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SYNAXIS
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SYNAXIS Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania
Comitato scientifico: Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Attilio Gangemi, G. Alberto Neglia, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito
Comitato di redazione: Francesco Aleo, Nunzio Capizzi, Guglielmo Giombanco, Rosario Gisana, Salvatore Magrì, Vittorio Rocca, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito
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XXXI/2 – 2013
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Sommario:
XXXI/2 2013
Finito di stampare nel luglio 2014 da Grafiser s.r.l. 94018 Troina (En) Tel. 0935 657813 - Fax 0935 653438
• J-L. BRUGUÈS, Il Vaticano II concilio del futuro? • J-L. BRUGUÈS, Quale futuro per il Cristianesimo? • F. ALEO, Le Erotapokrìseis nel Lògos II (Coll. I) del Corpus macarianum. «Maria seconda Eva»: considerazioni su un orientamento ermeneutico • S. MAGRÌ, I riti postbattesimali nella tradizione liturgica dei secoli II-V • F. CONIGLIARO, Modernità in Luigi Sturzo • A. PENNISI, Il rapporto tra don Primo Mazzolari e il Concilio Vaticano II • S.M. CALOGERO, Il Monastero di San Benedetto dei padri cassinesi in Militello Val Catania • V.G. RIZZONE, Eremitismo e trogloditismo nella diocesi di Siracusa • G. BASILE, Roboetica, Un nuovo ponte verso la conoscenza • E. PISCIONE, L’omelia al prologo del Vangelo di San Giovanni di Scoto Eriugena • G. ZITO, Sicilia: terra di dialogo tra identità e cultura. L’incontro interreligioso per la integrazione tra i popoli • Presentazioni • Recensioni • Notiziario
Direttore: Gaetano Zito Direttore responsabile: Salvatore Consoli Pubblicazione realizzata con il contributo Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali, Pubblica Istruzione.
Euro 25,00 (i.i)
EDIZIONI GRAFISER TROINA
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri
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SYNAXIS XXXI/2 – 2013
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2013
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Sezione teologica IL VATICANO II CONCILIO DEL FUTURO? (Jean-Louis Bruguès) . . . . . . . 9 La caratteristica propria degli avvenimenti è che questi trascorrono nel tempo; non servirebbe quindi a niente voler mantenere un qualsiasi spirito del Concilio al di là delle generazioni, e persino al di là dei testi. Lo spirito non sopravvive al tempo se non si incarna negli scritti e nelle pratiche. La storia della Chiesa è intessuta di una fitta trama di riforme sempre rinnovate. Una di queste, l’ultima, è proprio quella inaugurata ed auspicata dal Concilio Vaticano II. È nel mettersi in ascolto e nel relazionarsi con l’ “altro” che si può trovare la vera chiave ermeneutica del Concilio Vaticano II. The distinctive feature of these events is that they spend time; then nothing would not want to keep any spirit of the Council beyond the generations, and even beyond the texts. The spirit does not survive long if not embodied in the writings and practices. The Church's history is interwoven with a dense network of reforms ever renewed. One of these, the last, is the one inaugurated and called for by the Second Vatican Council. It is in to listen and relate to the '"other" that you can find the real key hermeneutics of Vatican II. QUALE FUTURO PER IL CRISTIANESIMO? (Jean-Louis Bruguès) . . . . . . . 23 L’avvento della modernità con l’Illuminismo preconizzavano un’«uscita delle religioni», confinate allo spazio limitato della vita privata e della coscienza individuale, rendendo il cristianesimo una semplice questione di vita personale e di scelta personale. È, tuttavia, con la secolarizzazione che compare, prima di tutto, un processo storico nel quale possono individuarsi tre tappe importanti. Esse sono: il processo a Dio, nel XVIII secolo; il rifiuto di Dio, nel XIX secolo; l’uomo demiurgo al posto di Dio, nel XX secolo. La Chiesa ha scelto come ambito privilegiato di espressione pubblica
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la cultura, la via dell’intelligenza. La ragione intuisce che, in qualche modo, deve esistere un Dio che sia all’origine di tutte le cose. L’approccio verso Dio non è quindi irrazionale, ma è invece profondamente razionale e quindi fonte di libertà. Fra i compiti più urgenti per la Chiesa di oggi vi sono proprio quelli di ridare il piacere dell’eternità; di ricordare i cammini della speranza; in termini più secolarizzati, di insegnare di nuovo alle nostre società a credere nel loro avvenire. The advent of modernity with the Enlightenment, foretold a «output of religions», confined to the limited space of privacy and of individual consciousness, making Christianity a simple matter of personal choice and personal life. It is, however, with the secularization that appears, first of all, a historical process in which we can identify three important stages. They are: the trial of God, in the eighteenth century; the rejection of God, in the nineteenth century; Demiurge man instead of God, in the twentieth century. The Church has chosen as the privileged expression of public culture, the way of intelligence. The reason realizes that, somehow, there must be a God who is the origin of all things. The approach to God is therefore not irrational, but instead is deeply rational and therefore a source of freedom. Among the most urgent tasks for the Church of today there are those to restore the pleasure of eternity; to remember the paths of hope; in more secular terms, to teach back to our society to believe in their future. LE EROTAPOKRÌSEIS NEL LÒGOS II (COLL. I) DEL CORPUS MACARIANUM. «MARIA SECONDA EVA»: CONSIDERAZIONI SU UN ORIENTAMENTO ERMENEUTICO (Francesco Aleo) . . . . . . . . 35 Le Erotapokrìseis del Corpus macarianum rappresentano la più valida testimonianza del rapporto e del dialogo tra monaci che si svolgeva all’interno delle comunità ascetiche dello Pseudo-Macario. In esse si evince la sua particolare paidagoghìa che si avvale di pratiche di umanazione, all’insegna dell’inabitazione personale dello Spirito Santo, nell’anima santificata dalla grazia. In particolare, si evidenzia un orientamento ermeneutico nell’esegesi di Gen 3 che porta a parlare di Maria come la «seconda Eva». The Corpus macarianum’s Erotapkrìseis represents the proof of a relation and dialogue between monks into Pseudo-Macarian’s ascetical communities. In these, his particular paidagoghìa avails oneself practices of humanization for a personal indwuelling of Holy Spirit in the soul sanctified by Grace. Particularly, there is an hermeneutic orientation in exegesis of Gen 3, with Mary as «second Eve». I RITI POSTBATTESIMALI NELLA TRADIZIONE LITURGICA DEI SECOLI II-V (Salvatore Magrì) . . . . . . . . 75 Servendosi di alcune fonti liturgiche relative ai secoli II-V, si prendono in esame le vicende del rito della confermazione con le relative trasformazioni che esso ha subito sia in Oriente, che in Occidente. Risulta così che in Oriente, fin dall’antichità, il rito della crismazione non era ancora chiaramente distinto dal battesimo. In Occidente, invece, troviamo il rito della consignatio, in quella parte dell’Iniziazione cristiana, nella quale fu poi ravvisato distintamente il sacramento della confermazione. Analizzando
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ed esaminando le fonti liturgiche ed i testi patristici, si vagliano le soluzioni proposte dagli studiosi moderni. Using several liturgical sources since II forward Vth century A.D., the Confirmation rite is studied with his transformations in Christian East and West. In the East, therefore, the chrism was into baptism rite. In the West, on the contrary, the rite of consignation was into Christian initiation where born the Confirmation as sacrament. Studyng liturgical sources and patristic textes, are examinated various solutions of modern studies.
Sezione miscellanea MODERNITÀ IN LUIGI STURZO (Francesco Conigliaro) . . . . . . . 113 La categoria più efficace per raccogliere ed esprimere sinteticamente le caratteristiche più evidenti della modernità di e in L. Sturzo è la categoria razionalità, che è un vero e proprio organo della libertà, della responsabilità e dell’organizzazione della società. Una corretta visione della politica non può mai rinunziare alla sinergia di razionalità, libertà e moralità: essa è volta ad accompagnare, animare e qualificare la vita e la storia della persona umana all’interno della società. A tale scopo è necessario che lo Stato sia veramente Stato di diritto e capace di fruire pienamente della sovranità. Mezzi necessari a ciò sono l’aconfessionalismo, l’antistatalismo e l’opzione per la democrazia. Questa è la forma migliore di organizzazione della società tra le tante conosciute, ma a condizione che non se ne abusi, come accade in Italia, dove è costantemente proclamata e celebrata a parole e sistematicamente tradita con i fatti. L. Sturzo ferma l’attenzione su ambiti particolari, come l’internazionalismo, le caratteristiche del popolo italiano, il Mezzogiorno d’Italia e la Regione Sicilia, scelti quali ambiti nei quali applicare e verificare la sinergia tra razionalità, libertà e moralità. The category most effective way to gather and express synthetically the most obvious characteristics of modernity and rationality in L. Sturzo is the category, which is a real organ of freedom, responsibility and the organization of society. A correct view of politics can never renounce the synergy of rationality, freedom and morality: it is time to accompany, encourage and qualify the life and history of the human person in society. For this purpose it is necessary that the state is really the rule of law and able to make full use of sovereignty. The necessary means are the confessionalism, the antistatism and the option to democracy. This is the best form of social organization among the many known, but on condition that is not abuse, as in Italy, where it is constantly proclaimed and celebrated in words and systematically betrayed by the facts. L. Sturzo fix his attention on particular areas, such as internationalism, the characteristics of the Italian people, southern Italy and Sicily Region, chosen as areas in which to apply and test the synergy between rationality, freedom and morality. IL RAPPORTO TRA DON PRIMO MAZZOLARI E IL CONCILIO VATICANO II (Antonio Pennisi) . . . . . . . . 139 Il giudizio critico, diffidente e ostile sul mondo moderno era condiviso in parte anche
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dalla cultura cattolica e dal cattolicesimo italiano. L’annuncio del Concilio Vaticano II, fatto da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, veniva così a sanare, in quegli anni, una vera e propria incomunicabilità fra la Chiesa e l’umanità. Ad una Chiesa come società perfetta e indipendente che si riteneva quasi una cittadella assediata da un mondo perverso che tenta di sopraffarla, la rilettura “pastorale” della teologia del Vaticano II pone in alternativa una Chiesa al servizio dei fratelli, intesa come impegno comune e corresponsabile dell’essere Chiesa, in modo da riservare un’attenzione approfondita ai grandi problemi dell’umanità contemporanea. In questo contesto, Don Primo Mazzolari denuncia ogni forma di dicotomia tra fede e storia, tra contemplazione e azione, tra mistica e politica, in vista di una nuova presenza cristiana nella società. The critical judgment, suspicious and hostile to the modern world was shared in part by the Italian Catholic culture and Catholicism. The announcement of the Second Vatican Council, made by Pope John XXIII on 25 January 1959, came on to heal, in those years, a real lack of communication between the Church and humanity. At a Church as a perfect society and independent thought that almost a citadel besieged by an evil world that tries to overwhelm, rereading "pastoral" theology of Vatican II offered as an alternative to a church service of their brothers, understood as a common commitment and responsible being the Church, in order to reserve any serious attention to the great problems of humanity today. In this context, Don Primo Mazzolari denounces all forms of dichotomy between faith and history, between contemplation and action, between mysticism and politics, in view of a new Christian presence in society. IL MONASTERO DI SAN BENEDETTO DEI PADRI CASSINESI IN MILITELLO VAL DI CATANIA (Salvatore Maria Calogero) . . . . . . . 153 La costruzione del monastero di San Benedetto segnò la direttiva di espansione della Terra di Militello voluta da don Francesco Branciforte e da sua moglie donna Giovanna d’Austria. Le iniziative promosse dai due coniugi, dal punto di vista culturale e urbanistico, ha portato gli storici a definire questo periodo il “miracolo” di una capitale. Quando nel 1614 fu fondato il monastero di San Benedetto a Militello, quello catanese di San Nicolò l’Arena era in corso di ultimazione, e fu preso come modello tipologico per l’edificio militellese, indicato come il terzo, in magnificenza, fra i monasteri siciliani. The building of St. Benedict monastery marked the Directive of the expansion of Militello land promoted by Don Francesco Branciforte and his wife Joanna of Austria. The initiatives undertaken by the two spouses, from cultural and urban perspective, let historians call this period the "miracle" of a capital. When in 1614 the monastery was founded by St. Benedict in Militello, the one of San Nicolò l'Arena in Catania was about to be completed, and it was taken as a model for the building in Militello, listed as the third for its magnificence, amoung all the Sicilian monasteries.
Note EREMITISMO E TROGLODITISMO NELLA DIOCESI DI SIRACUSA (Vittorio G. Rizzone) . . . . . . . .
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Il contributo vuole far luce sulle relazioni tra l’esperienza eremitica ed il vivere in grotta nel territorio dell’antica diocesi di Siracusa, corrispondente alla cuspide della Sicilia sud-orientale, mettendo in evidenza i casi di Noto, Lentini, Augusta, Siracusa, Mineo, Rosolini e Modica, attraverso l’esame degli avanzi archeologici e delle fonti storiche. Si tratta di un fenomeno suburbano o rurale, documentato a partire dagli inizi del XIV secolo, che riceve impulso dal movimento penitenziale francescano. Esso, poi, viene particolarmente incentivato tra il XVI e il XVII secolo, sotto l’influenza dello spirito della Controriforma. The aim of the paper is to shed light on the relations between hermitical experience and cave-dwelling in South-East Sicily, in the area coinciding with the ancient diocese of Syracuse. The troglodytic hermitages of Noto, Lentini, Augusta, Syracuse, Mineo, Rosolini and Modica are stressed through the examination of their archaeological remains and respective historical sources. It’s a suburban or rural fact, historically testified form the beginnings of the XIV century, when it is boosted by Franciscan penitential movement. Then, it receives a renewed boost during the XVI and the XVII centuries, as a result of the spirit of the Counter-reformation. ROBOETICA, UN NUOVO PONTE VERSO LA CONOSCENZA (Giovanni Basile) . . . . . . . . 207 Stiamo assistendo da qualche tempo ai segnali di una invasione robotica. Ormai ogni giorno sui mezzi di comunicazione appare notizia dell’ultimo modello di robot dall’aspetto umano. Su questa base sta riprendendo campo lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, il rilancio di robot coscienti, che potrebbero insidiare il primato dell’uomo come specie più intelligente del creato. Sono così sorti i primi interrogativi, i primi dubbi che hanno spinto verso la necessità di dare un’etica alla robotica, quindi di fondare una “roboetica”, che riguarda la progettazione e l’uso sempre più etico dei robot e delle macchine intelligenti. Ma non è un'esigenza di ordine pratico. Siamo davanti alla necessità “di sapere che cosa dobbiamo fare”. Oggi, all'alba di un nuovo millennio, l'essere umano è costretto dal proprio progresso a ripensare sé stesso. Il vero problema di fronte al quale ci pone la roboetica è il problema della nostra identità, problema squisitamente antropologico: “vogliamo sapere chi siamo”. Il fattore che ci costituisce come persone è la nostra identità e deve essere questo il presupposto di ogni ulteriore discorso sull'uomo, anche teologico. For a certain period, we are witnessing signals from a robotic invasion. By now, the latest models of robots are presented in the news almost every day, which has an even closer appearance of a human. On this basic the development of the artificial intelligence is getting more and more important, the relaunch of the conscientious robots, which could ambush the primacy of the human being as more intelligent specie than the created.That is how new questions have arisen, the first doubts which pushed towards the necessity to give ethics to the robotics, so to establish a so called ‘roboethics’ which regards the designing and the use of an even more ethical way of robots and of intelligent machines. However, there is no need for practical necessity. We are in front of the necessity ‘to know what we have to do’. Today at the very beginning of a new century, the human being is forced by his own progress to think about
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himself. The real problem that the roboethics claims, is the problematic of our identity, a pure anthropological problem: “We want to know who we are” The fact that makes us a person is our identity and that has to be the postulation of any further discussion about the human being, theological, too. L’OMELIA AL PROLOGO DEL VANGELO DI SAN GIOVANNI DI SCOTO ERIUGENA (Enrico Piscione) . . . . . . . . 229 L’Omelia al Prologo del Vangelo di S. Giovanni di Scoto Eriugena esprime l’aspetto mistico del filosofo scozzese. La parola di Dio è presentata come un’aquila che, dall’alto dei cieli, guarda questo mondo per includerlo in una dimensione religiosa. Il linguaggio dell’Autore è altamente poetico. The Homely to the Prologue of St John’s Gospel, written by Scot Eriugena, voices the mystic side of the Scottish philosopher. God’s word is presented as an eagle which, from high above, looks at this world to include it in a religious dimension. The Author’s language is highly poetic. SICILIA: TERRA DI DIALOGO TRA IDENTITÀ E CULTURA. L’INCONTRO INTERRELIGIOSO PER L’INTEGRAZIONE TRA I POPOLI (Gaetano Zito) . . . . . . . . 235 Al di là di rari esempi virtuosi, è possibile riscontrare una progettazione — e realizzazione — di percorsi culturali che lascino una traccia significativa per il futuro. Il più delle volte non vi è un’effettiva volontà di investire in cultura per incidere sul tessuto sociale contemporaneo. La cultura va intesa non nel senso di sapere qualcosa, di acquisire un bagaglio di conoscenze scolastiche, pur se di livello superiore, ma unita all’identità, ad esse va attribuita una valenza del tutto antropologica. Così ci si percepisce figli e non orfani se ci si scommette nella ricerca, nella conoscenza e nella trasmissione scientifica della storia. Further rare virtuous istances, it’s possible to verify cultural routes for the future. Often is’nt a real will to invest in culture to affect social system. Culture don’t means to know anything or acquire bookish learning; culture and identity have an anthropological valence. The search, knowledge and scientific transmission of history make sons not orphans.
Presentazioni Recensioni .
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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
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Sezione teologica Synaxis XXXI/2 (2013) 9-22
IL VATICANO II CONCILIO DEL FUTURO?*
JEAN-LOUIS BRUGUÈS, O.P.**
Ho esitato a lungo prima di scegliere il tema di questa conferenza. Avevo pensato, in un primo tempo, di orientarmi su un argomento tratto dalla mia esperienza personale come insegnante. Per venticinque anni, infatti, dapprima a Tolosa, poi a Friburgo (Svizzera), ho insegnato teologia morale generale. Per diciotto anni sono stato membro della Commissione Teologica Internazionale. Roma però ama celebrare gli anniversari: mi è sembrato che, nel momento in cui la nostra Chiesa celebra i cinquanta anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, fosse preferibile guardare in quella direzione. Non parlerò della storia del Concilio. So bene che questo aspetto è stato trattato in profondità in Italia, particolarmente dalla cosiddetta scuola di Bologna, con G. Alberigo e i suoi collaboratori, i cui lavori, pur considerevoli, restano oggetto di discussione. Non parlerò neanche della turbolenza dei due decenni successivi al Concilio, quello che è stato spesso chiamato il “metaconcilio”. Vi propongo di guardare avanti. È proprio questo il titolo che ho scelto per la conferenza: Il Vaticano II concilio del futuro? Il Concilio può servirci da bussola per i tempi futuri? Si racconta che, interrogato sull’importanza storica della Rivoluzione francese, Zhou Enlai, all’epoca primo ministro del Presidente Mao, avesse risposto: «È ancora troppo presto per dirlo». Una simile * Prolusione tenuta in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico dello Studio Teologico S. Paolo di Catania il 26 ottobre 2012. ** Arcivescovo, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
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Jean-Louis Bruguès
prudenza non sarebbe forse appropriata quando si tratta di valutare le ripercussioni del Concilio Vaticano II? L’impatto dei concili si può valutare solamente con le lenti del lungo termine. Di quanto tempo ha avuto bisogno la Chiesa per misurare la profondità delle riforme volute dal Concilio di Trento, o la portata del Laterano IV, nel 1215, che definisce la fede cattolica in opposizione alle eresie catare, o del Concilio di Nicea, all’aurora della nostra teologia, completato, più che corretto, da quello di Calcedonia, che ha marcato la nascita del Credo che ancora sostiene la nostra fede, a circa millesettecento anni di distanza? Ciò che sembrava determinante in quel momento è stato cancellato nell’arco di pochi anni, mentre le generazioni più lontane ne raccoglievano dei frutti inattesi. Indossare tali occhiali ci obbliga, evidentemente, a superare le passioni del momento: che cosa resterà domani delle polemiche del tempo presente? Una simile scelta ci costringe anche a perdere un po’ di vista la pertinenza di questo momento unico: non si tratta affatto di negare il carattere decisivo di questo avvenimento, non solo per la Chiesa, ma per il mondo moderno. Il Generale De Gaulle, che di storia se ne intendeva, confidò un giorno che considerava il Concilio Vaticano II l’avvenimento più importante del XX secolo; nello stesso tempo, il Dipartimento di Stato scriveva: “Non è chiaro quale potrebbe essere il rapporto di utilità tra la politica statunitense e quel pittoresco meeting religioso”. In ogni caso, quel secolo è ormai passato. L’elenco dei testimoni diretti, per non dire degli attori, si fa ogni giorno più scarno e più sottile; presto si cancellerà completamente. La caratteristica propria degli avvenimenti è di trascorrere, e non servirebbe a niente voler mantenere un qualsiasi spirito del Concilio al di là delle generazioni, e persino al di là dei testi. Lo spirito non sopravvive al tempo se non si incarna negli scritti e nelle pratiche. Arriva immancabilmente il giorno in cui le più profonde riforme hanno bisogno, a loro volta, di essere riformate. «Tutto è sempre da riformare», sospirava il Maestro di Santiago. Il tessuto della storia della Chiesa si trova così costituito da una fitta trama di riforme sempre rinnovate. Mi capita spesso di restare incantato davanti a una tela. Con i suoi ampi piani in grigio, ocra e beige, il quadro si propone di farci entrare
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Il Vaticano II concilio del futuro?
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in un clima di armonia. Sulla sinistra, in alto, in piedi e come distesi su una linea musicale, le mani nascoste nelle larghe maniche di una semplice tunica chiara, quattro personaggi si sono messi a parlare. Non si vedono, tuttavia, né i loro occhi né le loro bocche. Formano un coro, un quartetto; ciascuno dei volti, fortemente stilizzato, guarda in una direzione differente, forse un punto cardinale. A destra, un altro personaggio sembra seduto su una seconda linea musicale collocata sotto la prima; i suoi vestiti più scuri fanno pensare che svolga un ruolo centrale nella composizione immaginata dal pittore. Non solleva gli occhi, non guarda da nessuna parte, tende la mente verso quelli che lo sovrastano. Questo personaggio ascolta in prima istanza non con i sensi — ancora una volta il suo volto liscio non possiede nessun organo —, ma nel più profondo di se stesso. C’è in questa composizione come una reminiscenza della filosofia di Emmanuel Lévinas, che ci ricordava che l’altro ci sovrasta sempre e che siamo venuti al mondo in debito, ai piedi di quella scogliera. Il pittore, Tong, ha intitolato la sua opera semplicemente: L’ascolto degli altri. Ascoltare è una delle parole più utilizzate nella Bibbia. «Ascolta, Israele…» (Dt 6, 4): così cominciava, nella prima Alleanza, ogni espressione del Signore nel rivolgersi al suo popolo. Mi è sembrato che questo quadro parlasse anche del nostro ultimo Concilio. Meglio ancora, che ne fornisse una chiave d’interpretazione: il Vaticano II ha voluto collocare l’ascolto degli altri al centro della Chiesa, della società, in fin dei conti, di ogni vita umana. Questo ascolto si declina in tre proposizioni: il gusto dell’Altro, la sollecitudine per l’altro, infine la percezione di sé stesso come un altro. Ciascuna di esse dovrebbe permetterci di avviare delle «forti tendenze», per parlare come gli economisti, che irrigheranno probabilmente il nostro futuro. 1. IL GUSTO DELL’ALTRO 1. Gli altri, ma chi sono gli altri? L’altro, è innanzitutto l’Altro, con la A maiuscola, il Tutto-Altro, Dio. Se si fosse domandato ai Padri, l’8 dicembre 1965, all’epoca della chiusura solenne, quale testo avrebbe prodotto la più lunga ripercussione storica, dubito che la maggioranza
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Jean-Louis Bruguès
avrebbe risposto: Dei Verbum. Cinquant’anni più tardi, quella Costituzione figura da passaggio obbligato, come un’apertura dalla quale sono come suggeriti i grandi temi sviluppati dall’intera opera musicale. È questo documento che ha fornito al Concilio la sua tonalità dominante. L’ascolto religioso della Parola di Dio — così comincia — dà il gusto dell’Altro, il gusto di Dio come prima cosa e, di conseguenza, il gusto dell’altro fatto ad immagine di Dio, infine il gusto di tutta l’opera divina, dell’intera creazione. Dio parla; come comprenderlo? Come interpretare la Scrittura? Il Sinodo dei Vescovi del 2008, dedicato alla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, ha stabilito una distinzione metodologica essenziale già operata dalla Costituzione conciliare (n. 12). Dio parla al livello dell’uomo; è normale dunque che l’uomo utilizzi tutte le risorse della sua intelligenza scientifica, tramite l’esegesi accademica, per ascoltare i testi. Siccome si tratta di una parola divina, conviene utilizzare, prima di tutto, quella che si potrebbe chiamare l’esegesi canonica, basandosi sulla tradizione vivente di tutta la Chiesa. La fede è prima ed ultima; le spetta il compito di guidare l’esercizio del discernimento. No, la Bibbia non è un libro del passato. Cinquant’anni dopo il Concilio, mentre si è rafforzato l’individualismo delle interpretazioni, dobbiamo ripetere: sì, il Divino interviene nella storia degli uomini. No, gli episodi riportati non si riducono ad una semplice costruzione letteraria o teologica. Sì, i fatti riferiti sono fatti veri per mezzo dei quali il Dio creatore dispiega il suo bel progetto d’amore per salvare tutti gli uomini. Il Verbo si è davvero incarnato, non è un mito. Sì, Cristo ha condiviso la nostra condizione umana, non è una bella storia scritta per i bambini o per menti semplici in cerca di qualcosa di meraviglioso. Sì, è risuscitato, e il suo corpo non è restato nel sepolcro. Saremmo numerosi qui a testimoniare di questa vera e propria infatuazione che si è verificata da una cinquantina d’anni a questa parte. Libri, riviste, collane, sessioni, formazione che fa uso dei supporti più moderni: il popolo di Dio si è appassionato alla Scrittura. I gruppi biblici sono fioriti un po’ dovunque, perfino nelle parrocchie più difficili. La Scrittura è l’anima della teologia, ricordava il Concilio; è diventata, da allora, familiare a un numero considerevole di battezzati.
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Questa prima tendenza duratura è stata incoraggiata dalla riforma liturgica, che ha permesso di comprendere una scelta più ampia di testi biblici della Messa. Il successo genera spesso degli eccessi. Capitava che il ricorso esagerato alla liturgia della Parola condannasse la liturgia propriamente eucaristica a diventare una sorta di appendice. Per questa ragione, nello spazio di soli quattro anni, la Chiesa cattolica si è dotata di un corpus impressionante relativo all’Eucarestia. Il 17 aprile 2003, Papa Giovanni Paolo II firmava l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, che trattava del rapporto tra l’Eucarestia e la Chiesa. Poco più tardi, inaugurava un anno dedicato all’Eucarestia (ottobre 2004 – ottobre 2005) con la Lettera apostolica Mane nobiscum Domine, del 7 ottobre 2004. Infine, dopo lo svolgimento di un Sinodo dedicato a questo stesso argomento, Benedetto XVI ha reso pubblica la sua Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, il 13 marzo 2007. Ci sono pochi esempi, nella storia della Chiesa, di un corpus così consistente elaborato in così poco tempo. Questa insistenza deve essere letta come la manifestazione di una volontà di fedeltà al Concilio, che aveva trattato ampiamente il tema dell’Eucarestia nella sua Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, e nella sua Costituzione sulla liturgia, Sacrosanctum concilium. 2. Le dichiarazioni rilasciate a ridosso dell’evento sembrerebbero corroborare un’opinione diventata comune: il Vaticano II è stato essenzialmente un Concilio cristocentrico. Si potrebbe mostrare che il Concilio ha anche cercato di reagire contro un cristocentrismo latino eccessivo, al fine di ricuperare qualche cosa della ricchezza pneumatica tradizionale. Certo, non esiste nessun testo conciliare dedicato alla terza Persona della Trinità, ma sono stati piantati alcuni paletti che segnaleranno le strade di domani. Dopotutto, Cristo non può essere raggiunto nel suo stesso essere di realtà significata se non nello Spirito; è nello Spirito, e unicamente in lui, che l’assemblea cristiana si accetta e si riconosce come sacramento di Cristo (cfr. Rm 8,1 ss.). È ancora lui che ispira gli uomini nel loro cammino verso il Regno del Padre, è lui che aiuta i battezzati a interpretare i segni dei tempi (GS 4), è lui che «dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra» (GS 26). La bussola di cui parlavamo al principio, infine, è proprio lui.
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Come auspicava Paolo VI: «alla cristologia, e specialmente all’ecclesiologia del Concilio, deve succedere uno studio nuovo ed un culto nuovo sullo Spirito Santo, proprio come complemento immancabile all’insegnamento conciliare» (Udienza pubblica del 6 giugno 1973). La strada che resta da percorrere sarà lunga. Avevo reso visita, un giorno, a un sacerdote anziano e molto malato. Con la semplicità di coloro che affrontano l’estrema prova della verità, mi parlò della sua vita e della sua fede. «Con Cristo - mi confidò - sono sempre rimasto in piedi; sono in contatto costante con Lui. È per questo che la Messa quotidiana rappresenta il cuore della mia spiritualità. Seguendo Cristo, non si può non rivolgere lo sguardo verso il Padre. Spesso le mie preghiere cominciano con questa invocazione: Padre. Ma lo Spirito? Mi chiedo se ho mai veramente pregato lo Spirito Santo. Per me, lo Spirito è il Grande Discreto, ma ho paura che sia stato il Grande Assente». Da molto tempo, infatti, mi chiedo se lo Spirito non sia il Grande Discreto della vita della nostra Chiesa latina. Come dare il gusto dello Spirito Santo? Sostengo che si tratta, in questo caso, di una seconda tendenza forte lanciata dal nostro Concilio. Giovanni Paolo II tentò di colmare questo vuoto con la magnifica enciclica Dominum et vivificantem, resa pubblica nel 1986, ma sembrò cadere in una sorta di spessa indifferenza. Piacque, da allora, allo Spirito manifestarsi sempre nel suo modo inatteso: esso provocò, fin dal decennio successivo al Concilio, una fioritura di movimenti e di comunità in cui, nella comunione più stretta, talvolta anche nella condivisione di vita, sacerdoti, religiosi e laici si proposero di manifestare i carismi ricevuti e di ritrovare, sotto l’impulso dello Spirito, il modello delle prime comunità cristiane. Si è parlato, allora, di una nuova primavera per la Chiesa. 2. LA SOLLECITUDINE DELL’ALTRO 1. Dal Vaticano II in poi, il magistero recente della Chiesa ha insistito sull’azione universale dello Spirito nel mondo: il fatto è che il gusto dello Spirito Santo, così come l’abbiamo appena descritto, conduce naturalmente alla preoccupazione per l’altro. Chi è questo altro? L’altro, è in prima istanza il più lontano, che si tratta di avvicinare
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e di apprezzare. Nelle relazioni del cristianesimo con le religioni che non fanno riferimento a Cristo, il Concilio ha provocato una sorta di rivoluzione copernicana. Due documenti promulgati nel 1965 illustrano questa svolta: la Dichiarazione Nostra aetate riguardante le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane che, con il tempo, è diventato uno dei testi più decisivi del Concilio, e la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Il Concilio si è riferito a due nozioni in realtà molto tradizionali, quella dei «semi del Verbo» (Decreto Ad gentes, 11), che ispira l’azione degli uomini di buona volontà al di là della diversità delle confessioni, e quella del rispetto delle coscienze, che non possono essere obbligate, per mezzo di una costrizione esterna, ad aderire a una fede, qualunque essa sia. Si è pronunciato con queste parole, che costituiscono una traccia per il nostro avvenire: «La Chiesa cattolica non rigetta nulla di ciò che è vero e santo in queste religioni. Considera con rispetto sincero questi modi di agire e di vivere…». Il Concilio chiama ad una fraternità universale. Numerosi avvenimenti di grande portata hanno cominciato a costruire questa fraternità: penso al famoso incontro di Assisi del 27 ottobre 1986, seguito da altri incontri simili. L’insegnamento magisteriale si batte, con una continuità lodevole, in favore di un dialogo rispettoso e sincero tra gli adepti delle diverse religioni. Questa sollecitudine per i più lontani, in cui scopriamo una terza tendenza forte, arricchisce le conoscenze reciproche e purifica, su questo o quell’aspetto, la comprensione che i fedeli avevano delle proprie credenze. Non dimentica, tuttavia, di sottomettere la teologia cristiana a domande difficili: qual è il posto di Cristo nell’azione salvifica delle religioni non cristiane? Il fatto che non sia presente in esse alcuna conoscenza di Cristo esclude forse una qualsiasi partecipazione all’azione del Verbo di Dio disseminata tra le nazioni? Dio avrebbe potuto scegliere altri mediatori diversi da Gesù Cristo, come sostiene oggi la cosiddetta corrente pluralistica? Contro quest’ultima, la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva pubblicato, nel 2000, la Dichiarazione Dominus Iesus, nella quale venivano ricordate «l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa». Le società caratterizzate dal pluralismo religioso, come le nostre, non potranno più fare a meno del dialogo interreligioso, diventato un
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elemento essenziale della pace sociale. Facendo appello a quest’ultimo, i poteri pubblici hanno valutato il fatto di essersi impegnati, volenti o nolenti, per un percorso di revisione delle pratiche, finora abituali, della laicità? Hanno deciso, infatti, di fare delle religioni dei veri e propri partner sociali, ciò che si chiama da poco la «laicità positiva»; non è più possibile, dunque, confinarli nell’area ristretta delle semplici convinzioni personali. Le comunità confessionali hanno così acquistato il diritto di esprimersi in quanto tali nell’arena pubblica. Mi sembra che questa revisione dovrebbe prodursi senza troppe difficoltà in Italia; in un paese come la Francia, in compenso, contrassegnato da una diffidenza istituzionalmente sostenuta verso ogni fenomeno religioso, appare come una vera rivoluzione. 2. L’altro, è anche il fratello separato. La sollecitudine per l’altro mira, in questo caso, ad avvicinare le pratiche e le convinzioni, a superare progressivamente le barriere erette dalla storia e dal peccato. Il Vaticano II nel suo Decreto Unitatis redintegratio, votato nel 1964, aveva affermato che il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani rappresentava una delle sue preoccupazioni principali. La Chiesa era stata fondata una e unica da Cristo; le divisioni tra i cristiani, dunque, costituivano un rifiuto della volontà del Signore e uno scandalo per il mondo. Quattro decenni di dialogo ecumenico hanno fatto cadere numerosi pregiudizi; alcuni ponti sono stati costruiti tra punti di vista giudicati inconciliabili. Ne è risultata una migliore comprensione delle relazioni tra la Scrittura e le Tradizioni, della natura della Chiesa e dei sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. È stato adottato un numero impressionante di documenti. Penso in particolare alla Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione, nel 1999, che ha permesso ai cattolici e ai luterani di superare alcuni conflitti d’importanza cruciale che risalivano al XVI secolo. Questa sollecitudine della comunione è diventata una sorta di leitmotiv del magistero da cinquant’anni a questa parte. L’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint, promulgata nel 1995, ricordava che il Concilio vedeva nel movimento ecumenico un’opera dello Spirito Santo che suscita nei cuori di tutti i fedeli di Cristo un ardente desiderio di unità. Questa quarta tendenza sembra oggi segnare il passo: l’entusiasmo degli inizi ha lasciato il posto a iniziative più sobrie e
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misurate. Alcuni hanno persino parlato di crisi; tuttavia, come spiegava il Cardinale W. Kasper, «una situazione di crisi è una situazione in cui i vecchi metodi sono giunti al loro termine, ma si aprono spazi a nuove possibilità». L’inter-comunione nella verità non è per domani; nuovi ostacoli hanno fatto la loro comparsa, come l’ordinazione delle donne da parte degli anglicani. L’ecumenismo resta, oggi e domani, un’ardente appello alla conversione dei cuori. 3. L’altro, ancora, è qualsiasi persona, ogni uomo che abita questo mondo. La sollecitudine per l’altro conduce allora alla sollecitudine per il mondo. Un Concilio non avrà mai il potere di un Giosuè: non ferma la storia. È diventato banale riconoscere che, durante gli ultimi cinquant’anni, l’accelerazione della storia è stata senza precedenti. Il Concilio si è limitato appena a intravedere l’avvento della globalizzazione delle economie e delle culture; non poteva prevedere la cancellazione delle ideologie, né la caduta del muro di Berlino, né l’apparizione di ipotesi che rievocano un conflitto delle civiltà, né i prodigiosi progressi della biologia applicata al corpo umano, né le inquietudini, ogni giorno più accentuate, per la salute del nostro pianeta. Parlava ancora di ateismo, quando la maggiore sfida lanciata alle religioni sarà domani quella dell’indifferenza e della perdita d’interesse per tutto ciò che ha un senso. L’ateismo moderno non è la negazione di Dio, ma l’indifferenza assoluta che si trova nell’opera maggiore di Lévy-Strauss, Tristi tropici. Tuttavia, possiamo affermare che il Vaticano II abbia inculcato nei cristiani quello che chiamerò un principio di benevolenza verso il mondo così com’è, nel quale possiamo scoprire una quinta tendenza di lungo termine. È in questo mondo, così concreto, così carnale, talvolta così ombroso, e assolutamente non in quello idealizzato delle utopie che, come affermava Gaudium et spes, lo Spirito continua a scrivere la bella Storia della Salvezza. Questo mondo, Dio lo ama: come non essere presi di sollecitudine nei suoi confronti? Questa sollecitudine, da allora, non si è più smentita. Basandosi sulla Costituzione conciliare, i cristiani hanno sviluppato un’etica dei diritti umani che ha dato a questo mondo come un nuovo peso di grazia. La coscienza delle nazioni se ne è trovata fecondata. Il comunismo sovietico ha restituito un’anima che non aveva mai avuto;
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alcune dittature hanno ceduto sotto la pressione del popolo. Molto spesso — qui penso in particolare all’America Latina — la Chiesa si è ritrovata tra le forze del rinnovamento sociale. Il pericolo che si presenta oggi è che si faccia di questi diritti una retorica un po’ vuota, mentre il più fondamentale di essi, il diritto alla vita, come ricordava l’enciclica Evangelium vitae del 1995, viene negato ogni giorno a migliaia di esseri umani innocenti all’aurora della loro esistenza. Questa sollecitudine verso il mondo moderno, infine, impone alla Chiesa di rivedere da cima a fondo la sua missione e le modalità della sua presenza. La secolarizzazione ha modellato la società in un modo che non si era mai visto nel passato: occorre dunque che i cristiani inventino — e la parola non è troppo forte — una «nuova evangelizzazione», un’evangelizzazione della cultura e per la cultura. A società nuova, evangelizzazione rinnovata. Possiamo affermare che tutte le forze vive della nostra Chiesa abbiano preso le misure di questo bruciante obbligo? Il discorso che fa Benedetto XVI è ancora più audace. Abbiamo ben presente che la modernità è stata costruita su un atto di fede nella ragione umana. Ora, da Auschwitz in poi, questa ragione conosce un’eclissi, secondo la felice espressione della scuola di Francoforte, che immerge la modernità nell’amarezza dei dubbi e delle tentazioni del nichilismo. Per salvare quest’ultima dal proprio disincanto, dunque, bisogna restituire fiducia nell’uso della semplice ragione umana, nella sua capacità di raggiungere un ordine di verità. È questo gigantesco compito di ribaltamento, già abbozzato dall’enciclica Fides et ratio, del 1998, che il pontificato attuale ha scelto come linea direttrice della sua missione. 3. SÉ STESSO COME UN ALTRO 1. All’uomo che gli chiedeva cosa dovesse fare per essere felice, Gesù raccomandava di amare Dio con tutte le sue forze e il prossimo come sé stesso. Il Concilio non ha agito in modo differente, dato che parla del gusto dell’Altro, di Dio e della preoccupazione del prossimo. Amare il prossimo come sé stessi, accogliere sé stessi come un altro, per riprendere un’immagine di Paul Ricoeur: resta dunque da evocare
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quest’ultima sorte d’amore, l’amore primordiale dei battezzati per la loro Chiesa. Se non si ama la Chiesa, infatti, perché le si dovrebbe dare fiducia? Perché si dovrebbe credere ai dogmi che definisce e perché si dovrebbe seguire la morale che insegna? Se non si ama la Chiesa, dove attingeremo il coraggio e l’orgoglio di dirci cristiani nelle società che non ricordano praticamente più nulla delle origini cristiane della loro cultura? Amare la Chiesa come una madre, come scriveva Giovanni XXIII in una celebre enciclica, egli che avrebbe convocato un Concilio affinché la Chiesa prendesse coscienza della sua missione di luce — luce per i suoi e luce per il mondo —, Lumen gentium? Si ama solamente ciò che si comprende. Nella Costituzione che porta questo nome, il Vaticano II si sforza di rendere la nostra comprensione della Chiesa più profonda e, se mi consentite, più «affettiva». Mentre l’accento era stato collocato per molto tempo sull’aspetto visibile e gerarchico della società-Chiesa, il Concilio parte dal mistero della Chiesa, che soltanto la fede può cogliere. È in questo mistero che essa accoglie la comunione che unisce le persone trinitarie e si sforza di farla passare in ciascuno dei suoi membri, prima che risplenda nel mondo. Ciascuno dei membri del popolo nuovo, il Popolo di Dio che cammina con gli uomini, è incoraggiato a ricevere questa comunione divina e a viverne, poiché tutti, assolutamente tutti, sono chiamati a nulla di meno che alla santità. Questa insistenza sull’unità della santità ha in parte rinnovato il volto della nostra Chiesa: nella sua lunga storia bimillenaria, il laicato non era mai stato valorizzato fino a questo punto. Il Vaticano II aveva già ricordato la sua responsabilità nella costruzione della Città. Da allora, la Chiesa ha combattuto instancabilmente affinché i cristiani si impegnassero nelle grandi cause e nei dibattiti decisivi del nostro tempo; né la preoccupazione della giustizia né il sostegno dei più deboli rappresentano materie opzionali. Essa spiega ai governanti che la fede cristiana, quando si fanno forti di essa, deve illuminare le loro decisioni politiche e non solo la loro vita privata. Nei momenti opportuni e non opportuni, sostiene che niente potrebbe sostituire la famiglia, ma non a causa di non si sa quale mentalità retrograda, ma perché sa che la salute di una società si rianima nella culla di una famiglia, comunione di persone, come diceva Giovanni Paolo II nella sua Esor-
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tazione apostolica Familiaris consortio, resa pubblica nel 1981. Infine, la Chiesa ha mandato i laici negli avamposti della missione. L’appello del Decreto Ad gentes è stato rilanciato da due documenti fondamentali, l’Esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi, del 1975, e l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II, apparsa nel 1990: «Vedo levarsi, si legge in quest’ultima, l’alba di una nuova era missionaria, che diventerà un giorno ricca di frutti se tutti i cristiani […] risponderanno con generosità e santità agli appelli e alle sfide del nostro tempo». Questo immenso sforzo, ancora così nuovo nell’ottica della storia della Chiesa, esige che sia messa a disposizione di questi laici una formazione appropriata. Alcuni istituti e certe filiere sono stati creati specificamente per loro: le diocesi si sono sforzate un po’ dovunque di raccogliere la sfida di un laicato competente per un mondo che attribuisce tanto valore alla competenza. Riconosciamo volentieri che uno Studio Teologico come il vostro non ha aspettato il Concilio per formare con cura i quadri di cui la Chiesa e la società avevano bisogno. 2. In alcune icone, la Chiesa viene evocata sotto la forma di un edificio in cui l’estrema punta della cupola penetra fino alla Trinità. L’immagine dà la sensazione che la comunione delle persone divine debba discendere e impregnare la Chiesa intera, chiamata a convertire le sue pratiche e perfino le sue strutture. Traduco: le diverse amministrazioni nella Chiesa, dalla curia romana all’organizzazione parrocchiale, devono sempre essere sottomesse a questa natura misterica, a questo primato della comunione. Forse il sogno patristico di un governo dei vescovi in comunione tra loro ha attraversato lo Spirito di alcuni Padri conciliari? È sicuro, in ogni caso, che l’esigenza di comunione ha assunto il nome particolare di collegialità, e qui rileviamo un’ultima tendenza che spinge i vescovi a riunirsi, a scambiare i loro punti di vista e prendere insieme le decisioni richieste dalla missione delle Chiese locali. Si ritrovano oramai nelle conferenze provinciali, nazionali, addirittura continentali. Partecipano, soprattutto, regolarmente a quella che rimane una delle gemme del Concilio: posto sotto l’autorità di Pietro, incaricato della comunione in seno alla Chiesa universale, il Sinodo dei vescovi, l’abbiamo provato ancora nelle ultime settimane, si sforza di radicare nella Chiesa e nel mondo
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quella che abbiamo chiamato, ispirandoci al nostro dipinto dell’inizio, la cultura dell’ascolto dell’altro. Il metodo è migliorato col passare degli anni, ma vediamo già che il dialogo regolare, le deliberazioni e le proposte fatte al Papa tendono ad assicurare un nuovo equilibrio tra la Chiesa universale e le Chiese particolari. Il cattolicesimo sta prendendo coscienza della sua straordinaria diversità in tutte le parti del mondo. CONCLUSIONE Le tendenze che ci è sembrato di osservare - sette in totale, cifra perfetta - bastano a disegnare i grandi percorsi di domani? La storia talvolta si prende gioco dei «futuribili»: alterna fallimenti e speranze inattese, pagine luminose e pagine più scure. Il 2 aprile 2005, scompariva Papa Giovanni Paolo II. La sua opera maggiore resterà di certo il Catechismo della Chiesa cattolica. Questo catechismo si proponeva di mettere alla portata di tutti le grandi intuizioni del Concilio. Si potrebbe anche chiamarlo il Catechismo del Vaticano II. L’opera riformatrice del Concilio di Trento riuscì a influenzare e a trasformare la mentalità cattolica soltanto con il suo catechismo, restato in vigore durante più di tre secoli. Succederà lo stesso con il Vaticano II… se il suo catechismo finirà per essere letto! Chi lo conosce, in realtà? Chi ne parla? Chi lo utilizza? Quale percorso catechetico si ispira ad esso? In parecchi paesi, come la Francia, la Germania e l’Austria, questo compendio della fede resta ampiamente ignorato. Nel migliore dei casi, si consente di menzionarlo come un riferimento tra gli altri, mentre dovrebbe essere il punto di riferimento di tutti gli altri… Sarebbe questo il grande insuccesso di Giovanni Paolo II? In tal caso, questo insuccesso sarebbe anche quello del Concilio. Sei giorni più tardi, l’8 aprile dunque, in Piazza San Pietro, il mondo intero si era dato appuntamento. Mai nella storia, in nessuna riunione internazionale, neppure all’O.N.U., si era visto raccolto nello stesso momento un simile areopago di capi di stato e di governo, tutti in preda a una stessa emozione. Venivano, certo, a salutare la memoria del pontefice che aveva segnato il suo tempo; tuttavia, in fin dei conti era una Messa quella alla quale partecipavano! Per un istante, un
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momento fugace, l’eucarestia veniva celebrata sul mondo. Un vertice della carità si teneva là! E quando ho visto con i miei occhi, al momento dello scambio della pace, il Presidente siriano che stringeva la mano del Presidente israeliano il quale, in risposta, gli dava una pacca amichevole sulla spalla, mi sono detto che, infine, qualche cosa del «Concilio dell’ascolto degli altri», era riuscito a penetrare nella terra degli uomini.
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QUALE FUTURO PER IL CRISTIANESIMO?*
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Io vengo da un ordine molto antico che ha festeggiato quattro anni fa l’ottocentesimo anniversario della sua fondazione, quindi un ordine nato con le Università. Tra i domenicani e le Università dunque c’è stata sempre una stretta relazione — possiamo riferirci alla lunga lista dei docenti vestiti di bianco e nero, tali Alberto da Colonia e Tommaso d’Aquino, Maestro Eckhart, Francisco de Vittoria e Melchior Cano — , relazione che vogliamo illustrare ancora oggi, con la conferenza che sono stato invitato a tenere. Ringrazio di cuore il Rettore dell’Università e tutti i responsabili della vostra istituzione per la fiducia che mi è stata accordata. Quale futuro per il cristianesimo? è il titolo che ho scelto stasera. Sono sicuro che molti di voi pensano che non si tratti di un buon titolo. Le persone sane non si pongono la domanda. È il malato che chiede al suo medico: «Dottore, mi dica la verità: quanto tempo mi rimane?» Forse il cristianesimo si è ammalato a forza di pessimismo? Si tratta, in tutti i casi, del parere di alcuni osservatori delle nostre società che snocciolano statistiche effettivamente poco incoraggianti, nelle quali tutte le tendenze sono al ribasso in modo costante. Diminuzione della pratica domenicale: solo trent’anni fa, nei grossi centri della mia diocesi di Angers, oltre il 90% della popolazione andava a * Lezione tenuta nell'aula magna del Rettorato dell'Università degli Studi di Catania, il 25 ottobre 2012. ** Arcivescovo, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
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messa tutte le domeniche; questa percentuale attualmente è inferiore al 10%. Diminuzione del numero di battesimi e matrimoni. Diminuzione delle vocazioni sacerdotali e religiose: numerose congregazioni definite «attive» sono condannate a sparire, se non l’hanno già fatto. Diminuzione costante del numero di bambini iscritti al catechismo e invecchiamento della popolazione praticante: «Non ci sono più giovani nelle nostre chiese», si lamentavano i parroci della mia diocesi. L’Italia fa figura d’eccezione, ma nei paesi di vecchia tradizione cristiana, la cultura cristiana è crollata in modo massiccio, non solo nella mentalità sociale, ma anche nello spirito dei credenti. I giovani non sono più capaci di «leggere» l’arte o la letteratura delle generazioni precedenti Citate un grande scrittore cristiano in tutto il mondo? Un grande filosofo? Un grande teologo? Penso alla Spagna, alla Francia, al Belgio, al Québec e all’Irlanda: si sta sviluppando davanti ai nostri occhi una cultura di derisione e disprezzo. Come scriveva lo storico francese René Rémond, mio professore in passato, è proprio sul cristianesimo che si sfoga il risentimento di molti contemporanei. L’opinione dominante, alimentata da numerosi «media», coltiva l’anti-cristianesimo in generale, e l’anticattolicesimo in particolare, a un punto tale che ci si potrebbe chiedere se la legge non dovrebbe sanzionare le dichiarazioni cristianofobe, così come condanna già l’anti-semitismo e l’islamofobia I fatti sono solo fatti, e anche se li presentassimo in serie, non potrebbero esprimere tutta la verità di una situazione. Mi si potrebbe anche muovere il rimprovero di interessarmi solo dei nostri paesi occidentali. Ci sono paesi nei quali la Chiesa ha una vitalità e una giovinezza invidiata da molti. Penso alle giovani chiese africane. Penso anche alla Corea del Sud: cinque anni fa, mentre ero a Seoul, l’arcivescovo mi spiegava che era obbligato a porre condizioni sempre più severe per le ammissioni al seminario, per riuscire a scoraggiare i troppi candidati. Ma una cosa non compensa l’altra. Dobbiamo sicuramente rallegrarci delle buone notizie che vengono da altri continenti, che non influenzano però la situazione delle chiese, come quelle europee, dove le cifre sono in rosso da diversi anni, se non addirittura da diversi
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decenni. Vorrei arrivare a questo punto: gli indici nettamente negativi che abbiamo presentato come una specie di triste litania, sembrano confermare nell’opinione generale l’indebolimento e la probabile estinzione del cristianesimo. In fondo, queste cifre non fanno che confermare una convinzione che risale a diversi secoli fa, più esattamente all’Illuminismo, secondo la quale l’avvento della modernità deve necessariamente provocare un declino delle religioni, un’«uscita delle religioni», per parlare come Marcel Gauchet, che sarebbero confinate allo spazio limitato della vita privata e della coscienza individuale. Dopo aver governato su costumi e coscienze per 1500 anni, il cristianesimo diventerebbe una semplice questione di vita personale, di scelta personale. Ebbene, io stasera vorrei sostenere invece un punto di vista diverso. 1. FACCIAMO UN SOGNO Mi incoraggiano in questa impresa due personalità di primo piano, un uomo d’azione e un uomo di pensiero. Il primo si chiama Tony Blair. Attualmente non abbiamo abbastanza distacco per apprezzare la sua levatura storica con obbiettività; per quanto mi riguarda non sarei stupito se le generazioni future lo considerassero come uno dei più grandi primi ministri inglesi dell’era moderna. Come sapete, si è convertito al cattolicesimo qualche tempo dopo aver lasciato Downing Street. Recentemente ha fatto una sorta di confessione pubblica dalla quale ho tratto i seguenti passaggi: Per un leader politico inglese, parlare della sua fede è sempre qualcosa di sospetto e molto mal visto. Nel mio caso personale, in ogni modo, ho trovato questa cosa difficile. E questo è inaccettabile. Dopo tutto non si tratta di qualcosa di cui ci si debba vergognare! Si tratta di un polo essenziale della nostra vita e dovremmo poterne parlare semplicemente, senza essere giudicati ridicoli o reazionari, e senza dare l’impressione di rimettere in discussione i fondamenti dello Stato laico. Così facendo permetteremmo anche agli elettori di capire meglio il carattere e le motivazioni dei loro leaders. Come è possibile immaginare, che la loro fede non influenzi la loro azione politica? È impossibile! La mia fede è il punto di ancoraggio
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delle mie convinzioni, su di essa si basano i valori ai quali faccio riferimento, la fede forgia la mia visione della società. […] Il pensiero illuminista ha voluto far credere che il progresso inarrestabile dell’umanità sarebbe stato sinonimo di estinzione delle religioni, che sarebbero diventate inutili; che Dio era condannato. Che errore! Un recente sondaggio Gallup mostra che alla domanda «La religione è importante nella sua vita?», dal 90 al 96% degli intervistati nei paesi musulmani risponde «si». Questa percentuale è di circa il 70% negli Stati Uniti e del 36% nel Regno Unito, cifra che rimane comunque alta. Come potremmo ignorare quest’elemento fondamentale nella vita di miliardi di persone? Allora faccio un sogno. Sogno che si riesca a capire che la fede non solo non è una reliquia della storia, ma che può avere un ruolo salvifico in un mondo ogni giorno più interdipendente. Sogno che la religione umanizzi, dia senso, valori, una dimensione spirituale ad una globalizzazione caotica che fa perdere ai popoli identità e punti di riferimento. Sogno che invece di temersi, di sfidarsi, di farsi la guerra, i credenti di diverse religioni imparino a dialogare, a rispettarsi e a lavorare insieme per il bene comune. (…) Sogno che il XXI secolo sia quello della coesistenza pacifica delle religioni e di un riconoscimento della pertinenza e della modernità della fede. È il compito a cui intendo dedicarmi sino alla fine della mia vita. È difficile rimanere insensibili all’ispirazione e allo slancio che si sprigionano da queste righe! Questo sogno è ammirevole per la sua lucidità. Vorrei sottolineare due dimensioni di questa confessione nella quale fede e politica si alimentano reciprocamente. Tony Blair definisce prima di tutto la causa del disagio cristiano attuale: il “confinamento” della religione nella sfera privata, risultato di una convinzione ereditata dall’Illuminismo. Invita successivamente tutte le religioni a proporre valori comuni, per favorire l’intesa e non lo scontro. 2. LA SECOLARIZZAZIONE RIVISITATA Anche se l’ex primo ministro inglese non usa questo termine, mi sembra che non sia difficile vedere nella secolarizzazione la fonte delle discussioni attuali sulla sorte del cristianesimo. Questa parola, ne sono
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cosciente, è utilizzata un po’ alla rinfusa. È importante quindi chiarirne la definizione. La secolarizzazione designa prima di tutto un processo storico che ha attraversato, per dare una definizione schematica, tre tappe importanti. La prima nel XVIII secolo, in ambito filosofico sotto forma di un processo intentato a Dio. Lo storico Paul Hazard lo presenta così: … si aprì allora un processo senza precedenti, il processo a Dio… E da parte di coloro che lo intentavano c’era sempre un’amarezza, un rancore… Era arrivato il momento della resa dei conti: il Dio dei Cristiani aveva avuto tutto il potere e l’aveva usato male; gli avevano dato fiducia e aveva tradito gli uomini; questi, sotto la sua autorità avevano fatto un’esperienza che aveva portato solo infelicità. Nel XIX secolo, il processo si trasformò in rifiuto. Dio è morto, annunciava F. Nietzsche, e la fede nel Dio cristiano è caduta in disgrazia. La terza tappa, nel XX secolo ha visto l’avvento dell’uomo-demiurgo. Lo straordinario sviluppo delle conoscenze scientifiche e i progressi, ancora più straordinari delle tecniche applicate ai campi più diversi, hanno spinto l’uomo a prendere il posto di un Dio ormai assente. La scienza ci ha trasformato in déi, spiegava il biologo Jean Rostand, prima ancora che meritassimo di essere uomini. Dicevo quindi tre tappe, all’incirca una per secolo. La questione sembrava quindi chiusa da tempo: la modernità avrebbe potuto continuare a svilupparsi solo a scapito delle religioni. Il loro futuro era la privatizzazione. Ebbene, potremmo assistere in questo stesso momento ad un ribaltamento delle analisi. Avevamo visto effettivamente, che la secolarizzazione non produceva effetti totalmente identici in tutti i paesi. Sino a poco tempo fa, si considerava che la secolarizzazione dei paesi dell’Europa occidentale, dove il processo aveva avuto inizio, — caratterizzata da una separazione sempre più rigida: alla vita politica la scena pubblica, alla vita religiosa la vita privata e unicamente la pratica pastorale — costituisse un modello universalmente applicabile. È vero che gli Stati Uniti rappresentavano un’eccezione. La separazione era netta dal punto di vista giuridico, ma i leaders politici ed economici, così come l’uomo qualunque, non avevano remore nell’evocare pubblicamente la loro fede e nel mostrare come tale fede illuminasse il loro operato; lo
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vediamo molto bene in questi ultimi tempi con la campagna per l’elezione presidenziale. La regola si trovava in Europa, l’eccezione dall’altra parte dell’oceano. Vi propongo ora di ascoltare la seconda personalità preannunciata. Si tratta del filosofo tedesco J. Häbermas. Questo maestro storico della scuola di Francoforte, è un riferimento obbligato nella comprensione della secolarizzazione. In un articolo recente, spiega che i sociologi si stanno dividendo. Per alcuni, tra i quali D. Pollack, staremmo assistendo addirittura alla «fine della teoria della secolarizzazione». Il modello americano nel quale malgrado un’estrema modernità, rimane sempre alta la percentuale di persone impegnate in campo religioso, non appare più come un’eccezione: diventerebbe invece il modello normale delle società di domani. Secondo questa prospettiva meramente revisionista, è il modello europeo, invece che diventerebbe l’eccezione. Quest’impressone di un «rinnovamento della religione» a livello mondiale è il risultato della convergenza di tre fenomeni: l’espansione missionaria delle grandi religioni nella loro forma più ortodossa (alcuni direbbero conservatrice), l’Islam e i movimenti evangelici del cristianesimo; la tendenza di queste religioni a preferire modelli di tipo fondamentalista; l’obbligo per la politica di far riferimento in modo sempre più frequente alla religione. In realtà l’opinione pubblica europea è in fase di evoluzione. Anche in questo dobbiamo sottolineare tre fattori. Le persone vedono chiaramente che i grandi conflitti attuali hanno una connotazione religiosa. Il modo perentorio con il quale le analisi europee hanno attaccato unanimemente la tesi di S. Huntington non indicava forse che il politologo americano avesse toccato un punto sensibile? I media si rendono conto che le religioni diventano sempre più influenti all’interno delle nazioni secolarizzate da più tempo. In ultimo l’immigrazione in questi stessi paesi, di popolazioni mussulmane, che seguono spesso la forma più ortodossa della loro religione, scuote in modo sempre più deciso le istituzioni caratterizzate dalla secolarizzazione. Ricordiamo per esempio che l’arcivescovo di Canterbury aveva suggerito ai legislatori britannici di includere delle parti importanti del diritto di famiglia musulmano in seno alla legge nazionale. In breve, come osserva Habermas, nelle società
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europee, le religioni si presentano come vere e proprie «casse di risonanza» a vocazione pubblica. Questa evoluzione, imprevedibile solo venticinque anni fa, ci obbliga a porre domande nuove. 3. LA TOLLERANZA È UNA VIRTÙ? La domanda politica fondamentale che si pone alle nostre società europee mi sembra la seguente: la tolleranza è una virtù? Devo confessare che la parola non mi piace molto. Quando facevo le visite pastorali nella mia diocesi di Angers, ero addirittura infastidito quando chiedevo ai giovani quale fosse il valore evangelico più importante per loro e molti rispondevano: la tolleranza! Per il Vangelo la tolleranza non è in nessun modo una virtù! Si tollera un male, non un bene. Ci si chiede se l’organismo tollererà tale virus, o tale cura medica ma non se lo stesso organismo tollererà di essere in buona salute. Eppure, ho dovuto cambiare idea. Non so se la tolleranza sia una virtù, ma sono sicuro che costituisce l’atteggiamento di base per le società secolarizzate nelle quali viviamo. Anche in questo caso, mi baso sulle riflessioni di J. Habermas. Ci ricorda giustamente che la secolarizzazione è nata in Europa per superare le divisioni e le guerre di religione. La tolleranza non è nata dal rispetto dell’altro, ma dal rifiuto dell’altro, dall’odio addirittura. In una società caratterizzata ormai dal pluralismo culturale e dalla presenza di religioni irriducibili le une alle altre, come assicurare la vita comune, la convivenza? Su questo punto si scontrano due correnti di pensiero, fenomeno già evidente negli Stati Uniti ma non ancora del tutto qui. La prima nasce da una forma di neo-kantismo. La legge politica deve considerare solo l’individuo e favorire il riconoscimento di diritti universali applicabili non solo in un dato paese, ma in tutte le società del pianeta. Fornisce una sorta di leit-motiv delle diplomazie occidentali. Questa posizione implica il fatto che le comunità religiose, quando si esprimono pubblicamente, debbano cancellare le loro caratteristiche che appaiano incompatibili con la tradizione nazionale. La legge nazionale, la lingua nazionale, le tradizioni nazionali nate dall’Illuminismo
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(ma non quelle precedenti, così come ci è stato spiegato nel corso della famosa discussione sulle «radici cristiane dell’Europa») ci appaiono come garanti indispensabili dell’integrazione dei nuovi arrivati e della convivenza sociale. Non ci stupirà sapere che questa posizione gode del sostegno degli ambienti cosiddetti laici. La seconda corrente rimane incompresa qui. I sostenitori di questa visione credono, altrettanto fermamente degli altri, nei diritti dell’uomo, ma spiegano che un diritto non può essere formulato in modo astratto e universale. Il diritto si esprime all’interno di una data cultura. Perché sia rispettato bisogna quindi rispettare la sua formulazione culturale. Questa corrente è talvolta chiamata «contestualista». Una comunità nazionale non può quindi raggiungere direttamente ciascuno dei suoi membri considerato come un individuo solitario, una monade isolata. Deve ricorrere alla partecipazione attiva di tutte le comunità che la compongono, ad iniziare dalle comunità religiose, dato che la religione ha costituito il cuore della cultura. Di conseguenza, se la situazione americana dovesse apparire, non più come un’eccezione ma come la regola dominante di domani, potremmo dedurne che la corrente contestualista finirà per imporsi anche nelle società secolarizzate europee. Lo scontro sarà sicuramente aspro, perché i sostenitori della secolarizzazione dura difenderanno la loro visione con le unghie e con i denti: ma non si può resistere ai movimenti della storia! Capiamo quindi perché domani la tolleranza sarà più necessaria che mai. Certo, possiamo sognare insieme a T. Blair che le religioni arrivino a elaborare valori comuni, ma che cosa succederà se non ci riescono? Se le diverse comunità che compongono una nazione non si capiscono? Se la fraternità rimane un’utopia? Bisognerà allora formulare un nuovo patto sociale, per usare le parole di Rousseau, non più solo tra l’individuo e la nazione, ma tra quest’ultima e le comunità che la compongono, un patto basato sull’accettazione dell’altro, anche nella reciproca incomprensione. La disputa sul velo diventa una battaglia secondaria. La presenza nei nostri paesi di comunità musulmane molto forti è stata innegabilmente decisiva per quella che ho definito secolarizzazione rivisitata. Ad uno sguardo più attento è evidente l’aumento del prestigio sociale delle religioni in diversi paesi. Penso al ruolo straordinario
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della Chiesa ortodossa in Russia, penso alla Turchia dove il partito più contrario alla laicità kemalista è arrivato al potere, all’India dove il rinnovamento induista si manifesta spesso nella violenza contro i cristiani, e penso al Giappone dove l’imperatore non è più considerato come una divinità, ma il numero delle sette aumenta in modo esponenziale con oltre 400 ufficialmente riconosciute 4. SCELTE DI STRATEGIA PASTORALE Sarebbe sorprendente se questo rovesciamento non producesse degli effetti all’interno della stessa Chiesa cattolica, portandoci a porre nuove domande, ciò che io farò nell’ultima parte. Limiterò la mia analisi a due considerazioni. 1. Quello che succede attualmente supera di molto il fenomeno semplice e conosciuto del conflitto generazionale. La tesi che io vorrei sostenere qui è che esiste nella Chiesa europea una linea di separazione, diversa certamente da un paese a un altro, tra quella che io chiamerei una «corrente di conciliazione» e una «corrente di contraddizione». La prima fa osservare che nella secolarizzazione esistono valori a forte densità cristiana come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità e che quindi deve essere possibile trovare un modo di conciliazione e campi di cooperazione. Questa corrente si rifà all’apertura al mondo così come era stata auspicata dall’ultimo Concilio; apertura che avrebbe dovuto rilassare le tensioni e creare un’armonia nuova tra la società e il cristianesimo. La seconda corrente che è nata negli anni ’80 giudica, constata una dissoluzione dell’identità cristiana. Stima che non ci sia compito più urgente oggi rispetto a quello di ridefinire l’essere cristiano, ripartendo dal centro della fede. Constata anche che le differenze con la società civile diventano sempre più marcate soprattutto in campo etico (aborto, eutanasia, «matrimonio» omosessuale, consumismo). I continenti si allontanano. Di conseguenza, questa corrente propone un «modello alternativo» al modello sociale dominante, e accetta di avere il ruolo di minoranza contestatrice. La Chiesa deve ridiventare un segno di contraddizione. La prima corrente è stata predominante nel periodo postconciliare; ha fornito la matrice ideologica delle interpre-
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tazioni che si sono imposte alla fine degli anni ’60 e nel decennio degli anni ’70. La situazione si è rovesciata a partire dagli anni ’80, soprattutto, ma non esclusivamente, sotto l’influenza del papa Giovanni Paolo II. La corrente della conciliazione è invecchiata, quella del modello alternativo si è rinforzata. In questo modo si spiegherebbero le tensioni attuali in diverse Chiese del nostro continente. Non è difficile illustrare la sovrapposizione che ho appena descritto con numerosi esempi. Le università cattoliche si dividono oggi secondo questa linea divisoria; alcune scelgono l’adattamento e la cooperazione con la società secolarizzata, a costo di prendere una distanza critica rispetto a questo o quell’aspetto della dottrina o della morale cattolica; altre, di ispirazione più recente, si concentrano sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all’evangelizzazione. La stessa cosa vale per le scuole cattoliche, o per la fisionomia di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose. 2. Ogni corrente possiede virtù innegabili. Ognuna offre anche rischi propri, da un lato la sparizione, dall’altro il ripiegamento. Perciò vorrei terminare evocando una seconda ripercussione di ciò che ho chiamato «secolarizzazione rivisitata» nella Chiesa cattolica. Arrivati a questo punto abbiamo capito che, se la fede appartiene alla coscienza personale, la religione invece può esprimersi solo in uno spazio pubblico. Gli Apostoli predicavano nelle strade e nelle piazze, San Paolo andava sull’Acropoli di Atene. Rifiutare uno spazio pubblico alla religione equivale in realtà a soffocarla. Mi sembra che da una ventina d’anni circa, la Chiesa abbia scelto come ambito privilegiato di espressione pubblica la cultura, la via dell’intelligenza. Vorrei spiegare perché. A partire dall’Illuminismo, i cristiani sono stati oggetto di un disprezzo intellettuale inimmaginabile. I «cattolici» erano visti come i «baciapile». L’infame cattolicesimo era diventato sinonimo di oscurità e stupidità. Avete detto «cristiano» e l’eco sociale risponde «cretino», «cretino»… Ed ecco che ora la Chiesa propone al mondo di riabilitare la ragione umana, o per meglio dire semplicemente la ragione. Il ribaltamento si può spiegare così: la modernità è cresciuta sul trionfo della ragione umana, spogliata da orpelli religiosi e metafisici, ma, dopo
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Auschwitz, questa ragione ha avuto un’«eclissi», per citare le parole di Horkeimer alla scuola di Francoforte. Ebbene, la Chiesa propone niente di meno che salvare la modernità suo malgrado, riabilitando la fonte stessa del suo impeto: la ragione. Quest’opera di lungo respiro era già iniziata, mi sembra, con le encicliche Veritatis splendor e soprattutto Fides et ratio. Ma ci appare oggi come il segno specifico di questo pontificato. Avere un papa intellettuale la cui statura è unanimemente riconosciuta (ricordiamo il famoso dialogo con Habermas poco prima della sua elezione, proprio sulla modernità) rappresenta una grandissima opportunità. Il papa sostiene la riconciliazione tra la ragione e la luce divina. La ragione dominante perde peso, in quanto ridotta a metodo sperimentale. Per esercitare realmente il suo magistero, deve guardare al di là delle verità penultime, verso le verità ultime che sono quelle autentiche. La ragione intuisce che, in qualche modo, deve esistere un Dio che sia all’origine di tutte le cose. L’approccio verso Dio non è quindi irrazionale, ma è invece profondamente razionale e quindi fonte di libertà. «Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» (discorso aux Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008). *** Non c’è bisogno di essere grandi profeti per annunciare che la questione dell’identità è diventata primordiale e lo rimarrà ancora a lungo. Come leggiamo nella letteratura talmudica «Se io non sono io, chi potrà rispondere di me? L’io è l’unica finestra sull’altro». E l’identità che condiziona l’alterità e non il contrario. Tenendo a mente questa domanda potremmo imparare molto rileggendo l’enciclica Spe salvi. Con il senso pedagogico che lo contraddistingue, il papa spiega che la speranza è diventata il punto cieco delle società secolarizzate. A partire dal momento in cui la prospettiva di un al di là dell’esistenza
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fisica è esclusa, anche a titolo di semplice ipotesi, dalle scelte collettive e da quelle personali, la morte diventa lo scandalo per eccellenza, e si cerca di rinviarne la scadenza al di là di qualsiasi ragionevolezza: lo vediamo chiaramente nelle discussioni sull’eutanasia. Quindi, il compito del credente nel Cristo risuscitato, e di conseguenza vittorioso sulla morte, è già tracciato: c’è una vita superiore che dà senso e sapore a qualsiasi vita umana, una vita che ci introduce all’eternità stessa di Dio e che è chiamata proprio vita eterna. Ecco cosa siamo in realtà: pellegrini di eternità. Il compito più urgente per la Chiesa di oggi è proprio quello di ridare il piacere dell’eternità. Esiste forse nell’uomo qualcosa che «sorpassa infinitamente l’uomo», come sosteneva Pascal, oppure, l’uomo è per sé stesso sua stessa misura, come affermava già Protagora? Non è forse vero che i credenti di tutti i tempi che si sono accalcati nei templi di Delfi, di Luxor, di Ayodhya, di Teotihuacan, nelle cattedrali cristiane, ma anche i non credenti, diventati tanto numerosi oggi, bussano tutti, in un modo o in un altro alla porta della divinità, qualunque sia il suo nome, e ripetono: «Voglio vedere Dio?». Se il compito della riscoperta dell’eternità appartiene a tutta la Chiesa, esso deve rappresentare una priorità per coloro che, come voi, sono incaricati di trasmettere e formare. Ricordare i cammini della speranza. In termini più secolarizzati: insegnare di nuovo alle nostre società a credere nel loro avvenire.
