguenze di questo dato di fatto si possono notare già sul piano gnoseologico: l’uomo pur essendo capace di conoscere la verità e di raggiungere certezze, deve riconoscere i limiti e le condizioni in cui ciò può avvenire, il che dimostra da un lato la «verace grandezza» della nostra mente, ma allo stesso tempo la sua «verace piccolezza»9. Si tratta di una posizione equilibrata che tiene l’uomo lontano sia da un «soverchio dogmatismo della ragione» come pure da uno «spaventevole scetticismo»10. Le creature, quindi, avendo una «limitata esistenza», hanno di conseguenza una operazione limitata [...] accidentale e manchevole»11, da cui derivano i mali fisici o morali, che segnano la vita dell’uomo in questo mondo. 6
P. PIOVANI, La teodicea sociale di Rosmini, Padova 1957, 370. A. ROSMINI, Teodicea, a cura di U. Muratore, Stresa-Roma 1977, n. 189. 8 Ibid., n. 195. 9 Ibid., n. 155. 10 Ibid., n. 149. 11 Ibid., n. 190. 7
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In secondo luogo, l’uomo è soggetto a limitazione perché il potere effettivo della sua libertà è condizionato. Rosmini ricorda che all’uomo per la sua dignità compete la «signoria delle proprie azioni»12, ma tale prerogativa è un’arma a doppio taglio. Infatti, la libertà umana è libertà bilaterale perché la creatura umana è «soggetta a difetto»13. Pertanto, l’uomo, posto dinanzi al bene e al male, sarà sempre imprevedibile nelle sue scelte, avendo «la limitazione» sia di realizzare se stesso, portando a compimento il suo itinerario morale, oppure di «poter fare il contrario e di mancare nell’opera della propria perfezione»14. Rosmini illustra come tutto ciò può verificarsi dimostrando che le potenze dell’uomo sono legate e subordinate le une alle altre come «anelli di un’unica catena». L’ultimo anello è la libertà, la quale domina sulle altre potenze, di cui l’uomo è composto, e su tutte le loro molteplici operazioni, «comunicando la sua azione di mano in mano», da una potenza all’altra, fino all’ultima, facendo così sentire su tutte «il suo impero»15. Tuttavia si tratta di una subordinazione armonica, che è tale in linea di principio. Di fatto questo ordine gerarchico non viene sempre rispettato perché la libertà, spesso, non è dominatrice assoluta e incontestata. Infatti, il roveretano rileva che le varie facoltà soggettive inferiori possono agire in modo indipendente, sottraendosi all’egemonia della libertà, perché hanno la possibilità di un «doppio operare». In tal modo, la libertà, nonostante sia «nata [...] a dominare tutte le altre potenze», viene circoscritta e confinata entro determinati limiti. E Rosmini sottolinea che appunto tale limitazione «apre il varco alla possibilità dei mali»16. Infine, Rosmini, richiamandosi alle «tradizioni del genere umano»17, e certo in modo particolare alla rivelazione biblica, sottolinea che un altro pesante limite, posto alla libertà dell’uomo, proviene 12
Ibid., n. 193. L.c. 14 L.c. 15 Ibid., n. 645. 16 Ibid., n. 193. 17 Ibid., n. 200. 13
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dal peccato originale. Arriviamo qui all’asse portante dell’impianto antropologico rosminiano. Rosmini afferma che la condizione storica dell’umanità è quella dello status naturae lapsae. L’evento della caduta iniziale spiega molte delle limitazioni, che circoscrivono la libertà umana riducendone il suo potere. La presenza del peccato originale nell’uomo è, quindi, la causa fondamentale che sottende a tutte le difficoltà che la libertà incontra per realizzare il bene morale oggettivo e assoluto. Il nostro filosofo sottolinea, inoltre, che «non è solo un dogma del cristianesimo la sentenza, che l’uomo tragga dalla natura una imperfezione, un disordine morale». E infatti, «tutte le tradizioni più vetuste, tutte le credenze dei popoli, i simboli, i miti, dichiarano unanimemente che nella natura umana giace profondo un guasto morale»18. E il roveretano, dopo aver citato alcuni filosofi pagani (Platone, il cirenaico Anniceride, Seneca e Plutarco), concordi con questa