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IL CORPO E L’ESPERIENZA RELIGIOSA
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Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania Comitato scientifico: Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Attilio Gangemi, G. Alberto Neglia, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito Comitato di redazione: Francesco Aleo, Nunzio Capizzi, Guglielmo Giombanco, Rosario Gisana, Salvatore Magrì, Vittorio Rocca, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito
QUADERNI DI SYNAXIS 30 SYNAXIS XXXI/1 – 2013 QUADERNI DEL CESIFER 7 Pubblicazione realizzata con il contributo Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali, Pubblica Istruzione.
SYNAXIS
QUADERNI DI SYNAXIS
Iscrizione presso il Tribunale di Catania n. 5/97
IL CORPO E L’ESPERIENZA RELIGIOSA
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STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
Direttore: Gaetano Zito Direttore responsabile: Salvatore Consoli Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri
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QUADERNI DI SYNAXIS 30 SYNAXIS XXXI/1 – 2013
QUADERNI DEL CeSIFeR 7 CENTRO DI STUDI INTERDISCIPLINARI DEL FENOMENO RELIGIOSO
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Immagine di copertina: particolare di arte rupestre preistorica del Sahara.
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IL CORPO E L’ESPERIENZA RELIGIOSA a cura di Giuseppe Ruggieri
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2013
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Il corpo e l’esperienza religiosa / a cura di Giuseppe Ruggieri. - Catania : Studio teologico S. Paolo ; Troina : Grafiser, 2014. (Quaderni di Synaxis ; 30) (Quaderni del CeSIFeR ; 7) ISBN 978-88-99070-00-7 1. Corpo umano – Concezione cristiana. I. Ruggieri, Giuseppe. 233.5 CDD-22 SBN Pal0271819 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
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SOMMARIO
A GUISA D’INTRODUZIONE: L’UTILITÀ DI QUESTO LIBRO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . .
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IL CORPO DI GESÙ NEL VANGELO DI MARCO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . . 15 Analisi del linguaggio sul corpo di Gesù usato dal più antico dei vangeli sinottici. Emergono: lo sguardo, il toccare, l’essere sdraiati a mensa con altri e la manifestazione del proprio sdegno con voce alterata, l’urlo della morte, la commozione viscerale e il corpo come corpo donato Seven are the aspects of the corporeity of Jesus that the Gospel according to Mark points out: the looking, the touching, the dining, the getting indignant, the visceral emotion, the cry before the dead and the meaning of the body as a “given body”. IL CORPO COME CONFINE: RITI DI INCLUSIONE E DI ESCLUSIONE (CONCILI DI ANCYRA E NEOCESAREA, 314-319) (Teresa Sardella) . . . . . . . . 27 Riti e liturgia testimoniano che corpo e anima sono un nesso inscindibile e di questo nesso il corpo è protagonista. Il saggio analizza battesimo e ordinazione, scomunica, penitenza e riammissione nei primi due concili di età postocostantiniana: Ancyra e Neocesarea. Se ne ricava che il corpo è utilizzato come strumento anche per capire ed entrare nella coscienza. Particolarmente interessanti sono le procedure richieste per la penitenza. Una lettura interdisciplinare e il ricorso alla moderna semeiotica del linguaggio non verbale consentono significative conclusioni sui diversi modi in cui il corpo può essere usato — da parte di qualunque potere — per piegare un individuo.
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Rites and liturgies confirm that the body and the soul are undeniably bound together and that the body dominates. This essay analyses baptism and ordination, excommunication, penitence and readmission in the first two councils of the post-Constantine era; Ancyra (Ankara) and Neocesarea (Neocaesarea). It finds that the body is used as an instrument also to understand and penetrate the conscience. The procedures laid down as regards penitence are particularly interesting. An interdisciplinary reading and attention to the modern semiotics of non verbal language enable significant conclusions to be drawn on the various ways in which the body can be used- by any power whatsoever- to bend and manipulate the individual person.
IL CORPO NELL’ULTIMO AGOSTINO: IL DE NUPTIIS ET CONCUPISCENTIA. IN DIALOGO CON PETER BROWN (Francesco Aleo) . . . . . . . . 57 L’esperienza della relazione del sé con il proprio corpo è quella relazione che si ritiene possa offrire un particolare angolo visuale, per considerare il problema del corpo e della corporeità, nella tarda antichità e nel cristianesimo antico. Non dando per scontato il retaggio platonico e neoplatonico di Agostino d’Ippona nell’affrontare il corpo, il Peccato Originale e la condizione dell’uomo dopo la Caduta, specie nell’ultimo Agostino, in particolare nel De nuptiis et concupiscentia, si rintracciano nei testimoni del cristianesimo antico, quelle relazioni sociali fondamentali, nelle quali il corpo e la corporeità sono calati e vissuti: la relazione padrone-schiavo e quella uomo-donna. Due studi fondamentali di Peter Brown, Agostino d’Ippona ed Il corpo e la società, recentemente riediti, ci aiutano a tentare d’instaurare un dialogo storico fra la concezione moderna del corpo e della corporeità e quella dell’ultimo Agostino che spalanca le porte del Medio Evo. Myself’s and body’s consciousness is a relation and observation angle to contemplate the body’s and corporeity’s problem, during late antiquity and ancient Christianity. The platonic and neoplatonic heritage in Augustine of Hippo is not expected, about body’s problem, original sin and human condition, especially in the late Augustine and in De nuptiis et concupiscentia. In the witnesses of the ancient Christianity there are social relations with agreement of body and corporeity: relation between master and slave, man and woman. Two Peter Brown’s masterpieces, Augustine of Hippo and The Body and Society, recently reprinted, can inaugurate an historical dialogue between a modern body’s and corporeity’s idea and that late Augustine’s idea, opening the Middle Ages. CORPO E GESTO NELLA PARAFRASI DI NONNO DI PANOPOLI (Arianna Rotondo) . . . . . . . . 93 Il corpo di Gesù nella Parafrasi di Nonno è soggetto e contenuto stesso della sua predicazione: genera la sequela dei discepoli e curiosità degli increduli; si muove
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consapevole verso la croce, attraverso i momenti cruciali dell’arresto e della passione di cui è assoluto protagonista. I suoi gesti, che spesso avvengono nel silenzio o lo invocano come spazio d’ascolto, accompagnano la sua autorivelazione e sono più eloquenti delle parole umane, suscitate da un animo volubile e incredulo. Dopo il corpo/cadavere trafitto ad una croce appare il Cristo risorto, che come pensiero che vola attraversa le porte chiuse della casa in cui i discepoli sono riuniti, nell’epifania della sua prima apparizione. The body of Jesus in the Paraphrase is the subject and content of his preaching: generates the following of disciples and the curiosity of the unbelievers. Jesus conscious goes towards the cross, through the crucial moments of the arrest and the passion of which his body is the absolute protagonist. His gestures, which often occur in silence, or require it as a listening space, accompany his self-revelation and are more eloquent than human words, generated by a fickle mind. Finally, the body of the Risen Lord, as a thought, flies through the closed doors of the house where the disciples were gathered together, in the epiphany of his first appearance.
IL CORPO DI RADEGONDA TRA EROS E MARTIRIO NELLA SCRITTURA DI VENANZIO FORTUNATO (Rossana Barcellona) . . . . . . . 109 Agli antichi scrittori cristiani si deve il primo sviluppo e l’ampia diffusione delle riflessioni sulla morale sessuale, con la definizione di precisi modelli di comportamento affidati principalmente alle scritture agiografiche di ispirazione monastica. In tali testi il corpo è soprattutto luogo del peccato, ma anche mezzo di redenzione. A questa letteratura appartiene la Vita di Radegonda, di Venanzio Fortunato (fine VI sec.), dove al sapiente uso delle tecniche retoriche si mescola un'intensità espressiva almeno in parte ascrivibile alla diretta memoria storica dell'autore, legato alla protagonista da una lunga e intensa amicizia. Le terribili pratiche ascetiche cui la regina/monaca si sottopone non si risolvono — come avviene altrove — in una estatica beatitudine: le parole di Venanzio raccontano un corpo che cerca e rappresenta la voluttà del martirio, mantenendo tutta la sua fisicità. The initial development and diffusion of reflections on sexual morality can be attributed to ancient Christian writers; in fact, the definition of precise models of behaviour are to be found mainly in hagiographic writings of monastic inspiration. In these texts the body is seen above all as the place of sin, but also as the mean to redemption. The “Life of Radegund” by Venantius Fortunatus (end of VI century) belongs to this genre of writing. Here the clever use of rhetorical devices together with an expressive intensity can at least be partly attributed to the direct historical memory of the author who had a long and deep friendship with Radegund. The atrocious aesthetic practices the queen/nun subjects herself to do not result in estatic beatitude as found in other
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works: Venantius, rather, gives an account of a body which searches for and represents the intense sensual pleasure of martyrdom, while maintaining its physical nature. CORPI E ANIME NELLE PREDICHE DEL VESCOVO ISIDORO CLARIO (1495-1555) (Roberto Osculati) . . . . . . . . 127 Negli anni 1565-1567 Benedetto Guidi, monaco dell’abbazia di San Giorgio Maggiore a Venezia, pubblicò tre grandi raccolte di prediche di Isidoro Clario (1495-1555). Originario del bresciano, monaco anch’egli cassinese dell’abbazia di San Giovanni Evangelista di Parma, traduttore di tutta la Bibbia dall’ebraico e dal greco, abate a Pontida e Cesena, egli aveva partecipato al primo periodo del Concilio di Trento. Vescovo di Foligno dal 1547, vi svolse un’intensa attività di istruzione, di riforme ecclesiastiche, di soccorso dei poveri. Le prediche, presentate in lingua latina, sono molto spesso una appassionata denuncia nei confronti di un cristianesimo di pura facciata, completamente privo di sostanza morale. Soprattutto l’indifferenza nei confronti di una diffusa miseria è indice di una cristianità lontana dal dettato evangelico. Basilio Magno e Giovanni Crisostomo in particolare sembrano essere gli esempi di un ministero rinnovato dalle sue fondamenta oltre ogni disputa concettuale e giuridica. Between the years 1565 to 1567, Benedict Guidi, a monk of the Abbey of St. George the Greater in Venice, published three large collections of the sermons of Isidoro Clario (1495-1555). Originally from Brescia, Isidoro was a monk from the abbey of St. John the Evangelist of Parma and, like Guidi, was also a Benedictine. He was a translator of the entire Bible from Hebrew to Greek, abbot at Pontida and Cesena, and was a participant in the first period of the Council of Trent. He was bishop of Foligno from 1547, and was deeply involved in religious teaching, church reform and relief for the poor. His sermons, published in Latin, are often an impassioned denunciation of superficial Christianity devoid of any real moral substance, indifferent to widespread suffering, and far from the basic dictates of the Gospel. His work is reminiscent of Basil the Great and John Chrysostom whose work reflected a fundamental renewal of ministry free from any intellectual or juridical haggling. DISEGNI DELL’ANIMA E LINGUAGGIO DEL CORPO NELL’APOSTOLATO GEORGIANO DI FRA’ CRISTOFORO CASTELLI (1632-1655) (Marilena Modica) . . . . . . . . 149 Tema lungamente frequentato da storici e storici dell’arte, il rapporto fra immagini e predicazione assume particolare rilievo nel passaggio dalla rottura dell’universalismo cristiano, ad opera della Riforma protestante, alla “normalizzazione“ tridentina. Questo luogo simbolico tanto persistente diviene il tema privilegiato dei “disegni divoti” di fra’ Cristoforo Castelli, il quale ricerca una forma di comunicazione religiosa la più efficace possibile, nella sua opera missionaria che si tradusse in una operatività dell’immagine devota tanto più radicale in quanto investita da quella spiritualità
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emotiva esplosa nel primo Seicento, nella quale si concentrava la dimensione visionaria del corpo come luogo del suo annullamento nel divino: corpo parlato e inciso, rivelatore della passione di Cristo cui l’anima veniva asservita. The relationship between images and preaching was a theme, object of historical and artistical studies, for a long time. It’s very important into crossing from breaking of Christian universalism, made by Reformation, to the Tridentine normalization. Become too the frà Cristofo Castelli’s theme in his “disegni divoti”, for a religious communication effective and missionary, typical of the sensitive spirituality of the XVII century. During this age the body is annihilated in the divine: the body spoken and cut revelate the Christ’s Passion. IL CORPO SCONFINATO DI ANNA KATHARINA EMMERICK (TRA)SCRITTO DA CLEMENS BRENTANO (Vincenza Scuderi) . . . . . . . . 191 Il 24 ottobre 1818 Clemens Maria Brentano (1778-1842) si reca per la prima volta a trovare la stigmatizzata Anna Katharina Emmerick (1774-1824), mistica visionaria di umili origini che visse nel cattolico Münsterland. Nascerà così uno dei più singolari incontri della storia della letteratura, che si concluderà solo con la morte di lei. Brentano rimane affascinato dalle narrazioni di Emmerick, e dal suo essere “esposta” nel suo letto d’inferma, vero e proprio ostensorio di un corpo trasformatosi nel corpo di Cristo. È così che lo scrittore si dichiara “scrivano” della stigmatizzata, ne descrive lo stato e afferma di trascriverne le visioni, in un processo di scrittura che unisce la personale poetica del corpo di Brentano con la fisicità del corpo ferito di Emmerick, reso sconfinato dalle sue visioni, che consistono in gran parte nella testimonianza diretta della vita di Cristo e di sua madre Maria. Quelle di Brentano non sono però reali trascrizioni, in quanto lo scrittore da un lato elabora le visioni secondo propri schemi, dall’altro le suscita, sottoponendo Emmerick all’ascolto di vite di mistici e stimolandone la capacità di riconoscimento delle reliquie (ierognosi). On the 24th Oktober 1818 Clemens Maria Brentano (1778-1842) visited the stigmatized Anna Katharina Emmerick (1774-1824) for the first time. She was a mystic, visionary and ecstatic ecstatic Roman Catholic Augustinian Canoness living in the region of Münster. This became one of the most interesting meetings in the history of German literature. Brentano was flabbergasted by the narration of her visions and by the exposure of her wounded body, so similar to that of Christ. This is why the author became her “scribe”. He wrote about her illness and her visions, so that his texts represent a metaphoric bridge between the poetic of Brentano’s own body and that of the stigmatized woman. In her visions her body seems to become boundless. Brentano’s notes of their conversations filled many notebooks. Most of them are about the life of the Virgin Mary and of Christ. The interesting point is that these notes are not pure transcriptions but an authorial elaboration of her visions, often stimulated by his
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telling her about the lives of other saints and by testing her ability in recognising some religious relics. DEL SENTIRE. IL CORPO IN DOSTOEVSKIJ E IN PIRANDELLO TRA POETICA E RISCRITTURA (Antonio Sichera) . . . . . . . . 201 La questione del corpo ha un rilievo speciale nell'opera di Dostoevskij e di Pirandello. E in entrambi la cifra ermeneutica del corpo è di tipo cristologico. Nel secondo capitolo di Delitto e castigo, all'icona del Christus amans, rappresentata da Sonja, si affianca quella del padre, vero Ecce Homo del romanzo, che fa del ‘sentire’ corporeo il suo cuore pulsante, alla maniera di un Christus sentiens. Impressionato fortemente dalla scena dostoevskijana, Pirandello la riprende più volte nei suoi scritti. Fra gli altri, in due luoghi decisivi: nell’Umorismo del 1920, a supporto del famoso esempio della ‘vecchia signora’, e nella novella Sopra e sotto, puntuale riscrittura del modello russo. In entrambi i casi il corpo senziente, in senso cristologico, è al centro della poetica e della visione pirandelliana dell'uomo. The matter of body has a special importance in Dostoevsky's and Pirandello’s work. And in both the hermeneutics of the body is christological. In the second chapter of Crime and Punishment, the icon of Christus amans, represented by Sonja, comes alongside that of his father — ‘Ecce Homo’ of the novel — which makes the ‘body feeling’ its heart, in the guise of a Christus sentiens. Strongly impressed by this scene, Pirandello takes it several times in his writings. Among others, two crucial points: On Humor (1920), in support of the famous example of the ‘old lady’; the short story Above and Below, punctual rewrite of the Russian model. In both cases, the body feeling, in a christological sense, is at the core of Pirandello's poetics and concept. ALLEGORIE DELLA CONDIZIONE UMANA IN TESTORI. TESTE FRACASSATE, TESTE MOZZE, CRANI E “CRAPE” (Rosa Maria Monastra) . . . . . . . 219 Nella produzione di Testori il ricorrente tratteggio di teste mozze, teste fracassate, teschi, costituisce un leitmotiv di grande interesse. Si tratta di un tema che ha una sua lunga storia nelle arti figurative e di cui Testori si avvale per esprimere la propria angoscia di fronte alla vita e alla morte. Se in un primo tempo egli ne ricava allegorie vuote, disperate, in un secondo momento invece assistiamo a una transvalutazione che ha il suo fondamento nella caritas paolina. In the Testori’s production the recurring hatch of severed heads, smashed heads, skulls, is a very important leitmotif. It’s a theme with a long history in the visual arts, and Testori uses it to express his anguish in the face of life and death. If in a first time from
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here he draws many empty, hopeless allegories, later instead we find a transvaluation that is based upon the caritas of St. Paul. LA SIMBOLIZZAZIONE DEL CORPO NELLA TEOLOGIA SACRAMENTARIA DI L.-M. CHAUVET (Maurizio Aliotta) . . . . . . . . 253 Nella sua teologia Chauvet sottolinea l’importanza del corpo e dell’ordine simbolico. Da una prospettiva fenomenologica, egli considera la natura dell’esperienza umana. Ora, vi sono due condizioni di possibilità per l’esperienza umana: il corpo fisico e l’ordine simbolico. Sebbene Chauvet parli a lungo di corpo simbolico, come corpo di tradizione e di cultura che media l’esperienza umana, i corpi sono necessariamente iscritti in una consapevolezza individuale del corpo. Con le parole di Chauvet, “l’Io è quello che è soltanto perché tessuto, abitato, parlato da questo triplice corpo di cultura, tradizione e natura. È quanto indica il concetto di corporalità: corpo proprio, certamente, ma in quanto luogo in cui si articola simbolicamente, in maniera originale per ciascuno secondo vicende del suo desiderio, il triplice corpo — sociale, ancestrale e cosmico — che lo costituisce come soggetto”. Lo stesso pensiero è espresso con il concetto di corpo come arci-simbolo. Qui il corpo è descritto come il luogo ove si articolano“il dentro e il fuori. l’io e l’altro, la natura e la cultura, il bisogno e la domanda, il desiderio e la parola” Questo significa che parlando del soggetto umano nella sua interezza, è necessario riconoscere che il soggetto è contemporaneamente biologico e simbolico. Questo è il motivo per cui Chauvet parla di soggetto umano come “corpo di significato” o “corpo parlante”. In his theology Chauvet puts a great deal of emphasis on the importance of body. From a phenomenological perspective Chauvet considers the nature of human experience. There are two basic conditions of possibility for human experience: the physical body and the symbolic order. Although Chauvet speaks at length of symbolic bodies, such as the bodies of tradition and culture that mediate human experience, the bodies are necessarily inscribed on an individual body-consciousness. In Chauvet’s words, the individual body is the place in which “there is a symbolic articulation that is as unique for each individual as is the story of his or her desires, an ancestral body of tradition, a social body of culture and a cosmic body of nature”. The same points makes the concept of body as “Arch-symbol”. Here the living body is described as the place wherein “the within and without, myself and others, nature and culture, need and request, desire and word are joined together”. This means that in order to speak of human subject in its wholeness, it is necessary to recognize that the subject is at once biological and symbolic. This is why Chauvet speaks of the human subject as a “signifying body” or “speaking body”. INDICE
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A GUISA D’INTRODUZIONE: L’UTILITÀ DI QUESTO LIBRO
GIUSEPPE RUGGIERI*
Cosa accade quando studiosi con ambiti di interesse molto distanti fra di loro scelgono un tema comune di ricerca, per verificarne consistenza e significato nei rispettivi ambiti? Il 21-22 novembre 2012 gli amici del CeSIFeR, il Centro di Studi Interdisciplinari sul Fenomeno Religioso che riunisce lo Studio teologico e l’Università di Catania, hanno dato vita a un colloquio nel quale hanno presentato i loro contributi attorno a un tema scelto l’anno prima: quale posto occupa il corpo nell’esperienza religiosa? Quei contributi sono raccolti in questo libro. La sorpresa che si ebbe in quel colloquio e che i lettori sicuramente sperimenteranno ancora, fu data dal fatto che, nella tradizione culturale dell’Occidente, anche fra coloro che si pongono al di fuori dell’orizzonte dell’esperienza religiosa vissuta, il riferimento in qualche modo obbligato per comprendere il rapporto tra esperienza del proprio corpo ed esperienza religiosa, resta il corpo di Gesù di Nazaret. Questo risultato suscita più di una domanda che nel dibattito durante quel colloquio non poteva trovare risposta, giacché purtroppo i contributi si muovevano all’interno della tradizione culturale dell’Occidente ed esperienze religiose quali quella buddista, indiana o islamica, restarono fuori dall’attenzione comune.
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Docente emerito di Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Comunque questo risultato, sia pure limitato e bisognoso di integrazioni, rafforza l’osservazione che faceva Michel de Certeau a proposito della preghiera nel suo saggio su L’homme en prière, «cet arbre de gestes», adesso pubblicato nella raccolta La faiblesse de croire a cura di Luce Giard: «La preghiera si crea uno spazio sacro: il “cerchio della preghiera” (inclusio in circulo) dei monaci dell’antichità, i cerchi (mandala) nei quali è introdotto il neofita indiano, la chiesa destinata a radunare i fedeli attorno all’altare, la cella nella quale il monaco raccoglie al “centro” le sue facoltà. La preghiera organizza questi spazi con i gesti che danno a un luogo le sue dimensioni e all’uomo il suo “orientamento” religioso. Essa ammobilia questo spazio con oggetti messi da parte, benedetti e consacrati, che compitano il suo silenzio e diventano linguaggio delle sue intenzioni. Si potrebbe dire ancora […] che, nella preghiera, i sentimenti costituiscano anche una topografia: la preghiera privilegia determinati aspetti e determinate manifestazioni della vita psicologica. Essa costruisce in tal modo, grazie ai resoconti di innumerevoli itinerari spirituali, una “carta” analoga alle “cartes du tendre” disegnate dopo le avventure dell’amore» (citazione a pagina 13). Gestualità del corpo, spazio e tempo sono cioè veicoli attraverso cui irrompe l’eidos, l’essenza dell’esperienza religiosa e non soltanto della preghiera che dell’esperienza religiosa resta il centro più delicato. Ma, ed è questo il contributo offerto da questo libro, gestualità, organizzazione dello spazio, articolazione dei tempi, sono segnati da una memoria. L’essere nel tempo e nello spazio dell’esperienza religiosa rimanda così, tramite la memoria, a qualcosa d’altro che è avvenuto una volta da qualche parte. Il corpo conserva le stimmate di quell’evento perché nelle sue fibre la memoria ha inciso ciò che allora accadde. Questa incisione non è un postulato, ma un fatto.
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IL CORPO DI GESÙ NEL VANGELO DI MARCO
GIUSEPPE RUGGIERI*
Non intendo trattare l’argomento dal punto di vista della storia del dogma cristiano, se cioè il corpo dell’uomo Gesù sia stato un corpo reale e non semplicemente apparente. E nemmeno sarà mia preoccupazione l’altro problema dogmatico, quale emerge nella problematica della cosiddetta communicatio idiomatum: se e in che misura, in conseguenza dell’unità personale di Cristo vero Dio e vero uomo, le proprietà anche fisiche di Gesù di Nazaret possano essere attribuite al Figlio divino. La mia intenzione è molto più umile, limitata all’analisi del linguaggio sul corpo di Gesù usato dal più antico dei vangeli sinottici. Essa si limiterà quindi a cogliere l’immagine fisica di Gesù che l’evangelista ci vuole trasmettere. La questione non è ovviamente quella di sapere com’era il corpo di Gesù, bensì soltanto quella di cogliere quei tratti e quei movimenti fisici del Nazareno che Marco ha ritenuto necessario trasmetterci per veicolare la sua visione di Gesù, il contenuto del suo messaggio, la vicenda storica di colui che egli credeva che fosse il “figlio di Dio”. La questione, all’interno di un’analisi che vuole essere critica, è complicata dal fatto che Marco non è un creatore assoluto, ma utilizza tradizioni preesistenti che raccoglie secondo un piano unitario e al tempo stesso modifica in funzione del suo piano e della sua concezione del Cristo. Stabilire con certezza cosa appartiene allora alla sua reda*
Docente emerito di Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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zione personale e cosa invece è un lascito della tradizione non è sempre possibile e spesso il consenso degli esegeti non esiste semplicemente. Giacché qualora si trattasse di elementi della tradizione a cui Marco non dà rilievo, attribuire un particolare significato a questi elementi sarebbe indebito. Questi sono limiti che quindi vanno tenuti presenti. Dalla mia analisi ovviamente sono escluse quelle notazioni dell’evangelista che non risultano particolarmente significative. Non presenterò quindi una raccolta completa di tutti i riferimenti al corpo di Gesù presenti in Marco. Notare che Gesù, rivolgendosi alle folle o ai suoi discepoli, “disse” qualcosa, pur indicando un movimento corporeo, non significa più di tanto. All’estremo opposto ci sono invece quelle notazioni che vogliono descrivere i sentimenti di Gesù ricorrendo a un linguaggio particolarmente “materiale”, come quello che pone l’origine di questi sentimenti in una commozione delle viscere. Ma ci sono ancora notazioni che potremmo chiamare scontate, che dal contesto ricevono tuttavia una qualificazione particolare, come avviene spesso nell’uso del verbo “vedere”. Certo a volte il vedere è usato in un senso traslato come quando Mc afferma che Gesù “vede la fede” di chi gli sta dinanzi (2,5: Gesù, vista [idôn] la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati»). Oppure nell’episodio della domanda dello scriba sul primo comandamento, Marco annota che “Gesù, vedendo (idôn) che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.” (12,34). Ma Matteo omette l’apprezzamento positivo di Gesù, mentre Luca lo esprime in maniera più sobria: “E Gesù: «hai risposto bene; fa’ questo e vivrai»”1. In tal caso attribuire all’uso del verbo vedere una particolare intenzionalità non è indebito. Più spesso lo sguardo diventa portatore di sentimenti e rapporti. In un passo almeno (10,21) diventa evidente che per Mc questo sguardo è particolare, permette quasi di penetrare nei sentimenti intimi di 1 Lo studio fondamentale, sul “vedere” nel NT, resta quello di Wilhelm Michaelis in THWNT 5, 315-381. Dei vocaboli usati per il vedere, blepw, qewrew, idein. In Marco predomina assolutamente il terzo che, rispetto a blepw, di per sé destinato — giacché poi nell’uso spesso si assimila a oraw\idein, a indicare l’attività fisica dell’occhio — e viene quindi sottolineata la percezione dell’oggetto, la presa di coscienza sensibile. Praticamente irrilevante è invece l’uso di qewrew (osservare).
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Il corpo di Gesù nel vangelo di Marco
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Gesù. Ed è proprio da qui, dallo sguardo di Gesù, che inizierò la mia analisi. La traduzione che userò, salvo i casi che noterò espressamente, è quella ufficiale della CEI. 1. LO SGUARDO DI GESÙ Colpisce anzitutto che in Marco l’atto del vedere/guardare non compaia mai in maniera neutrale, come quando noi diciamo che un tale camminando per la strada vide un muro diroccato, senza ulteriormente descrivere le conseguenze di questa sua visione nel comportamento. E non mi riferisco tanto all’uso del verbo vedere avente come oggetto una visione soprannaturale, come nel racconto del battesimo, quando si dice che Gesù, “uscendo dall’acqua, vide/eiden aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba” (1,10). Questo è infatti un uso eccezionale, giacché per il resto si tratta del vedere nell’incontro con singole persone, con le folle, con gli ammalati. Ma in questi incontri, lo sguardo di Gesù, nel racconto di Marco più che negli altri Sinottici, è uno sguardo gravido, gesto (che rimanda cioè al latino gerere, portare) per se stesso. È un aspetto questo che appare soprattutto nei racconti di vocazione e raggiunge una particolare pregnanza nell’episodio del ricco che chiede a Gesù cosa fare per avere la vita eterna, un episodio che Marco trasforma in un racconto di conversione e di sequela, anche se mancata. Lo sguardo, nei racconti di vocazione, dà sempre inizio a un incontro, a un rapporto. 1, 16s.: “Passando lungo il mare della Galilea, vide/eiden (Mt + due fratelli) Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini»”. 1, 19s.: “Andando un poco oltre, vide/eiden sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.” Successivamente, al cap. 2,14 in maniera analoga è costruito il racconto della chiamata di Levi: nel passare, vide (eiden) Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì.
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R. Pesch (ad l. I, 194) parla di uno sguardo eleggente: “lo sguardo eleggente di Gesù e la sua chiamata costituiscono un corpo omogeneo”. Sempre lo stesso autore nota l’analogia con l’episodio del ricco chiamato da Gesù a vendere tutti i sui beni per darli ai poveri e per seguirlo, al cap. 10, 21, con l’impiego questa volta della radice di blepw. 21 Allora Gesù, fissatolo (emblepsas), lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni. Che lo sguardo di Gesù, per Marco, faccia un tutt’uno con l’invito a seguirlo e diventare suo discepolo, è evidente. Luca non dà, raccontando questi episodi, importanza allo sguardo. Nel caso della chiamata di Simone e Andrea lo sguardo di Gesù è strumentale ed è rivolto alle barche per potervi salire e predicare da esse. Nel caso della vocazione di Levi usa il verbo theaomai, che evidenzia meno il guardare in quanto tale e molto di più l’osservare con curiosità, in questo caso un uomo seduto al banco delle imposte (vedi il Liddell Scott ad vocem). Mt aggiunge come oggetto diretto dello sguardo di Gesù “due fratelli”, mentre Mc soltanto mette semplicemente i nomi. Ma più interessante è l’episodio del giovane ricco, dove il 10, 21a, “Allora Gesù, fissatolo (emblepsas), lo amò”, è un’aggiunta di Mc alla versione presente in Mt e Lc. Pesch addirittura traduce “amò” con “baciò”2. Questa variante marciana, sempre a detta di Pesch, ha lo scopo di trasformare l’episodio in un racconto di chiamata, analoga a quella dei primi discepoli. La conclusione è stringente: Mc identifica sguardo, invito alla sequela e affetto. Lo sguardo di Gesù è gravido di un rapporto affettivo, di una relazione esigente, risvolto dell’affetto. Quando Pietro rifiuterà le parole di Gesù sulla necessità della sua passione, lo sguardo diventerà quindi carico di un rimprovero terribile. E lo sguardo diventa la maniera per includere nel rimprovero, che di per sé dovrebbe riguardare solo Pietro, anche gli altri discepoli. Pietro infatti 2 Non sono riuscito a cogliere la motivazione per questa traduzione, giacché non ci sono varianti alla lezione egapesen, e il Bauer non dà mai questo significato per agapaô.
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aveva voluto rivolgersi a Gesù in privato, escludendo gli altri. Ma lo sguardo rompe la separatezza e rimette nel cerchio colui che se ne era allontanato: 8, 32-33: “Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. 33 Ma egli, voltatosi e guardando (idôn) i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini»”3. Nelle narrazioni dei miracoli, lo sguardo fa invece unità con l’attività del guarire e dei sentimenti di compassione. Prima della moltiplicazione dei pani: 6,34: Sbarcando, vide (eiden) molta folla e si commosse (esplangchnisthe) per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Ritornerò alla fine sull’uso del verbo splangchnizomai. Il legame tra sguardo e attività guaritrice in maniera meno diretta è anche presente in 9, 25: Allora Gesù, vedendo (idôn) accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: «Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi rientrare più». Altre volte infine lo sguardo è sinonimo d’indignazione come in 10, 13-14: 13 Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. 14 Gesù, al vedere (idôn) questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio.». 2. IL TOCCARE Accanto al vedere, emerge nel racconto di Marco, il toccare. Il contesto è sempre (con una sola eccezione, quella dei bambini) lo stesso, quello dell’attività taumaturgica. Gesù guarisce toccando. I 3 Altre volte invece lo sguardo serve ad accomunare i destinatari effettivi delle parole di Gesù, che vengono così separati dagli altri: 3, 34: 31 Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». 33 Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». 34 Girando lo sguardo (periblepsamenos) su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».
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gesti del toccare sono: afferrare per le mani, imporre le mani sul capo, toccare le vesti, mettere la propria saliva sugli occhi o sulla lingua all’altro, l’abbraccio (nel caso dei bambini). Ma è anche vero che Gesù, oltre che dalle persone che vogliono essere guarite da lui (6,56: “E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano guarivano”), si fa toccare anche da una donna estranea, suscitando lo sdegno di alcuni (14,3-5). Cito i testi: 1, 31: “Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano (kratesas tes cheiros); la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli.” 1, 41: “Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò (epsato, da aptomai) e gli disse: «Lo voglio, guarisci!»”. (incontro con il lebbroso che lo supplicava in ginocchio). 5, 30: “Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato (epsato) il mantello?»”. (la guarigione della donna che soffriva di flussi di sangue). 5, 41: “Presa la mano (kratesas tes cheiros) della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!».” (la guarigione della figlia di Giairo). 6, 5: E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani (epitheis tas cheiras) a pochi ammalati e li guarì. 6, 56: E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare (apsôntai) almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano (epsanto) guarivano. 7, 32-33: 32 E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano (ina epithe ten cheira). 33 E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita (ebalen tou daktylous) negli orecchi e con la saliva gli toccò (epsato) la lingua; 8, 23-25: 23 Allora preso il cieco per mano (epilabomenos tes cheiros), lo condusse fuori del villaggio e, dopo avergli messo (ptysas, da ptuô, alla lettera: sputandogli) della saliva sugli occhi, gli impose le mani (epitheis tas cheiras) e gli chiese: «Vedi qualcosa?». 24 Quegli, alzando gli occhi, disse: «Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano». 25 Allora gli impose di nuovo le mani
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(epetheken tas cheiras) sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa. 9, 27: “Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò (kratesas tes cheiros egeiren auton) ed egli si alzò in piedi.” 9, 36: E, preso (labôn) un bambino, lo pose (estesen) in mezzo e abbracciandolo (enankalisamenos) disse loro: 10, 16: E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva. Non è qui il caso di discutere della storicità dei miracoli di Gesù. Sia Marco che la Quelle, cioè la tradizione dei detti di Gesù presuppongono che Gesù sia stato un guaritore ed un esorcista. Su questa base i primi cristiani hanno costruito enfatizzando in vario modo la portata delle guarigioni operate da Gesù e soprattutto facendo della sua attività di guaritore ed esorcista un segno della sua potenza sovrannaturale. Qui mi limito a dire che una visione equilibrata del problema, tale da rappresentare oggi il consenso critico della maggioranza degli esegeti, si trova documentata attraverso le monografie di G. Barbaglio (Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002), John P. Meier (Un ebreo marginale, Brescia 2001 ss.), nonché dal manuale di G. Theissen e A. Merz (Il Gesù storico, Brescia 1999). Nelle testimonianze antiche sui vari taumaturghi del tempo, il tocco, in genere mediante l’imposizione delle mani sulla testa, era una dato abbastanza costante della prassi. E Gesù in questo non è stato originale. Sta di fatto che la sottolineatura del gesto è abbastanza impressionante. In qualche modo questa sottolineatura è storicamente più verisimile delle enfatizzazioni teologiche che i primi credenti hanno operato. Ed essa concorda in ogni caso con l’immagine che ci trasmettono anche le fonti cristiane più antiche: quella di un guaritore che entra in contatto fisico con il mondo della sofferenza e ne fa il segno della verità del messaggio che annuncia. L’abbraccio dei bambini denota invece un’originalità maggiore. Il bambino nell’antichità non è degno di attenzione. Nel mondo giudaico il motivo era semplice: fino all’apprendimento della Legge, che avveniva nel periodo dell’adolescenza, il bambino non poteva “meritare” il regno di Dio. L’abbraccio di Gesù e le parole che l’accompagnano (“In verità vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come un bambino,
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non è degno di esso.”, 10, 15) danno al suo abbraccio un significato particolare. 3. LA COMPAGNIA E LO SDEGNO 2, 15-16: 15 Mentre Gesù stava a mensa (kataeisthai) in casa di lui (Levi), molti pubblicani e peccatori si misero a mensa insieme (synanekeinto) con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. 16 Allora gli scribi della setta dei farisei, vedendolo mangiare (esthiei) con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?». 14, 3: Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. 4 Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: «Perché tutto questo spreco di olio profumato?». 1, 25: E Gesù lo sgridò (epetimesen): «Taci! Esci da quell’uomo». 4, 39: Destatosi, sgridò (epetimesen) il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. 5, 40: Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. 8, 12: 11 Allora vennero i farisei e incominciarono a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. 12 Ma egli, traendo un profondo sospiro (anastanexas tô penumati), disse: «Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione». 8, 33: Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò (epetimesen) Pietro e gli disse: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». 9, 25: Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò (epetimesen) lo spirito immondo dicendo: «Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi rientrare più». 10, 14: 13 Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma
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i discepoli li sgridavano. 14 Gesù, al vedere questo, s’indignò (eganaktesen) e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio». 11, 15-16: 15 Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 16 e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. I due gesti, l’essere sdraiati a mensa con altri e la manifestazione del proprio sdegno con voce alterata non sono gesti connessi. Ma qui vengono citati come gesti fisici corrispondenti all’estrema vicinanza uno e all’estrema distanza l’altro. Il sedere a tavola con i peccatori è uno dei dati storici più sicuri della vicenda di Gesù, tanto che Franz Mussner ha potuto scrivere uno dei suoi saggi teologicamente più rivelanti intitolandolo: “L’essenza del cristianesimo è il mangiare assieme (synesthiein)”: FSAuer, 1975. Il mangiare a tavola con i peccatori, suscitando lo scandalo dei farisei, fu il segno più evidente che Gesù mise in atto per annunciare l’accoglimento di Dio verso coloro che erano messi al bando della società di allora e diventa il paradigma dell’atteggiamento cristiano verso tutti gli esclusi, a qualsiasi titolo, dalla gioia della convivialità umana. Il sedere a tavola non è solo con i peccatori. Gesù non disdegna l’invito dei farisei. Non abbiamo nessuna testimonianza che Gesù invece sia stato mai invitato da un ricco, da qualcuno appartenente alla classe dei sadducei. Lo sdegno è visivamente meno rappresentabile per noi: possiamo ragionevolmente supporre il mutamento del tono di voce, ma non possiamo andare molto più in là. Una volta si parla di un sospiro. Oggetto dello sdegno, per lo più in forma di rimprovero, sono le potenze del male, il vento, i farisei, la gente incredula davanti alla potenza taumaturgica di Gesù in casa di Giairo, i discepoli ottusi davanti alla prospettiva del fallimento di Gesù, ma anche davanti alla novità del vangelo del regno per i piccoli, i venditori e i cambiavalute del tempio.
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4. LA COMMOZIONE DELLE VISCERE Questo annuncio e questa attività di liberazione dal male che opprime l’uomo, nell’uomo Gesù è originato ancora, e questo ai fini dell’antropologia messianica è fondamentale, da una partecipazione che dobbiamo chiamare “fisica”, “corporea” alla sofferenza umana. Il termine che usano i vangeli per designare questa partecipazione alla sofferenza umana da parte di Gesù è quello del verbo splanchnizomai (alla lettera: commozione delle viscere) applicato esclusivamente a Gesù (con pochissime eccezioni che confermano l’uso cristologico). Permettetemi in questo caso, con una sola eccezione (9,22), di allontanarmi dalla traduzione ufficiale (aver pietà, compassione etc.) e di tradurre alla lettera il verbo. Motiverò dopo questa scelta. I testi di Marco, tenendo presente che egli qui non è originale, ma segue l’uso tradizionale del verbo, sono i seguenti: Mc 1, 41: Gesù, mosso nelle viscere, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio; sii purificato!» (episodio del lebbroso guarito). Mc 6, 34 (par. Mt 9, 36 è sostanzialmente uguale): Sbarcando, vide molta folla e si commosse fin nelle viscere per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Mc 9, 22, nell’episodio della guarigione dell’indemoniato che i discepoli non hanno potuto guarire, il padre dell’ossesso chiede compassione a Gesù: «Ma tu, se puoi fare qualcosa, abbi compassione di noi e aiutaci». Mc 8, 2: «Questa folla mi commuove fino alle viscere, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare». (par Mt 9, 36, sostanzialmente uguale). Perché ho voluto tradurre alla lettera, mantenendo il significato primario e non traslato delle splanchna/viscere contenuto nell’etimo originario? L’uso del verbo splanchnizomai, con l’eccezione delle parabole dove ha un significato prevalentemente teologico per indicare la misericordia di Dio (parabola del servo spietato: Mt 18, 23-35; parabola del figlio prodigo: Lc 15, 11-32; parabola del buon samaritano: Lc 10, 33: dove indica un atteggiamento di per sé umano, ma come imitazione di Dio che si fa vicino all’uomo) nei Sinottici ha sempre un senso messianico: Helmut Köster, THWNT, 7, 553-555.
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La sofferenza che prende Gesù alle viscere è per la tradizione primitiva un segno di quelle sofferenze del Messia che partecipa alla sofferenza umana, tradizionale nel giudaismo, a partire dalla tradizione isaiana del Servo sofferente, senza dimenticare il sottofondo linguistico, dove le viscere (rahamim, da rehem: utero) materne sono applicate a Dio. Il tema è vasto e dovrebbe essere trattato a parte. 5. L’URLO DELLA MORTE 15, 34-37: 34 Alle tre Gesù gridò con voce forte (phone megale): Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? 35 Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Ecco, chiama Elia!». 36 Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce». 37 Ma Gesù, dando un forte grido (apheis phonen megalen), spirò. I tentativi di spiegazione: il senso del grido del versetto 34 sarebbe differente da 37. In 34 indicherebbe la preghiera del salmo nel tempio. In 37 il grido finale. Ma in 34 si tratta con ogni probabilità di un urlo inarticolato che è stato interpretato come invocazione di di Dio. È difficile accettare un significato diverso per la stessa espressione in un contesto così ravvicinato. Mi sembra obiettivo il commento sobrio di E. Schweizer: fino a Mc, “il grande grido sembra che non abbia avuto altra funzione che di sottolineare la profondità della sofferenza di Gesù.” Mc o chi per lui ha voluto interpretare quel grido, oltre tutto in maniera non coerente, giacché in aramaico la confusione di Eloi con Elia è praticamente impossibile. L’urlo umano, nella famosa raffigurazione del pittore Munch, mi sembra l’espressione meno inadeguata del racconto originario da cui Marco dipende. 6. IL CORPO DONATO In Mc le parole eucaristiche di Gesù suonano semplicemente come identificazione del corpo di Gesù al pane spezzato e benedetto durante l’ultima cena. Mc 14, 22: Mentre mangiavano prese il pane e,
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pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». A differenza di Mc e Mt, Paolo (1 Cor 11, 24) e Luca aggiungono to yper hymon: «il per voi». Il termine corpo (sôma) applicato a Gesù indica, tranne che nel brano dell’ultima cena, il corpo destinato alla sepoltura. Su un totale di 5 occorrenze del termine corpo in Mc, una si riferisce al corpo della donna guarita dal flusso di sangue, una al pane spezzato e 2 o 3 (la lezione di 15, 45 è dubbia, giacché molti manoscritti hanno la variante ptôma=cadavere) al corpo destinato alla sepoltura nell’episodio dell’unzione della donna sconosciuta in casa di Simone il lebbroso, o nel caso della richiesta di Giuseppe d’Arimatea a Pilato. CONCLUSIONE Si tratta della visione di Marco, non dell’outing di Gesù. Marco ha ripreso una tradizione narrativa precedente, ma se ne è talmente fatto condizionare, che introduce di mano sua, ad esempio nel caso dello sguardo sul ricco che viene amato da Gesù, riferimenti ai tratti e ai movimenti fisici di Gesù che rafforzano ulteriormente quella tradizione narrativa.
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IL CORPO COME CONFINE: RITI DI INCLUSIONE E DI ESCLUSIONE (CONCILI DI ANCYRA E NEOCESAREA, 314-319)
TERESA SARDELLA*
1. CORPO E RITO 1.1. Oltre il binomio corpo e anima, la cui dialettica compone l’unità antropologica, oltre le problematiche filosofico-religiose dove il corpo in opposizione all’anima è spesso negato1, nei culti civici e * Docente di Storia del Cristianesimo antico e di Cristianesimo e Religioni presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. 1 Per quanto riguarda il binomio corpo-anima, ricordiamo soltanto che esso è oggetto di una riflessione costante nel pensiero umano: presente in tutte le civiltà, tale riflessione ebbe notevole sviluppo nell’antropologia classica, soprattutto a partire da Platone (cfr. i classici A. ODILE, Il corpo e l’anima, Genova 1989; G. REALE, Corpo, anima e salute: il concetto di uomo da Omero a Platone, Milano 1999). Il dualismo oppositivo che tale binomio ha conosciuto nel platonismo è diventato costante dialettica con il cristianesimo che, pur non potendo approvare il principio oppositivo, a causa del fondamento divino della creazione e, dunque, della bontà del corpo, si è trovato più volte a sostenere difficili equilibrismi (le proiezioni di questo dualismo possono essere molteplici: per un punto di vista generale, di stampo prettamente filosofico, che affronta la questione considerandone le ricadute culturali nella contemporaneità, cfr. P. GILBERT (cur.), La terra e l’istante: filosofi italiani e neopaganesimo, Soveria Mannelli 2005; di questo binomio vi possono essere specularità interessanti quali quella evidenziata nella lettura politica di A. CAVARERO, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Milano 1995 e di G. BRIGUGLIA, Il corpo vivente dello Stato: una metafora politica, Milano 2006. D’altra parte nell’eredità cristiana, è passato anche il pensiero ebraico, che non pensa l’uomo diviso in anima e corpo: cfr.
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Teresa Sardella
nelle religioni, sia nella dimensione del pubblico che in quella privata, esso dimostra la sua assoluta pervasività a livello di pratiche e rituali2. È un dato scontato che una pratica, un rito, senza il corpo protagonista, non sarebbero possibili. Nelle religioni, il rito segna limiti imprescindibili nella dialettica del sacro, sia in rapporto all’esterno, in quanto rito di ingresso nella sfera del sacro, che all’interno, in quanto consente la dinamica dei passaggi. Nel primo caso, dunque, il corpo è mezzo che consente di superare il confine tra sfera del sacro e quella del profano3, nel secondo è attraverso di esso che sono possibili nuove condizioni. Attraverso l’‘uso’ del corpo, i riti di iniziazione consentono l’accesso in un sistema religioso, segnano la separazione, ma anche la connessione tra due mondi, il sacro e il profano. I riti di passaggio – in realtà una forma di iniziazione e di accesso intermedia4 – consentono il superamento di confini interni e la realizzazione di nuove forme di vita comunitaria, spirituale e religiosa. Nel rito, traduzione simbolica e visibile del mito, — forma storico-narrativa del pensiero5 —, tutto, per statuto ontologico, passa attraverso il corpo. Ed è il corpo a fornire gli strumenti di una imprescindibile semantica comunicativa. La stessa definizione di ‘esperienza religiosa’, dominante nelle interpretazioni sulla religione anche in chiave filosofica e dottrinale6, U. GALIMBERTI, Orme del sacro: il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Milano 2000; B. MORICONI (cur.), Antropologia cristiana: Bibbia, teologia, cultura, Roma 2001. 2 P. GRIMALDI (cur.), Il corpo e la festa: universi simbolici e pratiche della sessualità popolare, Roma 1999; C. RIVIÈRE, I riti profani, Roma 2006; G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Bari 2011, 9 s. 3 L. DE SALVO – A. SINDONI (cur.), Tempo sacro e tempo profano: visione laica e visione cristiana del tempo e della storia, Atti del Convegno internazionale, Messina 5-7 settembre 2000, Soveria Mannelli 2002; N. SPINETO (cur.), Interrompere il quotidiano: la costruzione del tempo nell’esperienza religiosa, Milano 2005; G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Bari 2011. 4 J. RIES, Mito e rito. Le costanti del sacro, trad. it., Milano 2008, 349 ss. 5 Cfr. i classici D. SABBATUCCI, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978; C. GATTO TROCCHI, L’atto e la parola: mito e rito nel pensiero antropologico, Roma 1979; e, più di recente, G.P. JACOBELLI, Le mosse del cavallo. Tra segni del passaggio e passaggi del segno, Soveria Mannelli 2007. 6 Cfr. il classico W. JAMES, Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla
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Il corpo come confine: riti di inclusione e di esclusione
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in realtà riprende un termine che già la filosofia greca rinviava alle cose concrete, termine che la filosofia della scienza pone a fondamento delle osservazioni scientifiche7: come a dire che il mondo delle dottrine religiose anche per autodefinirsi e comunicare attinge all’esperienza fisica e materiale. Nel cristianesimo, la cui storia salvifica fondata sull’incarnazione di Cristo rinvia alla centralità teologica e antropologica del corpo, la questione del corpo può porsi, al più, non rispetto alla sua importanza, che è scontata, ma rispetto al suo valore in termini di positivo/negativo. Anche là dove, nella dottrina, esso è territorio altro rispetto all’anima, nella pratica rituale, ogni presupposto teorico di negazione del corpo si scontra con la sua ineludibile centralità. Né ha importanza lo specifico contesto religioso. Così, anche nelle dottrine e nei movimenti o gruppi religiosi che negano, mortificano, disprezzano il corpo, è questo, di fatto, il protagonista assoluto. 1.2. Nella liturgia cristiana — forma visibile della dottrina e mezzo di comunicazione del messaggio salvifico di Cristo anche attraverso il linguaggio non verbale8 — il rito e la sua espressione nella fisicità del corpo sono imprescindibili dai nessi teologici. Storicizzare e contestualizzare i riti significa entrare nei loro meccanismi, nelle loro relazioni con lo sviluppo teologico e la storia religiosa. Dunque, per statuto storico-teorico il rito rappresenta il confine tra il livello del divino e il livello umano agìto attraverso il corpo. Strumento di questa mediazione, che mette in collegamento Dio e l’uomo e che si concretizza nella forma del rito, il corpo è anche l’imprescindibile ‘strumento’ attraverso cui viene organizzato il sistema ecclesiastico. Per esempio, un aspetto della questione è il fatto che per pianificare la vita delle comunità, ci si avvale del controllo fisico del corpo, intendendo con ciò natura umana, trad. it., Brescia 2009. Inoltre: J. RIES, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, trad. it., Milano 2007; M.T. MOSCATO – R. GATTI – M. CAPUTO (cur.) Crescere tra vecchi e nuovi dei. L’esperienza religiosa in prospettiva multidisciplinare, Roma 2012. 7 J. LOSEE, Filosofia della scienza. Un’introduzione, trad. it., Milano 2009, 108. 8 Cfr. T. SARDELLA, Il corpo come linguaggio: tra teorie, pratica e retorica, in Retórica y tradición cristiana, Santander 25 Septiembre, 2012, in Atti, sotto stampa.
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la regolamentazione dei movimenti nello spazio e nel territorio, sia nell’organizzazione ecclesiastica che in quella monastica. Quest’ultima avrà come esito la stabilitas loci9. Mentre, per il clero, anche i primi canoni conciliari dimostrano che la struttura territoriale delle chiese è organizzata vincolando a ciascuna sede gli ecclesiastici, impedendo con ogni ragione gli spostamenti e punendo severamente non solo i disobbedienti, ma anche coloro che eventualmente li avessero accolti10. Il ‘segno’ dell’ordinazione era limitato nei suoi effetti dallo spazio e dal territorio e non seguiva l’ecclesiastico che si spostasse da una chiesa a un’altra. Ma, a contraddistinguere in modo speciale e specifico un’inchiesta sul corpo è, naturalmente, il tema della sessualità e dei rituali relativi. La esclusività e specialità di questo tema, particolarmente seguito dalla storiografia negli ultimi decenni11, ne richiedono indagini specifiche, e, dunque, restano al di fuori dei nostri intenti. Questa ricerca è limitata a un breve segmento normativo relativo a battesimo, ordinazione, penitenza, scomunica e riammissione nei primi due concili: di Ancyra (314) e di Neocesarea (dopo Ancyra, tra 314 e 319)12. Il senso di questi riti è quello di consentire al cristiano la possibilità di muoversi adeguatamente e coerentemente per superare i confini che segnano la distanza tra mondo esterno e chiesa, nel caso del battesimo, o consentono di spostarsi, all’interno, tra gruppi, in particolare: dalla comunità nel suo complesso, fino a dentro il clero, 9 Dopo un periodo in cui i monaci girovaghi sono espressione di una possibilità di vita monastica, sia pur contrastata (Gerolamo, Agostino), la stabilitas loci sarà elemento fondante di regolamentazione (Benedetto, Cesario di Arles), uno dei punti fermi del monachesimo occidentale, poi cardine del monachesimo benedettino (S. PRICOCO, Da Costantino a Gregorio Magno, con particolare riferimento a Il monachesimo europeo tra V e VI secolo, in G. FILORAMO – D. MENOZZI [curr.], Storia del cristianesimo. L’Antichità, Bari 1997, 410 ss.). 10 Conc. Ancyra, can. 18 e conc. Nicea, can. 15. 11 Con specifico riferimento al rapporto tra rito e sessualità, per il mondo classico, cfr. Ch. SEGAL, Dyonisiac Poetics and Euripides’ Bacchae, Princeton 1982. Per quanto riguarda gli studi sul cristianesimo, citiamo solo i classici A. ROUSSELLE, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, trad.it., Bari 1985; P. BROWN, Il corpo e la società, trad. it., Torino 1992; M. FOUCAULT, Storia della sessualità, 3 voll., trad. it., Milano 2004-2006-2008. 12 Edizione usata: A. DI BERARDINO (cur.), I canoni dei concili della Chiesa antica, I. I concili greci (introd., trad. e note a cura di C. Noce – C. Dell’Osso – D. Ceccarelli Morolli), Roma 2006, rispettivamente pp. 270-280 e pp. 282-288.
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come ulteriore rito di inclusione dopo il battesimo; oppure, per il peccatore, è previsto un percorso inverso, con l’emarginazione, nel gruppo di uditori, di penitenti, o con l’allontanamento temporaneo o definitivo della scomunica, infine, con il possibile ritorno in seno alla comunità dei fedeli tramite la penitenza e la reintegrazione. In sintesi, si tratta di riti di ammissione e di passaggio, di esclusione e di riammissione in seno alla comunità dei fedeli, La scelta di questi due concili parte dall’ipotesi che la fine delle persecuzioni ha rappresentato un momento significativo di passaggio proprio in relazione alle problematiche del corpo veicolate dal cristianesimo, anche in ragione della centralità dell’esperienza fisica del martirio — minacciato o subìto — e delle conseguenze che questa condizione, a seconda di come veniva vissuta — con abiure di vario tipo o sopravvivenza alle torture — comportava per i cristiani che non ne fossero morti13. Infine, alcune precisazioni: qui, parliamo anche di procedure e non solo di riti perché questi ultimi prevedono una specificità liturgica — con l’indicazione puntuale di gesti e parole14 — che non è contemplata nei testi presi in considerazione. In questi, invece, viene regolamentato piuttosto un percorso procedurale più esteso, che tiene in considerazione un segmento più ampio del rito e indica prerogative e requisiti che lo accompagnano. In queste prerogative e in questi requisiti, in qualche modo riferiti alla ‘gestione del corpo’, si pone una delle questioni più significative del ruolo del corpo nel rito: quella di dimostrare la coerenza tra l’azione significante del rito e la coscienza, in ultima analisi di ricomporre l’unità antropologica di anima e corpo.
13 Basti pensare ai dibattiti di carattere disciplinare, con conseguenze di rotture ereticali e ai collegamenti a questioni dottrinali che la questione dei lapsi ha avuto come esito (interessanti spunti, anche se di ambito diverso, in M. SORDI [cur.], Responsabilità, perdono e vendetta nel mondo antico, Milano 1998). 14 Per il rapporto con le Scritture, cfr. C. MANUNZA, L’Apocalisse come ‘actio liturgica’ cristiana. Studio esegetico teologico di Ap. 1,9-16; 3,14-22; 13, 9-10; 19,1-8, Roma 2012, 9 ss.
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2. RITI DI INCLUSIONE: A) BATTESIMO; B) ORDINAZIONE Più che verso il battesimo, l’attenzione di questi concili è per l’ordinazione e, in genere, per i problemi riguardanti il clero. In quanto alla specifica actio liturgica, come abbiamo già detto, i padri conciliari, qui, non se ne occupano e prendono in considerazione piuttosto le condizioni di vita, precedenti, contestuali e successive, di chi sia stato battezzato o sia entrato nel clero in modo non conforme a quanto previsto: condizioni problematiche al punto che, là dove esse non corrispondano a quanto previsto, si considera la possibilità o la necessità dell’allontanamento, sia pur temporaneo, dalla comunità dei fedeli o l’esclusione dalla gerarchia ecclesiastica. La relazione con il corpo, in assenza di descrizioni del rito, che dalla presenza del corpo è strettamente connotato, è, così, altrimenti evidenziabile. In ogni caso, va tenuto presente che l’ordinazione, nello specifico aspetto che riguarda il rituale, appare molto più strettamente connessa, rispetto a quanto non lo sia nel battesimo, a un rapporto quasi meccanico tra fisicità ed effetti spirituali. Così è per il rito dell’imposizione delle mani15, là dove, invece, l’efficacia del battesimo dipende anche dalla disposizione del battezzando. Battesimo e ordinazione coincidono con l’ingresso in due gradi fondamentali di appartenenza alla vita religiosa: il primo segna l’inizio della vita comunitaria, il secondo consente di accedere agli ordini superiori del clero — vescovi, presbiteri e diaconi —, il gruppo di ‘specialisti’ della liturgia e dell’amministrazione ecclesiastica, gruppo che, soprattutto per quanto riguarda i due primi ordini —vescovo e presbitero —, si avvia, nel IV secolo, a una forma di sacralizzazione16. Nel concilio di Ancyra (314), tutti i canoni stabiliscono divieti, sia in quanto fanno riferimento a divieti pregressi che sembrano il 15 A. CARPIN, Il sacramento dell’ordine: dalla teologia isidoriana alla teologia tomista, Bologna 1985, 15 ss. 16 Per uno studio anche comparativo sugli specialisti del religioso, cfr. J. RIES, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, trad. it., Milano 1996, 549 ss. Per quanto riguarda la sacralizzazione nel clero, nel cristianesimo, cfr. T. SARDELLA, La crisi degli uomini sposati nelle strutture ecclesiastiche (VI secolo), in Les élites au haut moyen âge. Crises et renouvellements (Ec. fr., Rome, 6,7 et 8 mai 2004), sous la direction de F. Bougard – L. Feller – R. Le Jan, Turnhout 2006, 69-98; G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Bari 2011, 176.
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portato di tradizioni riconosciute e condivise17, sia in quanto stabiliscono nuovi divieti. Complessivamente, i vescovi di Ancyra, su venticinque canoni, in dieci di essi — 1-2-3-4-5-6-7-8-9-12 —18 si occupano di lapsi e delle molte evenienze in cui questi possano essere incorsi. Abbiamo così una sorta di manuale sistematico su come affrontare il problema dei lapsi in rapporto alla loro collocazione nella comunità. Evidente che, nelle immediatezze successive alla fine delle persecuzioni, sia questo il problema più urgente. E con esso ricadiamo su un tipo di problematiche che tratteremo più avanti. I riferimenti al battesimo sono indiretti e rientrano nell’interesse per l’ordinazione e per il clero, di cui si parla nei canoni 10, 12 e 13, e che prevedono comportamenti ritenuti problematici rispetto allo specifico ruolo del clero. Il can. 10 prevede che i diaconi possano anche sposarsi dopo l’ordinazione, ma solo se lo hanno apertamente dichiarato prima di essa. La condizione celibataria pregressa all’ordinazione non è vincolante, così come non lo è nemmeno l’obbligo di restare celibi dopo di essa19. Ad essere vincolante è solo la dichiarazione progettuale riguardante l’integrità fisica, dichiarazione che deve essere fatta, evidentemente, prima di essere ordinati. Dunque, il limite non è la condizione fisica nella quale i diaconi eserciteranno il loro ministero, dal momento che essi potranno essere sia celibi che sposati, ma il fatto di dichiarare le 17 Per le forme di regolamentazione normativa cristiane, precedenti alla comparsa dei concili, agli inizi del II secolo, cfr. J. GAUDEMET, Les sources du droit de l’Eglise en Occident du IIe au VIIe siècle, Paris 1985. 18 Da notare che i casi dei lapsi sono concentrati per la gran parte all’inizio: era evidentemente il problema all’ordine del giorno considerato di maggiore importanza. 19 Di norma, anche ammesso che si accettino ecclesiastici sposati prima dell’ordinazione non è, invece, ammesso il loro matrimonio dopo di essa (cfr. R. GRYSON, Les origines du célibat ecclésiastique, Gembloux 1970; T. SARDELLA, Gerarchie e identità religiose nei primi secoli dell’era cristiana: ebraismo e cristianesimo, in Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente [Catania 12 ottobre 2005], Quaderni di Synaxis 19 [Quaderni del CeSIFeR 4], a cura di G. Ruggieri, Catania-Firenze 2006, 37-54; EAD., Controversy and debate over sexual matters among Western churches [IV century], in A. FEAR – M. MARCOS [curr.], Conflict And Compromise. The Role of The Bishop In Late Antiquity Conflictos y Compromisos. El papel del obispo en la Antigüedad Tardía. Granada, 29 sept-1 oct 2011, London 2012, 53-78).
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loro intenzioni rispetto ad un eventuale futuro matrimonio. Apparentemente è difficile trovare una ratio a questa richiesta20. Ma, proprio l’assenza di una motivazione concreta o ideologica illumina sull’importanza della condizione fisica di un ecclesiastico che, in relazione al suo ruolo, non è considerata privata, ma deve essere dichiarata pubblicamente anche in modo progettuale. Apre altre problematiche il can. 12, che collega il battesimo all’ordinazione. «Circa coloro che prima del battesimo hanno immolato agli idoli e successivamente hanno ricevuto il battesimo, è stato deciso che possono accedere all’ordine, dal momento che sono stati lavati dei loro peccati»21. Chi abbia immolato agli idoli prima del battesimo, dopo questo, può accedere al clero perchè il lavacro battesimale lo ha purificato da tutti i peccati. Tale esplicitazione comprova, evidentemente, che non è un fatto scontato che tutti i peccati siano mondabili dal battesimo o, in alternativa, che il battesimo sia in grado, da solo, di lavare tutti i tipi di peccato. Il riferimento riguarda «coloro che prima del battesimo hanno immolato agli idoli». Questa affermazione fa pensare che i padri conciliari si riferiscano non solo ai pagani prima dell’incontro con il cristianesimo, ma anche, più da vicino, a coloro che si trovassero nelle immediatezze temporali prima del battesimo, cioè ai catecumeni. E questo è rilevante a partire dal confronto con la situazione dei lapsi — cristiani, già battezzati, che hanno sacrificato —, cui vengono, invece, richieste, in conseguenza dei sacrifici compiuti, speciali dimostrazioni di pentimento. All’interno di un dibattito sulla questione di quanto la gravità del sacrificio potesse pesare su chi fosse destinato al sacerdozio, entra, dunque, specularmente, la particolare attenzione nei confronti dei lapsi di cui i molti canoni sono prova. 20 A. FAIVRE, Naissance d’une hiérarchie. Le premières étapes du cursus clérical, Paris 1977, 217, pone l’accento non sulla richiesta di pubblicizzare le eventuali intenzioni matrimoniali, ma sul fatto che sia concesso ai diaconi di sposarsi. Lo studioso attribuisce questa concessione alla larghezza di vedute sul matrimonio, caratteristica del IV secolo, che, appunto, consentiva ai diaconi anche il matrimonio dopo l’ordinazione: resta, a nostro giudizio, una spiegazione parziale. La richiesta di una dichiarazione progettuale comporta, infatti, di per sé, una focalizzazione sulla questione che non è appiattita su un atteggiamento indifferenziato. 21 Conc. Ancyra, can. 12, trad.cit., 274.
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Dunque, la gravità della colpa di avere sacrificato connotava in modo particolare la situazione di coloro che fossero stati poi battezzati e volessero poi essere anche ordinati. Il sacrificio compiuto era talmente grave da rischiare di non rendere degno di accedere all’ordinazione chi l’avesse compiuto. Ma, si può anche pensare che il dibattito riguardasse l’alternativa se il solo rito del battesimo purificasse da tutti i peccati o se, per una colpa particolarmente grave come quella di avere sacrificato, si dovesse fare riferimento alla speciale normativa sui lapsi, di cui questo stesso concilio è prova. Questa normativa, per esempio al can. 3, pone sullo stesso piano fedeli e clero ordinato: e, per tutti, in caso di abiura estorta con la violenza, si richiedono speciali dimostrazioni di pentimento. Quelle stesse che potrebbero essere richieste, all’interno di questo dibattito in relazione all’ordinazione, anche a chi non fosse ancora ordinato. La risposta a questa questione, con il can. 12 qui analizzato, rinvia, sostanzialmente, al problema se il rito del battesimo, con il lavacro battesimale e le formule liturgiche non specifiche e riguardanti una generica coscienza di avere peccato e un generico atto di pentimento, potesse significare una purificazione totale, riguardante tutte le colpe, e lo stesso battesimo potesse comportare, da solo, un rinnovamento assoluto. In ultima analisi, la questione si pone se la partecipazione del corpo al lavacro battesimale sia sufficiente a mondare ‘proprio da tutti i peccati’, compreso quello del sacrificio che, per la sua gravità, imporrebbe una particolare presa di coscienza e forme specifiche di pentimento. Tanto più là dove questo sacrificio fosse stato compiuto da chi volesse essere anche ordinato sacerdote. Su questo punto il rapporto tra lavacro del corpo e formula di abiura, nel battesimo, impone una riflessione. Siamo, infatti, nel cuore della problematica liturgico-dottrinale relativa alla efficacia del rito e, dunque, della funzione del corpo nel rito, nonché dei rapporti tra azione e volontà, tra corpo e anima. Quando Gesù fa la prima rivelazione sul battesimo a Nicodemo, parla dell’acqua come di un elemento necessario per la rigenerazione che avrebbe dato all’uomo nuova vita22. Si tratta dell’acqua reale e 22
Io 3,5.