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LE EROTAPOKRÌSEIS NEL LÒGOS II (COLL. I) DEL CORPUS MACARIANUM. «MARIA SECONDA EVA»: CONSIDERAZIONI SU UN ORIENTAMENTO ERMENEUTICO
FRANCESCO ALEO*
INTRODUZIONE Gli scritti appartenenti al Corpus macarianum offrono l’opportunità di porre l’attenzione su vari temi e su vari argomenti, riguardanti la Patristica e la Patrologia greca del IV secolo1. Tali scritti, per varie *
Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. I lo/goi, le o)mili/ai, le e)rwtapokri/seij, posti sotto il nome di Macario Egizio, sono pervenuti in quattro collezioni, le cui edizioni critiche sono qui date di seguito. Per la Collezione I, vd. H. BERTHOLD, Makarios/Symeon. Reden und Briefe. Die Sammlung I des Vaticanus Graecus 694 (B). Herausgegeben, (GCS I-II), Berlin 1973; per la versione tedesca, vd. K. FITSCHEN, Pseudo-Macarius, Reden und Briefe, engeleitet, übersetzt und mit Anmerkungen versehen, Stuttgart 2000; per la versione italiana, vd. F. MOSCATELLI, Macario/Simeone. Discorsi e dialoghi spirituali/1-2, Abbazia di Praglia 1996, fino al Lo/goj 47. Per la Collezione II, vd. H. DÖRRIES – E. KLOSTERMANN – M. KROEGER, Die geistlichen Homilien des Makarios. Herausgegeben und erläutert, Berlin 1964 (PTS 4); per la versione italiana, vd. L. CREMASCHI, Pseudo-Macario. Spirito e fuoco, Magnano 1995. Per la Collezione III, vd. E. KLOSTERMANN – H. BERTHOLD, Neue Homilien des Makarios/Symeon, I: Aus Typus III. Herausgegeben, Berlin 1961 (TU 72); per la versione francese, vd. V. DESPREZ, Pseudo-Macaire. Oeuvres Spirituelles. (Homélies propres à la Collection III). Introduction, traduction et notes, Paris 1980 (Sources Chretiennes 275, I), con l’omissione dei lo/goi nn. 2,5,9,11,13,14,23,28, presenti nelle altre Collezioni; sulla tradizione manoscritta degli scritti del Corpus macarianum, vd. Introduction, 13-31; per la versione italiana, vd. 1
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ragioni, non ultima quelle riguardanti il sospetto e l’accusa di eresia, furono posti sotto il nome di Macario Egizio, monaco vissuto lungo tutto l’arco del IV secolo nel deserto egiziano di Sceti, illustre per la sua fama di santità ed i suoi miracoli, sia in Oriente che in Occidente2. F. ALEO, Pseudo-Macario. Discorsi, Roma 2009. Un’edizione critica dei lo/goi della Collezione IV è in corso di realizzazione. Altri testi, alcuni dei quali in forma di e)pistolai/, sono le cosiddette Omelie Harvard, vd. G.L. MARRIOTT, Macarii Anecdota. Seven Unpublished Homelies of Macarius, in Harvard Theological Review 5 (1918) 148; la loro autenticità, però, suscita forti dubbi. Un testo molto importante, del Corpus macarianum, per la dottrina ascetica, i problemi filologici, dottrinali e teologici della sua tradizione manoscritta, nonché per il suo rapporto con il De Instituto Christiano, attribuito a Gregorio di Nissa è l’Epistola Magna, vd. R. STAATS, Makarios-Symeon. Epistola Magna: eine Messalianische Monchsregel und Ihre Umschrift in Gregors von Nyssa “De Instituto Christiano“ bei Makarios-Symeon, Göttingen 1984. In attesa di ulteriori e convincenti ipotesi, si designa l’autore di questi scritti con la denominazione di Pseudo-Macario Egizio. Per il valore ed il significato che il Corpus macarianum può assumere nelle ricerche riguardanti il campo di studi della Patristica, della Patrologia, ma anche della Letteratura Cristiana antica, si rinvia a F. ALEO, Elementi di una «cura spirituale» negli scritti del Corpus macarianum, in F. ALEO – R. GISANA – G. ZITO (curr.), In servitio magistri. Miscellanea in onore dei docenti emeriti dello Studio Teologico “S. Paolo”, Catania 2011, 137-152 (Synaxis, numero speciale). 2 Su Macario Egizio vd. J. STIGLMAYR, Makarius der Ägypter auf der Pfaden der Stoa, in Theologische Quartalschrift 92 (1910) 88-262; C. FLEMMING, De Macariis Scriptis Aegyptii Quaestiones, Dissertatio Probata Ordinis Philosophiae, Göttingen 1911; E. AMANN, Macaire d’Egypte, in Dictionnaire de Theologie Catholique, IX,2, Paris 1927, 1454-1455; E. PETERSON, Macario il Grande, in Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano 1951, 1740-1741; A. GUILLAUMONT, Le problème des deux Macaires dans les Apophthegmata Patrum, in Irenikòn 48 (1975), 40-59; ID., Macaire d’Égypte ou le Grand, in Dictionnaire de Spiritualité, X, Paris 1979, 11-13; F. ALEO, Macario Alessandrino e Macario Egizio, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Genova – Milano 2006, II, 2949-2950; 2950-2952. Le fonti a noi pervenute su Macario Egizio sono gli Apophthegmata Patrum in PG 45,71-442, di essi, almeno trentanove si riferiscono a Macario Egizio; seguono quindi SOCRATE, Historia Ecclesiastica, IV,2324, in G.C. HANSEN, Socrates, Kirchengeschichte. Übersetzt und eingeleitet, (GCS 63), Berlin 1995, 252-257; PALLADA, Historia Lausiaca, 17, in C. BUTLER, The Lausiac History of Palladius. Translated and annotated, Cambridge 1904, II, 39; attribuite a SERAPIONE DI THMUIS, Le Virtù di Macario e Vita di Macario, il padre dei monaci di Sceti, in E. AMELINEAU, Histoire des Monastéres de la Basse Egypte, Paris 1925, 47-118; 119-208; SOZOMENO, Historia Ecclesiastica, III,14;VI,24, in G.C. HANSEN, Sozomenos, Kirchengeschichte. Übersetzt und eingeleitet, Berlin 1960 (GCS 50), 118.268-270; RUFINO, Historia Ecclesiastica, II,2;4, in P. R. AMIDON, The Church History of Rufinus
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Le Erotapokrìseis nel Lògos II (Coll. I) del Corpus macarianum
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Dietro la sua dottrina mistica, ascetica e spirituale, assai interessante per la verità, si celerebbe la personalità di un monaco od asceta, il cui ambiente di vita e di predicazione sarebbe da localizzare in un’area dell’Asia Minore, in prossimità del limes parthicum, nell’avanzato IV secolo3. La dottrina dello Pseudo-Macario — com’è invalso ormai fra gli studiosi denominare l’autore del Corpus macarianum — a diffeof Aquileia. Translated and annotated, Oxford 1997, 64.66; ID., Historia Monachorum, 28, in E. SHULZ FLÜGEL, Historia Monachorum. Hrausgegeben, Berlin 1990, 365-375; EVAGRIO PONTICO, Capita Practica ad Anatolium, 93-94, in A. GUILLAUMONT, Evagre le Pontique, Traité pratique ou le Moine, Paris 1971 (Sources Chretiennes, 171, II), 697699, con due apoftegmi, nei quali compare Macario Egizio. 3 Secondo il parere degli studiosi, gli scritti appartenenti al Corpus macarianum non possono essere attribuiti a Macario Egizio, detto anche il Grande, monaco di Sceti, in Egitto. Inoltre, negli scritti del Corpus macarianum, il loro autore mostra di vivere in una comunità mista che presenta al suo interno anche «fratello» (a)delfo/j) e «sorella» (a)delfh/), richiamando, così, l’ascetismo siriaco dei «fratelli e sorelle del patto», quale si riscontra nel Liber graduum e non quello egiziano che è anacoretico e non cenobitico come il primo. La menzione del fiume Eufrate nel suo alto corso e di guerre fra Romani e Persiani induce a ritenere che il loro autore vivesse nell’area siro-mesopotamica, probabilmente al confine dell’Impero Romano con l’Osroene, dopo la prima metà del IV secolo, prima o poco dopo la campagna dell’imperatore Giuliano contro i Persiani, avvenuta intorno al 363. È da escludersi, dunque, la provenienza di questi scritti dal milieu ascetico egiziano. La menzione del mese macedone Canqiko/j, tradotto con il mese latino, traslitterato in greco, di 'Apri/llioj e la presenza di numerosi latinismi, farebbe pensare ad un ambiente romanizzato, come quello di una colonia romana od un municipium, ove l’uso del latino fosse regolare e nel quale questo autore vivesse. La menzione dei Goti insieme ai Persiani, come nemici comuni degli Imperatori romani, indurrebbe a pensare che i Goti siano considerati dall’autore, ancora fuori dei confini imperiali, prima, quindi, della sconfitta di Adrianopoli del 378. Egli conosce bene il cerimoniale della corte imperiale ed i gradi dell’esercito, nonché l’organizzazione interna del palazzo imperiale del IV secolo. Dovrebbe appartenere, da altri indizi presenti nei suoi scritti, ad un ceto sociale elevato. Sembra, inoltre, che l’autore faccia menzione di persecuzioni contro i cristiani, ma queste sembrano rivolte contro cristiani eretici. Sull’identità dello Pseudo-Macario Egizio, sui problemi inerenti i suoi scritti e l’ambiente ascetico nel quale è vissuto, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa. Basilio di Cesarea e lo Ps.Macario Egizio: due prospettive ecclesiologiche a confronto, Firenze-Catania 2009, soprattutto al Capitolo I, alle pp. 12-42, per la conoscenza del quadro storico, geografico, ascetico e spirituale dell’Asia Minore nel IV secolo; al Capitolo II, alle pp. 4374, per le opere poste sotto il suo nome, la tradizione manoscritta diretta ed indiretta ed i problemi critici, filologici e testuali, quali quelli posti dall’Epistola Magna, a
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renza di quella desunta e ricavabile dagli Apophthégmata Patrum del deserto egiziano, insiste sull’inabitazione personale dello Spirito Santo nell’anima e sulla lotta del monaco o dell’asceta contro i «cattivi pensieri» (poneròi loghismòi) che impediscono all’anima di accogliere in un’esperienza iniziatica, dagli accenti fortemente sensuali, la potenza dello Spirito Santo4. Tale esperienza iniziatica ha indotto già i contemporanei a nutrire sospetti sull’ortodossia del nostro sconosciuto autore, tali da farlo annoverare fra i maestri messaliani o fra quegli asceti carismatici, entusiasti e girovaghi, aderenti al messalianismo o suoi simpatizzanti5. In effetti, negli scritti del Corpus macamotivo dei suoi complessi rapporti critici e testuali con il De Instituto Christiano, attribuito a Gregorio di Nissa. 4 Per la teologia degli scritti del Corpus macarianum fondamentale risulta ancora essere l’opera di H. DÖRRIES, Der Theologie des Ps.-Makarios, Göttingen 1978; per la mistica, vd. D.P. MIQUEL, Les caractéres de l’Experience Spirituelle selon le Ps.-Macaire, in Irenikón 36 (1966) 497-513; per l’ascetica, vd. V. DESPREZ, Le Ps.-Macaire, in Studia Anselmiana 70 (1977). Per informazioni più esaustive, vd. F. ALEO, La Sotherìa di Cristo nel Corpus macarianum. Spunti per una cristologia pneumatica. Relazione tenuta il 14 dicembre 2012 al Convegno di Studi su: La salvezza. Relazioni tra pagani e cristiani nella tarda antichità, presso la Pontificia Facoltà Teologica “S. Giovanni Evangelista” (Palermo 14-15 dicembre 2012), di prossima pubblicazione. 5 Vd. H. DÖRRIES, Symeon von Mesopotamien. Die Uberlieferung der Messalianischen “Makarios“ Schriften, in Texte und Untersuchungen 55/1,1, Leipzig-Berlin 1941, il quale identifica l’autore del Corpus macarianum con Simeone di Mesopotamia, uno dei capi della setta dei messaliani come ci tramanda Epifanio di Salamina, nel suo Pana/rion, al Capitolo LXXX, vd. F. ALEO, Epifanio di Salamina e il movimento messaliano: spunti apologetici in Pan. 80. Relazione tenuta il 25 novembre 2011 al Convegno di Studi su: L’Apologetica in John Henry Newman e nei Padri di IV e V secolo, presso la Pontificia Facoltà Teologica “S. Giovanni Evangelista” (Palermo 2526 novembre 2011), di prossima pubblicazione, ove il messalianismo viene inquadrato in quel generale risveglio ascetico, avvenuto in Asia Minore nel corso del IV secolo e che ebbe come protagonisti Eustazio di Sebaste e Basilio di Cesarea. L’eresia messaliana è proprio l’ultima che il cacciatore di eresie tratta nella sua enciclopedica opera apologetica. La tesi di Dörries è però da respingere, poiché è risultata insostenibile; si rinvia, quindi, al più recente studio di K. FITSCHEN, Messalialianismus und Antimessalianismus, Göttingen 1998, ove sono passate in rassegna ed esaminate tutte le fonti antiche che ci parlano dei messaliani e del messalianismo. Il Fitschen opina per la tesi, secondo la quale, l’anonimo autore del Corpus macarianum non sarebbe messaliano, ma i suoi scritti, proprio per gli accenti intensi ed emotivi con i quali espri-
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rianum, l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo, nell’anima santificata dalla grazia, si presenta con forti accenti individuali ed emotivi, tali da far pensare proprio a quei gruppi di entusiasti e di asceti itineranti, di cui ci parla Epifanio di Salamina nel suo Panàrion6. Tuttavia, il messalianismo sembra essere del tutto estraneo allo Pseudo-Macario e la spiegazione della presenza delle proposizioni di quell’eresia nei suoi scritti è stata spiegata in tutt’altra maniera7. meva l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nell’anima furono utilizzati dalla setta eretica dei messaliani e fatti confluire nel cosiddetto 'Asketiko/n dei messaliani, utilizzato dai Padri conciliari del Concilio di Efeso del 431 per condannarli. Riguardo alle fonti antiche sui messaliani e sul messalianismo, su alcune ma non su tutte le proposizioni condannate dei messaliani che si ritrovano negli scritti del Corpus macarianum e sul lessico “spirituale” in essi impiegato, vd. C. STEWART, Working the earth of the heart, Oxford 1991, 12-95, ancora molto utile per una visione d’insieme. Si rinvia ancora a F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, al Capitolo I, 32-43, dove si fa un bilancio del complesso problema e si cerca di intravedere una nuova pista di ricerca. Per inquadrare i problemi pseudomacariani nella loro giusta prospettiva e valutare il rapporto con i messaliani ed il messalianismo, vd. J. GRIBOMONT, Saint Basile. Evangile et Eglise, Abb. de Bellefontaine 1984, I-II e J. MEYENDORFF, Messalianism or Antimessalianism? A Fresh Look at the “Macarian” Problem. Kyriakon. Festschrift Johannes Quasten, Münster 1970, II, 585-590; ID., St. Basil, Messalianism and Byzantine Cristianity, in St. Vladimir’s Theology Quarterly 24 (1980) 4, 219-234, nonché F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, Conclusioni, 201-220. 6 Il movimento messaliano, oltre ad avere delle pratiche ascetiche, professava anche delle dottrine di cui ci parlano le fonti antiche, condannate, sia le une che le altre, dalle autorità ecclesiastiche dell’Asia Minore, nel IV secolo. Da quanto ne sappiamo, i messaliani credevano essenzialmente nella preghiera continua ed in una presenza sensibile e personale dello Spirito Santo nell’anima, accompagnate da fenomeni estatici come la danza e visioni quali l’apparizione della Trinità. Essi praticavano anche l’orazione continua; questo spiega il nome msallyane, «oranti», di origine siriaca, in greco e)uxiìtai o e)uxo/menoi da cui anche il nome di «euchiti» e quello, sempre siriaco, di ezdallal, «scuotersi, agitarsi», in greco xoreuta/i o «danzatori». Sempre dalle fonti antiche, apprendiamo che essi vantavano la preghiera, come il mezzo per eccellenza, per scacciare il demonio, possedere lo Spirito Santo ed operare la salvezza, a detrimento del Battesimo e dell’Eucaristia, vd. C. STEWART, Working the earth of the heart, 18-24. 7 Il sospetto di messalianismo è legato allo studio dei testi confluiti nel Corpus macarianum ed alla loro recezione negli ambienti monastici dei secoli successivi. Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, un anonimo monaco annotava, nel ms. Atheniensis 423, contenente i lo/goi della Collezione I, paralleli testuali negli scritti posti
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Infatti, lo stesso autore, nelle sue omilìai e nei suoi lògoi, mette in guardia gli asceti, uditori e destinatari dei suoi insegnamenti, dagli eccessi nelle pratiche ascetiche e soprattutto dai falsi stati di grazia, alludendo probabilmente alla stoltezza dei messaliani menzionata da Epifanio8. Innegabile è la fortuna che nei secoli hanno avuto gli scritti del Corpus macarianum, tale che l’influenza della dottrina mistica e spirituale, in essi contenuta, confluisce carsicamente lungo i secoli e si ritrova nei maggiori movimenti spirituali del cristianesimo sia d’Oriente che d’Occidente9. Certamente, non è estraneo alla fortuna sotto il nome di Macario Egizio, con gli errori messaliani della lista trasmessa da Giovanni Damasceno. Nel XIX secolo, lo studioso Neofita il Peloponnesiaco o Kausokalyvis, che conosceva le Omelie Spirituali della Collezione II, riscontrò paralleli testuali nelle liste di Teodoreto di Cirro e di Giovanni Damasceno, contenenti le tesi messaliane, vd. L. VILLECOURT, La date et l’origine des “Homelies Spirituelles” attribuée à Macaire, in Compte Rendue Academie des Inscriptions et Belle Lettres, 1920, 250-258, con i paralleli testuali delle Omelie della Collezione II con la lista messaliana di Giovanni Damasceno e J. DARROUZÉS, Notes sur les Homelies du Ps.-Macaire, in Le Mouséon 67 (1954) 297-309. 8 Lo Pseudo–Macario, in alcuni suoi lo/goi, ci fornisce una testimonianza preziosa sul sistema educativo e sulla comunicazione scolastica del tempo e dell’ambiente in cui vive. Si tratta pur sempre di un’istruzione di primo livello, adatta alla formazione di avvocati o funzionari, come i cancellieri di una curia cittadina romanizzata di media importanza, cfr. F. ALEO, L’”Educare” in una comunità monastica del IV secolo in Asia Minore: una Erotapòkrisis dello Ps. –Macario Egizio, in Laòs 15 (2008) 1-2, 39-60. Ancora, sull’amministrazione della giustizia e sulle consuetudini del Diritto romano, quali il patrocinium e la figura del patronus, nonché quella del magistratus giudicante, lo Pseudo-Macario ci fornisce vivide immagini, vd. ID., Legge naturale e legge divina in un Logos dello Pseudo–Macario Egizio (Log. I, Coll. III). Comunicazione tenuta l’11 maggio 2012 al XL Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, presso l’Institutum Patristicum Augustinianum, Pontificia Università Lateranense (Roma 10-12 maggio 2012), apparso in Augustinianum, LIII (2013) II, 427-439. Tutto questo fa pensare ad un ambiente romanizzato quale quello di una colonia romana o di un municipium, dotati presumibilmente di una guarnigione militare, di scuole primarie, di una curia, di un tribunal ove vigeva il Diritto romano ed un costume urbano, escludendo, quindi, per il nostro autore, l’itineranza ascetica. 9 Fra il X e l’XI secolo, a Bisanzio, all’epoca della rinascita della mistica e della teologia bizantine, Simeone il Nuovo Teologo attinge agli scritti pseudomacariani. Fra il XIII ed il XIV secolo, nei monasteri greci, anche Gregorio Palamas, iniziatore dell’Esicasmo, mostra di accostarsi agli scritti del Corpus macarianum. Angelo Clareno, francescano, capo degli “spirituali”, al concilio di Vienne del 1301, costretto all’esilio, riparò
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di questi scritti il loro carattere didascalico e gnomico, tipico di cerchie ascetiche od ambienti monastici, nei quali si privilegiava la formazione dei novizi o dei giovani aspiranti alla vita ascetica. Gli scritti del Corpus macarianum constano così di insegnamenti, il cui studio e la cui valutazione ci permetterebbero di addentrarci nell’attività formativa, educativa e di discernimento nonché nella vita ascetica, di comunità, in cui monaci o giovani aspiranti alla vita ascetica ascoltavano gli insegnamenti dell’abate o dell’“anziano”, preposto a tale ufficio10. In particolare, nelle Domande e Risposte (Erotapokrìin Grecia, precisamente in Tessaglia, ove trovò rifugio nel monastero delle Meteore. Qui, probabilmente, un manoscritto greco attirò la sua attenzione. Nei primi anni del XIV secolo, compare, così, nell’Italia centrale, una versione latina degli Opuscula Ascetica e dell’Epistola Magna, da lui curata. È al Clareno che si deve la presenza dei testi pseudomacariani nei conventi francescani delle Marche. Si può dire quindi che lo Pseudo-Macario abbia nutrito la spiritualità francescana, dal XIV secolo in poi. Agli scritti pseudomacariani attinge anche Serafino di Sarov, alla fine del XVIII secolo, all’epoca del rinnovamento teologico e spirituale dei monasteri russi. La preghiera del cuore, infatti, propria dell’Esicasmo quindi della mistica russa, si ritrova negli scritti pseudomacariani. Alcuni di essi sono confluiti nella Filokali/a, un florilegio di testi patristici, molto letto e diffuso in Russia, nell’età moderna e per tutto il XIX secolo. Il celebre scritto anonimo Racconti d’un pellegrino russo, risalente al XIX secolo, a proposito della preghiera del cuore, cita passi delle Omelie Spirituali. La comparsa e la diffusione dei suoi scritti in Occidente si verifica poco dopo la metà del XVI secolo, in Francia, con la versione latina, da un buon manoscritto greco, curata da Jean Pic, delle homiliae della Collezione II, stampata a Parigi nel 1562, con il titolo di Quinquaginta Homiliae Spirituales. Successivamente, una versione tedesca delle stesse homiliae fu curata dall’erudito Zacharias Palthen e stampata a Francoforte nel 1594. Le Cinquanta Omelie Spirituali furono lette ed apprezzate negli ambienti riformati, in Germania, da Philipp Jakob Spener, ispiratore del Pietismo luterano nel XVII secolo ed in Inghilterra, da John Wesley, fondatore del Metodismo inglese, nel XVIII secolo. 10 Si può parlare di fraternità ascetiche, simili agli a)skhte/ria di Eustazio di Sebaste e dei suoi discepoli eustaziani nel IV secolo, fra i quali si annoverava lo stesso Basilio di Cesarea, prima della rottura dei rapporti con il suo venerato maestro d’ascesi, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, Capitolo I, alle pp. 19-32, per la vita, la figura ed i rapporti intercorsi fra loro, dei due grandi asceti. L’autore o gli autori dell’Epistola Magna ci parlano di comunità dirette da proesto/tej. La loro direzione, collegiale come nelle Regulae Morales di Basilio, appare blanda, se nell’Epistola Magna sono esortati ad usare la fermezza verso gli asceti, cfr. R. STAATS, MakariosSymeon. Epistola Magna: eine Messalianische Monchsregel und Ihre Umschrift in Gregors von Nyssa “De Instituto Christiano“ bei Makarios-Symeon, 6,3,24; 4,38, a
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seis), essi ponevano, ai loro superiori, domande di carattere dottrinale, ma anche problemi ascetici e morali, inerenti alla preghiera, all’umiltà, alla pratica delle virtù11. 1. LA COMUNICAZIONE EDUCATIVA NEL CORPUS MACARIANUM Attraverso l’Erotapòkrisis, passa, testimoniata dagli scritti del Corpus macarianum, una particolare comunicazione educativa, fissata in un genere letterario dalla lunga tradizione, quello del Dialogo, di origine platonica. La comunità ascetica, per la quale sono stati scritti o pronunziati i Lògoi e le Omilìai del Corpus macarianum, conosce al suo interno la presenza di uno o più “anziani” o forse anche quella di un Abbas, a somiglianza delle comunità monastiche cenobitiche pacomiane del deserto egiziano, delle fraternità ascetiche eustaziane e di quelle monastiche basiliane dell’Asia Minore, risalenti tutte al IV p. 126; 5,43.52; 6,59, a p. 128; 9,5,46, a p. 150. Tuttavia, da questo dato, non si può necessariamente inferire che l’esercizio dell’autorità nelle comunità ascetiche pseudomacariane fosse collegiale. 11 Proprio questi caratteri ci riportano all’ambiente ed all’epoca in cui nacque l’ 'Asketiko£n di Basilio di Cesarea, redatto in tale forma, per rispondere alle domande ed ai problemi posti da alcuni ambienti cristiani rigoristi dell’Asia Minore, quali gli eustaziani o presumibilmente i messaliani. Per il messalianismo ed i messaliani vd. J. GRIBOMONT, Le dossier des origines du Messalianisme in J. FONTAINE – C. KANNENGIESSER (par), Epektasis. Melanges patristiques offerts au Card. J. Danielou, Beauchesne, Paris 1972, 611-625; per il rigorismo ascetico in Asia Minore nel IV secolo, vd. J. GRIBOMONT, Le renouncement au monde dans l’ideal ascétique de S. Basile, in ID., Saint Basile. Evangile et Eglise, I, Abbaye de Bellefontaine 1984, 323-363. Sull’e)rwtapo/krisij in Basilio di Cesarea, cfr. M. GIRARDI, Erotapokrìseis neotestamentarie negli Ascetica di Basilio di Cesarea. Evangelismo e paolinismo nel monachesimo delle origini, in Annali di Storia dell’Esegesi 11 (1994) 2, 461-490, dove lo studioso tratta di questioni esegetiche; sul dialogo fra maestro e discepolo nelle e)rwtapokri£seij del Corpus macarianum; sul rapporto fra il maestro o l’“anziano” ed il discepolo, cfr. V. DESPREZ, Maitre et Disciples d’après le Questione et reponses de Macaire-Symeon, in Studia Patristica 18 (1989) 2, 203-208, dove si passano in rassegna questioni dottrinali, particolarmente quelle inerenti il messalianismo dello PseudoMacario Egizio. Infine, sull’e)rwtapo/krisij, come tappa intermedia fra l’Epistola ed il Tractatus per la formazione del bagaglio concettuale e la formulazione dei termini con cui si inizia a discutere sulla divinità della terza Persona della Trinità, vd. F. ALEO, Elementi di una «cura spirituale» negli scritti del Corpus macarianum, 137-141.
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secolo12. All’Abbas od all’“anziano”, il monaco deve rapportarsi come con un nuovo padre; a lui, come in una famiglia, il monaco deve rispetto ed obbedienza. In una comunità ascetica, la comunicazione, improntata a quella della cerchia familiare e parentale, si intreccia con la comunicazione educativa e spiccatamente formativa. Negli scritti del Corpus macarianum — come vedremo — la comunità ascetica o quella monastica oltre che una famiglia allargata aspira anche ad essere una scuola — anche se di un genere tutto particolare — precisamente, una scuola d’ascesi. La vita comunitaria — se autenticamente vissuta — esige e sviluppa, ovviamente, la comunicazione interpersonale; questa deve tener presente però, all’interno della stessa comunità, la diversità di carismi e di temperamento degli asceti o dei monaci13. Il Lògos I della Collezione III del Corpus macarianum ci permette di fare interessanti considerazioni sulla peculiarità della comunicazione educativa nell’ambiente e nella comunità in cui visse ed operava lo Pseudo-Macario: «Ed infatti, nella realtà visibile, molti bambini vanno tutti insieme a scuola (scholé), ma, fra questi, ne usciranno chi indisciplinato, chi vanitoso, chi insolente, chi amante della caccia, chi avvocato (scholastikòi) o cancelliere (exkeptòres). Così, anche nei monasteri (monastérion), molti sono i fratelli che vi entrano insieme, ma, a motivo del libero arbitrio, alcuni fra loro entrano (eisérchomai) nella vita (zoé), altri no.»14.
12
Sul monachesimo pacomiano in Egitto, vd. V. DESPREZ, Le Monachisme primitif. Des origines jusq’au concile d’Èphèse, Abbaye de Bellefontaine 1998, 211-271; su Eustazio di Sebaste e gli a)skhte/ria eustaziani, alle pp. 325-329; su Basilio di Cesarea e le comunità monastiche basiliane, alle pp. 347-368; sullo Pseudo-Macario Egizio e le comunità ascetiche pseudomacariane, alle pp. 401-451. 13 Sulla comunicazione della fede in età patristica e nella Chiesa antica, cfr. F. PIERINI, Mille anni di pensiero cristiano. Le letterature e i monumenti dei Padri. I-Alla ricerca dei Padri, Milano 1988, 207-208. 14 V. DESPREZ, Oeuvres Spirituelles I. Homélies propres à la Collection III, Paris 1980, Lo/goj, 1,4,34-39 (Coll. III), 74: kaiì ga\r e)n toiÍj fainome/noij ta\ paidi¿a polla\ o(mou= a)pe/rxontai ei¹j th\n sxolh/n: all ¸ oi¸ me\n au)tw½n aÃtaktoi, oi¸ de\ qeatrikoi¿, oi¸ de\ a)selgeiÍj, oi¸ de\ kunhgoi¿, oi¸ de\ sxolastikoiì kaiì e)cke/ptorej e)ce/rxontai: ouÀtw kaiì ei¹j ta\ monasth/ria polloiì o(mou= ei¹sin a)delfoiì kaiì dia\ tou= au)tecousi¿ou tine\j au)tw½n ei¹se/rxontai ei¹j th\n zwh/n, tine\j de\ ouÃ. La presenza di un latinismo nella
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Vi si parla di una «scuola» (scholé) ove si impartisce un’istruzione di medio livello, adatta alla formazione di avvocati o funzionari come i cancellieri di una curia cittadina di media importanza. Fra questa educazione scolastica — che è verosimilmente quella da cui egli stesso proviene — e quella vigente in un monastero, lo Pseudo-Macario instaura un’analogia. In monastero, lo scopo non è quello di diventare un funzionario della burocrazia curiale cittadina, bensì, piuttosto, quello di entrare (eisérchomai) nella «vita» (zoé), intendendo, con questo termine, l’ideale di perfezione evangelica, liberamente abbracciato, che per lo Pseudo-Macario, solo il monaco può raggiungere. Come nella scuola non tutti mettono a frutto l’istruzione e l’educazione ricevute, così in monastero non tutti arrivano a praticare ed a vivere l’ideale di vita che vi si insegna e professa. Si può così osservare come uno dei referenti dello Pseudo-Macario sia proprio l’istruzione e l’educazione scolastica di medio livello di una curia cittadina romanizzata, in una colonia od un municipium romano della tarda antichità, dove si impartiva l’istruzione e l’educazione di base per formare il personale cancelleresco ed amministrativo degli uffici curiali o scrinia. Questo referente, con le sue componenti ed il suo codice linguistico, viene trasferito nell’ambiente formativo ed educativo di una comunità ascetica e monastica. Leggiamo ancora un altro interessante brano tratto dal Corpus macarianum: «Così, anche i fratelli, durante l’infanzia, essendo ancora bimbi, hanno bisogno di tanta perizia (paidagoghìa); poiché, coloro i quali “sono istruiti nel Regno dei cieli” (Mt 9,15), hanno assoluta necessità di guide (odegòs) che camminino innanzi a loro, fino a quando non siano radicati nella grazia e non diventino fermi e saldi.»15.
traslitterazione in lingua greca del latino exceptor fa pensare che l’autore di questo lo/goj abbia familiarità con il linguaggio e probabilmente con l’ambiente di una curia cittadina romanizzata, dove l’uso del latino era regolare. Vd. PSEUDO-MACARIO, Discorsi, introduzione, traduzione e note, a cura di F. ALEO, Roma 2009, 58-59, per la versione italiana. 15 Lo/goj, 1,5,46-50, (Coll. III), in V. DESPREZ, Oeuvres Spirituelles I, 76: ouÀtw kaiì oi¸ a)delfoiì a)kmh\n paidi¿a ei¹si¿, nh/pioi xrv/zontej pollh=j paidagwgi¿aj, oi¸ ga\r maqhteuo/menoi “tv= basilei¿# tw½n ou)ranw½n” pa/ntote xrv/zousin o(dhgw½n tw½n
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Il termine paidagoghìa si riferisce alla cura educativa con la quale la «guida» od odegòs segue il fanciullo, ad immagine del pedagògo nella società ellenistica greca e romana16. Nel contesto del Lògos citato, l’analogia dei bambini bisognosi di guida e d’istruzione viene applicata all’anima, nel suo cammino di santificazione od ai cristiani. In questo modo, lo Pseudo-Macario vi intende illustrare una prima, embrionale forma di direzione spirituale. Le «guide» sono uomini spirituali di provata esperienza. La comunicazione scolastica — che caratterizza il rapporto fra maestro ed allievo o quello fra docente e discente — è calata, così, in un ambiente completamente diverso, rispetto a quello di una scuola17. La comunicazione scolastica diventa il canale nel quale lo Pseudo-Macario fa passare un’altra comunicazione che intende educare sia l’asceta che i cristiani comuni18. Questa nuova, particolare comunicazione instaura, fra maestro ed allievo, fra docente e discente, fra “anziano” ed asceta o giovane aspirante alla vita ascetica un rapporto nuovo. La nuova «pedagogia», praticata e proposta dalla guida o dall’“anziano”, agli asceti che a lui si affidano è la paidagoghìa della grazia o della fede, premessa di una nuova Paidéia cristiana, alternativa a quella pagana; prodiodeusa/ntwn, eÀwj oÀtan r(izwqw½sin ei¹j th\n xa/rin kaiì ge/nwntai aÃptwtoi kaiì a)sa/leutoi. Vd. F. ALEO, Discorsi, 59, per la versione italiana. 16 Per una più corretta informazione sull’educazione nell’antichità, vd. H.I. MARROU, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 2010, 199-200, sulla figura del Pedagogo. 17 Per un utile ed interessante confronto, con un ambiente cosmopolita, multiculturale e multireligioso, quale quello di Alessandria d’Egitto, alla fine del II secolo, è possibile ascoltare un’altra voce del cristianesimo antico, quale Clemente d’Alessandria, la cui paide/ia e paidagwgi/a si esercitano, invece, nel clima e nel contesto ideologico e culturale delle scuole filosofiche dell’antichità ellenistica greca e romana, cfr. F. ALEO, Realtà paideica ed approccio paideico nel Paidagògos di Clemente d’Alessandria: Paidéia e Paidagoghìa, in Synaxis 30 (2012) 2, 21-61. 18 La presenza di metafore, di esempi o u)podei/gmata, tratti dalla vita quotidiana, fa pensare che gli uditori dei Lo/goi, delle 'Omili/ai e delle 'Erwtapokri/seij del Corpus macarianum fossero non soltanto asceti o monaci ma anche uomini e talvolta donne di una società cittadina. Si potrebbe pensare ad un monastero, vicino ad una città tardoromana di media importanza, dove viveva, in una comunità ascetica, lo Pseudo-Macario. Cfr. F. ALEO, Discorsi, Nota editoriale, 48.
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il maestro o docente (didàskalos o sophòs) della scuola antica diventa l’odegòs, colui il quale mostra la ”via” all’allievo o discente che è l’asceta, il giovane aspirante alla vita ascetica oppure il monaco. Il canale della scuola antica con la propria forma di comunicazione, il proprio codice linguistico ed il proprio statuto ideologico fa così passare una particolare attività, praticata nella comunità monastica dello Pseudo–Macario: quella della direzione spirituale ed ascetica degli asceti o dei monaci, affidati alla cura ed alla guida dell’“anziano”. Questi educa l’anima dell’aspirante monaco a raggiungere la vita divina che si realizza nella zoé ovvero nella vita umana autenticamente vissuta. L’Erotapòkrisis assolve proprio a questo compito, è un mezzo ed insieme una modalità, ma soprattutto, è una pratica, con la quale i monaci — attraverso la forma di comunicazione del Dialogo — sotto la guida dell’“anziano”, esercitano ed ammaestrano la propria anima a sostenere il combattimento spirituale contro Satana ed a conoscere i «misteri celesti», per viverli nella propria vita e quindi entrare nella vera «vita», che è quella sotto l’azione dello Spirito Santo. 2. VITA DIVINA ED UMANAZIONE NEL CORPUS MACARIANUM All’educazione o istruzione della scuola nel «mondo visibile» (tà phainòmena), fonte di conoscenze tecniche e per così dire professionali, lo Pseudo-Macario accosta un’altra conoscenza che rende accessibili i «misteri celesti». Leggiamo infatti: «Come colui che vuole imparare le lettere (gràmmata) va ed impara i segni (seméion) e quando là è diventato primo, si reca alla scuola dei Romani, dove là è l’ultimo di tutti. Di nuovo, quando là è divenuto primo, va dal grammatico e là è un principiante (archàrios), ultimo di tutti [anche quando sarà divenuto avvocato (scholastikòs), sarà un principiante ultimo fra tutti i procuratori (dikològos)]. Poi, quando là sarà divenuto di nuovo il primo, allora diventerà funzionario (eghemòn) e quando diventerà arconte (archòn), si prenderà un aiutante che siederà accanto a lui. Se, dunque, il mondo visibile ha siffatti progressi, quanto più i misteri celesti hanno progressi, tanti gradi e si accrescono; ed allora, uno ne viene fuori
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(exairéo) (dal mondo visibile) e per mezzo di tanto esercizio ed attraverso molte prove diventa perfetto.»19.
Secondo lo Pseudo-Macario, la conoscenza dei «misteri celesti» (tà epourània mystéria) presenta, al pari dell’insegnamento impartito nella scuola del suo tempo e nel suo ambiente, progressi e gradi con lo scopo di rendere «perfetti» (téleios), non senza esercizi e prove, chi vi si accosta. La conoscenza “tecnica” e professionale, quale quella giuridica e cancelleresca, serve a preparare funzionari, avvocati e burocrati; quella impartita e praticata in monastero serve ad entrare (eisérchomai) nella «vita» ossia quella monastica, improntata ad un ideale di perfezione evangelica. Nel luogo testé citato, si pone attenzione all’analogia esistente fra i gradi di questa conoscenza e preparazione “tecnica” e quella dei «misteri celesti», impartita nella comunità monastica del nostro “anziano”. Secondo la nostra traduzione ed interpretazione del brano testé citato, la conoscenza dei «misteri celesti», anch’essa strutturata e disciplinata con insegnamenti graduali e sempre più complessi, serve invece, a «venire fuori» (exairéo) dal «mondo visibile». Abbiamo visto sopra come, con il termine paidagoghìa, il nostro autore provi a spiegare una dinamica educativa estranea alla cultura delle scuole dell’antichità. In realtà, avvalendosi del codice linguistico della comunicazione scolastica e del rapporto docente-discente, lo Pseudo-Macario si assume il delicato compito di spiegare ed illustrare agli asceti ma anche a sé stesso, un 19 H. BERTHOLD, Makarios/Symeon. Reden und Briefe. Die Sammlung I des Vaticanus Graecus 694 (B), II, 83, Lo/goj 45,4,2,7-16: wÐsper o( qe/lwn maqeiÍn gra/mmata
a)pe/rxetai kaiì manqa/nei ta\ shmeiÍa, kaiì oÀtan ge/nhtai e)keiÍ prw½toj, a)pe/rxetai ei¹j th\n sxolh\n tw½n ¸Rwmai+kw½n, ka)keiÍ e)stin oÀlwn eÃsxatoj. pa/lin e)keiÍ oÀtan ge/nhtai prw½toj, a)pe/rxetai pro\j to\n grammatiko/n, kaiì oÀlwn e)stiìn eÃsxatoj a)rxa/rioj. <eiåta oÀtan ge/nhtai sxolastiko/j, oÀlwn tw½n dikolo/gwn e)stiìn eÃsxatoj a)rxa/rioj>. pa/lin e)keiÍ oÀtan ge/nhtai prw½toj, to/te gi¿netai h(gemw½n kaiì oÀtan ge/nhtai aÃrxwn, lamba/nei e(aut%½ to\n sugka/qedron bohqo/n. ei¹ ouÅn ta\ faino/mena tosau/taj eÃxei prokopa/j, po/s% ma=llon ta\ e)poura/nia musth/ria eÃxei prokopa\j kaiì baqmou\j pollou\j kaiì au)ca/nei, kaiì to/te dia\ pollh=j gumnasi¿aj kaiì pollw½n peirathri¿wn <e)ceileiÍ kaiì> gi¿netai¿ tij te/leioj. Cfr. MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi spiri-
tuali/2, traduzione, introduzione e note a cura di F. MOSCATELLI, Abbazia Di Praglia 2003, 288, per la versione italiana, piuttosto libera.
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processo psicopedagogico assolutamente nuovo per la cultura antica. Innanzitutto, il luogo di questa nuova dinamica educativa e di questo inedito processo psicopedagogico è il monastero. Inoltre, nuovo e peculiare, rispetto a quello della scuola antica, è — come vedremo fra poco — il terreno sul quale avviene la formazione e l’educazione degli aspiranti alla conoscenza dei «misteri celesti». Il «venir fuori» dal mondo visibile e l’«entrare nella vita» o nella vita divina, vissuta nella propria vita umana (zoé), sono due movimenti molto importanti nella comunicazione educativa dello Pseudo-Macario. La «vita» cui l’anima deve tendere viene connotata da due termini apparentemente simili, diagoghé ed agoghé, ma dal significato profondamente diverso, che creano un dato di senso da tener presente nella pratica d’umanazione della paidagoghìa pseudomacariana. Vi è un brano assai interessante ed utile ad illustrare il nostro assunto: «Diverso è l’ordine (kòsmos) dei Cristiani, la loro condotta (agoghé), la loro anima (noùs), la ragione (lògos), il loro modo d’agire (pràxis); diversa la condotta di vita (diagoghé), l’anima, la ragione, il modo d’agire (pràxis) di questo ordine (kòsmos) degli uomini.»20.
Il termine kòsmos, viene usato, con il significato di «ordine», indifferentemente, sia per i cristiani che per gli uomini21. Diagoghé, a differenza di agoghé, sta ad indicare il «genere di vita» proprio degli uomini; in termini comprensibili a noi moderni indicherebbe l’umano. Sbaglieremmo, se considerassimo semplicemente agoghé, un termine designante la “vita spirituale” dei cristiani, rispetto a diagoghé, che, invece, designerebbe, banalmente, la “vita materiale” degli altri uomini22. Il dato importante che emerge, dall’esame dei testi del Corpus maca20 Lo/goj, 48,1,1,2-4 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 90: ¸O tw½n Xristianw½n ko/smoj eÀteroj e)sti, kaiì a)gwgh\ kaiì nou=j kaiì lo/goj kaiì pra=cij e(te/ra tugxa/nei, kaiì h( tw½n a)nqrw¯pwn tou= ko/smou tou/tou diagwgh\ kaiì nou=j kaiì lo/goj kaiì pra=cij e(te/ra. Versione italiana dell’autore del presente saggio. 21 Riguardo all’uso di ko/smoj, negli scritti del Corpus macarianum, in particolare nel Lo/goj 52 della Collezione I, cfr. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 103, n. 75. Tre sono i significati di ko/smoj nel Corpus macarianum: «mondo», «ordine» od «ordinamento»
ed «ornamento». 22 Vd. F. ALEO, Elementi di una «cura spirituale» negli scritti del Corpus macarianum, 142-143.
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rianum, è quello della consapevolezza, nel loro autore, della necessità di un approccio educativo che rispetti l’«ordine degli uomini». Il termine diagoghé compare in questa chiara ed interessante affermazione sulla vita di grazia: «Così, nel mondo (kòsmos) spirituale ed invisibile e nella condotta (diagoghé) della grazia dello Spirito, coloro i quali vengono educati (paideuòmenoi) dall’esperienza (péira) e dal tempo (chrònos), dopo essersi imbattuti in un’afflizione qualunque proveniente dal peccato, non si disperano come se non dovessero più ottenere la grazia.»23.
Il termine kòsmos indica il «mondo» spirituale ed invisibile, ove gli uomini si conducono con diagoghé, fatto questo che non impedisce loro di imbattersi nell’afflizione prodotta dal peccato. Essi sono «educati» (paideuòmenoi) dall’esperienza (pèira) e dal tempo (chrònos) della propria vita, ovviamente di quella terrena, che non deve confondersi con quella semplicemente materiale e visibile. Lo Pseudo-Macario vuole porre i suoi uditori di fronte alla conoscenza di una forma di vita sotto l’azione dello Spirito Santo che egli presenta e rende accessibile, attraverso la pratica d’umanazione dell’Erotapòkrisis. Nonostante l’opposizione delle due forme di vita, l’agoghé dei cristiani e la diagoghé degli uomini, il kòsmos degli uomini non è respinto ma è visto e valutato nella sua consistenza e nella sua lontananza da Dio. Leggiamo infatti: «Altra cosa sono quelli (i cristiani), altra cosa sono questi (gli uomini) e tanta differenza vi è tra questi e quelli. Gli abitatori della terra ed i figli di questo mondo (aiòn) somigliano a frumento gettato nel setaccio di questa terra (ghé), vagliati nei pensieri incostanti del mondo (kòsmos), nell’agitazione delle terrene passioni e dei concetti involuti, mentre Satana sconvolge e vaglia le anime, per mezzo del vaglio della terra cioè degli affari terreni.»24. 23 Lo/goj, 10,1,7 (Coll. III), in V. DESPREZ, Oeuvres Spirituelles I, 154: ouÀtwj e)n t%½ pneumatik%½ kaiì a)ora/t% ko/sm% kaiì e)n tv= th=j xa/ritoj tou= pneu/matoj diagwgv= oi¸ dia\ pei¿raj kaiì xro/nwn paideuo/menoi ouÃte e)pa\n qli¿yei th=j a(marti¿aj oi¸#dh/pote a)panth/swsin, a)pelpi¿zousin w¨j mhke/ti me/llontej th=j xa/ritoj tugxa/nein. Vd.
F. ALEO, Discorsi, 96, per la versione italiana. 24 Lo/goj, 48,1,1-2,4-9 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 90: aÃllo ti¿
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La radicalità della scelta educativa pseudomacariana o della sua paidagoghìa non consiste nella segregazione dei cristiani dal mondo e nemmeno in una semplice, banale o compromissoria inclusione della vita divina nella vita degli uomini25. Gli uomini, nel mondo visibile o nel loro kòsmos, sulla terra, si dibattono fra le tentazioni e le vane illusioni, suscitate ed eccitate da Satana, a motivo del Peccato originale e della Caduta di Adamo26. È questa la constatazione di un dato di fatto, frutto dell’esperienza di vita del «mondo visibile». Leggiamo infatti: «Tutta la genìa peccatrice degli uomini, dalla caduta di Adamo che trasgredì il comandamento, finì sotto (il dominio di colui) che è signore della malvagità, (questi), ricevuto il potere di Adamo, per (colpa di) lui, in seguito, con incessanti pensieri d’inganno e di scompiglio, travaglia e tormenta i figli di questo mondo (aiòn).»27.
È Satana dunque che, a motivo della colpa di Adamo, sulla terra, nella loro vita terrena, vaglia con tentazioni e prove gli uomini, li manifesta buoni o cattivi, santi o peccatori, rivela i loro pensieri materiali ei¹sin e)keiÍnoi kaiì aÃllo ti¿ ei¹sin ouÂtoi, kaiì pollh\ dia/stasij <metacu\> tou/twn ka)kei¿nwn. oi¸ ga\r th=j gh=j katoikh/torej kaiì ta\ te/kna tou= ai¹w½noj tou/tou e)oi¿kasi si¿t% beblhme/n% e)n sini¿% th=j gh=j tau/thj, siniazo/menoi e)n a)sta/toij logismoiÍj tou= ko/smou, e)n sa/l% ghi¿+nwn e)piqumiw½n kaiì poluplo/kwn e)nnoiw½n u(likw½n ta\j yuxa/j, kludwni¿zontoj tou= sinia/zontoj satana= dia\ tou= th=j gh=j sini¿ou (toute/sti tw½n ghi¿+nwn pragma/twn). Versione italiana dell’autore del presente saggio. 25 Per maggiori chiarimenti sull’ascesi pseudomacariana, vd. S.K. BURNS, Cappadocian Encratism and the Macarian Community, Leuven 2001; sul suo carattere “inclusivo” come testimonia l’e)gkra/teia, attestata nel Corpus macarianum, alle pp. 27-32. Per altre considerazioni, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, Capitolo III, a p. 89, n. 41. 26 Riteniamo che in questo luogo testuale i due significati di «mondo» e di «ordine» od «ordinamento», presenti in ko/smoj, si sovrappongano fino a confondersi. Qui appare evidente come il mondo abitato dagli uomini sia anche l’ordine nel quale prevalgano gli «affari terreni». Tuttavia, un altro termine designa il mondo in preda alle passioni ed ai cattivi pensieri: è quello di ai)w/n che indica, piuttosto, il tempo della durata di questo mondo, come si coglie subito dopo nel prosieguo del testo considerato. 27 Lo/goj, 48,1,3,10-14 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 90: pa=n ga\r
to\ a(martwlo\n tw½n a)nqrw¯pwn ge/noj a)po\ th=j tou= 'Ada\m e)kptw¯sewj, paraba/ntoj th\n e)ntolh/n, u(po\ to\n aÃrxonta th=j ponhri¿aj e)ge/neto, labo/nta kata\ tou= ¹Ada\m th\n e)cousi¿an kaiì loipo\n ap' au)tou= a)pau/stoij logismoiÍj a)pa/thj kaiì klo/nou sinia/zei kaiì proskrou/ei t%½ sini¿% th=j gh=j pa/ntaj tou\j ui¸ou\j tou= ai¹w½noj tou/tou.
Versione italiana dell’autore del presente saggio.
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e le loro passioni insane. Val la pena continuare la lettura del brano appena riportato: «In questo davvero differiscono i veri cristiani da tutta la genìa degli uomini e tanta è la differenza (diàstasis) tra essi e gli uomini del mondo (kòsmos), come abbiamo detto prima; (tale differenza) consiste nel far incontrare sempre la mente e l’intelligenza di questi con il sentire celeste, nel rispecchiare i beni eterni, attraverso la partecipazione (metousìa) e la coesistenza (metoché) dello Spirito Santo, nell’essere generati dall’alto, da Dio; nell’essere degni di divenire figli di Dio con potenza e verità; e nel raggiungere la quiete, la fermezza, la tranquillità, dopo tante lotte, sforzi, fatiche e tempo, non più travagliati e sommersi negli incostanti pensieri della malignità.»28.
Può dunque concludersi che la “differenza cristiana”, per lo Pseudo-Macario, costituisca o consista in una semplice quanto sterile opposizione dei “veri cristiani” al mondo? Sarebbe troppo semplice e scontato affermarlo, ma è un rischio che può corrersi, ad una prima, superficiale lettura di questi testi. Secondo lo Pseudo-Macario, la vita dei cristiani è caratterizzata da un’esperienza di rinascita, di figliolanza, ma, in primo luogo, dalla partecipazione personale, profonda ed intima allo Spirito Santo. È l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo, a rendere i cristiani diversi da tutti gli altri uomini in mezzo ai quali vivono, nel mondo. Più avanti si afferma:
28 Ibid., 1,9,1-9 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 92: ¹En tou/t% ga\r diafe/rousin oi¸ oÃntwj a)lhqinoiì Xristianoiì panto\j tou= ge/nouj tw½n a)nqrw¯pwn kaiì pollh\ dia/stasij metacu\ au)tw½n kaiì tw½n tou= ko/smou a)nqrw¯pwn tugxa/nei, w¨j proele/gomen, e)n t%½ to\n nou=n kaiì th\n dia/noian au)tw½n pa/ntote t%½ ou)rani¿% fronh/mati tugxa/nein kaiì ta\ ai¹w¯nia a)gaqa\ e)noptri¿zesqai dia\ th\n metousi¿an kaiì metoxh\n tou= pneu/matoj tou= a(gi¿ou, e)n t%½ aÃnwqen au)tou\j e)k qeou= gegennh/sqai kaiì te/kna qeou= e)n duna/mei kaiì a)lhqei¿# gene/sqai kathciw½sqai kaiì ei¹j sta/sin kaiì e(draio/thta kaiì a)taraci¿an kaiì kata/pausin dia\ pollw½n a)gw¯nwn kaiì ko/pwn kaiì po/nwn kaiì xro/nwn kathnthke/nai, mhke/ti siniazome/nouj kaiì kumainome/nouj e)n a)sta/toij kaiì matai¿oij logismoiÍj kaki¿aj. Versione italiana dell’autore del presente saggio. Si noti la ricorrenza di metousi¿a e metoxh\, entrambi i termini sono impiegati
per indicare la partecipazione dell’anima allo Spirito Santo; per un approfondimento del loro significato, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 79.
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In questo testo si può notare una contrapposizione polemica fra chi persegue la «partecipazione dello Spirito Santo» e chi invece intende la “differenza cristiana” in «schemi e modelli esteriori» oppure fa consistere il cristianesimo in «precetti esteriori». La preoccupazione del nostro autore non è tanto quella di stabilire chi è cristiano e chi non lo è, oppure di delimitare l’influenza cristiana e quella del mondo in definiti ambiti, quanto piuttosto di smentire una concezione dei cristiani e del cristianesimo. Non è cristiano colui che ragiona secondo modelli o schemi esteriori che appartengono pur sempre al mondo e non provengono dall’esperienza personale dello Spirito Santo. Non è cristianesimo quello che consta di alcuni precetti, pur sempre esteriori, che nulla hanno a che fare con un’esperienza intima e profonda di pace e di costruzione interiore del sé, opera soltanto dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nell’anima. Può dunque arguirsi, dai testi Ibid., 2,1,14-23, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 92: Toigarou=n ou)k e)n sxh/masi kaiì tu/poij e)cwte/roij h( a)lloi¿wsij tw½n Xristianw½n u(pa/rxei, w¨j oi¸ polloiì e)n tou/t% oiãontai eiånai th\n diafora\n kaiì th\n dia/krisin metacu\ tou= ko/smou kaiì au)tw½n e)n sxh/masi kaiì tu/poij. kaiì i¹dou\ kaiì t%½ n%½ kaiì tv= dianoi¿# oÀmoioi t%½ ko/sm% tugxa/nousi, seismo\n kaiì a)katastasi¿an tw½n logismw½n kaiì a)pisti¿an kaiì su/gxusin kaiì taraxh\n kaiì deili¿an eÃxontej: kaiì t%½ me\n sxh/mati kaiì t%½ dokeiÍn tou= ko/smou diafe/rousi hÄ kaiì ti¿sin e)cwte/roij katorqw¯masi, tv= de\ kardi¿# kaiì t%½ n%½ e)n tv= gv= perisu/rontai kaiì e)n t%½ ko/sm% kaiì e)n toiÍj ghi¿+noij desmoiÍj de/dentai, a)na/pausin kaiì ei¹rh/nhn th\n tou= pneu/matoj ou)ra/nion e)n tv= kardi¿# mh\ kekthme/noi, e)peiì ou)k e)zh/thsan para\ qeou= ou)de\n kaiì e)pi¿steusan tou/twn kataciwqh=nai. Versione italiana dell’autore del presente saggio. 29
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considerati, che esistano cristiani che hanno l’illusione di essere tali, ma che in realtà appartengono al mondo, poiché scambiano gli «schemi ed i modelli» nonché i «precetti esteriori» per requisiti, coi quali vivere un autentico cristianesimo, mentre questo, in realtà, è un’esperienza personale, soprattutto, un essere partecipi del dono dello Spirito Santo. Nella lettura di questi testi, ci si trova dinanzi ad una contrapposizione polemica, non fra i cristiani e gli altri uomini, ma, più sottilmente, fra chi è cristiano e chi crede di esserlo o meglio, fra chi sperimenta in sé stesso l’esperienza dello Spirito Santo e chi, impegnato nell’apparenza (dokéo) e nell’osservanza di precetti esteriori (exotéra kathortòmata), è legato in realtà al mondo. Questa polemica dev’essere situata all’interno della comunità pseudomacariana, in un ambiente prevalentemente ascetico e monastico30. Un’altra affermazione, assai importante, sintetizza una lunga esperienza di discernimento all’interno di una comunità ascetica. Leggiamo, infatti: «Infatti, coloro i quali vogliono passare dalla verità fino al suo fine (télos) con una buona condotta di vita (diagoghé) non devono accogliere indiscriminatamente (paradéchesthai ekoùsios) un altro amore (éros) ed un’altra carità (agàpe) con quella (la carità) celeste e mescolarle insieme, perché non siano impediti nelle cose spirituali, tornino indietro ed alla fine escano fuori (ekpésosi) dalla vita (zoé).»31. 30
Appare difficile risalire ai destinatari di questa polemica che ritroviamo con termini ed espressioni simili, nel Lo/goj 52 della Collezione I; un lo/goj dalla struttura coordinata in due parti e complesso, per i problemi d’interpretazione che presenta, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 92-107; in particolare, alle pp. 96-99. 31 Lo/goj, 48,3,1,11-14 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 94: Oi¸ ga\r e)c a)lhqei¿aj diecelqeiÍn eÀwj te/louj e)n a)gaqv= diagwgv= boulo/menoi aÃllon eÃrwta kaiì aÃllhn a)ga/phn met' e)kei¿nhj th=j e)pourani¿ou parade/casqai e(kousi¿wj kaiì miÍcai ou)k o)fei¿lousin, iàna mh\ e)mpodisqw½sin e)n toiÍj pneumatikoiÍj kaiì strafw½sin ei¹j ta\ o)pi¿sw kaiì te/loj e)kpe/swsi th=j zwh=j. Versione italiana dell’autore del presente saggio. Abbiamo voluto tradurre letteralmente un «altro eÓrwj ed un’altra a)ga/ph» per
rendere più chiara la comprensione del testo; inoltre, abbiamo inteso il verbo parade/xomai nel significato di «accogliere» e l’avverbio e(kousi/wj nel significato di «indiscriminatamente», a differenza di una nostra precedente traduzione del luogo citato, cfr. F. ALEO, Elementi di una «cura spirituale» negli scritti del Corpus macarianum, 143 e La Sotherìa di Cristo nel Corpus macarianum. Spunti per una cristologia pneumatica, di prossima pubblicazione.
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La vita nello Spirito diventa diagoghé solo a condizione che vi sia stato, nell’uomo in cammino di santificazione, l’apporto dell’esperienza e del tempo, per cui quest’anima non si scoraggia più dinanzi al peccato ma riesce a trarre dal peccato e dalla prova nuove occasioni di maturità e di educazione alla vita nello Spirito, per continuare a progredire nella vita di grazia32. Il contatto con l’«ordine» o kòsmos degli uomini o più semplicemente, l’umano, è essenziale, perché si abbia vera ed autentica vita nello Spirito. Un altro termine, pràxis, «modo d’agire», presente nel brano più sopra considerato, porta l’uomo ad agire nel proprio ordine (kòsmos), quello umano, fra gli uomini, rivendicando non soltanto per la pràxis ma anche per la diagoghé, per il noùs e per il lògos, pari dignità, nel loro ambito o kòsmos. È pur vero che esiste un altro ordine che è quello dei cristiani, i quali informano l’agire umano, la condotta umana, l’anima umana, la ragione umana, con una vita nuova, l’agoghé, che non si impone né si contrappone all’umano ma che eleva e completa l’umano portandolo al suo compimento. In questo costante rispetto dell’alterità dei due piani, di quello umano e di quello divino, dell’amore umano e di quello divino, della condotta di vita umana e di quella dei cristiani, si pone la paidagoghìa dello Pseudo-Macario, «cura» o assistenza delle anime e degli uomini, in cammino d’ascesi e di formazione. Per entrare nello specifico del brano appena sopra considerato, occorre ricordare come per il nostro autore l’amore umano e l’amore divino, eros ed agàpe, non vanno mescolati, né confusi con l’agàpe divina. Anche nel kòsmos umano, l’amore da eros diventa agàpe, possiede in sé sia la proprietà “erotica” sia quella “agapica”, può essere geloso e possessivo come anche altruistico ed oblativo, aperto a gesti di Cfr. Lo/goj 8,3,3,15-25 (Coll. III), in V. DESPREZ, Oeuvres Spirituelles I, 148-150: e)rgazome/nh th\n gh=n th=j kardi¿aj, iàna poih/sv karpou\j “tou= pneu/matoj”, kentoume/nh kaiì mastizome/nh u(po\ tw½n pikrw½n peirasmw½n ma=llon ei¹j to\ eÃrgon to\ qei+ko\n. Ove l’anima «lavorando la terra del cuore per produrre frutti dello spirito; 32
stimolata e spinta dalle amare esperienze della sua vita, lavorerà diligentemente ed ancora più attivamente all’opera divina.», vd. F. ALEO, Discorsi, 94-95, per la versione italiana ed ID., «Guida dello Spirito» e «guide spirituali» nel Corpus macarianum: Teologia e Spiritualità per una rinnovata esperienza di vita cristiana, in Laòs 18 (2011) 1, 7-21, per le osservazioni su questo ed altri testi affini.
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gratuità. L’amore umano, dunque, non è soltanto eros, è anche agàpe, non è soltanto “erotico” ma anche “agapico”; questa notazione, sapienziale ed ascetica insieme, permette di scorgere l’uomo che ama, nella sua interezza, oppure nel suo «passare dalla verità fino al suo fine» od al suo compimento (télos). L’«uscire dalla vita» è da intendersi allora come il precludersi da parte dell’uomo la possibilità e l’opportunità di vivere la vita divina nella propria vita umana (zoé), mentre l’«entrare nella vita» è proprio di chi impara dalle prove della sua vita terrena, ad integrare l’umano, compreso il peccato, nella vita divina o nei «misteri celesti» che si vive nell’anima con progressi, esperienze e cadute. La via che permette al monaco di entrare nella vita divina non è quella che lo fa uscire dalla vita degli uomini, questa dev’essere invece lasciata e rispettata come inerente al kòsmos od ordine dell’umano. Sono le prove e le mortificazioni della vita ascetica e monastica, apprese e vissute nel monastero e nella comunità, che insegnano ad integrare l’umano nel cammino di perfezione del monaco o dell’asceta. L’umano, allora, dev’essere inserito, pienamente integrato, in una nuova via ed in un nuovo percorso educativo o paidagoghìa che assurge ad essere una pratica d’umanazione. Una prerogativa fondamentale dell’umano è l’amore o meglio l’“amare” che non è sempre geloso o possessivo ma riesce anche a divenire “agapico”; se però l’“amare” umano va congiunto, mescolandolo, all’“amare” divino, sempre oblativo e gratuito, senza discernimento, allora si finisce per «essere impediti nelle cose spirituali» e di non progredire nella vita secondo lo Spirito. Il fatto che vi sia, nel Corpus macarianum, chiara, l’istanza di educare l’umano non vuol dire che chiara sia anche la spiegazione ed attuazione di tale istanza. Limitati sembrano essere gli strumenti concettuali come limitato è il bagaglio lessicale dello Pseudo-Macario. Certamente, in tutta la sua opera, è in corso — quindi non ancora compiuta — una transignificazione dei termini del linguaggio in uso al suo tempo33.
33 Cfr. F. ALEO, Educare l’umano alla vita divina nel Corpus Macarianum: paidagoghìa, diagoghé e pràxis, in A. ROTONDO (a cura di), Studia Humanitatis. Saggi in onore di Roberto Osculati, Roma 2011, 83-91.
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3. LA SCRITTURA NEL CORPUS MACARIANUM Nel cristianesimo, la Sacra Scrittura, frutto della rivelazione divina a beneficio della Chiesa, vi occupa un posto assolutamente centrale. Alla Scrittura va riferito ogni atto della vita della comunità cristiana, dalla dottrina, alla disciplina, alla liturgia, in senso sia collettivo sia individuale. La Scrittura, però, costituisce un complesso di scritti eterogenei per argomento, forma, cronologia, a volte non facilmente accessibili, per diversi motivi, di modo che la loro effettiva conoscenza e la loro applicabilità da parte dei cristiani alla loro vita non si presentavano d’evidenza immediata ed imponevano un lavoro ermeneutico piuttosto complesso. Questo lavoro ermeneutico poteva essere esplicito e diretto, affrontando l’interpretazione dei testi sacri in forme letterariamente diverse come l’Omilìa, il Sermo, il Lògos, il Commentarium, il Tractatus esegetico; implicito ed indiretto, nel senso che l’applicazione del testo sacro alle varie finalità della vita comunitaria, imponeva di penetrarne il significato ed il valore34. Una delle modalità e delle pratiche di questa applicazione nella vita comunitaria del cristianesimo e della Chiesa antica è proprio l’Erotapòkrisis di cui abbiamo spiegato precedentemente gli scopi e le finalità. Tutta la vita della comunità cristiana primitiva era condizionata dall’interpretazione della Scrittura. Negli asketéria o fraternità ascetiche eustaziane, nelle comunità monastiche basiliane o nelle comunità ascetiche pseudomacariane del IV secolo, l’insegnamento, la comprensione e l’assimilazione della Scrittura, in quanto parola viva dell’individuo e della comunità per la loro salvezza, assumevano, innanzitutto, la forma dell’insegnamento orale impartito dall’Abbas o dall’“anziano”, agli asceti o ai monaci, quindi quella della discussione, talvolta animata ed accesa con i membri della comunità35. Le Regulae Morales di Basilio 34 Cfr. M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma 1985, Introduzione, 9-10. 35 A motivo di tale contingenza, l’ 'Erwtapo/krisij si differenzia radicalmente dal Dialogo di origine platonica. Altri lo/goi del Corpus macarianum, inoltre, somigliano alle Collationes di Cassiano e potrebbero appartenere ad una fase di riflessione e meditazione, successive a quella documentata dall’ )Erwtapo/krisij. Potrebbe essere il caso del Lo/goj 52 della Collezione I, un lo/goj che esprime, in forma compiuta e
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di Cesarea e le Erotapokrìseis dello Pseudo-Macario Egizio sono le testimonianze delle discussioni e talvolta degli accesi dibattiti con i membri di fraternità ascetiche o di comunità monastiche, simpatizzanti di movimenti ascetici radicali o dagli atteggiamenti estremisti, sull’interpretazione della Scrittura o sul senso da dare ad un passo biblico36. Quello degli effetti della presenza personale della grazia è il tema che più sta a cuore allo Pseudo-Macario e questi cerca di esporlo con termini il più possibile oggettivi. È il tema intorno al quale verte ogni erotapòkrisis del Corpus macarianum o sul quale convergono tutti gli argomenti in essa discussi, fra l’“anziano” ed i discepoli. I termini di preferenza impiegati sono: pléroma, plerophorìa ed àisthesis. Questi compendiano la pienezza dello Spirito Santo descritta come un’esperienza integrale della persona, secondo l’insegnamento delle epistulae paoline37. Il fine del cristiano è la partecipazione allo Spirito Santo ed alla sua pienezza, che, nello Pseudo–Macario, va intesa come pléroma strutturata, una riflessione completa ed ordinata sulla Chiesa, ma siamo nel campo delle ipotesi, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 92-107. 36 Non conosciamo le pratiche comunitarie dell’insegnamento o della trasmissione della Scrittura negli a)skhte/ria o nelle fraternità ascetiche di Eustazio di Sebaste. Le fonti antiche in nostro possesso, pervenuteci attraverso i resoconti dell’Historia Ecclesiastica di Socrate e di Sozomeno, ci parlano delle sue pratiche ascetiche e degli eccessi in esse compiuti da alcuni dei suoi discepoli, rimanendo però nel vago; Epifanio di Salamina nel suo Pana/rion, sulla personalità di Eustazio, è talvolta ambiguo e contraddittorio; gli Atti del Sinodo di Gangra attestano e riportano le condanne delle sue pratiche ascetiche da parte dei vescovi dell’Asia Minore ma non di tutti. Le nostre fonti ci parlano ancora di polemiche e di tensioni all’interno dell’esperienza ascetica eustaziana, fino ad arrivare a delle vere e proprie scissioni e defezioni da parte dei suoi membri dagli atteggiamenti estremisti, vd. F. ALEO, Epifanio di Salamina e il movimento messaliano: spunti apologetici in Pan. 80, di prossima pubblicazione. Indubbiamente le Regulae Morales sono sorte e redatte nelle fraternità ascetiche eustaziane, all’epoca in cui Basilio di Cesarea era ancora discepolo di Eustazio di Sebaste e prima della rottura del suo rapporto con lui. Riteniamo che l’anonimo autore del Corpus macarianum che si cela dietro il nome di Macario Egizio fosse un’asceta, appartenente alle cerchie eustaziane moderate, ma non aderente al movimento monastico di Basilio che tanti addentellati ha peraltro, con quello di Eustazio, basti pensare allo ptwxotrofe/ion di Sebaste ed alla Basiliade di Cesarea. Per la complessa questione, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, Conclusioni, 201-220. 37 Per plh¿rwma, cfr. Rm 15,29;Ef 1,23;4,13-14;Col 1,19;2,9. Per plhrofori¿a, cfr. 1Ts 1,5;Col 2,2;Eb 6,11;10,22.
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o «pienezza» e plerophorìa o «contezza», vale a dire la consapevolezza e la conoscenza piena e particolareggiata della trasformazione e della crescita dallo Spirito operata. Sembra opportuno tradurre il termine àisthesis, con quello italiano di «presentimento», designante nello Pseudo-Macario uno stato, sia pur infimo, di coscienza della grazia operante dello Spirito Santo, che svolge una funzione quasi di verifica e di controllo degli effetti trasfiguranti dello Spirito. Il presentimento od il desiderio continuo è l’indizio che consente, a coloro i quali sono stati illuminati, di percepire gli effetti della grazia trasformante. Questa attenzione alla dimensione esperienziale della grazia dello Spirito Santo, i cui segni della sua presenza, nell’anima, sono descritti con accenti quasi sensibili, giustifica il sospetto della presenza, negli scritti del Corpus macarianum, dell’eresia messaliana. Tuttavia, proprio l’accuratezza e la precisione dei termini e delle espressioni adoperate induce a ritenere che il loro autore voglia prendere le distanze proprio dalle cerchie di carismatici ed entusiasti, quali i messaliani38. Negli scritti pseudomacariani, è possibile evidenziare il particolare modo di citare la Scrittura del loro autore. La Scrittura raramente viene citata letteralmente e per esteso, si riscontrano numerose citazioni a memoria, richiamate per mezzo di “parole chiave”. La citazione scritturistica, in realtà, traspare da ampi brani o dal lògos tutto 38
Nel Corpus macarianum, l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo si realizza meta/ pa/sej a)isqh/seoj kai£ plerofori/aj, oppure nella variatio: e)n a)isqh/sei kai£ pa/sv plerophori/#; le due espressioni cercano di connotare sensibilmente l’«esperienza» o pei/ra dello Spirito Santo, non soltanto con plerofori/# o «contezza» ma anche con a)isqh/sei o «presentimento», in un certo qual modo, sensibile ed oggettivo. L’esperienza dello Spirito Santo si manifesterà così anche kai£ autv/ pei£r# kai£ a)isth/sei ove l’aggettivo dimostrativo qualifica la particolarità di questa esperienza, avvertita dai sensi informati dallo Spirito Santo. Anzi, l’anima in questo stato «vede» od oÓyetai i beni celesti: tale esperienza è suggerita quasi come una condizione sensibile. A nostro avviso, l’autore gioca qui con l’ambiguità delle parole per presentare in maniera più immediata e coinvolgente l’inabitazione personale dello Spirito Santo. La citazione libera di 1Cor 2,9 serve, infatti, per ricordare ai suoi ascoltatori come i sensi normali non partecipano ad una simile esperienza, la cui portata ed il cui effetto rimangono volutamente indefiniti allo scopo di rendere quasi “iniziatica” la comprensione dei suoi testi, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 80-81.
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intero; si può allora parlare di una meditazione scritturistica previa ma anche di una pratica assidua del testo biblico che mostra l’estrema familiarità dello Pseudo-Macario con la Scrittura. A volte, la citazione scritturistica non è rispettata nel suo vero significato ma si adatta all’argomento trattato nel lògos, nell’omilìa o nell’erotapòkrisis. In questo modo, l’autore delinea un percorso, tale da illuminare e suggerire il significato delle citazioni scelte. Il particolare modo di citare la Scrittura dello Pseudo-Macario obbedisce ad un criterio molto personale; la citazione biblica traspare anche dall’associazione di versetti fra loro combinati e rielaborati insieme39. Nei suoi scritti, la Scrittura è profondamente assimilata, meditata e ruminata, secondo un procedimento tipicamente monastico. La lezione di un senso soggiacente alle Scritture che deve essere tratto fuori dalla Scrittura stessa è certamente origeniana. Come per Origene d’Alessandria, per lo Pseudo-Macario è fondamentale il principio, secondo il quale, la comprensione vera della Scrittura è solo quella “spirituale”. A questo aggettivo egli dà un senso profondamente interiore, pedagogico e morale. Quella dello Pseudo-Macario non è dunque esegesi “tecnica” ma profondamente “spirituale”, nel senso che essa apporta giovamento ed edificazione all’anima. Solo uomini “spirituali”, nel senso che hanno in sé lo Spirito Santo o uomini educati da altri uomini “spirituali” possono sperare di arrivare al vero senso “spirituale” delle Scritture. È l’inabitazione dello Spirito Santo a consentire la retta interpretazione della Scrittura; in caso contrario, la parola di Dio trasmessa, viene adulterata. Si può affermare che l’inabitazione personale dello Spirito Santo è soprattutto un approccio esegetico che opera nell’anima di chi si accosta alla Scrittura, illustrando, chiarificando e rivelando il senso “spirituale” ivi nascosto. La Scrittura, quindi, è il luogo ove la riflessione mistica e teologica dello Pseudo-Macario può e deve autenticamente comprendersi. Il cuore, purificato e santificato, con l’ascolto della Parola di Dio, nelle Scritture, Un esempio è fornito dall’ e)rotapo/krisij, posta all’inizio del Lo/goj I,1,1,1-6, della Collezione III, cfr. V. DESPREZ, Oeuvres Spirituelles I, 72-73. Vd. F. ALEO, Discorsi, 57, per la versione italiana ed ID., Legge naturale e legge divina in un Logos dello Pseudo–Macario Egizio (Log. I, Coll. III). 39
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sotto la guida dello Spirito Santo, viene iniziato ad una lettura rivelatrice, quella dell’inabitazione in sé dello Spirito Santo. Attraverso la Parola di Dio che entra nel cuore, nell’anima si compie e si consuma l’amore spirituale, nelle mistiche nozze dell’anima con il Logos che significa «parola» ma che designa anche Cristo, il Verbo incarnato. Leggiamo infatti: «(L’anima), infatti, ferita nell’amore per Lui brama e viene meno, osando parlare così, come una fanciulla, per l’intimo rapporto (synousìa) che a lui la unisce, intellettuale e mistico insieme, secondo l’incorruttibile, intima congiunzione (synàpheia) dell’unione nella santificazione. Beata, davvero, un’anima siffatta, che, vinta dall’amore spirituale, si è sposata degnamente con Dio Verbo. “La mia anima esulta nel mio Dio perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli.” (Is 61,10). Desiderando la sua bellezza, il re della gloria reputò degno di chiamarla non soltanto tempio di Dio ma anche figlia di re e regina: tempio di Dio perché abitata dallo Spirito Santo, figlia del re perché generata “dal Padre delle luci” (Gc 1,17), regina, perché congiunta intimamente alla divinità della gloria dell’Unigenito.»40.
L’esperienza di Dio nell’anima assume quindi, nel nostro autore, accenti mistici e quasi sensuali che lo portano a parlare dell’esperienza
40 Lo/goj, 40,2,3,9-19 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, II, 64: (h( ga£r toiau/th yuxh/) tetrwme/nh ga\r tv= ei)j au)to\n a)ga/pv e)pipoqei= kai£ e)klei¿pei iÐna tolmh/saj eÃipw th\n pro\j au)to\n w(j ko/rh nohth\n kai£ mustikh\n sunousi¿an kata\ th\n aÃfqarton suna/feian th=j e)n a(giasm%= e(nw¿sewj. Makari¿a w(j a)lhqw=j h( toiau/th yuxh/, hÐtij h(tthqei=sa t%= pneumatik%= eÃrwti a)ci¿wj e)numfeu/qh t%= qe%= lo/g%. Lege/tw toi¿nun <au)th/>: a)gallia/sqw h( yuxh/ mou e)pi£ t%= kuri¿%: e)ne/duse ga/r me i(ma/tion swthri¿ou kai£ xitw=na eu)frosu/nhj perie/qhke/ me w(j numfi¿% mi£tran kai£ w(j nu/mfhn kateko/smhse/ me ko/sm%. tau/thj ga\r tou= ka/llouj e)piqumh/saj o( basileu\j th=j do/chj kathci¿wse xrhmati£zesqai ou) mo/non nao\n qeou=, a)lla\ kai£ qugate/ra basile/wj kai£ basili¿da: nao\n me\n qeou= w(j oi)keiwqei=san t% a(gi¿% pneu/mati, qugate/ra de\ basile/wj w(j teknopoihqei=san para\ tou= patro\j tw=n fw¿twn kai£ basili¿da w(j sunafqei=san tv= qeo/thti th=j do/chj tou= monogenou=j. Cfr.
F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/2, 263, per la versione italiana, piuttosto libera, nonché F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 89-90.
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dell’inabitazione dello Spirito Santo nell’anima con termini che suggeriscono quasi un’esperienza sensibile. 4. IL LOGOS II DELLA COLLEZIONE I Il terreno dove avviene la nuova dinamica educativa ed il nuovo processo psicopedagogico che prende forma nella pratica d’umanazione della paidagoghìa dello Pseudo-Macario, in particolare, nell’Erotapòkrisis, nelle comunità o fraternità ascetiche che si ispirano al suo insegnamento, è la Scrittura, la sua meditazione, interpretazione e comprensione. Il Logos II della Collezione I, il primo di una delle quattro raccolte che fanno parte del Corpus macarianum, si mostra come una serie di erotapokrìseis, compilate e riunite insieme, senza un apparente collegamento fra loro. In realtà, il nesso che le unisce intimamente appare essere il problema della persona di Satana, la sua origine e la sua opera che disturba, con il peccato della Caduta di Adamo, la capacità ed il desiderio dell’uomo di salvarsi. Ad una prima lettura, le Risposte dell’“anziano” sembrano ripetere gli stessi argomenti e gli stessi contenuti per tutto il Lògos II. La ripetitività e la conseguente prolissità che si nota nelle erotapokrìseis, man mano che si dilungano su vari argomenti, a partire dall’argomento principale della prima erotapòkrisis del Logos II, può dipendere da due fattori che, contemporaneamente, evidenziano due aspetti: dal fatto che le discussioni ed il dibattito, orali, siano stati poi messi per iscritto dai discepoli nella comunità e dal fatto che la trascrizione delle Domande e delle Risposte, fra l’“anziano” ed i discepoli, è stata assai fedele alla viva voce del maestro, rinunziando volutamente ad una redazione che abbreviasse, compendiando ed in certi casi chiarendo, le affermazioni contenute nelle erotapokrìseis41. Il Lògos II inizia con due lunghi cataloghi di virtù e di vizi: i primi sono frutto dell’ascolto della Parola di Dio; i secondi si acquistano non ascoltando la Parola di Dio. L’Erotapòkrisis mostra lo studio, la meditazione personale e l’assimilazione intima e profonda della Scrittura
41
Cfr. F. ALEO, Discorsi, Nota editoriale, 48.
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che avveniva nella comunità ascetica. La prima erotapòkrisis del Lògos II riguarda così l’identità di Satana: «Domanda: chi è Satana, e quando ha peccato, così da diventare Satana? Risposta: È uno spirito ragionevole, di questo mondo, che dice cose cattive; per la sua stessa cattiveria e per la sua scelta tenebrosa, diventò tenebra.»42.
La risposta non si dilunga sulla natura del maligno e sulle sue opere. Segue immediatamente una dichiarazione programmatica: «Ma bisogna ascoltare il senso più mistico e nascosto delle Scritture: prima che anche Adamo fosse creato, egli trasgredì e divenne Satana, per non aver voluto fare la volontà di Dio.»43.
Intendere la Scrittura, per l’“anziano”, non significa soltanto porsi in ascolto ma ascoltarne il senso nascosto. È quindi tutto un susseguirsi di citazioni bibliche (Is 14,12;Rm 5,13;Eb 12,2;Rm 7,11;2Ts 2,4) che spiegano soprattutto la presenza del peccato e della morte nella vita dell’uomo. Più avanti, lo Pseudo-Macario o l’“anziano” spiega, rispondendo alla Domanda, il motivo della presenza di Satana nel mondo: «Questi (Satana), però, fu dimostrato oltre misura peccatore per il pensiero terreno e la mente superba, perché aveva desiderato di impadronirsi (arpàzo) con la cattiveria del dono fatto all’uomo: l’onore (axìoma) di essere padrone del mondo. Gettato dunque dal cielo, per il 42 Lo/goj, 2,2,1,15-18 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 3: ¹Erw¯thsij. Ti¿ e)sti satana=j kaiì <ti¿> pote hÀmarten, iàna satana=j ge/nhtai; A ¹ po/krisij. Pneu=ma/ e)sti logiko/n, e)gko/smion, lalou=n ponhra/, dia\ de\ i¹di¿an kaki¿an kaiì skoteinh\n proai¿resin skoteino\j ge/gonen. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 31-
32, per la versione italiana. 43 Ibid., 2,2,18-21, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 3: w¨j de\ mustikw¯teron a)kou/ein xrh\ tw½n grafw½n kaiì baqu/teron: pro\ tou= ga\r to\n ¹Ada\m ktisqh=nai pare/bh kaiì satana=j ge/gone, to\ qe/lhma tou= qeou= poieiÍn mh\ boulhqei¿j. Vd.
F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 32, per la versione italiana, piuttosto libera. Riguardo a mustiko/j reso con «nascosto», vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 193-194. Riteniamo, dunque, vada inteso come il «senso più nascosto e più profondo delle Scritture».
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motivo che si è detto, ed inoltre per aver ingannato l’uomo, perché era una creatura padrona, fu lasciato (aphìemi) in vista di un’altra economia.»44.
L’uomo era stato creato da Dio in vista dell’esercizio della sua signorìa nel mondo (en tò kòsmo); egli era infatti una «creatura padrona». Satana lo invidiava per questa sua dignità (despotikòn axìoma) e volle impossessarsene (arpàzo). Si ricava, allora, che l’uomo e non Satana è destinato ad esercitare la signorìa ed il potere nel mondo. Si può riscontrare, nella risposta, un concetto importante riguardo la presenza di Satana e quindi del Male nel mondo. Satana «fu lasciato» (aphìemi) in vista di un «disegno provvidenziale divino» od oikonomìa, termine che, nello Pseudo-Macario, acquista un significato originale45. In questa prima erotapòkrisis, il carattere o il fine di questa oikonomìa è pedagogico: « … il Maligno non fu immediatamente condannato alla gehenna, ma, dopo aver ingannato l’uomo, gli fu permesso di mettere alla prova (dokimàzo) ed esercitare (ghymnàzo) la stirpe umana e la sua libertà, nelle circostanze e nei tempi opportuni, affinché, per essere stati da lui messi alla prova, fossero manifesti quanti, amando Dio, non avevano comunione con il demonio … .»46. Ibid., 2,7,24-28 in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 4: au)to\j de\ kaq’ u(perbolh\n a(martwlo/teroj geno/menoj a)pedei¿xqh dia\ tou= ghi¿+nou fronh/matoj kaiì th=j u(perhfa/nou oi¹h/sewj, e)piqumh/saj dia\ kakotexni¿aj a(rpa/sai to\ doqe\n t%½ a)nqrw¯p% e)n t%½ ko/sm% despotiko\n a)ci¿wma. r(ifeiìj ouÅn aÃnwqen, di' oÁ proei¿rhtai, eÃti de\ kaiì to\n aÃnqrwpon a)path/saj, dia\ to\ eiånai au)to\n kti¿sma despotiko\n ei¹j e(te/ran tina\ oi¹konomi¿an a)fei¿qh. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 33, per la versione italiana, piuttosto libera; preferiamo tradurre despotiko/n a)ci/wma 44
con «dignità signorile». 45 Sul significato di oi)konomi/a, precisamente di oi)konomi/a fainome/nh, in riferimento alla Chiesa visibile nel Lo/goj 52 della Collezione I, cfr. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 92-107. 46 Lo/goj, 2,2,8,3-7 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 5:... o( ponhro\j ou) parauta\ ei¹j th\n ge/ennan eÃktote katedika/sqh, all' a)path/saj to\n aÃnqrwpon h)fei¿qh kairoiÍj tisi kaiì xro/noij dokima/sai kaiì gumna/sai pa=san th\n a)nqrwpei¿an kti¿sin, iàna to\ tw½n a)nqrw¯pwn au)tecou/sion di' au)tou= dokimasqe\n gnwrisqv=, ti¿nej to\n qeo\n a)gaph/santej koinwni¿an met' au)tou= ou)k e)kth/santo … . Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi
e dialoghi spirituali/1, 33-34, per la versione italiana.
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Il fine pedagogico della presenza di Satana nel mondo è quindi quello di mettere alla prova (dokimàzo) e di esercitare (ghymnàzo) gli uomini, per manifestare (gnorìzo) quanti amano Dio e non hanno comunione con Satana. La prima erotapòkrisis del Logos II della Collezione I fa entrare nel vivo della discussione che, nel prosieguo del testo, oltre che pedagogica e formativa, diventa sempre più esegetica ed interpretativa dei passi della Scrittura più importanti e di più difficile interpretazione come quelli di Gen 3. Il problema principale, intorno al quale ruotano le erotapokrìseis del Lògos II della Collezione I, è quello della Caduta di Adamo ed Eva e del Peccato Originale. 5. «MARIA SECONDA EVA»: ESEGESI “SPIRITUALE” ED ORIENTAMENTO ERMENEUTICO
Proprio all’interpretazione ed alla comprensione di Gen 3, afferiscono le erotapokrìseis più importanti e più complesse del Lògos II della Collezione I. In particolare, vorremmo soffermarci sull’espressione e sul concetto di «Maria seconda Eva». Occorre notare l’attenzione posta dall’“anziano” all’ascolto della Parola. Adamo ha ascoltato la Parola, ma la Parola di Satana, non quella di Dio. Leggiamo infatti: «Gli fu dato (ad Adamo) dunque il “comandamento per la vita”, come sta scritto, e fu la parola a rovinarlo e a farlo disobbedire a Dio. Avendo abbandonato la parola di Dio e ascoltato quella del maligno, per avergli ceduto e aver mangiato dell’albero perì.»47.
L’ascolto della Parola guida la lettura di Gen 3 e diventa la chiave interpretativa della comprensione della Caduta e del Peccato Originale di Adamo. Poiché 47 Ibid., 3,4,2-5 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 6: e)do/qh <ouÅn> au)t%½ “h( e)ntolh\ ei¹j zwh/n”, w¨j ge/graptai, kaiì lo/goj hÅn o( a)pole/saj kaiì poih/saj au)to\n parakou=sai tou= qeou=. lo/gon ouÅn qeou= katalei¿yaj kaiì lo/gon a)kou/saj tou= ponhrou= kaiì u(pei¿caj kaiì fagwÜn e)k tou= de/ndrou a)pw¯leto. Vd. F. MOSCATELLI,
Discorsi e dialoghi spirituali/1, 35, per la versione italiana.
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«Come infatti per la parola del maligno l’uomo muore, così, per la parola di Dio, rinnovato nella sua mente, rivive.»48.
Questa conclusione prepara quanto viene detto subito dopo: «Allora infatti, per mezzo del serpente, il maligno parlò alla donna. Forse non osò avvicinarsi ad Adamo, ma, dopo aver persuaso la donna vaso più fragile, per suo mezzo ingannò Adamo, e così procurò ad essi la morte, secondo la sentenza del Signore.»49.
Occorre notare il passaggio significativo, da Adamo ad Eva o, piuttosto alla donna, compiuto dall’“anziano” nella sua lettura di Gen 3. Se prima ha detto che Adamo «ascoltò la parola del maligno», qui è detto che «il maligno parlò alla donna». Questo passaggio interpretativo è significativo perché consente all’“anziano” di porre la donna in una luce diversa; essa risalta come soggetto cui Satana rivolge la sua parola. Non sembra che qui l’“anziano” voglia mettere in evidenza semplicemente e banalmente la parità o l’eguaglianza di Eva con Adamo, della donna con l’uomo. L’“anziano” rivolge alla donna un’attenzione particolare, rispetto a quella riservata ad Adamo. Ad Eva, alla donna, per primo Satana, per mezzo del serpente, ha rivolto la parola. È questo un dato scritturistico ed esegetico incontestabile, interpretato e compreso, attraverso il senso «nascosto» (mystikòs) della Scrittura. Implicitamente, l’“anziano” pone a sé stesso o ai suoi discepoli, un’altra domanda, soggiacente — si può dire — a tutto il dibattito in corso: Perché il maligno parlò per primo alla donna? L’“anziano” azzarda un’interpretazione ed una risposta: «Forse non osò avvicinarsi ad Adamo», perché la donna era «vaso più fragile»50. 48 Ibid., 3,5,13-15, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 6: wÐsper ga\r di ’ lo/gou tou= ponhrou= e)keiÍ o( aÃnqrwpoj a)poqnv/skei, ouÀtw di ’ lo/gou qeou= nu=n pa/lin a)nakainizo/menoj t%½ n%½ a)nazv=. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1,
36, per la versione italiana. 49 Ibid., 3,6,15-18 in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 6: to/te ga\r dia\ oÃfewj e)la/lhsen o( ponhro\j tv= gunaiki¿. iãswj ga\r ou)de\ proseggi¿sai t%½ ¹Ada\m e)to/lmhsen, a)lla\ to\ a)sqene/steron skeu=oj th\n gunaiÍka pei¿saj di’ au)th=j to\n ¹Ada\m h)pa/thse, kaiì ouÀtwj o( qa/natoj au)toiÍj e)phne/xqh kata\ th\n a)po/fasin tou= despo/tou. Vd.