affermazione, conclude facendo osservare che la stessa «giornaliera esperienza» ci mostra abbastanza chiaramente che un «istinto infedele fino dai primi suoi atti affascina il cuore dell’uomo e lo travolge nel male»19. Rosmini, seguendo S. Tommaso, afferma che il peccato originale si trasmette «per modum traductionis consequentis traductionem naturae», e rileva che anche questa «traduzione» è «una necessaria conseguenza della limitazione della natura umana». E infatti poiché, secondo «le leggi della generazione umana», «lo stato non solo fisico, ma anche morale de’ generanti influisce nella condizione de’ generati», allora, essendo stata la volontà dei primi progenitori «indebolita», anzi «deteriorata», a causa del peccato, anche i discendenti, di conseguenza, dovevano ereditare «un tal difetto», con i mali connessi20. Il disordine morale originale, perciò, intacca la volontà umana, rendendola «virtualmente» mal disposta verso la legge morale e verso Dio21. 18 ID., Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di C. Riva, RomaMilano 1954, n. 689. 19 L.c. 20 ID., Teodicea, cit., n. 212. 21 Cfr. ID., Antropologia in servizio della scienza morale, cit., nn. 750, 757.
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Da quanto detto sopra, quindi, si può rilevare che la volontà dell’uomo porta con sé una tara, che indebolisce ulteriormente il potere effettivo della libertà umana e la sua capacità di tendere al bene morale assoluto e oggettivo. Questa «mala disposizione» o «guasto originale», che «viene trasmesso di padre in figlio all’umana progenie»22, ha necessariamente un suo risvolto sul piano sociale e politico. Rilevando il ruolo decisivo del peccato originale come alternativa alla concezione dei sistemi perfettistici, Piovani scrive: «il peccato originale, relitto di culture lontane dalla moderna, non solo non si è inabissato nel mare magnum della storia, ma ancora, in un modo o nell’altro, ne domina l’orizzonte, sulla linea che divide due maniere di concepire la vita, e di vivere»23. Nella Centesimus annus, leggiamo che la dottrina del peccato originale «non solo è parte integrante della Rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana […]»24. Già Pascal aveva scritto: «Senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi saremmo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge e si attorce in questo abisso, sicchè l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo»25. Di conseguenza, «l’ordine sociale sarà tanto più solido, quanto più terrà conto di questo fatto […]»26. Osserva, ancora, Piovani che l’errore e la fallibilità sono il pedaggio pagato alla libertà. Pertanto, «anche sulla strada della libertà politica dei popoli, quel pedaggio va pagato senza pretendere che l’errore di governanti e di governati possa essere definitivamente vinto da una perfetta costituzione della società civile»27. Al contrario, 22
Ibid., n. 871. P. PIOVANI, La teodicea sociale di Rosmini, cit., 382. 24 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, n. 25. 25 B. PASCAL, Pensieri, n. 438. Per quanto riguarda il rapporto e l’influsso che la questione del peccato originale ha nel pensiero filosofico moderno, si veda: G. CUCCI, Il peccato originale nel pensiero moderno, in La Civiltà Cattolica, 2012 I, 537-547. L’autore recensisce il volume di G. RICONDA ET AL., (edd.), Il peccato originale nel pensiero moderno, Brescia 2009, 885. Cfr. anche D. HERCSIK, Il peccato originale, una dottrina ancora attuale? in La Civiltà Cattolica 2010 IV 119-132. 26 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, n. 25. 27 P. PIOVANI, La teodicea sociale di Rosmini, cit., 347. 23