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sensibile, ma allo stesso tempo non di un semplice simbolo perché il vero agente è lo Spirito. Acqua e Spirito sono le cause immediate della rigenerazione. A parte i rituali fisici che coinvolgono il corpo — quali immersioni e abluzioni — e le formule23, il battesimo, necessario per entrare nella comunità cristiana e nel regno dei cieli, impone anche condizioni morali e religiose imprescindibili. La prima è la fede24. La seconda condizione è di pentirsi dei peccati commmessi25. Il pentimento deve avvenire naturalmente prima del battesimo. Se ne ricava una dottrina del battesimo in cui alla nascita spirituale corrisponde una nuova vita. Ma il rito richiede anche la disposizione del battezzando26. Anche senza le articolazioni dottrinali più complesse dei padri del IV secolo, Cipriano e Tertulliano, nei rispettivi scritti sul battesimo, avevano tenuto fermo il punto relativo alla centralità della coscienza27. I dibattiti su fino a che punto si potesse dare al battesimo una funzione purificatrice anche rispetto a peccati come il sacrificio pagano — dibattiti rispecchiati nel canone di questo concilio, che, contestualmente, per coloro che avevano sacrificato, richiede particolari modalità di pentimento — sembrano riflettere proprio l’attenzione a non fare del lavacro battesimale un generico rituale di 23
Mt 28, 19; Act 2, 38; 8, 12,6; 10, 48; 19, 3-5. Mc 16, 16; Act 8, 12-13 e 36-39; Act 9, 18; 22,16; 10, 33; 11, 14; Act 16, 31; Act 18, 8. 25 Act 2, 38. 26 Le Scritture tengono saldo questo argomento tanto che, parlando di battesimo, fanno inevitabilmente riferimento a un battesimo di adulti. L’importanza della disposizione d’animo del battezzando è anche la ragione che sostiene la tesi della necessità che il battesimo venga somministrato solo agli adulti. La posizione cattolica, a partire dal IV secolo, ritiene che il battesimo degli adulti sia da considerare una conseguenza secondaria dell’importanza attribuita al coinvolgimento della fede e, quindi, che ciò implichi la necessità di una partecipazione emotiva e intellettuale. Tale posizione ritiene, altresì, che altri passi di carattere generale indichino con certezza che anche i bambini possono e devono essere battezzati (cfr. J. M. Rist, Agostino: il battesimo del pensiero antico, trad. it., Milano 1997). 27 Per Gregorio di Nissa, cfr. S. TARANTO, Il Cristo e i sacramenti in Gregorio di Nissa: il battesimo, in Origene e l’alessandrinismo Cappadoce. III-IV secolo: Atti del V convegno del gruppo italiano di ricerca su ‘Origene e la tradizione alessandrina’, Bari 20-22 settembre 2000, Bari 2002, 172; Ch. MARKSCHIES, In cammino tra due mondi: strutture del cristianesimo antico, trad. it., Milano 2003; G.-H. BAUDRY, I simboli del battesimo. Alle fonti della salvezza, trad. it., Milano 2007. 24
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purificazione, disancorato da una specifica presa di coscienza rispetto al fatto di avere specificamente e gravemente peccato: cosa che avrebbe dovuto comportare ulteriori forme di pentimento. Riguardo all’accesso al clero, il can. 13 prevede che i corepiscopi non possano ordinare né presbiteri né diaconi senza il permesso scritto del vescovo di ciascuna diocesi. Si tratta di una condizione procedurale, esterna al rito e al coinvolgimento dell’ordinando, una condizione preliminare alla celebrazione, per essa indispensabile, e senza la quale sembra che il rito stesso si vanifichi. Qui, ancor più, le condizioni complessive sembrano voler dare valore al rito ben oltre la sua articolazione in partecipazione del corpo e formule nelle quali sia riflessa l’adesione della coscienza. Successivamente al concilio di Ancyra, il concilio di Neocesarea riflette un clima molto più disteso rispetto ai dibattiti postpersecuzioni. Ci sono giunti 15 canoni, suddivisi in due sezioni riguardanti la prima la morale sessuale, con nove canoni che occupano metà concilio, e la seconda l’organizzazione del clero. Solo due i canoni di prescrizioni positive28. Cinque canoni — 5-6-8-9-12 — trattano di battesimo e ordinazione: non vi è nessuna indicazione di tipo strettamente ritualistico, mentre l’attenzione nei confronti del rito si allarga alle condizioni di vita e di comportamento di chi vi si avvicini. Le indicazioni chiariscono o aprono interrogativi su dinamiche variamente coinvolgenti il corpo in relazione all’efficacia di riti che determinano i passaggi a un nuovo status religioso. Di battesimo il concilio non parla. Ma, esso è, in proiezione, il futuro del catecumeno. E il can. 5 si occupa dei catecumeni. Il catecumeno, in caso di peccato, se si pente, deve essere retrocesso tra gli uditori. Tale condizione di peccato, presumibilmente, può essere rinviata a comportamenti di natura sessuale. Se tale condotta persiste e il catecumeno continua a peccare, si stabilisce che sia scomunicato (e\xwqeòsqw)29. Questa sanzione — ne parleremo meglio più avanti — per sua stessa definizione indica che anche il catecumeno è, ancora 28 Si tratta degli ultimi due (cann. 14-15) che riguardano il ruolo d’onore dei corepiscopi e il numero dei diaconi — sette — che ciascuna chiesa deve avere. 29 Conc. Neoc., can. 2, ed. cit., 282.
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prima del battesimo, interno alla comunità. E il battesimo, con l’accesso vero e proprio nella comunità, si allontana se il catecumeno vive in peccato. La compenetrazione tra rito e complessiva dimensione morale, estesa ben oltre l’azione rituale, è ribadita. Introduce a usuali riflessioni sul corpo, a partire da una situazione non frequentemente presa in considerazione, il can. 6. Più attento del can. 12 di Ancyra rispetto ai temi della scelta e della responsabilità religiosa, questo canone prevede che una catecumena incinta possa essere battezzata quando vuole «infatti, con il battesimo colei che partorisce non comunica niente al bimbo generato, perché la decisione propria di ciascuno di ricevere il battesimo si dichiara con la propria conversione o confessione della fede»30. Qui, appare evidente il nesso tra coscienza e corpo nell’atto rituale che, in sè, con la semplice abluzione fisica, non determina alcun cambiamento spirituale. Il can. 831 esclude dall’accesso all’ordinazione colui la cui moglie abbia commesso adulterio. In questo caso, la problematica sul corpo si allarga ai temi che le sono culturalmente più congeniali. Requisiti riguardanti il corpo e la sessualità, dunque, ancora una volta si dimostrano decisivi, non solo in riferimento all’ordinando, ma anche alla moglie, e anche per l’accesso all’ordinazione. Il can. 9 offre un interessante confronto con il can. 12 di Ancyra, in quanto a condizioni precedenti al battesimo. Qui, la condizione di peccato cui si fa riferimento riguarda il periodo precedente all’ordinazione. Il peccato è un peccato swémati, un peccato presumibilmente sessuale32. Molteplici i modi in cui corpo e sessualità definiscono condizioni e prerogative di accesso al rito: ne escludono o consentono l’accesso, influiscono sulla compiutezza del rito, sui suoi esiti spirituali e religiosi. Dunque, il presbitero che abbia peccato «nel corpo» «e riconosce e confessa di aver peccato prima dell’ordinazione, non può offrire il sacrificio, ma conserva le altre funzioni per il resto dell’attività pastorale; infatti la maggioranza sostiene che l’ordinazione cancella gli altri 30
Conc. Neoc., can. 6, trad. it., 283. Conc. Neoc., can. 8, ed. cit., 284. 32 Conc. Neoc., can. 9, ed. cit., 284. 31
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peccati. Qualora, invece, non lo confessasse e non si potesse provare pubblicamente, il fatto resta nella sua discrezione e coscienza»33. Qui, il tema della ritualità in relazione alla fisicità del corpo è più complesso. Innanzi tutto, il rito dell’ordinazione, di per sé estraneo alla cancellazione dei peccati, si estende, come opinione diffusa, ma probabilmente anche discussa e contrastata, a una funzione che non gli è propria e che riguarda, appunto, la cancellazione dei peccati. Resta, comunque, il fatto che, come per il battesimo ad Ancyra, questi concili registrano dibattiti relativi al ‘potere’ dei riti di ingresso, di fatto anche riti di purificazione. Si discuteva se questi riti avessero il potere assoluto di cancellare i peccati non lasciandone traccia, oppure se, di fronte a taluni peccati, la funzione purificatrice del rito si dimostrasse, comunque, limitata dalla particolare gravità della colpa. Le decisioni conciliari danno una risposta a questo interrogativo: il peccato sessuale lascia un segno tale da impedire che il presbitero celebri i sacrifici, pur restando nei ranghi ecclesiastici. Resta il fatto che, nel dibattito in atto, vi era chi sosteneva che l’ordinazione, che pure non implica nessuna dichiarazione di abiura del peccato, comporta purificazione assoluta e una modificazione spirituale qualificante sul piano del carisma sacerdotale. In questo, la forza del rito dell’imposizione delle mani esprime in modo particolare il ruolo decisivo di una fisicità operante al di fuori di una contemporanea cooperazione della coscienza. Il can. 12 esclude dall’ordinazione chi sia stato battezzato durante una malattia. Costui «non può diventare presbitero, infatti la sua fede non proviene da una scelta volontaria, ma dalla necessità, a meno che non sia ammesso per il suo zelo successivo, per la sua fede e per la mancanza di preti»34. Ancora una volta questo canone mette di fronte al problema del difficile equilibrio tra anima e corpo nel rito. In linea teorica, il rito ha valore nell’imprescindibile compresenza di corpo e anima nella partecipazione all’actio liturgica, nell’adesione della coscienza e della volontà ai gesti liturgici. Qui, siamo in presenza di un rito battesimale somministrato a chi non vi ha potuto aderire perché reso incosciente 33 34
Conc. Neoc., can. 9, ed. cit., 285. Conc. Neoc., can.12, ed. cit., 284.
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da malattia. Tali condizioni del battesimo, che precludono l’accesso al clero, ripropongono quesiti fondamentali: quale il rapporto tra partecipazione del corpo e della coscienza/anima nel battesimo e nell’ordinazione? fino a che punto un rito ha valore in assenza contingente di uno di questi due elementi? si può parlare di rito imperfetto e con efficacia ridotta? quale il grado di depotenziamento? Nel caso di condizioni ‘imperfette’ del battesimo, per esempio, permane il valore salvifico, ma lo stesso rito non è funzionale per chi deve entrare nel clero, che dovrà dimostrare altrimenti la propria fede. Peraltro, le preclusioni non devono essere nemmeno così gravi, se è anche possibile accogliere l’ordinando nel clero in caso di mancanza di sacerdoti. Resta nell’incertezza l’inestricabile rapporto tra corpo e anima nel rito. 3. COLPA, ESCLUSIONE, PENITENZA, RIAMMISSIONE Nella documentazione analizzata, i divieti sovrastano numericamente gli obblighi. E anche le sanzioni sono numerose, anche se non sempre previste per ogni caso di disobbedienza35. Il genere di sanzioni fissate nel diritto canonico antico rientra nell’area dell’emarginazione e dell’esclusione. Passare da gruppi spiritualmente più in alto e scendere verso quelli più bassi — dal clero al gruppo dei fedeli; dai fedeli ai catecumeni; da questi ai penitenti; dai penitenti agli uditori, etc. — è il percorso a ritroso, sancito per i peccatori, inverso rispetto a quello cui un cristiano poteva aspirare e che doveva essere ripercorso nuovamente. Il rapporto con la Chiesa si capovolge, diventa duro e doloroso. Il battesimo e l’ordinazione, in quanto riti di ingresso, sono predisposti 35
Il rapporto tra diritto e sanzione -che ha vari significati- è un elemento base degli studi giuridici fin dalla sua applicazione nell’antichità: cfr. i classici G. GROSSO, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino 1967, 17 ss.; E. CANTARELLA, Norma e sanzione in Omero: contributo alla protostoria del diritto greco, Milano 1979, 295 ss.. Più di recente, fondamentale è M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad.it., Torino 1993; V. FERRARI, Norme e sanzioni sociali, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma 1996; P. ERDÖ, Storia della scienza del diritto canonico: una introduzione, Roma 1999; Cfr., inoltre, P. BIONDI, Studi sul potere, Soveria Mannelli [CZ] 2004, soprattutto pp. 99 ss.; F. CORDERO, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino 2008; C. PELOSO, Studi sul furto nell’antichità medi-
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all’accoglienza. Entrambi hanno funzione di inglobare all’interno della comunità o del sacerdozio, di introdurre il fedele ad una condizione religiosa che è anche segno di appartenenza. Per simile statuto ontologico, dunque, e per quanto possano essere severe le verifiche imposte, battesimo e ordinazione non innescano drammatici meccanismi relazionali. Laceranti, invece, le condizioni di rottura connesse all’anatema o alla scomunica, forme punitive di condanna che determinano, imposto dall’alto, l’allontanamento, anche drammaticamente fisico, del fedele dalla comunità dei credenti. Ancora indifferenziati nei testi del IV secolo36, anatema e scomunica, con lo stesso significato etimologico, registrano un tipo di sanzione fortemente caratterizzata proprio nel senso del controllo del corpo. Il peccato determina una indegnità tale che non rende possibile mantenere l’appartenenza precedente — del semplice fedele o dell’ecclesiastico — nella comunità cristiana. E tutte le sanzioni stabilite si riferiscono alla cessazione di status o all’allontanamento fisico, e mettono in gioco la corporeità. Allontanati, scomunicati, declassati o deposti, fedeli ed ecclesiastici, sottoposti a sanzione, ne risentono in primo luogo, con effetti che sono immediatamente percepibili e visibili sul piano della dimensione fisica: ne risentono i rapporti e la comunicazione sociale, ne risente anche la dimensione fisica del movimento e delle relazioni, oltre a quella morale. Anche in questi concili, dunque, nei confronti degli scomunicati, interventi afflittivi e punitivi, di emarginazione dell’individuo dal contesto comunitario, producono parziali, ma anche violente rotture fisiche nell’ambito di una comunità divinamente incarnata, rappresentata nella sua unità dalla simbologia cristologica del corpo. Ma il ruolo decisivo del corpo si gioca ancora prima. Esso è fondaterranea, Padova 2008. Cfr., inoltre, gli Atti del Convegno dell’ARC, Organizzare Sorvegliare Punire. Il controllo dei corpi e delle menti nel diritto della tarda antichità. Spello-Perugia, 25-27 giugno 2009, sotto stampa. 36 Formule di anatema, nel senso di scomunica contengono il concilio di Elvira, di Nicea e di Gangra. Successivamente l’anatema significherà una totale, definitiva, espulsione, una ‘desacralizzazione’; la scomunica imporrà condizioni di rottura parziali e transitorie, e, con riferimento al dettato paolino (Gal 1, 8; Rom 9, 3), il peccatore sarà solo allontanato, in forma più o meno a lungo provvisoria, per periodi di anni, o anche per tutta la vita, fino al punto di morte, dalla comunità.
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mentale in tutti i passaggi precedenti alla sanzione: la valutazione della colpa, la dimostrazione del pentimento, le forme della penitenza. Il concilio di Ancyra è assorbito da problemi connessi a quanto i cristiani dovettero affrontare durante le persecuzioni. Per condannare in modo adeguato il peccatore che si sia macchiato di abiura, immolando agli dei, è necessario valutarne l’azione in tutta la sua gravità. Si deve indagare sull’effettiva gravità del peccato, sull’eventuale sincerità e profondità del pentimento, di quest’ultimo si richiede la dimostrazione palese e comprovata, si impongono forme di penitenza adeguate per un periodo più o meno lungo e durante il quale i peccatori sono tenuti fuori dalla comunità dei fedeli, si richiedono comportamenti adeguati per accedere alla reintegrazione37. La condizione del clero è spesso distinta da quella degli altri fedeli. Agli ecclesiastici, lapsi, che abbiano immolato in seguito alle torture, il can. 1 di Ancyra non toglie l’onore del ministero, li lascia nel loro ruolo, ma li esclude dal presenziare alla liturgia:«Circa i presbiteri che hanno immolato agli idoli, che successivamente si sono pentiti […] senza aver fatto finta e fatto credere di essere sottoposti ai tormenti […] è stato deciso che costoro mantengano l’onore inerente alla loro posizione, ma non è lecito loro celebrare o predicare o esercitare affatto qualsiasi altra funzione sacerdotale»38. La colpa, se le torture sono state effettivamente subite, sia pur non gravissima, c’è comunque. Ed è determinata dalla partecipazione materiale al rito, anche se la coscienza non ne è partecipe. La conseguenza è la possibilità di mantenere solo una condizione onorifica — morale —, dunque. Ma, è annullata la ‘capacità’ fisica di partecipare in alcun modo alle azioni liturgiche. Similmente, anche il can. 2, ai diaconi che si trovino nella stessa situazione, lascia la dignità ministeriale, ma toglie ogni funzione liturgica39. 37 Sulla penitenza nel cristianesimo antico, cfr. C. VOGEL, Le pécheur et la pénitence dans l’église ancienne, Paris 1965; P. SAINT-ROCH, La pénitence dans les conciles et les lettres des papes des origines à la mort de Grégoire Le Grand, Città del Vaticano 1991, e, tra gli ultimi, A. CARPIN, La penitenza tra rigore e lassismo. Cipriano di Cartagine e la riconciliazione dei ‘lapsi’, Bologna 2008 e il saggio critico, a introduzione di Tertulliano, A. CARPIN (cur.), La penitenza, Bologna 2011. 38 Conc. Ancyra, can. 1, trad.it., 271. 39 Conc. Ancyra, can. 1, ed. cit., 270.
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Dei lapsi, ma non ecclesiastici, si occupano i canoni 3-4-5-6-7-8-91240. Gli atti di abiura sono in sé gravi e colpevoli, ma da essi è anche possibile mandare assolti coloro che li hanno commessi. Per tutte le altre colpe da punire, colpe di natura sessuale, la pena è generica o non sempre è stabilita. Colpa, assoluzione, condanna, penitenza mettono sempre in gioco la partecipazione del corpo. Se dei cristiani «…furono sottoposti ai tormenti o furono messi in carcere, poiché proclamavano di essere cristiani e, una volta incarcerati, sono stati costretti a prendere nelle loro mani (l’incenso per gli idoli) o hanno mangiato per costrizione un qualche cibo (offerto agli idoli), continuando, comunque, a confessare di essere cristiani, e che mostrano sempre il dolore di quanto è loro accaduto con ogni modestia, comportamento e umiltà di vita, a costoro non si proibisca la comunione, dal momento che non hanno commesso peccato»41. Questo vale per tutti, anche per il clero, l’accesso al quale non viene negato in caso di sacrifici sacrileghi compiuti sotto tortura e la cui condizione, per coloro che già fossero nel clero — lo abbiamo appena visto (cann. 1 e 2) — deve essere, però, limitata nelle funzioni. Per stabilire la colpa, era, poi, necessario considerare «se costoro, quando furono presi, entrarono nei templi con aspetto piuttosto felice e si misero abiti piuttosto eleganti e parteciparono al banchetto preparato senza farsi problemi…»42. L’indulgenza dei vescovi dovrà essere proporzionata al comportamento e all’atteggiamento del corpo proprio in quanto questo è in grado di esprimere l’effettiva non adesione all’atto compiuto43. Dovrà essere tenuto in considerazione se «salirono ai templi con vesti di lutto e mettendosi a tavola mangiarono piangendo per tutto il tempo in cui prendevano cibo…» o «se invece non mangiarono affatto»44. 40
Conc. Ancyra, ed. cit., 270 ss. Conc. Ancyra, can 3, trad.it., 271. 42 Conc. Ancyra, can. 4, trad.it., 273. 43 «I vescovi, avendo vagliato il loro pentimento, hanno il potere di essere indulgenti o di prolungare ulteriormente il tempo della penitenza». (Conc. Ancyra, can. 5, trad. it., 273). 44 Conc. Ancyra, can. 5, trad. it., 273. 41
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Un caso a parte «riguarda coloro che hanno ceduto alla sola minaccia della punizione, ossia la confisca dei beni o l’esilio, ed hanno sacrificato agli idoli e non si sono pentiti fino al tempo presente […] ed hanno intenzione di convertirsi…»45. Più gravi sono i casi di «coloro che sono stati costretti ad immolare agli dei due o tre volte»46 o di «quanti non solo hanno apostatato, ma anche si sono levati contro i fratelli ed hanno costretto anche loro ad apostatare, essendo divenuti la causa della costrizione degli altri…»47. Meno grave — lo deduciamo dal periodo di penitenza comminato — è partecipare «ai banchetti durante una festa pagana, o in un luogo destinato ai pagani avendo portato e mangiato le proprie vivande...»48. Mentre non c’è nessun aggravio di colpa, e dunque nessun aggravio di pena, per coloro che abbiano immolato prima del battesimo, per i quali, come abbiamo già visto, il lavacro con l’acqua funge da purificazione totale tanto da consentire di accedere anche al clero — secondo quanto ivi stabilito dai padri conciliari —49. Non è nostra intenzione occuparci, qui, delle specifiche conseguenze che ciascuno di questi peccati singolarmente comporta, in termini di modalità e quantificazione di tempo, per cui il peccatore è soggetto a varie forme di penitenza, a totale o parziale allontanamento — dal clero o dalla comunità dei fedeli —. Ma, è utile riflettere ulteriormente sulla natura della punizione, che, per tutti questi peccati, sia pur in un ragionato rapporto tra gravità della colpa e penitenza, è nella forma dell’allontanamento assoluto o temporaneo dalla chiesa e dalla comunione — talvolta come reintegro nella comunità solo in punto di morte — oppure nella forma dell’emarginazione dal gruppo di appartenenza o dalla comunità dei fedeli, oppure nella forma della collocazione, in chiesa, in gruppi di fedeli di gradino più basso nell’itinerario di formazione cristiana — uditori, catecumeni, penitenti —: una dimensione della punizione che 45
Conc. Ancyra, can. 6, trad. it., 273. Conc. Ancyra, can. 8, trad. it., 273. 47 Conc. Ancyra, can. 9, trad. it., 275. 48 Conc. Ancyra, can. 7, trad. it., 273. 49 Conc. Ancyra, can. 12. 46
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è anche morale e spirituale, evidenziandosi e passando attraverso una dimensione fisica. Natura e termini della colpa, delle forme di pentimento richiesto, ma anche delle sanzioni in senso stretto, registrano la indiscutibile mediazione del corpo. Così è anche per le altre colpe prese in considerazione, oltre a quelle dei lapsi: il rifiuto totale di mangiare carni da parte di membri del clero (can. 14), la fornicazione con le bestie (cann. 16-17), la violenza di chi, non avendone titolo, si è scagliato contro i vescovi legittimi (can. 18), l’adulterio, ma anche il restare con il coniuge adultero (can. 20), l’aborto (can. 21), gli omicidi (cann. 22-23), la consultazione degli oracoli (can. 24), la complicità nella seduzione delle vergini (can. 25). Le incertezze che coinvolgono la datazione del concilio di Neocesarea — tra 314 e 319 —, con ragionevole probabilità ci consentono di scivolare di qualche anno dopo la pacificazione costantiniana e la fine delle persecuzioni, per la totale disattenzione verso il problema dei lapsi: segno di una mancanza di pressione o di attualità della questione. Altre sono le colpe qui perseguite, rispetto al concilio di Ancyra. I peccati riguardano comportamenti di natura sessuale. Il coinvolgimento del corpo appare rientrare, così, nelle modalità più consuete di controllo sessuale del periodo postcostaniniano, specificamente orientate verso forme di continenza e di ascetismo50. Il concilio condanna il presbitero che si sposi (can. 1), la donna che sposi due fratelli (can. 2), coloro che si sono sposati più volte (can. 3), coloro che intendessero fornicare (can. 4), i catecumeni che commet50 Sul controllo sessuale e sul suo fondamentale rapporto con le basi stesse della società, sin dalle sue origini strutturali, ma anche in tutte le sue manifestazioni storiche, cfr. F. SACCÀ, La società sessuale. Il controllo sociale della sessualità nelle organizzazioni umane, Milano 2004; M. GODELIER, Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l’antropologia, trad.it., Milano 2009, 141. Per quanto riguarda il tema del controllo sessuale nel cristianesimo dei primi secoli, con specifico riferimento all’età postcostantiniana, la diffusione degli ideali ascetico-monastici e la teologia del martirio sine cruore rappresentano, con la mortificazione di tutti i bisogni del corpo in primis quello sessuale, una testimonianza sostitutiva del martirio di sangue: su questo, oltre agli studi citati alla n. 11, più di recente, cfr. L. CANETTI, Frammenti di eternità: corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Roma 2002, 40.
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tono peccati della carne (can. 5), coloro che si sono uniti a donne adultere (can. 8), il presbitero che abbia peccato nella carne (can. 9), e i diaconi che facciano lo stesso (can. 10). Anche qui, ciò che interessa è che il corpo è lo strumento attraverso il quale è possibile definire eventuali condizioni di colpa e la loro gravità, attraverso il corpo passano le forme pubbliche di penitenza, attraverso il corpo si infliggono punizioni morali. L’interesse di documentazioni come quelle analizzate sta nella possibile fruizione della moderna semeiotica del corpo per intendere modi e forme in cui ogni forma di potere usa il corpo e i suoi comportamenti. In questo contesto, lo abbiamo visto nella lettura dei testi, è possibile dimostrare che quanto abbiamo affermato è valido a tutti i livelli. A partire dalla valutazione della colpa. Perché si possa iniziare l’itinerario di redenzione — dall’allontanamento alla reintegrazione attraverso il pentimento — è necessario andare oltre l’azione o il gesto del corpo, ma basandosi su di essi, per valutare la corretta dimensione della colpa e la reale responsabilità in vista della giusta punizione. Di fronte a questo problema, i vescovi di Ancyra e Neocesarea decidono che è necessario oltrepassare la fisicità del gesto e dell’azione, superare il confine del corpo, e allo stesso tempo farne strumento di conoscenza. Ad Ancyra, nell’affrontare il problema dei lapsi, i vescovi stabilirono che non era sufficiente che un cristiano avesse sacrificato per esprimere un giudizio di condanna nei suoi confronti. E, in caso vi fosse stata violenza, non vi erano né colpa né condanna. Attraverso il corpo, il fedele doveva aver comunicato di dissociarsi da quanto aveva compiuto. Il giudizio sulla sua condotta passava attraverso quanto comunicava il corpo. Affermare che la violenza subita non comporta nessuna colpa non è assolutamente una ovvietà, come dimostrano dibattiti e atteggiamenti contemporanei al nostro testo, ma anche contemporanei a noi, rispetto al tema, per esempio, delle donne violentate51. 51 Il rapporto tra responsabilità e violenza subita può entrare in gioco in vario modo (nello specifico per quanto riguarda la violenza sulle donne, come problema
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Il tema della libera volontà come unico elemento di discrimine tra il bene e il male non è sufficiente a coprire tutte le questioni in cui, anche in questo contesto, il corpo continua a essere chiamato in causa per testimoniare dissociazione rispetto alla colpa commessa. E anche la violenza subita e comprovata da sola non è sufficiente a dimostrare la non colpevolezza. L’insistenza nel ricercare la prova, nelle indicazioni conciliari di Ancyra, può diventare pervasiva. Condizione di colpevolezza e innocenza, in ragione della dissociazione rispetto all’azione sacrilega compiuta, possono e devono essere testimoniate continuando a manifestarsi anche dopo le torture, per sempre, attraverso i segni e il linguaggio del corpo52. Una volontà forzata a compiere un’azione delittuosa, dunque, non contamina l’anima purché il corpo continui a esprimere con il proprio linguaggio e attraverso le proprie specifiche forme di comunicazione l’estraneità di tutto l’essere rispetto a quanto compiuto. Sulla linea di quanto affermato dai vescovi al concilio, dopo un paio di decenni, Basilio di Ancyra parla in modo chiaro di ciò che altri testi dicono in modo fumoso53. Donne violentate, ma anche donne votate all’astinenza potevano soddisfare i propri mariti senza contaminarsi, né nell’anima né nel corpo: «durante le persecuzioni le vergini profanate […] ovvero succubi di violenza, non partecipando l’anima al piacere, sembravano schernirsi del proprio corpo come fosse morto e la loro anima, che rifiutava di concedersi alla voluttà di colui che le oltraggiava, si presentava senza macchia al cospetto dello Sposo con una fedeltà e una verginità più radiose. Il Signore ha voluto, io penso, mostrare con loro che esse ritenevano l’onore di confessarlo ben più attuale, nella nostra società, cfr., tra gli altri, M. MARZANO, Sii bella e stai zitta, Milano 2010). In riferimento a condizioni giuridiche, particolarmente inquietanti sono quei contesti, di natura tendenzialmente tribale e religiosa, come quelli dove è in vigore la sharìa islamica, dove la vittima è trasformata in criminale. Ma, qui il nostro riferimento riguarda il tema della violenza e di una responsabilità giuridicamente riconosciuta o disconosciuta. 52 Conc. Ancyra, can. 3, trad.it., 271: «Coloro che […] sono stati costretti […] mostrano sempre il dolore di quanto è loro accaduto con ogni modestia, comportamento e umiltà di vita…». 53 Così ROUSSELLE, Sesso e società, cit., 189 s.
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grande di ogni apparente onore del corpo: con il loro diniego non hanno contaminato l’anima, né in alcun modo il loro corpo è rimasto insozzato da coloro di cui non condivisero il piacere. A meno che chi volesse nella sua follia criminale oltraggiare una vergine uccisa non intendesse insozzarla mediante il suo congiungimento con una morta: la violenterebbe, non la contaminerebbe: è se stesso piuttosto che corrompe e insozza, ma la vergine, che la sua anima ha abbandonato, resta incorrotta. A costei sono simili coloro che, nelle persecuzioni e in ogni tribolazione, sono vittime della violenza maschile: morte nella carne, qualunque cosa subiscano, restano incontaminate»54. Nel caso in cui si giunga alla deliberazione di una condizione di colpa si precisano condizioni che comportano l’espulsione definitiva o temporanea, oppure la definizione di un necessario percorso di redenzione attraverso un pentimento visibile, una penitenza, che sarà misurata e calibrata. Lo scopo è il raggiungimento del perdono e la reintegrazione in seno alla comunità dei fedeli: il corpo, già luogo visibile, confine e misura della colpa, è luogo della condanna, ma anche mezzo e strumento per la redenzione. Michel Foucault, in Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, si interroga «Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni?». Messo a punto tra XVI e XIX secolo, il sistema della carcerazione punitiva è una ‘innovazione’ della modernità. Non erano questi i metodi della coercizione punitiva nell’antichità. Ma, sia nell’antichità che in età moderna, in funzione della punizione, è pur sempre il corpo ad essere il territorio su cui si misura la forza di ogni forma di potere. Diverso da questo, il sistema penale antico conosce un registro della comunicazione coercitiva del potere fondato sulla sanzione nel segno dell’espulsione — con l’eliminazione fisica del colpevole attuata in vari modi — piuttosto che della reclusione, dell’eliminare piuttosto che del mantenere in seno alla società o del rinchiudere. La carcerazione avrà sempre per il sistema romano più che carattere di pena quello di misura preventiva. Ulpiano sottolinea infatti che «il carcere 54 Della verginità, PG 30, 773 (traduzione di Basilio di Ancyra in ROUSSELLE, Sesso, cit., 190).
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è destinato a custodire gli uomini, non a punirli». E la pena di morte resta nell’antichità il principale sistema di repressione messo in atto a partire da un fenomeno normativo la cui origine è strettamente legata al pensiero religioso, dove anche forme e modi della repressione, soprattutto la pena di morte, mantengono un significato sacrale ben oltre l’età precivica55. Il mutamento del sistema processuale di Augusto porta a un diverso registro delle pene, articolate in modo graduato, di contenuto molto più afflittivo di quello tardo repubblicano. La pena di morte, caduta in disuso nel I secolo a.C., trova nuovo slancio in età imperiale56. Come l’esilio, insieme al principio della vendetta, essa mantiene il significato metagiuridico e sacrale di separazione sociale del colpevole dalla comunità, in funzione di purificazione e compensazione57. In questo contesto di cultura giuridico-penale, il cristianesimo dei 55
Le interdizioni rituali sono «il fondo della vita morale e giuridica delle società più semplici» (M. MAUSS, Teoria generale della magia e altri saggi, trad. it., Torino 1998, 183): alcune cose sono interdette (tabu), chi le compie deve essere punito con sistemi simili alla pena pubblica attuale. Non si è ancora in presenza di un organo particolare che amministri la giustizia, bensì di una repressione diffusa (E. DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, trad. it., Milano 1971). 56 La pena di morte viene applicata anche a nuove fattispecie delittuose: le fonti parlano di poena capitis, ove immediato è il riferimento alla capitis amputatio, quale forma ordinaria di esecuzione della pena di morte. Accanto ai summa supplicia (per es., la crocifissione, l’esposizione alle belve e la vivicombustione), intesi quali pene a sé stanti e non come forme alternative di esecuzione della pena di morte (distinzione questa che cadrà solo in epoca postclassica), le fonti menzionano altre pene che, sia pure non direttamente produttive di morte, sono a esse equiparate (dai vari tipi di damnatio ai lavori forzati, a quelli accessori ecc., alla deportatio) e unite nell’effetto di porre il condannato nella condizione di servus poenae, privo cioè di ogni capacità giuridica. Questa tendenza, nettamente repressiva, alla creazione di nuovi crimina publica e alla loro punizione con la morte è il motivo dominante di tutta la legislazione imperiale ed espressione della volontà di uno Stato assoluto di avocare soltanto a sé il potere di punire (cfr. B. SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 226). 57 Cfr. G. AGAMBEN, Politica dell’esilio, in Derive Approdi. No. 16. Labirinto. Naples, 1998, 25: «… se l’esilio sembra eccedere tanto il repertorio dei diritti che quello delle pene, e oscillare tra l’uno e l’altro, ciò non è per una sua costitutiva ambiguità, ma perché esso si situa in una sfera per così dire più originaria, che precede questa partizione e in cui esso convive col potere giuridico-politico supremo. Questa sfera è, cioè, quella della sovranità, del potere sovrano».
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primi secoli si trova a elaborare un proprio sistema punitivo. Inevitabile che le pratiche in uso possano suggerire forme e metodi e che si ponga un problema di continuità/discontinuità rispetto alla percezione della punizione nella società romana. Pur con tutte le differenze del caso, ci pare che la scomunica, come formula punitiva, e valutando il messaggio primario insito nel suo meccanismo essenziale riflesso indiscutibilmente nell’etimologia della parola latina — excommunicatio — possa essere ricondotta all’esilio, così come alla pena di morte. In altri termini, il codice di comunicazione punitiva messo in atto dal potere ecclesiastico è lo stesso insito nella natura repressiva del sistema penale antico che, riguardo alla punizione, tende ad allontanare piuttosto che a chiudere, ad espellere piuttosto che a mantenere il colpevole nel corpo vivo della società. E, in questa chiave di comunicazione del potere, la scomunica è un po’ come una morte di significato spirituale e un po’ come una metafora dell’esilio. Normalmente ricondotta in termini cristiani al detto di Gesù sul ‘legare e sciogliere’58, e, pur assumendo spesso la funzione di permettere un percorso di reintegrazione59, la scomunica è, infatti, come primo dato, l’espulsione fisica dalla comunità. La scomunica, in quanto totale messa al bando, è una forma estrema — pur nelle sue variabili temporali che vanno da pochi o molti anni fino in extremis — rispetto ad altre forme punitive di minore gravità. Ma, il codice di comunicazione è lo stesso. Ed è l’esclusione fisica — anche in forma di breve allontanamento — rispetto alla partecipazione comunitaria o dei gruppi interni alla comunità dei fedeli, ciascuno dei quali definisce nuovi confini di una dimensione che è spaziale e morale allo stesso tempo. Significativo è, per esempio, il tipo di punizione preferibilmente riservata ai membri del clero, colpiti dalla deposizione. Quest’ultima significava uscire dai confini dell’ordine ecclesiastico, perdere poteri liturgici e, al più, anche l’onore del ministero. 58
Mt 18,15-17 e 16,19 e 18,18 (cfr. anche Io 20, 23). Rari i casi di non riammissione: sul percorso redentivo cfr. T. SARDELLA, Dalla scomunica all’Inferno. L’Al di là come strumento di potere nelle prime decretali, in Sulle rive dell’Acheronte. Costruzione e percezione nella sfera del post-mortem (Velletri 1216 giugno 2012), sotto stampa. 59
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Il sistema punitivo cristiano, fondato sulla scomunica, sembra lasciare fuori del tutto la condanna a morte: questo almeno in campo di norme ecclesiastiche e in linea di principio come sistema generalizzato. In realtà, come abbiamo già visto, se la scomunica è apparentata all’esilio, e quest’ultimo, nell’ambito del sistema repressivo penale antico, non è solo un sostitutivo, ma di fatto è anche un surrogato della condanna a morte, anche la scomunica è, in realtà, una forma di condanna a morte60. Lo diventerà certamente più tardi e nella considerazione di una società cristiana occupata da una Chiesa forte, giuridicamente attrezzata e che nel tempo imparerà a perfezionare l’uso della scomunica piegandola sempre più a strumento di terrore e tralasciandone la fruizione come percorso di recupero del fedele, come era nell’antichità. Così, durante l’Inquisizione, anche se il colpevole si pentirà e sarà perdonato, la condanna a morte verrà eseguita lo stesso perché fa parte del processo penitenziale61. Nei primi due concili del IV secolo da noi esaminati, di area greca, questo percorso che, nel passaggio dalle condanne del diritto romano alla scomunica, collegherà in modo definitivo i territori della romanità giuridica con quelli ecclesiastici traghettando il diritto romano nelle forme giuridiche del diritto canonico, non è compiuto. Faremo solo pochissimi esempi, senza nessuna pretesa di essere esaustivi. Sul piano della lingua, i termini latini excommunicatio e similari62 — registrano nella sanzione ecclesiastica tutto il senso della sanzione punitiva del diritto romano: senso ed etimologia della scomunica e dei 60
Il parallelismo del resto, si trova, sia pur raramente anche nei testi cristiani (cfr. Ad Gallos 4, in A. DI BERARDINO [cur.], I canoni dei concili della Chiesa antica, II. T. SARDELLA – C. DELL’OSSO [curr.], I concili latini. 1. Decretali, concili romani e canoni di Serdica, Roma 2008. La decretale è del 384 circa). 61 I. MEREU, La morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Roma 2000; in particolare per l’Inquisizione, cfr. F. CARDINI – M. MONTESANO, La lunga storia dell’Inquisizione: luci e ombre della ‘leggenda nera’, Roma 2005. 62 Così anche a communione exclusus (Ad Gallos 19, ed. cit., 50) – removeatur (Ad Gallos 19, ed. cit., 50), ma anche depositio (con corrispettivi quali de statutum suum posse periclitari: su cui, cfr. Ad Gallos 18, ed. cit., 50) e deiectus (Ep. Himerio 7, ed. cit., 72), per il clero.
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sinonimi sono tutti in direzione dell’espulsione fisica63. La lingua greca, con una maggiore articolazione linguistica, oscilla tra una terminologia ugualmente giocata sul significato dell’espellere, quale quella latina, e una giocata sul significato della privazione e che rinvia, dunque, a una dimensione individuale e morale. In greco, dunque, le penitenze previste ruotano entro i confini del territorio dell’’essere’ individuale, oltre che entro quelli dell’‘appartenenza’ — alla società cristiana o a un gruppo al suo interno —. Così, in greco, per quanto riguarda i fedeli, oltre al verbo a\foròzw 64 — indicante separazione — vi sono anche termini quali a\coinwénhtov 65, e, per quanto riguarda i membri del clero, espressioni quali pepau͂ sqai paéshv i|eratich͂ v 66, che sembrano mediare tra condizione fisica e status morale. Dunque, il corpo, essenziale per capire la reale gravità della colpa e altresì strumento di sanzione, è fondamentale anche nel percorso di redenzione, vincolato alla scomunica e alla penitenza che le è connessa. La penitenza pubblica ne è l’imprescindibile dimensione. Le modalità con le quali l’autorità ecclesiastica impone che questo pentimento sia esternato attraverso il corpo evidenziano come anche il rapporto tra individuo e potere — in questo caso il fedele e l’autorità ecclesiastica — passi attraverso la fisicità del corpo, ma ne superi i confini determinando una diversa condizione spirituale e religiosa, testimoniando diverse modalità di pentimento e la possibilità di ottenere il perdono e la salvezza dell’anima. In molti casi il convolgimento del corpo nel comportamento esteriore è indicato in modo generico: «Sia tenuta sotto osservazione la 63 E anche le sanzioni per i monaci prevedono l’allontanamento dal monastero Siric., ep. Himerio 6, 68: Has ergo impudicas detestabilesque personas a monasteriorum coetu ecclesiarumque conventibus eliminandas esse mandamus. E, comunque, è interessante notare che il monastero diverrà anche luogo di reclusione, intercettando dunque la soluzione del carcere in senso moderno (cfr. S. PRICOCO, Il cenobio come rifugio e come prigione, in Studi in onore di F. E. Sciuto, in Siculorum Gymnasium 49 [1996] 225-237). 64 Conc. Ancyra, can. 18, 276. 65 Cfr. conc. Nicea, can. 5, 20. 66 Cfr. conc. Ancyra, can. 2, 270 . Molto più raro il similare latino privandus sacerdotio, oppure privari episcopatu (Ad Gallos 14 e 15, 48); oppure omni ecclesiasticae dignitatis privilegio mox nudetur (Siric. ep Himerio 11, ed. cit., 74).
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loro vita durante la penitenza e così ottengano il perdono»67. E può intervenire a modificare le decisioni iniziali: «… la loro buona condotta e la loro fede possono abbreviare questo tempo»68. Ma, non di rado, l’attenzione generica si trasforma in una sorveglianza occhiuta, invasiva, sfociante in una inevitabile pressione: i vescovi richiedono un’esternazione del dolore in tutte le sue forme, con atteggiamenti del capo, modo di parlare, o meglio tacere, ma anche abbigliamento e capigliatura, impongono comportamenti di natura morale, come modestia e obbedienza, ma anche estrinsecazioni più esplicitamente emotive. Nell’arco di un lungo periodo di tempo, la penitenza richiesta deve essere centrata sulle espressioni di dolore per il peccato e per la colpa commessa, manifestazioni come il pianto diventano vincolanti dimostrazioni di ravvedimento69. Il pianto del penitente sembra indispensabile per la riammissione alla comunione. Non sarebbe un problema se questo fosse una spontanea manifestazione di dolore. Il punto è che questo pianto è esplicitamente richiesto, o direi piuttosto imposto, in quanto è condizione per ottenere il perdono70. Con questo, dunque, ci troviamo di fronte alla espressione di un’esperienza fisica istintiva — il pianto, le lacrime —, esperienza nella quale si convogliano problemi psico-fisiologici e storico-culturali, e che allo stesso tempo viene sottoposta al vaglio del potere. Le ricerche sul riso e sul pianto — quali manifestazioni umane istintive e, nelle loro testimonianze storiche, anche come problema culturale 67
Conc. Ancyra, can. 16, trad. it., 277. Conc. Neocesarea, can. 3, trad.it., 283 parla di buona condotta e fede. 69 Cfr. anche Ad Gallos 3, trad. it., 39: «Di quale e quanta riparazione c’è bisogno! Che grande penitenza per colei che è precipitata nelle rovine della carne! Non è piccola colpa l’avere abbandonato Dio ed essere andata dietro a un uomo! Per questo deve piangere moltissimi anni, perché ottenuto il frutto di una degna penitenza, possa alla fine giungere al perdono, sempre che, tuttavia, realmente pentitasi, compia opere di penitenza». 70 Anche in Ad Gallos, cit., alla vergine che si sia sposata, il perdono con la redenzione è accordato dopo che il pentimento della fanciulla sia stato da lei dimostrato in lunghissimi anni di pianti, di umiltà, di digiuno, di opere di misericordia. E Innocenzo I raccomanda a Decenzio di stare attento alla confessione del penitente, al suo pianto e alle sue lacrime. 68
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— certamente hanno dedicato minore attenzione al pianto71 rispetto al riso72. E nessuno di questi studi mi sembra che si sia occupato di questa ‘strana’ condizione nella quale l’istintività naturale del pianto si trova sul crinale che la divide dalla sua rappresentazione teatrale. Parafrasando Foucault ci potremmo chiedere: da dove viene e che altro è questa «strana e singolare» richiesta del potere di avere la prova di un dolore che si scioglia in pianto e che deve essere vissuto, e a lungo, e in una dimensione pubblica, se non una rappresentazione? In essa, la richiesta di insistere sulla forza di un’emozione, così prolungata nel tempo, comporta necessariamente il derubricarsi di ogni pur possibile iniziale stato emotivo verso una retorica espressione del linguaggio del corpo relativo al dolore e al pentimento73. In tal senso, la penitenza antica, che è penitenza pubblica e dunque necessariamente correlata a manifestazioni di un linguaggio corporeo e visibile, non può prescindere dal carattere della teatralità. E tanto più è regolamentata, impostata e conformata nei suoi riti e nelle apparenze dell’abito, della capigliatura e del portamento, tanto più pone problemi. In altri termini, psicanalisi, psicologia, antropologia filosofica, dimostrano che il pianto esprime una manifestazione del corpo assolutamente istintiva e individuale, incoercibile e insopprimibile, vi entrano in gioco emozioni insondabili. Meno legato alla dimensione relazionale del riso, esso rappresenta il confine e il contatto tra il mondo e l’individuo entro il quale nessuno può entrare. E, dunque, di fronte a testi normativi che impongono un’esperienza fisica ed emozionale dalla squisita dimensione e natura intimamente personale ci troviamo più che mai di fronte all’ennesimo problema di dare una spiegazione al complesso intreccio di relazioni tra l’individuo, in quanto coscienza, il suo corpo e il potere. D’altra parte, per quanto altre scienze umane possano rinviare l’esperienza del pianto a manifestazioni psico-fisiche, nulla è al di fuori della storia e della cultura, in quanto complesso di dati storicamente 71
Cfr. T. LUTZ, Storia delle lacrime. Aspetti naturali e culturali del pianto, 2002. Cfr., da ultimo, C. MAZZUCCO (cur.), Riso e comicità nel cristianesimo antico. Atti del convengo di Torino, 14-16 febbraio 2005 e altri studi, Alessandria 2007. 73 SARDELLA, Il corpo come linguaggio, cit. 72
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condizionati. E da Israele alla Grecia fino al sud Italia di qualche decennio fa74, tutta l’area del Mediterraneo conosce il carattere spettacolare del lamento di dolore individuale e del lamento funebre anche collettivo, dove è evidente che l’esperienza istintiva e personale del dolore nel pianto è incanalata in un linguaggio del corpo corrispondente a una specifica forma di comunicazione. E, nella gran parte dei casi, struttura istituzionale e tecnica del lamento plasmano secondo un codice di comunicazione sociale, che coinvolge il corpo nei gesti e nei suoni verbali, l’esperienza di dolore del singolo individuo: così Achille ed Ecuba rappresentano esperienze di pianto diverse dal lamento funebre delle donne lucane, che rinvia a una presenza rituale, indefinita, monotona, con l’iterazione dei modelli culturali di comportamento. Nel cristianesimo, anche il dolore legato alla colpa commessa conosce la teatralità dei comportamenti afflittivi del penitente75. Ma, la penitenza codificata dai testi normativi del IV secolo, va oltre. Essa attua già forme di quantificazione che mettono in rapporto il tipo di colpa e l’espiazione imponendo un’esperienza corporea — quella del pianto — che per sua natura richiama manifestazioni fisio-psicologiche complesse. Forme e tempi imposti piegano inevitabilmente questa esperienza a tecnica di un linguaggio corporeo di forma certo nota, ma di significato inedito. Il pianto di dolore è esperienza che aveva già una lunga storia nei secoli del cristianesimo antico, ed esso rappresenta uno dei tanti modi di comunicazione codificati socialmente e storicamente nei quali prende forma ogni sistema espressivo. Ma, ordinare di piangere per dimostrare il pentimento è ben altra cosa. Questo è modificare dall’alto un sistema di comunicazione. Il pianto imposto al penitente, codificato a livello normativo — e per di più a tempo e veicolato come strumento di salvezza — è un corto circuito nel sistema di comunicazione tra l’individuo e il potere. Le lacrime, in quanto esperienza individuale sono per Southwell, in Saint Marie Magdalens Funeral Teares, «avvocati o oratrici, aiutano ad avere ragione», e funzionano, dunque, 74
Cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1958. Cfr. Lc 7, 38. Da non dimenticare poi il caso dell’imperatore Teodosio che piange la sua colpa davanti al vescovo Ambrogio. 75
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come naturale strumento corporeo di persuasione. In quanto all’interno di un sistema di costrizione e umiliazione sul corpo e attraverso il corpo, sistema che, peraltro, ogni potere conosce, falsano questo linguaggio corporeo, piegano la naturalità espressiva e di comunicazione di un’emozione, la ingabbiano e la trasformano, per così dire, in pura tecnica ‘retorica’ al servizio del potere ecclesiastico, in un nuovo e inedito strumento per piegare le coscienze, superando i confini dello spazio e della dimensione individuali del corpo.
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IL CORPO NELL’ULTIMO AGOSTINO: IL DE NUPTIIS ET CONCUPISCENTIA. IN DIALOGO CON PETER BROWN
FRANCESCO ALEO*
PREMESSA Parlare del corpo e dell’esperienza religiosa nel cristianesimo antico significa, inevitabilmente, operare un confronto con la cultura greco-romana con la quale il cristianesimo venne in contatto e con quella giudaica da cui proveniva. Due culture, come quella grecoromana di matrice ellenistica di età imperiale e quella giudaica postesilica e sinagogale, esprimenti due diverse esperienze religiose che erano, essenzialmente, cultuali. Quella greco-romana si fondava sulla difesa e la conservazione del mos maiorum o del pàtrios nòmos nonché nel perfetto compimento dei sacrifici accompagnati da riti apotropaici e di purificazione; quella giudaica, sul culto della Toràh ovvero la Legge mosaica, con tutta la casistica e la precettistica sviluppata dalla tradizione e dalle scuole rabbiniche — destinata a continuare dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C. e durante la Diaspora — avvalentesi ancora, negli ultimi anni del Tempio di Gerusalemme, del culto e della liturgia sacrificali1. Non *
Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Riguardo alle espressioni della fede cristiana nella Chiesa primitiva ed alle forme con cui si esprimeva la religiosità antica, si rinvia a P. STOCKMEIER, Fede e religione nella chiesa primitiva, Brescia 1976, Cap. I, 24-34. 1
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sbaglieremmo di molto, dicendo dunque che, fondamentalmente, nell’osservanza delle norme e delle tradizioni della Res publica, della Polis e della Toràh, poi nel culto sacrificale, esercitato nel compimento dei sacrifici pagani, nei templi greci e romani o nel Tempio di Gerusalemme prima, come nella liturgia sinagogale dopo, si collocasse l’esperienza religiosa e la religiosità dell’antichità precristiana, giudaica e greco-romana2. Il cristianesimo, in particolare quello antico, mostra la sua novità e, per così dire, compie e manifesta la sua rivoluzione religiosa, nel fatto che è il corpo di Cristo morto e risorto ad essere il nuovo e vero Tempio destinato a soppiantare il Tempio di Gerusalemme e tutti gli altri3. L’Epistola agli Ebrei, riferentesi all’offerta sacrificale del Figlio, morto una volta per tutte per rimettere i peccati dell’umanità, cita il Salmo 40 (39 nella LXX) al v. 7. Al termine otìa, «orecchi» del testo greco della LXX, l’autore di Eb 10,5 preferisce il termine sòma. In luogo di «orecchi mi hai dato» della LXX, l’Epistola agli Ebrei preferisce così leggere: «un corpo mi hai dato»4. Nella lettura teologica dell’Epistola agli Ebrei, composta probabilmente ad Alessandria nel I secolo, il suo autore comprende dunque il corpo come il mezzo attraverso cui il Figlio compie la volontà del Padre, nel mondo e fra gli uomini. Il corpo di Cristo, nel pensiero dell’Apostolo Paolo, diventa la comunità dei suoi discepoli, quindi la Chiesa, come il nuovo e vero luogo del culto e dell’esperienza religiosa del cristianesimo dei secoli successivi5. Il corpo di Cristo, Sommo Sacerdote, nel quale vittima ed offerta s’identificano, con la sua vita umana e con la sua vicenda umana, narrata nei Vangeli, 2
In merito alla differenza cristiana rispetto ai pagani ed ai giudei, posta proprio nel culto, si rinvia ad un testo del cristianesimo antico, rimasto anonimo, databile al II secolo, l’Epistola ad Diognetum, 2-3. Vedi A Diognéte. Introduction, traduction et notes par H.I. MARROU, Paris 1965, 52-60 (Sources Chrétiennes 33 bis) ed A Diogneto. Introduzione, traduzione e note di E. NORELLI, Paoline, Milano 1991, 79-85, per la versione italiana, in particolare, cfr. Introduzione, 45. 3 Cfr. Gv 4,21: «… né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre.»; e Gv 2,19, in particolare al v. 21: «Ma egli parlava del tempio del suo (touÍ swÍmatoj) corpo.». 4 Sal 39,7 (LXX): … w)ti/a de\ kathrti/sw moi … ; Eb 10,5: … swÍma de\ kathrti/sw moi … . 5 Cfr. Rm 12,12.27; Ef 4,16; Col 1,24.
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Il corpo nell’ultimo Agostino: il De nuptiis et concupiscentia
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è dunque il luogo, non soltanto il mezzo o lo strumento di una nuova esperienza religiosa, quella della remissione dei peccati e della redenzione, in vista di un’esistenza umana rinnovata, d’amore e di comunione con il Padre e con i fratelli, nel proprio corpo. Per dirla con le parole dell’Apostolo delle genti, è un «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente; … è questo il vostro culto razionale.»6. L’esperienza della purificazione dai peccati, percepita dunque nell’antichità, sia dai pagani che dai giudei e realizzata sia dagli uni che dagli altri, nelle modalità e nei termini cultuali cui abbiamo accennato, si perfeziona e si compie nella Nuova Alleanza, nella redenzione «mediante il corpo di Cristo»7. Per cui, il corpo dei credenti diventa il nuovo tempio ed il luogo in cui si compie il culto, un culto nuovo o «spirituale». Sempre Paolo esorterà i corinzi a glorificare Dio nel loro corpo8; la glorificazione di Dio, attraverso la mediazione del corpo di Cristo, esprimentesi in una vita nuova, diventa, allora, una vera e propria esperienza religiosa, nota nei secoli successivi come la conversione o la metànoia9. INTRODUZIONE Parlare del corpo nell’ultimo Agostino non è facile. Proprio il corpo ha suscitato l’attenzione della sua riflessione teologica lungo tutto l’arco della sua esistenza. I termini e le espressioni cui Agostino fa ricorso nella controversia pelagiana che assorbì quasi tutti gli ultimi vent’anni della sua vita, nonché tutta la dottrina agostiniana del Peccato originale pongono direttamente il corpo nell’agone di dibattiti appassionati con il monaco britanno Pelagio ed il vescovo di 6 Cfr. Rm 12,1: … ta\ sw/mata u(mwÍn … . Abbiamo preferito tradurre il greco logikh/n con «razionale» più letterale, per evidenziare, ai fini della ricerca nel presente contributo, l’apporto del nouÍj o della «mente» nella vita logikh/ dell’uomo
redento. 7 Cfr. Rm 7,4: … dia\ touÍ sw/matoj xristouÍ … ; Col 1,22; 2,17. 8 Cfr. ICor 6,19-20. In particolare, al v. 20b: doca/sate dh\ to\n qeo\n e)n t%Í sw/mati u(mwÍn. 9 Si rinvia a A.D. NOCK, La conversione, Roma-Bari 1985; F. Parente, L’idea di conversione da Nock ad oggi, in Augustinianum 27 (1987) 539-558 e l’intero numero di Augustinianum 27 (1987).
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Eclano Giuliano, dal 414 fino al 429. Espressioni molto forti e dichiarazioni nette di Agostino, nei toni arroventati della polemica anti-pelagiana, hanno indotto i critici di ogni tempo a parlare di un Agostino fondamentalmente neoplatonico che non rinunciò, tutto sommato, al suo retaggio filosofico, esprimentesi, nell’ultima fase della sua produzione teologica, in un giudizio negativo sul corpo. Tuttavia, sebbene i testi agostiniani della polemica anti-pelagiana siano da considerare anche nella loro struttura e nel loro impianto retorici, è innegabile l’influsso del neoplatonismo sul vescovo d’Ippona10. Intorno al 430, ultimo anno della sua vita, apprendendo delle devastazioni arrecate dai barbari vandali nella provincia d’Africa, la sua terra, soleva dire: «Non sarà grande chi considera un atto grande la caduta degli alberi e delle pietre e la morte dei mortali.»11. «Quel tal saggio» o cuiusdam sapientis di cui Possidio di Calama, autore della Vita Augustini, non cita volutamente il nome, altri non è che Plotino, in un passo delle sue Enneadi12. Eppure, sembra troppo scontato e banale avvalorare una prima impressione anche se esiste il riscontro nelle fonti e negli scritti dell’ipponate. Leggere ed analizzare i suoi testi si rende allora necessario per esprimere su di essi verificate considerazioni sul corpo nell’ultimo Agostino. Abbiamo scelto per il presente, modesto contributo, di trattare proprio di una delle ultime opere di Agostino d’Ippona, il De nuptiis et concupiscentia, convinti che una ricerca seria e criticamente fondata debba essere condotta sui testi degli autori che si vogliono veramente conoscere ed apprezzare. Non paghi di questo, 10 La bibliografia su questo problema è davvero sterminata; per quanto attiene al presente contributo, soltanto rinviamo a N. CIPRIANI, Una teoria neoplatonica alla base dell’etica sessuale di S. Agostino, in Augustinianum 14 (1974) 351-361. 11 Possidio, Vita Sancti Aureli Augustini, 28,11. Introduzione, traduzione e note di A. LOMBARDI, Roma 2010, 58-59: Et se inter haec mala cuiusdam sapientis sententia consolabatur, dicentis: “Non erit magnus magnum putans, quod cadunt ligna et lapides, et moriuntur mortales. 12 P. BROWN, Agostino d’Ippona, Torino 20052, 437: «Quel “certo saggio”, naturalmente, non era altri che Plotino. Agostino, il vescovo cattolico, si ritirerà nel suo letto di morte pronunciando le parole di un orgoglioso saggio pagano.». L’acuta osservazione di Brown si pone nel quadro che egli tratteggia della vita dell’ipponate e nella notazione delle sue contraddizioni e della complessità del suo carattere.
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Il corpo nell’ultimo Agostino: il De nuptiis et concupiscentia
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riporteremo, non senza discuterla, l’opinione di un insigne studioso del cristianesimo antico qual è Peter Brown che ha posto la sua attenzione sul corpo e sulla sessualità negli scritti dell’ultimo Agostino. Inoltre, lo stesso studioso si è occupato in un suo celebre studio, proprio della percezione del corpo e della trasformazione di questa percezione, nel passaggio dalla tarda antichità al cristianesimo nella società antica greco-romana di età imperiale13. 1. IL DE NUPTIIS ET CONCUPISCENTIA Il De nuptiis et concupiscentia fu redatto in due libri tra il 418 ed il 419; il secondo libro fu aggiunto al primo nel 419. Quest’opera fu composta da Agostino nel vivo della controversia pelagiana e della lunga disputa con Giovanni di Eclano. Il primo libro, in realtà, è una lunga Epistola, inviata e fatta pervenire da Agostino al comes Valerio, un personaggio non meglio identificato, certamente un importante funzionario della corte imperiale di Ravenna. Le opinioni di Peter Brown vanno verificate sui testi di Agostino e questi, analizzati nella loro letteralità ed integrità, evidenziano, certamente, una certa originalità nell’interpretazione delle fonti e dei testi, riguardanti l’ultimo Agostino da parte di Brown. Nel Libro I, la lunga Epistola inserita nel De nuptiis et concupiscentia, esiste un brano significativo che rende bene l’opinione dell’ultimo Agostino intorno al corpo ed alla sessualità. Riferendosi al Peccato originale di Adamo ed alla trasgressione del comando divino, Agostino afferma che: «Non sarebbe stato giusto che colui che aveva disubbidito al proprio Signore fosse ubbidito dal proprio servo, cioè dal corpo. Come spiegare, infatti, che allorquando abbiamo un corpo libero da impedimenti e in salute, è in nostro potere muovere gli occhi, le labbra, la lingua, le mani, i piedi, piegare il dorso, il corpo e i fianchi secondo le funzioni di ciascun
13
Si rinvia a P. BROWN, Religione e società nell’età di Sant’Agostino, Torino 1975, oltre che al suo, già menzionato, Agostino d’Ippona, Torino 20052, ed a Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino 1992, questi ultimi due ampiamente citati nel corso del presente contributo.
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Francesco Aleo membro, mentre quando si tratta della procreazione dei figli, le membra create a questo scopo non ubbidiscono al comando della volontà?»14.
Ammettendo che è sempre rischioso estrapolare un testo dall’opera nel suo insieme, l’argomentazione di Agostino cerca di spiegare — e forse per noi moderni non riesce a farlo del tutto — il fatto che non abbiamo un controllo totale e completo del nostro corpo in tutte le circostanze. La procreazione dei figli non dipende dalla volontà; l’esperienza insegna, infatti, che l’atto sessuale non è comandato dalla volontà ma dalla libido. Occorre notare come Agostino, originalmente, cala, nel corpo del primo uomo, il rapporto che unisce il padrone allo schiavo, il dominus al suo servus, cosicché quest’ultimo è il corpo, servus di colui che ha compiuto la trasgressione. Poiché questi in Adamo non ha ubbidito al suo Signore o Dominus che lo ha creato, è ben giusto, secondo Agostino, che la sua ribellione si propaghi e continui nel suo proprio corpo. Possiamo così osservare come l’ultimo Agostino, in quest’opera “somatizzi” ossia cali la relazione padrone-schiavo o dominus-servus nel corpo di Adamo, il capostipite del genere umano ed il primo trasgressore15. La trasgressione dell’ “Io” di Adamo o la sua volontà contraria e la sua ribellione al Dominus, suo creatore, autorizzerebbero il corpo a compiere la sua trasgressione e la sua ribellione all’Uomo, nel quale abita. Cosicché, per causa del peccato originale di Adamo, la sua trasgressione passa nel suo stesso corpo; quest’ultimo, allora, non è più servus, ma vuol essere dominus, incontrollabile e senza freno alla volontà dell’uomo, 14
AGOSTINO D’IPPONA, De nuptiis et concupiscentia, 6,7, in Opere di Sant’Agostino. Matrimonio e verginità, Introduzione, traduzione e note di N. CIPRIANI, Roma 1978, 408-409: Iniustum enim erat, ut obtemperaretur a servo suo, id est a corpore suo ei qui non obtemperarat Domino suo. Nam quid est, qiod oculi, labia, lingua, manus, pedes, inflexiones dorsi, cervicis et laterum, ut ad opera sibi congrua moveantur, positum in potestate est, quando ab impedimentis corpus liberum habemus et sanum; ubi ventum fuerit, ut filii seminentur, ad voluntatis nutum membra in hoc opus creata non serviunt, …. 15 Si potrebbe osservare che qui Agostino ignori il rapporto uomo-donna, in realtà, preferiamo pensare che nel testo sia soggiacente l’esegesi agostiniana di Gen 2,22-24, per cui Eva, la prima donna, tratta dalla costola di Adamo, è nel suo stesso corpo «carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa.».
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Il corpo nell’ultimo Agostino: il De nuptiis et concupiscentia
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il quale, così, non riesce più a controllare il suo corpo, creato da Dio. Brown attribuisce al disordine del corpo secondo Agostino, il compiersi di una punizione da parte di Dio per la disobbedienza di Adamo, ma è un dato che non si evince dal testo appena considerato e dal testo seguente. Si chiede ancora Agostino: «Non dovrebbe di questo arrossire la libertà dell’arbitrio umano, per aver perduto il dominio anche sulle proprie membra a causa del disprezzo del comando di Dio?»16.
Trasgredendo il comando di Dio, l’uomo è andato contro sé stesso: la ribellione della sua volontà a Dio ha sconvolto l’ordine del disegno divino nelle creature. Nel De nuptiis et concupiscentia, il disordine delle membra nel corpo e l’incontrollabilità della sua libido sono l’effetto del disordine introdotto dall’uomo nell’ordine divino della creazione e delle creature. La ribellione contro Dio da parte dell’Uomo è in realtà una ribellione ed una rivolta contro sé stesso. La conseguenza della trasgressione del primo Uomo e della sua ribellione a Dio è la ribellione del suo corpo ai comandi della volontà dell’uomo. Infatti, nel De nuptiis et concupiscentia troviamo: «Si deve invece attendere che la libidine, come se fosse indipendente, le ecciti (le membra): cosa che talvolta non fa, benché l’animo lo desideri, mentre tal’altra fa nonostante l’opposizione dell’animo.»17.
La libido nell’uomo manifesta il disturbo esistente nel suo corpo; più esattamente, la libido è il disturbo, percepito come desiderio irrefrenabile ed incontrollabile da parte dell’uomo caduto. In conclusione, la libertas liberi arbitrii ovvero il libero arbitrio dell’uomo ha perduto, dopo il Peccato originale, il controllo sul corpo o in membra propria 16 AGOSTINO D’IPPONA, De nuptiis et concupiscentia, 6,7,408-409: Hincine non erubesceret humani libertas arbitrii, quod contemnendo imperantem Deum etiam in membra propria proprium perdidisset imperium? 17 ID., De nuptiis et concupiscentia, 6,7,408-409: sed exspectatur, ut ea velut sui iuris libido commoveat, et aliquando non facit animo volente, cum aliquando faciat et nolente.