F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 36-37, per la versione italiana. 50 Vedremo più avanti, nello stesso lo/goj, come, in una successiva e)rwtapo/krisij,
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L’attenzione si volge alla «donna» (ghyné), all’assenso di costei al serpente, mettendone in rilievo l’importanza per le conseguenze successive che ne sono derivate per tutta l’umanità. Tuttavia, la donna non viene vista, né posta in opposizione ad Adamo od all’uomo. Adamo ed Eva costituiscono una sola umanità, l’uomo tutt’intero, che con la sua disobbedienza ha perduto la vita che conduceva in Eden51. Non vi è alcuna recriminazione sulla donna, né l’“anziano” postula un grado d’inferiorità di questa, rispetto all’uomo. Anche l’uomo è «vaso» d’iniquità o di grazia, di morte o di vita52; la donna è solo «vaso più fragile», ma pur sempre creatura umana, soggetta a peccare come Adamo, posto insieme con lei in Eden. La chiave esegetica dell’ascolto della Parola viene adottata per introdurre l’ingresso e l’intervento nella Storia della Salvezza di Maria, la «seconda Eva»: «Allo stesso modo, per la parola (lògos) del secondo Adamo, la seconda Eva, Maria, concepì: grazie a lei vi fu vita e salvezza per tutti coloro che credono nel suo nome.»53. sia trovata una risposta a questa domanda inespressa. Ciò dimostra come il Lo/goj II della Collezione I sia una trascrizione fedele, dalla viva voce dell’“anziano” e dei discepoli, di un dibattito in corso, con digressioni, precisazioni, puntualizzazioni, riprese, chiarimenti. 51 Poco prima, nel testo, si suggerisce un’altra interpretazione della Caduta e del Peccato di Adamo, secondo la quale, l’uomo presenterebbe in sé due uomini: oÀ te tou= sw¯matoj kaiì o( th=j yuxh=j, «quello del corpo e quello dell’anima», poiché: o( faino/menoj aÃnqrwpoj ei¹j faino/menon para/deison e)netru/fa, kaiì o( krupto\j th=j kardi¿aj aÃnqrwpoj ei¹j to\n a)o/raton tw½n a(gi¿wn a)gge/lwn noero\n para/deison a)ph/laue. Cfr. Lo/goj, 2,3,2,24-26, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 5 e vd.
F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 35, per la versione italiana, piuttosto libera: «l’uomo visibile godeva del paradiso visibile, e l’uomo nascosto, interiore, si volgeva al paradiso invisibile, intellegibile, dei santi angeli.», ove preferisce leggere «interiore» in luogo di «del cuore». Conformemente al senso di Gen 1,27; 2,23, lo Pseudo-Macario intende Adamo ed Eva, l’uomo e la donna, un solo aÃnqrwpoj. 52 Cfr. Lo/goj, 45,3,3,13-15 (Coll. I), in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 82: o( ga\r te/leioj ei¹j to\ kako\n kaiì baqu\j ei¹j th\n a(marti¿an a)na/gkv tiniì ou) de/detai, kai¿toi de\ wÔn skeu=oj diabo/lou ou) to\ oÀlon katakurieu/etai, all' eÃxei th\n e)leuqeri¿an tou= gene/sqai skeu=oj zwh=j. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/2, 288, per la
versione italiana: «Infatti (l’uomo) quando è perfetto nel male e ricco di peccato, non è legato da alcuna costrizione, ma ha la libertà di divenire vaso della vita.». 53 Lo/goj, 2,3,6,20-22, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 6: ouÀtwj e)ntau=qa dia\ lo/gou tou= deute/rou ¹Ada\m h( deute/ra EuÃa Mari¿a sune/labe kaiì di' au)th=j e)gen
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Quest’affermazione è densissima di contenuti teologici e cristologici. La Parola ascoltata da Eva era quella del maligno; la Parola ascoltata da Maria è il Verbo (Logos). Eva ascolta e commette il peccato; Maria ascolta e concepisce la Parola ascoltata, nel suo grembo. In Eva, la Parola di Satana ascoltata diventa il Peccato di Adamo; in Maria, la Parola di Dio ascoltata è il Verbo incarnato o il «secondo Adamo». Protologia e Cristologia, in Maria, si saldano a vicenda; alla coppia Adamo-Eva succede la coppia Cristo-Maria. Eva ha ascoltato e risposto alla Parola del maligno, operando il Peccato e la Caduta. Maria ha ascoltato e risposto alla Parola di Dio, concependo nel suo grembo il Verbo, incarnatosi in lei, compiendo la Redenzione e la Salvezza. Al Peccato, causato con la sua disobbedienza da Eva, segue la Grazia, causata con il suo concepimento virginale da Maria. Implicitamente, si afferma come il «secondo Adamo» rivolse la Parola a Maria, affinché, grazie al suo concepimento virginale, la Parola potesse essere rivolta agli uomini in Gesù, figlio di Maria. Subito dopo, il testo prosegue affermando, pur con molte ripetizioni, quanto detto prima, ma una cosa è certa: «Già esisteva come abbiamo detto, il peccato, cioè Satana anche prima della trasgressione di Adamo — poiché le Scritture debbono essere intese anche nel senso più mistico — e “per la durezza e impenitenza del suo cuore” (Rm 2,5) fu condannato “ad essere gettato nella gehenna” (cfr. Mc 9,43 e parr.).»54.
A motivo di un’interpretazione del senso più «nascosto» della Scrittura, lo Pseudo-Macario conclude affermando che Satana o il Peccato esistevano prima di Adamo. Tale affermazione non è prolissa o ripetitiva, ma a nostro avviso, intende scagionare la donna o Eva da nh/qh zwh\ kaiì swthri¿a pa=si toiÍj pisteu/ousin ei¹j to\ oÃnoma au)tou=. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi 54
e dialoghi spirituali/1, 37, per la versione italiana. Ibid., 3,7,22-26, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 6: hÅn ouÅn hÃdh, w¨j
proe/fhmen, h( a(marti¿a, hÀtij e)stiìn o( satana=j, kaiì pro\ th=j paraba/sewj ¹Ada/m w¨j kaiì mustikw¯teron eÃsti noeiÍn ta\j grafa\j kaiì dia\ “th\n sklhro/thta kaiì a)metano/hton au)tou= kardi¿an” eÃktote katekri¿qh “a)pelqeiÍn ei¹j th\n ge/ennan”. Vd.
F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 37, per la versione italiana, piuttosto libera. Ribadiamo la nostra traduzione con «nascosto» per mustiko/j.
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qualsiasi accusa o compromissione particolare con il Peccato di Adamo. Riteniamo che il «senso nascosto» delle Scritture che guida l’“anziano”, in questa esegesi “spirituale”, consista proprio nella meditazione della figura di Maria e del suo ruolo nella Storia della Salvezza. La densità dei contenuti, le affermazioni ellittiche od implicite, presenti nelle battute dell’erotapòkrisis, ci fanno sospettare la discussione di temi ed argomenti vari ed importanti, qui appena accennati. Nel prosieguo del Lògos, l’“anziano” trova una spiegazione al ruolo di Eva nella Caduta di Adamo: «Questa sua capacità di fare il male egli (Satana) la dimostrò, per la prima volta, nei confronti di Eva, facendola disobbedire al comando di Dio e per mezzo suo sviando Adamo, attraverso il vaso simile a lui; non poteva infatti avvicinarsi apertamente ad Adamo, forse a causa della gloria (doxa) che lo circondava.»55.
Satana sfrutta a suo vantaggio la somiglianza di Eva con Adamo per farlo cadere. Secondo l’“anziano”, la «gloria che lo circondava» impediva a Satana di accostarsi ad Adamo apertamente. Pur confessando che Adamo possiede la «gloria», richiamando in tal modo il testo paolino di 1Cor 11,5-7 ed aderendovi, riteniamo che l’esegesi pseudomacariana si risolva in un orientamento favorevole verso Eva. La di lei obbedienza a Satana e disobbedienza a Dio non è un atto d’accusa nei confronti di Eva a lei imputato. Siamo in presenza, dunque, di un orientamento ermeneutico, evidenziato nella meditazione e nello studio di Gen 3, sorto nella comunità ascetica dello Pseudo-Macario, scaturito dalla riflessione sul ruolo di Maria nella Storia della Salvezza e portato avanti fino ad importanti conseguenze, in una serie di erotapokrìseis, nel Lògos II della Collezione I. Ormai verso la fine del Lògos II, lo Pseudo-Macario, occupandosi della Ibid., 3,12,16-19, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 8:… dia\ th=j kakourgi¿aj au)tou= deigmatisqv=, hÁn prw¯twj ei¹j th\n EuÃan e)nedei¿cato th=j e)ntolh=j tou= qeou= parakou=sai poih/saj kaiì di' au)th=j to\n ¹Ada\m a)path/saj w¨j di' o(moi¿ou skeu/ouj: gumnw½j ga\r t%½ ¹Ada\m proselqeiÍn ou)k e)du/nato, iãswj dia\ th\n perikeime/nhn au)t%½ do/can. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 39, per la versione italiana. L’avvverbio iãswj, «forse», ci permette di cogliere il carattere opinativo e mai asseverativo dell’insegnamento posto dall’“anziano” nell’e)rwtapo/krisij. 55
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comprensione e dell’interpretazione del serpente di bronzo di Nm 21,6 e ss., riporta la seguente interpretazione: «All’avvento del Salvatore tutto il mistero giunse a pienezza e si compì per l’anima la perfetta felicità, grazie a Maria — che riceve vita al posto di Eva — la quale generò al mondo il Salvatore, il secondo Adamo, che si consegnò alla morte per la salvezza degli uomini.»56.
Nella coppia Cristo-Maria si compie l’altra metà della Storia della Salvezza, inaugurata dalla coppia primigenia Adamo-Eva. Come Eva ha ascoltato la Parola, così Maria ha ascoltato la Parola; come Eva con la sua obbedienza al Maligno ha portato in sé stessa il Peccato, così Maria con la sua obbedienza a Dio ha portato nel suo grembo la Grazia. Nella lettura del testo si evince anche un’altra interpretazione, non del tutto esplicitata dall’“anziano”. Eva ha ricevuto la morte, invece Maria la vita; come Adamo per mezzo di Eva si è consegnato a Satana ed alle sue passioni per cadervi prigioniero, così, Cristo, finalmente, grazie a Maria, si è consegnato agli uomini ed alle loro passioni, per morire e così salvarli con la sua morte57. CONCLUSIONI Trarre delle vere e proprie conclusioni dall’analisi, dall’esame e dallo studio delle erotapokrìseis del Corpus macarianum non è sempre facile né scontato. Abbiamo visto come nel Lògos II della Collezione I queste sono, in realtà, l’esito ed il risultato di considerazioni e di argomentazioni, suscitate ed agitate da dibattiti e discussioni, all’interno della comunità ascetica e monastica cui appartiene lo Pseudo-Macario 56 Ibid., 12,9,7-10, in H. BERTHOLD, Reden und Briefe, I, 24: e)piì de\ th=j parousi¿aj tou= swth=roj to\ pa=n musth/rion e)plhrw¯qh kaiì h( telei¿a kato/rqwsij tv= yuxv= e)tele/sqh dia\ Mari¿aj hÀtij a)ntiì EuÃaj lamba/netai Zwh/ t%½ ko/sm% to\n swth=ra tekou/shj, to\n deu/teron ¹Ada/m, oÁj u(pe\r th=j swthri¿aj tw½n a)nqrw¯pwn e(auto\n ei¹j qa/naton eÃdwke. Vd. F. MOSCATELLI, Discorsi e dialoghi spirituali/1, 59, per la versione
italiana. 57 Per un utile confronto sul tema del rapporto Eva-Maria nella Storia della Salvezza, cfr. IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, III,22,4, in PG 7,958-960, dove si coglie l’insistenza sulla distinzione tra Eva inoboediens e Maria oboediens.
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Egizio. Considerazioni ed argomentazioni, ascoltate e messe per iscritto ad opera di discepoli, tratte dalle risposte a viva voce dell’“anziano” e dalle domande a lui rivolte. Considerando l’Erotapòkrisis pseudomacariana una pratica d’umanazione di una incoativa paidéia cristiana — denominata in questi scritti paidagoghìa — e la Scrittura il terreno, sul quale questa paidagoghìa nasce e si esercita, ci sembra interessante trarre alcuni spunti di riflessione e di discussione da un orientamento ermeneutico, che abbiamo riscontrato nell’interpretazione di Gen 3, nelle Erotapokrìseis che formano il Lògos II della Collezione I, che, a nostro modesto avviso, mostra l’applicazione di questa pratica d’umanazione. La formula «Maria seconda Eva» compendia in sé una profonda meditazione scritturistica sulla figura ed il ruolo di Maria nella Storia della Salvezza. In virtù di questa meditazione, la figura ed il ruolo di Eva in Gen 3, in rapporto a Maria, risaltano e si pongono in un’evidenza speciale, nelle Risposte dell’“anziano” a discepoli od a giovani aspiranti alla vita ascetica. La fragilità di Eva è la fragilità della donna, dopo la Caduta, colta come opportunità e prospettiva, attraverso cui si dischiude il mistero e si rende possibile il prodigio della maternità virginale di Maria. Eva, dunque, era «vaso più fragile», perché, con la sua fragilità, fosse preparato l’avvento di Maria. Perché, Maria, con la sua obbedienza, ponesse fine alle conseguenze della disobbedienza di Eva, sconfiggesse la morte e desse al mondo la vita. Il Peccato esisteva prima di Adamo ed Eva e questa precisazione da parte del nostro autore è molto importante, perché sembra consentirgli di vedere Eva e la sua partecipazione alla trasgressione originaria in maniera nuova rispetto ad altri Padri a lui contemporanei.58 La fragilità di Eva non è vista come una colpa, ma diventa una nota della sua creaturalità; creaturalità vista in sé e per sé, non direttamente connessa con il Peccato ed il Male. La creaturalità di Eva e la sua libertà diventano, accesso e chiave, quasi insostituibili, al mistero di Maria. In questo modo, lo Pseudo-Macario, oltre a porre Eva e la donna in una luce 58
Si pensi ad esempio a Giovanni Crisostomo, In Genesim. Hom. IV,1, in PG 54,593; si rinvia a G. SFAMENI GASPARRO, C. MAGAZZÙ, C. ALOE SPADA, La coppia nei Padri, Roma 1991 (Letture cristiane del primo millennio 9. Antologie), 389, per la versione italiana ed il commento.
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diversa se non positiva, riesce a porre la donna, nella sua riflessione esegetica e teologica, con la sua fragilità, quale soggetto attivo e non passivo, in grado di rispondere personalmente sia a Satana che a Dio. Ad Eva Satana si è rivolto all’origine, a Maria «seconda Eva» Dio si rivolge a compimento della Storia della Salvezza. In Eva, la donna viene in un certo senso valorizzata e posta certamente in primo piano, poiché la sua fragilità non è per l’“anziano” fonte o motivo di giudizio, da piegare come movente interpretativo, allo scopo di assegnare o di giustificare un suo ruolo subordinato all’uomo nella storia dell’umanità dopo la Caduta, a partire da Gen 3; questa sua preminenza su Adamo nella Caduta — anche se si tratta di una preminenza tutta particolare — viene spiegata, compresa, quindi illuminata e riscattata da Maria, donna e «seconda Eva». Maria, a sua volta, viene compresa e rischiarata dalla fragilità di Eva, quale donna che risponde a Dio che a lei si rivolge personalmente e che quindi può salvare Adamo ed Eva, tutti gli uomini e le donne della storia. La meditazione sulla figura ed il ruolo di Maria nella Storia della Salvezza, sulla sua obbedienza e sul suo concepimento virginale permette all’“anziano” di porre la preminenza della figura e del ruolo di Eva nel Peccato originale e nella Caduta, sotto un’altra luce: quella della relazione. Eva si pone, per la sua fragilità, in relazione ed in ascolto di Satana, Maria si pone, per la parola del «secondo Adamo», il Verbo fatto carne, in relazione ed in ascolto di Dio. Eva è «vaso simile» ad Adamo, non è Adamo, anche se condivide con lui la sua sorte; è Eva, è donna, e la sua fragilità ha permesso il dispiegarsi di quella relazione che iniziatasi con Satana è continuata in tutta la Storia della Salvezza, in tutte le sue donne; quella relazione si è rivelata e compiuta in e con Maria, divenendo salvifica ed operando in Maria, «seconda Eva», l’ascolto vero e l’incarnazione della Parola di Dio. A questo punto, vorremmo osare porre una riflessione sull’organizzazione interna alla comunità ascetica dello PseudoMacario nonché sulla sua composizione. Questa, a somiglianza dei Fratelli e delle sorelle del Patto, nominati nel Liber Graduum, scritto ascetico, appartenente all’area siriaca, avrebbe avuto al suo interno anche presenze femminili59. Fra gli scritti in greco, appartenenti al 59
Sull’ascetismo e sul monachesimo siriaco, sulle loro tracce nell’ascesi, nella
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Corpus macarianum, esiste un solo brano che può indurre a pensare alla presenza di donne nella comunità ascetica dello Pseudo-Macario. Non possiamo escludere l’esistenza di altri Lògoi, Omilìai ed Erotapokrìseis in greco, non ancora scoperti oppure tràditi ed a noi pervenuti in altre lingue, nella complessa e ricca tradizione indiretta degli scritti del Corpus macarianum che potrebbero conservare la testimonianza di una presenza femminile nell’esperienza ascetica pseudomacariana60. Quest’unico brano in greco è tanto più interessante quanto più pone, nella comunità ascetica dello Pseudo-Macario, il dato della relazione uomo-donna come quello tra fratello e sorella (adelphòs-adelphé). Leggiamo infatti: «(Ma alla resurrezione dei corpi) Là non vi è né maschio né femmina, né schiavo, né libero (cfr. Gal 3,28); tutti sono trasformati in una natura divina (cfr. 2Pt 1,4), divenuti cristi, déi (cfr. Sal 82,6) e “figli di Dio” (cfr. Fil 2,15; 1Gv 3,1). Là allora il fratello potrà rivolgere parole di pace alla sorella senza vergogna, poiché tutti e tutte sono uno in Cristo Gesù. Ciascuno guarderà all’altro godendo del riposo dell’unica luce e in questo vicendevole sguardo subito nuovamente risplenderanno nella verità, nella vera visione dell’ineffabile luce.»61
mistica e nella spiritualità dello Pseudo-Macario Egizio, vd. A. VÖOBUS, Les Messaliens et les Reformes de Barcaume de Nisibe dans l’Église Perse, Pinneberg 1947; ID., History of Asceticism in the Syrian Orient, I-II, Louvain 1958-1960; ID., On the Historical Importance of the Legacy of Ps.-Macarius, Stockholm 1972. 60 È il caso della tradizione delle omelie in arabo, poste sotto il nome di Simeone Stilita, vd. L. VILLECOURT, Homelies spirituelles de Macaire en arabe sous le nom de Symeon Stylite, in Revue de l’Orient Chretien 21 (1918/1919) 337-344. Lo studioso, conducendo un’attenta analisi sui manoscritti arabi della Biblioteca Vaticana, precisamente il Vaticanus 80 ed il Vaticanus 84, arrivò alla conclusione che sia le omelie in arabo poste sotto il nome di Macario Egizio sia quelle poste sotto il nome di Simeone Stilita provengono da un’unica tradizione. In questo caso, il numero delle omelie attribuite allo Pseudo-Macario sarebbe pressoché raddoppiato. Inoltre, vd. W. STROTHMANN, Makarios/Symeon. Das arabische sondergut, in Göttingen Oriens Forschung I R. 11, Wiesbaden 1975; S. KHALIL, Le codex Kacmarcik et sa version arabe de la liturgie alexandrine; La version arabe du Basil Alexandrine, in Orientalia Christiana Periodica 44 (1978) 74-106; 342-390. 61 'Omili/a, 34,2,30-33 (Coll. II), in H. DÖRRIES-E. KLOSTERMANN-M. KROEGER, Die geistlichen Homilien des Makarios. Herausgegeben und erläutert, 261: (e)n de\ tv=
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È un brano dall’interpretazione non univoca. Potrebbe, infatti, parlare non soltanto della presenza femminile nella comunità ascetica dello Pseudo-Macario, ma anche e soprattutto, di nuove relazioni in atto, nella comunità, tra una adelphé o «sorella» ed un adelphòs o «fratello», tra un uomo ed una donna che, in Cristo, possono senza vergogna accostarsi (prosécho) l’uno all’altra, in una reciproca relazione — anche con un reciproco sguardo — liberati dal peccato, a motivo della verità che risplende in Cristo, in cui non vi è «né maschio né femmina». Oppure, il brano potrebbe ritenere possibile questa relazione tra uomo e donna — ritenuta come novità assoluta — soltanto alla fine della Storia, alla resurrezione dei morti. Si ricordi che, per lo Pseudo-Macario, la vita eterna o quella del mondo che verrà, viene vissuta già in questa vita, attraverso l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo, dai cristiani. In Cristo, quindi, nelle relazioni umane conformi al suo amore ed al suo Vangelo, si anticipa lo stato della vita beata, mentre quello della vita presente rimane carico di attesa nella beatitudine eterna62. La pratica d’umanazione della paidagoghìa pseudomacariana, esercitandosi in una comunità ascetica, sul terreno dello studio e della comprensione della Scrittura e sul piano della diagoghé degli uomini e delle donne, giunge a porre l’esistenza non semplicemente di una relazione “cristiana” ma di una relazione nuova tra l’uomo e la donna. Questa, come Eva o Maria, è vista in ascolto della Parola di Satana o della Parola di Dio ovvero come soggetto attivo che decide di sé stessa e con cui l’uomo ad immagine
a)nasta/sei tw½n swma/twn) “ou)k eÃstin e)keiÍ aÃrsen kaiì qh=lu, dou=loj kaiì e)leu/qeroj”, ei¹j qei+kh\n ga\r fu/sin aÀpantej metaba/llontai, Xristoiì kaiì qeoiì kaiì te/kna qeou= geno/menoi. e)keiÍ a)nepaisxu/ntwj to/te lalh/sei ei¹rh/nhn a)delfo\j a)delfv=: eÁn ga/r ei¹sin e)n Xrist%½ pa/ntej kaiì pa=sai. e)n e(niì fwtiì a)napauo/menoi prose/cei eÀteroj t%½ e(te/r%, kaiì e)n t%½ prose/xein eu)qe/wj pa/lin ei¹j a)lh/qeian e)kla/myousin, ei¹j a)lhqinh\n qe/an fwto\j a)rrh/tou. Cfr. PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco, Introduzione, traduzione e
note a cura di L. Cremaschi, Magnano 1995, 342, per la versione italiana, piuttosto libera. Preferiamo tradurre prose/xw con «accostarsi» in luogo di «guardarsi». 62 Cfr. F. ALEO, Discorsi, Nota editoriale, 50.
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di Cristo «secondo Adamo», si rapporta personalmente, attraverso un contatto (prosécho) liberato e liberante63.
63 Ovviamente, l’argomento merita ulteriori approfondimenti. L’accusa di messalianismo che grava sull’autore e sugli scritti del Corpus macarianum potrebbe dipendere anche dall’esistenza di comunità ascetiche miste di uomini e di donne, come ci dice Epifanio di Salamina, nel suo Pana/rion, al Capitolo 80, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, 19 ed ID., Epifanio di Salamina e il movimento messaliano: spunti apologetici in Pan. 80, di prossima pubblicazione, ove si nota la reticenza e l’ambiguità di Epifanio, riguardo la presenza di uomini e donne presso i messaliani che vivevano la «continenza» o e)gkra/teia. La Letteratura Cristiana siriaca antica, specie quella liturgica, riserva un posto privilegiato ed un’importanza inusitata alle donne, rispetto alle contemporanee Letterature Cristiane d’Oriente e d’Occidente, vd. S. ASHBROOK HARVEY, Le donne bibliche nella tradizione siriaca, in KARI E. BØRRESEN – E. PRINZIVALLI (edd.), Le donne nello sguardo degli antichi autori cristiani. L’uso dei testi biblici nella costruzione dei modelli femminili e la riflessione teologica dal I al VII secolo, Trapani 2013, 117-136. Se, come sembra probabile, la comunità ascetica e monastica dello Pseudo-Macario risente anche delle esperienze e della prassi dell’ascetismo siriaco, una presenza femminile in essa non dovrebbe stupire.
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I RITI POSTBATTESIMALI NELLA TRADIZIONE LITURGICA DEI SECOLI II-V
SALVATORE MAGRÌ*
1. VISIONE D’INSIEME In questo articolo servendoci di alcune fonti liturgiche relative ai secoli II-V prendiamo in esame le vicende del rito della confermazione con le relative trasformazioni che esso ha subito sia in Oriente, che in Occidente. Dalle testimonianze consultate risulta che in Oriente, fin dall’antichità, era più frequente il rito della crismazione non ancora chiaramente distinto dal battesimo1. In Occidente, invece, si hanno testimonianze molto antiche relative a quella parte dell’Iniziazione cristiana, nella quale fu poi ravvisato distintamente il sacramento della confermazione. Infatti, dopo l’abluzione battesimale e prima della recezione del cibo eucaristico, vengono indicati molti gesti rituali da compiersi, come l’unzione, l’imposizione della mano e la consignatio. Da allora, lungo il corso dei secoli, sono sorti dubbi e discussioni circa gli elementi che appartengono all’essenza del rito della confermazione. *
Docente di Liturgia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ORIGENE, De principiis I, 3,2, a cura di P. Koetschau, in Die griechischen christlichen Schriftsteller, 22, Berlino 1913, 49; ID., Commentarium in Epistolam S. Pauli Ad Romanos V, 8, in J. P. MIGNE (ed.), Patrologiae Cursus Completus. Series Graeca, 14, Paris 1857, 1038; CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi XVI, 26; XXI, 1-7, in J. P. MIGNE (ed.), Patrologiae Cursus Completus. Series Graeca, 33, Paris 1857, 956; 1088-1093. 1
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Salvatore Magrì
Giova, pertanto, tenere presente fin da ora che la relazione tra imposizione delle mani, unzione con il crisma e signazione è un aspetto, tra gli altri, dell’ambiguità storica di questo rito. In questo articolo cercheremo, pertanto, di ripercorrere le tappe storiche dell’ evoluzione del rito della confermazione per fare luce sulla liturgia di questo sacramento. Limitandoci alle fonti possiamo osservare che nel periodo immediatamente successivo all’età apostolica non abbiamo un rito battesimale molto sviluppato e c’è un silenzio totale a proposito di un sacramento distinto dal battesimo per la comunicazione dello Spirito. Così la tradizione del II secolo è in continuità con il Nuovo Testamento poiché il sacramento della recezione dello Spirito è il battesimo di acqua. Il “sigillo dello Spirito” non viene conferito con una imposizione delle mani dopo il battesimo, della quale non si hanno testimonianze esplicite, ma dal battesimo di acqua. Giustino, pur parlando del battesimo non tratta espressamente della confermazione, né ricorda il suo rito2. Soltanto nel III secolo si trovano dei riti connessi al battesimo, dei quali più tardi si comporrà la struttura del rito della confermazione: si tratta della imposizione delle mani, dell’unzione e della signatio. A Roma, inoltre, troviamo persino una seconda importante unzione postbattesimale, non ancora spiegata nella sua origine, ma estremamente significativa per l’evoluzione del successivo rito di confermazione. A questo punto a difesa di quanto verrà esposto in questo articolo mi sembra opportuno avvertire il lettore che il periodo che va dal III al V secolo rappresenta l’era più buia della storia della confermazione perché non abbiamo testimonianze chiare ed esplicite sul gesto essenziale che successivamente sarebbe stato considerato il secondo sacramento dell’Iniziazione cristiana. Inoltre le poche testimonianze patristiche che tutti gli autori contemporanei citano nelle loro trattazioni sulla confermazione presentano molte difficoltà di interpreta-
2 Cfr. GIUSTINO, Apologia I, 61-65, in Apologie. Testo, versione, introduzione, note ed indice a cura di S. Frasca, Torino 1938, 118-125 (Corona Patrum Salesiana, Series graeca, 3).
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I riti postbattesimali nella tradizione liturgica dei secoli II-V
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zione perché non sempre è chiaro se fanno riferimento ad un contesto battesimale oppure ad un contesto di riconciliazione degli eretici. 2. IMPOSIZIONE DELLE MANI Nel III secolo troviamo delle esplicite testimonianze circa la prassi dell’imposizione delle mani. Tertulliano, in un contesto battesimale scrive: «…Dehinc manus imponitur per benedictionem, advocans et invitans Spiritum Sanctum»3.
E poi, in un’altra opera aggiunge: «…caro manus impositione adumbratur, ut anima Spiritu inluminetur…»4.
Al tempo di Tertulliano dunque c’era una preghiera di benedizione nel contesto della quale avveniva su ciascuno dei nuovi battezzati l’imposizione della mano, gesto di cui viene precisato lo specifico significato: invitare lo Spirito a discendere su ognuno di loro5. Cipriano ricollega il rito di Atti 8,15-17 a quanto si praticava allora nella sua Chiesa: «Et idcirco quia lecitum et ecclesiasticum baptisma consecuti fuerant, baptizari eos ultra non oportebat, sed tantummodo quod deerat id a Petro et Iohanne factum est, ut oratione pro eis habita et manu imposita invocaretur et infunderetur super eos Spiritus Sanctus. Quod nunc quoque
3 TERTULLIANO, De baptismo VIII, a cura di J. Borleffs, in Tertulliani Opera, I, Opera Cattolica adversus Marcionem, Turnhout 1954, 283 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 1). 4 ID., De resurrectione mortuorum VIII, 3, a cura di J. Borleffs, in Tertulliani Opera, II, Opera Montanistica, Turnhout 1954, 931 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 2). 5 P. DAQUINO, Battesimo e Cresima. La loro teologia e la loro catechesi alla luce della Bibbia, Torino-Leumann 1970, 112.
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Salvatore Magrì apud nos geritur, ut qui in ecclesia baptizantur praepositis ecclesiae offerantur et per nostram orationem ac manus impositionem Spiritum Sanctum consequantur et signaculo dominico consummentur»6.
Facciamo notare, tuttavia, che il contesto nel quale sono inserite queste parole non è battesimale, ma sembra essere quello della riconciliazione dei lapsi. L’anonimo autore del “De rebaptismate” (256 d.C.), invece, ricorda per due volte quest’imposizione della mano, ma lo fa in un contesto battesimale: «Ut plerique post baptisma sine impositione manus episcopi de saeculo exeant...imposita ei manus non est ab episcopo ut Spiritum Sanctum acciperet»7.
Anche nel IV secolo abbiamo alcune testimonianze circa la presenza di un rito di imposizione delle mani. Ilario di Poitiers rievoca questo gesto in un contesto che non è del tutto chiaro: «…donum Spiritus Sancti per impositionem manus et precationem […] erat gentibus largiendum»8.
Così pure Eusebio di Vercelli che usa l’espressione «in manu impositionis»9 in un contesto altrettanto poco chiaro. Ambrogio di Milano, invece, non parla espressamente dell’imposizione delle mani, ma ricorda l’invocazione corrispondente da parte del 6
CIPRIANO, Epistola 73,9, a cura di G. F. Diercks, in Sancti Cypriani episcopi Opera,
III/2, Epistularium, Turnhout 1996, 539 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series
Latina, 3C). 7 De rebaptismate III, a cura di G. Hartel, in Cypriani Opera,Vindobonae 1871, 7273 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 3/3). 8 ILARIO DI POITIERS, Commentarium in Matthaeum, XIX, 3, in HILAIRE DE POITIERS, Sur Matthieu, II, Texte critique, traduction, notes, index et appendice par J.Doignon, Parigi 1979, 92 (Sources chrétiennes, 258). 9 EUSEBIO DI VERCELLI, De Trinitate VII,20, a cura di V. Bulhart, in Eusebius Vercellensis, Turnhout 1957, 97 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 9).
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vescovo. A Milano, quindi, i riti postbattesimali alla fine del IV secolo comprendono: l’unzione della testa, la lavanda dei piedi, la vestizione, la consignatio con l’invocazione dei sette doni dello Spirito Santo10. Ci limitiamo per il momento a registrare i dati della testimonianza del vescovo milanese rinviando al paragrafo successivo la loro interpretazione. Girolamo, poi, nel 382 circa, riferendosi ad un contesto battesimale scrive: «An nescis etiam ecclesiarum hunc esse morem ut baptizatis postea manus imponatur et ita invocetur Spiritus Sanctus? Exisigis ubi scriptum sit? In Actibus Apostolorum etiam si scripturae, auctoritas non subesset, totius orbis in hanc partem consensus instar praecepti obtineret»11.
Interessanti sono le testimonianze di Agostino, il quale fa notare che il vescovo impone la mano ai neofiti in modo deprecatorio, affinché lo Spirito scenda su di essi: così fecero gli Apostoli, così fanno anche i vescovi12. Anche in Gallia13 e in Spagna l’imposizione delle mani è l’elemento essenziale del sacramento della confermazione; ad essa si aggiunge spesso la consignatio. Negli anni cinquanta, nonostante le sopracitate testimonianze, Van Den Eynde ha scritto un articolo14 nel quale ha sostenuto che il rito dell’imposizione della mano nella confermazione non è così antico 10 Cfr. AMBROGIO, De Sacramentis II, 7,24; III, 2,8; VI, 2,9, in AMBROISE DE MILAN, Des Sacraments-Des Mystères, Texte établi, traduit et annoté par B. Botte, Parigi 1961, 88; 96; 140-141 (Sources chrétiennes 25 bis); ID., De Mysteriis VII, 42, in AMBROISE DE MILAN, Des Sacraments-Des Mystères, Texte établi, traduit et annoté par B. Botte, Parigi 1961, 178 (Sources chrétiennes 25 bis). 11 GIROLAMO, Dialogus contra Luciferianos VIII, in J. P. MIGNE (ed.), Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, 23, Paris 1865, 172. 12 AGOSTINO, De Trinitate XV, 26,46, a cura di W. J. Mountain, in Aurelii Augustini Opera XVI/2, De Trinitate Libri XV, Turnhout 1968, 525-527 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 50 A). 13 ILARIO DI POITIERS, Commentariorum in Matthaeum, IV, 27, in HILAIRE DE POITIERS, Sur Matthieu, I, Introduction, texte critique, traduction et notes par J. Doignon, Parigi 1978, 147-148 (Sources chrétiennes 254). 14 Cfr. D. VAN DEN EYNDE, Les rites liturgiques latins de la confirmation, in La Maison Dieu 54 (1958) 76-78.
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come si crede, se si pensa che le Chiese orientali sono d’accordo per ignorarlo e che tutta la tradizione liturgica occidentale parla di imposizione della mano, mentre gli Atti degli Apostoli ci parlano di imposizione delle mani. L’autore, quindi, fa l’ipotesi che la manus impositio era inizialmente un semplice rito di benedizione che doveva chiudere tutta la cerimonia del battesimo; messa poi in rapporto con l’uso apostolico come ci appare dal racconto degli Atti 8, 14-17, il primitivo rito di benedizione si sarebbe trasformato in un rito di trasmissione dello Spirito Settiforme. Una testimonianza di questo passaggio ci sarebbe data dalla formula che accompagna l’imposizione della mano nella Traditio Hippolyti15. Secondo il manoscritto di Verona la formula non contiene nessuna menzione di una invocazione dello Spirito Settiforme, mentre questa compare nelle versioni copta ed arabo-etiopica dell’opera la cui paternità è oggi molto discussa. Approfondiremo questa questione più avanti, quando commenteremo specificamente la testimonianza della Tradizione Apostolica di Ippolito. H. Küng, da parte sua, dice che è una petitio principii dedurre un vero e proprio sacramento dalla pura esistenza di alcuni riti postbattesimali, facendo notare inoltre come né Tertulliano, né Ippolito si riferiscono all’imposizione delle mani degli Atti degli Apostoli. Il primo a fare ciò è Cipriano, per il quale è ancora il battesimo di acqua a donare lo Spirito nella sua pienezza. In quanto riferisce questo autore, infatti, non si distingue affatto tra “battezzati” e “confermati”. A prescindere da questa imposizione delle mani comunicatrice dello Spirito che si trova in Cipriano, in nessuna parte, nel III secolo, si afferma che l’unzione, l’imposizione delle mani e la signatio, da sole o unite in una struttura rituale, conferiscano il dono postbattesimale dello Spirito16. Anche nella tarda patristica lo Spirito viene dato sempre nel battesimo, benché si formino e vengano praticati dei riti postbattesimali. Questi ultimi non conferiscono un dono particolare o un effetto sacramentale specifico17. 15 Cfr. IPPOLITO, Tradizione Apostolica, a cura di B. Botte, in La Tradition Apostolique de Saint Hyppolyte. Essai de reconstitution, Münster 19895, 52-54 (Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen, 39). 16 H. KÜNG, Che cosa è la confermazione?, Brescia 1976, 12. 17 Ibid.,13.
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Diverso è il pensiero di P. Daquino, il quale sostiene che tutta la tradizione dei primi secoli ha riconosciuto nel rito compiuto da Pietro e Giovanni il secondo sacramento dell’Iniziazione cristiana, quello che poi sarà denominato cresima o confermazione, dimostrando tutto ciò con la testimonianza di alcuni autori antichi che ricollegano espressamente Atti 8,14-17 alla cresima18. 3. L’UNZIONE E LA SEGNAZIONE: DUE RITI CHE CONCLUDONO L’INIZIAZIONE CRISTIANA 3.1. L’unzione con il crisma A partire dal III secolo il nucleo centrale dell’Iniziazione cristiana costituito dal lavacro con l’acqua e dall’imposizione delle mani viene arricchito con altri riti che concludevano tutta la celebrazione del battesimo. Questi riti erano l’unzione e la segnazione. A questo punto è opportuno seguire lo sviluppo storico di questi altri due gesti che hanno condizionato la storia della confermazione, mettendo in evidenza che proprio l’eccessiva importanza data all’unzione con il crisma ha innescato un processo che pian piano, sia in Oriente, che in Occidente, ha portato ad una progressiva e non uniforme sostituzione del rito essenziale di questo sacramento. Il risultato è stato quello di considerare gesto essenziale della confermazione non più l’imposizione delle mani, ma l’unzione. Particolarmente interessanti si presentano le testimonianze del III secolo intorno all’azione rituale fatta dopo il lavacro battesimale prima dell’imposizione delle mani e il contesto teologico che può averne favorito l’introduzione già nei primi decenni del II secolo19. Il primo testimone diretto è Tertulliano, il quale ci parla di tre riti:
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Cfr. P. DAQUINO, Un dono di Spirito Profetico. La cresima alla luce della Bibbia, Torino-Leumann 1992, 86-87. 19 Cfr. H. DE PUNIET, Confirmation, in F. CABROL-H. LECLERK (curr.), Dictionaire d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, 3/2, Parigi 1914, 2524-2525.
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unzione, signatio sulla fronte20 e imposizione della mano21. Ecco una testimonianza attinente all’unzione fatta subito dopo il lavacro con l’acqua: «Exinde egressi de lavacro perungimur benedicta unctione de pristina disciplina, qua ungi de cornu in sacerdotium solebat, ex quo Aron a Moyse unctus est. Dehinc manus imponitur per benedictionem, advocans et invitans Spiritum Sanctum»22.
Lo stesso Tertulliano fa menzione di questa unzione anche altrove: «Scilicet caro abluitur ut anima emaculetur; caro ungitur ut anima consecretur; caro signatur ut et anima muniatur; caro manus impositione adumbratur ut et anima Spiritu illuminetur»23.
In questo brano, quindi, si accenna all’unzione che viene fatta subito dopo il lavacro battesimale e poi alla segnazione, ma non è ancora chiaro se questa segnazione veniva fatta con o senza olio. A metà del III secolo troviamo la testimonianza di Cipriano che ricorda l’unzione fatta dopo il lavacro battesimale e due volte la segnazione come cerimonia conclusiva della liturgia battesimale24. Più tardi (IV sec.) tra gli altri riti che seguono il battesimo, Ambrogio enumera anche l’unzione25. Troviamo la stessa prassi in
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Cfr. TERTULLIANO, De praescritione haereticorum XL, a cura di R. F. Refoule’, in Tertulliani Opera, I, Opera Cattolica adversus Marcionem, Turnhout 1954, 221 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 1); ID., De resurrectione mortuorum VIII, cit., 931. 21 Cfr. ID., De baptismo VIII, cit., 283; ID., De resurrectione mortuorum VIII, 3, cit., 931. 22 ID., De baptismo VII, cit., 282. 23 ID., De resurrectione mortuorum, VIII, 3, cit., 931. 24 Cfr. CIPRIANO, Epistula 70, 2, a cura di G. F. Diercks, in Sancti Cypriani episcopi Opera, III /2, Epistularium, Turnhout 1996, 505-511 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 3C). 25 Cfr. AMBROGIO, De Sacramentis II, 7,24; III, 2,8; VI, 2,9, cit., 88; 96; 140-141; ID., De Mysteriis VII, 42, cit., 178.
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Agostino26, in Spagna a partire dal IV secolo27e in Gallia all’inizio del V secolo28. Viste le testimonianze sull’unica unzione collocata tra il lavacro e l’imposizione delle mani, cerchiamo ora di comprendere quale era il suo significato e la sua portata. Circa la testimonianza di Tertulliano29, all’inizio del secolo scorso, gli studiosi si sono divisi in due correnti che sostenevano rispettivamente chi il suo carattere battesimale30, chi il suo carattere cresimale31. Oggi si ritiene generalmente che essa sia una unzione battesimale. Il fatto che in seguito, quando venne introdotta una duplice unzione, questo sia rimasto il significato della prima unzione come gesto non appartenente alla cresima, ne costituisce una prova decisiva32. Di tutt’altro parere è un autore più recente33, il quale esaminando 26 AGOSTINO, Sermo 324, in A. QUACQUARELLI- M. RECCHIA (curr.), Opere di Sant’Agostino, V, Discorsi sui santi (273-340A), Roma 1986, 788-791(Opera Omnia, 33). 27 Cfr. PACIANO DI BARCELLONA, Sermo De baptismo VI, in J. P. MIGNE (ed.), Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, 13, Paris 1845, 1093. 28 Cfr. SALVIANO DI MARSIGLIA, De gubernatione Dei, III, 2,8, a cura di F. Pauly, in SALVIANUS, De gubernatione Dei, Epistulae, Ad ecclesiam, Vindobonae 1883, 44 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 8). 29 Cfr. TERTULLIANO, De baptismo VII, cit., 282. 30 Cfr. P. GALTIER, La consignation à Carthage et à Rome, in Recherches de Science Religieuse 2 (1911) 350- 383; ID., La consignation dans les Églises d’Occident, in Revue d’Histoire Ecclésiastique 13 (1912) 257- 301; ID., Onction et confirmation, in Revue d’Histoire Ecclésiastique 13 (1912) 467- 476; H. ELFERS, Gehört die Salbung mit Chrisma im ältesten Initiationsritus zur Taufe oder zur Firmung?, in Theologie und Glaube 34 (1942) 334-341; ID., Die Kirchenordnung Hippolyts von Rom. Neue Untersuchungen unter besonderer Berücksichtigung des Buches von R. Lorentz: De Egiptische Kerkordening en Hippolytus von Rom, Paderbon 1938, 101-127. 31 Cfr. P. DE PUNIET, La liturgie baptismale en Gaule avant Charlemagne, in Revue Questions Historiques 72 (1902) 283-423; ID., Onction et Confirmation, in Revue d’Histoire Ecclésiastique 13 (1912) 450-466; B. WELTE, Die Postbaptismale Salbung, ihr symbolischer Gehalt und ihre sakramentale Zugehörigkeit nach den Zeugnissen der alten Kirche, Freiburg 1939 (Freiburger Theologische Studien 51). 32 A. STENZEL, Il battesimo. Genesi ed evoluzione della liturgia battesimale, Alba 1962, 149 (Ministerium 2). 33 Cfr. P. DAQUINO, Un dono di Spirito profetico, cit., 125-139.
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i testi di Tertulliano e Cipriano ci dice che in entrambi i passi compare la relazione di quell’unzione postbattesimale con l’unzione profetica di Gesù. Ciò lo spinge ad affermare che all’origine tale unzione non era connessa ancora con il lavacro battesimale, ma appare orientata già alla confermazione. Infatti l’unzione di Gesù espressamente rievocata nei brani presi in esame dall’autore34, non fu mai considerata un’unzione “sacerdotale” né dagli scritti neotestamentari né dalla tradizione seguente. Fu invece un’unzione tipicamente “profetica”, nella linea di Is 42,1 e 61,1. Essa segnò la sua investitura da parte di Dio come suo “servo” attuata mediante lo Spirito Santo, disceso su di Lui quel giorno al Giordano. Tutto fa pensare, allora, che all’origine, si sia voluto con essa sottolineare, mediante un rito simbolico, il rapporto della confermazione con l’unzione metaforica ricevuta da Gesù mediante il dono dello Spirito, confermando così il nesso molto stretto che esisteva agli occhi della Chiesa primitiva, tra i due primi sacramenti dell’Iniziazione cristiana. Di fatti come già Gesù quel giorno, anche il singolo battezzato appena uscito dall’acqua battesimale, sarebbe stato unto interiormente da Dio Padre per mezzo dello Spirito Santo. L’unzione rituale volle quindi sottolineare l’unzione spirituale, che pure il battezzato avrebbe ricevuto in dono per mezzo dello Spirito, conferitogli grazie all’imposizione delle mani. Aveva, pertanto, una funzione di contorno ed appariva quindi secondaria rispetto al gesto di imporre le mani, al quale, gli autori del III secolo ricollegano concordemente il dono dello Spirito35. Il contesto teologico a cui si riferiva il nostro rito di unzione era dunque l’essere unti da Dio, come diceva Paolo in 2 Cor 1,21 accennando all’attività evangelizzatrice della Chiesa, e il dono dello Spirito quale unzione (= mezzo di unzione) dei cristiani, ricordato dalla tradizione giovannea36. Grazie a questa “unzione” interiore (effetto specifico della confermazione), i battezzati potevano ora essere considerati davvero cristiani (etimologicamente: unti), proprio perché essi pure 34
Cfr. At 4,27; At 10,38. Cfr. P. DAQUINO, Un dono di Spirito profetico, cit., 136-137. 36 Cfr. 1 Gv 2,20.27. 35
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diventati partecipi dell’unzione misteriosa che per Gesù, proclamato “servo di Dio” al Giordano, aveva giustificato il suo appellativo di “Cristo” secondo le pagine neotestamentarie e la tradizione cristiana successiva. L’unzione introdotta dopo il lavacro battesimale, intendeva perciò proclamare la stretta relazione teologica che collegava tra loro i primi due sacramenti dell’Iniziazione cristiana e che motivava il ripetersi, lungo i tempi anche per il singolo, di quanto già si era verificato per il Salvatore, quel giorno al Giordano. L’unzione rituale apparve così un ponte tra il battesimo e la cresima; cioè, un rito orientato decisamente a quest’ultima, di cui intendeva appunto preannunciare l’effetto caratteristico: far partecipare, mediante il dono dello Spirito profetico, il singolo non solo della salvezza inaugurata dalla morte e dalla risurrezione di Gesù, ma anche dall’unzione misteriosa che il Padre gli aveva concessa quale suo servo, proprio dopo il suo battesimo da parte del Battista37. L’autore, poi, nota come soprattutto in Occidente, già agli inizi del III secolo comincia a manifestarsi la tendenza che preferiva ricollegare l’unzione dopo il battesimo ad un contesto nettamente battesimale, quello cioè della consacrazione “sacerdotale” del cristiano. La causa di questo cambiamento fu, secondo lui, la confusione dottrinale e il disorientamento provocati tra i fedeli della seconda metà del II secolo dallo gnosticismo, i cui adepti, pur equivocandone la portata cristologica, sottolineavano molto a quel tempo quanto si era verificato per Gesù al Giordano, attribuendolo anche ad ogni singolo cristiano grazie al loro “secondo sacramento”, denominato appunto “unzione”. Nella Chiesa occidentale rimasta molto legata al rito tradizionale dell’imposizione cresimale delle mani, questo insistere da parte dei circoli gnostici sull’unzione metaforica prodotta dalla cresima e quindi sull’unzione rituale corrispondente, dovette apparire ad un certo punto assai pericoloso. Per reazione, si cominciò così a lasciare da parte il suo primitivo contesto teologico e cioè, il rapporto che quel rito d’unzione dopo il lavacro battesimale aveva ormai da tempo con
37
Cfr. P. DAQUINO, Un dono di Spirito profetico, cit., 137.
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l’unzione interiore del battezzato, un’unzione analoga a quella concessa a Gesù dal Padre dopo il suo battesimo al Giordano38. L’unzione rituale, così, non venne abolita a motivo del riguardo che si aveva allora per ogni rito ereditato dal passato, ma si cominciò poco per volta ad attribuirle un’altra portata meno compromettente: proclamare la consacrazione “sacerdotale” del cristiano, una tematica che le speculazioni gnostiche non avevano ancora contaminato. Fu solo un cambiamento di prospettiva: invece che a quanto sarebbe tra poco avvenuto con la cresima, il rito d’unzione fu orientato a quello che era già avvenuto, grazie al lavacro battesimale. Già agli inizi del III secolo i due significati dell’unzione dopo il battesimo sembrano coesistere, benché allora prevalesse ancora di gran lunga quello primitivo a motivo del suo solido fondamento nella tradizione precedente39. 3.2. La segnazione La segnazione sulla fronte in forma di croce era forse un gesto abituale già nel III secolo. Ai fini della comprensione di questo gesto risulterà utile tenere presente la distinzione che c’era tra l’uso privato e devozionale del segno di croce e l’uso liturgico. Privatamente, infatti, il segno di croce sulla fronte veniva usato dai cristiani per santificare tutte le cose40. Si trattava, naturalmente, di una segnazione semplice, cioè senza olio. A noi, però, qui interessa prendere in considerazione l’uso liturgico che prevedeva spesso la segnazione accompagnata o meno dall’uso dell’olio. Il primo testimone di questo gesto, che consisteva in un segno di croce tracciato dal vescovo sulla fronte del neofita, è Tertulliano: «Scilicet caro abluitur, ut anima emaculetur; caro ungitur, ut anima consecretur; caro signatur, ut et anima muniatur; caro manus impositione 38
Cfr. Ibid., 138. Ibid., 138-139. 40 Cfr. TERTULLIANO, De Corona III, 4, a cura di J. Borleffs, in Tertulliani Opera, II, Opera Montanistica, Turnhout 1954, 1043 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series Latina, 2). 39
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adumbratur, ut et anima spritu inluminetur; caro corpore et sanguine Christi vescitur, ut et anima de Deo saginetur»41.
Stando a questa testimonianza la Chiesa d’Africa, nel III secolo, dopo l’abluzione battesimale conosce un rituale che comprende un’unzione con il crisma, l’imposizione della mano, e la consignatio che concludeva il rito. Tuttavia non è del tutto chiaro se questa segnazione veniva fatta con il pollice intinto di olio oppure no. Più chiara si presenta la testimonianza di Cipriano che intorno alla metà del III secolo ricorda l’unzione fatta dopo il battesimo42 e due volte la segnazione come cerimonia conclusiva della liturgia battesimale e cresimale. Parlando infatti della riconciliazione degli eretici egli attesta che nel momento in cui essi venivano alla Chiesa, dovevano essere di nuovo battezzati e di nuovo cresimati: «Quod si secundum pravam fidem baptizari aliquis foris et remissam peccatorum consequi potuit, secundum eandem fidem consequi et Spiritum potuit et non est necesse ei venienti, manum imponi ut Spiritum Sanctum consequatur et signetur»43.
Più diffusamente egli parla della signatio in un passo che si riferisce ad un contesto battesimale: «Quod nunc quoque apud nos geritur, ut qui in ecclesia baptizantur praepositis ecclesiae offerantur et per nostram orationem ac manus impositionem Spiritum Sanctum consequantur et signaculo dominico consummentur»44. 41
ID., De resurrectione mortuorum, VIII, 3, cit., 931. Cfr. CIPRIANO, Epistula 70, 2, cit., 505-511. 43 ID., Epistula 73, 6, a cura di G. F. Diercks, in Sancti Cypriani episcopi Opera, III/2, Epistularium, Turnhout 1996, 536 (Corpus Cristianorum, Series Latina, 3C). La traduzione di questo brano potrebbe essere la seguente: «...Se uno ha potuto essere (validamente) battezzato secondo la fede pervertita (pur essendo) fuori della Chiesa e conseguire la remissione dei peccati, (allora) avrebbe dovuto secondo (quella) stessa fede conseguire anche lo Spirito Santo e non dovrebbe perciò essere (più) necessario quando viene, imporgli la mano perché (possa) conseguire lo Spirito Santo ed essere così segnato». 44 ID., Epistula 73, 9, cit., 539. 42
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Che si tratti del rito di segnazione che concludeva allora la liturgia del battesimo-confermazione è provato dall’uso del verbo latino “consummo”45 (da con-summo = aggiungo qualcosa d’altro portando così a compimento un processo o un procedimento in corso) e dal termine signaculum, che designava a quel tempo il segno della croce. Infatti esso è qui indicato come signaculo dominico ed era tracciato appunto sulla fronte del battezzato – cresimato come rito di conclusione, a garanzia per lui della protezione e della difesa, che gli avrebbe assicurato il Salvatore46. La segnazione, dunque, concludeva i riti che si compivano dopo il lavacro battesimale. Essa consisteva in un segno di croce tracciato dal vescovo sulla fronte del neofita. I corrispettivi sostantivi sono signaculum e sfragij47 Signaculum non indicava solo il segno indelebile impresso da Cristo sull’anima del neofita nell’atto dell’iniziazione alla fede, ma indicava pure la confermazione, collegata sempre col battesimo48. Il neofita era segnato affinché la sua nuova vita di battezzato – cresimato potesse essere protetta e difesa dagli attacchi e dalle insidie del demonio49. In questo senso il verbo “segnare” aveva appunto il senso di munire, difendere, proteggere. Questo significato è il primo del verbo sfragizw (=sigillare per difendere e proteggere il contenuto) e va tenuto ben distinto da quello che ricorre in contesto battesimale (=contrassegnare come proprio per distinguerlo), ossia il secondo senso della radice verbale greca. Della segnazione come sigillo del patto battesimale ne parla Tertulliano in un passo in cui paragona questa segnazione ad un anello, l’anello
45 In questo contesto il verbo “signare” o “consignare” aveva il senso di munire, difendere, proteggere. Questo significato è il primo del verbo sfragizw (= sigillare per difendere proteggere il contenuto) e va tenuto ben distinto dal secondo significato di questo stesso verbo (= contrassegnare per distinguere). 4 P. DAQUINO, Un dono di Spirito Profetico, cit., 120. 4 Cfr. F. ZORELL, Lexicon graecum Novi Testamenti, Paris 1961, 1287. 48 Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, Manuale di storia liturgica, IV. I sacramenti, Milano 19592, 89 (rist. an. Milano 1998). 49 P. DAQUINO, Un dono di Spirito Profetico, cit., 122-123.
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sigillo che in antico serviva appunto per sigillare e proteggere documenti e missive50. Il rito della segnazione crismale ebbe un grande rilievo a partire dal III secolo perché già in quel periodo la presenza di nuovi convertiti faceva problema, poichè i cristiani erano notevolmente aumentati di numero, ma apparivano meno ferventi e molto più fragili come poi dimostrerà il problema dei lapsi 51. Particolarmente interessante appare la testimonianza di sant’Ambrogio, il quale dopo aver parlato dell’unzione postbattesimale52, del rito della lavanda dei piedi53 e del rito della vestizione con la veste candida54 prosegue: «Sequitur spiritale signaculum quod audisti hodie legi, quia post fontem super est ut perfectio fiat, quod ad invocationem sacerdotis spiritus sanctus infunditur, Spiritus sapientiae et intellectus, Spiritus consilii atque virtutis, Spiritus cognitionis atque pietatis, Spiritus sancti timoris, septem quasi virtutes spiritus...»55.
E ancora: «Unde dominus Iesus et ipse invitatus tantae studio caritatis, pulchritudine decoris et gratiae, quod nulla iam in ablutis delicta sorderent, dicit ad ecclesiam: pone me ut signaculum in cor tuum, ut sigillum in bracchium tuum hoc est: decora es, proxima mea, tota formosa es, nihil tibi deest... Unde repete quia accepisti signaculum spiritale, Spiritus sapientiae et intellectus...»56.
Partendo da questi due testi gli storici si sono posti diverse 50 TERTULLIANO, De pudicitia, IX,16, a cura di E. Dekkers, in in Tertulliani Opera, II, Opera Montanistica, Turnhout 1954, 1298 (Corpus Cristianorum Latinorum, Series
Latina, 2). 51 P. DAQUINO, Un dono di Spirito Profetico, cit., 124. 52 AMBROGIO, De Sacramentis III, 1,1, cit., 71. 53 Ibid., 72-73. 54 ID., De Mysteriis, VII, 34, cit., 118. 55 ID., De Sacramentis, III, 2,8, cit., 96. 56 ID., De Mysteriis, VII, 4-42, cit., 120-121.
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domande: qual è il rito di effusione dello Spirito? Si tratta di un rito di imposizione delle mani (o della mano)? Oppure un rito di consignazione mediante il segno di croce in fronte? Si tratta di una consignazione con o senza unzione? E che significato dà sant’Ambrogio al termine signaculum spiritale? Ciò che colpisce della liturgia battesimale descritta da sant’Ambrogio è l’unitarietà per cui risulta difficile separare con un taglio netto i riti del battesimo da quelli della confermazione: alcuni autori perciò facendo della crismazione un rito del battesimo, vedono il rito della confermazione nella cosiddetta “consignazione” ricordata dallo stesso santo dopo la vestizione e la lavanda dei piedi. È la posizione di P. Galtier57 il quale sostiene l’identità sostanziale del rito della confermazione dall’età apostolica fino a noi, fondata sul perdurare costante dell’imposizione delle mani58. Per quanto riguarda la liturgia di sant’Ambrogio, il Galtier, sostiene che, benché l’imposizione delle mani benché non sia ricordata esplicitamente, è lecito sottintenderla in De Sacramentis III, 2,8: «Sequitur spiritale signaculum… quando ad invocationem sacerdotiis spiritus sanctus infunditur». Tale mancanza di un esplicito ricordo dell’imposizione delle mani si può facilmente spiegare. Stando ad una bella osservazione dell’autore, i Padri mettono preferibilmente in rapporto il dono dello Spirito Santo con la preghiera di invocazione perché questa chiarisce meglio che il dono dello Spirito viene da Dio e non dall’opera del sacerdote come sembrerebbe dall’imposizione delle mani. P. Galtier si chiede poi se all’imposizione delle mani seguisse un rito di consignazione. L’espressione signaculum spiritale sembra in sant’Ambrogio non messa direttamente in rapporto con un rito di consignazione, ma con citazioni scritturistiche59, e quindi su un piano simbolico innanzitutto. Anche quando parla esplicitamente di consignazione, sant’Ambrogio intende parlare innanzitutto di una consignazione interiore, spirituale, simbolica, in senso figurato: la 57 Cfr. P. GALTIER, La consignation a Carthage et à Rome, cit., 352-383; ID., La consignation dans les Églises d’Occident, cit., 261-270; ID., Imposition des mains, in A. VACANT – E. MANGENOT (curr.), Dictionnaire de Théologie Catholique 7/2, Paris 1927, 1302-1425. 58 Cfr. P. GALTIER, Imposition des mains, cit., 1393. 59 Cfr Ct 9,8; 2 Cor 1,21-22.
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consignazione intesa da sant’Ambrogio non è che la “traditio Spiritus Sancti” che, coronando i riti di Iniziazione cristiana, consacra la trasformazione dell’anima, mette il sigillo all’aggregazione a Cristo, completa l’opera di rigenerazione. La consignazione interiore in sant’Ambrogio può riferirsi anche ad un gesto di consignazione? Sovente, osserva Galtier, l’imposizione delle mani era accompagnata da un segno di croce60; si può lecitamente supporlo anche in sant’Ambrogio in base all’insistenza sul termine signaculum. Una consignazione non però congiunta con una unzione: sant’Ambrogio l’avrebbe detto, vista la sua attenzione al simbolismo dei riti. Concludendo, P. Galtier osserva che tuttavia un tale gesto di consignazione non avrebbe altro valore che quello di completamento della manus impositio61. Altri autori, invece, hanno visto un rito di confermazione già nel rito di crismazione che sta subito dopo il battesimo, avvicinando così sant’Ambrogio alla tradizione orientale. Questa è la classica posizione di H. De Puniet, il quale, se d’accordo con Galtier per supporre in sant’Ambrogio una imposizione delle mani, non lo è però, almeno in un primo tempo, sulle riserve di Galtier in materia di consignazione ed unzione62. Quest’autore crede di poter documentare la presenza di una unzione nel rito di consignazione in base ad un passo del De Sacramentis VI, 2, 5-8 dove sant’Ambrogio commenta il noto passo di 2 Cor 1,21-22. Ma Galtier63 di rimando fece osservare a De Puniet che, stando all’argomentazione che sant’Ambrogio sviluppa in De Sacramentis VI, 2, 5-8 il passo di 2 Cor 1,21-22 è da riferirsi a tutto il complesso dei riti postbattesimali e che quindi l’espressione «Deus qui te unxit» o è puramente simbolica oppure richiamerebbe l’unzione precedente fatta subito dopo l’abluzione battesimale. H. De Puniet abbandona l’idea di una seconda unzione in sant’Ambrogio, quando scrive un altro articolo64, non senza una evidente soddisfazione da parte di Galtier65. 60
Cfr. P. GALTIER, Imposition des mains, cit.,1337. Cfr. Ibid., 1382. 62 Cfr. H. DE PUNIET, Onction et Confirmation, cit., 451, nota 2; 454 nota 5. 63 Cfr. P. GALTIER, Onction et Confirmation, cit., 469, nota 2. 64 Cfr. H. DE PUNIET, Confirmation, cit., 2532; 2526, nota 13. 65 Cfr. P. GALTIER, Imposition des mains, cit., 1376. 61
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Dopo questi interventi gli autori che in seguito hanno ripreso la questione ammettono comunemente una confermazione per imposizione delle mani accompagnata da un rito di consignazione in fronte senza unzione. Ecco alcuni nomi: Coppens66, Righetti67, Botte68, Gy69. Ma c’è stato anche chi70 ha sostenuto che in sant’Ambrogio l’invocazione dello Spirito Settiforme fosse accompagnata non dalla “manus impositio”, di cui non si fa alcun accenno, ma da un gesto di semplice consignazione in fronte. È interessante notare poi che sant’Ambrogio sembra mettere direttamente in rapporto il signaculum spiritale con il testo paolino di 2 Cor 1,21-22 che probabilmente era il testo liturgico che precedeva la catechesi. I. De La Potterie studiando a fondo il testo paolino, ha potuto concludere che esso si riferisce a tutto il complesso del battesimo, senza escludere al suo interno un rito di confermazione. Il testo paolino parlerebbe perciò del battesimo come fatto unitario e nello stesso tempo come un insieme di aspetti particolari e specifici71. Sant’Ambrogio, come già i Padri del II e III secolo, continua ad usare il termine signaculum come sinonimo di battesimo. Recentemente A. Caprioli, riprendendo la tesi di P. Galtier, arriva alla conclusione che se signaculum spiritale per sant’Ambrogio designa innanzitutto l’opera di consacrazione dello Spirito, quest’opera si presenta tuttavia distinta secondo un duplice effetto: di rigenerazione battesimale, di perfezione del battesimo e di pienezza dello Spirito nella consignazione. Si può dunque parlare in sant’Am66 Cfr. J. COPPENS, L’imposition des mains et les rites connexes dans le Nouveau Testament et dans l’église ancienne, Wetteren-Paris 1925, 306 (Diss. Mag. Leuven, II, 45). 67 Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, cit., 153. 68 Cfr. B. BOTTE, Le vocabulaire ancien de la confirmation, in La Maison Dieu 54 (1958) 10. 69 Cfr. P. M. GY, Histoire liturgique de la Confirmation, in La Maison Dieu 58 (1959) 135. 70 Cfr. D. VAN DEN EYNDE, Les rites liturgiques latins de la confirmation, in La Maison Dieu 54 (1958) 76-78. 71 Cfr. I. DE LA POTTERIE, L’Onction du chrétien par la foi, in Biblica 40 (1959) 1269.
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brogio di una distinzione tra battesimo e confermazione prima ancora che avvenisse la separazione nel tempo. La diversità del ministro e la riflessione teologica posteriore faranno parlare di due sacramenti distinti72. In realtà sant’Ambrogio non parteggia né per l’una né per l’altra tradizione, ma ci riporta a uno stadio dello sviluppo storico dei due sacramenti in cui si compongono i valori delle due tradizioni senza i difetti che le caratterizzano. Infatti col diffondersi del cristianesimo anche nelle campagne e soprattutto col moltiplicarsi del battesimo dei bambini, diventa sempre più difficile avere il vescovo a presiedere l’Iniziazione cristiana; sorge allora il problema: o lasciare al semplice sacerdote tale presidenza, salvando così l’unità di celebrazione del battesimo e della confermazione, oppure riservare al vescovo il rito di confermazione con cui si esplicitava maggiormente il legame del battezzato con la Chiesa locale, col risultato però di separare il battesimo dalla confermazione e quindi di rendere meno evidenti i legami tra i due sacramenti. Ora la liturgia di sant’Ambrogio si pone ad uno stadio precedente a tale problematica, in un contesto pastorale particolarmente felice in quanto l’accentramento della comunità cristiana cittadina attorno al vescovo e la prassi del battesimo conferito in età adulta permettevano di esprimere ambedue i valori, sia l’unità liturgica, sia l’unità ecclesiale. Ciò non toglie che il rito di consignazione liturgicamente è assai problematico da decifrare: poteva essere un rito di signazione in fronte come anche di imposizione della mano; sant’Ambrogio, parlando più da catecheta che da liturgista, non è tanto preoccupato di registrare il rito, ma di richiamare ai suoi neofiti il valore di perfezionamento che questo rito ha nei confronti del precedente.
72 A. CAPRIOLI, Battesimo e confermazione in S. Ambrogio. Studio storico sul “signaculum”, in E. GALBIATI et al. (curr.), Miscellanea C. Figini, Venegono Inferiore 1964, 49-57 (Hildephonsiana, 6); ID. Battesimo e confermazione nella liturgia e catechesi di sant’Ambrogio, in E. ALBERICHE – I. BIFFI et al. (curr.), Il battesimo. Teologia e pastorale, Torino-Leumann 1971, 303-307 (Quaderni di Rivista liturgica, 13); ID., Battesimo e confermazione in S. Ambrogio, in La Scuola Cattolica 102 (1974) 403-428.
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4. I PRIMI SVILUPPI DEL RITUALE ROMANO DELLA CONFERMAZIONE: IL CASO SINGOLARE DELLA TRADIZIONE APOSTOLICA Nelle pagine precedenti abbiamo visto come i riti postbattesimali nella Chiesa antica non fossero ancora definiti e come variassero da una tradizione all’altra. Tuttavia, nonostante le differenze, nessuna delle fonti finora citate parla di una doppia unzione dei neofiti. Troviamo per la prima volta questa prassi nella testimonianza di Ippolito che al cap. 21 della Tradizione Apostolica: «… Et postea cum ascenderit, ungeatur a praesbytero de illo oleo quod santificatum est dicente: Ungo te oleo in nomine Iesu Christi. Et ita singuli detergens se induantur et postea in ecclesia ingrediantur. Episcopus uero manum illis inponens inuocet dicens: Domine Deus, qui dignos fecisti... Postea oleum sanctificatum infundens de manu et imponens in capite dicat: Ungo te sancto oleo... Et consignans in frontem offerat osculum …»73.
In questa testimonianza, dopo il lavacro battesimale e dopo l’unzione con l’olio che il sacerdote fa sui neobattezzati, il vescovo per dare ai medesimi la confermazione, impone loro la mano dicendo la preghiera epicletica, li unge con l’olio e poi li segna sulla fronte col segno della croce. Dal testo si deduce che la seconda unzione, insieme alla imposizione della mano, formava un rito a sé e quindi con significato e valori propri. Ciò risulta chiaro anche dal fatto che tale rito è attribuito come proprio e riservato al vescovo. Possiamo inoltre notare come il complesso rituale descritto da Ippolito sembra identico sostanzialmente al rito romano attuale. Esiste, tuttavia, una differenza di fondo: in Ippolito gli elementi rituali che oggi compongono il rito a se stante della confermazione formano un tutt’uno con il battesimo, si svolgono in forma continua dopo l’immersione battesimale e sono l’ultimo momento che precede la partecipazione all’Eucarestia.
73 Cfr.IPPOLITO, Taditio Apostolica, 21, a cura di B. Botte, La Tradition Apostolique, cit., 50-54.
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La Tradizione Apostolica, però, così come è giunta a noi oggi, è un testo che pone diverse questioni di non poca importanza ai fini di una retta interpretazione della testimonianza di Ippolito. La prima è quella del testo e della sua paternità74. Infatti fino a poco più di cinquant’anni fa, di quest’opera si conosceva solo il titolo e il testo si considerava perduto. Se possedessimo il testo greco originale e se l’attribuzione ad Ippolito fosse certa la Tradizione Apostolica sarebbe legittimamente al primo posto fra i documenti utili per la storia del rituale romano della confermazione. Le cose, però, non sono così semplici come sembrano, poiché tra gli storici della liturgia, alcuni considerano la pretesa Tradizione Apostolica come un testimonio diretto della liturgia ufficiale della Chiesa di Roma all’inizio del III secolo; altri vi vedono una liturgia ideale75 proposta da uno scrittore che agisce a suo nome o un tentativo integrista di Ippolito di Roma; altri ancora parlano di tradizioni importate a Roma76; altri infine rifiutano di considerarla un documento romano. Ebbene, le ricerche svolte da E. Schwartz e da R.H. Connolly hanno consentito a questi due autori di sostenere che l’opera è di Ippolito perché questo scritto contiene l’espressione “Apostolicam Traditionem” e di identificare l’opera con la costituzione della Chiesa egiziana, conservata nel sinodo alessandrino e, parzialmente anche nel codice 53 della Biblioteca Capitolare di Verona77. Si tratta di traduzioni da un manoscritto greco78. Accanto a queste due testimonianze esistono tre adattamenti del testo originale: l’VIII libro delle Costituzioni Apostoliche, il Testamento di Nostro Signore e i Canoni di Ippolito. Lo studio comparato di questi documenti ha consentito a Botte di ricostruire se 74 Cfr. IPPOLITO, La Tradizione Apostolica. Introduzione, traduzione e note a cura di Rachele Tateo, Milano 1995, 23-26. 75 Cfr. A. G. MARTIMORT, Nouvel examen de la “Tradition Apostolique” d’Hippolyte, in Bullettin de Littérature Ecclésiastique 88 (1987) 21-22. 76 Cfr. J. P. BOUHOT, La Confermazione, sacramento della comunione ecclesiale, Torino-Leumann 1970, 32-33. 77 Il manoscritto, parzialmente palinsesto, conserva l’edizione latina della Tradizione Apostolica incorporata in una collezione di cui fanno parte la Didascalia e i canoni degli apostoli. Esso data della fine del V secolo, ma riporta una versione il cui originale risale a circa un secolo e mezzo prima. 78 Cfr. B. BOTTE (cur.), La Tradizion Apostolique, cit., XX-XXIV.
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non il testo originale, almeno l’archetipo a cui i vari documenti a noi pervenuti risalgono e che deve essere assai vicino all’originale e cronologicamente e contenutisticamente79. In realtà quest’opera ci è giunta solamente nella forma che gli è stata data, verso la metà del IV secolo, dal compilatore di una raccolta che Dom Botte ha indicato con il nome di tripartita80. Non senza fondamento quindi possiamo considerare il testo ricostruito della Tradizione Apostolica come del IV secolo e non degli inizi del III secolo, perché niente può provare che il compilatore abbia riprodotto integralmente, senza tagli o interpolazioni, il testo di sant’Ippolito. Anzi sappiamo con certezza che tralasciò la prima parte dell’opera di Ippolito, che trattava dei carismi. In definitiva, senza rifiutare l’origine romana e l’attribuzione ad Ippolito, non possiamo a priori essere certi che il testo della Tradizione Apostolica ricostruito nel IV secolo sia identico all’origine. Inoltre, anche il testo di Ippolito poteva contenere dei frammenti di diversa origine. In effetti, gli autori di opere di tal genere utilizzano molto spesso un testo arcaico, nel quale introducono elementi più recenti, che vogliono conservare o non possono rifiutare. Dom Botte, poi, formula l’ipotesi di una doppia edizione, nel tentativo di spiegare alcuni doppioni; sostiene perfino che il capitolo 21 fu probabilmente redatto in un primo tempo, come opera a sé81. Queste osservazioni, allora, consigliano prudenza nell’interpretazione della Traditio Apostolica. Recentemente, poi, a proposito della paternità del testo ci sono stati altri due autori che hanno dimostrato l’incoerenza della tesi che attribuisce lo scritto in questione a Ippolito di Roma82, mettendo in evidenza che si tratta, invece, di un documento del genere letterario della pseudografia istituzionale83. Il documento presenta una serie di difficoltà, contraddizioni ed incertezze perché è un corpus letterario dai 79 Cfr. ID., À propos de la Tradition Apostolique, in Recherches de théologie ancienne et mediévale 33 (1966) 177-186; ID., La Tradizion Apostolique, cit., XXXIIIXLIV; 80 Cfr. ID., La Tradizion Apostolique, cit., XVIII. 81 Cfr. Ibid., XXXIII. 82 È la tesi di Connolly e Schwartz. 83 Cfr. M. METZNGER, Nouvelles perspectives pour la pretendue Tradition Aposto-
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contorni imprecisi, un documento fantasma. Infatti, da una parte l’originale greco è perduto, d’altra parte le diverse versioni conosciute rappresentano degli adattamenti locali. Così, la traduzione francese stabilita da Botte non corrisponde a nessuna delle versioni del documento conosciute. Non può essere considerata, quindi, una traduzione dell’originale perduto poiché una cosa è ricostruire un testo critico a partire da numerose copie di una stessa opera, altra cosa è la ricostruzione di un archetipo unicamente a partire dalle versioni straniere e adattate. Così è legittimo domandarsi se la ricostruzione di Botte è fedele dal punto di vista storico84. Queste difficoltà nascono perché il documento che noi chiamiamo Tradizione Apostolica manca di unità e presenta delle ripetizioni. Il cerimoniale battesimale è di una tale complessità che vi si è vista una compilazione di parecchi rituali. Partendo da queste incoerenze M. Metzger comincia ad esporre la sua tesi in base alla quale la Tradizione Apostolica è una raccolta di testi giuridico – canonici che non hanno come autore Ippolito85. Il documento, infatti, non ha niente di un trattato teologico o apologetico che sarebbe uscito integralmente dalla penna di uno scrittore. Si tratta, al contrario, di una raccolta di regole e di canoni già definite e rielaborate. Si può parlare in questo senso di opera collettiva. Nell’ultimo stadio redazionale, un compilatore ha dato alla raccolta la forma nella quale è stata ricevuta dal traduttore latino. Ci si può, allora, interrogare sul lavoro di questo compilatore chiedendoci se egli si è accontentato di raggruppare dei materiali, trascrivendoli nello stato originale, oppure se li ha rimaneggiati86. È la stessa domanda che precedentemente si era posta B. Botte. L’attribuzione di questo documento ad Ippolito di Roma, secondo Metzger, non può condurre che a degli equivoci, a delle confusioni o a degli errori, perché essa situa questo scritto in modo erroneo nello spazio e nel tempo; non si ha dunque niente da guada-
lique, in Ecclesia Orans 5 (1988) 241-259; ID., Enquêtes autour de la prétendue «Tradition Apostolique», in Ecclesia Orans 9 (1992) 7-36. 84 Cfr. M. METZGER, Nouvelles perspectives, cit., 244. 85 Cfr. Ibid., 241; 247; 250-255. 86 Cfr. M. METZGER, Enquêtes autour, cit., 27.
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gnare a mantenere simile attribuzione e bisogna avere il coraggio di riconoscere che questa ipotesi si è rivelata falsa87. La seconda questione che la Tradizione apostolica ci presenta riguarda proprio il capitolo 21. Si tratta di sapere se l’unzione fatta dal vescovo era concepita da Ippolito come imposizione tecnica della mano in rapporto al rito della confermazione. Non abbiamo il testo greco, mentre la traduzione latina, etiopica, ed araba non parlano di imposizione della mano nell’atto della crismazione, ma solo del fatto che il ministro deve prima mettere il crisma sulla sua mano ed effonderlo dalla mano, sulla testa del soggetto. Solo la versione boarica parla di imporre la mano intinta con il crisma sulla testa del soggetto. Ad ogni modo, anche se il ministro per imporre il crisma dalla sua mano sulla testa del soggetto poneva la medesima mano a contatto con la testa — il che è ovvio — pare evidente che Ippolito non considera tale gesto come una nuova imposizione tecnica della mano per invocare sopra il soggetto lo Spirito Santo. È chiaro che tale senso della imposizione della mano riveste ed amplifica il gesto immediatamente precedente, connesso con l’orazione epicletica88. La terza questione è di sapere qual è, per Ippolito, il rapporto tra l’imposizione della mano del vescovo accompagnata dalla preghiera epicletica, e il predetto rito dell’unzione con il crisma. Questi riti vengono concepiti come un insieme unitario in cui tutte le parti sono viste come ugualmente necessarie in vista del sacramento? Oppure la stessa unzione è ritenuta, rispetto alla epiclesi — imposizione della mano come rito, diremmo noi, solo secondario per sottolineare con una nuova azione simbolica ciò che si riteneva essersi già realizzato con l’imposizione della mano — epiclesi? Difficile dare una risposta ad una questione tipicamente post-scolastica. È lecito propendere per la seconda soluzione se si tiene conto del fatto che, non solo nel NT ma anche nella tradizione di molte Chiese, fino al IV-V secolo il dono dello Spirito Santo dato dal vescovo dopo
87
Cfr. Ibid., 258. Cfr. M. ZACHARA, Lo stato attuale della ricerca sulla seconda unzione postbattesimale nella “Tradizione Apostolica”, Roma 1997 (Tesi di licenza in Sacra Liturgia). 88
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i riti battesimali è connesso con il momento della invocazione dello Spirito Santo e la relativa imposizione delle mani89. Si comprende poi facilmente come abbia potuto nascere l’idea di esprimere simbolicamente il fatto che nella invocazione-imposizione della mano si riceve lo Spirito Santo, aggiungendo al medesimo rito, quasi come appendice espressiva di ciò che in esso è già avvenuto, una unzione o crismazione. Infatti, la metafora che lo Spirito Santo è una unzione è biblica90 e quindi tradizionale91. La quarta questione è quella di sapere fino a che punto la Tradizione Apostolica esprime gli usi liturgici romani. B. Botte scrive: «… nell’insieme si ha il diritto di pensare che la “Tradizione” rappresenta la disciplina romana all’inizio del III secolo… Ma bisogna guardarsi dal vedere la codificazione pura e semplice degli usi romani»92. Altri sostenitori dell’attribuzione del documento ad Ippolito di Roma stimavano che si trattava di una liturgia ideale proposta da un contestatario che si ispirava agli usi di altre Chiese, ma non corrispondente alla pratica romana effettiva di quest’epoca93. Le somiglianze tra la liturgia romana e la Tradizione Apostolica, quindi, si possono spiegare dicendo che questo documento, in uno dei suoi diversi stati, è stato ricevuto a Roma e in Italia come ne dà testimonianza la sua traduzione in latino; esso ha potuto influenzare la liturgia romana che ne avrà probabilmente adottato certi riti e li avrà conservati. La Tradizione Apostolica, allora, piuttosto che essere l’opera di un romano faceva parte di una collezione liturgico-canonica; è la compilazione di tradizioni e non l’opera personale di uno scrittore94. 89
Cfr. P. GALTIER, Imposition des mains, cit., 1346-1375. Cfr. Is 61,1; Lc 4,18; At 4,24 e 10,38; 2 Cor 1,21; Eb 1,9; 1 Gv 2,20. 27. 91 C. VAGAGGINI, «Per Unctionem Chrismatis in fronte, quae fit manus impositione». Una curiosa affermazione dell’«Ordo confirmationis» del 1971 sulla materia prossima essenziale della confermazione, in F. DELL’ORO (cur.), Mysterion.Miscellanea liturgica in onore dell’Abate S. Marsili, Leumann-Torino 1981, 376-377 (Quaderni di Rivista Liturgica, 5). 92 Cfr. B. BOTTE (cur.), La Tradition Apostolique, cit., XIV e XVI. 93 Cfr. A. G. MARTIMORT, Nouvel examen de la «Tradition Apostolique» d’Hippolyte, cit., 21-22. 94 Cfr. M. METZGER, Nouvelles perspectives, cit., 250. 90
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Proprio per questo M. Metzger conclude che la Tradizione Apostolica non è un documento di origine romana, ma è un bene della Chiesa universale poiché la Chiesa antenicena appariva ancora poco differenziata perché si potessero avvertire delle influenze locali. Tutto ciò porta a studiare le origini comuni di liturgie che in seguito si sono diversificate e a considerarne il fondo comune primitivo95. Personalmente io resto del parere che la Tradizione Apostolica resta sempre un documento complesso che suscita parecchi dubbi non solo riguardo all’origine, ma anche riguardo al valore e all’estensione degli usi che rispecchia. Ora, tenendo presente i dubbi circa l’origine del testo, possiamo dire che, se il nostro documento è romano ed è di Ippolito, la continuità nella tradizione romana, soprattutto per quello che riguarda la liturgia battesimale, è notevole; se il documento non è romano né di Ippolito, si vede nondimeno un’ unità rituale più generale. 5. ALTRE TESTIMONIANZE La testimonianza di Ippolito, non è sembrata molto attendibile a causa dei molteplici problemi che presenta il testo e perché la doppia unzione non trova riscontro con altre testimonianze del genere prima di Innocenzo I (416 d.C.). Danno ulteriore motivo di dubbio altre testimonianze dello stesso periodo. Partiamo da quella di papa Cornelio che in una lettera inviata a Fabio, vescovo d’Antiochia, ricorda che Novaziano, gravemente malato, aveva ricevuto il battesimo per infusione e che quando poi guarì dalla malattia non ricevette le altre cose che completavano il rito, né fu segnato dal vescovo. In questa testimonianza, allora, un solo rito è indicato con chiarezza: la segnazione da parte del vescovo che era il solo che poteva fare questo gesto96. C’è, poi, la testimonianza dell’Ambrosiaster che scrisse a Roma intorno al 375; l’autore, infatti, parlando della confermazione non accenna ad alcuna unzione: 95
Cfr. Ibid., 255-256. Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia ecclesiastica, VI, 43, in EUSÈBE DE CÉSARÉE, Histoire Ecclésiastique. Livres V-VII, Texte grec, traduction et notes par G. Bardy, Paris 1955, 154-157 (Sources chrétiennes, 41). 96
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«Non enim pertinet ad omnes credentes sed ad episcopos tantum, ut baptizatis per manus impositionem dent Spiritum Sanctum»97.