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i sistemi perfettistici presumono di programmare tutta la vita della comunità socio-politica in ogni particolare, ed escludono la possibilità che qualcuno possa compiere dei “passi falsi”, allontanandosi dalle scelte progettate per raggiungere in modo sicuro gli scopi prefissi. In altre parole, la società perfetta, caratterizzata da un assoluto ottimismo verso la propria impostazione, non può mettere nel suo conto l’imprevisto, l’errore o semplicemente la critica, che ostacolerebbe il raggiungimento dei risultati previsti. Di conseguenza, il suo governo deve essere autoritario. Infatti, per raggiungere i propri obiettivi deve «costringere tutti alla propria asserita perfezione», scrive Piovani, e non può tollerare nessuna «impurità della società storica»28. E ancora nella Centesimus annus si osserva: «Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla»29. Ciò esige, però, anche l’elaborazione di un impianto pedagogico, con una precisa visione antropologica, per educare “l’uomo nuovo” che si adegui alle regole e agli ideali della nuova struttura socio-politica. Per questo, la formazione nelle sue molteplici articolazioni (da quella culturale e morale fino a quella fisico-sportiva) deve passare tutta in mano allo Stato. Per indurre gli uomini a non deviare da questa necessaria uniformità, e farli restare all’interno di una grigia pianificazione, «i riformatori sociali» — come osserva Rosmini — giungono ad «una inaudita intolleranza» contro tutti coloro che non si uniformano alle «loro massime», ritenute come l’unico toccasana per eliminare tutti i mali della società. Ma, la società che non tollera la libertà dei suoi soci, non è una vera società, la quale per essere tale «suppone la libertà», anzi esiste proprio per promuoverla ed accrescerla30. Si comprende così che l’utopia perfettistica nasconde una grave insidia: quella del totalitarismo, nelle sue diverse espressioni storiche (tanto per ricordare quelle della prima metà del secolo scorso: comunismo, fascismo e 28
Ibid., 372. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, n. 25. 30 A. ROSMINI, Saggio sul comunismo e socialismo, a cura di C. Riva, Pescara 1964, 29
41.
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nazismo). Questo dispotismo statale si maschera abilmente come l’unico munifico dispensatore di felicità e di benessere per tutti i cittadini di questa polis perfetta. C’è da aggiungere, inoltre, che questi vagheggiati sistemi politici si trasformano in una sorta di religione secolare, che pretende di costruire il paradiso in terra. Rosmini, infatti, criticando i saint-simoniani, definiti “i nuovi apostoli” di questa religione, mette in guardia dalle subdole illusioni che essi spacciano alla gente. Le loro ideologie perfettistiche divinizzano l’uomo non tenendo affatto conto dei suoi limiti. Scrive il roveretano: « […] al loro Dio, cioè a quest’uomo-Dio, voi li vedete far dono de’ progressi continui dell’umanità verso uno stato sociale perfettamente migliore». E ancora: « […] tanto hanno desiderio di adulare la umana natura, che non esitano a fingerla costituita con sì possente legge di perfettibilità, cui nessuna altra forza può sospendere, nessun accidente trattenere da quel corso e da quel termine di fatale felicità e indefinibile perfezione, a cui ne la portano i suoi stupendi, ciechi destini»31. Ma la visione socio-politica perfettistica, con i suoi immancabili esiti totalitari, è ben lontana dalla tanto declamata divinizzazione dell’uomo, perché lo svuota della sua vera dignità e lo riduce ad essere strumento passivo nelle mani dello Stato. 2. STRUTTURE SOCIO-POLITICHE E MALI SOCIALI La concezione della società e la spiegazione dei mali che vi si riscontrano, come pure il metodo per la loro soluzione, dipende dall’impostazione antropologica. In altri termini, o l’origine di ogni male, anche di quello sociale, si pone all’interno dell’uomo, oppure lo si individua all’esterno, e cioè nelle strutture socio-politiche. Ma, come abbiamo visto sopra, il roveretano partendo dalla constatazione dei limiti costitutivi e storici (peccato originale) dell’uomo, trova la chiave per spiegare l’esistenza delle varie forme di male sociale e per sostenere l’impossibilità di progettare future società perfette e felici, totalmente libere da tutte quelle contraddizioni che affliggono la vita dei 31
145.