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proprium perdidisset imperium. Si potrebbe evincere dal testo riportato sopra — come fece notare lo stesso Giuliano di Eclano, nella controversia pelagiana — un acuto senso di disillusione e di sfiducia da parte di Agostino, nelle capacità umane di relazionarsi correttamente con il proprio corpo. In realtà, la sfiducia di Agostino non è verso il corpo in quanto tale ma è verso la carne che con la sua legge inabita nel corpo e non permette all’anima ed alla mente di controllarne le pulsioni sessuali che ne muovono ed agitano scompostamente le membra. Al riguardo, Peter Brown si rende conto che Agostino è giunto sulla soglia dell’ingresso verso una nuova percezione del corpo, una nuova epoca storica ed una nuova civiltà: il Medioevo18. Quella agostiniana può esprimersi più chiaramente come nuova e diversa percezione del rapporto del sé con il proprio corpo. Nel suo libro Agostino d’Ippona, nel capitolo dedicato a Giovanni di Eclano, Brown afferma: «Agostino viveva in un’età ascetica, nella quale l’uomo sensibile si sentiva umiliato dal proprio corpo»19; egli, in realtà, riprende quest’affermazione da Dodds e dal suo Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia20. Inoltre, nota come, per l’ipponate, «L’appetito sessuale, come gli uomini ne fanno oggi esperienza, era una punizione.»21. Quest’affermazione esprime una sentenza dalla durezza forse eccessiva nei riguardi di Agostino. In realtà, nel De nuptiis et concupiscentia, Agostino afferma che: «L’anima e il corpo, infatti, come ogni altro bene inerente per natura all’anima e al corpo, anche quando si trovano nei peccatori, sono doni di Dio, proprio perché ne è Dio l’autore e non essi.»22. 18 Vedi BROWN, Agostino d’Ippona, 375: «Qualunque fosse stata la consapevolezza del movimento pelagiano di essere un movimento cristiano, esso era, tuttavia, solidamente radicato nella base granitica dei vecchi ideali etici del paganesimo, specialmente nello stoicismo.». L’autore riconosce quindi la presenza nel movimento di Pelagio di contenuti estranei al cristianesimo. 19 Ibid., 393. 20 Ibid., 403, n. 63. 21 Ibid., 393. 22 AGOSTINO D’IPPONA, De nuptiis et concupiscentia, 3,4, 402-403: Anima enim et corpus et quaecumque bona animae et corporis naturaliter insita, etiam in peccatoribus dona Dei sunt; quoniam Deus, non ipsi ista fecerunt.
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In quanto doni di Dio, Agostino non ricorda soltanto il valore positivo del corpo, ma anche il fatto, incontestabile, che l’uomo deve rispondere dell’orientamento dell’anima e dell’uso del corpo a Dio solo e non può fingere una continenza in cui non crede. Per Agostino, dunque, con la continenza, si può usare castamente del proprio corpo, ma per altri motivi, non per obbedire o per piacere a Dio. Vivere la continenza per un peccatore può non essere attestazione di virtù o di fede in Dio, ma può equivalere a «vincere il peccato con un altro peccato»23. Il peccatore, infatti, può praticare la continenza coniugale ed osservare la fedeltà verso la propria moglie pur senza credervi e non avendo fede in Dio, ma per piacere a sé stesso oppure ad altri od ancora, per non avere molestie come conseguenza dei propri atti peccaminosi. La sentenza di Brown sull’atteggiamento di Agostino verso il corpo e la sessualità fino a condannare la libido va allora compresa o ridiscussa entro quest’appello forte di Agostino alla responsabilità, contenuto nel De nuptiis et concupiscentia. La libido e la conseguente impossibilità da parte dell’uomo caduto di controllare e di dominare il suo corpo non sono semplicemente la punizione seguita al Peccato Originale. Brown applica al regime dell’uomo caduto la spiegazione di causa ed effetto che è assente nella trattazione e nella riflessione di Agostino. Il corpo e la sessualità per Agostino sono doni di Dio, di cui l’uomo deve saper usare bene e con attenzione, dal momento che le sue facoltà di discernimento e la sua attitudine alla virtù sono state fortemente indebolite, a motivo del Peccato originale. L’anima, allora, intimamente legata al suo corpo, esprime questo rapporto intimo del sé con il proprio corpo che l’ultimo Agostino intuisce essenziale per vivere la continenza. Quello che suscita in Brown una certa resistenza, fin quasi a manifestare una leggera avversione nei confronti dell’ipponate è il dato dell’infirmitas, della debolezza della carne. Ovviamente lo studioso anglosassone compie tutto questo nel rispetto delle fonti, dei testi, ma soprattutto, di Agostino per tutto ciò che il vescovo d’Ippona rappresenta per la cultura cristiana ed occidentale. Brown è senz’altro nel vero, quando individua, forse polemicamente, nell’ultimo Agostino, una nuova 23
Ibid., «sed aliis peccatis alia peccata vincuntur».
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sensibilità verso il corpo ed una percezione del rapporto del sé con il proprio corpo che spalanca le porte del Medioevo. Nel De nuptiis et concupiscentia, Agostino, commentando Rm 7,1824, precisa: «Qui è stata chiamata carne dove c’è una certa disposizione morbosa della carne non la struttura stessa del corpo, le cui membra non devono essere offerte come strumenti al peccato, cioè alla stessa concupiscenza che tiene prigioniera questa parte carnale del nostro essere.»25.
Il morbidus affectus carnis ovvero la morbida sensualità dell’intimità con la propria carne induce il corpo a far peccare l’uomo. È la sua parte carnale che muove le membra a peccare, obbedendo alla legge della carne e non a quella dello Spirito. Questa legge della carne si percepisce in noi nella concupiscentia, quel desiderio che ci porta verso la carne o meglio la «parte carnale» del nostro corpo e verso la «parte carnale» degli altri corpi. Nella conformatio del corpo volta al bene esiste allora la carne che con la sua influenza e la sua legge provoca un disturbo che è la libido, la quale genera la concupiscentia. Il corpo, allora, è prigioniero della carne, precisamente, la carne, per via di quell’affectus carnis che esprime una precisa percezione del rapporto del sé con il proprio corpo, prende il sopravvento nella conformatio corporis. La percezione di questo prevalere del “carnale” consiste in un disturbo od una ribellione che muove le membra del corpo a commettere atti peccaminosi;26 il Peccato originale ha indebolito ed indebolisce la conformatio corporis ovvero la struttura del corpo. Soltanto la grazia può colmare il vuoto lasciatoci dal Peccato originale, sanare la nostra fragilità creaturale e tornare, in un certo qual modo, all’armonia originale dell’unione dell’anima con il corpo o del sé con il proprio corpo, prima della Caduta. Poiché 24 Rm 7,18: «So infatti che non abita in me, cioè nella mia carne, il bene: poiché volere è a mia portata, ma compiere il bene, no.». 25 AGOSTINO D’IPPONA, De nuptiis et concupiscentia, 31,35, 444-445: Carnem autem nunc appellavit, ubi est morbidus quidam carnis affectus, non ipsam corporis conformationem, cuius membra non adhibenda suntarma peccato, id est eidem ipsi concupiscentiae, quae hoc carnale nostrum captivum tenet. 26 ID., De nuptiis et concupiscentia, 6,7,408-409: … motum ideo indecentem, quia inobedientem … .
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«la grazia non viene corrisposta come fosse dovuta secondo i meriti di chi la riceve, ma, come una vera grazia, viene data gratuitamente senza alcun merito precedente.»27.
2. IN DIALOGO CON PETER BROWN Vorremmo ora tentare un’ampia riflessione sulla scorta delle nostre considerazioni sul problema del corpo nell’ultimo Agostino, in particolare nel De nuptiis et concupiscentia, che assuma come suo interlocutore e possibile interprete proprio Peter Brown. Questi è indubbiamente uno dei massimi studiosi del cristianesimo antico nonché uno dei più apprezzati studiosi della tarda antichità. Ai fini della nostra ricerca, per questo presente contributo, ci sembra opportuno rilevare una considerazione del grande studioso anglosassone, il quale afferma che: «Per molti lettori la Chiesa delle origini riveste ancora un interesse emotivo anziché scientifico. Con estrema facilità le si attribuiscono immagini stereotipate, piene di forzature sia in senso idillico sia in senso drammatico.»28.
Nella sua opera Il corpo e la società, Brown insiste, giustamente, sulla necessità di restituire agli uomini del nostro tempo il carattere peculiare della problematica inerente la sessualità, la relazione tra uomo e donna, quindi il corpo, nella Chiesa delle origini e nel cristianesimo antico. In che modo le donne e gli uomini dell’antichità e della tarda antichità e nel cristianesimo antico vivessero il loro corpo, precisamente, il rapporto tra la mente ed il corpo nell’antichità precristiana e cristiana, è l’argomento di questo importante ed interessante studio che è stato di recente riedito29. In realtà, l’obiettivo di Brown, come 27 ID., De dono perseverantiae, 24,66, in Opere di Sant’Agostino. Grazia e libertà. Introduzione e note di A. Trapé, traduzione di M. Palmieri, Roma 1987, 398-399: eamque non secundum merita accipientium tamquam debitam reddi, sed tamquam veram gratiam nullis meritis praecedentibus gratis dari. 28 P. BROWN, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino 1992, Prefazione, XVII. 29 ID., Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino 20102, con una Nuova introduzione dell’autore, alle pp. XV-LXIII.
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riconosce lo stesso autore, rischia di non poter essere del tutto raggiunto ed anzi appare essere, in alcuni casi, inconsistente e quasi evanescente30. Senonché, il corpo con la mente sono luogo indubbiamente di relazioni con il proprio sé, con il proprio corpo, con il cosmo, quindi con altri corpi ed altre menti, soggetti di relazioni e di rapporti, ovviamente all’interno di società e di culture diverse che mutano i loro elementi caratteristici nel corso del tempo e delle epoche storiche. Ancora, lo studioso anglosassone afferma che: «L’ascesa del cristianesimo nel mondo romano non può certo essere vista come il passaggio da una società meno repressiva a una più repressiva, ma piuttosto come il prodotto di un sottile cambiamento nella concezione del corpo.»31.
Dalla lettura de Il corpo e la società ci si accorge che vi è confluita una ricca documentazione di fonti e di studi, grazie alla quale, sia il lettore accorto che lo studioso navigato possono rendersi conto che muta la percezione del corpo nel passaggio dall’antichità al cristianesimo, ma muta soprattutto la percezione del corpo da parte di soggetti in relazione tra loro, quali l’uomo e la donna, all’interno di relazioni e rapporti sociali e culturali. Pur riconoscendo che l’angolo visuale di qualsiasi studioso è pur sempre limitato, in ordine alla nostra rifles30 Lo stesso potrebbe dirsi di un altro importante studio sul cristianesimo antico, di recente apparso, quello di G. THEISSEN, Vissuti e comportamenti dei primi cristiani. Una psicologia del cristianesimo delle origini, Brescia 2010, dove, secondo l’intenzione dell’autore, i moderni studi di Psicologia e della Psicologia del profondo, dovrebbero rivolgersi ai testi neotestamentari, all’insegna di un approccio nuovo alle fonti del cristianesimo antico, vedi Introduzione. Problematica e metodica di una psicologia della religione cristiana delle origini, 9-46. Lo studio di Theissen è però pionieristico e le sue considerazioni, talvolta, rischiano di essere soggette ad interpretazioni, non supportate sufficientemente dai testi, si veda per esempio, il Capitolo I dal titolo Corpo e anima. L’invenzione dell’uomo interiore nell’antichità e il suo rinnovamento nel cristianesimo delle origini, 47-115, in particolare a p. 90. Ben diverso è il caso, invece, dello studio di A. GRAFTON-M. WILLIAMS, Come il cristianesimo ha trasformato il libro, Roma 2011, dedicato proprio a Peter Brown (cfr. p. 236), in cui, mediante un approccio inedito all’inculturazione del cristianesimo nell’antichità ellenistica e romana, gli autori gettano una luce nuova sull’opera di Orìgene d’Alessandria e di Eusebio di Cesarea. 31 P. BROWN, Il corpo e la società, 24.
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sione sulla percezione del corpo e sul rapporto tra il corpo e il sé dell’individuo, calato nella storia e nella società del suo tempo, ci pare interessante tener conto in questo contributo, della prospettiva che emerge dagli studi di Peter Brown, precisamente, ne Il corpo e la società edito per la prima volta nel 1988 e riedito in Italia con una nuova Introduzione, nel 2010 ed in Agostino d’Ippona, apparso per la prima volta nel 1967 e riedito in Italia in una nuova edizione ampliata nel 2005. 3. CORPI DI UOMINI, DI DONNE E DI SCHIAVI All’inizio de Il corpo e la società, Brown osserva come quella esistente tra i padroni ed i loro schiavi è una delle complesse relazioni tra soggetti, tra corpi e tra menti, esistente nell’antichità precristiana e poi nel cristianesimo antico. Corpi e menti di padroni e di schiavi si trovano esposti agli effetti di condizioni e di condizionamenti sociali, economici, politici e culturali diversi, nei quali sono nati e si trovano a vivere. Il limite di questo studio, come d’altra parte lo stesso autore riconosce, consiste nel disporre di documenti attestanti comportamenti e codici di comportamento nella morale sessuale, appartenenti soltanto alle classi elevate e dominanti della società romana, in periodo alto imperiale e tardo imperiale32. Nota Brown, come, per le classi elevate, la nudità del proprio corpo era esibita senza alcuna vergogna davanti agli inferiori. Per un’aristocratica era normale spogliarsi davanti al suo seguito di uomini e donne33. Santa Melania la Giovane, nel V secolo, in un Impero ormai ufficialmente cristiano, avvertirà un brivido attribuito alla tentazione diabolica, quando si sorprenderà intenta a pensare alla grande piscina della propria elegante villa siciliana, posta tra i boschi ed il mare, nella quale doveva a lungo indugiare, ammirando i pescatori sulle loro barche in mare ed i cacciatori nella selva34. Muta, quindi, con il cristianesimo, la perce32
Ibid., 8. Ibid., 286. 34 Vie de Sainte Mélanie, 18. Texte grec. Introduction, traduction et notes par D. GORCE, Paris 1962 (Sources Chrétiennes, 90), 162-163. 33
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zione del sé e della relazione con il proprio corpo ed è innegabile che questa continui a mutare nel medioevo ed in età moderna. Una delle immagini stereotipate dell’antichità, recepita a tratti dalla modernità, per quanto riguarda la morale sessuale, è stata suscitata e tenuta viva dalla lettura e dal commento di testi celebri della letteratura latina d’età imperiale, quali le Satirae di Marziale e quelle di Giovenale, tra il I ed il II secolo d.C., ma anche il Satyricon di Petronio, del I secolo d.C.. In questi testi, l’immagine di una società precristiana priva di inibizioni e di tabù sessuali si cristallizza e viene avvalorata proprio dall’uso apparentemente disinibito del proprio corpo da parte di uomini e donne, nelle relazioni e nei rapporti sessuali. A ben guardare, però, il genere della Satira è lo strumento e l’occasione per Marziale e Giovenale di ostentare il proprio austero moralismo come una bandiera, agitata da un’elite provinciale che aspira al primato politico e sociale nella capitale dell’Impero. Il leit motiv del buon tempo antico e la deprecazione dei costumi corrotti dell’Urbe nascondono, talvolta, un intento pretestuoso35. Il genere letterario della Satira si prefiggeva lo scopo di esortare i membri dell’aristocrazia ad occuparsi di problemi ben più gravi, riguardanti il governo o la gestione della propria familia. Proprio entro il rapporto che unisce i padroni o domini ai loro schiavi o servi, può essere individuata una nota comune alle Satirae di Marziale e di Giovenale ed al Satyricon di Petronio. Questi autori dell’antichità, appartenenti sia pur a diverso grado, alla civilitas dell’Impero Romano dei primi due secoli della sua storia, si trovano concordi nel mettere in evidenza il fatto che il corpo degli schiavi è a disposizione soltanto dei loro padroni. Questi, però, non devono assolutamente porli in una condizione diversa da quella in cui sono nati e si trovano. Gli strali dei versi satirici di Marziale e di Giovenale non risparmiano soprattutto le donne e le vedove di alta condizione aristocratica senatoria che intrecciavano relazioni disdicevoli con schiavi oppure con membri del ceto equestre, senza pensare 35
Cfr. BROWN, Il corpo e la società, 18: «Nonostante i loro ovvii limiti, i documenti fin qui esaminati non confortano molto l’opinione fantasiosa e piuttosto comune secondo cui la romanità precristiana era un vero e proprio “eden della disinibizione”.».
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al buon nome della loro Gens e della Res Publica. Nel Satyricon di Petronio, la moglie di Trimalcione, ubriacatasi durante un banchetto, si abbandona alle voglie dei suoi stessi schiavi, poiché rimane sempre una schiava, moglie di uno schiavo anche se affrancato o libertus. L’attenzione ai fenomeni sociali, ai comportamenti ed alla storia delle società umane permette allo studioso anglosassone di non dare per scontata l’inculturazione del cristianesimo nella società alto e tardo imperiale romana36. Il processo d’inculturazione del cristianesimo nella società grecoromana, di matrice ellenistica in età imperiale, non fu perciò una marcia inarrestabile e trionfale, entro una società corrotta e dissoluta di una civiltà decadente. Battute d’arresto, regressi, compromessi, fenomeni di osmosi e di sincretismo religioso e culturale fanno parte allora di un dialogo, avvenuto non senza tensioni e contrasti tra la cultura cristiana insorgente della religio nova e quella avita del mos maiorum37. La prospettiva di Brown, insistente in maniera forse eccessiva sugli aspetti sociali della cristianizzazione dell’Impero romano e sul loro influsso sulla riflessione teologica della Chiesa antica, ha però il merito di essere assai ampia, basandosi su una notevole documentazione, poiché spazia dall’Occidente all’Oriente. Si sofferma, poi, su alcuni ambienti specifici nei quali si diffuse il cristianesimo alle sue origini, quali quelli in cui insorse e fu presente il monachesimo, ad esempio il milieu ascetico siriaco ove sorse l’influenza dell’ “uomo santo”. Vorremmo seguire più da vicino il percorso che lo studioso traccia nel suo libro Il corpo e la società, integrando le sue osservazioni con alcuni testi delle fonti del cristianesimo antico che egli stesso cita e nel contempo porre alcune nostre considerazioni in merito all’aspetto che ci pare interessante rilevare ossia la percezione
36 Ibid., 19: «certe regole adottate dai circoli cristiani non avevano molta presa sui maschi delle classi privilegiate. … . I greci e i Romani benestanti, tutti proprietari di schiavi, possedevano anche il corpo dei loro famigli.». 37 A tal proposito, si rinvia nuovamente a P. BROWN, Il corpo e la società, Torino 20102, Nuova introduzione, XXXI ed a P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Roma-Bari 2004, Premessa, 3-7, in particolare a p. 5, ove s’imposta il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, precisamente come quello tra due corpora.
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del sé con il proprio corpo negli uomini, nelle donne e negli schiavi della tarda antichità e dei primi secoli del Cristianesimo antico. 4. IL CORPUS PAOLINUM Le riflessioni e le osservazioni di Brown hanno un taglio particolare quale quello sociale o sociologico ma anche psicologico con attenzione a tematiche psicanalitiche quale appunto quella della percezione del sé nel proprio corpo. È questo taglio che vogliamo tener presente e sul quale cercare di riflettere, in una rapidissima rassegna di testi del cristianesimo primitivo, tra i quali non possiamo non annoverare gli scritti del Corpus paulinum. Riguardo al corpo ed al nuovo rapporto da instaurare con esso, il Vangelo, nella predicazione di Paolo di Tarso, manifesta la sua novità ed il suo effetto dirompenti nella società antica. Nell’Epistola ai Romani, composta presumibilmente negli anni cinquanta del I secolo, l’Apostolo delle genti ricorda che quanti provenivano dal paganesimo si abbandonassero ad ogni licenza e devianza sessuale «fino all’impurità tanto da disonorare i loro corpi fra loro»38. L’Apostolo si rende conto della presenza di una grande forza che si manifesta, addirittura nelle sue membra, nel suo stesso corpo o soma, attraverso il conflitto con la legge della sua mente o nous; questa confligge con l’altra legge, quella della carne o della sarx, entro il soma; è la legge della sarx che porta quest’ultimo a peccare39. Al punto che Paolo prorompe, provocatorio, nel grido e nella domanda: «Chi mi libererà da questo corpo di morte?». Per Paolo, dunque, il corpo è sede di un’altra legge che si oppone a quella della mente ed allo Spirito di Dio. È la legge della sarx a portare il corpo alla morte e ad opporsi duramente alla legge del nous, tanto da provocare nelle membra del corpo un dissidio interiore, un conflitto ed un’autentica lotta. La dynamis o potenza dello Spirito si oppone allora alla dynamis della carne. Proprio questa dynamis contraria ed avversa dà origine all’oscura legge del peccato e della morte che è anch’essa nel corpo. Rm 1,24b: … ei)j a)kaqarsi/an tou Rm 7,23-25: … eÁteron no/mon e)n toi¤j me/lesi/n mou a)ntistrateuo/menon t%¤ no/m% touÍ noo/j … 38 39
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Le relazioni che la legge della carne pone in atto con il corpo, nel corpo e per mezzo del corpo lo portano quindi al peccato ed alla morte. Invertendo il segno di queste relazioni si manifesta nel corpo la dynamis dello Spirito. Il corpo di Cristo morto e risorto per noi, è proprio il segno della vera vita e della legge dello Spirito che trionfa sulla morte e sulla legge della carne «affinché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»40. Poiché «colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che inabita in voi»41; proprio nelle nuove relazioni rese possibili dal corpo si manifesta la novità della vita in Cristo e nello Spirito e l’ingresso nella Nuova Creazione, tanto che «Non c’è più Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è uomo o donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù.»42. Anche in Paolo, dunque, il mutato rapporto e la diversa relazione con gli schiavi segna l’inizio di un ordine nuovo e di una società nuova; insieme al rapporto uomo-donna, quello dei padroni con i loro schiavi era uno dei caratteri distintivi della società antica di matrice ellenistica dell’Impero greco-romano43. Gli schiavi erano proprietà dei loro padroni. Il loro corpo costituiva il segno della loro condizione, poiché essi non potevano disporne liberamente. Ovviamente, anche nelle comunità paoline, indi nelle prime comunità cristiane, non mancavano motivi di tensione e di contrasto a causa di 40
I Cor 4,10b. Rm 8,11: … ta£ qnhta£ sw/mata … 42 Gal 3,28. 43 Per ulteriori approfondimenti si rinvia alla lettura di P. VEYNE, L’Impero grecoromano. Le radici del mondo globale, Milano 2007; per quanto riguarda il contesto storico e culturale del cristianesimo antico si rinvia a R. PENNA, L’ambiente Storico Culturale delle origini cristiane, Bologna 1991; R.L. WILKEN, I cristiani visti dai romani, Brescia 2007 ed a vari lavori, piuttosto datati, ma pur sempre importanti per le nuove prospettive che hanno dischiuso negli studi sulle origini cristiane: H.I. MARROU, La Chiesa nella civiltà ellenistica e romana, in Concilium VII (1971) 67-82; R. M. GRANT, Cristianesimo primitivo e società, Brescia 1987; P. BROWN, La società ed il sacro nella tarda antichità, Torino 1988; R.L. FOX, Pagani e cristiani, Roma-Bari 1991; G. FILORAMO-S. RODA, Cristianesimo e società antica, Roma-Bari 1992; E.R. DODDS, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze 1997. Sugli schiavi e la schiavitù si rinvia a P.A. MILANI, La schiavitù nel pensiero politico. Dai greci al basso Medio Evo, Milano 1972; J. SCHMIDT, Vie et morts des esclaves dans la Rome antique, Paris 1973; J.F. MAXWELL, Slavery and the Catholic Church. The history of catholic teaching 41
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una inusitata, per quell’epoca, condizione di libertà e d’eguaglianza della donna, tanto da giustificare certe espressioni di Paolo, rivolte alle donne nella comunità di Corinto che lasciano interdetti noi moderni44. 5. TESTIMONIANZE DEL CRISTIANESIMO PRE-NICENO Nella nuova Introduzione alla riedizione del suo Il corpo e la società, Peter Brown è prodigo di chiarimenti ed ulteriori spiegazioni sull’intento e sull’obiettivo che voleva perseguire con quest’opera, quando essa veniva concepita negli ormai lontani anni settanta ed ottanta del XX secolo. Lo studioso anglosassone parla del suo obiettivo di «defamiliarizzare i testi cristiani», affermando che: «Insistendo sul divario temporale, non volevo estraniare completamente quelle voci dal presente, come se fossero prive ormai di qualsiasi interesse accademico, ma ero al contrario convinto, e lo sono tuttora, che quei testi fossero degni del nostro interesse e che avessero una loro storia da raccontare alla nostra società contemporanea — una storia che richiedeva una lenta comprensione.»45.
Senza nulla togliere alla validità dell’analisi di Brown, ma fruendo del suo lavoro come di una guida che funga da battistrada, vorremmo soltanto scorgere, nelle poche testimonianze del cristianesimo preconcerning the moral legitimacy of the institutions of slavery, London 1975. Sulla relazione e sul rapporto tra l’uomo e la donna nella società antica e nelle comunità cristiane si rinvia ai seguenti studi: P.A. GRAMAGLIA, Personificazioni e modelli del femminile nella transizione dalla cultura classica a quella cristiana, in G. GALLI (cur,), Interpretazione e personificazione. Atti del IX colloquio sull’Interpretazione. Università di Macerata, Genova 1988, 17-164; U. MATTIOLI (cur.), La donna nel pensiero cristiano antico, Genova 1992; M. ALEXANDRE, Immagini di donne ai primi tempi della cristianità, in G. DUBY – M. PERROT (cur.), Storia delle donne in Occidente. I L’Antichità, Roma-Bari 1994, 465-513; G. RINALDI, Donne “autonome e innovative”. Le donne cristiane viste dai pagani, in A. VALERIO (cur.), Donna, potere e profezia, Napoli 1995, 97-119. Infine, sul ruolo delle donne, proprio nelle comunità paoline, si rinvia al recente studio di C. OSIEK-M.Y. MACDONALD, Il ruolo delle donne nel cristianesimo delle origini. Indagine sulle chiese domestiche, Cinisello Balsamo (MI) 2007. 44 Per esempio, cfr. I Cor 11,4-6; 14,34-35. 45 BROWN, Il corpo e la società, Torino 20102, XIX.
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niceno, scelte per il presente contributo, quello che ci sembra un tratto importante e significativo emergente dalla sua indagine sul corpo e sul suo rapporto con la società nel cristianesimo antico ovvero la percezione del rapporto del sé con il proprio corpo nei cristiani dei primi secoli o per lo meno — dato che le etichette e le categorie sono sempre discutibili — negli uomini, nelle donne e negli schiavi dell’età tardo antica e del cristianesimo primitivo. In coloro i quali, negli ultimi secoli dell’antichità precristiana, fanno esperienza di una nuova realtà di vita che si riferisce alla vicenda umana di Gesù di Nazareth, predicato come il Cristo, Brown individua, giustamente, una diversa e trasformata esperienza del corpo, rispetto al passato; per cui il corpo diventa il luogo, il mezzo, il segno di quest’esperienza di Cristo e quindi di un’esperienza religiosa nuova rispetto al passato ed all’ambiente che lo circonda. In questa direzione, volta ad individuare la peculiarità di questa percezione del sé in rapporto al proprio corpo, il ricorso ai testi del cristianesimo antico va riconosciuto di fondamentale importanza. Brown, a vent’anni di distanza dalla prima edizione del suo Il corpo e la società, appare più preoccupato dell’immagine “mentale” che noi moderni ci siamo creata degli uomini e delle donne della tarda antichità e della cristianità antica. L’insistenza sul «divario temporale» Brown la ritiene necessaria nel suo intento di «defamiliarizzare» i testi del cristianesimo antico. Questi vanno compresi lentamente, poiché rinviano a realtà difficilmente comprensibili per noi moderni. L’invito di Ignazio d’Antiochia a Policarpo, vescovo di Smirne, a non autorizzare la comunità cristiana a riscattare gli schiavi, va considerato in vista dell’uso del corpo da parte dello schiavo liberato che finisce per essere «schiavo del proprio desiderio»46. L’epithymìa, infatti, è il desiderio della carne che spinge il corpo a trasgredire la nuova legge dello Spirito e fa divenire quel corpo e quell’anima, da libero in Cristo nel suo Spirito, a schiavo del peccato e della morte. Proprio uno schiavo 46 Cfr. Ignazio d’Antiochia, Ad Polycarpum, IV, 3, in Ignace d’Antioche. Lettres. Texte grec, introduction, traduction et notes de P.Th. Camelot, Paris 1969, 150-151 (Sources Chrétiennes 10): Mh\ e)ra/twsan a)po\ tou= koinou= e)leuqerou=sqai, iàna mh\ dou=loi eu(reqw½sin e)piqumi¿aj. Si rinvia a I Padri Apostolici. Traduzione, introduzione e note a cura di A. Quacquarelli, Roma 1998 (testi patristici, 5), 141, per la versione italiana.
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affrancato è Erma, che nell’incipit del Pastor, del II secolo, redatto nella comunità cristiana di Roma, assicura di aver amato la sua padrona di nome Rhode come una sorella e di non aver avuto che un casto pensiero al vederla uscire nuda dal Tevere, durante il bagno nel quale egli, come tutti gli schiavi, doveva assisterla. Soltanto un corpo integro per la verginità e reso continente con l’aiuto della penitenza può permettere ad Erma di avere visioni ed il dono della profezia47. La nuova esperienza religiosa del cristianesimo trasforma dall’interno l’istituto sociale e giuridico della schiavitù; per cui, pur restando schiavo, muta in lui la percezione del rapporto del corpo con il sé, attraverso la pratica della continenza, al punto che la schiavitù diventa una condizione “provvidenziale” per il suo corpo che viene preservato quindi dal peccato. Inoltre, lo schiavo nutre sentimenti profondamente diversi verso i suoi padroni, ormai fratelli e sorelle in Cristo. «Vigila sul tuo corpo ed una sola è la direzione.»48, ammonisce Tertulliano, il quale, tra la fine del II e l’inizio del III secolo, coglie nel corpo nuove ed inaspettate potenzialità; la continenza — che è il risvolto nella condotta etica e morale della vigilanza sui propri sensi — può permettere di affrontare il martirio e di ottenere la corona, ma in modo diverso rispetto ai martiri quali Perpetua, Felicita od i martiri scillitani. Inoltre, proprio il controllo rigoroso del corpo, secondo Tertulliano, ormai montanista, poteva permettergli di percepire in sé l’inabitazione dello Spirito Paraclito49. Per Tertulliano, il corpo era profondamente intriso di sessualità, i cristiani sia uomini che donne dovevano accettare questo fatto. Soprattutto le donne, secondo Tertulliano, dovevano ricordarselo, sia all’esterno sia all’interno delle chiese, non rinunziando al capo coperto da un velo. Sarà questo il motivo occasionale per scri47
Si rinvia a Hermas. Le Pasteur. Introduction, texte critique, traduction et notes par R. JOLY, Paris 1958 (Sources Chrétiennes 53), Visio I,1,76-77 e ad a Erma. Il Pastore. Introduzione, versione e commento a cura di M.B. Durante Mangoni, Bologna 2003, 47, per la versione italiana. 48 TERTULLIANO, De Jejuniis, 1,1 in PL 1,953B: Specta corpus, et una regio est. 49 Il titolo completo dell’opera citata è De ieiunio adversus psychicos. Su Tertulliano montanista e sulla sua originalità rispetto al movimento eretico di Montano, cfr. C. MORESCHINI-E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1995, 492-493.
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vere il De virginibus velandis. L’opinione di Tertulliano, per il quale la grazia di Dio non poteva rimuovere dall’uomo e dalla donna la percezione della propria sessualità e l’attrazione verso altri corpi, non sarà confutata né andrà smarrita nei Padri latini posteriori, quali Cipriano, Ambrogio, Gerolamo ed Agostino50. Proprio il rapporto tra l’anima ed il corpo o tra il sé ed il proprio corpo, con la sua sessualità, è al centro del manifestarsi delle prime eresie quali l’encratismo e lo gnosticismo. Nell’encratismo o sarebbe meglio dire nel cristianesimo di tendenza encratita, diffusosi nell’area siriaca, la rinunzia all’attività sessuale e la scelta della continenza, in un mondo ed in una società dov’era urgente e necessaria la fornitura di nuove braccia al lavoro dei campi e la trasmissione del patrimonio al legittimo erede, permetteva al corpo umano di gestire in maniera inusitata il proprio libero arbitrio. Gli Atti di Paolo e Tecla, composti e redatti in Asia Minore nel II secolo, ci presentano le prove di Tecla, con il carattere fantasioso proprio della favolistica e del genere letterario del romanzo ellenistico. Vi si esalta la verginità e la scelta della continenza, mostrate come ideali e valori nuovi da difendere ad ogni costo, in mezzo alle tempeste ed ai travagli del mondo, identificato con la società in cui Tecla vive e lotta51. Secondo Brown, la verginità di Tecla parla agli uomini e non soltanto alle donne, a motivo della portata “eversiva” della scelta virginale che scompagina equilibri e norme di un mondo chiuso, ossessionato dal cieco Fato o Anànche, dal Caso o Tyche, infine dalla morte che su tutto sovrasta ed incombe52. Una particolare percezione del rapporto del sé con il proprio corpo sta alla base dell’esperienza di ogni gnostico che si sente un alienato nel basso mondo materiale che lo circonda e lo condiziona53. Il corpo dello gnostico — anch’esso coinvolto nel cosmico processo di decadimento della materia dal Pléroma originario 50
Cfr. BROWN, Il corpo e la società, 75-76. Cfr. Ibid., 142-145: «Il giovane corpo di Tecla s’imponeva sorprendentemente da solo. Conservare la verginità significava conservare l’identità individuale radicata nel corpo ed espressa dall’integrità fisica preservata sin dalla nascita.». 52 Su questo dato dell’antichità greca e romana si rinvia a G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Roma-Bari, 2011, 20-24. 53 Il termine gnostico (gnwstiko/j) fu inizialmente adoperato da alcuni gnostici (Carpocraziani e Naasseni) per caratterizzare la loro specificità rispetto ai cristiani 51
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— custodisce in realtà, la sua più autentica natura, ignota a sé medesimo, consistente in un germe, una particella di sostanza divina, degradata e caduta nel mondo, prigioniera del corpo materiale, da cui anela a liberarsi per tornare al mondo divino da cui ha tratto origine. Lo gnostico prende coscienza di due dati fondamentali. Il dato per il quale lo gnostico avverte la concezione completamente negativa del proprio corpo, visto come prigione e sepolcro temporaneo del germe divino caduto dal cielo ed immerso in un letargo mortale, da cui solo la rivelazione divina o gnosis lo libera, dandogli coscienza della sua vera origine e del suo destino. L’altro dato è quello per il quale il corpo materiale è destinato alla dissoluzione finale e non partecipa alla resurrezione ed al ritorno dello spirito nel mondo divino detto Pléroma o Eòne54. Nel Paidagògos di Clemente d’Alessandria, nel II secolo, si riscontra l’esigenza e la necessità di definire e modellare una piena formazione umana prima che cristiana, una vera umanazione o agoghé, che possa e sappia realizzarsi, concretamente, nella vita o bìos, degli uomini, quindi nell’uso del proprio corpo. La Paidéia e la Paidagoghìa di Clemente, intese presso noi moderni, rispettivamente come realtà educativa o teoresi pedagogica sono proprietà inerenti sempre al divino Logos. Il Logos afferisce alle sapienti disposizioni della natura che ordina e finalizza il corpo umano e la sua sessualità alla procreazione. Il fine “naturale” del corpo umano è anche pedagogico, per cui l’esercizio della sessualità non è riservato ai fanciulli ed agli anziani, dal momento che sia gli uni sia gli altri non possono prendersi cura dell’educazione della prole, nata dall’unione tra uomo e donna. In comuni e fu poi generalizzato nell’uso, ad indicare tutti quelli che oggi definiamo gnostici. Vedi M. SIMONETTI, Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano 1993, Introduzione, XI, n. 1. 54 Solo pochi privilegiati (gnostici) hanno in sé il seme divino, lo spirito, infallibilmente destinato alla presa di coscienza del suo vero essere e perciò alla redenzione ed al ritorno nel mondo divino d’origine. Altri uomini albergano soltanto l’elemento divino di second’ordine, l’anima (psichici) e sono destinati a redenzione e recupero a livello inferiore rispetto agli spirituali. Altri uomini, infine — la larga maggioranza — sono soltanto dotati di corpo materiale e di principio di vitalità inferiore (ilici), destinati alla dissoluzione finale, caratteristica di tutto ciò che è materiale. Cfr. M. SIMONETTI, Testi gnostici in lingua greca e latina, Introduzione, XIII.
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questo modo, la Paidagoghìa guida la vita e l’agire pratico degli uomini e permette di scorgere l’ordine, secondo paidagoghìa, della natura e delle cose create, quindi anche del proprio corpo. Proprio nella vita concreta, fisica o bìos, si osserva la Paidagoghìa55. In tal senso, si spiega la connotazione morale e pratica del II e del III Libro del Paidagògos, nei quali tutti gli aspetti del bìos dell’uomo e quindi dell’uso del suo corpo sono vagliati e passati in rassegna, quindi rivisti alla luce della Paidéia e della Paidagoghìa del Logos, dal mangiare, al bere, all’esercizio della sessualità. Clemente si mostra indignato dell’uso dei padroni di schioccare le dita per chiamare gli schiavi della loro familia; significa infatti negare loro la possibilità di ascoltare la voce umana, il che equivale a negare la loro umanità56. Se la relazione e la relazionalità individuano un corpo e l’uso che ne fa il soggetto, allora una relazione ed una relazionalità corrette impostano un uso corretto del corpo da parte del soggetto. Il fine cui deve tendere il cristiano sul modello di Cristo è la metriopàtheia o la «misura delle passioni» dei filosofi stoici, con il loro ideale di controllo delle passioni e di armonia con la natura57. Clemente non teme di affrontare problemi morali scottanti che si pongono ai cristiani del suo tempo, immersi in una società, quale quella alessandrina della fine del II secolo, multietnica, multiculturale, multireligiosa, dalla vocazione cosmopolita e da atteggiamenti nonché da opinioni etiche, le più varie e diverse58. 55
Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (III). Traduction de C. MONDÉSERT et C. MATRAY, notes de H.I. MARROU, Paris 1970 (Sources Chrétiennes 158), 41,3,9091, in CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedagogo. Introduzione, traduzione e note a cura di Dag Tessore, Roma 2005 (Testi patristici 181), 292, per la versione italiana. 56 Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (II). Traduction de C. MONDESERT et notes de H.I. MARROU, Paris 1965 (Sources Chretiennes 108), 60,1,120-121, in CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedagogo, 188, per la versione italiana. 57 Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2005, 39: «Per gli stoici filosofare è dunque esercitarsi a “vivere”, ossia a vivere coscientemente e liberamente: coscientemente, superando i limiti dell’individualità per riconoscersi parte di un ko/smoj animato dalla ragione; liberamente, rinunciando a desiderare ciò che non dipende da noi e che ci sfugge, per non tenere che a ciò che da noi dipende: l’azione retta conforme alla ragione.». 58 Cfr. MARROU, Le Pedagogue (I), Introduction et notes de H.I. MARROU, traduction de M. HARL, Paris 1960, (Sources Chretiennes 67), Introduction, 61-66.
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Positiva è per lui l’immagine del corpo, tant’è vero che negli Stròmata si chiede: «E d’altra parte il divino che si attua per noi nella chiesa come poteva raggiungere il suo fine senza il corpo?»59. Per Orìgene, invece, il corpo è un limite, fonte di frustrazione per l’anima, perché le impedisce di anelare a ritornare a Dio60. L’anima può — poiché dotata di libero arbitrio — invischiarsi e rimanere intrappolata in corpi sempre più vili e spregevoli; può, però, parimenti, scegliere di incarnarsi in corpi sempre più nobili e belli. La dottrina della Trasmigrazione delle anime che nella sua forma volgare, fuori dal contesto del Didaskaléion d’Alessandria, fraintendeva e travisava l’essenza dell’insegnamento gymnastikòs di Orìgene sul libero arbitrio dell’anima, tentava di conciliare quest’ultimo dato con quello della sua immortalità. Era in realtà un momento ed una battuta di quel dialogo che Orìgene tentava di operare per una conciliazione del platonismo con il cristianesimo. Nel De Oratione, Orìgene si rallegra con Taziana — cui il breve trattato è destinato insieme ad Ambrogio — perché sono scomparse in lei le «regole delle donne»61. Tuttavia, verso la fine, riconosce che la genuflessione nella preghiera, sia fisica sia spirituale, può essere compiuta soltanto dagli uomini, giacché questi hanno nel loro corpo le ginocchia, a differenza degli Angeli, per i quali Orìgene non nega l’esistenza di un corpo, ma ne rivendica per loro uno sferico, sia pur immateriale62. In realtà, il corpo serve all’anima per purificarsi e completare il suo cammino di ritorno a Dio. In dialogo con il platonismo ma anche con lo gnosticismo — specialmente quello della scuola di Valentino — Orìgene vedeva il corpo come l’occasione data all’anima caduta, a motivo del peccato originale, per trasformarsi63. In tal modo, l’espe59
CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stromata, III,17, (J.P. Migne, Patrologia Graeca, 8), col. 1208A. 60 Per le notizie riguardanti la vita di Orìgene ed il suo pensiero si rinvia a J. DANIELOU, Origene. Il genio del Cristianesimo, Roma 1991, ancora oggi insuperato. 61 ORÌGENE, De Oratione, II,1 (J.P. Migne, Patrologia Graeca, 11), col. 417A. 62 ORÌGENE, De Orat., XXXI,3 (J.P. Migne, Patrologia Graeca, 11), col. 552B. 63 Sul corpo in Orìgene, cfr. BROWN, Il corpo e la società, 154: «Il corpo umano rispondeva ai bisogni di una singola fase, assai limitata, del processo che riportava lo spirito a una primigenia identità senza limiti. Il corpo, inteso come gabbia dello spirito, era destinato ad accompagnare tutte le creature fino a guarigione avvenuta.». In
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rienza e la difficoltà dell’Io ad autotrascendersi — fino a sentirsi alienato ed estraneo al basso mondo materiale ed al suo stesso corpo — proprie dello gnosticismo, vengono assunte da Orìgene, insieme all’ambivalenza platonica verso il soma/sema ovvero il corpo, tomba dell’anima. La vita spirituale consisterà, dunque, nel ricondurre l’uomo alla sua vera natura, a fargli prendere coscienza di ciò che è, e poi a sforzarsi di restaurare in lui questa natura, spogliandosi della vita carnale, dovuta quest’ultima all’azione del corpo che esercita, tuttavia, una forma di custodia, quale «tunica di pelle» — come dirà successivamente il cappadoce Gregorio di Nissa — verso l’anima64. Nella misura in cui l’uomo perviene alla visione ed alla conoscenza della sua anima, ritrova in sé l’immagine di Dio e contempla Dio in quest’immagine65. La vera Gnòsis non è soltanto conoscenza delle realtà ma ne questo senso, Brown comprende e valorizza l’evirazione di Orìgene, procuratagli secondo Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, IV) da un medico, dietro sua richiesta. Questo gesto così radicale ed “eversivo” non era infrequente nel Cristianesimo antico; per maggiori informazioni si rinvia a R. CANTALAMESSA (cur.), Etica sessuale e matrimonio nel cristianesimo delle origini, Milano 1976, in particolare, riguardo all’argomento del presente contributo, si rinvia a E. SAMEK LUDOVICI, Sessualità, matrimonio e concupiscenza in sant’Agostino, ibid., 212-272. 64 Sull’esegesi di Genesi in Gregorio di Nissa vedi M. Alexandre, L’exégèse de Gen 1,1-2a dans l’In Hexaemeron de Grégoire de Nysse: deux approaches du problème de la matière, in H. Dörries-M. Altenburger-U. Schramm (hrsg.), “Gregor von Nyssa und die Philosophie”. Zweites Internationales Kolloquium über Gregor von Nyssa (1823.IX.1972), Leiden 1976, 159-177 ed inoltre F. ALTERMATH, Du corps psychique au corps spirituel. Interpretation de 1 Cor 15,35-49 par les autoeurs chrétiens des quatres premiers siècles, Tübingen 1977. 65 ORIGÈNE, Homiliae in Genesim, I,13 (J.P. MIGNE, Patrologia Graeca, 12), coll. 455-456 ed in Origene. Omelie sulla Genesi. Traduzione, introduzione e note a cura di M. Ignazia Danieli, Roma 1992, 54-55, per la versione italiana: «Qual è dunque l’altra immagine di Dio, a somiglianza della quale immagine è stato fatto l’uomo, se non il nostro salvatore? Egli è il primogenito di tutta la creazione (Col 1,15); di lui è stato scritto che è splendore della luce, e figura chiara della sostanza di Dio (Ebr 1,3), lui, che anche dice di sé: “Io sono nel Padre ed il Padre è in me”, e: “Chi ha visto me, ha visto anche il Padre” (Gv 14,10.9). Dunque l’uomo è stato fatto a somiglianza dell’immagine di lui, e per questo il nostro salvatore, che è l’immagine di Dio, mosso da misericordia per l’uomo, che era stato fatto a somiglianza di lui, vedendo che, deposta la sua immagine, aveva rivestito l’immagine del maligno, mosso da misericordia, assunta l’immagine dell’uomo, venne a lui.». Segue l’Inno di Fil 2,6-8. Ancora afferma: «Quanti dunque accedono a lui e si sforzano di diventare partecipi dell’immagine spirituale,
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è anche una conoscenza trasformante. Tuttavia, giunta sulle cime della perfetta Gnòsis, l’anima non sfugge alle tentazioni della carne nel suo corpo. Le tentazioni sono date, in realtà, come guardia e protezione per l’anima; esse ne mettono alla prova la pazienza. Orìgene, dunque, nelle Homiliae in Exodum potrà dire: «Beato dunque colui presso il quale si trova un senso incorrotto o un corpo incorrotto e lo offre a Dio.»66. Nel Symposion di Metodio d’Olimpo, il corpo delle vergini e dei vergini è il ponte ed il luogo, dove, in un certo senso, cielo e terra, umano e divino si congiungono. Marcella, una delle dieci vergini di questo dialogo, composto alla maniera platonica, può iniziare dicendo: «Non bisogna soltanto preservare i corpi dalla corruzione, come non si rendono i templi migliori delle statue, ma è opportuno aver cura delle anime — che sono le statue dei corpi — adornandole di giustizia.».
Ed ancora: «Noi allora, se vogliamo essere a somiglianza di Dio e di Cristo, aspiriamo ad onorare la verginità. Infatti la somiglianza con Dio è fuga della corruzione.»67.
Il corpo, dunque, diventa il luogo in cui la verginità manifesta l’avvento del nuovo Millennio, tanto che Agata, al centro di questo dialogo, può dire che: «Egli stesso (Gesù) insegnò dicendo: “Sono venuto a gettare un fuoco mediante il loro progresso, si rinnovano ogni giorno secondo l’uomo interiore (2Cor 4,16), a immagine di colui che li ha fatti; così da poter diventare conformi al corpo del suo splendore (Fil 3,21), ma ognuno a misura delle proprie forze.». 66 ORÌGENE, Homiliae in Exodum, XIII,6, (J.P. MIGNE, Patrologia Graeca, 12), col. 394A ed in Origene. Omelie sull’Esodo. Traduzione, introduzione e note a cura di M. Ignazia Danieli, Roma 1991, 232, per la versione italiana. 67 METHODE D’OLYMPE, Le Banquet. Introduction et texte critique par H. MUSURILLO, traduction et notes par V.H. DEBIDOUR, Paris 1963, (Sources Chrétiennes, 95), I,1,12,54-55;25,64-65 e Metodio d’Olimpo. La verginità. Introduzione, traduzione e note a cura di A. Toniono, Roma 2000 (Testi patristici, 152), 38. 43, per la versione italiana.
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sulla terra e che mi resta a desiderare se è già acceso?”(Lc 12,49). Per “terra” Egli intende la dimora del nostro corpo in cui vuole che s’accenda ben presto, divampando rapidamente, l’operato del suo insegnamento.»68.
Brown è uno studioso geniale, anche se le sue conclusioni non sono sempre convincenti; è nel giusto quando giudica impossibile cercare una soluzione al problema dell’origine del monachesimo69. È nota a tutti gli studiosi l’importanza annessa da Brown al monaco o monachòs che diventerà l’ “uomo santo” o il theios anér della tarda antichità, per mettere a fuoco il mutamento avvenuto tra il III ed il IV secolo, nell’Impero tardo romano e nella società tardo antica, nel modo di vivere il rapporto fra l'uomo ed il trascendente70. Lo studioso nota, a differenza degli scritti e delle esperienze precedenti del cristia68 METHODE D’OLYMPE, Le Banquet, VI,3,140,170-171 e Metodio d’Olimpo. La verginità, 98, per la versione italiana. 69 Certamente Brown coglie nel segno quando attira l’attenzione sul “deserto”. Il “deserto”, piuttosto che essere un luogo fisico è un luogo spirituale, è la lontananza dalla città, non soltanto da una società urbana ma anche da una chiesa “urbanizzata”, cfr. BROWN, Il corpo e la società, 197: «Il mito del deserto fu uno dei più persistenti dell’età tardo antica soprattutto perché, usando una chiara frontiera geografica per delimitare la soverchiante presenza del “mondo” cui il cristiano doveva rinunciare, poneva in modo preciso il problema della liberazione. Il distacco dal mondo equivaleva fisicamente al passaggio da una zona geografica all’altra, cioè dalle terre abitate al deserto: un confine brutalmente netto e carico di antichissimi significati.». 70 Ibid., 232: «Anche ai più solitari eremiti si chiedeva di pregare per la Chiesa e l’impero romano. L’anomalo corpo del monaco, sospeso nel deserto fra cielo e terra, era diventato un filo cui si riteneva sospesa l’intera società romana d’Oriente.». Vedi anche P. BROWN, Il culto dei santi: l’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983. È da segnalare C. FREEMAN, Sacre reliquie. Dalle origini del Cristianesimo alla Controriforma, Torino 2012, che ridimensiona ed attenua le considerazioni di Brown sul culto delle reliquie e dei “corpi santi”. In particolare, l’espressione coniata da Brown, di un nuovo ed originale “galateo spirituale”, per cui il culto delle reliquie ed il fiorire dei santuari nella tarda antichità e nel cristianesimo primitivo non erano l’emergere in superficie di un sottobosco di credulità od un rigurgito di paganesimo bensì il nascere e l’affermarsi di una nuova spiritualità, è messa in discussione da Freeman, Sacre reliquie. Dalle origini del Cristianesimo alla Controriforma, 71, per il quale: «La tesi di Peter Brown che le reliquie forniscano un’arena nella quale si sviluppa un galateo spirituale è attraente, ma esse suscitano anche rivalità reciproche, che vedono un patrono regio o vescovile esercitare le proprie capacità imprenditoriali contro un altro.».
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nesimo primitivo, come nella vita del monaco nel deserto, fatta di privazioni e di durissima ascesi, il corpo rivela potenzialità insospettate e positive. L’àskesis o «esercizio» del monaco esercita appunto il corpo e lo rende sempre più capace di purificare l’anima dai pensieri impuri e dai desideri carnali. Il monaco scopre, così, che gli impulsi della sessualità non provengono soltanto dal corpo ma anche dall’anima. Il monachesimo, allora, prendendo le distanze dal platonismo e dalla mistica origeniana riesce a prendere consapevolezza in maniera nuova ed originale, rispetto al passato, del rapporto tra il corpo ed il sé ovvero l’anima e la mente — che in alcuni autori monastici sono sinonimi — e della loro inestricabile interdipendenza71. Questa rapidissima rassegna di testimoni e di autori del cristianesimo antico dei primi tre secoli presume forse troppo nel voler maggiormente rischiarare quello che è il problema del corpo nell’ultimo Agostino. L’analisi di Brown, piuttosto che farci giungere a conclusioni precostituite e definitive, può aiutare ad addentrarci in campi nuovi ed a battere piste inesplorate, inducendo noi moderni a porre ai testi degli autori antichi domande sempre nuove. Il «defamiliarizzare» i testi cristiani equivarrebbe allora a calarli nelle tensioni, nelle dinamiche, nei rapporti sociali, economici, culturali, nella mentalità e nella psicologia degli uomini della società della tarda antichità, nella quale vivevano, con i loro corpi e le loro menti. 6. AGOSTINO D’IPPONA: CONIUGIUM E CONCUBINATUS Vorremmo ora porre la nostra attenzione su un altro studio di Brown, Agostino d’Ippona, nel quale, a nostro avviso, lo studioso anglosassone pone interessanti considerazioni, desunte dal confronto fra la modernità da un lato, nella quale si pone lo storico e la cristianità cui appartiene Agostino, dall’altro. Indubbiamente, Peter Brown è nel vero quando coglie nelle cupiditates di cui bramava il giovane 71 Vedi F. ALEO, Euché e noùs nel Corpus macarianum. Relazione tenuta l’11 maggio 2011 al Convegno-Tavola rotonda del CeSIFeR su: La preghiera come manifestazione e/o fattore di identità, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania, Monastero S. Nicola l’Arena (Catania 10-11 maggio 2011), in Synaxis XXIX/2 (2011) 53-68.
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Agostino, retore affermato a Milano, aspettative in gran parte sociali: «Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze ….»72. Fra queste cupiditates di Agostino, rinveniamo il coniugium ovvero il matrimonio che nella società tardo romana era una prerogativa oltre che una meta da raggiungere, per una posizione sociale sicura e realizzata73. Poco o nulla aveva dunque a che fare il coniugium con l’amore o con quello che noi moderni intendiamo per amore. Al coniugium veniva spesso preferito il concubinatus che era dettato all’uomo dal desiderio di vivere con una donna, in quella che per noi moderni si accosterebbe ad una convivenza o ad una coppia di fatto74. Quando Brown afferma che ad Agostino il matrimonio non interessava affatto75, vuole forse intendere che il coniugium era per lui soltanto un’aspettativa sociale, una prerogativa importante, per la propria affermazione nella sua carriera di retore, ma non un suo vivo ed autentico desiderio. Per questo motivo, sottolinea acutamente Brown, Agostino adì al concubinatus e non al coniugium. Nel concubinatus, riconosciuto dal Diritto romano e regolarmente praticato nella società tardo imperiale, Agostino visse una relazione d’amore autentica, nella fedeltà alla sua compagna e nella paternità vissuta, allevando il figlio Adeodato76. Il coniugium di Agostino era stato preparato con i buoni uffici della madre Monica a Milano, con una ragazza dodicenne, di buona fami72
AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, 6,6,9, in Opere di Sant’Agostino. Le Confessioni. Traduzione e note di C. CARENA, Roma 2000, 154-155: Inhiabam honoribus, lucris, coniugio … . 73 BROWN, Il corpo e la società, 354: «(quel seducente e vasto complesso di aspettative, in gran parte sociali, legate al successo, al prestigio, al benessere e alla sicurezza, … .).». 74 Ibid., 356: «Invece Agostino — che, a differenza di Alipio, traeva molto diletto dall’amplesso con una donna — scelse l’esperienza sessuale più vicina al matrimonio, vale a dire una convivenza strettamente monogamica, a quei tempi piuttosto diffusa negli ambienti intellettuali e ben accetta persino ai cristiani.». 75 L.c. 76 Ibid., 357: «L’unico tratto precipuo del matrimonio legale che mancava al concubinaggio era l’intenzione dichiarata di generare figli legittimi: e ciò lo rendeva un rapporto esplicitamente sessuale. Agostino aveva scelto la sua compagna perché l’amava, e giaceva con lei perché ne traeva diletto e non per dare nipotini a sua madre o cittadini alla patria.».
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glia, appartenente alla cerchia del vescovo di Milano Ambrogio77. Fra due anni, una volta in grado di concepire, sarebbe andata in sposa al giovane ed ambizioso retore africano78. Questo assetto “istituzionale” del coniugium romano avrebbe suggerito ad Agostino, secondo Brown, la visione dello stato paradisiaco della coppia Adamo-Eva, il cui coniugium sarebbe stato improntato ad un’armonia perfetta, prima che la volontà dei due coniuges non fosse stata turbata dal disordine dovuto alla trasgressione ed alla disobbedienza al comando divino. Seguì quindi la Caduta, in cui il corpo non rispondeva più alla volontà79. La debolezza provocata dalla sessualità di cui è intriso il corpo, propugnata e sostenuta da Tertulliano, si riaffaccia dunque nel pensiero di Agostino ed in particolare, nell’ultima fase del suo pensiero e della sua vita. È ovvio che le interpretazioni di Brown si prestano a qualche forzatura, tuttavia, appare necessaria una lenta comprensione dei testi nel caso della vita di Agostino e di quell’evento centrale della sua vita, comprensibile in minima parte anche a sé stesso che fu la sua conversione. 7. L’ULTIMO AGOSTINO DI PETER BROWN Nel suo Agostino d’Ippona, Brown scrive che: «Il pelagianesimo si era richiamato ad un tema universale: il bisogno dell’individuo di definirsi e di sentirsi libero di creare i propri valori in mezzo alla vita convenzionale e di qualità scadente della società.»80. 77
Quello della Chiesa come Familia familiarum con l’ingresso ovviamente di quelle aristocratiche senatorie è certamente uno dei tratti più interessanti della ricostruzione dei rapporti sociali all’interno della Chiesa antica di Brown. 78 Puntualmente, nota BROWN, Il corpo e la società, 6: «La pressione sulle femmine era schiacciante. Affinché la popolazione dell’impero romano potesse restare semplicemente stazionaria, pare che ogni donna dovesse generare in media cinque figli. Le giovinette si mettevano all’opera molto presto: al momento del matrimonio, l’età media delle romane si aggirava sui quattordici anni.». 79 BROWN, Il corpo e la società, 368: «Quindi per Agostino la morte restava l’indice più doloroso della miseria umana. La morte infatti frustrava il desiderio più profondo dell’anima, cioè il desiderio di vivere in pace con il suo corpo diletto.». 80 P. BROWN, Agostino d’Ippona, 351.
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È un giudizio certamente ponderato e rielaborato dello studioso anglosassone che risente del particolare angolo visuale dal quale egli studia il cristianesimo antico. Va subito notata una certa simpatia dell’autore verso il pelagianesimo, accostandone lo spirito, forse in maniera esagerata, a quello che anima la nostra modernità. Va riconosciuto a Brown il merito di collegare la diffusione del cristianesimo, nonché la sua elaborazione e sistematizzazione dottrinale, con i mutamenti sociali che nel corso del tempo trasformavano la società tardoantica e precristiana dell’Impero Romano, sempre più in societas christiana, avviandola al Medioevo. Sono proprio le stridenti contraddizioni sociali della società tardoromana del IV e del V secolo a far rilevare allo studioso la contraddizione insita nella persona delle grandi figure di aristocratici senatori e latifondisti, cui si rivolge la predicazione di Pelagio. Contraddizioni che si riflettono e si esprimono nei loro rapporti con la società in cui vivono. Applicavano le leggi dello Stato e dell’Imperatore con assoluta severità e talvolta con crudeltà ma difendevano le loro proprietà ed i loro interessi «con le unghie e con i denti»81. L’interpretazione dei testi da parte di Brown, talvolta discutibile, ha il merito di porre l’attenzione sui risvolti sociali dell’azione del movimento di Pelagio82. Brown pone la differenza tra Agostino e Pelagio in questi termini: «La fondamentale differenza fra i due uomini, tuttavia, deve essere riscontrata nelle loro rispettive concezioni del rapporto fra l’uomo e Dio. … nelle Confessioni non aveva avuto alcuna esitazione nel paragonare il rapporto fra l’uomo e Dio a quello di un neonato con il seno materno, totalmente dipendente da questa unica sorgente di vita e intimamente coinvolto in tutto il bene ed in tutto il male che poteva derivarne. … . Il Pelagiano era emancipatus a Deo; è una brillante immagine presa a prestito dal linguaggio del diritto familiare romano: liberati dai diritti
81
Ibid., 352. Si noti per esempio, il lavoro di Myres citato da Brown in nota (Agostino d’Ippona, 358, n. 44) di cui egli stesso non approva le conclusioni, ma lo ritiene interessante per le sue considerazioni sullo sfondo sociale degli aderenti al pelagianesimo nella Britannia romana. 82
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Francesco Aleo invadentissimi e claustrofobici del padre di una grande famiglia sopra i suoi figli, questi figli erano diventati maggiorenni.»83.
Si può intravedere, fra le righe della sua narrazione della vita del vescovo d’Ippona, la sottile antipatia ed il leggero rimprovero che Brown muove ad Agostino. La concezione agostiniana della libertà umana, completamente dipendente dalla volontà di Dio, si contrappone a quella invece pelagiana dell’uomo affrancato da Dio, come dalla tutela paterna del Pater familias. Quella del Pater familias è un’inferenza indebita nel rapporto dell’uomo con Dio; essa può avere alcuni tratti in comune, ma è azzardato assimilare la paternità di Dio alla tutela paterna del Pater familias della società tardo romana. Giustificare e spiegare il carattere della riflessione teologica di Agostino con un’ascendenza ed una dipendenza “materna” e quella di Pelagio, invece, con una volontà di rottura nei confronti della “paternità”, può essere ardito, anche se rivela i tratti geniali della lettura e dell’interpretazione delle fonti antiche, tipiche di Brown. Nella lettura “edipica” che lo studioso fa della controversia pelagiana, Agostino apparirebbe allora come il difensore della conservazione e dello statu quo vigente, volgentesi verso la madre, quindi con l’accettazione rassegnata dell’ordine sociale costituito tardo romano. Pelagio, invece, come il contestatore della vecchia società, ribelle al padre, con l’intenzione di rivoluzionare l’ordine esistente. È una lettura certo ardita, che collega e mette insieme tematiche sociali, culturali, giuridiche, psicologiche e psicanalitiche ma va accolta con cautela, nella lenta comprensione delle fonti antiche riguardanti la dottrina dell’ultimo Agostino e quella di Pelagio. Nella narrazione di Brown, Agostino è un vescovo di una città di provincia del Tardo Impero, ormai anziano che, nella controversia pelagiana, si misurò con Giuliano, un altro vescovo, di Eclano, nell’Italia suburbicaria, «un altro giovane, capace, ostinato e senza scrupoli» il quale «lo avrebbe tormentato con problemi sui quali egli nutrirà un’assoluta certezza fino alla morte.»84. È proprio questa «assoluta certezza» a motivare la leggera antipatia 83 84
BROWN, Agostino d’Ippona, 356. Ibid., 370.
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se non la sottile avversione che nutre Brown verso Agostino. Acutamente, lo studioso anglosassone, nella ricostruzione degli ultimi anni della vita dell’ipponate, pone e prosegue per più pagine del suo Agostino d’Ippona il confronto serrato tra le concezioni di Agostino e quelle di Pelagio: «L’uomo nella concezione pelagiana era essenzialmente un separato; l’uomo nella concezione di Agostino, era sempre sul punto di essere inghiottito da vaste e misteriose solidarietà. Per Pelagio, gli uomini avevano semplicemente deciso di imitare Adamo, il primo peccatore; per Agostino, avevano ricevuto la loro fondamentale debolezza nella maniera più intima ed irreversibile: essa era innata in loro per il solo fatto di discendere fisicamente da questo padre comune della razza umana. (L’idea di un debito ereditario sembrava del tutto naturale ai sostenitori di Agostino, viventi in un’epoca che considerava l’eredità ineluttabile dei doveri sociali, specialmente dei meno piacevoli, come la base di una comunità organizzata).»85.
Si può dissentire dall’opinione di Brown, qui riportata, che attribuisce alla riflessione teologica di Agostino remote ragioni di ordine psicologico e culturale, legate anche all’ambiente sociale nel quale visse ed alla sua estrazione provinciale. Inoltre, Brown sembra alludere — ma non lo dice esplicitamente — alla dottrina della trasmissione del Peccato originale, eresia nota come Traducianesimo, che Agostino sempre negò di seguire. Tuttavia, è merito grande dello studioso anglosassone essersi cimentato nel sondare l’animo dell’anziano vescovo d’Ippona, di lui dirà infatti: «L’uomo oramai anziano, impareggiabile nella sua consapevolezza della fragilità della carne umana, non cesserà mai di sentirsi accuratamente attaccato a quella provincia ribelle che era il proprio corpo.»86.
È la fragilità della propria carne, secondo Brown, a motivare in Agostino l’attaccamento al proprio corpo, giudicandola come l’unica 85 86
Ibid., 373-374. Ibid., 374.
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certezza in un mondo ed in una società, ormai in disfacimento. Ovviamente, il peccato non può essere identificato tout court con quello sessuale. La sessualità, tuttavia, è quella dimensione soggetta alla fragilità creaturale dell’uomo, verso la quale saltano tutti i freni inibitori e vanno i desideri inconsci e repressi dell’animo. Agostino, in questo modo, anticipa Freud87. CONCLUSIONI La traccia che abbiamo tentato di seguire nella breve e rapida rassegna di testimonianze riguardanti il corpo nel cristianesimo antico ed in particolare nell’ultimo Agostino, riportate nel presente contributo, consiste precisamente nell’esperienza del rapporto del sé con il proprio corpo che hanno vissuto uomini, donne e schiavi del cristianesimo dei primi secoli. Si tratta, in realtà, di un angolo visuale, tratto dalla particolare prospettiva di uno studioso del calibro di Peter Brown. Ci siamo soffermati su un testo dell’ultimo Agostino, quale il De nuptiis et concupiscentia, alla ricerca della riflessione di Agostino su quel tratto del problema del corpo nella tarda antichità e nel cristianesimo antico che nell’ultimo Agostino diventa la percezione del proprio corpo nel sé dell’individuo o dell’uomo caduto. Abbiamo visto come la dinamica sociale dominus-servus sia stata “somatizzata”, calata nel corpo dell’uomo, divenuto preda della libido e della concupiscentia, dopo la Caduta. La scelta e la preferenza accordate da Agostino al concubinatus piuttosto che al coniugium, evidenziano il valore e la prevalenza del desiderio — da non considerarsi negativo, permettendo di prendersi cura di una compagna di vita e della prole da essa generata — esistenti nel concubinatus, rispetto alle aspettative sociali ed ai doveri, insiti nel coniugium. Gli studi e le opinioni di Peter Brown, nonché le sue provocazioni, intorno alle considerazioni dell’ultimo Agostino sul corpo e sulla sessualità, sono state tenute presenti per comprendere più profondamente alcuni testi tratti dal De Nuptiis et concupiscentia, qui presentati e discussi. Nell’instaurare un dialogo pacato e sereno con l’opera di uno studioso del calibro di Peter 87
L.c.
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Brown, ci siamo appropriati di due espressioni od affermazioni dell’insigne studioso, contenute, a distanza di circa vent’anni, nella riedizione del suo Il corpo e la società. La prima, in virtù della quale i testi, specie quelli del cristianesimo antico, esigono una «lenta comprensione». La seconda, con cui Brown avverte la necessità di «defamiliarizzare» i testi cristiani. Scorrendo il suo Agostino d’Ippona, specie negli ultimi capitoli, Brown pone una distanza tra sé ed Agostino, inquadrandone i testi nella società tardo antica e tardo romana. Lo studioso anglosassone, volutamente, non cerca di comprendere le tesi teologiche agostiniane, rischiando di giustificare le affermazioni dell’ipponate, non è questo il suo intento. Vi si pone piuttosto dinanzi, non rinunziando ad esprimere giudizi anche perentori. Intorno all’ultimo Agostino, autore del De nuptiis et concupiscentia, Brown non riesce a nascondere una certa antipatia verso la sua concezione del corpo e della sessualità. Rispetto al tempo ed alla società in cui è vissuto Agostino, mutato è il sentimento della modernità verso il corpo e la sessualità, come mutata è la sensibilità della modernità verso il corpo e la corporeità. Non rinunciando ad esprimersi, non rinnegando la propria epoca e la propria sensibilità, Brown mostra la sua grandezza, poiché lo storico, nella sua opera di ricostruzione del passato, deve anche, nel rispetto delle fonti e dei documenti, esprimere la stimmung del proprio tempo. Lo storico autentico deve comprendere lentamente i documenti, allo scopo di abbracciare con lo sguardo tutta l’immagine od ogni riflesso che i testi ci rinviano dal passato. Il passato, poi, dev’essere guardato dallo storico da una certa distanza, in maniera da cogliere come in un quadro, tutti i particolari, anche quelli minuti e più insignificanti, che rompono l’uniformità e spezzano solo apparentemente l’omogeneità delle nostre rappresentazioni — talvolta colte a distanza troppo ravvicinata — e delle nostre ricostruzioni — talvolta troppo parziali — di eventi, di esperienze e di vissuti di uomini e donne lontani nel tempo. La percezione della relazione del sé con il proprio corpo, nell’ultimo Agostino, appare così essere l’immagine ed il riflesso di un’esperienza personale e di un vissuto del corpo e della corporeità che vanno rispettati e nei quali s’inquadra l’esperienza religiosa sia della tarda antichità che del cristianesimo antico. Essa è divenuta normativa e paradigmatica, nei secoli successivi, per la percezione
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del sé con il proprio corpo, invalsa nel Medioevo ed ha accompagnato lo sviluppo di nuove sensibilità e di nuove forme nel vissuto della corporeità. Pertanto, il dialogo dei moderni, fra i quali Peter Brown, con le testimonianze del cristianesimo antico e con Agostino, continua, cercando nuove domande e nuove risposte a problemi che attraversano nei secoli l’esistenza umana.
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CORPO E GESTO NELLA PARAFRASI DI NONNO DI PANOPOLI
ARIANNA ROTONDO*
1. NONNO E LA SUA OPERA La Parafrasi del vangelo di San Giovanni rappresenta un’opera originale e complessa, ancora in fase di studio e valutazione, nel panorama della poesia tardoantica d’argomento cristiano. Scritta intorno alla metà del V secolo dal poeta egiziano Nonno di Panopoli, si può a ragione valutare come un’interpretazione del Quarto Vangelo realizzata applicando in modo originale la tecnica parafrastica ai singoli versetti. Per la veste formale della sua opera il poeta sceglie l’antico metro dell’epos, riformandolo e creando un modello normativo capace di renderlo riconoscibile e adatto a comunicare i contenuti della nuova fede: dotato di una notevole “percepibilità metricoritmica” tale metro doveva apparire funzionale alla destinazione dell’opera nonniana, probabilmente letta e recitata. Barocca nelle scelte lessicali e dalla forte connotazione mimica, la Parafrasi è soprattutto una raffinata opera esegetica. Il modus operandi di Nonno, sia come artigiano del verso sia come attento lettore del Nuovo Testamento, rappresenta, infatti, un caso straordinario nella produzione poetica cristiana tardoantica di lingua greca, sebbene non manchino coeve sperimentazioni del genere parafrastico aventi come * Ricercatore in Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania.
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Arianna Rotondo
Vorlage un testo biblico. Il poeta egiziano dà un impulso straordinario alla fortuna di questo genere, grazie ad un talento esegetico sostenuto da un’invidiabile competenza teologica. Nonostante questo la fortuna di quest’opera ha vissuto lunghi momenti di oblio e d’immeritata denigrazione per la sua concettosa pomposità, avvertita come irriverente e inadeguata. Rappresenta un'eccezione Cornelio a Lapide (1534-1583), barocco ed erudito commentatore di Giovanni, che sceglie Nonno come uno dei suoi modelli esegetici, ponendolo nella rosa dei cinque commentatori di lingua greca cui fa riferimento. La scelta del genere, le soluzioni formali e metriche da una parte, la metodologia esegetica e l’originale interpretazione dei temi giovannei dall’altra, sono le questioni fondamentali che lo studioso deve porsi, senza trascurarne alcuna, per potersi addentrare nel complesso mondo poetico della Parafrasi. In essa il rapporto tra forma e contenuto è stretto, anzi dialettico, dal momento che la strumentazione retorica e la metrica sono sempre poste a servizio di un’ermeneutica efficace. Dallo studio delle fonti e dei modelli emerge un quadro complesso e assai articolato, in cui da una parte si registra l’influenza della tradizione letteraria greca, classica ed ellenistica, da cui il poeta attinge immagini, soluzioni formali e lessicali, dall’altra le letture patristiche che supportano la sua esegesi. La Parafrasi restituisce una lettura del Quarto Vangelo molto accurata, quale risultato finale di una diuturna frequentazione delle Scritture, il frutto maturo di una competenza ‘tecnica’ accompagnata da una spiritualità esigente e profonda. Nonno si presenta dunque non solo come un poeta tardoantico che, con le Dionisiache, ha lasciato l’ultimo tentativo di un epos degno del confronto omerico, in margine ad una produzione letteraria ormai indirizzata verso altri generi, ma anche come un esegeta molto accorto e raffinato, meritevole di uno spazio tra i grandi commentatori giovannei della sua epoca. La sua costruzione teologica tende a restituire l’impianto concettuale del modello, chiarito nei suoi passaggi più complessi ricorrendo anche all’immenso patrimonio sapienziale trasmesso dalle tradizioni filosofico-religiose antiche. L’immaginario neoplatonico e quello ermetico, ad esempio, sono chiamati in causa dal poeta per spiegare ad un pubblico verosimilmente misto, pagano e cristiano, certamente colto e dunque in grado
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Corpo e gesto nella Parafrasi di Nonno di Panopoli
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di riconoscerne gli echi, i contenuti dell’ortodossia cristiana, di quella pòstiv o\rqhé cui si fa cenno nella parafrasi del Prologo (A,19)1. Anche il dionisismo, per il suo impianto soteriologico, è funzionale a quest’enciclopedico progetto ermeneutico e all’efficacia della sua fruizione, come attestano i profondi legami fra le due opere nonniane. Così nei versi di Nonno la figura di Dioniso può presentare tratti cristiani e viceversa la figura di Cristo accenti bacchici. Anche la millenaria sapienza egiziana svolge un ruolo importante, rappresentando una sorta di filtro simbolico attraverso cui sono fatte passare alcune immagini evangeliche; per cui tradizioni locali e immaginario cristiano sembrano dialogare perfettamente, in una visione del mondo e della realtà che predilige la varietà e la contraddizione. Nel progetto poetico di cui la Parafrasi è espressione convergono i tratti peculiari dei luoghi di formazione intellettuale e spirituale di Nonno: il milieu alessandrino, palestra dell’esercizio poetico e del confronto religioso; il milieu panopolitano, il nomos di provenienza del nostro, unico dato sicuro della sua biografia, in cui l’eclettica sperimentazione religiosa aveva offerto una declinazione davvero unica del rapporto fra paganesimo e cristianesimo. Nonno sembra riflettere nel caleidoscopio delle sue opere l’inquietudine di una società in rapporto dialettico con le sue stesse contraddizioni, trascinata da un inarrestabile e faticoso cambiamento, in cui il cristianesimo doveva esercitare un potere molto forte, pur dovendo continuamente confrontarsi con la persistenza di antiche tradizioni, soprattutto negli ambienti intel1 Nonno evoca, parafrasando Gv 1,7 a proposito della testimonianza resa dal Battista alla Luce, quella «retta fede» su cui fonda il suo impianto teologico. Nel lungo inno al Logos il poeta si serve di espressioni tratte dal simbolo niceno-costantinopolitano, mostrando la sua filiazione teologica nei confronti di Cirillo e i suoi rapporti con l’ambiente alessandrino. Spigolature lessicali, in particolare sulla semantica dell’imitazione, e un sondaggio dei tentativi da parte del poeta di evitare possibili “fraintendimenti ariani”, fanno del Giovanni di Nonno l’ortodosso vangelo/poema della Pistis. Ho presentato le mie riflessioni sulla teologia nonniana in una comunicazione dal titolo: «La vera fede, eterna madre del cosmo»: ortodossia e influenze cirilliane nella Parafrasi di Nonno di Panopoli, tenuta nell’ambito del XLI Incontro di studiosi dell’antichità cristiana su La teologia dal V all’VIII secolo fra sviluppo e crisi (Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 9-11 maggio 2013). Si attende la stampa degli atti.
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Arianna Rotondo
lettuali alto egiziani, impegnati a puntellare o a tutelare una propria identità stabile e definita. Con la sua rilettura dell’evangelo giovanneo Nonno ha inteso di certo affascinare il suo lettore/uditore, interessandolo così ai nuovi contenuti della fede cristiana. Mosso dal tentativo di guadagnare un pubblico sempre più numeroso ed eterogeneo sul piano intellettuale e spirituale, pur affermando l’impotenza dei mezzi umani di fronte all’ineffabile mistero divino, il poeta ha celebrato di fatto l’infinito potenziale espressivo della parola, interpretandola come ‘mito’, come arto dell’intelletto, essenziale per fare esperienza del sacro e per testimoniarla. 2. CORPO E GESTO DI GESÙ Il Logos si è fatto carne: proprio questa dimensione umana, troppo umana, emerge prepotente nei fatti dell’arresto e del processo. Il poeta “drammatizza” le azioni di Gesù in queste fasi cruciali della sua passione terrena, conferendo centralità al ruolo del suo corpo, catturato, legato, fustigato e appeso ad una croce. Proverò a tirare il filo rosso della “storia del corpo divino” secondo Nonno, un corpo caratterizzato da un’a\paéqeia fisica e morale, più volte ribadita nel corso della Parafrasi: i suoi occhi e le sue gote non conoscono lacrima, i suoi paéqh sono sempre controllati e voluti dalla sua natura divina. Come Dioniso nel poema maggiore, anche il Cristo nonniano conosce la commozione solo in eccezionali situazioni di profondo coinvolgimento sul piano affettivo, come nel caso della morte di un amico caro, anche se lo stesso di lì a poco risorgerà per opera sua. Come Dioniso per Ampelo, così Cristo per Lazzaro vive il suo unico e controverso abbandono alle lacrime: «E pianse anche Gesù versando lacrime inconsuete dagli occhi che non conoscevano il pianto» (L,123-124); di fronte alla resurrezione dell’amico lo smarrimento di Gesù è attribuito allo pneu%ma del Padre (L,121: pneuémati patr§é§ dedonhmeénov)2. Il Cristo Così anche a X,44, con significativa aggiunta rispetto al vangelo è rilevato dal parafraste che le opere del Figlio sono atti del Padre: suémfutoév ei\mi tokh%ov e\gwè laleéwn, o\ deè r|eézwn: sono connaturato a mio Padre, io parlando, lui agendo. Si ricordi l’imbarazzo di Cirillo che nel commentare Gv 11,35 giustifica Gesù che cede al pianto, debo2
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Corpo e gesto nella Parafrasi di Nonno di Panopoli
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della Parafrasi è pertanto a"tromov, imperturbato, a\diédaktov, ovvero dotato di una scienza innata, di una profonda conoscenza dell’animo umano e delle azioni consequenziali alla volubilità dello stesso. Un caso emblematico riguarda la cattura nel Getsemani, il luogo in cui egli si dirige «con passo consapevole», dimostrando di non subire la morte ma di sceglierla. Sta solo infatti, privandosi della compagnia dei suoi discepoli, il re «disarmato e con morbide vesti» (a|brociétwn a\siéderov)3, quando il manipolo degli armati dai doppi mandanti (i farisei e i romani), guidati da Giuda, lo raggiungono nel Getsemani, luogo isolato che era solito frequentare. Vale la pena ricordare che il parallelo dionisiaco nel poema maggiore, in cui Nonno ambienta la cattura del dio pagano per ordine di Penteo, avviene anch’esso in un luogo solitario: gli armati si lanciano per immobilizzarlo, ma Dioniso scompare quasi volatilizzandosi e lasciando le guardie «soggiogate da una costrizione divina» (Dionisiache 45,228-239), in silenzio4. Il corpo di Gesù per Nonno diventa soggetto e contenuto stesso della sua predicazione, mentre il corpo di coloro che lo circondano la cartina di tornasole della loro adesione, dell’autenticità della loro sequela. Il corpo del Cristo nonniano manifesta la sua sovranità e la sua sovrumanità rimanendo statico e fermo nella maggior parte dei casi, in lezza della carne, manifestata di fronte ad un uomo fatto a sua immagine che era morto, solo per frenare le lacrime dell’umanità. 3 Per una approfondita trattazione sull’uso di questa formula nelle Dionisiache e sulle sue implicazioni cristiane vedi D. GIGLI PICCARDI, Dioniso e Gesù Cristo in Nonno Dionys. 45,228-239, in Sileno 10 (1984) 249-256. 4 Secondo Gigli Piccardi il racconto nonniano della cattura di Dioniso, che accetta volontariamente di essere raggiunto, dipende per buona parte dalle Baccanti di Euripide (vv. 434 ss.). La resa del poeta egiziano tuttavia presenta spunti originali, dal punto di vista narrativo e descrittivo, probabilmente attinti dal racconto giovanneo dell’arresto di Gesù nel Getsemani: il luogo deserto in cui il dio è raggiunto e la reazione dei soldati. D’altra parte nell’esegesi parafrastica l’episodio evangelico risulta pervaso da un’atmosfera dionisiaca, sottolineata dalla metafora cosmica suggerita al poeta dalle lanterne notturne dei soldati al seguito di Giuda: è tutto il cosmo, nell’immagine della volta stellata, che rende omaggio al suo creatore. Vi si è ravvisato un richiamo alle lampadoforie diffuse nei riti egiziani connessi al culto di Iside e caratteristiche anche del culto dionisiaco (E. LIVREA, Nonno di Panopoli. Parafrasi del vangelo di S. Giovanni, Canto XVIII, Napoli 1989, 50-51; per le implicazioni veterostamentarie dell’immagine delle lanterne si veda il commento di Livrea al v. 36 dello stesso canto).
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un atteggiamento di distanza quasi ieratica dalle scomposte reazioni degli esseri umani. Indugio brevemente su qualche esempio, che mi pare opportuno, relativo alla rappresentazione del corpo umano messo a confronto con quello di Cristo: Nonno ce lo presenta con due possibili e contrapposte reazioni, o rimane immobile o è in rapido movimento. L’immobilità è espressione dello stato di colpa o di malattia, il movimento invece coincide con una liberazione avvenuta come esito di un atto di conoscenza e di fede5: il figlio del funzionario regio, ad esempio, salvato a distanza dalla parola di Cristo, «cammina con il vento nei piedi» (D,235: podhénemov). Il corpo di Cristo ha nel movimento la cifra stessa della sua divinità: le mani e i piedi si prestano a sintetizzare l’attività e la forza creatrice di questo divino d’azione e in azione6. Chiunque stabilisce un contatto con lui ne è contagiato e il primo segno di ciò è la rapidità, l’urgenza, la fretta di un agire entusiasta e portatore di efficace testimonianza. L’autenticità della sequela è segnalata dal movimento: Filippo, dopo aver ascoltato la testimonianza del Battista, si risolve a seguire Gesù con grande entusiasmo: «accolse il consiglio e prevenne le parole con i suoi passi» (A,174: ou"asi mu%qon e"dekto kaì 5 Per Nonno si è parlato, a ragione, di un’epica della gestualità, dal momento che l’attenzione al movimento è un suo tratto distintivo (cfr. G.F. GIANOTTI, Forme di consumo teatrale: mimo e spettacoli affini in O. PECERE – A. STRAMAGLIA (curr.), La letteratura di consumo nel mondo greco-latino. Atti del convegno internazionale (Cassino, 14-17 settembre 1994), Cassino 1996, 265-92. Per l’idea di un «gestural style» nonniano si veda R. F. NEWBOLD, Nonverbal Expressiveness in Late Greek Epic: Quintus of Smyrna and Nonnus in F. POYATOS (cur.), Advances in Nonverbal Communication, Amsterdam-Philadelphia 1992, 271-283). Avvezzo alla retorica del paradosso, propria del linguaggio cristiano per la sua necessità di definire l’indefinibile, egli sfrutta, oltre che come cifra stilistica, anche per l’andamento narrativo una struttura binaria e ossimorica, che proprio nel binomio immobilità/movimento connesso a morte/salvezza trova una delle sue esemplificazioni più efficaci. I segni/miracoli sono il terreno più fertile per l’esercizio di questo ingrediente fondamentale della poetica nonniana. Su tali questioni ritengo magistrali le pagine di Agosti dedicate ad alcune strutture stilistiche della Parafrasi nella corposa introduzione alla sua edizione del canto V: cfr. G. AGOSTI, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto V, Firenze 2003, 121-125. 6 Sul movimento e l’azione continua del Cristo nonniano si vedano le riflessioni e gli esempi in R. FRANCHI, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto VI, Brescia 2013, 186 ss.
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i"cnesin e"fqase fwnhén). Si veda anche il suggestivo movimento che anima la ‘bacchica’ scena delle nozze di Cana dopo il segno compiuto da Gesù: le coppe si susseguono da una mano all’altra, l’andirivieni dei coppieri unici testimoni del miracolo, le danze e il rianimarsi del banchetto per il ritorno copioso del vino. Una grande teatralità è conferita ai movimenti, specialmente a quelli femminili, di reazione all’incontro con Gesù: Maria a Betania ne è un esempio eloquente. Nonno amplifica la sua rapidità gestuale nei confronti di Gesù7: la vediamo addirittura slanciarsi «col suo rapido piede in preda al dolore e alla gioia» (L,95-96). Quasi degna di una menade danzante, mi si conceda l’ardito accostamento, è ancora la sua proscinesi: il maestro rimane immobile (L,107: a\tiénaktov) di fronte a lei, che «non appena lo vide, frustata nel cuore da un pungolo, cadde prona a terra, girando su se stessa, e si prostrò dinanzi ai suoi piedi immortali» (L,111). Nell’esempio offerto dalla gestualità di Maria a Betania il poeta “racconta” il corpo di Cristo innanzitutto attraverso i suoi piedi: pou%vi"cnov, piede/passo, è un binomio che Nonno usa per rappresentare il volere che orienta le scelte di tutti i personaggi del racconto evangelico, ma soprattutto di Gesù, impegnato a compiere la volontà del Padre. Allora il «rapido piede» di Cristo sfugge agli inseguitori (K,140) quando ancora non è giunta l’ora della sua cattura; egli affretta «il passo meridiano del suo piede immortale (D,13: podoèv a\mbrosiéoio)», per rivolgere la sua parola salvatrice ai samaritani, agli esclusi; di fronte alla sofferenza delle amiche sorelle egli «teneva salda la pianta del piede» (L,108-110), immobile di fronte alla morte, in attesa di essere condotto al sepolcro di Lazzaro. L’orma del piede del Cristo nonniano «corre avanti», (N,149) — dice Nonno — troppo avanti, per un ardimentoso quanto incoerente Pietro, che si dice disposto a seguirlo ovunque. Con passo «consapevole» (e"mfroni tars§%) il maestro si dirige volontariamente nel giardino dell’arresto (S,1)8, consapevole nella sua prescienza 7
Sulla gestualità di Maria a Betania si veda D. ACCORINTI, Strutture narrative e retoriche nella Parafrasi di Nonno in La narrativa cristiana antica, codici narrativi, strutture formali e schemi retorici (XXIII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma 5-7 maggio 1994), Roma 1995, 425. 8 A proposito dell’attenzione riservata ai piedi dal poeta e sulla venerazione popo-
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dell’imminente cattura. I piedi di Gesù sono nell’immaginario del poeta il luogo dell’adorazione, l’icona attraverso cui il poeta lo presenta nell’esposizione alla folla, introducendo così l’Ecce homo giovanneo: «con i piedi purissimi (a\craéntoiv poédessi) <Gesù> camminava fuori del palazzo9, portava la corona intrecciata di spine aguzze, e la veste di porpora, intrisa del sangue della conchiglia» (T,21-23). 3. IL CORPO IN PREGHIERA Nella Parafrasi un gesto di Cristo è da considerarsi la sua voce, veicolo della divina Parola, una sorta di arto al pari di qualsiasi altro. La voce è espressione del suo sentire, della direzione del suo pensiero e del suo volere: qualificata con un’aggettivazione spesso improbabile e ardita, valga per tutti la voce «suscitatrice di vino» nelle nozze di Cana, oppure quella che «salva dal male», «perentoria», «portatrice di testimonianza»10, essa è uno strumento esegetico, usato largamente dal poeta soprattutto come introduzione alle battute dirette dei dialoghi intrattenuti da Gesù, per spiegare i discorsi più oscuri, per introdurre i personaggi più ambigui. È il caso della samaritana, il cui ritratto psicologico è scandito proprio dalla qualità della sua fwnhé. Alla semplice domanda della donna sul luogo giusto in cui adorare, Nonno parafrasa l’altrettanto lapidaria risposta di Gesù, introducendo il tema del corpo in preghiera: l’oscuro maestro spiega l’ad-orare rappresentando la gestualità rituale dell’orante ideale, immortalato nella sua proscinesi: «ma viene l’ora del sacrificio con riti intellettuali, anzi è lare delle orme lasciate dal piede di Cristo si veda E. LIVREA, Nonno di Panopoli, Parafrasi del Vangelo di S. Giovanni. Canto XVIII, Napoli 1989, 107-108. 9 Si tratta del palazzo di Pilato, che lo aveva appena esposto alla folla inferocita; quella dimora pagana verso cui si dirigono dopo il giudizio nel sinedrio i sacerdoti e il loro seguito, intenzionati a mandare a morte Gesù: Nonno, con sarcasmo, ne inchioda la fede ipocrita nel loro atteggiamento di ritrosia verso la dimora pagana; temevano di contaminarsi in vista della Pasqua, proprio loro che inferociti in un progetto omicida si preoccupavano di rispettare «la santità della dimora delle Leggi protettrici» (N,139). 10 Per una trattazione specifica sull’uso di fwnhé nella Parafrasi di Nonno mi permetto di rimandare al mio: La voce (fwnhé) divina nella Parafrasi di Nonno in Adamantius 14 (2008) 287-310.
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proprio questa, quando i veri iniziati (muéstai)11 piegano insieme il collo supplice a terra, il collo piegato mentre il capo si china, tutti in verità e spirito: perché Iddio altissimo vuole tali fedeli, i quali per lui pieghino le ginocchia a terra, tenendole saldamente appaiate, con voce testimone di verità e con spirito divino, mentre il volto in avanti aderisce al suolo» (D,110-118). Nonno si allontana dalla Vorlage inserendo, in luogo della generica menzione giovannea del culto, particolari legati ad una gestualità dell’orante: il collo curvato, il piegarsi in avanti, il ginocchio puntato sulla pietra. L’inginocchiarsi, da considerarsi in questo caso specifico come un esempio di nohthè gonuklisiéa12, ovvero una genuflessione contemplativa secondo la classificazione origeniana operata sulla scorta dell’esegesi paolina, è contemplato in altri luoghi della Parafrasi in cui il poeta si rende indipendente dal modello evangelico, rivelando il potere suggestivo esercitato nel suo immaginario poetico dalla liturgia, costante supporto dell’esegesi13. Una sottile polemica antigiudaica percorre questi versi cruciali, in cui al sacrificio cruento (è il punto di vista della samaritana), inutile offerta degna di una «cuore barcollante» (kradòhv sfalerh%v) come quello dei Giudei, è opposta una più partecipata preghiera (è il punto di vista di Gesù). Adorare alla maniera dei Giudei è consequenziale ad una mancata conoscenza del divino: si adora una copia falsa passata per vera (D,105-106: geraiérete mou%non a\kou+% mimhlhèn teleéontev a\lhqeéov ei\koéna muéqou, «adorate soltanto per sentito dire colui che nell’anima non conoscete, realizzando un’immagine imitativa della verità»). Adorare in spirito e verità è il traguardo che l’autentico fedele deve raggiungere: egli sarà gradito a Dio se inginocchiandosi avrà lo 11
Gli iniziati sono i veri cristiani pervasi dallo spirito; questo termine, risemantizzato in senso cristiano, ricorre qui per la prima e ultima volta nella Parafrasi. 12 Sulla gonukliésia in questo passo si vedano le considerazioni di M. CAPRARA, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto IV, Pisa 2005, 23-28. 13 Le riflessioni più interessanti sull’importanza del piano esegetico-liturgico nella Parafrasi, a mio parere, si leggono in G. AGOSTI, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto V, 54-70, che ricostruisce l’interpretazione liturgica in chiave battesimale del segno del paralitico nella piscina probatica, trovandone riscontri sia nelle rappresentazioni artistiche (quelle ad esempio del battistero di Dura Europos e dell’arcosolio della catacomba di S. Ermete a Roma del IV secolo) sia nella letteratura patristica.
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«spirito pieno del divino» (D,117: pneuémati qespesié§), «la voce testimone di verità» (D,117: kaì a\lhqeéi maérturi fwn+%), e il viso rivolto al suolo (D,118: kaiè dapeéd§ prhnhdoèn e\reidomeénoio proswépou). Il capo di Cristo è piegato nei terribili momenti della flagellazione: «intrecciati alcuni arbusti spinosi, taglienti, gli cinsero il capo con quella spuria corona regale e lo vestirono mettendogli addosso un mantello stillante del savio bagliore del mare Sidonio, simbolo di regalità pure nei patimenti; poi piegando le ginocchia unite e con il capo rivolto a terra [lo salutavano “Re” con questo falso appellativo] nunzio di suppliche, e andavano uno dopo l’altro con mani alterne a colpirgli le guance» (T,8-15). Lo sguardo è a terra, in un silenzio irritante e assordante come un urlo, durante l’interrogatorio di Pilato; l’immagine rimandata dai versi di Nonno è potente: «abbassato lo sguardo il Signore tenne gli occhi fissi a terra e aprendo la bocca non emise alcuna voce in risposta a quanto aveva udito» (T,42-44). La bocca aperta che non emana suono è immagine di grande potenza espressiva al pari delle mani di Cristo, protagoniste di gesti parlanti. Mi appare evocativa, a fronte di questo silenzio eloquente al cospetto di Pilato, la descrizione contenuta nelle Dionisiache (5,104-107) della danza di Polinnia durante le nozze di Cadmo e Armonia: le sue dita sono “icona” di una «voce priva di suono», esprimono forme sapienti in un silenzio denso di significati14. Dalla bocca del Cristo nonniano promana un silenzio eloquente, il silenzio di quella Verità il cui significato allo stesso procuratore romano rimarrà sconosciuto. 4. UN CORPO/CADAVERE «TRAFITTO» AD UNA CROCE «[…] Con un unico chiodo che simultaneamente trafigge» Gesù è come saldato alla croce. Con dovizia di particolari Nonno descrive la crocifissione, in una vera e propria “simbolica” del chiodo (tre chiodi contro i quattro tradizionali per una crocifissione) da leggersi, secondo un’interpretazione probabilmente alessandrina e d’ascendenza neoplatonica, come «un simbolo dell’unione ipostatica delle due
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M. CAPRARA, Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto VI, 30
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nature di Cristo, secondo il magistero cirilliano»15: «colà i carnefici lo distesero sul legno dalle quattro estremità sollevandolo da terra in alto, ben dritto, serrandogli a forza di qua e di là con ferreo vincolo le mani aperte, Lui però trafitto da un unico chiodo dal duplice animo insieme conficcandosi, Lui d’un solo slancio trapassato, i piedi intrecciati insieme, nella ferrea morsa del supplizio» (T,91-97). Il corpo di Cristo è cadavere, rigido di morte, come i ginocchi di Lazzaro che ancora avvolto nelle fasce ritorna dall’Ade alla luce, fuori dal sepolcro, nel racconto minuzioso dell’amplificatio nonniana alla resurrezione di Betania. È come scollato dalla croce nella drammatica sequenza della deposizione che ha come protagonista Giuseppe di Arimatea, il cui gesto d’amore ha nel suo stesso corpo a sostegno del cadavere di Gesù la più commovente espressione: «quell’uomo, di sera, trasse giù il cadavere, rigido (foérton), e sollevato di peso lo depose sulla spalla che accoglie Dio (qeodeégmoni... w"m§)» (19,203). Il corpo di Cristo morto (qanoéntov... sw%ma) beneficia anche delle cure di Nicodemo, accorso per ungerlo con mirra e aloe; e Nonno ne descrive il rito funebre dettagliatamente: «con teli di lino cinsero il corpo del morto con un involucro profumato di volute molto intrecciate, come usano fare gli ebrei che osservano i riti funebri» (T,210-212). 5. IL CORPO DEL RISORTO: DA «CADAVERE SEMPRE VIVO» A «PENSIERO CHE VOLA» Nonno definisce il corpo di Cristo, deposto nel sepolcro, un nekroén a\eizwéonta, «un cadavere sempre vivo», destinato a non rimanere in una tomba di pietra; ma non è proprio questa la convinzione della Maddalena, col suo inconsolabile pianto. Quand’ella, l’«amica delle lacrime» e «notturna viaggiatrice» si rende conto di avere di fronte a sé Cristo risorto, manifesta l’istinto di toccarne il corpo, ma è subito trattenuta: «e mentre si accingeva ad accostare la mano all’immortale manto (e\v a"mbroton ei/ma) Dio la trattenne» (U,72-73). Nonno parafrasa il Noli me tangere giovanneo conferendo centralità al gesto della 15
cfr. E. LIVREA, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto
II, Bologna 2000, 69 nota 58.
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donna, proprio perché bloccato da Cristo, che in questo modo rivela la sua natura e fornisce alla Maddalena il giusto contenuto di un’autentica testimonianza animata dall’urgenza: «E Maria corse veloce a testimoniare con la sua voce a tutti gli undici discepoli, riuniti dentro casa, che il Cristo aveva veduto, spoglie le membra della veste terrena, risplendere in un mantello divino, e tutto questo le aveva detto, irradiando innanzi una luce folgorante» (U,79-83). Se la mano della Maddalena non riesce a toccare il corpo di Dio, il suo piede ne annuncia l’eterna vittoria sulla morte. Nonno usa ancora l’immagine della veste, l’involucro che indica dapprima il corpo umano soggetto a distruzione (metacqoniéou...citw%nov) e poi la nuova immagine di Cristo, splendente e trasfigurato nella sua epifania divina (qeokmhét§ tiniè peépl§). La Maddalena quasi «vola» (pepoéthto) per proclamare quanto ha visto e udito ai discepoli riuniti in casa. La promessa della resurrezione si è compiuta, come sembra provare la luce folgorante (a\ntwépion ai"glhn) irradiata dal risorto, segno della sua trasfigurazione divina. In questo modo, secondo Accorinti, Nonno rievoca l’a"nodov yuch%v di procliana memoria (Procl. Theol. 209) e la dottrina del veicolo (o"chma) che durante la risalita in compagnia dell’anima, abbandona le tuniche (citw%nev) che aveva assunto in precedenza nel corso della sua discesa16. Ancora una volta il corpo del Risorto rivela la sua natura divina in un passaggio molto controverso, al momento della sua prima apparizione ai discepoli riuniti: «E quando l’oscurità intinse di nero cupo tutta l’ombrosa terra e fissi i catenacci chiudevano le porte della dimora dove rintanati stavano i discepoli, ecco come ala o pensiero (w|v pteroén h\eé noéhma) fu in mezzo a loro, sospeso in aria (metaérsiov) e coronato dai compagni disse: “la pace sia con voi”» (U,84-88). Cristo arriva dall’alto, in aria, come nelle tradizionali epifanie divine di epica memoria; il passaggio attraverso le porte chiuse, enfatizzato da Giovanni, sembra attenuato dal poeta che lo rappresenta come ala o pensiero. Ancora l’immagine del dio che interviene superando l’ostacolo delle porte chiuse riporta all’Hermes alato dell’Inno omerico (IV,145-7), che compare passando attraverso il chiavistello (diaè 16
D. ACCORINTI, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni. Canto
XX, Pisa 1996, 191.
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klhéi=qron). Tutto avviene, sia per Cristo sia per Hermes, all’insegna dell’incorporeità: nella similitudine omerica Hermes è ei"dwlon, l’immagine di un sogno che varca il chiavistello, ma anche nel testo nonniano Cristo risorto si presenta nell’esordio parafrastico della terza apparizione come ei&dov a"mbroton, ovvero dall’aspetto, dalla forma immortale. Anche Origene si era posto il problema della natura del corpo del risorto in questo delicato passaggio giovanneo: egli sembra credere che la continuità del corpo di Gesù prima o dopo la resurrezione venga garantita non dalla sua materialità ma da una sorta di «forma somatica» (ei&dov swmatikoén) in grado di opporre resistenza al tocco di Tommaso, ma anche di passare attraverso le porte chiuse17. Nel parafrasare la scena in cui il Cristo mostra ai discepoli riuniti il suo corpo («quando agli occhi di tutti, traversando l’aria, Gesù apparve, sovrano sospinto dal vento, viatore senza traccia»), al contrario dell’evangelista, Nonno ne menziona prima i piedi e poi le mani18 col segno dei chiodi e infine il fianco trafitto. Nella seconda apparizione a vantaggio dell’incredulo Tommaso, misteriosamente assente nella scena precedente, narrata in Gv 20,26 si presenta ancora il topos delle porte chiuse superate dal divino, che Nonno ancora una volta trascura: «senza che lo vedessero, Cristo balzato dentro la casa con piede di vento (a\nemwédei= tars§%) senza ali (a"pterov) si mostrò in mezzo ai compagni simili a Dio» (U, 118- 120). Si noti che a"pterov è epiteto di Hermes, che vediamo entrare in Dionisiache 3,409 ss. nel palazzo di Cadmo, superando ogni ostacolo. Basta questo ad ipotizzare una synkrisis fra il messaggero alato e Cristo annunciatore dell’evangelo? Di certo la vicinanza tra Cristo ed Hermes sembra potersi cogliere in maniera tangibile attraverso gli epiteti comuni ad entrambi, tratti dalle Dionisiache per Hermes e dalla Parafrasi per Cristo. Accorinti ne stila un breve elenco a carattere esemplificativo, in cui si possono apprezzare termini del tipo di biossoéov, qeéskelov, o\mfhéeiv, poikiloémuqov, tacuégounov, a\lexòkakov19. 17
G. MOST, Il dito nella piaga. Le storie di Tommaso l’Incredulo, Torino 2009, 124. Per il Tommaso nonniano le mani trafitte sono la prova più autentica dell’identità di Cristo: per il poeta sono evidentemente il segno tangibile dell’epifania divina. 19 D. ACCORINTI, Hermes e Cristo in Nonno in Prometheus 21 (1995) 24-32. 18
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6. I GESTI Non sfuggano a conclusione di questa disamina, e non certo perché marginali, tre gesti che vedono come protagoniste le mani di Gesù, in cui esegesi, liturgia e iconografia appaiono come maglie strette di uno stesso tessuto. Nonno introduce l’autorivelazione di Cristo di fronte alla samaritana con quest’immagine: «E Cristo rispose con voce testimoniante accostando alla muta narice (a\naudeéi r|iniè) il dito loquace (daéktulon au\toboéhton): “Cristo sono io che ti parlo, vicino con gli occhi mi vedi, con le orecchie sempre mi senti: io sono Cristo non ne viene un secondo”» (D,129-130). Al gesto dell’imposizione del silenzio oltre ad un forte realismo espressivo si può riconoscere, a mio parere, un valore esegetico. Tradizionalmente riconosciuto come signum harpocraticum è gesto ben noto alla cultura greco-romana, al quale dà un’efficace interpretazione Plutarco, nel De Iside et Osiride: Harpocrate, l’Horus infante egiziano, è il dio del silenzio iniziatico, colui che mette in guardia gli uomini contro il pericolo di rivelare ai più la vera natura degli dei. Egli tiene un dito sulla bocca come simbolo di discrezione e silenzio20. Dal punto di vista dell’iniziato il gesto del dio è un monito a non rivelare ciò che si è visto e si è vissuto durante il rito. Il Cristo nonniano compie questo gesto per accompagnare la sua autorivelazione nei confronti della samaritana: il silenzio è lo spazio necessario a ricevere tale rivelazione, il luogo naturale dell’epifania divina; il divino stesso lo crea, lo determina. Tuttavia la donna non è chiamata alla discrezione, al segreto, ma alla testimonianza, che nella parafrasi nonniana è sempre accompagnata da un movimento, in questo caso dalla rapidità della corsa. Ancora Gesù presso il pozzo di Sicar, una volta raggiunto dai suoi, rifiuta il cibo offertogli con un gesto della mano: «mossa la mano muta in un silenzio consapevole e testimone Lui rifiutò quell’effimero cibo dicendo queste parole» (D,149-151). La mano ancora una volta è 20 Per un approfondimento sul signum harpocraticum e più in generale sull’iconografia del signum silentii nell’arte cristiana fino alle interpretazioni moderne si vedano A. CHASTEL, Il gesto nell’arte, Roma-Bari 2002, 69-95; P. MATTHEY, «Chut!» Le signe d’Harpocrate et l’invitation au silence in Dans le laboratoire de l’historien des religions. Mélanges offerts à Philippe Borgeaud, Genève 2011, 541-572.
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espressione di un gesto allocutorio, che ha a che fare col tema della missionarietà: le suggestioni iconografiche sono infinite, dalla liturgica postura della mano sollevata per la benedictio, al gesto della mano destra sollevata e aperta del Cristo pantocratore, punto d’arrivo di un tema iconografico di derivazione orientale, caro alla ritrattistica imperiale con riferimento al culto del Sol invictus21. E ancora a voler ricordare la predilezione nonniana per le mani di Cristo, il gesto della moltiplicazione dei pani, presentato in chiave eucaristica: «E Cristo, dopo aver preso i cinque pani d’orzo e reso grazie al Padre sempre vivente, li spezzò (e"klase) con un movimento della dita ricurve della mano (sumplekeéov palaémhv gamywénuci palm§%)» (Z,36-40). Appare subito evidente l’attenzione descrittiva al movimento delle mani, che quasi si uniscono nel prendere il pane con l’intento di dare un valore sacramentale allo spezzarlo, anticipando in questo segno mirabolante della moltiplicazione dei pani e dei pesci il gesto eucaristico che l’evangelista non contempla nel suo racconto dell’Ultima cena, costituito dalla sola lavanda dei piedi22. La descrizione delle «dita ricurve»23, artefici della fractio, conferisce una connotazione pantomimica a questo momento, in cui s’istituisce una ritualità fondamentale. Attraverso la scelta lessicale Nonno costruisce in versi un’icona della mano parlante di Cristo, mostrandosi tributario della tradizione letteraria, liturgica24 e iconografica sulla mano divina, «segno visibile di quella duénamiv a\oératov che rende possibile ciò che agli uomini è precluso»25. 21
M. CAPRARA, Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, Canto VI, 33. C. GRECO, Nonno di Panopoli. Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, Canto XIII, Alessandria 2004, 97-98: anche nella diakonìa spiegata attraverso la lavanda dei piedi la gestualità delle mani è messa al centro della scena. 23 Per la suggestiva scelta di gamyw%nux (letteralmente «dai lunghi o ricurvi artigli») per rappresentare le dita ricurve di Cristo si veda il commento di Franchi: «le mani di Cristo, nel piegarsi per spezzare il pane, evocano al poeta la posizione degli artigli degli uccelli quando si curvano per afferrare la preda» (Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, Canto VI, Bologna 2013, 332). 24 R. FRANCHI, Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, Canto VI, 183 fa riferimento alla liturgia antica egiziana, in particolare all’Anafora del Santo Evangelista Matteo. 25 R. FRANCHI, Parafrasi del Vangelo di San Giovanni, Canto VI, 183. 22
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E sull’onda degli eloquenti gesti simbolici del Cristo nonniano mi piace concludere con i versi finali di un epigramma dell’Anthologia Palatina: de pantomimo, il 111, che mi sembra offrire la sintesi più giusta ed efficace al percorso fin qui tracciato: «tot linguae quot membra viro. Mirabilis ars est quae facit articulos ore silente loqui».
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IL CORPO DI RADEGONDA TRA EROS E MARTIRIO NELLA SCRITTURA DI VENANZIO FORTUNATO
ROSSANA BARCELLONA*
Il nesso corpo-religione è denso di implicazioni antropologiche, filosofiche, teologiche che si declinano e combinano in molti modi nei vari sistemi religiosi, ma trovano spesso anche all’interno della medesima religione elaborazioni e realizzazioni differenti, legate all’alternarsi di fasi o al diverso dosarsi delle relative influenze. La comprensione del pensiero cristiano e dei suoi percorsi, anche su questo punto, passa dalla considerazione del duplice influsso giudaico e greco. La riflessione sul corpo, come è noto, si sviluppa in ambito occidentale a partire dalla filosofia greca. Nel passaggio da Socrate a Platone si elabora una soluzione che riduce il corpo a strumento dell’anima, nella quale si individua la vera identità del soggetto, l’ubi consistat dell’uomo autentico. In sincronia con la nascita di quest’anima — irriducibile alla dimensione empirica e dotata di immortalità — si incrementa il ragionamento sul corpo e sulle ‘relazioni’ fra i due elementi, recepiti come assolutamente differenziati, considerati cioè in termini di un radicale dualismo1. Secondo questo * Docente di Cristianesimo e culture del Mediterraneo presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania 1 A proposito della riflessione greca sull’uomo, cfr. G. REALE, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Milano 1999. Sulla costruzione dell’antropologia cristiana, cfr. E. PRINZIVALLI, Il rapporto tra mito protologico e destino escatologico nel cristianesimo antico, in EAD., Questioni di storia del cristianesimo antico I-IV sec., Roma 2009, 89-111.
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paradigma interpretativo, per superare il male, connesso alla dimensione materiale e mortale della natura umana, si deve lasciare la condizione terrena. Come suggerisce Socrate nel Teeteto, bisogna «fuggire di qui al più presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a dio»: solo liberandosi del corpo, l’anima mondata può assimilarsi al divino2. 1. IL CORPO NEL CRISTIANESIMO Il cristianesimo con la dottrina dell’incarnazione e della resurrezione, produce una importante e profonda rivalutazione ontologica del corpo3. L’annuncio cristiano, da questo punto di vista, può considerarsi «una radicale sovversione», uno scandaloso ribaltamento, rispetto al quadro storico-culturale dominante nel quale si iscrive lo sviluppo del suo pensiero, cioè alla prospettiva, profondamente tributaria nei confronti del platonismo (nelle interpretazioni dei pensatori medio e neoplatonici), in cui il riscatto della condizione umana passa attraverso l’assimilazione dell’uomo a dio4. Il messaggio neotestamentario, così come viene accolto abbastanza precocemente, prevede un percorso inverso, si fonda, infatti, sull’idea di un dio che discende alla condizione di uomo assumendo un corpo, facendosi carico della tragicità della condizione umana, compresa la «dolente pesantezza della carne», per riscattarla totalmente includendo la corporeità nella redenzione e nella resurrezione. Ma la portata di questa svolta, di questo forte elemento di discontinuità nella concezione di Dio e conseguentemente dell’uomo e della sua corporeità, così intesa come parte integrante della sua unità psicofisica, viene in gran parte ridimensionata dalla lettura di impronta platonica cui quel messaggio è sottoposto, soprattutto in seno 2 PLATONE, Teeteto, 176 b. Il passo ripreso da PLOTINO, Enneadi, I 2,1, è esaminato e commentato nel saggio di M.G. CREPALDI, Farsi Dio, farsi uomo. La salvezza tra filosofia e rivelazione nel pensiero tardo-antico, in PRINZIVALLI, Questioni di storia del cristianesimo antico, cit., 113-151, 118-120. 3 Cfr. E. PRINZIVALLI, Corpo, donne, femminismo e religione, in G. MURA – R. CIPRIANI (curr.), Corpo e religione, Roma 2009, 396-402; F. SARRI, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Milano 1997. 4 Cfr. CREPALDI, Farsi Dio, farsi uomo, cit., 121.
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alla scuola alessandrina5 e a partire da un’interpretazione in senso dualistico-platonizzante del doppio racconto di Genesi 1, 26-27 e 2, 7, sulla quale esegesi un peso specifico si riconosce all’ebreo Filone6. Si tratta dei due capitoli considerati il fondamento dell’antropologia cristiana, che vengono interpretati con consapevolezza teorica a cominciare dal II secolo, cioè quando il cristianesimo matura definitivamente il laborioso distacco dalla sua matrice giudaica. Nel primo viene riconosciuta la creazione dell’anima, la componente umana a immagine di Dio, nel secondo la creazione del corpo. Riportato dentro una prospettiva ‘ridimensionante’ che ne attenua le ‘potenzialità’ intraviste nella soluzione ‘unitaria’, il corpo mantiene tuttavia durante la tardoantichità un ruolo protagonista, che si sostanzia anche di tutte le ambiguità derivanti dalla complessa costruzione dell’antropologia cristiana e si impianta massimamente sull’esaltazione della continenza e sull’altissimo significato spirituale che i primi cristiani vi attribuivano. In questi secoli, sia che la valorizzazione del ‘corpo continente’ discendesse dall’adesione alla posizione del Gesù della tradizione sinottica e al dettato paolino (Rom 1, 26-32)7 — 5 La lettura in chiave platonica del messaggio cristiano elaborata dai cosiddetti primi teologi dell’ortodossia, gli alessandrini, rimane a lungo vincente su altre linee interpretative pure presenti nel cristianesimo dei primi secoli quale quella detta asiatica, ripresa nel IV secolo dai pensatori antiocheni, e rappresentata in modo emblematico da Ireneo di Lione. Cfr., per una efficace sintesi delle due linee esegetiche, PRINZIVALLI, Questioni di storia del cristianesimo antico, cit., 100-110. 6 Cfr. CREPALDI, Farsi Dio, farsi uomo, cit., 122-123. La studiosa identifica in Filone, l’ebreo alessandrino (20 a.C.-50 d.C.) che per primo interpreta la rivelazione biblica con le categorie filosofiche del platonismo, il maggiore responsabile di questa inversione di tendenza, di questo tradimento della ‘carne’ di Cristo. Alla sua antropologia basata sull’opposizione corpo/anima, offriva supporto la lettura in chiave dualista della narrazione genesiaca, la cui redazione originaria risale in effetti — come ha dimostrato la moderna filologia biblica — a due epoche e a due autori diversi, ma che gli antichi consideravano opera unitaria, non un doppione, e dunque espressione di due diversi livelli di creazione dell’uomo. Nella contrapposizione fra corpo e anima, Filone innesta una terza dimensione, quella dello spirito (pneuma) «che è dono di Dio e che solo fa l’uomo capace di salvezza» (ibid., 124). 7 Paolo insiste sul corpo come tempio dello Spirito, e sul peccato della fornicazione, additato come l’unico che l’uomo commette contro il proprio corpo: che ricade dentro, non rimane fuori.
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basato su una concezione che distingue ma non separa né oppone le due componenti umane —8, e fosse dunque proiettata dentro l’orizzonte escatologico, sia che scaturisse da un certo atteggiamento encratita, intriso di tendenze dualistiche-gnosticizzanti e connotato piuttosto in senso protologico9, «ciò che l’uomo e la donna fanno del loro corpo è estremamente importante»10. Anche altre implicazioni storico-culturali entrano nella esaltazione della continenza che pure resta, fin dai primi sviluppi, uno dei tasselli costitutivi e caratterizzanti la costruzione dell’identità cristiana. La scelta di una condotta casta è contemplata e apprezzata già nel mondo greco-romano, presso intellettuali e filosofi, dove comunque questa alta considerazione della custodia della verginità o dell’astensione sessuale ricade nella sfera dell’esercizio dell’autocontrollo, nella valorizzazione della capacità di dominio razionale sulle pulsioni corporali, non sulla squalificazione della sessualità. In ambito giudaico si trova, invece, elaborata fra il I sec. a.C. e il II d.C. una riflessione sul male, e la sua origine, che viene a connettersi con la sfera sessuale, poiché identifica il male con la contaminazione umano-divina derivante dall’unione fra gli angeli e le figlie degli uomini11. Si tratta di una prospettiva sul male non presente nella predicazione di Gesù a favore della vita continente — come la conosciamo dalle fonti sinottiche — ma destinata a lunga fortuna e a varie elaborazioni. 8 L’antropologia paolina si avvale di un ampio vocabolario (corpo, carne, spirito, anima, uomo interiore e uomo esteriore), che distingue ciò che è interno e ciò che è esterno all’uomo, ma che rimanda a una tale ricchezza di sfumature e spunti da lasciare «incerti se Paolo abbia una concezione fondamentalmente monista o dualista dell’essere umano»; cfr. PRINZIVALLI, Questioni di storia del cristianesimo antico, cit., 94. 9 La verginità nella prospettiva encratita è considerata come il recupero dell’originario stato edenico, sia nelle elaborazioni ‘ortodosse’, che si richiamavano all’assenza di rapporti sessuali fra i protoplasti, sia in quelle eterodosse che consideravano lo stato virginale interno all’originario disegno di Dio sull’uomo, tradito dal peccato originale di natura sessuale. Cfr. PRINZIVALLI, Questioni di storia del cristianesimo antico, cit., 97-99. Per un quadro complessivo si veda G. SFAMENI GASPARRO, Enkrateia e antropologia. Le motivazioni protologiche della continenza e della verginità nel cristianesimo dei primi secoli e nello gnosticismo, Roma 1984. 10 Cfr. PRINZIVALLI, Corpo, donne, femminismo e religione, cit., 399. 11 Questo mito di caduta, oltre che nella letteratura apocalittica, si trova accennato in Gen 6, 1-4.
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La centralità del corpo cristiano oscilla, infine, come sospesa tra due poli: la sua identificazione come luogo del peccato, specialmente sessuale, e la sua funzione di strumento per superarlo attraverso il controllo e la repressione degli impulsi. Il corpo diventa il campo aperto e visibile di una battaglia decisiva tra l’irruenza degli istinti e l’esercizio del dominio per annientarli. Con grande evidenza rappresentativa, l’esortazione a recidere mani e piedi, o a cavare occhi che creino tentazioni, ripetuta in Matteo (5, 27-30) e Marco (9, 42-47), costruisce l’ammonizione contro i peccati sessuali attraverso l’immagine di un corpo fatto a pezzi. Come scrive Pricoco nell’Introduzione a un volume dal titolo eloquente, L’Eros difficile. Amore e sessualità nell’antico cristianesimo: «il corpo è la parte del composto umano da mortificare e chiamare alla rinunzia diuturna, ma anch’esso partecipa al grande processo di trasformazione che conduce l’asceta alla salvezza»12. Nel percorso ascetico-espiatorio verso la spiritualizzazione dell’esistenza umana, il superamento della fisicità è un passaggio che rende il corpo perfino indispensabile al progetto, ne fa lo strumento irrinunciabile, la via maestra al sacro e alla trascendenza. Il profluvio di parole sull’eros — con la pretesa di bandirne la presenza comunque ingombrante in una vita che voglia essere autenticamente cristiana — e la conseguente ripetuta messa a tema della sessualità, che si riscontrano nella letteratura cristiana di quest’epoca13, danno la cifra della drammatica dinamica inibizione/interesse che ne caratterizza il clima. A proposito dei monaci del deserto, Aline Rousselle commenta: «parlavano di sesso nella misura in cui si reprimevano»14. 2. IL CORPO DI RADEGONDA Se agli antichi scrittori cristiani non risalgono trattati specifici sulla morale sessuale, è proprio a loro che si deve il primo sviluppo e 12
S. PRICOCO (cur.), L’Eros difficile. Amore e sessualità nell’antico cristianesimo, Soveria Mannelli (CZ) 1998, 12. 13 Le radici dei discorsi e dei precetti sull’eros si innestano originariamente proprio nella tradizione ascetica e monastica del primo cristianesimo; cfr. PRICOCO (cur.), L’Eros difficile, cit., 7. 14 A. ROUSSELLE, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, trad. it., Bari 1985, 219.
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l’ampia diffusione delle riflessioni sull’argomento, con la produzione di una abbondante letteratura parenetica su ascesi e verginità e la definizione di modelli di comportamento, affidati principalmente alle scritture agiografiche di ispirazione o a sfondo monastico. Alla letteratura agiografica, dove la tensione tra istinti e censura, tra corporeità e spiritualità, si esprime nei termini più espliciti e spesso brutali, appartiene la Vita di Radegonda redatta da Venanzio Fortunato, poco dopo la scomparsa della santa regina-monaca, avvenuta nel 58715. Nonostante si possa ascrivere a un paradigma narrativo assai fecondo, a una consumata ‘tipologia’, la storia di Radegonda narrata da Venanzio per tante ragioni non si esaurisce negli schemi del genere. Il motivo dominante della santità che si realizza nella vocazione ascetica16, nel «martirio all’irreale del passato» — secondo l’espressione efficace di J. Fontaine17 —, cioè nella forma di strenue penitenze corporali autoinflitte, suppletive dell’esperienza martiriale, perseguite da chi sarebbe stato martire se fosse vissuto in epoca di persecuzioni, aggiunge, in effetti, la vicenda di Radegonda a una lunga serie di storie e personaggi esemplari. Ma la narrazione di Venanzio corrisponde anche a un’esperienza storica reale, ripercorsa da un uomo che è stato legato alla protagonista da una amicizia ventennale, intensa e documentata. 15
A. DEGL’INNOCENTI, Agiografia femminile nel VI secolo, in A. CERESA GASTALDO (cur.), Biografia e agiografia nella letteratura cristiana antica e medievale, Bologna 1990, 161-181. Per una visione d’insieme delle tematiche relative allo scrittore italico, gallico d’adozione, si vedano gli esiti di due convegni trevigiani: Venanzio Fortunato tra Italia e Francia. Atti del convegno internazionale di studi, Treviso 1993 e Venanzio Fortunato e il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studi, Treviso 2003. 16 Cfr. S. PRICOCO, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in: Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., 175-193. Valorizza invece il carattere attivo della santità di Radegonda il saggio di C. Leonardi, che mette a confronto la biografia di Fortunato e quella redatta qualche tempo dopo dalla monaca Baudonivia, cfr. C. LEONARDI, Fortunato e Baudonivia, in H. v. MORDEK (hrsg.) Aus Kirche und Reich. Studien zu Theologie, Politik und Recht im Mittelalter, in Festschr. f. F. Kempf, Sigmaringen, 1983, 23-32. A proposito di Radegonda e di modelli di santità, cfr. C. PAPA, Radegonda e Batilde: modelli di santità regia femminile nel regno merovingio, in Benedictina 36 (1989) 13-33. 17 Cfr. J. FONTAINE, nel commento a Sulp. Sev., Epist. 2, 9, in Sulpice Sévère, Vie de Saint Martine, SCH 135, Paris 1969, 1214-1223.
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La Vita per questo si offre a diversi piani di lettura, e suggerisce un’attenzione particolare al doppio linguaggio nel quale si esprime: quello del corpo femminile di Radegonda, autoflagellato, sottoposto a mortificazioni estreme, continuamente e crudelmente annullato, e quello della scrittura maschile di Venanzio, che questo corpo nomina e descrive durante le prove penitenziali, fino a renderlo ‘ingombrante’ con l’abbondanza di dettagli profusi. Il linguaggio del corpo, che agisce, si tortura, si consuma, è quello della comunicazione cosciente e volontaria, che rimodula e divulga lo schema rodato di un percorso assai arduo, ma sicuro, di affrancamento dalla materia per accedere alla condizione di santità. Le scelte lessicali e stilistiche che traducono in forma letteraria questo messaggio si avvalgono, d’altra parte, di una sapiente retorica, il linguaggio di Venanzio, dove non tutto sembra ridursi a formule consolidate in altrettanti stereotipi. Talvolta la tessitura narrativa tradisce un certo grado di coinvolgimento affettivo e sentimentale: un altro messaggio da decrittare. Tornando, dunque, a riflettere sulla vicenda di Radegonda e sul suo biografo, dei quali mi sono altrimenti occupata18, provo a riconsiderare i testi da una nuova prospettiva per cogliere dentro lo spazio sottile fra questi due livelli di comunicazione, qualcosa dell’esperienza soggettiva, verificare se sia legittimo e possibile cercare in queste pagine, che celebrano Radegonda e il suo modello di santità, la dimensione di una interiorità individuale, e stabilire, infine, fino a che punto il linguaggio dell’‘intensità amorosa’ possa «essere usato asetticamente, senza avvertire il riverbero della sua fiamma»19. Si tratta in altri termini di capire se l’eros che affiora o implode fra queste pagine appartenga agli artifici di una eloquenza codificata che ne ha neutralizzato ogni altra valenza, o mantenga suo malgrado una forza ancestrale non del tutto addomesticabile e obliterata con l’uso della retorica. Radegonda, principessa turingia figlia del re Bertario, ha circa dieci anni quando insieme al fratello viene condotta ostaggio nella reggia di 18 Cfr. il mio, Lo spazio declinato al femminile nei concili gallici IV-VI sec., in R. BARCELLONA – T. SARDELLA (cur.), Munera Amicitiae. Studi di storia e cultura sulla Tarda Antichità offerti a Salvatore Pricoco, Soveria Mannelli (CZ) 2003, 25-49: 42 ss. 19 Cfr. M. CRISTIANI, Venanzio Fortunato e Radegonda. I margini oscuri di un’amicizia spirituale, in Venanzio Fortunato e il suo tempo, cit., 117-132, 119.
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Clotario, il figlio di Clodoveo che ha sconfitto il suo popolo e massacrato la sua famiglia. I Germani erano subentrati ai Galli e la dinastia franca, discendente da Clodoveo, si divideva il potere su quelle terre che cominciavano a essere note con il nome di Francia. Nel giro di alcuni anni, nel 538, la giovane prigioniera è costretta, dopo un’inutile fuga, a diventare la moglie del re. Il topos delle nozze forzate nella sua vicenda corrisponde a verità storica20. Radegonda, che precocemente aveva manifestato il desiderio di «diventare martire se solo l’avessero consentito le circostanze del tempo»21, nel racconto di Venanzio appare estranea e riluttante a ogni forma di intimità col suo sposo. Appena può si sottrae ai doveri coniugali, allontanandosi pretestuosamente dal talamo durante la notte per rifugiarsi munita di cilicio nella cappella privata, così da lasciarsi giacere penetrata dal gelo, ardente nello spirito soltanto, mentre il corpo versa in uno stato di abbandono simile alla morte (ut solo calens spiritu iaceret gelu penetrata, tota carne praemortua)22. Non sfugge la cruda metafora sessuale suggerita dal verbo e dall’alternanza delle sensazioni oppositive caldo/freddo. Ancora la biografia ci propone una giovane sposa che durante la quaresima si consuma nei digiuni, continuando a indossare a contatto del corpo (induens ad corpus), sotto le vesti regali, il dolce peso del cilicio. In assenza del re, poi, si profonde in preghiere avvinghiandosi ai piedi di Cristo come se fosse presente (quis credat 20 Sul fenomeno ricorrente di giovani regine di origine straniera nelle corti medievali cfr. C. URSO, Gli stranieri nell’Alto Medioevo, in Annali della facoltà di Scienze della Formazione 10 (2011) 27-57: 51 ss. 21 Vita Radegundis, 2, 5: Quae puella inter alia opera quae sexui eius congruebant litteris est erudita, frequenter loquens cum parvulis, si conferret sors temporis, martyra fieri cupiens. In MGH AA 4, 2, Berolini 19612, 38-49. Trad. it.: G. PALERMO (cur.) Venanzio Fortunato, Vite dei santi Ilario e Radegonda di Poitiers, Roma 1989. Di nuovo a proposito delle pratiche espiatorie quaresimali ritroviamo espresso questo concetto del martirio cercato fuori tempo, quando cioè le persecuzioni sono ormai lontane per cui la ‘testimonianza’ del sacrificio autoinflitto si iscrive dentro dinamiche più personali che storiche, cfr. Vita Radegundis, 26, 61. 22 Vita Radegundis, 5, 14, MGH AA 4, 2, 40: Item nocturno tempore cum reclinaret cum principe, rogans se pro humana necessitate consurgere, levans egressa cubiculo, tam diu ante secretum orationi incumbebat iactato cilicio, ut solo calens spiritu iaceret gelu penetretata, tota carne praemortua, non curans corporis tormenta mens intenta paradiso, leve reputans quod ferret, tantum ne Christo vilesceret.
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qualiter se orationi defunderet, qualiter se tamquam praesentis Christi pedibus alligaret), e «disprezzando il cibo, si nutre di Cristo» perché «solo Cristo sazia la sua fame (cui despecto ventris edulio, Christus tota refectio et tota fame erant in Christo)»23. Anche il trasporto ‘famelico’ verso l’Amato rientra in modo abbastanza scoperto, nel linguaggio della passione amorosa. Penitenza e anelito mistico di congiunzione con Cristo coesistono. Questi e altri comportamenti dissonanti con il ruolo ufficiale di moglie regale sono così plateali che, fino a che Radegonda non attua il progetto di chiudersi nel monastero da lei fondato a Poitiers fra il 552 e il 553 — forzando la mano al vescovo di Noyon, al quale estorce una benedizione diaconale per varie ragioni illegittima24 —, a corte si vocifera sulla sorte di Clotario: il re sembra «avere per moglie una monaca»25. Fin dai primi tempi, la sua vita claustrale si caratterizza per una costante ricerca dell’umiliazione psicofisica. Radegonda si priva innanzitutto di ogni indumento che possa ricordare il suo rango, di ogni simbolo di ricchezza e potere regale. Riduce il suo nutrimento a poco cibo semplice e povero: pane di segale e orzo, quantità minime di legumi. Si dedica inoltre personalmente alla cura dei malati, lavando e ungendo con olio le piaghe più purulente e le infezioni più impressionanti, sulle cui descrizioni Venanzio insiste mostrandole al lettore con concretezza quasi visiva26. La regina si occupa volentieri anche dei 23
Ibid., 6, 16-17, MGH AA 4, 2, 40. Su questo controverso episodio rimando ancora a Barcellona, Lo spazio declinato al femminile nei concili gallici IV-VI sec., cit., 42-45. Sulla consacrazione diaconale in occidente all’epoca di Radegonda, con riferimento alla vicenda personale della regina, si veda C. URSO, La donna e la Chiesa nel Medioevo. Storia di un rapporto ambiguo, in Annali della facoltà di Scienze della Formazione 4 (2005) 67-99: 79-84 e relative note. 25 Cfr. Vita Radegundis, 5, 15, MGH AA 4, 2, 40: De qua regi dicebatur habere se potius iugalem monacham quam reginam. 26 Cfr. Ibid., 17, 39-40, MGH AA 4, 2, 42-43: Nam praeter cotidianam mensam, qua refovebat matriculam, duobus semper diebus sabbati quintam et sabbatum vicibus balneo parato ipsa succinta de savano capita lavans egenorum, defricans quidquid erat, crustam, scabiem, tineam nec purulenta fastidiens, interdum et vermes extrahens, purgas cutis putredines, singillatim capita pectebat ipsa quae laverat. Ulcera vero cicatricum, quae cutis laxa detexerat aut ungues exasperaverant, more evangelico oleo superfuso mulcebat morbi contagio. 24
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lebbrosi, venendo a contatto con la loro pelle macilenta senza precauzioni e senza alcuna resistenza all’infausto e ripugnante spettacolo offerto dagli effetti di una delle malattie più inquietanti dell’antichità27. Le mansioni cui la regina/monaca si sottopone sono presentate come pratiche penitenziali, tanto più impegnative e dure quanto più giovano all’esaltazione della sua statura spirituale. La prima quaresima nel monastero presenta un’accentuazione delle penitenze vere e proprie: Radegonda si sottopone a digiuni sempre più drastici e si asseta fino alla disidratazione delle fauci, così che a stento riesce a recitare i salmi. Teneva il cilicio sul corpo al posto della biancheria (cilicium habens ad corpus pro linteo) e lo stendeva poi sopra un giaciglio di cenere per farne il suo letto, e ancora le sembrava che il suo piccolo corpo non fosse sottoposto a patimenti adeguati28. Ma è nel ricordo di altre quaresime, come in un progressivo 27 Cfr. Vita Radegundis, 19, 44 e 46, MGH AA 4, 2, 43: Hanc quoque rem intremescendam qua peragebat dulcedine! Cum leprosi venientes signo facto se proderent, iubebat adminiculae, ut unde vel quanti essent pia cura requireret. Qua sibi renuntiante, parata mensa, missorium, cocleares, cultellos, cannas, potum et calices scola subsequente intromittebatur furtim, quo se nemo perciperet. Ipsa tamen mulieres variis leprae maculis conprehendens in amplexu, osculabatur et vultum toto diligens animo. [...] Ministra tamen praesumebat et blandimentis sic appellare: Sanctissima domina, quis te osculetur quae sic leprosos amplecteris? Illa respondit benivole: Vere si me non osculeris, hinc mihi cura nec ulla est. Sulla dedizione di Radegonda nei confronti dei malati, cfr. F.E. CONSOLINO, Due agiografi per una regina: Radegonda di Turingia fra Fortunato e Baudonivia, in Studi Storici 29 (1988) 149-151; J. LECLERCQ, La Sainte Radegonde de Venance Fortunat et celle de Baudonivie, in Fructus Centesimus. Mélanges offerts à G.J.M. Bartelink à l’occasion de son soixante-cinquième anniversaire, édd. A.A.R. Bastiaensen − A. Hilhorst − C.H. Kneepkens, Steenbrugge 1989, 207-216; J. LANCZKOWSKI, Radegunde von Thüringen, in Erbe und Auftrag, 67 (1991) 85 ss.; R. FOLZ, Les saintes reines du moyen âge en occident (VIe au XIIIe siècles), Bruxelles 1992, 15-19. Sulla piaga della lebbra e il suo trattamento nell’antichità cfr. U. MATTIOLI, Assistenza e cura dei malati nell’antichità cristiana, in E. DAL COVOLO − I. GIANNETTO (curr.), Cultura e promozione umana. La cura del corpo e dello spirito nell’antichità classica e nei primi secoli cristiani. Un magistero ancora attuale? Atti del Convegno internazionale di studi, Troina 1998, 273-275 e più recentemente E. PIAZZA, La lebbra tra malattia e peccato nell’Alto Medioevo, in Annali della facoltà di Scienze della Formazione 6 (2007) 5-20. 28 Cfr. Vita Radegundis, 22, 52, MGH AA 4, 2, 44: ante se cinerem stratum superiecto cilicio, hoc utebatur pro lectulo, ipsa requies fatigabat cui parum videbatur hoc sustinere corpusculum.
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infierire, che il livello dell’espiazione supera le soglie del dolore immaginabile e spinge Venanzio a confessarsi inorridito mentre ne narra i momenti più truci29. Lo scrittore indulge nel dettaglio con un atteggiamento che è stato definito di «torbido compiacimento»30 e con toni che evocano atmosfere di «sapore gotico» — come si è scritto31 — per l’iperrealismo e la barbara crudeltà dei particolari32. Venanzio giunto a Poitiers nel 567, affascinato dalla regina, vi era rimasto e svolgeva presso il monastero diversi ruoli, come quello di economo e segretario. Non è escluso che avesse diretta conoscenza delle pene che Radegonda si infliggeva e ne fosse colpito e turbato. In alcuni versi, galanti e vibranti di affettuosa sensualità, lamenta in toni elegiaci33 il senso di oppressione determinato dalla sua assenza durante la clausura quaresimale. La fitta oscurità dell’attesa si dissiperà — scrive Venanzio — con la Pasqua, che porterà con sé la luce doppia della resurrezione e del ritorno della penitente34. Oltre a inflig29 Cfr. Vita Radegundis, 25, 60, MGH AA 4, 2, 45: Itaque post tot labores quas sibi poenas intulerit et ipse qui voce refert perhorrescit. 30 PRICOCO, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, cit., 181 31 Cfr. CONSOLINO, Due agiografi per una regina: Radegonda di Turingia fra Fortunato e Baudonivia, cit., 143-159, 151. 32 Che Radegonda, almeno dai tempi del ritiro monastico, si sottoponesse a un durissimo regime ascetico è documentato anche da una lettera inviatale intorno al 570 dalla badessa del monastero di san Giovanni in Arles, Cesaria, nipote del più noto Cesario di Arles. In essa la regina viene sollecitata a non mettere a rischio la salute e a conformare i suoi comportamenti alla disciplina imposta dalla Regola. Cesaria si mostra preoccupata: invita esplicitamente Radegonda a moderarsi e a coltivare con la preghiera la purezza dell’anima. Per introdurre queste raccomandazioni la badessa dichiara di essere venuta a conoscenza dei suoi eccessi nella pratica dell’astinenza. Evidentemente le pratiche penitenziali — qui richiamate del tutto genericamente — dovevano essere tali da creare una certa eco. Cfr. CAESARIA, epist., 74-79, SCH 345, Paris 1988, 486 s. Sulla datazione, sull’autenticità e sull’importanza come fonte storica di questa lettera, cfr. ancora SCh 345, l’Introduction, 443 ss. 33 Cfr. F.E. CONSOLINO, Amor spiritualis e linguaggio elegiaco nei Carmina di Venanzio Fortunato, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa serie III, 7 (1977), 1351-1368, e anche A.M. PIREDDA, La Figura femminile nella poesia di Venanzio Fortunato in Sandalion 20 (1997) (pubbl. 1999), 141-153. 34 Cfr. Carm. 8, 9 e 10, in CSEA 8/1, VENANZIO FORTUNATO, Opere/1, a cura di S. Brazzano, Aquileia 2001, 452-455; (da questa edizione le altre citazioni delle opere in versi). In un altro componimento — indirizzato sempre a Radegonda — Venanzio
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gersi fame e sete, Radegonda cinge le braccia e il collo con anelli di ferro35, si lega tutta in catene così strette che per liberarla, alla fine del periodo penitenziale, bisogna recidere la pelle cresciutavi sopra. Venanzio descrive la tenera carne costretta dal ferro e poi le incisioni tutt’intorno agli anelli, sul dorso e sul petto per scioglierla dal morso del metallo, il sangue versato e la debolezza dell’esile figura36. In un’altra circostanza Radegonda si marchia a fuoco con il segno della croce, in due parti del corpo, provocandosi terribili ustioni su tutta la pelle37. Durante un’ennesima quaresima, non contenta di lacerare le fragili membra con l’ispido cilicio, si fa portare un braciere e sottopone il suo corpo alla prova del fuoco fino a procurarsi profonde ulcerazioni. L’anima armata di ardore penitenziale supera l’esitazione delle membra trepidanti: mentre la pelle crepita cuocendo, la donna refrigera il suo cuore ardente38. annuncia il dono di fiori, che auspica adorneranno le chiome della regina al suo rientro dalla clausura, si veda il Carm. 8, 8, in CSEA 8/1, 452-453. 35 Cingere con anelli di ferro collo e braccia era un antico e crudele rito di origine germanica a carattere espiatorio, riservato a chi si fosse reso colpevole della morte di parenti; cfr. H. PLATELLE, La pénitence des parricides, in Sacris Erudiri 20 (1971) 145161 e M. ROUCHE, Le Mariage et le célibat de sainte Radegonde, in La Riche personnalité de sainte Radegonde, Poitiers 1988, 77-98, 88. Pricoco non esclude che nel sottoporsi a simili torture Radegonda fosse motivata dai sensi di colpa per la morte del fratello, assassinato – sembra – su ordine del marito (PRICOCO, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, cit., 182). 36 Cfr. Vita Radegundis, 25, 60, MGH AA 4, 2, 45: Quadam vice dum sibi latos tres circulos ferreos diebus quadragesimae collo vel brachiis nexuit, et tres catenas inserens circa suum corpus dum alligasset adstricte, inclusit durum ferrum caro tenera supercrescens. Et transacto ieiuno cum voluisset catenas sub cute clausas extrahere nec valeret, caro per dorsum atque pectus super ferrum catenarum est incisa per circulum, ut sanguis fusus ad extremum exinaniret corpusculum. 37 Cfr. ibid., 26, 61, MGH AA 4, 2, 45: Item vice sub altera iussit fieri laminam in signo Christi oricalcam, quam accensam in cellula locis duobus corporis altius inpressit, tota carne decocta. Sic spiritu flammante membra faciebat ardere. 38 Cfr. ibid., 26, 62-63, MGH AA 4, 2, 45: Adhuc aliquid gravius in se ipsa tortrix excogitans, una quadragesimarum super austerum ieiunium et sitis torridae cruciatum, adhuc lima cilicii membra tenera setis asperis dissipante, iubet portare aquamanile ardentibus plenum carbonibus. Hinc discententibus reliquis, membris trepidantibus, animus armatur ad poenam, tractans quia non essent persecutionis tempora a se ut fieret martyra. Inter haec ut refrigeraret tam ferventem animum, incendere corpus deliberat, adponit aera
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L’opposizione caldo-freddo, variamente modulata fra ossimori e giochi di parole, nel continuo passaggio fra concrete sensazioni fisiche e stati emotivi, appare dominante. L’anima forte di questa donna ‘virilmente’ santa39 si misura costantemente sul contrasto con il corpo esile, nominato come caro tenera, corpusculum o tenera membra. Mentre Radegonda si macerava nella solitudine della clausura nella cella quaresimale, Venanzio — come si è ricordato — le scriveva versi grondanti nostalgia per la lontananza, secondo il lessico e i modi dell’elegia erotica, che benché risemantizzati in chiave mistico-cristiana, conservano momenti di ambiguità. Egli stesso altrove insiste sulla natura spirituale del vincolo affettivo che lo lega a Radegonda, consapevole del rischio di potere essere frainteso40. Intanto immaginava, sentiva narrare le sue pene, e poi forse a ogni suo ritorno ha potuto vederne le tracce, dolersi delle sue piaghe. Il racconto delle torture autoinflitte che ci consegna, quando ormai Radegonda non è di questo mondo, mette al centro il corpo in un modo vivido, nel quale emerge una sensualità che della sofferenza si sostanzia e vive nell’accentuazione cruda della fisicità estenuata da penitenze simili a sevizie41. candentia, stridunt membra crementia, consumitur cutis et intima quo attigit ardor fit fossa. Tacens tegit foramina, sed conputrescens sanguis manifestabat quod vox non prodebat in poena. Sic femina pro Christi dulcedine tot amara libenter excepit. 39 Il motivo della mulier virilis figura già nel prologo della Vita di Radegonda. Tra i vari studi sul concetto di mulier virilis va ricordato almeno qualche titolo: E. GIANNARELLI, La tipologia femminile nella biografia e nell’autobiografia cristiana del IV secolo, Roma 1980, 18 ss.; U. MATTIOLI, Asthéneia e Andréia. Aspetti della femminilità nella letteratura classica, biblica e cristiana antica, Roma 1983, 111 ss.; K. VOGT, «Divenire maschio». Aspetti di una antropologia cristiana primitiva, in Concilium 21, (1985) 102-117; C. MAZZUCCO, ‘E fui fatta maschio’. La donna nel Cristianesimo primitivo, Firenze 1989, 104-107; F. RIZZO NERVO, Dalle donne travestite al travestimento delle donne, Per una tipologia tra agiografia e letteratura, in A.M. BABBI − A. PIOLETTI − F. RIZZO NERVO − C. STEVANONI (curr.), Medioevo romanzo e orientale. Testi e prospettive storiche, Soveria Mannelli 1992, 71-90; cfr. anche G. PETRONE, La donna 'virile', in Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma, Ancona 1995, 259-271 (per una lettura della tipologia della mulier virilis precristiana). 40 Cfr. CONSOLINO, Amor spiritualis e linguaggio elegiaco, cit., 1355. 41 Gli scritti agiografici in prosa pervenuti sotto il nome di Venanzio sono vari, e se Bruno Krusch (editore dei testi agiografici tardoantichi dei Monumenta Germaniae historica) gliene ascrive in tutto sei, la paternità di Venanzio anche per altri testi è stata
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I rituali espiatori cui Radegonda si sottopone non sono poi così dissimili da quelli descritti da tanta letteratura agiografica. Sfogliando La Storia Lausiaca di Palladio, per fare solo un esempio, ci si imbatte in figure di asceti orientali capaci di esporsi alle prove più terribili e disumane. Si pensi alla giovane Alessandra che, dopo avere abbandonato la città, si chiude in una tomba dove rimane per dieci anni, cioè fino alla morte, per evitare di indurre in tentazione un uomo che di lei si era invaghito42. Fra gli episodi narrati si trovano anche torture analoghe a quelle praticate dalla regina. È il caso di Ammonio che, per superare le tentazioni della carne, si applica sulle membra un ferro arroventato fino a coprirsi di piaghe43. E ancora, Palladio narra di Evagrio che durante l’inverno si calava in un pozzo finché le sue membra non diventavano di ghiaccio per allontanare il demone della lussuria. Sempre Evagrio, in opposizione allo spirito della bestemmia, che lo tormentava assiduamente, era capace di vagare all’aperto senza riparo per quaranta giorni di fila, tanto da ridurre il proprio corpo pullulante di terribili parassiti44. Di nuovo per combattere vittoriosamente la guerra contro i desideri sessuali, un fervido asceta di nome Filoromo, oltre a evitare tutti i cibi cotti, portava sul corpo catene45. Ma le descrizioni di queste performances eroiche, oltre i limiti della sopportazione umanamente immaginabile, sono offerte al lettore in rivendicata da studi più recenti; cfr. PRICOCO, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, cit. 175 e 180 ss. Ma, fatta eccezione per questa Vita di Radegonda e per la Vita di Germano, che sono discretamente estese, gli altri componimenti a carattere agiografico sono assai brevi, spesso meno della metà. In mezzo a questa non esigua produzione agiografica la biografia dedicata alla regina, oltre a distinguersi per le proporzioni, è anche l’unica ad avere protagonista una donna e a concedere uno spazio così abbondante, abitato da tanti dettagli precisi e scabrosi, alla rappresentazione dei rituali penitenziali. Non troviamo descrizioni simili negli altri scritti agiografici di Venanzio, anche perché in nessun altro la ‘sfida ascetica’ presenta la stessa preminenza che ha nella biografia dedicata alla regina. Proprio nelle pagine riservate alla donna — osserva Pricoco — lo scrittore ci consegna «l’esempio di più aspra e ‘virile’ santità ascetica». 42 Si veda PALLADIO, La Storia Lausiaca 5, 1-2, introd. di C. Mohrmann, testo e comm. di G.J.M. Bartelink, trad. it. di M. Barchiesi, Milano 19983, 29-31. 43 Ibid., 11, 4, 52-53. 44 Ibid., 38, 11, 200-201. 45 Ibid., 45, 2, 218-219.
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termini asciutti e sintetici. Ogni personaggio è un modello straordinario, ma abbastanza lontano, sprofondato nella geografia del deserto e in una sorta di fissità temporale, e soprattutto il linguaggio adoperato per evocarne le ‘gesta’ resta distante sul piano della partecipazione esperienziale, della sensibilità soggettiva. È assente la terminologia metaforica dell’eros. Se di libido si parla, il richiamo resta nell’ambito delle debolezze del corpo, da superare in ogni modo. Le parole di Venanzio hanno un’altra densità emotiva e sentimentale, e danno al corpo di Radegonda una diversa centralità: il ‘campo’ sul quale si ingaggia la guerra contro ogni lusinga terrena assorbe l’attenzione e rischia di diventare più importante dell’esito della stessa guerra. Con le parole dell’eros, Venanzio si riferisce a Radegonda anche nel carme De Virginitate, dove lo stato virginale è senz’altro assimilato al martirio46. Quando ne descrive l’appassionata sequela della Regola di Cesario, alla cui disciplina la regina ha sottoposto il monastero di Poitiers — dopo avere definitivamente lasciato la reggia e il marito —, lo scrittore si esprime così: «con una fede fecondata dall’amore per Cristo, Radegonda (concipiente fide Christi Radegundis amore) si attacca a tutto ciò che la Regola di Cesario prescrive» e prosegue: «più ne sorbisce dalla fonte, più la sete aumenta e cresce, e più si bagna della rugiada di Dio, più s’infiamma (quantum fonte trahit, tantum sitis addita crescit/et de rore Dei plus madefacta calet)». Questi versi si datano poco prima del 576, e furono composti in occasione della consacrazione di Agnese — figlia spirituale di Radegonda — quale badessa del monastero. Nonostante alcune somiglianze espressive, va osservata una certa distanza, non solo cronologica, fra le immagini evocate nei diversi contesti. Nella Vita siamo di fronte a un’esperienza di tipo penitenziale che vede una giovane Radegonda, in fuga da uno sposo indesiderato, cercare refrigerio nella sofferenza e nella preghiera espiatoria, e poi un’asceta matura che macera il corpo per placare l’anima fervente. Nei versi, invece, si rappresenta il desiderio appagato di una donna che vive una scelta nella pienezza della sua realizzazione: le parole dell’eros sono prestate alla relazione mistica Radegonda-monaca/Cristo-Dio. 46 De virginitate, carm. 8, 3, vv. 39-42, in CSEA 8/1, VENANZIO FORTUNATO, Opere/1, 428-431.
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Il registro linguistico di Venanzio, nei versi come nella prosa, asseconda e sviluppa una tendenza da tempo assimilata dall’eloquenza cristiana47, la cui ricerca di soluzioni espressive per significare l’indicibile nell’elaborazione del discorso sull’astinenza sessuale, aveva da tempo relegato — come è stato efficacemente messo in evidenza — l’eros e il suo riconoscimento «proprio laddove ne è preclusa la pratica» cioè «nell’amore mistico per Cristo»48. Sulla scia dell’esegesi allegorica cui Origene, leggendovi la rappresentazione dell’amore tributato a Dio dall’anima, aveva sottoposto il Salmo 45 (44) e soprattutto il Cantico dei Cantici, i Padri greci e latini avevano intrapreso e variamente attraversato questo percorso fino a produrre esempi di ‘erotismo mistico’ perfino imbarazzanti49. La metafora dell’unione sacra, applicata a tutti i fedeli anelanti all’incontro spirituale con Dio, si amplifica e arricchisce enormemente di possibilità evocativo-espressive quando si tratta di un’asceta di sesso femminile: la sponsa Christi. Da questo punto di vista, Venanzio è considerato l’artefice di un ulteriore sviluppo delle possibilità ‘metaforiche’ del vocabolario dell’eros e della sua versatilità semantica, realizzato proprio con il suo De Virginitate. Come Franca Ela Consolino ha rilevato, lo scrittore conferisce «all’intero carme il carattere di un epitalamio che descrive il congiungimento finale della vergine a Cristo»50, senza risparmiare toni e atmosfere di alta sensualità, che si nutrono di attesa, desiderio, effusioni reciproche. Pratica cioè una vera e propria conversione dell’eros. Nel carme De Virginitate si evoca 47 Cfr. Av. CAMERON, Christianity and Rhetoric of Empire. The Development of Christian Discourse, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1991. 48 F.E. CONSOLINO, Casti per amor di Dio. La ‘conversione’ dell’eros, in PRICOCO (cur.), L’Eros difficile, cit., 159-195, 189. 49 Per una ricca esemplificazione cfr. ancora CONSOLINO, Casti per amor di Dio, cit., 191 e passim. La studiosa ricorda il commento scandalizzato di un filologo del primo Novecento (C. MORELLI, L’epitalamio nella tarda poesia latina, in Studi italiani di Filologia classica 18 [1910], 319-432, 420, nota 1) a proposito di un Carme di Gregorio di Nazianzo. 50 Cfr. CONSOLINO, Casti per amor di Dio, cit., 192-195. Cfr. anche F.E. CONSOLINO, Cristianizzare l’epitalamio: il carme 25 di Paolino di Nola, in Cassiodorus 3 (1997) 199213. Secondo questo saggio Paolino aveva seguito nel carme 25 il procedimento inverso, auspicando nel suo componimento per due sposi terreni un matrimonio casto e conferendo a un autentico epitalamio gli intenti di un epitalamio mistico-cristiano.
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l’immagine di Cristo che «con maggiore libertà penetra nel cuore che egli solo conosce e con gioia si inoltra nella strada dove nessuno fu mai; considera proprie quelle membra che nessuna ingiuria macchia, che non furono mai possedute da altro uomo» (pectora liberius penetrat sibi cognita soli/ et quo nemo fuit laetior intrat iter/ haec sua membra putans quae nulla iniuria fuscat/ quae neque sunt alio participata viro)51. E ancora, prosegue Venanzio rivolgendosi alla vergine dedicataria: «Trionfante, dopo la battaglia, (Cristo) corre ad abbracciarti, dando casti baci sulle tue labbra consacrate. Ti accarezza, ti conforta, ti venera, ti onora, ti protegge e colloca le tue caste membra nel suo letto nuziale (Currit ad amplexus post proelia gesta triumphans/ infigens labiis oscula casta sacris./ Blanditur refovet veneratur honorat obumbrat/ et locat in thalamo membra pudica suo)»52. Nel testo della Vita di Radegonda la tensione affettiva e la sensualità entrano in un modo diverso, si addensano nelle descrizioni dei patimenti penitenziali. Non sembra trattarsi di eros ‘convertito’ totalmente spiritualizzato, sublimato, o non soltanto. Non si avverte in modo preminente la corrente emotiva che passa dall’asceta a Cristo e viceversa, non si descrive l’unione mistica, manca la reciprocità. Nei riti di espiazione cui il corpo è sottoposto, la dimensione erotica non si risolve e non evolve nell’appagamento spirituale del ricongiungimento con Cristo. L’eros investe la sofferenza del martirio autoinflitto, non incontra una dimensione di estatica beatitudine, passa dalla fascinazione, tradotta nelle parole di Venanzio, al corpo di Radegonda che cerca la voluttà del martirio e viceversa. Non appare il punto di arrivo del percorso mistico, il Cristo trionfante, piuttosto la sua croce. Le espressioni che raccontano con un iperrealismo brutale le flagellazioni del corpo di Radegonda, e che, evocando forti sensazioni di concretezza visiva e tattile, presentano l’esperienza individuale dell’appagamento nella sofferenza fisica, sortiscono infine — mi sembra — l’effetto di ‘erotizzare’ il martirio, di riportare il corpo sulla terra e ricordare l’ineludibile ‘passione’ dell’esserci.
51 52
De virginitate, carm. 8, 3, vv. 107-110, in CSEA 8/1, 432-433. Ibid., vv. 125-128, in CSEA 8/1, 434-435.
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CORPI E ANIME NELLE PREDICHE DEL VESCOVO ISIDORO CLARIO (1495-1555)
ROBERTO OSCULATI*
Nell’aprile del 1565, a Venezia, il monaco cassinese Benedetto Guidi († 1591) dell’abbazia di San Giorgio Maggiore pubblicava una raccolta di prediche del collega Isidoro Clario, scomparso dieci anni prima mentre era vescovo di Foligno. Si trattava di cinquantaquattro discorsi, messi per iscritto in lingua latina, in cui veniva spiegato passo dopo passo l’evangelo di Luca. Essi si interrompevano al decimo capitolo del testo a motivo dell’improvvisa malattia che condusse alla morte l’oratore cinque anni dopo l’inizio della diffusa esposizione1. Il sottotitolo indica i caratteri principali di queste spiegazioni rivolte all’uditorio della cattedrale umbra: l’eleganza delle parole, la ponderosità dei concetti, la spiegazione di molti passi biblici. Ma soprattutto vi risplende, secondo l’editore, la “pietas christiana” dell’oratore e questa è la loro più importante caratteristica. Una lunga dedica all’abate di San Giorgio Maggiore, Andrea Pampuri, designato a presiedere tutta la congregazione cassinese, spiega l’intento della pubblicazione. La nuova struttura monastica federale, che si richiamava a Montecassino e alle origini della comunità benedettina, voleva continuare nel secolo XVI due aspetti fondamentali della regola: il * Docente di Storia del Cristianesimo presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. 1 ISIDORUS CLARIUS, In evangelium secundum Lucam orationes quinquagintaquatuor, Venezia 1565.
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Roberto Osculati
soccorso dei poveri e l’impegno nello studio. Il monachesimo veniva accusato di essere fonte di pigrizia e di egoismo. Ma il rinnovamento etico e culturale partito dall’abbazia di Santa Giustina di Padova e diffusosi in tutta l’Italia aveva mostrato con molte grandi personalità quanto gli ideali monastici fossero ben vivi e capaci di affrontare i problemi più scottanti della società e della chiesa del secolo XVI. La raffinata cultura biblica di Isidoro, il rigore della sua vita monastica e l’impegno profuso nel ministero episcopale ne facevano un esempio per tutta la chiesa italiana del tempo sollecitata nel suo interno da mille tensioni e problemi, mentre era chiamata a misurarsi con le sfide partite dall’Europa centrale. L’anno successivo furono pubblicate sessantanove prediche dedicate alla spiegazione del Discorso della montagna (Matteo 5-7)2. Ulteriormente apparvero prediche su vari argomenti e per diverse occasioni3. Isidoro Cucchi4 era nato a Chiari nella campagna bresciana da una famiglia modesta. Probabilmente su indicazione dei superiori della congregazione cassinese, come era d’uso, aveva aderito alla comunità benedettina di San Giovanni Evangelista di Parma, dove emise i voti il 24 giugno 1517. La monumentale abbazia cittadina testimonia 2
ID., In sermonem Domini in montem habitum secundum Matthaeum orationes sexagintanovem ad populum, Venezia 1566. 3 ID., Orationum quas extraordinarias appellavit volumen primum-volumen secundum, Venezia 1567. Le tre collezioni si trovano ad esempio nelle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero di Catania e appartenevano all’antica biblioteca del monastero di S. Nicola l’Arena, che faceva parte della Congregazione cassinese. Si tratta di opere molto diffuse negli ultimi decenni del XVI secolo soprattutto presso le comunità religiose e se ne conservano molti esemplari. L’attività episcopale del monaco è stata studiata in particolare da B. ULIANICH, Isidoro Clario e la sua attività riformatrice nella diocesi di Foligno (1547-1555), in Riforma e riforme. Momenti di storia e storiografia, Napoli 1995, 129-237. 4 H. HURTER, Nomenclator literarius theologiae catholicae, II, Innsbruck 1906 III ed., coll. 1478-1482; B. COLLET, Italian benedictine scholars and the reformation. The congregation of Santa Giustina of Padua, Oxford 1985; R. AUBERT, Isidore de Chiari, in Dictionnaire d’histoire et géographie ecclésiastiques, 26, Parigi 1997, coll. 192-193; A. PROSPERI, L’eresia del Libro grande, Milano 2000; S. GIORDANO, Isidoro da Chiari, in Dizionario biografico degli italiani, 62, Roma 2004, 647-650; Isidoro Clario (1495ca1555): umanista teologo, Brescia 2006; M. DELL’OMO, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea, Milano 2011, 327-336.
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tuttora, con le sue architetture e pitture, con la sua farmacia e la sua biblioteca, gli ideali dell’umanesimo religioso italiano tra la fine del XV e i primi decenni del XVII secolo. Il giovane monaco ebbe modo di dedicarsi allo studio dell’ebraico e del greco oltre a fornirsi di una limpida scrittura latina. Dietro agli interessi storici e filologici era insieme vivissima una visione concreta, pragmatica ed etica dell’essere umano, conformemente alla sensibilità della regola monastica benedettina. A questa si aggiungevano certamente lo spirito della letteratura sapienziale ebraica, la cultura classica romana di orientamento morale, una visione concreta, didattica e sapienziale della figura evangelica di Gesù, una forte affinità con la fede esistenziale di Paolo e un rigoroso moralismo apocalittico. Tra il 1536 e il 1537 il monaco aveva avuto modo di vivere a Roma, dove aveva accompagnato l’abate Gregorio Cortese (1483-1547), chiamatovi dal papa Paolo III per stendere il celebre Consilium de emendanda ecclesia5. Abate prima a Pontida poi a Cesena, si era dedicato al compito di tradurre dall’ebraico e dal greco tutte le Scritture. L’enorme volume fu pubblicato per la prima volta a Venezia nel 15426. Esso fornisce una nuova traduzione latina accompagnata da note di carattere filologico, storico 5 Durante i lavori romani il monaco stese un suo programma di riforme ecclesiastiche e di riconciliazione con la protesta nordica. Una teologia basata sulla universale misericordia divina, sulla rinuncia alle dispute marginali e di scuola, sull’impegno personale e concreto di tutti nell’imitazione di Cristo avrebbe aperto nuovi orizzonti alla cristianità occidentale. Essa era percorsa da infinite dispute e da gravi disordini, che nulla avevano a che fare con il dettato evangelico, mentre avrebbe dovuto orientarsi di nuovo alle sue vere origini. L’opuscolo, dedicato al cardinale Gasparo Contarini (1483-1542), uscì a Milano nel 1540, dopo che ne fu sconsigliata da parte cattolica la pubblicazione in Germania. All’inizio del XVIII secolo i monaci cassinesi di Parma vollero presentarlo di nuovo in appendice ad un volume che raccoglieva le lettere giovanili del loro antico compagno: Isidoro Clario, Epistolae ad amicos, Modena 1705, 149-231. La teologia monastica dell’oriente e dell’occidente rappresentava i caratteri più tradizionali della fede molto meglio di quanto accadesse nella scolastica cattolica e nelle novità protestanti. Vedine un’edizione recente a cura di M. Cavarzere, Roma 2008. 6 Vulgata aeditio Veteris ac Novi Testamenti, authore Isidoro Clario Brixiano, monacho casinate, Venezia 1542. Una copia di questa traduzione si trova presso la Biblioteca Agatina di Catania. La massicia opera venne ripubblicata, come Bibliotheca sacrosanta Veteris ac Novi Testamenti, con qualche aggiustamento edito-
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e teologico. Dal dicembre 1545 al gennaio 1547, assieme ai due altri abati che rappresentavano la sua congregazione, partecipò alle discussioni tridentine sulla rivelazione, sulla giustificazione e sulla riforma della chiesa romana7. Eletto da Paolo III vescovo di Foligno il 24 gennaio 1547 dietro indicazione dei cardinali Gregorio Cortese, Reginaldo Pole e Iacopo Sadoleto, abbandonò per sempre il concilio e si stabilì nella sua diocesi8. Nella città umbra e nel territorio della sua giurisdizione esplicò una attività intensa di istruzione religiosa del popolo, di critica dei costumi ecclesiastici e civili, di soccorso dei poveri. Una autentica riforma della chiesa romana sarebbe stata ottenuta in modo molto più efficace da un impegno rigoroso dei vescovi nei confronti della dottrina e delle opere dell’evangelo che da sottili discussioni su formule astratte. 1. O PRAESEPE ADORANDUM ET ADMIRANDUM Una caratteristica fondamentale della predicazione popolare del monaco e vescovo è quella di concentrarsi su alcuni temi dominanti, che vengono continuamente ribaditi ed illustrati. Uno di questi è l’umiliazione che il divino fa di se stesso nella carne umana. Questa prospettiva rovescia completamente le usuali concezioni del mondo e le pratiche più comuni dell’esistenza. Gli esseri umani ritengono di riale per distinguerla dalla Vulgata corrente e non farla apparire come una concessione alla teologia protestante. Le Biblioteche Riunite e la Biblioteca Regionale di Catania ne posseggono una edizione del 1564 stampata a Venezia. Le note che accompagnano, con qualche eccezione, il testo tradotto vogliono mettere in luce il significato letterale delle Scritture, la loro profonda connessione nella prospettiva dell’evangelo, l’intento fondamentale rivolto alla costruzione dell’uomo interiore, giustificato dalla fede e operoso nell’amore. Il volume rappresenta in modo organico l’evangelismo benedettino ed italiano del XVI secolo. Ebbe per decenni una larga diffusione per cadere poi nell’oblio. 7 Ripetutamente la documentazione relativa al primo periodo di lavori sinodali riporta documenti che riguardano il monaco intriso di cultura biblica ed ascetica. Vedi S. GIORDANO, Isidoro da Chiari, 649. 8 Sulla storia religiosa della cittadina umbra ormai inclusa nello stato pontificio vedi M. SENSI, Foligno, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, 17, Parigi 1971, coll. 756-768.
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affrontare in modo efficace le loro esigenze qualora si affidino all’abbondanza dei beni materiali, alla costruzione apparentemente solida di condizioni comode sotto l’aspetto fisico. Il corpo e le sue necessità più immediate vengono posti al centro dell’attenzione del singolo e di una società affascinata dai beni fisici. Si costruisce senza accorgersene un mondo fasullo, inconsistente, ingannevole, in cui ci si avvolge senza capirne la natura provvisoria ed artificiale. Così l’abbondanza del cibo, delle vesti e degli ornamenti, l’ampiezza e la comodità delle case, la facilità di procurarsi denaro hanno offuscato completamente la pratica individuale e comunitaria dell’evangelo. Si è creata una cristianità di pura apparenza, di parole a cui non corrispondono fatti, di esibizioni esteriori prive di sostanza intima e di coerenza morale. Secondo il giudizio ripetuto dal vescovo quasi in ogni predica la gerarchia ecclesiastica stessa è caduta in questo inganno diabolico, secondo il quale il benessere del corpo è la vera misura del successo umano. I vescovi per primi, del tutto ignari della natura dell’evangelo, hanno fatto quasi senza eccezione del loro ministero un affare economico per ottenere un comodo agio materiale riservato alla loro persona e ai loro familiari più o meno legittimi. Il resto del clero, caduto nella più orrenda ignoranza, ha seguito l’esempio dei maggiorenti ed ha fatto del ministero ecclesiastico una questione di entrate economiche da ottenere indipendentemente da qualsiasi dignità morale. La chiesa, nelle sue strutture più essenziali, appare come un organismo amministrativo e finanziario, adatto a procurare piccole e grandi prebende, cui le famiglie aspirano in base al loro egoismo cieco. La completa ignoranza della “philosophia christiana”, come il monaco e vescovo la chiama, si è diffusa in tutto l’organismo apparentemente religioso e in quella società che a parole si professa cristiana. Secondo lui da secoli ormai l’evangelo è stato messo da parte sia dal clero che dal popolo, mentre sotto le apparenze della cristianità si sono affermate concezioni e pratiche di vita che persino le genti ignare dell’evangelo avrebbero duramente criticato. L’egoismo delle comodità fisiche ha poi reso indifferenti verso tutti coloro che non sono in grado di ottenere il minimo necessario alla loro vita. Accanto all’abbondanza scandalosa di molti il vescovo indica infinite volte la sorte di chi non possiede cibo sufficiente, non ha vestiti, casa, città e patria. I
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corpi pasciuti, riscaldati, ornati e protetti di una parte sono un’infamia, una mostruosità, una follia di fronte al freddo, alla fame, alla malattia, al vagabondaggio cui altri sono destinati senza speranza di soccorso. A questa cristianità depravata e incapace di coerenza di fronte alle esigenze più comuni dell’esistenza insieme fisica e spirituale occorre spiegare di nuovo in maniera concreta e rigorosa l’evangelo. La figura di Gesù in tutte le sue parole e soprattutto in ogni suo atteggiamento insegna un altro modo di vivere, basato sull’unità di tutti i suoi fratelli, sull’uguaglianza dei bisogni, sulla comune responsabilità nei confronti dell’esistenza a cominciare dal suo aspetto corporeo. La predica relativa al racconto natalizio (Lc 2,1-20) illustra in modo molto concreto quanto la nascita del messia debba divenire un continuo ammonimento per coloro che vogliano professarsi cristiani. Gesù nasce nel corso di un viaggio intrapreso per obbedire al più grande signore del mondo di allora. Si tratta subito di un segnale che indica la differenza incolmabile tra i regni di questo ordinamento passeggero e l’evangelo: il vero re di tutta l’umanità si fa pellegrino per ordine di un sovrano apparentemente grande ma alla fine modesto e temporaneo. Si vuole così indicare la natura completamente diversa da quel regno basato sulla ricchezza e sulla forza. Gesù nasce in una stalla e si tratta di una indicazione morale della massima importanza: «Avvicinatevi qui, animali davvero insensati, che di fronte a tanta saggezza divina e a tanta provvidenza verso di noi non avete ancora mutato sentimento. In che modo, pur professando la pietà cristiana, compite nei fatti azioni tanto contrarie rispetto a quelle di Cristo stesso, di cui professate la filosofia? Che cosa pretendono i vostri immani palazzi e le folli costruzioni che elevate, mentre dimenticate e disprezzate Cristo, che vedete ogni giorno consumato da una estrema povertà nei suoi fratelli a motivo della vostra profusione di ricchezze e di lussi? Forse è essere cristiani non porsi mai davanti agli occhi le azioni di Cristo e fare tutto il contrario rispetto alla sua vita e al suo insegnamento?»9.
Proprio colui che appare nel mondo come un oscuro suddito di una lontana provincia, come un pellegrino senza dimora, come un neonato 9
ISIDORUS CLARIUS, In evangelium secundum Lucam, f. 53r.
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deposto nella dimora degli animali, apparirà alla fine dei tempi come giudice inappellabile di tutti gli esseri umani: «Che cosa infatti allora risponderete a lui, quando vi ricorderà queste umili condizioni, alle quali si abbassò in vostro favore, ma a cui avrete da opporre la vostra sola arroganza ed azioni orgogliose?»10. La mancanza di una dimora da parte del vero re dell’universo insegna che i suoi discepoli devono essere ospiti e pellegrini nel mondo presente, per divenire cittadini del regno di Dio. Ma i cristiani ormai ignorano questa suprema sapienza: prendendo l’esilio per la vera patria, non la cercano e non trovano Cristo dove dovrebbe essere cercato, ne disprezzano l’umiltà manifestata nelle sue origini e condotta a termine sulla croce. L’apostolo Paolo fornisce i canoni fondamentali di questo abbassamento del divino alla miseria umana per elevarla oltre le apparenze del mondano. La nascita del pellegrino e del povero indica subito la via della croce come sapienza pratica e definitiva oltre ogni sapienza ingannevole (1Cor 1,18-31; Fil 2,5-11). Se l’evangelo di Luca parla attraverso immagini tratte da una condizione che accomuna la figura di Gesù con quella dei poveri, la sintesi teologica di Paolo illustra una visione definitiva del cosmo e della storia. Essa culmina nella suprema miseria della croce per annunciare una liberazione conclusiva da ogni stravolgimento dell’esistenza umana. Il vero credente deve immedesimarsi sia spiritualmente che nelle condizioni esteriori della sua vita nel modello proposto dalle Scritture. Nelle vicende concrete della vita di Cristo si manifesta la via che conduce alla trasformazione di se stessi al seguito della sapienza divina fatta carne umana. Un tale segno, posto al centro dell’universo non viene riconosciuto da coloro «che tra i cristiani vi si oppongono con le loro esibizioni e con dottrine ed azioni opposte alla professione cristiana»11. L’immagine lucana dei pastori, istruiti dagli angeli, testimoni della nascita umile e annunciatori della grande novità che rovescia i caratteri usuali del mondo, costituisce per il predicatore un’occasione per ribadire le sue critiche ai cosiddetti pastori della chiesa del suo tempo. I sacerdoti di Gerusalemme hanno ignorato il mistero rivelatosi nella 10 11
L.c. Ibid., f. 55r.
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nascita umile e nascosta del re di tutte le genti. Tale ignoranza si ripete nei vescovi attuali e nei loro confronti il severo collega usa un linguaggio duro e affilato. Nella chiesa della metà del secolo XVI accade che «in un tanto grande numero di vescovi quasi nessuno sia degno di essere chiamato vescovo e pastore, dal momento che hanno imparato tutto, fuorché il compito di vescovo e pastore. Da parte loro non si pensa a nulla d’altro che ad onori e ricchezze. L’ambizione e l’avarizia sono il fondamento della loro cattedra. Considerate l’orbe cristiano, l’Italia stessa in cui ci troviamo, per vedere se in un ambito tanto grande vi siano quattro vescovi che esercitino in modo integro il loro ufficio. A costoro è nascosta la natività di Cristo e viene manifestata solo a coloro che vegliano non solo le veglie diurne ma anche quelle notturne sul gregge affidato loro dal sommo pastore» 12.
L’esercizio di una funzione di cui gli umili personaggi del racconto evangelico sono il paradigma appartiene pure a coloro che sono responsabili della loro vita familiare, ma ognuno poi deve essere custode attivo e generoso di se stesso. Questi tratti esteriori delineati dall’evangelo sono un paradosso rispetto alle abitudini correnti nella società che si professa cristiana senza esserlo nei fatti. La fede consiste invece nell’accogliere l’umiliazione del divino in un tipo di vita che contrasta in maniera diretta con le abitudini mondane. I caratteri della nascita di Cristo costituiscono una vera ignominia, se misurati con i criteri correnti della società. Per il vescovo, assai approfondito nella conoscenza delle Scritture, la fede non consiste in affermazioni astratte, celebrazione di riti, convenzioni sociali. E’ piuttosto immedesimazione interiore ed esteriore nella “philosophia” che si mostra attraverso la vita di Cristo. La sua esteriore apparenza mostra il vero carattere del divino, che si riveste della povertà umana per manifestare la sua efficacia al di sopra di ogni convenzione mondana. Si tratta di un completo rovesciamento reso possibile da un amore senza misura che appartiene solo al divino. La figura di Gesù lo manifesta e lo comunica a chiunque voglia accoglierlo ed immedesimarsi con lui, come insegna Paolo. 12
Ibid., f.54r.
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A differenza dei pastori, che pur nell’attesa di un messia terreno, si affrettano a cercarlo e a diffonderne la notizia: «noi di fronte a tanta abbondanza di fatti dormiamo, russiamo, sbadigliamo nel sonno e nel vino. Dove infatti si percepisce tra voi la voce di coloro che esprimono gratitudine, lode e gloria a Dio? Dovunque ascolto canti lascivi e d’amore, divertimenti e scherzi. Proprio in questi giorni del Natale, nei quali dovreste essere molto più misurati ed avere l’animo raccolto nella contemplazione di questi misteri celesti, vivete in modo più dissoluto rispetto a tutto il resto dell’anno, i banchetti si fanno più ricchi, vi ornate di vesti più lussuose, come se il regno di Cristo consistesse in cibo, bevanda e lussi. Nessuno medita quanto è accaduto in questo presepio. Il Figlio di Dio per mancanza di posto nasce in una stalla, è adagiato in una mangiatoia, è avvolto in fasce. Ebbe questo riparo ed ornamento. E gli esseri umani che professano la fede in questo bambino non si interessano d’altro che di edifici imponenti, di vesti lussuose, di alimenti e bevande ripieni di delicatezze. Frattanto i poveri e coloro che il figlio di Dio chiama fratelli vengono dovunque ignorati, stremati dalla fame e dal freddo, privi di casa e di focolare. Svegliatevi, vi scongiuro, ed iniziate a mostrare qualche traccia di quella fede che a parole affermate di professare, ma da cui nelle azioni foste finora del tutto estranei. Visitate questa mangiatoia degna di adorazione e non rifiutate di portare ciò di cui vedete costui ha necessità»13.
I doni che verranno portati in realtà appartengono a lui come sovrano dell’universo ed egli in cambio di quanto sarà messo a disposizione dei suoi fratelli donerà il centuplo e il suo stesso regno. 2. CIRCUMCIDENDUM EST PRAEPUTIUM CORDIS La narrazione esemplare di Luca propone poi il pellegrinaggio a Gerusalemme per il rito della circoncisione del messia neonato. Dopo una lunga spiegazione sulla cerimonia imposta dalla legge il predicatore, come sempre, si appella a Paolo. L’apostolo ha insegnato il carattere provvisorio della consuetudine ebraica, sostituita dalla circoncisione del cuore, dall’adesione spirituale ed interiore all’evan13
Ibid., f.57r.
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gelo oltre ogni apparenza fisica. Ma la concretezza che è usuale alla sua predicazione esige di interpretare l’ablazione di una realtà materiale superflua con la liberazione dalle ricchezze mondane. L’evangelo professa un’appartenenza morale alla vita di Cristo al di sopra di ogni ritualità. Tuttavia la traduzione pratica della nuova esistenza spirituale esige il distacco da un mondo in cui la ricchezza ed il benessere materiale costituiscono il canone supremo della felicità. Pertanto: «occorre tagliare via la pelle superflua del cuore, che vedo ancora presente nella più gran parte di voi. Pelle superflua è quel desiderio insaziabile di possedere e di procurarsi ricchezze. Pelle superflua è il desiderio di onori, pelle superflua sono la superbia e l’arroganza attraverso le quali uno cerca di essere superiore ad un altro. Pelle superflua è quella via spaziosa che conduce alla rovina e la maggior parte di voi cammina per quella»14.
Un cuore non liberato dalle illusioni della ricchezza fa sì che tutto sia contaminato dalla sua oscurità: lo saranno «il cibo, la bevanda, il vestito e la cura del corpo, la cassaforte, il granaio, la cantina, le case, i campi, le vigne, gli oliveti, quasi tutto quello che possedete»15. La vita materiale di molti apparenti discepoli di Cristo si svolge tra una miriade di beni superflui, che talvolta si preferisce lasciare corrompere piuttosto che metterli a disposizione di esigenze comuni. Paolo aveva affermato che all’essere umano devono essere sufficienti il vitto e il vestito. Ma questo insegnamento, dato dall’apostolo a nome di Cristo stesso, è ignorato e chi può vi aggiunge abusivamente «il grano, il vino, l’olio, il denaro, le vesti che le tignole divorano nella cassapanca, l’argento, l’oro, i gioielli di cui non hai alcuna necessità. Tutte queste cose sono pelle superflua e indizi di un cuore incirconciso»16. Già Giovanni il Battista aveva preparato la comparsa di Gesù esponendo la necessità di liberarsi dall’egoismo materiale, ma l’esempio e l’insegnamento del messia devono condurre ad una liberazione ancor più severa da tutto ciò che non è conforme ad una vita semplice e soli14
Ibid., f. 63v. L.c. 16 Ibid., f. 64r. 15
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dale. Così la celebrazione dell’antico rito cui Gesù fu sottoposto diviene la premessa di una conversione spirituale capace di tradursi in gesti concreti e benefici verso coloro che egli proclama suoi fratelli. Dal corpo occorre elevarsi allo spirito, ma la libertà e novità di questo devono di nuovo tradursi in gesti corporei, non più legati all’individualismo arrogante e timoroso, ma ispirati all’uguaglianza ed umiltà evangeliche: «Pensando queste cose circoncidiamoci anche noi assieme al bambino Gesù e togliamo la pelle superflua del nostro cuore. Così, quando saremo stati benigni nei confronti dei fratelli di Cristo ed avremo generosamente donato loro cibo, bevanda, vesti e tutte le altre cose necessarie all’esistenza, ascoltiamo quella beata voce: “ Venite, benedetti del Padre mio”(Mt 25,34-40)»17.
Il vecchio Simeone raccoglie nella sua ultima preghiera le espressioni della fede più viva nel messia, luce universale e fonte di pace (Lc 2,29-32). Ogni cristiano dovrebbe farle nella coscienza di avere ricevuto la sapienza evangelica e di poter attendere la pace del regno di Dio, «ma nessuno può dire questo, se non colui che con comportamenti giusti ed onesti si sia messo per tutta la sua esistenza sulla via dell’evangelo»18. In caso contrario la vita e le parole di Gesù si tramuteranno in un terribile segno di contraddizione (Lc 2,34), che renderà evidente il contrasto tra la professione esteriore della fede e la più miserabile carenza di una fedeltà viva ed operosa19. Se qualcuno, percorrendo il racconto evangelico, si domandasse di che cosa abbia vissuto l’adolescente Gesù nei giorni in cui si allontanò dalla sua famiglia in pellegrinaggio a Gerusalemme, l’esegeta ritiene di poter affermare che egli si fece mendicante e ribadisce così il tema dell’umiliazione del divino e della sua identificazione con coloro che vivono ai margini di una società ricca ed egoista20.
17
Ibid., f. 64v. Ibid., 73r. 19 Ibid., f.75r. 20 Ibid., f. 80rv. 18
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3. PERINDE PALLESCERE Il racconto della pesca miracolosa (Lc 5,1-11) permette al severo predicatore di indicare come il primato dei beni materiali acquistati esclusivamente per se stessi abbia sconvolto le strutture fondamentali della chiesa romana. I vescovi, oggetto continuo di dure reprimende da parte del fervente collega, hanno inteso il loro ministero come occasione di impossessarsi dei beni della chiesa a proprio vantaggio, invece di usarli per coloro che ne sono privi. Il clero subordinato ha seguito il loro esempio ed il popolo è stato abbandonato alle più grossolane tentazioni diaboliche. Per spiegare in modo attuale e concreto questa condizione abnorme della chiesa romana, viene fatto ricorso all’esperienza personale del primo periodo del concilio di Trento tra il 1545 e il 1547. Di fronte agli attacchi provenienti da Lutero e dalle nuove chiese riformate indipendentemente dalla chiesa romana, «fu radunato un concilio ecumenico. Con che spirito, con quale predisposizione, con quale preparazione dell’animo? Si radunò una minima parte dei vescovi, la maggior parte di quelli che si erano riuniti venne per obbligo e rimaneva malvolentieri, come se fossero condotti a girare la macina. Non solo non cercavano la correzione dei costumi e della vita, anzi la aborrivano. Quando si trattava della residenza dei vescovi e del dovere di predicare la parola di Dio e di governare il gregge loro affidato, li avresti visti impallidire del tutto, come se si trattasse della loro condanna a morte. E non a torto. Infatti alcuni di loro mi confessavano che, quando avevano ricevuto l’episcopato, non avevano mai pensato a queste cose, né le avevano ascoltate da altri. Piuttosto avevano in mente come unico scopo di godere delle rendite ecclesiastiche e di ignorare tutto il resto. Pertanto vennero al concilio non con l’intento di aiutare Pietro nella cattura dei pesci, ma costretti, controvoglia e pronti a fuggire e del tutto ignari di che cosa sia la pesca evangelica. E certo il risultato indicò quanto fossero straordinari sia i pastori che i pescatori. Molte cose salutari vennero deliberate dal concilio, rivolte ad eliminare le eresie e a rigenerare i costumi, soprattutto riguardo ai compiti dei vescovi. Ma come si partì dal concilio, i vescovi stessi sono tornati agli antichi costumi e alla vita anteriore, senza badare a quello che era stato deciso dal sacrosanto ecumenico sinodo di Trento»21. 21
Ibid., f. 137r.
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Il tema della perversione operata dalla ricchezza materiale, dall’avarizia dei singoli, dall’indifferenza verso le necessità più comuni degli esseri umani pervade tutto il commento al cosiddetto discorso della pianura (Lc 6,20-49)22. L’esaltazione della povertà e la dura critica del benessere esteriore caratteristica del terzo evangelo trovano immediate rispondenze nella austera “philosophia” cristiana del monaco benedettino, abituato alla misura essenziale delle esigenze personali e all’uso comune dei beni materiali. La chiesa e la società del XVI secolo, secondo il suo giudizio, hanno quasi completamente perso la capacità di esaminarsi in base alla natura originaria della sapienza pratica dell’evangelo. Parallelamente all’ etica riguardante l’uso universale dei beni del corpo corre l’ analisi delle condizioni dell’anima peccatrice di fronte alla giustizia divina. Ne è occasione ad esempio il racconto della peccatrice perdonata e lodata (Lc 7,36-50). La grazia divina sollecita chi si trova in condizione di peccato ad accogliere il dono della giustizia come immedesimazione sempre più approfondita nella vita di Cristo. La conformazione alla sua realtà spirituale e al suo esempio morale è il canone essenziale di quella giustizia che egli possiede pienamente e comunica a chiunque si avvicini a lui. La giustizia interiore e spirituale come superamento della colpa richiede la manifestazione esteriore nei confronti di tutti coloro che fanno parte del corpo di Cristo. L’evangelo di Paolo, basato sulla giustificazione per fede, si compie concretamente nell’unità della vita comunitaria e nei comportamenti concreti su cui insistono Matteo e Giacomo. L’anima e il corpo sono uniti nell’esercizio della medesima giustizia di cui l’umanità di Cristo è la fonte, l’esempio e la regola23. 4. TANTA ET TAM ABSURDA INAEQUALITAS Il maggio del 1566 vide una ulteriore fatica di Benedetto Guidi a favore delle prediche “ad populum” del collega. Il volume è dedicato al 22
Ibid., ff. 162v-201r. Ibid., ff. 243v-259v. Una presentazione sintetica di tutto il testo di Luca si trova nella Vulgata aeditio, III, 44-69. 23
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vescovo di Torcello, Giovanni Dolfin (1529-1584)24. Si tratta di sessantanove testi dedicati al commento del discorso della montagna (Mt 5-7). Secondo l’editore brillano soprattutto in questi lunghi discorsi il commento al Padre nostro, quale presentazione sintetica del cristianesimo, le esortazioni rivolte al clero fulginate sullo svolgimento dei compiti ecclesiastici, il rifiuto lungamente argomentato delle teorie protestanti sulla predestinazione. Le prediche sono anteriori a quelle del volume precedente e rispecchiano i primi anni dell’attività del nuovo vescovo. Anche qui è martellante la critica di una chiesa e di una società solo apparentemente cristiane, ma in realtà completamente sviate dal fascino delle ricchezze. In particolare la beatitudine della misericordia è occasione di una lunga analisi del possesso di beni materiali. Secondo il giudizio del vescovo la misericordia è innanzitutto la pietà verso l’altrui sofferenza soprattutto sotto l’aspetto fisico. Secondo la sua visione universale essa appartiene anche agli animali, mentre la ragione e l’esperienza umana anche al di fuori dell’evangelo ne hanno tante volte sottolineato la presenza. A lui sembra tuttavia che questa predisposizione insieme naturale e razionale sia stata dimenticata dai cristiani. Proprio coloro che ne hanno ascoltato la proclamazione quale suprema legge divina e ne hanno visto l’esempio nella figura di Gesù sembrano essersene completamente dimenticati. Si accontentano infatti di una religiosità superficiale che non affronta mai una rigorosa osservanza del dettato evangelico. Pertanto “oltre al nome con cui siamo chiamati cristiani nulla rimane in noi che appartenga alla filosofia cristiana. Se talvolta pensassimo quale sia il compito proprio di un cristiano, non accetteremmo mai che esistesse una tanto grande e tanto assurda disuguaglianza tra coloro che devono essere fratelli”25. Il predicatore raccoglie una lunga serie di testi sia dai libri sapienziali delle Scritture ebraiche sia dal Nuovo Testamento. Gli è facile mostrare come l’ideale di vita che ne risulta, per quanto concerne il possesso di beni materiali, è una misura molto ristretta sul piano indi24 G. BENZONI, Dolfin Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, 40, Roma 1991, 511-519. 25 ISIDORO CLARIO, In sermonem Domini, ff. 42v-43r. Vedi anche ff. 233r-239v.
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viduale accompagnata da una viva sensibilità nei confronti delle esigenze comuni degli esseri umani. Se l’evangelo propone di amare il proprio prossimo come se stessi, il primo ed essenziale campo in cui deve essere praticata questa “philosophia christiana” è quello delle esigenze fisiche. Si deve aggiungere che non si tratta soltanto di un pesante dovere, dal momento che il possesso dei beni rende l’anima ed il corpo schiavi di ciò che si possiede. Al posto di donare libertà e felicità la ricchezza crea paura, opprime, condiziona totalmente a se stessa. Una rigorosa misura non soltanto permette di soddisfare esigenze comuni, ma rende più capaci di autonomia, più energici, più liberi. E qui il predicatore, come fa molte volte, si richiama alla cultura classica latina e stoica, di cui l’evangelo è considerato un compimento e l’apertura verso la dimensione definitiva del regno di Dio. Come farà tuttavia il popolo cristiano, ignorante e sviato, a capire e a mettere in pratica una sapienza evangelica così lontana dai costumi del tutto contrari, che da secoli si sono affermati tra i più? Ai vescovi e ai loro collaboratori compete di iniziare di nuovo quel cammino spirituale e pratico da cui ha preso nascita l’evangelo. Proprio per questo viene sottolineata accanto alle beatitudini la necessità del sale e della luce forniti dall’esempio di coloro cui è stata affidata la cura religiosa del popolo. Una lunga serie di prediche è dedicata a questo problema essenziale. Il nuovo vescovo è ripieno di un ardore e di una severità mutuati dagli studi biblici e dalla vita monastica, ma si trova circondato da ignoranza, superficialità, indifferenza proprio da parte dei suoi principali collaboratori. Le sue lunghe peregrinazioni estive nelle parti più malagevoli della diocesi hanno accentuato l’impressione negativa raccolta dalla vita cittadina. Le riunioni sinodali del clero, ripetute nei primi anni del ministero, vogliono ovviare ad una totale ignoranza ed indifferenza e alle sue conseguenze nella vita comune26. L’insistenza sul comportamento pratico e soprattutto sull’uso misurato e comune dei beni materiali quale criterio fondamentale dell’evangelo fa sì che gli ultimi e preoccupati discorsi riguardino la pre-
26
Ibid., ff. 80v-125v.
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destinazione e l’esercizio della libertà morale del singolo27. Gesù stesso infatti insiste sull’osservanza pratica del suo insegnamento e del suo esempio oltre una pietà fatta solo di invocazioni e pratiche superficiali. Attribuire al Padre dell’evangelo una decisione relativa alla sorte eterna, indipendentemente dalla risposta di ognuno ai suoi doni, distrugge tutta l’etica del Nuovo Testamento. La critica rivolta dal vescovo alla teologia dei riformatori nordici è basata sull’impressione che essa liberi da ogni impegno morale ed introduca una forma di fatalismo. Tutto è già deciso nell’imperscrutabilità del volere divino, a nulla vale l’impegno umano. Anche la negazione della libertà umana fa parte di una simile concezione. Il predicatore assai ferrato nello studio delle Scritture sa bene che l’evangelo di Matteo va in tutt’altra direzione e sottolinea con grande energia l’impegno umano nell’accogliere i doni divini. Anche Paolo, che esalta nel modo più elevato la grazia imperscrutabile del Padre e considera ogni giustizia come partecipazione a quella di Cristo, indica come l’una e l’altra sollecitino e coinvolgano la libertà dell’adesione personale e della costituzione vivente del corpo di Cristo. Proprio a motivo del dono gratuito e universale del Padre è necessario che tutti suoi figli partecipino ad un universale processo di redenzione fino allo stabilirsi del regno ultimo28. Il vescovo raccoglie anche qui le tradizioni teologiche, antiche e medievali, della teologia monastica assieme ad una visione organica della giustizia divina. In un lungo processo, che coinvolge tutta l’umanità dalle origini alla fine assieme ad ogni individuo, la creazione, la redenzione e la santificazione fanno emergere tutto quanto di positivo è iscritto nella natura e nella storia, si è manifestato nella vita terrena di Gesù, costruisce il suo mistico corpo ed attende il suo ultimo giudizio. Corpi ed anime, natura e grazia, comunità ed individui, fanno parte di una continua purificazione di cui va data testimonianza nella concretezza di ogni situazione e soprattutto di fronte a quelle esigenze di cui tutti sono partecipi e che a tutti sono comprensibili. 27
Ibid., ff.259v-292v. La connessione tra il racconto evangelico e l’epistolario di Paolo è un aspetto fondamentale dell’esegesi di Isidoro. Per una sua presentazione completa delle lettere vedi Vulgata aeditio, III, 123-205. 28
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5. NATURA, LEX, EVANGELIUM Il fedele ed infaticabile monaco di San Giorgio nell’aprile del 1567 pubblica una terza raccolta di centosei prediche suddivise in due volumi. Questa volta il primo è dedicato a Pio V a nome di tutta la congregazione cassinese, il secondo al pronipote del papa, cardinale Michele Bonelli (1541-1598)29. Finita l’epopea conciliare è ora di mettere mano concretamente ad una riforma morale della chiesa romana basata sul dettato del Nuovo Testamento e sul modello delle primitive comunità. Il vescovo di Roma deve imitare l’esempio dei suoi più antichi predecessori nella testimonianza dell’evangelo in forma semplice, pura e coerente. Molteplici sono le occasioni che hanno dato luogo a discorsi come sempre assai severi, argomentati e documentati secondo una lettura profetica ed evangelica delle Scritture. Ripetutamente si sottolinea il carattere esemplare della figura di Cristo in tutte le condizioni della sua esistenza, dall’umiltà della nascita all’ignominia della croce, dalla risurrezione, all’ascensione, al dono dello Spirito, alla gloria divina e al giudizio30. Molte sono le occasioni in cui il predicatore elabora in modo molto circostanziato i caratteri di un’etica pubblica ispirata all’evangelo. Nei costumi correnti della prospera città umbra nessuno potrebbe riconoscere le tracce dell’evangelo. La diffusa litigiosità delle persone a motivo del possesso di beni materiali, il lusso sfrenato ed egoista, la moda esibizionistica sia degli uomini che delle donne, il disprezzo e lo sfruttamento dei lavoratori manuali sono ben lontani da quanto l’esigente “philosophia christiana” prescrive.31 Un lungo percorso, probabilmente quaresimale è occasione per riflettere sulle leggi che governano una vera giustizia. Come al solito il predicatore, nei suoi 29 Su questo personaggio allora all’inizio della carriera di cardinale nipote vedi A. PROSPERI, Bonelli Michele, in Dizionario biografico degli italiani, 11, Roma 1969, 766-774. 30 L’umiltà esemplare della nascita di Gesù viene ripetutamente richiamata anche in questa collezione: ISIDORUS CLARIUS, Orationum quas extraordinarias appellavit, I, ff. 25v-31r.; 234v-239r; 340r.-345v. Sul giudizio finale in base alle opere di misericordia vedi 49r.-59r. 31 Ibid., ff.71r-79r.
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tentativi di sintesi e di presentazione di una visione complessiva dell’evangelo, si avvicina a Paolo. La legge naturale, ben nota anche alle genti e tante volte ricordata a vergogna dei sedicenti cristiani, sa bene quali siano i caratteri di un’etica misurata, unitaria e benevola. Ma la fragilità dell’essere umano l’ha resa impotente per se stessa a produrre una vera giustizia. La legge di Mosè, superati i suoi caratteri rituali e civili, propone in modo esplicito ed autorevole con il decalogo l’ideale di un’umanità conforme al volere creatore del divino. Ma neppure essa è in grado di ottenere il compimento di quanto prescrive. L’evangelo aggiunge alla sapienza naturale e mosaica la redenzione operata da Cristo a favore di tutti e l’universale dono dello Spirito. La fede inserisce nell’opera di Cristo chiunque ad essa si affidi, mentre il dono dello Spirito trasforma interiormente il cuore e lo rende capace di agire conformemente alla legge naturale, al comandamento e soprattutto all’esempio pratico di Cristo. In lui infatti si raccoglie, propone e produce ogni giustizia. Tutto l’essere umano, anima e corpo deve essere trasformato progressivamente secondo questo canone definitivo ed universale. La spiegazione dei comandamenti, illuminati e perfezionati alla luce dell’evangelo, permette così di proporre la regola più elevata nei confronti di molti aspetti concreti della vita umana, come l’omicidio, la violenza, l’inganno, il furto, la guerra, lo sfruttamento economico dei deboli, le tassazioni esorbitanti, l’adulterio, il lusso, l’esibizionismo32. Esaminata secondo questi canoni, concreti e visibili a chiunque, la società che si professa esteriormente cristiana appare in condizioni obbrobriose e necessita di una esigente riforma morale. Sfortunatamente, secondo il predicatore, proprio il 32
Ibid., ff. 103v-164v. All’umiltà dei pastori ai quali è rivelato il mistero della vera giustizia il monaco aveva pure dedicato un’esercitazione poetica latina, Pastores in Natalem servatoris nostri Dei, pubblicata nelle Epistolae ad amicos, 91-96. A questa edizione dell’epistolario giovanile venne pure aggiunto il testo di una De modo divitiis adhibendo homini christiano ad cives brixianos salutaris oratio, pubblicata per la prima volta nel 1540: ibid., 233-285. Vi si esaltano la società spartana, la sobrietà agreste di Roma antica, Giovanni il Battista, Cristo e gli apostoli, la chiesa primitiva di Gerusalemme come esempi naturali ed evangelici di un uso comunitario dei beni materiali, a differenza di una cristianità dimentica sia delle esigenze razionali sia della sua fede.
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clero cattolico, che dovrebbe mettersi alla testa di tale conversione individuale e comunitaria, è molto spesso coinvolto nelle spire di costumi propriamente diabolici. Esempio ne è l’uso dei beni ecclesiastici per utilità personale: si tratta di un furto e di un sacrilegio insieme. Al coerente sistema delle leggi di origine divina si aggiunge nel corso della storia dei popoli l’ordinamento giuridico civile. Secondo l’esempio di Cristo e l’insegnamento di Paolo esso deve venire accettato come regola esteriore e provvisoria delle comunità, a meno che non contrasti con il comandamento naturale e rivelato. L’ordinamento giuridico della società si pone esclusivamente sul piano della conformità esteriore e non è in grado di raggiungere e condurre alla giustizia il cuore umano. Solo la grazia dello Spirito può avviare progressivamente ad una condizione che nasca dalla più profonda intimità personale ed a questa si rivolge l’insegnamento di Cristo. Occorre notare tuttavia che, almeno nei primi anni del suo ministero, il vescovo non rifugge dall’invocare l’intervento dell’autorità civile per la difesa di costumi religiosi cristiani. Ribadisce però che sotto questo aspetto le esigenze dell’evangelo sono molto più severe. 6. MAGNUS BASILIUS Ci si potrebbe domandare a quali autori in particolare il vescovo si riferisca nella sua organica esposizione della “philosophia christiana”, secondo lui da secoli dimenticata dalla maggior parte di coloro che esteriormente ed ipocritamente fingono di professarla. Come altri autori cattolici e romani del suo tempo, egli evita accuratamente di rifarsi in modo esplicito ad una peculiare tradizione ecclesiastica e teologica. Di fronte alla critica protestante ad una religiosità basata su forme teologiche che non avrebbero alcuna base nelle Scritture, egli accetta la sfida e si attiene in modo esclusivo al loro dettato. Un fine orecchio esegetico quale era quello di Richard Simon, al termine del XVII secolo, invitava a guardare alla teologia greca antica per capire meglio il modo di interpretare le Scritture caratteristico del vescovo33. 33 R. SIMON, Histoire critique des principaux commentateurs du Nouveau Testament, Rotterdam 1693, 572-573.
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Nelle note aggiunte alla traduzione latina della Bibbia l’autore maggiormente citato è “magnus Basilius”. Più raramente appaiono Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo. Nella terza raccolta di prediche il vescovo sembra ispirarsi a Basilio nella sua esaltazione della natura quale manifestazione primordiale del divino34. Gregorio di Nazianzo, di cui sono tradotti interi passi, aiuta ad affrontare il difficile tema della Trinità. In tutte le collezioni, nonostante il silenzio sul suo nome e sulle sue opere, le profonde affinità con Giovanni Crisostomo quale commentatore di Paolo, di Matteo e di Giovanni sembrano molto evidenti. Lo si percepisce soprattutto per quanto riguarda i temi della condiscendenza del divino, della sua manifestazione nella carne umana, della partecipazione esistenziale al dono della grazia, della concretezza degli impegni morali, della continua lotta per la liberazione dai vizi, dell’esercizio della modestia, dell’umiltà, della benevolenza, della partecipe sensibilità verso ogni forma di sofferenza fisica. Nelle rarissime prediche che assumono un tono erudito oltre la conoscenza delle Scritture compaiono poi Platone e Plotino. Una serie di testi poetici desunti dalla satira latina di epoca imperiale, ma senza la citazione esplicita degli autori, accompagna sovente le argomentazioni bibliche del predicatore per indicare come la sapienza naturale sia una solida benché impotente premessa dell’evangelo, come Paolo ricordava e come era caratteristico dell’umanesimo benedettino e della sua interpretazione della classicità. È evidente la distanza nei confronti di una teologia ormai abituata nelle strutture universitarie a confron34 Il Salmo 103 (104) ispira lunghe spiegazioni sull’ordine naturale: ISIDORUS CLARIUS, Orationum quas extraordinarias appellavit, ff. 250v-289v. Potrebbe essere interessante, quale testimonianza della società e della chiesa del tempo, un confronto con le oltre duecento novelle del contemporaneo Matteo Bandello (1485-1561). Nella sua giovinezza frate domenicano e più tardi vescovo in Francia, egli descrive con vivida ironia i costumi delle case signorili dell’epoca assieme a quelli di vescovi, preti, frati e monache. Anche per il novelliere lombardo Lutero esalterebbe a torto una fede priva di impegno morale, ma ben a ragione metterebbe a nudo la distanza incolmabile tra la parola evangelica e la religiosità cattolica usualmente propagandata. Questo secondo aspetto era da tempo caratteristico della cultura italiana a partire da Dante, Boccaccio e Petrarca.
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tarsi con la metafisica e la logica di Aristotele o con la strumentazione giuridica ereditata dalla romanità. Il corpo vivente di Cristo sta al centro delle Scritture, del cosmo, della storia, della chiesa, della fede e della sua manifestazione nell’amore fattivo verso il prossimo. Tutto il resto è polvere ed ombra oppure inganno diabolico. Se si volesse poi trovare qualche analogia con interpretazioni bibliche di epoche successive, è facile pensare, oltre i confini ufficiali del cattolicesimo, alle correnti cosiddette pietiste del protestantesimo. La critica di una religiosità puramente formale, della dimenticanza degli impegni morali dell’evangelo, sostituiti con le finzioni di una società solo apparentemente cristiana, dell’indifferenza verso la povertà con l’accettazione spontanea di qualsiasi ingiustizia sono temi che fanno sospettare l’uso di fonti comuni. Il rifiuto di una teologia astratta, concettuale, polemica e giuridica, il primato dell’esperienza e della conversione spirituali, la necessità di una interpretazione pratica e letterale dell’evangelo nei confronti delle abitudini scontate di una società fondata sull’avarizia, la violenza e la prepotenza, fanno ancor più percepire un tipo di teologia assai diffidente nei confronti dei fenomeni religiosi collettivi e basata invece sulla conversione e sulla testimonianza concreta. Anime e corpi di tutta l’umanità fanno parte di un disegno provvidenziale in cui il divino si è manifestato in un corpo concreto, per attrarre tutti e tutto di nuovo a sé in una condizione ultimativa di libertà da ogni forma di male.
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DISEGNI DELL’ANIMA E LINGUAGGIO DEL CORPO NELL’APOSTOLATO GEORGIANO DI FRA’ CRISTOFORO CASTELLI (1632-1655)
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«Io sono un poco divoto della Passione del Signore e quando ho tempo d’otio là mi tratengo et haveva (per mia divotione) fatto alcune memorie delli stracij che patì per me il buon Giesù e pensava fornirli, ma non ho potuto. E mi è stato richiesto mandarli costì (a Roma) essendo pensieri novi e divoti et a segno stabiliti, che può ogni pittore farne più sorte d’opere e cavare con esse qualche lacrima dagli occhi degli amanti di Giesù. Io desidererei ch’ogni pittore ne avesse copia. Ma l’originali haverei a caro che restassero nella Casa di San Giuseppe a Palermo»1. (citazione da Majorana a p. 130, a sua volta tratto dal saggio di Patrizia Licini) Composti dal teatino siciliano Cristoforo Castelli — missionario in Georgia dal 1632 al 1654 — questi «pensieri novi e divoti» affiancano il ricchissimo corpus documentario di disegni che costituisce singolare memoria del suo lungo apostolato in quella terra di missione, alla cui *
Docente di Docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Catania. La citazione è tratta da P. LICINI, Carteggio inedito di D. Cristoforo Castelli chierico regolare, missionario in Georgia e Mingrelia, Ricerca sull’architettura georgiana, Milano 1980. “I pensieri novi e divoti” sono racchiusi nella Vita pauperrimae sororis Christinae, memoria in forma di disegni custoditi in due volumi manoscritti in possesso della Biblioteca Comunale di Palermo, con la segnatura 3QqE96 e 3QqE97, composti rispettivamente di 267 e 176 carte. 1
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genesi e realizzazione Bernadette Majorana ha dedicato una accurata e preziosa ricerca2. Dato alle stampe nel 1990, il lavoro della studiosa, mentre privilegia la dimensione missionaria e il profondo legame con il clima evangelizzatore del Tridentino — dispiegatosi anche nell’Oriente greco-ortodosso “contaminato” dall’Islam turco-persiano — non tralascia di sottolineare il fondamento unitario sotteso all’intero arco del “racconto per immagini” costruito dal teatino durante l’attività missionaria nella regione caucasica, di cui la Georgia era una enclave significativa. Alimentati dalla medesima ispirazione, i “disegni missionari” e i “disegni divoti” — ammesso che sia lecito fare una tale distinzione — ne scandiscono il gioco di risonanze alterne e diversificate: da un lato, la dimensione attiva dell’apostolato e il mito eroico della santità3, assunti nella pedagogia gesuita già a partire dal secondo Cinquecento e, dall’altro, l’attitudine al “ritiro” e alla contemplazione, divenuta poi, con il misticismo quietista di metà Seicento, la cifra più enigmatica dell’esperienza religiosa in ambito cattolico. Se i “disegni missionari” si fanno testimonianza di figure e luoghi di un Oriente Vicino, da restituire alla Chiesa di Roma, i “disegni divoti” rispecchiano la misura grafica della tradizione cristiana racchiusa nelle vite dei santi, accogliendo al tempo stesso la sfida della “(ir)rappresentabilità” del misticismo contemplativo, di quella fabula che attraversò la spiritualità secentesca nel segno della perdita di sé e dell’annullamento dell’anima in Dio4. È la compresenza di queste due tensioni spirituali a rendere particolarmente interessante, se non proprio singolare, la documentazione visiva lasciata dal missionario. I disegni di fra’ Cristoforo — oltre a non essere separabili da una vocazione pittorica a stento occultata dalla scelta di “entrare in religione” — si inseriscono, in primo luogo, nell’intenso dibattito sul rapporto tra immagine sacra e predicazione che attraversò i decenni a cavallo tra 2 B. MAJORANA, La gloriosa impresa. Storia e immagini di un viaggio secentesco, Palermo 1990. 3 Il modello del missionario come martire della fede costituì il nutrimento sia degli ordini antichi che di quelli di nuova fondazione, “lanciati” verso la conquista di anime nel Nuovo Mondo e nelle lontane terre d’Oriente. 4 Si veda, M. De CERTEAU, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, tr. it., Bologna 1987.
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XVI e XVII secolo: esso non è, tuttavia, come vedremo, l’unico spazio nel quale si compì l’esperienza del missionario. Tema lungamente frequentato da storici e storici dell’arte, il rapporto fra immagini e predicazione assume particolare rilievo nel passaggio dalla rottura dell’universalismo cristiano ad opera della Riforma protestante, alla “normalizzazione“ tridentina. La saldatura che, in questa transizione, si realizzò tra la pratica medievale delle immagini sacre come supporto alla parola del predicatore — di cui i cicli pittorici presenti in molte chiese rapprentano l’esempio più illuminante5 — e la conquista delle anime nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, possiede una densità che va oltre il dato quantitativo offerto dalla ricchissima produzione cinque-secentesca di trattati sull’argomento, cui si accompagnò la comparsa di una editoria specializzata (ad Anversa, ad esempio) nella pubblicazione di disegni sacri. Una miriade di testi, Raccolte di Emblemi e “Imprese”, comparve tra fine Cinquecento e la prima metà del secolo successivo6. Dai Tableaux Sacréz che il gesuita Louis de Richéome dedicò a Margherita di Navarra, pubblicati nel 16097, alle Imprese Sacre del teatino Paolo Aresi — precedute dall’altrettanto celebre Arte di predicar bene, stampata a Venezia nel 1610 — alle due operette di un altro gesuita francese, il padre Claude François Menestrier, autore de La Philosophie des Images e del suo più agile compendio, L’Art des emblemes, fino al Trattato delle Pittura e della Scultura che il gesuita G. D. Ottonelli scrisse con il pittore Pietro Berrettini da Cortona, è tutto un fiorire di testi che circolarono per tutta Europa8. Nel dare sostanza teorica e 5
Si vedano, di C. FRUGONI, Francesco e l’invenzione delle stimmate, Torino 1993 e La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino 2010. E, ancora di L. BOLZONI, Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino 1995 e La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino 2002. 6 Rammentiamo qui, il saggio di E. H. GOMBRICH, Symbolic Images, Oxford 1972. 7 L. DE RICHÉOME, Tableaux sacrez des figures mystiques du trés auguste Sacrifice et Sacrement de l’’Eucharistie, Paris 1609. 8 Per una buona panoramica su questa letteratura, S. GIOMBI, Precettistica e trattatistica sulla retorica sacra in età tridentina, in Rivista di Storia e letteratura religiosa, 34 (1998) 581-612. Per quanto datato, si rammenta qui anche il saggio di M. PRAZ, Studi sul concettismo, Firenze 1946, in cui si parla diffusamente dell’emblematica.
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filosofica al discorso sulle immagini e nell’approfondire la dimensione concettuale insita nell’uso dei simboli e nel loro significato, questa produzione finì, d’altra parte, con l’approntare un repertorio visivo enorme, dei veri e propri modelli di rappresentazione figurativa, soggetti, a loro volta, ad ulteriori elaborazioni da parte di chierici, predicatori, missionari, o semplici fedeli, per non parlare di pittori e disegnatori. L’elencazione dei circa 17 emblemi sacri raffiguranti il cuore — contenuti nei famosi Pia desideria di Hermann Hugo9 e che il gesuita C. F. Menestrier inserì nella sua Art des emblemes — è un esempio illuminante dell’accumularsi cinque-secentesco di una riserva “visiva” di sempre più ampia fruizione: luogo topico della devozione e simbolo di immediata lettura, il cuore illustrato nei Pia Desideria allinea, e al tempo stesso prefigura, la grande varietà delle sue prestazioni figurative nel lungo periodo, dalle più semplici alle più complesse. Basterà citarne solo alcune: disegno del cuore a cui il demonio scaglia delle frecce mentre due angeli tentano di distoglierlo; Gesù a guisa di “amoretto” lancia dei dardi contro il cuore dopo aver spezzato l’arco e le frecce di Cupido; Gesù scaccia via dal cuore mostri e serpenti; in un altro disegno, egli fa scorrere dalle tante fessure del cuore, altrettante fontane; e, ancora, fa del cuore il proprio trono, installandovisi con corona e scettro; oppure vi trasporta dentro tutti gli strumenti della Passione… Vedremo più avanti come questo luogo simbolico tanto persistente divenisse il tema privilegiato dei “disegni divoti” di fra’ Cristoforo Castelli, ma privo della valenza colta e didascalica di questa tipologia di rappresentazione (tutta l’emblematica, sostanzialmente) alla quale Menestrier affiancò una sorta di codice che ne salvaguardasse la pertinenza con l’immaginario cristiano e la sua radice antropologica. Le 9 Le incisioni che corredavano il libretto di poesie dell’Hugo, pubblicato ad Anversa nel 1624, erano opera di B. Bolswert. Il legame tra le illustrazioni per gli Esercizi spirituali e i Pia desideria è stato studiato da L. SILVIUCCI INSOLERA, Le illustrazioni per gli Esercizi Spirituali intorno al 1600, in Archivum Historicum Societatis Iesu, 60 (1991) 162-214. Il saggio, importante per l’analisi accurata di una documentazione poco conosciuta, si sofferma sulla serie di 27 incisioni edita per la prima volta a Roma nel 1649. Dei Pia Desideria uscì nel 1717, un’edizione francese corredata da versi di Madame Guyon.
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immagini, dice, sono espressione dell’anima, delle sue parti e delle sue qualità: «C’est ainsi que nous donnons du corps à ce qui n’en a point et nous peignons sous des voiles l’Imagination, la Memoire, l’Entendement, la Raison, la Volonté, l’Inclination. Nous peignons aussi les qualitez du corps, la Force, le Temperament, la Santé, les Humeurs et la Beauté….ces symboles passent encore plus avant et l’homme s’est voulu rendre la divinité visible (…) nous representons en emblemes les perfections de la divinitè sans idolatrie et si nous faisons des images ce n’est pas pour les adorer mais pour apprendre par des figures enigmatiques et symboliques à connoître Dieu dans les creatures sans luy donner les defauts qu’elles ont…»10 Gli emblemi sono dunque «peintures savantes» nelle quali si rappresentano tanto le cose sovrannaturali quanto le azioni umane e le stesse istituzioni (i Regni, gli Ordini religiosi, le Assemblee, le Comunità…): tutto, in definitiva è rappresentabile, purché vi sia congruità e corrispondenza tra l’immagine e la conoscenza che si deve avere delle cose; se dobbiamo raffigurare il corpo o l’anima, «il en faut bien connoître les fonctions, les figures, les qualitez, les effects…»11. La funzione istruttiva dell’immagine viene ad essere, poi, rafforzata dalla parola, preferibilmente poetica: «La poesie a cela en commun avec la peinture, que l’une et l’autre s’insinuent facilement dans les esprits et qu’elles gagnent les coeurs sans violence, elles ont des charmes si doux que les âmes les moins traitables ont peine d’y resister»12. Converge, nella trattatistica emblematica del primo Seicento, assieme al filone erudito e antiquario cresciuto con l’Umanesimo e il Rinascimento, la preoccupazione, tutta controriformistica, di sventare l’agguato dell’idolatria e delle immagini profane, predisponendo attorno alla simbologia figurativa tutti gli elementi in grado di favorire l’edificazione: la parola poetica, in sintonia con l’Oratoria sacra e l’affinamento dell’arte retorica, vi assunse un rilievo particolare. Recuperando una argomentazione che si consolidò proprio nel XVII secolo e che la critica recente, non solo letteraria, ha sviluppato — 10
C. F. MENESTRIER, L’Art des emblemes, cit. p. 61. Ibid., 64. 12 Ibid., 78. 11
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basti, per tutti, il nome di Marc Fumaroli13 — Menestrier fa della pittura una poesia muta e della poesia una pittura parlante: «Si la peinture est une Poesie muette et la Poesie une peinture parlante, l’Embleme qui a les beautez de l’une et de l’autre merite aussi ces deux noms»14. Sull’onda della ristrutturazione culturale avviata dalla stagione tridentina (e non solo a difesa del patrimonio di devozione contestato dalla Riforma protestante e a contrasto dei primi segnali di una laicizzazione della cultura che dava spazio, nelle arti figurative, a forme profane) la “ri-scoperta“ delle immagini innestò sull’antico ammaestramento edificante la consapevolezza più netta, e a tratti allarmata, della “potenza dell’immagine”, dispiegando, anche su questo versante, meccanismi di controllo tanto più pervasivi in quanto stimolati dall’urgente ricerca di nuovi mezzi di persuasione come argine alla possibile fuoriuscita dall’ortodossia cattolica. Anche la trattatistica sugli emblemi sacri si allineò all’orientamento normativo che caratterizzò l’impianto controriformistico. E che sia stata la Compagnia di Gesù, attrezzatasi fin dagli esordi al compito di formazione dei nuovi cristiani, a dare un contributo significativo al codificarsi di parametri figurativi, chiarisce il senso interamente pedagogico che doveva accompagnare l’uso ormai dirompente delle immagini. Se la muta eloquentia nasceva sul limitare della conoscenza — al confine tra il visibile e l’invisibile, tra la sfera propriamente spirituale e la materialità del corpo, l’insistito richiamo ai meccanismi di funzionamento di questa relazione sottraeva all’invisibile (o almeno tentava) la sua oscura e ingovernabile energia. Il dibattito cinque-secentesco sulle immagini non poteva, dunque, che innestarsi sul medesimo filone antropologico che la scienza medica e quella giuridica si apprestavano ad occupare nella valutazione dei fenomeni straordinari, delle visioni e delle rivelazioni divine, degli inganni diabolici e, ancora, dell’insania, del furor mentis o della melancholia. È nell’approfondimento dei rapporti tra intelletto, 13 Di M. FUMAROLI, oltre alla celebre Âge de l’eloquence…, ricordiamo qui L’École du Silence. Le sentiment des Images au XVIIe siècle, Paris 1994. 14 C.F. MENESTRIER, L’Art des Emblemes, cit., 78.
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fantasia, volontà e memoria che è forse possibile registrare il distacco dall’emblematica rinascimentale, che pur rimase, nell’eleganza raffinata dell’incisione, come forma codificata dell’ammaestramento devoto: peinture savante, l’aveva definita Menestrier, alludendo, d’altra parte, alla necessità di renderla accessibile ai “rozzi” e agli illetterati. Il problema della traducibilità della parola muta in parola predicata, della visione in preghiera (o meditazione o conversione) divenne centrale tanto per i missionari — frà Cristoforo Castelli in terra georgiana o il mestizo francescano Diego de Valadés nella Nuova Spagna — quanto per i predicatori e per una sempre più folta schiera di estimatori dell’arte figurativa, sacra o profana che fosse. Non solo presupposti teorici, i contenuti di cui si alimentò il dibattito secentesco sulle immagni, erano il frutto di mediazioni, ma anche di contraddizioni, tra una cultura teologica tesa ad occupare tutto lo spazio dell’esperienza e della conoscenza e l’emergere di una sorta di autonomia del vissuto religioso che trovava alimento nella letteratura e nell’arte. In questa prospettiva, la conoscenza delle componenti fisiche e mentali dell’essere umano diventava un anello strategico del progetto di rifondazione della società cristiana di cui gli Esercizi Spirituali furono come il paradigma. Diviso tra impianto normativo e “libertà” dell’esperienza soggettiva — una polarità che il testo ignaziano ricompone nella “conoscenza di sé” e nella disciplina del corpo e dell’anima15 — il discorso attorno alle immagini si struttura, con la medesima oscillazione, lungo un tortuoso e dettagliato, quasi inesauribile, scandaglio di modelli, intenzioni, avvertimenti, esempi, senza nascondere, assieme alla fascinazione irresistibile per il racconto figurato, la centralità della visione che accomunò la pratica religiosa e l’arte figurativa. A questa fascinazione non si sottrae, ad esempio, il Trattato della Pittura e della Scultura che il gesuita Ottonelli scrisse con Pietro Berrettini da Cortona. Pur nel solco dei dettami tridentini (e del testo “principe” del Paleotti, nonché delle Considerazioni sopra l’arte dello 15 Si veda, sulla costruzione di sé nella pratica della scrittura, l’interpretazione che ne ha dato R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, tr. it., Torino 1973.
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stile e del dialogo (1646) di Pietro Sforza Pallavicino) lo spazio che i due autori lasciano alla “potenza delle immagini” (iconocrazia) lascia emergere una sorta di allentamento del legame con la loro funzione di sostegno all’edificazione. Vi prevale, si sostiene nell’Introduzione all’edizione del testo pubblicato nel 1973, una tendenza all’autonomia dell’artificio, «rivelatore del gusto barocco»16. Senza entrare nel merito della pertinenza di una tale definizione, forse troppo abusata nella sua genericità, resta il fatto che la riflessione contenuta nel Trattato si muove lungo il crinale di quella scoperta delle”passioni“ e della loro difficile governabilità che fu il tratto forse più caratterizzante della cultura del Seicento, testimoniato, e non solo sul terreno religioso, dal consolidamento della teologia morale (la casuistica dei gesuiti e il probabilismo) con i suoi riflessi nel campo della politica e del diritto. Se, da un lato, si afferma che «la pittura è Arte tanto giovevole che chi l’esercita virtuosamente può far con l’immagini ciò che fa con le parole un eloquente Oratore nel muovere l’humano affetto…»17 l’accento posto sulla libertà della fantasia rimanda alla pericolante esistenza di virtù e ragione, esposte alla marea di impressioni sensoriali che le colpisce, asservendole alla loro energia. Ciò non comporta tuttavia il rifiuto delle immagini. Anzi, sembra compiersi, qui, il riconoscimento del peculiare statuto dell’arte pittorica e della scultura. Nel rafforzamento della capacità di “commuovere” — «la sola figura ben condotta hà non so che di nascosta energia (corsivo mio) per generar commotione»18 — risiede il giovamento per l’anima: se la possibilità di codificare viene smantellata di continuo dall’imperio delle immagini sui sensi e sulla ragione, non resta che il ricorso ai medesimi artifici dell’arte oratoria (Ut pictura oratoria): nell’accogliere la mutevolezza delle cose e la loro trasfigurazione, è la “potentissima macchina dell’amplificazione” a concentrare il vero nel verosimile dell’arte figurativa. Se, dalla documentazione in nostro possesso, è possibile ricostruire la sintonia di Castelli con l’arte pittorica del tempo (di Rubens, 16 V. CASALE, Introduzione a G.D. OTTONELLI – P. BERRETTINI, Trattato della Pittura e Scultura. Uso et abuso loro, Treviso 1973, LVI. 17 Ibid., LX. 18 G.D. OTTONELLI – P. BERRETTINI, Trattato della Pittura e della Scultura: uso et abuso loro, Firenze 1652, 65.
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Caravaggio, Tiziano, Guercino… chiedeva con insistenza l’invio di riproduzioni delle loro “immagini sacre”) mancano, invece, riferimenti alla letteratura che analizzava il rapporto tra oralità e immagini nella forma sistematica e ordinatrice del Trattato; ma certo la sua preparazione — compresa la frequentazione del Collegio palermitano dei Gesuiti che lo avvicinò all’arte del disegno e gli fornì rudimenti, forse non superficiali, di scienza medica — si completò nel padroneggiamento di nuove e sempre più raffinate tecniche di persuasione nell’educazione del clero e dei fedeli19. All’attrezzatura del missionario e del predicatore, fra’ Castelli aggiungeva il requisito maggiore della pratica del disegno e della pittura: una attitudine e una competenza tali da farla ritenere la vera vocazione del teatino, divenuta poi la “lingua” stessa dell’azione missionaria. È proprio il compenetrarsi della vocazione pittorica con l’apostolato a dare ai disegni di Castelli (compresi quelli “divoti”) il loro, singolare, timbro: vi si rivela, in primo luogo, la circolarità tra la cultura di provenienza (l’Occidente cristiano e la Chiesa tridentina) e quella d’arrivo (l’Oriente greco-ortodosso e l’Islam turco-persiano dei Safavidi). Non assimilabili alla “alterità” incontrata dai missionari nelle Americhe, né all’Oriente esotico di India e Cina, del quale gli europei subivano il fascino potente, i luoghi in cui il teatino operò per quasi trent’anni erano osservati come parte di un passato antico e comune, anche se la complessità storica del legame tra le aree dell’Antico Mondo e il primo formarsi del Medioevo d’Europa, sfuggiva alla percezione tutta ideologica del missionario: per fra’ Cristoforo contava solo la riconquista alla chiesa romana di quelle terre, «poverissime come una Santa Thebaide», e dei suoi abitanti, «belli in vista e d’ingegno celeste, ma figli d’un bosco e d’una selva». In una lettera del giugno 1635 scriveva: «Non posso lasciar di piangere, vedendo la cristianità dell’Oriente così perduta da che si recise quel ramo della Chiesa dal tronco e dal capo…»20. L’imperativa ricerca di una forma di comunicazione religiosa più efficace possibile — che obbligava ogni missionario a un continuo 19
Non è credibile, ad esempio che non conoscesse Le Imprese sacre del confratello Paolo Aresi di tanti testi sull’arte del predicar bene comparsi in Italia e in Europa tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento. 20 P. LICINI, Carteggio inedito, cit.
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spostamento del punto di osservazione, dalla distanza alla vera e propria immersione in culture diverse — si tradusse in Castelli in una operatività dell’immagine devota tanto più radicale in quanto investita da quella spiritualità emotiva esplosa nel primo Seicento e che ebbe come modello il misticismo del Carmelo (da Teresa d’Avila a Giovanni della Croce all’italiana Maddalena de’ Pazzi) nel quale si concentrava la dimensione visionaria del corpo come luogo del suo annullamento nel divino: corpo parlato e inciso, rivelatore della passione di Cristo cui l’anima veniva asservita. Fu il controllo su questo enigma del corpo spiritualizzato, ma sempre e comunque visibile, a produrre la compenetrazione tra vita attiva e vita contemplativa che divenne, per i primi gesuiti, soprattutto francesi, il fondamento dell’ideale apostolico e dell’azione missionaria21. E su questo registro si dispongono i “disegni divoti“ di fra’ Cristoforo Castelli, a ulteriore conferma della crescente convinzione della superiorità dell’immagine dipinta sulla parola predicata: «Ho poi dipinto in una carta grande il Giudizio finale, l’inferno et il paradiso: E in questo modo predichiamo la parola del Signore à questa gente roza che si muovono assai più che con le semplici parole. Le quali si mordono facilmente, ma la vista di questa pitura mi dicono, che sempre le sta impreza…»22 . Visione dipinta, visione narrata si situano, dunque, nel medesimo orizzonte comunicativo, fin quasi a confondere la specificità espressiva dei modi della rappresentazione. Il circuito secentesco tra immagine e parola — implicando in maniera più netta che in passato il sistema di funzionamento dell’apparato conoscitivo dell’uomo, la sua componente fisiologica e quella razionale-spirituale — complica — anzi, disordina — la precettistica medievale e la tradizione emblematica con l’ingresso imponente di un “vissuto mistico” debordante dai parametri normativi. E lo stesso, antico, legame con la mnemotecnica o arte della memoria è chiamato ad una costante scomposizione e ricomposizione, ad una sorveglianza estrema dei sensi interni ed 21 Si veda, M. DE CERTEAU, Crise sociale et rèformisme spirituel au dèbut du XVIIe siècle. Une nouvelle spiritualité chez les Jesuites français, in Revue d’Ascétique et Mystique 163 (1965) 339 ss. 22 P. LICINI, Carteggio inedito, cit.
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esterni, secondo il lessico gesuita, in funzione di argine all’incontrollato emergere dell’io. L’oscillazione tra adeguamento ai modelli regolamentati della perfezione cristiana e la fuoriuscita da quei parametri, si riflette nella scrittura agiografica e nelle autobiografie spirituali, attirando l’attenzione (dei censori, ma anche degli storici) sulle modalità e le tecniche della scrittura devota, sui suoi moduli narrativi, sui contenuti, sull’utilizzo dei simboli e, naturalmente, sui suoi condizionamenti. Basti sottolineare, qui, il lessico tormentato di molti scritti di serve e servi di Dio in odore di santità: le ripetute stesure fatte in obbedienza ai padri spirituali, l’ossessione della completezza e della precisione, l’esposizione minuziosa di ogni dettaglio evocano la medesima, invasiva, tecnica della confessione e del giudizio inquisitoriale. Se i “disegni divoti” del teatino siciliano riflettono in pieno la temperie religiosa del primo Seicento, è il loro radicamento in terra georgiana a compiere la saldatura tra vita attiva e vita contemplativa come ideale del buon missionario. Probabilmente favorito dall’appartenenza di quei territori d’Oriente alle radici del cristianesimo, l’apostolato di Castelli accomuna l’alacre attività del predicatore (basti solo sottolineare i frequenti conteggi dei battesimi somministrati col rito romano23) a forme di pedagogia penitenziale sorrette dall’identificazione con la passione di Cristo. Che diventa, nel suo caso, un vero e proprio trasferimento in partibus infidelium: della muta eloquentia dell’iconologia cristica: la dismisura visiva dei segni del patire e dell’abbandono contenuta nelle immagini non è che l’applicazione della figura retorica della “potentissima macchina dell’amplificazione“ all’esperienza missionaria Nella struttura e nell’impostazione stessa della documentazione lasciata da Castelli si riuniscono gli elementi della emotività devozionale tridentina che il titolo raccoglie sotto una veste agiografica, Vita 23
In una lettera del novembre 1642 si legge: «Quest’anno si sono battezzati da ottanta figlioli (sic) oltre Pata Solochia vizir del Principe e due vescovi chiamati l’uno Scurrili e l’altro dandrelli: et il parochiano di seporias vecchio di 60 anni persona grave eretico ostinato e sino à quest’ora nostra nemico in ragioe di fede. Dio benedetto l’ha convertito iet io l’ho battezzato […] et hor continua il suo uffitio con speranza di buoni successi nella sua Parochia, perché si guida dalli nostri Padri… » in P. LICINI, Carteggio inedito, cit., 38.
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di suor Christina, in linea con la proliferazione secentesca di vite di santi e sull’onda delle canonizzazioni dei primi santi moderni, a partire da Teresa d’Avila. Il testo di Castelli non è tuttavia una biografia monastica. Storia per immagini della propria anima, è questa femminilizzazione dell’io a orientarne la sostanza narrativa sul tema canonico delle nozze mistiche. Priva della scansione per tappe che caratterizzava i percorsi di santità, la Vita di Suor Christina si compone di una medesima, ossessiva sequenza, sempre ripetuta e rielaborata, ancorata ad un unico centro visivo: il corpo di Cristo e il corpo dell’anima. Nella reciprocità di uno scambio incessante l’uno si riverbera nell’altra, e se la gran parte dei disegni si allinea, pagina dopo pagina, nella ripetitività del simbolo del cuore, altri depositano sull’immagine solitaria dell’anima (tratteggiata in volute che richiamano la veste monastica) gli attrezzi della passione, le catene della schiavitù, la solitudine e il raccoglimento, sottolineati dalla mordacchia posta sulla bocca, dagli occhi serrati stillanti sangue, dalle orecchie tappate da grossi turaccioli. Nell’accogliere, come tanti misitici e contemplativi del Seicento, la tecnica ignaziana della “composizione del luogo” come premessa alla meditazione e, poi, alla vera e propria contemplazione, Castelli vi introduce, senza scardinarne l’impianto formale, un immaginario scavato nella profondità del corpo occupato, al centro, dalle linee curve del disegno del cuore, bordato da un colore rosso come il sangue. Centro di “visioni” ricorrenti e quasi sempre uguali, quella cavità — talmente varia nelle proporzioni da giungere talora a prendersi l’intero tronco della figura, accentuando così la percezione di uno squarcio aperto sul corpo — è, nella sua ridondanza, il punto-limite della rappresentabilità devozionale tridentina; prefigura il vuoto e l’insondabilità dell’anima, il suo mistero, che Castelli elude affollandone lo spazio con minuscole figurine o riproduzioni appena riconoscibili della salita al Golgota e della crocifissione. Assorbito nell’immagine del cuore, il corpo rivela — nelle linee del disegno, nell’uso stesso del colore, perfettamente in sintonia con una qualche suggestione manieristica del tratto e con l’incompiutezza, forse ricercata, delle linee — una densità fisica potente, fatta di materia visivamente più sanguigna della pur accesa e languida énonciation mystique.
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Se questo rimane, a mio parere, uno degli aspetti più interessanti della documentazione “per immagini” lasciata da Castelli, la complessità del problema non viene, certo, esaurita nelle considerazioni fin qui svolte. Colmate, dallo studio di Majorana, le domande sull’intreccio tra pratica dell’arte del disegno e della pittura, vita missionaria e rapporti con la società georgiana, il corpus di immagini ha una densità tale da sollecitare ulteriori linee di ricerca e di riflessione intorno alle quali si svilupperà, in tempi spero brevi, il mio successivo lavoro.
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IL CORPO SCONFINATO DI ANNA KATHARINA EMMERICK (TRA)SCRITTO DA CLEMENS BRENTANO
VINCENZA SCUDERI*
Per essere una contadina, a stento in grado di leggere e scrivere, che si esprimeva in dialetto (il Plattdeutsch), Anna Katharina Emmerick, divenuta beata il 3 ottobre 2004 — regnante Giovanni Paolo II — dopo oltre cento anni dall’apertura della causa, avvenuta nel 1892, non si può non notare come il transito terrestre di questa povera suora senza dote, che a stento il convento volle accettare perché la sua ammissione era la condizione che una ragazza di più ricche disponibilità aveva posto al proprio ingresso, sia segnata in modo incontrovertibile non solo dalle scritture, ma dalla scrittura. Scrittura altrui, sempre, in parte legata a quella consuetudine di trascrivere le parole delle mistiche visionarie che si era sviluppata nel corso dei secoli precedenti e che nel suo caso avocò a sé Clemens Brentano. In parte, invece, in quanto la figura di Anna Katharina Emmerick fu interessata da una scrittura di tipo “scientifico”, che diversi medici operarono su di lei in quanto caso clinico di stigmatizzata1. Questa condizione ovvia-
* Docente di Lingua tedesca e traduzione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. 1 Si veda la raccolta delle relazioni mediche contenuta nel volume W. HÜMPFNER (cur.), Akten der kirchlichen Untersuchung über die stigmatisierte Augustinerin Anna Katharina Emmerick nebst zeitgenössischen Stimmen, Würzburg 1929, come pure ID. (cur.), Tagebuch des Dr. med. Franz Wilh. Wesener über die Augustinerin Anna Katharina Emmerick, Würzburg 1926.
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mente incuriosì la società del tempo e interessò perfino il governo prussiano. Ma è bene cominciare dall’inizio della fama di questa mistica visionaria che visse a cavallo fra Sette e Ottocento nel Münsterland, zona della Germania dove la Riforma non attecchì e si conservò quel cenacolo di ferventi cattolici che sarebbe diventato il punto di riferimento per tutti i romantici e classicisti convertitisi alla fede di Roma, dopo una gioventù più o meno scapigliata e vicina, talvolta, agli ideali della Rivoluzione francese. È questo proprio il caso del Conte Friedrich Leopold di Stolberg che, nel 1813, scrisse una lettera pubblica in cui raccontava della vita e delle opere di questa piccola suora2: per via della progressiva chiusura dei conventi e monasteri a cui aveva dato il via la politica napoleonica, Emmerick fu costretta, a partire dal 1811, a vivere fuori dal convento agostiniano che l’aveva accolta (accolta, pur con le resistenze a cui si è accennato). Nata l’8 settembre 17743, ha quarantaquattro anni il 24 ottobre 1818, quando il poeta la va a trovare per la prima volta, nella piccola stanza al pianterreno della casa privata dove alloggiava a Dülmen. Il proposito che animò Brentano poco dopo quella prima visita fu quello di diventarne «lo scrivano» (der Schreiber): tale intento nacque inaspettatamente per Brentano nell’atmosfera dei primi giorni della sua permanenza a Dülmen, che doveva essere un breve soggiorno, mentre presto egli decise di traferirsi nella cittadina del Münsterland. Così l’inquieto scrittore che stava cercando nel cattolicesimo la nuova forma della propria vita e scrittura, trova il soggetto perfetto attorno al quale farle ruotare. Ma, nonostante il senso che lo stesso Brentano conferisce a questo nuovo percorso intrapreso — un percorso che procederebbe cioè da una esistenza estetica ad una invece etica, sia come esistenza individuale che in nome dell’esistenza sociale di un mondo da riformare, che si è macchiato di scientismo e 2 La lettera, con il titolo Bericht des Grafen Friedr. Leop. Stolberg über seinen Besuch in Dülmen – 22. Juli 1813, è contenuta nel volume H. HÜMPFNER, Akten der kirchlichen Untersuchung, cit., 293-299. Il testo è accompagnato da una nota del curatore che ne spiega le vicissitudini editoriali. 3 Per la data di nascita di Brentano si danno invece due date: il 9 settembre 1778, oppure il giorno precedente: e in questo secondo caso sarebbe dunque nato lo stesso giorno di Anna Katharina Emmerick, ma con quattro anni di differenza.
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atti rivoluzionari basati sulla ragione4 — ben più sfaccettato sarà alla resa dei conti tanto il percorso personale quanto il suo prodotto, ovvero la scrittura che da tale percorso prenderà vita. Quella davanti alla quale ci troviamo è in primo luogo una scena teatrale, i cui protagonisti divengono «lo scrivano», che nelle visioninarrazioni di Anna Katharina sarà «il pellegrino» (der Pilger) e la monaca stigmatizzata “posta” al centro del mondo, o meglio ancora “esposta” sul letto che diviene ostensorio di un corpo trasformatosi nel corpo di Cristo. Nei fenomeni “stigmatizzanti” di Anna Katharina, però, si presentano anche altri segni, a renderla un doppio del corpo divino, non solo le stigmate e i segni della corona di spine, ma la forma di una croce (ben tre tipi diversi di croce che si alternano)5. Si tratta di una croce che appare e scompare dal suo petto, lasciando, quando non presente, la trasparenza di un segno roseo sulla pelle. Mentre le apparizioni e sparizioni dei segni si danno in momenti particolari del calendario liturgico6. «Lo scrivano trascriveva quotidianamente tutto ciò che egli osservava in lei, o ciò che ella della sua vita interiore ed esteriore gli raccontava»7. Così Brentano nel Profilo biografico che introduce Das bittere Leiden unsers Herrn Jesu Christi (La dolorosa passione di nostro Signore Gesù Cristo). Tale Profilo rappresenta l’unica biografia che il poeta poté comporre sulla base delle sue trascrizioni. Inoltre delle migliaia di pagine prodotte, solo poche sono apparse mentre egli era ancora in vita, vale a dire proprio questo profilo biografico e il libro che esso introduce. Il volume Leben der heiligen Jungfrau Maria (Vita 4 Cfr. W. FRÜHWALD, Die Emmerick-Schriften Clemens Brentanos. Ein Versuch zur Bestimmung von Anlaß und literarischer Intentio, in Emmerick und Brentano. Dokumentation eines Symposions der Bischöflichen Kommission “Anna Katharina Emmerick”. Münster 1982, Dülmen 1983, 13-33, qui 24-25. 5 Cfr. G. BRANDSTETTER, “Reliquienberg” und Stigmata. Clemens Brentano und Anna Katharina Emmerick – der Blut-Kreislauf der Schrift, in B. MENKE, B. WINKEN (cur.), Stigmata: Poetiken der Körperinschrift, München 2004, 243-268, qui 257. 6 Si rimanda per tali questioni a C. BRENTANO, Einleitung. Lebensumriß der Anna Katharina Emmerick, in Das bittere Leiden unsers Herrn Jesu Christi. Nach den Betrachtungen der gottseligen Anna Katharina Emmerich, Sulzbach 1833, I-XLVI. 7 Ibid., XIX.
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della santa Vergine Maria)8 è stato pubblicato, con delle aggiunte, postumo, e altrettanto postuma è un’altra opera monumentale per numero di pagine e concezione, ma rimasta frammentaria, vale a dire Das Leben unseres Herrn und Heilandes Jesu Christi (La vita di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo), una vita di Gesù dedicata ai tre anni del suo magistero9, che avrebbe costituito la seconda parte di una progettata trilogia composta, nell’ordine, dalla Vita di Maria, dalla Vita di nostro Signore e infine dalla Dolorosa passione10. Tale materiale, insieme a quel che era rimasto realmente non pubblicato (nemmeno con interpolazioni) è contenuto oggi nell’edizione critica. Tuttavia l’aspetto biografico che traspare in modo più cocente dal Profilo, non è la vita di Anna Katharina, ma la sua vita quale elemento rappresentativo delle vite dei mistici — e soprattutto delle mistiche — che l’hanno preceduta, con una sorta di effetto contrario, in certo modo, a quella che era l’intenzione di Brentano. Questi infatti avrebbe voluto adoperare i riferimenti alle vicende degli altri mistici per renderli esemplificativi della vicenda di Anna Katharina. Ben scrive Gabriele Brandstetter quando afferma: «Il resoconto di Brentano segue in quasi tutti gli elementi un testo già scritto in una storia della drammaturgia del teatro estatico della stigmatizzazione»11. Anna Katharina Emmerick è “rappresentata” così attraverso la consuetudine delle segnature che hanno caratterizzato le vite di altre stigmatizzate e altri stigmatizzati, persino con puntuali riferimenti bibliografici: «La cappuccina Veronica Giuliani deceduta nel 1727 a Città di Castello, è l’ultima di questa schiera [degli oltre cinquanta stigmatizzati] ad essere stata proclamata santa (il 26 maggio 1831). La sua biografia, apparsa nel
8 Leben der heiligen Jungfrau Maria. Nach den Betrachtungen der gottseligen Anna Katharina Emmerich, aufgeschrieben von Clemens Brentano, München 1852. 9 Das Leben unseres Herrn und Heilandes Jesu Christi nach den Gesichten der gottseligen Anna Katharina Emmerich aufgeschrieben von Clemens Brentano, voll. 3, Regensburg 1858, 1858, 1860. 10 Cfr. W. FRÜHWALD, Das Spätwerk Clemens Brentano (1815-1842). Romantik im Zeitalter der Metternich’schen Restauration, Tübingen 1977, 214-216. 11 G. BRANDSTETTER, “Reliquienberg” und Stigmata, cit., 254.
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1810 da Schmitz a Cölln, offre un ritratto dello stato di tali persone [gli stigmatizzati] e anche, in molti aspetti, della nostra Anna Katharina»12.
Un caso significativo è costituito dalla narrazione della condizione estrema, quella del periodo di vita in cui Anna Katharina non riesce più a camminare, ed è confinata nel suo letto, rifiutando la nutrizione: ecco che ciò trova corrispondenza in altri stigmatizzati che si nutrivano quasi esclusivamente del santo sacramento: «Citiamo fra i molti altri Nicola di Flüe, Lidwina di Schiedam, Caterina da Siena, Angela da Foligno, Ludovica de Ascensione etc.»13. Dove assai significativo è questo «etc.» (in tedesco u.s.f. — und so fort —, «e così via»). Per non parlare dell’impressionante elenco profuso in riferimento all’estasi: «La maggior parte delle forme [che si manifestano] nella vita spirituale estatica [...] che incontriamo nelle storie e negli scritti di Brigitta, Gertrude, Matilde, Ildegarda, Caterina da Siena, da Genova, da Bologna, Colomba di Rieti, Lidwina di Schiedam, Caterina Vannini, Teresa di Gesù, Anna di San Bartolomeo, Maria Maddalena de’ Pazzi, Maria Villana, Maria Bonhomi, Marina di Escobar, Crescentia di Kaufbeuren e molte altre monache contemplative, appaiono anche nella storia della vita interiore di Anna Katharina Emmerich»14.
Quasi una litania, che, dicevamo, dovrebbe rafforzare il ruolo della beata di Dülmen, come a porla alla fine di un percorso. L’effetto sortito è invece quello di renderla perfino “epigonale”, nello zelo in cui la trascrizione dei fenomeni osservati viene automaticamente data come regesto di misticismo. Oltre alla citazione diretta di nomi specifici e casi particolari, si possono poi individuare ulteriori corrispondenze con le parole d’altri mistici. È questo il caso della presenza delle ferite e del sangue, che può portare in mente la spropositata occorrenza del lemma “sangue” nelle opere di Maria Maddalena de’ Pazzi (per altro anch’esse frutto di accuratissima trascrizione). Del motivo 12
C. BRENTANO, Einleitung. Lebensumriß der Anna Katharina Emmerick, cit., XVI. L.c. 14 Ibid., XXIII. 13
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del sangue in questa sede non diremo15. Si tenga però conto che l’incipit di un componimento di Brentano suona così: «Buona notte, caro sangue» (Gute Nacht, du liebes Blut)16, e il sangue in questione è probabilmente quello di Luise Hensel, la poetessa amica e corrispondente di Brentano che passerà anch’essa alla confessione cattolica, conoscerà Anna Katharina e apparirà nelle sue visioni (e alla morte di lei, avvenuta nel 1824, si occuperà del suo lascito). È qui il corpo della nostra beata ad interessarci: un corpo che si irradia, non solo per l’energia che evidentemente coglie e coinvolge chi le si avvicina. Basti pensare al Dr. Wesener, medico che scriverà un accurato resoconto sulla situazione fisica di Anna Katharina e che le sarà vicino tutta la vita17. È anche un corpo che si “irradia” al di fuori dei confini che detto corpo vive. Un corpo “sconfinato” che attraversa chilometri e chilometri ed ere intere della storia, un corpo che predilige i pellegrinaggi in Palestina, un corpo che decide di osservare con i propri occhi la passione di Gesù Cristo rivelando cose a tutti ignote, e facendosi mediatore anche della storia della vita di Maria. Ma è anche un corpo che vive una traslazione di poche decine di metri, che sa di una famiglia indigente perché il giorno prima è stata da loro, pur non muovendosi dal suo letto. Benché ciò non sia del tutto vero: quando si trova in uno stato di trance ne striscia magari al di fuori senza saperlo, aggirandosi in questo modo per la stanza, così come quando ancora era in grado di camminare non sapeva com’è che durante le sue permanenze nella chiesa, la sera, si ritrovasse arrampicata in punti irraggiungibili18. 15
Si rimanda per approfondite analisi sull’argomento al volume di G. BRANDSTETTER, Erotik und Religiosität: eine Studie zur Lyrik Clemens Brentanos, München 1986. 16 Cfr. in particolare su questo componimento EAD., “Gute Nacht, du liebes Blut”. Brentanos Poetik des Schreibströms, in ANJA LAUPER (cur.), Transfusionen: Blutbilder und Biopolitik in der Neuzeit, Zürich 2005, 157-177. 17 Cfr. W. HÜMPFNER (cur.), Tagebuch des Dr. med. Franz Wilh. Wesener, cit. 18 Tali fenomeni sono narrati da Brentano nel profilo biografico che introduce Das bittere Leiden. A tal proposito possiamo notare come lo strisciare in modo inconsulto finendo per arrampicarsi sugli altari della piccola chiesa di San Paolo a Galatina fosse proprio, secondo Ernesto De Martino, dei tarantolati nei quali poco rimaneva dell’intero apparato rituale, e nei quali prevalevano gli aspetti patologici. Cfr. E. DE MARTINO, La terra del rimorso, Milano 1961.
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Ma l’epoca di Clemens Brentano ed Anna Katharina Emmerick, oltre che contemplare già la definizione di isteria, vedeva il trionfo di una scienza che è stata di breve durata, il mesmerismo, o magnetismo animale. Così l’esperto di magnetismo Johann Christian Friedrich Bährens scrisse un resoconto sul «magnetismo spontaneo» di Emmerick, e spiegò i suoi sintomi e il suo sonnambulismo come fenomeni dell’isteria19. Quel che la nostra mistica, secondo gli scritti di Brentano, racconta d’aver sentito con le proprie orecchie, visto coi propri occhi, percepito coi sensi tutti, è ormai risaputo che è dovuto in in massima parte allo stesso Brentano. E non solo perché costui interpolava le parole “rivelate” che riceveva, ma anche perché talvolta la produzione stessa di tali racconti veniva da lui influenzata, per esempio leggendo alla stigmatizzata passi dalle vite e dalle visioni di altre mistiche. Oppure, “istigando” quella che sarebbe stata una dote della beata, la capacità di riconoscere le reliquie e gli oggetti benedetti, la ierognosi, anch’essa appartenente al repertorio delle capacità proprie di certi mistici. A tal proposito, nella Dolorosa passione si dice esplicitamente, in merito a un Frammento su Giuseppe d’Arimatea: «Stimolata attraverso una reliquia raccontò, il 17 marzo 1821, al mattino, i seguenti frammenti da una contemplazione della notte trascorsa»20. Il resoconto di Brentano del primo periodo da lui trascorso a Dülmen contiene alcuni racconti riguardanti Limberg, il giovane domenicano anch’egli senza convento che era divenuto il confessore della beata. Tali racconti si muovono fra l’erotismo autorizzato sotto le forme dell’estasi (Anna Katharina, se si impossessa della mano di un sacerdote, la tiene stretta a sé e sugge da quelle dita come a conquistarne santità)21, fino ad un certo grado di grottesco: «Una volta che Limberg per caso aveva nelle tasche del gilè dei frammenti di reliquie, le si sedette accanto sul letto, senza sapere che ella era caduta in estasi,
19
G. BRANDSTETTER, “Reliquienberg” und Stigmata, cit., 245-246. Das bittere Leiden unsers Herrn Jesu Christi, cit., 349. 21 Cfr. C. BRENTANO, Tagebuch. Aller erstes Blatt, in J. ADAM, Clemens Brentanos Emmerick-Erlebnis. Bindung und Abenteuer, Freiburg 1956, 314-316. 20
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e in un attimo costei fece scivolare la mano verso la sua tasca, egli chiese cosa volesse, ed ella: “Bello, magnifico, queste sono reliquie”»22. Certo, è assai interessante che in una nota della Dolorosa passione si riferisca il seguente episodio, di una volta in cui Emmerick si trovava ad ascoltare Gesù: «Gli insegnamenti del Signore mi apparvero però così santi e così urgentemente importanti per il nostro misero tempo, che con grande veemenza nel mio cuore urlai: “Ah, perché tutto questo non viene trascritto, perché non c’è alcun apostolo qui per trascriverlo, in modo che il mondo intero ne venga a conoscenza?”»23.
Ma subito dopo lo sposo celeste (una delle incarnazioni delle sue visioni) le spiega: «nei figli della Chiesa che credono, sperano e amano, è scritto tutto [...]»24. Ebbene, se Anna Katharina poteva non accorgersi di questa contraddizione in termini, per cui ella stessa si faceva strumento affinché uno scrivano, moderno apostolo, potesse riportare anche i contenuti delle sue visioni che raccontavano di quella parola di Cristo che non era stata “trascritta” (ammesso, con gran dubbio, che questa visione sia stata realmente una sua visione), la contraddizione non poteva non essere palese a Brentano, che si trova qui a giocare, in fondo, con la figura retorica della preterizione. Dal canto suo, il poeta romantico appare, a dire il vero, più “fanatico” della sua ispiratrice che da lui a sua volta viene ispirata. Collezionava infatti le croste delle stimmate della sua santa, sperava di poterne conservare la mano destra, che secondo la stessa Anna Katharina sarebbe stata in grado, anche dopo la sua morte, di riconoscere oggetti benedetti e reliquie. Benché Emmerick, ancor prima dell’arrivo dei fratelli Brentano (a onor del vero fu infatti Christian il primo a recarsi da lei) fosse divenuta “personaggio” noto al di fuori del piccolo contesto della cittadina di Dülmen, è pur vero che la partecipazione di Clemens al suo caso e alla sua sorte ha giovato a quell’inconsapevole riscatto della classe popolare che la visionaria di umili origini rappresentava. E la scrittura 22
Ibid., 316. Das bittere Leiden unsers Herrn Jesu Christi, cit., 231. 24 L.c. 23
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ha giovato a creare ulteriormente e potenziare il caso mediatico, giacché lo stato prussiano, a cui il Münsterland passò dopo il Congresso di Vienna, mal sopportava la notorietà di una rappresentante del mondo cattolico locale, che era divenuta un caso politicamente destabilizzante (da qui la commissione statale che la visitò)25. Certo è che quegli scritti pesarono negativamente sulla causa di beatificazione, e infatti ne vennero ufficialmente esclusi nel 1923, come conseguenza del lavoro di Padre Winfried Hümpfner, che era stato incaricato di valutare il materiale. Il lavoro in questione è un volume di quasi seicento pagine dal titolo Clemens Brentanos Glaubwürdigkeit (La credibilità di Clemens Brentano). Non questioni e capacità sovrannaturali della aspirante beata vengono messe in discussione. Bensì si compie una sorta di processo canonico accessorio a Brentano. Si veda ad esempio il paragrafo in cui si affronta l’uso improprio (o abuso, ché il lemma tedesco utilizzato è Missbrauch), da parte di Brentano, della capacità di Anna Katharina Emmerick di riconoscere le reliquie, ove vien detto: «Brentano non solo ha sviluppato ulteriormente la riconosciuta capacità di Anna Katharina Emmerick di distinguere le reliquie autentiche da quelle false e di determinare la loro appartenenza ai corrispettivi santi riferendo inoltre scene dalle loro vite, bensì l’ha utilizzata anche sulle reliquie della stessa Anna Katharina per poter così produrre dei Selbstgesichte (visioni di se stessa)»26.
E i Selbstgesichte sono, nei diari di Brentano, delle visioni in cui Anna Katharina guarda se stessa come dall’esterno, come accade nel passo dal titolo più che mai evocativo Gesicht von sich selbst als einer anderen Person (Visione di se stessa come di un’altra persona)27. 25
La commissione statale esaminò il caso di Anna Katharina Emmerick nel 1819, mentre già nel 1813 la stigmatizzata era stata sottoposta ad accurate visite mediche ad opera di una commissione voluta dall’autorità ecclesiastica. 26 W. HÜMPFNER, Clemens Brentanos Glaubwürdigkeit in seinen EmmerickAufzeichnungen, Würzburg 1923, 436. 27 Si vedano le pagine dedicate ai Selbstgesichte nel volume di Hümpfner, ibid., 408435, che spiega le “visioni di se stessa” come un prodotto del gusto romantico per il Doppelgänger; per Visione di se stessa come di un’altra persona si rimanda a G. BRANDSTETTER, “Reliquienberg” und Stigmata, cit., 264.
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Il proprio volto, il proprio corpo, così teatralmente vissuto e sofferto, negato nelle proprie necessità fisiologiche e biologice, viene reso oggetto di una doppia visione, quella dello scrittore e quella di chi abita quel corpo, in una sorta di mise en abyme della corporeità. Il corpo diviene oggetto di una parola che ne fa “ostensione” e, così facendo, ne potenzia l’immagine ad icona, trascendendone la fisicità. Il corpo delle stigmate assurge così a icona di una scrittura che, teatralizzando gli accadimenti del corpo stesso, lo smaterializza nella parola che lo crea e ricrea nelle visioni e nelle altre parole che narrano tali visioni. E, per virtù di visione e scrittura, attraversa di nuovo i tempi, le epoche, gli accadimenti, la storia, in una traslazione infinita, destinata a durare fin tanto che ci sarà un nuovo lettore, una nuova lettrice delle parole di Brentano.
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DEL SENTIRE. IL CORPO IN DOSTOEVSKIJ E IN PIRANDELLO TRA POETICA E RISCRITTURA
ANTONIO SICHERA*
1. MARMELÀDOV E IL LINGUAGGIO DEL SENTIMENTO Siamo nelle prime pagine di Delitto e castigo. Raskòlnikov è già fortemente orientato a compiere il delitto che sarà l’inizio di tutto ed è appena uscito da un bizzarro sopralluogo a casa della vecchia usuraia, quando in quella caldissima giornata di inizio luglio gli viene voglia di una «birra fredda» e decide di scendere per la scala di una bettola «pessima e buia». Come spesso succede in Dostoevskij, siamo di fronte ad un gioco di raddoppiamenti. Si tratta infatti della seconda scala in poche pagine (la prima era stata quella «buia e stretta» che portava all’appartamento di Alëna Ivànovna), ma si tratta pure di una sete fisiologica che all’interno dell’osteria si muta dentro di lui, improvvisamente, in una strana «sete di esseri umani». Raskòlnikov, che si è calato nella stamberga chiuso cupamente nei suoi pensieri funesti e vi ha subito incontrato due ubriachi (uno dei quali intona ritornelli sconci in preda com’è ai fumi dell’alcol), sente ora che dentro di lui sta avvenendo «qualcosa di nuovo»: questa apertura, questo repentino desiderio dell’altro si pongono insomma come un fatto del tutto inedito e inatteso, come una pausa dell’anima ben circoscritta e quasi miracolosa all’interno del sistema di isolamento che il giovane si è testardamente costruito. * Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania.
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Ed è a questo punto che incontra Marmelàdov, un vecchio funzionario ubriacone, padre di quella Sonja che sarà la salvezza di Raskòlnikov. La sospensione in cui è collocato il dialogo fra i due uomini ci fa subito intuire la decisività di questo passaggio per lo sviluppo e soprattutto per l’intendimento del romanzo. Il vecchio siede in disparte, ha un’aria di sdegno altezzoso, quasi a sottolineare la distanza che egli stesso avverte rispetto agli astanti (la sua «grandezza», per dirla in termini pascaliani). Eppure il suo «volto» è «gonfio e arrossato» dal vino, ed è punteggiato da un «pelo setoloso e grigiastro»; i suoi vestiti sono sdruciti, le sue mani sporche e con le unghie nere, i suoi occhi arrossati e attraversati da lampi di follia: il suo corpo è insomma il segno esplicito di una «miseria» che gli meriterà lungo il capitolo le autodefinizioni di «porco», di «animale», di «bestia». Si vengono così a trovare l’uno di fronte all’altro un giovane «studente» (e dunque un ‘aspirante sapiente’), bevitore di birra, e un vecchio uomo di burocrazia (e di una qualche cultura), ora dedito al vino e ridotto ad un corpo immondo e, al limite, disumano, pura physis. Marmelàdov racconta al giovane interlocutore la propria storia: l’impiego in una terra lontana; il secondo matrimonio contratto con Katerìna Ivànovna, la dura, terribile donna che ha conosciuto in quel «distretto selvaggio» — vedova, con tre bambini, sola e disperata — e che ha soccorso, pur nella consapevolezza della loro reciproca, assoluta diversità e della mancanza di ogni gioia e di ogni sintonia nel cuore di lei. E poi l’assenza di intesa, la perdita del posto, l’alcolismo. Quella del vecchio Marmelàdov è un’esistenza fallita: voleva che Katerìna Ivànovna avesse «un posto dove andare», perché ogni uomo ha diritto ad avere una dimora, uno spazio di accoglienza, in un tempo in cui «la compassione è perfino proibita dalla scienza». E invece, alla fine, quel che ne è venuto fuori è stata una vita di stenti, di scenate, di maltrattamenti, di lui e dei bambini, fino al momento fatale in cui l’altera (e istruita!) Katerìna ha chiesto a Sonja, l’unica figlia di Marmelàdov, di prostituirsi per mantenere la famiglia: «Io, quella volta, ero a letto… ma sì, diciamolo pure, ubriaco fradicio, e sento la mia Sonja che dice (non è tipo da ribattere, e ha una vocina tanto mansueta… è biondina, col visetto sempre pallido magrolino), sento che dice: «Katerìna Ivànovna, possibile che io debba fare una cosa simile?»
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[…] «Perché» risponde Katerìna Ivànovna, tutta ironica, «che c’è da custodire? Bel tesoro davvero!» […] E verso le sei vedo Sònecˇka alzarsi, mettersi in capo il fazzoletto, indossare la mantellina e uscire di casa, per tornare poi verso le nove. Appena rientrata va dritta da Katerìna Ivànovna, e senza parlare le mette davanti, sul tavolo, trenta rubli d’argento. Non disse una sola parola, non guardò nessuno […] E allora, giovanotto, allora, subito dopo, vidi Katerìna Ivànovna avvicinarsi, anche lei senza dire una sola parola, al lettuccio di Sònecˇka, e passare tutta la sera così in ginocchio accanto a lei; e le baciava i piedi, non voleva alzarsi, e alla fine si addormentarono così tutte e due insieme, abbracciate…»1.
Sonja è qui la prima icona Christi del romanzo: questa ragazza che, a detta del padre, non ha avuto modo e tempo di istruirsi, dona il proprio corpo, lo lascia sporcare, in silenzio — «era come agnello condotto al macello. E non aprì la sua bocca» (Isaia 53) — perché la sua famiglia possa sopravvivere. Esce così definitivamente di casa (le danno «il biglietto giallo»), rinuncia alla dimora che ogni uomo dovrebbe avere affinché quella casa diventi un luogo un po’più caldo ed ospitale per tutti. Sonja è un Christus amans, una ‘prostituta per amore’, che Dostoevskij eleva a dignità cristologica facendola tradire per trenta denari (i «trenta rubli d’argento») e riservando a lei, da parte della matrigna, il trattamento riservato a Gesù, in Lc 7, 38, dalla peccatrice in casa di Simone il fariseo («e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato»). In un antagonismo spiccato e insistito con la parola, con la sua incipiente vuotezza, questa ragazza ignorante offre totalmente il suo corpo e lo consegna perfino all’abbraccio silenzioso del proprio carnefice, secondo una versione straniante ed estrema del bacio di Giuda, dove l’imago Christi si apre impensabilmente ad un contatto intimo e condiviso con le labbra del traditore. Solo in quei corpi abbracciati, al di là di ogni parola, abita la verità di ogni uomo, perfino del più duro e malvagio. Ma Sonja non è l’unica figura cristologica del capitolo. Se la sua passione è quella del ‘figlio’ che si dona per amore, la Passio di suo 1
F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, trad. it. di G. Kraiski, Milano 1985, 20-21.
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padre è l’esperienza della caduta tipica del re spodestato. Su questo punto Dostoevskij è esplicito. Ci racconta infatti di un Marmelàdov che di fronte all’abiezione di Sonja trova la forza per alzarsi e per andare a chiedere di essere riassunto in sevizio al suo antico datore di lavoro, Sua Eccellenza Ivàn Afanàsevicˇ. Questi, pieno di compassione — struggendosi «come cera davanti al volto del Signore» — glielo concede nuovamente. Marmelàdov vive così per cinque settimane la sua incredibile esperienza (quasi come un unico ‘ottavo giorno’: «celestiale giornata») da cittadino del «regno dei cieli»: riaccolto a casa trionfalmente, trattato da principe al punto da trovare «la panna» in tavola, colmato di affetto dalla donna che lo aveva disprezzato («tesoruccio mio!»), immerso nella pace e come travolto dalla riconciliazione di Katerìna con il vicinato. Si tratta di una gioia sovrabbondante e senza fiato che rende quella casa una vera terra promessa, l’immagine adeguata della fecondità, della serenità, delle relazioni affettuose del Regno. Ma una sera Marmelàdov ruba dal baule di Katerìna i soldi dello stipendio appena guadagnato e corre ad ubriacarsi, spendendo tutto il denaro e giungendo addirittura ad elemosinare proprio da Sonja «i soldi per la spranghetta». Soldi concessigli dalla figlia, ancora una volta, come l’obolo della vedova di Marco, in un silenzio pietoso e cristologico (se con «trenta copeche» gli paga nuovamente il prezzo di Giuda). Eppure, la caduta di Marmelàdov, mentre lo assimila a Giuda, fa di lui soprattutto una perfetta icona dell’Ecce Homo: «Ecco, questo mezzo litro è stato pagato con i suoi denari […] Mi ha portato trenta copeche, me le ha date con le sue mani, ed erano le ultime, non aveva altro, l’ho visto io stesso… Non ha detto nulla, mi ha solo guardato in silenzio. […] E io, io, suo padre carnale, queste trenta copeche me le sono intascate per andare a bere!» […] Scoppiarono risate, e volò perfino qualche insulto. Ridevano e lo ingiuriavano tutti […] due ragazzi scoppiarono a ridere insieme dietro il banco e perfino il padrone sorrise. «Non è nulla! Non mi confondo certo per codesto crollar di capi, poiché tutti sanno già tutto, e ogni segreto diviene palese; e non è con disprezzo, ma con rassegnazione, che considero ciò. Sia pure! Sia pure! ‘Ecce Homo!’»2. 2
Ibid., 16, 25.
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Non per nulla, al suo ritorno a casa, Katerìna si lancerà a perquisirlo, a batterlo, a trascinarlo per i capelli fino a fargli picchiare la fronte sul pavimento, in una scena di flagellazione esibita in cui si compie l’identificazione consapevole di Marmelàdov col Cristo battuto e umiliato. (Non ci si dimentichi d’altronde che tutti questi fatti accadono cinque giorni dopo l’ideale ‘domenica’ di Marmelàdov, il giorno del Regno ma anche di una specie di suo trionfo gerosolomitano, e che dunque siamo nel contesto temporale e simbolico di un ‘venerdì’ di passione). Il dono del corpo di Sonja e lo spodestamento di suo padre non esauriscono però la serie delle apparizioni del Cristo in queste poche pagine dostoevskijane. Nel dialogo tra Marmelàdov e Raskòlnikov c’è infatti un’altra forma di cristologia, che sta sotto il segno di un diverso patire e che è in verità il fondamento di tutto. Al centro di questa specifica figura Christi si trovano il campo semantico e la dinamica interiore del ‘sentire’, che nell’originale russo (чувствовать/chuvstvovat’) ha anzitutto un segno nettamente fisico, corporeo. Chi è infatti Marmelàdov da questo punto di vista? Potremmo rispondere: l’uomo del sentimento, colui che «sente» intimamente, nel suo corpo, il dolore e la sofferenza degli altri, che ne comprende i gesti e le parole, fino a scusarli sempre e a compatirli. Da questo suo ‘sentimento’ nessuno è escluso: non Sonja, certo, non i tre bambini piccoli, ma nemmeno Katerìna. La tremenda megera viene colta infatti dal secondo marito nei suoi tratti più semplici ed umani, nonché giustificata nelle sue malefatte al di là di ogni comprensibile ragionevolezza. E tutto questo non a motivo di una sprovveduta superficialità magari generata dell’alcol, bensì in forza di una scelta ostinata e consapevole. Marmelàdov non ignora che Katerìna è stata per la sua Sonja una «matrigna malvagia e tisica», ma pur sapendolo cerca sempre — con un atteggiamento fermo e totalmente aderente — di guardarne (e soprattutto di far guardare a Raskòlnikov) quei lati in ombra che possano impensabilmente dare ragione del comportamento di lei. E la determinazione all’accoglienza e alla comprensione dell’altro/a è tale da condurlo a forme di condivisione al contempo paradossali e radicali. Certo, Marmelàdov beve. Ma nel suo cuore il bere non è un semplice vizio. Egli beve perché «sente» le sofferenze dei suoi e vuole
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condividerle, vuole sentirle nella maniera più forte e dolorosa possibile: «e io tutte queste cose le sento. Forse che non le sento? E quanto più bevo, tanto più le sento. Proprio per questo bevo, perché in questo mio bere cerco compassione e sentimento… Bevo perché voglio soffrire il doppio»3. Si tratta di un sentimento, di una compassione e di una condivisione profondamente cristologici. Il Cristo di queste pagine, infatti, quando vi appare non più nell’implicitezza della figura ma nella realtà della presenza, è un Cristo giudice. Il suo giudizio finale però ha i contorni della misericordia e del perdono assoluti: «Ma avrà pietà di noi colui che di tutti ha avuto pietà, e che tutti e tutto ha compreso: egli è l’unico, egli è il giudice. Verrà in quel giorno e chiederà: «Dov’è la figlia che s’immolò per la sua matrigna malvagia e tisica, per i teneri figli d’altri? Dov’è la figlia che ebbe pietà del padre suo terreno, ubriacone impenitente, anziché aver orrore della sua bestialità? E dirà: Vieni! Io ti ho già perdonato una volta… Ti ho perdonato un volta ... E anche ora ti vengono perdonati i tuoi molti peccati, perché molto hai amato». E perdonerà la mia Sonja, la perdonerà, so bene che la perdonerà... L’ho sentito nel mio cuore poco fa, quand’ero da lei.!… E tutti giudicherà e perdonerà, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti, allora apostroferà anche noi: «Uscite,» dirà, «voi pure! Uscite, ubriaconi, uscite voi, deboli, uscite voi, viziosi!» E noi usciremo tutti, senza vergognarci, e staremo dinanzi a lui. Ed egli ci apostroferà: «Porci siete! Con l’aspetto degli animali e con il loro stampo; però venite anche voi!» E obietteranno i saggi, obietteranno le persone ricche di buon senso: «Signore, perché accogli costoro?» Ed egli risponderà: «Perché li accolgo, o saggi, perché li accolgo, o voi ricchi di buon senso? Perché non uno di loro se ne è mai creduto degno…» E ci tenderà le sue mani, e noi vi accosteremo le labbra, e piangeremo... e capiremo tutto! Allora capiremo tutto! Tutti capiranno… anche Katerìna Ivànovna… anche lei capirà… Signore,venga il regno tuo!»4.
È il passo rivelatore del nostro capitolo ed insieme la guida posta dal narratore alle porte di Delitto e castigo per far intendere al lettore il senso del suo messaggio. La forma ultima del Cristo dostoevskijano ci 3 4
Ibid., 17. Ibid., 26.