Nella prima redazione del Liber Pontificalis, però, troviamo memoria di un decreto attribuito a papa Silvestro (314 - 337), con il quale veniva stabilito che un prete semplice non poteva ricevere un eretico perché spettava al vescovo compiere sui battezzati la signatio accompagnata dall’unzione: «Et constituit ut presbyter arianum non susciperet, nisi episcopus loci designati, et chrisma ab episcopo confici et privilegium episcopis ut baptizatum consignent propter haereticam suasionem»98.
In questa testimonianza, insomma, troviamo il termine consignare per indicare l’azione del vescovo sul battezzato. Tale consignazione è riservata al vescovo. Ancora una volta, però, appare la confusione tra riconciliazione degli eretici e confermazione. Comunque, è certo che, a partire dal V secolo, presso la liturgia romana, i termini consignare, consignatio, si riferiscono all’unzione che accompagna il segno di croce che il vescovo faceva sulla fronte del neofita. Essa si presentava come il rito principale della confermazione, riservato esclusivamente ai vescovi99. Il redattore che, verso la metà del VI secolo, rimaneggiò il Liber Pontificalis aggiunse: «Hic et hoc constituit ut baptizatum liniret presbyter chrisma levatum de aqua propter occasionem transitus mortis»100.
È chiaro che il redattore volle dare una spiegazione per la prima 97 AMBROSIASTER, Quaestiones ex Veteri et Novo Testamento 93, in J. P. MIGNE (ed.), Patrologiae Cursus Completus, Series Latina, 35, Paris 1845, 2287. 98 Le Liber Pontificalis, Texte, introduction et commentare par L. Duchesne, Paris 1955, 77 (ristampa dell’ediz. del 1886). 99 Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, cit., 92. 100 Le Liber Pontificalis, cit., 171.
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unzione postbattesimale sulla falsariga di quella data da quell’antico documento, quando diceva che «è riservato ai vescovi segnare i battezzati, a motivo della propaganda degli eretici». Bisogna dunque ammettere che, ai tempi del secondo redattore, vi fossero due unzioni postbattesimali e che anche la consignazione non fosse più, ormai, che un’unzione. Inoltre la spiegazione data: «a motivo del pericolo di morte», suppone che l’unzione/segnazione sia separata dall’unzione postbattesimale. Tutto questo viene a confermare le testimonianze precedentemente citate. C’è anche il problema del valore da attribuire all’espressione «a motivo del pericolo di morte». Si potrebbe ipotizzare qui l’origine della doppia unzione postbattesimale del rituale romano. Infatti quest’unzione comincia ad essere documentata a partire dal V secolo e precisamente quando, a causa della diffusione del cristianesimo nelle campagne, i presbiteri ebbero il permesso di battezzare da soli. In un primo tempo essi compivano solo i riti che spettavano loro anche quando fosse presente il vescovo; subito dopo, i nuovi battezzati venivano presentati al vescovo per l’unzione e la segnazione. Ma il timore, nei fedeli, di morire prima di ricevere il «sacramento dell’olio», portò a dare ai presbiteri il permesso di ungere col crisma anche quelli che battezzavano. Tuttavia, da parte sua, il vescovo continuò ad agire come prima e a fare una unzione prima della segnazione. Di qui l’esistenza, nel rito romano, di due unzioni postbattesimali, che non risalgono affatto, come si ritiene comunemente, alla Tradizione Apostolica di Ippolito101. 6. TESTIMONIANZE MAGISTERIALI Il primo testo magisteriale che distingue nettamente l’imposizione delle mani del vescovo e il battesimo celebrato dal sacerdote è dato dal Concilio di Elvira (306): «Loco peregre navigantes aut si ecclesia in proximo non fuerit, posse 101 J. P. BOUHOT, La confermazione sacramento della comunione ecclesiale, TorinoLeumann 1970, 55-56.
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fidelem, qui lavacrum suum integrum habet nec sit bigamus, baptizare in necessitate infirmitatis positum catechumenum, ita ut, si supervixerit, ad episcopum eum perducat, ut per manus impositionem perfici possit»102.
In questo testo possiamo notare che la pienezza del battesimo è data dall’imposizione della mano da parte del vescovo. Nel Concilio di Arles (314), invece, a proposito del battesimo degli eretici, si afferma che se questi sono stati battezzati nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, si imponga loro la mano, perché ricevano lo Spirito Santo: «De Afris, quod propria lege sua utuntur, ut rebaptizent, placuit, ut si ad Ecclesiam aliquis de haeresi venerit, interrogent eum symbolum, et si perviderint eum in Patre et Filio et Spiritu Sancto esse baptizatum, manus ei tantum inponatur, ut accipiant Spiritum Sanctum; quod si interrogatus non responderit hanc Trinitatem, baptizetur»103.
C’è poi l’importantissima testimonianza di Innocenzo I contenuta nella risposta che il Pontefice dava ad una lettera inviatagli da Decezio, vescovo di Gubbio. In questa lettera che è andata perduta, Decezio interrogava il papa su alcune pratiche ecclesiastiche; tra le altre cose chiedeva chiarimenti circa il ministro della confermazione. Innocenzo risponde: «De consignandis vero infantibus manifestum est non ab alio quam ab episcopo fieri licere. Nam presbyteri licet secundi sint sacerdotes, pontificatus tamen apicem non habent. Hoc autem pontificibus solis deberi , ut vel consignent, vel paracletum Spiritum tradant non solum consuetudo ecclesiastica demonstrat, verum et illa lectio actuum apostolorum quae asserit Petrum et Iohannem esse directos qui iam baptizatis tradant Spiritus sanctum. Nam presbiteris seu extra episcopum sive praesente episcopo cum baptizant, chrismate baptizatos ungere licet, sed quod ab episcopo fuerit consecratum, non tamen frontem ex eodem oleo signare, 102 CONCILIUM ILLIBERITANUM (300-303), can. 38, in J. D. MANSI (ed.), Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 2, Florentiae 1759, 12B. 103 CONCILIUM ARELATENSE (1 agosto 314), can. 9, in J. D. MANSI (ed.), Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 2, Florentiae 1759, 472 AB.
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quod solis debetur episcopis cum tradunt Spiritum paracletum. Verba vero dicere non possum, ne magis prodere videar quam ad consultationem respondere»104.
Questo testo ci dà molte precisazioni sugli usi liturgici romani all’inizio del V secolo; in esso, innanzitutto, appare chiaro che la confermazione corrisponde all’imposizione delle mani, che essa è riservata al vescovo e serve a comunicare lo Spirito Santo. L’unzione crismale postbattesimale può essere fatta, sia o no presente il vescovo, da un presbitero; il rito della signatio consiste in un segno di croce che il vescovo fa con il crisma sulla fronte dei battezzati per trasmettere lo Spirito Santo. Esso, però, è riservato al vescovo perché rappresenta l’intervento del capo della comunità nell’Iniziazione cristiana. A Roma, tuttavia, agli inizi del secolo V si pone il problema dei presbiteri titolari e di quelli delle Chiese di periferia che ottengono il diritto di battezzare e di riconciliare i penitenti. Quanti venivano battezzati dai presbiteri, dunque, in seguito ricevevano non la imposizione delle mani, ma la consignazione che era rimasta riservata al vescovo. Per giustificare il diritto esclusivo dei vescovi di segnare con il segno della croce, Innocenzo I constata in primo luogo che i presbiteri non hanno la potestà episcopale (pontificium) che permetterebbe loro di dare il segno della croce. Se pure è vero che la consignazione è sempre stata compiuta dai vescovi, non si capisce invece molto bene come papa Innocenzo possa argomentare sulla base del libro degli Atti, dal momento che là si parla d’imposizione delle mani e non di segnazione con l’unzione. In realtà, il riferimento è stato portato a proposito dell’imposizione delle mani sui fedeli battezzati in luoghi lontani; ma non appena si stabilirà una certa equivalenza fra consignazione e imposizione delle mani, il testo degli Atti fu applicato all’uno e all’altro rito. La prova scritturistica portata da papa Innocenzo acquista così tutta la sua 104
INNOCENZO I, Ep. Si instituta ecclesiastica ad Decentium episc. Eugubinum, in R. CABIÉ, La lettre du pape Innocent Ier a Décentius de Gubbio. Texte critique, traduction et commentaire, Louvain 1973, 22-24 (Bibliothèque de la Revue d’Histoire ecclésiastique, 58).
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forza: la consignazione, poiché trasmette lo Spirito, è simile all’imposizione delle mani; ebbene, il compimento di quest’ultimo rito, secondo il libro degli Atti, è riservato agli Apostoli ed ai loro successori: dunque pure la consignazione è riservata ai vescovi. In secondo luogo, papa Innocenzo afferma che il potere dato ai presbiteri di compiere l’unzione postbattesimale con il crisma non comporta per essi il diritto di dare con lo stesso crisma il segno di croce, poiché i due gesti, benché materialmente molto simili, non hanno il medesimo significato: il secondo, in realtà, trasmette lo Spirito, il primo invece no. 7. SCHEMA RIASSUNTIVO E CHIAVI DI LETTURA PER LEGGERE ED INTERPRETARE I DATI EMERGENTI DALLE TESTIMONIANZE DEI PRIMI SECOLI
Vista la complessità dei riti postbattesimali che abbiamo preso in esame diamo un prospetto analitico che può essere utile alla comprensione105. TERTULLIANO CIPRIANO TRADIZIONE APOSTOLICA AMBROGIO AGOSTINO
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Unzione, segnazione, imposizione della mano. Unzione, imposizione della mano, segnazione. Imposizione della mano, unzione, segnazione. Unzione dell’olio sul capo fatta dal vescovo, lavanda dei piedi, veste bianca. Unzione crismale sulla fronte in forma di croce, imposizione della mano con invocazione dello Spirito settiforme, ambedue fatte dal vescovo, veste bianca, lavanda dei piedi.
Cfr. G. CAVALLOTTO, Iniziazione cristiana e catecumenato, Bologna 1997, 108-
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Unzione crismale, lavanda dei piedi, segnazione, veste bianca, imposizione della mano, bacio di pace. Unzione crismale, imposizione della mano, veste bianca Imposizione della mano, benedizione del crisma, unzione crismale sulla fronte, consignazione.
E DOCUMENTI GALLICANI
LITURGIA ISPANICA DEL VI-VII SEC. DOCUMENTI ROMANI DEI SEC. IV
- VI
Ne risulta in primo luogo che le testimonianze celano più o meno i riti e talvolta li omettono. Si pone anche l’inevitabile domanda se le testimonianze siano sempre più o meno complete. Dobbiamo quindi limitarci a quanto essi ci dicono, senza tentare di completare la testimonianza dell’uno con quella dell’altro. Ad ogni modo, volendo fare una sintesi, distinguiamo due riti essenziali, l’unzione crismale e l’imposizione della mano, mentre la segnazione non è altro, nel IV-V secolo che la forma particolare, cioè quella cruciforme, presa dall’unzione parziale della fronte106. La complessità di questi riti e la poca chiarezza delle testimonianze ci spinge a fare delle necessarie considerazioni utili ad interpretare le informazioni che abbiamo ricavato dalle fonti dei secoli in questione. Ci limitiamo a riportare le ipotesi di alcuni autori contemporanei circa l’origine della struttura rituale che noi oggi chiamiamo “rito della confermazione”. Questa breve rassegna vuole essere semplicemente un tentativo di fornire delle possibili chiavi di lettura di quanto abbiamo esposto nei paragrafi precedenti. L. Ligier, in uno dei suoi libri107, sostiene la tesi che la confermazione si è sviluppata a partire dalla prassi di riconciliazione degli eretici che poi, in seguito, sarebbe continuata anche con la prassi sempre più normale del battesimo dei bambini. Questo particolare spiegherebbe, 106
Per ulteriori notizie sui riti postbattesimali, cfr. V. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du IIe au VIe siécle, Spoleto 1988, 116 - 117; 131; 281; 361; 393 - 395; 433; 544; 549 - 550; 554; 575; 581; 620 - 621. 107 Cfr. L. LIGIER, La confermazione: significato e implicazioni ecumeniche ieri e oggi, Roma 1990.
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soprattutto in Oriente, anche la tendenza a privilegiare il rito della unzione col crisma rispetto a quello della imposizione delle mani. Infatti, mentre nel caso degli scismatici si provvedeva con l’imposizione delle mani da parte del vescovo, con gli eretici si è sentito il bisogno di richiedere loro anche la retta professione di fede. Si pensò allora di far ripetere a questi eretici la professione battesimale della fede e con essa il rito di unzione che l’accompagnava. Tuttavia, l’antico rito di imposizione delle mani non sarebbe scomparso: sarebbe invece continuato in tutte le liturgie orientali sotto forma di preghiera o di epiclesi di invocazione allo Spirito Santo perché riempia dei suoi doni i battezzati. A questo punto sono chiare le intenzioni di Ligier: ritornare a considerare il rito di imposizione delle mani e la preghiera che l’accompagna come il rito originario, apostolico, della confermazione significherebbe ritornare a considerare la confermazione stessa come il sacramento del dono dello Spirito e dei carismi nella Chiesa. Continuare a privilegiare invece il ruolo della crismazione significherebbe legare troppo la teologia della confermazione alle situazioni storiche particolari che hanno dettato il tema della confermazione come sigillo della ortodossia nella fede. Analoghe situazioni particolari, secondo J.P.Bouhot108, avrebbero dato origine anche al rituale romano della confermazione. Sono interessanti a questo proposito le testimonianze di papa Cornelio che giudicava incompleto il battesimo di Novaziano perché dato senza il sigillo dello Spirito Santo per mano del vescovo; e così pure la testimonianza del Liber Pontificalis il quale stabilisce che un prete semplice non può ricevere un ariano; lo poteva fare il vescovo del luogo al quale era riservato di consegnare i battezzati, a motivo della propaganda eretica. Bouhot, allora, ritiene che il rito di consignazione del battesimo dato agli eretici fosse indifferentemente sia una unzione sia una imposizione delle mani; l’unica preoccupazione degli autori del tempo era quella di riservare al vescovo un tale intervento complementare. Per questo intervento del vescovo il battezzato riceveva il “sigillo o l’unità della fede” e perciò la confermazione diventava il sacramento della piena comunione ecclesiale. Infatti — documenta un testo di 108
Cfr. J. P. BOUHOT, La confermazione, cit., 29-32.
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Girolamo citato dal Bouhot109 — il dono della salvezza dato nel battesimo deve essere vissuto nell’unità della Chiesa gerarchica; la comunione necessaria tra i vescovi assicura questa unità, ma se i fedeli non hanno alcun legame col vescovo, oppure se sono ricevuti nella Chiesa dai preti e dai diaconi senza intervento del vescovo, l’unità non sarebbe più manifestata e allora ci sarebbero tanti scismi quanti sono i preti. La soluzione data al battesimo degli eretici deve aver ispirato più avanti la soluzione ad un caso analogo: il battesimo dei bambini dato nelle parrocchie lontane dalla città e quindi dalla possibilità di un intervento del vescovo ad ogni battesimo. Nella tradizione orientale la preoccupazione era quella di salvare l’unità della confermazione con il battesimo e perciò il rito della crismazione poteva essere amministrato anche dal semplice prete che battezza, nella tradizione romana la preoccupazione era quella di riservare all’intervento personale del vescovo il rito della confermazione. Ma quale rito era da riservare al vescovo nel caso del battesimo dei bambini? Nel caso del rito di confermazione degli eretici il rito era la sola imposizione delle mani oppure anche la crismazione a seconda del soggetto (solo scismatico o anche eretico). Ma che senso poteva avere questa distinzione per i bambini? Era chiaro che la trasposizione del rituale della confermazione degli eretici al caso dei bambini se da una parte poteva costituire un precedente per la soluzione del problema posto da un battesimo “incompleto”, dall’altra poneva il problema del rito specifico di confermazione nel caso dei bambini. Il problema viene affrontato contemporaneamente in alcune chiese della Gallia110 e nella Chiesa di Roma111 e viene risolto diversamente: mentre per le Chiese della Gallia si insiste perché fosse conservata l’antica tradizione dell’unica crismazione dopo il battesimo amministrata dallo stesso semplice prete che battezza (al vescovo veniva perciò riservata solo l’imposizione delle mani), nella Chiesa di Roma si stabilisce di tenere distinta la crismazione fatta dal prete nel batte109
Cfr. ibid., 40-44. Cfr. CONCILIUM ARAUSICANUM II (529), can. 4, in J. D. MANSI (ed.), Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 8, Florentiae 1762, 713 AB. 111 Cfr. INNOCENZO I, Ep. Si Instituta, cit., 22-24. 110
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simo da quella riservata al vescovo (insieme con l’imposizione delle mani) nel rito di confermazione. In entrambi i casi non era tanto in questione la “riserva al vescovo” del rito di confermazione, bensì il rito da usare: solo l’imposizione delle mani o anche una seconda crismazione? Ambedue le Chiese, quella di Roma e quella della Gallia, affermano di continuare un’antica tradizione. L’uso di una semplice crismazione era già ricordato nel rituale di Iniziazione della Tradizione Apostolica, ma è evidente che le due crismazioni non sono separate una dall’altra ed appaiono invece come un’unica crismazione iniziata dal semplice prete e terminata dal vescovo. T. Marsh112 ha fatto l’ipotesi che la duplice crismazione ricordata dalla Tradizione Apostolica fosse dovuta più a ragioni pratiche, cioè alla complessità del rito che comportava l’unzione sul corpo e all’eccessivo numero di battezzandi con la conseguente esigenza di aiutanti per il vescovo. J. P. Bohot, invece, avanza addirittura l’ipotesi che la duplice crismazione in realtà è il risultato di una compilazione di due rituali, uno di origine romana e l’altro di origine africana113. Secondo Bouhot, dunque, la Tradizione Apostolica non può essere all’origine della successiva duplice crismazione ricordata dalla lettera di papa Innocenzo. Il problema resta perciò aperto; resta pure aperto il problema della crismazione postbattesimale e del suo significato. Ancora una volta si fa avanti l’ipotesi di L. Ligier: l’unzione è un rito che ha origine con il catecumenato e con la preparazione al battesimo ed ha il significato di “sigillo della fede”; con la problematica della riconciliazione degli eretici battezzati al di fuori della Chiesa cattolica l’unzione viene anche ripresa dopo il battesimo come confermazione della fede ortodossa da parte del vescovo cui compete il ministero dell’unità della fede. Ma quale significato poteva avere nel caso dei bambini un rito come l’unzione che ha origine dal catecumenato a dal battesimo degli eretici? Il problema della crismazione, come abbiamo detto, resta ancora aperto ed esige di essere studiato a fondo nei docu-
112 Cfr. T. MARSH, The History and Significance of the Postbaptismal Rites, in The Irish Theological Quarterly 29 (1962) 175-206. 113 Cfr. J. P. BOUHOT, La confermazione, cit., 38-40.
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menti liturgici114, ma intanto è stata tracciata una pista di ricerca, quella del legame tra crismazione e battesimo degli eretici e, ultimamente, il catecumenato degli adulti. Negli anni ’80 un autore americano ha pubblicato un libro115 nel quale sostiene una teoria che riapre un po’ tutta questa questione. In base a questa teoria, ampiamente documentata, egli dice che la struttura che noi oggi chiamiamo confermazione all’origine (III sec. circa) era solo una “missa”, ossia un congedo, mentre a noi è pervenuta con un’altra struttura: quella cioè di un’unzione postbattesimale116. L’autore esamina dapprima il capitolo 21 della Tradizione Apostolica notando che questo testo ha la struttura di una “missa battesimale” che ha il significato di un congedo dal rito del battesimo al rito dell’eucarestia. Ciò è confermato dal fatto che né l’unzione postbattesimale, né l’orazione che il vescovo fa quando impone la mano hanno un valore pneumatologico117. Analizzando poi la lettera di Innocenzo I118 egli fa notare come al gesto di congedo è stato in seguito aggiunto un significato pneumatologico. Questo cambiamento probabilmente sarà avvenuto per due motivi. In primo luogo per ragioni storiche legate alle eresie che negavano la divinità dello Spirito Santo e alla definizione della dottrina sullo Spirito Santo nel Concilio di Costantinopoli (381). In questo contesto, allora, c’era la tendenza a sottolineare la presenza e l’azione dello Spirito Santo nei sacramenti. In secondo luogo per motivi disciplinari, ossia per il fatto che il gesto sacramentale, in Occidente, era riservato al vescovo. Se tutto questo è vero, ciò che nelle Chiese orientali si chiama confermazione non è affatto confermazione, perché non ha la struttura rituale di una 114 Cfr. M. P. VANHENGEL, Le rite et la formule de la chrismation postbaptismale en Gaule et en haute – Italie du IV au VIII siécle d’aprés les sacramentaires gallicans. Aux origines du rituel primitif, in Sacris Erudiri 21 (1972-1973) 161-221. 115 Cfr. A. KAVANAGH, Confirmation: Origins and Reform, New York 1988. 116 Cfr. Ibid., 10. 117 Cfr. Ibid., 41-52. 118 Cfr. Ibid., 52-64.
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missa. Ha, invece, un’altra struttura ben conosciuta anche da noi: si tratta dell’unzione postbattesimale fatta da un presbitero. Dopo il IV secolo, le orazioni rispecchiano questa nuova interpretazione; il battesimo e la confermazione, ormai, vengono staccati l’uno dall’altro anche a causa di questa interpretazione pneumatologica della confermazione. La teoria di P. Kavanagh suscitò alcune obiezioni. Si potrebbe, infatti, osservare che questa teoria riconosce scarsa importanza alla confermazione in se stessa; oppure si potrebbe far rilevare che nessun congedo nella tradizione liturgica si fa con un’unzione; infine può sembrare strano che i battezzati sono congedati in chiesa e non al battistero. Da quanto fino ad ora esposto possiamo dedurre che il sacramento della confermazione presenta numerose difficoltà di comprensione. Abbiamo visto e analizzato le varie teorie che gli studiosi hanno proposto circa l’origine di questo sacramento e circa la sua struttura rituale. Parteggiare per una e scartare le altre è sempre un rischio perché ogni teoria ha dei pregi e dei difetti dovuti alla scarsità di fonti chiare che permettano di dire con precisione come siano andate esattamente le cose. Ulteriori approfondimenti saranno proposti nel prossimo articolo.
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MODERNITÀ IN LUIGI STURZO
FRANCESCO CONIGLIARO*
PREMESSA Previamente, ci sembra necessario intendersi circa il significato da dare al termine “modernità” nel contesto di una indagine che riguarda L. Sturzo. “Modernità” può essere intesa sia nel senso di “epoca storica” che nel senso di “contemporaneità”. Nel primo caso ciò che è stato pensato e vissuto come moderno fatalmente diventa antico. Un tale destino riguarda tutto e tutti e, dunque, anche L. Sturzo, la sua opera ed il suo pensiero. La scuola ermeneutica, però, ci invita a prendere atto dell’esistenza di eccezioni. Essa ci spiega che sfugge a tale destino ciò che merita il qualificatore “classico” e riesce, così, a situarsi nel presente di ogni generazione e di ogni uomo secondo la figura tipica della contemporaneità. Questo, però, è un caso raro, in quanto non può che trattarsi di opere, di dottrine e di autori dotati di una forza comunicativa immediata di portata illimitata1. Certo, anche ciò che è classico può essere considerato dal punto di vista storico, ma in questo caso esso risulta essere al di fuori del tempo e dotato di una ubiquità universale. A proposito di Sturzo, possiamo dire che non tutte le sue idee sono state superate dal trascorrere del tempo e che, quindi, alcune di esse sono ritenute già meritevoli del significativo qualificatore in
* 1
Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo, tr. it., Milano 1972, 338 s.
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questione. Si tratta di idee moderne perché classiche e, conseguentemente, perché dotate di una illimitata temperie di contemporaneità. Nel caso che la modernità venga intesa nel senso di epoca storica, lo studio del rapporto tra L. Sturzo e la modernità implica, tra l’altro, l’analisi della conoscenza che questo maestro di pensiero ne ha, del rapporto che egli ha instaurato con essa, della valutazione che ne ha dato, del ruolo che, sotto i profili quantitativo e qualitativo, le ha assegnato nel suo pensiero. La modernità assume la sua configurazione ed acquisisce le sue caratteristiche peculiari gradualmente durante un’epoca storica a noi vicina. I fatti e le esperienze fondamentali e determinanti di quest’epoca ci sembrano i seguenti: la nascita del soggetto moderno (R. Cartesio), la scoperta della struttura trascendentale del soggetto e della sua libertà (I. Kant), la presa di coscienza della forza della razionalità umana (Illuminismo), l’affermazione del potente atteggiamento critico del soggetto maturato con l’opera dei protagonisti dell’Illuminismo e dei cosiddetti “maestri del sospetto” (K. Marx, F. Nietzsche e S. Freud), la proclamazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, il sorgere del liberalismo, la difesa dei diritti civili, sociali e politici, l’acquisizione della consapevolezza dell’importanza del pluralismo e della tolleranza, il riconoscimento del valore delle storie locali, l’affermarsi delle idee del modernismo, l’imporsi degli ideali della democrazia. In particolare, quanto al pluralismo ed alla tolleranza, caratteristiche precipue della modernità, va detto che la loro giustificazione è fondata sulle tensioni della libertà e della giustizia. Inizialmente sostenuti con motivazioni antropologiche, pluralismo e tolleranza conquistano il riconoscimento da parte della società quale dovere giuridico. La loro corretta affermazione non può non essere attiva, in quanto è alimentata dal principio concreto della libertà e dall’interesse teoretico per la verità: il confronto libero e rispettoso favorisce la ricerca della verità. Il pluralismo e la tolleranza, da una parte, fanno maturare le varie forme di libertà e, prima di tutte, la libertà religiosa e, dall’altra, si configurano sempre più correttamente all’interno di tale processo di maturazione. Le difficoltà nelle quali ci si è imbattuti hanno provocato, all’interno del gruppo degli studiosi del pluralismo e della tolleranza, la distinzione tra “forme deboli”, che fanno spazio alle alterità senza,
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tuttavia, nascondere la valutazione negativa che se ne dà, e “forme forti”, che arrivano al riconoscimento delle alterità e delle diversità in quanto tali. Dalle idee messe in circolazione dal pluralismo e dalla tolleranza sono nati dei problemi, quali quelli del pluralismo politico e dei conseguenti rischi dell’anarchia e dell’ingovernabilità, trattati da C. Schmitt, e quelli del pluralismo dei valori e dei conseguenti rischi del relativismo e, addirittura, del nichilismo, che tengono sempre desta l’attenzione del cristianesimo, e segnatamente del cattolicesimo, come dimostra l’insegnamento del papa Benedetto XVI. Quanto alle storie locali, osserviamo che, se è vero sia che nell’epoca moderna hanno un forte incremento sia che lo Sturzo prende le mosse dai fatti e dai problemi di una storia locale, qual è quella della sua terra di origine, la Sicilia, è pur vero che il nostro Autore ne supera ben presto i confini ed i limiti. Per quel che concerne la storia civile, è opportuno annotare che nella modernità essa tende a realizzarsi secondo uno spirito di emancipazione dalla tutela delle strutture ecclesiastiche. Nello Sturzo questo dato, inequivocabilmente presente, si arricchisce con il proposito da lui fatto di non lasciarsi condizionare neppure dalle forti tensioni anticlericali che segna la sua epoca e che tentano anch’esse, sia pure a loro modo, di mettere sotto tutela la storia. L. Sturzo nasce, cresce e, inizialmente, si forma in un tempo profondamente caratterizzato dalla temperie culturale generale appena indicata. Si tratta di una temperie che in non pochi settori conservatori — ed anche il cattolicesimo dell’epoca sturziana in gran parte lo è — ha suscitato uno sgomento di non piccolo momento. 1. LA MENTALITÀ MODERNA DI L. STURZO Ci sembra che i dati cui affidare il compito di introdurci nell’ambito della modernità di e in L. Sturzo possano essere i tre seguenti: a) la decisione di non assolutizzare nessun’epoca della storia umana: a livello sia individuale che sociale, la storia è segnata da progressi e da regressi, talché la sua interpretazione in termini di progresso costante è un vero e proprio mito2; questo fatto consente allo Sturzo di trattare 2
Cfr. L. STURZO, La società: sua natura e leggi (1935), Bologna 1949, 8 s: cit. SNL;
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con spirito libero e critico e, in ultima analisi, laico tutte le questioni di cui si occupa; b) la presentazione della razionalità e della tendenza all’unificazione come fattori determinanti della formazione sia della personalità che della società degli uomini3; c) l’affermazione del principio dell’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge4. Le idee di storia, quale luogo della libertà, di razionalità e di unità, quali figure della crescita equilibrata ed armonica della persona e della società, e di uguaglianza di fronte alla legge, quale principio regolativo dell’organizzazione della convivenza secondo giustizia ed equità, sono tipiche della modernità e rivelano la modernità dell’approccio dello Sturzo. Mentre parliamo della prossimità di L. Sturzo alla modernità, non possiamo non ricordare la sua distanza dal “modernismo” nelle forme ricostruite dagli storici: “modernismo religioso” e “modernismo politico”5. 2. ACONFESSIONALISMO La modernità dello Sturzo si nota nel fatto che egli, pur non rifiutando nessuno dei principi cristiano-cattolici e, in particolare, non mettendo in discussione l’autorità della Chiesa e l’estensione universale del suo magistero, afferma l’autonomia ed il carattere aconfessionale dell’organizzazione politica dei cattolici. Il nostro Autore coltiva questo convincimento fin dal celebre discorso di Caltagirone del 1905 I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani 6. I cattolici in quanto tali non sono un gruppo politico, militano in partiti diversi e ritengono che i valori religiosi nei quali credono siano veramente garantiti quando vengono proposti al di fuori di ogni contingenza politica7. Di ID., Politica di questi anni. Consensi e critiche (1951-1953), IV, Bologna 1966, 64 ss: cit. PQA, 4. 3 Cfr. SNL 277. 4 Cfr. L. STURZO, Politica di questi anni. Consensi e critiche (1946-1948), I, Bologna 1954, 47 ss: cit. PQA, 1. 5 Cfr. F. CONIGLIARO, Un secolo di teologia in Sicilia, San Cataldo (Caltanissetta) 1998, 202. 6 Cfr. L. STURZO, I discorsi politici, Istituto Luigi Sturzo, Roma 1951, 351-381. 7 Cfr. ID., Miscellanea londinese (1923-1930), I, Bologna 1965, 152-159: ML, 1.
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conseguenza, la loro azione politica non è volta a proporre i loro principi religiosi, anche se se ne lascia ispirare8. Lo Sturzo non solo propone l’aconfessionalismo dell’organizzazione politica dei cattolici, ma anche rifiuta ogni accusa di confessionalismo. Ad esempio, rifiuta decisamente la qualifica di confessionalismo attribuita alla DC9 e critica la locuzione “partiti cattolici” come un parto dei laicisti, specie italiani10. Da tutto questo consegue sia l’approvazione del regime concordatario e della “diarchia sociologica” Chiesa-Stato11, sia la sostituzione del concetto di “Stato laico” con quello più articolato di concezione giuridica dello Stato nei rapporti con la Chiesa e con i vari gruppi religiosi12. 3. ANTISTATALISMO Alle critiche ed al rifiuto del confessionalismo, in quanto rischioso per l’autonomia dei cattolici in politica, lo Sturzo unisce le critiche per lo Stato che assume il volto dello statalismo ed esercita il potere in forma autoritaria, come accade in particolar modo nello “Stato panteista” del fascismo e del nazismo. Se la società non è una entità a se stante ma solo una “proiezione della personalità umana”, lo Stato è soltanto un mezzo dell’attività umana ed una delle tante forme di socialità13. Di conseguenza, attribuire allo Stato una sorta di consistenza ipostatica è un’operazione insensata: «Parlare dello Stato come di una persona vivente e cosciente è uno dei più falsi nominalismi registrati dalla storia filosofica e da quella politica»14. Lo statalismo porta alle aberrazioni dello Stato etico e dello Stato panteista, e cioè alla dittatura, di cui si conoscono tre forme: quella social-nazionalista di Mussolini e di Franco, quella nazionale-razzista di Hitler e quella 8
Cfr. ID., Politica di questi anni. Consensi e critiche (1957-1959), VI, Roma 1998, 401 ss: cit. PQA, 6. 9 Cfr. PQA, 6, 432. 10 Cfr. L. STURZO, Politica di questi anni. Consensi e critiche (1950-1951), III, Bologna 1957, 258 s: cit. PQA, 3. 11 Cfr. SNL 239 s. 12 Cfr. PQA, 1, 218-221. 13 Cfr. SNL 271 s. 14 PQA, 6, 164.
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bolscevico-comunista di Lenin, Stalin e Mao15. Statalismo è la traduzione di locuzioni famose, quali quella mussoliniana “Tutto nello Stato e per lo Stato” e quella più antica di Luigi XIV “Lo Stato sono io”16. L’idea di sovranità illimitata dello Stato moderno autoritario è ereditato dalle monarchie assolute ed ha raggiunto la massima espressione nelle aberrazioni dello stato etico e panteista17. Di fronte allo Stato autoritario occorre avere alcune idee chiare: lo Stato che vuole essere considerato positivamente deve essere “Stato di diritto”, e cioè deve implicare l’ancoraggio dell’esercizio dell’autorità al diritto, in quanto solo così può limitarne e regolarne le inevitabili tendenze all’arbitrarietà18; l’autorità della convivenza organizzata, affinché non sia assoluta e, quindi, antisociale, deve ottenere il consenso del popolo, cioè deve poggiare su autentiche basi democratiche, e deve avere un carattere etico (è così che lo Sturzo spiega l’idea tradizionale dell’origine divina dell’autorità), e cioè deve operare al servizio della collettività, caratterizzandosi come diritto, dovere e responsabilità19; è importante che lo Stato sia forte, ma, affinché esso sia veramente tale, è necessario che si basi sul principio che la legge è uguale per tutti20; la libertà ed il suo esercizio organico esigono che lo Stato sia rappresentativo ed organico e non centralizzatore21. 4. PERSONA UMANA La razionalità, che presiede ai processi di formazione della società, non è una mera tensione ma modo di essere ed espressione di una soggettività, che, proprio perché razionale, tende naturalmente a situarsi ed a vivere in una convivenza organizzata. Una soggettività, che 15
Cfr. PQA, 4, 329 ss. Cfr. PQA, 4, 165. 17 Cfr. ML, 1, 135. 18 Cfr. L. STURZO, Politica e morale (1938) – Coscienza e politica. Note e suggerimenti di politica pratica (1953), Bologna 1972, 373: cit. PM. 19 Cfr. PM 344 ss. 20 Cfr. PQA, 4, 131-134. 21 Cfr. ML, 1, 116; L. STURZO, Il partito popolare italiano: dall’idea al fatto (1919) – Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), Bologna 1956, 181: cit. PPI, 1. 16
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si esprime in questo modo, si rivela come persona. La tendenza in questione consiste in un “istinto associativo”, che «è la stessa esigenza naturale e primordiale dell’individuo alla sua vita completa — sensitiva e intellettiva — vita perciò comunicativa nel senso più ampio e complesso della parola»22. L’esistenza dell’individuo è, dunque, normata da un “principio associativo” innato volto a completare la realtà umana con la dimensione sociale. Sicché, si deve dire che «L’uomo è insieme individuale e sociale; la sua potenzialità individuale e quella sociale hanno unica radice nella sua natura sensitivo-razionale. Egli è talmente individuale da non partecipare a nessun’altra vita che la sua, sì da essere personalità incomunicabile; ed è talmente sociale che non potrebbe esistere né svolgere qualsiasi facoltà né la sua stessa vita al di fuori delle forme associative»23; «La coscienza che realizza la società, l’ordine e la garanzia dell’ordine è quell’unica coscienza individuale-sociale, da cui viene come da viva sorgente tutto il complesso e dinamico vivere degli uomini in società»24. Di conseguenza, la domanda sulla precedenza dell’individuo rispetto alla società, che ha una risposta positiva secondo l’ordine logico, riceve una risposta negativa secondo l’ordine temporale25 e la vita sociale, che non è diversa da quella individuale, implica la partecipazione e, dunque, il progetto26. Anche se nella soluzione del problema concernente l’origine della società entrano elementi positivi, quali il contratto e l’esigenza dell’esercizio razionale ed ordinato della forza, l’elemento portante è costituito dalla coscienza individuale-sociale27. Dunque, la società, che è “coesistenza di individui” e “proiezione della personalità umana”, ha la via obbligata nell’esercizio della razionalità e nella ricerca dell’unificazione sia interiore che sociale28.
22
SNL 7. SNL 5. 24 SNL 72. 25 Cfr. SNL 28 s. 26 Cfr. SNL 161. 27 Cfr. SNL 74 s. 28 Cfr. SNL 270-277. 23
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5. LIBERTÀ La persona si esprime in una particolare forma di razionalità che è la libertà. È questa la ragione per cui la ricerca dell’origine della libertà ci fa incontrare la persona umana29. Sturzo dice: «La libertà è la più aderente qualità della coscienza umana»30. Ciò non significa che la libertà si dissolve nell’individuo: essa inizia come facoltà interiore dell’uomo e si completa come facoltà sociale e, in quanto tale, si rivela necessaria ad ogni tipo di progresso31. Se la libertà viene meno, in quello stesso momento cessa la dignità umana32. La libertà come libertà sociale è partecipazione consapevole alla vita sociale33. La libertà implica sempre un processo, perché liberi, a livello sia individuale che sociale, non si nasce ma si diventa. Così, la libertà è un metodo di armonia tra diritti e doveri ed accompagna l’uomo e la società nel corso del cammino di acquisizione della libertà34. Il metodo della libertà presuppone chiarezza di posizioni e senso di responsabilità35. La libertà è indivisibile nel senso che deve essere affermata ed applicata in tutti i settori della convivenza36. Uno dei campi più delicati dell’esercizio della libertà è costituito dalla politica. La libertà per Sturzo è l’anima e la vita della politica37. Non per nulla, quando il nostro Autore parla della bandiera dello schieramento cui egli appartiene e del simbolo linguistico che vi è segnato, dice che si tratta della parola “Libertas”, sintesi eloquente di tutte le battaglie38. Facendosi guidare dal convincimento che lo stata29
Cfr. PM 346. Cfr. L. STURZO, Politica di questi anni. Consensi e critiche (1948-1949), II, Bologna 1954, 170: cit. PQA, 2. 31 Cfr. ID., Problemi spirituali del nostro tempo (1945), Bologna 1961, 307: cit. PS. 32 Cfr. ID., Miscellanea londinese (1343-1936), III, Bologna 1970, 163: ML, 3. 33 Cfr. SNL 160 s. 34 Cfr. ML, 3, 91. 35 Cfr. PQA, 1, 437. 36 Cfr. ML, 3, 162 s. 37 Cfr. PQA, 2, 165. 38 Cfr. PPI, 1, 192. 30
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lismo limita la libertà39, lo Sturzo sostiene la necessità di arricchire la società di libertà organiche da contrapporre allo Stato panteista40, afferma che la libertà conferisce una giusta aura di moralità all’autorità41, attribuisce il qualificatore “vera” a quella democrazia in cui autorità e libertà sono in equilibrio armonico42, sostiene la necessità di coniugare libertà e lealtà43, fa della libertà la condizione per attuare la verità sia individuale che sociale44. L. Sturzo denuncia l’ambigua tendenza degli italiani allo statalismo e ne mette in luce le motivazioni. Nel 1949 critica la commistione di demagogia e paternalismo perché alimenta negli italiani l’idea dello statalismo, che in questo caso significa aspettativa nei confronti de «l’intervento dello Stato in tutte le occasioni e per tutte le necessità. […] È questo il lato più tragico di un paese povero e sovrappopolato come il nostro, che è esasperatamente individualista e allo stesso tempo aspetta tutto dal “dio stato”»45. Nel 1957 manifesta il suo pessimismo circa il senso della libertà del popolo italiano, e la ragione è la tendenza di esso allo statalismo, nonostante l’esperienza drammatica del fascismo, che proponeva, tra l’altro, uno Stato panteista: «L’italiano deve ancora vincere la paura della libertà; finché non la vince, non può dirsi uomo libero, non può dirsi degno di essere libero. Il conformismo, la partitocrazia, l’adattamento alle sopraffazioni dei monopoli di Stato, la captazione della stampa con larghi mezzi pubblicitari sono fenomeni di paura della libertà e portano verso lo statalismo socialista»46. Lo Sturzo non risparmia neppure i suoi amici della DC, in quanto non esita ad accusarli di non dire al popolo tutta la verità e di mostrare in tal modo di avere paura sia della verità che della libertà47. 39
Cfr. PQA, 2, 168 ss. Cfr. PPI, 1, 181. 41 Cfr. ML, 3, 163. 42 Cfr. PM 348. 43 Cfr. ML, 3, 93. 44 Cf. PQA, 1, 336. 45 PQA, 2, 347 s. 46 PQA, 6, 159. 47 Cfr. PQA, 6, 3. 40
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La libertà è un bene indivisibile e, quindi, o investe tutta la vita della comunità politica o è libertà solo in apparenza. Lo Sturzo fa questa considerazione perché in Italia, dove la proclamazione e la rivendicazione della libertà sono costanti, si contesta la libertà della scuola, confondendo la scuola pubblica con la scuola statale e riducendo le scuole non statali al livello di mere scuole private. Per L. Sturzo la libertà scolastica è parte integrante della piena libertà della comunità politica48. Le necessarie libertà organiche ed economiche restano di valore limitato se non sono congiunte con «la libertà scolastica, che è la base della riforma della vita nazionale»49. «Il monopolio statale è una delle maggiori cause della decadenza della cultura italiana. Altro che Kulturkampf alla rovescia!»: questa è la ragione per la quale lo Sturzo reagisce con decisione all’accusa di “Kulturkampf alla rovescia” fatta da G. De Ruggiero ai cattolici che difendono la libertà della scuola50. Tale libertà consente alle famiglie l’esercizio del diritto di salvaguardare la fede, la coscienza e l’educazione delle giovani generazioni51. Lo Sturzo lamenta il crescente monopolio della scuola in Italia52, ironizza sullo «statalismo scolastico roba indigena in Italia»53 e sui “bigotti” della scuola di Stato, numerosi al tempo in cui ne parla (1948) come al tempo del fascismo54. Lo Sturzo si vede costretto ad aggiungere alle tante un’altra constatazione amara: neppure la scuola di Stato è libera, in quanto è gravata da una pesante eredità fascista, e cioè la burocratizzazione asfissiante55. Il problema della libertà scolastica in Italia è sempre dibattuto, ma non riceve mai una soluzione politica adeguata56. Le sentenze di Sturzo sull’Italia e sugli italiani a proposito di questo importante tipo di libertà sono 48
Cfr. PQA, 2, 167. PPI, 1, 187. 50 Cfr. PQA, 1, 433 s. 51 Cfr. PPI, 1, 188. 52 Cfr. L. STURZO, Scritti storico-politici (1926-1949), 213: cit. SSP 1926-1949. 53 PQA, 1, 177. 54 Cfr. PQA, 1, 386 ss. 55 Cfr. SSP 1926-1949, 214. 56 Cfr. SSP 1926-1949, 239. 49
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molto dure: finché gli italiani non vinceranno la battaglia sulla libertà scolastica, rimarranno servi dello Stato, del partito, dei “tirannelli” locali, di tutti57; senza la libertà della scuola, l’Italia non sarà libera, nonostante l’“apparente democrazia”58. L. Sturzo, che difende la libertà contro ogni forma di statalismo, non può non essere a favore degli “obiettori di coscienza”; e lo è perché in simili prese di posizione vede una manifestazione del principio intangibile della libertà di coscienza. Egli difende l’obiezione di coscienza anche di fronte a quei teologi che non riconoscono una legge di coscienza superiore alle leggi dello Stato59. Lo Sturzo affida, nella questione della libertà, un compito particolare all’intellettuale: «La libertà è umana e creativa. Gli Intellettuali debbono affermarla per sé, non per farla servire ad un determinato regime quale la democrazia. Ma se non si domanda loro un amore preferenziale per la democrazia, si domanda lo sforzo di garantire in regime democratico i valori della libertà e quindi di assumere le responsabilità»60. 6. MORALITÀ L. Sturzo si occupa di morale soprattutto in ambito politico. Previamente occorre precisare che egli non cede mai alla banalità del moralismo, in quanto per lui la moralità è una dimensione dell’essere che rivela l’intrinseca natura dell’uomo ed è un fattore di razionalizzazione dell’intero esistente. Assumendo questa prospettiva, egli si pone in contrapposizione nei confronti di coloro i quali trattano politica e morale come nemiche irriducibili61. Di fronte a Machiavelli, che separa la politica dalla morale, Sturzo sostiene sia che razionalità ed eticità appartengono alla struttura del nostro essere e sono presenti in tutti i settori ed in tutte le forme del nostro essere e del nostro 57
Cfr. PQA, 1, 261. Cfr. SSP 1926-1949, 223. 59 Cfr. PS 155. 60 L. STURZO, Miscellanea londinese (1937-1940), IV, Bologna 1974, 423: cit. ML, 4. 61 Cfr. PM 61. 58
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operare62, sia che l’ordine giuridico e l’ordine etico contribuiscono vigorosamente alla razionalizzazione della vita sociale63. Per assumere questa prospettiva è necessario cogliere il nesso tra morale individuale e morale sociale: «L’errore di parecchi è di distinguere la morale individuale da quella sociale e politica, cioè per oggetto; non pensando che l’origine della vita morale è la coscienza, e che il termine è in questo mondo il rapporto fra gli uomini»64. Considerando l’esistente, si ha l’impressione che morale e politica non possano implicarsi reciprocamente. D’altra parte, però, non si può non prendere atto dell’esistenza di un’aspettativa diffusa di un loro incontro e di un loro accordo: il dualismo etica-politica è un passo notevole verso la decadenza in quanto “insacca” e soffoca la nostra civilizzazione (PM 265 s); senza morale la vita politica cade nell’irrazionale65. La moralità della vita pubblica riguarda il potere politico, l’amministrazione ed il cittadino. Quanto al potere, lo Sturzo ricorda che l’idea paolina “non c’è potere se non da Dio” è volta a porre dei limiti etici all’esercizio del potere66. Quanto all’amministrazione ed ai cittadini, fa delle considerazioni veramente sconsolanti, che riferiamo con le sue stesse parole: «La funzione di controllo alle pubbliche amministrazioni, sia legale e tecnico, sia parlamentare, è un necessario limite agli abusi del potere, ma non è mai tale da impedirli. Se non c’è un’efficace vigilanza dell’opinione pubblica e una pressione popolare per la moralità amministrativa e politica, le corruzioni saranno tali da superare quelle famose della città di Chicago […]. Ma c’è un altro pericolo, ancora peggiore; quello della insensibilità del popolo stesso di fronte al dilagare della immoralità nell’amministrazione dello stato, sia perché attraverso partiti, cooperative, sindacati, enti assistenziali e simili, coloro che hanno in mano i mezzi dell’opinione pubblica partecipano alla corruzione dei rappresentanti politici, o si preparano a parteciparvi con l’alternarsi dei partiti […]. L’immoralità pubblica 62
Cfr. PQA, 2, 262-267. Cfr. SNL 207. 64 PM 269. 65 Cfr. PM 378. 66 Cfr. L. STURZO, Sociologia del soprannaturale, Roma, 237. 63
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non è caratterizzata solo dallo sperpero del denaro, dalle malversazioni e dai peculati. Applicare sistemi fiscali ingiusti o vessatori è immoralità; dare impieghi di stato o di altri enti pubblici a persone incompetenti è immoralità; aumentare posti d’impiego senza necessità è immoralità; abusare della propria influenza o del proprio posto di consigliere, deputato, ministro, dirigente sindacale, nella amministrazione della giustizia civile o penale, nell’esame dei concorsi pubblici, nelle assegnazioni di appalti o alterarne le decisioni, è immoralità. Non continuo in questa lista interminabile»67. Il perverso costume delle raccomandazioni per ottenere un posto di lavoro si afferma sempre più: «le raccomandazioni per ottenere un posto [presso gli enti pubblici] si contano a milioni, anzi non si contano più»68. Ci si viene a trovare, come rileva lo Sturzo nel 1957, di fronte ad una situazione che, essendo attraversata da molte contraddizioni, risulta incontrollabile: mentre, da una parte, la moralizzazione della vita pubblica è «l’aspirazione popolare: giustizia, onestà, mani pulite, equità», dall’altra «nella mente dei cittadini è penetrata l’idea che per avere disbrigato un affare occorre la bustarella, o la percentuale per il premuroso intermediario»69. Una delle cause di tutto questo è il fenomeno di “gravità eccezionale” che all’inizio degli anni ’50 fece risuonare un grido di allarme: “la democrazia si burocratizza”70. Tra le due guerre mondiali ed all’epoca del fascismo, l’apparato burocratico s’ingigantisce sempre più, fino a determinare un fenomeno d’invasione della vita sociale71, e cioè una vera e propria piaga, che l’Italia del dopoguerra e degli anni successivi avrebbe ereditato. Si tratta di una burocrazia lenta, complicata e corrotta72; di una pletora d’impiegati, notevole per numero e non per qualità; di soggetti che accumulano dieci e più incarichi e che ricevono compensi ai quali non corrispon-
67
PQA, 1, 40 s. PQA, 4, 100. 69 PQA, 6, 160 s. 70 Cfr. PQA, 3, 387 s. 71 Cfr. PPI, 1, 164, 206; ML, 1, 87. 72 Cfr. PQA, 1, 32. 68
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dono prestazioni adeguate73. Nonostante la creazione di uffici di “informazioni e reclami”, il cittadino resta indifeso74. Fine della politica è il bene comune e non il mero bene 75 privato e, quindi, non ci sono settori della vita del cittadino che abbiano conseguenze sulla vita della convivenza che possano essere considerati esclusivamente privati e, per questo, separabili dalla morale, e precisamente dalla morale sociale. Perfino l’utile, oggetto dell’economia, a motivo della sua produzione e del suo uso, che hanno dimensioni sociali, ha carattere sociale e, quindi, entra nella competenza della morale76. 7. DEMOCRAZIA La passione dello Sturzo per la democrazia è fortissima. Questa è articolata secondo antiche libertà proposte dal liberalismo, e cioè libertà di opinione, di parola, di riunione e di voto77, ma è fondata sulla “personalità umana integrale”, che, in quanto tale, secondo Sturzo è cristiana78. Lo Stato democratico deve essere forte, e lo è effettivamente se è caratterizzato dall’organicità e dalla responsabilità79. Si tratta, dunque, di uno Stato forte diverso da quello espresso dal totalitarismo di ogni colore, che è anti-umano ed anti-cristiano e, quindi, è da bandire dai paesi civili in nome della democrazia e della libertà80. La democrazia esprime il governo proposto dalla maggioranza, che, non essendo “maggioranza omogenea” come nel fascismo, sgorga dal suffragio universale e riconosce i diritti della minoranza81. Quanto, poi, 73
Cfr. PQA, 2, 372. Cfr. PQA, 4, 120, 123. 75 Cfr. PM 63. 76 Cfr. PQA, 1, 186-190. 77 Cfr. PQA, 1, 360. 78 Cfr. ML, 3, 17. 79 Cfr. PQA, 4, 147. 80 Cfr. ML, 4, 283. 81 Cfr. L. STURZO, Il partito popolare italiano: popolarismo e fascismo (1924), Bologna 1956, 133, 140: cit. PPI, 2. 74
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al carattere aconfessionale della democrazia cristiana, mediante la quale i cattolici comunemente esprimono il loro pensiero e conducono la loro azione sociale e politica, lo Sturzo è inequivocabile: «Ho voluto insistere su ciò, perché l’equivoco di confondere la democrazia cristiana con la chiesa sedusse alcuno dei nostri e per rimbalzo l’equivoco di restringere l’azione nostra al carattere religioso fu sostenuto con ogni argomento da parecchi dei conservatori cattolici. Ma è tempo di togliere gli equivoci e di lavorare»82. La democrazia, nonostante i suoi pregi, è una linea politica ed un progetto politico molto delicati, facili da corrompere; e già nel 1947 L. Sturzo sostiene che la democrazia, tanto celebrata a parole, viene tradita con i fatti83. Uno dei rischi più gravi della democrazia italiana è il frazionamento politico, che produce instabilità84, e la partitocrazia, che costituisce il “problema centrale” della politica italiana85. Lo Sturzo delinea i compiti dei partiti: «Il compito specifico dei partiti politici in democrazia è quello di organizzare il corpo elettorale; prepararlo ed educarlo alla vita pubblica; fare da intermediario fra gli organismi del potere e dell’amministrazione e il cittadino; aiutarlo nella difesa dei propri diritti, indurlo allo scrupoloso adempimento dei doveri pubblici: correggerne l’istinto demagogico e indirizzare al servizio pubblico la impulsiva passionalità delle masse»86. Ciò significa che i partiti politici hanno come scopo l’armonia della vita pubblica. La partitocrazia, invece, è il contrario della vita pubblica87, in quanto dà origine ad una vera e propria turbativa del sistema costituzionale88. Nel corso degli anni ’50 lo Sturzo denunzia il fenomeno della partitocrazia, in particolare della DC, che s’ingerisce in questioni di compe82 L. STURZO, Sintesi Sociali (1900-1906) – Unioni professionali, Bologna 1961, 22: cit. SS. 83 Cfr. PQA, 1, 215. 84 Cfr. PQA, 1, 29 s. 85 Cfr. PQA, 6, 344. 86 L. STURZO, Politica di questi anni. Consensi e critiche (1954-1956), V, Bologna 1968, 34: cit. PQA, 5. 87 Cfr. PQA, 5, 34. 88 Cfr. PQA, 4, 410.
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tenza del parlamento e del governo e ricorre al veto per perseguire fini di parte89. Il convincimento dello Sturzo è che la partitocrazia debba essere evitata a qualunque costo, perché, essa, favorendo la sovrapposizione dei partiti a tutte le attività politiche ed amministrative sia centrali che periferiche, alimenta l’attività dei franchi tiratori, incoraggia la demagogia e “manda il paese in rovina”90. 8. INTERNAZIONALISMO Lo Sturzo mostra di avere una grande sensibilità per la dimensione internazionale della convivenza umana. Ciò va detto in riferimento sia agli organismi internazionali, sia all’Europa, sia all’Italia. Innanzitutto, deve essere chiara l’idea che i trattati tra i vari paesi vanno considerati secondo il principio classico pacta sunt servanda e non come semplici “pezzi di carta”. La violazione di questo principio ha causato all’umanità sofferenze immani91. I trattati lacunosi e discutibili, come ad esempio la “pace di Versaglia” che ha fatto seguito alla I guerra mondiale, potrebbero suscitare la tentazione di trovare una soluzione ai problemi rimasti aperti con il ricorso ad una nuova guerra, ma è molto meglio creare un “organo internazionale” che curi gli interessi dei paesi membri92. Per quel che concerne gli organismi internazionali, in particolare la “Società delle Nazioni” e l’ONU, lo Sturzo lamenta gli equivoci della loro fondazione: la “Società delle Nazioni” è stata fondata nel 1919 sull’equivoco del totale rispetto dell’assoluta sovranità degli stati membri93; l’ONU è stato istituito, come la precedente “Società delle Nazioni”, dagli alleati, e cioè dalle potenze vittoriose, che hanno inserito negli atti istitutivi elementi pregiudizievoli per un organismo internazionale universalmente ritenuto necessario94. 89
Cfr. PQA, 4, 400 s, 409; PQA, 5, 31 s. Cfr. PQA, 6, 364 s. 91 Cfr. ML, 4, 144 s. 92 Cfr. L. STURZO, Il partito popolare italiano: pensiero antifascista (1924-1925) – La libertà in Italia (1925) – Scritti critici e bibliografici (1923-1926), Bologna 1957, 309: cit. PPI, 3. 93 Cfr. ML, 1, 132-139. 94 Cfr. PQA, 1, 137. 90
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La creazione di organismi internazionali presuppone la formazione di una coscienza internazionale, che richiede educazione e sperimentazione, e cioè pazienza e gradualità. Ma, quali che siano le difficoltà, il rifiuto di procedere lungo questa pista equivale al suicidio dell’umanità. Sturzo è ottimista perché, dopo tentativi e fallimenti, «l’umanità troverà nella riserva della sua anima gl’impulsi vitali per le conquiste future. Così si formerà la coscienza internazionale, quando riconoscerà che solo un ideale morale di giustizia e libertà può animare le istituzioni umane, vecchie e nuove»95. Quanto all’Europa, lo Sturzo pensa ad una entità internazionale indipendente e federata, favorita, tra l’altro, dagli impulsi scaturenti dalla comune civiltà cristiana e volta alla conservazione della pace del continente96. L’Europa unita sarà un orizzonte ideale per affrontare e risolvere i problemi delle minoranze in terra europea. Già nel 1929 lo Sturzo parlava della “solidarietà internazionale” come clima in cui trattare le minoranze e come struttura portante della nascita degli “Stati Uniti d’Europa”97. Tra le considerazioni concernenti i rapporti internazionali dell’Italia, lo Sturzo pone quelle concernenti la posizione dell’Italia al centro del Mediterraneo e la sua vocazione a fare, a motivo di interessi politici ed economici, una politica estera volta a riprendere la sua posizione in questo mare98. 9. AUTONOMIE LOCALI, DECENTRAMENTO E REGIONALISMO Lo Sturzo si pone da sempre e con chiarezza di idee il problema delle autonomie locali, del decentramento, delle provincie e delle regioni. Si tratta di un problema urgente, assillante e bisognoso di soluzione99, che lo Sturzo affronta in tutte le fasi della sua riflessione e della sua azione politica. Ovviamente, ci sono momenti in cui l’urgenza 95
PQA, 1, 143 s. Cfr. PQA, 1, 421-426. 97 Cfr. SSP 1926-1949, 38-48. 98 Cfr. PPI, 1, 177; ML, 1, 128-132. 99 Cfr. PPI, 1, 194-197. 96
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è più impellente che mai. Alla base di tutto si trovano il principio che lo Stato forte non è quello accentrato bensì quello decentrato100, la questione del rapporto tra centro e periferia101 ed il fatto storico che il decentramento, specie quello regionale, affonda le sue radici nel Risorgimento102. Poi vengono le argomentazioni che sono legate alla contingenza storica, come la crescente centralizzazione dello Stato, l’insistente ingerenza governativa che rende attuale una domanda antica: Quis custodit custodes?103 e l’esigenza del decentramento burocratico104. In tale prospettiva, lo Sturzo sostiene che l’autonomia municipale è importante, ma ha senso e valore effettivo solo se viene attuata non in virtù di azioni legislative bensì in virtù delle convinzioni, della volontà e delle iniziative dei comuni105. Lo Sturzo ferma la sua attenzione anche sulle provincie e, dopo aver osservato che si tratta di enti fittizi in quanto sono state create più per ragioni burocratiche che per lo scopo dello sviluppo sociale e che, comunque, sono rese vane dal centralismo statale106, afferma che l’abolizione delle provincie è sempre stato un punto importante del programma del Partito Popolare Italiano107 e si pone la domanda circa l’opportunità che la provincia sopravviva alla regione108. Lo Sturzo dedica da sempre un’attenzione maggiore alle regioni. Esse sono viste non come entità opposte allo Stato, bensì come strumenti per la semplificazione delle funzioni statali109. Questo è il motivo per cui lo Sturzo esclude il federalismo ed opta per lo Stato unitario, la cui articolazione regionale è volta sia a superare ogni divergenza sia a produrre un’unità convergente110. Coltivando una tale 100
Cfr. ML, 1, 88. Cfr. L. STURZO, Nazionalismo e internazionalismo (1946), Bologna 1971, 102 s. 102 Cfr. PQA, 3, 61. 103 Cfr. ML, 1, 84-89. 104 Cfr. PPI, 1, 230. 105 Cfr. PQA, 4, 95. 106 Cfr. PQA, 2, 209. 107 Cfr. SS 292-295. 108 Cfr. PPI, 1, 220. 109 Cfr. PPI, 3, 150. 110 Cfr. PPI, 1, 206 s. 101
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concezione regionalistica, lo Sturzo denuncia le manovre di coloro i quali, avendo una concezione monodica dello Stato, insinuano il sospetto che l’autonomia regionale miri al federalismo ed al separatismo111 ed accusano il Partito Popolare di essere nemico dell’unità112. Per questa ragione, lo Sturzo vede il regionalismo non tanto come una questione politica quanto come una questione amministrativa113. 10. MEZZOGIORNO Nel 1947 L. Sturzo parla del “Mezzogiorno” nei termini seguenti: «La questione meridionale (e in questo termine includo anche Sicilia e Sardegna) esiste; non è una invenzione polemica né una fatalità geofisica o psico-sociologica; è nel suo significato reale un problema politico o meglio un problema di politica nazionale»114. Da ciò risulta che lo Sturzo si occupa della questione meridionale con chiarezza di idee e con termini appropriati. Il discorso dello Sturzo penetra all’interno della questione meridionale, raccogliendo dati a partire dall’epoca dell’unificazione politica della penisola ed arrivando sino al 1959, anno della sua morte, considerandone le caratteristiche ed indagandone le cause, al fine di fare comprendere i motivi delle dimensioni nazionali della questione, e facendo delle proposte per pervenire ad una soluzione anch’essa di livello nazionale. I dati raccolti dallo Sturzo fanno vedere sia che il Mezzogiorno d’Italia ha delle carenze che nel corso dei decenni di vita unitaria sono diventate sempre più strutturali, sia che la via della soluzione dei problemi implica il decentramento dello Stato e l’inserimento del Mezzogiorno nell’equilibrio statale, allo scopo di mettere le regioni che ne fanno parte alla pari con le rimanenti regioni italiane115. Tra i dati indicati dallo Sturzo si trovano accenni ad elementi storici della polemica Nord-Sud, e cioè l’unificazione realizzata come una 111
Cfr. PQA, 1, 229. Cfr. PQA, 2, 212. 113 Cfr. RNZ 322. 114 PQA, 1, 317. 115 Cfr. PPI, 3, 366-372; PQA, 2, 77. 112
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“cucitura”, la “piemontizzazione” del meridione, lo spostamento del centro di gravità del paese al Nord, il programma governativo dell’industrializzazione del Nord e della destinazione del Sud all’agricoltura e, in maniera criptica, all’emigrazione, il sacrificio dei veri interessi del meridione116. Si trovano anche accenni a certe possibilità residue rimaste nelle mani dei meridionali, come, ad esempio, l’impiego nella pubblica amministrazione117. E non mancano né i suggerimenti da attuare nel meridione nel campo dell’industrializzazione, dell’artigianato e del turismo, né i suggerimenti ai meridionali perché si assumano la responsabilità dell’iniziativa in ogni campo della vita politica, sociale ed economica118. Nel 1954, lo Sturzo, dopo aver ricordato che «una vera politica diretta alla industrializzazione del mezzogiorno non vi è stata mai», fa delle critiche alla equivoca politica di industrializzazione della Cassa del Mezzogiorno: «Con la creazione della cassa del mezzogiorno, si temette (e chi scrive ne fece speciali rilievi sulla stampa) un arresto alla industrializzazione, perché nella legge del 1950 si volle limitare l’intervento della cassa solo agli impianti di utilizzazione dei prodotti agrari, utilizzazione che nella pratica è stata anch’essa scarsa, non ritenendo che le centrali del latte e le centrali ortofrutticole realizzate in quattro anni possano dirsi un apporto efficiente nel campo della industrializzazione»119. Nel luglio del 1959, pochi giorni prima della sua morte, lo Sturzo fa alcune considerazioni, riprendendo antichi temi della irrisolta questione meridionale: «Le mie critiche fondamentali sono due: la prima che nel Mezzogiorno si è trascurata, o non si è curata come era dovere prevalente, la ripresa agrario-forestale o la relativa trasformazione tecnico-produttiva sia per se stessa, sia come premessa di concorrente industrializzazione tanto agraria che di altra specie; la seconda critica, che non si sono tenuti efficacemente in vista o si sono trascurati gli sblocchi commerciali e i mezzi adeguati ad equilibrare gli sviluppi dei traffici locali e
116
Cfr. RNZ 328 ss; PPI, 3, 367, 370. Cfr. PQA, 1, 320 s. 118 Cfr. PQA, 2, 25-28. 119 PQA, 5, 112 s. 117
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quelli di esportazione in lontani mercati esteri e nazionali con le varie iniziative di produzione e trasformazione dei prodotti»120. Considerando l’attuale situazione del meridione d’Italia, alcune annotazioni fatte dallo Sturzo nel lontano 1924, poco dopo l’affermazione del fascismo, hanno una loro sostanziale drammatica attualità: «[…] il governo italiano ha esercitato sessantaquattro anni di corruzione e di sopraffazioni, pari a quelle del governo borbonico o vicereale dei tempi più feroci e men leggiadri. […] Non vi sono stati trasformazioni, ma solo il peggioramento del sistema. […] Si compiange il mezzogiorno che, pur avendo dato grandi uomini di politica, ingegni acuti, coscienze adamantine, e pur avendo una borghesia intelligente e colta e un indirizzo politico-democratico, è stato sempre una terra di conquista del governo, di qualsiasi governo. La colpa è di entrambi: del governo che corrompe e del mezzogiorno che si lascia corrompere»121. 11. LA REGIONE SICILIA Nella riflessione dello Sturzo sono presenti sia le aspirazioni dei siciliani all’autonomia, sia i loro antichi difetti, sia, infine, i rimpianti per le realizzazioni non fatte. L’istituzione della Regione Sicilia quale regione autonoma a statuto speciale e la sua storia mettono in luce tutti questi elementi. Nel 1946 lo Sturzo dichiara candidamente che l’autonomia siciliana è stata il suo “sogno per mezzo secolo”, ma, aggiunge subito con grande senso di realismo: «Autonomia vuol dire coscienza della nostra forza e delle nostre debolezze; la prima per farci valere; le seconde per correggerle e superarle. Se vogliamo far valere i nostri diritti, non dobbiamo indulgere ai nostri difetti» e, con preveggenza profetica carica di speranza e di nostalgia, formula un auspicio rimasto sempre disatteso: «Ci vuole unione fra i siciliani per gli interessi della Sicilia al di sopra dei partiti in cui si sono inquadrate le forze elettorali»122. Lo Sturzo insiste: con l’autonomia i siciliani debbono superare le gelosie campanilistiche, debbono fissare regole rispondenti 120
PQA, 6, 484 s. PPI, 3, 30 s. 122 PQA, 1, 77. 121
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ai bisogni dell’isola, debbono emarginare ogni tendenza separatista, debbono sentirsi parte integrante del “tutto nazionale” e debbono procedere con autentico spirito di solidarietà nei confronti delle altre regioni italiane. Insomma, la realizzazione dello statuto regionale richiede l’impegno di procedere lasciandosi guidare dal monito sturziano “La Sicilia al di sopra dei partiti” e concretamente l’attuazione di una adeguata tregua politica tra i partiti123. Il convincimento che l’autonomia è “creazione” dei siciliani e non “un regalo elargito dall’alto” deve spingere le popolazioni siciliane a superare i loro limiti ed a puntare a ciò che può favorire l’industrializzazione dell’isola124. Un posto notevole tra questi fattori di sviluppo industriale ed economico occupano le ferrovie, nei confronti delle quali le strade camionabili debbono avere un ruolo importante ma complementare125. Per lo Sturzo non è escluso neppure il ponte calabro-siculo sullo stretto, a condizione, però, che sia necessario per il progresso economicosociale e che i quesiti sugli aspetti tecnici e sulla fecondità economica ricevano risposta positiva126. CONCLUSIONE La categoria più efficace per raccogliere ed esprimere sinteticamente le caratteristiche più evidenti della modernità di e in L. Sturzo ci sembra la categoria razionalità. Precisiamo subito che non si tratta della razionalità assoluta, autosufficiente e boriosa, affermatasi molto spesso in epoca moderna, bensì della razionalità quale facoltà ed organo della capacità critica dell’uomo, una capacità esercitata contro tutti i rischi di assolutizzazione incorsi o anche solo paventati nella storia, nelle istituzioni e nei sistemi. Una comunità di uomini caratterizzata dall’esercizio costante della razionalità critica è libera, almeno nelle istanze e nelle tensioni, e si sente impegnata a produrre spazi di
123
Cfr. PQA, 1, 198. Cfr. PQA, 1, 327; PQA, 3, 429. 125 Cfr. PQA, 1, 418 s. 126 Cfr. PQA, 4, 63. 124
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libertà. I dati analizzati si comprendono in tale prospettiva, che ne è luogo sia della genesi sia dell’esplicitazione e dell’attuazione. L’uomo non è semplice osservatore delle tensioni e degli eventi della razionalità, ma ne è protagonista, e non solo perché, in quanto soggetto, è dotato di ragione, ma soprattutto perché, in quanto persona, è orientata da un “principio associativo innato”, che lo induce a relazionarsi razionalmente per vivere, per conoscere, per amare, per progettare, per produrre, ecc. La società, quale convivenza organizzata, è, se non proprio un capolavoro della razionalità, un suo prodotto di grande valore. Senza organizzazione razionale, la convivenza sarebbe luogo della continua proclamazione da parte dell’individuo dello ius in omnia, della guerra di tutti contro tutti, del dominio del più forte, della violenza programmata: sarebbe la tomba del diritto, della società e dell’humanum; sarebbe il caos. Alla razionalità è strutturalmente congiunta la libertà, la vera “anima” della vita sociale e politica. E lo è perché è un “bene indivisibile” di tutti, perché congiunge armonicamente diritti e doveri mediante la responsabilità, perché aiuta a rasserenare la società con la lealtà e perché consente alla persona, in alcuni momenti ed a precise condizioni, di affermarsi nello spazio socio-politico secondo l’ordine logico e non secondo l’ordine temporale, e cioè in quanto persona, dotata di priorità e di primato sulle “regole del gioco” della convivenza organizzata. Un esempio significativo di questo fatto è l’“obiezione di coscienza”. Anche la moralità nella vita pubblica è strutturalmente congiunta alla razionalità. Non si tratta del banale moralismo ma del fondamentale imperativo del bene comune, che deve vivificare l’impegno del potere politico, dell’amministrazione e dei cittadini, orientandoli a superare i pericoli legati alle difficoltà della convivenza. Lo Sturzo si ferma spesso ad esaminare le grandi complicazioni tipicamente italiane della politica e dell’amministrazione, che si attivano negli stessi “corridoi” nei quali vengono posti in essere corruzione e favoritismi, mentre i cittadini, gravati da bisogni enormi, spesso vengono abbandonati a se stessi. Una corretta visione della politica non può mai rinunziare alla sinergia di razionalità, libertà e moralità; si tratta di una unità articolata volta ad accompagnare, animare e qualificare la vita e la storia della persona umana all’interno della società.
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A tale scopo è necessario che lo Stato sia veramente Stato di diritto e capace di fruire pienamente della sovranità. L’aconfessionalismo dello Sturzo non è volto a togliere qualcosa alla religione ed alla Chiesa cattolica, bensì a garantire la sovranità e la concezione giuridica dello Stato. Il suo antistatalismo non ha alcuna velleità anarchica ma ha soltanto lo scopo di combattere l’irrazionalità e l’arbitrarietà dello Stato che, a seconda dei casi, egli qualifica criticamente come panteista, come razzista e come dittatoriale. Da qui l’opzione per la democrazia, quale forma migliore di organizzazione della società tra le tante conosciute, ma a condizione che non se ne abusi, come accade in Italia, dove è costantemente proclamata e celebrata a parole e sistematicamente tradita con i fatti. L’attenzione fermata da L. Sturzo su ambiti particolari, quali l’internazionalismo, le caratteristiche del popolo italiano, il Mezzogiorno d’Italia e la Regione Sicilia, conferma la necessità che la convivenza organizzata degli uomini sia qualificata dalla razionalità, strutturalmente congiunta con la libertà e la moralità. Quanto all’internazionalismo, di dimensione sia planetaria (Società delle Nazioni, ONU) che europea (Stati Uniti d’Europa), il nostro Autore ne individua lo scopo nella solidarietà, la via nell’uguaglianza e uno strumento prezioso nell’eliminazione dei privilegi dei paesi più forti. Quanto al Mezzogiorno d’Italia, egli, convinto com’è, che l’unificazione d’Italia sia stata un’annessione al Piemonte delle altre regioni con il particolare criptico programma di destinare le regioni del Mezzogiono all’agricoltura ed all’emigrazione interna, propone di considerare e trattare il problema del Mezzogiorno come un problema nazionale e di avviare decisamente questa parte d’Italia lungo la via dell’industrializzazione. Della sua terra di origine, la Sicilia, lo Sturzo considera i difetti ed i limiti antichi e nuovi e propone percorsi di soluzione. Condizioni previe sono il superamento dei contrasti tra i siciliani ed il loro l’impegno a porre in essere condizioni efficaci per conseguire l’unione. Solo in seguito sarà possibile programmare lo sviluppo dell’agricoltura e del turismo, che costituiscono risorse importanti della Regione, la modernizzazione del territorio con opere piccole e grandi, inclusa la costruzione del ponte sullo stretto, e la creazione di un apparato industriale adeguato.
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La razionalità impone degli obblighi all’umanità, dovunque si trovi a vivere la sua storia. Essa è autenticamente concepita e praticata se si esprime come risorsa dell’uomo in quanto persona, e cioè come risorsa di un essere che vive creando relazioni caratterizzate dalla libertà e dalla moralità. Ovviamente, si tratta di un processo graduale, ma, se non viene interrotto, può portare l’umanità, a livello nazionale (ad esempio: l’Italia), continentale (ad esempio: l’Europa) e planetario, a forme solidali di convivenza, indispensabili alla creazione ed allo sviluppo dell’umanizzazione. La razionalità, la categoria che ci consente di cogliere sinteticamente la modernità di L. Sturzo, si rivela una categoria critica, in quanto è sia una guida indispensabile nella ricognizione e nell’interpretazione delle contraddizioni gravi e fin troppo spesso drammatiche che oscurano la convivenza umana a tutti i livelli, sia una risorsa incomparabile per correggere tutti gli errori degli uomini. Essa, infatti, in sinergia con la libertà e la moralità, può creare e custodire il “luogo” proprio della persona umana e delle relazioni interpersonali che raccolgono in comunità i cittadini di ogni Paese, dell’Europa e del Mondo.
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IL RAPPORTO TRA DON PRIMO MAZZOLARI E IL CONCILIO VATICANO II
ANTONIO PENNISI*
1. UN ANNUNCIO CHE COGLIE DI SORPRESA L’annuncio del Concilio Vaticano II, fatto da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, colse di sorpresa tutta la Chiesa. Tanti si scoprirono impreparati a questo evento di grazia1. Anche gran parte del mondo cattolico italiano fu colto da questa notizia nella sua inerzia e nel suo conformismo. In quegli anni la cultura cattolica era, in massima parte, statica. Afferma Giorgio Campanini che: «[era] pressoché inesistente una fisionomia autonoma di una Chiesa italiana fortemente appiattita sul pur autorevole magistero di Pio XII; prevalentemente conformistica la stampa cattolica, spesso timorosa del nuovo e riluttante ad accogliere i segnali di novità che giungevano da altri paesi europei e in particolare dalla vivace cattolicità francese; di formazione tradizionalistica, e talora meramente scolastica, la gran parte del clero, nonostante i vivaci fermenti che nel mondo ecclesiastico erano stati immessi dalla significativa partecipazione di non pochi sacerdoti alla resistenza»2. *
Docente di Teologia pastorale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Si veda l’articolo di Alberigo su Synaxis: cfr. G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II, in Synaxis 20 (2002) 3, 489-509. 2 G. CAMPANINI, L’esperienza di «Adesso». Una voce sempre fuori dal coro, Impegno 20 (2009) 1, 115-116. 1
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Il cattolicesimo italiano, in modo particolare, era giunto alle soglie del Concilio Vaticano II con un giudizio critico, diffidente e ostile sul mondo moderno. Tra la Chiesa e l’umanità, che le era contemporanea, si era venuto a creare una vera e propria incomunicabilità. Quest’ultima «avendo scelto di ignorare gli insegnamenti dei Papi e avendo interrotto il vincolo tra “trono” e “altare”, tra potere civile e religioso, si era ostinatamente allontanata dalla ricerca del vero bene della società»3. La Chiesa, autocomprendendosi come società perfetta e indipendente4, si ritiene come una cittadella assediata: autonoma da un mondo perverso che la sta cingendo e che tenta di sopraffarla5. Coerenti con questa logica l’annuncio della convocazione di un nuovo concilio suonò a molti come una nota stonata e ciò era perfettamente comprensibile perché erano gli uomini che dovevano convertirsi e ritornare alla Chiesa6. Il cattolicesimo che arrivava al Concilio Vaticano II, era ormai da decenni attraversato da segnali contraddittori rispetto a questo sistema. Da vari livelli una domanda emergeva sempre più in maniera preponderante: a che cosa serve una Chiesa incapace di parlare con l’uomo? La rilettura “pastorale” della teologia, intesa come impegno centrale e inderogabile dell’essere Chiesa e per la Chiesa al servizio dei
3
E. GALAVOTTI, Dalla «custodia del museo» al «giardino fiorente di vita», in M.C. BARTOLOMEI – M. RONCONI (curr.), Per leggere il Vaticano II. Per amore del mondo, Introduzione a Gaudium et Spes, Milano 2009, 16. 4 Nell’enciclica di Pio XI, Mortalium animos, promulgata il 6 gennaio 1928, la Chiesa identificata senza riserve con l’istituzione cattolica romana, appare come “società perfetta”, priva di dimensione escatologica, immune da ogni imperfezione e fallibilità umana. E in questa prospettiva è netta la contrapposizione tra il suo essere unica Chiesa di Cristo e la falsa religione dei “pancristiani”, tra la verità da essa esclusivamente posseduta e l’errore dominante al di fuori dei suoi confini cfr. PIO XI, Lett. enc. Mortalium animos (6 gennaio 1928) in http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/ encyclicas/documents/hf_p-xi_enc19280106_mortalium-animos_it.htm. 5 Cfr. E. GALAVOTTI, Dalla «custodia del museo» al «giardino fiorente di vita», cit., 16-33: 24. Vedi anche G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II, cit., 90. 6 E. GALAVOTTI, Dalla «custodia del museo» al «giardino fiorente di vita», cit., 17.
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Il rapporto tra don Primo Mazzolari e il Concilio Vaticano II
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fratelli, fu tra quei fattori fondamentali che indusse papa Roncalli all’attenzione approfondita per i grandi problemi dell’umanità contemporanea. Giovanni XXIII, convocando il Concilio, volle reinserire plenariamente il cattolicesimo nel solco centrale della grande Tradizione7. Nell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, il romano pontefice metteva a fuoco autorevolmente proprio lo spirito e gli orientamenti del Concilio: dalla fiducia nella storia alla scelta della misericordia, dall’attenzione privilegiata all’umanità povera alla necessità di nuove formulazioni della fede di sempre in un clima di serenità e con uno stile di comunione8. 2. DON PRIMO MAZZOLARI E LA NUOVA PRESENZA CRISTIANA NEL MONDO
Primo Mazzolari (nato in Boschetto, frazione di Cremona, il 13 gennaio 1890, morto in Cremona il 12 aprile 1959) va annoverato tra coloro che hanno lavorato nella fase preconciliare per ripensare la presenza cristiana nel mondo9. Egli ha rappresentato un punto di riferimento di una generazione di cattolici alla ricerca di un nuovo rapporto tra Cristianesimo e storia. Il sacerdote cremonese denuncia ogni forma di dicotomia tra fede e storia, tra contemplazione e azione, tra mistica e politica. Molti nella Chiesa vivono la fede come rifugio nel privato, spiritualità fuori dalla storia. Una figura di
7 Cfr. G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II, cit., 497. Anche dello stesso ID., Cristianesimo e storia del Vaticano II, in Cristianesimo nella Storia 5 (1984) 577-592. 8 Cfr. ID., Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II, in Synaxis 20 (2002) 3, 511-532: 517. 9 La vita di don Primo è espressione del coinvolgimento di Dio e della Chiesa negli eventi storici. La sua è una testimonianza che dà credito alla funzione storica del cristianesimo; ne sono prova la partecipazione, in forme diverse, ai due conflitti mondiali del Novecento, l’opposizione al Fascismo, il sostegno alla Resistenza partigiana, i comizi elettorali in favore della DC, prima e dopo il 1948, l’opera di formazione all’impegno socio-politico, il dialogo con i partigiani della pace nel dopoguerra. A questo si aggiunge l’attività pastorale di parroco, prima a Cicognara e poi a Bozzolo, la predicazione attraverso l’Italia, l’attività di scrittore.