ID., Frammenti di una storia della empietà, a cura di A. Cattabiani, Torino 1968,
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cittadini. Bisogna, perciò, concludere che la radice del male e delle stesse ingiustizie sociali deve trovarsi all’interno dell’uomo. E infatti, secondo Rosmini, «tutto ciò che nasce nelle nazioni sopra una scala più grande e con altre proporzioni, preesiste in germe nella mente degli individui che le compongono»32. Assumendo questa posizione, il nostro respinge la posizione di Rousseau, che con la sua concezione antropologica ottimistica affermando la bontà originaria dell’uomo, trasferiva la causa del male e della corruzione umana nella società, e pertanto riteneva sufficiente l’instaurazione di un nuovo sistema sociale, conforme al modello da lui stesso elaborato, per restituire all’umanità una condizione felice. In altri termini, Rousseau riteneva che la sostituzione delle vecchie e corrotte strutture socio-politiche con le nuove potesse risolvere in modo definitivo la questione delle ingiustizie sociali. Ma, osserva Rosmini, la soluzione del ginevrino è fallace perché non arriva al nocciolo fondamentale. Infatti «per evitare il problema dell’origine della corruzione dell’uomo, Rousseau dunque si scontra in quello dell’origine della corruzione della società, non iscioglie il nodo, né pure lo taglia, ma lo trasporta altrove»33. Ma, con la sua critica al perfettismo, Rosmini vuole sfatare anche le illusioni originate dalle teorie dei socialisti utopisti (Owen, Fourier, St. Simon). Costoro erano convinti che le nuove strutture sociali, proposte nei loro sistemi, avrebbero eliminato definitivamente la scottante questione dei mali sociali. Il socialismo utopistico, infatti, togliendo all’uomo ogni responsabilità nei confronti dei mali sociali, ne attribuiva la causa alla cattiva e ingiusta organizzazione della società, e pertanto con l’applicazione dei nuovi modelli istituzionali si attendeva l’avvento di una «nuova società», dove «tutti affatto i mali sgombreranno sicuramente di questa misera terra, rifluendovi tutti i beni»34. Rosmini, però, demolisce questa esagerata e falsa fiducia nelle strutture sociali, ritenute da sole capaci di perfezionare la condizione economica degli uomini e la civile convivenza e, quindi, di procurare l’appagamento dei cittadini. E, a parte le critiche puntuali rivolte alle 32
ID., Filosofia della politica, cit., 329. ID., Antropologia in servizio della scienza morale, cit., 689, nota 1. 34 ID., Saggio sul comunismo cit., 48. 33
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varie parti dei sistemi suddetti, il roveretano osserva principalmente che questi «falsi sapienti» «pretendono di ridurre la società ad un cotale meccanismo, fatto di passioni e di materiali industrie, che produca da se medesimo ogni soddisfazione all’uman genere […]»35, dimenticando, però, che i protagonisti dei sistemi sociali sono gli uomini. Pertanto, si domanda Rosmini, «se le società presenti si chiamano in colpa di tutti i mali, come si possono assolverne gli individui?»36. In definitiva è sempre l’uomo il responsabile ultimo del male e del bene sociale. Rosmini, perciò, afferma che soltanto tendendo a migliorare moralmente l’uomo, si può sperare di cambiare la società e le sue strutture. Egli, infatti, si chiede: «come si può concepire la prosperità di una società di esseri ragionevoli e morali, che è lo scopo della politica, se non si concepisce ad un tempo il fiorimento ed il perfezionamento della ragione e della moralità, che la costituisce e la informa?»37. Abbiamo visto, infatti, che le strutture sociali e i sistemi politici non sono altro che proiezioni degli stessi uomini che li hanno inventati. Quindi, volendo semplificare, una società composta da uomini giusti creerà leggi e sistemi giusti. E viceversa. Con ciò Rosmini non nega che anche le strutture sociali, pur nella loro relatività, influiscano sul comportamento etico degli individui che compongono una società. Ma il roveretano vuol sottolineare che il perfezionamento morale delle persone è a fondamento di ogni miglioramento sociale, il quale, comunque, sarà sempre relativo, mai assoluto e perfetto, appunto perché la natura umana è limitata e guasta. E il nostro filosofo conclude: «[...] non v’ha né può avervi governo né costituzione alcuna atta a produrre de’ beni senza limiti, e a distruggere tutti i mali»38. Ci sembra utile, a tal proposito, confrontare il pensiero di Rosmini con il magistero sociale della Chiesa. Giovanni Paolo II riconosce che le strutture ingiuste (che egli definisce “strutture di peccato”) condizionano fortemente la qualità della vita socio-economico-politica e le 35