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appare qui non quella dell’amore oblativo (riflessa in Sonja) né quella della sofferenza (rivelata da un certo, dichiarato profilo di Marmelàdov), bensì quella del sentimento. Un sentimento che si esprime in una misericordia assoluta, in un’accoglienza senza limiti dell’altro. Il Cristo giudice di Marmelàdov — quel Cristo che non per caso egli «sente» — tutti comprende e tutti perdona. E non si limita a far sorgere il suo sole sui buoni e sui malvagi e piovere sui giusti e sugli ingiusti (come il Padre di Mt 5, 45), ma tutti alla fine abbraccia in un amore senza riserve, frutto di un sentimento piantato nel corpo. Quel corpo del Cristo che alla fine della scena viene baciato dalle labbra di tanti Giuda e bagnato dalle loro lacrime, perché non possono credere che proprio a loro il giudice tenda le mani, che si faccia loro dimora («bisogna bene che ci sia per ogni uomo un posto dove si abbia pietà di lui»)5. Di questo Cristo e del suo Regno Marmelàdov è discepolo («Signore, venga il regno tuo» è la preghiera del Pater, la preghiera insegnata ai discepoli) e icona. Per il suo Signore, e per lui, il corpo è lo spazio del sentimento inteso come viscerale coinvolgimento nella storia e nella sofferenza degli altri. E tutto questo accade nel romanzo in polemica sottesa e insistita contro l’inutilità dell’istruzione, della parola, del sapere. I saggi si ribellano alla misericordia, né possono esserne immagine, se non a prezzo di una profonda conversione. Perché, come Katerìna e come l’attonito ma pur partecipe studente Raskòlnikov, hanno ricevuto tutti nella loro esistenza lo stigma del sapere. Solo chi ama, alla fine, capisce («capiremo tutto»). Non è il capire dei dotti, ma il diverso intendimento tipico dell’ordo charitatis di Pascal. Il sentire generato dal corpo — da un viscerale appassionarsi alle sofferenze altrui non a partire da una superiorità indiscussa ma bensì da una povertà, da una miseria dolorosa e consapevole, che rende compagni e che atterra gli istruiti (anche Marmelàdov lo è stato) — è il segreto delle relazioni autentiche. Qui il sapere del mondo non c’entra nulla. A questo punto l’anziano funzionario potrà uscire dall’osteria, faticosamente appoggiato ad un Raskòlnikov divenutogli amico, e andare a prostrarsi sulla porta di casa per ricevere l’agognata punizione di Katerìna. 5
Ibid., 17.
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2. ATTRAVERSO DOSTOEVSKIJ: CORPO E SENTIMENTO IN SOPRA E SOTTO Luigi Pirandello fu senza ombra di dubbio profondamente impressionato da questa scena di Delitto e castigo, tanto da renderla un emblema della sua ammirata, coinvolta frequentazione di Dostoevskij. Così importante per lui, questo incontro in osteria fra Marmelàdov e Raskòlnikov, da generare nella sua scrittura una sorta di parto gemellare. Il primogenito, anzi la primogenita è una delle sue novelle più belle e meno conosciute: Sopra e sotto, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 29 marzo 1914 e poi più volte riproposta con poche varianti fino alla definitiva edizione «Omnibus» Mondadori del 19376. La storia narrata in questo breve racconto, densissimo e ricco di fascino, è presto detta. In un’afosa notte d’estate, sulla terrazza di una povera casa, situata al culmine di una «buja, erta scaletta di legno», dialogano animatamente un professore e il suo antico allievo: Carmelo Sabato ed Enrico Lamella. Ad apertura di pagina li troviamo messi lì a discutere con molta foga, ma anche a bere, abbondantemente: l’uno, Carmelo, il vecchio professore, «vino, fino a schiattarne: voleva morire», l’altro, il giovane alunno, «magro, itterico e nervosissimo», «birra: non voleva morire». Come si nota già ad un primo colpo d’occhio, la specularità con la scena di Delitto e castigo è impressionante. I due testi sono accomunati dall’afosa notte d’estate, dalla relazione diadica, dalla differenza di età (rapporto padre-figlio), dalla netta distinzione dei corpi e del loro posizionamento nello spazio (Carmelo non solo ha gli occhi rossi, i vestiti discinti e il corpo peloso di Marmelàdov — che di setoloso aveva però anzitutto il volto non sbarbato — ma tiene anche, secondo il testo, una postura sguaiata accompagnata da una serie di rumori del corpo seminudo che avvicinano palesemente la sua figura a quella del ‘porco’; mentre Enrico, è agitato, fremente, magro, uno spirito sottile impegnato in una contesa filosofica ben diversa da quella di Raskòlnikov), dalla scelta della bevanda: vino per il vecchio e birra per il giovane. 6 L. PIRANDELLO, Sopra e sotto, in ID., Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, vol. I, Milano 1985, 550-558. Vista la brevità del testo, per non appesantire l’apparato darò il riferimento puntuale solo delle citazioni più consistenti.
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Ma ancora più interessante per noi è l’oggetto della disputa fra Sabato e Lamella. Il giovane allievo argomenta infatti in favore della grandezza dell’uomo, sulla scorta di Pascal — perché è grande l’uomo se può concepire dinanzi al cielo stellato la propria piccolezza —, mentre l’anziano professore contesta la grandezza vantata da Enrico in quanto fondata in verità sulla percezione di una infinita miseria. Eppure sbaglieremmo a considerare la contesa un puro contrasto di idee. A distinguere i due questionanti è l’orgoglio del pensiero e dell’idea filosofica astratta, stile e metodo di Lamella, nei confronti del corpo pensante di Carmelo: «Enrichetto mio, Enrichetto mio, non sono idee […] Forse prima erano idee. Ora sono il sentimento mio, quasi un bisogno, figliuolo: come questo vino: un bisogno». Al pensiero puro e all’argomento tecnicamente filosofico, l’antico maestro di Enrico, con un senso di affetto e di profondo pathos paterno, oppone una parola consumata e interrotta, strascicata e faticosa (quanti puntini di reticenza e quante ripetizioni nelle risposte di Carmelo!), l’unica possibile per esprimere non più un’astratta teoria, ma un pensare che si è fatto corpo, o meglio, un bisogno intimo e ineludibile che si fa lentamente (ma inesorabilmente) pensiero, verbum di un uomo che non può più ‘fare’ filosofia, ma solo dire e pensare la propria esistenza. Carmelo Sabato si sente scritto nella carne, suo malgrado, qualcosa che è al di là di lui, come la fame, come il bisogno di bere, un quid indominabile, che sta dalla parte della fisiologia e non della teoria, e che non può non ripetere (o forse biascicare), perché è ormai la sua stessa vita. C’è un’inimicizia intimamente dostoevskijana, in queste pagine, tra il sapere e il sentire. La vera posta in gioco su quella terrazza è il radicale conflitto fra l’esaltazione dell’anima e il primato del corpo: «Il Lamella saltò dall’amaca e si chinò sul professor Sabato che, appoggiato al muro, si scoteva tutto, sussultando, quasi ruttando i singhiozzi, che a uno a uno gli rompevano dal fondo delle viscere, fetidi di vino. / — Su, su, smettetela, perdio! — gli gridò. — Mi fate rabbia, perché mi fate pietà! Un uomo del vostro ingegno, dei vostri studii, ridursi così! vergogna! Voi avete un’anima, un’anima, un’anima. Me la ricordo io, la vostra anima nobile, accesa di bene; me la ricordo io! / Per carità… per carità… — gemeva, implorava il professor Carmelo Sabato, tra le lagrime, sussul-
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tando. — Enrichetto… Enrichetto mio… no, per carità… non mi dire che ho un’anima immortale… Fuori! fuori! Ecco, sì, ecco quello che io dico: fuori; sarà fuori l’anima immortale… e tu la respiri, tu sì, perché non ti sei ancora guastato… la respiri come l’aria, e te la senti dentro… certi giorni più, certi giorni meno… Ecco quello che io dico! Fuori… fuori… per carità, lasciala fuori, l’anima immortale… Io, no… io, no… mi sono guastato apposta per non respirarla più… m’empio di vino apposta, perché non la voglio più dentro di me… la lascio a voi… sentitevela dentro voi… io non ne posso più… non ne posso più…»7.
Carmelo Sabato ha scelto il corpo, senza esitazioni, ha scelto il sentimento corporeo come la sua unica vera consistenza. Dell’anima, della filosofia, della grandezza dell’uomo lui non ne può più. Se ci si pone su questa linea si capisce bene quel che accade nella seconda parte del racconto, quando due suore si affacciano all’ingresso della terrazza e invitano i due uomini a scendere. Dal «sopra» al «sotto», appunto. Il parallelismo con Delitto e castigo è qui, ancora una volta, puntuale. Come Marmelàdov all’uscita dall’osteria, così Sabato, impacciato ed ubriaco, si appoggia al suo giovane amico per scendere la stessa scaletta buia e ripida idealmente percorsa, alcuni decenni prima, dal «consigliere titolare», suo fratello maggiore. Ma non solo. Una volta arrivati giù, la scena che si presenta agli occhi dei due uomini è quella di una cameretta buia (tetra era anche, ricordiamolo, la disadorna stanza della famiglia di Marnelàdov) e di un letto di morte, su cui è appena spirata, munita dei tradizionali conforti religiosi, la moglie di Carmelo, una donna dal profilo duro e arcigno come quello di Katerìna. E come Katerìna con Sonja, anche la moglie del vecchio professore è stata la protagonista della rovina delle giovani figlie di Carmelo, istradate da lei all’avanspettacolo e alla prostituzione nel turbinio della vita di Parigi. Per questo, di fronte agli inviti delle suore a far silenzio e a perdonare, l’anziano professore ha uno scarto. Non si omologa alla religiosità tutta esteriore in cui la morte (e la vita) della moglie sono state ritualmente ‘inquadrate’, bensì, dopo essersi prostrato, alla maniera di Marmelàdov sulla soglia di casa, emette un ritornello sconcio, come gli ubriachi all’ingresso dell’osteria 7
Ibid., 554-555.
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di Raskòlnikov, in segno di protesta contro l’inutile signoria dell’anima e a paradossale difesa dei diritti del corpo: « — L’anima, eh? — disse alla fine il Sabato, con un sussulto. — L’anima immortale, eh? / — Signore! — supplicò l’altra suora più anziana. / — Ah? Sì… sì… subito… — si rimise, come spaurito, il professor Carmelo Sabato, calandosi faticosamente sui ginocchi. / Cadde, carponi, con la faccia a terra, e stette così un pezzo, picchiandosi il petto col pugno. Ma a un tratto dalla bocca, lì contro terra, gli venne fuori con suono stridulo e imbrogliato il ritornello d’una canzonettaccia francese: «Mets-la en trou, mets-la en trou… » seguito da un ghigno: ih ih ih ih… / le due suore si voltarono, inorridite; il Lamella si chinò subito a strapparlo da terra e trascinarlo via nella stanza accanto; lo pose a sedere su una seggiola e lo scrollò forte, forte, a lungo, intimandogli: / — Zitto! zitto! / — Sì, l’anima… — disse piano, ansimando, l’ubriaco, — anche lei… l’anima… la plaga… la plaga di spazio… dove… dove roteano mondi, mondi… / — Statevi zitto! — seguitava a gridargli in faccia, con voce soffocata, il Lamella, scrollandolo. — Statevi zitto! / Il Sabato, allora, contro la sopraffazione provò di levarsi fiero in piedi; non potè; alzò un braccio; gridò: / — Due figlie… costei… due figlie mi buttò alla perdizione… due figlie!»8.
Ecco perché non vuole l’anima dentro di sé, ecco perché beve disperatamente fino a morire: come Marmelàdov, Carmelo Sabato si assimila ubriacandosi, in una logica di potente irriflessa incarnazione, alla rovina e al dolore della propria famiglia. Ma diversamente dal padre di Sònecˇka, la religio corporis di quest’uomo contestatore dell’ordine costituito — figura, come Serafino Gubbio, di una sconvolgente condivisione cristologica — porta in sé il segno della leggerezza amorevole e dell’ironia affettuosa. Davanti agli occhi di un Lamella incredulo, Carmelo Sabato tira fuori infatti dalla tasca della giacca (ennesima figura nell’universo pirandelliano del Memorial pascaliano: il Pascal della carta cucita nella giacca, memoria di un’esaltante esperienza corporea della presenza di Dio, e non il Pascal della speculazione filosofica), le lettere odorose di Lauretta e Vanninella: «Socchiuse gli occhi e aspirò col naso, a lungo, deliziosamente, accompagnando l’aspirazione con un gesto espressivo 8
Ibid., 556-557.
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della mano: — Che profumo… che profumo… Lauretta, da Torino… l’altra, da Genova…». In quei fogli di carta profumata c’è scritto il desiderio delle figlie di rivedere la madre, ma nel contatto olfattivo con la loro materia c’è soprattutto, per Carmelo, il senso del legame, dell’affetto che malgrado tutto lo lega a Lauretta e a Giovannina e che gliele fa pensare (e odorare) come avvolte in un’atmosfera di sogno, in un inafferrabile segreto di gaudio e di bellezza. Poi Carmelo rammenta ad Enrico che propria una di quelle ragazze — lui, il filosofo dell’anima immortale — voleva sposare nella sua prima giovinezza. E alle proteste di Lamella reagisce, con una mossa definitiva — ennesima eredità di Marmelàdov — rivelandogli che con i soldi di Vanninella (come era stato, ma in un contesto ben più drammatico, per le trenta copeche di Sonja) ha comprato la birra (la «spranghetta» di Dostoevskij) per l’amico «idealista». Pur sulla scia del grande maestro russo, il Marmelàdov pirandelliano appare dunque già in terra, e non solo nella proiezione escatologica del giudizio, vittorioso sulle forze della regola e dell’anima, che riporta, con un gesto eversivo e straniante, alla compagnia della miseria di tutti, alla verità corporea dell’esserci. 3. MARMELÀDOV ‘UMORISTA’ La vicenda del secondo gemello dovrebbe essere ben più nota, eppure forse non colta ancora in tutto il suo spessore. Sono passati più di vent’anni da quando per primo fra gli studiosi dell’agrigentino mi capitò di documentare filologicamente la notevole distanza intercorrente fra l’edizione del saggio sull’Umorismo del 1908 e quella editata nel 19209. Mi accorsi allora che il famoso passo che mi accingo a citare, divenuto in tutti i testi critici e i manuali letterari l’exemplum massimo dell’umorismo pirandelliano, era stato aggiunto solo nell’edizione Battistelli del 1920:
9 Cfr. A. SICHERA, Pirandello, Pascal e la “vecchia signora”. Dal “contrario” del sentimento al “contrario” dell’alterità, in Letteratura Italiana Contemporanea (LIC), XIII, n. 35, gennaio-aprile 1992, 191-218.
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«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella signora è il contrario di ciò che una vecchia, rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietossamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza fra il comico e l’umoristico. / — «Signore, signore, oh! Signore! forse, come gli altri, voi stimate ridicolo tutto questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica: ma per me non è ridicolo, perché io sento tutto ciò…» — Così grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto e Castigo del Dostoevskij, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E questo grido è appunto la protesta d’un personaggio umoristico contro chi, di fronte a lui, si ferma ad un primo avvertimento superficiale e non riesce a vedere altro che la comicità»10.
Per intendere la portata di questo testo all’interno del tessuto dell’Umorismo bisogna creargli lo sfondo giusto. Innanzitutto è bene notare come, nella prima edizione del saggio, la teorizzazione relativa al famoso sentimento del contrario era rigorosamente intrapsichica. Per il Pirandello del 1908, «sentimento del contrario» voleva dire semplicemente uno scarto, interno al sistema psichico dell’autore, fra un sentimento iniziale e un sentimento opposto suscitato in lui dall’intervento della riflessione. Un «contrario del sentimento», insomma. L’esempio didatticamente più chiaro era rappresentato dal transito dalla rabbia alla tenerezza verso i soldati austriaci da parte del Giusti di Sant’Ambrogio. Ora, è vero che questo e gli altri esempi dello stesso tenore citati nel 1908 vengono riproposti nel 1920. Ma è altrettanto 10
L. PIRANDELLO, L’umorismo, a cura di S. Guglielmino, Milano 1986, 135-136.
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evidente che il passo appena citato, come ho già fatto notare, introduce una variante decisiva nell’organismo teorico. Qui il contrario è diventato il personaggio. È l’altro, la vecchia signora imbellettata, la misura di un passaggio interiore non più da un sentimento al suo opposto, bensì da un «avvertimento del contrario», in cui consisterebbe il comico, ad un «sentimento del contrario», proprium dell’arte umoristica. Il destino dell’umorismo si gioca ora insomma all’interno di una relazione che destabilizza le certezze dell’artista. E lo spazio di questa destabilizzazione, si badi bene, è il corpo. Anzi, è la deformazione espressionistica del corpo della vecchia, la sua forma inquietante, il suo proporsi senza veli, con i segni della sua sostanza e della sua apparenza inestricabilmente uniti, il principio dell’esperienza umoristica. Ma non solo. Al contrario del sentimento si sostituisce ora una gradazione interiore, nella quale il punto fondamentale è rappresentato da una profonda partecipazione, di matrice tragica, che mette in questione il rilievo farsesco del comico. In secondo luogo è bene ricordare che fino al momento in cui inserisce questo testo nel 1920, Pirandello non aveva mai proposto all’interno del saggio esempi di umorismo usciti dalla sua penna, ma sempre esegesi più o meno puntuali di passi altrui. Con la «vecchia signora» interrompe dunque una lunga tradizione e decide di intervenire in prima persona, collocando un ‘suo’ personaggio dentro l’Umorismo (per la verità si tratta di un character di lungo corso, già più volte apparso in altri luoghi e in altri contesti dentro la sua opera). E appena interviene, come abbiamo visto, la qualità della relazione e dell’esperienza vengono sottoposti ad un’accelerazione che pur non negando il passato, non ribaltandolo, ne mette in discussione lo schema troppo limpido e pacificante. Come se Pirandello pensasse di dire in fondo la stessa cosa del passato, ma inserisse — quasi al di là di sé — la questione di un rapporto con il corpo dell’altro, di un ‘sentire’ il corpo altrui, che sposta il centro del processo umoristico dall’animo dello scrittore al suo personaggio, inteso come un’alterità inquietante. Ciò che l’umorista deve fare non è riportarlo alla comune umanità, al suo essere soggetto alle medesime debolezze di tutti (come succede ai soldati di Giusti o al don Abbondio di Manzoni), ma comprenderlo nella sua diversità, nella sua differenza irriducibile. Questo Pirandello
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postosi ormai irreversibilmente sulla strada del teatro è incline a concedere un’indipendenza di parola e di posizione ai suoi personaggi che li sottrae allo statuto di proiezioni dell’interiorità autoriale e li rende al contrario partner sostanziali di una relazione dai contorni simili ad una sfida. Qui l’umorista è provocato ad oltrepassare il dominio rassicurante dell’interiorità, il gioco di ciò che in ogni caso gli appartiene, per lasciarsi provocare dalla manifestazione di un’esistenza altra, che esige l’assunzione di un atteggiamento fenomenologico. Come a dire: si può lasciar essere l’inconcepibile; di fronte ad esso il veloce giudizio sociale espresso dal comico rappresenta una modalità miope e superficiale di apprensione del reale. È questo il senso della gradatio: l’oscillazione non accade ormai fra due emozioni contrapposte, di qualunque tipo esse siano, ma si pone quale demarcazione di un confine tra chi rifiuta la questione posta dal corpo ‘diverso’ dell’altro e chi la ‘sente’ e la fa sua, penetrando con atto intuitivo il cuore d’Autrui, ovvero ciò che il suo corpo esprime. Il sentimento diviene qui una facoltà conoscitiva che stacca l’umorista dal mondo non con la sicumera degli intelligenti, bensì attraverso un faticoso processo di distanziamento da un’opinione a cui in prima battuta si è allineato e che si sente costretto a lasciare in forza di un nuovo modo di approssimarsi all’altro, frutto di un approfondimento interiore (la riflessione) e di un’apertura alla verità dell’esperienza altrui, ad un vissuto mondano fuori dalle regole sociali condivise. In questo contesto, Pirandello cita Dostoevskij. È lecito preliminarmente chiedersi da quale fonte. Nel 1920 erano già disponibili da più di trent’anni sia l’edizione francese di Delitto e castigo che quella italiana edita da Treves, ristampata fra l’altro nel 191911. Sin dal titolo, 11 Mi riferisco rispettivamente a F. M. DOSTOEVKIJ, Le crime et le chatiment, traduit du russe par Victor Derély, Paris, Plon, 1885; e a F. M. DOSTOEVKIJ, Il delitto e il castigo (Raskolnikoff), Milano 1889. I testi corrispondenti al nostro passo sono i seguenti: a) «Monsieur, monsieur! s’excusa Marméladoff, — oh! monsieur, peut-être trouvez-vous comme les autres cela risible, peut-être ne fais-je que vous ennuyer en vous racontant tous ces sots et misérables détails de mon existence domestique, mais pour mois ce c’est pas dròle, car moi je puis sentir tout cela…» (Plon, tome I, p. 25); b) «Signore, signore! — si scusò Marmeladoff, — oh! signore, forse, come gli altri, voi trovate ridicolo questo, forse vi annoio raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica; ma per me non è ridicolo, perché io sento tutto ciò… » (Treves, vol. I, p. 30).
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però, Il delitto e il castigo (traduzione letterale di Le crime et le chatiment) essa manifesta al lettore la propria totale dipendenza dal testo francese, del quale altro non è che una fedele riproposizione in italiano. Ora, la citazione pirandelliana rispecchia la lezione di Treves, tranne che per il consueto uso piradelliano della semivocale ‘j’ («annojo» e non «annoio»); per due interventi sulla punteggiatura (il punto e virgola dopo «questo» invece della virgola: «questo;» e non «questo,» ovvero «cela,»; i due punti al posto del punto e virgola dopo «domestica»: «domestica:» e non «domestica;», «domestique,» nel testo francese); per i corsivi di «ridicolo» e di «sento»; per l’uso della forma «stimate» al posto di «trovate» (calco pedissequo del «trouvezvous» dell’edizione francese); per il sintagma «tutto questo» («forse, come gli altri, voi stimate ridicolo tutto questo»), che varia il semplice «questo» della Treves («forse, come gli altri, voi trovate ridicolo questo») e dunque il «cela risible» della traduzione di Derely. Al di là degli interventi grafici e interpuntivi, segno di grande meticolosità, quest’ultima variazione può rispondere ad una ricerca pirandelliana di eufonica simmetria interna (come a creare un pendant con il «tutto ciò» — «tout cela» nell’edizione Plon — della battuta finale: «perché io sento tutto ciò», dove il «sento» è in parallelismo oppositivo con il «ridicolo» di due righe sopra), mentre lo «stimate» potrebbe essere attribuito ad una più decisa sottolineatura (filologicamente innocua agli occhi dell’agrigentino) della dimensione del ‘giudizio’ comico. In ogni caso, l’avvento di Dostoevskij nell’Umorismo risponde contemporaneamente ad almeno tre intenti o esigenze. Per un verso, essa segnala senza ombra di dubbio un privilegio e una contiguità. Nel momento in cui ritiene di dover appaiare il testo di un suo collega o maestro all’esempio di umorismo da lui fabbricato ‘in proprio’, Pirandello sceglie Dostoevskij. E i motivi della vicinanza e della devozione verso il grande russo sono impliciti, in buona parte, nella microcomparazione testuale condotta in queste pagine. Se l’exemplum pirandelliano si gioca tutto sul piano del corpo, all’altezza di tale provocazione non può stare — sembra quasi dire l’agrigentino — se non lo scrittore dei corpi viventi, ovvero il suo amato Fëdor. In seconda battuta, il lascito dostoevskijano viene usato alla stregua di un reagente che metta in moto e agiti la staticità dell’esempio della
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vecchia signora. Certo, è l’altro, è il corpo del personaggio il centro pulsante di questa diversa ermeneutica dell’umorismo, su uno sfondo ormai per Pirandello eminentemente teatrale. Ma allora questo corpo, a scanso di equivoci, deve dire delle parole, deve pronunziare delle frasi che non siano vuoto orpello o mera giustapposizione, ma possano depositarsi sulla pagina come parole ‘del’ corpo, parole conseguenti al suo darsi, parole intese come trasparenza di un vissuto corporeo. Ecco la scelta di Marmelàdov e del suo grido, letto da Pirandello nel senso di un’immediata risposta corporea all’approssimarsi del mondo (tale è il rilievo del grido, soprattutto se tale approssimarsi è sferzante o minaccioso). Le parole di Marmelàdov sono quelle del corpo ferito, del corpo prostrato e annientato, del corpo ridotto al livello della fisiologia animale. Esse rappresentano il modo in cui il personaggio occupa la scena inchiodando il lettore ad un diverso sentire. E siccome è l’altro, è il personaggio a contare, a lui bisogna infine lasciare spazio, puntando sulla sua perorazione ancor più che sulla ‘conversione’ dell’umorista. Una conversione del sentimento che rimane essenziale, richiesta, ma che non deve far perdere di vista la centralità del corpo e della parola del personaggio posti nella loro assoluta alterità. Ma quel che Pirandello non dice, e che pure emerge con nitidezza dal nostro percorso, è che l’apparizione di Marmelàdov sulla scena del testo non è funzionale solamente alla rianimazione del personaggio e della sua oralità corporea. Il sentimento del «consigliere titolare» — ovvero il suo modo di sentire l’altro, di comprenderlo, di accoglierlo nella sua diversità, qualunque essa sia, giustificandone a priori la singolarità dell’esistenza — è in verità, e forse primariamente, lo stesso sentimento dell’umorista secondo Pirandello. Il «sentimento del contrario», teoricamente maturato nel 1920, appare qui figlio naturale del forte «sentire» di Marmelàdov. Come a dire che la figura più prossima all’umorista che sente e riflette, aprendosi alla dolorosa protesta dell’uomo schiacciato, è quella dell’Ecce Homo evocato dal vecchio funzionario. Nella comprensione totale, nel sentire viscerale del Cristo nei confronti dell’umanità sofferente sembra nascondersi il segreto del nuovo atteggiamento dell’umorista. Mentre chiama l’auctor ad un sentimento inedito, il personaggio di Marmelàdov gli fa da specchio. In lui parla la creatura ferita, omologabile alla vecchia signora, ma
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anche l’artista chiamato alla sua passio, in forza di una facoltà ignota ai più ma capace di rivoltargli lo sguardo. Dietro la scrittura del vero umorista si cela dunque l’identità insospettabile di un Christus sentiens.
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ALLEGORIE DELLA CONDIZIONE UMANA IN TESTORI. TESTE FRACASSATE, TESTE MOZZE, CRANI E “CRAPE”
ROSA MARIA MONASTRA*
L’allegorista si risveglia nel mondo di Dio. (WALTER BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, trad. di Enrico Ganni)
1. TESTORI, HOMO RELIGIOSUS La cinquantennale carriera letteraria di Testori si aggira tutta intorno a un unico nodo: al punto che da alcuni critici è stata giudicata monotona, ripetitiva, persino maniacale. Ripensamenti e cambiamenti sarebbero per costoro solo formali, ininfluenti: mera esibizione di repertorio senza vera ricerca di conoscenza, anzi in una perpetua, insuperabile impasse. Con maggiore sensibilità e disponibilità all’ascolto altri studiosi — e tra questi il primo posto spetta sicuramente a Carlo Bo — hanno evidenziato piuttosto il carattere agonistico che anima la scrittura testoriana, e che via via con crescente chiarezza è andato imponendo all’autore una messa in gioco totale, «senza calcoli, senza cautele, addirittura con assoluto distacco da quelli che sono i termini primi dell’economia letteraria»1. * Docente di Letteratura italiana presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. 1 C. BO, Nelle stanze della vita [1974], in Testori, l’urlo, la bestemmia, il canto dell’amore umile, a cura di G. Santini, Milano 1995, 20-21.
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Rosa Maria Monastra
Siamo davanti a una personalità fortissima, irriducibile alle mosse e contromosse delle correnti e dei raggruppamenti più o meno manipolati dal mercato editoriale: una personalità sostanzialmente religiosa in quanto costantemente rivolta a una domanda di senso ultimo. Dopo una prima fase di abbordaggi laterali, dissimulati, parziali (la fase apparentemente neorealista dei Segreti di Milano), Testori ha scelto di affrontare a viso aperto i propri rovelli, i propri fantasmi, senza timore dello scandalo, forse al contrario con l’intenzione di provocarlo: «Sono certo che in tutte le cose della vita ed in tutte le espressioni dell’arte o si accetta di perdere tutto, anche la ragione e le ragioni del proprio agire, o non si fa più che della inutile, ed a questo punto sconcia, retorica»2.
Aggrappandosi al nesso giovanneo tra verbo e carne, egli tentava furiosamente di spremere sangue dal linguaggio, ovvero di illuminare con la parola l’opaca pesantezza del vivere: lo stile era la sua arma contro l’“orrore”. Quale orrore? Quello di un desiderio infestato dai sensi di colpa, è fin troppo evidente: e lo era anzitutto agli occhi dello stesso Testori. Il quale, sciorinando un immaginario già perlustrato e interpretato dalla psicoanalisi, non se ne lasciava intimidire ma andava coraggiosamente oltre, ne faceva il puntello per un più ampio e radicale discorso: per sottolineare cioè la mostruosità dell’esistenza, di un’origine limacciosa che ci destina a un inspiegabile patimento. Nell’ultima fase della sua vita (diciamo a partire dalla fine degli anni ’70) una religiosità più positiva, sebbene sempre inquieta e ombrosa, lo avrebbe indotto a soffermarsi su un messaggio di carità e “disperata speranza”, affidandosi soprattutto all’insegnamento paolino3. Egli avrebbe allora rivolto la vis polemica prevalentemente contro la 2 Si veda l’intervista Incontro con l’autore-regista. Il corpo del teatro, in G. TESTORI, Erodiade, nella messa in scena per il Teatro popolare di Roma, Roma 1993, 20. 3 A questo proposito non si può non ricordare la traduzione (in versi) della prima lettera ai Corinzi, scelta tra le altre perché «centrata, appunto, sulla Carità e sulla resurrezione» (ID., Traduzione della prima lettera ai Corinti, Milano 1992, 12, e ora in Opere 1977-1993, a cura di F. Panzeri, Milano 2013, 2133). Non fu invece portata a termine la traduzione dell’epistola ai Romani, il cui influsso su Testori resta peraltro enorme: la “disperata speranza” di cui questi parla a più riprese traduce appunto il motto paolino spes contra spem.
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cultura contemporanea, una cultura che giudicava sempre più conformista e vuota, «sradicata e annichilente»4: col rischio di un oltranzismo antilaicista che, preso alla lettera, potrebbe assumere connotazioni regressive, ma acquista un significato ben differente se riportato alla sua motivazione prima, al bisogno cioè di darsi risposte non effimere né parziali, di «trovare e abbracciare il senso»5. Nella lunga lotta di Testori — contro Dio prima, contro l’ateismo poi, contro se stesso sempre e soprattutto — il ricorrente tratteggio di teste mozze (o fracassate, o levigate dal tempo e ridotte a nudi teschi) si profila come una sorta di leitmotiv di particolare rilievo. Tentare di coglierne gli aspetti principali e azzardarne una semantica può essere un buon modo per riflettere sull’intera, fecondissima vicenda dello scrittore: uno scrittore che — come è ben noto, ma è utile ripeterlo — è stato anche un appassionato studioso d’arte, collezionista e pittore lui stesso, e a più riprese ha marcato la propria produzione narrativa, teatrale e poetica con meditati riferimenti iconografici. 2. VISIONI CAPITALI Su un piano più generale, sappiamo quale attenzione meriti, nella storia dell’arte (e della letteratura), il tema della testa tagliata. A ricordarcelo, è intervenuta tra l’altro abbastanza recentemente la traduzione italiana di un intrigante saggio di Julia Kristeva, in cui se ne delinea una evoluzione, dal culto preistorico del cranio all’«Acéphale» di Bataille e compagni6. Utilizzando prevalentemente una chiave freudiano-lacaniana ma nell’ambito di un approccio largamente interdisciplinare, la Kristeva ci fa scorrere davanti una serie di «storie crudeli», attraverso le quali «un’umanità posseduta dalla pulsione di morte e terrorizzata dall’assassinio riconosce, in buona sostanza, di essere arrivata a una 4 ID., Accuso e condanno la cultura [1978], in La maestà della vita e altri scritti, a cura di G. Frangi e D. Rondoni, Milano 2004³, 19 (ora anche in Opere 1977-1993, cit., 173). 5 Testori. La mia vita esagerata, intervista di A. Socci [1991], ibid., 473. 6 J. KRISTEVA, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, trad. di A. Piovanello, Roma 2009 (titolo originale: Visions capitales, Paris 1998).
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scoperta sconcertante: l’unica resurrezione possibile sarebbe… la rappresentazione»7. In altre parole, la capacità di rappresentare, che ha permesso all’uomo primitivo di «dimenticare il passato cannibalico» dedicandosi a «oggetti protoartistici, come i crani modellati o dipinti», in seguito ha fatto sì che l’Occidente potesse «accogliere la memoria mitica e biblica delle decollazioni» al riparo dall’angoscia: «Vi è un di là della morte, dice l’esperienza artistica, esiste una resurrezione: la vita del tratto, l’eleganza del gesto, la grazia o la brutalità dei colori, quando osano mostrare la soglia dell’umano»8.
Secondo la Kristeva, dunque, la rappresentazione artistica ha fornito il mezzo per sublimare la violenza originaria. E costituisce oggi forse l’unico modo per mantenere in vita il sacro e «non morire di noia di fronte ai computer»: «Che cosa resta del fondo del sacro? Che cosa ne fanno, l’uomo e la donna, quando sanno da dove viene? Ricordano. Passano e ripassano. Ne ridono. La donna 100 teste di Max Ernst è forse la più geniale raffigurazione di quell’occhiolino indispensabile, senza il quale il sacro è indiscutibilmente letale, mentre l’assenza del sacro si risolve in robotica»9.
Se la presa di distanza nei confronti del feticismo tecnologico avrebbe certamente riscosso il consenso di Testori, lo stesso non può dirsi per la conclusione garbatamente ma decisamente anticonfessionale che la accompagna. Né Testori avrebbe potuto condividere il distacco ironico con cui la Kristeva “passa” e “ripassa” lungo la sua raccapricciante galleria di teste mozze; tutto al contrario, fino all’ultimo egli appare tragicamente coinvolto nell’“orrore” di cui parla: tant’è che ancora tra fine anni ’80 e primi anni ’90 (con opere come «In exitu», Diadèmata, SdisOrè) lo vediamo aggirarsi in quell’ambiguo, minaccioso eppure affascinante territorio che la stessa Kristeva altrove ha indagato come luogo (o meglio non-luogo: atopie) dell’“abiezione”10. 7
Ibid., 3. Ibid., 29 e 97. 9 Ibid., 181-182. 10 EAD., Pouvoirs de l’horreur. Essai sur l’abjection, Paris 1980 (trad. it. Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Milano 1981/2003). 8
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In ogni modo, a volersi addentrare tra i meandri dell’infuocata ispirazione testoriana, le visions capitales inanellate dall’illustre studiosa offrono molte indicazioni suggestive: disegnano uno spazio antropologico-culturale in cui una delle più vistose ossessioni del nostro scrittore-pitttore (ma sarebbe meglio chiamarle “allegorie” nel senso teorizzato da Benjamin a proposito del Trauerspiel) può trovare una sua rete di rimandi che le danno profondità e spessore. 3. IL CAPRO ESPIATORIO La prima testa sanguinante di Testori compare nella sua opera narrativa di esordio, il romanzo Il dio di Roserio, edito da Einaudi nel ’54. È una testa introiettata, una realtà divenuta incubo: e insieme il termine di una sfida in cui l’etica viene sconfitta dalla ragione utilitaria, la solidarietà da una aggressiva autoaffermazione. Ci troviamo tra ciclisti dilettanti, gente del popolo che attraverso competizioni locali spera di fare il salto nel dorato mondo del professionismo. Dante Pessina, temendo che il suo gregario, Sergio Consonni, voglia soffiargli il traguardo, intenzionalmente, con una brusca sterzata, lo butta giù di sella. Al povero Consonni, cui la rovinosa caduta chiude ogni futuro non solo sportivo ma semplicemente normale, viene fatto credere che la responsabilità sia solo sua per non avere visto ed evitato un sasso: così dicono tutti perché così dice il Pessina. Lungi dal pentirsi e chiedere perdono, infatti, quest’ultimo fa del suo meglio per mettere a tacere il rimorso in modo da sfruttare fino in fondo il vantaggio proditoriamente acquisito: il trionfo mondano ha come prezzo il trionfo sulla coscienza. Ecco le fasi principali di questo percorso negativo, tutte contrassegnate da un revenant, la «testa fracassata» del Consonni: «Gli era venuta davanti la testa, subito lì, tra il gas bruciato e scoppiettante della moto, intanto che lo straccio ora teso e ora molle della bandierina si confondeva con la macchia di cui la testa si era subito bagnata, e così le mani con cui l’aveva presa, cercando di dire qualche cosa, ma riuscendo a dire soltanto che gli aveva continuato a gridare “rallenta, rallenta” e poi che era stato un sasso, un sasso. Aveva continuato a scendere teso da quello che aveva davanti, la testa fracassata, ballonzolante in mezzo alla
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nube del gas. Doveva arrivare lui, vincere lui, lui. Gli sembrava che la testa lo tirasse, e anche gli occhi che lo fissavano fermandogli il vomito nel ventre, mentre il sangue veniva giù dalla fronte, tra la polvere sollevata dalla moto, che ora si diradava, ora si gonfiava, come una nuvola, contro il lago che continuava a salire fiammeggiando, contro le macchie delle piante, contro il selciato, contro i tronchi, le rocce, i tetti, i muri, come se quella testa fosse la preda che lui inseguiva […]. […] La ruota della bici passava e ripassava, sempre più schiacciandola e quasi riducendola in poltiglia inconsistente, su quella testa di casso: ecco: di casso: e allora giò, avanti: inscì: avanti Dante! avanti! […] Le ruote continuavano a rotolare sulla testa, pressandola, schiacciandola, riducendola, pezzo per pezzo, a un inconsistente straccio di carne, facendovi scomparire, in quel continuo, violento, pazzesco strisciar delle gomme, anche le poche croste di sangue che vi erano rimaste. […] Quando rigettò gli occhi sulla strada, l’abbaglio di quella luce sopraffece quanto della testa del Consonni era rimasto: lo fulminò, lo travolse nelle fiamme, che continuavano a dilatarsi. […] Sì: doveva mostrarlo a tutti, chi era: lì, sotto il naso: che vedessero di che razza era il motore che gli girava nel culo e tra le gambe: che nessuno, neanche per ridere, osasse più parlare né di paura, né di ritiro, né di Consonni: che quella testa, o l’ombra che di quella testa era rimasta appiccicata alla ruota, diventando nient’altro che una grigia poltiglia, vivificata appena dalle punte degli occhi, finisse di stritolarglisi sotto, scomparisse, ecco, via, per sempre […] “L’è per ti che el fo”, si disse, rimettendo la testa avanti, verso quella poltiglia di carne e terra secca, che gli girava sulla ruota. Poi, subito: “E alura ciapa anca quest, ciapel bruta troia”. E come se avvertisse che oramai, ridotta com’era, la faccia del Consonni non poteva ricevere nemmeno più quell’insulto, e volendo tuttavia costringerla a riceverlo, come un ultimo sputo, si alzò sui pedali»11.
Con molta finezza, Rinaldo Rinaldi ha visto nella vicenda del Dio di Roserio la parabola di una nascita12: una nascita che «non è ingresso nella luce, bensì perdita della luce, del fuoco originario della Verità», «violenta uscita nel buio della civiltà attraverso la fessura genitale». La 11 G. TESTORI, Il dio di Roserio [1954], in Opere 1943-1961, a cura di F. Panzeri, Milano 1996/2003, 131-132, 174-176, 188-189. 12 R. RINALDI, Il romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, Arbasino, Milano 1985, 75-87.
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testa del Consonni sarebbe «un fantasma fallico in fuga, il fantasma di ciò che si è respinto», ossia del «magma», dell’universo liquido prenatale; e il Pessina, «l’eroe pronto a nascere», sarebbe comunque «un eroe castrato», «una carne che diventa simbolo», «un Cristo». Questa interpretazione, senz’altro condivisibile nelle sue linee generali, abbisogna però forse di qualche aggiustamento. Il Pessina entra nel mondo non come un Cristo, ma come un Adamo che — dopo avere peccato — si scopre nudo («Sentì gli occhi entrargli nella carne come se volessero svestirlo: per vedere come era fatto: sotto: sì: bell’e che nudo»); se viene proclamato dio («Te set un dio, Dante!»), è un dio da idolatri13. Cristico è invece il Consonni: il suo volto sanguinante, martoriato, è il volto della vittima sacrificale: una vittima che non sa di essere tale, ma che proprio per questo tanto più risalta, con la sua testa china («a quelle parole il Consonni aveva abbassato lentamente la testa»), la bocca dischiusa nel dolore («le labbra continuavano a staccarsi sempre di più, una dall’altra»)14. D’altra parte, se la vitalità del Pessina e dei suoi fan è insolente e spietata, la degradazione del Consonni non può non suscitare disgusto: e questa circostanza deve pure essere presa in considerazione. Se è vero quel che sostiene Rinaldi, e cioè che si tratta di un’immagine fetale, allora dobbiamo aggiungere che già qui la nostalgia intrauterina è accompagnata da una ripugnanza: il che ben collima con le successive bestemmie testoriane nei confronti della “goccia” fecondatrice, sia essa quella di Dio Padre che quella del padre umano (almeno, come vedremo, fino alla cosiddetta “conversione”). In ogni caso, al momento la voglia di confessione da parte dell’autore appare bloccata, reticente. E si impone invece alla nostra attenzione un altro aspetto del romanzo: la compenetrazione tra una condanna ancestrale della società, in quanto fondata sulla violenza, e una condanna storica, rivolta alla modernizzazione dilagante. Si direbbe che il cosiddetto neorealismo del primo Testori stia proprio nel tentativo di leggere l’attualità dell’hinterland milanese con uno sguardo antropologico-metafisico. Il suo Consonni appare come un capro espiatorio anzitutto in una dimensione archetipica, ma poi 13 14
G. TESTORI, Il dio di Roserio, in Opere 1943-1961, cit., 140 e 194. Ibid., 155-156.
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anche in riferimento a una trasformazione epocale: la sua allegria è quella ingenua, ancora innocente dei vecchi ceti popolari; l’allegria dei giovani che rumoreggiano intorno al vincitore è invece un’allegria già corrotta dalla voglia di beni materiali (non per nulla tra questi giovani compare quel Brianza che ritroveremo, implicato in oscure storie di orge e ricatti, in Il ponte della Ghisolfa). Anche da questo punto di vista, tuttavia, permane un non detto, un’ambiguità. Siamo proprio sicuri che ci sia una netta distanza tra l’autore e i suoi traviati, ma seducenti “eroi” di periferia? 4. DECOLLAZIONI La «poltiglia secca e senza forma della faccia del Consonni»15 sembra riemergere prepotentemente a distanza di qualche tempo, negli scritti (e nella produzione figurativa) degli anni ’60. Ma a parte il fatto che in questa nuova fase si tratta soprattutto di vere e proprie decollazioni, c’è anche da osservare come ora la frequenza di teste martoriate sia davvero altissima, senza bilanciamento possibile con l’unica occorrenza dei Segreti. Va inoltre notata una differenza qualitativa rispetto a Il dio di Roserio: non si tratta più di proletariato e sottoproletariato suburbano, di piccola gente presa dalla strada, bensì di famosi personaggi biblici, di storica aristocrazia, di decollatori e decollati provenienti dalla memoria artistica e/o letteraria. Diciamo, in generale, che laddove nel “ciclo” dei Segreti l’autore mirava a riportare la povera, anonima quotidianità a una dimensione mitica, adesso l’orientamento è opposto, dalla sedimentazione culturale a una straziata elementarità: e su tale sfondo le immagini di teste «senza forma» o (più spesso) tagliate non solo si moltiplicano, ma altresì si dilatano attraverso i secoli grazie ad accostamenti – letterari e figurativi – di forte impatto straniante. A intendere il significato di questo nuovo corso può forse aiutare un intervento testoriano del ’69 su Franz Radziwill, in cui ci sembrano racchiuse le ragioni del tanto discusso taglio che da lì a poco, nell’edizione del ’71, lo scrittore avrebbe compiuto sul romanzo Il dio di 15
Ibid., 191.
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Roserio. L’eliminazione del primo capitolo, infatti, non ha mancato di suscitare interrogativi e perplessità: ebbene, si direbbe che l’autore con gli anni non potesse più tollerarne lo sperimentalismo futuristacubista, equivocabile come superficiale avanguardismo, per puntare invece su una più complessa, sofferta nozione di modernità, in strettissimo dialogo con i nostri fondamenti etico-culturali. Ecco quel che egli appunto scriveva a proposito dei Ciclisti di Radziwill: «[…] guardate come ne I ciclisti, che toccano appena al ’24, la materia eccita e sostiene l’enigma di quella mela che è caduta lì, come una mosca, o come la testa d’un burattino decapitato, sul percorso di questo ben strano “circuito notturno”, ma che, passati oltre, i ciclisti si troveranno ancora ed egualmente tra i piedi (anzi tra le ruote). Ora che è mai e per cosa mai sta questa mela? È forse il simbolo ritorto e irriso di quel gran pedalare e, per chi la raggiunga, dell’eventuale vittoria? Si tratta di un’immagine larvale e vendicatrice dell’altrettanto risibile e dolente vanità dei gesti, delle cose e della vita? O, invece, rappresenta l’impaccio psichico proprio ad ogni vivente nel punto in cui tenta di gareggiare con sé e col proprio destino? Verde, sproporzionata eppur piccola, fatiscente, più idea che realtà […] disegnata come pare col fumo d’una lampada ad acetilene, questa mela, la prima d’una serie che, col pesce, si moltiplicherà all’infinito così da diventare il leitmotiv delle “favole” che Radziwill andrà esprimendo nelle immense vastità dei cieli e sui dolenti limiti della terra, riesce benissimo nel suo ufficio d’intrigare l’osservatore; d’impacciarlo; di costringerlo a porsi delle domande, e delle domande non precisamente di tipo emozionale, bensì etico. Il che è proprio delle “azioni” morali; e altresì delle favole. Poiché ogni favola che si rispetti contiene in sé una sua precisa, irrefutabile conclusione o morale»16.
La caduta originaria dell’uomo (la mela-testa, ovvero la testa-mela) è ora il centro della riflessione, e della disperazione, di Testori: da qui dunque la decisione di cancellare, dal romanzo del ’54, il primo piano sull’euforia del gregario in folle corsa, per dare invece il massimo risalto all’intima lotta del capitano con la Legge (e al suo cedimento). 16 ID., Franz Radziwill [1969], in La cenere e il volto. Scritti sulla pittura del Novecento, Firenze 2001, 248-249.
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In ogni caso, come che stiano le cose riguardo a Il dio di Roserio, non c’è dubbio che a partire dalla metà degli anni ’60 Testori abbia modificato la propria prospettiva. Lo vediamo già nel poema I Trionfi, dove il titolo stesso — con il suo implicito rinvio a Petrarca — dichiara l’intento di rifarsi modernamente alla tradizione, di rivisitarla alla luce di esperienze e sollecitazioni nuove. Di contro alle metafisiche e morali certezze del poeta medievale, che — per superamenti successivi — giungeva alla vittoria sul Tempo, qui si assiste a un continuo, drammatico combattimento tra l’amore e la morte, al tentativo — in partenza fallimentare — di trasformare una «storia breve e disperata» nell’«impossibile / edificio dell’eterno»17. Per quanto ci si possa adoperare per l’unione, per la «salvezza che sola nasce dall’amore», ci dice Testori, tutto finisce sotto «la lastra livida di morte»18: la vita stessa inizia e si svolge nel segno della divisione e della sofferenza. Peraltro, quello che dovrebbe essere un antidoto contro la potenza satanica della morte, e cioè appunto l’amore, rivela a tratti il suo aspetto di sopraffazione, perversione e perfino «assassinio»19. Due tele, La zattera della Medusa di Géricault e S. Carlo porta in processione il Santo Chiodo di Tanzio da Varallo, sono chiamate a rappresentare concretamente queste tremende certezze, con un sintomatico slittamento verso immagini di decapitazione: il giovane violato e cannibalizzato della Zattera fa tutt’uno non solo con il modello Jamar, ma anche con la testa del ladro di Bicêtre carpita e dipinta da Géricault («Bianca, tu sai, / e misurata / la tela è pronta là, / a Beaujon… / …e qui, / sul tuo stesso giaciglio, / la derelitta testa, / magra, / marcia…»); l’ultima processione di san Carlo, ormai malato e «quasi già morto», culmina in un’enigmatica scena di decollazione («lui, nell’urlo, / il taglio accetterà, feroce, / del suo cranio / che per sempre recide / dal nulla dei potenti / e degli infami»)20. L’intera Storia appare un immane 17
ID., I Trionfi [1965], in Opere 1965-1977, a cura di F. Panzeri, Milano 1997/2003, 142. Ibid., 7. 19 Ibid., 190. E si veda altresì un passaggio come questo (p. 25): «capii / che batteva contro sponde di terra e carne / l’onda fangosa e incolmabile del sangue, / una sete avida, ingiusta; / una volontà non richiesta / e non voluta / di vincere i limiti, / avere e possedere», eccetera. 20 Ibid., 113 e 255. 18
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«lazzaretto» che reclama la rivolta21. Violenza contro violenza, insomma: ed ecco la testa «sconciata del Golia», ostentata quasi protervamente da David, «divino simbolo dei monti / e della lotta / contro la cupida mannaia»; ecco la testa serpentina di Medusa, figura di morte, «cagna lei solo da tagliare / col nodo suo di Gorgone»22. Preso dunque nell’ingorgo contraddittorio di violenza oppressiva e liberatrice, esecrata e sacra, da ultimo il poeta cerca «pace» nell’«orrore accettato»23. Tanzio e Géricault, e poi Caravaggio, Cairo, Bacon: rispecchiandosi nei loro dipinti, Testori ci costringe a un confronto serrato, conturbante. È una linea “maledetta” quella che adesso ci propone: ma senza compiacimenti infernali, senza pose dandistiche, anzi con autentico, umanissimo strazio. E di questo strazio le teste mozze, o sul punto di essere mozzate, o stravolte nel grido e nel sangue, sono spesso una componente essenziale: testimoniando un contraddittorio rapporto con il corpo, una fascinazione incrinata dal cruccio morale e addirittura dal ribrezzo. Qualche testa — non tagliata in termini letterali ma come isolata in un contesto di atrocità, o ridotta alla mota originaria e finale — lampeggia attraverso la tormentata redazione della Suite per Francis Bacon24: basti vedere, nella prima stesura che registra i singoli referenti pittorici, i “pezzi” dedicati a opere come Head II e Study for Head, entrambi grondanti di liquidi fetali/cadaverici; oppure si veda il brano relativo a Study after Velasquez’s Portrait of Pope Innocent X, dove al volto deturpato e urlante del pontefice («profeta» di Cristo e suo erede mostruoso) viene associata l’immagine di un impiccato (Giuda? un pendu villoniano?). Più tardi, a metà anni ’80, Testori avrebbe cercato di rovesciare in positivo il «terrore» di Bacon (e proprio) nei confronti 21
Ibid., 258-259. Ibid., 260 e 296. Non ci sono riferimenti iconografici espliciti, ma per il David trionfante non si può non pensare a Tanzio, così come per la minacciosa testa di Medusa non si può non pensare a Caravaggio. 23 Ibid., 339. 24 Per le vicende del testo, cfr. la nota in calce a Opere 1965-1977, cit., 1500-1502, 1505-1506. Quanto a Bacon, non ha mai dipinto teste mozze, ma il gesto violento, ferocemente punitivo, è implicito nel suo modo di stravolgere corpi, volti: come osserva J. KRISTEVA (La testa senza il corpo…, cit., 148), «è la loro massa intera a essere torturata come su una croce, fino alla transustanziazione, in carneficina o in pittura». 22
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del corpo, parlando di «una bellezza feroce, e bestiale, ma, anche, lucente e sacra», e cogliendo — nella lacerazione tra «spinta vitale» e condanna dell’omosessualità — una «capienza glorificante»25. In realtà, come vedremo tra poco, la possibilità di una simile transvalutazione si accorda piuttosto con gli atteggiamenti degli ultimi anni: in questo omaggio del ’65 a prevalere è l’angoscia (e lo si può constatare soprattutto nella Suite II, dove “urlo” e “urlare” diventano parole-chiave). A Caravaggio è ispirata la prima apparizione del Battista, in La decollazione di Malta. Qui la fine di Giovanni fa tutt’uno con quella del «Verbo assassinato», in uno scenario di decomposizione che implica una perdita di senso: la firma stessa dell’artista, tracciata nel rosso del sangue, esibisce la consapevolezza dell’universale vanità («crosta urlante il nulla, / lettera abrasa»)26. Si tratta di un caravaggismo rivissuto attraverso Bacon, un Bacon — lo abbiamo appena detto — senza redenzione e senza “gloria”: e dunque si tratta di un caravaggismo senza squarci di luce radente che portino in primo piano allusioni a un possibile riscatto. Ne viene fuori un discorso addirittura autodistruttivo sul piano stesso dell’arte perché senza fede in una “forma” che purifichi e trascenda. Il sangue pervade il dramma La monaca di Monza, dove l’illuministica analisi manzoniana delle motivazioni e delle decisioni, dei condizionamenti e delle responsabilità, lascia il posto a un inferno che ingoia parimenti tutti. Testori non si sofferma tanto sui modi in cui è stata forzata la volontà di una giovane ancora fragile e confusa, quanto sulla scia di marcio e di crimine che ne è derivata. Il male, che per l’autore del Fermo e Lucia poteva essere raccontato solo nella misura utile a un fine pedagogico e che poi l’autore dei Promessi Sposi aveva censurato quasi interamente, qui diviene l’oggetto centrale, l’architrave che sostiene l’intero testo. Ed è un male che non si circoscrive alla violenza psicologica, all’orgia e all’assassinio, ma rimonta fino alla causa prima di tanta abominazione: fino a Dio, subito interpellato, in questo tribunale di fantasmi, come primo colpevole. 25
G. TESTORI, Ecce Bacon [1985], in La cenere e il volto..., cit., 157-201. ID., La decollazione di Malta, in Opere 1965-1977, cit., 437-438. Va rimarcato che in una prima stesura La decollazione prendeva avvio da Erodiade, un personaggio che, come vedremo tra poco, avrebbe sollecitato a lungo la fantasia di Testori. 26
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«Il verbo s’è fatto carne. Tu lo sai, Dio di materia e di sangue, che ci guardi in questa notte di sortilegi e di paure. Ma adesso è la carne che si alza dallo strame dei cimiteri per farsi verbo, chiamar in giudizio te, i tuoi disegni, la tua stessa natura»27.
Non hanno pace, questi morti: si accusano l’un l’altro, cercano furiosamente di giustificarsi, in un susseguirsi e accavallarsi di ricordi spaventosi. Testori si rifà alla ricostruzione storica dei fatti, ma selezionando e colorando a suo modo, con una messa a fuoco che non lascia respiro, che non dà spazio a momenti di quieti affetti (sintomatica a questo proposito l’eliminazione della figlioletta di Marianna e Osio: qui viene menzionato solo il piccolo nato morto, «un grumo fluido e insensato di carne»)28. Non ci sono rimorsi nella sua monaca, come non c’è felicità nel suo Osio bestemmiatore e omicida: niente pentimento, insomma, ma nemmeno joie dans la damnation. Tutto avviene per una sorta di fatalità, in un crescendo delittuoso che alla fine sfocia in un disperato cupio dissolvi. In questa catena di gesti estremi l’uccisione della conversa Caterina costituisce il momento decisivo, emblematico: già all’inizio, infatti, assai prima di chiamarla a testimoniare, la protagonista ne evoca la testa, che è stata tagliata e gettata in un pozzo, perché illumini la scena «come una corona sanguinante»29. Tra il ’68 e il ’69 da siffatte “corone” Testori appare davvero ossessionato, immerso — come un palombaro dell’orrore — negli abissi dei più inconfessabili desideri e delle più arcaiche paure. Teste di vitelli, conigli, capretti ricorrono nelle sue tele di questo periodo, alludendo principalmente all’aspetto umile, innocente, di una vita sconciata dalla morte. Ecco quel ch’egli scrive a proposito di una Testa di vitello dipinta dallo spagnolo Fernandez: 27
ID., La monaca di Monza [1967], in Opere 1965-1977, cit., 455. Ibid., 529. Per la vicenda storica, la prima ricostruzione importante, che Testori deve aver tenuto presente, è quella di M. MAZZUCCHELLI, La Monaca di Monza, Milano 1961. 29 G. TESTORI, La monaca di Monza, in Opere 1965-1977, cit., 463. Non è senza interesse il fatto che più tardi Testori abbia associato a Osio l’Autoritratto di Francesco Cairo, ancora una volta sottolineando il valore allegorico da assegnare alla testa mozza di Caterina: cfr. ID., Se la realtà non è solo un fotogramma… [1983], in La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, a cura di P.C. 28
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«[…] basterebbe meditare su quell’opera assolutamente primaria, d’una forza pittorica pari almeno alla totale umiltà, al nulla plastico, è la parola, con cui è dipinta; un’opera che mi pare proprio, anche come tema, anche come data, reggere benissimo all’ufficio di “rebus” da collocar dietro la smodata e abusiva alterigia dell’“effigie” moderna. Intendo parlare della Testa di vitello: povera carcassa ma poi grande, dolente monumento; ultimo resto di chi sa che sciagura o che strage; nella sua gloriosa vergogna essa riesce a racchiudere in sé, come in un’urna, il sacrificio che ogni cosa che vive compie nell’accettarsi; nell’accettare, insomma, il limite del proprio condensarsi in essere e in tempo. È sangue ciò che si sta ancora coagulando e che così la macchia o sono, invece, dietro di lei e in lei, memorie di labbra, tenerezze, butti di rose, petali, viole, passati, ripassati, e brucati rododendri? O, invece ancora, riflessi di nubi che, dall’alba al tramonto, in una incredibile sovrapposizione ectacromica (una sovrapposizione da paradiso, non trovo altra parola) gli passan sul muso calmo e mansueto di là da ogni tempo, giusto come vi passavano quando, ancor vivo pascolava nei campi, e la trasformano in una reliquia infamata e belante, una reliquia che continua e continuerà per l’eterno a chiedere pietà, devozione ed amore?»30
Trattandosi di esseri umani, lo spettacolo della violenza può complicarsi di più sottili, intricate pulsioni. In questa direzione ritorna — e ritorna con un rilievo enorme — la testa mozza del Battista: tra i disegni e dipinti di Testori si contano, nel ’68, almeno novanta immagini, che vanno dalla raffigurazione di un volto martoriato ma ancora Marani, Milano 1995, 290-318 (dove in particolare alla p. 302 si legge: «arrivati a questo punto, non possiamo trattenerci dal confessare al visitatore come il viso, anzi “quel” viso, che egli si troverà lì, a inizio di mostra, ci sia sempre parso il più prossimo a quello che dové avere il famosissimo Giampaolo dell’ancor più famosa Signora di Monza; o il famosissimo Egidio; se vuol starsi più prossimi ai “manzoniani ricordi”; ove non possa addirittura dirsi il più eguale»; e ancora: «come non rammentare almeno la testa di Caterina, la conversa medasca fatta fuori dalla tresca dei due cupi, tragici amanti monzaschi e da loro decapitata; quella testa che verrà ritrovata, forse già sfatta, decomposta e marcia, di contro le grate del Lambro?»). Nell’«azione teatrale» I promessi sposi alla prova alla testa marcia di Caterina in qualche modo si associa quella dello stesso Giampaolo / Egidio, «rotolata giù», a tradimento, «in un lago sterminato di sangue» (ID., I promessi sposi alla prova, Milano 1984, 92-93, 104105, 135, e ora in Opere 1977-1993, cit., 903, 911, 933). 30 ID., Fernandez, o la distruzione del tempo [1969], in La cenere e il volto, cit., 170171.
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dai tratti umani, a una sorta di melma filamentosa, purulenta31. A tali immagini si collega strettamente la composizione di un’opera teatrale, Erodiade, il cui potere allegorico avrebbe avuto significative ripercussioni e trasformazioni negli anni successivi. Come già La monaca di Monza, anche la pièce Erodiade appare strutturata in forma di blasfemo oratorio, con la tradizionale divisione in due parti. Diversamente dalla Monaca, però, qui a parlare è un solo personaggio, la regina, che si rivolge alla «testa recisa» del profeta, deposta «dentro un bacile, coperta da un lino sporco di sangue»32. Ed è, il suo, un monologo pervaso di odio e amore, una strenua ricusazione della croce in nome di più gioconde divinità, alla fine un’ammissione di sconfitta che è sconfitta dell’intera umanità: «Prendimi, se puoi. Ho voluto morire perché tu non c’eri più e perché, per me, senza di te non c’era più nessun senso, nessuna luce e nessuna speranza. Io non sono più Erodiade e nemmeno la sua parola. Sono, adesso, veramente e per sempre, l’ombra; anzi, per te e con te, sono l’umana bestemmia, l’inesistenza, la cenere, il niente»33.
Più tardi, nell’84, riprendendo in mano il dramma per metterlo in scena, Testori avrebbe evidenziato un cambiamento di gusto rispetto alla redazione originaria, inficiata — a suo dire — da vistose tracce di «decadentismo secessionista»34. In realtà, a parte forse la didascalia iniziale (su cui torneremo tra poco), nel testo del ’69 non appare praticamente nulla di decadentistico. E non poteva essere altrimenti: la letteratura e l’arte di fine Ottocento/primo Novecento, ambiguamente attratte e atterrite da una femminilità castratrice, minacciosa per l’integrità maschile, si ispiravano soprattutto a Salomè, alla sua 31 Nove disegni a penna accompagnano il manoscritto di Erodiade (cfr. P. GALLERANI, Questo quaderno appartiene a Giovanni Testori. Inediti dall’archivio, Milano 2007, 66). Ci sono poi i settantatré disegni esposti al Centre Pompidou di Parigi nel 1987, più altri quattro disegni e quattro acquerelli (oggi questo materiale è visibile on-line, nel sito dell’Archivio Testori: www.archiviotestori.it). 32 G. TESTORI, Erodiade [1969], in Opere 1965-1977, cit., 571. 33 Ibid., 617. 34 Incontro con l’autore-regista. Il corpo del teatro, cit., 18.
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danza diabolicamente seduttrice volta a ottenere morte in cambio di sesso35; a Testori invece interessa tutt’altro, cerca personaggi da far combattere contro Dio, caricandoli delle proprie stesse lacerazioni, della propria coscienza infelice. Si rivolge dunque piuttosto a Erodiade, cui può attribuire emozioni da condividere: mentre Salomè con la sua crudeltà indifferente è per lui solo un fantoccio36, la regina in declino può ben diventare un io diviso tra domanda d’amore e bestemmia, un carnefice che è anche vittima; insomma una figura perfettamente speculare a quella del Battista, condannato anche lui dall’avvento di Cristo a soffrire e a far soffrire (così come condannato dall’“unzione” battesimale/cresimale si sentiva lo stesso Testori, che spesso citava, facendola propria, l’affermazione di Rimbaud: «Je suis esclave de mon baptême»)37. Senza concedere quasi nulla al pattern otto/novecentesco, questa prima Erodiade testoriana ha tuttavia una sua maestosa grandezza: essa ci si presenta «seduta, possente e regale, sul trono che s’erige, come un relitto barbarico incrostato di pietre e smalti, al centro della scena, per il resto completamente vuota»38. La sua requisitoria anti35
Cfr. J. DE PALACIO, Motif privilégié au jardin des supplices: le mythe de la décollation et le décadentisme, in Revue des sciences humaines 153 (1974) 1, 39-62. 36 G. TESTORI, Erodiade, in Opere 1965-1977, cit., 601: «[…] quella che mi son trovata davanti quando la porta s’è spalancata, non era più mia figlia e nemmeno una sua imitazione falsa e volgare! Era un fantoccio orribile; un manichino gonfio senza forma e colore. Mi fissava dai suoi occhi di smalto, feroce e insensato come un automa. Il ventre e le cosce eran smangiate; qua e là uscivan fuori groppi di paglia, di garza e di lana. Anche il cranio si mostrava completamente abraso. Quanto alle ciocche che ancora vi restavano, scendevan giù, a pezzi, sulla nuca, sul collo e attorno alle spalle». 37 Per quanto riguarda il peso e il senso dell’ “unzione”, si vedano le spiegazioni fornite dallo stesso Testori in Il senso della nascita. Colloquio con Don Luigi Giussani [1980], in La maestà della vita…, cit., 393-394 (e cfr. qui, più avanti, n. 52). Per la citazione da Rimbaud, si veda il “pezzo” Nuit de l’enfer, in Une saison en enfer. 38 G. TESTORI, Erodiade, in Opere 1965-1977, cit., 573. Questo trono potrebbe avere qualche somiglianza con quello di Erode nella Salomé di Moreau secondo la descrizione di Huysmans: «Un trône se dressait, pareil au maître-autel d’une cathédrale, sous d’innombrables voûtes jaillissant de colonnes trapues ainsi que des piliers romans, émaillées de briques polychrômes, serties de mosaïques, incrustées de lapis et de sardoines» etc. (J.-K. HUYSMANS, A Rebours, édition presentée, établie et annotée par M. Fumaroli, Paris 1977, 146).
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cristiana, disperatamente sensuale e terrena, è giocata con perizia retorica di registro cupamente elevato. Gli stessi elementi metateatrali — in primis i riferimenti alla natura posticcia, contraffatta, della testa mozza — non sminuiscono, anzi accrescono la tensione, servono a sbarazzarsi di ogni pretesa naturalistica per andare al cuore, o meglio al “ventre” della rappresentazione: lo spettatore deve sapere che sta lì non per assistere a uno spettacolo più o meno plausibile, ma per sprofondare in un rito — e sia pure rito ormai residuale — volto a far «dirompere i valori nascosti dell’irrazionale», a produrre «vergogna» e «scandalo» con la sua «implorazione interrogante» e blasfema39. Nella redazione dell’84, come abbiamo detto, cade ogni accenno di sontuosità: e questa differenza viene addirittura segnalata in corso d’opera, nell’ambito di una più generale marcatura del lavoro registico-scenografico. L’autore, ci dice la stessa protagonista proponendosi anzitutto come «attrice», non ha voluto più il trono: «Il trono? E quale? Adesso, potete vederlo anche voi: una sedia; come tutte le altre; o che, dall’altre, si differenzia solo perché tinta d’un allarmante color rosa dentifricio… Nella nuova didascalia è detto espressamente così. Allarmante, affinché voi, all’aprirsi di questi poveri, destituiti velluti, vi poteste chiedere di che regno, o reggia, o recita si trattasse mai; e affinché l’ambiguità di quell’unica sedia, così colorata e collocata, là, dove, secondo la prima redazione, avrebbe dovuto alzarsi, enorme e barbarico, il trono, potesse determinare in voi qualche strano dubbio e qualche strana, sconosciuta paura…»40.
Non solo il trono, ma addirittura la testa del Battista è scomparsa dalla scena. Al suo posto, spiega ancora la protagonista, sta adesso il pubblico, coinvolto in una sfida senza precedenti: «Perché il verme, lui, sì, il verme incapace di accettarsi, nel nuovo copione, ha stabilito che il bacile, vietato sulla scena, fosse questa sala; e lei, la testa di lui, il martire primo, il precursore dei santi e della croce, foste voi! Mi sentite? Voi! Voi, sì; voi; lì; uno per uno; voi, nell’ammasso, nel 39
G. TESTORI, Il ventre del teatro, in Paragone/Letteratura 220 (giugno 1968) 93-107. ID., Erodiade, nella messa in scena per il Teatro popolare di Roma, cit., 24-25. (ora in Opere 1977-1993, cit., 822). 40
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coacervo d’amici e nemici, di conoscenti e sconosciuti, che vuol costringervi a formare! La testa, voi! Voi, il gruppo osceno di carne sanguinante e marcia!»41.
Il tentativo di abbattere la quarta parete assume l’aspetto di un rito penitenziale collettivo: come l’autore («verme incapace di accettarsi»), anche gli spettatori sono chiamati a riconoscere la loro miseria creaturale. Il fine catartico, a suo tempo giudicato «risibile»42, sembra profilarsi ora come un possibile esito, come l’altra faccia della sconfitta. Il furente titanismo della prima Erodiade, decisa a difendere la superiorità della propria religione — una religione tutta mondana e fautrice di soddisfazioni materiali —, in questo rimaneggiamento, grazie al gioco dei tagli, si stempera nel riconoscimento di una opposta, insopportabile ma irrefutabile verità. In tale quadro, appunto, il riferimento dell’autore/regista a Bacon andrà letto in quella chiave “glorificante” cui già abbiamo accennato43. C’è infine una terza Erodiade, ovvero Erodiàs: questa volta attualizzata e involgarita, ridotta a «squinternada» damazza lombarda, sulla cui bocca il particolarissimo magma linguistico inaugurato dalla Trilogia degli Scarozzanti assume tonalità ora becere ora quasi demenziali. Ricompare il bacile con la testa del Battista, ma buffamente
41
Ibid., 26 (e ora in Opere 1977-1993, cit., 823). ID., Il ventre del teatro, cit., 99: «Non è che il teatro debba portare il suo “fruitore” al grado “zero”; al contrario, deve portarlo alla melma, al pantano iniziale […]; in modo che, alla fine, s’abbia la dilagante prova dell’impossibilità d’una risposta che sia veramente tale (come, invece, normalmente, per la risibile teoria della redimibilità o catarsi o funzione morale e sociale del teatro, anziché della sua spettrazione religiosa, si propende a credere e a fare)». E si veda per converso la risposta di Testori circa la possibilità di trovare una somiglianza tra la funzione assolta dal teatro e il cristianesimo (L. DONINELLI, Conversazioni con Testori, Parma 1993, 53): «Lo è. Innanzi tutto nel senso della catarsi, ossia della confessione. In fondo in fondo il teatro che cos’è? È il bisogno di pronunciare una richiesta di perdono attraverso una confessione […]». 43 Cfr. Incontro con l’autore-regista. Il corpo del teatro, cit., 18-19: «Se dovessi ricorrere a delle immagini, direi questa nuova Erodiade ben più che a Klimt e a Moreau fa piuttosto pensare a certe figure di Bacon». 42
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situato su un «trespolo»; e ricompare il trono, ma descritto come un ammasso di vistosa paccottiglia: «[…] è tempestato, tutto, di grandi patacche brillanti, forse pezzi di bottiglie delle più svariate bevande; qua e là, reca altresì alcune lampadine che s’accendono e spengono come in un tirassegno da fiera»44.
D’altra parte non è senza importanza il fatto che venga qui dichiarato — e con forte rilievo — il riferimento a un artista secentesco di straordinaria intensità, un artista carissimo a Testori e come lui (vedi coincidenza!) autore di tre Erodiadi: e cioè Francesco Cairo. Appunto esaminando le tre tele del Cairo, in un vecchio saggio del ’52, Testori ne aveva evidenziato un’evoluzione nel trattamento del tema, dallo «splendore blasonale» del quadro della Sabauda a un presagio di «abominio» in quello della pinacoteca di Vicenza, fino all’«eros ancestrale» di quello bostoniano: «Per un appoggio — fortissima intuizione — a tanto orrore, la figura e l’ambiente si precisano nella loro qualità; non più lo spazio vuoto delle prime due repliche, ma una stanza, che la croce traversa; non più lo scrigno cesellato, ma le ruvide asse del castano; non più la regina, ma ecco una pastora, che dalla mandria ha sortito più orrorose similitudini (e implicazioni) e, dai magri prati, veleni»45.
Più tardi, in un intervento del ’73, Testori aveva polemizzato con i critici bempensanti, farisaicamente e stupidamente schifiltosi nei confronti di certe interpretazioni poco ortodosse. Per il nostro scrittore invece il motivo maggiore di interesse stava proprio nel retroscena perverso così magistralmente alluso e metaforizzato nella tela di Vicenza e soprattutto in quella di Boston. Per lui non c’era dubbio che il Cairo fosse «rotto e strarotto […] a tutti i possibili e immaginabili “sviamenti” sessuali»: 44 G. TESTORI, Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater strangosciàs, Milano 1994, 71 (e in Opere 1977-1993, cit., 1915). 45 ID., Su Francesco del Cairo [1952], in La realtà della pittura…, cit., 275-289: 285. In questa interpretazione a climax Testori forza un po’ le immagini: l’Erodiade di Boston non ha un aspetto da «pastora», lo ha piuttosto quella di Vicenza.
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«perché così, a quei giorni, dovevano appellarsi; dato che così s’usano appellare anche ai giorni nostri. E buona notte alle Erodiadi, alle Teste del Battista con gli aghi infilzati dentro le papille della lingua!»46.
Si direbbe che proprio ripensando alla torbida «pastora» di Boston, ma con il proposito di raggelare le proiezioni personali attraverso un andamento addirittura grottesco, Testori abbia concepito la sua ultima Erodiade. Ora d’altra parte la “disperata speranza” che lo anima spinge verso una possibilità di dialogo tra la «porca reina» e la testa del profeta, tra voracità carnale e bisogno di pace spirituale: si tratta, sì, di un dialogo fantasmatico, ma anche autentico, aperto al futuro, un dialogo che segna la distanza dalla plumbea vicenda della «conversa Catarina» («Altr’è, / altr’è la testa / che fu recisa et ispaccata / per quella prima / salomeica ciavata!»)47. Le ambasce, solo apparentemente comiche, del personaggio volgono adesso verso una sottomissione mariana, rinviando sine die l’eventualità di una rivolta: E ’lora specciarò, sì, specciarò, ma sol perché me l’hai dizzuto to. Se poi, cavata che sarà la triplice bugada, pase non arò, io te reciapperò, testa de vitello cristunada, e i resti vomitando, 46 ID., Sennacherib e l’angelo (1629) [1973], ibid., 261-272: 267. L’infilzamento di spilli compare in Erodiàs a conferma dell’ispirazione cairesca (Tre lai…, cit., 71-72, e in Opere 1977-1993, cit., 1915-1916: «mascula barba insanguinada, / lengua del mio spillon / tutta infilzada / e tutta dalle di me furtive / e sessualiche salive, / ecco, sbausciada»; e soprattutto pp. 90-91, e in Opere 1977-1993, cit., 1931: «il pittor che m’ha pittata, / un tempo tegnudo de Varese, / cotidie, invece, de Milano, / ha tutto comprendato: / la pelliccia de vulpis rossastrata / sul seno silicato / m’ha, ecco, coi pennelli, esso lui, gettata; / poi, nel più gloriante / e, insiem, funebrico gestare, / m’ha in sulla tela lì fissata / et eternata; / il gestar con cui / la de te linguascia porca, / il spregiatissimo e gaudioso / tuo muscolo boccale / de fuora, sì, tirai» etc.). 47 ID., Tre lai…, cit., 75 e 113 (e in Opere 1977-1993, cit., 1919 e 1948).
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l’ossa, diso, i denci, i nervi ed i nervit de contra al busto crucirato, tutta ed intrega io te manducherò. E quand el past ischifosissimo, insieme cannibalico et gaudioso sarà ben terminato ’sciugatami le labbra col lino a questo preparato, libera finalmente e liberata, da me sola cunt la cartella del salam da me mi sgozzarò e la balla della strageca menzogna tua incarnada al mondo intrego testamenterò48.
5. IL CRANIO, LA CROCE E LA GLORIA Cristo crocifisso diventa a un certo punto immagine centrale per Testori (non solo per lo scrittore ma anche per l’artista)49. Il suo crescente rilievo si evidenzia attraverso le diverse fasi della Suite dedicata a Bacon, passando dal tema di una lirica a quello di una sezione, fino a coprire l’intera opera. Nella redazione definitiva, intitolata appunto Crocifissione, la passio del «verbo affamato, / derelitto»50, riflette e compendia tutta la crudeltà e inanità della storia umana. Contro l’iconografia tradizionale, che collega i segni della morte a quelli della redenzione, qui troviamo solo il disfacimento, lo strazio del corpo, la certezza del niente51: l’effigie impressa sul lino della Veronica 48
Ibid., 124-125 (e in Opere 1977-1993, cit., 1957-1958). Nella galleria dell’Archivio Testori troviamo tre crocifissioni degli anni ’40, e poi ben tredici dell’81. 50 G. TESTORI, Crocifissione [1966], in Opere 1965-1977, cit., 418. 51 «Passa la mano d’aria; / accarezza il lembo, / la stanca trina; / trascorre oltre il 49
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è «senza senso», il volto di Cristo sulla croce una «palpebra di sangue». Quello che vediamo di Lui è un impasto grumoso, uno «spurgo lacerato», un’«incrostazione / di carne incandescente». Un «sacro feto». O ancora una «spinata testa / cancerosa»; un cranio, oggetto di squallido cannibalismo: Il cranio, smangiato dai segnati; la caverna laringica; la jena. Nell’antro delle spalle la ciocca fradicia, spinata52.
L’amore blasfemo per Cristo, il desiderio di trovare in Lui insieme un amante di carne e un verbo di salvezza; la preghiera unita al rinnegamento: tutto questo si trova in un’altra raccolta-poemetto, Nel Tuo sangue. Qui ritornano — riferite a Gesù — l’immagine fetale («un feto / di spine e di sangue») e quella del cranio («Appoggi vicino a me / nel sonno / il Tuo cranio avvolto di spine»)53: come dire che per tutti, anche per il Dio-uomo, la parabola vitale è schiacciata e dissolta tra un inizio e una fine parimenti repulsivi e carichi di sofferenza. Il teschio diventa una presenza sempre più pervasiva. Sembra che sia stato proprio Testori, a fine anni ’70, a suggerirlo come tema unico all’amico Morlotti per una mostra personale; di certo, nel saggio che ne accompagnava il catalogo, troviamo un’esaltazione di questa scelta, ricondotta per un verso a Cézanne e per l’altro al Seicento lombardo, in una chiave meditativa attenta ai «segni d’un Mistero che credevamo per sempre irrecuperabile e perduto»: cranio, / negli inferi, / nel niente» (ibid., 420). E in chiusura (p. 421): «Nel niente che t’aspetta / il lamento dei tuguri. / Silenzio, / pace». 52 Ibid., 415. Per la «jena», possiamo rifarci a I Trionfi (Opere 1965-1977, cit., 315316): «Latra la jena, / zampa della cristiana falsità / contro il Cristo di sempre». I «segnati» (per i quali cfr. Apocalisse 7, 2-8) sono i battezzati, quelli che hanno come «un’ecchimosi», «una ditata, qui, sulla fronte, nel cranio», «una macchia» (ecchimosi, ditata, macchia in cui più tardi il Testori “convertito” riconoscerà invece un segno «d’amore e libertà infinita; forse una carezza»: Il senso della nascita..., cit., 393). 53 ID., Nel Tuo sangue [1973], in Opere 1965-1977, cit., 1020 e 1026.
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«Se un’ala di poesia corre, lenta ed immensa, sopra questi Teschi morlottiani, essa consiste in questo: che nell’ingorgo, spesso cieco, del suo naturalismo avvertiamo levantarsi, vittorioso come fin qui non fu mai, il senso dei supremi doveri che legano l’uomo alla giustizia che ha da essere nella vita; e non più e solo agli eventuali e troppo conclamati diritti. Questo non è piegarsi; è, anzi, erigersi, nel franare di tutte le vanità, proprio mentre ci si tiene nelle mani il simbolo della totale e ultima vanità; quella vanità che testimonia e rimanda ad altro; quella vanità che è teca del seme stesso dell’esistere, del suo senso e del suo significato, proprio perché si forma nei lenti silenzi delle tombe e dei cimiteri, quando sembra che l’esistere sia operazione finita; mentre procede là dove tutto è conoscenza e luce»54.
Più avanti, in Ossa mea, assistiamo a un’insistita sovrapposizione e compenetrazione tra il toponimo Calvario/Golgota (divenuto tout court “Cranio”), la testa del Crocifisso e un ossame umano che adesso osa rimettere in gioco la rete di significati insiti nella tradizionale rappresentazione di un teschio ai piedi della croce. Lì, nel cosmo golgotante, ali, teschi, tibie, tarsi, lì, di scheletri farciti, lì, di muscoli sfiniti, lì arrancare per raggiungere Te, Cristo, necessario ancora era 55.
Negandosi e al contempo affermandosi come profeta, testimone di 54 ID., L’orafo fedele e disperato [1978], in La cenere e il volto, cit., 150-151 (ora in Opere 1977-1993, cit., 509). 55 ID., Ossa mea (1981-1982), Milano 1983, 47 (ora in Opere 1977-1993, cit., 600).
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una fine imminente56 (fine della «città-Babele», o addirittura dell’intero universo, «consunto Cosmo»), il poeta dispiega una via crucis che è deprecatio temporum, ma anche e soprattutto mea culpa («Ho tradito», «T’ho offeso»…). Egli è decisamente avviato su un percorso di fede («Non vedo, / ma credo»)57: il sangue che scende giù dalla croce è ora per lui lavacro, misterioso sì, ma certamente redentore; il sacro Volto «appeso nel velo» gli appare arra di perdono, «eterna / cisterna, / incisa pietà»58. Tra le tenebre traluce dunque qualche barlume rasserenante. Attento lettore di Hans Urs von Balthasar (che intervistò due volte per Il Sabato)59, l’ultimo Testori — sia pure sempre dubitosamente, interrogativamente — sembra aprirsi a una visione “gloriosa” del dolore e della morte. Nella breve silloge intitolata appunto Segno della gloria, composta a ridosso e a commento di una mostra di Samuele Gabai, il teschio (o con più terragna, popolare aderenza, la “crapa”), non è solo marchio di vanità, ma si prospetta a tratti nello splendore di una possibile resurrezione, di un finale assestamento di scopo e di significato: Segno della sconfitta che è vittoria, unico segno della gloria, crapa, tu, d’ogni muscolo e tendine 56 Evidenti i rinvii all’omonimo apostolo autore dell’Apocalisse, ovviamente con le dovute diversificazioni: «Non da Patmos. / Qui, / io vedo»; «Non è Patmos, / qui; / città»; «Perché / la parola infinita, / già scritta, / incompresa, / incapita, / su pietra di Patmos?»; «Ma a Patmos / fu scritto» (Ossa mea, cit., 24, 30, 100, 108, e ora in Opere 1977-1993, cit., 580, 585, 640, 646). 57 Ibid., 139 (Opere 1977-1993, 669). 58 Ibid., 49 (Opere 1977-1993, 601-602). 59 “Occorre distaccarsi dal proprio dolore personale”, in Il Sabato, 17 marzo 1979, 10-12; Proclama di rivolta alla macchina infernale (nell’occhiello: Von Balthasar e Testori. Dialogo di due maestri sui nostri anni), ibid., 28 maggio 1983, 16-17.
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spogliata, denudata, preparata per l’eterno… Sarà paradiso, sarà inferno? Senza o con di Dio l’invisibil perno?60.
Un’ironia sottile, che non è derisione bensì resa a un destino inesplicabile, induce il poeta ad alleggerire i toni, fino al gioco paronomastico: La muta crepa della crapa, la crapa, la sua crepa, il frantumarsi degli ossi arsi nella man d’Amleto… […] D’una vita comunque il resto, il testo e il final feto…61
Lo scoramento viene tenuto a bada dalla speranza. Ritorna l’immagine della peste, ma non più nella immedesimazione sconvolta e terrificante di Carlo Borromeo, bensì nel fiducioso ripensamento di Manzoni: Gli occhi riavrò, le palpebre, 60 ID., Segno della gloria, postfazione di C. Bo, note ai testi di F. Panzeri, Milano 2002, 118. (La prima edizione della raccolta, con sedici incisioni di Gabai, è del 1994, edizioni Rovio & Giorgio Upiglio; e ora in Opere 1977-1993, cit., 1529-1536). 61 Ibid., 117 (Opere 1977-1993, cit., 1532).
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le labbra… E quando, e quand che sia no trop tard e van? Un dì, anzi, quel dì – ’me disse il Cristoforo nel Lazzaretto giù dell’urbis de Milan62.
6. L’«OSSEA BELLEZZA» DEGLI ANGELI STERMINATORI Un acquerello di Giovanni Frangi, raffigurante un casco attraverso la cui visiera non si scorge alcun lineamento umano ma solo una grande macchia nera, sigilla la copertina dell’ultimo romanzo di Testori, Gli Angeli dello Sterminio: e non senza ragione. L’opera — frammentata, ansimante — parla di una rivolta a San Vittore che si trasforma in un incendio d’apocalisse: mentre i palazzi continuano a crollare e le strade sono ormai «un orrendo ricettacolo di cadaveri», cinquanta misteriosi motociclisti corrono per la città «schiacciando e maciullando tutto». «Tutti si mostravano muniti d’un egual casco bianco che ne nascondeva del tutto la testa, come se essa, dentro, non esistesse più o si fosse omologata all’oggetto di difesa che, in loro, prendeva l’aspetto d’un oggetto d’assalto»63.
Quando infine, davanti al duomo, i centauri si sfilano i caschi, a rivelarsi è una «tragica e ossea bellezza». Si tratta dunque di un meccanizzato e metallizzato trionfo della morte64: in sella alle loro Yamaha 62 Ibid., 115 (Opere 1977-1993, cit., 1530-1531). Lo stesso riferimento compare in Mater strangosciàs: «Senso e sensada / li saverem soltanto un dì, / anzo quel dì, / ’me diserà Cristoforo, / el senil pater, / alzando in su la man / nel lazzaretto giù / dell’urbis de Milan» (Tre lai…, cit., 158, e in Opere 1977-1993, cit., 1982). 63 ID., Gli Angeli dello Sterminio, Milano 1992, 78 (in Opere 1977-1993, cit., 1849). 64 Ibid., 82 (in Opere 1977-1993, cit., 1852).
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questi angeli sterminatori modernizzano e moltiplicano la tradizionale immagine dello scheletro a cavallo. L’insondabile opacità della visiera calata ripropone l’inquietante effetto di due orbite cave. Più in generale, c’è da rilevare come qui Testori condensi (o accumuli) tutte le allegorie a cui per l’addietro ha fatto via via ricorso per esprimere il proprio sgomento di fronte alla condizione umana: la peste (a un certo punto «dentro il secentesco computer della civis» scorre l’antica processione contro il contagio), la testa fracassata (quella del maggiordomo che si è buttato dalla finestra, quella del detenuto che si è avventato contro le sbarre), il volto ridotto in poltiglia (quello dell’uomo su cui frana un cornicione), il cranio crepato («Questa crepa! Tocchi, qui! Proprio nel cranio che dice tu che tramonti…»). Forse nella vicenda della dama à la flûte ovvero au soleil couchant, che alla fine si offre alla violenza dell’«orda», si adombra la parabola dell’Occidente borghese, dapprima declinante sotto «luci tramontizie», alla Bonnard65, ma destinato poi a precipitare nel sangue. Certo comunque l’attenzione dello scrittore si appunta ben oltre: ché, come tutti gli artisti a lui cari, egli bada «al sisma che percorre, screpola, e incrina senza soste l’intero cosmo e non al ben più parabile sisma storico-sociale»66. Ancora una volta Testori si stringe alla croce, delineando un nesso con l’orizzonte della redenzione: la distruzione della città dell’uomo annuncia, sì, il giorno del Giudizio, ma non esclude la possibilità di una nuova vita. «In quello stesso istante, un primo, terrificante suono, o urlo, di trombe sconvolse il funebre silenzio che regnava sulla città; terrificante sì, ma lucidissimo e, dunque, disumanamente gaudioso. Non era l’avviso d’una fine; o, forse, lo era; ma esso possedeva in sé, e la diffondeva per tutte le dimensioni dell’universo, la forza d’una sconosciuta apertura»67.
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ID., Il requiem profumato di Bonnard [1984], in La cenere e il volto..., cit., 42. Per la verità, relativamente alla misteriosa dame à la flûte, Testori ha dichiarato di essersi ispirato a Camilla Cederna (L. DONINELLI, Conversazioni con Testori, cit., 26); ma è evidente che tale specifico riferimento non esaurisce il senso del personaggio. 66 ID., La pittura di Soutine si aggrappa alla vita [1982], ibid., 13. 67 ID., Gli Angeli dello Sterminio, cit., 82 (e in Opere 1977-1993, 1852).
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A chiusura del libro la visione dell’Incarnazione candida il cronista/narratore a figura dantesca: «Allora, proprio nel non definibile punto in cui il cielo pareva coprir i resti della Cattedrale, si formò qualcosa come una macchia biancastra e lattiginosa che, obbedendo a una lentissima e solenne pulsione centrifuga, andò, piano piano, allargandosi. Pareva che essa girasse e rigirasse su di sé per darsi un senso e una figura; o che, come un immenso serpente, tentasse di divincolarsi, e che quel movimento non dovesse aver più fine. Non occorse, tuttavia, molto, perché, nel ripetersi sempre più spietato dei bronzei clangori, quella cellula, sempre biancastra e lattiginosa, mostrasse di essere in atto di generare da sé qualcosa come un’immane e mai vista forma umana»68.
Resta il fatto che a siglare la dimensione profetico-apocalittica viene deputato non un verso del Paradiso — uno slargo di sole e di stelle —, ma un verso dell’Inferno, risonante drammaticamente nell’aere perso: «e caddi, io, sì, io, io, come corpo morto cade». E allora non possiamo non pensare al Testori che, meditando sul Sennacherib di Tanzio da Varallo, si chiedeva se «cieli esistano ancora e non solo inferni»69: vero è infatti che il romanzo si dischiude a una possibile apocatastasi, ma sempre confermando l’orrore del vivere, ed escludendo la pietà dall’ordine del mondo («La pietà non era lor compito», si legge qui a proposito dei centauri sterminatori)70. 7. ALLEGORIE, EMBLEMI Ritorniamo alla questione da cui siamo partiti: come valutare l’ispirazione “ossessiva” di Testori? La variegata fenomenologia delle 68
Ibid. Questo finale mostra delle affinità con un momento del precedente «In exitu» (Milano 1988, 11 ss., e in Opere 1977-1993, cit., 1358 ss..) dove il povero drogato Riboldi Gino aveva la visione della «Goccia» e, dentro di essa, di Cristo in croce. 69 ID., Sennacherib e l’angelo (1629), in La realtà della pittura…, cit., 262. 70 ID., Gli Angeli dello Sterminio, cit., 78 (e in Opere 1977-1993, cit., 1850). La pietà per Testori può sussistere solo come identificazione coi reietti, in chiave cristologica: essa non a caso compare alla fine di Regredior, attraverso il gesto del ragazzo che sorregge il povero travestito Torquato, malmenato a morte da una banda di violenti omofobi (Opere 1977-1993, cit., 1730).
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“visioni capitali” che abbiamo incontrato dovrebbe aver dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, la necessità di un’interpretazione che faccia i conti con la mentalità pittorica del nostro scrittore. Questa mentalità agisce a diversi livelli: ora come attenzione alla luce, ai suoi giochi ed effetti (così per es. in Il dio di Roserio); ora come intreccio tra scrittura e bisogno di espressione collaterale per immagini (è il caso di Erodiade e delle tante teste del Battista); ora come richiamo a dipinti più o meno famosi, richiamo che può giungere fino alla transcodificazione poetica. È, quest’ultima, la direttiva che abbiamo visto dominare negli anni ’60 (I Trionfi, la Suite per Francis Bacon, La decollazione di Malta…), e che sviluppa in modo nuovo e personale una tendenza diffusa tanto in età barocca quanto tra Otto e Novecento. D’altra parte sappiamo anche quanto “letteraria” sia la saggistica di Testori dedicata alle arti figurative. C’è dunque in lui uno scambio continuo, un’implementazione reciproca tra letteratura e arte che ulteriormente certifica la non casualità dell’amicizia con Longhi: con quel Longhi che osava proporre «un’antologia della critica d’arte immediata, dove […] i nomi dei poeti e dei prosatori […] hanno tanto e più spazio che quelli dei critici “attitrés” e degli storici più creduti, ma non per questo più efficienti», ed esprimeva l’esigenza «di riconsegnare la critica, e perciò la storia dell’arte, non dico nel grembo della poesia; ma, certamente, nel cuore di una attività letteraria, che […] non potrà mai essere letteratura di intrattenimento»71. A tutto questo bisogna aggiungere almeno un altro, fondamentale aspetto: Testori, soprattutto il Testori posteriore al “ciclo”, chiede alla letteratura quello che chiede alla pittura: e cioè una «scandalosa, inarrestabile oltranza nel tentare, dell’umana storia, non la restituzione, non la descrizione, non l’elegia e neppure la disamina e la stigmatizzazione sociali, bensì l’emblema»72. Se c’è sempre meno narratività nei suoi racconti e romanzi e sempre meno teatralità nelle sue pièce, ciò avviene appunto perché a lui preme unicamente la messa in situa71 R. LONGHI, Proposte per una critica d’arte [1950], in Critica d’arte e buongoverno, Firenze 1985, 9-20. 72 G. TESTORI, Nella pittura di Beckmann le luci dell’Apocalisse [1984], in La cenere e il volto…, cit., 224.
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zione, la costruzione di un “quadro” che metta in risalto, coinvolgendoci, la sostanziale infelicità di un’esistenza formata per il peccato e per la morte. Di tale infelicità le continue apparizioni di teste martoriate e/o staccate dal corpo costituiscono forse l’«emblema» più vistoso. Come poi — tra incubo, rivolta e rassegnazione — questo emblema sia andato complicandosi ed evolvendosi è quanto appunto abbiamo cercato di mostrare.
1 – GIOVANNI TESTORI, Testa del Battista, collezione privata (partic.)
2 – GIOVANNI TESTORI, Testa del Battista, collezione privata (partic.)
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3 â&#x20AC;&#x201C; FRANCESCO CAIRO, Erodiade, Torino, Galleria Sabauda (partic.)
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4 â&#x20AC;&#x201C; FRANCESCO CAIRO, Erodiade, Vicenza, Museo Civico (partic.)
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5 â&#x20AC;&#x201C; FRANCESCO CAIRO, Erodiade, Boston, Museum of Fine Arts (partic.)
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LA SIMBOLIZZAZIONE DEL CORPO NELLA TEOLOGIA SACRAMENTARIA DI L.-M. CHAUVET
MAURIZIO ALIOTTA*
1. NOTA BIOGRAFICA E PREMESSE CULTURALI «Ogni discorso teologico dipende dalla discussione dominante dell’epoca che lo precede, o per combatterlo o per rafforzarlo. È ovvio che il mio è in parte una reazione contro il discorso scolastico della mia formazione alla facoltà teologica di Angers»1: così Louis-Marie Chauvet spiega il suo dialogo constante con la cultura contemporanea. Determinante l’incontro con le scienze umane, che gli fu reso possibile perché ben fondato nella sua fede e nella sua conoscenza teologica, come ha sottolineato Philippe Bordeyne: «Trae la sua audacia di pensiero dal terreno che continua a nutrirlo»2. *
Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. L.-M. CHAUVET, Quand la théologie rencontre les sciences humaines, in F. BOUSQUET – H.-J. GAGEY – G. MÉDEVIELLE – J.-L. SOULETIE, La responsabilité des théologiens: Mélanges offerts à Joseph Doré (Desclée, Paris 2002), 401–15: 401. LouisMarie Chauvet è nato il 26.01.1942 a Chavagnes-en-Paillers, Vandea. Professore emerito di Teologia sacramentaria dell’Institut Catholique di Parigi, dove ha insegnato per 35 anni a partire dal 1974, attualmente esercita il suo ministero pastorale come parroco nella diocesi di Pontoise. 2 «He draws his audacity of thought from a land that continues to nourish him» (PH. BORDEYNE – B.T. MORRILL [ed.], Sacraments Revelation of the Humanity of God. Engaging the Fundamental Theology of Louis-Marie Chauvet, Collegeville [Minnesota], 2008, IX); il testo è stato pubblicato contemporaneamente in francese PH. BORDEYNE – B.T. MORRILL (ed.), Les sacrements révélation de l’humanité de Dieu. Volume offert à Louis-Marie Chauvet, Paris 2008 (coll. Cogitatio fidei 263). 1
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La posizione di Chauvet non è però frutto né di arroganza intellettuale né di miopia storica, egli riconosce infatti che è possibile prendere posizione su problemi di “scuola” non «perché siamo più perspicaci e più intelligenti dei teologi delle generazioni passate; è semplicemente perché siamo situati in un’altra età della cultura e disponiamo di strumenti di indagine che non erano disponibili in altri tempi. Non siamo migliori dei nostri padri: siamo altri. Ad altra cultura corrisponde necessariamente un altro discorso teologico»3. Durante i suoi studi presso l’Università cattolica di Angers subì il fascino della teologia di Jean Colson4. Bordeyne nota che «come 3
L.-M. CHAUVET, i Sacramenti, tr. it., Milano 1997, 26. Lo stesso concetto è ribadito in L.-M. CHAUVET, Parole et sacrement, in Le corps, chemin de Dieu. Les sacrements, Montrouge 2010, 110: «Nous pouvons aujourd’hui penser autrement. Pas, évidemment, parce que nous serions plus intelligents, mais parce que les conditions épistémologiques du savoir ont profondément changé». La riflessione dell’autore sul rapporto tra sacramenti e corporeità si rintraccia esplicitamente nei suoi scritti già a partire dalle sue prime opere e si sviluppa lungo l’arco del trentennio successivo, in particolare in: Du symbolique au symbole. Essai sur les sacrements, Paris 1979; Symbole et sacrement. Une relecture sacramentelle de l’existence chrétienne, Paris 1987 (tr. it. Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Leumann-Torino 1990); The body and rituality in the liturgy. From languages to games to 'textual games' : the case of the religious rite, in L.-M. CHAUVET – F.K. LUMBALA (curr.) Liturgy and the Body, Maryknoll-London 1995; Les sacrements. Parole de Dieu au risque du corps, Paris 1993 (tr. it. i Sacramenti. Aspetti teologici e pastorali, cit.); Les sacrements ou le corps comme chemin de Dieu, in Le corps chemin de dieu, sous la direction de A. Gesché et P. Scolas, Paris 2005; De la médiation. Quatre études de théologie sacramentaire fondamentale, apparso in ed. it. (testo francese e tr. italiana) con il titolo Della mediazione. Quattro studi di teologia sacramentaria fondamentale, Assisi-Roma 2006; la raccolta di saggi dal titolo Le corps, chemin de Dieu. Les sacrements, cit. In traduzione italiana sono stati raccolti e organizzati secondo una divisione tematica una serie di articoli pubblicati in diverse riviste francesi tra il 1993 e il 2009 in L’umanità dei sacramenti, Magnano 2012, in particolare l’articolo La fede passa per il corpo, 91-106. 4 In quel tempo, Colson fu un noto specialista della teologia dei ministeri (J. COLSON, L’épiscopat catholique: collégialité et primauté dans les trois premiers siècles de l’Église, Preface par Yves, Unam sanctam 43, Paris 1963), e preparava un’opera su Luca (L’énigme du disciple que Jésus aimait, Théologie historique 10, Paris 1969). Colson divenne il consulente teologico di mons. Rodhain, fondatore del Secours Catholique (l’equivalente della Caritas nazionale) in Francia e cercava di costruire una teologia della carità. Cfr. J. COLSON, Le Sacerdoce du pauvre: réflexions sur le sacerdoce prophétique du Messie, roi des pauvres, dans l’Évangile selon saint Luc, Paris 1971.
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studente beneficiava delle letture e delle riflessioni dei colleghi più brillanti. La terra del vino e il vino incoraggiavano la condivisione nell’amicizia. Attraverso numerose conversazioni, favorite dal “fondo della botte”, particolarmente con Jean-Paul Resweber5, che era un suo compagno di studi nel seminario di Luçon, fu iniziato alla critica di Heidegger alla metafisica»6. La sua formazione filosofica e teologica lo portano a cogliere nel mistero pasquale il senso della liturgia e il fondamento della sua teologia sacramentaria. Partire dalla Pasqua «significa in primo luogo situare i sacramenti nella dinamica di una storia, quella di una Chiesa nata, nella sua visibilità storica, dal dono dello Spirito a Pentecoste e sempre in genesi dal corpo di Cristo lungo la storia. Partire dalla Pasqua significa di conseguenza essere in grado di articolare la sacramentaria non soltanto sul principio cristologico, ma anche sul principio pneumatologico»7. L’insistenza di Chauvet sulla storia è un punto cruciale per le implicazioni nella sua argomentazione. Abbracciando la particolarità “scandalosa” della storia, essa ci apre al contenuto liberante della vita nelle parole, azioni e decisioni di Gesù, che mediante essi rivela il carattere di Dio come misericordia illimitata, perdono e forza. «Insistere sulla 5 Jean-Paul Resweber difese la sua tesi in teologia cattolica all’Università di Strasburgo nel 1973, con il titolo Essai sur le discours théologique, à la lumière de la critique heideggerienne de la métaphysique. Successivamente divenne professore di filosofia all’Università di Metz. Pubblicò su Heidegger, sulla filosofia del linguaggio e sul metodo interdisciplinare, un tema molto caro a Chauvet. Cfr. JEAN-PAUL RESWEBER, La Méthode interdisciplinaire, Paris 1981. Per l’influsso di Heidegger sulla teologia di Chauvet, nel più ampio contesto dell’influsso di Heidegger su filosofia e teologia occidentali del ’900, cfr. G.P. AMBROSE, The Theology of Louis-Marie Chauvet. Overcoming Onto-Theology with the Sacramental Tradition, London 2011, 956 con un particolare riferimento alla mediazione del filosofo francese Jean Luc Marion, che Chauvet esplicitamente riprende specialmente in Simbolo e sacramento quando distingue tra idolo e icona (i testi di riferimento di Marion sono: L’idole et la distance, Paris 1977 (tr. it. L’idolo e la distanza, Milano 1979; Marion riprende la sua riflessione critica su Heidegger in Dieu sans l'etre, Paris 1991). 6 Sacraments Revelation of the Humanity of God. Engaging the Fundamental Theology of Louis-Marie Chauvet, X. Le chiavi di lettura dell’argomento di Chauvet sull’umanità di Dio si trovano in E. Jüngel e J. Moltmann. Cfr. L.M. CHAUVET, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, tr. it., cit., 337-372. 7 L.-M. CHAUVET, Simbolo e Sacramento, cit., 333.
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storia come mezzo dell’opera redentrice di Dio comporta accettare la rivelazione — talvolta consolante, talvolta disturbante — che noi incontriamo Dio nelle circostanze concrete della nostra vita, sia come membri del corpo sociale sia nelle vicende del nostro corpo personale»8. Per comprendere lo sviluppo della teologia sacramentaria di Chauvet bisogna ricordare che egli fa propri i risultati della filosofia contemporanea, che riconosce nella mediazione non un ostacolo alla verità, ma anzi «il luogo o l’ambiente in cui il soggetto è chiamato ad accogliere la verità»9. Si volge in particolare alla fenomenologia e all’ermeneutica e cita, tra gli altri, Paul Ricoeur il quale sostiene che per raggiungere se stessi occorre compiere una svolta attraverso l’altro10. Il suo intero itinerario intellettuale, a partire dagli anni ’70 del Novecento, è segnato dall’assunzione dei risultati delle scienze umane che consentono di comprendere che la verità non accade mai fuori dalle mediazioni (storiche, linguistiche, psichiche, sociali …) e che segnano di fatto la fine dell’approccio metafisico alla realtà11. Tra le mediazioni possibili un rilievo fondamentale lo acquista il corpo. La categoria di mediazione è compresa dal nostro autore nel contesto teologico come «ambiente in cui avviene la comunicazione tra di loro [cioè Dio e uomo]. Questo ambiente è la vita quotidiana, l’esistenza storica, la corporeità»12. 2. L’ONDA LUNGA DELLA CORPOREITÀ RISCOPERTA La teologia sacramentaria di Chauvet si colloca nell’onda lunga della riscoperta del corpo nella teologia cristiana. Tale riscoperta è 8 «To insist on history as the medium of God’s redemptive work is to accept the sometimes consoling, other times unsettling revelation that, like Jesus, we meet God in the concrete circumstances of our own lives, both as participants in various social bodies and in the waxing and waning of our personal bodies» (B. T. MORRILL, Introduction, in Sacraments Revelation of the Humanity of God. Engaging the Fundamental Theology of Louis-Marie Chauvet, cit., XVI). 9 L.-M. CHAUVET, Les sacrements, ou le corps comme chemin de Dieu, cit., 123. 10 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Paris 1990. 11 Cfr. L.-M. CHAUVET, Della mediazione. Quattro studi di teologia sacramentaria fondamentale, cit. 12 ID., i Sacramenti, cit., 102.
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stata così tumultuosa che secondo qualcuno le maggiori questioni che agitano la Chiesa di oggi, nei suoi vari ambiti, si riconducono alla riflessione sul corpo13. Questo interesse, in realtà, non è una novità assoluta perché storici e teologi conoscono bene l’ambivalenza delle tradizioni cristiane nei confronti della corporeità. Nonostante questa ambivalenza vi è un dato certo: il rifiuto teorico del dualismo e della condanna del corpo con l’affermazione della corporeità come costitutiva dell’identità umana. Già le Scritture contengono un approccio positivo al corpo. A solo titolo di esempio ricordo la conclusione a cui giunge Rudolf Bultmann nella sua Teologia del Nuovo Testamento a proposito del termine soma in Paolo. Alla scuola di Bultmann altri esegeti mostrano che l’Apostolo lo usa per combattere l’individualismo gnostico e fornisce la base sia per l’unità metafisica della persona sia la possibilità di “relazioni tra le persone”14. 3. LA MEDIAZIONE NECESSARIA Il corpo è per Chauvet “mediazione” esemplare perché in esso «un soggetto si stabilisce in rapporto a se stesso, a coloro con cui ha rela13 «All the major issues agitating the Church today […] revolve about the meaning of our bodiedness» (R. BRUNGS, Biology and the Future: A Doctrinal Agenda, in Theological Studies 50 (1989) 698-717: 700). L’Associazione Teologica Italiana ha dedicato alla teologia del corpo il corso di aggiornamento per docenti di teologia sistematica del 2006, gli atti sono pubblicati nel volume R. REPOLE (cur.), Il corpo alla prova dell’antropologia cristiana, Milano 2007. 14 Cfr. la ripresa che ne fa R. JEWELT, Paul’s Anthropological Terms, Leiden 1971. Un esempio più recente dell’approccio protestante alla questione si ha con JON L. BERQUIST, Una teologia del corpo, tr. it., Claudiana, Torino 2011 (ed. or. 2009) dove l’autore pone in premessa la condizione corporea dell’uomo per intrattenere relazioni (anche con Dio) e quindi espone una teologia della rivelazione e dell’incarnazione. Per la teologia ortodossa, oltre i testi classici di P. EVDOKIMOV, Sacrement de l'amour. Le mystere conjugal a la lumiere de la tradition orthodoxe (tr. it. Il sacramento dell’amore: il mistero coniugale secondo la tradizione ortodossa, Centro di studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte 1966) e di O. CLÉMENT, Questions sur l’homme, Paris 1972 (tr. it. 1973), cfr. l’interessante sintesi di J.-C. LARCHET, Théologie du corps, Paris 2009.
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zioni sociali e a Dio»15. Le mediazioni, inoltre, sono l’unica via di conoscenza e di incontro con l’Altro. Il “corpo” si presenta come il paradigma antropologico, accanto al paradigma teologico costituito da “liturgia” e “sacramenti”. Questa tesi è sostenuta da Chauvet fin dal suo Symbole et sacrement articolandosi in due parti, una negativa e una positiva. La negativa consiste nella decostruzione del punto di vista “moderno” che tende a ridurre la fede al noetico e all’etico, così che sacramenti e liturgia appaiono al meglio come espressione sensibile di una fede talmente spiritualizzata/disincarnata di cui “normalmente” si può fare a meno. La positiva poggia sull’altra faccia della stessa modernità, quella che al contrario sottolinea, sulla scia della fenomenologia e dell’ermeneutica, il carattere inevitabile delle mediazioni, cominciando proprio dal “corpo”. A partire da ciò l’autore può affermare che «si giunge ad accettare senza paura il paradosso che il cristianesimo “più spirituale” passa non solamente dal “più corporale”, ma accade all’interno stesso del “più corporale”»16. Il corpo in definitiva è il paradigma della comunicazione tra Dio e gli uomini. Lo stesso Chauvet, citando P. Girard, riconosce che si tratta di una tesi paradossale perché il Regno di Dio non è un affare di “culto” (in cui è centrale il corpo), ma di agape fraterna (con tutto quello che questo comporta di pratica di giustizia, di riconciliazione, di misericordia). La sua risposta è questa: «È così non perché il culto sarebbe il punto di arrivo della vita cristiana, ma perché ne costituisce il rivelatore e l’operatore. È rivelatore in quanto che i sacramenti mostrano ciò che fa della vita tutta umana una vita propriamente cristiana, cioè a dire il fatto che essa, nella sua stessa “profanità”, è chiamata a diventare logikè latreia (culto spirituale) o pneumatikè thusia (sacrificio spirituale) attraverso la pratica della giustizia e della misericordia (Rm 12,1; Eb 13,15-16, ecc.); è operatore in quanto riguarda la santificazione mediante la grazia di Dio, questa santificazione di cui sono il 15
L.-M. CHAUVET, Le corps, chemin de Dieu. Les sacraments, cit., 7. ID., Le corps, chemin de Dieu, cit., 7-8. L’autore mette in guardia dal non identificare totalmente la sua posizione con quella aristotelica del nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu, sarebbe un senso troppo restrittivo. 16
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luogo principale, che permette precisamente a questo “profano” di diventare “liturgia” per la gloria di Dio. In altri termini, i sacramenti mostrano l’esigenza di “compiersi” nell’etica, ma tuttavia questo compimento non si deve valutare secondo il suo grado di generosità morale, ma secondo il suo statuto di risposta a un dono e a un impegno primo di Dio»17. La liturgia è un punto di vista privilegiato per la riflessione sul corpo/corporeità perché se è vero che la «Chiesa crede secondo il modo in cui essa celebra»18, allora il “corpo” individuale è la condizione/causa con cui si esprime la fede, poiché non vi è celebrazione che non sia intimamente unita alla corporeità. La fede dunque non può viversi, secondo Chauvet, «se non nella mediazione del corpo, o anche — in altri termini — di una società, di un desiderio, di una tradizione, di una storia, di un’istituzione … La realtà più spirituale ha sempre luogo nella realtà più materiale»19. La posta in gioco è alta: «Si tratta niente di meno che di una riconciliazione cristiana con il corpo (o meglio, come preciseremo, con la corporeità). I sacramenti non sono forse l’espressione principale di una fede che esiste soltanto come esposta al rischio del corpo?»20. La riscoperta del corpo consente di adottare un modello simbolico per spiegare l’interazione tra azione di Dio e azione dell’uomo (la Chiesa) nei sacramenti. Nel corpo infatti, nota Chauvet, converge quanto vi è di più “esterno” e quanto “di più interiore” o ancora: «è quel luogo esterno in cui si struttura l’interiorità»21. L’autore elabora il suo modello simbolico come sviluppo di quello che egli ritiene di rinvenire nei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, che a suo parere supera quelli precedenti che egli riconduce a due: l’ “oggettivista” e il “soggettivista”. 17 ID., Les sacrements, ou le corps comme chemin de Dieu, cit., 110-111; ora in ID., Le corps, chemin de Dieu, cit., 63-64. 18 ID., i Sacramenti, cit., 66. 19 Ibid., 9. 20 L.c. 21 Ibid., 28. Qui l’autore riprende quanto già sviluppato in Simbolo e sacramento, cit., 106.
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Questi modelli teorici furono elaborati per tentare «di comprendere e illustrare come si articoli la duplice azione che dà origine a ogni sacramento: quella del Dio vivente di Gesù Cristo e quella, umana, della Chiesa»22. Il modello di tipo oggettivista (le cui radici affondano nella scolastica dei secoli XII e XIII) vede i sacramenti soprattutto come mezzi operatori di salvezza, non tanto come segni rivelatori. La prospettiva è fortemente individualista, segnata dall’assenza della Chiesa come comunità di fede e di missione, «si tratta di una prospettiva “interiorista”: ciò che conta è la salvezza dell’ “anima”»23. Questo modello — a giudizio di Chauvet — si caratterizza per l’insistenza sull’efficacia oggettiva dei sacramenti, a scapito del peso attribuito ai soggetti esistenziali concreti. Anche quando si chiede la “retta intenzione” del soggetto, lo si fa sempre in funzione della efficacia del sacramento, quindi secondo una logica produttivistica oggettiva, che porta a considerare i sacramenti come fonte della salvezza24. Il modello di tipo soggettivista si ritrova sotto varie forme, talvolta con motivazioni molto diverse tra di loro, ma con una caratteristica comune: la reazione contro la Chiesa istituzione. Questa reazione, nella ricognizione storica di Chauvet, assume tre forme principali. La prima è sintetizzabile nello slogan “Vangelo sì, Chiesa no!”. Il valore dei sacramenti è legato principalmente alla sincerità soggettiva di ognuno. La seconda riconosce il ruolo della Chiesa e dei sacramenti, ma a partire da criteri determinati da valori che il gruppo riconosce come evangelici, trascurando quelli pervenuti dalla tradizione della Chiesa. In genere questi gruppi tendono a fondare l’autenticità evangelica dei valori in questione a partire da analisi proprie escludendo tutto ciò che appare ad esse estraneo e, conseguentemente, respingendo una Chiesa di “massa” e una religione “sociologica”. Tra i rischi insiti in questo modello e denunciati dall’autore vi sono tre inganni: 22
Ibid., 11. Ibid., 14. 24 Chauvet è pienamente consapevole della differenza tra i grandi scolastici e la “scolastica” che ne volgarizza la teologia: nei primi non viene meno la coscienza dell’analogia del loro linguaggio, successivamente non fu più così venendo meno un certo equilibrio sia linguistico sia concettuale. 23
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l’elitarismo sul piano ecclesiologico; il (semi)pelagianesimo sul piano antropologico; il rigorismo sul piano pastorale25. I sacramenti sono visti sostanzialmente come riconoscimento di ciò che Dio opera/ha operato nella vita dei credenti e non come strumenti attraverso cui Dio opera. Per dirla con le categorie utilizzate da Chauvet svolgono una funzione rivelatrice e non operatrice, come era nel modello oggettivista: rivelano la grazia di Dio già data, non la producono. Il nostro autore nota acutamente che questi due modelli sono contrari, ma non contraddittori perché — secondo quanto insegna Aristotele — appartengono ad un genere comune: «Di fatto, nei due casi la problematica è quella del sacramento come strumento: strumento oggettivo di produzione della grazia nel primo, strumento soggettivo di traduzione della grazia nel secondo»26. Sebbene il Concilio Ecumenico Vaticano II non abbia trattato ex professo dei sacramenti, tuttavia ha fornito implicitamente elementi importanti per la loro comprensione. Si può parlare perciò di un modello che scaturisce dai testi del Vaticano II. Innanzi tutto il concilio ha sottolineato la funzione dei sacramenti come segni della salvezza. Senza rinnegare la teologia scolastica dei sacramenti “strumento”, ha però spostato sostanzialmente la comprensione della loro natura. Nell’ordine dei segni, i sacramenti «proclamano simbolicamente al mondo ciò che è la Chiesa, la attestano e contestano nel medesimo tempo»27. Altro elemento essenziale è l’affermazione della “ecclesialità” dei sacramenti. Sostenendo che essi sono azione della Chiesa si ridimensiona il “potere” del ministro ordinato: «Uno presiede (segno di Cristo) ma tutti celebrano»28. Si cerca un equilibrio tra la logica della causa e quella del segno, perché vi è un intreccio tra le due categorie al punto che — come già notava Tommaso d’Aquino — «il segno ha nei sacramenti la peculiarità di esistere solo a modo di causalità, e viceversa la causa ha la peculiarità di esercitare il suo influsso solo a modo di segno»29. Chauvet osserva che tutto ciò è vero 25
Per l’analisi di questo modello cfr. L.-M. CHAUVET, i Sacramenti, cit., 19. Ibid., 21. 27 Ibid., 23. 28 Ibid., 24. 29 Ibid., 26. 26
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ma resta pur vero che le due categorie sono eterogenee, con conseguenze notevoli sul piano pratico. Si esige perciò uno sviluppo dell’insegnamento consegnatoci dal Vaticano II e questo è precisamente ciò che cerca di fare Chauvet proponendo il modello simbolico. Per dirla con Ruggieri si tratta di una caso di “interpretazione evolutiva” degli atti conciliari30. 4. SIMBOLO E SACRAMENTI La rivalutazione della corporeità nella teologia cristiana è, dunque, il punto di partenza della teologia sacramentaria di Chauvet. In questo contesto si comprende l’enfasi posta sulla necessità della mediazione nella esperienza religiosa. In particolare ciò emerge nella celebrazione dei sacramenti cristiani, nella loro forma liturgica e rituale. La liturgia, per sua natura, ha di mira la comunicazione con Dio. Ora, la componente più “spirituale” di questa comunicazione avviene, come già detto, nella mediazione dell’elemento più “corporale”. Questa mediazione necessaria permette anche l’emergere dell’identità soggettiva. Per spiegare ciò, l’autore si rifà al senso originario di “simbolo”, richiamando l’uso di spezzare un oggetto in due parti da rimettere insieme come segno di riconoscimento dei suoi detentori. La parte dell’oggetto da ricomporre (il simbolo appunto) non ha in se stesso alcun significato; lo acquisisce solo quando si “incontra” con l’altra metà. «La sua valenza simbolica — dunque — le viene unicamente dal rapporto con l’altra metà. E quando, appunto, anni e generazioni dopo, i due portatori e i loro discendenti la “simboleggiano” mettendole insieme, essi vi riconoscono il pegno di uno stesso contratto, di una stessa alleanza. È quindi la comunicazione stabilita tra i due partner che fa il simbolo. Esso è l’operatore di un patto sociale di riconoscimento reciproco, perciò, un mediatore di identità»31. 30
G. RUGGIERI, Ritrovare il Concilio, Torino 2012, 68. L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento, cit., 80. Si tenga presente che l’autore definisce l’ordine simbolico come «l’insieme coerente di valori sociali, cognitivi, etici, estetici, filosofici, politici, culinari, di abbigliamento ecc.; valori che, inculcati sin dalla prima infanzia, sono talmente integrati in ognuno da parlare in qualche modo “a fior di pelle”, e sono così ovvi ed evidenti da non poter essere messi in questione. Questo 31
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Ogni elemento (oggetto, parola, gesto, persona, …) che, scambiato in seno a un gruppo, permette (al gruppo come tale o al singolo) di riconoscersi, di identificarsi, è “simbolo”32. La Chiesa — come ogni altro gruppo — si identifica attraverso i suoi simboli, cominciando dalla formula della confessione di fede, detto appunto “simbolo degli apostoli”. Il nostro autore nota che il simbolo introduce in un ordine a cui esso stesso appartiene e in ciò si distingue dal segno. Da qui la funzione prima del simbolo: «articolare colui che le emette o lo riceve con il suo mondo culturale (sociale, religioso, economico …) e così di identificarlo come soggetto nel suo rapporto con gli altri soggetti»33. In questo modo il simbolo compie la funzione primordiale del linguaggio di cui è il testimone intrinseco: non di informare sul reale, da di informare il reale. Il simbolo da “forma” significante di “mondo” «mettendolo a distanza e strappandolo dal suo stato bruto; funzione non principalmente di denominazione, di distribuzione di etichette, ma di interpretazione, di venuta-in presenza; funzione non principalmente di rappresentazione degli oggetti, ma di comunicazione tra i soggetti»34. C’è ovviamente anche una funzione di “informazione” del linguaggio, ma proprio ciò stabilisce una tensione e una differenza tra segno e simbolo: la funzione simbolica è la prima e si colloca su un livello diverso dal segno35. insieme di valori forma un mondo coerente; il che vuol dire che ogni elemento dell’universo, della società, della vita individuale acquista il suo significato soltanto se si trova al posto giusto» (i Sacramenti, cit., 43). 32 Per esempio il pane e il vino dell’eucaristia, le vesti liturgiche, la genuflessione, l’inchino, … sono mediatori di identità cristiana. 33 L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento, cit., 86. 34 L.c. 35 Mi sembra anche interessante e pertinente ricordare qui la distinzione proposta da Chauvet tra simbolico e immaginario, inteso in senso lacaniano: l’immaginario «designa quell’istanza (Freud parla dell’ “istanza del super-io”) dello psichismo che, distinta dal reale e dal simbolico, si caratterizza “per la prevalenza della relazione dell’immagine del simile”. Ciò significa che, mentre il simbolico pone il reale a distanza, rappresentandolo e permettendogli così di integrarsi in un insieme culturalmente significante e coerente, l’immaginario tende invece a cancellare questa distanza per ritrovare l’immediatezza delle cose. Queste allora non sono più altro che
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Quando due soggetti, attraverso la ricomposizione del “simbolo”, si riconoscono come legati in un “noi” comune (una comune missione, una medesima appartenenza, una radice culturale comune, …) compiono un atto di simbolizzazione36, mediante il quale si realizza la vocazione essenziale del linguaggio: «attuare l’alleanza in cui i soggetti possono emergere e riconoscersi come tali dentro il loro mondo»37. Il corpo, o meglio la corporeità, è esso stesso soggetto e oggetto di simbolizzazione. 5. IL SIMBOLO E IL CORPO Si tratta quasi di una ovvietà: la simbolica rituale che costituisce i sacramenti richiede la «messa in scena del corpo»38. Il motivo è che l’essere-corpo è protagonista del “trasferimento” dell’uomo nel campo del linguaggio. Vi è infatti un continuo rimando «alla mediazione del tutto contingente di una lingua, di una cultura, di una storia, come al luogo stesso in cui si fa la verità del soggetto. Di questa positività, al di fuori della quale il soggetto potrebbe soltanto alienarsi nel regno delle fantasie, il corpo è l’espressione primordiale»39. Secondo la tradizione ecclesiale, proprio in questo linguaggio eminentemente sensibile e corporeo «si compie la comunicazione più “spirituale” di Dio (quella dello Sprinto Santo in persona) e, dunque, la verità del lo specchio in cui il soggetto si proietta e dove tenta di ritrovare (certo, inconsciamente) la propria immagine abbellita. Si ha dunque a che fare con una cancellazione della differenza o dell’alterità per ritrovare l’immagine del simile. E non si fa che tornare sempre al medesimo, cioè al soggetto stesso inevitabilmente idealizzato» (i Sacramenti, cit., 44). 36 La simbolizzazione è dunque un processo che rende “significativo” un atto, un oggetto, una postura … Chauvet lo struttura in quattro momenti: «a) La simbolizzazione è un atto e non un’idea […] b) Ognuno degli elementi del simbolo acquista pertinenza soltanto nel suo rapporto con l’altro […] c) L’efficacia del simbolo non è legata al suo valore [materiale] […] d) Infine, l’atto di simbolizzazione […] è insieme rivelatore e operatore […] È appunto questa una delle caratteristiche maggiori del simbolo: esso non agisce se non rivelando; e viceversa: non rivela se non agendo» (i Sacramenti, cit., 124-126). 37 L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento, cit., 92. 38 Ibid., 99. 39 L.c.
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soggetto credente. Così, i sacramenti ci attestano che la dimensione più vera della fede si realizza soltanto nel luogo concreto del corpo»40. Il superamento della concezione dualista dell’Occidente, che contrappone spirito e corpo, visibile e invisibile, essenza immutabile e divenire nell’essere, va in parallelo alla messa in discussione della concezione strumentale del linguaggio e della corporeità: «L’uomo esiste soltanto come corporeità il cui luogo concreto è sempre il proprio corpo. Questa corporeità è la stessa sua parola»41. Il corpo è arcisimbolo42, simbolo originario. Questo significa che, in relazione al discorso sul soggetto umano nella sua interezza, è necessario riconoscere che il soggetto è al contempo biologico e simbolico. Chauvet, in effetti, parla del soggetto umano come corpo di significato, “corpo parlato”43. In ultima analisi, in lui il soggetto è pluridimensionale, diversamente dalla bidimensionalità di alcune scuole psicoanalitiche. In questo l’autore è molto vicino alla consapevolezza del corpo di Merleau-Ponty; Chauvet, per esempio, vuole evitare una visione ingenua del corpo fisico, come ponte tra una mente immateriale e il mondo materiale, quello che sta “fuori dalla pelle”. Questo modo di pensare potrebbe facilmente cadere in quella tendenza che considera il 40
L.c. Ibid., 103. 42 Chauvet riprende l’espressione da D. DUBARLE, Pratique du symbole et connaissance de Dieu, in Le Mythe et le symbole, Paris 1977, 243. È «arci-simbolo» «perché è nel corpo che si articolano il dentro e il fuori, l’io e l’altro, la natura e la cultura, il bisogno e la domanda, il desiderio e la parola. Questa esiste in quanto originariamente inserita nel corpo e, dunque, onticamente, in discorsi e in enunciati. Certo, è al di qua di questi ultimi, nei loro “spazi bianchi”, che la parola si dice. Ma discorsi ed enunciati sono necessari per dare “luogo” a questi spazi bianchi da cui la parola può sorgere. Una parola che pretendesse di darsi in una sorta di purezza trasparente è un’illusione. Nessuna parola sfugge alla sua laboriosa iscrizione in un corpo, in una storia, in una lingua, in un sistema di segni, in una trama discorsiva. È questa la legge: legge della mediazione. Legge del corpo» (L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramenti, cit., 106). Il concetto di corpo come arci-simbolo è riproposto nel 1995 in The Liturgy in its Symbolic Space, cit. VIII, dove si ribadisce che il corpo individuale è il luogo in cui si realizza una articolazione simbolica che è unica e per ogni individuo, nella storia propria del suo desiderio, pur essendo corpo di tradizione, corpo di cultura, corpo cosmico di natura. 43 Simbolo e sacramento, cit. 105. 41
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corpo in oggetto, un impedimento all’ideale disincarnato di consapevolezza (che ovviamente Chauvet rifiuta). Per evitare questa tendenza Chauvet parla di “corpo sono io” e porta l’esempio della cipolla che non consiste nella semplice somma delle foglie e nelle foglie nel loro insieme, la cipolla è le sue foglie44. Ciò che Gary Brent Madison dice di Merleau-Ponty si può applicare al nostro: l’esistenza umana è percezione [o corpo] di consapevolezza, è strettamente legata con l’esistenza [umana] come corpo e consapevolezza, ma cansapevolezza e corpo sono due aspetti di una certa presenza nel mondo (in termini heideggeriani del Dasein)45. Il corpo che viene messo in scena nella liturgia è innanzi tutto il corpo stesso dell’uomo in tutte le sue possibilità espressive: vocali, gestuali, posturali. Ciò significa che la corporeità come tale, nel momento stesso che entra in gioco, si mostra nella sua dimensione relazionale; è un corpo che si esprime e si relaziona (con la voce, con i gesti, con le varie posture) a Dio, agli altri, a se stesso. Non è, dunque, solo la “condizione, ma il luogo stesso della liturgia”. 6. A MO’ DI CONCLUSIONE: LA SIMBOLIZZAZIONE DEL CORPO La simbolizzazione è dunque l’attribuzione di un significato ad un oggetto o a un’azione nel contesto dell’ordine simbolico dato. Per concludere cito un testo di Ledure ripreso dallo stesso Chauvet e che ben sintetizza il perché e il senso della simbolizzazione del corpo nei sacramenti: «L’uomo parla di Dio. Ora, la corporeità traccia la parola fondamentale, la sola che l’uomo possa intendere […]. Il corpo crea così il luogo di Dio in cui l’uomo possa riconoscerlo, formula un linguaggio nel quale l’uomo potrà intendere il mistero. Sposando il mistero dell’uomo il mistero di Dio prende corpo nell’uomo»46.
44
Ibid., 103 ss. Cfr. G.B. MADISON, The Phenomenology of Merleau-Ponty, Athens 1981, 26. 46 Y. LEDURE, Si Dieu s’efface. La corporéité comme lieu d’une affirmation de Dieu, Paris 1975, 66-67 (cit. in L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento, cit., 305). 45
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INDICE
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5
A GUISA D’INTRODUZIONE: L’UTILITÀ DI QUESTO LIBRO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . .
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13
IL CORPO DI GESÙ NEL VANGELO DI MARCO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . 1. Lo sguardo di Gesù . . . . 2. Il toccare . . . . . 3. La compagnia e lo sdegno . . . 4. La commozione delle viscere . . . 5. L’urlo della morte . . . . 6. Il corpo donato . . . . Conclusione . . . . .
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15 17 19 22 23 25 25 26
IL CORPO COME CONFINE: RITI DI INCLUSIONE E DI ESCLUSIONE (CONCILI DI ANCYRA E NEOCESAREA, 314-319) (Teresa Sardella) . . . . . . . . 1. Corpo e rito . . . . . . . . 2. Riti di inclusione: a) battesimo; b) ordinazione . . . 3. Colpa, esclusione, penitenza, riammissione . . . .
27 27 32 40
IL CORPO NELL’ULTIMO AGOSTINO: IL DE NUPTIIS ET CONCUPISCENTIA. IN DIALOGO CON PETER BROWN (Francesco Aleo) . . . . . . . .
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SOMMARIO
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Premessa . . . . . . Introduzione . . . . . . 1. Il De nuptiis et concupiscentia . . 2. In dialogo con Peter Brown . . . 3. Corpi di uomini, di donne e di schiavi . 4. Il Corpus paolinum . . . . 5. Testimonianze del Cristianesimo pre-niceno . 6. Agostino d’Ippona: coniugium e concubinatus 7. L’ultimo Agostino di Peter Brown . . Conclusioni . . . . .
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57 59 61 67 69 72 74 85 87 90
CORPO E GESTO NELLA PARAFRASI DI NONNO DI PANOPOLI (Arianna Rotondo) . . . . . . . . 1. Nonno e la sua opera . . . . . . . 2. Corpo e gesto di Gesù . . . . . . . 3. Il corpo in preghiera . . . . . . . 4. Un corpo/cadavere «trafitto» ad una croce . . . . 5. Il corpo del risorto: da «cadavere sempre vivo» a «pensiero che vola» 6. I gesti . . . . . . . . .
93 93 96 100 102 103 106
IL CORPO DI RADEGONDA TRA EROS E MARTIRIO SCRITTURA DI VENANZIO FORTUNATO (Rossana Barcellona) . . . . . 1. Il corpo nel cristianesimo . . . . 2. Il corpo di Radegonda . . . . .
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CORPI E ANIME NELLE PREDICHE DEL CLARIO (1495-1555) (Roberto Osculati) . . . . 1. O praesepe adorandum et admirandum 2. Circumcidendum est praeputium cordis 3. Perinde pallescere . . . 4. Tanta et tam absurda inaequalitas . 5. Natura, lex, evangelium. . . 6. Magnus Basilius . . .
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. . . . . . . . . .
NELLA . . .
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VESCOVO ISIDORO . . . . . . .
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127 130 135 138 139 143 145
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DISEGNI DELL’ANIMA E LINGUAGGIO DEL CORPO NELL’APOSTOLATO GEORGIANO DI FRA’ CRISTOFORO CASTELLI (1632-1655) (Marilena Modica) . . . . . . . .
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IL CORPO SCONFINATO DI ANNA KATHARINA EMMERICK (TRA)SCRITTO DA CLEMENS BRENTANO (Vincenza Scuderi) . . . . . . . .
191
DEL SENTIRE. IL CORPO IN DOSTOEVSKIJ E IN PIRANDELLO TRA POETICA E RISCRITTURA (Antonio Sichera) . . . . . . . . 1. Marmelàdov e il linguaggio del sentimento . . . . 2. Attraverso Dostoevskij: corpo e sentimento in Sopra e sotto. 3. Marmelàdov ‘umorista’ . . . . . .
201 201 208 212
ALLEGORIE DELLA CONDIZIONE UMANA IN TESTORI. TESTE FRACASSATE, TESTE MOZZE, CRANI E “CRAPE” (Rosa Maria Monastra) . . . . . . . 1. Testori, homo religiosus . . . . . . 2. Visioni capitali . . . . . . . 3. Il capro espiatorio . . . . . . . 4. Decollazioni . . . . . . . . 5. Il cranio, la croce e la gloria . . . . . . 6. L’«ossea bellezza» degli angeli sterminatori . . . . 7. Allegorie, emblemi . . . . . . .
219 219 221 223 226 239 244 246
LA SIMBOLIZZAZIONE DEL CORPO NELLA TEOLOGIA SACRAMENTARIA DI L.-M. CHAUVET (Maurizio Aliotta) . . . . . . . . 1. Nota biografica e premesse culturali . . . . . 2. L’onda lunga della corporeità riscoperta . . . . 3. La mediazione necessaria . . . . . . 4. Simbolo e sacramenti . . . . . . . 5. Il simbolo e il corpo . . . . . . . 6. A mo’ di conclusione: la simbolizzazione del corpo . . .
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QUADERNI DI SYNAXIS 30 SYNAXIS XXXI/1 – 2013
QUADERNI DEL CESIFER 7
Pubblicazione realizzata con il contributo STUDIO TEOLOGICO NI GRAFISER Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, S. PAOLO ROINA Ambientali, Pubblica Istruzione. CATANIA
Direttore: Gaetano Zito Direttore responsabile: Salvatore Consoli Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri Euro 15,00 (i.i)
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IL CORPO E L’ESPERIENZA RELIGIOSA
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