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coscienza così intesa, e trasmessa dai pastori della Chiesa in un periodo storico di profonde trasformazioni sociali, ha costruito l’immagine di un cristianesimo estraneo alla contemporaneità, distante dalle delicate condizioni umane di povertà e chiuso a riccio su di sé. La Chiesa deve “incarnarsi” come Gesù nella storia. Deve essere fermento perché l’umanità sperimenti la giustizia e l’amore. Deve recuperare la dimensione dell’impegno nel mondo. Solo così potrà offrire la corretta immagine di Dio e dare agli uomini del proprio tempo la possibilità di capire l’importanza della fede cristiana nella crescita globale della società contemporanea. Perdere il senso del rapporto tra vangelo e storia significherebbe tagliare fuori la fede da ogni ambito umano e privare il cristianesimo della sua capacità di incidenza e di trasformazione della realtà10. Mazzolari, pur essendo stato invitato dallo stesso Giovanni XXIII a partecipare ai lavori del Concilio, non ebbe il dono di assistere e prendere parte a quell’evento11. Morì il 12 aprile 1959. In tempo però per valutare in tutta la sua portata, in tutto il suo carico di speranze, di stimoli e di attese, l’evento preannunciato, a sorpresa, da Giovanni XXIII il 25 gennaio del 1959.
10 Per approfondimenti cfr. A. PENNISI, Vita spirituale e ministero pastorale del presbitero in don Primo Mazzolari, Troina 2011; cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza. Una testimonianza biografica, Bologna 2007; cfr. G. SIGISMONDI, La Chiesa: «un focolare che non conosce assenze», Assisi 20032. 11 Afferma la sorella di don Mazzolari: «Dopo il viaggio a Roma, don Primo si mise a letto con l’influenza, ma mi raccomandò di andare a comperare una pezza di stoffa per una veste nuova, perché il Papa lo aspettava a Roma, il 18 aprile, per partecipare ad una commissione preparatoria del Concilio che si sarebbe occupata dei “lontani”. Io comperai le stoffe dalla Sig. ra Maria Pecchioni di Bozzolo, avvisai il sarto di Pescarolo, ma ben presto mio fratello morì. Restituii con tristezza la stoffa nera alla mercantina, non c’era più bisogno. Il Signore aveva disposto diversamente. Ma il tema dei lontani e quello ecumenico furono trattati, al Concilio, nella prospettiva già avvertita da don Primo, trent’anni prima, nel suo libro La più bella avventura. Penso che lui abbia pregato tanto, dal Cielo, per il Concilio»: G. MAZZOLARI, Mio fratello don Primo, Bozzolo 1990, 85.
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3. IL CONCILIO “SECONDO DON MAZZOLARI” Al fine di poter offrire sinteticamente il pensiero di Mazzolari in rapporto al Concilio ci soffermiamo sugli articoli che la rivista “Adesso” (la rivista fondata dallo stesso don Primo) ha pubblicato l’1 marzo 1959 sull’argomento dell’indizione del Concilio Vaticano II. La doppia pagina interna ha come titolo generale: “Il posto dell’uomo nel prossimo Concilio Ecumenico”. Questo titolo è introdotto da uno slogan che così recita: «Nessuno deve sentirsi fuori da questa assise che è il momento della pienezza visibile della Chiesa». I sei articoli, composti sicuramente da don Primo, sono preceduti da una frase riassuntiva che vuole fornire al lettore il criterio di interpretazione: «Nell’attuale condizione in cui tanta parte del mondo si è allontanata e combatte la fede cristiana, occorre che il Concilio sappia accogliere le voci di tutti, anche dei laici, per poter meglio individuare quello che oggi essi chiedono alla Chiesa: la proclamazione dei diritti dell’uomo figlio di Dio e fratello di Cristo».
I titoli degli articoli sono i seguenti: «la casa è aperta»; «La Chiesa è la patria comune»; «Sotto l’insegna della libertà cristiana»; «presenza reale di ogni uomo»; «la collaborazione dei laici»; «Una casa per l’uomo». In questi trafiletti Mazzolari considera il Concilio come un grande evento dello Spirito Santo che dà l’occasione alla Chiesa di potersi rinnovare per ripresentarsi in maniera profondamente nuova nei modi e nello stile e poter rispondere pienamente alla sua missione di servizio all’uomo contemporaneo. Quattro sono le linee di riflessione che emergono, in modo particolare, dagli articoli: la Chiesa come famiglia per tutti, segno e strumento della carità di Dio; il rapporto di dialogo tra la Chiesa e il mondo contemporaneo; il ruolo attivo dei laici; il dialogo con i non credenti. Esse costituiscono, in sintesi, le strutture portanti del pensiero mazzolariano. Come possiamo notare si tratta di temi che il Concilio ha ritenuto fondamentali da essere stati ampiamente discussi e approfonditi, in modo particolare, nella costituzione pastorale Gaudium et Spes.
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3.1. La Chiesa come Casa dell’uomo, segno e strumento della carità di Dio Mazzolari parla della Chiesa come «Patria dell’uomo di ogni razza, di ogni lingua, di ogni colore, di ogni religione »; Casa del Padre «che spalanca ogni porta di essa in vista di un ritorno veramente grande»; Casa del Bene, dove il male non gode cittadinanza, ma dove il peccatore gode della misericordia del Padre, che ha vastità e altezze incommensurabili; Casa dell’Uomo dove «si può essere fuori della Verità, ma non si è fuori della Carità della Chiesa».
Applicandole il termine “Casa”, don Primo chiede alla Chiesa di mostrare il suo vero volto: quello della Carità. La compagine ecclesiale deve diventare sempre più spazio di prossimità, luogo di relazioni ospitali, comunità amabile. Egli scrive: «nella Chiesa ci siamo tutti, e il papa, come Cristo in croce, muore per tutti, aspetta tutti. C’è posto per tutti nel Concilio ecumenico, perché c’è posto per tutti nella Chiesa». La Comunità è il luogo dove è possibile fare l’esperienza dell’amore di Dio che salva. E l’amore di Dio conosce tutte le strade possibili per raggiungere il cuore dell’uomo12. La Chiesa ha il compito non solo di custodire, ma soprattutto di far crescere e diffondere il fermento della carità di Cristo. La Chiesa è chiamata ad essere luogo di amore vicendevole, un segno dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Si capisce che l’ecclesiologia di Mazzolari tende a pensare la Chiesa nell’ordine del segno: rimanda all’amore di Dio per l’umanità. Mazzolari è mosso, dunque, dal desiderio di mostrare una Chiesa appassionata come Cristo, incarnata, madre di carità, dedita con tutta se stessa all’umanità. L’attività ecclesiale viene impostata da don Primo non tanto sull’organizzazione ma sulle persone. Non si tratta di affermare una Chiesa
12 Cfr. B. BIGNAMI, La Chiesa secondo Mazzolari: luogo delle relazioni e casa della carità, in Impegno 20 (2009) 2, 71. Scrive altrove don Primo che: «la carità rende vigili, leggeri, maneggevoli, accostabili, ingegnosi al servizio della verità. Certe durezze, certe intrattabilità da guardiani gelosi e poco intelligenti, certe intransigenze di metodo, certe amplificazioni dubbiose presentate come necessarie, non servono la verità»: P. MAZZOLARI, La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Bologna 19989, 157.
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come societas perfecta, arroccata in difesa, ma in continuo rinnovamento dentro la storia. La Chiesa non è citta fortificata, preoccupata di difendersi, piuttosto madre che estende la sua cura per i figli. 3.2. Il rapporto di dialogo tra la Chiesa e il mondo contemporaneo Afferma Mazzolari: «siccome la salvezza è un fatto che si incarna nel tempo e nelle cose di esso, e passa per le strade dell’uomo, che è spirito e corpo e fa parte della città degli uomini prima ancora di appartenere alla Città di Dio, ed è in lotta continua con l’ ”angelo” in una giornata di prova che si svolge su questa terra e nei limiti dell’uomo, nessun uomo spirituale, molto meno l’uomo di chiesa, può pensare che il momento temporale e umano sia completamente estraneo al mistero della salvezza».
La pura interiorità è insidia costante del cristianesimo. La presenza della Chiesa e il mistero dell’incarnazione consentono di sfuggire a questo inganno. Per un battezzato non è possibile allontanarsi da questo mondo, rompere con la solidarietà umana, rifugiarsi nello spirituale. Per il solo fatto di appartenere alla Chiesa, corpo mistico e visibile, si è sottratti alle illusioni di una spiritualità individualistica e disincarnata. Il Concilio, per don Primo, è presenza reale di ogni uomo «attraverso il Mistero della Carità universale dei Pastori della Chiesa». I vescovi, provenienti da tutto il mondo, fanno confluire in maniera misterica tutta l’umanità da essi rappresentata. Per questo, aggiunge Mazzolari, «non sarebbe buona cosa che essi potessero ascoltare direttamente o indirettamente anche la voce dei perduti, dei rivoltosi, dei lontani, degli incerti… cosa vogliono dalla Chiesa? cosa le rimproverano specialmente i poveri? Nessuno si illuda, per quanta perspicuità abbia degli altri e per quanta dimestichezza con i lontani, di poter leggere sino in fondo al lor animo. Nessuno creda di capire in modo esauriente il mistero di certi allontanamenti di masse, che non sono soltanto il frutto di diaboliche propagande o di traviamenti morali».
La Chiesa è chiamata a servire l’uomo, a soccorrerlo e a difenderlo perché
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«nonostante le sue meravigliose e utili invenzioni, non è mai stato così “scoperto” e “indifeso” di fronte all’uomo e alla natura. La sua povertà è divenuta più sostanziale ed egli è esposto come non mai all’arbitrio di una convivenza divenuta sempre più aleatoria nonostante le garanzie legali, che fanno spettacolo e danno paura […] possiede tutto e non dispone di niente, se Dio non gli si pone accanto garante della sua stessa debolezza, che nel dileguarsi quotidiano è certezza d’eternità».
La Chiesa si deve, dunque, pensare costitutivamente in relazione al mondo. Essa ha la missione di ricordare all’uomo la sua l’altissima vocazione: «Egli [Dio] vuole che qualcuno — il Concilio ecumenico — gli ripeta in maniera inequivocabile e solenne che in quest’”ombra di morte” c’è qualche cosa che trapassa e non muore che nessun uomo ha diritto di calpestarlo quasi fosse una “locusta” che egli è sovra l’arbitrio dei potenti e lo scherno dei violenti che il pane è per ogni creatura e privilegio di nessuno, al pari dello star bene che il possedere non vale più del vivere e che Qualcuno chiederà conto inesorabilmente al “fratello”, per aver calpestato certe gocce di sangue che segnano la grandezza e l’intoccabilità del “figlio dell’uomo” […] il concilio dica alto e chiaro ciò che la Chiesa ha in serbo per l’uomo, per la sua anima come per il suo corpo: per il pane come per il vestito: per il suo bisogno di pace come per il suo bisogno d’amore. Dica, per rassicurarlo definitivamente, che non c’è posto per nessuna guerra, né per la vendetta, né per la violenza, né per l’odio. Dopo tanto parlare dei diritti dell’uomo senza Dio, la Chiesa proclama i diritti dell’uomo figlio di Dio e fratello di Cristo, dando voce ad ogni creatura, mettendo la parola fine sovra la babele dell’orgoglio tecnico, che sta preparando la fine dell’uomo».
Con queste parole don Primo chiede alla sua Chiesa di promuovere un’autentica teologia dell’uomo. L’impegno per l’uomo deve diventare sempre più concretamente il primo interesse per la Comunità ecclesiale13. 13 Si avverte qui tutta la portata profetica di don Primo. Si confronti il suo pensiero con quello che la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo,
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3.3. Il ruolo attivo dei laici «Ci pare più che legittimo che i laici mostrino il desiderio di collaborare per la riuscita di un avvenimento che non può lasciare nessuno indifferente. La collaborazione dei laici ad un’opera che è di tutta la Chiesa, che è la Chiesa, non scalfisce nessun principio dottrinale né diminuisce il significato dell’Ecumene che si sta preparando per il bene del mondo: ne arricchisce piuttosto il valore umano davanti a molti che non si sentono presi da una vicenda o faccenda puramente ecclesiastica».
Mazzolari riconosce il ruolo insostituibile dei fedeli laici nella mediazione storica del Vangelo. Il laicato ha il compito di dare gambe e concretezza alla verità cristiana. Il laico esprime la natura secolare della Chiesa nella pienezza, in tutti i suoi aspetti. Egli può assumere l’intera gamma delle relazioni tra Chiesa e mondo, manifestando la missionarietà della Chiesa verso la società: si impegna così a tradurre il vangelo nella famiglia, nel lavoro, nella politica, nell’economia, nella scuola14. Gaudium et Spes, dichiarerà nel 1965. Al n. 3 i padri conciliari affermano: «ai nostri giorni, l’umanità scossa da ammirazione per le sue scoperte e la sua potenza, agita però spesso ansiose questioni sull’attuale evoluzione del mondo, sul posto e sul compito dell’uomo nell’universo, sul senso dei propri sforzi individuali e collettivi, ed ancora sul fine ultimo delle cose e degli uomini. Per questo il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio, riunito da Cristo, non può dare dimostrazione più eloquente della solidarietà, del rispetto e dell’amore di esso nei riguardi della intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal vangelo, e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana società. è l’uomo dunque, integrale, nell’unità di corpo ed anima, di cuore e di coscienza, di intelligenza e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.. pertanto il Santo Sinodo, proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa al fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione»: CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, in Enchiridion Vaticanum I, Bologna 19708, 1322. 14 Scrive Mazzolari: «la politica, l’economia, la coltura, la scuola, l’industria ecc. non sono funzioni direttamente connesse con lo spirituale. La religione può averle eser-
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Afferma, ancora, don Primo: «i nostri vescovi sono buoni, pregano, soffrono e invitano senza tregua: ma che possono fare di più per la loro “vigna?” Una cosa è ancora nelle loro mani: lasciare parlare i “vignaiuoli” cui il Signore affidò la Vigna. Molti laici cattolici, di cui ci sentiamo un po’ il portavoce, hanno il timore di vedersi completamente tagliati fuori da questo lavoro di preparazione e quindi dallo stesso Concilio. Questo timore, che non ci pare del tutto infondato, dovrebbe essere considerato, negli ambienti ecclesiastici che sono portati a monopolizzare tutte le cose di Chiesa, non come segno di insofferenza e di poca fiducia verso le opere ecclesiastiche, ma come segno indubbio e consolante di un crescente interesse e di un vivo desiderio da parte laica per un attivo inserimento nella vita della Chiesa».
Qui sta la novità del pensiero mazzolariano: è consapevole che il laicato cattolico ha le carte in regola per uscire da una condizione di minorità15. Tenta di superare una concezione dualista tra il laico cristiano e le realtà temporali, tra cristianesimo e mondo, quasi che nel mondo sia necessario ritagliare per i credenti uno spazio proprio assolutamente indipendente dal resto. La laicità, invece, autorizza a un impegno nella società che non consente chiusure. citate in un momento storico particolare e la società deve essere riconoscente. Ad una comunità civile pervenuta a maggiorità la chiesa riconsegna le sue funzioni e la società stessa se la riprende. Io, laico cattolico, posso e debbo concorrere a questa naturale e legittima laicità che la chiesa ben lungi dal condannare, difende in documenti fondamentali e solennissimi»: P. MAZZOLARI, Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Bologna 20084, 45. 15 Cfr. B. BIGNAMI, Parroco a Cicognara e Bozzolo. «Senza poesia l’apostolo muore», in Impegno 20 (2009) 1, 34-35. Scrive Mazzolari che il laicato «può fare il raccordo tra la parrocchia, che è lo spirito, e le attività autonome della vita moderna, la quale, come una diaspora deve ritrovare il focolare il tempio la guida»: P. MAZZOLARI, Lettera sulla parrocchia, cit., 51. Vedi anche l’articolo di M. MARAVIGLIA, Nella Chiesa del suo tempo. Libertà di coscienza, sofferta libertà, in Impegno 20 (2009) 1, 49-61, dove si afferma che ben lungi dal condividere un’immagine di Chiesa irreformabile e immune da errori, che si continuava a condividere e propagandare nell’Italia degli anni cinquanta, molte erano le “opacità” che ne rendevano il volto poco accattivante, se non addirittura “inamabile”, individuate su “Adesso”. Con parole sferzanti si rimproverano “il fanatismo”, “l’intolleranza”, verso opinioni
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3.4. Il dialogo con i non credenti «Il Concilio ecumenico si apre all’insegna della libertà cristiana: è sulla strada dell’uomo che sospira verso la propria redenzione, anche se pare che le abbia voltato le spalle […]. Il Concilio ecumenico non viene indetto contro nessuno, ma per il bene di tutti e a condizioni che non umiliano né avviliscono. Nella casa del Padre, che spalanca ogni porta di essa in vista di un ritorno veramente grande, nessuno è forestiero. Saremo, se mai, dei Prodighi, i quali possono arrivarci in qualsiasi ora e con qualsiasi vestito. A nessuno verranno domandate delle credenziali o delle carte di riconoscimento: se è degno di esserci ammesso e di starci. I connotati della nostra presentabilità furono e rimangono rovesciati dalla divina carità del Padre, che attende il ritorno di ognuno sino alla fine dei tempi».
Ritorna la figura, tanto usata da Mazzolari, del Prodigo. Un Prodigo in cui tutti gli uomini — cristiani e non cristiani — sono rispecchiati nella loro indigenza e nella loro ricerca. E se in certe espressioni riaffiora l’idea di un “ritorno” alla Chiesa, questa Chiesa non è certamente un rigido fortilizio istituzionale (la “fortezza” che, sentendosi assediata, vuole «formare un fronte senza fessure e aprire la porta solo a coloro che assicurano di accettare senza riserve le parole, i gesti, i costumi dei difensori», come si legge in un successivo articolo, Il Concilio Ecumenico e i fratelli separati, pubblicato con firma nel numero del 1° aprile 1959), ma appunto la «casa aperta», «la Patria dell’uomo di ogni razza, di ogni lingua e di ogni colore, di ogni religione: e vi si arriva anche senza arrivarci, attraverso le strade più misteriose del desiderio, della sofferenza e del peccato». Il Concilio dovrà essere espressione di questa accoglienza senza esclusioni. In questa dilatazione dell’ideale ecumenico oltre gli stretti ambiti ecclesiali e religiosi, per abbracciare tutta l’umanità, e un’umanità senza aggettivi, non risuona soltanto una nota profonda della spiritualità mazzolariana, ma un motivo portante del movi-
diverse, “la retorica dell’obbedienza”, “l’autoritarismo”, “la minorità” in cui veniva confinato il laicato cattolico.
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mento ecumenico che tende alla riconciliazione tra le chiese cristiane non per una loro rassicurazione e gratificazione interna, ma perché siano segno e lievito di pace e riconciliazione fraterna fra tutti gli uomini16. CONCLUSIONI Se l’annunzio del Concilio Vaticano II colse tanti di sorpresa non fu certamente così per don Primo Mazzolari che lo desiderava e lo auspicava ben prima della sua indizione. Egli fu un punto di riferimento essenziale per la generazione cattolica italiana del secondo dopoguerra, preti e laici, che nutriva attese ecclesiali a cui Giovanni XXIII e il Concilio ecumenico avrebbero offerto prospettive rinnovate17. A queste attese riformatrici don Primo seppe dar voce, esprimendo così quella segreta coscienza inquieta del cattolicesimo italiano che difficilmente, in quegli anni trovava udienza nella Chiesa ufficiale. Mazzolari rappresenta una forte istanza rinnovatrice che prepara la chiesa italiana a spogliarsi di abitudini e schemi mentali che avevano una tradizione secolare e individua strade nuove per l’incar-
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Cfr. M. GNOCCHI, Lontani ed ecumenismo. Oltre le barriere confessionali, in Impegno 20 (2009) 1, 62-72: 71-72. Scrive Paolo Ricca, che nell’interpretazione mazzolariana della parabola evangelica (che Mazzolari fa nella sua opera La più bella avventura. Sulla traccia del «Prodigo»): «c’è la base teologica per una lettura in profondità del movimento ecumenico, inteso come movimento di ritorno (perché no?) ma non di una chiesa particolare bensì di tutte le chiese a Dio. L’interrogativo ecumenico per eccellenza non è: che cosa divide il Fratello Maggiore dal Figliuol prodigo? Ma: che cosa divide i due figli dal Padre? La vera domanda non è: che cosa separa le chiese le une dalle altre, ma: che cosa le separa da Gesù Cristo? […] Una coscienza ecumenica autentica nasce dalla scoperta di una comune lontananza che insieme dobbiamo cercare di colmare»: P. RICCA, La visione ecumenica di don Primo e la nostra, in Don Primo Mazzolari tra testimonianza e storia, S. Pietro in Cariano 1994, 156. 17 Tra i tanti nomi che si potrebbero fare cfr.: P. SCOPPOLA, La democrazia dei cristiani, il cattolicesimo politico nell’Italia unita, a cura di B. Tognon, Roma-Bari 2006, 38; ID., Un cattolico a modo suo, Brescia 2008, 62.
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nazione del cristianesimo nella storia, orizzonti piĂš vasti e credibili per la vita cristiana. Ă&#x2C6; testimone, prima ancora che maestro, di una Chiesa capace di affrontare senza inimicizia, con sguardo franco ma fiducioso e accogliente, la sfida della modernitĂ , quella di relazionarsi in modo nuovo con gli uomini del proprio tempo.
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IL MONASTERO DI SAN BENEDETTO DEI PADRI CASSINESI IN MILITELLO VAL DI CATANIA
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1. LA FONDAZIONE DEL MONASTERO Nella relazione del 15 febbraio 1650, redatta in occasione dell’inchiesta promossa da Innocenzo X, con la costituzione apostolica Inter Caetera del 17 dicembre 1649, sulla consistenza delle comunità di religiosi maschili d’Italia al fine di sopprimere quelle con pochi membri, ritenute incapaci a mantenere una esatta osservanza della vita religiosa, si legge che il monastero militellese dell’ordine di San Benedetto della Congregazione Cassinese era «situato nel principio della terra di Militillo Valdinoto diocesi di Siragosa in strada publica a lato dell’habitatione, fu fondato l’anno 1614 col consenso ed autorità del pontefice Paulo V dall’Ecc.mi S.i D. Francesco Branciforte principe di Pietrapertia e Donna Giovanna d’Austria consorti sotto il titolo et invocatione del glorioso P. San Benedetto»1. Inoltre, nel 1634 Pietro Carrera, nel descrivere l’attuale monastero, scrisse che «Prima di questo Monastero ve n’era un altro antichissimo di Santa Maria di Militello dell’ordine istesso, il quale aveva fabbricato nell’anno 1054 Manfredo figlio del Conte Simone Signore di detta Città, essendo
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Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. Cfr. T. LECCISOTTI, I monasteri cassinesi della Sicilia alla metà del secolo XVII, in Benedectina 26 (1979) 124-126. 1
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l’edificio suddetto posto nel luogo nominato il Pirato»2. Lo stesso Carrera aggiunse che «Il Monastero di San Benedetto fu fabbricato nell’anno 1615 ed arricchito di molte rendite dalla munificenza di Francesco Branciforte e donna Giovanna d’Austria moglie marchesi della Città»3. Queste notizie trovano riscontro nell’atto di fondazione dell’attuale monastero dei padri benedettini Cassinesi, della congregazione di Santa Giustina di Padova, stipulato il 12 marzo 1614 presso il notaio Antonino Balba di Militello, mediante il quale, don Francesco Branciforte e donna Giovanna d’Austria, assegnarono ai monaci la dote di duecento cinquanta onze annuali4. La ratifica dell’atto avvenne il 27 aprile 1614 presso Ercole de Castellanis, notaio Pontificio e Regio della città di Bologna5. Le Bolle Pontificie per l’erezione dell’abbazia pervennero l’8 settembre 1616 e gli scavi per le fondazioni dell’edificio 2 Cfr. G. MAJORANA, Militello nel 1634. Il secondo frammento inedito della perduta Storia di Militello di Pietro Carrera, in Bollettino Storico Catanese, Catania 1938, fasc. III, 128-158. Rocco Pirri, copiando la frase del Carrera, riguardo all’originario monastero scrisse «Suffectum est id Coenobium alteri antiquissimo Sanctae Mariae de Militello eiusdem Ordinis quod condidit anno 1154 Manfridus Comitis Simonis filius, Oppidi Dominus, ad passus 1500 in dissito loco nuncupato Il Pirato». È evidente che la differenza dell’anno di fondazione può essere imputabile a un errore di trascrizione da parte dell’abate Vito Amico che pubblica il manostritto del Pirri nel 1733 aggiungendo alcune notizie successive alla morte dello stesso Pirri, avvenuta a Palermo nel 1651 (V. M. AMICO, R. Pirri, Sicilia sacra disquisitionibus, et notitiis illustrata... editio tertia emendata, et continuatione aucta cura, et studio Ant. Mongitore.. Accessore additiones & notitiae Abbatiarum... autore, vol. II, Palermo 1733). 3 L.c. 4 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA (= A.S. CT), Fondo Notarile di Militello, busta. 380, 12 marzo 1614 - notaio Antonino Balba. Copia del contratto si trova all’ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO (= A.S. PA), fondo Trabia, vol. 459 (cfr. S. BOSCO, Lo strano caso di una biblioteca, in Tra memoria e storia, ricerche su di una comunità siciliana: Militello in Val di Catania, Catania 1996, 74). 5 Furono convocati l’Abate di S. Nicolò all’Arena di Catania, don Gregorio Motta e don Serafino Ferrero Priore di Catania, Innocenzo Russo Decano, messo a Roma per chiedere la bolla. Fu mandata una lettera da Donna Giovanna d’Austria al Cardinale Farnese il quale spinse il Pontefice a sottoscrivere il diploma pontificio (ex debito) il 14 febbraio 1616. (M. VENTURA, Storia di Militello in Val Catania, Catania 1953, 83, nota 1).
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Il Monastero di San Benedetto dei padri cassinesi
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iniziarono nel 1616, come attestava l’originaria iscrizione posta sul portale principale della chiesa di San Benedetto: «D.O.M. Filippo III re di Spagna e di Sicilia, Francesco Branciforte e Donna Giovanna D’Austria della stirpe reale di Carlo V principi di Pietraperzia e marchesi di Militello, questo cenobio dedicato al divo Benedetto dalle fondamenta a proprie spese il giorno 7 del mese di settembre nell’anno della salvezza 1616»6.
Lo Scirè scrisse che la prima pietra fu posta il 6 ottobre 1619, dopo una messa pontificale celebrata nella matrice di San Nicolò dall’abate don Teodosio di Catania, assistito da altri abati7. Il corteo si recò nel luogo designato, fu benedetta e calata la prima pietra nell’angolo sinistro della chiesa. Nella pietra erano inserite, chiuse in apposito astuccio, alcune monete d’oro e d’argento dell’epoca e una pergamena firmata dalle autorità presenti8. Nonostante la discordanza della data d’inizio dei lavori, riportata dallo Scirè, spostata in avanti di circa tre anni rispetto a quella inserita nella sopracitata lapide originaria, si può affermare che la costruzione del cenobio deve essere inquadrata nell’ambito delle iniziative promosse dal principe Branciforte per la ristrutturazione urbanistica della terra ereditata dalla madre, che potevano considerarsi all’avanguardia rispetto alle altre città feudali. La costruzione del monastero di San Benedetto, infatti, segnava la direttiva di espansione della Terra di Militello voluta da don Francesco Branciforte e da sua moglie donna Giovanna d’Austria, i quali avevano intenzione di fare ampliare l’abitato verso l’altopiano. Le iniziative promosse dai due coniugi, dal punto di vista culturale 6
Ibid., 45. «Cioè don Andrea da Palermo, Abbate di S. Martino, e don Gregorio da Catania, Abbate di Militello, appena insediato. Inoltre erano presenti il Priore di Militello padre Vittorino e altri trenta monaci, con l’assistenza dei Principi fondatori e Donna Margherita loro figlia» (G. SCIRÈ, Cenni storici sulle Chiese di Militello distrutte dal terremoto dell’11 Gennaio 1693, Caltanissetta 1923, 37-38.). 8 M. VENTURA, Storia di Militello in Val Catania, cit., 84. 7
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e urbanistico, ha portato gli storici a definire questo periodo il “miracolo” di una capitale9.
Fig. 1 – Donna Giovanna d’Austria Fig. 2 – Don Francesco Branciforti (Museo Civico Sebastiano Guzzone)
Donna Giovanna d’Austria (fig. 1) era figlia del celebre vincitore nella battaglia di Lepanto contro i turchi, don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo d’Austria, 27° Re di Sicilia, e figlio di Carlo V imperatore e 26° Re di Sicilia, mentre don Francesco Branciforti (fig. 2) era figlio di don Fabrizio e di Caterina Barresi, marchesa di Militello. Entrambi erano di elevato livello culturale, tanto da riunire nella loro Terra una biblioteca che conteneva più di diecimila volumi, affidandone le cure a Pietro Carrera. Nel 1617, grazie alla mediazione dell’abate Paolo Baldanza (detto “Abbate de Angelis”), di origine militellese e canonico di Santa Maria Maggiore a Roma, fecero venire il tipografo Giovanni Rossi da Trento, attivo a Venezia fra il 9 G. GIARRIZZO, Il “miracolo” di una capitale, in Kalòs luoghi di Sicilia, Palermo 1996, 36-39.
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1595 e il 1616, mettendogli a disposizione una stamperia annessa alla loro biblioteca10. I Signori di Militello promossero l’incanalamento dell’acqua dalla vicina sorgente di contrada Zizza per condurla dentro la città11 e, per ricordare tale evento, il 28 aprile 1607 fecero realizzare l’omonima fontana12. L’iniziativa di fare edificare il monastero benedettino nella loro Terra, fu probabilmente suggerita ai signori di Militello dall’attività che stavano svolgendo gli stessi monaci cassinesi di San Nicolò l’Arena per la costruzione del loro monastero catanese. Infatti, quando nel 1614 fu fondato il monastero di San Benedetto a Militello, quello di San Nicolò l’Arena era in corso di ultimazione, e fu preso come modello tipologico per l’edificio militellese. Il 30 giugno 1625, dopo la morte del principe Branciforte13, donna Giovanna donò alla figlia Margherita14 la ricca biblioteca. Inoltre, il 22 dicembre 1626, a parziale modifica del precedente atto, dispose che, in caso di morte prematura della figlia, il marito Federico Colonna, principe di Paliano e duca di Tagliacozzo, doveva affidare la biblioteca al monastero dei benedettini di Militello15. Con il testamento del 26 gennaio 1629, donna Giovanna d’Austria16 modificò ulteriormente il precedente atto notarile, disponendo che, in caso di morte della figlia, la biblioteca rimanesse al marito17. 10
C.E. FIORE, Sulla Stampa a Militello negli anni 1617-23, in Lembasi 2 (1995) 30. Notaio Pasquale Ciccaglia del 20 agosto 1605 (G. SCIRÈ, Cenni storici sulle Chiese di Militello distrutte dal terremoto dell’11 Gennaio 1693, cit., 38). 12 L.c. 13 Don Francesco Branciforte principe di Butera e di Pietraperzia, nacque a Militello il 17 marzo 1575 e morì a Messina il 23 febbraio 1622. 14 Donna Margherita era stata nominata dal padre erede universale con testamento stilato il 21 febbraio 1622 presso il notaio Jacopo Artisano di Messina (A.S. PA, fondo Trabia, vol. 449. Documento citato in S. BOSCO, Archivio Storico del Comune di Militello in Val di Catania Inventario, Biancavilla 1989, 8). 15 Cfr. S. BOSCO, Lo strano caso di una biblioteca, cit., 74. 16 Donna Giovanna d’Austria nacque a Napoli l’11 settembre 1573 e morì nella stessa Napoli l’8 febbraio 1630. 17 Cfr. S. BOSCO, Lo strano caso di una biblioteca, cit., 74. 11
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Infatti, dopo la morte di Federico Colonna (1641) e dell’unico figlio di donna Margherita (1628), i monaci benedettini iniziarono la costruzione dei locali che dovevano ospitare la biblioteca nel loro monastero. Ma, nel 1659, a sorpresa, donna Margherita nominò erede don Domenico Colonna e vendette i libri della biblioteca, pertanto i monaci chiesero il risarcimento del valore dei libri e 800 onze annue per le spese sostenute. Una intensa attività edilizia si ebbe a partire dal 1632, quando don Blasco Majorana, deputato della fabbrica del monastero, incaricò i mastri Andrea Giusto e Paolo Buscarello per «levare tutto lo sterro che è sotto detto monasterio di la parte di la tramontana»18, lavoro che venne regolarmente eseguito il 5 giugno dello stesso anno. Inoltre, nel mese di maggio dello stesso anno i lavori furono affidati a Giovan Battista Baldanza «scultor huius civitati Militelli val nothi» che si obbligò con il «Ven. Don Benedetto Milana Decani ordinis benedectini […] di dari l’ordini et disinno ali mastri conformi a lo disinno di detta fabrica infora li pilastri di detta fabrica»19. Le maestranze impegnate nella esecuzione dei disegni del Baldanza furono «Joseph Zingarella, Petrus et Marianus Interlingi, Franciscus Brusca magistri fabricatores»20. La preoccupazione dei padri benedettini che il Baldanza, oberato di lavoro, non trascurasse l’impegno assunto, è riportata nello stesso atto di obbligazione nel quale si legge «che succedendo detto J. Batta andato ut essere chiamato fora dovrà a farsi alcuna opera di lo suo afferenti che presa lassari l’ordini alli mastri fabricaturi tutto allo tempo che starà fora ex patto» 21. Malgrado queste precauzioni, pochi mesi dopo, gli venne revocato l’incarico e, nella primavera del 1633, fu nominato Francesco Barone
18 A.S. CT, Notarile Militello, notaio Giacomo Magro, bastardello n.444, cc.114v.115v., 8 aprile 1632. 19 A.S. CT, Notarile Militello, Gianbattista Sanzà, b. 256, 1692-1693, cc.227v.-229v., 3 maggio 1632. 20 L.c. 21 L.c.
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quale «nuovo architetto di San Benedetto con l’incarico di eseguire il disegno venuto da Palermo»22. La decorazione lapidea venne eseguita dalle stesse maestranze che lavorarono per il Baldanza cioè: Francesco Brusca, Mariano e Pietro Interlingi e Giuseppe Zingarella, quest’ultimo autore nel 1637, della decorazione lapidea del prospetto del monastero e della chiesa23. Questa fase di lavori, ultimata nel 1646, fu documentata da una nuova lapide che sostituì quella del 1616, nella quale si legge: «D.O.M. Al grande Benedetto, discendente degli Anici, inclito antesignano ed egregio ornamento della milizia monastica, questa chiesa con generose oblazioni di Don Francesco e Donna Giovanna d’Austria, in modo assai munifico rifinito Donna Margherita figlia il 15 Gennaio 1646 pose».
Pertanto la decorazione architettonica del prospetto principale del monastero fu finanziata da donna Margherita d’Austria Branciforte e Colonna, dopo che nel 1624 divenne erede del patrimonio del padre, come testimoniava, fra l’altro, l’epigrafe contenuta nel ritratto che fino agli anni ’60 si trovava sulla transenna lignea dell’atrio del monastero (fig. 3):
MATERNAE PIETATIS NON MINUS HAERES BONORUM D. MARGHERITA FILIA CENSUM ABSOLVIT ET SOLIDAVIT ANNO MDCXXIV24
22
Cfr. C. GUASTELLA, Un’officina di talenti, in Kalòs luoghi di sicilia, Palermo 1996,
23
L.c.
29. 24
EREDE DELLA BONTÀ DELLA MADRE CHE DEI SUOI AVERI / LA FIGLIA D. MARGHERITA / RISCATTÒ E CONSOLIDÒ IL PATRIMONIO ANNO MDCXXIV
(Cfr. S. DI FAZIO, Un epistolario inedito di donna Giovanna d’Austria, in Lembasi 2 [1995] 27).
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Fig. 3 – Ritratto di donna Margherita d’Austria Branciforte e Colonna (collez. Cancellieri)
Lo stesso anno il pittore militellese Giovan Battista Baldanza jr., per un compenso di 40 onze25, realizzò la grande tela dell’altare maggiore della chiesa, rappresentante “il Trionfo dell’ordine benedettino”. Questo quadro fu recuperato sotto le macerie del presbiterio, crollato in seguito al terremoto del 1693. La situazione del monastero nel 1650 si trova descritta nella citata relazione pubblicata da Tommaso Leccisotti: «La struttura e fabrica di detto monastero et in particolare della chiesa è magnifica essendo stata incominciata a spese di detti signori secondo il disegno che a loro piacque. Sono quasi fornite l’officine del suddetto monastero, cioè primo ordine sotterraneo ed ancora quasi fornito il secondo ordine sopra terra dove vi sono le foresterie, et infermarie con undeci
25 Notaio Giacomo Magro, 20 aprile 1646 (G. SCIRÈ, Cenni storici sulle Chiese di Militello distrutte dal terremoto dell’11 Gennaio 1693, cit., 42, nota 5).
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camere dove al presente habitano i monaci. Vi resta da fornire il terzo ordine con il claustro e chiesa della quale si è fatta parte della nave»26.
Quindi nel 1650 non erano stati ancora costruiti il transetto e il presbiterio della chiesa, mentre nel monastero mancavano il dormitorio del secondo piano e il loggiato del chiostro. Nella stessa relazione furono richiamate le clausole contrattuali previste dai fondatori27 e fu riportata la previsione economica per ultimare le opere28. Sul completamento della chiesa seicentesca non sono stati trovati documenti ma, come risulta dalla relazione trascritta dal Leccisotti, nel 1650 era costituita solo dalla “Nave” ancora incompleta e solo prima del 1693 fu ultimato il cappellone, crollato a causa del terremoto. Nella seconda metà del ’600 fu ultimato anche il dormitorio nel secondo piano del monastero, tanto che il monastero militellese fu indicato dai contemporanei come il terzo, in magnificienza, fra i monasteri siciliani. Il chiostro rimase incompleto ma, come risulta da alcune foto degli anni settanta del Novecento (fig. 4), era stato predisposto e intendeva riproporre, probabilmente, il più celebre chiostro catanese progettato dall’architetto Giulio Lasso.
T. LECCISOTTI, I monasteri cassinesi della Sicilia alla metà del secolo XVII, cit., 124.. «Nella fondatione di detto monastero detti signori s’obligarono fornire a loro spese tutta la fabrica secondo il disegno concertato e per entrata di detto monastero assignarono onze siciliane 250 et un oliveto e summacco con patto che fornita la fabrica dovessiro risiedere in detto monasterio 12 monaci. Nell’anno 1626 si fece novo accordo per atto publico fra detti signori e religione cioè che detti signori si obligarono di seguire la suddetta fabrica e la lasciorno alla Religione che la dovesse seguire con un deputato secolare d’assegnarsi da detti signori e suoi heredi si come già di fatto è assegnato. Che perciò assegnarono al monastero once siciliane 600 d’entrata l’anno delle quali n° 125 dovessero servire per vitto e vestito di sette monaci all’hora commoranti in detto monastero e il resto si applicasse in fabrica sospesa di chiesa e fornita detta fabrica tutta la suddetta entrata di once siciliane 600» (l.c.).. 28 «Ha per ultimo peso il monastero da spendere ogn’anno il resto dell’entrata in fabrica coll’intervento e presenza del deputato seculare delli signori fondatori quale fabrica per conformarsi col disegno incominciato, con 30 mila scudi si può finire a giuditio de maestri fabricatori et esperti di questa terra di Militello» (ibid., 126). 26
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Fig. 4 – Foto degli anni Settanta del chiostro dell’ex monastero benedettino (Archivio Fotografico Sovrintendenza ai BB. CC. AA. di Catania)
2. LA RICOSTRUZIONE DOPO IL TERREMOTO DELL’11 GENNAIO 1693 L’11 gennaio 1693 Militello fu travolta, con l’intero Val di Noto, dal terribile terremoto. Durante la sua ricostruzione assunse un ruolo predominante la collocazione del monastero di San Benedetto che, essendo stato risparmiato in gran parte dal terremoto, segnava il confine a nord del paese dei nuovi insediamenti abitativi. Il notaio Pietro Magro, sopravvissuto al terremoto, descrisse l’evento in un atto notarile conservato all’Archivio di Stato di Catania, nel quale, a proposito degli edifici religiosi di Militello, scrisse che:
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«L’esimio Monastero di San Benedetto della Congregazione Cassinese con i conventi di San Domenico, di San Francesco e dei Cappuccini, dei Minimi di San Francesco di Paola, degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia, di San Giovanni di Dio con l’ospedale quasi tutti rovinarono dalle fondamenta assieme ai monasteri delle monache intitolate a San Giovanni Battista e a Sant’Agata» 29.
Un altro supertite, il sacerdote militellese Sebastiano Gentile, sopravvissuto all’evento sismico, riguardo al monastero di San Benedetto, scrisse che «La sontuosa Chiesa è in piedi, ma risentita in molte parti […]. Solo il gran quadro dell’Altare Maggiore, fatto dal Baldanza di Militello fu sepolto di pietre. Il Cappellone nuovo cadde diroccato, precipitarono pure molti intagli del Campanile posto di puoco tempo sopra la nobilissima Parete della Porta Maggiore. Delli tre Dormitorii altissimi, che colla Chiesa componeano una quadratura aggiustata, n’è rimasto solo quello che riguarda il mezzogiorno, benché mostra nella caduta del Dammuso superiore ed in varie aperture l’offese del terremoto»30. Il 28 settembre 1696 fu redatta una perizia sui danni subiti dal monastero di San Benedetto, nella quale si legge che i mastri «Paolo Branciforte, Giuseppe Falcone e Saverio Branciforte, murifabbri, essendosi recati, ad istanza del procuratore del monastero di S. Benedetto e su ordine del Secreto della città, nel suddetto monastero e avendo osservato il muro del dormitorio che rimase dopo il violento terremoto dalla parte di tramontana, dichiarano che tale muro minaccia rovina, che ogni riparazione è inutile e che pertanto si deve rifabbricarlo per una spesa complessiva di onze 120»31. A.S. CT, Notarile Militello, notaio Pietro Magro, bast. n.860, 1692-1693, cc. 227 v. - 229 v. - Fra gli atti datati 6 gennaio e 23 gennaio 1693. Traduzione dal documento trascritto in ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA (cur.), Horribilis terremotus eventus in die 11 iannuarii 1693, vol. 1, 15-23. 30 G. SCIRÈ, Cenni storici sulle Chiese di Militello distrutte dal terremoto dell’11 Gennaio 1693, cit., 37-45. 31 Perizia sullo stato del Monastero di San Benedetto dopo il terremoto del 1693 (ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI MILITELLO [= A.S.C. M], Secrezia, b. 14 – 28 settembre 1696) citata in A.S. CT (cur.), cit., vol. 2, 189. 29
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Nel 1699, probabilmente, si effettuarono i lavori di ricostruzione nell’ala di tramontana e di levante del monastero, come riportato nel millesimo di completamento posto nella chiave del portone laterale nel prospetto est del monastero (fig. 5): S.B. / 1623 / PAX / 1681 / 1699. Nella stessa epigrafe si trovano incisi gli anni 1623 e 1681, forse per indicare la conclusione di due fasi lavorative riguardanti questa parte dell’edificio prima del terremoto.
Fig. 5 – Prospetto est del monastero (rilievo dello stato di fatto)
In un documento del 23 ottobre 1700 si legge che il Tribunale del Regio Patrimonio informò i giurati della città di Militello della visita del viceré di Sicilia Pietro Colon, duca di Veraguas, e che dovevano adoperarsi per rendere il suo soggiorno confortevole. L’incarico dell’organizzazione fu affidato al giurato Pasquale Caniglia il quale, fra i vari provvedimenti, decise di fare alloggiare tutti gli ospiti nel monastero di San Benedetto. A tale scopo il parroco di Santa Maria la Stella, il sacerdote Francesco Caruso, fornì l’occorrente per adattare la cucina del monastero con “banchi” e per realizzare le “lettiere” (letti) necessarie a fare dormire i “borgognoni” (soldati). Inoltre, furono aquistati un certo numero di chiodi e gesso, necessari per ristrutturare la “cavallerizza” (scuderia) e la cucina, e fu incaricato
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il pittore don Tommaso Guglielmino per «fare l’arme di S. E. in oglio per mettersi sopra l’entrata di S. Benedetto»32. Questo documento ci fa capire che la data del 1699 era riferita all’ultimazione dei lavori di gran parte dell’edificio monastico, per lo meno per quanto riguarda le opere murarie, tanto da essere stato individuato nel 1700 come l’unico edificio in grado di ospitare il Viceré. L’abate don Arcangelo Carbone, nel 1708, cercando di rispondere al bisogno abitativo della popolazione, fece tracciare una strada che delimitava a sud la clausura grande del monastero (l’odierna via Donna Giovanna d’Austria) e, al posto di un muro di cinta, fece realizzare delle case per civile abitazione facendo stipulare i relativi contratti di enfiteusi agli acquirenti. I lotti avevano un fronte stradale di due canne e una profondità di tre canne e sette palmi, comprendendo una striscia riservata alla sede stradale di 7,57 mq e la restante parte per l’edificazione delle case “solerate”, che dovevano essere: «della stessa misura, e forma, che ricerca il disegno fatto per tutte le case della medesima strada da fabricarsi nelli terreni concessi da d.o ven. mon.ro a diverse persone, d’altezza uguale con l’altre case; il muro nella strada deve essere alto palmi ventisette ad una spasa, quale deve tendere verso la clausura secondo le misure dell’arte; nel muro della clausura non debba fare apertura ma solamente ci è permesso di farci una finestrina lunga palmi due, e larga palmi uno da situarsi alta di maniera, che non se ci possi affacciare; il muro della strada debbansi biancheggiare dalla parte di fuori con calce, e rena; deve fare la porta d’intaglio alta palmi 7, e larga palmi quattro e mezzo; nella strada di sotto deve situare una finestra piccola d’intaglio secondo il sud.o disegno e nella stanza di sopra deve fare due finestre d’intaglio con la cornice di sotto, e sopra, q.li due fenestre debbansi situare cioè una sopra detta porta, e l’altra s.a d.a fenestra piccola, e dette due fenestre debbano essere d’altezza palmi sei, e di larghezza palmi quattro, et nel caso che d.o […] dette due fenestre volesse fare uno o due balconi sia lecito farli a loro gusto»33. 32 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Giovanni Antonio Iancuzzo, b. 878, cc. 165r. – 166r., 23 ottobre 1700 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti – Conache e storie militelliane d’altri tempi, Catania 2004, 13-15). 33 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Prospero Antonio Magro, b. 987, cc. 28/2 r.
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Gli enfiteuti furono obbligati alla sistemazione della strada antistante la loro abitazione. Infatti, nei contratti si legge che ciascuno «per quanto corre la lunghezza deve fare inchiancato di pietra forte largo canna una»34. Fra gli enfiteuti vi era mastro Girolamo Palazzotto35 il quale cedette il suo diritto di enfiteusi il 23 ottobre 170936, cioè l’anno in cui iniziarono i lavori di ricostruzione della cattedrale di Catania, dove intervenne sia in fase di progettazione che di esecuzione. Lo stesso Girolamo Palazzotto, originario di Messina e abitante a Catania, in quel periodo lavorò a Militello per realizzare il “Cappellone”37 nella chiesa di San Sebastiano e, successivamente, redisse il progetto della chiesa di San Nicolò, pertanto non si può escludere un suo ruolo nella redazione di questo piano particolareggiato commissionato dai monaci benedettini cassinesi. Nel 1712 furono intrapresi lavori di completamento dei prospetti di levante e di tramontana. Infatti, in seguito agli accordi stabiliti nel contratto stipulato il 14 aprile 1712, fra i monaci benedettini e mastro Alfio Barone, quest’ultimo dichiarò di avere ricevuto dal priore don Flavio, Cellerario del monastero dei cassinesi di Militello, onze 34.1.5.3 per i seguenti lavori: «Per due fenestroni grandi cioè uno verso levante e l’altro verso tramontana […]; Per quattro fenestroni del claustro […]; Per le fenestre delle camere l’infrascritto intaglio avendosi posto il resto d’intaglio vecchio […]; Per la cantoniera di levante […]»38.
e v., 7 ottobre 1708 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti – Conache e storie militelliane d’altri tempi, cit., 16-26). 34 L.c. 35 Per avere notizie sull’architetto Girolamo Palazzotto vedi S. CALOGERO, Fra Liberato al secolo Girolamo Palazzotto architetto e “Servo di Dio”, in Synaxis 22 (2004) 3, 133-161. 36 L.c. 37 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Antonio Jancuzzo, b. 885, cc. 341 v. - 342 r., 1 giugno 1708 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti/2 – Conache e storie militelliane d’altri tempi, Catania 2006, 43-44). 38 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Antonio Magro, b. 999, cc. 353 r. - 354 v., 22 agosto 1712 (ibid., 11-12).
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Nel 1712 vi fu un avvenimento straordinario nella chiesa di San Benedetto, che richiamò l’attenzione e la devozione di molti fedeli. L’immagine di Gesù bambino posta in una cornice d’argento, collocata sulla sommità dell’altare in legno intagliato e dorato, versò delle lacrime divenendo meta di pellegrinaggi dei fedeli che arrivavano dai paesi vicini39. Tale evento fece aumentare i proventi del monastero che furono devoluti in interventi di ristrutturazione del monastero e, in particolare, della chiesa. Fra i lavori documentati vi furono quelli relativi al contratto stipulato il 21 maggio 1719 con il quale mastro Antonio Sciré Giarro si impegnò a realizzare entro il mese di maggio 1720 «il resto del cornicione dell’affacciata del sud.o ven. mon.ro di mezzogiorno oltre di quello d.o di Scirè è obligato fare per quanto negl’atti miei, e di quello da farsi da Mastro Scipione Barone per quanto negli atti miei oggi, quale compiendo sarà di canne cinque, e palmi quattro in circa di pietra di S. Barbara, di più un pilastro consimile agl’altri della med.a affacciata consistente in canne sessant’otto in circa della mede.ma pietra, di più due fenestre consimili all’altre di detta affacciata della stessa pietra, di più l’intaglio liscio che vi entra, e sessanta puntaricci. Di più li pezzi sfalsi di palmi sette per lo spico della cantoniera di levante, e mezzogiorno della stessa pietra»40.
Mastro Scipione Barone, invece, si impegnò a «fare due fenestroni d’intaglio di S. Barbara consimili alli due fatti a lato della chiesa di d.o ven. monastero, di più un pezzo di cornicione di d.o intaglio per quanto corre il fenestrone di sopra, di più tutto l’intaglio liscio con la fenestrina finta, dal terreno per insino a d.o fenestrone, del medesimo
39
«Così confermano i processi canonici dal 1714 al 1721, redatti nella curia vescovile di Siracusa, ed ancora un volume del nobile messinese Carlo Ferraro stampato a Messina nel 1721 dal titolo Grazie e Miracoli operati nella città di Militello Val di Noto in Sicilia dal Santo Bambino Gesù» (M. VENTURA, Storia di Militello in Val Catania, cit., 85). 40 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Prospero Antonio Magro, b. 997, cc. 581 r. 582 v., 21 maggio 1719 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti/2 – Conache e storie militelliane d’altri tempi, cit., 13).
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intaglio, per quanto necessita da un pilastro all’altro»41. Questi documenti fanno capire che i danni subiti dal monastero riguardarono anche il prospetto principale, e che le riparazioni furono effettuate riproponendo il disegno realizzato nel 1637. Un atto notarile del 24 ottobre 1719 fra «Magistri Andrea de Amato, filius magister Antonini» e il «Rev. D. Petro Celestino Messana Decano Cassinese uti Administratore venerabile Cappella S. Bambino Civitatis Militelli», documenta un credito di onze 25,20 del suddetto Andrea Amato da parte dei padri Cassinesi «per lo prezzo del suolo di pietra di Taormina, facciata con lapida ed arpia di marmo bianco, due scalinate, e tumilo pure di marmo bianco lavorato e commesso e lo trasporto di detta pietra e marmo con n° 42 cavalcature»42. Quindi i lavori eseguiti da Andrea Amato per i padri cassinesi di Militello, in questo periodo, riguardarono un altare o un monumento sepolcrale in marmo commesso. Un documento del 24 luglio 1719 chiarisce che l’opera fu realizzata da Antonio Biundo e dai fratelli Andrea e Tommaso Amato, e che riguardò «quella Machinetta Marmorea fatta per li detti di Biundo ed Amato nella Cappella del SS° Bambino esistente nella Chiesa del Ven.le Mon.rio di detto ordine di San Benedetto nella terra di Militello»43. Inoltre, il 29 aprile 1720, mastro Carmelo Baganello dichiarò di aver ricevuto da don Pietro Celestino onze 12.29.12 «per tanti giornati di suo travaglio fatto nella suddetta cappella, con altri mastri, e manuali per esso di Baganello presi per suo aggiuto, per aver pecuniato la suddetta, e rizzatura con gisso, ed intonacatola per apparicchio della pittura, per anche scassato il muro per entrarci la machina d’intaglio di marmo lavorato e con averci fabricato tutto il muro di pietra marmorea, con suo scalino»44. 41 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Prospero Antonio Magro, b. 997, cc. 577 r. 579 r., 21 maggio 1719 (ibid., 14). 42 Apoca onze 25,20 pro Rev. Petro Celestino Messana contram Magister Andrea de Amato (A.S. CT, 2° vers. not., b.1099, c. 214 r., 24 ottobre 1719 - notaio Vincenzo Arcidiacono senior). 43 Apoca … pro Rev. P. con Petro Celestino Messana contram Magister Antonium Biundo et consortes (A.S. CT, 2° vers. not., b.1098, c. 644 r., 24 luglio 1719 - notaio Vincenzo Arcidiacono senior). 44 A.S. CT, notarile di Militello, b. 1286, c. 309 r., 29 aprile 1720 - notaio Antonino
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Il 3 dicembre 1719, lo stesso Andrea Amato, insieme ad altre maestranze, fu incaricato di ricostruire il “Cappellone” di ponente della chiesa. Nel relativo atto i padri benedettini scrissero che avevano la necessità di nominare «persone in solido che fa la dirocca seu dirrupare a loro pro mestiere e travagli il muro vecchio e nuovo che presentemente si crolla per essere strapiombato e spianarlo dall’intutto […] da incominciare dal piede piatto con servirgli per pedamento di quello stesso che trovasi nel muro vecchio strapiombato ed anche servirsi dello stesso materiale che riuscirà di detto muro vecchio che sa da diroccarsi e mancandone lo debbano comprare […] e rifabbricarsi detto muro della stessa maniera seu quello stesso, quello che lo ha completo il Monastero […] con essere benvisto a tutte quelle persone eligende da detto M.[olto] R.[everen]do P.[adre] Priore dovendo finire e perfezionare di tutto punto per tutti li 10 del mese di maggio 1720» 45.
In particolare il deputato per la fabbrica del monastero riferì al Priore di «non dispiacermi l’offerta che ha fatta Andrea d’Amato Capo mastro di Catania, giacché contando il risparmio il riferito muro sarà rifabricato di nuovo quello si che sarà preciso in quest’affare sia che il P. R.mo mi esigga costante cautela ed inutili in che la fabrica riesca soda per non patire altro pericolo siccome devo sperarlo dalla lei efficace stima diligenda et pro ut melios ut vulgaris loguendo no major facti intelligentia di fargli il muro intero del Cappellone del suddetto monastero di Militello che riguarda a Ponente» 46. Un’altra relazione del 24 settembre 1721 attesta che «Nel millesettecentoventi s’è fatta fabrica del cappellone della chiesa con mandare a terra un muro maestro largo palmi novantasei, ed alto palmi settantadue minacciava rovina, e s’è rifatto con megliore architettura, si come altre fabriche nel d.o monastero» 47. Questa relazione Macaronio Calabrò (cfr. S. DI FAZIO, Frammenti. Cronache e storie militelliane d’altri tempi, Catania 2004, 80). 45 Obligatio pro ad (…) Ignatio Notarbartolo cum Magister Andrea de Amato (A.S. CT, Not. II vers., notaio Vincenzo Arcidiacono senior, b. 1099, c. 214 r.– 24 ottobre 1719. 46 L.c. 47 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Antonio Magro, b. 1000, cc. 119 r. - 124 v., 24 settembre 1721 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti/2 – Conache e storie militelliane d’altri tempi, cit., 17-20).
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fu scritta dai monaci benedettini cassinesi a difesa dell’operato del priore don Ignazio Notarbartolo, accusato di cattiva gestione nell’amministrazione del monastero in assenza dell’abate, cercando di giustificare gli interventi eseguiti nella chiesa e nel monastero per realizzare un struttura resistente ai terremoti. Il 28 aprile del 1723 Scipione Barone, in qualità di Architetto, insieme al muratore, mastro Carmelo Baganello, scrisse: «Relatio Magistri Scipionis Barone Architetti et magistri Carmeli Baganello Murarj […] avendosi essi relatori personalmente conferito nella Venerabile Chiesa di detto Monastero di S.Benedetto, et ivi osservato diligentemente il servizio ed attratto necessita per coprire il Cappellone di detta Chiesa, e fare la cupola al medesimo, dui dammusi alli dui sacristij, compreso il dammuso sotto detto Cappellone e suo balatizzo, hanno essi relatori calculato volerci di spesa in somma di onze nove cento settanta due (poco più o meno) tutto in base all’attratto e maestria, cioè: Bordoni di legname seu coperto delli medesimi per ritrovarsene alcuni nel Monastero, onze sessanta..........................................................onze 60 Bordoni piccoli onze cinquantasei...........................................onze 56 Travetti per li tetti onze quindici..............................................onze 15 Mastria per serrare detti travetti..............................................onze 12 Altra legname per detti tetti onze venti..................................onze 20 Maestria per fare li detti tetti di mastri e manuali onze trenta ......................................................................................................onze 30 Gisso per fare li dammusi salme 300 onze sessanta...............onze 60 Mazzacani per detti dammusi onze sessanta ..........................onze 60 Mastria di mastri e manuali per fare detti dammusi onze trentasei ......................................................................................................onze 36 Fabrica per li coltelli su detti dammusi onze sessanta ...........onze 60 Cantoneri palmi 800 onze quindici ..........................................onze 15 Gisso per la Cuppula salme 8.50 onze dieci............................onze 10 Canali per coprire li tetti n° 15 migliara onze quarantacinque ......................................................................................................onze 45 Mastria di mastri e manuali per fare la Cuppula onze venti ......................................................................................................onze 20 Balati per il pavimento di detto Cappellone onze centoquaranta ......................................................................................................onze 140 Gisso per arrizzare li mura e dammusi onze sessanta salme 22300 ......................................................................................................onze 60
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Per li dammusi per li dui Sacristij attratto onze quaranta ....onze 40 Mastria di dette onze venti .......................................................onze 20 Chiodi onze dieci .......................................................................onze 10 Pezzi d’intaglio per l’archi palmi 600 onze ottanta................onze 80 Mastria per li medesimi onze venti..........................................onze 20 Per dui archi alli Sacristij onze quindici ..................................onze 15 Rina salme 600 onze venti ........................................................onze 20 Pezzi d’intaglio per il Cornicione onze trenta ........................onze 30 In tutto onze novecento settanta quattro ...............................onze 974»48.
Questa relazione chiarisce inequivocabilmente la consistenza dei lavori progettati da Andrea Amato e diretti da mastro Scipione Barone. L’inaugurazione del monastero restaurato fu fatta il 21 marzo 1724 dall’abbate don Alfonzo Arezzi, mentre nel 1725 venne affrontato il più delicato problema del rifacimento della parte superiore del prospetto della chiesa (fig. 6). Si tramanda che, dopo aver indetto un concorso, l’abbate Arezzi diede incarico all’architetto don Antonino Sciré, un giovane sacerdote militellese versato nelle belle arti. La notizia, pur se non documentata, è probabile, in quanto il sacerdote era capace di ideare un disegno architettonico, tutto mantenuto entro il rispetto delle regole trattatistiche. Infatti, lo stesso Antonino Sciré nel 1741 eseguì il disegno della chiesa del SS. Sacramento al Circolo49, dalla facciata concava sormontata da una cella campanaria trifora (fig. 7) simile a quella esistente nella chiesa di San Benedetto, e nel novembre 1743, oltre a fornire il disegno, realizzò il modello per la costruzione del nuovo dormitorio per il convento di San Francesco di Paola, nella stessa Militello.
48 Relazione redatta dall’architetto Scipione Barone per la ricostruzione del Cappellone della Chiesa di S.Benedetto (Archivio Storico del Comune di Militello, Secrezia, b. 12 – 28 aprile 1723). 49 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Alfio Diana, b. 1640, cc. 168 r. – 170 r., 8 maggio 1741 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti/2 – Conache e storie militelliane d’altri tempi, cit., 47).
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Fig. 6 â&#x20AC;&#x201C; Prospetto sud del monastero di San Benedetto (rilievo dello stato di fatto)
Fig. 7 â&#x20AC;&#x201C; Prospetto della chiesa del SS. Sacramento al Circolo
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Fig. 8 – Ipotesi sulla previsione della loggia nel chiostro
Fig. 9 – Sezione con l’individuazione della finestra a “bocca di lupo”. (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
Fig. 10 – Prospetto nord del monastero (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
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Fig. 11 â&#x20AC;&#x201C; Prospetto ovest del monastero (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
Fig. 12 â&#x20AC;&#x201C; Sezione che fa vedere il prospetto est del chiostro (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
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Fig. 13 – Sezione che fa vedere il prospetto nord del chiostro (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
La previsione di una loggia interna e del conseguente piano di calpestio del chiostro, più basso di quello attuale (fig. 8), è testimoniata dalle predisposte finestre a bocca di lupo (fig. 9), simili a quelle esistenti nel monastero catanese, testimoniando la volontà dei monaci a riproporre anche le soluzioni adottate nel monastero di San Nicolò l’Arena nella fase di ricostruzione post-terremoto. Dal rilievo dello stato di fatto (figg. 10 e 11), inoltre, si evince che l’intervento sul cappellone della chiesa dovette comportare l’eliminazione di alcuni ambienti per l’inserimento del transetto, come testimoniato delle aperture murate ancora presenti nel prospetto est del chiostro (fig. 12), mentre la situazione pre-terremoto si evince nella sezione effettuata in corrispondenza della navata della chiesa (fig. 13). Un’opera realizzata fra il 1730 il 1734 fu il coro intagliato in noce. I suoi quaranta pannelli, delle dimensioni 75x40 cm., sono dei piccoli capolavori e raffigurano i misteri di Cristo e la vita di San Benedetto, mentre agli angoli vi sono le figure degli evangelisti. I lavori nei prospetti del monastero e il completamento di quelli per ultimare la sacrestia nuova sono documentati fino al 1736. Infatti,
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il 19 novembre i benedettini incaricarono il capo mastro muratore Sebastiano Sciré Giarro di «fare, lavorare, fabricare, e perfezionare l’affacciata del muro di d.o ven. mon.ro verso mezzogiorno del medesimo lavoro, e consimile alla parte prossima alla ven.le chiesa colli medesimi balcone, e fenestrone di sotto d’intaglio di S. Barbara, con la cantoniera verso mezzogiorno, e l’affacciata verso levante lasciarla liscia, il cornicione però deve girare la cantoniera verso levante, e questo con tutto il materiale, et attratto di d.o Sciré cioè intagli, pietre, rena, calce, acqua, et ogni altro sarà necessario; di più di fare, e fabricare il dammuso della sacrestia nuova, arricciato, e stucchiato di fino; di più arricciare, e stucchiare di fino le mura della sacrestia, e parimenti fornire il pavimento di d.a con mattoni di Caltagirone senza stagnati della forma grande con li quadretti nel mezzo …»50.
Legati alle scelte del monastero catanese, i benedettini, nel 1741, chiesero al più prestigioso pittore romano del momento, il cavaliere Sebastiano Conca, di realizzare la pala dell’altare maggiore, rappresentante la Comunione di San Benedetto. In questo contesto dovette essere stata collocata, nel braccio destro del transetto, la statua lignea della “Madonna del Rosario” che presenta ai piedi una mezza luna51. Altri interventi nel monastero, fra i quali gli stucchi all’interno della chiesa (fig. 14), dovettero essere eseguiti fra il 1753 e il 1756, triennio in cui fu abate il “Regio Storiografo” Vito Maria Amico e Statella, figura di spicco nell’ambiente culturale di quel periodo. 50 A.S. CT, notarile di Militello, notaio Prospero Antonio Magro, b. 1015, cc. 137 r. e v., 19 novembre 1736 (Cfr. S. DI FAZIO, Frammenti/2 – Conache e storie militelliane d’altri tempi, cit., 21). 51 Questa statua, prima del 1650, non poteva essere collocata nella chiesa di San Benedetto perché in quel periodo, come abbiamo visto, non esisteva il transetto mentre è probabile che essa corrisponda alla “Madonna della Concezione”, portata da Napoli nel 1603 e collocata originariamente nell’oratorio privato di donna Giovanna d’Austria, nella cappelletta all’interno del castello di cui era cappellano Pietro Carrera, probabile opera dello scultore Rinaldo Russo arrivato da Napoli a Militello al seguito di donna Giovanna (Cfr. P. CARRERA, Relazione delle chiese e figure della Beata Vergine che sono in Militello, a cura di G. Pagnano, Catania 1998, 31).
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Fig. 14 – Sezione longitudinale della chiesa di San Benedetto (rilievo dello stato di fatto)
La copertura della chiesa fu restaurata nel 1767, come stava scritto in uno dei frontespizi delle capriate del tetto, e dopo questi ultimi lavori non sono documentati altri interventi sull’edificio, perlomeno fino alla soppressione delle corporazioni religiose. 3. IL MONASTERO NELL’OTTOCENTO Nel febbraio del 1818 Catania fu colpita da un terremoto che provocò notevoli danni, ma Militello ne uscì illesa per gran parte degli edifici52. Nel 1831 «fu situata la celleraria per la casa del Giudicato»53 e il 26 maggio dello stesso anno il Priore Raffaele de Levo cassinese comunicò al Sindaco di Militello che le sepolture esistenti nel mona-
52 Negli incartamenti dell’intendenza Borbonica in cui i comuni chiesero finanziamenti per i danni subiti dagli edifici per il terremoto, è presente solo la richiesta per il convento dei Cappuccini. 53 A.S.C. M, b.784, nota, 16 maggio 1831.
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stero erano due, «una per i religiosi e l’altra de Principi di Butera fondatori del Monastero»54. Alcuni contratti del 1848 furono stipulati nel «quarto priorale nella prima Camera avente lume dal balcone che guarda mezzogiorno»55, corrispondente all’attuale stanza del segretario comunale, e nel 1858 «nella camera addetta alla compotistaria ossia letteraria avente lume di una finestra che guarda a mezzodì»56, da cui si evince l’ubicazione delle stanze dove i padri cassinesi stipulavano i loro contratti. La situazione del monastero in questo periodo è visibile nel particolare dello Schizzo del Fabbricato Topografico del Comune di Militello disegnato dall’architetto Gesualdo Costa Gagliardi 57 intorno al 1850 (fig. 15). Confrontando questo disegno con i fogli di mappa dell’odierno Catasto Fabbricati58 di Militello, si evince la quantità di edifici che hanno modificato nel corso del Novecento la morfologia dell’intero monastero cassinese (fig. 16), compresa la striscia di case “solarate”, iniziate a costruire nel 1708, disegnata in una scala maggiore rispetto a quella del monastero, indicandola come sviluppo B (fig. 17).
54
Dal Monastero di san Benedetto al Signor Sindaco di Militello in V.N. / Signor Sindaco «Di riscontro al di lei officio del 24 cadente, col quale mi partecipa gl’ordine di S. A. R. il Principe Luogotenete Generale relativi alla formazione del nocumento delle sepolture gentilizie dei Comuni di questa Valle e m’interessa di voler esser informata quante sepolture esistono nella Chiesa del mio Monastero, le Magnifico osservare due, una per i religiosi e l’altra de Principi di Butera fondatori del Monastero. / Il Priore Raffaele de Levo Cassinese» (A.S.C. M, Secrezia, b.81,1 26 maggio 1831). 55 A.S. CT, Sezione di Caltagirone, 18 luglio 1848, notaio Vincenzo Iatrini. 56 A.S. CT, Sezione di Caltagirone, b. 137, c. 80, 2 marzo 1858, notaio Matteo Basso. 57 E. CARUSO – A. NOBILI (curr.), Le mappe del Catasto Borbonico di Sicilia, Palermo 2001, mappa n. 310. L’archivio cartografico Mortillaro di Villarena conserva le mappe del Catasto Borbonico disegnate in un arco temporale che va dal 1837 al 1853. Per quanto riguarda quella di Militello non è segnata la data ma, per quanto detto, dovrebbe essere stata disegnata intorno al 1850. 58 Oltre al frazionamento dello sviluppo B, si può notare l’inserimento di fabbricati nella selva del monastero.
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Fig. 15 – Gesualdo Costa Gagliardi, senza data. Particolare dello “Schizzo del Fabbricato Topografico del Comune di Militello”.
Fig. 16 – estratto di mappa (Agenzia del Territorio di Catania). È visibile l’intasamento della selva con costruzioni che hanno sfigurato l’originario impianto monastico.
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Fig. 17 – estratto di mappa (Agenzia del Territorio di Catania). È visibile il frazionamento della case realizzate all’inizio del Settecento e date in enfiteusi con l’obbligo, da parte degli enfiteuti, di curare la strada di loro pertinenza.
4. IL VERBALE DI CESSIONE DEL MONASTERO «1° Il fabbricato di detto ex Monastero San Benedetto unitamente alla Chiesa, e Clausura piccola attaccata al Monastero dal lato di tramontana Confinano da parte di mezzodì colla selva Benedettina, da Ponente colla strada Maestra Provinciale a ruota e caseggiato di questi Comunisti, da tramontana col trappeto degli eredi di Don Nicolò Caruso ed il vignale detto del bambino censito a diversi, da levante colla Clausura grande tenuta ad enfiteusi dal Signor Arcangelo Blandini, ed altri. 2° L’intero fabbricato del suddetto Monastero è composto di numero ventisei stanze a pian terreno, tra grandi mezzane, e piccole, compreso il refettorio, e riposti contigui, nonché di tre corridoi, Cisterna, ed atrio nel centro dell’intero fabbricato, avente l’ingresso dal Portone che guarda Mezzodì. Soprastante a dette stanze vi corrispondono altre ventitre stanze a secondo piano, e tre corridoi. Finalmente altri due corridoi con suoi bassi così detti sotterranei, che per la sua giacitura non sono suscettibili ad uso qualunque, perché senza ingresso, e sporgenti nella contigua clausura, ricevendo il lume per mezzodì da finestre con ingradiate di ferro. Il tutto in mediocre stato. Attaccata al Monastero in parola, ed al lato di ponente esiste la Chiesa sotto il titolo di San Benedetto di forma a […] la porta grande d’entrata che guarda il mezzodì, ed altra a Ponente piccola, con pavimento in parte visulato e parte basolato di pietra calcarea forte, la volta a gesso coverta a stucco bianco, numero otto altari, dei quali sette a marmo, ed uno a legname indorato. Il Coro di legno […] scolpito con bassi rilievi dimostrante la vita del santo titolare, ed altro. Il prospetto a mezzodì alzasi architettato d’intaglio a doppio ordine, con compimento a tre arcate, con
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due campane, ed altre due situate nell’arco a ponente di detto prospetto, inservienti ad un orologio grande, quale trovasi anche situato nel lato di Ponente di detta prospettiva. L’intero coverto della nave maggiore della Chiesa trovasi in cattivo stato, bisognando l’intera ricostruzione per la parte che riguarda il legnonato e l’incannucciato. Unita alla Chiesa evvi la Sagrestia ed una stanza sottostante a detta per la sepoltura dei Monachi, e vi si giunge per mezzo di una scala, la quale anche conduce nei sotterranei, Corridoio superiore, ed atrio suddetti»59.
Gli ambienti descritti nel verbale di cessione e il rilievo dello stato di fatto hanno consentito di ipotizzare la restituzione storica del monastero alla data del 1869. Nella prima pianta sono riportate le cripte dei monaci, l’attigua scala di collegamento dei vari piani e gli ambienti di servizio, chiamati “officine” (fig. 18). Nel piano superiore erano collocati gli ambienti destinati alla vita comunitaria e le stanze della foresteria collegate a due corridoi di distribuzione (fig. 19), mentre nell’ultimo piano si trovavano i tre corridoi dei dormitori (fig. 20).
59 Verbale di consegna che l’Amministrazione sul fondo pel culto fa a sensi dell’articolo 20 della legge sette Luglio 1866 al Signor Salvatore Dottor Caltabiano Sindaco funzionante di questo Comune di Militello in val di Catania del fabbricato dell’ex Monastero di San Benedetto di detto Comune e delle parti redditizie attaccate al Monastero istesso, e cioè mediante il prescritto Canone (A.S.C. M, b. 890/bis – 20 marzo 1869). Il verbale continua: «Nella Clausura attaccata al lato di tramontana del suddetto Monastero, la quale è cinta di muri a fabbrica vi esistono i seguenti alberi, cioè, otto alberi di fico, uno di albicocco, uno di anzaloro, sei di meligranata, tre di celsomoro, e due di pera. Descritta detta Clausura in Catasto alla Sezione D, numero 517 di mappa, colla rendita imponibile di lire quarantadue e ottantotto centesimi. Finalmente in prossimità del detto Monastero nel lato a Levante trovasi tre corpi uniti di fabbricato due addetti a stalla ed uno a Magazzinetto segnati coi numeri 10, 11, 12 nella parte sezione D, numeri di mappa 519 – 520 – 521 del Catasto di questo Comune colla rendita imponibile di lire trentanove e sessantatre, i quali confinano per Ponente col largo San Benedetto, da Mezzodì colla strada Benedettina, da levante con altra casa di detto Monastero, oggi usata ad enfiteusi a Filippo Scirè Ingapone, da tramontana colla Clausura grande, oggi di don Arcangelo Blandini, ed altri. La superficie metrica decimale dell’intero caseggiato del Monastero, Chiesa, Atrio, e Clausura e parti redditizie è di are cinquantatre».
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Fig. 18 â&#x20AC;&#x201C; pianta del piano seminterrato del monastero di san Benedetto a Militello. (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
Fig. 19 â&#x20AC;&#x201C; pianta del piano terra del monastero di san Benedetto a Militello. (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
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Fig. 20 – pianta del piano primo del monastero di san Benedetto a Militello. (Ipotesi di restituzione storica al 1869)
Il corpo di tramontana del monastero fu ristrutturato alla fine dell’Ottocento, stravolgendone lo schema strutturale60. Infatti, il 15 giugno 1888, il perito Giovanni Mancuso fu incaricato: «per progettare la spesa preventiva occorrente alla trasformazione delle stanze a tramontana dell’ex Convento dei Padri Benedettini al presente usate pel monte di Prestito, in stanze adatte per le scuole Comunali Maschili»61. Furono spostate le stanze, originariamente rivolte a tramontana, verso mezzogiorno, con affaccio nel chiostro interno, e furono realizzate «l’Aperture di N° quattro vani nel muro a Mezzodì da servire per i nuovi finestroni per dare luce alle nuove stanze»62, 60 Quest’ala del fabbricato è stata quella che ha subìto i maggiori danni in seguito al sisma del 1990. 61 Spesa preventiva occorrente alla trasformazione delle stanze a tramontana dell’ex Convento dei Padri Benedettini al presente usate pel monte di Prestito, in stanze adatte per le scuole Comunali Maschili. Allegata pianta stato di fatto e progetto (A.S.C. M, b. 893 – 15 giugno 1888). 62 L.c.
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conservando i preesistenti finestroni (fig. 21) e realizzando le nuove finestre, tuttora esistenti (fig. 22).
Fig. 21 â&#x20AC;&#x201C; Prospetto sud del corpo di tramontana (ipotesi di restituzione storica al 1869)
Fig. 22 â&#x20AC;&#x201C; Prospetto sud del corpo di tramontana (rilievo dello stato di fatto)
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Nel 1961, infine, fu realizzata la nuova sala del consiglio, interrompendo l’originario corridoio di levante del monastero63. Le modifiche apportate nel 1888 nel corpo di tramontana e la realizzazione della sala del consiglio comunale, che interrompe il corridoio di levante, sono visibili chiaramente nella pianta del primo piano dello stato di fatto (fig. 23). Questi ultimi interventi modificarono la distribuzione degli ambienti del monastero, ma lasciarono, in gran parte, invariate le volte. Pertanto, a parte la presenza di alcune tramezzature divisorie facilmente rimuovibili, è possibile ricostruire gli spazi originari in cui vivevano i monaci cassinesi ridando all’edificio la spazialità che aveva prima della sua confisca all’Ordine Religioso che lo costruì.
Fig. 23 – Pianta del primo piano (stato di fatto alla data del 2006)
63 Riparazione e restauro della Casa Comunale (UFFICIO TECNICO COMUNE MILITELLO, novembre 1961).
DI
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Note Synaxis XXXI/2 (2013) 187-205
EREMITISMO E TROGLODITISMO NELLA DIOCESI DI SIRACUSA
VITTORIO G. RIZZONE*
La tradizione fossoria ed ipogeica del territorio ibleo affonda la sue radici nella preistoria. Tombe a grotticella artificiale sono state scavate con particolare intensità durante le età del bronzo e del ferro; al contrario, durante il periodo classico il fenomeno dell’ipogeismo conosce un certo allentamento; esso riprende con vigore durante la tarda età romana con lo scavo delle catacombe che in maniera capillare costellano tutta la cuspide della Sicilia sud-orientale. Nel corso del Medioevo sia le tombe a grotticella artificiale della pre- e protostoria che gli ipogei funerari tardo antichi vengono sfruttati per la creazione di chiese rupestri: nel primo caso possiamo ricordare le chiese di San Marco a Sutera1 e Santa Maria della Rocca a Caltagirone2; nel secondo le chiese rupestri scavate nelle catacombe di Santa Lucia a Siracusa3, Sant’Elia di Avola Antica4, la chiesa di * Docente di Lingue classiche e Archeologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 A. MESSINA, Le chiese rupestri del Val Demone e del Val di Mazara, Palermo 2001, 41-42. 2 A. MESSINA, Le chiese rupestri del Val di Noto, Palermo 1994, 131-132. 3 S. GIGLIO, La cultura rupestre di età storica in Sicilia e a Malta, Caltanissetta 2002, 93-95, 298-299, con bibliografia precedente; M. SGARLATA - G. SALVO, La catacomba di Santa Lucia a Siracusa, Siracusa 2006, 28-33, 62-103. 4 GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 305-307; A. MESSINA, Sicilia rupestre, Caltanissetta – Roma 2008, 38.
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Palazzo Platamone a Rosolini5, la Grotta dei Santi di contrada Alia tra Licodia Eubea e Monterosso Almo6, Santa Lucia di Mendola tra Noto e Palazzolo Acreide7, la chiesa di Cava Ddieri tra Modica e Scicli8, le chiese di San Pietro9 e di Cava San Giorgio10 presso Buscemi, attraverso anche la conversione delle grotte in ambienti cultuali richiedeva spesso operazioni di esorcismo come quella attestata per la grotta siracusana di San Marciano, sicché: «speluncam non iam illam satanicam, sed templum sanctum et angelicum; non iam Daemonum catervis plenam, sed Angelorum choris celebratam, non iam fraudis et prestigiarum officinam, sed morborum incurabilium medicinam. O speluncam, Bethleemicae comparandam…»11.
Accanto alla componente culturale dell’habitat rupestre che rimane molto radicata nel corso dei secoli e fino a tempi recentissimi12, occorre considerare anche la componente religiosa. Il fondamento scritturistico dell’esperienza eremitica, quale fuga mundi, vissuta in un 5 V.G. RIZZONE – G. TERRANOVA, Il paesaggio tardoantico del territorio di Rosolini: schede per una prima mappatura degli insediamenti e dei cimiteri, in F. TOMASELLO – F. BUSCEMI (curr.), Paesaggi archeologici della Sicilia sud-orientale. Il paesaggio di Rosolini, Palermo 2008, 61-63. 6 MESSINA, Val di Noto, cit., 104-107; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 281-285. 7 Vd. infra 158-160. 8 V.G. RIZZONE, La chiesa rupestre di Cava Ddieri presso Modica, in Sicilia Archeologica XXIX (1996) 111-114. 9 V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, Per una classificazione tipologica delle chiese rupestri del Val di Noto: articolazione planivolumetrica e relazione all’insediamento, in E. DE MINICIS (cur.), Insediamenti rupestri medievali: l’organizzazione dello spazio nella mappatura dell’abitato. Italia centrale e meridionale. II Convegno Nazionale di Studi (Vasanello, 24-25 ottobre 2009), Spoleto, in c.d.s. 10 S. DI STEFANO, Buscemi (Siracusa): la chiesa rupestre e il complesso cimiteriale di Cava S. Giorgio, in Archivio Storico Siracusano, s. III, XIX (2005) 22-27. 11 AASS, junii II, 789. 12 Cfr., ad esempio, A. SCIVOLETTO, Una questione meridionale. Le grotte abitate di Modica, Milano 1973.