Ibid., 35. Ibid., 53. 37 ID., Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, Padova 1967-1969, vol. I, 19. 38 ID., Filosofia della politica, cit., 371. 36
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relazioni umane all’interno della comunità politica. Ma sottolinea che l’origine del male sociale è, comunque, da ricercare sempre nel cuore umano e, quindi, nelle azioni personali. Infatti, le “strutture di peccato […] si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere”39. E ancora lo stesso Pontefice ribadisce: “Una situazione — e così un’istituzione, una struttura, una società — non è di per sè soggetto di atti morali; perciò, non può essere in se stessa buona o cattiva”40. Criticando i teorizzatori del sistema politico «del movimento», Rosmini sottolinea che per costoro: «l’umanità di natura sua va sempre avanti e non mai indietro, e che perciò ogni movimento impresso al corpo sociale non può altro che essere utile, poiché non può che servire a cacciarlo avanti, e mai a farlo retrocedere»41. Secondo questi filosofi, quindi, l’umanità procederebbe sempre «in linea retta», passando continuamente «d’uno stato men buono ad uno migliore»42. La storia, considerata ottimisticamente, è concepita come un processo continuo positivo, che conduce necessariamente la società verso una soluzione sempre migliore dei problemi umani. Il roveretano osserva, però, che «nelle cose dell’umanità» interviene «una causa sempre nuova, qual è quella della libertà umana», che abbiamo visto circoscritta entro determinati limiti, tarata per la caduta iniziale, e pertanto imprevedibile nelle sue scelte. Sarebbe, quindi, più esatto vedere la storia dell’umanità come «una vicenda perpetua di stati buoni e di stati cattivi»43. Possiamo dire, allora, che Rosmini, accettando nella sua filosofia le suggestioni dell’informale, dell’imprevisto, del negativo, prende le dovute distanze da quelle impostazioni filosofiche che, a vario titolo, sostenevano la possibilità di un perfetto sviluppo dell’uomo attraverso la storia. Possiamo allora concludere che, secondo il roveretano, realisticamente parlando, in ogni situazione socio-politica i beni saranno 39
GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 36. ID., Reconciliatio et poenitentia, n. 16. 41 A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., 391. 42 Ibid., 392. 43 L.c. 40
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sempre e necessariamente mescolati con i mali. Infatti, dove c’è un uomo, lì c’è limitazione e di conseguenza possibilità di peccato, di male, di errore, di lotte, di disuguaglianze e discriminazioni sociali. In altri termini, il limite e il negativo accompagneranno sempre l’uomo e la sua storia. Pertanto qualunque sistema sociale basato fiduciosamente su un evoluzionismo progressista positivo per ciò stesso è un’assurda e dannosa utopia. 3. IL DINAMISMO DEL REALISMO CRISTIANO ROSMINIANO La consapevolezza che Rosmini ha dei limiti della condizione umana, mentre gli fa sostenere, come già detto, l’impossibilità della totale e definitiva eliminazione del male, non fa concludere, però, nel pessimismo la sua concezione socio-politica. E infatti, come osserva Riva, tra un perfettismo di marca razionalistica, naturalistica e pelagiana, «che illude con ottimismi ingenui o astuti», e «un pessimismo triste, violento o crudele (Machiavelli, Hobbes)», rinunciatario e sfiduciato nei riguardi dell’uomo, vi è posto per la perfettibilità umana44. Rosmini stesso chiarisce che il «perfettismo» differisce dal concetto di «perfettibilità», la quale significa «idoneità a perfezionarsi», quindi capacità, potenzialità al «perfezionamento», il quale, a sua volta, è definito come «il reale conseguimento di sempre nuovi gradi di perfezione»45. E il roveretano non solo condivide l’idea di perfettibilità, ma non tralascia di notare: «che l’uomo sia continuamente perfettibile fin che dimora nella presente vita, egli è un vero prezioso, è un dogma del Cristianesimo»46. Il pensiero antropologico e politico di Rosmini, quindi, potrebbe essere qualificato come realismo cristiano, lontano sia dalle concezioni ottimistiche e perfettistiche, come pure dal realismo pessimistico non-perfettistico di stampo machiavelliano-hobbesiano. Osserviamo, inoltre, che tale realismo cristiano rosminiano, appunto perché basato sull’idea di perfettibilità, non può condurre al 44