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contesto ipogeico, viene fornito da un passo della Lettera agli Ebrei (11,38), in cui, a proposito della fede esemplare degli antenati, si dice: «di essi non era degno il mondo e andavano errando per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra», con riferimento, molto probabilmente, alle vicende del profeta Elia, il quale, tra l’altro, sostò in una caverna sul monte Oreb (1Re 19,9). La dimora nella grotta appartiene alle prime esperienze eremitiche: così è per Antonio, che soggiornò in caverne e nei sepolcri egiziani a forma di casetta con la camera sepolcrale vera e propria scavata sottoterra vincendo le paure degli artifici diabolici (Athan., VA 8,1; Pallad., HL 21,7). Così è anche per il padre del monachesimo occidentale, Benedetto da Norcia, che nella prima fase della sua esperienza monastica, quella eremitica, soggiornò in uno speco presso Subiaco (Greg., Dialogi, II, I,4-8). Per quanto concerne la Sicilia, con particolare intensità le testimonianze di eremiti si infittiscono nel periodo compreso tra il IX e il XII secolo, come documentano i bioi dei santi italogreci13. Nella Vita di S. Elia lo Speleota, discepolo di Sant’Elia da Enna, si narra che il santo trasformò in cenobio una grotta liberata dalla presenza di demoni14. Nel 1093 il monaco Blasios chiede di trasformare in monastero la grotta eremitica dove era vissuto San Nicandro, ubicata sotto il castello di San Nicone presso Taormina15. Di santi eremiti che vivevano in grotte è costellata la storia di Sicilia: San Filippo di Agira, San Pellegrino, presunto protovescovo di Triokala (Caltabellotta), San Calogero, Santa Rosalia (1128-1165), San Nicola Politi da Adrano (1117-1167) che visse per un certo periodo di tempo in una caverna alle falde dell’Etna, San Lorenzo da Frazzanò (1120-1162), San Conone da Naso (1139-1236), ed ancora, in età moderna, il beato Diego da Sinagra (1560-1612), fino alle più recenti esperienze (a partire dagli anni ’70 del secolo scorso) dei belgi P. Ugo Van Doorne che ha vissuto nella grotta Bedda Tuma in territorio dell’attuale 13 Cfr. G. MUSOLINO, Santi eremiti italogreci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Soveria Mannelli 2002, 31 ss. 14 AASS, sept. III, cc. 864-866. 15 A. MESSINA, Le chiese rupestri del Siracusano, Palermo 1979, 15.
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diocesi di Noto, e P. Antoine Lootens in una grotta in contrada Raiana presso Floridia, in diocesi di Siracusa16. Passando al territorio della cuspide sud-orientale della Sicilia, corrispondente a quello che sarà il territorio della diocesi di Siracusa, occorre innanzitutto eliminare un equivoco, che riguarda il momento siciliano della vita di Sant’Ilarione17, di cui ci narra San Girolamo. L’eremita Ilarione, nato a Tabatha, in Palestina, nel 291, nel 363 giunse in Sicilia approdando a Capo Pachino e «da lì preoccupato che i mercanti provenienti dall’Oriente lo facessero riconoscere, fuggì nei luoghi interni del paese, cioè a venti miglia dal mare, e lì, in un campicello solitario, legava ogni giorno un fascio di legna e lo poneva sulla schiena del suo discepolo. Vendeva la legna nel villaggio vicino e così comprava da mangiare per loro due, e un poco di pane per quelli che capitavano da loro» (Hier., Vita Hilar. 25,5.8-9; trad. C. Moreschini). Ma il soggiorno siciliano durò meno di un anno, perché l’eremita fu scovato e preferì allontanarsi dalla Sicilia. L’indicazione topografica fornita dalla fonte pone il problema dell’ubicazione: l’espressione “a venti miglia dal Capo Pachino” è evidentemente vaga ed è naturale, pertanto, che siano state formulate differenti ipotesi in merito alla localizzazione della dimora18: si è pensato di fissarla presso Noto, e che, anzi, il celebre eremo di San
16 Per un quadro dell’eremitismo siciliano vd. V. LO PICCOLO, Eremi ed eremiti di Sicilia, Palermo 1995. 17 F.P. RIZZO, Eremiti e itinerari commerciali nella Sicilia orientale tardo-imperiale: il caso sintomatico di Hilarion, in S. PRICOCO (cur.), Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità. Atti del Convegno di Studi (Catania, 20-22 maggio 1986), Soveria Mannelli 1988, 79-93; G. DI STEFANO, Eremiten und Pilger zwischen Palaestina und dem kaiserlichen Sizilien: der Fall des Heiligen Hilarion, in Akten des XII. Internationalen Kongresses für christliche Archäologie (Bonn, 22-28 september 1991), Münster 1995, II, 1219-1221; V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, Documenti paleocristiani e bizantini nel territorio di Modica: una rassegna, in Archivum Historicum Mothycense 7 (2001) 113-114. 18 Sull’argomento vd. I. OPELT, Des Hieronymus Heiligenbiographien als Quellen der Historischen Topographie des östlichen Mittelmeerraumes, in Römische Quartalschrift 74 (1979) 171-172; EAD., Note al viaggio in Italia di S. Ilarione siro, in Augustinianum 24 (1984) 308-311.
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Corrado Confalonieri sarebbe stato in realtà fondato dal santo palestinese, oppure, presso Rosolini, all’eremo cosiddetto di Croce Santa19; con maggiore insistenza si è fatto il nome di Cava Ispica con particolare riferimento alla parte terminale della Cava. Qui nella zona detta di Scalauruni (i.e. Scala di Ilarione), si indica una grotta quale dimora di Ilarione e nelle vicine grotte Lintana-Calvo vi sono resti di affreschi con la raffigurazione del Santo anacoreta errabondo accompagnato da didascalia in vernacolo attribuibile al XVI-XVII secolo. In effetti tali indicazioni sono piuttosto tardive e non reggono di fronte ad un’attenta critica che si fondi sull’esame di una continua tradizione documentaria e storiografica; il culto di Sant’Ilarione sembra essere, piuttosto, il frutto di uno dei tanti tentativi operati dalla erudizione locale in periodo controriformista, ed utilizzato a fini devozionali20. Ma se già si vuole un confronto con quanto indicato dalle fonti a proposito delle usuali dimore di Ilarione, si notano delle discrepanze: a Cava Ispica si addita una grotta, ma, in realtà, San Girolamo parla soltanto di un “tugurium”, una capanna in cui avrebbe abitato durante il suo soggiorno siciliano e davanti al quale si sarebbe prostrato un soldato della guardia indemoniato che venne a scovarlo (Hier, Vita Hilar. 26,2: «cum servulis suis ascensa in portu nave appulsus est Pachynum, et deducente se daemone, ubi ante tegurium senis se prostravit, illico curatus est»); un “tugurium”, che certamente è più del “tuguriunculum” di giunchi e foglie, in cui la stessa fonte riferisce di aver abitato dall’età di sedici a venti anni prima di costruirsi un’angusta celletta (“exstructa cellula”: Hier., Vita Hilar. 4,1). Ma per il territorio siracusano la documentazione pervenuta che permette di collegare grotta ed eremita in modo certo consta di casi piuttosto tardivi: i primi storicamente accertati sono quelli del piacentino San Corrado Confalonieri (1290-1351), il quale si rifugiò in una spelonca dei monti Pizzoni nell’agro di Noto, e del netino San
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G. MODICA SCALA, Pagine di pietra. Periegesi storico-archeologica, Modica 1990,
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MESSINA, Val di Noto, cit., 76-77.
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Guglielmo Buccheri (1309-1404) a Scicli, il quale, a detta dell’Amico, «per molti anni, ricordammo, essersi celato nelle spelonche»21. Procedendo da Nord verso Sud ricordiamo innanzitutto la Grotta di Sant’Agrippina22 nella campagna di Mineo. La grotta, ubicata nel fondo Lamia, per via delle caratteristiche architettoniche (uso dell’ogiva, presenza di un portale a sesto acuto) appartiene ad un complesso rupestre, già dimora signorile fortificata dei de Lamia, la cui frequentazione sembra che risalga almeno al XIV secolo. Essa era nota già al Fazello, ma non come luogo di culto, e sembra che soltanto nel corso del XVII secolo sia stata occupata da eremiti, dopo che nel secolo precedente venne incentivato il culto locale a Santa Agrippina (nel 1529 furono acquisite le reliquie e il corpo della martire venne accolto nella grotta liberando l’antro dalle presenze demoniache; nel 1572 fu pubblicata la Vita)23. Nella relazione del vescovo di Siracusa Giovanni Battista Alagona Nota de’ Romitori e Romiti esistenti nella diocesi di Siracusa nel 1776, e nel Notamento che ne seguì nel 1792, veniva segnalato un solo eremita, fra’ Silvestro Monaco, di anni 39 circa (nel 1776) che viveva di questua24. Tale romitorio risultava sotto la direzione dei capitolari di Santa Agrippina. Si accede alla grotta dall’alto, attraverso una rampa di scale intagliate nella roccia. La grotta, di origine naturale, è costituita di un grande traforo orientata in senso ENE-WSW che trapassa uno sperone roccioso determinato da un gomito della vallata in cui la grotta si apre. Le aperture risultano tampognate da pareti in muratura ed è stato creato un ambiente di m 13,20 x 9,50, con volta ad ogiva, al cui centro si trova un altare ligneo e due piccoli ossari. Vi sono altri ambienti di 21 V.M. AMICO E STATELLA, Dizionario topografico della Sicilia tradotto e annotato da G. Di Marzo, II, Palermo 1856, 474. 22 MESSINA, Val di Noto, cit., 128-130; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 322; S. AIELLO – A. MESSINA, La grotta di Santa Agrippina nel territorio di Mineo, in Trinakie 1 (2011) 18-22. 23 Sul culto della santa vd. E. FOLLIERI, Santa Agrippina nell’innografia e nell’agiografia greca, in Byzantino-Sicula II. Studi in memoria di G. Rossi Taibbi, Palermo 1975, 209-214. 24 P. MAGNANO, L’eremitismo irregolare nella diocesi di Siracusa, Siracusa 1983, 36, 78, 85.
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servizio: nella parte meridionale della grotta è un ambiente rettangolare che domina il fondovalle, forse con funzione di vedetta; nella parte opposta un angusto corridoio collega con una serie di ambienti con volta ad ogiva e termina con il portale cui si è accennato. Nel territorio di Lentini il fenomeno del trogloditismo è piuttosto diffuso: per varie cripte rupestri, quali le Grotte della Solitudine, il cui toponimo sembra alludere ad un eremitaggio, la grotta di San Mauro, le cui piccole celle fanno pensare a sistemazione cenobitica, e la grotta dei tre santi, è stato ipotizzato la presenza di monaci25. Ma eremiti sono certamente documentati soltanto per la Grotta del Crocifisso26. Questa chiesa rupestre, come suggerito dallo stile degli affreschi più antichi e dalla articolazione planivolumetrica, deve essere stata realizzata nel corso del XIII secolo. Ad essa si accede tramite un ingresso aperto ad Est, a destra del quale, entrando, si trova l’altare murale sormontato da un catino absidale a sezione ogivale con la raffigurazione del Pantokrator. L’aula è di forma rettangolare, ma presenta un recesso in fondo con funzione di servizio; in fondo, per il tramite di un ambulacro, si accede ad un recesso funerario con una cripta. Nella parte occidentale, agli inizi del XVI secolo, venne realizzato un altro altare. Nella parete orientale ed in quella settentrionale avanzano tracce di un subsellium. Anche tutta la parte meridionale, a sinistra dell’ingresso, aveva destinazione funeraria ed era articolata in una cripta e in due vani-ossari. Ricchissima è la decorazione pittorica che si distribuisce tra il XIII ed il XVII secolo27. L’occupazione eremitica sembra piuttosto tardiva: nel 1764 viene sistemato il portale di ingresso, come indica la data incisa sull’architrave, e sembra che nello stesso periodo sia stato costruito un edificio 25
MESSINA, Siracusano, cit., 48-50, 68. MESSINA, Siracusano, cit., 36-48; ID., Val di Noto, cit., 147-148; IDEM, Val Demone e Val di Mazara, cit., 143-144; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 149-153; MESSINA, Sicilia rupestre, cit., 53-54. 27 Per la decorazione pittorica vd. ancora A. ROMEO, Gli affreschi bizantini delle grotte del Crocifisso di Lentini, Catania 1994; C. VELLA, Chiesa rupestre del Crocifisso (Lentini, Siracusa), in Guide archeologiche. Preistoria e Protostoria in Italia, 12. Sicilia orientale e Isole Eolie, a cura di A.M. Bietti Sestieri – M.C. Lentini – G. Voza, Forlì 1995, 450-461. 26
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a cellette per accogliere degli eremiti laici. Per l’anno 1776 sono segnalati quattro eremiti che dipendevano da un canonico della chiesa Madre di Lentini; nel 1792 la presenza eremitica si riduce ad una sola persona28. Presso Augusta, si trova la Grotta della Madonna Adonai29. Si è voluto localizzare nella zona del Monte Gisira episodi della Vita dei martiri della Chiesa di Lentini, in particolare quelli riguardanti il vescovo di Lipari Agatone, il quale, per sfuggire alla persecuzione, si sarebbe rifugiato in un antro del monte Gisira detto Diavolopri, e vi avrebbe dipinto immagini di santi, ma nessun indizio si ha della frequentazione in età paleocristiana né del tempo in cui gli Atti (VIIVIII secolo) furono scritti30. La leggenda vuole che la grotta, ormai interrata, con i suoi dipinti sia stata riscoperta nel XVI secolo da un pastore allorquando un bue vi era sprofondato dal soffitto crollato. Santa Maria di Adonai diventa luogo eremitico grazie all’impulso di un ex capitano dell’esercito spagnolo Luigi Deleòn da Faenza, che qui si ritirò a vita contemplativa tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo e vi morì nel 1742. Nel 1776 vi furono registrati sei eremiti ai quali si aggiungevano un sacerdote e due servi; nell’aggiornamento dell’anno 1792 si ridussero a soli due eremiti31. Si tratta di una grotta naturale, profonda approssimativamente m 5,40 e larga m 5,90 ed alta circa tre metri; di pianta grosso modo quadrangolare, ad angoli arrotondati, con soffitto piano; nella parete rocciosa meridionale si apre una absidiola larga m 1,65 e profonda m 0,80, ed una porta ora tampognata immetteva in un ambiente ipogeico; nella parete settentrionale 28
MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 35, 76-77, 84. G. AGNELLO, L’architettura bizantina in Sicilia, Firenze 1952, 236-242; MESSINA, Siracusano, cit., 86-87; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 247-249. 30 C. GERBINO, Appunti per un’edizione dell’agiografia di Lentini, in Byzantinische Zeitschift 84/85 (1991/1992) 26-36; M. RE, Il codice lentinese dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino. Studio paleografico e filologico, Palermo 2007. Nella Vita sono numerosi i casi di personaggi che vivono nelle grotte: essi sono stati messi in evidenza da D. MOTTA, Percorsi dell’agiografia. Società e cultura nella Sicilia tardoantica e bizantina, Catania 2004, 319-320; ai casi ricordati bisogna aggiungere quello dell’eremita Domezio che vive in una spelonca. 31 MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 34, 74, 84. 29
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una porta, da cui si diparte una rampa di gradini, stabilisce il collegamento con l’attiguo complesso eremitico. Nella parete di fondo si riconosce la figura della Madonna con il Bambino (XVII-XVIII secolo), fiancheggiata da altre figure di santi ora irriconoscibili; nel resto delle pareti si scorgono tracce di affreschi piuttosto tardi. La grotta costituisce l’area presbiterale, il fulcro di una chiesa che verso la fine del ’700 per il resto venne costruita in muratura, con una navata coperta a botte, raggiungendo una lunghezza complessiva di una dozzina di metri. Altri interventi edilizi risalgono al 1839. Un’altra grotta del vicino Monte Tauro, nota come Grotta Longa o Grotta del Monaco, è stata luogo di dimora di un altro eremita32. Più a Sud, a Siracusa è nota la Grotta Santa33: si tratta di una caverna naturale, una delle tante di origine marina che si aprono lungo la costa, profonda fino a m 19,50 e larga fino a m 12,50, con annesso un piccolo ambiente che ha funzione di sagrestia. In essa l’intervento umano si è concentrato soprattutto nella parte di fondo per conferire ad essa una conformazione approssimativa a triplice abside: l’abside centrale più grande, di più ridotte dimensione quelle laterali. Nell’abside centrale trova alloggio l’altare settecentesco, per adattare il quale, è stata rimaneggiata la parte superiore dell’abside; per il resto tutta la caverna mantiene la conformazione originaria propria dell’antro marino con la sua enorme imboccatura tampognata in muratura con l’attuale prospetto settecentesco. Non ci sono elementi per poter stabilire la destinazione cultuale della caverna; l’elemento più antico è un crocifisso che l’Agnello data tra XV e XVI secolo. Soltanto nei primi anni del XVII secolo il culto fu incentivato dalla presenza del pio asceta laico Giuseppe Veneziano34, «che fece della grotta il centro di un modesto ordine religioso», la Congregazione di Gesù e Maria. 32 I. RUSSO, Una inedita passeggiata lungo li sconosciuti sentieri della toponomastica litoranea di Xifonia, Augusta 2010. 33 AGNELLO, L’architettura bizantina, cit., 263-266; MESSINA, Siracusano, cit., 91; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 323. 34 G. CANNARELLA, Cenni biografici del servo di Dio Giuseppe Veneziano, Siracusa 1935; P. MAGNANO, I santi siracusani e i testimoni di vita cristiana del secondo millennio, Siracusa 2004, 54.
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Nell’esteso territorio di Noto sono noti numerosi episodi di trogloditismo35, per alcuni dei quali è possibile pensare che essi siano dovuti a presenze monastiche cenobitiche o eremitiche come nel caso dei Ddieri del bosco di Bauly36. La presenza eremitica è comunque capillarmente diffusa, dovuta all’esperienza fondante di San Corrado Confalonieri, che aveva reso meta privilegiata questa zona per quanti volevano seguire il suo esempio37. Il fenomeno si afferma soprattutto a partire dalla seconda metà del Seicento, grazie anche alla munificenza di alcune famiglie come quelle dei Landolina-Deodato che contribuirono alla costruzione di alcuni romitori e al sostentamento degli eremiti. Eremiti si trovavano presso la chiesa di San Calogero, a Sud dell’Alveria (ma non si sa se fosse rupestre perché la chiesa non è stata ancora identificata), l’eremo di Gesù e Maria presso i Pizzoni a due miglia da San Corrado, l’eremo di San Giovanni Battista, l’eremo della Madonna Marina, l’eremo della Madonna della Provvidenza, Madonna della Vittoria, di Santa Lucia del bosco, di Sant’Erasmo e di San Todaro (!). Ma per limitarsi soltanto ai casi in qualche modo legati al fenomeno rupestre in cui la presenza eremitica è certamente documentata si ricordano gli eremi di Santa Lucia di Mendola, di San Corrado e della Madonna della Scala. L’eremo di Santa Lucia di Mendola38 si trova tra Palazzolo Acreide 35
A. MESSINA, Il trogloditismo di età medievale nell’agro netino, in F. BALSAMO V. LA ROSA (curr.), Contributi alla geografia storica dell’agro netino. Atti delle giornate di studio (Noto, 29-31 maggio 1998), Rosolini 2001, 125-138. 36 G.M. CURCIO, I «Ddieri» di Bauly, in Archivio Storico Siracusano, V-VI (19591960), 129-139. A. Messina ipotizza che anche la grotta dei santi di contrada Pianette fungesse da eremitaggio in dipendenza dall’abbazia cistercense di Santa Maria dell’Arco fondata nel 1212: MESSINA, Sicilia rupestre, cit., 46. 37 S. MAIORE, Eremi e chiese rurali dell’agro netino fra Seicento e Settecento, in BALSAMO – LA ROSA (curr.), Contributi alla geografia storica dell’agro netino, cit., 245282. 38 C. BONFIGLIO PICCIONE, L’eremo di Santa Lucia, Noto 1904; MESSINA, Siracusano, cit., 119-123. GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 40-44, 80-82, 164-165; A. MESSINA, «Ecclesia ubi est fons in crypta». S. Lucia di Mendola, un priorato agostiniano nella Sicilia normanna, in Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), Palermo 2007, 1729-1741.
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e Noto. Presso una sorgente sita a 20 m circa di profondità dal piano di campagna e alla quale si accede tramite una lunga scalinata si installa una necropoli in età tardo antica (rimangono sepolcri a baldacchino, piccole catacombe ed arcosoli, scavati anche lungo la scalinata). La località diviene sede di ambientazione della redazione siciliana della Passio dei Santi Lucia e Geminiano. Quando i santi giungono a Mendola provocano la fuga di demoni e spiriti immondi, operano prodigi tra cui la scaturigine di una fonte la cui acqua possiede poteri taumaturgici; si apprende che si rifugiano a Mendola in una cavità profonda apertasi nella montagna e che infine viene edificata una chiesa nel punto più alto39. In età normanna (1103) un gruppo di monaci agostiniani vi fondarono il priorato di Santa Lucia de Montaneis in dipendenza dell’abbazia calabrese di Santa Maria di Bagnara. Nel profondo delle viscere della terra, presso la sorgente venne realizzata una chiesa absidata con presbiterio delimitato da un’iconostasi a tre arcate (verosimilmente anteriore alla venuta degli agostiniani). Ad un livello intermedio si trovano diversi ambienti ipogeici — uno affrescato con scena cittadina, un quadretto con scena di artigiano e la versione sincopata della Pentecoste —, ed altri ambienti, alcuni dei quali dovevano essere annessi dell’abbazia e, in particolare, la cappella del battistero, semirupestre, absidata, con vasca centrale di forma quadrata ed articolato sistema di adduzione dell’acqua sorgiva, che doveva costituire un annesso della basilica, epigeica, gravemente danneggiata dal terremoto del 1693, e della quale si conservano tre guazzi dello Houel che ne illustrano i ruderi. In effetti versava in un precario stato di conservazione al tempo della visita pastorale del 1593; venne visitata ancora nel 1607 e nel 160940. Circa un secolo dopo, dalla relazione della visita pastorale del 1701 si apprende che nella chiesa di «Santa Lucia detta del Bosco […] al presente vi sono eremiti che la servono». Nel 1712 venne concesso di portare l’abito eremitico al netino Saverio Bonfanti che fino ad allora «ave perseve39 M. RE, La passio dei SS. Lucia e Geminiano (BHG 2241). Introduzione, edizione del testo, traduzione e note, in Nea Rhome 5 (2008) 75-146. 40 Per queste tre visite pastorali vd. MAIORE, Eremi e chiese rurali, cit., 253.
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rato con decoro et edificatione nel romitorio di Santa Lucia»; nel 1743 dalla relazione del De Ciocchis, si apprende che, visitando l’abbazia di Santa Lucia, non vi trovò monaci, bensì tre eremiti41. Dalla relazione del 1776 si apprende che anteriormente a quella data nel romitorio si trovavano uno o due romiti “che vivevano senza freno”. «Ultimamente l’abate Gravina Abate di S. Lucia, cui è soggetto il detto eremo, diede a quel mio parroco l’incarico di invigilare sul medesimo, onde vi chiamò D. Antonino Longo palermitano, che si era ritirato nell’eremo di San Corrado di Noto per abitare in questo, il quale fece tagliare la barba, e fece mandar via Fra’ Salvatore di Palazzolo, perché volea farla da superiore, ed essere dispotico nelle limosine del romitorio. Intanto ne chiamò degli altri, e nello spazio di due anni ne mutò quasi dieci; e al presente vi sono romiti quattro». Nel Notamento del 1792 i romiti registrati sono tre42. L’eremo di San Corrado43 sorge in relazione a una caverna dei Monti dei Pizzoni dove visse e morì l’anacoreta piacentino44. Questa grotta, che fa da cappella laterale alla chiesa settecentesca dell’eremo, è una ambiente a pianta quadrangolare di m 5,30 x 2,90, con soffitto piano, aperto ad Oriente; munito di abside nella parete di fondo, con un altare a mensa non più esistente, e di subsellium del quale resta parte presso la parete di fondo. Le pareti sono ricoperte di intonaco affrescato, di cui si contano almeno tre strati; nell’abside si riconoscono tracce della figura della Vergine, che, secondo la tradizione, sarebbe stata fatta affrescare dallo stesso San Corrado. Dalla relazione della visita pastorale del 1701 si apprende che erano presenti pure le figure di San Giovanni Battista e di San Calogero «nell’altro altare sta nel muro effigiata di pittura antica la SS.ma Vergine n.ra Sig.ra, San Giovanne Batt.a, e S. Calogero»45.
41
Ibid., 265. MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 81-82, 85. 43 MESSINA, Siracusano, cit., 140-141; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 173-174. 44 Sul santo vd. F. BALSAMO – V. LA ROSA (curr.), Corrado Confalonieri: la figura storica, l’immagine e il culto, Noto 1992. 45 MAIORE, Eremi e chiese rurali, cit., 249-250. 42
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La grotta divenne luogo di culto subito dopo la beatificazione del pio eremita. Da un’ottava di G. Pugliese46 si evince che nel tardo Cinquecento esistevano dei dammusi in cui gli eremiti vivevano, (ma un eremo vero e proprio venne edificato soltanto nel Settecento). Per l’anno 1605 è attestata la ecclesia sub titulo Beati Corradi in territorio civitatis Noti, la quale venne visitata da D. Pasquale Formica, visitatore generale del vescovo Giuseppe Saladino. Sappiamo che ivi dimoravano un sacerdote e quattro fratelli secolari che vestivano la tunica di San Francesco47. Dalla relazione sulla visita pastorale di Mons. Francesco Fortezza, vescovo di Siracusa, svolta nel 1689, si apprende che la Chiesa dell’eremo aveva quattro altari, dei quali, oltre all’altare maggiore, di uno soltanto vi è particolare indicazione, di quello, cioè, della grotta di S. Corrado. Vi erano quattro eremiti ed otto celle (quattro celli a modo di grutta, altri quattro celli di sotto) e si menziona infine un giardino (viridarium)48. In seguito al terremoto del 1693 la chiesa di San Corrado fu «dal terremoto rovinata […] essendone dell’antico rimasta solo la grotta», ma venne ricostruita già nel 1696, e dalla visita del 1701 si apprende che vi erano due altari, il maggiore e quello nella grotta del Santo49. Accanto a questa chiesa fu costruito o riattato un eremo, già esistente nel 1707; una seconda chiesa di maggiori dimensioni fu edificata nel 1712 al posto della precedente. Alla metà del secolo (1751) furono costruiti gli edifici attuali, per l’iniziativa di fra’ Luigi Belleri da Pavia50. Tra i nomi celebri di eremiti che raccolsero l’eredità spirituale di San Corrado si ricorda frat’Alfio Cazzetta da Melilli (1635-1708)51 che 46
G. PUGLIESE, Vita e miracoli del beato Corrado Piacentino, Noto 1859, canto X,
40. 47
MAIORE, Eremi e chiese rurali, cit., 249-250. C. GALLO, Una visita pastorale di Monsignor Fortezza a Noto e lo stato della chiesa netina prima del terremoto del 1693, in Studi in memoria di Carmelo Sgroi (18931952), Torino 1965, 467. 49 MAIORE, Eremi e chiese rurali, cit., 259 e 262. 50 Ibid., 263 e 271. 51 G. RENDA RAGUSA, Breviario della vita, e virtù del servo di Dio, frat’Alfio di Melilli, romito di Noto, Messina 1718. 48
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vi fu eletto superiore, morto in odore di santità, il quale accolse nel romitorio sia il servo di Dio Fra’ Girolamo Terzo da Noto che il venerabile servo di Dio Fra’ Pietro Gazzetti originario di Poggio di Moncerato (Reggio Emilia). Fra’ Girolamo Terzo nel 1710 fu scelto dal vescovo di Siracusa Asdrubale Termini come superiore del romitorio di Santa Maria della Scala e successivamente, nel 1731, quale visitatore di tutti gli eremi della diocesi. A fra’ Pietro Gazzetti frat’Alfio affidò l’eremo di San Giovanni La Lardia, sempre nel tenere di Noto. Per l’anno 1776 nel romitorio di San Corrado sono registrati ben tredici eremiti, del cui tenore di vita si forniscono informazioni52. Per quanto riguarda l’eremo netino della Madonna della Scala53, secondo la tradizione divulgata da Vincenzo Littara54, il quale riporta l’atto notarile del rinvenimento del 10 marzo del 1498, copiato anche in un manoscritto del 1756 conservato nella Biblioteca Comunale di Noto, in contrada Passo dei Buoi venne scoperta in circostanze prodigiose una grotta, insieme agli affreschi murali con la raffigurazione di una Crocifissione e di Santa Venera. Dell’ingrottamento, aperto a Nord, si conserva soltanto la parete di fondo ed un breve tratto di quella orientale scavata nella roccia. Questa ha una larghezza di m 4,80, conserva l’altare a mensa, già sormontato dall’affresco di cui si è detto e che è stato trasportato nel 1712 nella chiesa edificata nei pressi della grotta. Nella ripresa moderna della grotta la parte avanzata venne costruita in muratura e fu realizzata una copertura a doppio spiovente; la profondità della chiesa è di m 5,50 e l’altezza massima di m 4,80. La chiesa di Santa Maria della Scala venne eretta tra la fine del secolo XVI e l’inizio del successivo: nel 1614 era officiata55. Dopo che
52
MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 36, 79-80. C. BONFIGLIO PICCIONE, Santuario della Madonna della Scala, Noto 1885; A. FRANZÒ, Maria SS. Scala del Paradiso. Storia del più insigne Santuario mariano della Diocesi di Noto, Noto 1956; MESSINA, Siracusano, cit., 140; F. BALSAMO, La pittura rupestre della Madonna della Scala alla luce delle fonti e della critica storica, in Atti e Memorie ISVNA XVI (1985) 29 ss.; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 187-188. 54 De rebus netinis, Palermo 1593, 131-132. 55 MAIORE, Eremi e chiese rurali, cit., 254. 53
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il terremoto del 1693 aveva distrutto un edificio sacro più antico, accanto alla grotta vennero eretti una chiesa e un eremo edificati già nel 1709, allorquando il vescovo in corso di sacra visita, concesse la licenza di benedizione, e, qualche mese dopo, anche la licenza di portare l’abito eremitico a sette eremiti «per servire il nuovo eremitorio della Madonna della Scala fabricato a loro spesi». La donazione comprendeva anche la valle dove era sita la «diruta chiesa e la Sacra Immagine di Maria della Scala» che nel 1712, su disposizione del superiore dell’eremo, Fra’ Girolamo Terzo (1683-1758), fu “tagliata” e trasferita nella nuova chiesa. Nel 1741 l’eremo venne trasformato in convento carmelitano56. Nella campagna ad Ovest dell’abitato di Rosolini si trova la Grotta di San Teodoro di Croce Santa57. Si tratta di un complesso cultuale rupestre piuttosto articolato, impiantatosi nell’area di una precedente necropoli tardoantica. Si succedono almeno tre, forse quattro, strutture chiesastiche: alla fase più antica appartiene la parte absidale di una chiesa intagliata nella roccia nella parte più ad Est del complesso (I), con cattedra, al centro di un subsellium che corre lungo l’abside. Il resto della chiesa era invece costruito con grossi blocchi. Questa chiesa potrebbe anche datarsi al VI-VII secolo, ma c’è chi, come Messina e come Giglio, la colloca ad età normanna. Una seconda chiesa è stata riconosciuta nella parte occidentale del complesso (II): di essa resta molto poco a causa dei crolli, ma sembra che avesse carattere interamente rupestre. Altri due ambienti absidati (III e IV; corrispondenti, rispettivamente, a III e a II del Giglio), realizzati dopo il crollo della II chiesa, forse appartengono ad un’unica grande chiesa che sarebbe andata distrutta e potrebbero costituirne i vani absidali. Ma è meglio forse continuare ad ipotizzare che si riferiscano a due chiese differenti. La chiesa IV del Messina e II del Giglio è ipogeica e presenta ingressi laterali che la mettono in comunicazione con la chiesa III e con altri ambienti ipogeici che dovevano servire per 56
Ibid., 265. F. MALTESE, Notizie dell’eremo di Crocesanta in Rosolini, Ragusa 1901; MESSINA, Siracusano, cit., 153-160; MESSINA, Val di Noto, cit., 153-154; GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 118-124. 57
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l’alloggio degli eremiti; è absidata con subsellium che corre lungo l’emiciclo dell’abside. La chiesa III è con avancorpo costruito in muratura. Si presenta con abside delimitata da colonnine con capitelli a cuscinetto ed un altare murale. Questa chiesa presenta diversi pannelli pittorici in cui sono riconoscibili San Vincenzo, San Giacomo, una Mater Domini, e, dopo un pannello distrutto, un santo monaco, San Giovanni Battista, un santo vescovo orientale, Santa Caterina d’Alessandria, un santo vescovo, la scena dell’Annunciazione, e, dopo un altro pannello distrutto, San Pietro. Una iscrizione su lastra di marmo ne indica lo scavo nell’anno 1533, anno in cui sarebbe stata rinvenuta una croce dipinta su tavola. In quell’anno il complesso cultuale ricevette particolare impulso; successiva dovrebbe essere l’installarsi in questo luogo di una presenza eremitica attestata certamente per l’anno 1792, allorquando sono documentati tre eremiti che risiedevano presso l’Eremo di Croce Santa58. A Modica, infine, si registra un caso di eremitismo presso la chiesa semirupestre di Santa Maria della Provvidenza59. Tra il 1661 ed il 1662 l’Università di Modica fece impiantare la chiesa in un antro che faceva da pendant alla vicina chiesa semirupestre di San Rocco ed in cui preesisteva una miracolosa raffigurazione della Madonna fra San Filippo e Sant’Orsola, un pannello largo m 1 x m 0,67. Questa chiesa, insieme alla contigua chiesa di San Rocco, anch’essa semirupestre, venne visitata nel 1683 dal vescovo di Siracusa, Mons. Fortezza60. In un periodo non molto successivo, che forse si può riportare a dopo il terremoto del 1693, venne costruita una chiesa mononave, il cui presbiterio è separato dall’aula con un arco di trionfo che delimita il precedente antro; quest’ultimo venne foderato da cortine di muratura che però risparmiarono l’affresco miracoloso di cui si è detto, inquadrato da 58
MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 86. V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, Notizie preliminari sulle chiese semirupestri di Santa Maria della Provvidenza e di San Rocco a Modica, in Archivum Historicum Mothycense 3 (1997) 45-56; ID., Nuovi dati sulla tarda “architettura rupestre” di carattere sacro a Modica, in Archivum Historicum Mothycense 4 (1998) 68-69; ID., Per una classificazione tipologica, cit. 60 P. MAGNANO, Il vescovo di Siracusa Francesco Fortezza e la sua visita pastorale a Modica nel 1683, in Archivum Historicum Mothycense 11 (2005) 46. 59
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cornici e fiancheggiato da volute e da girali di acanto sostenuti da mensole modanate; sopra questa edicola si affacciano tre angeli; al soffitto è un cupolino a guisa di ciborio dove è scolpito lo Spirito Santo in forma di colomba circondato da raggi. Le decorazioni sono eseguite in pietra calcarea e stucco dorato. Sotto l’edicola vi doveva essere l’altare murale. La precedente chiesa rupestre diviene zona presbiteriale, il fulcro di una nuova chiesa per il resto costruita in muratura, come Santa Maria della Cava e San Sebastiano a Spaccaforno, Santa Maria Adonai presso Augusta/Brucoli e Santa Maria la Scala a Noto. Attiguo è un ambiente rupestre ed altri ambienti che dovettero servire da sagrestia e da abitazione e ad accogliere malati di sifilide che si facevano curare da un eremita, secondo quanto è possibile evincere dalla relazione sui romiti redatta dal vescovo Alagona nel 1776: «Il secondo romito sta nella chiesa di Santa Maria della Provvidenza chiamato Fra Bernardo di età avanzata, ma è un pazzo. Fa l’ufficio di chirurgo. Cura il morbo sifilico ad uomini e donne, sebbene tal ufficio non si confaccia con la vita romitica, ed egli non ha buona fama». Un eremita che serve da sagrestano alla chiesa — lo stesso fra’ Bernardo? — è registrato ancora nel Notamento del 179261. Molto probabilmente a causa dell’alluvione del 1833, la chiesa venne semidistrutta e abbandonata se risulta diroccata in un documento del 1866 e compare nel novero di quelle distrutte in tutto o in parte nel 1869. L’abitare in grotta è certamente indice di povertà, espressione di una scelta consapevole di rifuggire da una dimensione di agio e di comodità, per abbracciare quella scelta di nascondimento e di povertà fatta già da Gesù Cristo, il quale, secondo la tradizione successiva, già al momento del suo nascere al mondo sarebbe stato accolto in una grotta62. Non bisogna d’altro canto trascurare anche la suggestione esercitata dal contatto diretto con la nudità della terra e dalla carica di antichità primordiale che promana dalla caverna. A ciò ancora si aggiunga il recupero intellettualistico — al quale 61
MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 36, 79, 85. Cfr. G. BELLIA, Chiese rupestri e monaci di Sicilia. Indagine sulla cultura grottale del più antico cristianesimo dell’isola, in Ho Theologos 21 (2003) 254-255. 62
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non è estraneo lo spirito controriformistico del Cinque e Seicento — , che spinge a riprendere la frequentazione della grotta: come è stato osservato da Giglio «la cavità (artificiale o naturale che sia) viene risemantizzata in chiave di maggiore sacralità e riutilizzata in senso cultuale»63, soprattutto con questo intendimento a partire proprio dall’età moderna. Infatti, come si evince da questa rassegna si tratta nel complesso di episodi piuttosto tardivi, che solo tradizioni recenti hanno voluto collegare a santi eremiti della chiesa primitiva, come nel caso di Sant’Ilarione a Cava Ispica o nei dintorni. Gli episodi cultuali più recenti, inoltre, sono dovuti o connessi in qualche modo alla inventio di immagini sacre dipinte — spesso integralmente ridipinte — nelle grotte: così a Modica, Santa Maria della Provvidenza, a Noto, Santa Maria della Scala, ad Augusta, Santa Maria Adonai; o alla inventio di Crocifissi: così a Rosolini, San Teodoro; a Siracusa, Grotta Santa); o, infine, alla incentivazione di culti connessa con l’arrivo di reliquie (Mineo, Sant’Agrippina). Spesso si tratta, cioè, di santuari o di luoghi di culto che diventano centri di attrazione, presso i quali si coagulano forme di vita religiosa. Occorre però fare attenzione: il fenomeno dell’ipogeismo in questa fase tardiva dell’eremitismo è spesso limitato alla grotta presso la quale i religiosi servono: così, ad esempio, a Lentini, l’eremo è esterno alla chiesa rupestre; così anche a Noto (Santa Maria della Scala), a Brucoli di Augusta (Santa Maria Adonai); in taluni casi tali eremiti fungono da sagrestani dell’ambiente sacro rupestre o sono adibiti per la custodia, il culto e altre attività religiose, ma per il resto essi vivono in più comodi edifici costruiti. Questi eremi, inoltre, non erano inoltre ubicati lontano dai centri abitati, se non addirittura nella periferia dei paesi come nel caso di Santa Maria della Provvidenza a Modica; facilmente raggiungibili dai paesi, essi soddisfacevano il bisogno popolare del pellegrinaggio ed erano anche luoghi di ritrovo per feste e sagre campestri (Rosolini, Croce Santa). In merito alla forma di vita religiosa condotta da questi uomini c’è 63
GIGLIO, La cultura rupestre, cit., 12.
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da considerare che si tratta prevalentemente di laici — raramente tra loro sono presenti sacerdoti come a Santa Lucia di Mendola64 — , i quali non sono propriamente eremiti, se non nei casi più antichi, quelli di Guglielmo Buccheri e Corrado Confalonieri, in qualche modo legati, peraltro, alla spiritualità francescana65. Successivamente sono più frequenti forme di vita religiosa aggregata (il Crocifisso a Lentini, Santa Lucia di Mendola, Croce Santa a Rosolini), talora sviluppatesi in seguito dell’iniziativa di singoli asceti come nel caso dell’eremo di Santa Maria Adonai a Brucoli. Queste forme di vita comunitaria sono state quindi irreggimentate nelle spiritualità francescana (Eremo di San Corrado a Noto) e carmelitana (Eremo di Santa Maria della Scala a Noto)66.
64
Cfr. MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 31, 81-82. G. ANDREOZZI, Il movimento penitenziale francescano in Sicilia nei secoli XIIIXIV, in Francescanesimo e cultura in Sicilia (secc. XIII-XVI).Atti del convegno internazionale di studio nell’ottavo centenario della nascita di San Francesco d’Assisi (Palermo, 7-12 marzo 1982), in Schede medievali 12-13 (1987) 139. 66 MAGNANO, L’eremitismo irregolare, cit., 20-21. 65
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ROBOETICA, UN NUOVO PONTE VERSO LA CONOSCENZA*
GIOVANNI BASILE**
INTRODUZIONE La roboetica nasce nell’ambito della bioetica. Con questo termine il dr. Potter si riferiva all’etica filosofica e alla biologia, affermando che “i valori etici non possono essere disgiunti dai fatti biologici”. Mettendoli insieme si costruisce un nuovo “ponte verso la conoscenza”1. In quanto figlia della bioetica, anche la roboetica è “strumento di conoscenza”, poiché nella costruzione dei robot concorrono tante altre scienze: meccanica, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, psicologia, logica, linguistica, matematica, biologia, fisiologia, filosofia, etica, arti espressive, design, giurisprudenza, ecc. Considerando, inoltre, che nella nostra società il concetto di persona è in crisi e che l’uomo è stato svuotato di tutto il suo mondo valoriale classico, per evitare che si avveri l’oscura profezia di un mondo dove gli esseri umani non siano più persone e che le persone non siano più esseri umani, nasce la necessità di dare un’etica alla robotica, cioè investirla di responsabilità, quindi di fondare una roboetica2. * Estratto della tesi di Licenza in Teologia morale, discussa l’8 ottobre 2010 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Mario Cascone. ** Licenziato in Teologia morale. 1 Cfr. G. PIANA, Bioetica tra scienza e morale, Torino 2007, 8. 2 Cfr. A. FABRIS-S. BARTOLOMMEI-E. DATTERI, Quale etica per la robotica?, in Teoria. Ethicbots Etica e Robotica 27 (2007) 7-17.
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Anche in Teologia morale i tempi sono maturi affinché si affrontino queste nuove questioni, cioè il futuro uso etico dei robot e la proposta della roboetica come nuova forma di relazionalità e conoscenza, che possano interagire per andare oltre il paradosso di una tecnoscienza che nel secolo scorso ha espresso una fede nell’autoredenzione dell’uomo. La robotica sta penetrando molti spazi della nostra vita. Dopo la robotica industriale, la robotica di servizio ha raggiunto le nostre abitazioni. Fra circa 20 anni, avremo un “robot in ogni casa”, che diventerà come un oggetto di uso comune3. Le macchine stanno diventando sempre più autonome, capaci di assumere decisioni. Quali i vantaggi? E quali i pericoli che potrebbero sorgere in un futuro ormai prossimo? Sono le domande su quelle problematiche etiche che la ricerca scientifica inevitabilmente pone. Nell’immaginario collettivo, la mente umana ha sempre collocato tali conoscenze tra i “sogni”, tra le “cose desiderabili ma impossibili”, invece adesso succede che qualcuno ha incominciato a costruirli e così i robot sono visti come strumenti del progresso civile e sociale dell’umanità. Sono stati aperti filoni applicativi con forti contenuti umanitari ed ecologici, con l’obiettivo di sviluppare tecnologie utili alla salvaguardia del pianeta e dei suoi abitanti, per migliorare la qualità della salute e della vita dei cittadini, ma anche purtroppo filoni dedicati allo sviluppo di armi intelligenti. I recenti progressi della tecnica fanno perciò ritenere che questo sarà il secolo dei robot e che la Robotica sarà causa di profondi mutamenti del nostro modo di vivere. Infatti essa sta iniziando a porre problemi etici, ancora poco dibattuti, ma che saranno sempre più rilevanti a mano a mano che le sue applicazioni verranno sviluppate. Questo perché in essa è particolarmente stretta l’interazione con gli esseri umani e molte sono le affinità con alcune problematiche della bioetica4. Già oggi noi conviviamo con i robot. Questi non hanno forma 3
Cfr. B. GATES, Un robot in ogni casa, in Le Scienze gennaio (2007) 30-37. Cfr. S. LEONE (cur.), L’uomo artificiale. Sfide morali, antropologiche e religiose della roboetica, Palermo 2009, 5-8. 4
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umana, esistono ed aiutano l’uomo in molte attività quotidiane. La loro diffusione e il loro continuo miglioramento tecnico potranno cambiare la vita di molti, come accade già con le protesi biomediche, ad esempio, o l’uso per le disabilità più svariate5. Questo vuol dire che il concetto di roboetica si è già introdotto nella vita dell’uomo, che è stata cambiata dall’avvento della robotica. Ogni avanzamento della ricerca può portare ad un beneficio, ma mette nelle mani dell’uomo strumenti sempre più sofisticati e potenti, che proprio per questo sono anche sempre più pericolosi. L’uomo sarà in grado di autoproteggersi? Saprà fare un uso saggio della tecnologia? La roboetica nasce dal bisogno che la persona umana sia al centro dell’interesse della ricerca scientifico-tecnologica. Perciò dobbiamo capire bene che come i robot possono salvare l’uomo, così potrebbero condannarlo a morte. Per lo sviluppo della robotica: sarebbe importante non ripetere gli stessi errori di valutazione verificatisi nella rivoluzione nucleare, come è emerso in alcuni convegni internazionali di roboetica a cui ho partecipato6. Dietro alla macchina c’è sempre l’uomo, per cui alle problematiche tecnologiche dobbiamo aggiungere quelle antropologiche. Più i robot saranno in grado di imparare, più si porrà il problema roboetico. Sembra necessario un ampio dibattito che porti, come si cerca di fare già da tempo con la bioetica, alla nascita di alcuni principi comuni che possano fondare la roboetica. È cioè necessario un insieme di conoscenze in grado di “evidenziare un sistema di riferimento etico che possa far comprendere la roboetica come elemento significativo nel raggiungimento del perfezionamento dell’uomo”7. Questo conferisce una positività antropologica alla robotica che è stata fortemente messa 5
Cfr. F. D’AGOSTINO, La legge naturale e le biotecnologie, in L’Arco di Giano. Le sfide morali del post-umano: roboetica, biopotenziamento e macchine senzienti autunno (2008) 105-106. 6 “ICRA 2007”, Conferenza internazionale sulla Robotica e Automazione tenutasi presso l’“Angelicum”, nell’aprile del 2007 a Roma, e Simposio internazionale “Robotics: A New Science” che si è tenuto il 20 Febbraio 2008, sempre a Roma, presso la prestigiosa “Accademia dei Lincei”. 7 J. M. GALVÁN, La nascita della tecnoetica, in http://www.usc.urbe.it/html/php/ galvan/mosca.pdf (23.05.2005).
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in dubbio da molti settori della scienza e della cultura. A tale scopo bisogna vedere la tecnologia come prodotto dello spirito dell’uomo, al di sopra della scienza stessa, cioè occorre considerare la tecnologia come dato del pensiero dell’uomo e non solo come dato materiale dell’uomo. Ciò vuol dire che lo sviluppo tecnologico, e quindi la robotica, come suo ulteriore approfondimento, va collocato all’interno di una nuova visione antropologica, perché la tecnologia ha come oggetto l’incremento della relazionalità umana8. La macchina non trionferà sull’uomo essa è frutto del suo ingegno e finirà per servire alla sua realizzazione teleologica, cioè al bene dell’uomo: più la tecnologia si sviluppa, più essa si nasconde e si manifesta la persona. Ma se è vero che l’umanità è tecnologica per natura, è tuttavia anche vero che il fare troppo affidamento sulle innovazioni tecnologiche porta ad una disumanizzazione delle persone, limitando l’uso normale e lo sviluppo delle loro capacità. Questa è una questione paradossale: da una parte, l’uomo d’oggi ha una grandissima dipendenza tecnologica; dall’altra parte tende a credere che la tecnologia sia antiumana, una realtà dalla quale bisogna difendersi. La proposta della roboetica dovrà servire, appunto, a superare il suddetto paradosso. 1. LA ROBOETICA: INCOGNITE E PROBLEMI I robot sono già fra noi, e le domande che ne derivano e che esigono risposta sono molteplici: un robot potrebbe fare delle cose “buone” o/e “delle cose cattive”? Quali sono gli obiettivi ed i valori che la robotica intende perseguire? Quali interrogativi etici derivano dallo sviluppo della robotica? Qual è l’impatto sociale provocato dall’introduzione di robot nella nostra vita? Quali potrebbero essere, le regole per un impiego etico dei prodotti della robotica? Se una macchina uccide un essere umano di chi è la colpa? Della macchina, del costruttore, del venditore? Un robot potrà essere consapevole 8 Cfr. J. M. GALVÁN, La robotica come speranza: la tecnoetica, in I. SANNA (cur.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza, Roma 2005 (La Dialettica 22), 102.
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delle proprie azioni? Potrà avere una coscienza? Ma un robot è solo «una piattaforma comune di lavoro per esperimenti delle scienze della natura e della scienze umane. È una macchina sofisticata dotata di intelligenza e costituisce pertanto il terreno ideale di incontro fra le due culture, quella umanistica e quella tecnico-scientifica»9. Nessuna disciplina potrà evitare di fare i conti con l’ingresso dei robot nella società. Infatti, a differenza degli altri settori in cui il progresso crea “oggetti”, critici a seconda dell’uso che ne fa l’uomo, in questo caso il progresso crea, o rischia di creare, “soggetti” autonomi10. Pensiamo ad un umanoide - fisicamente simile a un essere umano utilizzato in casa come aiuto, assistenza, compagnia. Questa macchina sarà gradevole, veloce, infaticabile, risponderà a ogni nostra domanda perché potrà collegarsi alle banche dati mondiali. A mano a mano che ci abitueremo a questo tipo di compagno, è inevitabile che si possa creare una dipendenza psicologica da questa macchina, con il rischio di attribuirle caratteristiche umane, sviluppando nei suoi confronti sentimenti umani di odio o amore11. Lo stesso dicasi per i sexy robot e il settore degli armamenti. La disponibilità di questi combattenti non-umani e l’illusione che tutto si riduca a un videogioco rischia di generare una nuova escalation in grado di mettere in pericolo il futuro dell’umanità12. Ma questo meraviglioso automa rimane una macchina che si può rompere, fare qualche cosa di sbagliato o potenzialmente dannoso nei nostri confronti. Prevedendo ciò, nel 1942 Isaac Asimov formulò le “tre leggi della robotica”, che, inserite in modo irreversibile nel “cervello positronico” dei suoi robot, imponevano a questi di essere al servizio del benessere degli uomini e impedivano loro di fare del male. 9 Definizione di robot data a Sanremo nel 2004 nel corso del Primo Simposio Internazionale sulla Robotica, in http://www.scuoladirobotica.it (01-12-2004). 10 G. VERUGGIO, Io robotico, in Intelligenza artificiale: dal test di Turing alle macchine pensanti, Roma 2005 (Frontiere 6), 140. 11 Cfr. G. VERUGGIO, La roboetica e la sfida della rivoluzione robotica, in I. SANNA (cur.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza, Roma 2005 (La Dialettica 22), 94. 12 Cfr. ibid., 95.
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Ma bastano le tre leggi per rendere sicuri i robot? Le macchine raggiungeranno una forma di intelligenza qualitativamente paragonabile a quella dell’uomo? Fino a una domanda di natura metafisica: i robot potranno essere un giorno considerati persone13? In questo dibattito si fronteggiano già due concezioni antropologiche profondamente differenti e inconciliabili: da un parte, l’idea che l’uomo coincida con le sue qualità, le sue capacità, i suoi attributi. In questo caso, l’uomo è tale quando si manifestano intelligenza, capacità di relazione, capacità di pensare sé stesso, capacità di formulare delle domande sensate14. Paradossalmente, date queste premesse si potrebbe sostenere che ci sono uomini che non sarebbero da considerare tali; e vi sono non-uomini (come un animale, o un computer) che sarebbero da considerare uomini, poiché ne possiedono alcune qualità. A questa aberrante prospettiva si contrappone l’idea che l’uomo non sia definibile secondo i suoi attributi, ma che l’identità personale costituisca semmai un presupposto degli attributi. L’intelligenza, la capacità di autopensarsi, la relazionalità, sono dei requisiti tipici dell’uomo; essi rivelano l’esistenza della persona, ma non coincidono con essa. L’essere precede inevitabilmente ogni suo attributo; mentre nessun attributo è possibile senza l’ente che possiede quel certo attributo, almeno in senso ontologico15. Un malato in coma, un embrione, un pazzo, sono certamente degli esseri umani, anche se non manifestano alcuni tratti caratteristici dell’uomo; un computer sofisticatissimo, o uno scimpanzè molto dotato, non saranno mai delle persone. Tuttavia vi è ragione di credere che per motivazioni ideologiche, legate alla volontà di abbassare o (eliminare) la tutela giuridica di certi esseri umani, presto si andrà affermando questo incredibile capovolgimento, per cui gli uomini verranno trattati come cose e le cose come uomini16. Il termine robot deriva dal termine ceco robòta, che significa 13 Cfr. C. T. A. SCHMIDT, Qualche problema con la nozione di identità, in Teoria. Ethicbots Etica e Robotica 27 (2007) 87-89. 14 Cfr. M. CASCONE, Diakonia della vita. Manuale di bioetica, Roma 2004, 75-78. 15 Cfr. ibid., 79-81. 16 Cfr. M. PALMARO, Intelligenza artificiale e bioetica, cit.
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“lavoro pesante” o “lavoro forzato”. L’introduzione di questo termine si deve allo scrittore ceco Karel apek, il quale usò per la prima volta il termine nel 1920 nel suo dramma R.U.R. (Rossum’s Universal Robots)17 per indicare automi che lavorano come operai e che si ribellano allo sfruttamento dell’uomo, eliminando l’umanità dalla faccia della Terra. Il termine “robotica”, invece, venne usato per la prima volta nel racconto di Isaac Asimov del 1942 intitolato Circolo vizioso, presente nella sua raccolta Io, Robot. In esso, egli citava le tre regole della robotica18, che in seguito divennero le Tre leggi della robotica (poi accresciute a quattro con l’introduzione della Legge Zero: Un robot non può danneggiare l’umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’umanità venga danneggiata): 1. Un robot non può danneggiare un essere umano o, attraverso l’inazione, consentire che un essere umano venga danneggiato. 2. Un robot deve obbedire agli ordini dati dagli essere umani, tranne che tali ordini entrino in conflitto con la prima legge. 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché tale protezione non entri in conflitto con la prima o con la seconda legge. Dalla letteratura alla scienza il passo è stato breve. Dal Giappone stanno arrivando i primi robot casalinghi. Già si vedono aspirapolvere robotici e ci sono numerosi umanoidi vicini alla commercializzazione: saranno disponibili nel giro di qualche anno. Il ministero giapponese per la Tecnologia prevede che nel 2020 il fatturato dell’industria dei robot supererà quello delle auto. Ci stiamo preparando al secolo dei robot19. Come si vede il problema è molto più immediato di quanto si pensi, perché dobbiamo prepararci alle profonde modificazioni create dall’ingresso nel nostro spazio vitale di un’infinità di macchine intelligenti: nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali e nelle case. Sono una risorsa, ma costituiscono anche un peri17 Cfr. K. CˇAPEK, Origine del termine robot, sul web http://it.wikipedia.org/wiki/ Robot (30.06.2006). 18 Cfr. A. RIZZACASA, Roboetica e post umano, in ßio-ethoj 3 (2010) 67. 19 Cfr. C. PALMERINI, Diamo una morale ai robot, sul web http://lgxserver.uniba.it/ lei/rassegna/040218c.htm (04.07.2006).
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colo, perchè se un criminale si impadronisse del controllo anche di un solo sistema robotico, per la sua connessione al web potrebbe controllare tutta la tecnologia: sistemi informatici, comunicazioni, banche dati, sistemi di sopravvivenza, trasporti, armamenti, ecc. Sono interrogativi pragmatici e drammatici, anche sulla libertà individuale. Sembrano visioni fantascientifiche ma in realtà sono tecnicamente possibili in tempi brevi. Il termine “Roboetica” è nato a Sanremo nel 2004 nel corso del Primo Simposio Internazionale sulla Robotica20, ad opera dell’ingegnere Gianmarco Veruggio che ha coniato il neologismo in collaborazione con il teologo moralista José Maria Galván. Prima di allora non esisteva. Oggi, dopo otto anni di vita, la Roboetica ha fatto grandi passi ed è considerata una disciplina necessaria e su cui si appuntano interessi, dibattiti e attenzione, soprattutto perchè è diventata una delle chiavi del progresso economico. La Roboetica è ormai un tema fondamentale per gli scienziati e per gli studiosi che si occupano della materia, perché contiene i principi dell’etica da applicare alla robotica. Essa è destinata a sollevare un gran numero di problemi etici21. I possibili campi di applicazione della roboetica, robot militari, bionica, nanorobot, sesso, servizi, ecc., aprono a problemi attualissimi per il possibile e deliberato abuso delle tecnologie robotiche, che può arrivare fino al terrorismo. I robot del futuro saranno computer pensanti dotati di intelligenza artificiale con la quale possono anche replicare sé stessi. Questa riproduzione, se incontrollata, può diventare uno dei pericoli nelle nuove tecnologie. L’inevitabile conclusione è che non solo dovremo dotare i robot di coscienza, non appena potremo farlo, ma se lo potremo, creare macchine dotate di qualità morali così come della dimensione intellettuale, sarà nostro dovere verso il futuro dell’umanità per far prosperare e promuovere tutti i valori in cui crediamo22. 20
Cfr. M. C. CARROZZA – P. DARIO – P. SALVINI – C. LASCHI, La biorobotica. Dall’invenzione dell’uomo artificiale ai sistemi bionici ibridi, in M. GRONCHI (cur.), Sull’identità umana. Teologia e scienza in dialogo, Pisa 2007, 110. 21 Cfr. A. RIZZACASA, Roboetica e post umano, cit, 68-69. 22 Cfr. R. MANZOTTI – V. TAGLIASCO, Etica delle macchine e “coscienza artificiale”, cit., 38-42.
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L’universalità di tale necessità bene è stata espressa anche dal Santo Padre Giovanni Paolo II: «Tutte le società riconoscono la necessità di controllare questi sviluppi e di garantire che le nuove pratiche rispettino i valori umani fondamentali e il bene comune»23. Ma c’è anche un altro rischio nel rischio. Può l’umanità intera partecipare a questa azione etica? C’è l’auspicio della Chiesa: «In questo processo vinca l’umanità tutta e non solo un’élite ricca che controlla la scienza, la tecnologia, la comunicazione e le risorse del pianeta»24. La roboetica è una sfida che l’uomo lancia a sé stesso, alla capacità di programmare, tecnologicamente ed eticamente. È una sfida morale emergente dalla consapevolezza delle proprie possibilità e dalla fiducia nei mezzi da utilizzare. La qualità della vita in quell’universo affidato dal Creatore alle mani responsabili dell’uomo può e deve essere sempre migliorata25. La scienza e la tecnica non sono mai neutre: possono essere “neutre” in quanto strumento, ma cessano di esserlo nel momento in cui vengono usate per uno scopo26. La scienza sperimentale — in quanto attività non neutra — non può limitarsi a guardare solo all’aspetto tecnico, all’utilità, senza interrogarsi sui fini, sugli obiettivi, sulla metodologia, sui mezzi, sulla realtà sulla quale si sta sperimentando27. La scienza appartiene alla persona e ne rispecchia dignità e respon23 GIOVANNI PAOLO II, «L’etica richiede che i sistemi si adattino alle esigenze dell’uomo e non che l’uomo venga sacrificato per la salvezza del sistema», Discorso ai membri della Pontificia Accademia delle scienze sociali, 27.04.2001, 2, in Insegnamenti, XXIV (2001) 1, 800. 24 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, Documento Etica in Internet (22.02.2002), 10, in EV, 21/113. 25 Cfr. F. CONIGLIARO, Tecnologia, in R. PUCCI – G. RUGGIERI (cur.), Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto. Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo dall’Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo e dal Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Catania (Catania, 17-18 aprile 1997), Catania 1997 (Quaderni di Synaxis 13), 197-199. 26 Cfr. D. LAMBERT, Scienze e teologia. Figure di un dialogo, Roma 2006, 39-42. 27 Cfr. M. L. DI PIETRO, Scienza ed etica: quale risposta alla domanda di senso e di limite, in http://www.zenit.org/article-9635?l=italian (13.05.2008).
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sabilità; le conseguenze possono ricadere sulla persona stessa. Le domande di limite della riflessione etica sono, dunque, necessarie e giustificate in nome della dignità della persona umana e delle sue responsabilità28. Lasciarsi guidare da una immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere, è il vero modo di vivere la libertà: se si perde questa consapevolezza, si corre il grande rischio di arrivare alla negazione e alla distruzione della stessa umanità29. Quello che la robotica offre non è solamente un perfezionamento delle facoltà umane a livello quantitativo, ma un’impostazione che viene a concernere anche la dimensione qualitativa della vita30. È necessario non accontentarsi del semplice controllo integrato di uomo e macchina. Qual è la condizione che garantisce al meglio un tale controllo? Qual è lo scopo ultimo della robotica? In verità, siamo poco preparati ad affrontare domande di questo genere. 2. LE PROSPETTIVE ETICHE PIÙ RILEVANTI DELLA ROBOETICA L’intelligenza artificiale (oggi uno dei principali campi di dibattito tra scienziati e filosofi) ha dato un grandissimo impulso alla robotica, ed è abbreviata con la sigla AI (dall’inglese Artificial Intelligence), ed è stata inventata con lo scopo di «far fare alle macchine delle cose che richiederebbero l’intelligenza se fossero fatte dagli uomini»31. Nel suo lavoro la macchina memorizza quanto, cosa e come in quell’ambiente ha portato ad un successo, così come ciò che, in quello stesso ambiente, ha prodotto un insuccesso. Questo progressivo arricchimento del database di informazioni e comportamenti è una forma di addestramento della macchina a operare in modo autonomo sempre più efficiente. Ecco, però, che nasce subito un nuovo problema, di natura filosofica: ammesso 28 Cfr. R. FISICHELLA, La fede come risposta di senso. Abbandonarsi al mistero, Milano 2005 (Diaconia alla verità 2), 32-34. 29 Cfr. A. ZICHICHI, Tra scienza e fede. Da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, Milano 2005, 231-237. 30 Cfr. R. MARCHESINI, Bioetica e biotecnologie. Questioni morali nell’era biotech, Bologna 2003, 126-129. 31 Da Intelligenza Artificiale, sul web http://it.wikipedia.org/wiki/Intelligenza_artificiale (28.10.2005).
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che si possa costruire un computer in grado di operare come un umano, potremmo affermare che questo computer sia pure dotato di una mente pensante come quella umana? Che abbia un pensiero cosciente? Nel lontano 1962 l’ingegnere ungherese Tihamér Nemes, scrivendo di coscienza artificiale in un libro dedicato alle macchine cibernetiche affermava: «Anche le macchine programmate nel modo più sofisticato saranno in grado di imitare solo le manifestazioni esterne della coscienza»32. Quando l’11 maggio 1997 il calcolatore IBM Rs/6000, denominato Deep Blue, batté il più forte scacchista umano del mondo, Garry Kasparov, nessuno sostenne che l’uomo aveva costruito una macchina pensante. Il calcolatore IBM aveva dimostrato solamente di avere un comportamento intelligente superiore allo sfidante. Peccato che non avesse la minima idea né di giocare a scacchi, né di avere vinto. Dopo quella sfida tutti si sono trovati d’accordo nel ritenere che una cosa è parlare di coscienza e una cosa è parlare di intelligenza: cioè è diverso fare l’esperienza di giocare a scacchi, e gestire dei simboli e predisporre delle mosse in grado di farti vincere. Dopo il 1997 la capacità di vincere è alla portata di «macchine, che possono (per questo motivo) essere definite intelligenti, anche se non sono in grado di fare esperienza»33. Discriminante è l’esperienza. A una macchina, infatti, per essere definita pensante, non serve l’intelligenza, bensì la coscienza. Percepirà sé stesso come un “soggetto umano”, capace di fare esperienza di sé stesso e del mondo? Percepirà i sentimenti, il piacere, il dolore, la rabbia…? Sarà un essere volitivo? Potrà percepire la trascendenza del suo essere? Avrà desideri? Avrà il concetto di anima e di religione? Potrà desiderare di volerlo diventare? E anche ammesso che possa diventarlo, sarà veramente uomo, o dell’uomo sarà solamente una perfetta imitazione esteriore34? Anche mastro 32
V. TAGLIASCO – A. D’URSI – R. MANZOTTI, Macchine che pensano: dalla cibernetica alla coscienza artificiale, in http://www.media2000.it/specialemacchine.htm (27.08.2008). 33 L.c. 34 Cfr. C. T. A. SCHMIDT, Qualche problema con la nozione di identità, in Teoria, cit., 87-89.
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Geppetto diceva Pinocchio figlio suo e questi lo chiamava babbo ... Tali quesiti sono significativi perchè consentono di interrogarsi su cosa s’intende per coscienza35, che per l’intelligenza artificiale non è legata al significato di “coscienza morale” ma a quello di “coscienza di esistere”. Pensare, però, che i robot possano essere sempre più vicini all’umano, diventa un problema che non può più essere evitato. Ma se gli esseri umani sono coscienti si deve spiegare come sia possibile che un sistema fisico produca la coscienza36. La coscienza si produce ogni volta che un nuovo essere umano è concepito e si sviluppa. Pensiamo a un ovulo fecondato. Dopo qualche mese ha una coscienza come la nostra. Un oggetto fisico privo di coscienza è diventato un soggetto cosciente che fa esperienza di sé e del mondo. Cosa è successo? Oggi non è chiaro quale sia l’elemento determinante per l’insorgere della coscienza. La scienza non è in grado di rispondere a nessuna di queste domande37. Tuttavia, assimilare l’autonomia di un robot al libero arbitrio, come ipotizzare un’evoluzione della coscienza della macchina verso un’autocoscienza umana, è arbitrario. In un futuro, forse lontano, queste macchine potranno svilupparsi in modo autonomo, e anche evolvere, ma il risultato non sarà certo una replica dell’uomo, bensì avremo l’apparire di intelligenze robotiche diverse, per certi aspetti superiori, e per altri inferiori, a quella umana. Queste entità implicheranno una grande quantità di problemi e domande. Le nuove entità apparirebbero coscienti, e proprio come attualmente si dibatte sulla coscienza degli animali non umani, sicuramente discuteremo sulla possibile coscienza di entità intelligenti non biologiche38. Ma l’uomo è solo questo!? Quella che possiamo definire come la nuova religione tecno-scien35 Cfr. S. PRIVITERA, Coscienza, in S. LEONE – S. PRIVITERA (curr.), Nuovo Dizionario di Bioetica, Acireale 2004, 252-256. 36 Cfr. G. EDELMAN, La materia della mente. Le origini della coscienza di ordine superiore, in http://www.ilpalo.com/storia/libri/edelman.htm (21.11.2006). 37 Cfr. R. M. BELLINO, Il confronto con le neuroscienze, in S. LEONE (cur.), L’uomo artificiale, cit., 116-118. 38 Cfr. S. PROCACCI, Darwin, Teilhard e i nuovi traguardi evolutivi, in S. LEONE (cur.), L’uomo artificiale. Sfide morali, antropologiche e religiose della roboetica, Palermo 2009, 120-137.
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tifica non è riuscita né a rispondere né a togliere senso alle domande eterne dell’uomo che manifestano la sua trascendenza sulla realtà misurabile: sul dolore, sulla morte, sulla colpa. Queste tre domande manifestano con chiarezza che non è possibile ridurre l’essere dell’uomo al modo di essere dell’universo. Questa sorta di fede nell’auto-redenzione dell’uomo tramite la tecnica è stata sostituita dalla certezza che le istanze intra-umane non potranno mai dare una risposta definitiva alle questioni ultime39. Questo comporta una riscoperta della questione metafisica. È evidente allora che bisogna abbandonare la tecno-scienza fine a sé stessa, che include il primato della scienza sulla tecnica e non lascia spazio alla persona, per affermare la tecnologia come ‘attività spirituale’, prodotto eminente dello spirito dell’uomo, al di sopra della scienza stessa, come già detto, «per conseguire il perfezionamento finalistico dell’uomo»40. Scavalcando ogni riconoscimento del primato della dignità umana, l’approccio della biotecnologia è giunto a umanizzare i meccanismi artificiali e a robotizzare la sensibilità e la coscienza dell’uomo. La conseguenza è che la distinzione tra noi e i robot tenderebbe a sparire: le macchine saranno come esseri umani e gli esseri umani come macchine. Il professore di cibernetica all’Università di Reading, Gran Bretagna, Kevin Warwick, in una intervista, affermò di essere nato uomo per un incidente del destino, e si è considerato molto più di un essere umano, perché è stato il primo vero cyborg dell’umanità. Nel 1998 si fece impiantare nel braccio, sottopelle, dei chip elettronici41, per realizzare almeno temporaneamente il connubio uomo-macchina e superare i limiti fisici imposti dalla natura42. Sui tanti esperimenti compiuti è ineludibile la domanda etica. È 39 J. M. GALVÁN, Tecnoetica: oltre il paradosso di una tecnologia antiumana, in http://www.zenit.org/article-9293?l=italian (28.08.2008). 40 R. MANZOTTI – V. TAGLIASCO, Etica delle macchine e “coscienza artificiale”, cit., 51. 41 Cfr. K. WARWICK – C. BATTISTELLA, Quattro matrimoni e un funerale: problemi etici nel futuro dell’interfaccia cervello-computer, in Teoria. Ethicbots Etica e Robotica 27 (2007), 19-26. 42 Cfr. I. SANNA, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Brescia 2006 (BTC 132), 172-173.
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chiaro che il soggetto della tecnologia deve essere l’uomo, tanto più che egli, secondo Giovanni Paolo II, è per definizione colui che cerca la verità43. Esistono, però, precisi limiti etici al modo di agire dell’uomo che ricerca la verità, poiché tutto ciò che «è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile»44. È dunque la dimensione etica dell’uomo, che egli concretizza attraverso i giudizi della sua coscienza morale, a connotare la bontà della sua vita. Il problema non è promuovere o condannare le tecnologie, ma stabilire dei limiti dettati dalla ragione illuminata dalla fede e non dalla paura della ricerca scientifica. In ultima analisi, serve un sereno confronto tra fede e scienza, che porti a rispettare le leggi della natura e a promuovere il vero bene dell’uomo45. 3. ROBOETICA E RISCOPERTA DELLA PERSONA Ma quale autocomprensione ha l’uomo di sé stesso46? È emersa nella nostra società una logica finalistica del desiderio, che non è altro che utilitarismo. Il tragico è che questa logica riguarda anche la persona, considerata sempre più come un “mezzo” e non come un “fine”. La persona umana possiede un senso e un destino in sé stessa. E il valore di questo senso e di questo destino trova il suo fondamento in Dio: l’uomo infatti è immagine di Dio e destinato alla comunione con Lui. Questo significa che la razionalità scientifica non può da sola arrivare alla verità delle cose. La macchina non trionferà ma può servire alla realizzazione dell’uomo: più la tecnologia si sviluppa, più manifesta la persona. Joseph Ratzinger si lamentava, in una sua pubblicazione di alcuni anni addietro47, di una diffusa concezione secondo la quale la 43
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Fides et Ratio (14.09.1998), 28, in EV, 17/1234. Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum vitae (22.02.1987), 4, in EV, 10/1169. 45 V. POSSENTI, Filosofia e rivelazione, un contributo al dibattito su ragione e fede, Roma 1999, 43-50. 46 Cfr. S. RONDINARA, Interpretazione del reale tra scienza e teologia, Roma 2007, 68-71. 47 Cfr. J. RATZINGER, L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Siena 2009, 9. 44
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coscienza “non si presenta più come la finestra, che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della responsabilità”. La coscienza morale “sembra essere diventata piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi ad essa”. Nel quadro della mutata natura dell’agire umano nell’era tecnologica tale fenomeno diventa più gravido di conseguenze negative48. Il problema è antropologico, infatti pone l’uomo di fronte alla questione della propria identità49. La tentazione della sostituzione dell’uomo con una macchina (il robot) è forte, in quanto a livello funzionale la macchina è meno deludente dell’uomo. Forse siamo di nuovo in presenza del “mito di Faust”, il quale è sempre presente nel pensiero e nella cultura umana. Quello che affascinava di lui erano le infinite possibilità che si aprivano quando si andava oltre i limiti intellettuali e fisici dell’uomo. Il problema è questo: è bene o male se l’uomo vuole più dalla vita di quello che gli dà la natura (o Dio, a seconda del pensiero)? È lecito che l’uomo voglia, con l’intelletto e con la scienza, dominare tutto, anche i segreti più nascosti del mondo? Per alcuni, che volevano penetrare tutto con la luce della ragione, quest’aspirazione dell’uomo a voler andare continuamente oltre i propri limiti, non poteva che essere positiva. Oggi che con la tecnologia abbiamo in mano possibilità e responsabilità inedite, il dilemma del Faust è più attuale che mai. Il problema centrale, alla luce di quanto fin qui esposto, è quello di distinguere la “persona” dall’“individuo”50. Soltanto l’uomo è realtà capace di responsabilità e di colpa, neanche le prestazioni più raffinate 48
Cfr. F. D’AGOSTINO, La legge naturale e le biotecnologie, in L’Arco di Giano. Le sfide morali del post-umano, cit., 99-106. 49 Cfr. J. M. GALVÁN, Tecnoetica: oltre il paradosso di una tecnologia antiumana, in http://www.zenit.org/article-9293?l=italian (28.08.2008). 50 Cfr. G. SAVAGNONE, L’individuo umano oltre se stesso? Il mito del cyborg e la sfida ai confini tradizionali dell’antropologia, in B. MONDIN (cur.), Antropologia e Bioetica. Ricerca interdisciplinare sull’enigma uomo. Atti del XVI Convegno nazionale dell’A.D.I.F. (Manoppello, 6-8 settembre 1996), Milano 1997 (Problemi del nostro tempo 96), 211ss.
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di una macchina possono essere confuse con l’attività specificatamente umana della valutazione fatta a partire da valori. L’agire secondo coscienza è proprio solo dell’uomo. Ma se la promozione dell’intelligenza e il miglioramento della salute sono obiettivi che possiamo lecitamente perseguire mediante l’educazione, perché non dovremmo perseguirli mediante l’applicazione di protesi artificiali? Forse stiamo assistendo nella nostra società a un vero e proprio “tramonto” della persona? La domanda è: si è persone per le attività che si svolgono, per certe proprietà che si posseggono, o per quello che si è? La visione dell’uomo come immagine di Dio porta in sé la dimensione dell’alterità, della diversità, della differenza, perché la sua essenza è di essere immagine di un altro e il suo compito è quello di farlo vedere. L’uomo è una immagine di Dio, ma non l’intera immagine di Dio. È una fra le molte immagini attraverso le quali Dio si rende presente nel mondo, una immagine finita che non può esaurire la rappresentazione dell’infinito51. 4. FEDE E TECNOLOGIA A CONFRONTO La Bibbia si apre con i racconti della creazione, dove l’origine di tutto e dell’uomo è da Dio (cfr. Gen 1, 1-2). «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). In Adamo è rinvenibile l’immagine e la somiglianza del “vasaio” che lo ha dato alla luce, con supremo e libero volere: «Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani» dice il Signore (Ger 18,6). Ciò che emerge dall’intera antropologia biblica, è la visione fortemente unitaria della persona umana, che rifugge da ogni concezione dualistica. «Unità di anima e di corpo, l’uomo […] non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali […] Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo»52. L’uomo è l’unica creatura cui Dio rivolge la parola. Egli ha ricevuto una dignità, che nessuno può togliergli, egli
51 52
Cfr. C. WESTERMANN, Creazione, Brescia 1991, 173-177. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et spes, cit., 14, in EV, 1/1363.
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infatti è stato creato a Sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26). La dignità dell’uomo, quindi consiste in ciò che appartiene in modo esclusivo all’uomo, in quell’essere immagine e somiglianza di Dio, che lo fa appunto diverso rispetto a tutti gli esseri creati ed a loro superiore. Solo l’essere umano è capace di moralità, ossia capace di atti coscienti e deliberati53. Per l’uomo la corporeità è veicolo di espressione dello spirito, però è anche il motivo per cui la persona umana può essere manipolata, su questo la visione cristiana della persona ha molte cose da dire alla tecnoetica e alla roboetica, e ciò è diventata questione prioritaria, in quanto la riduzione di tutto ciò che è umano all’organico oggi è diventata molto “spinta”54, ma è fondamentale non dimenticare che l’uomo è sempre e solo un fine, mai un mezzo. Questa problematica riguarda il rapporto tra fede e tecnologia55. In un suo intervento Giovanni Paolo II afferma che «lo sviluppo tecnologico, caratteristico del nostro tempo, soffre di un’ambivalenza di fondo: mentre da una parte consente all’uomo di prendere in mano il proprio destino, lo espone, dall’altra, alla tentazione di andare oltre i limiti di un ragionevole dominio sulla natura, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza e integrità della persona umana»56. La Gaudium et spes valuta con equilibrio gli aspetti positivi e negativi della tecnologia, e riconosce che la tecnologia apre nuove vie, contribuisce a migliorare la vita e diffondere la cultura; sottolinea, tuttavia, che non sempre essa persegue veri valori umani57. 53 Cfr. M. G. AEDITA, Dignità dell’uomo, in S. LEONE – S. PRIVITERA, Nuovo Dizionario di Bioetica, cit., 306. 54 Cfr. R. MANZOTTI – V. TAGLIASCO, Etica delle macchine e “coscienza artificiale”, cit., 50-51. 55 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, «Rinnovato collegamento tra pensiero scientifico e forza di fede dell’uomo che cerca la verità», Discorso all’incontro con scienziati e studenti nella Cattedrale di Colonia, 15.11.1980, 4, in Insegnamenti, III (1980) 2, 1206. 56 ID., «La persona, non la scienza è misura e criterio di ogni manifestazione umana», Discorso ai partecipanti a due congressi di medicina e chirurgia, 27.10.1980, 3, in Insegnamenti, III (1980) 2, 1007. 57 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (07.12.1965), 54-57, in EV, 1/1495-1509; GIOVANNI
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Papa Benedetto XVI, nella sua enciclica “Spe Salvi”, afferma che «noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr. Ef 3,16; 2Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo»58. Alla luce di quanto fin qui espresso la roboetica dovrà cercare di promuovere il rispetto della vita umana, evitando che essa venga asservita a logiche manipolatorie, che attentano alla dignità della persona. Oggi la robotica è la “frontiera” della scienza. Sappiamo dove vogliamo andare, ma non sappiamo come ci si arriva. Ecco che si rileva, ancora una volta, la necessità di una roboetica, che non è l’etica che i robot danno a sé stessi, ma l’etica sull’uso di queste macchine da parte dell’uomo59. Le scienze, senza valori, non sono in grado di cogliere il valore della persona umana, è stato il cristianesimo a introdurre nell’Occidente i concetti antropologici che hanno permesso all’uomo di comprendere meglio sé stesso. La Fides et Ratio parla degli apporti della fede cristiana alla concezione dell’uomo. Essa menziona alcuni concetti fondamentali, che la cultura ed il pensiero filosofico non possono trascurare. In primo luogo, il concetto di Dio personale e più in generale il concetto di persona, che fu formulato, secondo l’enciclica, solo nell’incontro tra fede e filosofia60. Secondo la neurofisiologia, la vita autocosciente non sarebbe altro che un processo fisico-chimico. Ma nessuna legge fisica o chimica riuscirà mai a spiegare compiutamente “perché” una persona dica ad un’altra persona: “io ti amo”, e con PAOLO II, «Dobbiamo congiungere le forze vive della scienza e della religione per preparare i contemporanei alla sfida dello sviluppo integrale», Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 29.10.1990, in Insegnamenti, XIII (1990) 2, 961-967. 58 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi (30.11.2007), 22, in EV, 24/1460. 59 Cfr. A. M. C. MONOPOLI, L’applicazione del principio responsabilità in ambito robotico, cit., 58-61. 60 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Fides et Ratio (14.09.1998), 76, in EV, 17/13311335.
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questa affermazione riveli il mistero incomprensibile della libertà e dell’intelligenza dell’uomo. CONCLUSIONE La robotica rientra oggi nell’ambito di una tecnologia avanzata, che prende l’avvio da ricerche scientifiche sofisticate e viene mossa da ingenti interessi economici. I robot, le macchine dotate di “intelligenza artificiale”, sono sempre più diffusi nella nostra vita quotidiana, investendone vari settori: da quello lavorativo a quello del divertimento o della quotidiana vita familiare. Ciò suscita domande etiche importanti, dalla cui risposta dipende il futuro della robotica, ma anche della stessa vita umana concepita in termini veramente “umani”. È perciò ineludibile la domanda etica, anzi si fa sempre più incalzante il bisogno di elaborare un’etica della robotica, ossia una roboetica. Questa nuova branca della riflessione etica, che non può non interessare anche la teologia morale, parte dall’ammirazione per l’intelligenza umana, che è capace di costruire macchine altamente perfezionate. Apprezzare le capacità dell’intelligenza umana, quali si manifestano anche nel campo della robotica, è un modo per rendere lode a Dio, che ha dotato l’essere umano, l’unica creatura fatta a sua immagine e somiglianza. Su questa base positiva si deve fondare la prospettiva di difesa della dignità dell’uomo, che purtroppo può essere compromessa da una inaccettabile visione della scienza e della tecnologia, che si applica anche alla robotica. Questa logica porta a concludere che tutto quanto si può fare sul piano della tecno-scienza si può dichiarare ammissibile anche sul piano morale. È evidente che questo principio risulta inaccettabile, in quanto non tutto ciò che la tecnologia è capace di fare risulta per ciò stesso accettabile moralmente, dal momento che ci sono mezzi tecnici che rischiano di mettere a repentaglio la vita dell’uomo sulla terra. Questo pericolo è più che mai reale, in quanto si può verificare che l’uomo venga asservito alle macchine che egli stesso produce. Se questo modo di pensare prendesse il sopravvento, l’essere umano diventerebbe vittima di quanto egli è riuscito a produrre, l’uomo da “fine” diventerebbe “mezzo”, mentre le macchine robotiche, al contrario, da semplice “mezzo” rischierebbero di trasformarsi in
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protagoniste primarie della vita umana sulla terra. Ma solo l’essere umano è dotato di coscienza, volontà e ragione, mentre il robot ovviamente non possiede queste doti. Il che equivale a dire che solo l’uomo è un essere morale, chiamato a rispondere della bontà o della malizia delle sue azioni, mentre il robot ovviamente non ha alcuna responsabilità morale, perché è sempre l’uomo che decide ciò che esso deve o non deve fare. Inquadrata in questi termini la roboetica non può essere l’etica dei robot, dal momento che i robot non sono esseri morali. Essa è piuttosto l’etica applicata ai robot da parte dell’uomo, che rimane l’unico agente morale da noi conosciuto. In questa luce è molto utile l’apporto che la visione cristiana dell’uomo può apportare alla roboetica. Come si evince dalle indicazioni bibliche e dai pronunciamenti del Magistero, sia per quanto attiene la dignità della persona umana, creata da Dio a sua immagine e somiglianza, sia per quanto concerne il rapporto tra scienza, tecnologia e fede. Una scienza senza coscienza etica non è degna dell’uomo, mentre viceversa un progresso illuminato dalle coordinate etiche si pone al reale servizio della vita umana sulla terra. I robot non potranno mai sostituire l’uomo. Essi certamente possono arrecare notevoli benefici alle attività umane nel mondo, soprattutto in ordine all’alleviamento della fatica, allo sveltimento dei processi produttivi, alla conoscenza dello stesso organismo umano da parte della medicina. Bisogna però sempre controllare gli scopi per i quali un robot viene prodotto e l’uso che di esso viene fatto nei svariati campi della vita dell’uomo. Nel sottotitolo di questo mio lavoro, “un nuovo ponte verso la conoscenza”, ho voluto dare un valore positivo al termine “roboetica”, riferendomi al contesto teologico in cui è stato svolto. Se l’uomo collocherà la robotica all’interno della dimensione della tecnologia e interpreterà entrambe non col filtro scientista delle tecno-scienze, per le quali i criteri sono l’efficienza, l’utilitarismo e la convenienza, ma con i criteri classici della scienza impegnata nella ricerca animata al suo interno dall’esigenza etica di comprendere il senso dell’agire dell’uomo, allora si realizzerà tale auspicio di una “nuova forma di conoscenza”. L’uomo comprenderà che la “roboetica” aiuta l’uomo a collocarsi nella storia fra creazione ed escaton, impegnato in quell’a-
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gire che lo porterà al raggiungimento del perfezionamento finalistico dell’uomo, nel quale coinciderà la conoscenza di sé, del mondo, di Dio. Forse non è azzardato affermare che anche la robotica può conoscere i valori della “redenzione” operata da Cristo! Intendo dire che il complesso mondo della macchine dotate di intelligenza artificiale può beneficiare della salvezza che Cristo continuamente opera nella storia, una salvezza che ovviamente riguarda sempre e solo l’uomo, ma che si estende all’intera sua opera e a tutta la creazione. Possiamo pensare che Cristo, l’uomo nuovo, vincitore del peccato e della morte, redime l’uomo dalla pretesa di assolutizzare l’opera delle sue mani e da quella sorta di “delirio di onnipotenza” che purtroppo pervade larga parte della cultura contemporanea. Pensare di sostituirsi a Dio è, in fondo, il peccato di Adamo; un peccato continuamente ricorrente, che conduce presto alla dissoluzione dello stesso uomo. Come l’uomo non può sostituire Dio, i robot non possono e non devono sostituire l’uomo. In entrambi i casi a pagare il prezzo più alto è sempre e solo l’uomo.
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L’OMELIA AL PROLOGO DEL VANGELO DI SAN GIOVANNI DI SCOTO ERIUGENA
ENRICO PISCIONE*
1. L’APPARATO TEOLOGICO Intendiamo con questo lavoro porre la nostra attenzione su un gioiello della produzione teologica dell’alto medioevo e precisamente del medioevo carolingio, cioè l’omelia al prologo del vangelo di S. Giovanni di Scoto Eriugena. Essa si apre con la scena della “voce dell’aquila spirituale” che risuona «all’orecchio della chiesa»1. I sensi cercano di captare il suono fuggevole, la mente si sforza di andare al fondo del «significato immutabile»2. La voce si può dire, in altri termini, ha una finalità ecclesiologica: ridestare i sensi e la mente dei fedeli. Questa voce è assolutamente trascendente perché va la di là di ogni “terra” al di là di tutte le cose che sono e che non sono, con le ali veloci della più inaccessibile teologia. Il santo teologo Giovanni supera tutto ciò che può essere afferrato dall’intelligenza e detto dalla parola, va al di là di tutto ciò che oltrepassa ogni intelligibilità e ogni significato. E mentre ha la percezione limpida dell’ «incomprensibile superessenzialità dell’unione insieme all’incomprensibile supersostanzialità
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Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. G. SCOTO, Omelia sul prologo di Giovanni, a cura di M. Cristiani, Milano 1987, 9. 2 L.c. 1
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della distinzione»3, dà inizio al suo vangelo annunciando “In principio era il Verbo”. L’Eriugena proclama Giovanni beato perché l’etimo del nome dell’apostolo che Gesù prediligeva, vuol dire «colui che è stato gratificato di un dono»4. E per questo gli è stato accordato il privilegio di «penetrare i misteri inaccessibili del sommo bene e di esporre le verità»5 che gli sono state rivelate. «Dimmi, ti prego, a chi altro fu accordata una simile grazia di così grande valore»6. Anche se Pietro rispose al Signore: «Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo» 7 si può dire senz’altro che Pietro con queste parole realizza in sé il modello della fede e dell’azione, piuttosto che quello della scienza e della contemplazione. Per quale ragione? Perché Pietro è proposto ad esempio di azione e di fede, mentre Giovanni riproduce il modello della contemplazione. Da non dimenticare è pure l’altra immagine dei due apostoli che corrono al sepolcro. Giovanni supera Pietro nella corsa ed arriva primo. Anche in questo caso si nasconde un significato simbolico. La contemplazione rappresentata da Giovanni, ha il primato sull’azione incarnata da Pietro. L’intelligenza della fede di Giovanni è superiore perché riuscì a conoscere il Logos e l’annunciò agli uomini. La contemplazione si pone un gradino più in alto rispetto all’azione. Dopo aver contemplato “il paradiso del paradiso” l’apostolo prediletto da Gesù con la sua voce proclama: «In principio era il Verbo» — Giovanni, perciò, è stato deificato o per dirla con le parole di Scoto, «non avrebbe potuto altrimenti ascendere fino in Dio, se prima non fosse stato Dio»8. Nel proclamare “in principio era il Verbo” il Santo Evangelista attribuisce all’esperienza un “significato sostanziale” e poi aggiunge il «Verbo era presso Dio» per sottolineare che il Figlio «sussiste con il 3
Ibid., 11. L.c. 5 L.c. 6 L.c. 7 L.c. 8 Ibid., 17. 4
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Padre nell’unità dell’essenza e nella distinzione della sostanza»9 ed inoltre, per evitare che si cada nell’errore dei «perfidi ariani»10, il testo subito dopo aggiunge «E Dio era il Verbo». In altre parole l’evangelista proclama: «questo Dio verbo che è presso Dio è lo stesso di cui ho detto: In principio era il Verbo»11. Il Padre ha la precedenza sul Verbo non per natura, ma in quanto causa. La sostanza del figlio è coeterna al Padre. Il tempo, poi, è fatto come una fra tutte le cose che sono state fatte con la stessa creazione. Sintetizzando si può dire che bisogna prestare fede e abbracciare con l’intelletto il parlare del Padre, il Verbo pronunciato e le cose che attraverso il Verbo sono prodotte. Ciò che è stato fatto nel Verbo era vita, con questo nuovo termine l’evangelista dà un orientamento nuovo alla continuazione del suo discorso. Anche quello che ci sembra privo di ogni moto vitale vive nel Verbo, giacché in Lui, come attesta la voce divina, tutto vive, ha il movimento e l’essere. Come dice splendidamente Dionigi l’Areopagita, «l’essere di tutte le cose è la divinità al di sopra dell’essere»12. A questo punto dell’omelia interviene Scoto dicendo: «E la vita era la luce degli uomini. Al figlio di Dio che prima, o santo teologo, ha chiamato Verbo, ora dà il nome di vita e di luce»13. Vita e luce perché questo Figlio è Luce e vive di tutte le cose che sono state fatte attraverso di Lui. La luce eterna rivela se stessa al mondo in due forme diverse: attraverso la Scrittura e la Creatura. Dunque, la luce degli uomini è il Signore nostro Gesù Cristo, che nella natura umana ha manifestato se stesso e ogni creatura razionale e intellettuale e ha rivelato loro i misteri nascosti nella sua divinità per la quale è uguale al Padre. Tutto il genere umano è come diviso in due parti, l’una il cui cuore è illuminato dalla conoscenza della verità, e l’altra che rimane ancora nelle tenebre più profonde dell’empietà e della perfidia. La perfidia e l’ignoranza che dominano i cuori degli empi non compresero la luce del Verbo di Dio nel suo splendere nella carne. Ma 9
Ibid., 21. L.c. 11 L.c. 12 Ibid., 33. 13 L.c. 10
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questo è il senso morale. Secondo l’ordine della natura l’intelligenza di queste parole è che l’uomo anche se non avesse peccato, non avrebbe potuto risplendere con le sue proprie forze, perché non è lui stesso luce per natura, ma partecipazione della luce. 2. L’AQUILA E LA VALLE DELLA STORIA Poi l’aquila discende, con volo sereno, dal più elevato vertice della montagna della teologia fino alla profondissima valle della storia. La divina Scrittura è in realtà un modo intellegibile, costituito nelle sue quattro parti come da quattro elementi. All’elemento terra collocato al livello più basso corrisponde la storia; attorno ad essa si distende in cerchio l’abisso dell’intelligenza che i greci chiamavano etica. Intorno alla storia e all’etica, come alle due parti inferiori di questo mondo, fluisce l’aria della natura, scienza che i greci chiamavano fisica. Al di fuori e al di là, si colloca la sfera ardente, eterna ed ignea, del cielo empireo, cioè della suprema contemplazione della divina natura, che i greci chiamavano teologia. Ecco dunque il grande teologo elevarsi al di sopra di ogni storia, di ogni etica, di ogni fisica ed invertire poi il suo volo intellegibile. L’evangelista narra la vicenda storica del precursore, ricordando colui al quale fu lecito precedere il Logos. Il precursore del Signore fu un uomo non Dio, mentre il Signore di cui è precursore fu insieme uomo e Dio. Il precursore non era la luce, ma fu mandato per rendere testimonianza alla luce. La grazia di colui, del quale era precursore, ardeva e risplendeva in lui. La conservazione nell’essere dell’universo creato fa un tutt’uno con la parola di Dio padre. L’espressione che annuncia “Egli era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui” si può pure, a buon ragione, dirla unicamente per questo mondo sensibile. Contro l’eventualità che qualcuno, condividendo l’eresia manichea, potesse pensare che il mondo che cade sotto i sensi corporei fosse come creato dal diavolo e non dal creatore di tutte le cose, l’evangelista-teologo precisa: «Egli era nel mondo, cioè sussiste in questo mondo colui che contiene tutte le cose; e il mondo è stato fatto attraverso di Lui»14. Gli 14
Ibid., 55.
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uomini possono accogliere o respingere il Verbo incarnato. I fedeli credono nella sua venuta, gli empi lo respingono con orgoglio, i giudei per malevolenza, i pagani per ignoranza. Gli «ariani lo ricevono, ma non credono nel suo nome; non credono in Lui come figlio di Dio Unigenito, consustanziale al Padre; negano che sia omousioj, cioè coessenziale al Padre, affermano che è eterousioj cioè essenza diversa dal Padre»15. Quindi non riesce loro di alcuna utilità accostarsi a Cristo, giacché sono protesi a negare la sua verità. Mentre è concessa la possibilità di diventare figli di Dio a coloro che riconoscono che Cristo è vero Dio e vero uomo. E il capitolo 22 dell’omelia presenta una domanda: «Dove hai visto, o santo dottore, la gloria del Verbo incarnato, del Figlio di Dio fatto uomo?»16 E la risposta è: «Con gli occhi del corpo, suppongo, al tempo della trasfigurazione, sulla montagna. Tu eri lì, infatti uno dei tre testimoni della glorificazione divina»17. E nell’ultimo capitolo leggiamo che il Verbo «è l’esemplare supremo e fondamentale di quella grazia in virtù della quale l’uomo diventa Dio, senza alcun merito da parte sua; e in lui questo esemplare dell’uomo si è manifestato in maniera primordiale»18. Concludendo il nostro discorso sull’omelia di Scoto Eriugena si può affermare che non ci troviamo di fronte a un commentario di tipo scolastico, ma ad un componimento che alla robusta teologia unisce un armamentario retorico armoniosamente equilibrato e saldamente costruito.
15
Ibid., 59-61. Ibid., 63. 17 Ibid., 65. 18 Ibid., 67. 16
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SICILIA: TERRA DI DIALOGO TRA IDENTITÀ E CULTURA L’INCONTRO INTERRELIGIOSOPER L’INTEGRAZIONE TRA I POPOLI *
GAETANO ZITO**
L’affermazione che la Sicilia sia terra di dialogo tra identità e cultura è un dato a cui, soprattutto in questi ultimi decenni, si richiama di frequente la politica. Certo, alcune volte ci si chiede se le affermazioni di principio hanno un fondamento intelligente — nel senso tecnico di intus legere —, oppure sono proclami di occasione fine a se stessi. Al di là di rari esempi virtuosi, che ci sono, non sempre, in verità, è possibile riscontrare una progettazione — e realizzazione — di percorsi culturali che lascino una traccia significativa per il futuro. Il più delle volte non vi è un’effettiva volontà di investire in cultura per incidere sul tessuto sociale contemporaneo. Ciò permetterebbe di produrre presa di coscienza e comportamenti responsabili su larga scala, tali da promuovere un impegno civico che sia frutto di sintonia con le coordinate identitarie consegnate dal passato e, al contempo, riesca a far lievitare nelle nuove generazioni il senso dell’appartenenza e la responsabilità per il futuro.
* Intervento al Centro Accoglienza Richiedenti Asilo - CARA fest 2012. Incontro dei popoli del Mediterraneo (Mineo-Catania, 16 luglio 2012). ** In qualità di Presidente della Fondazione Synaxis (www.fondazionesynaxis.it).
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Gaetano Zito
1. FIGLI, NON ORFANI Identità e cultura vanno intese non nel senso di sapere qualcosa, di acquisire un bagaglio di conoscenze scolastiche, pur se di livello superiore. Ad esse va attribuita una valenza del tutto antropologica: modalità di approccio alla realtà; particolare visione della vita e delle relazioni interpersonali determinatesi in un luogo attraverso il tempo, al fine di individuare le categorie mentali, i gesti, i comportamenti, le mediazioni dell’agire di uomini e donne che storicamente hanno determinato e prodotto uno specifico approccio alle vicende umane di sé e di altri diversi da sé. Solo se ci si percepisce figli e non orfani di tale modo di intendere identità e cultura si è in grado, e si ha voglia, di attivare forme di dialogo e di scommettersi nel confronto con chi è portatore di identità e di cultura diverse. Il presupposto di base è che l’umanità, attraverso i tempi e a latitudini differenti, si è data plurime identità e culture. Segno evidente che non ve ne è una onnicomprensiva ma che ciascuna, proprio perché storicamente incarnata, pone in evidenza ed è portatrice di una porzione della grande ricchezza inscritta nella dignità della persona umana. Dignità che gli è donata dal creatore, di cui è chiamata ad esprimere l’immagine e la somiglianza: così come, mi pare di poter dire, è patrimonio comune per tutti e tre i monoteismi del Mediterraneo, con peculiarità proprie a ciascuno di essi. Se è permesso il riferimento, si può dire che ogni espressione di identità e di cultura può paragonarsi ad una tessera di mosaico. Di esso nessuno ha la visione completa e conosce il tempo del compimento del lavoro di costruzione: visione e tempo sono di Dio. Ciascuna tessera, di conseguenza, non è il tutto del mosaico e ciascun artigiano non è proprietario dell’immagine di tutto il mosaico. Solo la disponibilità a porre la propria tessera musiva accanto e in sintonia con le tessere musive degli altri permette man mano, lungo la storia, di dare senso compiuto alla propria tessera e di realizzare il mosaico. Purtroppo, sappiamo bene dalla storia passata e contemporanea quante forme di assolutizzazione della propria tessera musiva spesso si verificano. Ci si percepisce figli e non orfani se ci si scommette nella ricerca, nella conoscenza e nella trasmissione scientifica della storia. Di
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quella storia che trova fondamento non nelle notizie della tradizione e del “si dice”, bensì nella fatica dell’indagine archivistica e nella corretta interpretazione dei documenti. Che la perdita di una chiara visione della propria identità e della propria cultura, con il conseguente accentuarsi di fanatismi e di insofferenza per le diversità, debba forse attribuirsi allo scarso spazio dedicato ad uno studio accurato della propria storia? È sotto gli occhi di tutti che la cultura umanistica, e quella storica in particolare, tanto a livello scolastico che universitario, non solo non ha risorse finanziarie ma viene sempre più considerata pressoché superflua. 2. NARRARE LA PROPRIA IDENTITÀ Desidero ricordare, a questo punto, un passaggio di un’intervista apparsa sul Corriere della sera del 9 settembre 2000, dal titolo Il futuro nasce dalla memoria, rilasciata dal noto filosofo Paul Ricoeur (1913— 2005). Rispondeva in questi termini alla domanda “Che significa per l’uomo avere la memoria?”: «Col tempo, noi cambiamo. Come posso restare lo stesso attraverso il cambiamento? La coscienza di sé non è un’identità invariabile. Al contrario, si tratta di una “identità narrativa”, costruita cioè nel cambiamento. Per questo occorre che io abbia conservato qualcosa del passato per poter costruire con le sue tracce, legarle le une alle altre in un orizzonte di progetto. Non si può separare la memoria dal progetto e quindi dal futuro. Noi ci troviamo sempre fra il riepilogo di noi stessi, la volontà di dare un significato a tutto ciò che ci è capitato, e la proiezione nelle intenzioni, nelle aspettative, nelle cose da fare». L’identificazione e la comprensione dell’identità è restituita dal porre insieme la sequenza delle tracce del passato, in modo da poterne narrare ordinatamente e con lealtà le molteplici variazioni spazio— temporali accadute, mai in verità totalmente afferrabili, in un intreccio ineluttabile del rapporto con se stessi, con l’altro, con l’istituzione. In questo processo, la prima caratteristica da tenere presente nell’osservazione storica, come avvertiva Marc Bloch, è che «la conoscenza di tutti i fatti umani nel passato, della maggior parte di essi nel presente, ha quella di essere […] una conoscenza per tracce». Il
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soggetto prende coscienza di sé proprio nel raccontarsi le proprie tracce. Per Ricoeur, «la storia raccontata dice il chi dell’azione. L’identità del chi, è a sua volta una identità narrativa». Sono appunto gli eventi del passato che, pur se labili e nel loro susseguirsi spesso pure contraddittorio, riconsegnano la fisionomia di un’identità man mano che vengono riannodati e narrati. Per cui, «il soggetto appare allora costituito ad un tempo come lettore e come scrittore della propria vita», che prende coscienza dell’esserci e lo fa decidere ad agire. E tale soggetto può, indifferentemente, essere un individuo o una comunità. Entrambi «si costituiscono nella loro identità ricevendo certi racconti che diventano per l’uno come per l’altra la loro storia effettiva». Ne è chiara testimonianza, per Ricoeur, la storia dell’Israele biblico: «è raccontando dei racconti considerati come testimonianza degli avvenimenti fondatori della propria storia che l’Israele biblico è diventato la comunità storica che porta questo nome. Il rapporto è circolare: la comunità storica che porta il nome di popolo giudeo ha tratto la propria identità dalla ricezione stessa dei testi che ha prodotto». Percorso che, in certo modo, accomuna i popoli che fanno riferimento agli altri due monoteismi del Mediterraneo: cristiani e musulmani. Al punto che in questo metodo si può riconoscere una comune peculiarità tra questi popoli determinata dall’esperienza religiosa connaturale alla fede in un solo Dio. Tanto per l’individuo quanto per la comunità, di conseguenza, non si dà identità al di fuori della propria storia, intrisa di relazioni dialettiche con un preciso contesto socio—culturale e religioso, che ne ha causato progressivi cambiamenti e della quale, al contempo, è protagonista e responsabile. Presumere, pertanto, di poter delineare la propria identità fuori di quest’alveo, appellandosi ad aprioristiche riflessioni teoriche, finalizzate talvolta ad una eccessiva difesa dal rischio del relativismo, equivale a produrre una ideologia di sé, matrice di atteggiamenti fondamentalisti. Quando ciò accade ci si trova davanti ad una percezione distorta dell’identità o, in caso estremo, ad una negazione di essa, che non fa assumere il presente come frammento di un tutto ben più ampio, che precede e trascende, e del quale nondimeno si è responsabili. Negazione del sé storico che sopravviene anche quando si pretende di
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possedere le molteplici mutazioni accadute, oppure di assolutizzare una sola delle molteplici forme prodotte nel divenire della propria storia, per considerarla immutabile ed unica possibile. L’identità narrativa non è onnicomprensiva del sé di individuo o di comunità: «bisogna confessare — ricorda Ricoeur — che il racconto non è tutto e che il tempo si dice ancora altrimenti, perché, anche per il racconto, resta l’inscrutabile». Il rischio della negazione si presenta pure qualora, nella narrazione dell’identità, di singolo o di comunità, si opta intenzionalmente per l’assunzione parziale di tracce, solo di quelle considerate a sé vantaggiose, oppure strumentalizzabili per intervenire e modificare il corso del presente e del futuro. Processo che risponde ad una sorta di «strategia di persuasione», finalizzata ad imporre nell’oggi una visione del mondo che, ricorda Ricoeur, non è mai comunque «eticamente neutra». 3. IL CASO SICILIA Se guardiamo ora alla storia della Sicilia, ci rendiamo conto che l’isola da sempre è attraversata da fenomeni migratori. Le ragioni dell’approdo sulle nostre coste non sono nuove, non sono quelle degli sbarchi dei cosiddetti clandestini. Dai fenici ai greci, dai romani ai bizantini, dagli arabi ai normanni e agli svevi, e così ai diversi popoli che ne hanno segnato la storia, di fatto l’hanno sempre resa porta di questa parte del continente europeo. Come dicevo prima, la sua posizione geografica la “condanna” a tale ruolo e, pur se con motivazioni diverse, non solo in questi ultimi anni che vedono popolazioni premere dal Sud del mondo. Questi popoli e civiltà le conferiscono soprattutto una fisionomia particolare: luogo di incontro, crocevia delle due rive del Mediterraneo, dall’oriente all’occidente, ma anche dal meridione al settentrione. In questi ultimi anni, l’approdo di un’umanità sofferente, che rischia la vita pur di garantirsi una qualche forma di partecipazione ai beni destinati dal creato e dal creatore ad una condivisione universale, rende la nostra isola terra di incrocio di culture e di religioni. Condizione che marca il tratto di questo nostro tempo in una dimensione identitaria che le è consegnata inesorabilmente dalla sua storia plurimillenaria.
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La successione di questi popoli ha significato pure la successione di civiltà e la progressiva stratificazione di culture, con la conseguente modulazione di identità. Narrarle, direbbe Ricoeur, significa restituirle tutta la forza della sua identità presente e della sua prospettiva futura. Sono sufficienti queste indicazioni per interrogarci, per interrogare la nostra storia, la storia di un’isola “condannata” per geografia alla multiculturalità e alla multireligiosità: il nostro passato è da considerare un dato ingenuo e asettico? oppure, può e deve assumere il valore magisteriale — di historia magistra vitae — e alla sua scuola porsi con animo carico di fiducia e speranza? può la condizione di “porto di approdo” di questa umanità dettare una lezione di potenziale opportunità anche per lo sviluppo socio—economico oltre che culturale della nostra Sicilia? Gli eventi del passato non sono nella nostra disponibilità, ci sono riconsegnati da una documentazione particolarmente copiosa conservata nei nostri archivi e spesso non sufficientemente valorizzata. Ad essa si affianca una particolare tipologia documentaria, non pervenutaci su pergamena o su carta: quella architettonica, della quale forse facciamo fatica a comprendere tutta la valenza simbolica, agevolmente comprensibile invece al tempo della sua realizzazione. Per secoli, in età medievale, palazzi e chiese sono stati realizzati, grazie alla sinergia di elaborazione progettuale e manovalanza artigianale, da una popolazione che aveva la chiara coscienza di appartenere contemporaneamente ad una religione, ad una cultura, ad una terra: ebrei, cristiani (latini e greci), musulmani. 4. LA SICILIA: MOSAICO DI POPOLI E CIVILTÀ ANTICHE E MODERNE Il popolo siciliano da sempre si presenta sulla scena della storia come un insieme complesso di popolazioni differenti, al punto da poterci pensare come la popolazione più meticcia dell’area del Mediterraneo. In uno dei discorsi consegnati da Giovanni Paolo II nella sua visita a Catania nel 1994, quello agli uomini di cultura della città, leggiamo: «La Sicilia non è un’espressione geografica: essa, in passato, è stata punto d’approdo di popoli e crogiuolo di civiltà e culture che si sono
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fuse tra loro ed hanno lasciato memorie e scenari di grande valore. La Sicilia — prosegue Giovanni Paolo II — è un “luogo” della storia della civiltà europea». Le tracce storiche dell’incrocio delle tre religioni monoteiste del Mediterraneo sono tuttora ampiamente presenti nella nostra isola. Fanno parte di quel patrimonio culturale che dice dell’identità nostra e che interpella la coscienza civica e la responsabilità politica per la sua tutela, catalogazione e valorizzazione. Dopo l’ebraismo e il cristianesimo, dall’827 e per 250 anni circa, fino al 1071, l’Islam determina l’arabizzazione della Sicilia. L’islamizzazione dell’isola non ha comportato la scomparsa del cristianesimo o dell’ebraismo. Tra il 1060 e il 1090 i normanni conquistano l’isola: una riconquista cristiana che riporta la Sicilia nell’ambito dell’occidente latino. Come in precedenza con gli arabi, ora con i normanni non scompaiono ebrei ed arabi ma viene a realizzarsi una sorta di civiltà del dialogo interculturale e interreligioso, dove prevale il rispetto reciproco e la tolleranza. Va riconosciuto al potere normanno — ed erano uomini d’arme non certo di cultura — di essere stato capace di realizzare una prodigiosa assimilazione di differenze culturali e religiose. Le cattedrali di Cefalù e Monreale, come la Cappella Palatina di Palermo, sono la più eloquente dimostrazione di questo modello culturale, noto come cultura normanno—arabo—bizantina, o cultura normanno—sicula. Le lingue ufficiali, secondo il gruppo linguistico cui era destinato il documento, furono tanto il latino e il greco, quanto l’ebraico e l’arabo; con documenti spesso in due lingue, arabo e greco, ma anche in tre lingue, arabo, greco e latino. E non mancarono documenti arabi scritti con grafia ebraica e viceversa, sia da filosofi che da mercanti. Arabi per lingua, ebrei per religione, nella Sicilia normanna, è una delle pregevoli pubblicazioni dello storico francese contemporaneo Henri Bresc. Cito solo il caso dell’Archivio storico diocesano di Catania, dove si conservano tre platee (sorta di registro di popolazione) pergamenacee (1098 e 2 del 1145) la prima solo in arabo le altre due in greco e arabo. Ora, finalmente, grazie al contributo della Provincia Regionale di Catania, è stato possibile promuoverne lo studio, la trascrizione e la riconsegna al nostro territorio. Sono circa 1320 nomi di capi famiglia che, se consideriamo ogni
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famiglia composta dai genitori e da una media di 6 figli, al 1145 vi erano ancora almeno 10.000 saraceni presenti nel territorio della città di Catania. I toponimici ci dicono che questi arabi provenivano da diverse regioni del Mediterraneo; è possibile recuperare la tipologia di maestranze operanti nel nostro territorio. Insomma, ci è restituita la condizione di Siciliani oggi, arabi ieri, come abbiamo intitolato il progetto. 5. UNO SGUARDO AL FUTURO: LA FONDAZIONE SYNAXIS Il progetto, finalizzato alla riappropriazione della memoria storica per l’identità e la cultura dell’isola nel presente, è scopo principale della Fondazione Synaxis. Costituita nel 2010 e iscritta nel registro prefettizio il 2 febbraio 2011, espressione dello Studio Teologico S. Paolo, parte integrante della Facoltà Teologica di Sicilia, mira a recuperare sempre più i valori di questo particolare aspetto della nostra storia, valorizzando la documentazione presente nel nostro territorio e promuovere nell’isola opportunità di dialogo interculturale, in modo da far lievitare i caratteri peculiari del suo stare nel cuore del Mediterraneo. Volutamente i tre medaglioni posti nel dépliant della Fondazione fanno riferimento ad espressioni di peculiare apertura e dialogo tra le tre religioni monoteiste del Mediterraneo: i simboli dell’alleanza fra Israele e il suo Dio; il Cristo pantocrator del duomo di Cefalù, voluto da Ruggero II, in età di convivenza fra cristiani latini, cristiani greci, musulmani ed ebrei; i “dervisci danzanti”, dell’ascetismo islamico sufi, con somiglianze a forme di ascetica e mistica ebraica e cristiana. In tutti e tre i riferimenti, Dio è l’assoluto e l’uomo — per fede: ebreo, cristiano o musulmano — è chiamato a cercare il suo Signore e a lasciarsi guidare da Lui per incontrarsi, non scontrarsi, con quanti appartengono ad altra fede e vivere insieme nel dialogo e nella reciproca collaborazione.
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6. PER UN NUOVO INIZIO: IL CAMPUS DI ALTI STUDI SUI MONOTEISMI DEL MEDITERRANEO In questa prospettiva, riteniamo indispensabile la realizzazione di un Campus di alti studi sui monoteismi del Mediterraneo. Strumento permanente — unico nel suo genere, visto che non pare ne esistano già — per sostenere, marcare e recuperare, per doverosa fedeltà e coerenza con la nostra identità di cuore del Mediterraneo, il fondamento della coesistenza di popoli, culture e religioni diverse in età medievale. Si tratta di raccogliere dalla storia lezioni utili al presente e superare letture erronee del passato, cause di scontri ideologici, di lotte religiose, di diffidenze culturali che, inesorabilmente, si mutano in conflitti sociali e politici. Siamo convinti che questa progettualità può costituire pure un volano per l’isola, per questa area dell’isola, nel recupero di sponda di approdo e di produttivo confronto dialogico di culture e religioni del Mediterraneo ma, perché no, anche di relazioni commerciali e imprenditoriali. Il Campus ci sembra che si collochi pienamente in linea con quanto affermato, soprattutto in due recenti occasioni, dal card. Jean—Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. A Villeurbanne (Lione) nel 2009 individuava tre sfide che oggi si pongono per il dialogo interreligioso: la sfida dell’identità (sapere e accettare chi siamo), la sfida dell’alterità (le nostre differenze arricchiscono gli altri) e la sfida della sincerità (non rinunciare a proporre, non imporre, la propria fede). Inoltre, ciò che a Strasburgo, nel 2011, all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa affermava per l’Europa a maggior ragione può valere per la Sicilia: «In Europa [in Sicilia] nessuna religione può imporsi con la forza. In Europa si dialoga. […] Perché le religioni sono anche culture e l’Europa è un crogiolo di convivenza di cui Strasburgo [la Sicilia] è laboratorio e simbolo. Ecco perché è importante che non manchino mai luoghi di scambio e condivisione [il Campus …] Facciamo in modo che mai il nome di Dio sia invocato per giustificare discriminazioni e violenze».
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G. DI CORRADO, Pietro pastore della Chiesa. Il primato petrino negli scritti di Agostino d’Ippona, Città Nuova, Roma 2012, pp. 547, ⇔40,00. Sarebbe superfluo rammentare il particolare momento storico ed ecclesiale che stiamo vivendo. Un momento, per la verità, in cui tanto si parla del Vaticano e tanto poco della Sede Apostolica, del Papa — spesso a sproposito — e del primato petrino. È innegabile che tutto questo sia stato posto in una luce del tutto diversa, a partire da un atto davvero rivoluzionario e quasi impensabile che costituirà uno spartiacque se non una cesura per la Storia della Chiesa cattolica all’inizio del Terzo Millennio dell’era cristiana. Le dimissioni di un Papa, in seguito al sereno e doveroso riconoscimento del declino delle proprie forze fisiche, hanno indotto cristiani e non cristiani, cattolici e cristiani di altre confessioni, credenti e non credenti, a riflettere su aspetti che pur sono profondamente inerenti al ministero ecclesiale, all’episcopato ed al papato. Uno di questi aspetti è certamente quello del servizio nella Chiesa, sul quale si torna a riflettere. In maniera positiva, si avverte anche la necessità di ripensare l’esercizio dell’autorità, nella Chiesa, al servizio della Chiesa stessa, compientesi nei ministeri ecclesiali, convergenti verso il ministero episcopale. L’attenzione confluisce, allora, sul ministero dei vescovi nelle chiese particolari sparse nel mondo, su quello del vescovo, nella chiesa di Roma, quindi, sul papato e sull’esercizio del suo ministero, configurato nel primato petrino. Il ripensamento del ministero episcopale nella chiesa cattolica comporta necessariamente una profonda revisione e rivisitazione del proprio essere cristiani nel mondo e dell’essere ecclesiale del battezzato. Senonché, nuovi modi di sentire e di esercitare il primato petrino si fanno avanti e si rendono manifesti ai nostri giorni, messi come siamo dinanzi ad un nuovo stile ecclesiale, testimoniato e professato da un Papa, successore eletto e designato, proveniente dalla
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«fine del mondo». Quest’ultimo, pur restando «vescovo di Roma», immediatamente dopo l’annunzio della sua elezione, dichiara ai fedeli di perseguire l’intento dell’evangelizzazione nelle periferie sia urbane che esistenziali ed in seguito, quello di realizzare una «chiesa povera per i poveri». Mostrando di perseguire questo desiderio e questo intento programmatico nei suoi primi viaggi apostolici e nei suoi primi gesti ed interventi magisteriali, questo Papa, vescovo e primate di una chiesa dell’America latina e non dell’Europa laicista e secolarizzata, intende coinvolgere con la propria testimonianza, tutte le chiese sparse nel mondo, all’insegna di una responsabilità — prima ancora che di un’appartenenza — davvero “cattolica”. Il volume di Giuseppe Di Corrado, scritto in un momento in cui nulla lasciava presagire quegli eventi, le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti, si presenta come uno strumento utile ed importante che aiuta a riflettere ed a volgere lo sguardo sul futuro immediato non soltanto della Chiesa ma anche del cristianesimo. Aiuta, in primo luogo, a ripensare la Chiesa come posta al servizio del Vangelo e degli uomini; in questo modo, apporta il suo contributo per uscire dai gravi rischi di una prospettiva autoreferenziale. Le parole che concludono questo notevole ed impegnativo lavoro di ricerca, edito dalla Città Nuova, appaiono presàghe di quello che di lì a poco nella Chiesa sarebbe avvenuto: «Dal momento che tante cose non coincidono con la situazione attuale, ritengo che la ricerca debba rimanere aperta a nuove prospettive, poiché i testi di Agostino custodiscono ricchezze sempre nuove e del tutto inaspettate.» (p. 517). Si tratta, infatti, di una ricerca ad opera di un patrologo, sulle opere e sugli scritti di Agostino, vescovo d’Ippona nell’Africa romana del IV e del V secolo. L’autore mostra valentemente di mettersi nel solco del rinnovamento delle discipline inerenti la Patristica, approfondendo la figura di Pietro pastore della Chiesa nella riflessione teologica dell’Ipponate. Nella Premessa, curata da Nello Cipriani, si mette in evidenza l’intenzione non velleitaria con cui nasce questo lavoro, ma trae spunto da quanto dichiarato dal Papa Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Ut unum sint, risalente al 1995, contenente un invito rivolto ai teologi a «trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione
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nuova» (p. 5). Una lettura attenta del volume mette subito il lettore in grado di apprezzare la svolta posta in atto dopo il Concilio Vaticano II, negli studi patristici, svolta i cui risultati e le cui prospettive sono messe pienamente a frutto da Di Corrado. Nel caso dei Padri della Chiesa, il teologo si sostituisce allo storico, poiché suo compito è quello di conoscere accuratamente, studiare, esaminare ed interpretare correttamente il loro pensiero teologico. Lo studio dei Padri mette allora in grado la Teologia di servire quel sensus fidelium che è operante nella Chiesa tutta come Popolo di Dio, in cammino nella Storia. È oggi parere unanime degli studiosi di Patristica, Patrologia e Letteratura cristiana antica che i propri interessi di ricerca e di studio, rivolti verso i Padri, anche se sono esclusivamente teologici, debbano superare il concetto teologico di Padre per abbracciare altri scrittori e l’ambiente culturale e sociale nel quale sono vissuti, al fine di recuperare il loro genuino pensiero. Sotto quest’aspetto, al Di Corrado si deve riconoscere il merito di aver posto attenzione alle fonti del pensiero esegetico e teologico di Agostino, per meglio comprenderlo e contestualizzarlo nel suo sviluppo storico, quali ovviamente Ambrogio ma anche Gerolamo e Mario Vittorino. Tuttavia, un approccio meramente storico allo studio dei Padri della Chiesa che si risolva alla fine in un semplice ritorno alle “origini” o nella ricerca pura e semplice di un nuovo “fondamento” non permetterebbe di superare l’empasse dello storicismo, nel quale rischia di impantanarsi l’attuale riflessione teologica cristiana. Infatti, si può sempre riuscire a compiere un’interessante e laboriosa ricostruzione del pensiero teologico dei Padri sui dogmi, sui problemi ecclesiali del loro tempo o sulle forme e sui generi letterari di cui si sono serviti nelle loro opere, senza, tuttavia, giungere al cuore del problema: quello cioè di una rimotivazione delle istanze della teologia cristiana e di una rifondazione epistemologica della sua ricerca. Proprio l’ultimo Capitolo di quest’opera riserva molta attenzione alle decisioni prese nei Sinodi locali della Chiesa d’Africa, attestate nelle Epistolae di Agostino, documentando i loro rapporti con la chiesa ed il vescovo di Roma e presentando la ricerca dell’unità e della comunione ecclesiale, argomento quanto mai attuale oggi, con l’innegabile distinzione fra chiese ricche e secolarizzate del “primo mondo” e chiese povere ma dina-
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miche e perseguitate del “terzo” e “quarto mondo”. L’apporto dell’antica teologia dei Padri alla ricerca teologica attuale è in costante sviluppo e divenire, realizzando e rendendo operativo il “ritorno alle fonti” che il Concilio Vaticano II esigeva ed esige ancora oggi. Nel riferimento ai Padri della Chiesa, si possono riscontrare i due occhi della Teologia. Il primo occhio è quello retrospettivo che guarda alla Rivelazione, quindi alla Scrittura ed alla fede come dono di Dio; il secondo è l’occhio prospettico che guarda al presente ed al futuro per illuminarli alla luce della fede. Guardando ai Padri della Chiesa, guardiamo contemporaneamente avanti ed indietro, per scorgere nel presente le strade e le vie da seguire per il futuro. Tenendo presente soprattutto quest’ultima istanza, il Di Corrado, nella sua Introduzione, in un rapido Status quaestionis, fornisce al lettore gli studi principali che si sono occupati della figura di Pietro nei Vangeli, in riferimento all’importante e tanto discusso passo di Mt 16,18-19. La chiave di lettura e di comprensione che permette di orientarsi negli studi e nelle discussioni in corso sul primato petrino, offerta dal Di Corrado, è quella della sua missione pastorale (pp. 17-24). L’autore pone poi alcune importanti e chiare premesse metodologiche, chiarendole e spiegandole puntualmente. La prima premessa metodologica riguarda il metodo storico-critico che ovviamente va esercitato sui testi: «Nella mia ricerca non intendo fermarmi a un’analisi meramente filologica, bensì cogliere il sistema argomentativo e teologico sottostante. Per meglio dire, vorrei comprendere il senso e individuare il filo che unisce i testi e le terminologie agostiniane con il pensiero e le terminologie di altri Padri, precedenti o coevi, per osservarne la continuità tematica e l’evoluzione teologica; talvolta l’eventuale discontinuità.» (p. 24). Puntualizza poi come: «Certamente, non va mai assolutizzato un singolo termine o uno scritto di Agostino, piuttosto va contestualizzata ciascun’affermazione e ogni opera, confrontandola con le altre. Il pensiero dell’Ipponate va dunque osservato nella sua interezza.» (p. 25). In virtù di questa intenzione, l’analisi del nostro autore si esercita sull’intera, vasta, produzione agostiniana, nei passi, nei brani ed in quei luoghi testuali, in cui si parla di Pietro e del primato petrino. L’esame dell’opera agostiniana, in tutti i suoi scritti, in quei passi e brani in cui ricorre Pietro, la sua figura di Apostolo, con un preciso e
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diretto rapporto di Gesù con Pietro, distinto da quello di Gesù con gli altri apostoli, intende offrire un vasto materiale ove si eserciti l’occhio prospettico della Teologia, per esaminare lo status della chiesa africana tra IV e V secolo, ponendo attenzione allo status della Chiesa ai nostri giorni e quindi, porre ipotesi e soluzioni per il futuro. Il fine e lo scopo della sua ricerca non induce Di Corrado ad esaminare ed a soffermarsi soltanto sui testi esegetici agostiniani ma anche sui Sermones, sulle Epistolae e su opere che confutano le eresie della chiesa africana dell’epoca di Agostino, prima fra tutte quella donatista, poi la pelagiana ed anche la manichea. Opere tutte che forniscono un vero e proprio dossier di citazioni, passi, brani, terminologie, fraseologie, epiteti, riferibili al primato di Pietro ed alla sedes romana. Non è facile riassumere la considerevole mole documentaria ivi presentata ed escussa, d’altra parte non sarebbe nemmeno giusto, visto che giova maggiormente al lettore colto attendere alla lettura di questo libro, per meditare non solo sui testi ma anche sulle osservazioni, sulle conclusioni e sulle analisi testuali dell’autore. Ci limiteremo, dunque, a cercare di delineare il percorso che il Di Corrado segue all’interno della sua opera. Tra gli interrogativi teologici che l’autore pone, il più interessante ci sembra quello inerente la metodologia adottata. L’autore afferma infatti: «Mi chiedo se sia possibile far risaltare l’apporto della moderna metodologia storico-critica, che permetta di non strumentalizzare singole asserzioni agostiniane estrapolandole dal contesto, bensì di relazionarle al sistema di pensiero dell’autore, considerato nel suo insieme.» (p. 27). Inoltre, l’autore fa notare come il tema dell’autorità nella Chiesa sia diventato argomento di discussione, non soltanto nella chiesa cattolica, ma anche in quella anglicana. Proprio l’aspetto dell’autorità, nell’analisi dei testi agostiniani, riguardanti la figura di Pietro ed il suo rapporto con Cristo, diventa fattore di unione e non di divisione ed acquista una valenza ecumenica. L’opera si compone di quattro capitoli, nel primo, su L’esegesi agostiniana di Mt 16,18-19 (pp. 29-144), l’autore affronta l’esegesi agostiniana del passo in questione. Nel secondo, su Pietro, gli Apostoli, la Chiesa (pp. 145-333), si passano in rassegna nei testi dell’Ipponate, le terminologie e la fraseologia adoperata intorno al primato ed al ministero petrino come Pietro o Cristo Pastor Ecclesiae, Petrus, totius
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Ecclesiae figuram gerens, Cathedra Petri, Principatus apostolicae cathedrae, Cathedra unitatis, sedes Petri, Sedes apostolica, Sancta sedes. Nel terzo, su Gli scambi epistolari con i vescovi di Roma (pp. 335-423), si esaminano testi epistolari di Agostino, in particolare, le espressioni che testimoniano la deferenza, l’attaccamento ed il rispetto verso il vescovo di Roma e le sue prerogative in materia dottrinale, distinguendo la corrispondenza epistolare dell’episcopato africano da quella personale di Agostino con il vescovo e la Chiesa di Roma. Nel quarto, su Concili episcopali e sede apostolica nel pensiero di Agostino (pp. 425-474), già accennato, l’attenzione si rivolge all’importanza del Sinodo come strumento per incrementare la comunione nella chiesa locale e fra le chiese di una stessa provincia ecclesiastica. Nel primo Capitolo, l’analisi del nostro autore parte dai testi biblici e dall’esegesi agostiniana; si esercita così l’occhio retrospettivo della Teologia, utilizzando in maniera intelligente una fonte particolare del pensiero e dell’opera dell’Ipponate: le Retractationes. Queste, scritte ormai alla fine della sua vita, sono una vera e propria miniera di informazioni sulla genesi, lo sviluppo e l’apprezzamento da parte dello stesso Agostino di ogni sua opera da lui scritta. Le Retractationes esprimono un particolare atteggiamento del vescovo d’Ippona: «Così quest’atteggiamento letterario, davvero unico nell’antichità cristiana, si fonda sul lavoro critico di una rilettura preoccupata di precisare tanto l’espressione quanto l’interpretazione. In questo senso, le Retractationes costituiscono il testamento più esplicito di Agostino, a mio modo di vedere anche in senso teologico.» (p. 31). Proprio un passo delle Retractationes, dilungandosi sul Loghion di Gesù, rivolto a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (cfr. Mt 16,18), offre ad Agostino l’occasione di rispondere in modo singolare: lascia cioè al lettore la scelta di interpretare il Loghion, nei due modi di una possibile interpretazione. Il Loghion di Gesù può essere inteso, infatti, nel senso che la «pietra» è Pietro; oppure, nell’altro senso, la «pietra» si riferisce a Cristo. Passando in rassegna una mole considerevole di testi agostiniani (pp. 39-68), il Di Corrado non limita la propria analisi ad Agostino, ma, perspicuamente, la estende ad Ambrogio e ad Ilario di Poitiers. Proprio in Ambrogio, nell’Expositio Evangelii secundum Lucam, Agostino, neo-battezzato e giovane
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presbitero, avrà letto l’interpretazione della «pietra» nella persona di Pietro. Oseremmo avanzare un’ipotesi suggestiva: che cioè Agostino, giunto a Milano, avesse ascoltato tale interpretazione esegetica, dalla viva voce del vescovo di quella chiesa, durante la spiegazione al popolo della Scrittura. Tuttavia, l’autore si rende conto che l’analisi diacronica dei testi agostiniani sull’esegesi del passo matteano non può reggersi, dal momento che lo stesso Agostino testimonia negli stessi anni la recezione di entrambe le interpretazioni: «In altri termini, non c’è un periodo ben circoscritto in cui Agostino pensa che la pietra sia da interpretare come la Chiesa, poi un altro periodo in cui la pietra sia da intendere come la persona di Cristo. Ho motivo di ritenere che negli scritti di Agostino tutte queste letture convivano insieme.» (p. 69). In questa circostanza, giustamente, l’autore conclude non per un’ambiguità od un’oscillazione nell’esegesi di Agostino, quanto piuttosto per un’influenza nell’esegesi e nello studio delle Scritture della sua attività pastorale. In questo modo, sono gli interessi verso il problema del donatismo a volgere Agostino verso l’interpretazione della «pietra» come Cristo. Da questa considerazione, emerge un’importante conclusione metodologica nello studio dell’opera agostiniana: «I singoli testi non vanno mai assolutizzati o, cosa peggiore, decontestualizzati; piuttosto, essi vanno letti sempre nella loro globalità e mai separati dall’esperienza dell’autore, dalle vicende da lui vissute e dal suo pensiero complessivo.» (p. 70). Insieme a questa conclusione, emergono nel Di Corrado altre due considerazioni metodologiche, la prima è quella di analizzare i testi uno per volta; la seconda è quella di cercare e trovare possibili fonti patristiche che, nel caso della seconda interpretazione esegetica, sono Gerolamo e nelle opere contro il Donatismo, sono Cipriano ed Ottato di Milevi. È nel Iohannis Evangelii Tractatus che Agostino raggiunge una vetta nell’esegesi del passo matteano in questione. In esso, Cristo è visto da Agostino come origine e fondamento della Chiesa; dunque l’espressione Petra vero Ecclesia indica l’unità della Chiesa, solida come appunto la pietra. Nello stesso Tractatus, si fa più sfumata e profonda l’esegesi agostiniana; ma vogliamo riferire la conclusione, molto importante, dello stesso autore: «Una prima volta è da intendersi come la Chiesa (petra vero ecclesia), mentre una seconda volta essa è da
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interpretare come la fede che Pietro ha confessato nel Cristo e quindi, in ultima analisi, la pietra è Pietro (et ibi nominavit petrum), nell’atto di dichiarare la sua fede nel Cristo.» (p. 75). Per cui, il Di Corrado può sostenere, esaminando altri testi agostiniani, che: «Si ha come l’impressione che Agostino stia iniziando a ripensare la sua immagine di Chiesa, anzi dell’auctoritas della Chiesa, non più poggiata sulla persona di Pietro come tale, ma sulla fede in Cristo da lui confessata.» (p. 80). La considerazione e la meditazione dell’umanità e della debolezza di Pietro spinge così Agostino ad indagare sul rapporto tra Pietro e Cristo, quindi sulla fede in Cristo come fondamento della fede di Pietro, quindi, sul fondamento di tutta la Chiesa. Non Pietro quindi, ma la fede di Pietro fonda la Chiesa; la fonda, precipuamente, questa comunione di Pietro con Cristo, comunione di fede, pur con le sue debolezze e la sua umanità. Ci pare pregnante l’immagine dell’unione sponsale che Agostino accosta proprio in riferimento a Pietro, ma ci sovvengano le valide parole di Di Corrado: «Si rivela forte e profonda la relazione di unità tra Cristo e la Chiesa, che Agostino immagina come una realtà solida, assimilabile a un’unione sponsale in cui, come aveva già detto, Cristo è lo sposo e la Chiesa è la sposa.» (p. 76). Così, nel Sermo 229 P, Agostino arriva ad indicare per «pietra» la fede che Pietro ha confessato nel Cristo (p. 93). La pietra quindi è Cristo e nella relazione di reciproco riconoscimento tra Pietro e Cristo si configura certamente un primato di Pietro fra gli altri apostoli, per cui Petrus primus Apostolus. Evidenziando ancora una volta la metodologia seguita, si conclude con l’autore che l’interpretazione agostiniana del passo matteano in questione non segue un rigoroso ordine cronologico. È condivisibile, quindi, che: «In modo specifico, questo lavoro d’indagine sostiene che nonostante lo sforzo di situare i vari testi agostiniani entro una dimensione spazio-temporale accettabile, non sempre essi sono collocabili in fasi diacroniche ben distinte, tali da succedersi logicamente e cronologicamente uno all’altro.» (p. 141). Per cui, importa la conclusione concisa e compiuta dell’autore secondo il quale: «In fondo queste varie interpretazioni della pietra coesistono, sono in stretta relazione e fanno comprendere che proprio nella vera relazione con la Chiesa e con Cristo si genera una fede forte come quella di Pietro, assimilabile all’immagine della pietra.» (p. 144). Nel
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secondo Capitolo la vicenda umana di Pietro, la sua umanità intrisa di entusiasmo e di debolezze, di peccato e di fedeltà, giustifica la scelta e l’elezione di Pietro da parte di Gesù, fra gli apostoli. Per cui, Pietro è primus Apostolus a motivo della sua umanità. In questo Capitolo, il Di Corrado si sofferma sulla terminologia riferita a Pietro, in merito a questo “primato”; ebbene, è suggestiva l’ipotesi di Di Corrado di un soggiorno di Agostino a Roma, durante il quale avrebbe appreso da Mario Vittorino il termine di fundamentum Ecclesiae, riferito a Pietro «fondamento» della Chiesa di Roma. Primus, allora, si assocerebbe in Agostino, al graduale apprendimento ed alla progressiva consapevolezza del fundamentum della Chiesa romana (p. 155). In questo capitolo, perspicua ed assai approfondita, appare la ricerca lessicale e terminologica nonché dei lemmi, oggi certamente favorita dall’uso del Computer e di importanti sussidi e strumenti informatici, quali il CdRom. Tuttavia, occorre un sano metodo critico ed un acuto discernimento per valutare ed interpretare i dati raccolti. In tal modo, il secondo Capitolo ci presenta una vasta raccolta analitica di materiale, utilissimo agli studiosi che si cimenteranno in futuro, in questo campo d’indagine. Un’affermazione dell’autore, in merito all’analisi dei dati raccolti, val la pena di riferire: «Poi ancora, Pietro rappresenta la Chiesa in quanto nella sua persona è riassunta l’esperienza dell’umanità della Chiesa, con tutte le debolezze e i limiti della totalità dei cristiani. Ma soprattutto Pietro rappresenta la Chiesa poiché nella sua persona si rende presente il popolo cristiano e nel linguaggio di Agostino egli è il segno autentico e rappresentativo dell’unità della Chiesa.» (p. 218). Rimarchevole, inoltre, il dato secondo il quale il Di Corrado si rimette alle testimonianze patristiche su questa esperienza di Pietro che si designa e si specifica come primatus fra gli apostoli, nella Chiesa. Giustino, Ignazio d’Antiochia, Ireneo di Lione, Cipriano di Cartagine, Eusebio di Cesarea, Ilario di Poitiers sono solo le maggiori testimonianze sul primatus della chiesa dove Pietro è morto martire, che attestano il particolare influsso della chiesa di Roma, sulle altre chiese dell’oikouméne. Rinviamo, ovviamente, alla lettura diretta del secondo Capitolo, ricchissimo di notazioni sintattiche, lessicali, teologiche ed ecclesiologiche. Nel terzo Capitolo, l’autore utilizza in maniera inedita l’Epistolario di Agostino, analizzando ed esaminando
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i testi epistolari che ci ragguagliano sui rapporti dei vescovi africani con il vescovo di Roma e su quelli intercorsi fra Agostino ed il vescovo di quella chiesa che ha una particolare preminenza su tutte le altre. Interessa notare come il valore documentario e storico si unisca alla ricerca teologica, diventando ricerca e riflessione ecclesiologica ed offrendo materiale importante alla questione dell’ ”autonomia” della Chiesa africana dalla Sede romana (pp. 399-400). Storia e Teologia s’incrociano e s’incontrano e nell’ecclesiologia, la Teologia, lungi dal divenire disciplina sussidiaria, mostra il suo valore ed il suo significato nel servizio ecclesiale alla comunione ed all’unità. Il quarto Capitolo si occupa, infine, del rapporto fra i concilii episcopali e la Sede apostolica. Si può dire che sia il Capitolo del libro più gravido di prospettive, di suggerimenti e di spunti per il presente ed il futuro della Chiesa. Di certo, l’analisi del Di Corrado non è né sterile erudizione né pura ricerca antiquaria. Il Capitolo quarto offre la possibilità di scorgere l’opera e l’attività di Agostino, il suo impegno al servizio della Chiesa d’Africa ed il suo rapporto con il vescovo di Roma, improntato al dialogo ed alla discussione, leggiamo infatti: «La Chiesa africana dava priorità al senso adulto del confronto, al reciproco e caritatevole scambio di opinioni per giungere a soluzioni sinodali cioè condivise dall’unanimità dei vescovi anche se, come si è visto, talvolta si è sfiorata la soglia del conflitto con la Sede romana.» (pp. 438-439). La rassegna dei testi, soprattutto di quelli che vertono sul donatismo, mostra come i concilii episcopali siano stati uno strumento importante per discutere le affermazioni dei donatisti, soprattutto per le interpretazioni di alcuni passi di Cipriano (pp. 445-448). In tal caso, l’autorità dei Concilii è superiore a quella di un testimone della Traditio, quale appunto Cipriano, vescovo di Cartagine. Così, sulla base dei testi escussi, il Di Corrado può affermare che: «A un livello più alto sta l’autorità del concilio che è data dal consenso e dall’accordo dei vescovi, a un livello più basso sta quella del singolo vescovo nella Chiesa particolare.» (p. 458). Termini come auctoritas e vigilantia, per citare i più importanti, vengono così individuati ed analizzati nei luoghi testuali ed infine discussi, alla fine di ogni Capitolo, in una sintesi finale. Le Conclusioni tirano le somme dalla mole documentaria e dall’analisi testuale, arrivando alla conclusione che il ruolo pastorale del vescovo
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di Roma si esercitava in modo sostanzialmente diverso, rispetto all’età medievale e quindi, all’epoca attuale. Infatti, il vescovo di Roma rispondeva solo se interpellato da Agostino o da altri vescovi africani, con consigli, suggerimenti, ragguagli. Il Di Corrado ammette che tanti elementi sono ancora poco chiari, suscettibili di discussioni, nell’opera di Agostino, ma appare essere propenso a sostenere la necessità di un modo diverso di esercizio del primato petrino. È un libro dal solido impianto critico, con chiare e leggibili note, con la riproduzione in nota dei testi latini più importanti che consentono di confrontare la versione italiana nel testo. Una Bibliografia ricca ed aggiornata correda il presente volume che appare essere un’utile novità nel panorama degli studi patristici attuali. Francesco Aleo
B. APRILE (cur.), La relazione educativa nella post-modernità. Itinerari tra scienze, culture e sapienza, Edizioni Messaggero, Padova 2012, 496 pp., ⇔28,00. Un libro dal titolo così impegnativo non lascia spazio a molti dubbi né a molte domande circa il suo scopo e le sue finalità, eppure scorrendo l’indice posto alla fine del volume ci si può non poco stupire per la ricchezza dei connotati e dei caratteri che formano la relazione educativa. Connotati e caratteri presentati e si può dire rivelati, dalla molteplicità dei contributi che formano quest’opera, che si presenta come una raccolta rigorosamente ordinata e suddivisa in tre sezioni, preceduti da una Introduzione di Ugo Sartorio, insieme alla Presentazione di Domenico Paoletti, che permettono di fare il punto sulla questione educativa nella post-modernità. La prima sezione è così riservata a Filosofia, Pedagogia, Psicologia; la seconda è dedicata a Bibbia e Teologia; la terza, infine, a Letteratura, Musica, Arte, Cinema. Sezioni che arricchiscono sia la trattazione che la riflessione, inerenti la questione educativa e la relazione educativa. Va da sé che la complessità ed articolazione delle varie discipline umanistiche, scientifiche e teologiche nella riflessione sull’educativo e sulla questione educativa è un portato della postmodernità nella quale viviamo,
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caratterizzata, come si può vedere nel nostro paese, proprio dall’emergenza educativa riscontrabile a tutti i livelli, da quello politico, culturale, spirituale ed ecclesiale a quello socio-economico. Scritta a più mani e curata da Biagio Aprile, francescano conventuale di Sicilia, direttore della Cattedra Dialogo tra culture di Ragusa, dopo Dialogo tra le culture. Ebraismo — Cristianesimo — Islam del 2011, quest’opera rappresenta un altro strumento quanto mai utile, per orientarsi non soltanto fra le complesse tematiche del dialogo interculturale ed interreligioso, ma anche, nello specifico, fra quelle legate all’educativo ed all’educare. Si tratta, quindi, di un’opera che, pur nella varietà e nella pluralità dei suoi contributi, riesce a conservare ed a presentare una propria armonica fisionomia, assurgendo ad opera polivalente e non limitata soltanto all’ambito religioso. Quell’interculturalità e quella transdisciplinarietà, ritenute ed invocate quali elementi fondamentali per una teologia in dialogo con le scienze umane, diventano in quest’opera piste agevoli e praticabili, consentendo di parlare in modo nuovo della relazione educativa, dal momento che senza relazione e quindi senza dialogo — in quanto entrambi mettono il soggetto dinanzi all’altro diverso da sé — non si può oggi parlare assolutamente di educazione e dell’educare. La Presentazione di D. Paoletti, Preside della Pontificia Facoltà Teologica «San Bonaventura» di Roma, insiste sulla necessità di un nuovo approccio educativo che prenda in considerazione la fede cristiana ma soprattutto l’uomo e la sua persona, la cui trascendenza è messa oggi in dubbio, al punto che è in discussione «lo stesso concetto di uomo» (p. 11). L’Introduzione di U. Sartorio (pp. 15-31) è quella che permette di intravedere una concreta ed obiettiva direzione per orientarsi nella ricca varietà di contributi, di stimoli, di piste e di nuove opportunità di ricerca offerte da questo libro. Assistiamo oggi non solo ad una difficoltà ma anche ad una vera e propria crisi della relazione intersoggettiva, quindi dell’educazione. Al pari dell’explicatio terminorum dei medievali, che serviva a conoscere ed a far conoscere i termini della vexata quaestio o quaestio disputata, prima d’iniziare la disputatio vera e propria, l’Introduzione, dal titolo La questione educativa. I nodi e gli snodi, offre attraverso efficaci e sintetiche definizioni, la spiegazione dei termini necessari a parlare nella post-modernità di educativo e di educazione.
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Così, per Sartorio, «L’azione educativa è introduzione all’esperienza integrale della realtà, e nella sua essenza il legame educativo mette in relazione due liberi soggetti — l’educatore e l’educando — coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale» (p. 19). Proprio questo coinvolgimento del soggetto o dei soggetti nell’azione educativa, rende possibile educare, dal momento che l’educazione non prescrive soltanto delle norme, facendone rispettare l’osservanza, ma mira a formare, nella sua integralità, il soggetto-persona. Senza il coinvolgimento dell’educare, la persona dell’educando è destinata a restare sola ed a porsi nella realtà in una prospettiva autoreferenziale che esclude dal proprio orizzonte sia l’educatore sia gli altri soggettipersone, con i quali instaurare una relazione interpersonale, umana ed educativa. In tal caso, nell’azione educativa «La condizione finale dell’uomo sarebbe allora quella dell’autocostruzione, in una sorta di isolamento esistenziale senza passione per la verità e senza gusto per la libertà.» (p. 20). In un contesto quale quello post-moderno e “liquido”, con una patente indifferenza verso ciò che è bene e ciò che è male, vero e falso, bello e brutto, dove si pone in dubbio anche l’identità della persona, fino a quella di genere ed il suo ruolo nella relazione con i suoi simili, in nome di un falso concetto di libertà, si è abdicato alla missione educativa, compito inderogabile di una società, di un’istruzione e di una scuola, degna di questo nome. Un’altra definizione efficace e sintetica di Sartorio afferisce proprio alla libertà, «la libertà non può essere intesa, allora, in senso illuministico, come dissoluzione delle norme per un ampliamento continuo del proprio campo d’azione, ma va colta nel suo orientamento originario alla verità.» (p. 24). Laddove l’educatore non faccia propria la missione educativa e la passione per la verità, questi si ridurrebbe ad una vana, inconsistente e fredda figura di un’istituzione inutile ed anacronistica, incapace di comunicare contenuti educativi autentici, quindi formativi, incapace di relazioni interpersonali, depositaria di un’autorità dannosa ed oppressiva che chiede «in nome dei valori» e del «rispetto dovuto» alle giovani generazioni, un tributo di attenzione prima ancora che considerazione che sono sempre più in pochi oggi a riconoscere di dover dare. È questo il caso, purtroppo, di tanti insegnanti sottopagati, stressati e delusi, tipico del nostro disastrato sistema scolastico. La
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passione per la verità deve animare così la relazione educativa, posta dall’educatore che deve spingersi quindi a cercarla, non soltanto nell’educando, ma anche nella realtà in cui educatore ed educando vivono ed agiscono. Proprio la ricerca della verità è al centro del pensiero educativo di Antonio Rosmini, come possiamo leggere nel contributo di Giuseppe Di Mauro dal titolo La relazione educativa alla luce del pensiero di Antonio Rosmini (pp. 35-58), nella prima sezione. Quando il roveretano affermava che «l’umana mente è fatta per la verità, e l’uman cuore per la virtù» sottolineava che la verità nella sua «sostanza» è Gesù Cristo, il quale non s’impone sull’anima del discepolo per la via dell’autorità ma per la via dell’amore e del suo coinvolgimento nella relazione divina che ci fa diventare figli nel Figlio. Ciò non fa dimenticare al Rosmini il piano antropologico della conoscenza, per cui il linguaggio assume una funzione importante, in quanto permette al momento percettivo di divenire momento linguistico ed al dato della realtà di divenire dato culturale (p. 49). Il fine dell’educazione e lo scopo dell’educatore è allora quello di far giungere l’educando alla contemplazione della verità, che, sola, ci fa diventare uomini. Di Mauro può così notare che: «Per questo la pedagogia si tramuta, in ultimo, in ascesi e cammino comunitario, con la sua capacità di penetrare nel sacrario della coscienza di ogni uomo, al di là di moralismi o ideologie.» (p. 54). È un richiamo forte, quello di Rosmini, non semplicemente “religioso”, teso a conciliare l’educazione e la pedagogia con la teologia, in nome della verità che indica le mete che contano veramente per la persona, in un cammino autenticamente umano. Carmelo Vigna, invece, nel suo contributo La postmodernità e la deriva della frammentazione. Il rimedio educativo dei legami (pp. 59-76), pone attenzione alla post-modernità, alla frammentazione — tratto tipico dell’«amore liquido» — della vita affettiva e della coscienza personale. Quest’ultima rinuncia sempre più oggi a unificare fra loro i fenomeni del reale, alla ricerca di un senso, tanto che si può parlare oggi non di coscienza vigile ed attiva quanto piuttosto di “coscienza invasa” o del tutto indifferente al bene ed al male, al vero ed al falso, al bello ed al brutto. Così, le comuni evidenze morali, emergenti dai Dieci Comandamenti, sono ormai lontane dalle pratiche pubbliche. In tal modo, nota l’autore, può non importare più
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con chi fare sesso se con un uomo o con una donna o con un ragazzo oppure ci si prostituisce, senza che ormai tanti esprimano o sentano una particolare riprovazione, a meno che non lo si faccia vicino al proprio portone di casa, in tal caso si fa ricorso alla forza pubblica, per la sicurezza e la tranquillità dei bravi cittadini (p. 66). Il contributo di Vigna porta così la nostra attenzione sulla capacità di giudizio e di discernimento della coscienza che oggi stenta a riconoscere quale sia il vero bene per sé e per gli altri, non potendo nemmeno concepire, quindi, l’azione educativa. La domanda etica è indissolubilmente legata alla domanda ed alla ricerca della propria identità ed è innegabile che questa ricerca sia divenuta estremamente problematica nello statuto di relativismo etico e di “liquidità” in cui versano i legami sociali ed affettivi nella post-modernità. Ivo Lizzola nei suoi due contributi Costruire identità nella fragilità (pp. 77-91) e Pensare per generazioni (pp. 93-100), postula la fragilità come risorsa e non come limite da esorcizzare e da negare con il delirio d’onnipotenza, indotto nell’uomo post-moderno dall’uso degli strumenti messi a disposizione dallo straordinario progresso tecnologico d’inizio millennio. La fragilità, così, come quella del bambino o dell’anziano o del malato in una famiglia, fa rilevare la necessità della relazione come cura dell’altro, in un tempo in cui l’indifferenza fra le generazioni rischia di chiudere il soggetto nei propri diritti e nelle proprie rivendicazioni, anche all’interno di una stessa famiglia, negando uno scambio affettivo ed emotivo fra le generazioni, con i nonni per esempio, grazie ai quali passa anche l’autentica relazione educativa. Abderrazak Sayadi, nell’unico contributo in lingua francese dell’opera dal titolo Comment enseigner une culture étrangère sans la déformer (pp. 101-116), mette in evidenza come un’educazione religiosa nel mondo multiculturale e multireligioso, in continuo mutamento nel quale ci troviamo, deve spingere a cercare l’altro, la sua esperienza, anche quella religiosa oltre che culturale, come opportunità e fonte d’arricchimento per sé, superando tutti gli stereotipi culturali che si rivelano costruzioni posteriori, indotte anche dall’educazione e dal sistema educativo. Domenico Simeoni, nel suo contributo dal titolo Cercatori di senso. Itinerari educativi nella post-modernità (pp. 117-148), scorge nella relazione con l’altro, in particolare in quella che presiede all’innamoramento, tipico
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ma non solo, della condizione giovanile, il valore ed il potenziale educativi della sofferenza e della crisi. Queste costituiscono un’opportunità preziosissima che permette ai giovani una maturazione affettiva reale e più sicura per impostare su nuove e solide basi una relazione d’amore autentica, sapendone contenere e dominare le implicazioni e le pulsioni emotive, affettive, sentimentali e sessuali, senza rischiare una deriva senza ritorno oppure di essere travolti in una spirale di violenza, i cui esiti quali il femminicidio, sono sotto gli occhi di tutti. Il contributo di Zdzislaw J. Kijas (pp. 149-164) dal titolo Il lavoro, la carità, il rifiuto dell’avarizia. Educare per un futuro migliore (pp. 150-151), ci ricorda che «il lavoro, quello più importante, unico e veramente necessario, indispensabile, è in fondo il lavoro che riguarda me stesso, la mia maturazione, la mia crescita interiore, la perfezione in ogni senso della parola.». La sapienza ebraica, chassidica, dell’Europa Orientale permette all’autore di rilevare come il lavoro può smarrirsi nell’insensato e vano desiderio del guadagno e sfociare nel vizio dell’avarizia che avvelena l’anima. L’avarizia è così un rapporto sbagliato con le cose per cui ci si dimentica che tutte le cose del creato, compresi i beni ed il denaro, appartengono a Dio e ci devono aiutare a vivere bene, ricordandosi di Dio e dei poveri, dando loro una parte dei nostri beni che abbiamo guadagnato con il nostro lavoro, in elemosina. Il contributo di Kijas mette in evidenza la drammatica insipienza del nostro tempo e della nostra società, protese esclusivamente al profitto ed al consumo di beni superflui, assolutamente non necessari. La seconda sezione dell’opera comincia con il contributo di Luciana Pepi dal titolo L’educazione nella tradizione ebraica. Alcune riflessioni (pp. 167-184), che consente di porre attenzione a quel patrimonio che è la Torah per gli ebrei. Questa, ricordiamolo, è la Legge contenuta nei primi cinque libri della Bibbia o Pentateuco, dalla quale discende l’Halakhah o la “normativa” della Sapienza ebraica. Nell’Halakhah, nota la Pepi, non vi è esposta in maniera sistematica una teoria pedagogica, ma un vero e proprio sistema di vita, infatti «gli esempi, le parole, le vicende in essa narrate sono per l’ebraismo la fonte di principi e istruzione.» (p. 168). Inoltre la Torah, oltre a conseguire il perfezionamento dell’anima, ritiene per suo fine anche il perfezionamento del corpo. Appare così come l’edu-
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cazione ebraica sia basata sulla trasmissione, quindi sull’insegnamento di una tradizione da consegnarsi integra ed efficace, nel suo intento formativo, alle giovani generazioni. L’attenzione all’insegnamento, quindi allo studio, sono al centro dell’opera educativa e formativa alakhica. Il saggio, allora, diventa tale soltanto con lo studio della Torah e dell’insegnamento dell’Alakhah, poiché deve poter recuperare la saggezza donata da Dio all’uomo alla nascita, ma dimenticata al momento del proprio ingresso nel mondo. Ma in cosa consiste l’opera formativa alakhica? Questa, consiste essenzialmente nella tradizione del suo stesso insegnamento, dal momento che «La tradizione, infatti, è necessariamente basata sull’insegnamento, ovvero la ripetizione di concetti, regole di comportamento e usi, finalizzata alla formazione di un’identità ebraica consapevole.» (p. 175). Questo però non deve indurci a pensare ad un’educazione autoritaria e puramente formalistica, infatti «nell’educazione ebraica ha sempre grande spazio l’insegnamento orale, la discussione che sollecita il confronto, la spiegazione, l’interpretazione molteplice, la dinamicità del pensiero, la dialetticità di domanda e risposta.» (p. 179). Alla rigidità statica della Scrittura corrisponde dunque, nella riflessione educativa ebraica, la dinamicità intrinseca dell’oralità. Proprio sulla Scrittura, ma in altra, interessante prospettiva, s’incentra il contributo di Roberto Vignolo dal titolo Pregnanza e limiti della pedagogia sapienziale di Proverbi 2 (pp. 185-210). Il tema educativo del Timor di Dio o timor Domini permette all’autore del Libro dei Proverbi di non attestarsi su posizioni ingenuamente moralistiche, gnomiche o didascaliche. Infatti, come nota Vignolo, l’invito rivolto al giovane inesperto dalla «Donna straniera», contrapposto a quello della Sapienza, non gioca semplicemente sulla corruzione apportata dalla stimolazione dei sensi o della sensualità ad opera del fascino femminile, semmai proprio sulla seduzione intima, operata nell’animo del giovane dalle parole della «Donna straniera» che stravolgono e sovvertono i valori impartiti dall’insegnamento della Sapienza, in un gioco di rinvii verbali contrapposti, per cui alla fine, quello della Sapienza rimane la parola, quindi l’insegnamento, di gran lunga preferibile. In Qohelet, poi, vediamo come il Timor Domini di Proverbi ceda il passo al memento mori, nel senso che per l’uomo, fonte della Sapienza non è soltanto Dio, ma
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anche la consapevolezza della propria fragilità, quindi dell’attesa della morte che porrà fine alla nostra vita sotto il sole. Proprio sull’umano e sul posto che gli riserva un’autentica relazione educativa, s’incentra il contributo di B. Aprile, Il recupero dell’interiorità nella relazione educativa: la lezione di Agostino ripensata da Tommaso d’Aquino (pp. 211-244). In esso, l’autore opera un interessante confronto fra l’ipponate e l’aquinate; il primo nel De magistro pone gli inizi dell’illuminazione, alla scoperta della verità in sé stessi, sulla scorta dell’anàmnesis platonica, nell’anima dell’educando o nella sua interiorità. È all’interno della sua interiorità, infatti, che si trova la verità, portata fuori, attraverso il procedimento maieutico, dall’educatore. Il secondo, invece, sulla scorta del pensiero aristotelico, è più propenso a valorizzare anche gli apporti esterni nel processo educativo e d’apprendimento. Soprattutto per quanto riguarda l’apprendimento, l’aquinate afferma che l’educatore deve operare, in modo da sviluppare o da porre in atto le potenzialità del sapere. In entrambi, dunque, la relazione educativa è necessaria, per concretizzare un’opera autenticamente educativa e formativa. Tenendo presente l’assunto di un grande maestro della post-modernità, «Non a caso Z. Baumann ha parlato di modernità liquida per indicare una concezione in cui nulla è solido ma tutto si dissolve in un continuo rincorrersi di messaggi e in un continuo passaggio da uno stato di vita a un altro.» (pp. 261), Gianni Colzani nel suo contributo, dal titolo Autonomia della persona e sapienza comunitaria: l’educazione in un mondo post-moderno e globale (pp. 245-288), riconosce l’emergenza posta dalla crisi educativa oggi e ne raccoglie la sfida per un’autentica educazione cristiana, ispirata al vangelo, con una molteplicità di itinerari educativi, insistente sulla comunicazione, fornendo nel contempo una risposta alla domanda sulla quale verte la crisi antropologica attuale, non soccorrendo più come in passato la sola nozione di «natura», per cui «la persona è soprattutto relazione, apertura ed è vivendo questa relazionalità che risponde a Dio e realizza se stessa.» (p. 257). Proprio all’identità della persona in relazione alla comunicazione di un messaggio che trascende le parole umane, si riferisce il contributo di Edoardo Scognamiglio, dal titolo Verso una pedagogia del dialogo: religioni — culture — evangelizzazione (pp. 289-340). La questione dell’identità
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cristiana diventa anche questione educativa, inerente alla vera natura del dialogo ed alla chiarificazione della differenza religiosa, dell’alterità, quindi della differenza cristiana. Il contributo di Scognamiglio si dilunga sul dialogo, fin quasi a diventare un decalogo od un prontuario per stabilire e riconoscere le norme e le regole del vero dialogo e della comunicazione interpersonale. Nella terza sezione, i contributi ivi presenti percorrono un cammino all’insegna dell’interculturalità tra Letteratura, Musica, Arte e Cinema. Brunetto Salvarani nel suo contributo dal titolo «In difesa di Giobbe e Salomon». Percorsi interculturali fra letteratura e teologia (pp. 343-365) pone numerosi e molteplici riferimenti letterari e culturali dell’Ottocento e del Novecento ai racconti contenuti nella Bibbia, racconti di liberazione come nel Libro dell’Esodo; di coraggiosa presa di coscienza della propria umanità e della realtà delle cose, come in Qohelet; di sofferenza come in Giobbe; di sofferenza per amore dell’umanità, nel racconto della Passione di Gesù di Nazareth, nei Vangeli. Il contributo di Giacomo Baroffio dal titolo Il canto gregoriano tra culto e cultura. Una traccia (pp. 367-411) ci fa entrare in una dimensione poco conosciuta se non agli addetti ai lavori. Un excursus assai interessante sull’origine della notazione musicale e sul Gregoriano, con un ricco apparato di note esplicative e bibliografiche permette di inquadrare la musica nel canto e questo nella Liturgia, apprezzando la storia di questo complesso rapporto fatto di musica, silenzio e parola, con proposte per il terzo millennio, quali i tropi e le sequenze che permettono all’assemblea un nuovo e diretto coinvolgimento nel canto liturgico. Il contributo è arricchito infine da una ricca Bibliografia, di cui del resto sono dotati tutti i contributi presenti, veri e propri capitoli indipendenti ma legati fra loro di quest’opera. Il breve contributo di Elena Pontiggia, dal titolo Aspetti dell’arte sacra nel Novecento (pp. 413-422) avrebbe potuto piuttosto risultare di più facile ed agevole di lettura se corredato di tavole fotografiche, all’interno o fuori dal testo, perché illustra una corrente di arte sacra degli inizi del Novecento, poco nota fino ad oggi. Conclude l’importante rassegna il contributo di Italo Spada dal titolo Società multietnica e problemi di integrazione nella rappresentazione cinematografica (pp. 423-476) che offre le schede riassuntive della trama e delle caratteristiche di oltre venti films con una ricca
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Filmografia inerente all’argomento trattato ed approfondimenti vari sulla cinematografia di Pier Paolo Pasolini con un seminario finale sul rapporto tra cinema e fede nella lettura filmica de La fontana della vergine di Ingmar Bergman (pp. 461-472), insistendo, infine, sul rapporto tra testo filmico e testo della Ballata, da cui il Film è stato tratto. Conclude l’opera l’elenco degli autori che rileva ancor di più il carattere interculturale e transdisciplinare di questo lavoro a più mani. Dicevamo sul ricco apparato di note all’interno di pressoché tutti i capitoli di quest’opera e della Bibliografia, posta alla fine di ogni capitolo che ne fanno un’opera preziosa oggi sia per lo studioso che per il lettore colto ed attento al dibattitto sulla questione educativa. Francesco Aleo
G. ZITO, Radici di un carisma. Le Suore Orsoline della Sacra Famiglia (1908-2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 241, ⇔14,00. Dopo il Concilio Vaticano II, è profondamente mutata l’accezione del termine Chiesa negli studi storici e nel dibattito storiografico. Infatti, dal momento che al termine Chiesa si associa la categoria e l’espressione di Popolo di Dio, per storia della Chiesa s’intende oggi sempre di più la conoscenza di quanto è accaduto a questo popolo, nella successione del tempo e nella diversità dei luoghi in cui è vissuto e vive. Si può e si deve quindi parlare di una storia della Chiesa «nuova» senza omettere di parlare del precedente che l’ha resa possibile: quella nouvelle histoire e quella rivoluzione storiografica che si sono riconosciute ed espresse intorno alla rivista francese delle Annales, nella seconda metà del secolo appena trascorso. L’opera collettiva Storia vissuta del popolo cristiano, uscita in Francia nel 1979, sotto la direzione di Jean Delumeau, costituiva il primo tentativo di presentare, attraverso 37 saggi, alcuni modi concreti con cui gli uomini, i semplici, il Popolo di Dio nel suo insieme, in quanto si riconosce in Cristo, hanno vissuto e vivono la loro fede nel tempo e nello spazio. Con questa «nuova» storia, alternativa sia alla storia come narrazione che alla storia come serie di avvenimenti o histoire evene-
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mentielle, non s’inaugura soltanto un nuovo modo di fare storia o di scrivere di storia, ma anche un nuovo modo di studiare, di vedere, d’intendere il cristianesimo e la vita della Chiesa, le cui tracce rimangono e sono trasmesse nelle fonti e nei documenti. Questi, quasi sempre scritti, ci parlano di uomini e donne del passato con i loro sentimenti, i loro drammi ed i loro problemi, in situazioni di vita reali e non fittizie o immaginarie. Questa «nuova» storia della Chiesa nasce e si esercita, così, all’insegna di un forte richiamo ad una storia profonda e totale e ad un cristianesimo non più guardato dall’ “alto” ma dal “basso”. È la particolarità del suo oggetto, la Chiesa, che rende particolare l’ambito metodologico e di ricerca della storia della Chiesa. La Chiesa è mistero di comunione, realtà teandrica, in cui l’umano ed il divino s’incrociano ed assumono forme e rivestimenti storici. Per dirla con Hubert Jedin, la Chiesa nella sua storia, pur rimanendo fedele alla sua natura, muta nelle sue attività e nelle sue forme; queste sono create ed assunte dagli uomini, conoscibili allo storico attraverso le fonti ed i documenti1. In quanto, però, mistero divino di comunione, la Chiesa — conosciuta attraverso la sua storia — costituisce anche una delle molteplici fonti della conoscenza teologica. La storia della Chiesa diventa così, anche un particolare «luogo teologico», in cui oltre alla riflessione sulla natura divina della Chiesa, trova posto anche il suo organizzarsi ed il suo esistere fra gli uomini, nel tempo e nello spazio2. Non occorre certo ricordare che la storia della Chiesa diventa anche mezzo e strumento della sua stessa autocomprensione. Oggetto dello storico è allora la Chiesa, oggetto che lo storico mutua dalla teologia quando egli nel trattare di essa nelle sue forme e nei suoi rivestimenti storici, s’imbatte nella sua origine divina. È allora che lo storico incontra l’ordinamento gerarchico e sacramentale della Chiesa, da spiegarsi e giustificarsi soltanto con l’insegnamento di Gesù di Nazareth e con l’assistenza in essa dello Spirito Santo, da Lui promesso. La storia reale della Chiesa si lega così ad un’altra storia, anch’essa reale, quella della vita del suo fondatore: Gesù di Nazareth, il Cristo, venuto
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Si rinvia a H. JEDIN, Introduzione alla Storia della Chiesa, Brescia 1996, 35. Cfr. LG 9-17, in EV 1,308-327, Bologna 1993.