Cfr. C. RIVA, Attualità di A. Rosmini, Roma 1970, 188. A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., 552, nota 3. 46 Ibid., 393. 45
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“quietismo” o all’immobilismo politico, quasi che il riconoscimento della necessità del male facesse arenare la società in una specie di fatalismo conservatore, che giustifica lo status quo di una determinata situazione storica e sociale. E infatti la consapevolezza che lo stesso iter morale dell’uomo si svolge sempre nella lotta, porta Rosmini a trasfondere nella società questo medesimo spirito, tendente a vincere il male. Appunto perché il male sociale non potrà mai essere del tutto eliminato, è necessario alimentare un costante impegno etico e politico, rivolto a migliorare le forme sociali, giudicate, però, sempre relative e inadeguate. E pertanto Rosmini, contestando l’astrattezza del perfettismo ottimistico, nota che «il difetto di quasi tutti gli scrittori della politica scienza consiste nel rilevare o i pregi o i difetti de’ sistemi da essi vagheggiati, senza occuparsi a fare un bilancio di quanto abbia ciascuno di comodo e di scomodo, per vedere alla fine del conto quale fra tutti, in queste e queste circostanze determinate, dia un più vantaggioso risultamento, non già qual sia tale, che alcun difetto non abbia. e contenga ogni pregio»47. Diremmo, oggi, che i teorici del perfettismo, abbagliati dai loro sistemi, non riescono a compiere un serio discernimento politico. Rileviamo, ancora una volta, che invece la relativizzazione dei vari sistemi politici, ricondotti dentro la loro precisa cornice storico-culturale (considerati, perciò, «in queste e queste circostanze determinate»), sprona l’uomo ad un continuo sforzo per apportare loro modifiche e perfezionamenti. Anzi bisogna osservare che proprio le stesse teorie perfettistiche, come nota Rosmini, supponendo «un progresso fatale e indeclinabile», rendono «inutile l’opera dell’uomo e del governo»48. Il perfettismo, quindi, in quanto non riconosce la fondamentale legge della limitazione, si traduce in incomprensione della perfettibilità, e pertanto, paradossalmente, conclude nell’immobilismo politico e nel pessimismo. Nella nostra epoca dell’homo progressivus, in cui le ideologie progressiste assumono anche le forme dell’ideologia tecnocratica 47 48
Ibid., 111. Ibid., 393.
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(come osserva Benedetto XVI nella Caritas in veritate, n. 14), la critica di Rosmini al perfettismo conserva ancora il suo sapore di attualità. Osserva Del Noce: «[...] l’interpretazione della storia come processo di secolarizzazione e di demitizzazione e l’idea della modernità come valore (l’uomo diventato adulto!), il progressismo, insomma, nel momento del loro pieno trionfo pratico e in quello della più piena espressione teorica, danno luogo a un processo necessario che porta al conservatorismo più oppressivo che la storia abbia mai conosciuto […]»49. Invece il superamento del mito del perfettismo e del progressismo porta l’uomo ad ingaggiare una lotta senza tregua per migliorare le forme politiche, e pertanto impedisce l’affermazione di una sorta di scetticismo politico, che spesso oggi può anche prendere le sembianze dell’antipolitica. Possiamo allora concludere che la «preziosa verità50, secondo la quale, l’uomo ha sempre la possibilità e la responsabilità di perfezionare se stesso e le istituzioni socio-politiche, diventa una molla che fa scattare l’immaginazione creativa umana per cercare, di volta in volta, i mezzi ritenuti più idonei, in quel determinato momento storico, per organizzare una vita sociale fondata sulla giustizia, sulla verità, sulla libertà e sul rispetto della libertà di ogni persona umana.
49 U. SPIRITO – A. DEL NOCE, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Milano 1972, 148. 50 A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., 393.
INDICE
SOMMARIO .
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Colloqui Rosmini I Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini (2010) COLLOQUI ROSMINI: PERCHÉ? INTRODUZIONE (Piero Sapienza)
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LA CRISI ANTROPOLOGICA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE (Antonino Crimaldi) .
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ROSMINI E IL FONDAMENTO DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA (Umberto Muratore) .
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1. Alle radici dell’antropologia odierna 2. Il contributo di Rosmini
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3. L’idea come annuncio di trascendenza
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4. Il bene morale .
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5. La felicità
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6. Il bene religioso
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7. Profilo dell’uomo rosminiano .
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Indice
ROSMINI E LA VISIONE INTEGRALE DELL’UOMO (Lino Prenna) . . . . . . . 1. Riunire l’uomo, “miseramente ammezzato” . . 2. Dall’essere all’uomo . . . . . 3. L’antropologia morale . . . . . 4. L’antropologia soprannaturale . . .
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LA VISIONE ANTROPOLOGICA ROSMINIANA DI FRONTE ALLA SFIDA EDUCATIVA (Antonio Staglianò) . . . . . . . 1. L’Educazione tra “emergenza” e “sfida”: explicatio terminorum 1.1. L’educazione come “pensiero concreto” . . . 1.2. L’educazione compromessa da libri inadeguati . . 2. Il filosofico “sviscerato” dal teologico . . . . 3. L’educazione dovrà essere unicamente religiosa . . 4. L’uomo-persona fondamento di ogni educazione . . 5. L’educazione fondata su una visione integrale dell’uomo . 6. I principi fondamentali del Rosmini circa l’umana educazione 7. Conclusione . . . . . . .
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ROSMINIANESIMO IN SICILIA (Salvatore Latora) . . . . . . . . 1. Da un’ipotesi all’inizio effettivo . . . . . 2. Quale ruolo ha avuto la figura e l’opera di Antonio Rosmini in Italia e specialmente in Sicilia, alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento? . . . . . . 3. Studiosi e centri culturali . . . . . . 3.1. I Fratelli Mario e Luigi Sturzo . . . . . 3.2. Mons. Cataldo Naro . . . . . . 3.3. Altri autori che con i loro studi continuano l’interesse per Rosmini 4. Fonti bibliografiche . . . . . . .
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Colloqui Rosmini II La politica di Antonio Rosmini (2012) COLLOQUI ROSMINI: LA POLITICA DI A. ROSMINI. INTRODUZIONE (Piero Sapienza) . . . . . .
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Indice
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ROSMINI E IL COSTITUZIONALISMO EUROPEO (Giuseppe Astuto) . . . . . .
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L’UNITÀ D’ITALIA E LA VISIONE FEDERALE IN ANTONIO ROSMINI (Paolo Armellini) . . . . . 1. Premessa . . . . . 2. Dalla metafisica alla politica . . . 3. Sviluppi del costituzionalismo rosminiano . 4. L’ordinamento dello Stato nella Costituzione secondo la giustizia sociale . . . 5. Conclusioni . . . . .
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FILOSOFIA E POLITICA IN ANTONIO ROSMINI (Francesco Conigliaro) . . . .
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ROSMINI DI FRONTE LA MODERNITÀ: DIRITTI, ECONOMIA E PERSONA (Salvatore Muscolino) . . . 1. Rosmini pensatore moderno? . . 2. Mercato e diritto: la centralità della persona 3. L’eredità di Rosmini . . .
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LA CONCEZIONE ANTIPERFETTISTICA DELLA POLITICA IN ROSMINI (Piero Sapienza) . . . . . . . 1. Il fondamento dell’antiperfettismo politico nei limiti dell’uomo 2. Strutture socio-politiche e mali sociali . . . 3. Il dinamismo del realismo cristiano rosminiano . .
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