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nel mondo e pertanto nella Storia, mediante l’Incarnazione, la sua vita, i suoi insegnamenti e gli influssi di questo evento fino ai nostri giorni. Come afferma Luciano Manicardi, l’assunzione della categoria di Popolo di Dio evidenzia la dimensione storica in cui la Chiesa si radica, dimensione nella quale essa si presenta realmente come mistero, riconnettendosi, da un lato, alla storia di Gesù di Nazareth e dall’altro, alla vicenda storica dei cristiani, alla dimensione escatologica di comunità in cammino e in divenire verso il Regno, attraverso le opacità della storia3. Ne consegue, allora, che la Storia della Chiesa è teologia e storia insieme. La storia, però, si fa con le fonti ed i documenti; quindi, anche una vera e «nuova» storia della Chiesa oppure anche una rinnovata conoscenza storica della Chiesa in quanto «luogo teologico», deve misurarsi e confrontarsi con le fonti ed i documenti propri del suo ambito di ricerca, attestanti la sua vita e la sua opera nel tempo e nello spazio. La ricerca dei documenti, il loro esame, la loro analisi, la loro valutazione ed il loro apprezzamento per la conoscenza del passato non possono prescindere da un atteggiamento dello storico, definito da Henri Irénée Marrou come epoché, o «sospensione» del proprio giudizio. Lo storico, secondo Marrou, deve abbassarsi verso l’Altro presente nel documento, rinunciando al proprio Io e ricercando una profonda umiltà4. Occorre, quindi, da parte dello storico, familiarità, abitudine con il documento, il paziente raffronto delle analogie e delle affinità, l’analisi del contesto nel quale il documento ha visto la luce o è stato prodotto. Gaetano Zito, già autore di Storia delle Chiese di Sicilia, per i tipi della Libreria Editrice Vaticana, ha dimostrato validamente di voler perseguire questo indirizzo e questi obiettivi della nuova ricerca storica. Quale docente di Storia della Chiesa e di Metodologia della ricerca scientifica presso lo Studio Teologico S. Paolo e direttore dell’Archivio storico diocesano di 3 Cfr. L. MANICARDI, Il popolo di Dio segno di benedizione per i popoli della terra, in horeb 57 (2010) 3 5-6. 4 Cfr. H.I. MARROU, La conoscenza storica, Bologna 1984, 238: «Sii umile, guardati dalle illusioni, impara a misurare le tue forze, la durata dei tuoi giorni. Accetta di buon grado le servitù logiche e tecniche, che incombono sulla tua opera e ne limitano e ne determinano il campo di applicazione.».
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Catania, Zito mostra come la ricerca e l’analisi delle fonti e dei documenti sono l’unico mezzo per ricostruire i fatti e le vicende della vita della Chiesa, che prima di essere Cattolica o Universale è innanzitutto locale e particolare, fatta di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio. Uomini e donne che seguono gli impulsi dello Spirito Santo e le sue vie nella storia in cui sono posti a vivere con la loro vita, a sua volta storia, vissuta e concreta di credenti, operando quell’intima compenetrazione tra la libertà dell’Uomo ed il disegno di Dio, nel tempo e nello spazio. Secondo tale prospettiva “dal basso”, dire che la storia della Chiesa è «luogo teologico» significa riconoscerla come realtà, umana e divina, nella quale la fede di chi in essa si professa credente può e deve alimentare la propria incessante ricerca del Regno, non per averne un possesso geloso, ma per farne la sede privilegiata dell’amicizia con gli uomini. La ricostruzione, attraverso i documenti e le testimonianze disponibili, delle vicende della fondazione e del primo secolo di vita dell’Istituto delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia, offre a Zito l’occasione di riconoscere che l’ambiguità della storia e del suo svolgimento non può essere ignorata e neppure ottimisticamente risolta. Come osserva Emile Poulat, diversi sono i piani ed i punti di partenza dello storico e del teologo5. Questi studia un patrimonio di fede, espresso e stabilizzato nella dottrina e nel dogma, l’altro studierà le manifestazioni della fede del Popolo di Dio, nella Chiesa nel corso del tempo, registrando un allineamento ma anche un allontanamento dal dogma, nelle singole situazioni storiche o pastorali. Secondo Poulat, lo storico deve avere la cura di recuperare l’identità della Chiesa, attraverso le persone che ne hanno fatto e ne fanno la sua storia, caso mai questa identità si fosse smarrita o si fosse sbiadita nel tempo. Lo storico deve aver anche la cura di ricostruire le 5 Cfr. E. POULAT, Comprensione storica della Chiesa e comprensione ecclesiale della Storia, in Concilium VII (1971) 42-43. «Il teologo parte dall’identità e lo storico dalle espressioni (scritte, istituzionali, vissute, ecc.). Lo storico può cogliere la coscienza che è tradotta da tutte queste diversissime manifestazioni: non ha, con i suoi mezzi, la possibilità di cogliere l’identità che da tale coscienza è testimoniata. In cambio, il teologo non potrà mai dedurre la coscienza della Chiesa da ciò che sa della sua identità: è vedendola dispiegarsi nel tempo che coglie concretamente il mistero di quest’identità.».
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vicende storiche della Chiesa, dispiegantesi nel tempo se esse non sono chiare alle generazioni venute dopo. Nel caso particolare, Gaetano Zito, nel suo studio, mette in evidenza le difficoltà in cui si trovò il carisma mericiano nella società e nella chiesa di Sicilia, nei primissimi anni del Novecento, dovute ad un quadro sociale ed ecclesiale arretrato, rispetto a quello dell’Italia settentrionale, trovandosi il meridione annesso al nuovo regno d’Italia, quindi nella situazione politica, sociale e culturale post-risorgimentale dell’Italia unita. Lo studioso catanese si occupa quindi di una questione di non poca importanza, relativa all’identità della fondatrice dell’Istituto delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia, sorto secondo le fonti ed i documenti disponibili, a Monterosso Almo, nel 1908. La fondazione è equamente attribuita e divisa, per la verità, fra Rosa Roccuzzo (1882-1956) ed Arcangela Salerno (1884-1967). Lo studio di Zito volge la sua attenzione anche all’opera pastorale dei vescovi lombardi inviati in Sicilia da Pio X, senza la quale quell’Istituto non avrebbe potuto sorgere né muovere i primi passi. Primo fra tutti, il milanese Alessandro Lualdi a Palermo (1904-1927), seguito dal milanese Luigi Bignami (19051919) e dai lombardi Giacomo Carabelli (1921-1932) ed Ettore Baranzini (1933-1968) a Siracusa. Per la diffusione della vita religiosa nell’Isola, all’inizio del secolo scorso, è rilevante anche la presenza e l’opera del carmelitano scalzo laziale Antonio Augusto Intreccialagli, consultore della Sacra Congregazione per i Religiosi a Caltanissetta (1907-1921) ed a Monreale (1919-1924). Come nota lo studioso, i vescovi ed i preti lombardi immisero inevitabilmente, governando la diocesi aretusea per sessant’anni, tratti del modello pastorale lombardo ed una certa connotazione ambrosiana. Proprio la difficile situazione dell’arcidiocesi di Siracusa, alla vigilia dell’arrivo in essa dell’arcivescovo L. Bignami, consente a Zito di cogliere il momento favorevole per la nascita e lo sviluppo della famiglia religiosa, le cui fonti ed i cui documenti sono studiati, esaminati e spiegati dallo studioso con dovizia di particolari. La questione che lo studio di Zito scioglie definitivamente riguarda l’identità della fondatrice delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia. È questa operazione di ricerca con i suoi risultati che permette a Zito di fare interessanti considerazioni, quanto mai attuali, sulla distinzione tra Istituto religioso e
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carisma, poi sull’azione dello Spirito Santo con cui e per cui un Istituto religioso legittima e giustifica la propria esistenza e la propria crescita, nella chiesa locale, quindi nella Chiesa Cattolica. Leggendo attentamente il libro, soprattutto in quelle parti che parlano della crescita e dello sviluppo dell’Istituto delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia a metà del secolo scorso, si può incorrere nel facile equivoco di pensare che la storia ed in particolare, questa «nuova» storia della Chiesa, smaschererebbero la fede, mettendone in luce le vicende umane, talvolta poco edificanti. Le forme di vita vissute nella Chiesa dai suoi membri, uomini e donne che ne fanno parte, sono regolate da statuti e da regole che ne regolamentano ed organizzano l’esistenza con il solo scopo di aiutare ad incarnare ed a vivere l’ideale evangelico da attuarsi nella storia. La serietà del metodo storico adoperato da Zito nell’esame, nell’analisi e nella presentazione delle fonti e dei documenti, mostra come lo storico può conservarsi uomo di fede nell’amore alla verità ed alla ricerca storica, pur evidenziando i limiti umani presenti nella Chiesa come in qualsiasi altra realtà, fatta ed agìta dagli uomini. Nel caso della storia della Chiesa, lo storico non può non porsi il problema della verità e della fede che questa verità mette in luce e rende operante nell’intelligenza degli eventi della sua storia. La «nuova» storia della Chiesa si risolve allora, per un verso, in una storia della Chiesa problematica, attenta cioè alla sua missione che, nell’annunzio del Vangelo, incontra l’uomo nelle sue concrete situazioni storiche, con i suoi problemi ed intende salvarlo, proponendogli una proposta di vita fattiva, evangelica, cristiana. Per l’altro verso, la prospettiva nuova da cui si guarda la Chiesa e la sua storia è quella pastorale. Tenendo presente queste due coordinate e caratteristiche, Zito ricostruisce dall’inizio e dalle sue origini, la vicenda storica dell’Istituto delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia. Lo studioso individua, così, in Rosa Roccuzzo la prima di cinque giovani donne, fra le quali si annoverano Giovanna Giaquinta (1884-1934), le sorelle Giuseppa (1878-1976) e Cristina Inzinga (1876-1946) ed Arcangela Salerno, l’ispiratrice, secondo la felice espressione di Zito, di una «ricerca». Ricerca di vie nuove che induce questi cinque «gigli di montagna» — come le chiamò l’arcivescovo di Siracusa L. Bignami — a scorgere, a Monterosso Almo, i bisogni concreti del popolo,
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mettendo in atto una serie di scelte, di azioni e di comportamenti che suscitarono e maturarono in queste donne la volontà di consacrarsi al servizio dei poveri e dei più deboli. Prima però di narrare le vicende storiche assimilabili a storie semplici di gente semplice ma profondamente impregnata di spirito cristiano e di sacrificio, a motivo delle condizioni di vita non certo facili della Sicilia rurale nel periodo postunitario e nei primi decenni del XX secolo, lo Zito studia l’origine e la diffusione del carisma di Angela Merici (1474-1540) (Cap. I, pp. 17-33). La Compagnia di Sant’Orsola, in cui si espresse il carisma mericiano, consentì alle sue consorelle Orsoline, nell’epoca in cui la Merici visse ed operò, di vivere nella propria famiglia d’origine, in comunità religiose oppure secondo la forma di vita monastica. Carisma, quello mericiano, che si esprime ancora oggi nella catechesi e nella partecipazione alla vita parrocchiale, nell’educazione delle ragazze e nell’istruzione scolastica. Soprattutto, Zito mette in evidenza il passaggio avvenuto in Francia per tutto il Seicento, da orsoline residenti in famiglia, ad orsoline di vita comune e ad orsoline monache con clausura papale e voti solenni. Lo studioso catanese mette così in evidenza come il carisma mericiano si sviluppa come consacrazione laicale nella doppia variante di vita comune e di vita individuale ed assume nel Novecento la denominazione di Istituto secolare. Sarà, però, l’Ottocento con la canonizzazione di Angela Merici nel 1807, a fornire lo slancio per lo sviluppo dell’Arciconfraternita di Sant’Angela Merici che alla vigilia del Concilio Vaticano I (1869-1870) contava 50.000 ragazze. Il carisma mericiano, con le sue diverse forme di vita, all’inizio dell’età moderna e contemporanea, offre alla donna la possibilità di servire la Chiesa nel mondo, rimanendo a stretto contatto con le realtà secolari, sempre più articolate e complesse con la fine dell’Ancien regime e l’avvento della civiltà industriale. Come si esprime felicemente Zito: «Catechesi, impegno per l’educazione cristiana, istruzione scolastica, assistenza ai poveri e agli ammalati diventano ambiti di azione apostolica della donna, finalizzati anche a dimostrare la legittimità dell’azione sociale della Chiesa di fronte alla laicità dello Stato unitario.» (pp. 19-20). Giustamente, lo studioso evidenzia un progresso, registrato ed avvenuto nell’Ottocento, nel corso della diffusione del carisma mericiano e della sua spiritualità, sottolinean-
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done la pietà popolare di stampo antigiansenistico e filoalfonsiana, nella quale prevale il sentimento ma che promuove la frequenza ai sacramenti e la disponibilità vocazionale. Progresso che distaccava la donna da certe forme devozionali di vita e di pietà popolare, quali quelle delle beghine, delle pinzochere (o bizzocche) o delle “monache di casa”, ormai obsolete, risalenti all’Autunno del Medioevo. Progresso che viene percepito come qualificante un impegno apostolico serio e concreto della donna nella Chiesa e nella società, da parte della gerarchia ecclesiastica. Lo sviluppo e la diffusione del carisma mericiano in Italia, soprattutto nel settentrione, legato alla contemporanea diffusione della sua Regola, senza la quale il carisma non sussisterebbe, sono tratteggiati con dovizia di nomi e particolari da Zito che evidenzia sinteticamente il quadro della vita religiosa dell’Italia post-risorgimentale e post-unitaria, vivace e tutt’altro che uniforme. Vita religiosa che decisamente si orienta verso la vita comune e la formazione culturale e cristiana delle ragazze, nel mondo e nella società (pp. 17-22). Zito quindi si volge all’avvento del carisma mericiano in Sicilia, dovuto com’egli chiaramente riconosce, ai vescovi, preti e religiosi lombardi sopra menzionati. Il carisma mericiano è già presente a Palermo nel 1863 ad opera di Caterina Soracco, una giovane ancora poco nota che diffuse i testi del canonico genovese Giuseppe Frassinetti (1804-1868), conoscitore della Regola di Sant’Angela Merici. Come avverte lo studioso catanese «È soprattutto dagli anni 80’ dell’Ottocento che inizia un progressivo passaggio dalla diffusa forma privata delle bizzocche, o monache di casa, al nuovo modello di congregazione religiosa e, dall’inizio del Novecento, anche alle modalità di consacrazione secolare.» (p. 23). È da rilevare il legame stretto ed imprescindibile che pone lo Zito fra la Regola ed il carisma mericiano, perché è proprio da quella che il carisma trova e rinnova il suo specifico ecclesiale. Dato questo oggi da tener presente, nel discernimento e nel riconoscimento dei nuovi carismi e delle nuove forme di vita religiosa e secolare. Il carisma mericiano, proveniente dall’Italia settentrionale, è dunque fortemente innovativo per la pastorale femminile dell’Isola. La Pia Unione delle Figlie di Maria, presente nelle parrocchie siciliane, rappresenta l’ambiente favorevole per il sorgere delle prime comunità orsoline nell’Isola, fra le quali si
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pone quella sorta a Monterosso Almo, provincia e diocesi di Siracusa, ufficialmente nel 1908 (p. 25). Si rinvia alla lettura del libro di Zito per le interessanti considerazioni poste sull’accoglienza e sull’apprezzamento del carisma mericiano in Sicilia, da parte del clero e della popolazione locale. Infatti, «L’affermarsi in Sicilia della spiritualità mericiana e della particolare forma di consacrazione laicale si rivela, di fatto, come risposta ad un’esigenza presente nella pastorale femminile dell’isola.». La Regola delle Orsoline veniva incontro ad un’esigenza forte e sentita di consacrazione per quelle giovani donne che non potevano o non volevano entrare in una congregazione religiosa, infatti, «Il nuovo modello di vita consacrata diviene idoneo ad offrire una risposta alla disponibilità vocazionale delle giovani impossibilitate ad aderire, anche per condizionamenti familiari, alle forme di consacrazione femminile di tipo congregazionale.». Il contesto ambientale sia sociale che ecclesiastico, così, non favorì l’affermarsi di una configurazione chiara e precisa delle Orsoline nell’Isola, rispondente al loro specifico carisma. Proprio lo specifico della Regola di Sant’Angela Merici, ossia la secolarità, stentava ad imporsi ed a diffondersi, in un ambiente segnato da una forte esigenza di visibilità e connotazione sociale ed ecclesiastica. Come dice bene Zito: «Nel clero, ma anche in alcune orsoline, è presente una certa resistenza a comprendere la possibilità di vivere da religiose in famiglia e nel mondo, senza abito in particolare. Permane, pertanto, la tendenza a trasformare i membri della Compagnia in una congregazione religiosa, con abito e vita comune.». Questa incomprensione andava ovviamente a scapito del carisma mericiano che rischiava di perdere la sua originalità e di non essere più lievito, nelle realtà in cui s’innestava ed operava. Anche il clero siciliano stentava a comprendere la specificità della secolarità e quindi il rispetto che era dovuto alle Orsoline, infatti, «Per molti parroci il gruppo delle Orsoline è equiparato anche ad un Terz’Ordine, oppure ad un gruppo parrocchiale, di stampo Azione Cattolica, alla loro esclusiva dipendenza per le esigenze materiali e pastorali della parrocchia, e alle appartenenti non necessita particolare istruzione.». Era soprattutto, però, la riserva culturale e mentale di quell’epoca e di quella società che gravava sulle Orsoline: «Il contesto culturale del periodo, infatti, stenta ad accettare in Sicilia un ruolo pubblico della
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donna, tanto nella società che nella Chiesa, al di fuori del matrimonio, oppure della consacrazione religiosa che, grazie ad un abito specifico, resta a tutti percepibile immediatamente. Causa, questa, che contribuisce certamente a determinare nell’isola l’orientamento del carisma mericiano verso la forma di congregazione di suore orsoline.» (p. 32). Zito ci mostra, così, come l’opera dello Spirito Santo, manifestantesi nel carisma mericiano, dovette fare i conti con la realtà storica, magari adattandosi o piegandosi a dei compromessi che possono talvolta stravolgere il carattere distintivo dello stesso carisma. È un tema questo, quanto mai attuale nel contesto odierno, in cui la secolarità appare minacciata da rigurgiti di integrismo e di conservatorismo ecclesiastico preconciliari. Se, dunque, Rosa Roccuzzo è l’ispiratrice dell’opera, Arcangela Salerno è il soggetto che riesce a farsi carico dell’Istituto e della sua fondazione con tutte le incombenze necessarie alla sua regolamentazione giuridica ed alla sua organizzazione istituzionale. Prima però del riconoscimento canonico, i cinque «gigli di montagna» si distinsero in opere di assistenza e caritative, non ultima quella a favore dei terremotati di Messina, dopo il tremendo terremoto del 1908. Non mancò loro l’attenzione e la sollecitudine dell’arcivescovo di Siracusa L. Bignami che nel 1913 invitò Arcangela Salerno a Palermo, per compiere gli esercizi spirituali che segnano l’inizio della Compagnia di Sant’Angela Merici in Sicilia. Fra le tappe che vedono la vestizione, infine la professione di Arcangela Salerno, si pone l’istituzione delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia, avvenuta il 10 novembre del 1915. Arcangela Salerno ne fu eletta superiora e mantenne questo ruolo fino al 5 ottobre del 1962. Oltre ai dati minuziosi ed alla cronologia, necessari per una corretta ricostruzione storica delle vicende del nuovo Istituto religioso, lo studio di Zito esplora il suo costruirsi interno che nei primi decenni di vita necessitava di una strutturazione giuridica per sostenere l’intensa opera apostolica e sociale che l’Istituto avviò con la realizzazione di un percorso di formazione cristiana per la gioventù femminile, offrendo un’opportunità di preparazione professionale con uno sbocco lavorativo a quelle ragazze che non potevano frequentare gli istituti scolastici superiori e le università (p. 81). Verso la fine del mandato di Suor Arcangela Salerno, nel 1959, Zito evidenzia l’opera del Capitolo gene-
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rale che condanna un certo lassismo, presente fra le Orsoline, per il gusto ad una vita comoda e la tendenza ad anteporre i legami familiari alla vita religiosa. Gli Atti dei Capitoli generali, con le relazioni delle madri superiore, succedute alla Salerno, Adele Scibilia, dal 1963 al 1985 e Nunziatina Curatolo, dal 1985 al 1996, sono una valida fonte documentaria che permette a Zito di verificare la salute dell’Istituto che continua ad espandersi in Sicilia ed oltre lo Stretto ma che avverte anche l’esigenza di coordinare e di concentrare le sue energie e le risorse del proprio carisma, verso un obiettivo ed un progetto comuni. Due sono infatti le fisionomie assunte dal carisma durante la storia dell’Istituto: scuole e poveri; e proprio il carisma dell’Istituto comincia a conoscere le prime difficoltà di esercizio e di espressione, a causa della diminuzione del numero delle suore e delle vocazioni, a partire dagli anni 80’. Ciò non impedisce di avviare la fondazione di una casa in Brasile e di favorire con suor Carmela Distefano, quarta madre generale, uno sguardo introspettivo dell’Istituto per una sua riforma e per un ritorno alle origini del carisma. Si rinvia alla lettura dello studio di Zito di cui abbiamo tentato di fornire uno schematico e vago riepilogo, con lo scopo però di evidenziare alcuni punti fermi. Qual è la definizione che più si adatta al carisma? Secondo Zito, «Il carisma si configura, dunque, come una personale e intensa esperienza spirituale in grado di determinare una peculiare lettura dei segni dei tempi, accompagnata dalla maturazione di una risposta incisiva che, in modo immediato, si incultura nel tempo e nel luogo di chi lo riceve. L’intima coesione di questi elementi determina nel fondatore/fondatrice l’elaborazione di un progetto di vita e di impegno totale e definitivo, man mano condiviso da altri, in forma altrettanto totale e definitiva.» (p. 140). I cinque «gigli di montagna», in un tempo, nel 1908, ed in un luogo precisi, a Monterosso Almo, sperimentano nella vita comune un’esperienza che concepisce un’idea “fondazionale”, tale cioè da avviare la fondazione di una forma nuova di vita religiosa. Fondazione ed idea che si ritrovano nell’immagine e nell’ambiente della casa, di cui la Famiglia di Nazareth diventa modello e realizzazione. È proprio in una casa, quella delle sorelle Inzinga, che le cinque giovani donne si ritrovano a Monterosso Almo, ai primi del Novecento ed è in quella casa, durante il lavoro di ricamo e di cucito, in un clima di preghiera e
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di vita cristiana, che maturano idee e scelte che le portano a mettersi a disposizione dell’arcivescovo di Siracusa, il quale discerne, riconosce, incoraggia un carisma nascente che non trova subito comprensione ed apprezzamento nella chiesa locale. Ci si può chiedere se questo carisma sorto, per opera dello Spirito Santo, fra i cinque «gigli di montagna», avrebbe potuto essere validamente riconosciuto, senza la mediazione saggia dell’arcivescovo L. Bignami, quindi del suo successore G. Carabelli, i quali, attraverso il carisma mericiano, apprezzarono la secolarità e quindi la novità dell’intuizione pastorale di Rosa Roccuzzo. Zito riesce a stabilire, sulla base dei documenti e delle testimonianze disponibili, quali quelle delle suore ancora in vita — da Giuseppa Inzinga a Rosa Giaquinta, da Lucia Angelica ad Adele Scibilia — che fu proprio Rosa a cogliere le qualità di Arcangela tali da permettere la fondazione vera e propria della comunità, necessarie per la fondazione e l’esistenza stessa dell’Istituto religioso. Le capacità e la lungimiranza di Arcangela Salerno si rivelarono nel momento in cui il Bignami voleva includere il pio sodalizio dei cinque «gigli di montagna» in un Istituto già esistente nella diocesi aretusea, quello delle Suore del sacro Cuore. Nell’indagine di Zito, il rifiuto netto alla proposta ed alla richiesta dell’arcivescovo di Siracusa è il segno evidente del sorgere di un carisma e di una comunità che comincia ad avere le idee chiare ed una voce ferma ed autorevole: quella di Arcangela Salerno. È a Rosa Roccuzzo, però, che si deve l’ispirazione carismatica e l’intuizione pastorale, declinate, tradotte ed in parte trasformate dal carisma mericiano e dallo strutturarsi giuridico ed organizzativo, nei decenni successivi, della nuova famiglia religiosa (pp. 149-150). Lo studio di Zito offre in Appendice, una quantità preziosa di documenti, consistenti in testi epistolari ed istituzionali quali gli Atti dei Capitoli generali che permettono di scorgere le emergenze e le necessità pastorali che l’Istituto dovette affrontare, lungo un secolo di storia. Correda lo studio una Nota bibliografica che oltre ad annoverare le Fonti, consistenti in quaderni ed in altro materiale autografo e nelle Fonti d’Archivio, menziona una serie di Studi sul carisma e sulla vita consacrata che a nostro avviso avrebbe potuto essere più completa ed esaustiva, ma sono due tematiche, quelle inerenti il carisma e la vita consacrata, di carattere prettamente teologico, che
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esulano dalla materia trattata nel presente lavoro. Segue quindi un’Appendice fotografica. Uno studio quello di Zito, serio, interessante ed agile, accattivante nell’esposizione, cui riteniamo non avrebbe nuociuto un discreto apparato di note cui l’autore stesso dichiara di aver rinunziato, per favorirne una lettura spedita (p. 16), ma che non si sarebbe accordato con il carattere di questo libro che vuole attestare la vivacità dell’esperienza carismatica della vita religiosa nella Chiesa ed in particolare, in quella siciliana del XX secolo. Francesco Aleo
C. LOREFICE, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Paoline, Milano 2011, pp. 374, ⇔22,00. Il lavoro di ricerca condotto da Corrado Lorefice, adesso offerto al pubblico nella collana saggistica Paoline, ha il merito di proporsi come un’opera degna di attenzione sia sotto il profilo storiografico, per la perizia mostrata nella raccolta, nell’analisi e nella composizione delle fonti, sia per l’interessante tentativo sistematico-teologico di riportare “il tema della povertà” al suo nucleo originario, ovverossia al livello costitutivo e fondativo di una teologia cristiana che sappia riflettere sine glossa sul gesto kenotico di compromissione di Cristo a favore degli ultimi, i prediletti del Signore. Si tratta, in specie, di un prezioso lavoro di rigore e di precisione che contribuisce a ricostruire storicamente contesti, situazioni, motivi e pensieri che hanno dato corpo al discorso che il card. Lercaro ha tenuto durante la 35a Congregazione Generale del Concilio Vaticano II. Ma si tratta anche di un’opera che, sulla scorta di una lettura profonda della profezia di Dossetti e Lercaro, legittima a trarre una questione finemente provocatoria: il gesto di abbassamento e di svuotamento cristologico, come momento rivelativo di una precisa volontà divina, è destinato a rimanere senza analogia? Sono già troppi duemila anni di storia della Chiesa per vedere archiviato o smentito o per ritenere velleitario l’annuncio cristiano della buona novella, indirizzato ai poveri di ogni tempo?
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Del resto, cosa consente di parlare oggi della povertà come vero e proprio «luogo teologico»? Cosa spinge a parlare di teologia della povertà o di «Chiesa dei poveri» (secondo l’espressione di papa Roncalli) con cui si delinea un’inequivocabile prospettiva ecclesiologica? È argomento di passate memorie, citate per dovere di cronaca, o si tratta di una questione che, oggi a maggior ragione, protesta tutta la sua attualità? A ben vedere, infatti, proprio in questo nostro tempo, minacciato da una preoccupante crisi economica, intrappolato nel nodo scorsoio di una congiuntura politica, finanziaria e sociale che ha globalizzato il segno negativo dei disvalori di ogni specie e ha allargato l’apertura della forbice tra ricchi e poveri, non sembra fuori luogo l’invito a ripensare criticamente una presenza ancora più incisiva e significativa di una Chiesa che dismetta i para-venti della storia (privilegi, potere, etc.) e continui ad indossare i para-menti del servizio, sulla scia di credibili testimoni del vangelo quali Dossetti e Lercaro sono stati. Tutto ciò senza spegnere una gloria che si auspica possa rilucere non per i segni del potere (nella sua antievangelica affinità all’idolatria della ricchezza) ma per il potere dei segni (gli unici di cui Cristo si è “servito” per indicare l’avvento del Regno). Pertanto, riportare in auge un tema così scottante e scomodo rivela un chiaro invito ad osare una certa intraprendenza profetica o, forse molto più semplicemente, una certa onestà intellettuale in risposta alle istanze della storia che esigono un ripensamento generale dell’essere della Chiesa nel e dinanzi al mondo. E Lorefice sembra aver reso onore in maniera egregia a questo arduo compito, attraverso la ricognizione di affermati motivi teologici, oltreché spirituali, intesi a considerare la povertà quale forma sostanziata della natura e dell’azione della Chiesa e non soltanto un valore o un “accidente” aggiunto, frutto di un coraggioso slancio ascetico di pochi. Il lavoro pertanto si sviluppa in due parti, ciascuna di tre capitoli. Nella prima si offre una panoramica generale sul percorso personale di Dossetti, dagli anni della maturazione — comprendente la formazione religiosa, l’impegno in politica e, poi, la vocazione al servizio ecclesiale — all’approdo al Vaticano II quale perito di fiducia del card. Lercaro. Nella seconda parte — ben più articolata — si procede anzitutto ad un accurato esame della genesi del discorso lercariano
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(pronunciato il 6 dicembre 1962) con cui veniva esaltata la “eminente dignità dei poveri” quali “sacramento” di Cristo; si passa quindi all’analisi dei motivi cristologici ed ecclesiologici a fondamento del suddetto discorso; si riportano poi le principali risonanze (in positivo e in negativo) che il pronunciamento di Lercaro ha suscitato sia all’interno che all’esterno dell’assise conciliare per verificare, infine, in che misura e in quali documenti magisteriali è confluito il discorso del cardinale di Bologna. Nelle conclusioni, inoltre, Lorefice delinea alcune linee sistematicomorali capaci di favorire un rinnovato dibattito teologico ed ecclesiale su un tema alquanto spinoso. Tutto questo viene suggerito con senso di misura e dovere di realismo, senza acrimonia e rancore di parte, scongiurando sia una riduzione politica o strumentale della povertà della Chiesa e dei poveri in genere, sia una spiritualizzazione o moralizzazione del “tema”, quasi i poveri dovessero essere ancora sfruttati come oggetto di attenzione e di apertura al sociale a riprova di una ritrovata credibilità ecclesiale. Il punto di forza delle conclusioni sta nel ribadire che a fondamento del tema della povertà non vi è il mero slancio umanitario o filantropico a favore dei più miseri, quanto una ragione cristologica che riconduce criticamente l’istanza della povertà all’ordine dell’essere prima ancora che dell’agire. Come scrive l’autore: «Il mistero della povertà evangelica non muove la Chiesa solamente a proiettarsi verso i bisogni dei poveri ma a rivedere il suo essere perché sia riflesso del Messia povero e dei poveri. A partire dai poveri si coglie la “logica” e la “forza” alternativa dell’Evangelo che spinge il parametro dell’aiuto fino alla misura cristica della condivisione-compromissione con e per l’“ultimo”» (p. 328). In altre parole, la cosiddetta scelta preferenziale per i più deboli può dirsi evangelica qualora derivi da una costitutiva povertà della Chiesa che, solo in quanto discepola del suo Signore e Maestro e dunque povera, può essere per e dei poveri. In tale maniera Lorefice è riuscito a mostrare che il problema delle singole infedeltà al principio cristologico della povertà non sia di tipo speculativo quanto piuttosto pratico e, dunque, morale. Ma — e qui si rileva anche la distanza da certi toni ideologici di tipo polemico — ha
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pure saputo mostrare che il cerchio perfetto tra carne e spirito, tra storia e profezia, tra mondo e regno di Dio non si è del tutto chiuso e che, molto realisticamente, non lo sarà mai finché tra carne, storia e mondo corre la necessità di una continua conversione in vista di una riconciliazione ancora da ultimare. Un plauso di benvenuto dunque a questo notevole libro che contribuisce a ridestare un dibattito sopito che i segni dei tempi reclamano invece come urgente. Adriano Minardo
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S. LATORA, Voci filosofiche del nostro tempo. Percorsi di una cultura socio-politica, Pellegrini, Cosenza 2010, pp. 208, ⇔14,00. Salvatore Latora, antico discepolo di Vincenzo La Via a Catania e docente presso diversi Istituti di alti studi nella città etnea, si è segnalato per aver esplorato terreni culturali e filosofici, spesso qualificabili come di confine. Agli appassionati lavori su Rosmini e la sua presenza nei pensatori di Sicilia, sui fratelli Mario e Luigi Sturzo, e sullo stesso La Via, ha affiancato — negli anni — una costante attenzione a temi e problemi del pensiero contemporaneo. Le sue riflessioni in proposito si trovano ora contenute nel volume di cui qui si discorre, ove le molteplici “voci” sulle quali l’autore si sofferma vengono chiamate in causa in maniera da farle convergere attorno al riconoscibile tentativo di elaborare un itinerario di ricerca, volto a porre le premesse per la riformulazione aggiornata di un filosofare aperto all’universo della religione. «Se l’attualismo si pone come la conclusione di tutto un percorso di filosofia dell’immanenza, che va da Cartesio a Nietzsche (Löwith), non è utile per riscoprirne un’altra via come hanno fatto Natoli e Del Noce, quando nel suo Gentile lo considera come chiave di volta Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea? E quando nella storia della filosofia, oltre al filone Da Cartesio a Nietzsche (Löwith), individuava un altro importante percorso: Da Cartesio a Rosmini?» (pp. 35-36). In questi termini, Latora manifesta la sua sincera apertura alla necessità di non trascurare, nella modernità filosofica, la presenza di una linea di pensiero riallacciantesi — in senso lato — alla tradizione. Piuttosto che ai moduli dell’aristotelismo e del tomismo, il versante della filosofia moderna che si richiama alla tradizione classico-cristiana percorre la via di Platone, di Plotino e di Agostino, alla ricerca costante di un itinerario a Dio che prenda le
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mosse da una riformulazione adeguata delle linee costitutive dell’umanesimo interiore. La restituzione del realismo attraverso la valorizzazione ed il superamento dell’idealismo attualistico, ha costituito viceversa la cifra dell’avventura speculativa del maestro di Latora all’Università di Catania: Vincenzo La Via, a cui il presente volume dedica il Capitolo terzo, intitolato La filosofia nella tradizione si rinnova (pp. 41-78). Proprio alla luce del pensiero laviano, Latora può trattare con maestria — nel Capitolo quarto — Le interpretazioni e le aporie del nichilismo (pp. 79-115). L’attraversamento critico delle varie incarnazioni dell’universo nichilista, ha consentito — a ben vedere — alla filosofia cristiana dell’Italia contemporanea di affinare notevolmente le sue armi speculative, fino a proporsi — nella riflessione teoretica di Pietro Prini — con i suggestivi tratti di una ontologia sacrale (p. 112). A partire dal Capitolo settimo (pp. 149-173), il percorso critico di Latora si sposta dalla pura teoresi alla sua applicazione nei cruciali terreni dell’educazione e della politica (emerge, in tale prospettiva, la cordiale passione dell’autore per il pensiero e per l’opera dei fratelli Mario e Luigi Sturzo), dell’estetica come filosofia del bello artistico, musicale, letterario, e del rapporto tra filosofia e teologia (trattando il quale Latora si muove con finezza in ambiti difficili e delicati, riuscendo a preservare l’apertura alle ragioni del credere senza deflettere dal rigore filosofico). La cifra sotto la quale va letta questa articolata opera di Salvatore Latora, a nostro avviso, può essere espressa proprio nei termini di una incessante ricerca di un equilibrio tra le vie della ragione e quelle del cuore; si tratta di un equilibrio — ci permettiamo di osservare — il cui fondamento di possibilità risiede anche nel non chiudere gli occhi della considerazione speculativa dinanzi all’elemento tragico della condizione umana. Paolo De Lucia
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M. BORGHESI, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana, Marietti, Genova-Milano 2013, pp. 300, ⇔28,00. Massimo Borghesi, una voce certamente fra le più brillanti nel panorama filosofico cattolico italiano, in un denso saggio dal titolo Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana passa in rassegna questa problematica dal V al secolo scorso. Nella prima parte l’Autore esamina in profondità la posizione di Agostino e le libertà moderne, nonché la tesi di Peterson oscillante tra escatologia e storia e la critica dell’Ipponate alla teologia politica così come viene presentata da Ratzinger. Oltrepassando la cristianità medievale è inevitabile, da un lato, imbattersi in Maritain nel suo tentativo di una teologia politica democratica e, dall’altro, con il cattolicesimo politico in Italia che ha avuto le sue posizioni esemplari, seppure divergenti, in Dossetti e in De Gasperi. Nella terza parte l’Autore si sofferma sulla teologia politica come secolarizzazione e poi sulle posizioni più significative degli anni Sessanta-Settanta, basta qui citare un solo studioso Moltmann che resta famoso per la sua teologia della speranza. Particolarmente interessante si rivela la quarta parte che si occupa della teologia e della politica nell’era post-comunista, dando un posto di rilievo alla posizione di Giovanni Paolo II. Nella parte dedicata a Ethos e religione Borghesi esamina i fondamenti pre-politici dello Stato democratico. Molto vivace appare l’Appendice II dal titolo l’Islam fra fondamentalismo e modernità. Anche per queste ultime riflessioni il volume di Borghesi è certamente destinato ad essere un caposaldo in tale affascinante problematica. Enrico Piscione
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G.D. CEREDA, L’opera dello Spirito Santo nella santificazione del credente. La Pneumatologia di John Wesley, Accademia, Monterotondo (RM) 2012, pp. 272, ⇔16,00. Abitualmente, per recensire uno studio si dovrebbe cominciare dall’inizio. Nel volume di Giovanni Daniele Cereda, tratto dalla sua Tesi di Dottorato in Teologia, sulla Pneumatologia di John Wesley, è degno di nota rilevare, nelle Riflessioni Conclusive, l’idea profonda e meditata di riforma ecclesiale non traumatica, riferita ad Yves Congar e la sua opinione, secondo la quale, la Chiesa deve riformarsi dall’interno e non per divisione (p. 146). Il principio di una riforma non traumatica della chiesa ci sembra soggiacere alla trattazione della complessa materia di questo libro. In particolare, val la pena di porre attenzione su alcuni termini, impiegati dall’autore, pastore della Chiesa del Nazareno a Catania, atti a cogliere la validità e l’attualità della Pneumatologia di Wesley. Proprio all’insegna di una riforma non traumatica della Chiesa Cattolica, quale quella che sembra oggi essere in atto — fatta più di gesti umani e concreti che di dotte e spesso sterili discussioni o affermazioni di validità di principio o di valori non negoziabili — parlare della Pneumatologia o dell’azione dello Spirito Santo non è un’operazione neutrale od anòdina. Infatti, l’insistenza su una certa dimensione “carismatica” della Chiesa rischia oggi di generare forti ambiguità, in mezzo alle quali la comunione ecclesiale può giacere in una sorta di stagnazione che la pone fuori della Storia oppure disperdersi in rivoli che si allontanano sempre di più dalla fonte primigenia che è Gesù il Cristo, disperdendola e frammentandola. L’aggettivo «trasversale», ad esempio, può aiutare effettivamente a guidare il giudizio dello studioso o del lettore colto e preparato sull’opera di John Wesley, fondatore del Metodismo inglese. Compare nel presente libro al momento di formulare e di elaborare la riflessione wesleyana sull’opera dello Spirito Santo nel singolo fedele e nella Chiesa. Permette, inoltre, di meglio qualificare quel riformarsi dall’interno auspicato da Congar, scongiurando il rischio della frammentazione e della divisione della Chiesa. Infatti, come afferma Cereda: «Wesley si muove seguendo una traiettoria trasversale che coniuga i vari apporti senza privilegiarne alcuno.» (p. 119). Coniugare
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gli apporti delle diverse tradizioni cristiane, seguendo una linea non conflittuale ma di contatto e di rapporto reciproco, secondo appunto una linea trasversale, può essere considerato uno dei più proficui contributi di Wesley, non solo alla storia dell’Ecumenismo ma all’intera storia del Cristianesimo. Proprio questa “trasversalità” permetterebbe oggi alla Chiesa Cattolica di uscire dall’angolo in cui si è ritratta e di riconoscere non soltanto gli elementi positivi presenti nelle altre chiese e confessioni cristiane, ma di valorizzare anche quelli propri, primo fra tutti il Primato Petrino, riconoscendolo come chàrisma o «dono» dello Spirito Santo, posto al servizio di tutte le chiese. Come si può cogliere fin dall’Introduzione di questo libro, l’esposizione della dottrina wesleyana rileva il dinamismo interiore, talvolta la tensione che la pervade, posta com’è da Cereda in continuo confronto con altre tradizioni cristiane, evidenziando forme di continuità e discontinuità di queste con il pensiero di Wesley e fra di loro. Per Wesley, infatti, la verità di fede non è possesso di una singola tradizione, ma dono dello Spirito che agisce liberamente, dove e quando vuole (p. 11). È di Wesley quell’espressione del «cuore stranamente riscaldato» con la quale il riformista inglese intendeva quell’«esperienza» dello Spirito Santo nel cuore, vissuta in un momento ed in un luogo precisi: la cappella dei Fratelli Moravi, il 24 maggio del 1738, a Londra in Aldergate street. Quello di «esperienza» è l’altro termine, ricorrente nel libro, per segnare il cammino di fede di Wesley e del nascente Metodismo. Proprio l’esperienza autentica dello Spirito nel cuore santificato dalla Grazia divina o del «cuore stranamente riscaldato» suggerisce una risposta o l’antidoto a quell’altra esperienza, di narcisismo spirituale o di autoreferenzialità, cui, purtroppo, la tradizione cattolica non è rimasta del tutto estranea. L’opera, la cui materia è rigorosamente suddivisa e distribuita in sei capitoli, si concentra proprio sulla Pneumatologia del riformatore inglese. Il suo autore ha il merito di rintracciare le tematiche più importanti del fondatore del Metodismo, inerenti proprio alla santificazione del credente ed all’azione dello Spirito Santo, nel cuore. Interessante appare, nel volume, il dato della contestualizzazione storica di Wesley nella Chiesa del suo tempo. In particolare, la vita e l’opera di John Wesley vengono contestualizzate nella Chiesa d’Inghilterra del XVIII secolo ossia di quella
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anglicana. Dato, questo, che non è di semplice contestualizzazione storica, ma che aiuta a cogliere il tratto macroscopico non soltanto di Wesley ma ancor più di Lutero e dei principali riformatori protestanti: quello della contestazione dell’apparato dottrinale, liturgico ed ecclesiastico, vigente ed esistente al loro tempo e nel loro ambiente. Quest’aspetto, tratto originario e fondante della Riforma luterana, portata a contestare ed a sovvertire la Chiesa Cattolica come opera satanica ed anti-evangelica, si coglie nella contestazione wesleyana. La Chiesa contestata da Wesley non è però la Chiesa Cattolica, bensì quella anglicana. L’approccio soteriologico di questa chiesa veniva da lui considerato troppo freddo, impersonale e giuridico; proprio da questa Chiesa proverrà, meno di un secolo dopo, John Henry Newman. Il suo clero nonché il suo apparato cultuale e dottrinale venivano considerati dal riformatore inglese ormai inadeguati ed inadatti all’opera dell’evangelizzazione e della diffusione dell’Evangelo. Tuttavia, Cereda riconosce alla high churh di favorire una soteriologia terapeutica di Grazia impartita e non imputata, fondata sull’interpretazione biblica e patristica della fede cristiana. Proprio sulla fede impartita e non imputata, la Chiesa Anglicana prende le distanze dal Calvinismo per accostarsi all’insegnamento ed alle forme sacramentali della Chiesa Cattolica romana. Infatti, l’Anglicanesimo ristava nel ruolo fondamentale e fondante della Sacra Scrittura, in linea con la tradizione protestante, senza per questo rinunciare ai sacramenti (p. 14). L’autore del presente volume ritiene così, come proprio quella chiesa pur contestata da Wesley, gli offrisse gli elementi per una riflessione che valorizzasse anche il ruolo di mediazione che poteva avere la realtà comunitaria dei credenti. La Pneumatologia è il «cuore pulsante di tutta la sua teologia» come Cereda osserva nell’Introduzione (p. 9). Pneumatologia da intendersi come quell’azione dello Spirito Santo che santifica il credente. Proprio l’azione dello Spirito Santo, nel cuore santificato dalla Grazia divina, permette a Cereda di scorgere l’angolo visuale di tutta l’opera teologica di Wesley e del suo metodo, sul quale l’autore del libro si dilunga, non fornendone semplicemente una trattazione od una descrizione sistematica, bensì dipanandone la materia per tutta l’opera e presentando anche alcuni tratti biografici, pur senza essere una biografia del rifor-
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matore inglese. Nel capitolo I (pp. 13-22) si pone il problema della santificazione del credente in Wesley; Cereda mette in evidenza l’istanza evangelica della perfezione del credente e non semplicemente quella della sua giustificazione, come esigeva la matrice della tradizione protestante. Val la pena di riportare un’affermazione dell’autore che esprime al meglio l’intento che Wesley con la sua dottrina e la sua predicazione intendeva perseguire: «La Grazia venne quindi, personalizzata ed interiorizzata. È Dio nello Spirito Santo che è presente nella storia personale di ogni uomo non per mediazione ecclesiale o sacramentale ma, per fede dell’uomo penitente che, riconoscendo il proprio peccato e bisogno della redenzione, Lo invoca come Colui che giustifica e santifica. È presenza divina che accompagna il credente per tutta la sua esistenza.» (p. 15). Con le parole dell’autore, tratte dalle prime pagine del suo libro, troviamo che: «In questa esperienza di fede lo Spirito Santo agisce da purificatore, estirpando religiosamente la radice del peccato intesa come condizione ereditata di ribellione a Dio, di egocentrismo e autonomia che persiste nella vita del credente giustificato; tale purificazione risulta in una maggiore potenza spirituale che accelera la crescita in maturità cristiana.» (p. 13). Quello dell’«esperienza» è il tratto dominante della Pneumatologia di Wesley, che Cereda evidenzia essere il criterio-guida del «metodo» illustrato, spiegato e perseguito, in tutta la predicazione del riformatore inglese. Infatti, Wesley discute seriamente l’apporto della tradizione, in particolare quella dei Padri Apostolici e dei Padri Orientali, per rimarcarne il loro significato ed il loro contributo alla vita cristiana, consistente fondamentalmente, nella pratica dell’Evangelo di Gesù Cristo. Alla base dell’esperienza wesleyana sta l’opera di santificazione dello Spirito nel cuore e nell’anima del credente, operante la divinizzazione secondo la dottrina patristica, ma che in Wesley viene declinata e modulata nella categoria e sotto l’aspetto della trasformazione. Così, da peccatori diventiamo santi e figli di Dio. La Filiazione divina non è soltanto una condizione giuridica; è anche uno stato di vita nuovo, interiore; è una vera e propria rigenerazione interiore, una rinascita dall’alto. Questo è un tratto che accomuna Wesley ai Padri orientali, ma, soprattutto, mostra la sua dipendenza dagli scritti dello Pseudo Macario Egizio, la cui
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influenza va colta in tutta la sua importanza, nonostante Cereda, sulla scorta di studi recenti, la ridimensioni, senza tuttavia poterla negare (pp. 79-81). Lungi da false esperienze pseudocarismatiche od entusiaste, Wesley affermava essere l’esperienza dello Spirito Santo criterio di guida efficace della sua predicazione. Tratto questo che si riscontra negli scritti del Corpus macarianum e proprio nelle Omelie spirituali dello Pseudo Macario Egizio, allora diffuse nei circoli del Pietismo tedesco di Philip Jakob Spener, lette e meditate da Wesley. Proprio sulla predicazione di Wesley, Cereda osserva che: «La Grazia, come favore e potenza di Cristo e dello Spirito Santo, è anche il rimedio perfetto di Dio per evitare che la predicazione della salvezza divenga una panacea, un’illusione o una forma di sterile sentimentalismo che produce pericolosa emotività (enthusiasm).» (p. 17). Fin dalle prime pagine, l’autore di questo studio mostra come la dottrina wesleyana, sviscerata e chiarita con citazioni di estratti dai suoi sermoni e costante riferimento alle sue opere, citate quali Fonti primarie, nella Bibliografia e nelle ampie e dense Note alla fine del libro, aderisca alle fonti patristiche, da Wesley trascelte ed interpretate. Cereda nota come, inizialmente, Wesley ritenesse che si potesse arrivare alla salvezza, attraverso le opere di pietà e di misericordia, confondendo la giustificazione con la santificazione, facendo anzi precedere la seconda esperienza dalla prima. La santificazione veniva vista, infatti, come il perdono dei peccati e solo in un secondo momento, Wesley arriva a convincersi che la sola via alla santità è la giustificazione per fede, in seguito a vari incontri con i Fratelli Moravi e con il predicatore Peter Böhler (p. 17). Secondo il riformatore inglese, l’esperienza della conversione è preceduta da un’opera della Grazia, che si completa in un momento specifico, quando si crede soltanto per fede; l’elemento temporale, nella giustificazione e nella santificazione, non è di secondaria importanza, perché dà ad entrambe le dottrine una nota sia di dinamismo e progressività che di istantaneità, notando l’autore come questi due aspetti della teologia wesleyana devono essere sempre mantenuti nel giusto equilibrio. Il capitolo II dell’opera (pp. 23-50) si dilunga su alcuni cenni biografici e sulle esperienze formative di Wesley, dal Cattolicesimo al Puritanesimo, passando per l’Anglicanesimo ed il Pietismo. È la riflessione sul
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decreto tridentino della giustificazione che pone Wesley in una certa distanza anche se relativa, con le posizioni del Cattolicesimo. Infatti, mentre per la tradizione cattolica, le opere sono necessarie per la salvezza, per Wesley, le opere non sono indispensabili in vista della salvezza ma sono il suo frutto necessario o la sua conseguenza inevitabile (p. 30). Come nota Cereda, Wesley «era convinto che si dovessero evitare i due estremi dell’orgoglio spirituale (meritocrazia) e della passività. Diede sempre più importanza all’opera santificatrice dello Spirito, all’opera della Sua Grazia che ogni credente deve continuamente ricevere e che agisce “per mezzo” e “nei” sacramenti.» (p. 47). Fu proprio il dissidio con i Fratelli Moravi che puntavano tutto sull’abbandono dell’anima a Dio, respingendo i sacramenti ed in definitiva le opere, ad allontanare Wesley dalla loro esperienza e ad indurlo a rimanere nella Chiesa Anglicana, pur riconoscendone le mancanze ed inadempienze, soprattutto quelle dovute al suo clero. Il Capitolo III (pp. 51-76) è dedicato, invece, al suo «metodo» che appunto diede il nome al “metodismo” ed ai “metodisti”, riassunto e tematizzato nel quadrilatero wesleyano. Questo vede i suoi quattro lati corrispondere alla Sacra Scrittura; alla ragione; all’esperienza o conoscenza esperienziale; alla tradizione. Nell’approccio alla Scrittura, Cereda evidenzia in Wesley non un approccio razionale bensì quello sperimentale «inteso come testimonianza personale dello Spirito Santo che intimamente conferma la verità della Scrittura e della sua ispirazione divina.» (p. 55). La Scrittura, infatti, incrementa la Grazia nel cuore del credente; la ragione vi è dunque coinvolta; il suo uso ed il suo esercizio, da parte del credente, sono indispensabili. Wesley vede, però, nei sensi spirituali, illuminati e resi operativi dallo Spirito Santo, il soccorso ad una ragione disorientata. Infatti, è la potenza ri-creatrice a togliere alla ragione il velo dell’ignoranza, risvegliando i sensi spirituali dormienti. Secondo Cereda: «In questo modo, Wesley riuscì ad evitare gli estremismi del razionalismo e del soggettivismo. I sensi fisici ricevono impressioni che divengono dati sensoriali; similmente i sensi spirituali ci fanno comprendere che le impressioni da esse causate sono espressione della Grazia divina mediata dallo Spirito.» (p. 59). Piuttosto che l’ascendenza vagamente platonica, riteniamo che invece vada ravvisato un riferimento alla dottrina dei sensi spirituali di
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Orìgene. Sebbene il maestro alessandrino non compaia tra le fonti cui attinge, è certo che Wesley lo abbia riletto correggendolo (p. 118). Condizione fondamentale per cui si può esercitare correttamente la ragione è l’umiltà, con cui si può avere esperienza o più esattamente, una conoscenza esperienziale della Grazia. Per Wesley, l’esperienza è l’incontro personale con Dio e la testimonianza o la certezza della salvezza operata dallo Spirito Santo, controbilanciate dal suo frutto che è l’amore in tutte le sue forme. Amore che conferma al credente la propria appartenenza a Cristo. Ma è la fede, quell’aiuto divino che permette al razionalista di superare i propri limiti umani, elevando l’esperienza dal mondo sensibile a quello eterno. Così «La fede viene, quindi, intesa come un mezzo o un senso spirituale di conoscenza che necessita sempre dello Spirito Santo per essere attivata ed agire da mezzo salvifico.» (p. 61). Per quanto riguarda la tradizione, questa, diversamente da quella cattolica, doveva esprimersi, secondo Wesley, nelle forme delle Christian Antiquities o «Antichità cristiane», perché, entro certi limiti, la chiesa primitiva doveva servire da modello o paradigma alla chiesa in genere ed al nascente movimento metodista. Proprio all’insegna dell’esperienza e della conoscenza esperienziale della Grazia divina, nella vita cristiana e nella pratica dell’Evangelo, Wesley recupera, in un certo senso, il valore e l’importanza della Tradizione, secondo lui troppo assolutizzata dal Magistero della Chiesa Cattolica. Interessa notare, nell’elemento della tradizione, l’eclettismo di Wesley che traduceva un ecumenismo attento ad individuare, trascegliere, cogliere ed innestare il buono che c’era in ogni tradizione cristiana. Le Christian Antiquities ossia le fonti patristiche della sua Pneumatologia — così come sono studiate da Wesley — sono attentamente vagliate dall’autore del presente libro, nel Capitolo IV (pp. 77104). Esse sono: lo Pseudo Macario Egizio, già notato, Clemente Alessandrino, Gregorio di Nissa, Efrem Siro, per enumerare i Padri orientali; mentre, per quelli occidentali, Wesley appare limitarsi ad Agostino d’Ippona ed a Tommaso d’Aquino, ma vi sono presenti anche i riformatori, quali Martin Lutero, Giovanni Calvino ed i Fratelli Moravi; infine, la stessa Chiesa Anglicana, nella quale Wesley aveva pur studiato e si era formato. Il Capitolo V (pp. 105-131), il più complesso ed il più articolato dell’opera affronta il pensiero pneuma-
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tologico di Wesley, in ordine alla grazia trionfante. Sulla scorta dell’insegnamento patristico, insistente sulla Theosis o divinizzazione, Wesley si occupò di trattare e di precisare l’opera dello Spirito Santo nel cuore santificato dalla Grazia divina. Il riferimento alla Theosis, però, non sembra ascrivibile genericamente all’insegnamento dei Padri greci, in specie cappadoci, sulla divinizzazione del cristiano, quanto piuttosto a quell’inabitazione personale dello Spirito Santo, nel cuore e nell’anima del credente, descritta con accenti personali ed emotivi, proprio dallo Pseudo Macario Egizio, come un’esperienza quasi sensibile. Giustamente, Cereda avverte, supportato da altri studi, come Wesley non accolse la forte componente ascetica, individuale e monastica, presente negli scritti del Corpus macarianum (p. 80); ma le problematiche e le tematiche, affrontate da questo “anziano” del IV secolo, vengono recepite e rielaborate, quali preziose Christian Antiquities, da John Wesley, in tutta la sua Pneumatologia. Cereda osserva come nella sua traduzione inglese delle Omelie Spirituali dello Pseudo Macario Egizio, Wesley «trasse più il principio del peccato persistente nel credente che della santificazione o theosis. Anzi, traducendo i suoi scritti, evitò di esaltarne l’ascetismo e di adoperare il termine theosis.» (p. 118). In realtà, a nostro modesto avviso, Wesley coglierebbe la distinzione importante fra la Theosis dei padri greci e quell’esperienza dello Spirito Santo, così particolare, descritta dallo Pseudo Macario. Questi, continuamente, spiega e chiarisce nei suoi scritti quest’esperienza come quella dell’inabitazione personale dello Spirito Santo, nel cuore e nell’anima santificati dalla Grazia, in contrasto ed in opposizione all’esperienza di asceti entusiasti od ingenui, colti da false esperienze mistiche o pseudocarismatiche. Una simile preoccupazione si ritrova anche nella predicazione wesleyana; lo stesso Wesley fu accusato più volte di essere un enthusiast. Così, come afferma Cereda, Wesley non parla di divinizzazione, poiché rischiava di elevare e quindi di alienare l’umanità, parlando piuttosto di partecipazione allo Spirito Santo (p. 117), come troviamo, peraltro, negli scritti del Corpus macarianum. Al riformatore inglese importava, piuttosto, la giustificazione ed il suo esito ultimo nell’anima del credente ovvero quell’esperienza di intima certezza o plerophoria della grazia santificante che Cereda ascrive giustamente all’Epistola agli Ebrei ma che, in realtà, è
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un termine attestatissimo e ricorrente negli scritti pseudomacariani. Così, secondo Wesley, la certezza della salvezza «non è un’esperienza soltanto intima, del cuore ma verificabile perché produce un beneficio visibile, tangibile. In effetti, per “testimonianza” dello Spirito egli intende una forma di “ispirazione percettibile”, una forte “impressione” sull’anima.» (p. 130). Proprio su questa esperienza percettibile, riconducibile all’aisthesis pseudomacariana, si gioca la riflessione wesleyana sulla Chiesa, verso una ecclesiologia pneumatica. Il rapporto tra ecclesiologia e pneumatologia è trattato nel Capitolo VI (pp. 133-144). La Chiesa per Wesley non è un fine ma un mezzo, poiché il fine e la meta da raggiungere per il credente è l’amore perfetto per Dio ed il prossimo. Pur sempre rispettando la Chiesa Anglicana, nella quale il movimento metodista rimaneva e si sviluppava, per il riformatore inglese, la Chiesa è una comunione di credenti (congregation of believers), creata dallo Spirito Santo a Pentecoste. Due sono le opere e le attività proprie della Chiesa: l’annunzio della Parola di Dio e l’amministrazione dei Sacramenti. Essa ha un senso se si mantiene mezzo di salvezza e di santificazione, è importante ma non indispensabile (p. 136). Valgano per tutte le affermazioni sulla Chiesa, nel pensiero pneumatologico di Wesley, verificabili nel presente libro cui rinviamo, le seguenti considerazioni del pastore Cereda: «La chiesa acquistò valore non come semplice prodotto dello spirito umano utile a soddisfare le sue esigenze ma come comunità di fede, fondata da e su Cristo e continuamente animata dal Suo Spirito che la rende capace di realizzare il progetto salvifico di Dio ed essere utile al mondo anche se lo Spirito Santo ha vie e modi imperscrutabili e inimmaginabili per giungere al cuore dell’uomo.» (p. 141). L’opera della Grazia è dunque compiuta dallo Spirito Santo di cui la Chiesa è un mezzo, uno strumento, mai fine a sé stessa, poiché il suo fine è la salvezza delle anime. Nell’ecclesiologia di Wesley, la cura pastorale del clero e dei ministri, insieme alla corresponsabilità ecclesiale dei credenti, costituiscono i modi ed i mezzi, attraverso i quali l’opera dello Spirito si compie nella Chiesa. Quest’ultima notazione è particolarmente importante perché suggerisce la meditazione e l’attenzione su due aspetti rilevati da Papa Francesco: quello della Chiesa come di un «ospedale da campo» e quello del «profumo delle pecore». Con il primo, è da intendersi un
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ministero ecclesiale che persegua nella cura pastorale un’azione terapeutica; con il secondo, il contatto stretto e frequente dei ministri con il Popolo di Dio, guidati entrambi dallo Spirito Santo. Completa l’opera una ricca Bibliografia, per lo più di studi statunitensi, utile ad approfondire tematiche riguardanti problemi ed istanze delle chiese e delle varie tradizioni cristiane, inerenti la Pneumatologia, nel momento attuale. Un’opera utilissima, densa, rigorosa nel suo impianto scientifico che scava appunto dall’interno, nella coscienza del credente e nell’ecclesialità, inabitate entrambe dalla potenza e dall’iniziativa dello Spirito Santo. Francesco Aleo
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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE 15 febbraio 2013: FELICI SALVATORE, L’etica del “prendersi cura” in Dietrich Bonhoeffer. Dalla sostituzione vicaria alla responsabilità per gli altri. (relatore prof. A. Sapuppo) D’ALBA VINCENZO, La discretio nella Regola del Carmelo. (relatore prof. E. Palumbo) GALLINA LUCA, L’esperienza mistica in santa Chiara d’Assisi. (relatore prof. G.A. Neglia) RAVACI ELISA, Le Sette Chiese dell’Apocalisse nella loro travagliata fedeltà a Cristo. I messaggi del Signore alle sette chiese (Ap. 2-3). Analisi esegetico-teologica e prospettive spirituali. (relatore prof. A. Gangemi) 28 giugno 2013: GANGEMI MARIA, La ricerca di Dio al femminile tra scrittura e contemporaneità: Raab e Etty Hillesum. (relatore prof. C. Raspa)
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11 ottobre 2013: SIRACUSA ANTONINO, Il Cristo Pantocrator della basilica cattedrale di Cefalù. Iconografia e iconologia. (relatore prof. E. Palumbo) GRECO PIETRA, Il significato sponsale della corporeità nella sacramentalità del matrimonio. Le catechesi del mercoledì sull’amore umano nel piano divino (1979-1984) di Giovanni Paolo II. (relatore prof. F. Luvarà) DONATO GIOVANNI, Il lavoro oggetto e via di santificazione nella visione di alcuni autori del XX secolo. (relatore prof. S. Consoli) TORTORELLA ALFREDO, Verso un’ecologia umana. La salvaguardia del creato nel magistero di Benedetto XVI. (relatore prof. M. Aliotta) MAZZOLA ROSARIO, L’ecclesiologia del Vaticano II in Walter Kasper. Punti nodali nella recezione dell’insegnamento conciliare nella costituzione Lumen Gentium. (relatore prof. N. Capizzi) GIUGNO SALVATORE, La vocazione e la missione dei laici in Chistifideles laici di Giovanni Paolo II e nel IV Convegno delle Chiese di Sicilia sui laici. (relatore prof. P. Buscemi) 2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA 15 febbraio 2013: MAZZOLA ROSARIO, L’ecclesiologia del Vaticano II in Walter Kasper. Punti nodali nella recezione dell’insegnamento conciliare nella costituzione Lumen Gentium. (relatore prof. N. Capizzi)
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CONDELLO GIUSEPPE, L’interpretazione dell’Enciclica Humanae vitae secondo Giovanni Paolo II. (relatore prof. C. Lorefice) GULISANO RAFFAELE ANTONIO, I racconti evangelici della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Analisi letteraria, redazionale e teologica di Mt 15,32-39 e Mc 8,1-10 e di Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10b-17; Gv 6,1-15.. (relatore prof. A. Gangemi) LAURETTA DANIELE, L’accompagnamento del malato in fase terminale. (relatore prof. A. Sapuppo) ADDAMO GIUSEPPE, Il discorso della montagna (Mt 5-7). Struttura letteraria e aspetti tematici. (relatore prof. A. Gangemi) MESSINA ALESSANDRO, La devozione e il culto a santa Barbara a Paternò fra tradizione e storia. (relatore prof. G. Zito) FINOCCHIARO MANUELA, L’ordo amoris in Jean-Luc Marion tra filosofia e teologia. (relatore prof. G. Schillaci) MAIUZZO MARIA CRISTINA, Il processo di Gesù davanti ad Anna (Gv 18,12-27). Aspetti letterari, strutturali e tematici. (relatore prof. A. Gangemi) RUSSO LORENZO, Restituzione e disapprovazione nella visione antropologica degli scritti di Francesco d’Assisi. (relatore prof. S. Garro) MIRONE GIUSEPPE DAVIDE, Offerte dei fedeli e il sovvenire alle necessità della Chiesa. (relatore prof. G. Baturi)
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DI MAURO GIUSEPPE, La povertà della Chiesa in “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa” di Antonio Rosmini. (relatore prof. G. Ruggieri) WISSA ROMANUS GAETANO, Il binomio “laboriosità-ozio” in Proverbi. Spunti per un confronto con i proverbi della Tanzania (relatore prof. D. Candido) 28 giugno 2013: NDANZI SILVANUS, The African ethical visions on the assisted fecundation. (relatore prof. A. Sapuppo) TORRISI GRAZIA, Giacomo Lercaro e la teologia della pace nei discorsi conciliari del 1965-1968. (relatore prof. C. Lorefice) PAOLINO ALESSANDRO, Missione come condivisione in Teresa di Lisieux. (relatore prof. G.A. Neglia) DI LUCA GIOVANNI, Il celibato sacerdotale cattolico. Natura, origine, significato e particolare riferimento all’Enciclica Sacerdotalis Coelibatus di Paolo VI. (relatore prof. V. Rocca) VIZZINI GIOVANNI, Vita cristiana e chiamata alla santità negli scritti del Servo di Dio Guglielmo Giaquinta (1914-1944). (relatore prof. C. Lorefice) KASONGO MUKENGA CLOVIS, Cristianesimo e liberazione. (relatore prof. A. Crimaldi) SIGNORELLO ALFIO, La sessualità nella Bibbia: alcune esemplificazioni. (relatore prof. C. Raspa)
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11 ottobre 2013: RIZZA VINCENZO, Il grido di Gesù sulla croce. Fondamenti biblici e spunti teologici nell’opera “Il grido” di Chiara Lubich. (relatore prof. R. Gisana) CASELLA MARCO, Il culto di Santa Agrippina V.M. a Mineo. (relatore prof. G. Federico) SALINITRO CARMELO, La formazione umana del futuro presbitero quale fondamento dell’identità sacerdotale alla luce del documento. La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. (relatore prof. P. Buscemi) DI MAURO SALVATORE, Il bisogno fondamentale della Parola per la fede in Cina. Padre Allegra e la risposta pastorale della Chiesa. (relatore prof. A. Pennisi) DIMBW NGAND STEPHANEIL, Il rito zairese come modello di inculturazione. Una lettura teologico-pastorale. (relatore prof. A. Pennisi) BERRETTA LUCA, I riti e la parola della pietà popolare a Mirabella Imbaccari. (relatore prof. G. Federico) CATANIA VINCENZO, Il grembiule e la stola. I tratti di una spiritualità presbiterale nel vescovo Tonino Bello (relatore prof. A. Pennisi) SILIATO ROSSELLA VALERIA, L’antropologia della coppia: il Cantico dei cantici alla luce di Genesi. (relatore prof. D. Candido) LISI ROSARIA, Circolarità tra interiorità e relazionalità. L’evoluzione del cammino interiore nelle Confessioni di S. Agostino. (relatore prof. G. Di Corrado)
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PRIVITERA ALESSANDRA, La Mariologia poetica in Alda Merini. (relatore prof. C. Lorefice) ASTUTO JONATHAN, La dottrina dell’Apocatastasi nella teologia contemporanea. Nodi problematici e questioni aperte. (relatore prof. F. Brancato) SAMÀ FILIPPA IRENE, La regalità di Gesù in Gv 19, 1-3. Aspetti contestuali, strutturali ed esegetici. (relatore prof. A. Gangemi) LANZAFAME CARMEN, La catechesi redazionali della sezioni dei miracoli in Mt 8,1-9 34. (relatore prof. A. Gangemi) 3. SEMINARIO INTERDISCIPLINARE Mercoledì 12 dicembre 2012 si è tenuto, presso lo Studio Teologico S. Paolo, il 3° dei quattro Seminari interdisciplinari su: Memoria conciliare: le scelte del Vaticano II. Il Seminario di quest’anno aveva per tema: Nodi emergenti dei grandi temi della Costituzione Conciliare Dei Verbum. Ha visto gli interventi dei docenti del S. Paolo: Rosario Gisana, “La rivelazione”; Attilio Gangemi, “L’utilizzo della Scrittura nella DV”; Francesco Aleo, “Il riferimento ai Padri della Chiesa in DV”; Francesco Brancato, “Scrittura e dogma in DV”; Nunzio Capizzi, “La Tradizione in DV”; Adriano Minardo, “Ispirazione, dialogo interreligioso e cultura contemporanea alla luce di DV”, Carmelo Raspa, “La ricezione della DV”. Moderatore è stato Gaetano Zito. 4. DISPUTATIO Mercoledì 20 marzo 2013 si è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio su Ascolto della Parola di Dio. A 50 anni dalla Dei Verbum, guidati da Roberto Repole, Presidente dell’Associazione Teologica Italiana. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio
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Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema. 5. CONVEGNO DI STUDI Il 18 e 19 aprile 2013 si è svolto, presso l’Aula Magna di Villa Cerami – Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università degli Studi Catania, in collaborazione tra lo Studio Teologico S. Paolo e lo stesso Dipartimento, il Convegno di studi su Processi di formazione del consenso. Sono intervenuti: Antonino Crimaldi, dello Studio Teologico S. Paolo; Salvatore Amato, dell’Università degli Studi di Catania, Salvatore Consoli, dello Studio Teologico S. Paolo; Carmelo Raspa, dello Studio Teologico S. Paolo; Francesco Aleo, dello Studio Teologico S. Paolo; Orazio Condorelli, dell’Università degli Studi di Catania, Maria Sole Testuzza, dell’Università degli Studi di Catania; Giovanni Di Rosa, dell’Università degli Studi di Catania; Emilio Castorina, dell’Università degli Studi di Catania; Rosario Sapienza, dell’Università degli Studi di Catania; Giuseppe Baturi, dello Studio Teologico S. Paolo; Giuseppe Ruggieri, dello Studio Teologico S. Paolo; Nunzio Capizzi, dello Studio Teologico S. Paolo; Irene Gionfriddo; Corrado Lorefice, dello Studio Teologico S. Paolo. 6. PRESENTAZIONE VOLUME Sabato 21 settembre 2013 si è tenuta, al Salone dei Vescovi presso l’Arcivescovado di Catania, la presentazione del volume di Piero Sapienza Il cammello e la cruna dell’ago. Si può essere felici in tempo di crisi? Presente l’autore, sono intervenuti, moderati da Rosaria Rotolo, Segretaria Generale UST CISL – Catania: Ivan Lo Bello, Vice Presidente nazionale di Confindustria; Rosario Faraci dell’Università di Catania; Gaetano Zito, Preside dello Studio Teologico S. Paolo; Giuseppe Costa, Direttore della Libreria Editrice Vaticana. 7. COLLOQUI ROSMINI Nell’ambito del progetto di studio del pensiero di Rosmini, nel
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2013 si è tenuto da parte di Piero Sapienza il seminario di ricerca su La visione ecclesiologica di Rosmini ne “Le cinque piaghe della Santa Chiesa”. 8. CORSO FILOSOFICO-TEOLOGICO PER AVVOCATI Il 18 ottobre 2013 sono riprese le lezioni del Corso, valido per accedere al conseguimento della Licenza in Diritto canonico. 9. “SCUOLA DI FORMAZIONE ALL’IMPEGNO SOCIALE E POLITICO” Il 19 ottobre 2013, presso i locali dello Studio Teologico S. Paolo, hanno avuto inizio le lezioni della “Scuola di Formazione all’impegno sociale e politico”. 10. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Venerdì 8 novembre 2013 si è tenuta l’inaugurazione del 45° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina si è svolto il consueto incontro tra la Presidenza, i Docenti, i Rettori dei seminari e i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo. Il pomeriggio, alla solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Presidente del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali, S. E. Mons Piero Marini, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina, la relazione del Preside, Mons. Gaetano Zito, e la prolusione accademica su Il primato della liturgia nella vita della Chiesa alla luce di Sacrosanctum Concilium, tenuta da Mons. Piero Marini. 11. CORSO DI PERFEZIONAMENTO UNIVERSITARIO IN GIORNALISMO ED EDITORIA RELIGIOSA Il 15 novembre 2013, presso i locali del S. Paolo, ha avuto inizio il Corso promosso dallo Studio Teologico S. Paolo, in collaborazione con il Dipartimento Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Catania e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana.
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12. CORSO BIENNALE DI FORMAZIONE IN PASTORALE SANITARIA ED ETICA SANITARIA E BIOETICA Il 16 novembre 2013, presso i locali del S. Paolo, ha avuto inizio il Corso promosso dallo Studio Teologico S. Paolo, in collaborazione con l’Ufficio Pastorale della salute, dell’Arcidiocesi di Catania. 13. INCONTRI Giovedì 16 maggio 2013, presso l’Aula Magna del Dipartimento di Economia e Impresa dell’Università degli Studi di Catania, in collaborazione con l’Osservatorio Astrofisico di Catania, si è tenuto un incontro su “Contempla il cielo e osserva. Riflessioni cosmologiche in una prospettiva multidisciplinare”. Sono intervenuti: Daniele Spadaro dell’INAF/Osservatorio Astrofisico di Catania; Alessandro Pluchino del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università degli studi di Catania; Francesco Brancato dello Studio Teologico S. Paolo. Martedì 19 novembre 2013, presso l’Aula Museo di Zoologia del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università degli Studi di Catania, in collaborazione con l’Osservatorio Astrofisico di Catania, si è tenuto un incontro su “Contempla il cielo e osserva. Riflessioni sull’uomo in una prospettiva multidisciplinare”. Sono intervenuti: Daniele Spadaro dell’INAF/Osservatorio Astrofisico di Catania; Marina Vinciguerra dell’Università degli Studi di Catania; Francesco Brancato dello Studio Teologico S. Paolo. Martedì 10 dicembre 2013, presso la Sala dei Convegni – Palazzo della Cultura a Catania, si è tenuto un incontro su “Il Migrante fra sé e l’altro” promosso dal Servizio di Bioetica “Dr. Angelo Cafaro”.
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LE EROTAPOKRÌSEIS NEL LÒGOS II (COLL. I) DEL CORPUS MACARIANUM. «MARIA SECONDA EVA»: CONSIDERAZIONI SU UN ORIENTAMENTO ERMENEUTICO (Francesco Aleo) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. La comunicazione educativa nel Corpus macarianum . . 2. Vita divina ed umanazione nel Corpus macarianum . .
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Sezione teologica IL VATICANO II CONCILIO DEL FUTURO? (Jean-Louis Bruguès) . . . 1. Il gusto dell’Altro . . . 2. La sollecitudine dell’altro . . 3. Sé stesso come un altro . . Conclusione . . . . QUALE FUTURO PER IL CRISTIANESIMO? (Jean-Louis Bruguès) . 1. Facciamo un sogno . 2. La secolarizzazione rivisitata 3. La tolleranza è una virtù? 4. Scelte di strategia pastorale
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3. La Scrittura nel Corpus macarianum . . . . . 4. Il Logos II della Collezione I . . . . . . 5. «Maria seconda Eva»: esegesi “spirituale” ed orientamento ermeneutico Conclusioni . . . . . . . . I RITI POSTBATTESIMALI NELLA TRADIZIONE LITURGICA DEI SECOLI II-V (Salvatore Magrì) . . . . . . . . 1. Visione d’insieme . . . . . . . 2. Imposizione delle mani . . . . . . 3. L’unzione e la segnazione: due riti che concludono l’Iniziazione cristiana . . . . . . . . 3.1. L’unzione con il crisma . . . . . . 3.2. La segnazione . . . . . . . 4. I primi sviluppi del rituale romano della confermazione: il caso singolare della Tradizione Apostolica . . . . 5. Altre testimonianze . . . . . . . 6. Testimonianze magisteriali . . . . . . 7. Schema riassuntivo e chiavi di lettura per leggere ed interpretare i dati emergenti dalle testimonianze dei primi secoli . . .
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Sezione miscellanea MODERNITÀ IN LUIGI STURZO (Francesco Conigliaro) . . . . Premessa . . . . . . 1. La mentalità moderna di L. Sturzo . . 2. Aconfessionalismo . . . . 3. Antistatalismo . . . . . 4. Persona umana . . . . . 5. Libertà . . . . . . 6. Moralità . . . . . 7. Democrazia . . . . . 8. Internazionalismo . . . . 9. Autonomie locali, decentramento e regionalismo 10. Mezzogiorno . . . . . 11. La Regione Sicilia . . . . Conclusione . . . . .
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IL RAPPORTO TRA DON PRIMO MAZZOLARI E IL CONCILIO VATICANO II (Antonio Pennisi) . . . . . . . . 1. Un annuncio che coglie di sorpresa . . . . . 2. Don Primo Mazzolari e la nuova presenza cristiana nel mondo 3. Il Concilio “secondo don Mazzolari” . . . . . 3.1. La Chiesa come Casa dell’uomo, segno e strumento della carità di Dio . . . . . . . . 3.2. Il rapporto di dialogo tra la Chiesa e il mondo contemporaneo 3.3. Il ruolo attivo dei laici . . . . . . 3.4. Il dialogo con i non credenti . . . . . Conclusioni . . . . . . . .
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IL MONASTERO DI SAN BENEDETTO DEI PADRI CASSINESI IN MILITELLO VAL DI CATANIA (Salvatore Maria Calogero) . . . . . . . 1. La fondazione del monastero . . . . . . 2. La ricostruzione dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693 . . 3. Il monastero nell’Ottocento . . . . . . 4. Il verbale di cessione del monastero . . . . .
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Note EREMITISMO E TROGLODITISMO NELLA DIOCESI DI SIRACUSA (Vittorio G. Rizzone) . . . . . . . .
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ROBOETICA, UN NUOVO PONTE VERSO LA CONOSCENZA (Giovanni Basile) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . 1. La Roboetica: incognite e problemi . . . . 2. Le prospettive etiche più rilevanti della roboetica . . 3. Roboetica e riscoperta della persona . . . . 4. Fede e tecnologia a confronto . . . . Conclusione . . . . . . .
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L’OMELIA AL PROLOGO DEL VANGELO DI SAN GIOVANNI DI SCOTO ERIUGENA (Enrico Piscione) . . . . . . . . 1. L’apparato teologico . . . . . . .
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2. L’aquila e la valle della storia .
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SICILIA: TERRA DI DIALOGO TRA IDENTITÀ E CULTURA. L’INCONTRO INTERRELIGIOSO PER L’INTEGRAZIONE TRA I POPOLI (Gaetano Zito) . . . . . . . . 1. Figli, non orfani . . . . . . . 2. Narrare la propria identità . . . . . . 3. Il caso Sicilia . . . . . . . . 4. La Sicilia: mosaico di popoli e civiltà antiche e moderne . . 5. Uno sguardo al futuro: la Fondazione Synaxis . . . 6. Per un nuovo inizio: il Campus di alti studi sui monoteismi del Mediterraneo . . . . . . . .
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Recensioni .
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YNAXIS Direzione − Redazione − Amministrazione: viale O. da Pordenone, 24 95126 Catania
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izione liturgica dei secoli II-V • F. CONIGLIARO, Modernità in Luigi Sturzo • A. PENNISI, Il rapporto tra don ncilio VaticanoFinito II • S.M. CALOGERO, IlnelMonastero di San Benedetto dei padri cassinesi in Militello Val di stampare luglio 2014 , Eremitismo e trogloditismo da Grafisernella s.r.l. diocesi di Siracusa • G. BASILE, Roboetica, Un nuovo ponte verso la 94018del Troina (En) E, L’omelia al prologo Vangelo di San Giovanni di Scoto Eriugena • G. ZITO, Sicilia: terra di dialogo Tel. 0935 657813 - Faxtra0935 653438 contro interreligioso per la integrazione i popoli • Presentazioni • Recensioni • Notiziario
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XXXI/2 – 2013
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Sommario:
XXXI/2 2013
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• J-L. BRUGUÈS, Il Vaticano II concilio del futuro? • J-L. BRUGUÈS, Quale futuro per il Cristianesimo? • F. ALEO, Le Erotapokrìseis nel Lògos II (Coll. I) del Corpus macarianum. «Maria seconda Eva»: considerazioni su un orientamento ermeneutico • S. MAGRÌ, I riti postbattesimali nella tradizione liturgica dei secoli II-V • F. CONIGLIARO, Modernità in Luigi Sturzo • A. PENNISI, Il rapporto tra don Primo Mazzolari e il Concilio Vaticano II • S.M. CALOGERO, Il Monastero di San Benedetto dei padri cassinesi in Militello Val Catania • V.G. RIZZONE, Eremitismo e trogloditismo nella diocesi di Siracusa • G. BASILE, Roboetica, Un nuovo ponte verso la conoscenza • E. PISCIONE, L’omelia al prologo del Vangelo di San Giovanni di Scoto Eriugena • G. ZITO, Sicilia: terra di dialogo tra identità e cultura. L’incontro interreligioso per la integrazione tra i popoli • Presentazioni • Recensioni • Notiziario
Direttore: Gaetano Zito Direttore responsabile: Salvatore Consoli Pubblicazione realizzata con il contributo Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali, Pubblica Istruzione.
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Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri