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PROCESSI DI FORMAZIONE DEL CONSENSO
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Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania Comitato scientifico: Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Attilio Gangemi, G. Alberto Neglia, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito Comitato di redazione: Francesco Aleo, Nunzio Capizzi, Guglielmo Giombanco, Rosario Gisana, Salvatore Magrì, Vittorio Rocca, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito
QUADERNI DI SYNAXIS 31 SYNAXIS XXXI/3 - 2014
31 Pubblicazione realizzata con il contributo Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali, Pubblica Istruzione.
SYNAXIS
QUADERNI DI SYNAXIS
Iscrizione presso il Tribunale di Catania n. 5/97
PROCESSI DI FORMAZIONE DEL CONSENSO
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EDIZIONI GRAFISER TROINA
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
Direttore: Gaetano Zito Direttore responsabile: Salvatore Consoli Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri
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QUADERNI DI SYNAXIS 31 SYNAXIS XXXI/3 – 2013
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Immagine di copertina: particolare di Allegoria del buon governo, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena
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PROCESSI DI FORMAZIONE DEL CONSENSO Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo di Catania e dal Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Catania
Catania 18-19 aprile 2013
a cura di Nunzio Capizzi – Orazio Condorelli
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2013
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Processi di formazione del consenso : atti del convegno di studi organizzato dallo Studio teologico S. Paolo di Catania e dal Dipartimento seminario giuridico dell’Università degli studi di Catania : Catania 18-19 aprile 2013 / a cura di Nunzio Capizzi, Orazio Condorelli. Catania : Studio teologico S. Paolo ; Troina : Grafiser, 2014. (Quaderni di Synaxis ; 31) ISBN 978-88-99070-02-1 1. Consenso – Atti di congressi. I. Capizzi, Nunzio. II. Condorelli, Orazio. 346.022 CDD-22 SBN Pal0273035 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
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SOMMARIO
PRESENTAZIONE .
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LA PAURA. IL CONSENSO E I MECCANISMI DEL POTERE (Salvatore Amato) . . . . . . . . 21 La paura impedisce qualsiasi relazione intersoggettiva, ma è anche considerata, da molti teorici della politica, il fondamento del legame sociale. Come si spiega questo paradosso? Il saggio analizza diverse concettualizzazioni della paura, cercando di dimostrare che accanto a una solidarietà nella paura emerge una solidarietà (synaxis, communio) nella speranza. È la connessione tra cristianesimo e democrazia? Fear inhibits any intersubjective relationship, but it is also the supposed origin of every social bond and agreement. How we can explain this paradox? The essay analyzes some conceptualizations of fear, arguing that, beyond solidarity of fear, it’s possible a solidarity of hope. It does not seem untrue to say that the solidarity (synaxis, communio) of hope is the connection between democracy and Christianity. PERCORSI PER LA FORMAZIONE AL VALORE ETICO DEL CONSENSO PERSONALE NELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA E NELLA RICERCA SCIENTIFICA (Salvatore Consoli) . . . . . . . . 35 A partire dal Codice di Norimberga e dalla Dichiarazione di Helsinki del 1964 si insiste sulla necessità del consenso nella sperimentazione per evitare che i pazienti, e soprattutto “certi” pazienti, diventino delle cavie. Difatti manca un modello etico cui riferirsi per la formazione del consenso: questo intervento delinea il modello personalista, proprio della morale cristiana, che rivendica sia il primato della persona sia il valore etico del fatto che il paziente si assuma responsabilmente la quota di rischio per contribuire al progresso e al bene della comunità. Il rischio, compensato dal vantaggio sociale, suppone la coscienza della solidarietà che lega tutti gli uomini: non si esita a considerarlo testimonianza di carità e occasione di crescita spirituale.
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Perché la sperimentazione non sia «sull’uomo» ma «con l’uomo» è indispensabile la doverosa e chiara informazione da parte del medico. Nella formazione del consenso influiscono diversi fattori: la concezione della vita e del rapporto con l’altro; il proprio credo religioso; la fiducia nell’ethos professionale dei medici; il parere del consigliere spirituale come pure l’opinione pubblica. Since Nuremberg Code and The Declaration of Helsinki of 1964, the necessity of a consent in experimentation has been urged, in order to avoid that patients, particularly “ some” patients, turn into guinea pigs. Actually there isn’t a standard ethic model to formulate a consent: this intervention puts in evidence the personalistic model, typical of the Christian ethics . It claims on one side, the primacy and importance of the person and on the other, the responsible awareness of the patient about the amount of risk implied in the contribution to progress and the increase of common welfare. The risk, compensated by the social advantage, implies the conscience of solidarity among men: it’s in fact considered a witness of charity and a means of spiritual development. In order to carry on an experimentation “in favour” of man and not “at the expense” of man it’s necessary then a clear and efficient amount of information from doctors. Several factors are involved in the formulation of a consent: the conception of life and of the relationship with others; your own religious credo; confidence in doctors’ professional ethos; the opinion of the spiritual guide as well as of the public opinion. LA DETERMINAZIONE DELLA HALAKHAH: CONFLITTO E CONSENSO (Carmelo Raspa) . . . . . . . . 55 La tradizione rabbinica determina il consenso attraverso il conflitto delle opinioni all’interno del processo ermeneutico operato sulla Torah. Il bet midrash, casa dello studio, è così la sede di quella che i maestri definiscono “la guerra della Torah”. La normatività della halakhah presenta punti di convergenza, ma anche di forte opposizioni, con il modello democratico. Rabbinical tradition fixed the agreement through the conflict of opinions within the hermeneutic process operated on the Torah. The bet midrash, home study, so is the seat of what teachers call "the war of the Torah." The normativity of halakhah presents points of convergence, but also strong opposition, with the democratic model. UN ADVENTUS DI RELIQUIE A COSTANTINOPOLI NEL IV SECOLO: IL CONSENSUS, IN UN’OMELIA DI GIOVANNI CRISOSTOMO (Francesco Aleo) . . . . . . . . 63 L’Adventus nel mondo romano, a partire da Augusto, servì a manifestare il potere e la sua legittimazione. Il Consensus di età augustea si trasmise per tutta l’età imperiale fino a Costantino ed ai suoi successori, nell’Impero cristiano. Una processione di
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reliquie di santi o di un santo a Costantinopoli, intorno all’anno 400, evidenzia l’esigenza di Consensus dell’imperatore regnante e l’abile iniziativa dell’imperatrice consorte Eudossia. Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, in una sua Omilìa, ci restituisce tale delicato equilibrio di poteri. The Adventus in the Roman world, with Augustus, served to show power and his legitimation. The Consensus of Augustan Age was conveied during all imperial age until Constantine and his successors, in the Christian empire. A procession of saint’s relics at Constantinople, about in 400 A.D., shows the need of Consensus of the reigning emperor and the able enterprise of his wife Eudossia empress. John Chrysostom, Constantinople’s bishop, in his Homily, represent this soft balance of powers. RAGIONE, AUTORITÀ, CONSENSO: COSTANTI E VARIANTI NELLA DOTTRINA CANONISTICA DELLA NORMA GIURIDICA (SPIGOLATURE STORICHE) (Orazio Condorelli) . . . . . . . . 97 Ragione, autorità e consenso sono i fattori intorno ai quali ruota la dottrina canonistica della norma. Nel corso dei secoli tali elementi si sono composti secondo proporzioni diverse. Rimane costante l’idea che la norma giuridica debba comunque essere espressione di un ordine razionale che trova la sua fonte primaria in Dio. Reason, authority and consent are the factors around which the canonical doctrine of the legal norm revolves. Over the centuries, these elements have been arranged according to different proportions. An idea remains constant: the legal norm must be an expression of a rational order which finds its primary source in God. IL CONSENSO TRA AUTORITÀ E CORPO. A PROPOSITO DEL TRATTATO DI BALTASAR GÓMEZ DE AMESCÚA (Maria Sole Testuzza) . . . . . . . 137 Il Tractatus de potestate in se ipsum di Baltasar Gómez de Amescúa consente di cogliere due profili, specifici e differenziati, che il tema del consenso poneva a cavaliere tra cinquecento e seicento. In primo luogo, proponendo la potestas quale categoria utile a descrivere il rapporto privilegiato del singolo col proprio corpo, esso costituisce una testimonianza del lento processo di affermazione del principio di “autonomia” in base al quale ciascun uomo è soggetto pienamente capace di disporre di sé. In secondo luogo, l’opera permette di esplorare la “dimensione regolativa” del consenso in un orizzonte culturale caratterizzato da un marcato pluralismo normativo. Consente cioè di analizzare il procedimento attraverso il quale un giurista della fine del secolo XVI conseguiva un accordo fra le tante opinioni disponibili sulle singole ipotesi che il governo del corpo poneva quotidianamente. The Tractatus de potestate in se ipsum of Baltasar Gómez de Amescúa allows us to capture two different and specific aspects under which the theme of consent has been proposed between Sixteenth and Seventeenth centuries. Firstly, by focusing on
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the potestas as useful category to describe the privileged relation of each person with his own body, the Tractatus is a testimony of the slow process by which the principle of “autonomy” has been affirmed. Secondly, the Tractatus allows us to explore the “regulative dimension” of consent in a cultural horizon characterized by a strong legal pluralism. It means that it allows us to analyze how, in the late Sixteenth century, a lawyer could determine which was the correct opinion among the conflicting ones put forward for each case concerning the use of the body. PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E INTERESSI METAINDIVIDUALI (Giovanni Di Rosa) . . . . . . . . 173 La necessità di un fondamento etico da parte del diritto manifesta tutta la sua importanza allorchè si devono affrontare questioni che hanno a che fare con la vita umana e, in particolare, con il tema (complesso e articolato) della disponibilità del corpo. Infatti, a fronte di una sempre maggiore richiesta di affermazione (e correlativa applicazione) del principio di autodeterminazione individuale (espressione di un consenso libero e informato), occorre interrogarsi se la regola giuridica, con specifico riferimento alla differente incidenza degli atti di disposizione del proprio corpo, debba riconoscere preminenza ad un approccio individualista (di tipo privato) oppure debba ricondurre la problematica in esame ad una dimensione sociale (di tipo pubblico), rispetto alla quale ultima il governo della legge sia chiamato ad assicurare il rispetto (e la realizzazione) di interessi metaindividuali. The need for an ethical foundation to the right shows all of its important when you need to address issues that have to do with human life and, in particular, with the theme (complex and detailed) the availability of the body. In fact, in the face of a growing demand for affirmation (and correlative application) the principle of individual self-determination (an expression of free and informed consent), will be the question whether the rule of law, with specific reference to the impact of the different dispositions of their body, should recognize the primacy individualistic approach to a (private type) or must bring the problem under consideration to a social dimension (public type), with respect to which the last rule of law is required to ensure compliance (and implementation) interest metaindividuali. SOVRANITÀ POPOLARE E “CONSENSO”: L’INFLUENZA DEI MODELLI OCCIDENTALI ED I RECENTI SVILUPPI DEL COSTITUZIONALISMO ISLAMICO (Emilio Castorina) . . . . . . . . 185 Il saggio mette a fuoco i recenti sviluppi delle costituzioni islamiche, soprattutto alla luce delle influenze del contrattualismo costituzionale nord-americano (“We, the People”). Tuttavia, è ancora il “consenso” nei principi religiosi a rappresentare l’elemento che, negli Stati islamici, tiene insieme i componenti del gruppo politicosociale, non la “costituzione”.
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The essay focuses on recent developments in islamic constitutions, especially in light of the influences of the North American constitutional contractualism (“We, the People”). It 's still a "consensus" in the religious principles to represent the element that, in the Islamic States, holds together the components of the social-political group, not the “constitution”. PROFILI INTERNAZIONALISTICI DEI MECCANISMI DI FORMAZIONE DEL CONSENSO (Rosario Sapienza) . . . . . . . . 205 Il diritto internazionale pubblico fu pensato inizialmente come un sistema normativo per disciplinare l’interazione degli Stati fra di loro. E crea un ambiente normativo di secondo livello, nel quale agiscono in piena autonomia questi enti. Un ambiente normativo modellato sugli ordinamenti giuridici che all’interno degli Stati disciplinano i rapporti tra le persone umane. Ma lo Stato agisce attraverso i suoi organi, persone fisiche abilitate a svolgere le funzioni dello Stato. E in particolare manifesta il suo consenso, il consenso di un ente sovraordinato alle persone comuni, attraverso l’azione di queste stesse persone. Public International Law was initially created to regulate States’ behaviour vis à vis other States. And it works as a second-level normative milieu, in which States only can act and behave. Nevertheless this second-level milieu was shaped using as a model legal orders governing relations among human beings within States. But a State acts through its organs, human beings authorized to perform the functions of the State. And it expresses its consent, the consent of a higher-level entity, through these human beings. L’EUCARISTIA COME LUOGO E ORIGINE DEL CONSENSO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . . 217 Il consensus omnium nella chiesa si trova all’intersezione di due eventi. Il primo è espresso dalla categoria della repraesentatio che esprime la presenza efficace del Cristo nell’assemblea perché il suo consenso sia autentico. Il secondo è la celebrazione eucaristica come luogo genetico del fenomeno conciliare e di tutti i processi ecclesiali del consenso. The consensus omnium in the church is at the intersection between two events. The prime is the category of repraesentatio or effective Christ’s presence in assembly, toward the agreement’s authenticity. The second is eucharistic celebration as genetic site of the Council and of all agreement’s ecclesiastical proceedings. CONSENSO E COMUNIONE ECCLESIALE. IL CONTRIBUTO DI J.-M. TILLARD (Nunzio Capizzi) . . . . . . . . 233 J.-M. Tillard (1927-2000) ha approfondito la relazione tra il consenso e la comunione
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ecclesiale, soprattutto in Église d’Églises. L’ecclésiologie de communion (1987) e L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité (1995). Il presente contributo, prima, mette in luce alcuni nodi fondamentali della riflessione di Tillard inerenti, ad esempio, la recezione e l’esercizio della sinodalità. Infine, traccia qualche linea sistematica per ripensare la questione del consenso nella Chiesa, nell’orizzonte delle dinamiche di comunicazione, con speciale riferimento alla singularis Antistitum et fidelium conspiratio (Dei Verbum 10). J.-M. Tillard (1927-2000) has searched into relationship between agreement and ecclesiastic communion, above all in Église d’Églises. L’ecclésiologie de communion (1987) and L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité (1995). The present critical essay illuminates any essential knots of Tillard’s meditation about the reception and the exercise of the sinodality. Then, marks out any systematic line to think again the question of the agreement in the Church, into communication’s dynamics, especially with singularis Antistitum et fidelium conspiratio (Dei Verbum 10). ASPETTI ECCLESIOLOGICI CARATTERIZZANTI IL CONSENSUS NELLE CHIESE ORIENTALI (Irene Gionfriddo) . . . . . . . . 249 La relazione presenta due parti armonicamente correlate. Non si può parlare di consensus senza fare riferimento al contesto ecclesiale ed ecclesiologico in cui si pone il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. Nella prima parte, infatti, viene rilevato come il Codice orientale si rivolge ad un soggetto ecclesiale plurale e cioè alle 21 Chiese, integrate nelle cinque grandi tradizioni orientali, nell’insieme della cultura e della fede di ciascuna Chiesa sui iuris, affermando così un’ecclesiologia di comunione ed ecumenica. La seconda parte mette in rilievo come il consensus si esprime, significativamente, nell’esercizio della sinodalità riguardo alle modalità per porre atti giuridici; nello scambio delle litterae communionis fra i nuovi Patriarchi e il Papa; nell’attuazione di una comunione spirituale dagli effetti giuridici in riferimento alla celebrazione delle Nozze, essendo ministri del sacramento i celebranti e non gli sposi. The report presents two harmonically related parts. One cannot speak of consensus without referring to the ecclesial and ecclesiological context of the Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. It is pointed out in the first part how the Eastern Canon Law addresses a plural ecclesial subject of 21 Churches, incorporated into the five major Eastern traditions, integrating the culture and faith of each Church sui iuris, and affirming an ecclesiology of communion and ecumenical. The second part highlights how the consensus is expressed, significantly, in the exercise of synodality regarding how to put juridical acts; in the exchange of litterae communionis between the new Patriarchs and the Pope; in implementation of a spiritual communion from the juridical effects in relation to the celebration of the Wedding, being ministers of the sacrament of the celebrants and not the bride and groom.
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LA FORMAZIONE DEL CONSENSO NEL SECONDO SINODO DELLA DIOCESI DI NOTO (Corrado Lorefice) . . . . . . . . 255 Un sinodo non conosce formazione del consenso, non può produrre delle decisioni condivise, se nei suoi membri non cresce la coscienza sinodale (incluso il vescovo che lo convoca) e, quindi, se non matura la consapevolezza della responsabilità ecclesiale del popolo di Dio e di chi sarà chiamato a rappresentarlo. Il secondo sinodo di Noto, nel concreto vissuto pastorale di una chiesa locale, è stato certamente un evento corale, appunto “sinodale”. Lo si evince dalla sensibilizzazione e dal coinvolgimento della base ecclesiale [di tutto il popolo di Dio], dalla rappresentatività che è riuscito ad esprimere e dallo schietto, acceso e sincero confronto tra le diverse e variegate componenti del popolo di Dio che lo hanno preparato e celebrato; come anche dalle sintetiche e sobrie decisioni finali — poi approvate e promulgate dal vescovo che lo ha indetto — frutto del consenso che progressivamente si è sviluppato, grazie alla graduale maturazione della coscienza sinodale di quanti vi sono stati coinvolti, vescovo compreso. A Synod without consensus can’t produce shared decisions, if its own members don’t have a synodal consciousness (including the bishop who summons it). So christian people and who is called to represent it have to be conscious of their ecclesiastical responsibility. The second synod of Noto, in the concrete pastoral experience of a local church, was certainly a choral event, exactly a “synodal” event. This can be deduced from the awareness of the ecclesial basis [of the whole people of God], involved in a lively and sincere debate between the different and varied components of the people of God who have prepared and celebrated it. Also the synthetic and sober final decisions — then approved and promulgated by the bishop who had announced it — are the result of consensus that has developed progressively, thanks to the gradual maturation of a synodal consciousness of those who were involved, including the bishop. INDICE
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PRESENTAZIONE
1. Docenti dello Studio Teologico “San Paolo” e del Dipartimento “Seminario Giuridico” dell’Università di Catania si sono trovati, ancora una volta, fianco a fianco in una iniziativa scientifica riguardante un tema che si colloca al crocevia tra dimensioni diverse ma convergenti dell’esperienza umana ed ecclesiale. Teologia, morale e diritto sono le sfere entro cui si svolgono e si intrecciano i “processi di formazione del consenso” ai quali è stato dedicato il Convegno di studio del 18 e 19 aprile 2013. Sfere che, se da un lato rappresentano dimensioni conoscitive autonome, dotate di principî e metodi a ciascuna appropriati, dall’altro si intersecano costituendo spazi dell’esperienza entro i quali la conoscenza e il discernimento sono quotidianamente chiamati a tradursi in azione pratica. Delle quattordici relazioni tenute nei due giorni del Convegno, tredici sono raccolte in questo volume, poiché quella di Antonino Crimaldi (Persuasione e manipolazione ideologica nei processi di formazione del consenso) non è pervenuta in tempo per la pubblicazione. La pluralità delle prospettive di indagine si è rispecchiata in un’articolazione dei lavori che ha dato conto delle dimensioni e delle dinamiche fondamentali, dell’approccio storico e dei profili teoricosistematici. 2. Dal punto di vista giuridico, le relazioni segnano le prime tre sessioni del Convegno, rispettivamente dedicate alle Dimensioni e
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Presentazione
dinamiche fondamentali, alle Dimensioni storiche e alle Dimensioni giuridiche. La relazione di Salvatore Amato (La paura. Il consenso e i meccanismi del potere) ripercorre la linea della tradizione filosofica occidentale che ha visto nella paura uno dei fondamenti della società politica: strumento necessario per garantire l’ordine o, all’opposto, dimensione primordiale dalla quale lo Stato di diritto è chiamato a liberare gli individui. Accanto alla solidarietà nella paura, tuttavia, si profila una solidarietà nella reciproca fiducia e fratellanza, nella quale si intravedono i nessi tra cristianesimo e democrazia. I processi di formazione del consenso stanno al cuore dei meccanismi contrattualistici che danno fondamento al costituzionalismo occidentale. La relazione di Emilio Castorina (Sovranità popolare e “consenso”: l’infuenza dei modelli occidentali ed i recenti sviluppi del costituzionalismo islamico) esamina come il paradigma contrattualistico e l’idea di sovranità popolare siano stati recepiti e utilizzati nel seno di un incipiente costituzionalismo islamico, lungo esperienze che, collocando i principî supremi dell’ordinamento in un ordine religioso trascendente, esprimono una nozione di sovranità popolare irriducibile a quella del costituzionalismo occidentale. Sulla dimensione sovrastatuale si sofferma Rosario Sapienza (Profili internazionalistici dei meccanismi di formazione del consenso). Il diritto internazionale fu pensato, e nei fatti si è sviluppato, come un ordinamento giuridico di secondo livello, nel quale interagiscono gli Stati. Si tratta, tuttavia, di un ambiente normativo definito sul modello di quello dello Stato: vi si riproducono, pertanto, processi di formazione del consenso paralleli a quelli che, all’interno degli Stati, concorrono a formare la volontà statuale. Dalla società politica che si fonda e si costituisce, l’attenzione si sposta quindi sulla società che opera sulla base del diritto e della legge. In questa prospettiva la relazione di Orazio Condorelli (Ragione, autorità, consenso. Costanti e varianti nella dottrina canonistica della norma) prende in esame il contributo che il diritto canonico, nella tradizione dello ius commune europeo, ha dato alla definizione dell’idea di una norma giuridica (secolare o ecclesiale che sia) intesa non quale mera espressione della volontà di chi detiene il potere, ma
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quale manifestazione dinamica — pur nella dialettica dei rapporti tra autorità, libertà e consenso — di un ordine razionale che trova il suo fondamento primario in Dio. Comprendere il senso e le implicazioni delle diverse opzioni diviene allora fondamentale per orientarsi nel quadro dei problemi che caratterizzano l’ora presente. Questo il senso degli interrogativi emergenti dalla relazione di Giovanni Di Rosa di fronte alle irrisolte aporie dei nostri tempi circa gli atti di disposizione del corpo umano (Principio di autodeterminazione e interessi metaindividuali). Dato che il diritto non può prescindere da un sia pur minimo fondamento etico, si pone il problema di come trovare, in un contesto democratico, il terreno su cui possano trovare equilibrio le istanze di autodeterminazione individuale e la dimensione pubblica chiamata a dar voce a interessi metaindividuali. In questo quadro tematico, la relazione di Maria Sole Testuzza (Il consenso tra autorità e corpo. A proposito del Trattato di Baltasar Gómez de Amescua) consente di riannodare i fili tra presente e passato alla luce di un raro Tractatus de potestate in se ipsum composto da un giurista vissuto tra i secoli XVI e XVII, cioè nel contesto di un’esperienza che non conosceva cesure tra il mondo della lex e quello dello ius e manteneva costantemente aperto il canale della comunicazione fra cultura giuridica e cultura teologica. Alcuni aspetti delle dinamiche consensuali ecclesiali sono individuati nella relazione di Irene Gionfriddo (Aspetti ecclesiologici caratterizzanti il consensus nelle Chiese Orientali). 3. Riflettere teologicamente sul consenso implica farsi carico di una «sfida urgente di fronte alla quale si trova la chiesa agli inizi del XXI secolo»1, dal momento che la questione rimanda alla necessità, oggi particolarmente avvertita, di un vissuto ecclesiale più sinodale e corresponsabile. Per una riflessione teologica, qualche punto di riferimento è imprescindibile. In primo luogo, con Lumen Gentium 12, è da rilevare la 1 S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia. La sacramentalità della comunità cristiana, Brescia 2008, 607.
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Presentazione
relazione tra il consensus e il sensus fidei, nel contesto dell’affermazione inerente la partecipazione del popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo. Secondo la menzionata costituzione dogmatica, il consensus in materia di fede e di morale è espressione del sensus fidei. Questo, «alimentato e sorretto dallo Spirito di verità», permette che il popolo di Dio, «sotto la guida del sacro magistero», accolga la Parola di Dio, aderisca «indefettibilmente» alla fede e ne penetri il significato e le implicazioni2. Il tema del sensus fidei, e della sua espressione nel consensus, dal punto di vista della recezione, è esposto a ulteriori questioni, almeno in due sensi. Da una parte, implica delle considerazioni sul rapporto con il Magistero: bisogna chiedersi, ad esempio, se, come e quando questo tenga conto del sensus fidei fidelium, considerandolo espressione della Tradizione. Dall’altra, il sensus fidei corre il rischio di essere confuso con una sorta di opinione pubblica, con la possibilità di essere frainteso quale forza di rivendicazione dal basso. In ogni caso, è chiaro che una riflessione teologica sul consensus, nella dinamica della recezione del Concilio, non può non riguardare uno stile e una prassi sinodale nella Chiesa3. Un secondo punto di riferimento, legato a quello appena segnalato, 2 Letteralmente il passaggio di LG 12 asserisce: «Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità dei fedeli (universitas fidelium), avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita». 3 Per un approfondimento, si veda D. VITALI, La totalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere (LG 12): il sensus fidelium come voce della tradizione, in Urbaniana University Journal 66 (2013) 2, 37-70.
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è connesso all’aspetto soggettivo del consensus: secondo Lumen gentium 12, soggetto del consensus è la universitas fidelium. Si tratta, a proposito, di pensare sul carattere di soggetto attivo di ogni battezzato nella chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo. In tal senso, deve essere valorizzato un assioma medievale, ripreso pure nel canone 116, § 3 del Codice di diritto canonico: quod autem omnes uti singulos tangit, ab omnibus approbari debet. Prescindendo dal significato che l’assioma ha nel contesto del Codice, S. Pié-Ninot, rifacendosi a Y. Congar, commenta: «questo assioma non deve essere inteso come la base di una ecclesiologia “democratica” o conciliarista […]; deve essere inteso invece a partire dal significato proprio che aveva nel suo uso nel diritto romano che serviva per mostrare la “regola di procedimento” che deve essere seguita all’interno delle strutture ecclesiali […]. Si tratta quindi di un assioma di partecipazione reale»4. Tale prospettiva è decisiva per le questioni attinenti la sinodalità e il suo esercizio nella chiesa. Va tenuto presente che, nel “procedimento”, non si tratta di raggiungere una maggioranza unicamente numerica. Il criterio della partecipazione, infatti, non è sociologico, ma teologico. Come spiega bene Dario Vitali, «consensus non è riferito al momento finale del sensus fidelium, come manifestazione oggettiva di un contenuto di fede […], ma alle modalità di esercizio del sensus Ecclesiae. Questa forma di consensus, esattamente sinonimo di conspiratio […] esprime l’accordo che deve intercorrere tra tutti i membri della Chiesa in materia di fede». Diversamente, prosegue Vitali, «i contenuti della fede sarebbero determinati o determinabili in base a sondaggi di opinione; la verità dipenderebbe dalla rilevanza delle opinioni, e dal numero, o dal peso (non necessariamente teologico, morale o spirituale) di chi la sostiene»5.
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S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia, 605-606. Lo studio al quale l’autore si ispira, è Y. CONGAR, Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet, in Revue historique de droit français et étranger 36 (1958) 210-259. 5 D. VITALI, Sensus Fidelium. Una funzione ecclesiale di intelligenza della fede, Brescia 1993, 302; 304.
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4. Dentro l’orizzonte teologico delineato nelle righe precedenti, si inseriscono i contributi di indole storico-teologica del Convegno. Nella prima sessione, dedicata alle Dimensioni e dinamiche fondamentali, Salvatore Consoli, riflette sui «percorsi per la formazione al valore etico del consenso personale nella sperimentazione clinica e nella ricerca scientifica». Dal punto di vista teologico-morale, egli considera soprattutto la questione dell’incidenza che la fede e un autentico vissuto spirituale hanno per la suddetta formazione, che include pure un discernimento delle voci dell’opinione pubblica. La seconda sessione, sulle Dimensioni storiche, vede anzitutto l’intervento di Carmelo Raspa, La determinazione della Halakhah: conflitto e consenso. Con il prezioso ausilio di racconti della tradizione rabbinica, il contributo mette in luce il formarsi del consenso nel movimentato processo di interpretazione della Torah, definito “la guerra della Torah”, in vista della fissazione delle norme etiche e giuridiche per la vita privata e pubblica. Segue il contributo di Francesco Aleo, Un Adventus di reliquie a Costantinopoli nel IV secolo: il consensus in un’omelia di Giovanni Crisostomo. Esso, centrato sul cerimoniale dell’adventus applicato alla traslazione delle reliquie dei santi, consente di allargare gli orizzonti su interessanti aspetti della vita della chiesa nel contesto dell’impero ufficialmente cristiano. Risalta, soprattutto, il legame tra il consensus e la praesentia dei santi, nelle reliquie. Le dimensioni ecclesiali occupano per intero la quarta sessione. Questa si apre con due relazioni teologiche. Nella prima, L’eucaristia come luogo e origine del consenso, Giuseppe Ruggieri pone l’accento sull’eucaristia, quale imprescindibile «luogo genetico di ogni consenso ecclesiale […] del fenomeno conciliare e di tutti i processi ecclesiali del consenso». Un approfondimento importante, nel contesto, concerne la categoria della repraesentatio, «che spiega il nesso stesso tra eucaristia e consenso e quindi, a partire da qui, tra il consenso eucaristico e quello conciliare». Nella seconda relazione, Consenso e comunione ecclesiale. Il contributo di J.-M. Tillard, Nunzio Capizzi, anzitutto, presenta le linee fondamentali del pensiero del teologo canadese, per una riflessione teologica sul consenso che sia attenta
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alle dinamiche della comunicazione e, successivamente, sottolinea l’importanza della singularis conspiratio di cui parla Dei Verbum 10. Alle due relazioni teologiche fa seguito il contributo giuridico di Irene Gionfriddo, Aspetti ecclesiologici caratterizzanti il consensus nelle Chiese orientali. In una concezione teologica del diritto, la ricerca del consenso richiede un modo di procedere segnato dall’umiltà e dalla penitenza. Particolarmente rilevanti sono le riflessioni sul legame tra il consensus e l’esercizio della sinodalità, ad esempio nel porre gli atti giuridici o nel vivere le relazioni personali. Nell’ultimo intervento, Corrado Lorefice descrive La formazione del consenso nel secondo Sinodo della diocesi di Noto. Un sinodo che, dopo lunga preparazione, è stato celebrato dal gennaio 1995 all’aprile 1996. In particolare, Lorefice mostra come «la costante sensibilizzazione e consultazione della base è risultata decisiva per la formazione progressiva della coscienza sinodale, attraverso un coinvolgimento capillare nelle varie fasi della preparazione e celebrazione del sinodo». Questo «è per una chiesa locale un tempo propizio di “ascolto” capace di invertire la tendenza frenetica ed attivistica dominante». Nunzio Capizzi – Orazio Condorelli
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LA PAURA. IL CONSENSO E I MECCANISMI DEL POTERE
SALVATORE AMATO*
In questo tacere dei muti alle parole dei ciechi, in questa fitta mescolanza di uomini accomunati solo dal terrore, dalla disperazione e dal dolore, nell’incomprensione di esseri che pure parlavano la stessa lingua, si delineava in modo tragico una delle miserie del nostro secolo (V. GROSSMAN, Vita e destino, 1980)
1. ISTITUZIONALIZZAZIONE DELLA PAURA E PAURA ISTITUZIONALIZZATA Istintivamente sappiamo tutti cosa sia la paura. E le neuroscienze confermano che si tratta di una delle reazioni emotive più facili da indurre e da indagare. È legata al funzionamento dell’amigdala, la parte più antica del cervello che risale a centocinquanta milioni di anni fa e che, a differenza della corteccia cerebrale esclusiva dei mammiferi, è presente in quasi tutte le specie viventi, in particolare nei rettili. Se pensiamo che la corteccia cerebrale, che controlla l’atti-
* Docente di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Università degli Studi di Catania.
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vità razionale, ha iniziato a svilupparsi centomila anni fa, possiamo affermare che la paura ha accompagnato la nostra evoluzione ben prima di quando fossimo in grado di esserne consapevoli. La spiegazione è evidente: si tratta di una reazione fondamentale per la sopravvivenza. Significativamente Bacone fa derivare la forma più esasperata di paura, il terrore panico, da pane perché «la natura ha messo il sentimento della paura e del terrore in tutto ciò che è vivo per conservare la vita» 1. Nella prospettiva della storia della cultura le cose stanno in termini diversi. Anche qui la paura è sempre presente, ma si tratta di uno dei concetti più equivoci e sfuggenti. Non è possibile inquadrarla entro uno schema definito o legarla a una funzione particolare. Abbiamo un’estrema varietà di sfumature teoriche e di relativi riflessi sociali che, tassello dopo tassello, finiscono per delineare una complessa fenomenologia dell’identità umana. Ce ne rendiamo conto anche solo a formulare un elenco approssimativo di temi e pensatori. La paura fisica della morte (Hobbes, Hegel); la paura morale della solitudine (Spinoza); la paura dell’io (Freud, Kristeva); la paura dell’altro (Sartre); la paura di avere paura (Montaigne, Arendt, Zambrano); la paura della delusione (Luhmann, Bauman); la paura della contaminazione (Nussbaum). In maniera diversa, queste particolari declinazioni del medesimo disagio esistenziale ci mettono di fronte a un paradosso: la paura impedisce i rapporti intersoggettivi, ma intanto appare come l’origine, o una delle origini, del legame sociale. È la più evidente forma di inibizione di qualsiasi relazione e scambio intersoggettivo. «Chiude la bocca» (v. 530), grida Antigone. Eppure senza la paura non sarebbe possibile il consenso che dà vita alla società o almeno non sarebbero pensabili molte delle nostre costruzioni sociali. A cominciare dal diritto, con la sua carica coattiva fondata sul timore della sanzione. La teoria dello Stato moderno è profondamente legata a questa contraddizione tra la necessità della paura e l’ideale di una società senza paura. Per Machiavelli la paura, “bene usata”, è lo strumento
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F. BACONE, De sapientia veterum, 1606, VI.
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principale della politica e la migliore garanzia della stabilità del potere. Lo Stato ci libera dalla paura fisica dell’altro, dall’ossessiva presenza dei suoi desideri e delle sue meschinità, ma a condizione che sussista «una paura di pena che non ti abbandona mai»2. Per Hobbes la paura è tanto l’origine quanto il cemento della società politica. Lo Stato ci libera dalla paura, assillante, indeterminata, indefinita di tutti verso tutti che caratterizza la dimensione “naturale” dell’uomo, ma a condizione che sia sostituita dalla paura, assoluta, incondizionata, illimitata di tutti verso uno solo, verso il Sovrano. O la paura della morte o la paura della pena? O la paura di tutti o la paura di uno solo? Lo Stato di diritto, che è un aspetto dello Stato moderno, ha lo scopo di liberarci da questi ricatti. Si fonda sull’idea che le relazioni umane, nella loro pienezza, non sono compatibili con la paura, perché se c’è paura non c’è politica (Locke); perché se c’è paura non c’è libertà (Montesquieu). Probabilmente le pagine più nitide sono state scritte da Spinoza: «Dai fondamenti dello Stato sopra spiegati consegue che il suo fine ultimo non è dominare, né controllare gli uomini con la paura e renderli schiavi di qualcuno, bensì quello di liberarli dal timore, affinché ciascuno viva, per quanto è possibile, sicuramente, ossia affinché ciascuno conservi nel modo migliore il suo diritto naturale a esistere e ad agire senza danno per sé e per gli altri. Il fine dello Stato […] non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi, ma quello di permettere che la loro mente e il loro corpo adempiano con sicurezza alle loro funzioni e gli uomini si avvalgano liberamente della ragione, non si combattano con odio, con ira, o con inganno, né si sopportino con animo iniquo. Il fine dello Stato è, dunque, nei fatti, la libertà»3. Hanno ragione Machiavelli e Hobbes: per vivere assieme, non possiamo fare a meno della paura? Oppure Spinoza, Locke e Montesquieu: per vivere assieme, dobbiamo liberarci dalla paura? Lo Stato di diritto tende a realizzare un difficile equilibrio tra queste due
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N. MACHIAVELLI, De principatibus, vol. I (1514), Torino 1999, 287. B. SPINOZA, Trattato teologico-politico , trad. it. Opere, Milano 2007 (Tractatus theologico-politicus, 1670 XX 6-7), 726-7. 3
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prospettive attraverso l’idea che la paura istituzionalizzata, espressa cioè nei modi e con le garanzie del principio di legalità e del controllo giurisdizionale, non è l’istituzionalizzazione della paura come strumento di governo della teoria dell’assolutismo. A partire da Montesquieu i teorici dello Stato di diritto sottolineano una differenza radicale tra le forme di governo “dispotiche”, che istituzionalizzano la paura facendone il collante di tutti i rapporti sociali, e le forme di governo “moderate” in cui il primato della legge assorbe e neutralizza la paura nel funzionamento dei meccanismi istituzionali. Montesquieu esemplifica questa convinzione attraverso un paradosso: «in uno Stato che avesse […] le migliori leggi, un uomo al quale si facesse il processo, e che dovesse venir impiccato il giorno seguente, sarebbe più libero di un Pascià della Turchia»4. Con il potere di vita e di morte sui propri sudditi e sui propri familiari, apparentemente nessuno è più libero di fare quello che vuole di un pascià turco o meglio, per essere politicamente corretti, di quello che Montesquieu pensa che sia un pascià turco. È concepibile un’esistenza in cui è possibile qualsiasi arbitrio? Il pascià turco può esercitare una violenza senza limiti, ma può anche subirla: vive nel continuo timore dei propri familiari (l’harem è inconcepibile senza gli eunuchi) e dei propri sudditi (il potere è inconcepibile senza i giannizzeri), a differenza del condannato a morte che va incontro alle conseguenze di una condotta che ha scelto nella piena consapevolezza degli eventuali rischi. Lo Stato di diritto si collega, quindi, indissolubilmente alla democrazia come società strutturalmente senza nemici e quindi senza paura. Come nota Kelsen la personalità democratica «si riconosce nell’altro, sperimenta a priori l’altro non come un essere estraneo, ma come un uguale e quindi un amico»5. Questo quadro sembra disegnare un percorso evolutivo acquietante che prevede la progressiva cancellazione della paura dai rapporti sociali. È l’immagine di una società
4 Ch. MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Torino 1952 (Esprit des Lois, 1748), 322-323. 5 H. KELSEN, Il primato del parlamento, Milano 1982 (Demokratie, Tübingen,1927), 45.
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occidentale che, tra Stato di diritto e democrazia, ha chiaramente individuato un insieme di valori fondamentali e gli resta solo il compito di diffonderli al resto del mondo. Clinton proponeva una simile visione nel gennaio del 1996, al momento dell’inizio del suo secondo mandato alla Casa bianca, affermando con orgoglio che «per la prima volta nella storia, le persone di questo pianeta che vivono in democrazia sono più di quelle che vivono sotto dittatura». Dopo pochi anni è rimasto ben poco di tutto questo. La recrudescenza del terrorismo, le tensioni sociali alimentate dalla crisi economica e la stessa logica spietata di un ‘economia che condiziona e aggira qualsiasi forma di controllo, hanno riproposto l’immagine di una violenza sistematica e latente, il cui contraltare è ancora una volta la paura. C’è chi parla di un “liberalismo dell’ansia” e di un “liberalismo del terrore” come le due nuove forme di manipolazione dell’opinione pubblica attraverso cui viene governata, ormai da anni, la civiltà occidentale6. Il liberalismo, che avrebbe dovuto attraverso la democrazia e lo Stato di diritto eliminare la paura, si serve della paura per aumentare il potere del governo e accrescere il controllo della società? 2. PAURE “DENSE” E PAURE “LIQUIDE” Diversi studi7 hanno recentemente sottolineato questo problema: la paura non può essere posta a esclusivo fondamento dell’esperienza politica, ma non può neppure essere ignorata perché è una componente fondamentale del nostro agire politico. Quando pensiamo di essercene liberati, ecco che rispunta, magari sotto nuove forme e in diversi contesti istituzionali. Capire la paura significa andare fino in fondo all’ambivalenza che caratterizza l’esistenza umana: il bisogno spirituale dell’altro, di un tu che accolga il nostro Io, di un Noi che protegga il nostro Io, è altrettanto profondo della paura dell’altro come ostacolo alla realizzazione dei nostri desideri, come radicale e
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C. ROBIN, Paura. La politica del dominio, Milano 2005 (Fear, Oxford 2004), cap.
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Ad esempio D. ZOLO, Sulla paura, Milano 2011.
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costante pericolo per l’espressione dei nostri spazi di libertà, se non addirittura per la nostra sopravvivenza. Come suggerisce Jonas8 «sappiamo che cosa è un gioco soltanto se sappiamo che è in gioco». Le emozioni hanno una forza persuasiva di cui l’indagine filosofica non può non tener conto. Da qui il suggerimento di sviluppare una “euristica della paura” per offrire una cornice etica idonea ad affrontare i problemi della civiltà tecnologica. Il primo problema che si incontra nel cercare di applicare questo progetto euristico alla struttura del legame sociale è costituito, come ho detto all’inizio di queste riflessioni, dal fatto che la paura è tanto semplice da individuare quanto difficile da circoscrivere. Sono estremamente varie le emozioni da cui deriva. È diversa da persona a persona. Può avere un carattere individuale o sociale, riguardare un evento reale o immaginario, un male presente o futuro. Ci rendiamo facilmente conto della presenza della paura, ma non siamo spesso in grado di individuarne le cause e gli effetti. Freud e Heidegger ritengono che, a differenza dell’angoscia, la paura abbia sempre a che fare con qualcosa di definito. Secondo Freud9 richiede un oggetto che la possa provocare, mentre l’angoscia indica una situazione di attesa o di preparazione davanti all’ ignoto. Per Heidegger10 il «davanti-a-che della paura è sempre un ente intramondano, avvicinantesi nella prossimità, nocivo e tale da poter essere evitato», mentre «il davanti-a-che dell’angoscia è l’essere nel mondo come tale» totalmente indeterminato, radicalmente insignificante come il “nulla” e “il nessun luogo” dell’esistenza stessa. È innegabile che la paura si presenti spesso, a differenza dell’angoscia, in forme determinate. È la paura di, è la paura per che inducono a installare un antifurto o a stipulare un’assicurazione. Tutti
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H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990 (Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main 1979), 34. 9 S. FREUD, Al di là del principio del piacere, trad. it. in Opere, vol. IX, Torino 1977,(Jenseits des Lustprinzips, Leipzig, Wien, Zurich 1920), 20. 10 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Torino 1969 (Sein und Zeit, Tübingen 1927), 292-293.
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fenomeni che non potremmo mai collocare nella sfera dell’ angoscia. I rapporti sociali sono intrisi di queste piccole paure e l’ordine pubblico, con le sue pene e con il suo apparato di polizia, sembra costruito apposta per contrastarle. Queste piccole paure possono allentare il legame sociale, far crescere la diffidenza, aumentare l’emarginazione, rafforzare gli apparati del potere, ma non possono costituirlo, renderlo un connotato essenziale dell’esistenza umana. Quella paura che ha sospinto l’umanità sin dai primordi ad aggregarsi in nuclei contrapposti, che ha alimentato le dittature più crudeli, che ha giustificato infinite forme di oltraggio alla dignità umana, non è la somma di tante piccole paure, è l’idea che incomba su ciascuno di noi un pericolo incontrollabile al quale non possiamo sfuggire, se non affidandoci integralmente a qualcosa di ancora più grande e terribile. È la paura della paura di cui ci parla Montaigne: «le plus de peur que la peur» (L. I, XVIII). È il terrore che Hannah Arendt11 pone all’origine del totalitarismo come strumento permanente di annichilimento dell’individuo, costretto a un perenne stato di frustrazione e di estraneazione, consapevole che ormai non gli appartiene più nulla, né la sua vita né la sua intimità. È da tutto questo che deriva la visione della politica come meccanismo sacrificale in cui la pacificazione della comunità, e quindi il differimento della paura, non si può ottenere se non formalizzando la paura, incanalandola verso qualcosa che è definito e indefinito nello stesso tempo, perché deve mantenere la violenza in una condizione di perenne latenza. Penso al dualismo amico-nemico su cui Schmitt costruisce le categorie della politica come una contrapposizione ineliminabile e radicale che esige una disponibilità incondizionata a dare e ricevere la morte. Ma chi è poi il nemico? «Semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui
11 H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Milano 1967 (The Origin of Totalitarianism, New York 1966).
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conflitti che non possono venir definiti né attraverso un sistema di norme predefinite né mediante l’intervento di un terzo»12. Ed è ancora l’esercizio collettivo della violenza nei confronti dell’altro in quanto tale, in quanto diverso, che dà vita, secondo René Girard, all’emergere di un comunità pacificata. L’invidia, uno dei sentimenti umani più comuni e diffusi, genera una costante situazione di tendenziale conflitto che si può neutralizzare solo concentrando la carica di violenza individuale verso un capro espiatorio. Questo assassinio originario, presente in tutti i miti e in tutte le religioni, dà origine alla comunità politica, perché segna il passaggio dal tutti contro tutti al tutti contro uno. Il sacro si costituisce, quindi, sull’esecrando su un atto di violenza gratuito e ingiustificato, ma necessario a dislocare paura e violenza verso qualcosa di definito (è lì, è quello che abbiamo ucciso) e insieme indefinito, perché è la causa di tutti i mali, l’origine di tutte le paure. «Sono i disordini caratteristici dei gruppi umani che con un processo paradossale, ossia aggravandosi sempre più, permettono agli uomini di darsi delle forme di organizzazione: le quali, sorgendo in un modo o nell’altro dalla violenza al suo parossismo, riescono a mettervi fine»13. Maria Zambrano ha sintetizzato questi meccanismi costitutivi del funzionamento della società, «la struttura tragica che la storia ha avuto sinora»14, nel dualismo idolo-vittima. L’idolo è la risposta alle nostre paure. È il meccanismo protettivo che abbiamo inventato: tanto astratto e vuoto quanto astratte e vaghe sono le nostre paure; tanto violento e assetato di sangue quanto è grande la nostra paura. Finché avremo paura, avremo idoli. Finché avremo idoli, avremo vittime. Finché avremo vittime, avremo paura. È una circolarità senza fine? Si può scivolare dalla piccola paura “liquida” del qui e ora all’alienazione estrema della paura “densa”, della paura di avere paura, 12
C. SCHMITT, Le categorie del “politico”, Bologna 1972 (Begriff des Politischen, Berlin 1932), 109. 13 R. GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, Milano 2001 (Je vois Satan tomber comme l’éclair, Paris 1999), 96. 14 M. ZAMBRANO, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Milano 2000 (Persona y democracia. La historia sacrificial, Puerto Rico 1958), 44.
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anche senza momenti cruenti attraverso una progressiva perdita di sicurezza, che finisce per causare una diffidenza generalizzata che deforma le relazioni sociali. C’è una paura della delusione (Luhmann15), una paura liquida (Bauman16) che è l’effetto di tutte quelle sottili forme di incertezza che possono arrivare in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, da un attentato terroristico come dal crollo della borsa, dalla riduzione dell’occupazione come da un test genetico, dalla situazione politica come dall’immigrazione clandestina. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un individuo smarrito, rassegnato, impotente che avverte sempre più il bisogno di affidarsi integralmente a meccanismi di rassicurazione, tanto assoluti e indeterminati quanto assolute e indeterminate sono le sue ansie. Montesquieu aveva intuito il pericolo di qualcosa del genere, quando aveva descritto la “paura civile” come un progressivo insterilirsi di tutti i rapporti sociali per effetto del diffondersi di una sistematica diffidenza reciproca. Senza nulla di drammatico, senza vittime o carnefici, questa forma di paura rispecchia perfettamente le infinite frustrazioni quotidiane che caratterizzano la nostra società, sempre più raggrinzita entro una ripetitività meccanica dove l’identità diventa password, dove la fiducia si esaurisce nel pin, dove il futuro è appeso al pil e allo spread. Una dimensione “offuscante”17, perché impedisce di scorgere qualcosa oltre se stessi, perché rimescola e confonde piccole e grandi paure, facendo dell’immigrante un nemico, del nemico un’invenzione mediatica, dei media un prodotto del mercato, del mercato un idolo. Non c’è nessuna differenza sul piano esistenziale tra il dubbio che
15
Ad esempio l’analisi dei limiti dello Stato del benessere nella soddisfazione degli impulsi e nell’individuazione di adeguati meccanismi di compensazione: N. LUHMANN, Teoria politica nello stato del benessere, Milano 1983 (Politische Theorie im Wohlfahrsstaat 1983), 174. 16 Z. BAUMAN, Paura liquida, Roma-Bari 2008 (Liquid Fear, Cambridge UK 2006). 17 M. NUSSBAUM, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera, Milano 2012 (The New Religious Intolerance, Harvard 2012), 67.
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tutto dipenda dal caso, o comunque da qualcosa di imponderabile, e la rassegnata constatazione che tutto deriva dalla violenza. In entrambe le ipotesi, la libertà appare una parola vuota, perché presuppone la scelta e la scelta, a sua volta, implica che ci sia nelle cose un senso a cui mirano i nostri comportamenti. Libertà è produrre dentro di sé idee e fuori di sé opere? È la secca definizione che ne dà Spinoza18. Per produrre dentro di sé idee bisogna credere in qualcosa. «Una fede: per l’uomo è necessaria. Guai a chi non crede in nulla!” sospira Victor Hugo19. Per produrre fuori di sé opere bisogna essere convinti di poter incidere, in qualche modo, sugli eventi. La vita activa rispetto alla vita biologica, potremmo dire con Hannah Arendt: «sebbene noi ora viviamo, e probabilmente vivremo sempre, soggetti alle condizioni della terra, non siamo meramente creature-legate-alla terra»20. Il prezzo del legame sociale è necessariamente la progressiva erosione di queste convinzioni, secondo la logica spietata con cui Machiavelli e Hobbes hanno costruito la teoria del realismo politico? È difficile negarlo, se pensiamo non solo alla persistenza nel tempo del tema della paura, ma al suo raccogliere sempre nuove inquietudini. «Il discorso della paura, sostenuto da paurosi discorsi sulla paura, non cessa di essere operativo e produttivo; mentre resta ancora inadempiuto il compito di depotenziarlo con efficacia; di conservare cioè il soggetto nella sua autonomia liberandolo dalla colpa, di pensare l’individuo senza le sue paure, di praticare una pace senza violenze, un’universalità confidente e amica — non timorosa — delle differenze» 21. 3. DIVITES FACTI ESTIS: UNA SOCIETÀ DELLA CONFIDENZA Tuttavia, come abbiamo visto, è proprio la storia della cultura a 18
B. SPINOZA, Breve trattato su Dio, sull’uomo e sul bene in Opere, cit., (Korte Verhandeling van God de Mensch en deszelfs Welstand, 1862, II, 26, 9), 194. 19 V. HUGO, I miserabili, Milano 201313 (Les misérables, Paris 1862), 551. 20 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano 1989 (The Human Condition, Chicago 1958), 10. 21 C. GALLI, La produttività politica della paura. Da Machiavelli a Nietzsche in Filosofia politica 1 (2010) 28.
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offrirci un filone di riflessione che non si rassegna a questa visione. Il problema è che non basta affidarsi ai meccanismi istituzionali dello Stato di diritto, per sfuggire ai condizionamenti della paura. «Come Stato liberale, esso da una parte può sussistere soltanto se la libertà che concede ai suoi cittadini si regola a partire dall’interno, dalla sostanza morale del singolo e dalla omogeneità della società»22. Dove trovare, allora, un’alternativa filosofica al cemento sociale offerto dalla paura? Una via ci viene offerta da Aristotele nella Retorica, quando osserva che «la fiducia è l’opposto dell’essere timoroso; perciò all’immaginazione si accompagna qui la speranza che le cose salutari siano prossime e quelle temibili non esistano oppure siano lontane» (II, B, 5, 1383 a). Dobbiamo tener presente che Aristotele aveva definito la paura come il turbamento proveniente dall’immaginazione di un male grave e prossimo, se non addirittura imminente. «Infatti quelli molto lontani non si temono; tutti gli uomini sanno che moriranno, ma poiché la morte non è prossima non se ne preoccupano per nulla» (II, B, 5, 1382 a). Apparentemente quella di Aristotele è una psicologia semplice. Butta sul piatto della bilancia dell’esistenza la fiducia, affermando che la speranza delle cose salutari pesa più del timore dei mali possibili. È così? Non si tratta solo di un’illusione? O quantomeno dell’ultima cosa a cui si aggrappa chi non ha più nulla da attendere? «È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza»23. Non dobbiamo considerare la speranza solo come un allettamento consolatorio, ma come una delle dimensioni antropologiche più profonde. Tutti gli animali avvertono la paura, ma nessuno conosce la speranza. Se la paura ci svela uno dei caratteri naturali della nostra identità animale, il residuo millenario riposto nell’amigdala, la speranza è esclusiva dell’identità umana, perché è espressione del senso dell’io, della volontà di conservazione dell’io, come la paura, ma a differenza della paura si affida integralmente a un “tu” e crede fermamente in 22 E.W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione, Roma-Bari 2007 (Die Entstehung des Staates als Vorgang des Säkularisation, Frankfurt 1967), 53. 23 È il pensiero di Walter Benjamin, che conclude L’uomo a una dimensione di Marcuse. In fuga dal nazismo e suicida Benjamin conosceva bene la disperazione.
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un “dopo”. Spero nella misura in cui credo, e quindi mi affido a qualcuno o a qualcosa. A differenza dell’idolo, la speranza non chiede nulla in cambio, solo la forza di guardare dentro se stessi. La speranza senza la fiducia è inconcepibile e la fiducia, a sua volta, implica la confidenza, quasi a disegnare una parabola ideale, speranza-fiducia-confidenza, simmetrica e opposta alla circolarità paura-idolo-vittima. La fiducia apre quella porta al futuro che la paura impone di chiudere, ci dice che c’è un oltre e su questo oltre insinua gli orizzonti della libertà. Sono libero nella misura in cui posso e posso nei limiti in cui sussiste la fiducia nell’eventualità di incidere sul corso degli eventi. La possibilità, la convinzione di avere anche una sola possibilità (si esprime così la speranza?), è una forma di potere, quel potere che parte dal basso, dal singolo individuo, e si contrappone alle impossibilità alimentata e rafforzata dalla paura in tutte le sue manifestazioni. Alla solidarietà nella violenza, su cui si sofferma Girard, si contrappone idealmente la solidarietà nella speranza. Perché il legame sociale dovrebbe nascere dal conflitto prima che dalla confidenza? Insomma Aristotele ci invita a riflettere su un’asimmetria concettuale. Se c’è paura, o meglio se si cede alla paura, non c’è speranza. La paura annulla la speranza e, con essa, la fiducia nella possibilità di cambiare il corso delle cose. Non è vero l’opposto: la speranza non esclude la paura, ci consente di convivere con essa. Anzi potremmo dire che trae la sua ragion d’essere dalla paura, dalla possibilità di offrire un’alternativa che consenta di guardare in faccia la realtà, senza fuggire, senza cedere alla disperazione. Questa considerazione ne suggerisce un’altra. Spinti dall’ossessione di rifiutare una società fondata sulla paura, di una società condannata alla diffidenza o alla sopportazione reciproca, abbiamo immaginato che una società liberale dovesse essere necessariamente una società senza paura. Ma si tratta di un’illusione, perché le nuove forme di paura, come le vecchie, rivelano che l’uomo fugge la libertà tanto quanto la cerca, che l’uomo teme se stesso tanto quanto teme per se stesso. La paura fisica della morte è altrettanto intensa della paura della solitudine: quel dover guardare in faccia se stessi e quel dover contare soltanto su stessi. La libertà è anche solitudine. «È prendere atto della colpa di avere osato
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La paura. Il consenso e i meccanismi del potere
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essere un io; ciò che Schopenauer ha giustamente chiamato das Schuld des Dasein, la colpa di esistere»24 La paura può diventare il facile alibi per giustificare la ricerca di qualcuno che ci liberi dall’angoscia della decisione, dalla “pesantezza” della libertà. Tutti gli idoli che la storia ha inventato, tutti i capi carismatici, non sono altro che gli strumenti con cui fuggiamo dalla libertà, fingendo di cercare protezione dalla paura. Il problema non è, allora, vagheggiare una società senza paura, ma costruire un’esistenza aperta alla speranza. Ho accennato alle piccole paure, alla paura di e alla paura per, contrapposte alla paura di avere paura su cui si costruisce la mistica del potere come apparato di forza assoluta e incondizionata. Anche per la speranza, come suggerisce Gabriel Marcel25, dobbiamo distinguere le piccole cose quotidiane del spero che da cui sono ispirate le singole azioni dall’io spero, dalla speranza nella speranza, su cui di fonda la convivenza, perché riconosce, radicalmente, il primato incondizionato della fiducia nei confronti della possibilità della violenza e della tentazione della diffidenza. La confidenza è l’altra faccia, forse quella ancora largamente inesplorata, del legame sociale: non ci dice di mettere assieme le nostre paure e la nostra carica di violenza, ma le nostre speranze e la nostra fiducia. Non si può dare fiducia senza riceverla e, viceversa, non si può ricevere fiducia senza darla. «Iam saturatis estis, iam divites facti estis: sine nobis regnatis : et utinam regnetis, ut et nos vobiscum regnemus». Paolo ci incalza con l’incessante progressione (regnatis, regnetis, regnemus) della confidenza nel preparare l’aspettativa escatologica di una regalità diffusa (Cor 4,8). Milbank vi legge l’avvento, insieme etico e profetico, insieme storico e apocalittico, della pistis nel progetto di una giustizia sociale umana: «sul modello dello scambio cristologico, la dignità di dare è ora anche la dignità di ricevere, e tutti
24
R. SCRUTON, Il volto di Dio, Milano 2013 (The Face of God, New York 2012),
25
G. MARCEL, Homo viator, Paris 1944, 43. J. MILBANK, Paolo contro la biopolitica in J. MILBANK – S. ŽIŽEK, San Paolo
44. 26
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sono re perché tutti stanno ricevendo e tutti sono schiavi devoti, ma in un senso nuovo che converte ogni schiavitù in una filiazione liberale»26. Sono tanti i nomi27 che possiamo dare a questa comunità politica fondata sulla fiducia e sulla fratellanza reciproca: synoysia (Platone, Fedone, 111b), synaxis, communio (Tommaso, Summa theologica, III, q. 73, a. 4, e). Il più recente è democrazia. La democrazia, pur con tutti gli aspetti deteriori che abbiamo davanti agli occhi, dovrebbe essere innanzitutto un’etica dei rapporti, un cammino tra le diverse culture e le diverse sensibilità verso «un punto collocato all’infinito che non possiamo mai raggiungere benché possiamo avvicinarci ad esso nel senso che mediante la discussione i nostri ideali, principi e giudizi ci sembrano più ragionevoli e li consideriamo meglio fondati di quanti non fossero prima»28. Il dialogo presuppone una fiducia reciproca, una sorta di cambiale in bianco a favore l’uno dell’altro. Laddove si sviluppa il dialogo non c’è soltanto consenso tra le parti, ma l’assoluta impossibilità della violenza e della paura. Lo riconosce pure Benjamin che, per il resto, crede poco a una società senza violenza: «c’è una sfera a tal punto non violenta di intesa umana da essere inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell’ “intendersi”»29. La speranza contro la paura. È questa, dunque, la tensione che attraversa la nostra società. Ed è questo il compito che ci attende. Non lo suggerisce, forse, anche l’Apocalisse nel conflitto tra i due sistemi: il sistema terrestre, violento e distruttivo, e il sistema celeste pacifico e acquietante30?
Reloaded. Sul futuro del cristianesimo, Massa 2012 (Paul’ s New Moment, Michigan 2010), 99. 27 Lo ricorda J. PIEPER, Speranza e storia, Brescia 1969 (Hoffnung und Geschichte, München 1967), 108. 28 J. RAWLS, , Risposta a Jürgen Habermas, trad. it in Micromega ’96. Almanacco di filosofia, 62. 29 W. BENJAMIN, Per la critica della violenza in Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino 1962 (Schriften, Frankfurt 1955), 18. 30 U. VANNI (S.I.), Paura e speranza nell’apocalisse, in La Civiltà Cattolica 2012, IV, 453-465.
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PERCORSI PER LA FORMAZIONE AL VALORE ETICO DEL CONSENSO PERSONALE NELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA E NELLA RICERCA SCIENTIFICA
SALVATORE CONSOLI*
1. DUE PREMESSE 1.1. La sperimentazione: un fatto solo scientifico? Tutti sappiamo come la base del progresso scientifico sia la sperimentazione: i progressi della medicina, con i suoi molteplici benefici per l’umanità, sono legati in grande misura alla sperimentazione. La sperimentazione dalla fase pre-clinica, costituita da ricerche di laboratorio ed esperimenti su animali, passa necessariamente a quella clinica, caratterizzata dagli esperimenti sull’uomo: questo passaggio comporta sempre una quota di rischio, perché l’uomo, nonostante sia simile ad altri viventi, ha una sua specificità organica. La società ha accettato il procedimento sperimentale della biomedicina, addirittura la promuove e la sostiene; l’etica riconosce il grande valore della ricerca e della sperimentazione, ma ha viva coscienza che «ci sono dei prezzi che non possono essere pagati: sono quelli che riguardano la dignità e la libertà umana»1.
* Docente emerito di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 S. SPINSANTI, Etica bio-medica, Roma 1987, 147.
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I primi seri dubbi che non tutte le sperimentazioni abbiano comportato un progresso veramente umano risalgono al processo di Norimberga, quando l’opinione pubblica è venuta a conoscenza delle sperimentazioni fatte nei lager sui prigionieri da medici nazisti: non si può negare, dicono gli storici della morale, che l’avere usato persone umane come strumenti di ricerca ha portato, da una parte, alla decadenza dell’etica medica2 e, dall’altra, alla sfiducia nell’ethos professionale dei medici3. Successivamente, al fantasma dello sperimentatore a servizio di uno Stato totalitario, è subentrato il timore dei “biocrati” (G. Leach) ovvero dei tecnocrati della biologia e della medicina, che progettano un miglioramento della realtà umana sacrificando l’ “uomo”. Per tali motivi si è sentito il bisogno di elaborare dei codici etici con la duplice finalità di proteggere la dignità e la libertà di ogni essere, e di garantire il necessario spazio per il progresso della biomedicina a vantaggio delle generazioni presenti e future. Il Codice di Norimberga, del 1964, riguardante le «sperimentazioni mediche permesse», nei suoi dieci puntic ha cercato di ben limitare le sperimentazioni sui soggetti umani. L’Associazione Medica Mondiale si è occupata, a più riprese, di una «Dichiarazione sulle ricerche bio-mediche»: nel 1964 si ha la cosiddetta Dichiarazione di Helsinki che verrà successivamente rivista. Unitamente alla regola della non nocività, alla preoccupazione cioè che dalla sperimentazione non derivino danni ai soggetti, un punto abbastanza evidenziato per le sperimentazioni è il consenso informato dei soggetti sperimentali: se i pazienti infatti nutrissero dubbi sulla natura dei trattamenti e sospettassero di essere trattati come cavie, sarebbe compromesso il rapporto di fiducia che fonda l’alleanza terapeutica. I Comitati etici, avendo come interlocutore l’etica, con la quale la biomedicina deve confrontarsi, hanno la potenzialità sia di diventare aiuto per il ricercatore, assistendolo negli immancabili problemi etici
2 3
Cfr. l.c. Cfr. ibid., 148.
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che deve affrontare, sia di dare un volto partecipativo alla medicina: sarà loro compito prioritario l’attenzione a ridurre le possibilità del paziente «cavia» e ad accrescere quelle del paziente «partner». Il consenso informato del paziente si è lentamente diffuso come segno di una sua partecipazione sempre più ampia alle decisioni che lo riguardano al punto che si può ritenere tramontata la stagione del «paternalisno medico» in cui il medico ignorava le scelte e le inclinazioni del paziente. Si è giunti dunque ad un ribaltamento dalla concezione paternalistico-ippocratica dell’atto medico al primato della volontà e dell’autodeterminazione all’atto diagnostico terapeutico da parte del malato. Il consenso realizza la paritaria “alleanza terapeutica” tra medico e paziente e consente l’umanizzazione del rapporto nel rispetto della reciproca dignità. 1.2. Il modello etico di riferimento personalista Mancando una base di principi etici da tutti accettati come validi e indiscutibili, la biomedicina in campo di ricerca e di sperimentazione oggi fa riferimento a diversi criteri e a vari modelli etici: basti ricordare quello che rivendica l’autonomia da ogni normativa eteronoma e la libertà della scienza per tutto ciò che attiene al progresso della scienza e alla pratica della sperimentazione, e l’altro che antepone l’utilità sociale alla intangibilità della singola persona; ma, tra i vari modelli etici, mi piace qui soffermarmi brevemente sul modello personalista. Esso rivendica il primato della persona sia nei confronti della libertà della ricerca sia nei confronti dell’utilità sociale. La persona, totalità di corpo e spirito, è un valore oggettivo e trascendente: è fondamentale il riconoscimento della dignità del soggetto umano, e dell’intangibilità della vita in quanto elemento costitutivo della persona. La persona è il valore fondamentale che va chiaramente anteposto sia alla ricerca che alla società4.
4 Cfr. S. CONSOLI, L’etica del consenso nella sperimentazione clinica, in Synaxis 21 (2003) 1, 9-12.
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Il personalismo afferma il valore assoluto della persona umana, nel senso che ogni persona è un assoluto rispetto ad ogni altra realtà materiale o sociale, e ad ogni altra persona umana: «L’uomo… in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa»5. Su questo modello, proprio della morale cattolica, sembra che si registri una convergenza dei grandi documenti della deontologia medica, particolarmente della Dichiarazione di Helsinki quando ad esempio chiaramente afferma: «Gli interessi del soggetto devono passare avanti a quelli della scienza o della società»6. Per quanto riguarda la sperimentazione sull’uomo, indica due principi, la cui assenza inficerebbe certamente l’eticità della sperimentazione. Innanzitutto il rischio che la sperimentazione comporta non deve essere tale, né a livello quantitativo né a livello qualitativo, da coinvolgere i valori essenziali dell’uomo: chiede alla sperimentazione di restare sotto il primato dell’integrità sostanziale dell’uomo. Ciò comporta la «beneficialità», il dovere cioè di massimizzare i benefici e di minimizzare i danni e gli errori, con la conseguente «non-maleficenza», il dovere cioè di non arrecare danno. E, poi, la scientificità: la ricerca biomedica su esseri umani deve essere conforme ai principi scientifici comunemente riconosciuti e, in particolare, deve essere basata su una sperimentazione realizzata in laboratorio e sopra l’animale, ed essere eseguita in base alle indicazioni della letteratura scientifica: non hanno, pertanto, alcun valore etico le sperimentazioni irrilevanti e inutili come quelle condotte per accumulare pubblicazioni ai fini della carriera. Quanto precede è ben ricapitolato in un discorso di Giovanni Paolo II: «Certo, la conoscenza scientifica ha proprie leggi, alle quali attenersi. Essa tuttavia deve pure riconoscere, soprattutto in medicina, un limite invalicabile nel rispetto della persona e nella tutela del suo diritto a vivere in modo degno di un essere umano. Se un nuovo metodo di indagine, ad esempio, lede o rischia di ledere questo diritto,
5 6
Gaudium et Spes, n. 24. I, 5.
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non è da considerare lecito solo perché accresce le nostre conoscenze. La scienza, infatti, non è il valore più alto, al quale tutti gli altri debbano essere subordinati. Più in alto, nella graduatoria dei valori, sta appunto il diritto personale dell’individuo alla vita fisica e spirituale, alla sua integrità psichica e funzionale […] La norma etica, fondata nel rispetto della dignità della persona, deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell’applicazione dei risultati, in essa raggiunti […] La sperimentazione…si giustifica in primis con l’interesse del singolo, non con quello della collettività»7. 2. IL CONSENSO INFORMATO 2.0. Premessa “provocatrice” Il consenso informato lo troviamo nell’ambito giuridico e nell’ambito morale: mentre per la scienza giuridica si configura come uno strumento di garanzia dell’operato medico verso il paziente, per la morale essa rappresenta il ruolo attivo del paziente nella relazione con il medico. Per la morale il consenso si definisce a partire dall’autonomia della persona e a partire dalla responsabilità di ciascuno nei confronti di se stesso; superando il “paternalismo” medico, fa uscire il paziente dalla situazione di “minorità”. Nell’ambito del diritto, invece, il consenso si fonda sul principio secondo cui non è antigiuridica la lesione di un diritto soggettivo quando vi è il consenso di chi ne è titolare; esso dunque si configura come requisito di concreta liceità della pratica medica: siamo di fronte al volenti et consentienti non fit iniuria. 2.1. Significato e ricchezza del consenso La sperimentazione per essere lecita dal punto di vista morale deve riconoscere e salvaguardare la dignità inalienabile della persona:
7 Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980, in D. TETTAMANZI (cur.), Chiesa e bioetica, Milano 1988, 81-83.
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è la considerazione dell’uomo come persona che dà senso ad un esperimento. Il rispetto della persona comporta che «un esperimento non può essere compiuto se la decisione non nasce dalla libera disposizione del soggetto»8: il requisito etico del consenso informato si fonda sulla dignità del paziente come persona. La dignità personale si esplica, infatti, quale capacità di autodeterminarsi nella realizzazione del progetto-vita. Tra i requisiti etici per la sperimentazione clinica «va ricordata la indispensabilità del consenso, preceduto da opportuna informazione […] è il soggetto il vero ed esclusivo amministratore della propria vita e di ogni valore che con la vita si accompagna»9. È particolarmente significativo che il Codice di Norimberga si apra affermando che «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario» e che la Dichiarazione di Helsinki insista che «in ogni caso di ricerca sull’uomo, l’eventuale soggetto verrà informato adeguatamente […] Il medico dovrà ottenere il consenso libero e informato del soggetto, preferibilmente per iscritto»10, e ciò, ovviamente, allo scopo di evitare il pericolo che venga usato come oggetto di sperimentazione. Giovanni Paolo II, parlando di ciò che implica la dignità della persona umana nella relazione tra medico e paziente, afferma: «è ovvio […] che il paziente debba essere informato della sperimentazione, del suo scopo e degli eventuali suoi rischi, in modo che egli possa dare o rifiutare il proprio consenso in piena consapevolezza e libertà. Il medico, infatti, ha sul paziente solo quel potere e quei diritti, che il paziente stesso gli conferisce»11. E, altrove, lo stesso Pontefice ribadisce che il paziente «è una persona responsabile, che deve essere chiamata a farsi compartecipe del miglioramento della 8 9
M. VIDAL, L’atteggiamento morale 2. Etica della persona, Assisi 1979, 275. G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, in Aggiornamenti sociali 34 (1983)
660. 10
I, 9. Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980, in D. TETTAMANZI, Chiesa e bioetica, cit., 82-83. 11
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propria salute e del raggiungimento della guarigione. Egli deve essere messo nella condizione di poter scegliere personalmente e di non dover subire decisioni e scelte di altri»12. La dignità dell’essere umano consiste essenzialmente nella sua capacità di disporre di se stesso e la vita cristiana è una continua scelta di ciò che meglio risponde al progetto di Dio sull’uomo. Bisogna progredire sempre più verso una sperimentazione «non nell’uomo ma con l’uomo»13: ciò comporta, necessariamente, che il malato debba «partecipare attivamente, con una scelta responsabile ed autonoma al processo decisionale che il medico gli presenta e gli illustra»14 ; solo così si potrà realmente passare dalla prassi paternalistica, che legittima ogni intervento professionale ordinato al bene del paziente, a quella contrattuale, che privilegia la volontà e le scelte del paziente. «La sperimentazione clinica, indiscutibilmente necessaria, deve essere condotta in modo da essere sperimentazione non “sull’uomo” ma “con l’uomo”. Cioè una sperimentazione i cui soggetti siano veri e propri collaboratori del medico ricercatore, con pari dignità e diritti»15: l’etica del consenso informato va capita in questo contesto e intende dare il proprio contributo per un cambiamento culturale in tale direzione. Perché il consenso sia informato è necessaria l’informazione che «dovrà riguardare una breve descrizione della metodica indicata e delle alternative terapeutiche, le finalità, le possibilità di successo, i rischi, gli effetti collaterali»16. Il linguaggio deve essere tale da consentire al paziente di rendersi veramente conto e di poter scegliere: «è
12 Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 otttobre 1982, in D. TETTAMANZI, Chiesa e bioetica, cit., 112. 13 C. GENTILI – G.ALVARO ET AL., Considerazioni etico-giuridiche sulla sperimentazione di farmaci nuovi nell’uomo, in Rassegna clinico-scientifica 48 (1972) 384. 14 A. FASOLI, Considerazioni sul “consenso informato” nella medicina pratica e nella sperimentazione clinica, in Medicina e Morale 35 (1985) 530. 15 Ibid., 317. 16 G. RUSSO, Le nuove frontiere della bioetica clinica, Leumann (Torino) 1996, 206.
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difficile esagerare l’importanza che rivestono, a questo fine, le qualità pedagogiche del medico, cioè la sua capacità di servirsi del simbolismo culturale del paziente e di rendersi così capace di comunicargli le conoscenze che lo interessano»17. Diverse «Carte del malato»18 insistono sul diritto del malato ad essere informato dei rischi che può presentare ogni prestazione non abituale di tipo diagnostico o terapeutico onde poter esercitare il diritto di autodeterminazione nell’accettare o rifiutare una prestazione diagnostica o terapeutica. È alla dignità del paziente in quanto persona che è dovuta la spiegazione, in scienza e coscienza, della logica dell’intervento con i benefici sperati, ma anche con i rischi e le possibili conseguenze Alcuni fanno osservare come sia difficile, se non addirittura impossibile, giungere per diversi ostacoli ad un consenso veramente informato e libero di un uomo malato, a causa dei diversi ostacoli che si presentano19. È ragionevole e doveroso, tuttavia, tendere al massimo concretamente possibile di volta in volta: il rispetto della dignità della persona del paziente esige che si faccia di tutto per renderlo consapevole e responsabile. Mentre il medico ha il dovere di informare senza falsità e senza tendenziosità onde evitare di influenzare la scelta del paziente, il paziente ha il diritto di richiedere le informazioni. È doverosa e possibile un’informazione non tecnica e che rifugga dal vocabolario strettamente medico: oggi a tal fine si consiglia un lavoro in équipe del personale medico e paramedico, ed espressa-
17
M. CUYAS, Il consenso informato in medicina, in La civiltà Cattolica 1993, II, 65. Cfr. C. CORTESE – A. FEDRIGOTTI, Etica in fermeristica, Milano 1985, 89-98. 19 C. GENTILI – G. ALVARO ET AL., art. cit., fanno vedere come il consenso di un uomo malato «…non è né informato, né libero, né spontaneo, essendo questi attributi l’un l’altro interdipendenti e inficiati proprio dalla condizione dell’essere malato» (p. 383): anche se esagerati, gli argomenti evidenziano, tuttavia, la difficoltà per giungere ad un consenso autentico. Bisogna tuttavia essere comprensivi della difficoltà che incontrano i medici stessi se si pensa che è perdurata a lungo la cultura paternalistica che ha consentito alla medicina di continuare ad essere «muta ars» come l’aveva definita Virgilio. 18
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mente si dice che bisogna valutare il ruolo degli infermieri che si è sempre più configurato come “mediatore” dei significati e della moralità nelle situazioni di particolare rilevanza etica. Non va poi dimenticato che la psicologia offre delle indicazioni molto utili per la comunicazione e i modi della sua espressione. Considerando il profondo significato e la ricchezza di valori del consenso, il medico deve assolutamente evitare di ridurre ad un fatto semplicemente “burocratico” quello che è un valore antropologico e quindi etico, evitando, a tal fine, il ricorso indiscriminato a “moduli” sia per dare le informazioni sia per raccogliere il consenso: l’eccessivo ricorso a “moduli” rischia di burocratizzare e distorcere il peculiare carattere della fiducia a cui deve essere improntato il rapporto paziente-medico. Alcuni non esitano a parlare di “deriva formalistica” del consenso informato. 2.2. Principali valori di riferimento per il valore del consenso La libertà è un potere affidato all’uomo per la sua autorealizzazione: essa si configura come un percorso finalizzato al conseguimento dei valori, e, tramite i valori, del Valore. Non sempre il “bene” della persona è visto allo stesso modo dal paziente e dal medico: di fronte a terapie che possono provocare disagi seri, il paziente può ritenere più vantaggioso rinunziare alla terapia che curare il suo male; titolare del bene del paziente non è il medico ma il paziente stesso che sceglie con responsabilità. Il “bene” della persona va visto nel quadro globale che essa ha del suo stesso bene, che spesso ingloba la scelta religiosa20; il consenso trova significato anche all’interno di una fede religiosa: le Carte del malato parlano opportunamente del diritto al rispetto delle convin-
20 Non bisogna confondere ad esempio rifiuto di terapie ed eutanasia: tante volte il rifiuto di una terapia «non nasce dalla volontà di morire, ma dalla volontà di evitare tale terapia anche a costo della morte. Il che è indice di altissima tensione morale»: E. CHIAVACCI, Consenso informato, in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, Torino 1997, 247.
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zioni religiose e filosofiche, che finiscono per far parte della struttura della persona21. In una società multietnica è molto difficile poter trovare una base valoriale comune: nella pratica scientifica non c’è un punto archimedeo esterno, ma solo un continuo confronto tra teorie e osservazioni nell’ambito degli scambi intersoggettivi. Bisogna tener conto che in ogni ospedale convivono medici e pazienti con criteri morali diversi rispetto a ciò che è bene e male: se non si può negare che ognuno è tenuto ad agire secondo la propria coscienza, non si può nemmeno negare che uno Stato, per evitare il caos e l’anarchia e per poter avere delle procedure che garantiscano almeno dai maggiori abusi, deve stabilire alcuni criteri di «morale civile» attraverso le regole democratiche. Ne segue il dato del “conflitto di valori”, che si cerca di superare attraverso il lavoro dei “comitati” o “commissioni” etici. Nelle società pluraliste i cittadini hanno posizioni morali molto diverse: il consenso informato è, in molte circostanze, espressione delle credenze che ciascuno ha. Il modello personalista, ispirandosi a M. Scheler, si muove nella direzione di preferire il valore superiore a quello inferiore, scegliere il “più importante” (lo spirito, il vangelo…) anziché il “più urgente” (la vita)22. 2.2.1. Sacralità e indisponibilità della vita La vita è cosa sacra; per farne un’anima vivente, Dio ha soffiato nelle sue narici un alito di vita23: «il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice “perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo”(Gn 9,6)»24.
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Cfr. C. CORTESE – A. FEDRIGOTTI, Etica in fermeristica, cit. Cfr. D. GRACIA, Fondamenti di bioetica, cit., 558. 23 Cfr. Gn 2,7; Sap 15,11. 24 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Evangelium Vitae, n. 39. 22
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La vita, appunto perché proviene da Dio, è realtà sacra e divina25: Dio, pertanto, prende sotto la sua protezione la vita dell’uomo e ne vieta l’uccisione26, anche quella di Caino27; dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità. Dio si proclama Signore assoluto della vita umana: avendo plasmato a sua immagine e somiglianza l’uomo, la vita ha un carattere sacro ed inviolabile, perché in essa si rispecchia l’inviolabilità stessa di Dio. Da qui il precetto «Non uccidere»: «uccidere l’essere umano, nel quale è presente l’immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della vita»28; la gravità del danneggiare la vita sta nel rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte29. Gesù Cristo è la vita, il “Verbo della vita”: la fede cristiana sottolinea che Gesù ha assunto con l’incarnazione la vita umana; egli mette a servizio della vita la sua forza taumaturgica; per lui salvare una vita umana è ben più importante persino del sabato30. Per l’antropologia cristiana l’essere umano è un’unità psicofisica; il corpo non è uno strumento a disposizione dell’anima, è una parte essenziale della vita umana: l’elemento specifico, infatti, non è l’immortalità dell’anima ma la resurrezione della carne. Oltre che per la biomedicina, il limite del non danneggiare e del non uccidere vale anche per il soggetto su cui si compie la sperimentazione: la persona umana non è titolare di un dominio assoluto sul proprio essere, e quindi sul proprio corpo e sulla propria mente, ma, avendo solo la facoltà di usufrutto e di saggia amministrazione, ha una disponibilità limitata che esclude qualsiasi tipo di manipolazione e di distruzione, «anzi l’eventuale consenso del soggetto a una proposta sperimentale che comprometta la sua esistenza o una sua 25
Ibid., n. 34. Cfr. Gn 9,5s.; Es 20,13. 27 Cfr. Gn 4,11-15. 28 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Evangelium Vitae, n. 55. 29 Cfr. S. CONSOLI, «Tu non ucciderai». Riflessioni alla luce dell’enciclica «Evangelium vitae», in Horeb 3 (1995) 64-70. 30 Cfr. Mc 3,4. 26
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funzione vitale, non avrebbe alcun valore perché privo di ogni fondamento etico»31. L’uomo non può disporre del suo corpo a piacere: il dominio sulla vita umana non è pieno ed illimitato. Secondo la morale classica egli è solo “usufruttuario” della vita umana, dato che questa si pone nella linea dell’essere e non dell’avere: l’uomo può intervenire in essa solo in vista della “umanizzazione” e non della “manipolazione” che la considera e la tratta come una “cosa” o un “oggetto”. L’etica della sacralità della vita afferma la trascendenza del soggetto, non il primato della natura biologica: pertanto c’è coerenza nel rifiuto responsabile delle cure sproporzionate, cosa che avviene nell’accanimento terapeutico. Per la difesa della vita fisica, valore fondamentale della persona, è legittimo affrontare il sacrificio di una parte dell’organismo per la salvezza del medesimo organismo; naturalmente il rischio inevitabile ad esempio della sperimentazione deve essere bilanciato con i vantaggi per la integrità del soggetto. Comunque il rischio non deve superare la barriera della vita e della integrità sostanziale: è il limite di disponibilità che il soggetto ha nei confronti di se stesso sempre, s’intende, alla luce della legge di proporzionalità tra rischio e vantaggio. Il principio del sacrificio particolare per un bene superiore va esteso anche alla solidarietà sociale: il singolo può affrontare una quota di sacrificio o rischio per il bene della società di cui ognuno è membro. Da notare, però, che non si può esporre ad un rischio maggiore di quello che il soggetto può chiedere a se stesso: la disponibilità non riguarda pertanto né la sopravvivenza né l’integrità sostanziale.
31
G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 659. Per il «principio di totalità» un intervento su funzioni importanti è lecito se necessario per salvare tutto l’organismo: sacrificare una «parte» per il «tutto» non ha nulla a che fare con il problema della sperimentazione.
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2.2.2. Tutela e cura della salute La vita è un dono; è un valore assoluto perché direttamente dipende da Dio: l’uomo la possiede in prestito e deve mantenerla con il nutrimento e con i suoi guadagni32 e curarla portandola il più possibile alla pienezza. La persona umana non esiste senza la vita fisica nella sua concretezza terrena; la vita fisica, pur non esaurendo la totalità della vita personale, è il fondamento della vita personale: ogni offesa alla vita fisica è offesa alla persona. Il corpo è coessenziale alla persona e, quindi, la vita del corpo va curata e difesa: la intangibilità della vita e la difesa della sua integrità è il primo dovere e il primo diritto. Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare con mezzi ordinari ma non straordinari: «nella dottrina tradizionale egli ha il dovere morale di tutelare o curare la salute con tutti i cosiddetti “mezzi ordinari”, mentre non ha il dovere di sottoporsi a mezzi straordinari. Il mezzo straordinario non va inteso solo o primariamente come raro, oggettivamente eccezionale, ma piuttosto come eccessivamente gravoso per il paziente in termini di sofferenza, di rischio, di costo, di conseguenze gravi permanenti. Questa valutazione è inevitabilmente soggettiva in due sensi distinti: nel senso che è legata alla sensibilità personale del soggetto (si può preferire la morte a una grave mutilazione), e nel senso che è legata a condizioni concrete esterne gravanti sul soggetto (un padre che non vuole far mancare il pane ai figli a causa del costo di una terapia)»33. Il medico però ha sempre il dovere, salvo diversa indicazione del paziente, di curare con tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione, non può omettere, quindi, nemmeno un terapia gravosa quando manca il rifiuto esplicito del paziente.
32 33
Cfr. Dt 8,3; 2 Re 4,7; Gn 27,40. E. CHIAVACCI, Consenso, cit., 251.
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2.2.3. Sofferenza e morte Gesù Cristo con l’esempio e la parola ci dice che è nostro dovere guarire quanto è guaribile in noi e negli altri; solo dopo possiamo e dobbiamo accettare serenamente l’inguaribile: «è di importanza capitale cogliere il fatto essenziale del Medico Divino che combatte la malattia e quello della sua accettazione personale della sofferenza e della morte. Ambedue le cose sono intimamente connesse. Il malato si avvicina alla redenzione quando cerca di curare quel che può essere curato, ma accetta con fiducia quel che non può esserlo»34. La disponibilità alla malattia, una volta fatto tutto il necessario per la salute, fa parte della condizione umana e in modo del tutto particolare della sequela di Cristo: non va dimenticato che l’essere malato è un modo dell’essere uomo; l’uomo infatti raggiunge la fase eterna della vita attraverso la malattia e la morte. La sofferenza rivela il vero volto della persona e del suo valore: essa è il momento nel quale l’uomo è chiamato a verificare se stesso, a vedere cioè fino a che punto sa e vuole vivere da uomo anche nella situazione di sofferenza, di malattia e di morte. La libertà dell’uomo, che consiste nella capacità del suo donarsi, deve realizzarsi anche nella malattia e nella morte; malattia e morte debbono essere non subite ma “vissute”, assunte cioè dall’uomo libero e responsabile: la fede, che diventa preghiera, aiuta al “ridonarsi” pieno dell’uomo agli altri e a Dio, Donatore della vita stessa. Grazie a Cristo la sofferenza umana è caricata di un nuovo significato, quello “salvifico”: la fede consente al discepolo di vivere responsabilmente, con questo nuovo significato, la sua sofferenza e la sua morte35. Gesù Cristo salva il mondo con la sofferenza e, nello stesso tempo, salva la sofferenza, caricandola di un significato di salvezza: «nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la
34
B. HAERING, Etica medica, Roma 1972, 273-274. Cfr. S. CONSOLI, La fede religiosa nella malattia cronica, In AA.VV., Nefrologia, Dialisi, Trapianto, Siracusa 2008, 33-37. 35
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sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta… Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione»36. Egli, avendo vissuto la sua sofferenza e la sua morte come atto d’amore filiale al Padre e atto d’amore fraterno per gli uomini, si pone come “modello” per l’uomo sofferente e morente, che ha la possibilità ormai di assumere la sua sofferenza e la sua morte con la libertà di Cristo, ossia con il suo amore: la fede cristiana fa scoprire e vivere nella realtà della sofferenza umana l’intimo e vivo legame tra il soffrire e l’amare; questo è il “Vangelo” della sofferenza, proclamato e vissuto da Gesù Cristo. La morte è sempre morte di una persona determinata che durante la vita ha cercato e ha dato un senso alla morte, ne segue che «la morte può diventare compimento, cioè evento carico di senso scelto dalla libertà […] la morte è perciò fine e compimento insieme […] è una prova, la prova decisiva della condizione umana, nella quale si può trovare un senso che rimanda a una speranza o a Dio […] È nella prova che l’uomo mostra ciò che ha nel cuore […] il compimento come affidamento all’Altro»37. 2.2.4. Solidarietà e carità Il corpo umano è manifestazione della persona e strumento per la sua realizzazione personale; l’identità della persona è essere dono vivente e la sua finalità è donarsi: il corpo umano è lo spazio nel quale e attraverso il quale la persona si rivela e si realizza come dono-chesi-fa-dono. Fa parte dell’etica cristiana l’educazione al significato del dono-donazione come qualificante per la persona umana e quale via per alimentare il senso umano della solidarietà. La sperimentazione terapeutica, cioè una terapia non ancora sufficientemente sperimentata e quindi con un margine di rischi, quando viene accettata con la conseguente assunzione libera dei possibili
36 37
GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Salvifici doloris, n. 13. M. ARAMINI, Manuale di bioetica per tutti, Milano 2006, 266-267.
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disagi non solo per il bene personale ma anche di altri pazienti futuri, è un atto di solidarietà e può anche diventare un vero atto di carità La sperimentazione non terapeutica su uomini sani o ammalati, che non viene effettuata nella prospettiva di un beneficio diretto degli interessati ma del progresso della biomedicina e, quindi, del benessere sociale, costituisce un importante e genuino servizio all’amore e alla solidarietà umana. La giustificazione va cercata nel fatto che nella definizione di persona entra il rapporto con gli altri: l’uomo si realizza nell’incontro con gli altri, nell’interdipendenza reciproca. Tutti gli uomini devono apportare il proprio contributo al bene comune dell’umanità; esiste il dovere di partecipare a lavori di ricerca utili al bene della comunità umana: «…il soggetto sano, rispondendo al dovere di collaborare con la comunità alla ricerca del “benessere generale”, può indubbiamente accettare una quota di rischi e di costi personali, purché non siano compromesse la sua vita e la sua integrità personale»38. «La sperimentazione medica, con la sua inevitabile fascia di rischio, piccolo o grande, è indubbiamente uno degli elementi fondamentali cui la comunità deve ricorrere per riuscire, nelle sue ricerche, a ottenere quegli adeguati soccorsi che la popolazione inferma le chiede. Ne consegue che il cittadino, qualora se ne presenti l’opportunità, è invitato a offrire la propria quota personale di rischio sottoponendosi alla sperimentazione medica»39: la comunità ha bisogno che i singoli l’aiutino in questo compito; così il rischio sperimentale è giustificato e compensato dal vantaggio sociale a motivo della solidarietà che tutti ci lega. Giovanni Paolo II è chiaro: «Dare qualcosa di sé stessi, entro i limiti tracciati dalla norma morale, può costituire una testimonianza di carità altamente meritevole ed un’occasione di crescita spirituale così significativa da poter compensare il rischio di una eventuale minorazione fisica non sostanziale»40. Il consenso a fare da soggetto sperimentale non è, quindi, qualcosa
38
G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 663. Ibid., 657. 40 Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, cit., 83. 39
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solo da tollerare ma una scelta degna di ammirazione ed una luminosa testimonianza di solidarietà, particolarmente significativa nella nostra società contrassegnata da egoismo41: è un gesto di dono che acquista il suo valore etico dall’essere perfettamente un libero sottoporsi alla sperimentazione solo per amore del prossimo e del progresso scientifico. Ne segue, logicamente, che quanti sono incapaci di consenso non possono essere fatti soggetto di sperimentazioni, eccetto ovviamente quella terapeutica. Anche la donazione di organi e tessuti è un modo di vivere il comandamento della carità e di avvicinarsi al gesto di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Dalla cura dell’integrità della propria vita che, per l’etica tradizionale, portava ad escludere il disporre del proprio corredo biologico, lentamente si è passati al principio della cura della propria integrità che include anche il principio di carità, come ispiratore di un comportamento nobile e altruista, qual è il dare anche qualcosa del corredo biologico del proprio corpo. La vita, dono di Dio fatto attraverso i genitori, per essere compresa e vissuta deve entrare necessariamente nella logica della gratuità: l’amore impegna a farne un dono per gli altri se veramente si vuole realizzare se stessi. Il principio di totalità dice che le parti debbono essere subordinate al tutto. Ma il “tutto” è il corpo o la persona? Nella dottrina cattolica c’è stata un’evoluzione: fino alla prima parte del pontificato di Pio XII si intendeva l’intero organismo fisico, nella seconda parte invece si dice che è la persona umana nel suo insieme; le parti, quindi, sono subordinate all’organismo e alla finalità spirituale della persona, che ingloba la carità. Sempre a condizione che non subisca alcun danno sostanziale né la propria vita né la propria operatività, il principio di totalità mentre giustifica da solo i trapianti autoplastici (= su se stessi), per i trapianti
41 Cfr. L. CICCONE, Salute & malattia. Questioni di morale della vita fisica, II, Milano 1986, 301.
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omoplastici si deve raccordare con il principio di solidarietà e socialità, a condizione che il sacrificio/rischio del donatore abbia una proporzionalità con le possibilità di vantaggio reale del beneficiario. La consapevolezza, adeguatamente fondata su motivazioni, riguardo a tutte le conseguenze del gesto, rende la donazione atto di amore e di solidarietà: ritengo che si debba educare alla consapevolezza del gesto di donazione e alla opportunità di manifestare il consenso in modo esplicito anziché insistere sul fatto che la società può disporre degli organi delle persone defunte in base al principio di solidarietà. All’origine di ogni intervento di trapianto deve esserci, attraverso il consenso, una decisione di grande valore etico: «la decisione di offrire, senza ricompensa, una parte del proprio corpo, per la salute ed il benessere di un’altra persona»42, si tratta di un gesto di autentico amore perché non si dona qualcosa di proprio ma si dona qualcosa di sé dal momento che «in forza della sua unione sostanziale con un’anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni…ma è parte costitutiva della persona, che attraverso di esso si manifesta e si esprime»43. 2.3. Qualche indicazione metodologica 2.3.1. La formazione della coscienza È vero che la persona ha il dovere di seguire la propria coscienza anche in tema di consenso informato e ha il diritto ad averla rispettata dagli altri, ma non è meno vero che per ciascuno «è necessario che egli ne curi con ogni impegno la formazione continua, nutrendola con quei valori che corrispondono alla dignità della persona umana, alla giustizia e al bene comune […] La coscienza del cristiano, in particolare, è illuminata pienamente nella sua ricerca del bene dall’incontro costante con la Parola di Dio, compresa e vissuta nella comunità cristiana,
42 43
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/1, Roma 1991, 1711. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum vitae, n. 3.
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secondo gli insegnamenti del Magistero»44: la responsabilità della persona pertanto è nel duplice senso di seguire la propria coscienza e di formare la propria coscienza cercando il bene e la verità. 2.3.2. Il consigliere spirituale La pedagogia cristiana, attraverso la pratica del consiglio spirituale, da sempre ha inteso dare il proprio contributo offrendo dei significati che facciano vivere “umanamente” e “cristianamente” la vita anche nelle situazioni particolari quali sono la malattia e la morte e quando, in tali situazioni, bisogna prendere delle decisioni. È necessario prendersi cura del malato, e ciò consiste nell’assisterlo integralmente, nella sua dimensione fisica, morale e spirituale: la Tradizione ha messo in rapporto sinergico «pietas, salus et cura», l’attenzione a tutto l’uomo non esclude la sua relazione con Dio. La malattia è momento e situazione della vita in cui la Chiesa si fa presente con una parola di fede e di speranza; se si tiene presente che la persona è in cammino verso il Valore, si coglie l’importanza e il compito del consigliere morale, come colui che aiuta a vedere e a perseguire il Valore: si tratta sempre di un aiuto e mai di sostituzione o manipolazione, 2.3.3. Opinione pubblica L’opinione pubblica deve essere aiutata a comprendere il valore etico e sociale della sperimentazione clinica e scientifica come pure della donazione, nel caso dei trapianti. È doveroso fugare pregiudizi, malintesi, paure e ogni minimo sospetto riguardante la professionalità medica e il rispetto delle garanzie richieste. All’interno della Chiesa il problema del consenso informato deve costituire oggetto di discernimento dentro il contesto della lettura
44 PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, Obiezione di coscienza per la difesa della vita, 17 marzo 2007, n. 3.
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dei “segni dei tempi” e della storicizzazione nell’oggi del comandamento della carità, caratteristica dei cristiani. Essa deve trovare sempre nuove vie per attuare il donare e il donarsi.
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LA DETERMINAZIONE DELLA HALAKHAH: CONFLITTO E CONSENSO
CARMELO RASPA*
Il giorno in cui Rabbi Eliezer si recò al bet midrash, la casa dello studio, a discutere con i suoi colleghi, i discepoli dei saggi, circa la purità di un forno costruito in forma circolare con strati di sabbia, non poteva certo immaginare che, a suo danno, proprio in quel giorno, sarebbero state dichiarate in modo franco e senza appello le norme che regolano, all’interno dello stesso bet midrash, l’interpretazione della Torah, una in due forme, scritta e orale, rivelata da Dio a Mosè sul Sinai, in vista della determinazione della halakhah. Rabbi Eliezer, giudicando puro un forno costruito in tal maniera, cerca di dimostrare la validità della sua argomentazione ricorrendo ai miracoli (b.Baba Metzia 59b): «Nello stesso giorno rabbi Eliezer replicò con tutte le argomentazioni del mondo e non ricevettero da lui. Disse loro: “Se la halakhah è secondo me, l’albero di carrubo lo proverà”. L’albero si sradicò dal suo posto di cento cubiti, e altri dicono: “quattrocento cubiti”. Gli dissero: “Non si adduce una prova dall’albero”. Replicò e disse loro: “Se la halakhah è secondo me, questo canale d’acqua lo proverà”. Il canale d’acqua cominciò a scorrere all’incontrario. Gli dissero: “Non si adduce una prova dal canale d’acqua”. Replicò e disse loro: “Se la halakhah è secondo me, i muri del bet midrash lo proveranno”. Si piegarono i muri
*
Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Carmelo Raspa del bet midrash per cadere. Li rimproverò rabbi Yehoshua, disse loro: “Se i discepoli dei saggi discutono tra di loro sulla halakhah, che cosa vi importa? Non caddero per rispetto di rabbi Yehoshua e non si raddrizzarono per rispetto di rabbi Eliezer, e ancora stanno inclinati”. Replicò e disse loro: “Se la halakhah è secondo me, dal cielo verrà la prova”. Uscì una voce (letteralmente: figlia di una voce) e disse: “Che cosa avete contro rabbi Eliezer? La halakhah è secondo quello che lui dice sempre!”».
I miracoli non sono argomentazioni valide all’interno della casa dello studio per provare la giustezza e la validità della propria opinione in materia di halakhah: i colleghi di Rabbi Eliezer respingono tutti i miracoli da lui adotti come argomentazioni. La bat qol è un eufemismo per dire Dio: se Egli parla, bisogna ubbidire. Ma per i maestri non è così: «Rabbi Yehoshua si alzò in piedi e disse: “Essa non è in cielo” (citazione di Deut 30, 12). “Che significa “Non è in cielo?”. Disse rabbi Yirmyah: “Già è stata data la Torah al monte Sinai, noi non prestiamo attenzione alla voce al cielo, già hai scritto al monte Sinai nella Torah: Propendere verso la maggioranza (citazione di Es 23, 2)”. Si imbatté rabbi Natan in Elia, gli disse: “Che cosa fece il Santo Benedetto Egli sia in quell’ora?” Rispose: “Gioì, sorrise e disse: Mi hanno vinto i miei figli, mi hanno vinto i miei figli”».
Le regole del bet midrash circa l’interpretazione della Torah in vista della fissazione della norma sono stabilite nel confronto dialettico, nell’abilità ermeneutica, nella capacità di argomentare e di esporre in maniera persuasiva il proprio punto di vista, nella bravura ad innovare (h.iddush), cioè a far emergere, nel solco della tradizione, un insegnamento della Torah che non era stato ancora esplicitato per l’innanzi1. I maestri che vivono il bet midrash sanno bene di stare 1
Il discorso della montagna di Mt 5-7 può a ragione essere considerato sulla stessa linea di un dibattito attorno alla Torah: Gesù opera il h.iddush, cioè innova nell’interpretazione, mantenendosi pertanto dentro l’alveo della tradizione ebraica. Le antinomie cristologiche, termine con cui si definiscono questi capitoli del vangelo
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ingaggiando gli uni contro gli altri una guerra, la guerra della Torah (milh.amah shel Torah): una guerra, la cui arma è rappresentata dalla mah.loqet, cioè dalla discussione. Da qui la necessità della relazione maestro-discepolo come pure dello studio in coppia e a voce alta della Torah stessa, come accade nelle jeshibot, le accademie rabbiniche, dove centinaia di studenti interpretano a due a due i passi della Torah discutendo e dibattendo a voce alta tra di loro. Allo stesso modo, la lezione tenuta dal maestro ai discepoli è su un testo già noto agli stessi discepoli, che sono invitati a intervenire, opponendosi alle argomentazioni del loro maestro. La domanda è essenziale allo studio e va mantenuta costantemente. Dal conflitto scaturisce la pluralità di posizioni che la letteratura aggadica custodisce nei midrashim halakhici dell’epoca tannaitica e in quelli esegetici e omiletici dell’età degli Amoraim e quella talmudica ci restituisce nel commento normativo (Gemarà) che i maestri redigono attorno alla Mishnah. Non a caso, nel brano talmudico sopra citato, Rabbi Eliezer e Rabbi Yehoshua sono stati allievi dello stesso maestro, per poi optare il primo per la scuola di Shammai e il secondo per la scuola di Hillel. Senza mah.loqet, la verità dell’esistente racchiuso nelle lettere della Torah non si rivela e la vita stessa rimane indecifrabile. La mah.loqet deriva la sua ragion d’essere dalla Torah stessa, che si presenta come un “mondo dialettico… Il bet midrash è in questo senso una palestra nella quale esercitarsi a quella dialettica dell’esistente che un attento studio della Torah, appunto, rivela”2. L’intervento oracolare di Dio e del profeta è, pertanto, bandito, in un contesto in cui la discussione ed il confronto sono modalità di studio e procedimenti essenziali per decretare la norma. La voce dal cielo e i miracoli non accreditano l’identità del maestro e non legittimano validamente il suo insegnamento e la sua missione. Tutte le voci presenti hanno uguale possibilità di dirsi, ma preval-
matteano, risulta pertanto una categoria da ridefinire: vd. P. LAPIDE, Il discorso della montagna, Brescia 2003. 2 R. FONTANA, La guerra della Torah. Democrazia, giudaismo, idolatria, Milano 2008, 17. Debbo a lui, mio maestro, la stesura di quest’articolo a lui dedicato.
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gono le più forti, le migliori: “le une e le altre sono parole di Dio, ma la halakhah è secondo Rabbi Hillel”, recita b.Eruvin 13b a proposito della controversia tra due dei più noti maestri in Israele, Shammai e Hillel. La vittoria di Hillel è data dalla sua capacità di riformulare il pensiero dell’avversario al punto da farlo sembrare convincente, per poi attaccarlo in ogni sua parte e, infine, demolirlo attraverso l’esposizione, in ultimo, della propria posizione. La guerra della Torah è, pertanto, conflitto interpretativo e rende antagonisti: «“beato l’uomo che ne ha piena la faretra, non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici (Sal 127,5). Cosa significa “alla porta con i propri nemici”? Disse R. Hijjia b.Abba: Perfino il padre e suo figlio, il maestro e il suo discepolo, che si occupano di Torah alla stessa porta sono resi nemici l’uno dell’altro» (b.Qiddushin 30b).
Propendere secondo la maggioranza è l’obbedienza dei maestri alla lettera della Torah e, dunque, in ultima analisi, a Dio stesso, nonostante il fatto che il testo di Es 23,2 affermi altro. Il testo di Es 23, 2 recita: «Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza per falsare la giustizia». Nel testo originale abbiamo quindi una serie di negazioni che indicano divieti, ma qui la frase viene estrapolata dal suo contesto e viene resa al positivo: “Propendere verso la maggioranza”. Questo accade perché Dio, di sua volontà, ha scelto di dare la sua Torah ai figli degli uomini: essa non è più in Cielo e non ne può discendere come autorità normativa. Essa è ormai sottoposta per sempre al gioco delle interpretazioni, in questo mondo e nell’altro, secondo l’intelligenza dell’affermazione talmudica: “beato chi arriva qua (nel mondo a venire) e il suo Talmud è nella sua mano” (b.Pesah.im 50a). La diversità delle opinioni, il conflitto, la discussione è in funzione della ricerca della verità. Rabbi Ovadia di Bertinoro su m.Avot 5,17 afferma: “Dal dibattito si chiarirà la verità così come attraverso il dibattito tra Hillel e Shammai si è chiarito che la halakhah segue la scuola di Hillel”. Non è più l’intervento del profeta a decidere della verità desunta dalle asserzioni della Torah: la tradizione insiste sul fatto che “un sapiente è preferibile a un profeta” (b.Baba Batra 12a). La mah.loqet può generare divisione ed i maestri conoscono bene
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il rischio che corrono: la radice ebraica h..l.q. è la stessa, infatti, per mah.loqet, discussione, e per h.aluqah, divisione. Il bet midrash, infatti, è il luogo privilegiato dai demoni: «R. Jacob figlio di R. Aha b. Jacob fu mandato da suo padre da Abaye. Quando tornò vide che non era ferrato nel suo studio. Gli disse: Io sono meglio di te. Tu resterai e andrò io. Abaye udì che stava arrivando. Vi era nella scuola di Abaye un certo demone, il quale, allorchè due entravano, anche se di giorno, li tormentava. Egli [Abaye] ordinò: Nessuno lo accolga come ospite [in casa propria, così che debba passare la notte nella scuola], è possibile che accada un miracolo. Entrò e dormì in quella scuola. Gli apparve un serpente con sette teste. Ad ogni genuflessione che faceva una testa cadeva. Il giorno dopo disse loro: Se non fosse accaduto un miracolo, mi avreste messo in pericolo» (b.Qiddushin 29b).
La preghiera umile di R. Aha reintegra il bet midrash in una delle sue funzioni, essere cioè un rimedio contro il maligno. Da qui si evince il carattere sacro del bet midrash in quanto luogo: infatti, è possibile fare di una sinagoga un bet midrash, ma non viceversa. In base al principio secondo cui si cresce in santità, la casa dello studio è più santa del luogo deputato alla preghiera. Ancora, il rischio della divisione legato alla mah.loqet è superato attraverso la conservazione dell’opinione minoritaria, che mai viene taciuta e che può essere ripresa in qualunque altra situazione storica, data la costituzione essenzialmente dinamica e storica della halakhah in quanto interpretazione molteplice della Torah. Nota D. Hartman: “Sebbene la legge sia decisa in accordo con la maggioranza, il punto di vista della minoranza mai fu respinto o considerato come privo di significato cognitivo o religioso. Un ritorno all’opinione minoritaria era sempre una possibilità”3. E cita m.Eduyot 1,5: «E perché essi ricordano l’opinione dell’individuo contro quello della maggioranza, se la halakhah può essere solo in accordo con l’opinione della maggioranza? Affinchè nel caso che un tribunale approvi l’opinione
3 D. HARTMAN, Sub specie humanitatis. Elogio della diversità religiosa, Reggio Emilia 2004, 115-116.
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Carmelo Raspa dell’individuo, esso possa appoggiarsi su di lui, poiché un tribunale non può annullare l’opinione di un altro tribunale a meno che esso lo superi in sapienza e numero; se lo supera in sapienza ma non in numero, o in numero ma non in sapienza, esso non può annullare la sua opinione; ma solo se lo supera sia in sapienza sia in numero».
Se una simile modalità di essere, propria della tradizione rabbinica, sia anche democratica o possa coesistere con la democrazia è oggetto di dibattito. R. Fontana4, traccia un rapido panorama dei diversi punti di vista a riguardo. Samuel p. Huntington nega “categoricamente ogni possibile compatibilità tra ebraismo e democrazia in nome di una diversa appartenenza religiosa e culturale, di una estraneità sostanziale, di una inimicizia totale, essendo la seconda il caratteristico prodotto di una civiltà occidentale e cristiana”5. Di contro, il rabbino Yoel Ben-Nun afferma come “la compatibilità di un sistema giuridico civile accanto a quello religioso è una necessità prevista dalla Torah. Un simile doppio sistema non è perciò debitore nei confronti della modernità”6. Si tratta di una democrazia della Torah che presenta aspetti problematici a parere di Sol Roth, il quale rileva una differenza tra ebraismo e democrazia in questi termini: “il giudaismo è covenantal, vale a dire una società orientata al dovere, e la democrazia è contractual, vale a dire una società orientata ai diritti”7. L’ebraismo, per sua natura, opterà per valori più specifici, suoi propri, riconoscendo la democrazia come una realtà data nella sua problematicità. Fontana opta per l’ongoing conversation che D. Hartman ritiene propria della tradizione rabbinica proprio a partire dalla mah.loqet: la verità relativa della democrazia, la sua “parziale realizzazione di scopi e di ideali” si sposa con la benedizione che i maestri pronunciano su ciò che è incompiuto e perfetto, su “una vita piena di significato anche senza tutele celesti né assoluti sui quali fondarla. Simile avver4
R. FONTANA, La guerra, cit., 75-90. Ibid., 75-76. 6 Ibid., 77. 7 S. ROTH, Judaism and Democracy, in The Torah U-Madda Journal 2 (1990) 6169: 65 in R. FONTANA, La guerra, cit., 79. 5
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sione per le certezze dogmatiche e assolute è tipica dell’uomo democratico e caratterizza il suo state of mind”8. Fontana nota come l’ethos democratico rimanga sorpreso dinanzi ad una discussione di studio descritta in termini bellici. Se, infatti, scopo del dibattito democratico è il raggiungimento di un compromesso, che si ottiene mediante una rinuncia, la guerra della Torah, al contrario, rifiuta ogni conciliazione tra le parti, giudicandola come idolatria, o meglio, in ebraico, watranit, ciò che è permissivo, compiacente, rinunciatario. Il nostro caro Rabbi Eliezer viene scomunicato dai suoi colleghi: una pena, probabilmente, spropositata. Non a caso la sua storia giunge a conclusione della sezione talmudica del trattato b. Baba Metzia 59ab sulla ’ona’at devarim, il danno perpetrato dall’uso improprio delle parole. Il presidente del tribunale rabbinico che gli ha comminato la pena rischia di morire in mare durante un naufragio: «Rabban Gamaliel era su un battello, e venne su di lui una tempesta per farlo annegare. Disse: “Mi sembra che questo non accada se non a causa di rabbi Eliezer ben-Hurqanos”. Si mise in piedi e disse: “Signore del mondo, è manifesto a te che non ho comminato la scomunica per il mio onore, né per l’onore della casa di mio padre, ma per il tuo onore perché non si moltiplicassero le divisioni in Israele”. Si calmò il mare desistendo dalla sua ira».
La preghiera di Gamaliel non è di facile comprensione: non si comprende perché egli abbia legato l’arrivo della tempesta, che mette in pericolo la sua vita, alla scomunica comminata a Rabbi Eliezer. Una scomunica peraltro legittima, stando alle sue parole: l’esempio e la dottrina di Rabbi Eliezer avrebbero potuto, infatti, generare una scuola al suo seguito e creare così divisione tra i figli d’Israele. Eppure, il dramma deve ancora consumarsi: Ima Shalom, moglie di Rabbi Eliezer e sorella di Rabban Gamaliel, impedisce al marito di pregare. Un povero bussa alla sua porta e la donna si distrae dal sorvegliare il marito, che trova in preghiera. Subito, le giunge notizia che il fratello, Rabban Gamaliel, è morto. Nelle parole afflitte di Ima
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R. FONTANA, La guerra, cit., 82.
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Shalom sembra che la causa della morte del fratello, Rabban Gamaliel, sia da attribuirsi alla colpa di ’ona’at devarim da lui perpetrata, mediante la scomunica, nei confronti di Rabbi Eliezer. Ma il testo è oscuro circa la preghiera di quest’ultimo, se fosse cioè indirizzata contro Rabban Gamaliel, del quale, comunque, permangono le motivazioni valide della sua azione, come egli stesso esprime durante il pericolo del naufragio. La vita non è, pertanto, così chiara come all’interno del bet midrash, nel quale i maestri dichiarano la preminenza dell’amore in seno alla guerra. Il conflitto attorno alla Torah è condotto soltanto le-shem shamaym, per Dio, alla ricerca di una verità che non è più una e in cielo, ma molteplice e sulla terra, figlia dell’interpretazione, non oracolo divino. Ecco perché i maestri raccomandano: «Essi [i nemici] non si muovono di là [dalla porta] finché non si sono amati l’un l’altro» (b.Qiddushin 30b), dove l’amore non è rinuncia alla propria posizione o raggiungimento di un compromesso, ma il minimo sufficiente «per creare comunque uno spazio importante di coabitazione comune»9.
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Ibid., 87.
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UN ADVENTUS DI RELIQUIE A COSTANTINOPOLI NEL IV SECOLO: IL CONSENSUS, IN UN’OMELIA DI GIOVANNI CRISOSTOMO
FRANCESCO ALEO*
1. L’ADVENTUS COME LUOGO DI COMUNICAZIONE DEL CONSENSUS Il sorgere del termine consensus è documentato sia nelle iscrizioni epigrafiche che nelle fonti letterarie di età repubblicana ed imperiale1. Un’importante ricorrenza del termine, nella formula consensus universorum, è documentata nel Monumentum ancyranum, da una lunga iscrizione, recante le Res gestae dell’imperatore Augusto. Giustamente, Instinsky nel suo saggio su questa formula, presente nelle Res gestae — inserita, quindi, per espressa volontà di Ottaviano — si chiede quale preciso valore e significato abbiano il termine consensus all’epoca dell’inizio dell’istituto imperiale ed al momento della fondazione del Principato2. Augusto, stando a quanto egli stesso stabilì di tramandare ai posteri nelle Res gestae, restituì la res publica al Senato *
Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. H.U. INSTINSKY, Consensus universorum, in Hermes 75 (1940) 265-278, in particolare alle pp. 266-268. 2 Per il luogo testuale ove ricorre consensus universorum si rinvia al testo delle Res gestae di Augusto, nell’iscrizione del Monumentum ancyranum riportato, con le opportune integrazioni, da H.U. INSTINSKY, Consensus universorum, 265: In consulatu sexto et septimo postquam bella civilia estinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. 1
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ed al popolo romano (in senatus populique Romani arbitrium transtuli). Letteralmente, egli «trasferì» la Res publica di sua propria autorità (ex mea potestate) dopo averne preso possesso (potitus rerum omnium rem publicam), attraverso un «consenso universale» (per consensum universorum). Instinsky, sulla base dell’esame delle fonti epigrafiche ma anche di quelle storiche e letterarie, in particolare di Cassio Dione di età severiana, arriva alla conclusione che il consensus era una particolare forma di approvazione da parte del Senato e del popolo romano. Essa presentava un carattere politico informale unito ad un altro di carattere religioso. Cassio Dione, ma anche Velleio Patercolo di età tiberiana, parlando del rientro di Ottaviano in Italia e a Roma nel 29 a.C., dopo la vittoria navale di Azio su Antonio nel 31, descrivono l’accoglienza trionfale a lui riservata dal Senato e dai cittadini di ogni ordine e grado3. Sia le fonti epigrafiche che quelle storiche, come lo stesso Tacito, fanno intendere che il consensus del Senato si esprimeva nella forma dell’acclamazione4. Dione parla invece di preghiere ed altre manifestazioni decretate dal Senato e rivolte dal popolo proprio ad Ottaviano, al momento del suo imminente ingresso a Roma o adventus. Fu certamente l’evento dell’adventus di Ottaviano a Roma a decidere il concorrere ed il convenire del Senato e del popolo tutto, di ogni ordine e grado, ogniqualvolta il Princeps si approssimasse e facesse il suo ingresso a Roma, allo scopo di riservare e manifestare a lui un’accoglienza trionfale. L’accoglienza trionfale, propria dell’adventus, decretata a suo favore dal Senato, venne da Ottaviano interpretata come un riconoscimento di fondamentale importanza, tanto che nelle Res gestae poté dichiarare tran3
Cfr. CASSIO DIONE COCCEIANO, Historiae romanae, 51,19,2, in Cassio Dione. Storia Romana (Libri XLVIII-LI). Traduzione e note di G. NORCIO, Milano 1996, 314. Dione parla, però, dell’adventus di Ottaviano come non avvenuto, limitandosi a dire che il Senato con tutti i cittadini «decisero di andargli incontro ogniqualvolta egli fosse entrato in città». Ma vd. VELLEIO PATERCOLO, Historiae, 2,89,1, in Velleio Patercolo. Storia Romana. Introduzione e commento di F. PORTALUPI, Torino, 195, ove l’adventus è inteso come realmente ed effettivamente avvenuto. Per la versione italiana, si rinvia a Velleio Patercolo. Storia di Roma. Traduzione di E. MERONIIntroduzione di N. CRINITI, Milano 1978, 174. 4 Cfr. H.U. INSTINSKY, Consensus universorum, 273.
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quillamente, andando contro tutta la tradizione repubblicana, di «essersi impadronito di ogni cosa» (potitus rerum omnium). È con la consapevolezza di un riconoscimento tanto importante che Ottaviano «trasferì» e non semplicemente restituì la Res publica — destabilizzata dalle guerre civili e rimessa da lui in piedi (postquam bella civilia estinxeram) — al potere decisionale o arbitrium del Senato e del popolo romano5. L’adventus, così, oltre ad essere un modo ed una forma in cui si manifestava il consenso della società civile in tutte le sue parti, diventava anche uno strumento per ottenere ed incrementare il consenso presso quella stessa società, verso colui che assommava in sé, esercitava ed aveva ricevuto un potere assoluto in circostanze eccezionali6. In questo modo, Ottaviano intendeva affermare nelle sue Res gestae, che il potere straordinario ed assoluto in sé assommato, rivendicato ed ottenuto, in quanto figlio adottivo di Giulio Cesare, nell’emergenza creata dalle guerre civili, al fine esclusivo di riportare l’ordine nella Res publica, era stato non soltanto riconosciuto ma anche legittimato dal consensus universorum ovvero da un consenso unanime del Senato e del popolo romano, al momento di decidere il trattamento a lui riservato, in occasione del suo adventus a Roma7. Da Augusto in poi, per tutta l’età imperiale, per celebrare l’ascesa al trono imperiale — per la quale era necessario celebrare il triumphus a Roma — era necessario il consenso del Senato. Durante il III secolo d.C., tale consenso divenne sempre più formale, contribuendo comunque a mantenere alcuni legami tra l’imperatore e Roma. L’ago della bilancia che deciderà l’elezione o ascensio dell’imperatore al trono sarà l’esercito; alla fine del III ed all’inizio del IV 5
Ibid., 278. Ricordiamo che Cesare Ottaviano deteneva l’imperium triumvirale, conferitogli dal Senato tra il 33 ed 32 a.C.; nelle sedute senatorie del 27 ricevette dal Senato il titolo di Augustus; cominciò ad esercitare l’imperium consulare nel 31, fino al 23, quando ottenne l’imperium proconsulare; dal 19, sempre secondo la testimonianza di Cassio Dione, ebbe l’imperium allargato a “potere consolare”. Si può dire, però, che ebbe una gamma amplissima di poteri non coperta dall’imperium consulare e neppure dalla tribunicia potestas. Cfr. M. PANI – E. TODISCO, Storia romana. Dalle origini alla tarda antichità, Roma 2012, 223-225. 7 Cfr. H.U. INSTINSKY, Consensus universorum, 278. 6
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secolo d.C., con il dissolversi della Tetrarchia di Diocleziano, sarà proprio l’esercito a riconoscere con il proprio consenso, il figlio dell’imperatore anziano, come giovane imperatore, suo successore, al trono. Sarà questo il caso di Costantino, designato in punto di morte, secondo il racconto di Eusebio di Cesarea, dal padre Costanzo Cloro8. Tuttavia, per tutta la storia successiva dell’istituto imperiale e nel passaggio decisivo dal Principato al Dominato, nel corso del III secolo d.C., quindi all’Impero cristiano, con la “svolta costantiniana” a partire dal 313, sarà l’adventus dell’imperatore — nella capitale imperiale o in qualche altra città dell’Impero — a manifestare il riconoscimento e la legittimazione del potere assunto dall’imperatore — o dagli imperatori, come nella Tetrarchia dioclezianea — ed a costituire un atto pubblico-ufficiale di consenso con cui veniva sancita, da parte del Senato e del popolo romano, l’attribuzione di un potere — in realtà già assunto dall’imperatore — per i suoi meriti, le sue virtù e la volontà degli Déi o del Dio dei cristiani9. Per esprimere pienamente l’adventus ci si serviva, secondo la descrizione di Cassio Dione, non solo di «preghiere» (euché), ma anche di «immagini» (eikòn), dipinti o statue, dell’imperatore e dell’assegnazione a lui della proedrìa, il primo posto negli spettacoli, prima nel Pulvinar del Circo Massimo a Roma, poi nel Kàthisma dell’Ippodromo a Costantinopoli10. Questi ed altri 8
SABINE G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, Torino 1995, 251. Cfr. ID., Consensus universorum, 277; sull’adventus in particolare, cfr. nota 2. 10 Per l’uso dell’immagine o e)ikw/n, riferita all’imperatore ed alle sue imprese a Costantinopoli, si veda la testimonianza di Eunapio di Sardi, del IV secolo, cfr. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 15-16; sull’adventus di immagini dell’imperatore, in uso nell’Impero d’Oriente, nel IV secolo avanzato, cfr. EAD., Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, in Historia 21 (1972) 747; sull’adventus in Occidente e sull’itinerario seguito dall’imperatore, una volta entrato in Roma, ibid., 738. Anche le statue insieme alle immagini erano importanti segni o “parole” del linguaggio del consenso nella tarda antichità, si pensi alle celebri Omelie sulle statue pronunziate proprio da Giovanni Crisostomo, ancora presbitero ad Antiochia nella Quaresima del 387 — quando il popolo della città a seguito di una carestia, esasperato dalla penuria di pane e di generi alimentari, atterrò ed oltraggiò le statue dell’imperatore e della sua famiglia — nell’attesa dell’esercito imperiale, per la punizione dell’imperatore alla città di Antiochia. In quell’occasione, però, l’imperatore concesse la grazia, cfr. W. MEYER – P. ALLEN, 9
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elementi, insiti nell’adventus di età imperiale, erano mezzi di comunicazione con cui il potere esprimeva sé stesso e lasciava che si esprimesse soprattutto il consenso dei cittadini verso la figura dell’imperatore. Sarebbe superficiale oltre che ingiusto definirli semplicemente mezzi o strumenti della propaganda imperiale11. Essi, tuttavia, non potevano da soli esprimere sufficientemente le ragioni, i meriti, le virtù del principe, ma soprattutto, non potevano spiegare né rendere ragione al Senato ed al popolo delle capitali imperiali, delle circostanze in cui era avvenuta la scelta dell’imperatore sia che fosse dovuta agli uomini, agli Déi o al Dio dei cristiani. Fu quindi la retorica, precisamente il genere letterario del Panegirico, ad assumersi il compito di dare risonanza e forma compiuta agli atti ed alla cerimonia dell’adventus ed alle manifestazioni di entusiasmo che lo caratterizzavano. Si deve anche agli studi di Sabine MacCormack se è iniziata nella critica e nei recenti studi sul tardo antico, la significativa valorizzazione dei Panegirici come fonti non soltanto letterarie o retoriche ma anche come veicoli e mezzi della comunicazione antica e tardo-antica, attraverso cui passava la natura del potere imperiale con le trasformazioni ricevute, nel passaggio dall’antichità alla tarda antichità e dal paganesimo al cristianesimo12. Nel suo fondamentale studio sull’arte e sul John Chrysostom, London and New York 2000, 12; per il testo dell’Omelia 17, in versione inglese, 104-117. Ancora una statua, posta dinanzia alla Mega/lh e)kklhsi/a a Costantinopoli, rappresentante l’imperatrice Eudossia in una posa lasciva, fu l’occasione ed il segno della completa rottura dei rapporti tra l’imperatrice Eudossia e Giovanni Crisostomo; questi pare abbia osato paragonare Eudossia ad Erodiade danzante, quando chiese la testa di Giovanni Battista, cfr. V. GROSSI, I rapporti tra S. Giovanni Crisostomo e S. Agostino d’Ippona in L. BIANCHI (cur.), San Giovanni Crisostomo, ponte tra Oriente e Occidente, Padova 2009, 91-92. 11 Sui risvolti politici e sociali dell’adventus e della sua importanza nella tarda antichità, oltre al saggio sopra citato della MACCORMACK, Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 722-752, vd. anche S. MAZZARINO, L’adventus di Costanzo II a Roma e la carriera di Pancharius, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, Bari 1974, 197-213. Per l’età moderna, si rinvia, inoltre, alle interessanti considerazioni del grande storico recentemente scomparso E.J. HOBSBAWM, Arte e potere, in ID., La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identità, Milano 2012, 242, sull’uso delle arti da parte del potere per la celebrazione di sé stesso; 248, sulla forma del “teatro pubblico”. 12 Riguardo ai Panegirici tardo antichi ed alle collezioni nelle quali ci sono perve-
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cerimoniale nell’antichità, la studiosa individua proprio nell’adventus dell’imperatore, a Roma, a Costantinopoli o nelle altre città dell’Impero, il luogo ed il tema fondamentali della rappresentazione del potere imperiale nella tarda antichità e del consenso, soprattutto nel corso del IV secolo, quando l’Impero da pagano passò ad essere, almeno ufficialmente, cristiano13. Anche le arti figurative e la numismatica, non soltanto la retorica, furono impegnate nella celebrazione dell’adventus dell’imperatore; ma i Panegirici ci permettono meglio di ogni altro genere espressivo e mezzo comunicativo dell’antichità, di entrare in quel complesso procedimento di trasformazione e di assunzione di nuovi modelli e paradigmi culturali, psicologici e religiosi, atti ad esprimere il consenso, che le trasformazioni politiche, sociali, culturali ed istituzionali dell’Impero Romano esigevano, per le abilità e le capacità dei panegiristi antichi e tardo-antichi. 2. L’ADVENTUS NELLA CULTURA TARDO ANTICA La cerimonia dell’adventus, consistente nel tradizionale rito di benvenuto per un sovrano, in età ellenistica o per un imperatore in età imperiale romana, era, per la sua remota origine, una componente costante dei Panegirici nella tarda antichità. L’adventus imperiale poteva mettere in luce le qualità dell’imperatore e le sue virtù, illustrate ed esaltate appunto dai panegiristi. Gli studi della MacCormack nuti, si ricorda, per quelli in lingua greca, il Basiliko/j di Libanio in onore di Costante e Costanzo, dell’anno 348; per quelli in lingua latina, il Panegirico di Plinio a Traiano che servì da modello ai XII Panegyrici Latini dei retori gallici da Diocleziano a Teodosio, collezione di dodici Panegirici, scoperti dall’umanista Giovanni Aurispa nel 1433 in un codice di Magonza, composti e pronunziati fra il 289 e il 389, dinanzi ai rispettivi imperatori, in occasione del loro adventus o delle loro visite alle varie città delle Gallie: Marsiglia, Narbona, Tolosa, Bordeaux, Autun, Reims, Treviri. Nei Panegirici in greco, il termine tecnico che definisce l’adventus è quello di a)pa/nthsij. Per i Panegirici greci e latini, vd. R. PICHON, Études sur l’histoire de la littérature latine dans les Gaules, I, Parigi 1906; G. FRAUSTADT, Encomiorum in litteris graecis usque ad romanam aetatem historia, Lipsia 1909; M. SCHAN – C.HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, Monaco 1922, III, 138; ed O. CRUSIUS, in Pauly-Wissowa, RealEncyclopedie, V, col. 2581 ss. 13 Sull’Adventus, vd. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 25-138.
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tendono a collocare nella loro prospettiva i panegiristi a cavallo del III e IV secolo, a studiare il contesto nel quale i Panegirici furono composti ed a ricostruire le circostanze concrete in cui vennero pronunziati14. L’adventus aveva come suo protagonista ed agente la figura dell’imperatore con la sua corte, che insieme a lui partecipava ad un complesso ed icastico cerimoniale, pieno di significati e di simboli espressivi della dinamica del potere e del suo consenso, coinvolgendo, come in un dramma teatrale, l’imperatore e la sua corte da una parte ed il Senato ed il popolo dall’altra15. Gli “attori” di questo “splendido teatro” potevano richiedere verifiche e bilanci, che rendevano l’esercizio del potere imperiale nella tarda antichità strettamente dipendente dalla dottrina del consensus, essendone quest’ultimo, l’elemento dinamico più importante. Il pronunziare un Panegirico in un’occasione imperiale e in un contesto formale di cerimonia non era solamente un mezzo di propaganda, ma anche una forma di legittimazione e di espressione del consenso popolare, dimostrato dalla presenza di un pubblico nonché di funzionari e rappresentanti delle burocrazie provinciali, nel caso ad esempio, di adventus nelle città della Gallia del III e del IV secolo. I Panegirici, tramandandoci l’enorme mole dei cerimoniali della tarda romanità, rappresentano il luogo in cui converge lo studio delle arti figurative e della letteratura, in quanto nel cerimoniale si esprimeva lo sforzo dell’uomo tardoromano di esprimersi, in modo da impegnare sia la vista che l’udito. Questo modo di vedere e di pensare sarebbe poi passato a Bisanzio, trasfuso nella liturgia cristiana16. Il panegirista, con la sua formazione culturale e retorica, avvenuta in uno specifico contesto intellettuale, doveva adattarsi alle necessità della corte, espressione quest’ultima del suo imperatore. Si spiega così la scelta deliberata e consapevole da parte del panegirista, di particolari mezzi di espressione, resi disponibili dalla tradizione letteraria ed un loro generale riaggiustamento, per veicolare un preciso messaggio in
14
Ibid., 5. Ibid., 12. 16 Ibid., 13, sull’espressione di Gibbon che parla di “splendido teatro”. 15
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un ben determinato momento storico17. Il Panegirico non era un’opera storica, la sua sostanza attingeva alle azioni ed alle virtù dell’imperatore che s’inserivano ora più ora meno nel contesto della cerimonia del suo adventus. Col tempo, l’attenzione nei Panegirici si spostò sempre di più dalla persona dell’imperatore alla cerimonia dell’adventus. Così, negli ultimi panegirici della tarda antichità, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, l’imperatore veniva ormai rappresentato più come centro di un complesso rituale di corte, che come individuo con caratteristiche sue proprie, come le virtù politiche, etiche o militari. I Panegirici sia greci che latini, a noi pervenuti, insistono sull’enumerazione dei cittadini presenti all’adventus dell’imperatore, per sesso, età, grado e condizione sociale. Il Panegirico latino, a differenza di quello greco, ci mostra come nell’adventus venisse pronunziata una sola orazione e come l’adventus si svolgesse in due tempi. Il Senato ed il popolo tutto uscivano, infatti, fuori della città per accogliere l’imperatore al suo approssimarsi ad essa, quindi accompagnavano l’imperatore e la sua corte dentro le mura, dove l’oratore pronunziava soltanto un breve discorso di benvenuto18. Il Panegirico greco prevedeva, invece, due orazioni, ognuna per i due distinti momenti dell’adventus, al momento dell’incontro, quindi, entro le mura urbane. Nell’adventus, l’imperatore veniva così in contatto con una massa ordinata e organizzata di cittadini, preceduti dai loro dignitari con i quali era possibile trattare questioni economiche. L’enumerazione dei dignitari e dei cittadini serviva a palesare che tutti erano presenti, in maniera da essere capaci, tutti insieme, di esprimere quel consensus omnium che costituiva un elemento fondamentale per le teorie classiche e della tarda antichità sul governo legittimo19. L’adventus dell’imperatore era così una cerimonia finalizzata alla persuasione, all’integrazione e al consenso, dove l’azione 17
Ibid., 12. Per il concetto di Pseudomorfosi evocato dalla MacCormack, vd. H.-I. MARROU, Decadenza romana o tarda antichità?, Milano 1987, 25. 18 Cfr. S. G. MACCORMACK, Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 723. 19 Cfr. K. OEHLER, Der consesus omnium als Kriterium der Wahrheit in der antiken Philosophie und der Patristik, in Antike und Abendland 10 (1961), 103-129.
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spontanea poteva essere rivestita coi panni familiari del cerimoniale. In quei riti e segni, nella partecipazione all’adventus imperiale del popolo e dei suoi dignitari, avveniva un processo d’identificazione e di appartenenza, che si esprimeva prima nella consapevolezza del consensus deorum e, successivamente, del consensus Dei, dell’unico Dio dei cristiani20. Pertanto, consensus ed elezione dell’imperatore da parte di Dio erano requisito necessari per la sua ascensio al trono. In altre parole, il consenso degli uomini era visto come un mezzo per manifestare l’elezione divina dell’imperatore. L’adventus era, inoltre, il momento del contatto diretto fra l’imperatore in visita ad una città o ad una provincia e la comunità cittadina, descritto accuratamente nei Panegirici. Questo permette di chiarire quale fosse il giudizio nella tarda antichità su quegli elementi del consensus, in termini di incontro e di accoglienza, su cui si basava, sia in teoria che in pratica, il potere imperiale21. L’elezione divina e la sua ascensio al trono associavano l’imperatore alla divinità, facendo dell’adventus e del suo cerimoniale un momento ed un elemento importanti del culto imperiale. Indubbiamente, poi, il Panegirico con i due momenti o fasi dell’adventus offrivano la possibilità al Senato, al popolo ed ai dignitari della città — insomma a tutta quanta la civitas — di operare una mediazione con il potere detenuto dall’imperatore. Quando l’istituto imperiale evolverà dalla forma del Principato verso quella assolutistica del Dominato, saranno gli intellettuali cristiani ad impadronirsi degli strumenti di comunicazione e di mediazione con il potere imperiale, quali appunto il Panegirico e l’adventus. A mediare, allora, con il principe non saranno più i retori o i panegiristi bensì i vescovi cristiani, come Ambrogio in Occidente e Giovanni Crisostomo in Oriente22. Proprio il cerimoniale dell’ad20
Come nota acutamente S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità,
26. 21
Ibid., 11. Cfr. M. MAZZA, L’intellettuale come ideologo: Flavio Filostrato ed uno «speculum principis» del III secolo d.C., in P. BROWN-L. CRACCO RUGGINI-M. MAZZA, Governanti e intellettuali, popolo di Roma e popolo di Dio (I-VI), Torino 1982, 111. Vd. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 11. In questo caso particolare, però, 22
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ventus permetteva di venire in contatto con il potere ed il suo carattere sacro, detenuto nell’antichità dagli imperatori e dagli uomini divini o theiòi àndres. Nel contesto di una società irrequieta e al tempo stesso autoritaria come quella imperiale, gli imperatori e gli uomini divini rappresentarono due categorie privilegiate di uomini di potere. I primi detenevano un potere assoluto, dotato però anche di risonanze religiose e sacrali23; i secondi erano i detentori di un potere religioso allo stato puro, sentito da molti come alternativo all’autorità imperiale e con esso, talvolta, interferente24. Con l’avvento del cristianesimo, ai theiòi àndres — ricordiamo Apollonio di Tiana, il “Gesù dei Pagani”, nella Vita di Filostrato del II secolo d.C. — subentrarono i monaci del deserto egiziano e la figura dell’ “uomo santo” della regione siriaca, cui anche gli imperatori chiedevano consigli o responsi25. In tal modo, in epoca cristiana, i due poteri andavano verso una collaborazione ed un riconoscimento dei rispettivi ambiti, quello ecclesiastico o spirituale e quello imperiale o temporale, non senza conflitti, tensioni ed ingerenze dell’uno nell’altro26.
il funerale cristiano assume, in termini di adventus al cielo, quello che per i pagani era la cerimonia della consecratio degli imperatori, decretata dal Senato insieme ad altri onori divini, ibid., 203. In riferimento all’adventus-ascensio al cielo di Costanzo collegate al suo funerale, quindi all’ascensio al trono di suo figlio Costantino, ibid., 275. 23 Ricordiamo fin dall’inizio del Principato, il titolo di Augustus o «venerabile», tributato dal Senato ad Ottaviano; quindi, all’inizio del Dominato, quello di Dominus et Deus, preteso da Diocleziano Iovio, insieme con il rito della prosku/nhsij, dai sudditi. 24 L. CRACCO RUGGINI, Imperatori romani e uomini divini (I-VI secolo D.C.), in P. BROWN – L. CRACCO RUGGINI – M. MAZZA, Governanti e intellettuali, popolo di Roma e popolo di Dio (I-VI), 9-10. 25 Sull’ “uomo santo”, testimone di una nuova spiritualità ed una rinnovata esperienza del sacro nella tarda antichità, vd. P. BROWN, La società e il sacro nella tarda antichità, Torino 1988, in particolare, alle pp. 67-115; sul caso della Siria, alle pp. 116127; ed Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983, in particolare sulle reliquie come luogo della praesentia del santo, alle pp. 128-148. 26 Cfr. G. FILORAMO, Veggenti Profeti Gnostici. Identità e conflitti nel cristianesimo antico, Brescia 2005, in particolare, sul monaco-profeta e sui suoi rapporti con l’imperatore ma anche con il vescovo, alle pp. 273-276; sulla teologia politica che sottostà alla figura del monaco-profeta, alle pp. 279-282; sul rapporto fra Antonio l’Egiziano
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3. L’ADVENTUS DI COSTANTINO E L’IMPERO CRISTIANO Perché possa fondarsi e compiersi uno studio sulle innovazioni e sulle persistenze del periodo in cui con la “svolta” costantiniana l’Impero Romano si avviò a divenire cristiano — dal cosiddetto Editto di Milano di Costantino del 313, fino all’Editto di Teodosio Cunctos populos del 380 — occorre ricercare un mezzo per far leva sulla notevole mole del Panegirico tardoantico. Proprio l’adventus, di cui si occupano esclusivamente pressoché tutti i Panegirici a noi pervenuti, può permettere di esaminare il Panegirico tardoantico, da punti di vista diversi da quelli convenzionali. L’arte dei panegiristi, infatti, può essere valutata a seconda del grado di apertura dell’autore a quel processo fra l’ambito dell’immagine e quello della parola che fu uno sforzo costante per la sensibilità dell’uomo antico. Il panegirista desiderava evocare l’esperienza visiva dell’adventus imperiale con le parole; per fare questo, attingeva dal vasto repertorio di modelli espressivi a sua disposizione, l’immagine più congrua all’esperienza del suo pubblico. Essendo quello dell’adventus un pubblico urbano, precisamente la civitas o la polis, con tutti i suoi componenti, talvolta, uno splendido apparato architettonico per lo svolgimento della cerimonia dell’adventus poteva fornire materiale di uso immediato per l’oratore27. Il Panegirico e la descrizione (ékphrasis) delle architetture urbane che facevano da cornice all’adventus, furono spesso sul punto di convergere e ciò divenne sempre più frequente nel corso della tarda antichità. Arte e letteratura, nel Panegirico, arrivavano al punto di poter essere considerate congiunte in un singolo atto comunicativo. Nelle loro cerimonie, nelle varie associazioni che la cerimonia coinvolgeva, come si può notare nell’adventus, gli uomini della tarda antichità ebbero la possibilità di esprimere fedelmente, nel proprio idioma, e l’imperatore Costantino, alle pp. 283-286; sul rapporto fra Daniele Stilita e l’imperatore Zenone, alle pp. 287-290. Sul rapporto fra il vescovo di Milano Ambrogio e l’imperatore Teodosio e sul momento cruciale dello scontro tra Chiesa e Stato nel IV secolo in Occidente, dello stesso autore, vd. Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Torino 2009, 118-127. 27 Cfr. S. G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 15.
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mutamenti all’interno dell’Impero Romano, quali quelli che occorsero nel passaggio dall’Impero pagano a quello cristiano. Il Panegirico era qualcosa di simile a una conferenza con diapositive, in cui il panegirista proiettava di fronte al suo uditorio una scelta sapiente di immagini, facilmente riconoscibili. Nell’arte imperiale dei primi tre secoli, fino alla Tetrarchia ed alla “svolta costantiniana”, la compenetrazione di realtà e allegoria era uno dei temi maggiori, riflettendosi anche nell’arte dei panegiristi. Il Panegirico di Nazario nel 321 che ricorda l’adventus di Costantino a Roma, invece, è molto scarno ed a differenza di tutti gli altri Panegirici precedenti, quali quelli del periodo tetrarchico, non si sofferma sui gesti dell’imperatore e sui riti e segni dell’adventus, ma registra più semplicemente il singolo fatto dell’adventus, restando sul piano della realtà storica, senza tanti voli allegorici ed interpretativi. Ciò può essere spiegato con il fatto che da Costantino in poi muta il cerimoniale dell’adventus: Costantino sarà infatti il primo imperatore — entrato in Roma e percorsa tutta la Via sacra, compreso il Foro — a non compiere il sacrificio nel Tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio28. Questo fatto e la sua risonanza nella
28 Sulla messa in discussione della testimonianza di Zosimo e sulla datazione del rifiuto di Costantino a sacrificare sul Campidoglio al 315, in occasione dei suoi decennalia, vd. F. PASCHOUD, Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Costantin, in Historia 20 (1971), 334-353. La MacCormack considera adventus, l’ingresso di Costantino a Roma del 312, documentato del resto da Eusebio di Cesarea nella sua Historia Ecclesiastica (vedi infra), dopo la vittoria su Massenzio al Ponte Milvio, avvenuto il 29 ottobre. Ritiene, quindi, che il Panegirico di Nazario del 321, pronunziato in occasione dell’adventus di Costantino a Treviri (Trier), menzionante un effettivo ingresso dell’imperatore a Roma ed un discorso pronunziato dinanzi al Senato, taccia volutamente, per volontà della corte imperiale, sul primo ingresso di Costantino a Roma come adventus. Di fatto, sarà con il 315, dopo la realizzazione dell’Arco trionfale presso il Colosseo, con materiali di spoglio di varia provenienza, motivato dalla fretta di preparare l’adventus “vero” ed “ufficiale” con triumphus per l’imperatore legittimo — di cui si fa peraltro menzione nell’iscrizione dedicatoria — che Costantino farà il suo ingresso a Roma, per la Via sacra, accontentando il Senato, ma scegliendo di non sacrificare sul Campidoglio, cfr. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 46 e n. 100 e Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 726. Probabilmente, l’atteggiamento di “rottura” di Costantino con la tradizione precedente induceva la sua corte a porre in atto comportamenti
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composizione dei Panegirici successivi, autorizzano gli studiosi a promuovere ricerche nuove ed interessanti sulla celebre questione della conversione di Costantino29. Di certo, con Costantino un mutamento avviene e fa il suo corso nella rappresentazione del potere imperiale, lasciando tracce e segni significativi, come i rilievi ed i tondi scultorei dell’Arco trionfale presso il Colosseo a Roma, dove si rinuncia a porre le immagini degli Déi o semidei pagani come quelle di Giove e di Ercole — comuni nell’arte della Tetrarchia — per porre invece quelle del Sole e della Luna. Alle figure delle divinità olimpiche si preferisce così ricorrere agli astri maggiori del Cosmo tardoantico30. Nell’arte della Tetrarchia della fine del III secolo, era tipico raffigurare la compenetrazione dell’ordine naturale e sovrannaturale e del consensus tra i due ordines personificati, quello degli uomini, nella persona degli imperatori e quello degli Déi, nelle divinità olimpiche31. Se prima di Costantino, in età tetrarchica, l’adventus poteva essere utilizzato per collegare un insieme disomogeneo di immagini, nell’Arco di Costantino si preferisce rappresentare il potere imperiale in azione nella storia, ma nello stesso tempo, proiettato in una dimensione ed in una prospettiva cosmiche, come significano le raffigurazioni del Sole e della Luna32. La struttura di riferimento comincia a cambiare: nell’Impero cristiano, l’imperatore da Divus, passerà gradualmente cauti e flessibili, nei confronti del Senato di un Impero, ancora in massima parte pagano, cfr. A. MARCONE, Costantino il Grande, Roma-Bari 2013, 46. 29 Oltre al classico A. ALFÖLDI, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, RomaBari 1976, vd. S. CALDERONE, Costantino e il Cattolicesimo, Napoli 2001 (rist. anast.). 30 Vd. S.G. MACCORMACK, Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 732, in particolare, n. 66. 31 Cfr. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 256-261 e Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 735;746. 32 Sulla resa dell’adventus nei rilievi dell’Arco di Costantino, cfr. ID., Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 743: « … what is being represented is a precisely defined historical event: arrival at a definite time.», sottolineando così, il realismo e la storicità dell’adventus di Costantino, non più reso allegoricamente come nell’arte tetrarchica. Dopo Costantino a Costantinopoli, nei rilievi sul lato occidentale della base della colonna di Arcadio, eretta a Costantinopoli, verso la fine del IV secolo, le raffigurazioni simboliche del Sole e della Luna sono associate alla croce e non più agli imperatori, ibid., 741; quindi nel Dittico Barberini
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ad essere imperatore gratia Dei33. Il Sole che nell’Arco di Costantino sorge dalla parte di Oceano riproduce l’adventus di Costantino in vista di una sua identificazione con il Sole34. Proprio l’effigie del Sol invictus appaiata con quella di Costantino, quale Divus comes, ricorre in un solidus aureus del 313. Inoltre, quale Helios o Apollo, Dio del Sole sul suo carro, viene raffigurato Cristo, intorno al 322, in un mosaico ritrovato sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano. Questi ed altri elementi della scultura, dell’arte figurativa, della numismatica e della letteratura ci trasferiscono in un’epoca nuova35. Fu Eusebio, vescovo di Cesarea, a fornire nella sua Historia Ecclesiastica, un’interpretazione teorica e dottrinale dell’adventus di Costantino a Roma dopo la vittoria su Massenzio al Ponte Milvio nel 312. Anche se la sua è una narrazione storica, è evidente che fa riferimento ai temi ed agli elementi dei Panegirici, per cui la storia sacra pagana e i precedenti storici di Roma vengono sostituiti, nel suo racconto, dalla storia sacra cristiana. La vittoria di Costantino su Massenzio è paragonata a quella di Israele — guidato da Mosé — sugli Egiziani, mentre il canto di vittoria di Mosé e Israele — messo in bocca a Costantino — viene impiegato per celebrarne la vittoria36. La figura dell’imperatore, dotata, nell’Impero pagano, come abbiamo detto, anche di risonanze religiose e sacrali, riceve un’interpretazione cristiana da Eusebio, unificando estremi fino ad allora divergenti della teoria imperiale37. Con questa sua interpretazione cristiana dell’adventus, Eusebio fece il primo in avorio, dove sopra la raffigurazione dell’imperatore trionfante sui vinti (Anastasio?), compare Cristo sostenuto da due angeli, ibid., 749-750. 33 Per un approfondimento, vd. G. BONAMENTE, Dall’imperatore divinizzato all’imperatore santo, in P. BROWN – R. LIZZI TESTA (edd.), Pagans and Christians in the Roman Empire: The breaking of a Dialogue (IVth . Vth Century A.D.). Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose October 2008, ZurichBerlin 2011, 339-370. 34 S.G. MACCORMACK, Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 732-733. 35 ID., Arte e cerimoniale nell’antichità, 191. 36 Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, IX,9,9,9 in PG 20,821C-824A. Si ripetono la scena e le manifestazioni tipiche dell’adventus, nel caso particolare, verso Costantino che fa il suo ingresso a Roma dopo la sua vittoria su Massenzio. 37 S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 174-175.
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tentativo consistente e coerente di sostituire le immagini pagane e religiose dello Stato romano con un immaginario cristiano che contemplava la vittoria storica di Mosé e degli Israeliti e la vittoria universale di Cristo38. In Oriente, la cerimonia dell’adventus dell’imperatore cominciò ad essere unita alla cerimonia del suo funerale. Per Gregorio Nazianzeno, il funerale dell’imperatore era un adventus terreno, nel quale il popolo poteva manifestare la sua approvazione per l’imperatore defunto, come quella che descrive in occasione del funerale di Costanzo oppure la sua disapprovazione, come quella che si manifestò, secondo lui, al ritorno della salma di Giuliano, dalla disastrosa campagna persiana. Gregorio Nazianzeno introduce allora un principio ed un criterio importanti: il consenso verso l’imperatore non dev’essere decretato più dal Senato con un senatoconsultum bensì dal popolo. Anche questo è un elemento che segue alla “svolta costantiniana”. Anche in Occidente per Ambrogio, il funerale di Teodosio diventerà la cerimonia che riconoscerà l’adventus dell’imperatore al cielo39. Nell’Impero divenuto cristiano, con la rappresentazione di un adventus fu raffigurato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme all’inizio della sua Passione, come troviamo fra i rilievi del sarcofago di Giunio Basso del 35940. Fu così possibile riutilizzare, per la rappresentazione della figura di Cristo, parte dell’antico patrimonio di immagini relative alla divinizzazione, alla trascendenza e al potere universale dell’imperatore, giustapponendovi il potere temporale di Cristo, rappresentato 38
Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, IX,9,9,9, in PG 20,821A-C. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 191. Sull’opinione dei cristiani, per i quali il funerale esprimeva lo status dell’imperatore sulla terra ed in cielo con Dio, raffrontata con quella dei pagani, per i quali, il funerale imperiale era invece mezzo di propaganda, ibid., 203. 40 Sul consensus, promosso ed espresso dall’adventus, applicato all’ingresso messianico di Cristo a Gerusalemme, all’inizio della sua Passione, fra i rilievi del sarcofago di Giunio Basso, si veda l’interessante osservazione di S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 29-30. Ancora sulla rappresentazione e sulla raffigurazione sul medesimo sarcofago delle due iconografie imperiali, quella dell’adventus e quella della consecratio, applicate rispettivamente, alla natura umana ed alla natura divina di Cristo, ibid., 187-188. Sulla Parousi/a di Cristo nei testi neotestamentari come adventus, cfr. EAD., Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 724, n. 18; 725, n. 21; 743, n. 130. 39
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dal suo ingresso a Gerusalemme. Il potere cosmico e quello prettamente storico sull’Impero erano temi già utilizzati per gli imperatori pagani ed avevano trovato diversi modi di espressione nell’iconografia e nell’arte imperiale. L’adventus di Cristo fu l’esito ultimo, ormai cristiano, del tema pagano dell’adventus, nonostante sopravvivesse ancora nel V secolo, in quei Panegirici pronunziati nell’adventus di imperatori di un Impero d’Occidente, ormai occupato in permanenza ed interamente da barbari41. La praesentia dell’imperatore, che era la pausa intermedia tra i due momenti del cerimoniale dell’adventus, nella societas o nella civitas cristiana sarà connessa al santo, presente all’interno del pomerium della città antica con le sue reliquie o addirittura con la sua tomba. L’arrivo di reliquie di santi in una città, comincia ad essere celebrato e festeggiato come un adventus, specialmente in Gallia, dove maggiore fu la persistenza di forme, riti e cerimonie legate all’istituto imperiale42. Del cerimoniale nelle feste di santi della Gallia, nel VI secolo, ci parla anche Gregorio di Tours; la festa di San Martino, patrono di Tour, assumeva i tempi ed i modi di un adventus43. Durante l’adventus delle sue reliquie, si manifestava la praesentia del santo con i più vari miracoli di guarigione fisica, consentendo a ciechi, zoppi ed indemoniati di partecipare alla festa liturgica. Come ha notato Peter Brown, in questo caso, siamo in presenza di rituali di consensus e della manifestazione del consensus universorum44. 41
S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 97-98; sul Panegirico di Ennodio per Teodorico, 99. 42 Di un adventus di reliquie dall’Italia, ci dà testimonianza VICTRICIO DI ROUEN, nato intorno al 340, il quale pone un confronto fra l’adventus secularium principum e il triumphus Martyrum, in chiave allegorica, nel suo De laude sanctorum, 2, in PL 20,454D-455B. Il De laude sanctorum di Victricio di Rouen è una fonte importante per il formarsi di una “teologia delle reliquie” nel IV secolo, cfr. P. BROWN, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, 131-135; in particolare sull’adventus di reliquie alle pp. 134-135. 43 GREGORIO DI TOURS, De miraculis Sancti Martini Episcopi, II (De virtutibus), in PL 71,952B-952C: Nam cum in venerabili dominicae Nativitatis nocte sacrosanctis deducta excubiis, procedentes de ecclesia, ad basilicam Sancti ire disponeremus … . 44 P. BROWN, La società e il sacro nella tarda antichità, 197; in particolare, a p. 198: «L’adventus del santo nel suo santuario, dunque, forniva un’annuale rassicurazione per la quale il comune vescovo gallico non poteva che essere grato.».
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In conclusione, fu l’adventus di un santo al suo reliquiario con le funzioni della cerimonia o di un vescovo alla propria città, ad essere ancora avvertito come il momento culminante, durante il quale giungeva e si verificava il consensus universorum45. 4. ADVENTUS DI RELIQUIE E CONSENSUS L’origine del culto cristiano dei santi ebbe luogo nei grandi cimiteri, fuori delle mura delle città del mondo romano. Questo culto comportava — contro tutta la cultura antica greca e romana — il disseppellimento, la traslazione, lo smembrare dei corpi morti nonché il contatto con i loro resti. Una pratica comune e diffusa era quella di toccare e baciare le loro ossa, con la conseguenza che spesso esse furono collocate in aree da cui prima i morti erano esclusi. Verso la fine dell’antichità, il confine che sorgeva fra la città dei vivi ed i morti finì per essere infranto dall’ingresso delle reliquie e dei loro reliquiari entro le mura di molte città tardoantiche e dall’ammassarsi di «tombe» comuni attorno ad esse46. Il culto dei santi implicò cambiamenti nell’immaginazione dell’uomo tardoantico che appaiono senz’altro corrispondenti a quelli intervenuti nei modelli delle relazioni umane all’interno della società tardoromana in generale47. Esso indicò in esseri umani defunti i destinatari di una venerazione incontaminata e senza alcuna incertezza legò queste figure morte e invisibili a precisi luoghi visibili e, in molte aree, a precisi rappresentanti viventi48. Le traslazioni di reliquie, nel corso delle quali erano queste che si muovevano verso il popolo, occupano il centro della scena nella pietà tardo45 S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 102. Sull’adventus di vescovi nel IV secolo, come Atanasio ad Alessandria o Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo a Costantinopoli, cfr. EADEM, Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 747-748. 46 P. BROWN, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, 12. 47 Si pensi, per esempio, all’istituto tardoromano del Patronatus, le cui prerogative furono assunte dall’ “uomo santo” o dal santo martire, Patronus e compagno invisibile delle città e delle persone, cfr. P. BROWN, La società e il sacro nella tarda antichità, 7577 e ss. 48 P. BROWN, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, 30.
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antica e medievale. La scoperta e la traslazione di una reliquia manifestavano, in tempi e luoghi particolari, l’immensità della misericordia divina. Annunciavano momenti di perdono e introducevano nel presente un senso di salvezza e di remissione. Essi erano in grado di condensare stati d’animo di fiducia pubblica49. In confronto con le cerimonie che si tenevano all’interno della città, dove la scala gerarchica veniva intenzionalmente esibita, le feste dei martiri costituivano un’occasione in cui la gerarchia veniva a smorzarsi50. Era in occasione delle processioni nelle feste dei martiri, come vedremo più avanti, che si venivano a colmare le separazioni esistenti nella società urbana tardoantica: quella fra uomo e donna, fra ricco e povero, fra padrone e servo, fra libero e schiavo. Se le reliquie potevano viaggiare, allora la distanza tra il credente e il luogo in cui il santo poteva essere trovato cessava di essere distanza fisica costante. Le barriere tra gruppi e individui erano superate da atteggiamenti di grazia e di favore, quali la partecipazione alla processione dietro il reliquiario di importanti personaggi, come l’imperatrice Eudossia, nell’Omilìa di Giovanni Crisostomo di cui ci occuperemo fra breve. 5. MEDIATORI E REGISTI DEL CONSENSO A COSTANTINOPOLI: GIOVANNI CRISOSTOMO ED EUDOSSIA Quanto detto finora si rende necessario per la comprensione dei caratteri di un’Omilìa di Giovanni Crisostomo e per la “strategia del consenso”, messa in atto dall’imperatrice Eudossia, in occasione di un evento religioso, avente importanti risonanze ed effetti politici e 49
Si spiegano così l’importanza ed il posto che occupano, nell’Historia Ecclesiastica di Sozomeno, la scoperta e la traslazione a Costantinopoli delle reliquie del profeta Zaccaria. Un tale evento esprimeva ancor più chiaramente della cessazione delle invasioni barbariche e delle guerre civili, il sentimento di fiducia pubblica che concludeva il resoconto della prosperità goduta dall’Impero d’Oriente sotto Teodosio II. Cfr. P. BROWN, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, 128. 50 Cfr. P. BROWN, Dalla «plebs romana» alla «plebs Dei»: aspetti della cristianizzazione di Roma, P. BROWN – L. CRACCO RUGGINI – M. MAZZA, Governanti e intellettuali, popolo di Roma e popolo di Dio (I-VI), 131. Sul carattere pubblico e cerimoniale assunto dal cristianesimo in una città come Roma, dopo la “svolta costantiniana”, 126.
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sociali a Costantinopoli. Si tratta dell’Homilia II, dicta postquam reliquiae martyrum, il cui testo è accessibile nella Patrologia Graeca di J.P. Migne nel Tomo 63, alle coll. 467-47851. Proprio le informazioni di carattere storico che questa Homilia può dare, giustificò a suo tempo il suo inserimento nella Patrologia Graeca del Migne52. Abbiamo visto come il cerimoniale dell’adventus venne applicato, in un Impero ufficialmente cristiano, alla traslazione delle reliquie dei santi o dei martiri. L’accoglienza delle reliquie nella chiesa o martyrium, dedicata al santo o al martire, avveniva così, con i tempi ed i modi dell’adventus imperiale. Un’occasione di questo genere, particolarmente sfarzosa per la partecipazione dell’imperatrice Eudossia e dell’imperatore Arcadio, fu la traslazione delle reliquie di un santo, non meglio identificato, al martyrium di s. Tommaso, fuori Costantinopoli53. Le Omilìai II e III del Crisostomo descrivono rispettivamente la traslazione e la deposizione delle reliquie nella chiesa. Crisostomo, così, mostra di osservare i due momenti della cerimonia dell’adventus che abbiamo sopra evidenziato. Il primo vede la traslazione delle reliquie, accompagnate in solenne processione dalla popolazione di Costantinopoli, dalla Grande Chiesa (megàle ekklesìa) fino al sobborgo urbano di Drypia, dove la chiesa suburbana di s. Tommaso sorgeva54. Questo momento vide la partecipazione alla processione dell’imperatrice Eudossia, la quale col popolo accompagnò per tutta la notte le 51
Vd. W. MEYER – P. ALLEN, John Chrysostom, 17-25 per l’ubicazione delle chiese urbane e suburbane, le consuetudini liturgiche e le festività cristiane a Costantinopoli; quindi alle pp. 86-92, per la versione inglese dell’Homilia II, preceduta dall’Introduction, alle pp. 85-86. 52 Cfr. Monitum in undecim S. Joannis Chrysostomi homilias nunc primum e tenebris eruta, in J.-P. MIGNE, Patrologia Graeca, 63,455-460. Riguardo all’Homilia II, vd. coll. 455-456, in fine. 53 Cfr. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 100 e S. ZINCONE, Giovanni Crisostomo. Coscienza critica del suo tempo, Roma 2011, 138-139. 54 Il nome ci è noto soltanto dall’inscriptio dell’Homilia II, in PG 63,467-468. L’inscriptio informa che si trattava di una località suburbana, distante nove miglia da Costantinopoli. A Drypia sorgeva un martyrium o chiesa suburbana dedicata a S. Tommaso, cfr. W. MEYER – P. ALLEN, John Chrysostom, 21. Doveva sorgere a sudovest di Costantinopoli, lungo la Via Egnatia, per la quale, probabilmente, avvenne la processione, ma non se ne è sicuri, ID., Introduction, 85.
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reliquie poste nel reliquiario. Soprattutto di questo fatto, parla tutta l’Homilia II che fu pronunziata da Crisostomo, il mattino dopo, quando le reliquie furono deposte nella chiesa di s. Tommaso. Il secondo momento è quello della praesentia del santo nelle sue reliquie, entro la chiesa, dove avvenne l’atto d’omaggio e di culto dell’imperatore Arcadio che raggiunse le reliquie, accompagnato dall’esercito, ricordato nell’incipit dell’Homilia III. Anche l’esercito era un elemento costante del Panegirico pronunziato nel secondo momento, quello della praesentia dell’imperatore, agìta ora dalle reliquie nelle quali era la praesentia del santo55. L’imperatore, come leggiamo nell’incipit dell’Homilia III, giunto in chiesa, deposto il diadema, insieme a tutti i suoi soldati — i quali deposero a loro volta le lance e gli scudi — compiuto un atto di venerazione, si congedò prima che Giovanni pronunziasse l’Omilìa. In tal modo, l’imperatore con la sua assenza, rimarcava e rendeva omaggio ancor più chiaramente alla praesentia del santo nelle reliquie. Vogliamo soffermare la nostra attenzione sull’Homilia II che più dell’altra rende le persistenze ed i mutamenti avvenuti nel cerimoniale dell’adventus dell’imperatore e quindi nella concezione e nella raffigurazione del potere imperiale a Costantinopoli. La datazione di quest’omelia si basa su un terminus post quem, offerto dalla data in cui Eudossia divenne Augusta, che conosciamo bene ed è quella del 9 Gennaio del 40056. Secondo Kenneth Holum, tra il 400 ed il 402, quando Eudossia non era ancora incinta, il popolo di Costantinopoli partecipò insieme con lei a questa processione57. Insediato come vescovo di Costantinopoli pochi anni prima, il 26 Febbraio 398, Giovanni mostrava già di avere un grande seguito a motivo della sua fama di predicatore. La data esatta 55
Per la presenza dell’esercito a Costantinopoli nel IV secolo ed il suo ruolo fondamentale nell’elezione dell’imperatore, vd. S.G. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità, 368-369. Era proprio l’unanimità delle adclamationes ad esprimere nei Panegirici, il consensus omnium, ibid., 371.374. Sul ruolo dell’esercito nel Panegirico d’adventus in Occidente, prima dell’avvento del cristianesimo, ibid., 248. Per l’età tetrarchica, ibid., 264. 56 W. MEYER-P. ALLEN, John Chrysostom, 85-86. 57 K.G. HOLUM, Theodosian Empresses. Woman and imperial dominion in late antiquity, Berkeley-Los Angeles-London 1982, 56.
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dell’evento, come l’identità del santo o dei santi di cui si portano le reliquie in processione sono sconosciute; l’Homilia II presenta elementi cerimoniali, tipici del Panegirico tardoantico, profondamente rielaborati e reinterpretati, che contribuiscono a comporre una nuova rappresentazione del potere e della figura imperiali58. L’Homilia II inizia con una costante necessaria per lo svolgimento della cerimonia dell’adventus: la presenza del popolo. Leggiamo infatti: «Cosa dirò, di cosa parlerò? Tripudio e smanio di una smania migliore della saggezza; volo e danzo, mi sollevo in alto e quindi m’inebrio di simile piacere spirituale. Cosa dirò, di cosa parlerò? Della forza dei martiri? Dell’impegno della città? Dello zelo dell’imperatrice? Del convenire dei dignitari? Della vergogna del diavolo? Della sconfitta dei demòni? Della nobiltà della Chiesa? Della forza della croce? Dei prodigi del crocifisso? Della gloria del Padre? Della grazia dello Spirito? Del piacere del popolo tutto? Dei sobbalzi della città? Delle schiere dei monaci? Dei cori delle vergini? Delle schiere dei sacerdoti? Della prestanza degli uomini validi, degli schiavi e dei liberi, dei dominanti e dei dominati, dei ricchi e dei poveri, degli stranieri e dei cittadini?»59.
Veramente tutto il popolo è rappresentato nelle parole di Crisostomo. L’imperatrice, i dignitari, i sacerdoti, i monaci, le vergini, gli uomini in grado di camminare, gli schiavi, i liberi, i nobili e la plebe, i ricchi e i poveri, i forestieri e i cittadini. In questo momento “processionale” come nell’antico adventus dell’imperatore, tutto il popolo è rappresentato per grado e per condizione sociale. Le differenze e le barriere sociali passano momentaneamente in secondo piano. L’adventus delle reliquie infrange un’importante differenza o barriera sociale quale quella del sesso. Leggiamo infatti:
58 Anche se l’ )Omili/a del Crisostomo presa in esame va datata all’alba del V secolo, il contesto culturale, religioso, ideologico, politico e sociale è pur sempre quello del pieno IV secolo. 59 GIOVANNI CRISOSTOMO, Homilia II,1, in PG 63,467-468, incipit. La versione italiana è dell’autore del presente contributo, essa è rigorosamente letterale, ma a tratti si è concessa delle lievi deroghe, per rendere più scorrevole ed agevole la lettura e la comprensione del testo.
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Francesco Aleo «Donne sposate più tenere della cera, che hanno lasciato le proprie sicure abitazioni, gareggiavano per impegno con i più forti fra gli uomini, facendo tutta la strada a piedi; non soltanto le giovani ma anche le anziane; e né la debolezza del loro sesso, né la loro condizione femminile, né il fasto del loro sembiante è stato d’ostacolo al loro impegno. Inoltre, i dignitari e coloro i quali hanno lasciato i carriaggi, le guardie del corpo e i dorifori si sono mescolati alla gente comune.»60.
Donne di alto rango ma anche funzionari della burocrazia civile, militari addetti ai carri (angaria), guardie (custodes), soldati sono presenti in questa processione che si svolge di notte. In questo modo, la barriera che divide uomini e donne, burocrazia civile ed esercito è infranta: tutti coloro i quali hanno una dignità politica, militare o civile sono mescolati insieme alla gente comune. Il motivo del consensus universorum dell’antico adventus imperiale o del consensus omnium del Panegirico tardoantico si ripropone a Costantinopoli e viene illustrato in quest’Homilia di Giovanni Crisostomo. Questo adventus, celebrato a Costantinopoli, reca però in sé un contenuto ed un significato profondamente nuovi. Si tratta di un fenomeno che studiosi del tardoantico come Marrou hanno denominato Pseudomorfosi. La forma è identica, ma il contenuto in essa presente è profondamente mutato. La processione che è una forma nuova in cui si ripropone e si ripresenta l’antico adventus “sospende” la rigorosa gerarchia e stratificazione della società tardoantica. Proprio la massa indistinta e compatta del popolo in processione durante la quale sono “sospese” le differenze permette però al Crisostomo di mettere in evidenza l’autorità imperiale, attraverso la presenza e la partecipazione alla processione, dell’imperatrice Eudossia. Le insegne dell’imperatrice, quali il diadema e la porpora, non vengono più messe in rapporto con la dignità del potere imperiale, né spiegate in rapporto ai rituali dell’adventus attraverso l’allegoria, bensì con gli atti di Eudossia, connessi direttamente con il reliquiario e con le reliquie in esso contenute:
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Ibid., 1, col. 468, in fine.
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«E cosa dire delle donne o dei dignitari? Quando fra loro vi è anche lei, ornata di diadema e rivestita della porpora; per tutta la processione non si staccava da essa nemmeno per porre una breve distanza tra sé e le reliquie; ma come una servetta (therapainìs) seguiva i santi, toccando la teca (reliquiario) e le bende su di essa poste, calpestando ogni vanità umana, mostrandosi al popolo al centro di un simile teatro (théatron). Cosa dire, quando nemmeno agli eunuchi è consentito rivolgersi a lei nelle stanze del palazzo imperiale? Ma il desiderio e la tirannide dei martiri, la fiamma del loro amore ha convinto (tutti) a gettare la maschera ed a mostrare con puro e semplice fervore la fede per i santi martiri.»61.
Ritroviamo nell’Homilia del Crisostomo l’efficacia visiva e retorica del Panegirico tardoantico, nel mostrare in mezzo alla massa indistinta del popolo, l’imperatrice Eudossia che si distingue per il diadema e la porpora, ma che si mostra essere nel contempo una «servetta» (therapainìs), nel suo persistere, durante la processione, nel toccare la tecareliquiario. Il Crisostomo esplicita il contesto cerimoniale dell’adventus, lo chiama appunto «teatro» (théatron); è in mezzo a questo teatro che l’imperatrice si mostra. Ripensando alle vicissitudini ed ai rapporti tra il Crisostomo ed Eudossia, proprio in quegli anni, non possiamo impedirci di pensare che il Crisostomo si rendesse perfettamente conto del valore promozionale e propagandistico, in funzione del consenso, insito nella presenza e negli atti dell’imperatrice Eudossia. L’oratore, però, individua un topos nuovo rispetto al Panegirico, introdotto più avanti nell’Homilia ed appena accennato in questo passaggio. La processione impone a tutti, anche all’imperatrice, di gettare la «maschera» (to prosopéion) e di accostarsi ai martiri. È un’espressione molto forte che non fa di quest’Homilia soltanto la semplice imitazione di un Panegirico. Il vescovo di Costantinopoli introduce così la figura del re Davide: anch’egli stette presso l’arca dell’Alleanza, come ora l’imperatrice Eudossia sta attaccata alla teca delle reliquie. Ovviamente, il Crisostomo non vuole ricordare che Davide, danzò soltanto con l’efod di lino dinanzi all’arca (cfr. II Sam 6,15), ma l’immaginario biblico aiuta Crisostomo a trasmettere un’immagine del potere imperiale non
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Ibid., 1, col. 469, rr. 5-17.
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in concorrenza con quello del santo ma con lui solidale. In tal modo, l’imperatrice col suo potere che pur permane, quale luce sfolgorante nella notte, può mettere in fuga i demòni. Queste immagini consentono all’uditorio di volgere l’attenzione ai veri protagonisti dell’adventus. Leggiamo infatti: «Ecco quant’è grande la potenza (dýnamis) delle ceneri dei santi, posta com’è non soltanto nelle reliquie, ma, andando molto al di là di ogni limite (umano) e con lo scacciare le potenze impure, santifica con abbondanza coloro che vi si accostano con fede. Per questo, proprio lei, amante di Cristo, seguiva dappresso le reliquie, toccandole continuamente, traendone la loro benedizione; divenuta maestra (didàskalos) per tutti gli altri, di questo bello e spirituale commercio, insegnando ad attingere come ad una fonte che sempre sgorga e mai si inaridisce. Come le acque sgorganti dalle sorgenti non si trattengono nelle profondità loro proprie ma si riversano e traboccano; così la grazia (chàris) dello Spirito posta nelle ossa, che riposa sui santi, si riversa sugli altri che vanno loro dietro con fede e si effonde dall’anima ai corpi, dai corpi alle vesti, dalle vesti ai calzari, dai calzari alla (nostra) ombra. Perché avvenga tutto questo, non operano soltanto i corpi dei santi apostoli ma anche i sudari (che li avvolgono) ed i fazzoletti (che li toccano).»62.
Le spoglie dei santi sono il vero protagonista dell’adventus, chiamati qui apostoli, senza che si possa distinguerli e riconoscerli chiaramente. In virtù della loro praesentia nell’adventus in forma di processione, sono capaci di sprigionare ed effondere la grazia che Eudossia vuole ottenere, toccando continuamente il reliquiario o le reliquie, per trarne la loro benedizione. In realtà, Eudossia trae abilmente dalle reliquie e dalla processione il consenso di tutto il popolo di Costantinopoli, al quale mostra di appartenere in virtù della devozione ai santi. La benedizione per contatto si diffonde dalle mani, alle vesti, ai calzari, fino all’ombra che proietta la sua persona, investita tutta dalla grazia dello Spirito. Anche il contatto con lenzuoli o fazzoletti può carpire la grazia divina. Si può avere qui una rappresentazione icastica e pregnante del consensus, identificato da Eudossia con
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Ibid., 1, col. 469, rr. 35-55.
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la grazia attinta dalla praesentia del santo in movimento. Il riferimento all’ombra di Pietro che guariva gli infermi (cfr. At 5,15) mostra indirettamente che l’ombra dell’imperatrice potrebbe guarire chi vi si accosta, ma non è detto esplicitamente bensì suggerito. È il movimento delle reliquie che, annullando la distanza, permette all’imperatrice di essere presente con tutto il suo popolo, traendo da esso approvazione e consenso al suo status ed alle sue prerogative di potere. Con l’ausilio di immagini bibliche, il Crisostomo intrattiene l’uditorio con un’evocazione sonora dei gemiti, delle grida che si alzano dalla folla in processione; sono i gemiti e le grida dei demòni, la cui presenza disturba ma non impedisce l’esplicarsi della dýnamis dalla praesentia dei santi. Nomina anche il mantello del profeta Eliseo (cfr. I Re 19,19 o II Re 2,12-14) ed i tre fanciulli col profeta Daniele nella fornace (cfr. Dn 3), il cui fuoco non bruciò le loro vesti. Probabilmente, è la porpora imperiale dell’imperatrice che suggerisce al Crisostomo tali accostamenti biblici anche se non lo esprime chiaramente. Infatti, la concezione pagana che riteneva l’imperatore una persona divina era estranea a quella cristiana, ma Crisostomo permette che promani dalla figura di Eudossia una certa aura di sacralità, ovviamente proveniente dal suo contatto con le reliquie dei santi. Osservando mirabilmente le regole del Panegirico, Crisostomo introduce una digressione (ékphrasis) “visiva”. Continua, infatti, dicendo: «Un mare dalla città si è riversato nel territorio circostante, un mare di onde si è allungato, senza rottami di naufragio, libero da scogli. Un mare più dolce di tutto il miele, più dissetante di tutte le acque che dissetano. Chi non si sbaglierebbe chiamandolo mare e fiume di fuoco? Così al fluire fitto nella notte, delle torce, strette l’una accanto all’altra, per tutta la processione, fino alla chiesa (martýrion), offrivano a chi guardava l’impressione (phantasìa) di un fiume di fuoco. Questo fu quello che accadde di notte; venuto il giorno, altre torce apparvero ancora. Sorgendo il sole ne nascondeva la luce, rendendole pallide, ma ne mostrava di ancor più luminose nell’animo di ciascuno. Quel fuoco manifesto era più caldo del vostro zelo. Ciascuno portava così con sé due torce: quella col fuoco di notte e quella del proprio zelo di notte e di giorno. Alla fine, quella notte non la chiamo più notte. Combattendo contro il giorno, vi ha fatti conoscere quali figli della luce e vi ha rivelato più splendenti di migliaia di
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Francesco Aleo stelle e di Lucifero. Come infatti gli ubriachi fanno del giorno la notte, così i nottambuli e gli insonni volgono la notte in giorno.»63.
Nel corso di questa processione notturna, i fedeli, con candele e torce, tanto da evocare, nella voce di Crisostomo, un fiume di fuoco che fluisce nella notte, hanno manifestato all’esterno quel fuoco che hanno nell’anima. È il fuoco dello zelo e della fede nei santi. L’immagine della luce delle torce che impallidisce alla luce del sole, affinché risplenda nelle anime la luce interiore della fede, consente al Crisostomo di ottenere una pausa per consentire a colui che ascolta di accostarsi alla fase più impegnativa dell’omilìa. Le espressioni che insistono su questa massa umana che si snoda nella notte — come «un fiume di fuoco» alla luce delle torce — preparano gli ascoltatori a porre la loro attenzione sull’imperatrice: «In alto guardando il cielo abbiamo visto le stelle ed in mezzo la Luna, in basso la massa dei fedeli ed in mezzo l’imperatrice che incedeva più splendente della Luna. Quanto le stelle di quaggiù sono più belle delle stelle di lassù! Così lei (l’imperatrice) è tanto più bella di quella (la Luna)! Per qual motivo? Tanto la Luna quanto l’anima non sono ornate tanto della fama quanto della fede? Che cosa viene prima? Per mezzo di lei, ogni cosa è rimasta nascosta? Lo zelo più caldo del fuoco, la fede più salda dell’acciaio, la contrizione dell’anima e l’umiltà? Gettata via la regalità, il diadema ed ogni vanità insieme alla ricchezza, indossata la veste dell’umiltà (tapeinophrosýne) al posto della porpora, non splende di più con quella che con questa? Vi furono spesso molte imperatrici e misero in comune solo la stola e i diademi oltre alla gloria imperiale. Di questa sola, costei divenne ornamento fuori dal comune e costei di quella sola divenne il trofeo dei martiri; infatti, sola fra le imperatrici si fece avanti con tale onore, ardore e venerazione, mescolandosi al popolo, rompendo la schiera della guardia imperiale, e, ponendo fine con molta sollecitudine alla distinzione (anomalìa) della sua vita. Per questo aiutò il popolo non meno dei martiri. Infatti, come tutti quelli che hanno visto le reliquie, così anche ricchi e poveri si riversarono verso la cura assidua di costei, che stava attenta al cammino, si prendeva cura delle ossa, non desi-
63
Ibid., 2, col. 470, rr. 14-35.
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stendo né vietando, ma attaccandosi all’urna. Per questo non cessiamo di chiamarti beata, non noi soli ma anche tutte le generazioni di domani.»64.
Eudossia, secondo Crisostomo, appare così distinguersi dalle altre imperatrici perché ella si è mescolata con il popolo ed ha partecipato attivamente, nonostante il suo rango, al culto delle reliquie, toccandole insistentemente, prendendosene addirittura cura ed attaccandosi all’urna-reliquiario. È proprio la cura che Eudossia mostra verso le reliquie, che spinge tutti i cittadini e tutto il popolo a prendersene cura come lei, senza distinzione di classi sociali, ricchi e poveri insieme, quindi a manifestare attraverso la riverenza e la venerazione dei santi, il loro consenso verso Eudossia. Inoltre, l’imperatrice si connota per la sua «umiltà» o tapeinophrosýne, introducendo Crisostomo un topos nuovo nel Panegirico antico, oltre al fatto, naturalmente, che non si tratta qui di un imperatore ma di un’imperatrice. Quindi, Crisostomo, secondo le regole del Panegirico, enumera le virtù dell’imperatrice: «Molto più sarebbe conosciuta la devozione di una donna onesta, nobile e saggia; non si farà in modo di nascondere la sua opera, ma ti chiameranno beata, ospite dei santi, patrona (prostàtes) delle chiese, pari nello zelo agli Apostoli. Pur avendo la natura inferiore delle donne, a te è consentito gareggiare nell’osservanza dei precetti apostolici.»65.
Tali virtù non pongono di certo Eudossia fra il consesso degli Déi o delle Dée, come nel Panegirico antico; il vescovo, prima di sviluppare il tema dell’ascensio, pone il confronto con la diaconessa Febe: «Dal momento che anche Febe era una donna che condivideva con te la tua stessa natura, mostrandosi come maestra della terra abitata e divenuta patrona.»66.
64
Ibid., 2, coll. 470-471, rr. 48-79. Ibid., 3, col. 471, rr. 88-94. 66 Ibid., 3, col. 471, rr. 97. 65
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Crisostomo attribuisce ad Eudossia lo stesso titolo attribuito alla diaconessa Febe o ai santi: quello di «patrona» o prostàtes. In questo modo, compie una sorta di elevazione al cielo di Eudossia, riproponendo, in certo qual modo, l’ascensio della figura imperiale, tema questo, presente anch’esso nei Panegirici. Crisostomo, dunque, annovera Eudossia, nel «coro delle donne di vita apostolica», citando Priscilla: «Anche Priscilla era da meno per la sua natura femminile. Ma non le è venuto impedimento alcuno a che la sua memoria venisse proclamata e che divenisse immortale. Numeroso era il coro delle donne che facevano vita apostolica. Perciò con quelle, annoverandoti ora nel loro numero, non sbaglieremmo nel ritenere che sei il porto di tutte le chiese, con la regalità presente tu te ne servi per l’acquisto di quella futura, per correggere la Chiesa, onorare i sacerdoti, confutare l’errore degli eretici, accogliere i martiri non a mensa ma nella tua mente, non sulla scena ma nella volontà, anzi sulla scena (skené) e nella volontà.»67.
Crisostomo, in tal modo, inserisce fra i motivi del Panegirico antico una novità davvero importante: l’encomio della donna68. Questa, nonostante l’inferiorità e la fragilità del suo sesso, si mostra a pieno diritto come imperatrice consorte, dato questo, assente nel genere letterario del Panegirico. Inoltre, la regalità terrena dell’imperatrice è l’anticipo o la caparra di quella futura. In tal modo, Crisostomo, associandola alla diaconessa Febe ed a Priscilla, compagna dell’apostolo Paolo nell’evangelizzazione, proietta l’imperatrice nell’eternità del cielo, abitato da Dio e fa di tutta la sua vita terrena ed imperiale (anomalìa) 67
Ibid., 3, coll. 471-472, rr. 101-1. Per il ruolo e la figura della donna nella società e nella chiesa dell’epoca di Giovanni Crisostomo e sul ruolo delle diaconesse nella chiesa di Costantinopoli, in particolare su Olimpiade od Olimpia, vd. C. MILITELLO, Donna e Chiesa. La testimonianza di Giovanni Crisostomo, Palermo 1985 e GIOVANNI CRISOSTOMO, Lettere a Olimpiade. Introduzione, traduzione e note di M. Forlin Patrucco, Milano 1996, Introduzione, 54-69. Sempre della Militello, vd. Crisostomo ad Olimpia. L’uso della Scrittura nelle lettere dall’esilio, in K.E. BØRRESEN – E. PRINZIVALLI (edd.), Le donne nello sguardo degli antichi autori cristiani. L’uso dei testi biblici nella costruzione dei modelli femminili e la riflessione teologica dal I al VII secolo, Trapani 2013, 209-240. 68
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un adventus al cielo. Seguono quindi una serie d’immagini e di figure, tratte dall’immaginario biblico, come Maria che canta il canto del mare e della vittoria dopo aver attraversato col popolo d’Israele il Mar Rosso, recando dall’Egitto le ossa di Giuseppe (cfr. Es 15, 20-21). È un felice accostamento di un evento reale storico con un evento biblico della storia della salvezza. In tal modo, Eudossia realizza e compie l’allegoria espressa da Maria nell’Antico Testamento. Segue quindi un’immagine traslata di triumphus: «Portasti a noi migliaia di cori composti di romani, di siri, di barbari, che restituivano in lingua greca i canti di Davide. Genti diverse, schiere diverse che si vedevano avere una sola cetra, quella di Davide e che ti incoronava con le (sue) preghiere.»69.
Nell’uso della lingua greca e nel canto di Davide, pur nella diversità delle lingue e delle culture, si realizza il consenso di popoli differenti riconoscentisi, tuttavia, nell’unica autorità del potere imperiale. I popoli assoggettati che seguivano il corteo imperiale nel triumphus seguono ora l’imperatrice, stretta alle reliquie, cantando e pregando, uniti dalla fede dei santi nel riconoscere l’unica autorità imperiale. Seguono, quindi, i due motivi che giustificano il Panegirico ed assicurano il consensus: la laetitia, in greco euphrosýne, di questa festa (eorté) e la pietas o eusebéia. Se la prima è offerta al popolo con la festa, la seconda è propria della coppia imperiale. Si evince, quindi, come la regìa e la direzione di questa festa, orientata ad incrementare e ad ottenere il consenso, debba attribuirsi ad Eudossia: «Ma la tua intelligenza (sýnesis) fece in modo che egli (l’imperatore suo consorte) si trattenesse oggi in casa e (solo) all’indomani concedesse la sua presenza. Perché l’adunata dei cavalli e la massa dei soldati armati non arrecassero danno alle vergini, alle donne anziane, agli anziani e disturbassero così la festa, facendo cosa degna della sua intelligenza, divise la solennità (panégyris).»70.
69 70
Ibid., 3, col. 472, rr. 10-15. Ibid., 3, col. 472, 18-24.
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Crisostomo, dunque, non senza una certa arguzia, ammette e riconosce che l’imperatrice ha voluto occupare la scena dell’adventus e che ha diviso la solennità o panégyris in due momenti. L’uso di quest’ultimo termine non è certo casuale, l’adventus di reliquie con la presenza di Eudossia in processione e quella di Arcadio nel martyrium riproducono dunque i due tempi dell’adventus, scanditi dalla praesentia dell’imperatore, che in realtà è effimera, lasciando luogo e momento alla praesentia dei santi. Il Crisostomo, dunque, è ben consapevole che la solennità della festa dei martiri diventa occasione per celebrare il consenso che tutti coinvolge e responsabilizza, a cominciare dall’imperatrice. Riconosce senz’altro ad Eudossia il merito di aver orchestrato la regìa del consenso; termini quali «scena» o «teatro», esprimono bene il valore ed il significato dell’adventus, in ordine alla formazione ed all’orientamento del consenso verso l’autorità imperiale. Ancora, ormai verso la fine, leggiamo: «Per operare la pace nella giornata presente, quindi, in aggiunta, offrire l’indomani motivo di letizia, suddivise in questo modo la liturgia (leitourghìa): oggi, con il suo arrivo, ci ha annunziato la praesentia (parousìa) del suo consorte per domani. Infatti, come con lui condivide la dignità imperiale, così anche la devozione; non è per lei trascurabile il fatto che è sciolta dagli obblighi (del suo consorte), ma dovunque (ce n’è bisogno), prende parte (con lui). Dal momento, dunque, che per noi occorre prolungare la solennità (panégyris) spirituale odierna, mostreremo ancora una volta lo stesso impegno, per vedere, come oggi, codesta amante di Cristo insieme con tutta la città; così domani vedremo l’Imperatore devoto venire con il suo esercito, ad accostarsi al sacrificio di Dio, proveniente dal timore, dallo zelo e dalla fede.»71.
Interessa notare come in questa Homilia del Crisostomo, che somiglia tanto ad un Panegirico, costruito secondo i canoni della retorica tardoantica, la cerimonia dell’adventus con i suoi due momenti è assimilata ad una liturgia cristiana, quale la traslazione delle reliquie. È questo, l’esito ultimo, in Oriente ed a Costantinopoli,
71
Ibid., 3, col. 472, rr. 26-40.
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dell’antica cerimonia pagana dell’adventus. Come sono due e distinti i momenti dell’adventus di reliquie, così sono due e distinti gli “attori” di questo “teatro”, notturno e diurno. Di notte, infatti, l’imperatrice sta insieme con il popolo in processione; di giorno, l’imperatore sta in chiesa con l’esercito. Eudossia sceglie il popolo per promuovere la sua persona, distinguendosi per zelo e per fede, nell’attingere grazie, potenza e benedizione alla praesentia in movimento delle reliquie dei martiri. Arcadio, sceglie l’esercito e lascia il posto alla praesentia dei santi, dopo aver compiuto un atto di venerazione con i suoi soldati. Arcadio mostra di appartenere alla tradizione antica dell’istituto imperiale che sin dalle sue origini augustee traeva dall’esercito la sua forza ed il suo sostegno. Eudossia, invece, imperatrice cristiana, trae dal culto dei santi importanti fattori di rinnovamento nella ricerca e nella promozione del consenso verso la casa imperiale, tutti notati e valorizzati nella sua Omilìa da Giovanni Crisostomo con il linguaggio del Panegirico tardoantico. CONCLUSIONI Giovanni Crisostomo nell’Homilia II, composta secondo i canoni e le regole del Panegirico tardoantico, parla della devozione verso i santi, la cui praesentia è assicurata dalle reliquie. Il culto dei santi era diffuso e comune nell’Impero tardoromano, ormai ufficialmente cristiano, sia tra il popolo che tra le classi più elevate della società tardoantica, compreso l’imperatore. A Costantinopoli, intorno all’anno 400, Crisostomo parlò soprattutto del ruolo dell’imperatrice Eudossia nel generare questa devozione (eusebéia) che assume i tratti del consensus universorum di età tardoantica72. La partecipazione di Costantinopoli, dei suoi abitanti di ogni ordine e grado, manifesta il consenso verso il riconoscimento di una potentia o dýnamis salvifica che si sprigiona dalle reliquie dei santi, portate in processione. I mezzi della retorica e del Panegirico tardoantichi esprimono verbalmente i
72 K.G. HOLUM, Theodosian Empresses. Woman and imperial dominion in late antiquity, 57.
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suoni, i colori di un momento intensamente vissuto anche da Eudossia, la quale più del consorte imperiale, percepì l’elevatissimo potenziale di consenso, insito nella praesentia dei santi in movimento. Proprio il movimento della processione permette ad Eudossia di manifestare la sua devozione, ma soprattutto, la sua tapeinophrosýne, la sua «umiltà», che le consente non soltanto di essere approvata ma anche di essere riconosciuta dal suo popolo come imperatrice legittima e consorte dell’imperatore. La processione era il mezzo, perché la tensione accuratamente mantenuta tra distanza e vicinanza alle reliquie assicurasse la presenza fisica del santo, in una comunità73. La praesentia del santo, in questo caso, evidenzia ancor di più, in mezzo alla folla, il diadema e la porpora di Eudossia, poiché ella, toccando i santi fisicamente ed esponendosi anche al contatto della gente in processione, si è saputa mettere in relazione con Dio e con gli uomini, grazie alla sua «umiltà». Le insegne del potere imperiale traggono, quindi, il loro significato ed il loro potere non più dalla cerimonia dell’adventus, con i suoi riti ed i suoi segni, come per il Panegirico tardoantico, ma dalla relazione che l’imperatrice pone con la praesentia dei santi nelle reliquie. Per cui — avverte acutamente Crisostomo — Eudossia è veramente imperatrice, dal momento che è capace di farsi therapainìs, «servetta». Questo è il topos nuovo, cristiano, introdotto nel Panegirico che permette al Crisostomo di sottolineare l’eccezionalità dell’evento. In tal modo, due sono i poteri presenti in processione: quello divino, posto nelle reliquie dei santi e quello umano, personificato nell’imperatore. L’«umiltà» dell’imperatrice mette in relazione la praesentia dei santi con la praesentia dell’imperatore. Non è un caso che alla processione non abbia partecipato l’imperatore personalmente, perché la sua presenza avrebbe potuto suscitare un conflitto nel quale il potere umano dell’imperatore avrebbe potuto essere concorrente o antagonista con quello divino dei santi. La consorte di Arcadio, sottomettendosi al posto dell’imperatore alla dýnamis dei santi, trova la possibilità di presentare l’autorità imperiale, senza indebolirne il potere, ma anzi
73
124.
P. BROWN, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità,
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evidenziandolo e presentandolo, in una prospettiva nuova, quale quella della tapeinophrosýne. Il mediatore di tale complesso rapporto tra i due poteri è proprio il vescovo cristiano di Costantinopoli che media la presenza e la necessità dell’autorità imperiale, riconoscendo la tapeinophrosýne dell’imperatrice. In questo modo anche Crisostomo esercita un particolare potere, in maniera critica ed attiva, servendosi dei termini e dei mezzi retorici del Panegirico tardoantico, ma anche di altri termini, quali «scena» (skené), «teatro» (théatron), «maschera» (prosopéion). Inoltre, giocando con l’allegoria e le insegne del potere imperiale, utilizza l’immaginario biblico74; per cui può affermare che Eudossia ha «indossata la veste dell’umiltà al posto della porpora». Per questo motivo, la presenza di Eudossia fuori dagli appartamenti imperiali — dove nemmeno gli eunuchi potevano accostarsi a lei — in mezzo al popolo, giunge nuova ed inaspettata. Crisostomo, inoltre, le riconosce, nella sua devozione (eusebéia) — vera e propria «cura» (prosedréia) delle reliquie — all’interno della sua funzione imperiale, anche quelle di maestra (didàskalos) e di patrona (prostàtes), smorzando e quasi annullando per una notte, le differenze politiche, economiche e sociali della società di Costantinopoli. Verso la conclusione della sua Homilia, Crisostomo ammette che è stata l’intelligenza (sýnesis) di Eudossia ad orchestrare la propria apparizione, mentre istruiva il marito a restare a casa. Si può così concludere, affermando che la ricerca di consenso da parte della casa imperiale, intorno al 400 a Costantinopoli, rivelò in un adventus di reliquie di santi, i due poteri della pòlis tardoantica, quello divino e quello imperiale, come affiancati, per la regìa di Eudossia e la mediazione di Giovanni Crisostomo. Questi, dal canto suo, tiene a precisare che ogni grado, funzione, potere, interni alla società degli uomini, sono «maschere» (prosopéia) e nell’Homilia III, pronunziata il giorno dopo, avrebbe assai abilmente riproposto in chiave teologica i due momenti dell’adventus, per cui la vita terrena, quale adventus al cielo, ci prepara alla vita eterna ed il cielo è il luogo della parousìa o praesentia, perfetta beatitudine. 74 Sulla Parousi/a di Cristo come adventus, proprio in Giovanni Crisostomo, cfr. S. G. MACCORMACK, Change and Continuity in Late Antiquity, the Ceremony of Adventus, 725, n. 22; 744, n. 140; 745.
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Questo delicatissimo equilibrio era però destinato a spezzarsi; Eudossia non tollerò a lungo la mediazione vigile, critica ed attiva di Giovanni Crisostomo, il quale di lì a qualche anno, dovette prendere la via dell’esilio.
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RAGIONE, AUTORITÀ, CONSENSO: COSTANTI E VARIANTI NELLA DOTTRINA CANONISTICA DELLA NORMA GIURIDICA (SPIGOLATURE STORICHE)*
ORAZIO CONDORELLI**
1. GRAZIANO Nel Decretum di Graziano (circa 1140) appaiono chiaramente definite le coordinate fondamentali entro le quali la scienza canonistica medievale costruì la dottrina della norma giuridica. Attraverso i commentatori di Graziano, il pensiero del Padre del diritto canonico medievale estese i suoi effetti ben al di là dell’ambito canonistico, divenendo un irrinunciabile termine di confronto per i giuristi dell’età del diritto comune, come anche per i filosofi e i teologi. Alcuni frammenti delle Etimologiae di Isidoro da Siviglia costituiscono le basi sulle quali Graziano fonda la propria idea del diritto e della legge. Diritto e legge si connotano per la loro sostanza, che è la giustizia (ius quia iustum)1. Il diritto è un genere, che la legge e la *
Queste pagine sono state pubblicate anche nella raccolta di scritti in onore di Antonio Pérez Martín: Glossae. European Journal of Legal History 10 (2013) 160185. ** Docente di Docente di Diritto Canonico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. 1 D.1 c.2: «Ius generale nomen est; lex autem iuris est species. Ius autem est dictum, quia iustum est. Omne autem ius legibus et moribus constat». Le citazioni dal Decretum sono tratte dall’edizione di AE. FRIEDBERG, Corpus Iuris Canonici, I, Leipzig 1879.
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consuetudine specificano. La distinzione tra legge e consuetudine è meramente formale, poiché la legge non è altro che la consuetudine messa per iscritto2. Dal punto di vista sostanziale, esse trovano (devono trovare) il loro fondamento nella «ragione» — «ratione consistunt» —, e come tali devono essere congruenti con la religione e la disciplina e devono essere intese a promuovere la salvezza della persona. Che la norma giuridica — di natura legislativa o consuetudinaria che sia — debba essere espressione della ragione umana, a sua volta riflesso della ragione divina3, è il pilastro sul quale si regge la dottrina grazianea della norma4. Il principio trova conferma nella D.4, là dove Graziano approfondisce il tema della causa della legge5. Anche qui l’attenzione del maestro è rivolta ai contenuti e alle finalità della
2 D.1 c.3: «Lex est consuetudo scripta»; D.1 c.4: «Mos autem est longa consuetudo, de moribus tracta tantundem»; D.1 c.5: «Consuetudo autem est ius quoddam moribus institutum, quod pro lege suscipitur, cum deficit lex. §. 1. Nec differt, an scriptura, an ratione consistat, quoniam et legem ratio commendat. §. 2. Porro si ratione lex consistat, lex erit omne iam, quod ratione constiterit, dumtaxat quod religioni congruat, quod disciplinae conveniat, quod saluti proficiat. §. 3. Vocatur autem consuetudo, quia in communi est usu». Nel passo di D.1 c.5 Isidoro da Siviglia aveva attinto, con limitate modifiche, da TERTULLIANO, De corona militis 4 (PL 2.81). 3 UGUCCIONE, Summa Decretorum, praefatio [HUGUCCIO PISANUS, Summa Decretorum. Tom. I. Distinctiones I-XX, edidit O. PRˇEROVSKÝ, adlaborante ISTITUTO STORICO DELLA FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ SALESIANA, Città del Vaticano 2006, 7 (Monumenta Iuris Canonici, Series A: Corpus Glossatorum, 6)]: «Ius ergo naturale dicitur ratio, scilicet naturalis vis animi ex qua homo discernit inter bonum et malum, eligendo bonum et detestando malum. Et dicitur ratio ius quia iubet, lex quia ligat vel quia legitime agere compellit; naturale vel naturalis quia ratio unum est de naturalibus donis vel quia summe nature consonat et ab ea non dissentit». 4 GRAZIANO, dictum post D.1 c.5: «Cum itaque dicitur: “non differt, utrum consuetudo scriptura, vel ratione consistat”, apparet, quod consuetudo partim est redacta in scriptis, partim moribus tantum utentium est reservata. Quae in scriptis redacta est, constitutio sive ius vocatur; quae vero in scriptis redacta non est, generali nomine, consuetudo videlicet, appellatur». 5 GRAZIANO, dictum ante D.4 c.1: «… Causa vero constitutionis legum est humanam cohercere audaciam et nocendi facultatem refrenare, sicut in eodem libro [Etymologiae,V. c. 20.] Ysidorus testatur dicens…».
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legge stessa, ciò che egli sintetizza con la parola qualitas6. Le qualità della legge erano state indicate, ancora una volta, da Isidoro da Siviglia, in un passo dal quale per secoli i giuristi troveranno ispirazione: «La legge sarà dunque onesta, giusta, possibile, secondo natura, secondo la consuetudine della patria, adatta al tempo e al luogo, necessaria, utile, e anche manifesta, affinché non contenga, per l’oscurità, alcunché di inappropriato, stabilita non per un comodo privato, ma per la comune utilità dei cittadini»7. Nel ragionamento grazianeo queste sono le qualità la cui esistenza occorre accertare nel processo di produzione della legge. Questa fase preparatoria è estremamente importante perché, una volta che la legge è stata istituita, non sarà più consentito giudicare della legge stessa, ma, al contrario, sarà necessario giudicare secondo le leggi8. Graziano, in sostanza, qui enuncia quello che noi definiamo «principio di legalità», sostenendo la sua affermazione sull’auctoritas di Agostino di Ippona9. L’autorità della legge, dunque, si impone ai consociati in seguito a un processo di produzione nel quale il legislatore deve considerare i diversi criteri enumerati da Isidoro. Tale autorità è, nondimeno, il frutto della potestà del legislatore che promulga la legge, dato che la promulgazione è l’atto attraverso il quale si perfeziona l’istituzione della legge stessa. «Le leggi sono istituite quando sono promulgate, sono confermate quando sono
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GRAZIANO, dictum post D.4 c.1: «… Preterea in ipsa constitutione legum maxime qualitas constituendarum est observanda, ut contineant in se honestatem, iustitiam, possibilitatem, convenientiam et cetera, quae in eodem libro Ysidorus [Etymologiae,V. c. 21.] enumerat dicens…». 7 D.4 c.2: «Erit autem lex honesta, iusta, possibilis, secundum naturam, secundum consuetudinem patriae, loco temporique conveniens, necessaria, utilis, manifesta quoque, ne aliquid per obscuritatem inconveniens contineat, nullo privato commodo, sed pro communi utilitate civium conscripta». 8 GRAZIANO, dictum post D.4 c.2: «Ideo autem in ipsa constitutione ista consideranda sunt, quia cum leges institutae fuerint, non erit liberum iudicare de ipsis, sed oportebit iudicare secundum ipsas…». 9 D.4 c.3: «In istis temporalibus legibus, quamquam de his homines iudicent, cum eas instituunt, tamen cum fuerint institutae et firmatae, non licebit iudici de ipsis iudicare, sed secundum ipsas». È un frammento tratto dal Liber de vera religione, c.31 n. 58 (PL 34.148).
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approvate dai comportamenti (mores) degli utenti. Come alcune leggi sono oggi abrogate dai comportamenti contrari degli utenti, così dai comportamenti degli utenti le stesse leggi sono confermate»10. È un famoso dictum che farà scorrere fiumi di inchiostro. Le parole grazianee da un lato rinviano al fenomeno della consuetudine contra legem, alla quale egli ricollega effetti abrogativi; dall’altro richiamano una non meglio precisata approvazione degli utenti (cioè dei destinatari della legge), alla quale Graziano connette l’effetto della conferma della legge stessa. Vedremo più oltre come i canonisti interpreteranno il senso di queste parole. Secondo Graziano, come appare da un successivo dictum, la mancata approvazione esclude che l’inosservanza della norma possa essere qualificata come colpevole trasgressione11. Accanto alla razionalità della norma, altri due elementi compongono, pertanto, il quadro della dottrina grazianea: da un lato l’autorità del legislatore che suggella il venire in essere della norma con la sua promulgazione; dall’altro l’azione dei consociati (i destinatari della legge) che con i loro mores — quindi con un atteggiamento di consenso o di dissenso, sia pure implicito — condizionano gli effetti della norma e possono perfino abrogarla. Questa dialettica tra approvazione e non approvazione della norma, manifestata dall’uso o dal non uso della norma stessa, può essere l’espressione della varietà normativa propria nell’ordinamento della Chiesa: una varietà che, per un verso, manifesta la diversità delle tradizioni normative della Chiesa, per l’altro mostra che ciò che è stabilito in un determinato luogo e in un certo tempo potrebbe non essere adatto alle situazioni che si presentano in altri tempi e altri 10
GRAZIANO, dictum post D.4 c.3: «Leges instituuntur, cum promulgantur, firmantur, cum moribus utentium approbantur. Sicut enim moribus utentium in contrarium nonnullae leges hodie abrogatae sunt, ita moribus utentium ipsae leges confirmantur». 11 GRAZIANO, dictum post D.4 c.6: «Hec etsi legibus constituta sunt, tamen quia communi usu approbata non sunt, se non observantes transgressionis reos non arguunt; alioquin his non obedientes proprio privarentur honore, cum illi, qui sacris nesciunt obedire canonibus, penitus officio iubeantur carere suscepto; nisi forte quis dicat, hec non decernendo esse statuta, sed exhortando conscripta. Decretum vero necessitatem facit, exhortatio autem liberam voluntatem excitat».
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luoghi. È una varietà normativa della quale dà atto, in principio, il titolo stesso dell’opera grazianea: concordia discordantium canonum. A questa dialettica, per esempio, Graziano riconduce il fenomeno dei differenti regimi giuridici della Chiesa latina e della Chiesa orientale in materia di celibato dei chierici. Come le auctoritates da lui raccolte mostrano, siffatta diversità è apertamente ricondotta a differenti tradizioni disciplinari12. In questo senso, i due regimi giuridici si pongono come reciprocamente speciali, poiché nessuno di essi può assurgere al rango di disciplina generale. Secondo Graziano, in particolare, la disciplina della Chiesa orientale13 si spiega per non avere questa accettato (il verbo è «suscipere») la disciplina più restrittiva adottata dalla Chiesa latina14. 2. GLI INTERPRETI DI GRAZIANO Non è possibile, in questa sede, rappresentare la ricchezza dottrinale emergente dalle riflessioni degli intepreti del Decretum. In 12 D.31 c.14: Occidentalis, non orientalis ecclesia castitatis obtulit uotum. «V. Pars. Aliter se habet orientalium ecclesiarum traditio, aliter huius sanctae Romanae ecclesiae. Nam eorum sacerdotes, diaconi atque subdiaconi matrimonio copulantur; istius autem ecclesiae vel occidentalium nullus sacerdotum a subdiacono usque ad episcopum licentiam habet coniugium sortiendi». Il canone è attribuito a un sinodo lateranense tenuto sotto Stefano I (769), ma Friedberg ipotizza che debbe piuttosto essere ricondotto a Stefano IX († 1058). 13 D.31 c.13 riporta il c.13 del Sinodo Trullano del 691/2, nel quale il concilio dà luogo a un dichiarato distacco dalla disciplina latina: «Quoniam in Romani ordine canonis esse traditum cognovimus, eos, qui ordinati sunt diaconi vel presbiteri, confiteri, quod iam non suis copulentur uxoribus: antiquum sequentes canonem apostolicae diligentiae et constitucionis, sacrorum virorum legales nuptias amodo valere volumus, nullo modo cum uxoribus suis eorum conubia (sic) dissolventes, aut privantes eos familiaritate ad invicem in tempore oportuno (sic). Quicumque ergo dignus inventus fuerit subdiaconali ordinatione, aut diaconali, aut sacerdotali, hi nullo modo prohibeantur ad talem ascendere gradum pro uxoris suae cohabitatione; nec in tempore ordinationis suae profiteri cogantur, quod abstinere debeant a legalis uxoris familiaritate…». 14 GRAZIANO, dictum post D.31 c.13: «Hoc autem ex loco intelligendum est. Orientalis enim ecclesia, cui VI. sinodus regulam vivendi prescripsit, votum castitatis in ministris altaris non suscepit».
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estrema sintesi richiamo alcune conclusioni che essi traggono dalle auctoritates e dal pensiero di Graziano. Soffermandosi sul passo isidoriano nel quale sono enumerate le qualità delle legge, i decretisti mettono generalmente in luce che la necessità che la legge sia secundum consuetudinem patriae si spiega per l’effetto abrogativo della consuetudine: questa, infatti, ha la forza di porre nel nulla una legge contraria alle consuetudini stesse15. Nella medesima direzione vanno le riflessioni riguardanti il requisito della convenienza della legge con i luoghi. Secondo Uguccione, il quale raccoglie una tradizione di pensiero più risalente, di fatto accade che «in alcuni luoghi potrebbero essere stabilite delle norme che altrove non sarebbero recepite»16. Il verbo che ricorre nei commenti dei canonisti è «recipere», parola che riconduce al fenomeno della recezione (o non recezione) delle norme da parte di comunità diverse da quelle per le quali le norme stesse sono state stabilite. Il pensiero dei canonisti corre subito alle differenze normative segnalate da Graziano nella D.31 a proposito del celibato dei chierici. Secondo Uguccione i diversi regimi vigenti nella Chiesa latina e in quella orientale sono, come si è detto, reciprocamente speciali. Questa varietà manifesta la diversità, non l’avversità o contrarietà fra le tradizioni romana e 15 Per i giuristi di area bolognese delle prime generazioni v. per esempio SIMONE BISIGNANO, Summa, D.4 c.2 (Summa Simonis Bisinianensis, edidit P.V. AIMONE, Fribourg 2006, disponibile in rete: http://www.unifr.ch/cdc/summa_simonis_de.php; ora anche a stampa, Città del Vaticano, Monumenta Iuris Canonici 8): «secundum consuetudinem, quia leges contraria consuetudine abrogantur, ut infra e. d. § Leges et § Hec etsi». La stessa intepretazione circolava in area anglo-normanna; si veda per esempio la Summa Lipsiensis, D.4 c.2 [Summa ‘Omnis qui iuste iudicat’ sive Lipsiensis, tomus I, ediderunt R. WEIGAND (†) – P. LANDAU – W. KOZUR, ADLABORANTIBUS S. HAERING – K. MIETHANER-VENT – M. PTZOLT, Città del Vaticano 2007, 18 s. (Monumenta Iuris Canonici, Series A: Corpus Glossatorum 7)]: «secundum consuetudinem: quia legi derogat consuetudo, ut d. e. § Hec etsi». Il medesimo insegnamento si consolida nelle diffusissima Summa di UGUCCIONE, D.4 c.2 (ed. cit., 74 s.): «secundum consuetudinem patrie: scilicet ut concordet moribus inhabitantium, alioquin contraria consuetudine abrogantur, ut infra eadem § Leges, Statuimus (D.4 p.c.3, c.4)». 16 UGUCCIONE, Summa, D.4 c.2 (ed. cit., 74 s.): «loco: quia in quibusdam locis quedam constitui possunt que alibi non reciperentur, ut di. xxxi. Ante, Quoniam, Aliter (D.31 c.1, 13, 14)… ». Anche qui si tratta di un insegnamento diffuso.
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orientale17. Così come la Chiesa orientale non ha recepito il regime restrittivo della Chiesa latina18, a sua volta le norme più permissive emanate nel Sinodo trullano (D.31 c.13) — che pure Uguccione considera synodus universalis et generalis — riguardano solo la Chiesa orientale e non la latina19. L’attenzione dei giuristi si rivolge al processo di formazione della norma, come pure agli effetti della confirmatio operata dai mores utentium. Uguccione adotta una prospettiva di analisi generale, che considera la legge in quanto tale, sia essa canonica o civile. Per Uguccione l’istituzione della legge si completa con la firmatio che discende dall’assenso di coloro che assistono alla promulgazione della legge: si tratta di 17
UGUCCIONE, Summa, D.31 c.14, v. aliter se habet (Admont, Stiftsbibliothek, 7: non indico il foglio, perché la numerazione è illegibile nella copia microfilmata che ho potuto consultare): «id est alia est et diversa, non tamen adversa vel contraria…». 18 UGUCCIONE, Summa, D.31 c.12, v. ut episcopi (Admont, Stiftsbibliothek, 7: non indico il foglio, perché la numerazione è illegibile nella copia microfilmata che ho potuto consultare): «Que constitutio (cioè la norma che impone ai candidati all’ordine, che siano coniugati, di promettere la continenza) valet et tenet in occidentali ecclesia, sed orientalis ecclesia illam adhuc non recipit, ut infra proximis duobus capitulis... (D.31 c.13 e 14) ». 19 UGUCCIONE, Summa, D.31 c. 13, v. diaconum (Admont, Stiftsbibliothek, 7: non indico il foglio, perché la numerazione è illegibile nella copia microfilmata che ho potuto consultare): «... et nota quod iste canon est VI sinodi et VI sinodus universalis et generalis est, ut di. XVI Sancta VIII (D.16 c.8) et I q. VII Convenientibus (C.1 q.7 c.4). Non tamen iste canon est universalis vel generalis, nisi dicatur universalis vel generalis quia in generali sinodo est editus. Sed non est generalis vel universalis quia non universaliter (t. praem. ms.) astringit, sed tantum (in add. ms.) orientalem ecclesiam, et sic non omnia edita in generali concilio generalia sunt, id est generaliter omnes astringentia. Sed pone quod sic esset editus, ut omnes generaliter astringeret, tamen licite ecclesia potuit statuere in contrarium, scil. ut nullus promoveatur ad sacrum ordinem nisi premissa continentia. Sed nonne et hanc ultimam constitutionem tenentur recipere greculi? Non, quia non sic est emissa, ut ecclesia orientalis ad illam recipiendam cogatur. Non enim quicquid statuit Romana Ecclesia vult vel cogit ut ab omnibus observetur. Sed nonne papa posset precipere greculis ut tenerentur hanc constitutionem <recipere>, scil quod nullus ibi promoveatur ad sacrum ordinem nisi premissa continentia? Dico quod potest tamquam prelatus eis, ut di. XXII de Constantinopolitana et XXIIII Rogamus. Sed non vult, parcit enim eis quia infirmi sunt, ut III q. V Quia suspecti».
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chierici nell’ordinamento canonico, o dei collaterales principis nell’ordinamento civile. L’assenso degli assistentes giunge alla conclusione di un processo nel quale essi potrebbero anche contraddire il legislatore. È infatti opportuno che nel consistorium del Papa o dell’Imperatore la materia della legge sia attentamente discussa e la deliberazione sia presa con maturità di giudizio. Ma — continua Uguccione — una volta che le leggi sono state receptae et approbate attraverso il comune consiglio e l’assenso, la legge acquisisce la sua obbligatorietà e su di essa non deve più discutersi, ma occorre piuttosto giudicare secondo la legge20. Il Papa, infatti, gode della plenitudo potestatis, e al princeps ogni potere è stato trasferito dal popolo, secondo il modello civilistico della lex de imperio tramandato dal Corpus Iuris Civilis. Pertanto, sia il clero che il popolo possono essere costretti ad adempiere ciò che è stabilito nelle leggi, qualora l’opposizione alle leggi comporti una deviazione dalla fede o dalla ragione. Nel caso in cui tale deviazione non si verifichi, invece, secondo Uguccione rimane aperta la possibilità che un atteggiamento dissenziente del clero o del popolo possa far venir meno la confirmatio moribus utentium di cui parlava Graziano. Uguccione, inoltre, ritiene che sia un dovere morale del Papa o dell’Imperatore chiedere il consenso rispettivamennte ai cardinali o ai baroni, se sia possibile riceverlo. Se ciò non è possibile, allora il princeps potrà deliberare contro o oltre la volontà di cardinali e baroni, purché tale decisione non sia contraria alla ragione o alla legge del Vecchio e del Nuovo Testamento. Secondo Uguccione, tuttavia, tale obbligo di consultare cardinali e baroni resta confinato nella sfera della morale. Rimane ferma la conclusione: ciò che il Papa o l’Imperatore ha deliberato deve essere osservato, perché entrambi sono dotati della plenitudo potestatis21.
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UGUCCIONE, Summa, D.4 c.3 (ed. cit., 76 s.): «firmate: assensu assistentium. ... secundum ipsas: id est sequendo ipsas. Cum promulgantur in consistorio domini pape vel imperatoris, possunt alii contradicere. Multa enim consilii moderatione et patientie maturitate debet discuti et decoqui in consistorio apostolici vel imperatoris lex ante constitutionem, ut xxxv. q. viiii. Apostolice (c.4). Set postquam communi consilio et assensu fuerint recepte et approbate, non possunt vel illi, id est clerici, vel isti, id est collaterales principis, contradicere vel de ipsis iudicare...».
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Si può tentare di precisare che cosa sia, per gli interpreti, la confirmatio da parte dei mores utentium di cui parlava Graziano a proposito della legge. Secondo un’opinione, che la tradizione canonistica attribuisce a Lorenzo Ispano22, essa doveva intendersi come una firmitas de facto, dato che l’istituzione della legge si perfeziona con la promulgazione del legislatore. Ciò detto, rimaneva aperta la questione se l’eventuale mancanza di tale firmitas avesse incidenza sull’efficacia e l’applicazione della norma. Guido da Baisio, che completa il suo Rosarium Decretorum nel 1300, si ispira a un notissimo passo di Salvio Giuliano tramandato dai Digesta (D.1.3.32.1)23 e interpreta l’approbatio di cui parlava Graziano come una receptio in iudicio populi, cioè una spontanea ma al contempo razionale (vi è sotteso un iudicium) adesione del popolo alle norme: receptio che era, secondo quanto affermava il giureconsulto romano, la fonte della loro obbligatorietà. Quando tale appro-
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UGUCCIONE, Summa, dictum post D.4 c.3 (ed. cit., 79 s.): «confirmantur moribus utentium: Set nonne clerus vel populus posset compelli ut impleret quod papa vel princeps vult, cum papa habeat plenitudinem potestatis et omnis potestas sit in principe collata? Credo quod posset, si a ratione vel fide vellet deviare, ut di. lxii. Docendus (c.2); aliter non deberet. Item posset papa preter vel contra voluntatem suorum cardinalium aliquid statuere, vel imperator preter vel contra voluntatem suorum baronum? Respondeo: non debere, si eorum consensum posset habere; aliter potest, dummodo non si contrarium rationi vel veteri vel novo testamento. Sed quicquid dicatur, si sic aliquid quod sit iustum constituunt, ratum erit et alii tenebuntur obedire. Omne enim ius condendi leges vel canones populus contulit in imperatorem et ecclesia in apostolicum, unde intelligitur uterque plenitudinem habere potestatis quoad hec, arg. viiii. q. iii. Conquestus, Ipsi, Cuncta, Nunc vero (c.8, 16, 17, 20) et ii. q. vi. Decreto, Qui se scit (c.11, 12) e Instit. de iure natur. § set et quod. (Inst. 1.2.6)». 22 Così nel commento di GUIDO DA BAISIO a D.4 c.3, v. ac confirmate (ed. cit. sotto, nota 24), quindi in JUAN DE TORQUEMADA, Comm. in D.4 (citato sotto, nota 31). 23 D.1.3.32.1: «Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes: nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et factis? Quare rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio legis latoris, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur».
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batio manca, l’inosservanza della norma non può essere considerata una trasgressione colpevole della legge, come Graziano aveva detto24. Al riguardo è il caso di notare che le riflessioni dei giuristi si muovono sui due diversi piani, non sempre chiaramente distinti, del foro della coscienza e del foro esterno. Nei commenti di vari autori, infatti, ricorre l’affermazione che l’inosservanza della norma, quando questa non abbia avuto «effetto e conferma»25, non costituisce peccato. Al contempo tutti sottolineano la funzione dei mores utentium in contrarium quale radice legittimante la consuetudine contra legem. I canonisti del secolo XIII avevano avuto modo di ragionare su una costituzione del Concilio Lateranense III inserita nel Liber Extra di Gregorio IX, la cui sorte, a loro modo di vedere, manifestava il senso dell’affermazione grazianea. La costituzione stabiliva l’istituzione della «tregua di Dio» (treuga Dei) e ne disciplinava le modalità, imponendo fra l’altro ai vescovi di punire con la scomunica i trasgressori della tregua26. Tuttavia, nei fatti, tale norma era rimasta sostanzialmente inapplicata, come gli interpreti unanimemente concordano. Alcuni autori – Bernardo da Parma27, Goffredo da Trani28, Innocenzo IV29 — 24
GUIDO DA BAISIO, Comm. in dictum post D.4 c.3, v. approbantur (Rosarium Decretorum, Venetiis, Andreas Torresanus, 1495, fogli non numerati): «idest in iudicio populi recipiuntur, ff. de legibus, De quibus § inveterata. Ipse confirmantur, unde si constitutio non est moribus utentium approbata, illi qui eam non observant non dicuntur transgressores, ut hic, et sic intelligunt Bernardus et Goffredus et Innocentius extra, de treuga et pace, c. I... Nam ad hoc ut constitutio suum habeat effectum et confirmationem requiritur quod sit moribus utentium approbata, ut hic patet... Sed si subditi nollent acceptare rationabilem constitutionem, constituens eos ad hoc compellere potest...». 25 Così GUIDO DA BAISIO nel testo citato nella nota precedente. 26 X.3.34.1, De treuga et pace, c. Treugas. 27 BERNARDO DA PARMA, Apparatus in X.3.34.1, v. frangere, Romae, In Aedibus Populi Romani, 1582: «… Sed quod dicit hic, hodie non tenet; et episcopi qui non servant hanc constitutionem, non dicuntur transgressores, quia non fuit moribus utentium approbata huiusmodi treuga, 4 dist. cap. In istis § leges». 28 GOFFREDO DA TRANI, Summa super titulis Decretalium, Lugduni, In aedibus Magistri Ioannis Moylin alias de Cambray, 1519, f. 59rb, ad tit. De treuga et pace. 29 INNOCENZO IV, Apparatus in X.3.34.1 (Commentaria Innocentii Quarti Pont. maximi super libros quinque Decretalium, Francofurti ad Moenum 1570, f. 161rb): «...
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osservano, usando la terminologia di Graziano, che tale constituzione non è stata approvata dai mores utentium. Pertanto, i vescovi che non applicano la pena prevista non sono trasgressori della norma: non peccano — affermano i giuristi —, sul presupposto che la legge non entrata nell’uso non generi un obbligo di osservanza nel foro della coscienza30. Alla metà del secolo XV il teologo spagnolo Juan de Torquemada scrisse un imponente commento sul Decretum Gratiani, libro che, per la sua materia, egli riteneva preziosissima fonte di riflessione per la teologia dogmatica e morale. Torquemada si interroga sul significato dell’affermazione grazianea che le leggi sono confermate dai mores utentium. Raccogliendo il senso di una riflessione plurisecolare sul tema, Torquemada nota che di firmitas legum è possibile parlare in un duplice significato31. Vi è una firmitas authoritatis, che alla legge deriva dalla potestà di chi la istituisce. E vi è una firmitas stabilitatis, nec peccant hodie prelati, qui non servant istam constitutionem, quia non fuit moribus utentium approbata, 4 dist. § leges…». 30 Quanto ho detto in estrema sintesi non vale ad esaurire la complessità della riflessione dottrinale sull’argomento, come essa è rappresentata, ad esempio, dai commenti di ENRICO DA SUSA o di NICOLÒ TEDESCHI su X.3.34.1. 31 JUAN DE TORQUEMADA, Comm. in D.4 (IOANNIS A TURRECREMATA Ordinis Praedicatorum Sabinensis Episcopi ac S.R.E. Praesbyteri Cardinalis... In Gratiani Decretorum Primam Doctissimi Commentarii, tomus primus, Venetiis, Apud Haeredem Hieronymi Scoti, 1578, p. 64a-b n. 2-3): «Respondeo notandum quod dupliciter possumus de firmitate legum loqui, aut de firmitate authoritatis, aut de firmitate stabilitatis. Si de firmitate authoritatis, istam habet lex ab instituente, a quo robur et authoritatem suscipit. Si vero loquamur de firmitate stabilitatis, istam habet lex a convenientia et aptatione ad mores subditorum, Quia enim (ut dictum est in c. Erit autem lex) oportet, quod lex sit possibilis, secundum naturam, secundum consuetudinem, loco temporique conveniens, dicimus quod leges firmantur firmitate stabilitatis et permanentie, cum moribus utentium approbantur, sive cum moribus subditorum leges adaptantur. Deficiunt autem, tolluntur et abrogantur, cum utentium moribus non conformantur (sic; recte confirmantur). Unde sequitur in textu, sicut enim moribus in contrarium nonnulle leges hodie abrogate sunt, ita moribus utentium ipse confirmantur. Huic autem sententie nostre applaudere videtur expositio domini Laurentii in apparatu suo, ut dicit Archidiaconus super verbo firmate. Dicit sic, firmate de facto. Nam de iure firmate sunt ab ipsa institutione, 25 q.2 Postea (c.21) et 27 q.1 Omnes feminae (forme ed.) (c.36), 8 q.2 Dilectissimi (Dictissimi ed.) (c.2)».
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che la legge trae dalla sua adeguatezza ai mores di coloro a cui la legge stessa deve applicarsi. La firmitas stabilitatis, insomma, scaturisce dal fatto che la legge sia conforme ai criteri qualitativi enumerati da Isidoro, in particolare a quelli che prevedono che la legge sia conforme alla consuetudo patriae, ai luoghi e ai tempi, in breve ai mores utentium o subditorum. L’assenza di tale conformità provoca appunto la mancanza della confirmatio utentium che, nei suoi effetti, potrebbe anche produrre l’abrogazione della legge stessa attraverso una consuetudine contraria. Nondimeno — conclude Torquemada — la confirmatio utentium si colloca sul piano della firmitas de facto, perché la firmitas de iure discende dalla promulgazione e non dipende dalla accettazione dei destinatari della legge. 3. IL PENSIERO DI TOMMASO D’AQUINO E LA SUA RECEZIONE PRESSO I CANONISTI
La dottrina della legge di Tommaso d’Aquino è tributaria del pensiero di Isidoro da Siviglia. La condivisione di questa auctoritas con i canonisti è indubbiamente una ragione della profonda sintonia che, già nel corso dei decenni immediatamente successivi alla composizione della Summa theologiae, si instaurerà tra i giuristi e il pensiero dell’Aquinate. I due pilastri della dottrina tommasiana della legge sono la ragione e la volontà, come appare da alcune chiarissime affermazioni: «ogni legge scaturisce dalla ragione e dalla volontà del legislatore: la legge divina e naturale dalla volontà razionale di Dio; la legge umana dalla volontà dell’uomo regolata dalla ragione»32. Non si tratta della volontà di un soggetto qualsiasi, ma di una persona dotata di autorità e potere. Trattandosi delle leggi umane, la loro emanazione compete ai soggetti ai quali spetta il governo della comunità; soggetti che, per la
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Iª-IIae q. 97 a. 3 co.: «... omnis lex proficiscitur a ratione et voluntate legislatoris, lex quidem divina et naturalis a rationabili Dei voluntate; lex autem humana a voluntate hominis ratione regulata». Le citazioni della Summa theologiae sono tratte dal Corpus Thomisticum (www.corpusthomisticum.org).
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loro funzione, rivestono una natura pubblica33. I due elementi — la sostanza razionale della legge e la volontà del soggetto dotato di potestà di governo — si compongono in perfetto equilibrio nella famosa definizione tommasiana della legge: essa «è niente altro che un certo ordine dato dalla ragione per il bene comune, promulgato da colui che ha la cura della comunità»34. In tale quadro dottrinale non è assente l’elemento del consenso, che emerge allorché Tommaso, trattando della consuetudine, si chiede se essa possa ottenere forza di legge o vincere la legge stessa. Al riguardo il Dottore Angelico opera una distinzione. La comunità che esprime la consuetudine può essere una libera multitudo, presso la quale il princeps non ha il potere di fare le leggi se non in quanto rappresenta la stessa multitudo: in questo caso non vi è dubbio che la consuetudine possa avere forza di legge o vincere la legge, perché il consenso della comunità prevale sull’autorità del principe, anzi è la sua fonte. Ma tale effetto la consuetudine produce anche quando non vi sia una libera multitudo: in questo caso l’effetto derogatorio o abrogativo della consuetudine discende dalla tolleranza del legislatore, che manifesta un’implicita approvazione della consuetudine stessa35. 33 Iª-IIae q. 97 a. 3 arg. 3: «Praeterea, ferre legem pertinet ad publicas personas, ad quas pertinet regere communitatem, unde privatae personae legem facere non possunt...». Ma anche Iª-IIae q. 90 a. 3 co.: «… lex proprie, primo et principaliter respicit ordinem ad bonum commune. Ordinare autem aliquid in bonum commune est vel totius multitudinis, vel alicuius gerentis vicem totius multitudinis. Et ideo condere legem vel pertinet ad totam multitudinem, vel pertinet ad personam publicam quae totius multitudinis curam habet». 34 Iª-IIae q. 90 a. 4 co.: «... potest colligi definitio legis, quae nihil est aliud quam quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata». 35 Iª-IIae q. 97 a. 3 ad 3: «Ad tertium dicendum quod multitudo in qua consuetudo introducitur duplicis conditionis esse potest. Si enim sit libera multitudo, quae possit sibi legem facere, plus est consensus totius multitudinis ad aliquid observandum, quem consuetudo manifestat, quam auctoritas principis, qui non habet potestatem condendi legem, nisi inquantum gerit personam multitudinis. Unde licet singulae personae non possint condere legem, tamen totus populus legem condere potest. Si vero multitudo non habeat liberam potestatem condendi sibi legem, vel legem a superiori potestate positam removendi; tamen ipsa consuetudo in tali multitudine
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La saldatura tra il pensiero di Tommaso d’Aquino e la dottrina dei giuristi fu rapida. Essa appare con evidenza nel commento sul Decretum di Guido da Baisio. Lo spunto è dato dalle parole del canone grazianeo (D.4 c.2) nel quale Isidoro aveva affermato che la legge deve essere scritta «per la comune utilità dei cittadini». L’Arcidiacono bolognese richiama testualmente un frammento della Summa theologiae nel quale Tommaso aveva sottolineato la relazione tra la forma della legge e la sua proportio ad finem (Iª-IIae q. 95 a. 3 co.). La legge umana è «una certa regola o misura regolata o misurata da una certa misura superiore»: misura superiore che Tommaso aveva indicato nella lex divina e nella lex naturalis. Le giuste proporzioni si hanno, dunque, quando la legge sia da un lato commisurata alla legge divina e naturale, e dall’altro sia proporzionata al suo fine, consistente nella utilità umana36. La fusione della tradizione canonica con quella filosofico-teologica appare pienamente acquisita, alla metà del Quattrocento, nei Commentaria al Decretum di Juan de Torquemada. Il commento sulla D.4 attinge, oltre che al pensiero di Tommaso d’Aquino, alle fonti della filosofia greca e latina (Aristotele e Cicerone) e dei Padri della Chiesa (Agostino). Da questo patrimonio culturale Torquemada deriva una concezione della legge umana che non è (non può essere) praevalens obtinet vim legis, inquantum per eos toleratur ad quos pertinet multitudini legem imponere, ex hoc enim ipso videntur approbare quod consuetudo induxit». 36 GUIDO DA BAISIO, Comm. in D.4 c.2, v. conscripta (ed. cit., fogli non numerati): «... Ad hoc dicendum est secundum Tho(mam) quod uniuscuiusque rei que est propter finem necesse est quod forma determinetur (detinetur ed.) secundum suam proportionem ad finem, sicut forma serre talis est qualis convenit sectioni. Quelibet enim res recta et mensurata oportet quod habeat formam proportionalem sue regule et mensure. Lex autem humana habet utrumque, quia est et aliquid (aliud ed.) ordinatum ad finem, et est quedam regula vel mensura regulata vel mensurata quadam superiori mensura: que quidem est duplex, scilicet lex divina et lex nature, ut patet ex supra positis. Finis autem humane legis est utilitas hominum, et ideo Ysidorus in conditione legis supra ead. dist. I Consuetudo primo quidem tria posuit, scil. quod religioni congruat, in quantum est proportionata legi divine; secundo quod discipline conveniat, in quantum est proportionata legi nature; tertium quod saluti proficiat, in quantum est proportionata utilitati humane. Et ad hec tria omnes conditiones quas in hoc capitulo ponit Ysidorus reducuntur...».
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il frutto di una volontà svincolata da regole superiori. Sulla scia di Tommaso, il teologo spagnolo afferma che la legge umana non può essere una regula prima, cioè autogiustificantesi, ma deve piuttosto essere una «regola regolata e misurata da una certa altra regola superiore». Quest’ultima, come si è detto, è duplice, e consiste nella legge divina e nella legge naturale37. La legge umana, dunque, deve essere anzitutto conforme alla religione (honesta) e alla recta ratio (iusta), senza di che sarebbe corruptio legis38. La sostanza della legge si speci37
TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 59v-60a, n. 2): «... Sciendum est primo, quod cum lex humana non possit esse regula prima simpliciter, oportet quod sit regula regulata et mensurata quadam alia regula superiori. Omnis autem res, que ad alia cepit rectitudinis sue normam ad hoc, quod actu sit recta, oportet formam habere proportionabilem sue regule. Superior autem regula, que est mensura legis humane, est duplex, scilicet lex divina et lex nature». 38 La conformità della legge o più in generale della norma giuridica alla ratio — la sua rationabilitas, secondo la terminologia medievale — discende, in linea generale, dal rispetto dei criteri elencati da Isidoro in D1 c.5 e D.4 c.2. Per esempio, non potrebbe dirsi rationabilis una legge contraria al bene comune, o all’equità, o ai precetti della religione. Questo problema è generalmente affrontato dalla dottrina canonistica con specifico riguardo alla norma consuetudinaria. Il cap. Quum tanto di Gregorio IX (X.1.4.11) aveva individuato i requisiti essenziali della consuetudine nella conformità al diritto naturale, nella legitima praescriptio, nella sua rationabilitas. A queste condizioni la consuetudo può derogare alla legge o anche abrogarla: «Quum tanto sint graviora peccata, quanto diutius infelicem animam detinent alligatam, nemo sanae mentis intelligit, naturali iuri, cuius transgressio periculum salutis inducit, quacunque consuetudine, quae dicenda est verius in hac parte corruptela, posse aliquatenus derogari. Licet etiam longaevae consuetudinis non sit vilis auctoritas, non tamen est usque adeo valitura, ut vel iuri positivo debeat praeiudicium generare, nisi fuerit rationabilis et legitime sit praescripta». A partire dal secolo XIII la giurisprudenza si interrogò su quali dovessero essere i requisiti della consuetudine perché potesse dirsi rationabilis. Dalle analisi dei giuristi emerge l’idea che non basta la conformità della consuetudine al diritto divino naturale e positivo, poiché si ritiene necessario che essa non sia «contra nervum ecclesiastice discipline sive libertatem» (BERNARDO DA PARMA, Apparatus in X.1.4.11, v. rationabilis), cioè contro i principî fondamentali dell’ordinamento giuridico della Chiesa e i principî generali della materia sulla quale la consuetudine viene a incidere (l’espressione è tratta da X.1.4.5: «ex tali consuetudine... disrumperetur nervus ecclesiasticae disciplinae»). In genere i canonisti manifestano la convinzione che non possa enunciarsi un criterio generale per giudicare della rationabilitas della norma consuetudinaria, ma che spetti all’arbitrium iudicis accertarla nei casi concreti (così già in ENRICO DA SUSA,
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fica, inoltre, secondo le ulteriori qualità indicate da Isidoro da Siviglia (D.4 c.2). L’importanza che l’autore attribuisce alle qualità sostanziali della legge è sottolineata con efficacia là dove egli parla della lex iniqua: essa non può essere detta propriamente legge, perché la legge che manca della rectitudo rationis è analoga a un uomo morto. Insomma, l’equità è per la legge ciò che l’anima è per l’uomo: la forma substantialis39. O ancora, si pensi alla qualifica di lex perversa et tyrannica che egli attribuisce alla legge emanata non per l’utilità comune ma per quella privata del legislatore stesso40. Accanto a questa enfatizzazione della dimensione sostanziale della legge, in parallelo Torquemada pone bene in luce che per la validità della legge si richiede che essa sia emanata da un soggetto avente autorità e potere, senza di che essa non avrebbe alcuna forza obbligatoria41. Si ripresenta, pertanto, il binomio tra ragione e autorità che, sin dal tempo di Graziano, aveva caratterizzato la dottrina canonistica. Lectura in X.1.4.10, v. consuetudines). Tutt’al più, il giudice potrà informare la sua coscienza sulle indicazioni elaborate dalla dottrina. In questo senso si veda, per esempio, ANTONIO DA BUDRIO, Repetitio in X.1.4.11, n. 14 (Super prima primi Decretalium Commentarii, Venetiis, apud Iuntas 1578, f. 80rb): «Sed dubium est, quando dicatur rationabilis consuetudo… Et Archidiaconus... dicit de hoc non posset certam dari doctrinam, sed hoc arbitrarium est quando dicatur rationabilis et quando non. Et dicunt quod iudex informabitur per casus similes, in quibus a iure consuetudo approbatur. Et propter hoc forte magnam posuerunt casuum multitudinem, ad quos posset recurrere iudex pro informatione». 39 TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 60b, n. 7): «… dicendum quod lex iniqua non est proprie lex dicenda sicut nec homo mortuus dicendus est simpliciter homo, quia sicut homo mortuus caret anima, que erat forma substantialis eius, qua formaliter erat homo: ita lex iniqua caret rectitudine rationis et prudentia, qua aliqua constitutio simpliciter censetur nomine legis…». 40 TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 60a, n. 3): «Ultimo, cum lex ordinatur ad bonum commune, non debet ad commodum alicuius privati sed pro omnium communi utilitate conscribi, aliter enim lex non potest esse recta et regalis, sed perversa et tyrannica. Quia sicut rex differt a tyranno, quia rex dicitur, qui recte agit, et intendit bonum commune, tyrannus vero qui perverse principatur, et intendit proprium et privatum commodum, sic lex recta et regia dicitur, in qua intenditur bonum commune, lex vero tirannica et perversa, in qua proprium…». 41 TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 60a, n. 3): «Sed tertio requiritur ad hoc quod lex sit valida quod emanet ab habente authoritatem condendi eam; alias nullius
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La valutazione della legge, dunque, deve avvenire sulla base dei due criteri menzionati (ragione e volontà). Potrebbe darsi, tuttavia, che un soggetto dotato di potestà produca una legge mancante delle qualità indicate da Isidoro in D.4 c.2. Per i canonisti il problema più grave si pone, come è comprensibile, quando si tratti di valutare la legge emanata dal papa. Torquemada non esita ad affrontare un problema, che, al suo tempo, aveva tormentato generazioni di teologi e giuristi e aveva da poco trovato una soluzione (molto problematica, per la verità) nel decreto Haec sancta del Concilio di Costanza (1415), che aveva affermato la superiorità del Concilio generale sul Papa. Ma non è su questo punto che intendo soffermarmi. In questa sede merita un approfondimento quanto Torquemada scrive ponendo la questione «se, nella produzione della legge, quando tutti i vescovi siano contrari nel sinodo, la decisione del papa prevalga su quella dei vescovi presenti»42. La risposta di Torquemada è coraggiosa, e potrebbe anche sorprendere quando si pensi al Torquemada che, con la Summa de Ecclesia, passa per essere, e non a torto, uno dei massimi teorizzatori della monarchia papale. Per questo la sua risposta appare tanto più significativa, autentica espressione di una tradizione canonica e teologica che si rifiuta di pensare alla legge come atto di una volontà priva di vincoli. Secondo Torquemada, la volontà del papa, cioè del titolare dell’ufficio che si trova all’apice della gerarchia ecclesiastica43, prevale su quella di chiunque altro lo contraddica, quando la sua legge sia esset roboris ac firmitatis, quoniam nullam vim obligandi sui observantiam lex habet, nisi ab habente potestatem in re illa, de qua lex constituitur et emanat». 42 Il tema è trattato da TORQUEMADA nel Comm. in D.4 (ed. cit., p. 62a-b e 63a): «utrum in condenda lege, contradicentibus omnibus episcopis in synodo prevaleat sententia pape sententie assistentium episcoporum». 43 Sebbene il papa non abbia l’obbligo giuridico di consultare i cardinali nelle questioni difficili, Torquemada ne ravvisa il dovere sul piano della morale e dell’utilità che ne scaturisce per la Chiesa. TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 63a, n. 4): «… Papa potest sine cardinalibus quicquid cum cardinalibus potest. Honestissimum tamen est et reipublice christiane saluberrimum, ut ardua negotia sine eorum concilio (sic: consilio?) non ageret, cum etiam ad hoc plurimum authoritatis conferret rebus agendis».
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dotata di tutte le qualità indicate da Isidoro nel celebre capitolo grazianeo (D.4 c.2). Tale prevalenza è fondata da un lato sulla superioritas authoritatis del papa quale vicarius Christi, dall’altro sulle qualità intrinseche della legge44. Qualora, invece, la legge papale 44 TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 62a-b, n. 1-2): «… respondeo dicendum, quod si papa constituat leges aliquas habentes qualitates illas in superiori capitulo, Erit autem lex, descriptas, puta, quod sit honesta, iusta, possibilis, et sententia pape preferenda est omnium aliorum contradicentium sententie et iudicio. Ratio apertissima est, et colli<gi>tur ex duobus. Primo ex superioritate authoritatis, qua in Ecclesia (utpote generalis Christi vicarius) preeminet universis, cuius precepta omnes servare tenentur… Secundo ex ipsa legum qualitate, que talis esse ponitur, qua religioni congruat, discipline conveniat, et proficiat saluti... Si vero contingat, quod lex posita a domino Papa, sive constitutio, non habeat qualitates predictas, sed contrarias, recipienda non est, ut puta: primo si non sit honesta, utpote non conveniens religioni sive fidei christiane, ut si constitueretur aliquid, aut reformare vellet, quod manifeste contra fidem esset, iudicio et sententia episcoporum magis standum esse iuxta c. Anastasius, dist. 19 et c. Si papa, dist. 40. Item secundo, si lex aut constitutio Pape esset iniusta, ut puta contra ius naturale, recipienda non esset, unde dist. 10 cap. Constitutiones dicitur quod constitutiones ecclesiastice, vel seculares, si natura<li> iuri contrariari probantur, penitus sunt excludende. Tertio, si (sic ed.) constitutio papalis non esset possibilis, et hoc sine respectu potestatis sue, quia excederet facultatem potestatis sue, ut puta si vellet dispensare in prohibitis lege divina, vel tollere sacramenta, vel mandata Dei, quod non potest facere. Tum, quia sunt ecclesie fundamenta, tum quia inferior non potest tollere legem superioris, sive etiam sit impossibilis ex parte subditorum, ut si vellet constituere aliqua, que non convenirent moribus et consuetudinibus subditorum, hoc modo intelligenda est glosa in presenti c. que dicit quod cum papa vult condere canones, episcopi possunt contradicere, et dicere: canon iste non convenit consuetudini regionis nostre, de quo exemplum habemus in statuto de continentia non recepto ab episcopis orientalis Ecclesie, ut in c. Nicena (Vicena ed.), dist. 31. Quarto, si lex et constitutio pape non sit necessaria, id est expediens reipublice, ut si vellet tollere illud commune privilegium omnium clericorum, <c.> Si quis suadente, lex non esset recipienda, ut notat dominus Antonius de Butrio de consuetudine (conspe. ed.) c. Quanto. Quinto, si lex Pape sive constitutio non esset utilis reipublice, sed nociva, non esset etiam recipienda, ut si vellet omnes episcopos orbis deponere, ut not. in glosa in c. Per principalem 9 q.3. Sexto, si lex sive constitutio pape ita pro privato commodo ferretur, ut status ecclesie decoloraretur, ut puta si vellet instituere quod posset successorem sibi eligere, ut not. glosa 8 q. 1 § his omnibus. Septimo, si lex pape non pro communi utilitate Ecclesie conscriberetur, sed magis in eversionem eius, non esset talis lex recipienda, utputa si contra universalem statum ecclesie vellet aliquid instituere, aut destituere ea quibus universalis status ecclesiasticus firmatur et stabilitatur…».
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manchi delle qualità indicate da Isidoro, essa — afferma Torquemada — «non deve essere ricevuta» («recipienda non est»). Il contesto tematico è tale da far pensare, secondo la tradizione che lo aveva preceduto, che la «non recezione» comporti una trasgressione non colpevole della legge stessa, come aveva in principio affermato Graziano. Una puntuale esemplificazione aiuta a comprendere il senso dell’affermazione di Torquemada. Si immagini una legge non honesta, cioè non conveniente alla religione, con la quale il papa voglia stabilire qualcosa contrario alla fede. Oppure una legge iniusta, perché contraria al diritto naturale. O una legge non possibilis, in quanto eccedente la potestà del Sommo Pontefice: se, per esempio, questi volesse dispensare nelle materie proibite dal diritto divino, o abolire un sacramento; oppure una legge non possibilis ex parte subditorum, in quanto volesse stabilire una norma non conveniente con i costumi e le consuetudini di una comunità: e qui l’esempio è quello tralatizio della legge sul celibato dei chierici non recepita nella Chiesa orientale45. Si pensi, ancora, a una legge non necessaria, perché non giovevole alla res publica, come quella che intendesse abolire un privilegio clericale. O a una legge non utilis, ma piuttosto nociva, come quella con la quale il papa volesse deporre tutti i vescovi del mondo. O, ancora, a una legge emanata per un comodo privato e lesiva dello status Ecclesiae, come quella con la quale il papa volesse stabilire di diritto scegliere il proprio successore; o, infine, a una legge eversiva dell’ordine ecclesiastico46. Torquemada è assolutamente chiaro nel giustificare le proprie conclusioni: se, nei casi elencati, i vescovi possono contraddire il papa, ciò avviene non «ex maioritate authoritatis, sed ex ipsa mala qualitate legis»47. O, come spiega più 45
L’esempio è presente anche in un altro passo del Comm. in D.4, precisamente a margine del v. loco di D.4 c.2 (ed. cit., p. 62a, n. 11): «Loco: quia in aliquibus locis aliqua statuuntur, que alibi non reciperentur, ut de continentia clericorum orientalium et occidentalium, ut dist. 31 Nicena (Vicena ed.) et c. Aliter…». 46 Il riferimento di TORQUEMADA è alle discussioni dei canonisti sui casi trattati in X.5.39.8 e C.25 q.1 c.3. 47 TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 63a): «…. ex hoc quod episcopi possint contradicere Pape volenti instituere legem aliquam non convenientem religioni eorum, non sequitur propter hoc quod ipsi authoritate sint Papa superiores, aut
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oltre, la superiorità del sinodo — eventualmente anche in materia di fede — si fonda sulla sua maioritas iudicii discretionis, non su una maioritas potestatis iurisdictionis48. A sostegno di tale affermazione Torquemada allega un noto passo della Lettera ai Galati, nel quale Paolo ricordava che ad Antiochia si era opposto «a viso aperto» a Pietro, «poiché egli era degno di essere rimproverato» per l’atteggiamento tenuto nella controversia tra i giudeocristiani, i quali sostenevano che i pagani venuti al cristianesimo dovessero essere circoncisi, e quanti invece ritenevano che i Gentili non dovessero essere sottoposti a tale precetto della legge mosaica49. Paolo giustificava la sua opposizione per il fatto che Pietro e i suoi seguaci non avevano camminato «rettamente secondo la verità del Vangelo». Nel contesto del discorso di Torquemada l’utilizzazione del passo paolino è evidentemente finalizzata a provare che l’autorità, quando non sia fondata sulla verità, deve cedere di fronte alla forza della verità stessa. maiores. Quod enim contradicere possint huiusmodi subditi suo superiori non est ex maioritate authoritatis, sed ex ipsa mala qualitate legis, que cum regioni aut moribus subditorum non conveniat, rationabiliter subditi, quantumcunque inferiores, possunt contradicere legislatori dicentes, hec lex non convenit regioni nostre». 48 In un passo nel quale tratta provvisoriamente una materia che dichiara di avere in animo di approfondire in una successiva opera (sarà la Summa de Ecclesia). TORQUEMADA, Comm. in D.4 (ed. cit., p. 63a): «... glosa illa dicens quod, cum materia fidei ventilatur, synodus maior sit quam papa (Giovanni Teutonico, App. in D.19 c.9, v. concilio), loquitur de maioritate iudicii discretionis et non de maioritate potestatis iurisdictionis. Non dubium autem, quod ubi de fide agitur synodus sive conventus patrum adunatorum maior sit maioritate iudicii discretionis, quam ipse papa solus. Et ideo ubi papa aliquid contra fidem instituere vellet, synodus ei contradicere posset et deberet: unde Paulus resistit in faciem Petri ad Gal. 2, unde nobis videtur quod in dubiis, que circa fidem oriuntur, magis standum esset iudicio omnium episcoporum simul in synodo aggregatorum, quam iudicio solius Pape, sed de hoc, duce Deo, in alio loco plenius dicere intendimus». 49 Lettera i Galati 2.11 ss.: «Cum autem venisset Cephas Antiochiam, in faciem ei restiti, quia reprehensibilis erat. Prius enim quam venirent quidam ab Iacobo, cum gentibus comedebat; cum autem venissent, subtrahebat et segregabat se, timens eos, qui ex circumcisione erant. Et simulationi eius consenserunt ceteri Iudaei, ita ut et Barnabas simul abduceretur illorum simulatione. Sed cum vidissem quod non recte ambularent ad veritatem evangelii, dixi Cephae coram omnibus: “Si tu, cum Iudaeus sis, gentiliter et non Iudaice vivis, quomodo gentes cogis iudaizare?”.
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4. CENNI SU ULTERIORI ITINERARI DELLA SCIENZA CANONISTICA La distinzione tra firmitas de iure e firmitas de facto — introdotta, come si è visto, da Lorenzo Ispano e condivisa da Guido da Baisio e da Torquemada — consentiva da un lato di salvare il principio di autorità, ma dall’altro non escludeva che i mores dei destinatari della legge potessero, in linea di fatto, incidere sull’effettivo vigore della legge. Per completezza è bene accennare che il dictum grazianeo post D.4 c.3 fu comunque oggetto di ulteriori letture, alcune delle quali idonee a rompere l’equilibrio che la scienza canonistica aveva faticosamente raggiunto con la citata distinzione. Una ulteriore intepretazione che cercava di comporre il principio gerarchico con il ruolo recettivo della comunità fa capo a Domenico da San Gimignano († 1424). Secondo il quale l’approbatio utentium sarebbe una condizione affinché la legge assuma obbligatorietà in forza di una presunzione: non sarebbe verosimile che il legislatore abbia voluto obbligare i sudditi prescindendo dalla loro recezione della legge50. Questa dottrina, in sostanza, tiene fermo il principio che l’obbligatorietà della legge dipende dalla volontà del legislatore: una volontà, come si è detto, sottoposta a condizione. Tale interpretazione godette di una certa fortuna presso i canonisti e i teologi morali. In ragione del principio che la legge giusta obbliga in coscienza, sia i giuristi che i teologi affermavano che l’inosservanza della legge costituisce, di regola, anche un peccato. La teoria di Domenico da San Gimignano aveva la conseguenza di escludere che i sudditi commettano peccato quando non osservino una legge non ricevuta nell’uso o non confermata dai mores utentium. Questa è, per esempio, la conclu-
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DOMINICUS A SANCTO GEMINIANO, Super Decretorum volumine Commentaria, Venetiis, apud Iuntas, 1578, ad D.4, dictum post. c.3, n. 5, f. 11rb: «non enim est verisimile, quod Princeps velit eos ligare, ex quo moribus utentium non approbatur, quia videtur statuere a principio sub tali condicione, scil. si moribus utentium approbatur, ut hic patet, et sic habet dissuetudo saltem tacitum consensum Principis, qui fecit (sic: da espungere) legem condendo ipsam fecit subiectam tali condicioni, ergo non servantes non dicuntur venire contra praeceptum superioris».
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sione che ne trae Martín de Azpilcueta tanto nel Manuale confessariorum51 quanto in un noto consilium52. Un’altra linea intepretativa era portata ad attribuire al dictum grazianeo significati ben più radicali. Sin dal primo Trecento ci si imbatte nell’idea che l’approbatio moribus utentium fosse, invece, una condizione necessaria per il venire in essere della legge stessa. È quanto afferma Matteo da Roma nel proemio dell’Apparatus sulle Clementinae (ca. 1320)53. Questa lettura del pensiero grazianeo avrà 51 Enchiridion sive manuale confessariorum et poenitentium… auctore MARTINO AZPILCUETA Doctore Navarro, Venetiis, apud Dominicum de Farris, 1593, Cap. XXIII, tit. de inobedientia, septima filia vane glorie, n. 40-41, f. 216rb: «Dicendum secundo, peccare, primo qui transgreditur legem humanam iustam, promulgatam, et receptam, et non abrogatam, obligantem ad mortale sine iusta ignorantia id causante, aut alia iusta causa, aut dispensatione valida, elapso tempore, quod ad obligandum requiritur... Dixi legem humanam, et non canonicam, quia etiam contra secularem potest mortaliter peccare... Dixi iustam, quia iniusta non obligat, qualis est facta a non habente potestatem... aut principaliter ob utilitatem privatam, non autem publicam, secundum S. Thom. 1. 2. quest. 90 ar. 3, aut contra divinam, naturalem, aut supernaturalem, cap. Erit autem lex 4 dist., et subditis est inequalis, c. Cum omnes de cost. et Panorm. recep. in cap. I eod titulo. Dixi promulgatam, quoniam lex ante promulgationem non obligat… Dixi receptam quia antequam recipiatur, saltem per maiorem partem universitatis, cuius pars est transgressor, non ligat, quoniam promulgari videtur cum conditione, si recipiatur, saltem per maiorem partem, ut singulariter dixit Dominicus in dicto cap. Leges, per recentiores receptus…». 52 D. MARTINI AZPILCUETAE Navarri... Consiliorum seu responsorum, in quinque libros, iuxta numeros et titulos Decretalium, distributorum, tomi duo, Venetiis, apud Iuntas, 1593, Liber I, de constitutionibus, Consilium I, q. V, n. 23-24, p. 10a-b: «An lex non recepta liget». L’autore riprende dapprima quanto già scritto nel Manuale confessariorum, quindi aggiunge: «Secundo, quod ultra rationem positam in Manuale quare lex non recepta non obliget, videlicet quod presumitur legislator ferre illam sub conditione, si fuerit recepta, potest reddi alia, videlicet quod iusta causa excusat a peccato violationis legis humane, ut tradimus alibi (n. 43 del Manuale) post S. Thomam et Archidiaconum, et iustam causam videtur quis habere non servandi legem, quod ab aliis non servatur, nec cepit servari: cum enim lex respiciat utilitatem communem, non videtur eius lator velle unum, vel alterum ligare ad servandum, quod alii consubditi non servant, nec servare incipiunt…». 53 MATTEO ROMANO, Apparatus super Clementinis, bolla di promulgazione Quoniam iuris, v. edidit [Halle, UB Ye 29, edito da DE LUCA L., L’accettazione popolare della legge canonica nel pensiero di Graziano e i suoi interpreti, in Studia Gratiana 3 (1955) 193-276, ora in ID., Scritti vari di diritto ecclesiastico e canonico,
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fortuna nei secoli54, in particolare nel contesto del conciliarismo e del gallicanesimo. Durante l’epoca del conciliarismo il dictum grazianeo fu utilizzato per controbilanciare le pretese monarchiche del papato di fronte al ruolo del concilio generale quale rappresentante la Chiesa universale
Padova 1997, 271-356, in part. 275 nota 6 (Università degli Studi di Roma «La Sapienza», Pubblicazioni dell’Istituto di Diritto Pubblico della Facoltà di Giurisprudenza, serie III, 79)]: «Nota quod ad esse constitutionum tria sunt necessaria, primo quod instituantur, secundo quod promulgentur, tertio quod moribus utentium approbentur. Et si aliquid istorum deficit non potest dici constitutio, IIII dist. § Leges». 54 A giudicare da quanto riferiscono i canonisti delle successive generazioni, non sembra, tuttavia, che la teoria di Matteo da Roma sia stata condotta dallo stesso autore alle più immediate conseguenze. Si veda, per esempio, la trattazione e la soluzione di una quaestio de facto occorsa nella città di Todi come essa è riferita da FRANCESCO ZABARELLA (Celeberrimi iuris utriusque doctoris Domini FRANCISCI ZABARELLE Cardinalis Commentarii in Clementinarum volumen, Venetiis, ex Edibus Joannis et Gregorii de Gregoriis fratres, 1504, Comm. alla bolla Quoniam iuris, v. universitatis, f. 3ra): «Quero quando inceperunt constitutiones ligare… Tenent Paulus et Mattheus dicentes tria requiri ad esse legis. Primo quod instituatur, secundo quod promulgetur, tertio quod moribus utentium approbetur. Et si quid horum deficit, non est constitutio, nec potest dici, IIII dist. § Leges, per quod decidit<ur> questionem facti de quo in sequenti questione… Secundo quero… de questione facti que fuit in his terminis. Episcopus Tudertinensis fecit statutum excommunicans mulieres portantes perlas, quod a nulla muliere fuit servatum: querebatur an omnes essent excommunicate. Quod non inducitur IIII. dist. In istis et c. sequens, que probant quod ad hoc ut constitutio liget debet esse recepta moribus utentium... Per quod videretur dicendum mulieres posse cogi ut reciperent et observarent constitutionem, quia statuta episcopi debent observari, de maioritate et obediendia Si quis venerit. Sed quod ante receptionem non servantes non incidissent in penam. Ipse tamen Mattheus decidit contrarium, dicens quod quoad penam expressam in constitutione, ut in casu nostro, ipso facto inciderunt tamquam incidentes in factum dannatum, pro hoc dicto c. Si quis et de locato Vestra, de constit. c. II Lib. VI, XI dist. Catholica; sed quoad penam que mandaretur infligi per constitutionem (cioè se la norma non osservata prevedesse una pena cd. ferende sententiae), dicit procedere c. In istis. Dic melius, quod cum queritur de receptione legis videndum est an sit talis abusio que inducat consuetudinem... Et dic non receptionem legis tunc excusare non recipientes quando per consuetudinem contrariam est non recepta, quam consuetudinem generalem princeps scit et tolerat. Ita loquitur in c. Istis et sequens, alias non usus seu non receptio indistincte nihil operant…».
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(si pensi a Jean Gerson55 o al Nicola Cusano della Concordanza cattolica56). Nel quadro del gallicanesimo, che si nutriva delle acquisizioni dottrinali del conciliarismo, il principio che la legge deve essere recepita da parte della comunità divenne uno strumento politico in funzione antiromana e al servizio dell’idea di una Chiesa nazionale autonoma (le libertà della Chiesa gallicana) e governata da un re «cristianissimo», «protettore» e «patrono della Chiesa nel proprio
55 JEAN GERSON, Tractatus de potestate ecclesiastica et de origine juris et legum, in JOANNIS GERSONII… Opera omnia… opera est studio M. LUD. ELLIES DU PIN, tomus II, Antwerpiae, Sumptibus Societatis, 1706, coll. 225 e ss., in particolare 232, dove prende spunto dal decreto Haec sancta del Concilio di Costanza e prosegue: «Ecclesia potest condere leges obligantes et regulantes etiam ipsum Papam tam quoad personam quam respectu usus potestatis. Non sic econtra potest papa iudicare totam Ecclesiam, vel usum suae potestatis limitare; immo si papa condat leges et canones, videtur observandum illud quod dicit Augustinus: ‘leges instituuntur cum promulgantur, firmantur autem cum moribus utentium approbantur’. Hoc enim dicitur ad reprimendum presumptionem quorumdam summorum Pontificum vel eis adulantium, qui videntur voluisse debere servari pro regula immutabili de Papa respectu cuiuslibet provincie vel totius Ecclesie: Quod placuit principi legis habet vigorem, quasi nullum superesset examen supremum». Ma la prospettiva di Gerson è più generale, come dimostra il seguente passo tratto dal Liber de vita spirituali animae, lectio IV, coroll. XIII, in Opera omnia, cit., III, col. 46. Qui Gerson prende spunto dalla descrizione delle qualità delle legge secondo Isidoro da Siviglia (D.4 c.2): «Ex his liquido constat quam temerarium est et iniquum velle omnia decreta sive ecclesiastica sive civilia ad omne tempus, ad omnem gentem et patriam extendere, quoniam lex que pro uno tempore et loco aut personis esset utilis, esset in aliis tempore, loco et persone impossibilis aut damnosa; immo velle sic omnia statuta stabilire, hominum est delirantium, et quasi contendentium ut opposite leges simul observentur. Hic fundant se qui dicunt non ita expedire unum imperatorem dominari omnibus civiliter, sicut unum papam spiritualiter: quoniam lex fidei una est apud omnes, non ita leges fori. Preterea positum est in Decretis, dist. IV, quod “Leges instituuntur cum promulgantur, firmantur cum moribus utentium approbantur”. Igitur per argumentum a contrario sensu: si moribus utentium nequaquam approbantur, ille nullum habent firmamentum, et ita populus habet multum in sua potestate dare robur legibus aut tollere, presertim ab initio». 56 Si veda in particolare De concordantia catholica II.9, §§ 101, 102; II.10, § 103; II.11, § 105: De concordantia catholica, ed. G. KALLEN, 4 vol., Leipzig-Hamburg 19591968, II, 136-141 (Nicolai de Cusa Opera Omnia, XIV.1-4).
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Regno»57. Pertanto, gli autori gallicani sono soliti affermare, in generale, che l’obbligatorietà delle leggi dipende sia dalla promulgazione che dalla loro recezione e messa in uso nelle diverse province in cui si articola la Chiesa58. In particolare, delle leggi promulgate a Roma si dice che non possono avere applicazione in Francia quando portino pregiudizio alle libertà e ai privilegi del Regno, dei quali sono garanti il sovrano e i vescovi59. 5. SVILUPPI IN ETÀ MODERNA: LA «SUPPLICATIO PRINCIPIS» I casi della legge contraria al diritto divino positivo o naturale, o alla fede, o eversiva dell’ordine ecclesiastico — per richiamare la 57
Questi gli appellativi riservati a Enrico IV da Pierre Pithou (1538-1596), nella lettera dedicatoria del Traité de l’Eglise gallicane: «Roy tres-Chrestien, premier fils et protecteur de l’Eglise, e particulierement estant patron de celle de vostre Royaume, y avez le premier et principal interest...» (PIERRE DUPUY, Commentaire sur le traité de l’Eglise gallicane de Maistre Pierre Pithou advocat en la Cour de Parlement, Paris, chez Sebastien Cramoisy et Gabriel Cramoisy, 1652, Epistre au Roy-tres-chrestien, fogli non numerati). 58 CLAUDE FLEURY, Institution au droit ecclesiastique, Paris, chez Herissant fils, 1771, t. I, chap. II, 45 s.: «Les constitutions des papes sont aussi des lois qui obligent tout l’église, quand elle soint accéptées par les évêques, et publiées dans leur dioceses, ou reçues par un usage constant; et généralement, on n’est point obligé d’observer les lois écrites, qui demeurent notoirement sans exécution». 59 Nell’articolo XVII delle Libertà della Chiesa gallicana PITHOU aveva specificamente avuto riguardo alla bolla In coena domini, affermando che essa non può avere effetto in Francia, nonostante sia pubblicata ogni anno dal Papa, in pregiudizio delle libertà del regno e dei privilegi della Chiesa gallicana. PIERRE DUPUY (1582-1651) così commenta: «Pour parler plus particulierement du point qui est touché cy-dessus de la publication des bulles qui se fait en Cour de Rome, il faut considerer que deux choses sont requises pour faire que les loix tant ecclesiastiques que civiles soient observée. Premierement qu’elles soient legitimement publiées, et puis qu’elles soient receuës et mises en usage... Mais pour le regard des loix ecclesiastiques qui se publiént en Cour de Rome, il y en a qui tiennent qu’il suffit qu’elles soient publiées à Rome, pour faire loy par tout où le Pape est reconnu. Ce sont les docteur Italiens qui sont de cét advis. Mais les autres, comme Panorme, les François, les Allemans et les Espagnols, et Caietan mesme qui estoi Cardinal, tiennent que la publication des loix ecclesiastiques doit estre faite dans les Provinces, et que ce qui se fait à Rome ne suffit pas (Commentaire sur le traité de l’Eglise gallicane, cit., 90).
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casistica di Torquemada — costituivano certamente delle ipotesi estreme. Da tempi risalenti la preoccupazione dei giuristi era piuttosto quella di verificare quale strumento potesse essere utilizzato nel caso in cui la legge non fosse, secondo lo schema isidoriano, adeguata alle consuetudini locali o alle esigenze dei tempi o dei luoghi60. Nonostante l’accento posto dalla dottrina sulle qualità sostanziali della legge, rimaneva il problema teorico di come opporsi alla volontà del soggetto, Papa o Imperatore, che è posto all’apice della gerarchia di governo. In età moderna queste problematiche trovarono nell’opera di Francisco Suárez una sistemazione che, come è facile immaginare, avrebbe goduto di amplissima autorevolezza nei tempi a venire. Suárez affronta la questione in un capitolo nel quale si chiede «se la legge canonica obblighi i fedeli prima che sia accettata»61. Come si vede, la domanda è posta secondo un paradigma che rinvia allo schema grazianeo dell’accettazione della legge da parte dei mores utentium. L’intera trattazione suareziana, del resto, è condotta mettendo a frutto il patrimonio dottrinale della scienza canonistica medievale. La risposta di Suárez pone in primo piano il principio di autorità62. La legge adeguatamente promulgata dal Sommo Pontefice 60 Il problema era stato chiaramente posto da GIOVANNI TEUTONICO nella glossa ordinaria al Decretum (circa 1215), D.4 c.3, v. iudicent, Romae, In Aedibus Populi Romani, 1582: «Cum ergo papa vult condere canones, episcopi possunt contradicere, et dicere: canon iste non convenit consuetudini regionis nostre, ut supra cap. proximo (D.4 c.2). Sed nunquid potius stabitur sententie apostolice, vel omnium episcoporum? Videtur quod omnium episcoporum, quia orbis maior est urbe, ut 93 dist. legimus. Arg. quod sententia pape prevalet, 35 q.9 Veniam. Nam etiam error principis ius facit, ut ff. de sup. leg. l. 3 in fine. Dicas quod sententie pape stabitur contra omnes, 9 q.3 Nemo et c. Cuncta, nisi contra fidem diceret, 25 q.1 Sunt quedam». 61 FRANCISCO SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, utrum lex canonica obliget fideles priusquam ab eis acceptetur: R.P. FRANCISCI SUAREZ e Societate Jesu Opera omnia, editio nova a CAROLO BERTON… accurate recognita, t. V, Parisiis, apud Ludovicum Vivès, Bibliopolam Editorem, 1856, 395-399. 62 Tra parentesi, ritengo che Suárez non possa essere fatto passare sic et simpliciter come un fautore del volontarismo, come si suole dire per distinguerlo da Tommaso d’Aquino e per farne un antesignano di teorie della norma che, a mio avviso, non appartenevano al suo universo culturale. Sia pure con una diversa accentuazione, credo che Suárez mantenga l’equilibrio tra ragione e volontà che contraddistingue il
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è dotata di forza obbligatoria: il papa è vicario di Cristo, dal quale ha ricevuto il potere di operare validamente ed efficacemente senza vincolo di dipendenza dal consenso del popolo63. Da questo principio fondamentale discende che la trasgressione volontaria delle leggi papali è un atto colpevole, ma qui l’autore introduce un’importante precisazione. L’obbligazione della legge sorge sul presupposto che la legge sia giusta e sufficientemente promulgata. La legge evidenter iniusta, invece, è priva di obbligatorietà64. Sulla base degli sviluppi del
pensiero dell’Aquinate. A questo riguardo ritengo chiarissime alcune affermazioni contenute nel De legibus ac Deo legislatore, Libro I, Caput V, Utrum lex sit actus intellectus vel voluntatis, et quisnam ille sit? (ed. cit., p. 17 ss.). In particolare, n. 22 (p. 22a), dove tira le somme della questione se la legge sia atto dell’intelletto, o della volontà, o di entrambi, afferma che le diverse opinioni sono tutte probabiles. Limita la sua risposta alla legge umana positiva: «de lege posita per voluntatem alicuius superioris. De qua certum est, vel constare ex actu rationis et voluntatis, vel certe non esse sine utroque: ita ut si est alter illorum tantum, ab altero nihilominus intrinsece pendeat». Nel successivo n. 24 (p. 22b), ritiene che l’affermazione che la legge è atto della volontà è conclusione meglio difendibile, ma precisa: «Legem esse actum voluntatis melius intelligi et defendi asseritur. Unde addo tertio, spectando ad rem ipsam melius intelligi, et facilius defendi, legem mentalem (ut sic dicam) in ipso legislatore esse actum voluntatis iustae et rectae, quo superior vult inferiorem obligare ad hoc vel ad illum faciendum». Dove è essenziale la precisazione che la volontà del legislatore, per dirsi legge, deve essere giusta è retta, perché, come aveva precedentemente detto nel n. 23, «ad legem non sufficere voluntatem principis, nisi sit iusta et recta, et ideo debere oriri ex recto iudicio». Dunque, anche in Suárez si manifesta quell’equilibrio tra volontà e ragione che caratterizza la dottrina di Tommaso d’Aquino. 63 SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, n. 2 (ed. cit., p. 395 s.): «Pontifex posse obligare Ecclesiam ad acceptandas suas leges sufficienter promulgatas, ex eo: Quodcumque ligaveris. Dico vero primo: Pontifex potest obligare Ecclesiam ad acceptandum leges canonicas a se latas, et sufficienter promulgatas. Idemque est cum proportione de Episcopis... Hinc ergo concludimus Christum ita dedisse hanc potestatem vicario suo, ut per se posset valide et efficaciter operari sine dependentia a consensu populi; ergo per illam potest ferre leges habentes efficaciam et valorem ad obligandum Ecclesiam ad consentiendam et acceptandam legem, vel praeceptum». 64 SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, n. 4 (ed. cit., p. 396): «Secunda conclusio. Non carere culpa qui incipiunt non observare leges pontificias. Secundo dicendum est, supposita iustitia legis canonicae, per se loquendo, oriri ex illa obligationem ad acceptandum eam, ita ut non careant culpa, qui incipiunt illam non observare post sufficientem promulgationem. Dixi supposita iustitia legis, quia
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discorso, penso che qui Suárez si riferisca all’obbligazione morale di osservare la legge. La questione successiva, infatti, è se i fedeli possano indirizzare al papa una supplicatio affinché questi riconsideri, alla luce delle osservazioni ricevute, la norma promulgata65. Secondo Suárez, tale supplica è utile, conforme a ragione, provata dalla consuetudine ecclesiastica, a condizione che sia fondata su una causa ragionevole, riguardi una legge non ancora ricevuta nell’uso, e sia presentata da colui che abbia autorità sulla comunità (il pensiero corre, innanzi tutto, ai vescovi)66. A sostegno di tale conclusione Suárez allega, come autorità canonica, il capitolo Si quando tramandato dal Liber Extra di Gregorio IX67. La norma, risalente a papa Alessandro III, riguarda il caso in cui il pontefice invia a un vescovo un rescritto contenente un mandato che il destinatario pensa di non potere ragionevolmente adempiere. In tale ipotesi il vescovo potrà scrivere alla Santa Sede dichiarando per quale causa (che sia sufficiente e ragionevole) il mandato pontificio non può essere adempiuto nelle circostanze di fatto. Il cap. Si quando riguarda specificamente i rescritti papali, ma già la dottrina medievale ne aveva esteso la portata a ogni precetto, imposto da un superiore (ecclesiastico o lex evidenter iniusta, etiamsi canonica sit, non obligat, iuxta supra dicta de lege in communi...». 65 SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, n. 5 (p. 396): «Sed tunc inquiri potest, an in simili casu liceat subditis a lege ad legislatorem supplicare, et praesertim ad Pontificem. Quidam omnino negant…». 66 SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, n. 6 (ed. cit., p. 397): «Posse supplicari Papae de sua lege ab executione illius patet consuetudine. Dico tamen, si supplicatio fiat ex rationabili causa, et licite fieri posse, etiam in legibus pontificiis, et esse valde utilem, ac rationi consentaneam. Hoc a fortiori sentiunt Panormitanus, Felinus et alii in c. 1 de treuga et pace, et in dicto § Leges, et citatur Ancharr. (sic; recte Petrus de Ancharano), cons. 214, et expresse ac indistincte tam de lege civili quam de canonica id affirmat Castro, lib. 1 de Lege poenali, c. 1. Et probatur primo, quia hoc nullo iure prohibetur, imo est iuri consentaneum et rationi... Hic autem agimus de lege nondum recepta, et de supplicatione facta ex causa rationabili, et a communitate, vel nomine eius ab eo qui auctoritatem habeat…». 67 X.1.3.5, de rescriptis, c. Si quando. Un ulteriore capitolo nel quale si enuncia il medesimo principio è X.3.5.6, de praebendis, c. Quum teneamur, dello stesso Alessandro III.
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civile) a un suddito, che a prima vista deviasse dall’honestas68. La ratio sottesa a questa norma — afferma Suárez — si ravvisa non solo nei provvedimenti singolari, ma anche nelle leggi. Proprio perché la legge ha una portata generale e astratta, è possibile che essa non sia congruente con i mores dei popoli per i quali essa è emanata. Se ciò è vero in generale, tanto più lo è per le leggi canoniche che sono date per la Chiesa universale. Infatti — prosegue — «la Chiesa comprende vari regni e province, aventi vari riti e modi di vivere». Se la legge può essere conveniente al tutto, potrebbe essere però inadeguata ai mores di «uno o un altro regno, una o un’altra provincia». In questi casi è lecito e opportuno inoltrare una supplicatio, diretta a provocare una «nova declaratio pontificis»69. Suárez afferma che questa soluzione è 68 In questo senso NICOLÒ TEDESCHI, Comm. in X.1.3.5, n. 1 [NICOLÒ TEDESCHI (ABBAS PANORMITANUS), Commentaria in Decretales, Venetiis, apud Iuntas, 1582; versione elettronica su CD-ROM curata da BELLOMO B., con introduzione di PENNINGTON K., Roma 2000, f. 49va]: «Nota secundo, quod ubi preceptum principis vel superioris prima fronte deviat ab honestate, non tenetur subditus immediate parere, sed potest allegare, quare parere non debeat. Nec ex ista dilatione debet princeps turbari. Et ex hoc textu notabiliter colligitur quod officialis vel alius, cui princeps per literas suas aliquid mandat, potest non parere et scribere principi, et expectare secundam iussionem: quia quandoque princeps per nimiam importunitatem, vel per surreptionem, vel nimiam occupationem, concedit non concedenda». 69 SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, n. 7 (ed. cit., p. 397): «Deinde est hoc consentaneum cap. Si quando, de rescriptis, ubi papa declarat licitum esse, non exequi rescriptum eius, donec ipse plenius informetur, quando vera et rationabilis causa intercedit. Et simile habetur in cap. Cum teneamur, de praebendis. Nec differentia supra data satisfacit, quia eadem proportionalis ratio potest in lege intervenire. Quod patet, ratione ostendendo eamdem sententiam. Qua, eo ipso quod lex universaliter fertur, facile fieri potest ut non congruat moribus, aut dispositionibus gentium omnium pro quibus fertur, quod maxime contingere potest in legibus canonicis et pontificiis, quae pro universa Ecclesia dantur. Nam Ecclesia complectitur varia regna et provincias, habentes varios ritus, et modos vivendi. Unde, licet talis lex, regulariter loquendo, non sit disconveniens vel nimis dura pro universa Ecclesia, et ideo respectu totius non habeat locum supplicatio, nihilominus in uno vel alio regno aut provincia potest esse nimis dissentiens a moribus eius et contra consuetudines eius, quas non solent Pontifices velle mutare, nisi id exprimant, sed potius conservare, iuxta capitul. Certificari, de sepulturis; in tali ergo casu ratio postulat ut liceat supplicare Pontificem, quia scientia eius universalis non potest semper extendi ad haec particularia. Et hoc ipsum est a Pontificibus iure statutum in cap. 1 de constitutionibus,
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corroborata da una prassi ecclesiastica approvata dai Pontefici Romani: prassi che proprio nella Chiesa trova una peculiare giustificazione quando le supplicationes provengano da province o regni molto distanti da Roma, le cui consuetudini o condizioni locali potrebbero verosimilmente essere ignorate dal supremo legislatore. Durante la pendenza del ricorso e in attesa della risposta del Papa — secondo Suárez — l’applicazione della legge in questione dovrebbe essere sospesa. Ma se tale sospensione non potesse farsi senza mutare grandemente lo stato delle cose o senza pericolo di scandalo, allora la legge dovrebbe essere osservata: tuttavia, interpretando benignamente la volontà del Pontefice, in questo caso dovrebbe ritenersi che l’eventuale trasgressione della legge non comporti peccato70. Alla metà del secolo XVIII Prospero Lambertini pubblicava i tredici libri De synodo dioecesana, opera la cui autorevolezza dottrinale — attestata dalle numerose edizioni che si susseguono fino al 1806 – era ulterioremente sostenuta dall’autorità dell’ufficio ricoperto in 6; ex quo videtur colligi, absque alia supplicatione a lege pontificia, ipsam ex vi illius iuris ipso facto non obligare in simili casu; nihilominus tamen fieri potest, ut casus non sit ita clarus et certus, quin sit conveniens nova declaratio Pontificis; ergo in tali casu licita est supplicatio et iuri consentanea». 70 SUÁREZ, De legibus ac Deo legislatore, libro IV, cap. XVI, n. 8 (ed. cit., p. 397 s.): «Tempore supplicationum nil faciendum contra legem; quod si fieri non potest sine magna rerum mutatione, vel scandali periculo, tunc ex interpretatione benigna Pontificis non censetur obligare. Denique consuetudo videtur satis hanc assertionem confirmare: scimus enim ita servari in multis provinciis Ecclesiae, et Pontificibus non displicere, quando causa est rationabilis, et cum debita moderatione ac obedientia fit supplicatio. Et fortasse in legibus civilibus non tam ordinarie fit hec supplicatio, quia non sunt tam generales, et ordinarie una et eadem lex non fertur, nisi pro regno, vel provinciis in moribus civilibus multum similibus. Unde in ipsis legibus pontificiis frequentius fiunt tales supplicationes a provinciis vel regnis quae a romana sede magis distant, quia facilius possunt earum propriae consuetudines ignorari. Denique in huiusmodi casu pro tempore pro quo durat supplicatio, cavendum est omne periculum peccati. Unde, si fieri potest ut pro illo tempore nihil fiat contra legem pontificis, curandum omnino est, licet eius executio suspendatur, quia ita magis cavetur omne periculum, et eo modo paretur legi, quo commode fieri potest. Si autem non potest hoc modo suspensio executionis fieri sine magna rerum mutatione, vel periculo alicuius scandali, tunc ex benigna interpretatione voluntatis pontificis, lex censetur pro tunc non obligare, et tali declaratione prudenter facta, cessat etiam omne periculum peccati».
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dall’autore, che dal 1740 sedeva sul trono di Pietro col nome di Benedetto XIV. In un capitolo del libro IX il Pontefice dà istruzioni su come debbano comportarsi i vescovi nei confronti della Santa Sede, quando ritengano che una legge papale non sia adeguata alle condizioni delle proprie diocesi71. Benedetto XIV precisa che la questione non riguarda gli atti amministrativi singolari (peculiaria rescripta o mandata), e nemmeno le costituzioni dogmatiche concernenti la fede. Il problema si pone, invece, per le leggi disciplinari, dalle quali egli esclude ulteriormente quelle attinenti i sacri riti, le cerimonie, i sacramenti e la vita dei chierici. Le autorità dottrinali alle quali l’autore fa riferimento sono quelle di Francisco Suárez e di Paul Laymann, gesuita di Dillingen72, le cui conclusioni egli condivide e 71 BENEDETTO XIV, De synodo dioecesana, Liber IX, cap. IX, Quomodo se gerere debeant Episcopi erga Apostolicam Sedem, si quam forte Pontificiam constitutionem de aliquo disciplinae capite pro suis dioecesibus minus opportunam esse censeant (Sanctissimi domini nostri BENEDICTI PAPAE XIV De synodo dioecesana libri tredecim, I-II, Ferrariae 1760, impensis Jo. Manfrè, I, 483-489). In particolare p. 484 n. III: «Verum nonnunquam experientia demonstrat, aliquod ex huiusmodi generalibus statutis, licet plerisque provinciis, ac dioecesibus utile ac proficuum, alicui tamen provinciae, aut dioecesi opportunum non esse: id quod legislatori compertum non erat, cum ipse peculiares omnes locorum res, atque rationes perspectas habere nequeat, quemadmodum fatetur Pontifex in Cap. I de costitutionibus, in sexto. In his itaque rerum circumstantiis episcopus intelligens, Apostolicae sedis legem in dioecesi sua noxium aliquem effectum producere posse, non modo suas Romano Pontifici rationes praesentare non prohibetur, quin potius ad id omnino tenetur: ut copiose disserit Suarez lib. 4 de legibus cap. 16 num. 7, et optime ad rem prosequitur Layman notab. 1 in cap. Si quando de rescriptis. Neque Romani pontifices unquam renuerunt inferiorum rationibus aurem praebere, et, quoties has satis validas esse agnoverunt, minime recusarunt aliquas provincias, aut dioeceses a generalium Constitutionum suarum lege, quoad disciplinae genus illud, de quo nunc agimus, eximere, uti laudati auctores prosequuntur. Aliquando etiam legum ipsarum rigorem generaliter moderantes poenas adversus illarum transgressores minuerunt...». 72 Benedetto XIV si riferisce al commento di P. LAYMANN su X.1.3.5: Jus canonicum R.P. PAULI LAYMANNI, Soc. Jesu Theologi, et olim in alma episcopali academia Dilingana SS. Canonum ordinarii professoris. Opus nunc primum editum, Dilingae, Formis Academicis, Apud Ignatium Mayer, Anno Christi 1666, p. 72b, notandum I. Qui l’autore rinvia alla più estesa trattazione contenuta nella sua Theologia moralis: Reverendi patris PAULI LAYMANN e Societate Iesu SS. Theologiae Doctoris, et in Universitate Dilingana Sacrorum Canonum professoris ordinarii Theologia moralis
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rafforza. Secondo Papa Lambertini, il vescovo, il quale ravvisi che una legge pontificia possa produrre un effetto dannoso nella propria diocesi, è addirittura tenuto a presentare le proprie ragioni alla Sede Apostolica. Più che come facoltà o un diritto, Benedetto XIV concepisce dunque la presentazione della supplicatio come un vero e proprio obbligo del vescovo, scaturente dall’essere pastore di una comunità e dal dovere di provvedere al bene dei fedeli a lui affidati. A dire di Benedetto XIV, inoltre, la Sede Apostolica non ha mai rifiutato di prestare attenzione alle doglianze dei vescovi, e così talvolta ha disposto con legge di esimere alcune particolari province o diocesi dalla osservanza delle costituzioni generali; talaltra, invece, ha moderato il loro rigore diminuendo le pene per i trasgressori. 6. EPILOGO, AL MODO DI UNA CONCLUSIONE «Spigolature storiche» è il sottotitolo che ho voluto dare a questo contributo, a volere significare l’inevitabile frammentarietà dell’approccio a un tema, come quello della dottrina della legge, vasto e complesso, che percorre tutta la storia della civiltà occidentale. Nondimeno, penso che dall’itinerario percorso possa essere tratta qualche sommaria e provvisoria conclusione. La scienza canonistica ha dato un fondamentale contributo alla teoria generale della norma. Nella lunga età del diritto comune, che giunge alle soglie delle codificazioni, le riflessioni dei canonisti costituiscono parte integrante e termine di riferimento imprescindibile per ogni speculazione che abbia toccato i temi del diritto, della legge, della norma in generale. Nell’elaborazione di tali dottrine, ragione, autorità e consenso sono elementi costantemente presenti, sia pure in misura variabile, per il diverso peso che ad essi è stato attribuito nei diversi momenti storici e nella pluralità degli apporti dottrinali. In una prospettiva di lunghissima durata credo possa dirsi che i due poli della ragione e della autorità sono stati mantenuti in equili-
in quinque libros distributa, editio tertia ab auctore recognita et pluribus locis aucta, Monachii, formis Nicolai Henrici, 1630, lib. I, tractatus IV, cap. III, p. 44a-b.
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brio. Al di là dell’enfasi data all’uno o all’altro elemento, vi è un sostanziale accordo circa il fatto che la norma giuridica umana è l’atto di volontà di un soggetto dotato di potere pubblico, e che tale atto deve essere espressione della ragione umana e deve rispettare la legge divina e naturale. Per riprendere la terminologia di Tommaso d’Aquino, la legge umana non è una «regola prima», ma una «regola regolata e misurata da una superiore regola o misura». E tuttavia i profili relativi alla qualità della norma sono dotati di maggior peso, poiché nella valutazione della norma il principio di autorità mai potrà prevalere sul principio di razionalità quando la norma stessa, sebbene sia stata prodotta da un soggetto dotato di potestà, non rispetti i limiti del diritto divino positivo e naturale. In questo quadro, il consenso trova spazio sia nella fase antecedente all’istituzione della legge, sia nella fase successiva. Nella fase antecedente vengono in rilievo i processi di consultazione tra il legislatore monocratico e i suoi collaboratori (gli assistentes del princeps di cui parlava Uguccione: cardinali, vescovi, collaterali del principe, etc.), come pure le questioni relative alla dimensione collegiale del procedimento legislativo, per esempio nel concilio. Al riguardo posso accennare solo di sfuggita alla regola «quod omnes tangit, ab omnibus debet approbari», che sin dal secolo XII andava affermandosi come principio che guidava le dinamiche della partecipazione e del consenso nel governo ecclesiastico e civile. È bene sottolineare che nella dottrina canonistica i meccanismi di formazione del consenso integrano profili formali che rimangono comunque subordinati alla validità sostanziale della decisione stessa. Prova di questo assunto si trova nella dialettica tra principio maggioritario e principio sanioritario: a partire dalla Chiesa antica nella tradizione ecclesiastica si impose il principio che la forza della maggioranza (maior pars) prevale solo in quanto sia sostenuta da argomenti fondati su ragione e verità, ma deve cedere di fronte a una minoranza la cui posizione sia sorretta da argomenti «più sani» (sanior pars). Quanto alla fase successiva alla promulgazione, la dottrina canonistica ha altresì riconosciuto effetti — sia pure prevalentemente sul piano della firmitas de facto — a un consenso che si esprime nella recezione o non recezione della legge da parte di una comunità, come
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pure alla opinio iuris et necessitatis che sta alla radice della consuetudine contra legem. L’esigenza che la legge generale sia rispettosa delle condizioni peculiari delle comunità alle quali deve essere applicata ha dato poi origine alle riflessioni dirette a individuare gli strumenti attraverso i quali la comunità, tramite i suoi rappresentanti, può invitare l’autorità superiore alla considerazione di tali peculiari condizioni. In età moderna questo strumento è stato individuato nella supplicatio principis: più che un diritto, un dovere di colui che ha il governo della comunità secondo l’intepretazione che ne diede Benedetto XIV73. Se per costituzionalismo intendiamo, almeno nel suo nucleo minimo ed essenziale, l’idea che il governo sia sottoposto al diritto e alla legge e vincolato da determinate procedure di formazione del consenso, credo che le discussioni relative alla natura e ai limiti della norma giuridica umana, sulle quali mi sono soffermato, possano senz’altro essere ricomprese nella storia del costituzionalismo occidentale. ORIENTAMENTO BIBLIOGRAFICO E POSTILLE In queste pagine ho variamente ripercorso itinerari di ricerca che spaziano dalla teoria della norma giuridica alle dottrine e pratiche di governo. Rinvio perciò a una serie di miei lavori attraverso i quali si potrà ricostruire una più ampia rete bibliografica: O. CONDORELLI, «Quum sint facti et in facto consistant». Note su consuetudini e statuti in margine a una costituzione di Bonifacio VIII (Licet Romanus Pontifex, VI.1.2.1), in Rivista Internazionale di Diritto Comune 10 (1999) 205-295; ID., La norma canonica fra esigenza di razionalità e principio di autorità: diritto comune e diritti particolari nella dottrina canonistica medievale, con particolare riferimento all’insegnamento di Galvano da Bologna nello «Studium Generale» di Pécs (1371), in
73 Sulla base dell’istituto della supplicatio la dottrina canonistica, fra tardo Ottocento e primi del Novecento, elaborerà l’istituto del ius remonstrandi, dai contorni non ben definiti, che non è stato riconosciuto come tale a livello legislativo.
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Folia Canonica 3 (2000) 117-149; ID., Principio elettivo, consenso, rappresentanza: itinerari canonistici su elezioni episcopali, provvisioni papali e dottrine sulla potestà sacra da Graziano al tempo della crisi conciliare (secoli XII-XV), Roma 2003 (I Libri di Erice, 32); ID., Dottrine sulla giurisdizione ecclesiastica e teorie del consenso: il contributo di canonisti e teologi al tempo della crisi conciliare, in BERTRAM M. (cur.), Stagnation oder Fortbildung? Aspekte des allgemeinen Kirchenrechts im 14. und 15. Jahrhundert, Tübingen 2005, 39-49 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 108); ID., La dottrina delle fonti del diritto nel Commentario del Panormitano sulla «Distinctio prima» del «Decretum», in Zeitschrift der SavignyStiftung für Rechtsgeschichte, kan. Abt. 122 (2005) 299-354; ID., La dialettica tra diritto comune e diritti particolari nell’ordinamento della Chiesa, con particolare riferimento all’esperienza storica delle Chiese orientali, in Rivista Internazionale di Diritto Comune 17 (2006) 95160; ID., Sinodalità, consenso, «repraesentatio»: spunti ricostruttivi nel pensiero canonistico e teologico medievale (secoli XII-XV), in A. LONGHITANO (cur.), «Repraesentatio». Sinodalità ecclesiale e integrazione politica. Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, Catania, 21-22 aprile 2005, Firenze 2007, 55-74 (Quaderni di Synaxis, 20); ID., Francesco Zabarella sull’origine della giurisdizione ecclesiastica e civile, in J. KRYNEN – M. STOLLEIS (curr.), Science politique et droit public dans les facultés de droit européennes (XIIIe-XVIIIe siècle), Frankfurt am Main 2008, 157-173 (Max-PlanckInstitut für europaische Rechsgeschichte, Studien zur europäischen Rechtsgeschichte, 229); ID., Ius e lex nel sistema del diritto comune (secoli XIV-XV), in A. FIDORA – M. LUTZ-BACHMANN – A. WAGNER (curr.), Lex und Ius. Lex and Ius. Beiträge zur Begründung des Rechts in der Philosophie des Mittelalters und der Frühen Neuzeit, Stuttgart [Bad Cannstatt] 2010, 27-88 (Politische Philosophie und Rechtstheorie des Mittelalters und der Neuzeit. Abteilung II: Untersuchungen, 1); ID., Le origini teologico-canonistiche della teoria delle «leges mere poenales», in M. SCHMOECKEL – O. CONDORELLI – F. ROUMY (curr.), Der Einfluss der Kanonistik auf die europäische Rechtskultur. III. Straf- und Strafprozessrecht, Köln – Weimar – Wien 2012, 55-98
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(Norm und Struktur, 37.3) (sul tema, variamente sottesto a queste pagine e accennato nel § 4, della obbligatorietà della legge in coscienza); ID., «Quod omnes tangit, debet ab omnibus approbari». Note sull’origine e sull’utilizzazione del principio tra medioevo e prima età moderna, in Ius Canonicum 53 (2013) 101-127; ID., Prudentia in iure. La tradizione dei giuristi medievali (prime ricerche), in A. FIDORA – A. NIEDERBERGER – M. SCATTOLA (curr.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen des Klugen in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit. Il sapere del saggio nel Medioevo, nel Rinascimento e nell’età moderna. Matthias Lutz-Bachmann zu seinem 60. Geburtstag, Porto 2013, 137-201 (Féderation Internationale des Instituts d’Études Médiévales – «Textes et Études du Moyen Âge» 68); ID., L’idea di diritto naturale alle origini della scienza giuridica medievale, in corso di stampa, 2014. Nel § 6 ho fatto un cenno al tema della dialettica tra maior e sanior pars, sulla quale rinvio al mio citato saggio «Quod omnes tangit» e allo studio di A. PADOA-SCHIOPPA, Note sul principio maggioritario nel diritto canonico classico, in F. ROUMY – M. SCHMOECKEL – O. CONDORELLI (curr.), Der Einfluss der Kanonistik auf die europäische Rechtskultur. II. Öffentliches Recht, Köln – Weimar – Wien, Boehlau, 2011, 27-38 (Norm und Struktur 37.2), con la letteratura ivi citata. Le dottrine della norma giuridica nell’età del diritto comune sono state magistralmente studiate in un volume che tuttora rimane un fondamentale punto di riferimento: E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, 2 vol., Milano 1962-1964 (Ius Nostrum, 6.1-2); su questa linea tematica si pone il libro di K. PENNINGTON, The Prince and the Law, 1200-1600: Sovereignty and Rights in the Western Legal Tradition, Berkeley – Los Angeles – London 1993, autore al quale si deve anche una trattazione di sintesi alla quale è utile rinviare i lettori: Politics in Western Jurisprudence, in A. PADOVANI – P.G. STEIN (curr.), The Jurists’ Philosophy of Law from Rome to the Seventeenth Century, Dordrecht 2007, 157-211 (A Treatise of Legal Philosophy and General Jurisprudence, 7). In particolare, sulla dottrina delle fonti del diritto in Graziano si legge ancora utilmente il saggio di J. GAUDEMET, La doctrine des sources dans le
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Décret de Gratien, in Revue de Droit Canonique 1 (1951) 5-31, ora in ID., La formation du droit canonique médiéval, London 1980, n. VIII (Collected Studies Series, 111). Una splendida testimonianza del costante rapporto che la cultura del ius commune vedeva tra ragione, diritto e legge sta nel fatto che per secoli, almeno fino al Settecento, nella lingua volgare italiana il termine ragione ha tradotto ciò che in latino era espresso col termine ius, e noi chiamiamo diritto (ma il fenomeno ha significativi parallelismi in altri volgari neolatini): al riguardo si veda P. FIORELLI, «Ragione» come «diritto» tra latino e volgare, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo, Napoli 1997, 105-157. Sulle dinamiche delle relazioni tra papa, vescovi e concilio rimane tuttora centrale il volume di B. TIERNEY, Foundations of the Conciliar Theory. The Contribution of the Medieval Canonists from Gratian to the Great Schism, Cambridge 1955 (Cambridge Studies in Medieval Life and Thought, n.s. 4); ristampato con introduzione dell’AUTORE, Leiden – New York – Köln 1998 (Studies in the History of Christian Thought, 81); per approfondimenti su una fase anteriore a quella del Grande Scisma vd. K. Pennington, Pope and Bishops. The Papal Monarchy in the Twelfth and Thirteenth Centuries, Philadelphia 1984. Il tema della approvazione della legge da parte dei mores utentium, scaturito dalla intepretazione del dictum Gratiani post D.4 c.3 è stato approfonditamente studiato da L. DE LUCA, L’accettazione popolare della legge canonica nel pensiero di Graziano e i suoi interpreti, in Studia Gratiana 3 (1955) 193-276, ora in ID., Scritti vari di diritto ecclesiastico e canonico, Padova 1997, 271-356 (Università degli Studi di Roma «La Sapienza», Pubblicazioni dell’Istituto di Diritto Pubblico della Facoltà di Giurisprudenza, serie III, 79). Sui risultati della documentatissima ricerca di De Luca si è innestata una serie di lavori di ulteriore approfondimento, tra i quali segnalo: Y. CONGAR, La réception comme réalité ecclésiologique, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 56 (1972) 369-403, ora in ID., Droit ancien et structures ecclésiales, London 1982, n. XI (Collected Studies Series, 159); B. TIERNEY, «Only the Truth has Authority»: The Problem of «Reception» in the Decretists and in Johannes de Turrecremata, in
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K. PENNINGTON – R. SOMERVILLE (curr.), Law, Church and Society. Essays in Honor of Stephan Kuttner, Philadelphia 1977, 69-96, ora in ID., Church Law and Constitutional Thought in the Middle Ages, London 1979, n. II (Collected Studies Series, 90); G. KING, The Acceptance of Law by the Community: A Study in the Writings of Canonists and Theologians, 1500-1750, in The Jurist 37 (1977) 233266; J. OTADUY, Discernir la recepción. Las acepciones del concepto y su relieve en el derecho, in Fidelium Iura 7 (1997) 179-243; P. VALDRINI, La ricezione della legge nel diritto canonico. Pertinenza e significato, in Diritto e religioni 5 (2010) 9, 141-159; M.C. RUSCAZIO, Receptio legis. Sviluppo storico, profili ecclesiologici, realtà giuridica, Napoli 2011 (Università di Torino, Memorie del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Serie V, Memoria LIX), con la mia recensione in Ius Ecclesiae 25.1 (2013) 229-236. Sulla supplicatio principis, a partire dalla quale la dottrina ha sviluppato l’istituto del ius remonstrandi, conviene partire dallo studio di L. DE LUCA, Lo «jus remonstrandi» contro gli atti legislativi del Pontefice, in Studi in onore di Vincenzo Del Giudice, I, Milano 1952, 243-273, ora in DE LUCA, Scritti vari di diritto ecclesiastico e canonico, cit., II, 193-224. Il tema ha ricevuto particolare attenzione negli ultimi decenni: P.G CARON., «Ius remonstrandi» e appello per abuso nella dottrina dei canonisti, in Studi in onore di Pietro Agostino d’Avack, I, Milano 1976, 539-580; E. LABANDEIRA, La «remonstratio» y la aplicación de las leyes universales en la Iglesia particular, in Ius Canonicum 24 (1984) 711-740; P. DE POOTER – L. WAELKENS, Le «ius remonstrandi». Droit fondamental ou aberration dans le doctrine canoniste?, in Ius Ecclesiae 7 (1995) 713-719; H.-J. GUTH, Ius remonstrandi. Das Remonstrationsrecht des Diozesanbischofs im kanonischen Recht, Freiburg 1999 (Freiburger Veroffentlichungen zum Religionsrecht, 4); ID., «Ius remonstrandi»: l’institution juridique du droit de remontrance épiscopale, in Revue de Droit Canonique 52.1 (2002) 153-165; P. DE POOTER, Remonstratio, in J. OTADUY – A. VIANA – J. SEDANO (dirr.), Diccionario General de Derecho Canónico (d’ora in poi DGDC), VI, Pamplona 2012, 908-910. Tre utili voci di JAVIER OTADUY illustrano alcune delle tematiche qui studiate, anche con riferimento al diritto vigente e al dibattito
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nella dottrina contemporanea: Ley canónica, in DGDC, V, 63-75; ID., Ratio canonica, in DGDC, VI, 698-705; ID., Recepción de la ley por la comunidad, in DGDC, VI, 735-739. Sul tema si veda anche E. BAURA, Norma canónica, in DGDC, V, 570-575. A tale riguardo si può notare che, con riferimento all’istituzione della legge, il Codex Iuris Canonici del 1983 ha riprodotto nel can. 7 solo la prima parte del dictum Gratiani post D.4 c.3 («Lex instituitur cum promulgatur»), e omesso la parte relativa alla confirmatio moribus utentium. Ciò non ha impedito che nella dottrina canonistica contemporanea il fenomeno della «recezione della legge» — storicamente nato proprio dalla intepretazione della seconda parte del dictum grazianeo — continui a essere oggetto di ampia discussione.
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IL CONSENSO TRA AUTORITÀ E CORPO. A PROPOSITO DEL TRATTATO DI BALTASAR GÓMEZ DE AMESCÚA
MARIA SOLE TESTUZZA*
1. L’ “ALTERITÀ” DEL CORPO TRA TEOLOGIA E DIRITTO È largamente condivisa la constatazione secondo la quale «la collocazione giuridica del corpo e le norme sui suoi possibili e legittimi usi», nonché quelle che riguardano i c.d. limiti del consenso rispetto ad esso, non abbiano «per lungo tempo rappresentato oggetto di discussione e di riflessione particolare»1. Si è sostenuto questo sulla base di due distinti ordini di ragioni. Sino a qualche decennio fa — si è detto — tali questioni si sarebbero sottratte agli sforzi regolativi del diritto, perché le innovazioni mediche e tecnologiche non erano ancora in grado di incidere sull’ordine naturale e sulla sua gestione e non rendevano quindi possibili scelte controverse2. La radicata fiducia nelle «operations invisibles de
* Assegnista di ricerca in Storia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Catania. 1 M. M. MARZANO PARISOLI, Il corpo tra diritto e diritti, in Materiali per una storia della cultura giuridica 39 (1999) 2, 527-552. 2 Da questo punto di vista le origini remote delle bioetica non travalicano il XVIII secolo e trovano un compiuto svolgimento solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: cfr. E. BETTA, Bioetica, in Dizionario storico dell’Inquisizione, dir. da A. Prosperi, Pisa 2010, I, 200-202. Il definitivo tramonto di questa garanzia che faceva
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la nature» è in effetti un topos assai ricorrente nel dibattito civilistico francese sin dai lavori preparatori del Code Napoléon3, «mito», «simbolo» e «modello» della nuova civiltà giuridica4. La natura rimasta per tanti secoli indomita, non ancora consegnata allo sguardo della scienza e alla sua potenza di estraneazione, avrebbe così costretto il legislatore al silenzio. Per chiarire più profondamente questa consapevole distrazione del diritto è stato però indicato un ulteriore fondamentale fattore di carattere filosofico e antropologico dalle cruciali componenti giuridiche. La solidità moderna dell’individuo, complessa costruzione simbolica della variegata tradizione europea occidentale, trovò una sua specificazione nella dogmatica giuridica che, soprattutto con le riflessioni della pandettistica, impostò il problema del corpo identificandolo con la persona fisica (soggetto di diritto)5. leva sull’«inalterabilità dei processi naturali» è stato autorevolmente richiamato da S. RODOTÀ, Ipotesi sul corpo giuridificato, in Tecnologie e diritti, Bologna 1995, 179. 3 J. E. M. PORTALIS, Présentation au corps législatif, in P. A. FENET, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil; Réimpression de l’édition 1827, Osnabrück 1968, IX, 142. L’imperscrutabilità delle operazioni della natura nel mistero della generazione è uno degli argomenti ad esempio utilizzato nel dibattito codicistico per giustificare il noto divieto di ricerca della paternità. Su questo e altri casi sia consentito rinviare alle osservazioni già svolte in M. S. TESTUZZA, In difesa di chi «non chiese la vita e non merita di patire per conto d’altri», in F. MIGLIORINO – G. PACE GRAVINA (curr.), Cultura e tecnica forense tra dimensione siciliana e vocazione europea, con la collaborazione di M. S. Testuzza, Bologna 2013, 307-369; EAD., Matrimonio e Codici. L’ambiguo statuto della corporeità, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno 42 (2013) 281-321. 4 P. CAPPELLINI, Codici, in M. FIORAVANTI (cur.), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari 2011, 121. 5 Su una delle più controverse questioni della cultura occidentale, mai completamente risoltasi nell’equivalenza essere umano-soggetto di diritto, ci limitiamo a indicare alcuni dei più recenti contributi che, con prospettive varie, sono particolarmente utili per il nostro tema: P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I-IV, Roma-Bari 1999-2001; J.-P. BAUD, L’affaire de la main volée. Une historie juridique du corps (1993), trad. it., Il caso della mano rubata. Una storia giuridica del corpo, Milano 2003; Y. THOMAS, «Le sujet de droit, la personne et la nature» Sur la critique contemporaine du sujet de droit, in Le Débat 100 (1998) 3, 85-107; P. CAPPELLINI, «Status» accipitur tripliciter. – Postilla breve per un’anamnesi di ‘capacità giuridica’e ‘sistema del diritto romano attuale’ (1987), in ID., Storie dei concetti giuridici, Torino
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Rudolph Schultheis, un giurista tedesco di fine Ottocento, scriveva: «Chi sarebbe il soggetto di diritto ove il corpo ne fosse oggetto? L’anima forse? […] L’anima e il corpo presi assieme, e quella per mezzo di questo, sono il soggetto del diritto, talché il corpo è parte costitutiva del soggetto, né può quindi essere oggetto di diritto»6. In tale concezione risultava contraddittorio concepire l’idea di un diritto sul corpo, in quanto il diritto doveva implicare una relazione di alterità. Secondo questa logica non ci poteva essere diritto sul corpo poiché tra persona e corpo non esisteva alterità7. Il legame inscindibile individuo-proprio corpo, che a noi suona familiare, appare estraneo però a più antichi contesti. «Le figure giuridiche dell’Altro sono per gli storici una costellazione di problemi irrisolti»: tra identità e alterità spesso si sono conciliate infatti «operazioni diametralmente opposte come la separazione e l’assimilazione»8. Tra medioevo ed età moderna, il discorso sul corpo umano è segnato da una vertiginosa ricapitolazione e dislocazione. Nell’incontro 2010, 49-109; B. CLAVERO, La Máscara de Boecio: Antropologías del Sujeto entre Persona e Individuo, Teología y Derecho, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno 39 (2010), 7-40. Come è noto, in tale lunga elaborazione decisivo è il contributo della tradizione canonistica che con la sua nozione di persona teologica ha concorso alla costruzione del concetto di persona ficta et representata. Ma anche in questa tradizione è un portato assai recente il binomio giuridico persona-essere umano. Cfr. P. GROSSI, Unanimitas. Alle origini del concetto di persona giuridica nel diritto canonico, in Annali di storia del diritto, 2 (1958), oggi ripubblicato in ID., Scritti canonistici, a cura di C. Fantappiè, Milano 2013, 7-113; J. GAUDEMET, Persona, in La doctrine canonique médiévale, Aldershot 1994, XIV, 465-492. 6 R. SCHULTHEIS, Uber die Moglichkeit von Privatrechtsverhaltnissen am menschlichen Leichnam und Teilen desselben, Halle a. S. 1888, 26. 7 Sulla difficile costruzione dei diritti della personalità e sul loro spinoso inquadramento teorico, nonché sulla possibilità da taluni contemplata, anche in questo contesto, di diritti sul corpo cfr. le note di Carlo Fadda e Paolo Emilio Bensa alla traduzione italiana delle Pandette di Windscheid (Diritto delle Pandette, I, Torino 1904, 601 ss.). 8 F. MIGLIORINO, Il nastro di Moebius e i margini del diritto. Scomunicati e infami nell’ordine giuridico medievale, in Ai margini della civitas. Figure giuridiche dell’altro tra medioevo e futuro, Soveria Mannelli 2013, 105. Sulla centralità dell’artificio della separazione e dell’assimilazione nella costruzione della soggettività moderna, cfr. ID., Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino 2008, 16.
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tra la cultura teologica e il linguaggio del diritto, sebbene sia possibile trovare gli spunti anticipatori della modernissima astrazione dogmatica, il sostrato fisico non risulta ancora inscindibilmente saldato con “l’anima”. La teologia cristiana è incline a concepire, pur non negandone la composizione nell’unità indivisibile homo, l’alterità tra corpo e anima. Si tratta di una relazione — è chiaro — che in tale lunga tradizione è talmente densa da fare affiorare riguardo ogni suo aspetto, al lettore teologicamente accorto, riferimenti a discussioni, equivoci, riflessioni contrapposte. Tuttavia in questa sede può essere utile citare — solo a titolo esemplificativo, dunque per rendere più chiaro il nostro punto di osservazione —, alcune parole di Agostino. Il grande Dottore della Chiesa, nel prendere parte a una nota disputa che riguardava l’animazione dei corpi, esprimeva perplessità sulla varie ipotesi in gioco, ma anche una sola e chiara riserva: «io non credo che l’anima sia un corpo o una proprietà del corpo»9. Dai tempi di Agostino sino al Medioevo la filosofia e la teologia cristiana sono state improntate in grande misura al platonismo: il corpo e l’anima vengono cioè trattati come due sostanze legate vicendevolmente in maniera accidentale. Anche l’impostazione tomistica, pure nella tarda rilettura della Seconda Scolastica, al riguardo rappresenta una fusione della tradizione agostiniana e di quella aristotelica. Mantiene l’unità dell’uomo e ne distingue comunque le due componenti, anche se non trattate come due realtà in se stesse, ma in quanto riferite l’una all’altra. Una lunga storia dunque di relazioni e di scambi tra corpo e anima di cui saranno debitrici anche le nuove produzioni ideologiche imperniate su di un potente soggettivismo.
9 AGOSTINO, La genesi alla lettera, X, XXI, 37: «Quanto all’origine delle altre anime, se cioè derivino dai genitori oppure da Dio, lo dimostrino con evidenza coloro che ne saranno capaci... . Io, per parte mia, sono ancora perplesso tra le due ipotesi, propendendo ora verso l’una ora verso l’altra con questa sola riserva: io cioè non credo che l’anima sia un corpo o una proprietà del corpo». Sulla celebre controversia che ha attraversato la storia della Chiesa e che è stata al centro, nel corso dei secoli, di intensi dibattiti cfr. A. PROSPERI, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Torino 2005 e la letteratura ivi citata.
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Sul versante propriamente giuridico — seppure nel solco di una tradizione che, in una costante dimensione storico-salvifica, mantiene il registro della composizione anima e corpo e assume come centrale l’analisi della condotta dell’uomo pensato come soggetto morale10 — è dato osservare un orizzonte popolato da una straordinaria varietà di “persone giuridiche”. Una pluralità di maschere che il singolo, figlio di una umanità gerarchica e ineguale, si trovava ad indossare in funzione delle diverse relazioni che intratteneva nel composito ordine sociale e secondo la rispettiva ragione di appartenenza11. La peculiare logica disgiuntiva che contraddistingueva la tematica del corpo, insieme alla persistente moltitudine di status che definivano ciascun singolo uomo in quanto membro di comunità organiche, naturali, necessarie, possono essere assunti quali presupposti fondamentali attraverso i quali riflettere sul modo in cui, in una esperienza di lunga durata e di singolare complessità, che per convenienza potremmo indicare unitariamente con l’espressione Antico Regime, siano stati compiuti alcuni primi tentativi volti a regolare, rispetto ai corpi, con la titolarità di poteri e doveri, l’esercizio di un consenso.
10 Sugli intrecci tra diritto e teologia e sulla specificità occidentale ci si limita a rinviare al celebre lavoro ormai completamente edito in italiano di H. J. BERMAN, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna 2006; ID., Diritto e rivoluzione, II. L’impatto delle Riforme protestanti sulla tradizione giuridica occidentale, a cura di D. Quaglioni, Bologna 2010. 11 Ancora una volta è utile rimandare ai lavori di B. CLAVERO, Tantas Personas, como Estados: Por una antropología Política de la historia europea, Madrid 1986; ID., Almas y Cuerpos: Sujetos del Derecho en la Edad Moderna, in Studi in Memoria di Giovanni Tarello, Milano 1990, I, 153-171; ID., La Máscara de Boecio, cit. Sul lento inabissamento di questo modello comunitario a vantaggio di un variegato modello individualistico si rinvia a P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I-II, cit., e si segnala anche il recente lavoro di M. H. HESPANHA, Imbecillitas. As bemadventuranças da inferioridade nas sociedades de Antigo Regime, Sän Paulo 2010. Sulla sua “multiversistica” riemersione novecentesca si veda ora G. CIANFEROTTI, Il concetto di status nella scienza giuridica del Novecento, Milano 2013.
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2. TRANSIZIONI E TITOLI ELOQUENTI Scritto a cavaliere tra Cinque e Seicento, il Tractatus de potestate in se ipsum offre per il nostro tema una prospettiva privilegiata, dal momento che consente di avvicinarsi ai contenuti di una antica tradizione tardo-medievale e di cogliere però le importanti trasformazioni in senso proto-moderno ormai pienamente in atto12. Del suo autore, Baltasar Gómez de Amescúa, dà notizia Nicolás Antonio, un grande bibliofilo, che nella seconda metà del secolo XVII è rappresentante e agente generale degli affari relativi alla corona di Spagna. Nella parte della sua grande opera di bibiliografia spagnola che raccoglie gli autori più recenti, dal 1500 sino a suoi giorni, la Bibliotheca hispana nova, egli lo cita indicandolo come un giureconsulto, probabilmente (ut credo) toledano, tra i togati stabilmente collocati nella prestigiosa compagine politica dei vice-reami del Mezzogiorno d’Italia13. Baltasar Gómez de Amescúa in effetti è un eminente personaggio che presta servizio nelle maggiori magistrature meridionali: fu consigliere della Regia Camera della Sommaria a Napoli, eletto nel 1594 consultore del viceré in Sicilia Enrico Guzmán conte di Olivares, quindi protettore del Real Patrimonio, infine promosso nel 1602 presidente del Tribunale del Concistoro della Sacra Regia Coscienza14.
12 Sul trattato non si conoscono studi specialistici, ad eccezione del lavoro di J. DE AZCÁRRAGA, Balthasar Gomez de Amescua: «Tractatus de potestate in se ipsum», in La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno. Incontro di studio. Firenze 16-19 Ottobre 1972, Atti a cura di P. Grossi, Milano 1973, 441-456, in particolare 441. Il trattato è segnalato in NICOLÁS ANTONIO, Bibliotheca Hispana Nova sive Hispanorum scriptorum qui ab anno MD ad MDCLXXXIV floruere Notitia, Matriti 1783, I, 182; E. TODA Y GÜELL, Bibliografia espanyola d’Italia: dels origens de la imprempta fins a l’any 1900, II, Barcelona 1928, 185; Diritto e cultura nella Sicilia medievale e moderna: le edizioni giuridiche siciliane (1478-1699), prefazione di A. Romano, introduzione di M. A. Cocchiara, Soveria Mannelli 1994, 345. 13 NICOLÁS ANTONIO, Bibliotheca Hispana Nova, cit., 182. Cfr. E. MELE, Antonio, Nicolas, in Enciclopedia italiana (1929), sub voce. 14 G. E. DI BLASI, Cataloghi ragionati in Storia cronologica de’Viceré, Luogotenenti
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La sua biografia è segnata anche dalle vicende che lo legano alla cittadina di Lercara Friddi, uno dei tanti paesi feudali che sorsero in Sicilia durante l’intensa colonizzazione altosecentesca. La baronia delli Freddi gli pervenne in dote dalla moglie, Francesca Lercaro, figlia di Leonello, un ricco imprenditore genovese cattolico di rito greco. Lo spagnolo, convenuto col suocero che «per illustrare la casa e la baronia» avrebbe comprato su tali terre la «potesta di fabricari» con il privilegio giurisdizionale del «mero e misto imperio»15, forte dei suoi appoggi politici, riuscì a ottenere la concessione di una licentia populandi, e avviò così la fondazione del nuovo centro abitato16. In un recente studio di Domenico Ligresti, infine, il suo nome figura anche tra una folta schiera di Siciliani e stranieri che nell’isola, e Presidenti del Regno di Sicilia, volume unico, Palermo 1842, 26-27; F. M. EMANUELE GAETANI, Della Sicilia nobile, Palermo 1754-1775 (rist. Bologna 1986), I, 172; 182; 249. Su queste supreme magistrature cfr. almeno A. BAVIERA ALBANESE, Diritto pubblico e istituzioni amministrative in Sicilia. Le fonti, Roma 1974, 86-113; V. SCIUTI RUSSI, Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana dei secoli XVI e XVII, Napoli 1983, passim; A. ROMANO, La Regia Gran Corte del Regno di Sicilia, in Case law in the making: the techniques and methods of judicial records and law reports, I, a cura di A. Wijffels, Berlin 1997, 111-161. 15 Cfr. R. CANCILA, Merum et mixtum imperium nella Sicilia feudale, in QuaderniMediterranea. Ricerche storiche 14 (2008) 469-504. 16 Sui Feudi Friddi Grandi e Faverchi pervenuti in dote al ricco mercante genovese, già console della Nazione genovese, a seguito del matrimonio con Elisabetta Ventimiglia, sulla nuova fondazione quale clausola dei capitoli matrimoniali dello sposalizio tra il potente funzionario spagnolo e Francesca Lercaro, e sulle vicende che ne rallentarono l’effettiva realizzazione alla morte di Gómez de Amescúa cfr. L. TIRRITO, Sulla città e comarca di Castronuovo di Sicilia. Ricerche Storiche, topografiche, statistiche e demografiche, Palermo 1873, 531-453; G. MAVARO, Lercara, «città nuova». Documenti per una storia di Lercara Friddi dalle origini al 1865, Palermo 1984; T. DAVIES, La colonizzazione feudale della Sicilia, in Storia d’Italia, Annali 8. Insediamento e territorio, a cura di C. De Seta, Torino 1985, 432;438; 451452; G. FALLICO BURGARELLA, I Lercaro e la fondazione di Lercara Friddi, in A. ROMANO (cur.), Materiali per una storia delle istituzioni giuridiche e politiche medievali moderne contemporanee, Messina 1988, 34-51; M. VESCO, Pianificazione e investimento immobiliare nel Cinquecento: i Ventimiglia e le Case Nove a Palermo, in G. ANTISTA, Alla corte dei Ventimiglia. Storia e committenza artistica, Geraci Siculo 2009; ID., Fondare una città nella Sicilia di età moderna: dinamiche territoriali e tecniche operative, in Quaderni-Mediterranea. Ricerche storiche, 28 (2013), 278-279. E
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sul finire del Cinquecento, si rivolgono alle autorità per brevettare le loro invenzioni e per chiedere autorizzazioni e sostegni alla loro messa in uso17. Il Baltasar, che lascia ad uso dei posteri il Tractatus de potestate in se ipsum, è dunque un giusperito illustre «che scolpite nel cor le leggi hà più del Re del cielo»18, un importante membro del gruppo dirigente spagnolo, dalla consumata esperienza giurisdizionale e dalle potenti aderenze a corte. Un umanista dalla spiccata personalità pratica e speculativa, ben inserito nel circolo intellettuale della società siciliana19. Le diverse dediche al lettore, in latino e in volgare, che nell’editio princeps dell’opera seguono quella dello stesso autore a Filippo III re di Spagna, ci mostrano il contesto culturale e sociale e il pubblico elitario a cui l’opera era rivolta. Si tratta di un gruppo variegato: teologi, avvocati, letterati e membri delle accademie italiane, esponenti di spicco della realtà palermitana20. 17
Come risulta da tale ricerca, Gómez de Amescúa richiese nel 1593 privativa per l’introduzione in Sicilia di un sistema in uso in Spagna per far carbone con i noccioli di olive. Cfr. D. LIGRESTI, Sicilia aperta (secoli XV-XVII), Mobilità di uomini e di idee, Palermo 2006, 353. 18 Così lo descrive il contemporaneo Agostino De Cupiti, poeta francescano dei minori osservanti, nel suo Caterina martirizata: poema sacro, Napoli 1594, Canto XXII, Stanza 51, 226. 19 Esiste, come è noto, una vasta letteratura che ha mostrato la persistente differenziazione sociale tra i dirigenti spagnoli e i ceti locali isolani, e messo in luce però anche il fitto intreccio di relazioni sulla base di alleanze matrimoniali e politiche. Si cfr. almeno G. GIARRIZZO, “La Sicilia dal Cinquecento all’Unità di Italia”, in Storia d’Italia. La Sicilia dal Vespro all’Unità di Italia, XVI, Torino 1989, in particolare 193310; P. CORRAO, Fra città e corte. Circolazione dei ceti dirigenti nel regno di Sicilia fra Trecento e Quattrocento in Istituzioni politiche e giuridiche e strutture del potere politico ed economico nelle città dell’Europa medieterranea e moderna, La Sicilia, a cura di A. Romano, Messina 1992, 13-42; D. LIGRESTI, Feudatari e patrizi nella Sicilia moderna (Secoli XVI-XVII), Catania 1992; ID., Sicilia aperta (secoli XV-XVII), Mobilità di uomini e di idee, cit.; G. PACE GRAVINA, Il Governo dei Gentiluomini. Ceti dirigenti e magistrature a Caltagirone tra medioevo ed età moderna, Roma 1996. 20 È il caso di Don Francesco d’Alessandro, messinese, dottore in teologia (A. MONGITORE, Storia delle Chiese di Palermo: i conventi, I, a cura di F. Lo Piccolo, Palermo 2009); di Leonardo Cimino, dottore in filosofia, in teologia e diritto, che esercitò la professione di avvocato a Palermo dove tenne anche la cattedra di Diritto
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Il trattato, in generale, appare come un fedele specchio di un’Europa in cui, in maniera trasversale rispetto alle diverse aree confessionali, seppure da distinte prospettive ideologiche, si registrano i primi significativi sforzi di affermazione delle entità statali e nuove domande di disciplinamento della vita civile21. La teologia morale e la scienza giuridica, che rappresentano le due principali fonti del lavoro, appaiono in tal senso attraversate da profondi segni di rinnovamento. I temi che nei libri penitenziali e nei trattati del passato erano pensati prevalentemente in un’ottica di salvezza dei privati vengono calibrati ora sulla gestione del potere e sulla ricostruzione dell’ordine, preoccupazioni cruciali che coinvolgono non solo le tradizionali autorità, minacciate ormai dal venir meno della loro antica universalità, ma i singoli corpi sociali intermedi, gli Stati e i rapporti inter gentes22. All’impianto casuistico della tradizione si accompagnano, portato degli studi umanistici, la sperimentazione di esegesi civile e canonico (D. ORLANDO, Biblioteca di antica giurisprudenza siciliana, Palermo 1851, 114); di Giovanni Francesco Auria, giudice della Corte pretoriana di Palermo, Avvocato dei poveri, Regio Procuratore fiscale, auditore delle Regie Galee di Sicilia e consultore del Sant’Uffizio (cfr. G. M. CRESCIMBENI, Le vite degli Arcadi illustri, III, Roma 1714, 110-111); di Niccolò degli Oddi, della Accademia perugina degli Insensati, detto il Solo; di Luigi d’Heredia, poeta e letterato palermitano di formazione giuridica che ricoprì diversi incarichi istituzionali (cfr. R. CONTARINO), Eredia, D’Eredia, D’Heredia, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani; Leonardo Rolandino; di Don Francesco Salerno, di Vicari, giureconsulto e teologo canonico di S. Giovanni degli Eremiti, vicario generale dei vescovi di Palermo (V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, II, Palermo 1856, 655-656). Cfr. Tractatus de potestate in se ipsum. Authore d. Balthassare Gomezio de Amescua I.C. Toletano, Panhormi, apud Erasmum Simeonem 1604. Queste numerose dediche sono presenti solo nella prima edizione a stampa, della quale non è stato possibile consultare però l’intero testo, perché ci si è avvalsi dell’esemplare della Bayerische Staatsbibliothek Digital solo parzialmente digitalizzato. 21 Sul grande paradigma del disciplinamento sociale lungamente dibattuto dalla storiografia tedesca a partire dalle riflessioni di Gerhard Oestreich e ripreso e approfondito anche in Italia su sollecitazione di Pierangelo Schiera cfr. l’ampio quadro tracciato in L. BIANCHIN, Dove non arriva la legge. Dottrine della censura nella prima età moderna, Bologna 2005, 19-55. 22 Cfr. I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002.
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critiche e la ricerca di un’esposizione che consenta di far convergere in un unico alveo il diritto romano e quello canonico, il diritto territoriale e quello cittadino, le consuetudini. Seguendo una pratica diffusa nella dottrina iberica, il testo di Gómez de Amescúa è così preceduto da un indice analitico delle fonti utilizzate: ex iure civili; ex iure canonico; ex iure regio (da Las Siete Partidas alla Nueva recopilación). Il suo imponente apparato di fonti, eterogenee per discipline e collocazione cronologica, continua tuttavia a riflettere quei caratteri costitutivi della società di antico regime fatta di appartenenze plurime e mobili gerarchie normative. Vista più da vicino, l’opera del giurista spagnolo è poi, naturalmente, il prodotto tipico della cultura di impronta cattolica di quest’epoca. Ciò significa non soltanto che la sua ossatura è costituita dalla dottrina giuridica imperniata sul metodo scolastico e dalle riflessioni della Scuola di Salamanca23, ma anche che essa è stata sottoposta al vaglio della Controriforma. Del trattato conosciamo solo due edizioni a stampa, tutte prossime alla data di morte del suo autore (4 agosto 1604)24. Una palermitana del 160425 e una “espurgata” milanese del 160926. Sebbene sia da rinviare ad altra sede l’apprezzamento delle correzioni intervenute, ai 23 Per un primo quadro bibliografico sul pensiero tardo-scolastico cfr. F. TODESCAN, Il problema del diritto naturale fra Seconda scolastica e giusnaturalismo laico secentesco. Una introduzione bibliografica in Iustus ordo e ordine della natura. Sacra doctrina e saperi politici fra XVI e XVIII secolo, a cura di F. Arici e F. Todescan, Padova 2007, 1-61. 24 G. E. DI BLASI, Cataloghi ragionati, cit., XXVII. 25 Tractatus de potestate in se ipsum. Authore d. Balthassare Gomezio de Amescua I.C. Toletano, Panhormi, apud Erasmum Simeonem 1604. 26 L’edizione milanese esce con due marche editoriali differenti (Tractatus de potestate in se ipsum. […] nunc denuò in lucem editus, & à multis erroribus ob purgatiorem studiosorum lectionem accuratissimè expurgates, Mediolani, apud Petrum Martyrem Locarnum 1609; e apud Hieronymum Bordonum 1609) dalla società tipografico-editoriale Girolamo Bordone e Pietro Martire (attiva a Milano ed occasionalmente a Venezia) nel 1609, anno in cui essa si scioglie per la morte di Pietro Martire Locarno. Per i riferimenti si veda il prospetto Bordone, Girolamo & Locarno, Pietro Martire nel repertorio on line Istituto Centrale per il Catalogo Unico – EDIT16.
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nostri fini serve solamente tenere a mente che sono anni nevralgici per le politiche censorie27. A dovere fare i conti con la sorveglianza ecclesiastica anche cattolicissimi scrittori, che non ebbero sostanzialmente problemi né con l’Inquisizione né con l’Indice, e che anzi rivestirono spesso, perché avvocati o funzionari regi, posizioni di prestigio, ma i cui libri — come scrive Rodolfo Savelli — furono oggetto di manomissione in quanto vi si ritrovavano citati «in epoche meno oppressive, nomi diventati in un secondo tempo “damnatae memoriae”»28. Uno dei più significativi problemi del periodo post-tridentino fu infatti quello delle espurgazioni. La difficoltà delle emendazioni crebbe anche perché differenti orientamenti culturali e politici emersero tra Roma e i domini spagnoli. Se già nel 1571 la commissione capeggiata da Arias Montano pubblicava ad Anversa il primo indice espurgatorio, seguito dall’indice portoghese del 1581 e da quello di Quiroga per la Spagna del 1584, l’attività romana, segnata invece da diffidenze, ritardi e inadempienze, produsse un indice, subito disconosciuto anche se di fatto utilizzato per qualche tempo, solo nel 160729. Il trattato di Gómez de Amescúa potrebbe rappresentare quindi un piccolo case-study per tali vicende. L’opera, come abbiamo già ricordato, è pubblicata prima a Palermo, dove il controllo sulla stampa è esercitato dall’Inquisizione spagnola, ed è riedita poi a Milano, in una versione emendata, proprio nel torno di anni in cui le prescrizioni censorie romane tendono a discostarsi in parte da quelle iberiche30. 27 Per un confronto nella prima età moderna fra il modello cattolico di censura essenzialmente incentrato sul controllo intellettuale e librario e quello delle aree di confessione riformata vedi L. BIANCHIN, Dove non arriva la legge,cit., 53-100. 28 R. SAVELLI, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costume (secoli XVIXVII), Milano 2011, 47. 29 Antonio Rotondò richiamò pioneristicamente l’attenzione sulla expurgatio dei censori romani e spagnoli (A. ROTONDÒ, Cultura umanistica e difficoltà di censori. Censura ecclesiastica e discussioni cinquecentesche sul platonismo, in Le pouvoir et la plume. Incitation, contrôle et répression dans l’Italie du XVI siècle, Paris 1982, 15-50). Sugli indici espurgatori, più di recente con riferimento in particolare alla letteratura giuridica, si veda il già citato R. SAVELLI, Censori e giuristi, cit., 52-92 e la letteratura ivi citata. 30 Come è noto, fallirono sempre i tentativi dei sovrani iberici di introdurre
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Ma «un libro espurgato era pur sempre un libro salvato»31. Attraverso l’edizione milanese “corretta”, tollerata dunque dalla Chiesa e la cui circolazione diventa ufficiale32, è possibile così soprattutto cogliere una visione “eterodossa” di un tema sensibile. Il titolo dell’opera ha un’eloquente potenza evocativa che esprime in pieno un’istanza della cultura moderna: Tractatus de potestate in se ipsum. L’ingiunzione delfica del Nosce Te Ipsum, che apre nel retro di copertina il trattato, doveva certo incidere un preciso messaggio nella memoria visiva del lettore. Nell’invitarlo a rivolgere lo sguardo su di
l’azione dell’Inquisizione spagnola a Napoli e Milano, dove invece penetrò, a partire dal pontificato di Paolo III, quella “romana”. Su tale progressivo insediamento ci si limita a rimandare a A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, 57-116. Con riferimento specifico all’attività censoria riguardo la produzione giuridica in Italia e in Spagna cfr. G. FRAGNITO, «In questo vasto mare de libri prohibiti et sospesi tra tanti scogli di varietà et controverse»: la censura ecclesiastica tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, in C. STANGO (cur.), Censura ecclesiastica e cultura politica in Italia tra Cinquecento e Seicento, Firenze 2001, 1-35; J. ALVARADO, Juristas turbadores: la censura inquisitorial a la literatura jurídica y politica, in ID. (ed.), Historia de la literatura jurídica en la España del Antiguo Régimen, I, Madrid-Barcelona 2000, 331-385; R. SAVELLI, Censori e giuristi, cit., e la letteratura ivi richiamata; L. BECK VARELA, Literatura Juridíca y Censura: Fortuna de Vinnius en España, Valencia 2013. Come dimostrato da queste ricerche, il confronto analitico delle diverse versioni editoriali getta luce sui significativi intrecci tra produzione del libro, mondo del diritto, meccanismi censori ecclesiastici e politica dei governi. Per questo specifico trattato si rinvia a futuri approfondimenti. 31 R. SAVELLI, Censori e giuristi, cit., 48. 32 L’edizione milanese ricevette infatti tutti i crismi dell’ufficialità. L’imprimatur fu rilasciato, con il visto del Senato, dietro la lettura di Aloisio Bossio per il cardinale arcivescovo milanese e, per l’Inquisitore, di Luigi Bariola, autore dei Flores Directorii inquisitorum (cfr. A. ERRERA, “Processus in Causa fidei”. L’evoluzione dei manuali inquisitoriali nei secoli XVI-XVIII e il manuale inedito di un inquisitore perugino, Bologna 2000, 258). Per questo contributo, con riferimento al contenuto dell’opera, si è deciso di avvalersi dunque dell’edizione emendata edita apud Hieronymum Bordonum 1609. L’esemplare consultato fu quello posseduto da Monsignore Giovanni Battista Coccini (Coccino), dal 1611 in Rota e allora già decano della stessa, che si ricorda oltre che come autore di una quindicina di opere edite, per avere lasciato in eredità la sua ricca biblioteca al Collegio Romano. L’esemplare conservato nella Biblioteca nazionale centrale di Roma, integralmente digitalizzato, è consultabile on line.
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sé, celebrava un consolidato ideale filosofico e letterario, quello umanistico, che poneva l’uomo al centro di ogni processo conoscitivo. L’esortazione alla «restaurazione della civile conversazione socratica» era divenuta ormai, come spiega Eugenio Garin, «quasi un luogo comune»33, ma, trasferita nell’ambito delle disquisizioni giuridiche e associata al contenuto della nostra opera, essa sembra risentire soprattutto dell’influenza della rivoluzione anatomica rinascimentale e acquista, con ciò, una maggiore concretezza e incisività34. Baltasar Gómez de Amescúa intendeva infatti, come si ricava sin dalle prime pagine dell’opera, indagare la potestas in corpus suum. Questa sensibilità anatomica applicata alla sfera del diritto si rivelava uno strumento estremamente duttile. Non solo era carica di retaggi antichi e condivisi che legittimavano la “separazione di sé da sé”, ma aveva anche una peculiare efficacia euristica perché si adattava ai più svariati ambiti. Con un “metodo settorio”, il giurista toledano si rivolgeva ai problemi che nascevano dal governo del corpo umano, dalla sua gestione individuale e dalla sua interazione con altri organismi complessi quali i corpi politici e sociali35, sino a guardare a quelli legati alle più astratte e tradizionali proiezioni quali ad esempio la fama36 o ai rapporti con l’anima37. La corporeità diventava il banco di prova per leggere la realtà che lo circondava. La scelta dell’impianto
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E. GARIN, Medioevo e Rinascimento, Bari 2005, 192. Sulla utilizzazione quale sigla di molti opuscoli divulgativi e illustrativi di anatomia, nella seconda metà del Cinquecento, dell’enunciato Nosce te ipsum, prima riferito soprattutto al foro interno della coscienza cfr. E. GAGLIASSO LUONI, L’ambiguo statuto del corpo-oggetto. Spiegazione, rappresentazione e metafore tra anatomia e arte, in G. COCCOLI (cur.), La mente, il corpo e i loro enigmi: saggi di filosofia, Roma 2007, 49-82. Sul rapporto tra il Nosce te ipsum e il metodo anatomico affrontato solo nella dottrina protestante rinascimentale cfr. M. SPICCI, Corpo e ibridazioni discorsive nell’Inghilterra elisabettiana. The Purple Island (1633) di Phineas Fletcher, Catania 2009, 60 ss. 35 BALTASAR GÓMEZ DE AMESCÚA, Tractatus de potestate in se ipsum, Liber II, caput 12, nn. 1-37 (nelle successive citazioni si utilizzeranno L. e c. e si ometterà il nome dell’autore). 36 Ibid., L. II, c. 14, nn. 1-21. 37 Ibid., L. II, c. 13, nn. 1-8. 34
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ordinamentale del tractatus traduceva la volontà di riorganizzare e razionalizzare in un contesto unitario questa problematica, di piena attualità in quei decenni, ma caleidoscopica nelle situazioni e nelle soluzioni38. Per tale via, l’opera riesce a metterci di fronte «l’ordine antico e il “nuovo” individuo»39. In un paio di decadi, con il decisivo apporto groziano, le riflessioni intorno a queste cruciali tematiche, come è noto, si moltiplicheranno e, nutrite di nuove linfe politiche, filosofiche, ideologiche, si avvarranno di metodi moderni e assumeranno nella «koiné giusnaturalistica europea» una spiccata varietà di accenti40. Nell’ultimo quarto del Seicento una dissertazione difesa a Francoforte sull’Oder da un allievo di Samuel Stryk, Casimir von Osten, mostra come tale problematizzazione susciti una viva attenzione nel panorama degli studi giuridici delle università tedesche dell’epoca, e come questa abbia acquistato definitivamente connotati nuovi41. Il sintetico lavoro è articolato in cinque capitoli, uno dei quali
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L’efficacia e il carattere innovativo di tale riorganizzazione del tema fa sì che l’opera di Baltasar Gómez de Amescúa non solo sia utilizzata come principale auctoritas, ma fornisca anche l’impianto fondamentale ad alcune altre trattazioni coeve. Si confronti del giureconsulto novarese Paolo Gallerati (m. 1629) la Renuntiatio XXIV bonorum corporis in ID., De Renuntiationibus tractatus tribus tomis distinctus, Genevae 1678, secondo tomo, Centuria I. Per il nostro tema è interessante anche la precedente Renuntiatio XXIII bonorum animae. 39 P. COSTA, Civitas, I, cit., 111. 40 ID., Civitas, I, cit.; F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, I: Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico di Ugo Grozio, Milano 1983; ID., Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, II: Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico di Jean Domat, Milano 1987; ID., Le radici teologiche del giusnaturalismo laico. III: Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico di Samuel Pufendorf, Milano 2001; A. DONATI, Giusnaturalismo e diritto europeo. Human rights e Grundrechte, Milano 2002. 41 CASIMIRUS AB OSTEN, Jus hominis in se ipsum; praes. Sam. Stryk, Francofurti a. Aderam 1675. La dissertazione, come si ricava dal frontespizio di tale edizione, fu discussa il 4 febbraio del 1675 «praeside Samuele Strykio» e fu raccolta, quale quindicesima, nel secondo volume delle Dissertationes iuridicae Francofurtenses, inserite negli Opera omnia di Samuel Stryk e del figlio Johann Samuel (Opera omnia: Tam
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specificamente dedicato al corpo (De jure se ipsum obligandi; De jure hominis in animam; De jure hominis in vitam; De jure hominis in corpus; De iure hominis in famam). Gli snodi salienti della trattazione erano stati messi a fuoco, in un impianto molto più tradizionale, anche da Baltasar Gómez de Amescúa nella sua opera. L’esposizione però, oltre a poggiare sulle nuove auctoritates di cui è considerato prudente tacere in area cattolica42, si avvale di un metodo argomentativo, che pur legato al confronto delle differenti opinioni, le inquadra preventivamente allo scopo di creare un più chiaro quadro sistematico. Infine essa ha ormai come fulcro una ben definita categoria ordinante (jus in se ipsum), utilizzata anche essa in un titolo eloquente: Jus hominis in se ipsum. 3. DUE IMPORTANTI DIMENSIONI DEL CONSENSO L’opera di Baltasar Gómez de Amescúa consente di prendere in considerazione due profili, relativamente specifici e differenziati, che il tema del consenso tipicamente presenta. In primo luogo, trattando della potestas quale categoria utile a
Tractatus, quam Disputationes hactenus etiam nondum conjunctim editas, magnaque cura partim collecta continentia. 2 Dissertationum Juridicarum Francofurtensium Volumen II, Francofurti et Lipsiae 1743, 402-431. Di quest’ultima opera è consultabile on line l’esemplare della Bayerischen Staatsbibliothek digital). Dell’autore non è stato possibile avere riscontro sub voce Kasimir, Casimir, Osten né nella Allgemeine deutsche Biographie né nei primi ventiquattro volumi della Neue deutsche Biographie. Non è indicato inoltre nel F. RANIERI (cur.), Biographisches Repertorium der Juristen im Alten Reich, 16.-18. Jahrhundert, C, Frankfurt am Main 1991, così come la sua dissertazione non è inserita in F. RANIERI, Juristische Dissertationen deutscher Universitäten, 17.-18. Jahrhundert, Frankfurt am Main 1986. Sulla difficile attribuzione delle dissertazioni o di specifiche parti di esse al Respondent o al Praeses, per la confusione che ha spesso segnato la loro edizione a stampa, si ricordano le osservazioni raccolte in H. COING (Herausg.), Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, II/1, München 1977, 575-578. 42 Oltre agli umanisti francesi e ai giuristi domenicani e gesuiti del Cinquecento, sono naturalmente impiegati tra i più rappresentativi teologi, giureconsulti, umanisti di area protestante del Seicento vietati nel corso del secolo (Béza, Zoes, Amesio, Grozio, Struve, Reinkingk, Ziegler, Boecler, Carpzov; Horn, Pufendorf).
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descrivere il rapporto privilegiato del singolo col proprio corpo, esso rappresenta una valida testimonianza del lento e difficilissimo processo di affermazione di un principio di “autonomia” che riconosca ciascun uomo come soggetto pienamente capace di disporre di sé. Il concetto di potestas, benché presentato in chiave individualistica, non è affatto univoco; al contrario, in questo scenario presuppone tipicamente proprio la sopravvivenza di una pluralità di rapporti sul corpo ed evoca una convergenza di potestates che assorbono lo stesso individuo. Come tale però esso si presta a una varietà di applicazioni. Ovvero: ciascuno ha una potestas sul proprio corpo e decide per ciò il corso di molte azioni che compirà, tuttavia per tante dovrà adeguarsi a una volontà esterna alla propria. Spiegata bene questa premessa nei primi capitoli del suo lavoro, nella restante parte, il giurista toledano analizza dunque la dimensione del «consenso-azione»43 su una materia di riconosciuta problematicità. A scorrere l’indice del trattato si apre un panorama di questioni (circa 500) che toccano temi alcuni dei quali sorprendentemente vicini a quelli raccolti nei moderni trattati di biodiritto. Uno statuto del corpo ante litteram, come oggi si direbbe, che nel suo essere incerto, meticcio, oscillante e poroso rende visibile, attraverso una trama di microscopiche decisioni, le basi di un importante monumento. L’intento pratico, pur soverchiando di gran lunga le preoccupazioni ricostruttive e speculative, doveva infatti fare i conti con la dimensione ontologica del corpo e con i relativi problemi, non solo di carattere teologico, filosofico e morale, ma anche e soprattutto giuridici. L’autore poneva così un insieme di interrogativi che coinvolgevano l’identità del soggetto che esprimeva il consenso e le modalità di tale azione (il grado di consapevolezza, di libertà, di esplicitazione dell’atto del consentire, le sue motivazioni legittime, le forme in cui esso si manifestava). Ma quando si discute di consenso ci si riferisce anche alla sua dimensione per così dire normativa e regolativa. Si intende cioè guar-
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voce.
M. COTTA, Consenso, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma 1992, II, sub
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dare al procedimento attraverso il quale si tenta di conseguirlo. Il nostro Tractatus permette di esplorare anche questo diverso profilo perché è composto attraverso un tipico meccanismo inventivo. Quando si tratta di fondare la nozione di potestas, il giurista mostra una certa fedeltà al metodo dialettico medievale, organizza infatti le questioni in tesi affermative o negative e analizza le tante posizioni allo scopo di trarre le conclusioni. Tuttavia quando il discorso si fa più dettagliato e pratico, l’autore propone un’esposizione casistica di materiali forse desunti dalla sua esperienza di magistrato e, nella difficile ricerca di un consenso fra le tante opinioni disponibili sulle singole ipotesi, si avvicina alla tipica strategia probabilista della Controriforma44. Come è noto, la teologia morale si era strutturata, a partire dal XVI secolo — ma si tratta di un processo che ha più antiche radici medievali45 — in forma di scienza di casi. Fino alla metà del XVII secolo, quindi negli anni in cui scrive Baltasar, nonostante alcune opposizioni individuali, il probabilismo costituiva l’ortodossia nelle scuole teologico-morali cattoliche. Questo sistema di teologia morale,
44 Sul probabilismo e sulle critiche che furono ad esso mosse, con alterni esiti, a partire soprattutto dalla seconda metà del XVII secolo cfr. J. L. QUANTIN, Il rigorismo cristiano, Milano 2002; dello stesso autore in sintesi vedi anche Probabilismo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, Pisa 2010, III, 1252; cfr. anche la voce di A. PROSPERI, Casistica, in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., I, 291-292. 45 È innegabile che la casuistica affondi le sue radici nell’ambito di una trasformazione che ha il suo apice fra XI e XIII secolo, quando la funzione del sacerdote venne sempre più indicata facendo ricorso alla pregnante definizione del confessore quale «Iudex animarum in foro poenitentiali». A partire dall’obbligo della confessione auricolare annuale imposta dal Concilio Lateranense IV (1215), si accentuò infatti il carattere giuridico conferito a questo sacramento e si assistè ad una proliferazione della letteratura sui “casi di coscienza”. Cfr. M. TURRINI, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima Età moderna, Bologna 1996; P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000; E. BRAMBILLA, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal Medioevo al XVI secolo, Bologna 2000; R. RUSCONI, L’ordine dei peccati. La confessione tra medioevo ed età moderna, Bologna 2002.
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secondo la sua definizione più generale, permetteva al fedele di «agire seguendo un’opinione probabile anche in presenza di un’altra opinione più probabile e più sicura»46. I teologi gesuiti a cavaliere tra Cinque e Seicento diedero a questo metodo la sua forma classica, distinguendo in particolare tra la probabilità intrinseca (derivante dalle ragioni in sé della soluzione) ed estrinseca (derivante dall’autorità dei dottori da cui essa promanava). Non è dato sapere quanto il giurista toledano si sentisse vicino a queste riflessioni metodologiche, tuttavia egli sembra adottare un’impostazione simile, laddove per la soluzione del caso specifico egli lasciava un largo spazio al confronto delle differenti opinioni, rimanendo però nel campo della logica del probabile e non della dimostrazione. Aspetto che può risultare particolarmente suggestivo per il giurista positivo contemporaneo in difficoltà sui temi che riguardano il governo del corpo, dal momento che anche oggi sfuggono in gran parte alla disciplina certa del legislatore, e sono fonte di rappresentazioni differenti (giuridiche e metagiuridiche). Nella esposizione di Gómez de Amescúa acquista così fondamentale rilevanza l’eventuale conflitto tra verba legis e mens legislatoris, come il difficile rapporto tra la norma astratta e le situazioni concrete. In accordo con la contemporanea sensibilità casuistica, anche Baltasar infatti non trascura che i principi generali della morale e del diritto non sono egualmente applicabili in ogni circostanza e che la coscienza può talora trovarsi in situazione di dubbio o di esitazione. Nel sistema conservativo, preso a prestito dalla teologia scolastica, nulla però si dà senza la legittimazione delle auctoritates. Per questo, entrando nel merito della singola situazione, il giurista toledano deve mostrare di muoversi dentro un contesto ben noto, presentandolo in tutta la sua complessità. Ma nell’indicare anche l’opinione meno probabile, egli può talvolta distaccarsi dalla maggioranza delle opinioni disponibili sul tema e dal senso della legge, per riconoscere persino, nel caso di dubbio, la libertà individuale (arbitrium boni viri)47.
46 47
J. L. QUANTIN, Probabilismo, cit., 1257. Cfr. Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 1, n. 13.
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4. UNA SPECIFICA SITUAZIONE GIURIDICA: LA POTESTAS IN SE ISPUM Baltasar Gómez de Amescúa sceglie dunque di definire il rapporto dell’uomo con il proprio corpo attraverso una specifica relazione giuridica: la potestas in se ipsum. Ma cosa intendeva egli per potestas? Si trattava di una specifica situazione di appartenenza? Quale era il sottofondo ideologico che giustificava dunque questa peculiare scelta sul piano tecnico e formale? Il giurista toledano iniziava il suo discorso dall’assunto che nessuno fosse dominus delle proprie membra. Difficilmente si incontrerebbe nell’oceano universale del diritto — sosteneva egli in apertura del suo lavoro — un axioma maggiormente condiviso, quotidianamente pronunciato da chiunque48. Nel richiamare la nozione di dominium, naturalmente non evocava una controversia dall’oggetto limitato e circoscritto al potere su se stessi, al contrario poneva di fronte una disputa che aveva il suo nucleo costitutivo in un ben più ampio e secolare panorama e che, nel suo lungo percorso, era stata occasione di importantissimi stimoli e fermenti49. La focalizzazione dell’attenzione sul corpo suona certo come espressione di nuove mentalità giuridiche e come una anticipazione di esigenze e idealità che sarebbero più decisamente emerse di lì a poco. Indagare il rapporto di dominio del soggetto sul proprio corpo, significava infatti soffermarsi sugli attributi essenziali dell’uomo come tale, proiettandosi, a tratti, fuori dalla logica della differenziazione e degli status. Tuttavia nel proporre un tale tema, Baltasar Gómez de Amescúa non faceva altro che confrontarsi con le fertilissime riflessioni teologiche delle antiche correnti francescane e dei più recenti 48
Ibid., L. I, c. 1, n. 1. Ci limitiamo in questa sede a rimandare agli studi di Paolo Grossi in particolare: Naturalismo e formalismo nella sistematica medievale delle situazioni reali; Usus facti – La nozione di proprietà nella inaugurazione dell’età nuova; La proprietà nel sistema privatistico della Seconda Scolastica, ora raccolti in P. GROSSI, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano 1992. 49
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Maestri spagnoli del siglo de oro, con gli apporti della cultura rinascimentale, animata dal ritorno alle sorgenti della classicità greca e romana, e con la «riposata solidità delle sistemazioni dottrinali del Medioevo»50. Si trattava dunque di discutere questa vulgata regola e di analizzare il ricco armamentario che la sua lunga storia offriva. Il principio poteva trovare riscontro nell’autorità del diritto romano. Dai testi della compilazione giustinianea si ricavava ad esempio che ciascuno avesse suo nomine solo una utilis actio ex lege Aquilia e non una directa a tutela del proprio corpo, così come si potevano trarre moltissimi luoghi in cui erano censurati l’omicidio, il tentato omicidio di sè e l’auto-lesione e poste limitazioni a chi volesse volontariamente vendersi come servo51. Una corrispondenza poteva essere poi trovata nello ius gentium, dal momento che la stessa servitù, da intendersi solo come una sottoposizione a un alieno dominio e non proprio, era stata da questo introdotta per evitare di uccidere i prigionieri di guerra: «unde quoad liberum hominem […] dominium hoc nondum est in rerum natura»52. Nei confronti dell’uomo libero persino la respublica non godeva perciò di un così radicale potere sulla vita, sul sangue e sulle membra. Si trattava di una regola che costituiva infatti il sostrato unitario di moltissimi riferimenti normativi e dottrinali. Il tema investiva un settore vitale, quello dell’amministrazione della giustizia in campo penale, su cui si erano ormai pienamente avviati gli sforzi di accentramento statale. Nell’affrontarlo, il giurista, si muoveva con estrema prudenza, costruendo le argomentazioni con dovizia di citazioni e chiamando a raccolta autorità antiche e recenti. Da Bartolo a Baldo, da Filippo Decio a Cristoforo Porzio e Silvestro Aldobrandini sino ad arrivare all’inquisitore Arnaldo Albertino, i verba utilizzati potevano far sorgere equivoci, ma gli interventi sui cives, sebbene descritti in termini di dominium, andavano interpretati non come esercizio di un
50
P. GROSSI, Il dominio e le cose, cit., 124. Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 1, nn. 1-7. 52 Ibid., L. I, c.1, nn. 12-16. 51
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vero dominium corporum, piuttosto come espressione di una iurisdictio e di una funzione di governo dai precisi vincoli53. I suoi riferimenti cadevano naturalmente anche sui nomi della Seconda Scolastica e della riflessione teologica tridentina e post-conciliare, alcuni dei quali a lui contemporanei, e tutti concordi nell’escludere la configurabilità di un potere così totalizzante sui corpi 54. Considerato nel suo “statuto naturale”, quasi come un concetto biologico, per lo stesso diritto divino il corpo umano dunque non poteva che rimanere manifesto edificante dell’infinita potenza creatrice di Dio: il solo dominus vitae, che «vivificat at mortificat, deducit ad inferos et reducit»55. Doveva perciò concludersi che, salvo rare eccezioni espressamente previste, nessuno avesse sul corpo alcuna legittima potestas? Questa inveterata persuasio non spaventava, a suo dire, l’autore del nostro trattato che, nello stile di una quaestio scolastica, formulava la tesi opposta, per offrire nel quarto capitolo del primo libro la solutio contrariorum56. Dalle argomentazioni precedenti si sarebbe potuto trarre a contrario la regola che a ciascuno uomo fosse in realtà concesso su di sé ogni potere non vietato. A sostegno poteva essere richiamata la stessa definizione romanistica di libertà, quella di Fiorentino, quale 53 Ibid., L. I, c. 1, nn. 17-21. Sul secolare processo di associazione della nozione di Iurisdictio a quella di Imperium, inteso come potere sanzionatorio e coercitivo cfr. P. COSTA, Iurisdictio, Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (11001433), Milano 1969, rist. Milano 2002, 111 ss.; J. VALLEJO, Ruda equidad, ley consumada. Concepcion de la potestad normativa (1250-1350), Madrid 1992, 82 ss. Sul progressivo radicarsi di forme di governo territoriale che rivendicano in via esclusiva tali prerogative e in particolare sulle peculiari dinamiche siciliane cfr. almeno M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 641-647; R. CANCILA, Merum et mixtum imperium nella Sicilia feudale, cit. 54 Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 1, nn. 22-23. 55 1, Reg., c. II, v. 6, cfr. Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 1, n. 10. 56 Ibid., L. I, c. 2: «Caeterum inveterata scribentium persuasio non me terret, quin audeam ex tenebris vindicare veritatem, et longo velut postliminio in proprias sedes restituere». Sulla ricerca della verità come aspetto tipizzante della scolastica medievale cfr. R. SCHÖNBERGER, La Scolastica medievale: cenni per una definizione, Milano 1997, 47 ss.
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facoltà di fare ciò che si vuole, a meno che non sia proibito dalla forza maggiore o dal diritto57. Si potevano citare i principi giuridici alterum non laedere e Volenti non fit iniuria. In entrambi i casi l’ingiustizia contemplata da queste regole nasceva dal nuocere ad altri, non a se stessi58, il che implicitamente significava riconoscere un generale potere di disposizione sul proprio corpo. Si dovevano poi tenere presenti le ipotesi da più fonti delineate, che ammettevano che il pegno potesse lecitamente essere rappresentato dalla persona del debitore59. Infine anche il caso del voto del monaco60 o lo ius in corpus dei nubenti61 dimostravano come ciascuno avesse un indiscutibile potere sul proprio corpo, tanto da poterlo persino trasferire ad altri. Del resto — a voler ascoltare le parole di Carione, personaggio di una della commedie di Aristofane più apprezzate dalla cultura rinascimentale — persino il servo esercitava di fatto una signoria sul proprio corpo, anche se, per la sua sorte disgraziata, il potere di disposizione (ius corporis) spettava giuridicamente al compratore62. Gli status dunque, che continuavano a rappresentare l’angolo di osservazione per cogliere i più naturali attributi del soggetto, confermavano, dandone concretamente la misura, l’esistenza di tale potere. Per risolvere i problemi esegetici che nascevano dall’apparente contraddizione delle due tesi prospettate, e ulteriormente esposte usando tutto il bagaglio dello ius commune e secondo lo stile tipico di quello che, in modo approssimativo, può essere definito il mos italicus63, 57
Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 2, n. 1. Ibid., L. I, c. 2, nn. 2-4. 59 Ibid., L. I, c. 2, nn. 5-11. 60 Ibid., L. I, c. 2, nn. 12-17. 61 Ibid., L. I, c. 2, nn. 18-21. 62 Ibid., L. I, c. 2, n. 9: «“Nam ita inique comparatum est, ut sors invida, ius corporis non illi, qui ipsum possidet, sed ei qui pretio est mercatus concesserit”. Ius vocat corporis, quasi ius de corpore disponendi, quod est potestas haec, quam asserimus: ait autem etiam servuum, cui non est hoc ius corporis, suum corpus possidere». Per il testo citato della commedia cfr. ARISTOFANE, Pluto, a cura di F. Barberis, Milano 2003, Atto I, Scena I. 63 Sulla reciproca interazione dei metodi del mos gallicus e del mos italicus cfr. I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine,cit., e la letteratura ivi citati, 233 ss. 58
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l’autore del Tractatus riteneva necessario soffermarsi sulla natura di questa originaria potestas sul corpo. Occorreva cioè analizzarne più minutamente il contenuto, esaltarne il reale meccanismo interiore e dimostrare che essa costituisse la forma giuridica più coerente con la sostanza effettiva della relazione uomo-corpo. Si doveva infatti più attentamente riflettere sul fatto che tale potestas non presentasse sotto il profilo della titolarità formale i tratti dello ius dominium, ma che tuttavia producesse effetti simili a questo se considerata dal punto di vista del suo esercizio. Una facultas che condivideva cioè con esso una estensione particolarmente ampia e, a sua tutela, un cumulo di strumenti processuali, nisi quid iure prohibeatur64. Rielaborando le parole di san Tommaso e, soprattutto, dei suoi interpreti, il discorso diventava più chiaro. L’uomo era stato voluto da Dio quale dominus di se stesso per liberum arbitrium. Ne discendeva la conseguenza che egli fosse libero di scegliere, per vivere, come usare il proprio corpo (dominium usus suorum membrorum et potentiarum). La vita di ciascuno infatti era stata affidata, dalla grazia divina, proprio al libero arbitrio individuale. Rimaneva però con ciò nitido il confine: tutto quello che afferiva al «transitus de hac vita ad aliam vitam feliciorem» sarebbe dovuto ricadere immediatamente nella piena ed esclusiva potestas divina65. Era questo un postulato fondamentale e utilissimo perché consentiva di distinguere tra i vari bona corporis, a seconda che essi fossero ordinati, o meno, ad vitae conservationem e di definire, sopra di essi, anche i contorni della potestà umana. L’antico ordine delle gerarchie e delle differenze continuava a dare prova della sua tenuta e della sua flessibilità. Il modello potestativo adottato, con l’insistere su una posizione di supremazia a cui corrispondeva una condizione di dipendenza e di obbedienza, era infatti in grado di rispondere alle nuove esigenze66. Permetteva di valorizzare il ruolo del soggetto e la sua dimensione volontaristica, individuando nella capacità dominativa del corpo un elemento di 64
Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 4, nn. 1-4. Ibid., L. I, c. 4, n. 18. 66 Cfr. il nitido quadro tracciato da P. COSTA, Civitas, I, cit., 111-126. 65
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continuità analogica fra Dio e la creatura umana. Allo stesso tempo consentiva di ordinare, in maniera decrescente, le rispettive potestà, divina e umana, e di giustificare in assenza di razionalità e libertà del singolo la sottoposizione alla guida e alla direzione altrui. Ammessa dunque, dentro questa cornice, una generale presunzione circa la facultas de se arbitrio suo dispondendi, si trattava a questo punto di individuare più in dettaglio i limiti specifici posti dal diritto: «Sed iam ad specialiora descendamus»67. 5. IL GOVERNO PRATICO DEL CORPO Proviamo infine a presentare, in questa sede in maniera necessariamente sintetica, le specifiche ipotesi contemplate da Gómez de Amescúa. Nel suo variegato percorso, nelle sue numerose deviazioni, il giurista spagnolo può effettivamente aiutare a tracciare una mappa dei discorsi che, nell’Europa di inizio XVII secolo, facevano gli uomini di cultura rivolgendosi alla complessità dei problemi legati all’uso del corpo. Il suo trattato è in tal senso una bisaccia dalla quale è possibile trarre testimonianze nuove e antiche68. L’affollato coro di auctoritates presente nel lavoro mostra sentieri battuti, nei quali però nessuno può o vuole «rinunciare al conflitto»69. I filosofi, i letterati, i teologi, e i giuristi, facendo ricorso a un orizzonte di saperi misto, seppure all’interno di precisi argini, continuavano infatti, in un dialogo a distanza, a confrontarsi per accertare quali fossero effettivamente i capisaldi irremovibili dell’ordine vigente e per spiegarne la loro reale consistenza. Di questa competizione, che rappresenta un efficace «elemento di coesione dinamica» della società di antico regime70, dà conto il giureconsulto toledano. 67
Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 4, n. 18. Per descrivere i trattati scientifici del XVI secolo, la bella immagine della ordinata sacca doppia (bisaccia) che accompagnava il pellegrino medievale è utilizzata da F. MIGLIORINO, Mysteria concursus. Itinerari premoderni del diritto commerciale, Milano 1999, 110. 69 S. BURGIO, Appartenenza e negozio. La crisi della teologia barocca, Soveria Mannelli 2005, 15. 70 L.c. 68
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Riconosciuta la generale potestas di ciascuno in se ipsum, l’autore ritornava dunque sulla massima manifestazione di volontà sopra il corpo: l’ipotesi del suicidio. Si trattava certo di una speculazione colta legata al rinnovato interesse per la morale stoica, testimoniato in Baltasar dal suo carteggio con Justus Lipsius, figura fondamentale per la diffusione di tale cultura nell’Europa barocca71. Ma il tema, assai importante sotto il profilo del foro interno (forum poli), coinvolgeva, in un orizzonte così incline a concepire una relazione con il corpo, le moltissime previsioni giuridiche che sanzionavano il gesto suicida. A queste dunque il giurista rivolgeva in primis l’attenzione. Nell’ambito del diritto canonico, l’automutilazione o il tentativo di suicidio comportavano infatti l’irregolarità a ricevere gli ordini sacri72 e i divieti di sepoltura e di celebrazione di commemorazioni73. Anche sul versante del diritto civile e territoriale, il nostro autore spiegava come tali atti, sebbene non puniti generalmente per ragioni di convenienza, fossero comunque considerati illeciti. Potevano infatti citarsi i casi in cui, nel rispetto delle varie fonti normative74, era ammesso l’intervento dell’arbitrium iudicis e ammissibile l’irrogazione di specifiche pene (si pensi all’intestabilitas e alla confisca dei beni)75. Le Scritture, gli esempi dei santi che resistevano al martirio subendo la morte solo per mano di altri, la condanna dell’eresia donatista erano tutti argomenti che dimostravano come l’omicidio di sé fosse soprattutto proibito iure divino e che, vero e proprio crimen 71
Un’entusiasta epistola che Gómez de Amescúa indirizza nel settembre del 1601 a Lipsius presentandosi come giureconsulto di professione e suo ammiratore, in possesso di tante sue opere nella propria biblioteca e desideroso di ricevere notizie di sue prossime pubblicazioni, e la corrispondente risposta del marzo 1603 dell’umanista belga, dalla quale si ricava notizia anche di un’altra successiva missiva di Amescúa, si leggono in A. RAMIREZ, Epistolario de Justo Lipsio y los españoles, (1577-1606), Madrid 1966, rispettivamente 314-317; 359-362. 72 Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 20, nn. 1-30. 73 Ibid., L. I, c. 22, nn. 1-38. 74 Al riguardo Gómez de Amescúa si impegna nel difficile coordinamento tra diritto comune, disciplina statutaria e legislazione ispanica, ibid., L. I, c. 23, nn. 1-75; L. I, c. 24, nn. 1-7. 75 Ibid., L. I, c. 21, nn. 1-29; L. I, c. 23, nn. 1-75; L. I, c. 24, nn. 1-11.
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laesae maiestatis divinae, rappresentasse a tutti gli effetti una usurpazione della suprema potestà (iurisdictio Dei)76. Nella costante preoccupazione di connettere saperi teologici e saperi giuridici, il giurista toledano lo assimilava all’evasione dal carcere (dell’anima racchiusa da Dio nel corpo), alla fuga del servo, alla diserzione del soldato, alla violazione degli obblighi nascenti dal deposito77. Col proporre una sistemazione che fosse in grado di contemperare le vive istanze di religiosità e le esigenze di difendere la responsabilità e la razionalità dell’uomo, il nostro erudito autore esaminava inoltre attentamente il modo in cui esso costituiva un peccato contro le virtù teologali78, contro quelle cardinali79, ed infine contra naturam80. La regola generale, ricavabile per legem divinam, canonicam, vel civilem, era dunque che nemo sibi potest consciscere mortem81. Affermato così il principio dell’intrinseca ed estrinseca malitia del suicidio, con lo strumento ermeneutico del pensare per casi, l’indagine poteva addentrarsi nelle molteplici varianti dell’intenzione e dell’azione. Il principio non ammetteva alcuna eccezione. Valeva anche per le ipotesi che gli antichi gentili consideravano iustae, ovvero di chi si dava la morte perché non in grado di sopportare il dolore, per furore d’amore, per taedium vitae, per la vergogna di un debito, per la durezza di una grave malattia, o per la grande povertà82. Si estendeva ai casi tollerati talvolta dagli ebrei: ovvero sarebbe stata illecita la condotta di chi avesse voluto uccidersi per evitare di dover abbandonare la propria fede o per non offendere con la propria vita Dio83. Allo stesso modo una tale radicale scelta sarebbe stata censurabile se giustificata dalla volontà di non soffrire sotto la servitù dei nemici o 76
Ibid., L. I, c. 5, nn. 1-8. Ibid., L. I, c. 5, nn. 9-14. 78 Ibid., L. I, c. 6, nn. 1-4. 79 Ibid., L. I, c. 6, nn. 5-14. 80 Ibid., L. I, c. 7, nn. 1-4. 81 Ibid., L. I, c. 8, n. 1. 82 Ibid., L. I, c. 8, n. 3. 83 Ibid., L. I, c. 8, nn. 3-4. 77
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dal desiderio di non essere da essi uccisi84, come «dementissimum» sarebbe stato agire così per punirsi dei mali commessi o per evitare di commetterne in futuro85. Per Gómez de Amescúa, dopo un attento esame in cui non erano trascurate le opinioni contrarie, si sarebbe dovuto considerare illegittimo anche il gesto del bandito che in ossequio allo statuto, che autorizzava chiunque ad ucciderlo, provvedeva da solo a farlo. Nessuna legge o ordine del giudice avrebbe infatti potuto derogare a un principio così generale86. Diventava di estrema importanza accertare quindi ai fini della responsabilità la conscientia criminis. Nel grande ventaglio delle possibilità il giurista distingueva perciò tra chi si suicidava o si mutilava per sottrarsi al giogo dei nemici87 e chi invece, scegliendo la fuga o la strenua difesa da essi, accidentalmente incontrava la morte o si procurava una grave lesione88. Tra chi subiva un ferimento letale ricevendolo da altri, ma era da considerarsi comunque colpevole poiché l’evento era collegato ad una situazione di base illecita89 e chi, pur non ricercando manifesta et certa morte90, esponesse a rischio la vita per una causa meritoria (pro Respublica, pro regibus, parentibus, filiis, uxoribus, maritis, propinquis, et amicis)91. Occorreva sempre distinguere e analizzare la questione mettendo a confronto più punti di vista. Come giudicare ad esempio chi era pronto a sacrificare il proprio corpo per tutelare beni temporali? Se valeva anche in questa ipotesi il principio secondo il quale non era lecito perdere in maniera certa la propria vita, perché ciò avrebbe significato anteporre a un bene 84
Ibid., L. I, c. 8, nn. 7-12. Ibid., L. I, c. 8, nn. 13-16. 86 Ibid., L. I, c. 10, nn. 15-18. 87 Ibid., L. I, c. 8, n. 7. 88 Ibid., L. I, c. 9, nn. 9-10; L. II, c. 2, nn. 25-33. 89 Ibid., L. I, c. 20, nn. 4-8. 90 La possibilità di salvarsi rappresentava il discrimen per valutare la legittimità del sacrificio; si pensi all’esempio dei naviganti che nel caso di naufragio non avrebbero dovuto cedere la scialuppa al re, se non avessero avuto alcuna speranza di sopravvivere così facendo: ibid., L. II, c. 3, n. 3; L. II, c. 5, n. 8. 91 Ibid., L. II, c. 1, n. 6; L. II, c. 2, nn. 1-33; L. II, c. 3, nn. 1-30; L. II, c. 4, nn. 1-14. 85
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molto prezioso uno di minor valore92, si dovevano però, ancora una volta, trattare diversamente le situazioni caratterizzate dal solo rischio, ancorché alto. Così, per la generalità delle opinioni riportate, era lecito assumersi una tale pericolosa evenienza se si agiva per proteggere beni necessari alla stessa conservazione del corpo93. Ma Baltasar sceglieva di citare anche orientamenti minori per potere illustrare la propria dottrina: ovvero che anche nel caso di beni superflui e di modica quantità fosse possibile fare una scelta così controversa dal momento che era ammissibile, con debita discrezione, volere salvaguardare un accrescimento del proprio patrimonio94. Il discorso si faceva naturalmente ancora più analitico quando venivano in considerazione fama e onore. L’illiceità del duello, uno dei temi che, per l’ostilità della corona e dell’altare, era tra i più delicati di quegli anni e la cui trattazione tra le più soggette a espurgazione, diventava ad esempio molto problematica se rapportata alla necessità della tutela dei due più importanti beni temporali95. Nell’opera di Gómez de Amescúa il corpo rimane sempre «“campo” semantico largo e incoercibile» che «vive di con-fini» ma che non sopporta «de-finizioni»96 e che è dunque strumento di un potente “costruttivismo”, volto a riorganizzare temi tradizionali e a mettere in parola territori non completamente dominati o scossi da nuove fondazioni. È così che, confrontandosi con un universo in cui il singolo non è ancora perfettamente percepibile fuori dalle sue appartenenze e dalle sue relazioni sociali, e in cui perciò «l’abito diventa corpo»97, il giurista 92
Ibid., L. II, c. 5, n. 1. Ibid., L. II, c. 5, n. 2. 94 Ibid., L. II, c. 5, nn. 4-5. 95 Ibid., L. II, c. 5, nn. 6-30. Per uno sguardo di insieme sul tema cfr. M. CAVINA, Il sangue dell’onore. Storia del duello, Roma-Bari 2005; G. FRAGNITO, «In questo vasto mare de libri prohibiti et sospesi tra tanti scogli di varietà et controverse», cit., 19; C. DONATI, A Project of “Expurgation”, in G. FRAGNITO, Church, Censorship and Culture, Cambridge 2001, 134-162. 96 E. RESTA, L’identità del corpo, in Trattato di biodiritto. Il governo del corpo, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Milano 2011, I, 14-15. 97 F. MIGLIORINO, L’istituzione sociale della «mancanza» (a proposito di Antonio 93
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spagnolo si chiedeva se al nobile, al padre, alla madre, al figlio, al socio, al dottore, al magistrato, al soldato, al chierico e alle egregiae personae fosse consentito rinunciare ai propri privilegi98. Allo stesso tempo, il medesimo obbligo di conservare il corpo gli consentiva di dare rilievo al dovere di difesa, da intendere non solo come legittima reazione fisica99, ma anche come inviolabile attività processuale100. Ancora, il tema della donna domina sui corporis veniva utilizzato dal giureconsulto per affrontare il problema della prostituzione e per riconsiderare le relazioni extra-matrimoniali. Ad entrare in gioco naturalmente i due longevi stereotipi femminili: quello della donna cortigiana, che faceva del proprio corpo un mezzo di evasione dell’uomo, e quello della donna, illibata, onesta, destinata al matrimonio e perciò bisognosa di protezione, prima delle nozze, nella gestione del suo corpo. Tuttavia, le due questioni giuridiche sottese erano state oggetto di grandi ripensamenti nel corso del Cinquecento. Infatti per l’orientamento fatto proprio da Baltasar, l’argomento della donna padrona del proprio corpo, poteva giovare a che, in contrasto con tutta la dottrina canonistica e civilistica precedente, il pagamento alla prostituta fosse considerato giuridicamente dovuto101, e che il consenso della donna casta a un rapporto carnale prematrimoniale in casi estremi potesse essere inteso come libero, vero e spontaneo, e dunque colpevole102. M. Hespanha, Imbecillitas. As bem-adventuranças da inferioridade nas sociedades de Antigo Regime, Sän Paulo 2010), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 42 (2013), 671. 98 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, cc. 23-24. 99 Ibid., L. I, c. 17, nn. 1-15. 100 Ibid., L. I, c. 17, nn. 16-30; L. I, c. 18, nn. 1-8; L. I, c. 19, nn. 1-40. Sulla legittimazione de iure naturali del principio della defensio e sulla sua, seppure limitata, applicazione nei modelli processuali della prima età moderna cfr. M. PIFFERI, Generalia delictorum. Il Tractatus Criminalis di Tiberio Deciani e la “Parte generale” di diritto penale, Milano 2006, specificamente 177 ss, 284; E. DEZZA, Lezioni di diritto processuale, Pavia 2013, 131-134. 101 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 15, nn. 1-19. Cfr. I. MEREU, Prostituzione (storia), in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano 1988, 440-451. 102 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 16, nn. 1-8. L’ipotesi, largamente
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L’affermazione di una generale potestas sul proprio corpo imponeva poi al giurista di ritornare dettagliatamente anche sul pegno, sull’arresto per debiti103 e sullo strumento della locatio operarum per la gestione della forza-lavoro umano104. Per tale via, nella sua trattazione veniva coinvolto tutto l’ampio spettro dei rapporti di dipendenza stabili tra uomini, che una sapienza secolare aveva trasferito ora in quello dei diritti reali, ora in quello dei vincoli obbligatori, ora in quello della norma consuetudinaria, ora nel campo dello status personale. Nell’esplorare i tanti legami di nascita o pattizi col territorio, il colto autore, mettendo probabilmente a profitto l’esperienza isolana della migrazione di «corto raggio» dovuta alla colonizzazione feudale105, poteva indagare infine la libertà di movimento del civis e l’interesse delle collettività a respingere soggetti pericolosi o, al contrario, a trattenere membri che potessero costituire una risorsa militare e contributiva106. Le moltissime emergenze pratiche, grandi e piccole, su cui è costruito il trattato di Baltasar, ci restituiscono anche un nitido affresco sul quotidiano del tempo. A tratti sembra di vedere le città “grandi” siciliane che, alla fine del secolo XVI, avevano assunto ormai il volto di una capitale, con le piazze attrezzate a teatri per i tornei, le cacce artificiali e le corride. Un intero capitolo del lavoro di Baltasar è infatti dedicato a queste manifestazioni ludiche. Sospese fra gioco, addestramento alle armi e regolamento di conti, esse ponevano diversi problemi sotto il profilo del rischio e del difficile controllo pubblico107. dibattuta, è quella dello stupro della consenziente. Il giurista toledano, pur presumendo nei casi dubbi l’intervenuta colpevole seduzione dell’uomo, ammetteva infatti la non punibilità di questo nei casi in cui chiaramente la donna avesse prestato un consenso libero, vero e spontaneo. Su questa posizione di Gómez de Amescúa cfr. G. CAZZETTA, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano 1999, 93. 103 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 20, nn. 1-40. 104 Ibid., L. II, c. 19, nn. 1-12. 105 T. DAVIES, La colonizzazione feudale della Sicilia, cit., 444. 106 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 18, nn. 1-39. 107 Ibid., L. II, c. 11, nn. 1-38. Tra insistenti proibizioni ufficiali e sempre riaccesi
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Nel tentativo di spiegare sino a che punto fosse possibile disporre del proprio corpo mettendolo a repentaglio, Baltasar poneva poi lo sguardo sui primi significativi passi di una politica sanitaria. La peste, la carestia e il tifo, nell’ultimo quarto del secolo, avevano posto ai gruppi dirigenti isolani problemi di grandi complessità e la loro risposta si era collocata «al livello più alto della capacità organizzativa e scientifica dell’Europa tardo cinquecentesca»108. Sotto tale luce, si possono dunque leggere gli interrogativi del giureconsulto spagnolo. Come valutare in tali emergenze la condotta dei laici e del clero, per assistere, anche a rischio di contagio, gli infetti (pro salute corporali infecti)?109 Escluso che il dovere di salvaguardare il corpo si risolvesse per i sani in un medicinaliter vivere110, quale comportamento aspettarsi dai malati?111 Avevano il dovere di curarsi? Come doveva comportarsi il medico a fronte del diniego del paziente e come distinguere sue eventuali responsabilità?112 La medicina è dunque ormai al centro della scena. Si registra così ad esempio nell’opera il compiuto superamento della condanna della dissezione. Lo studio dell’anatomia del corpo umano sin dall’inizio del secolo XVI era divenuto pratica corrente. L’entusiasmo per queste ricerche si era propagato ben presto dall’università patavina ai domini spagnoli del Meridione d’Italia. A Palermo la carriera, nei primi anni sessanta del Cinquecento, dell’insigne anatomico Giovanni Filippo Ingrassia come Protomedico del Regno, e il pionieristico trattato medico-legale del suo allievo Fortunato Fedeli, pubblicato due anni prima del lavoro del nostro giureconsulto toledano, ne rappresentano una valida testimonianza. Non stupisce perciò che Gómez de Amescúa
favori popolari la tauromachia, cui Gómez de Amescúa dedica grande attenzione, continuerà a presentare caratteristiche peculiari di grande interesse per il giurista. Cfr. C. PETIT, Fiesta y contrato. Negocios taurinos en protocolos sevillanos (17771847), Madrid 2011. 108 G. GIARRIZZO, “La Sicilia dal Cinquecento all’Unità di Italia”, cit., 233. 109 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 4, nn. 6-9. 110 Ibid., L. II, c. 6, nn. 13-16. 111 Ibid., L. II, c. 7, nn. 1-20. 112 Ibid., L. I, c. 12, n. 15; L. I, c. 21, n. 13; L. II, c. 7, nn. 1-20.
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non si dilunghi molto sulle antiche dispute teologiche che avevano accompagnato in origine questa nuova branca della medicina, e consideri perfettamente lecita la disposizione post mortem del cadavere a favore dei dottori (ad faciendam anatomiam)113. Le pagine del Trattato restituiscono poi il caso della donna in procinto di partorire con le nuove tecniche del parto cesareo in vita: come valutare il suo consenso ad un’operazione così rischiosa? Nella soluzione proposta, la condotta della donna non poteva essere considerata illegittima, dal momento che l’intervento comportava un altissimo rischio, ma non la sicurezza della morte. Con tale consapevolezza e in considerazione dell’interesse del nascituro ad essere battezzato, ben si sarebbe potuto affermare che fosse lecito per la madre esporre la sua vita a un così grave pericolo114. In questa fitta trama che connette, la sua attenzione cadeva anche sulle mutilazioni, aspetto che lo induceva ad affrontare il problema dell’integrità dell’uomo e della scomposizione del suo corpo115. L’esposizione della questione si concentrava sull’osservazione del sostrato fisico umano e sul mantenimento della considerazione unitaria dello stesso (ratione integritatis116), anche quando le sue parti potessero trovarsi in una situazione di separabilità. Nel complesso gioco delle reciproche imitazioni, per secoli il simbolo del corpo aveva del resto rappresentato l’unità di un gruppo o di una comunità117. Sottoposto 113 Ibid., L. I, c. 12, n. 24. Sul graduale superamento, tra il Duecento e il Quattrocento, della radicale condanna della pratica della dissezione, e sulle relative dispute teologiche cfr. R. MANDRESSI, Le Regard de l’anatomiste: dissections et invention du corps en Occident, Paris 2003, 26-35. Su Giovan Filippo Ingrassia e Fortunato Fedeli, maestro di Paolo Zacchia, cfr. R. ALIBRANDI, Giovan Filippo Ingrassia e le Costituzioni Protomedicali per il Regno di Sicilia, Soveria Mannelli 2011; EAD., Ut sepulta surgat veritas. Giovan Filippo Ingrassia e Fortunato Fedeli sulla novella strada della medicina legale, in Historia et ius, [www.historiaetius.eu], 2 (2012), paper 7. 114 Tractatus de potestate in se ipsum, L. II, c. 4, n. 2. Sul controverso tema del parto cesareo in vita cfr. N. M. FILIPPINI, La nascita straordinaria. Tra madre e figlio la rivoluzione del taglio cesareo (sec. XVIII-XIX), Milano 1995. 115 Ibid., L. I, c. 9, n. 3; L. I, c. 20, nn. 1-30. 116 Ibid., L. I, c. 9, nn. 13-16. 117 P. COSTA, Civitas, I, cit., 9-13.
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all’uso della persona che lo aveva avuto dalla natura concesso, il corpo non era dunque da considerarsi intoccabile. Darsi uno schiaffo, infliggersi una piccola percossa, tirarsi barba e capelli non costituiva in realtà nemmeno un peccato. Tuttavia occorreva sempre osservare grande cautela: non altrettanto innocua era infatti la condotta di chi si abbandonava eccessivamente al dolore del lutto, o disperato si flagellasse118. Il confine doveva essere inteso sempre come sottile e labile. I precisi limiti fissati dal diritto e dalla morale all’uso del corpo, avevano ognuno un proprio autonomo significato e dovevano essere adattati a destinatari diversi. Occorreva perciò considerare lo status del soggetto, valutare le finalità poste a fondamento dell’atto di disposizione e procedere sempre al difficile bilanciamento di interessi allorché fosse coinvolta la posizione di terzi. Il ragionevole rischio, la quantificazione della lesione e il carattere vantaggioso o svantaggioso della stessa, l’esistenza di interessi superiori o altri limiti oggettivi, erano tutti elementi da ben ponderare. Così, davano luogo a una gravissima iniuria coloro che sibi abscinderunt un membro del corpo con l’intenzione di salvaguardare la propria castità (la salus animarum andava perseguita del resto con uno sforzo tutto interiore)119, ma l’amputazione era perfettamente lecita «pro conservatione totius corporis»120, a salvaguardia dunque della propria salute fisica per ragioni mediche, o in vista di uno scopo di particolare valore sociale come il salvataggio di un’altra persona121. Gli argomenti della Seconda Scolastica erano utilizzati a fianco di quelli dei giureconsulti d’oltralpe, dei criminalisti italiani, e degli inquisitori per indagare poi il problema dell’omicidio o delle lesioni del consenziente e della validità dell’eventuale patto122. Seguire nell’opera di Baltasar i percorsi attraverso cui simili questioni venivano discusse, conferma nel lettore contemporaneo la 118
Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 11, nn. 8-12; L. I, c. 12, n. 19. Ibid., L. I, c. 9, nn. 11-23. 120 Ibid., L. I, c. 11, n. 1. 121 Ibid., L. I, c. 17, n. 5. 122 Ibid., L. I, c. 12, nn. 1-23; la questione coinvolge tipicamente anche le forme di giustizia privata; al riguardo cfr. L. I, c. 13, nn. 1-11. 119
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consapevolezza della storicità dei «criteri di verità» che anche oggi conducono questi temi, ma gli offre anche la possibilità di apprezzare, una volta tenuto presente il preciso contesto culturale, i differenti «giudizi di opportunità» che ogni criterio di decisione, ogni soluzione normativa, racchiudeva dentro sé123. Sullo sfondo della riflessione teorica vi era naturalmente la necessità di arginare le resistenti forme di «giustizia privata e negoziata»124, ma la problematicità del consenso sul proprio corpo era colta come particolarmente rilevante e incisiva anche per l’amministrazione della giustizia pubblica, ai fini della affermazione di una responsabilità corporale che fosse solo personale125, e per la regolazione della stessa istruzione processuale. Ad esserne coinvolti, confessione e tortura, i mezzi di prova che rendevano nella pratica più difficile il compiuto innesto della procedura inquisitoria sull’impianto accusatorio126. Infine il tema incideva anche sulla legittimazione e applicazione delle pene corporali. In caso di pene alternative poteva ad esempio il condannato pretermettere la pena pecuniaria a vantaggio di quella corporale?127 Era possibile condannare un colpevole a uccidersi, 123
P. ZATTI, Premessa, in Maschere del diritto volti della vita, Milano 2009, XV. M. SBRICCOLI, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessioni su una nuova fase di studi della storia della giustizia criminale, in M. BELLABARBA – G. SCHWERHOFF – A. ZORZI (curr.), Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo Medioevo ed età moderna, Bologna 2001, 346-350. 125 Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 14, nn. 24-27. 126 Ibid., L. I, c. 14, nn. 9-15; L. I, c. 15, nn. 1-11. Sul modello inquisitorio, entro il quale tortura e confessione acquistano il massimo rilievo, e sulla relativa riflessione dottrinaria nella prima età moderna cfr. M. SBRICCOLI, Giustizia negoziata, giustizia egemonica, cit.; ID., Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa, cit., pp. 163205; P. MARCHETTI, Testi contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna, Milano 1994; G. ALESSI, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari 2001; M. PIFFERI, Generalia delictorum, cit.; D. EDIGATI, Gli occhi del Granduca. Tecniche inquisitorie e arbitrio giudiziale tra stylus curiae e ius commune nella Toscana secentesca, Pisa 2009; R. SORICE, “… Quae omnia bonus iudex considerabit…”. La giustizia criminale nel Regno di Sicilia (XVI), Torino 2009; E. DEZZA, Lezioni di diritto processuale, cit. 127 Tractatus de potestate in se ipsum, L. I, c. 16, nn. 1-17. 124
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bevendo un veleno? Era lecito costringerlo ad aprire la bocca perché lo potesse ingurgitare?128 Ci si chiedeva infatti fino a che punto il reo potesse, legittimamente, prestare il proprio consenso al supplizio del proprio corpo. Condannato, ad esempio, ad sanguinis emissionem per venam, poteva chiedere di eseguire la pena lui stesso dal momento che artis peritus avrebbe così evitato di soffrire maggiormente per l’inesperienza del carnefice?129 Che dire invece della collaborazione che egli prestava salendo le scale del patibolo, distendendo il collo, offrendo la gola?130 Come valutare infine l’ipotesi di fuga del carcerato?131 O ancora come giudicare il caso del nobile che si era spacciato plebeo, e del cittadino che si era dichiarato straniero per evitare una pena più grave?132 Non si trattava anche in questi casi di una strenua difesa del corpo? Avrebbero costoro dovuto piuttosto acconsentire a subire la sanzione prevista? Si tratta di dispute che sembrano solo grottesche e astruse nel distinguere tra agire e patire e nel passare in rassegna tutti i singoli modi in cui era possibile “cooperare” alla propria morte o a conservare la propria vita (atti affermativi o positivi diretti e indiretti, e atti negativi o passivi diretti e indiretti)133. Ma esse in realtà ben rappresentano il destino del corpo che, investito di “ragioni naturali”, finiva per rientrare in una sfera di disponibilità tutta da regolare e da decidere. L’opera di Baltasar Gómez de Amescúa è in tal senso un documento storico-culturale specifico, una testimonianza preziosa di una cultura che, impegnata in una difficile transizione, fu propensa ad analizzare le molteplici manifestazioni di un corpo già prepotentemente “giuridificato” e di amplificarne, attraverso la scomposizione analitica del ragionar per casi, le questioni. Una cultura che, irriducibile al giudizio che la vuole espressione di un sordo pensiero confes-
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Ibid., L. I, c. 10, n. 6. Ibid., L. I, c. 10, n. 10. 130 Ibid., L. I, c. 10, n. 11. 131 Ibid., L. I, c. 11, n. 5; L. I, c. 17, nn. 12-15; L. II, c. 9, nn. 1-11. 132 Ibid., L. II, c. 1, n. 10. 133 Ibid., L. II, c. 1, nn. 1-17. 129
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sionale, fu capace per tale via di confrontarsi con la complessitĂ del reale e di aprire a nuove possibilitĂ di consenso, anche solo rendendolo problematico o, il piĂš delle volte, colpevole.
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PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E INTERESSI METAINDIVIDUALI
GIOVANNI DI ROSA*
1. FUNZIONE DEL DIRITTO E VALORE DELLA LEGGE Il problema del fondamento del diritto e, dunque, delle concrete regole giuridiche destinate a disciplinare i rapporti tra i consociati (attribuendo a questo termine una valenza assolutamente generica in quanto qui utilizzato per descrivere semplicemente i destinatari dei precetti normativi) rappresenta una delle grandi questioni che da sempre muovono le riflessioni degli studiosi. Senza qui volere addentrarsi nella ben nota contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo, con il ritenuto (o contestato) necessario riferimento del secondo al primo, è tuttavia indubbio che il diritto deve comunque avere un minimo di fondamento etico1. Corollario di questa indicazione è, poi, la necessaria ricerca del senso e del contenuto della scelta etica che sta alla base di una certa decisione normativa. Più in particolare il valore dell’etica nelle scelte giuridiche appare in tutto il proprio rilevante significato allorché in discussione vi siano questioni concernenti la persona umana. Occorre allora chiedersi se in questo àmbito così delicato le decisioni debbano essere sostenute da un preciso fondamento etico che le *
Docente di Diritto Privato nell’Università degli Studi di Catania. Questo richiamo si trova in A. NICOLUSSI, Eugenetica e diritto. Il futuro della natura umana tra inviolabilità e indisponibilità, in Humanitas (2004) 808. 1
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giustifica e, direi, le fonda, almeno rispetto al valore ad esse assicurato dalla validazione procedimentale, come espressione cioè di un certo procedimento di formazione, oppure possano essere scevre da qualsivoglia richiamo a princìpi etici per limitarsi all’antica regola del ius quia iussum. Da questo punto di vista, più specificamente, si prospetta la possibilità di differenziare una scelta normativa valida, nel senso della propria conformità a regole sovraordinate e, pertanto, assunta nel rispetto di queste ultime, da una scelta normativa giusta, assegnando al criterio della giustizia la rispondenza della regola adottata a valori metanormativi o che, comunque, sicuramente trascendono un ordinamento di carattere positivo; ciò, ovviamente, non esclude né che la scelta valida sia anche giusta né, ancor prima, che un ordinamento come quello giuridico, pur essendo espressione dell’operato umano, possa anche essere orientato a criteri che trovano il proprio fondamento in princìpi universalmente riconoscibili in quanto inscindibilmente legati al valore profondo della persona umana. Si ripropone, cioè, l’antico problema dei rapporti tra la legge e il diritto, la cui primigenia contrapposizione viene individuata nel testo fondativo della nostra civiltà giuridica, ossia la tragedia Antigone di Sofocle, che rende palese, dietro il contrasto tra la legge di Antigone e il diritto di Creonte, la contesa tra norma morale, iscritta nella coscienza dell’uomo, e legge del potere, espressione (in quel caso) di una logica funzionale all’asservimento (e all’annichilimento) del basilare principio del rispetto della persona umana2. Il problema, dunque, della giustizia delle regole costituisce il tema di fondo rispetto al senso della dimensione giuridica, deputata (per definizione) alla soluzione dei conflitti tra interessi interindividuali ma impossibilitata a rinunciare alla questione (cruciale) del relativo fondamento etico.
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Sui termini del problema torna da ultimo a riflettere, proprio muovendo dalla contrapposizione tra Antigone (emblema del diritto) e Creonte (rappresentante della legge), G. ZAGREBELSKY, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino 2009, 5 ss.
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2. IL DIRITTO (QUALE LEGGE) E IL CORPO UMANO NELLE DICHIARAZIONI DI PRINCIPIO
In questo contesto si inserisce allora l’attualizzazione del problema prospettato in ordine al rapporto tra la legge (intesa come complesso ordinamentale di regole) e il corpo umano (quale realtà materiale ordinante e ordinata, oggetto di disciplina normativa ma destinatario altresì delle decisioni del soggetto di riferimento). L’odierno scenario è caratterizzato, infatti, da una contrapposizione (che si traduce nella individuazione, non solo in astratto, di differenti prospettive di indagine) tra dimensione privata della persona (in attuazione cioè del ritenuto preminente principio individual-privatistico di approccio) e dimensione pubblicistica (interessata, piuttosto, alla definizione di regole estranee alla libera e autonoma decisione individuale). Parallelamente, e probabilmente in via preliminare, non ci si può peraltro non interrogare se sia opportuno e, ancor prima, se risponda alla funzione della regola giuridica, la regolamentazione (talora così pervasiva) delle vicende della vita umana aventi ad oggetto il tema del corpo umano, anche in relazione al modo in cui, in concreto, la legge (ove sussistente) viene poi applicata3. Utili, al riguardo, appaiono le indicazioni provenienti dalle carte fondamentali, ossia da quei documenti (in particolare, ma non solo, di natura sovranazionale) nei quali si fissano principi di carattere universale, espressione della preminenza del valore della persona umana rispetto all’ordinamento, anzi deputate alla riaffermazione della persona umana come valore previo (e preesistente) rispetto alla legge, la cui rilevanza (e dimensione) pubblica traduce l’esercizio del potere legittimamente costituito. Può al riguardo ricordarsi, in ordine ai rapporti tra la regola giuridica e il corpo umano, accanto al fondamentale diritto alla vita (di cui, esemplificativamente, all’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa 3 Il tema della invasione dei mondi vitali da parte delle regole giuridiche è presente nella riflessione di S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano 2006, 9 ss.
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esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 e all’art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000), il principio (centrale per quanto ci occupa) della integrità (fisica e psichica) della persona, rispetto a cui l’art. 3 CEDU dispone il rispetto, nell’àmbito della medicina e della biologia, del consenso libero e informato della persona interessata, il divieto delle pratiche eugenetiche (in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone), il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro e il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani; ciò, in conformità a quanto espressamente previsto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nell’applicazione della biologia e della medicina fatta ad Oviedo il 4 aprile 1997. Non dissimile è, del resto, la prospettiva da cui muove il nostro legislatore allorché (premesso che il diritto alla vita si pone, chiaramente, in termini di prediritto rispetto all’intero sistema normativo) l’art. 32 della Costituzione individua nella salute uno specifico oggetto di tutela in quanto diritto dell’individuo e interesse della collettività (garantendo altresì cure gratuite agli indigenti). 3. ATTI DI DISPOSIZIONE DEL CORPO, CONSENSO E AUTODETERMINAZIONE NEL SISTEMA NORMATIVO INTERNO
Alla luce delle indicazioni generali ricavabili dalle dichiarazioni di principio e in particolare, per quanto ci riguarda, dall’assetto costituzionale deve allora considerarsi il rapporto tra bene dell’integrità fisica, disponibilità del corpo umano e principio di autodeterminazione fondato sul consenso libero e consapevole4. Proprio muovendo dal diritto al bene dell’integrità fisica, intendendosi con quest’ultimo termine il diritto dell’individuo umano all’integrità «del suo organismo naturale, considerato nel suo aspetto così anatomico come fisiologico, 4
Ampiamente, al riguardo, G. RESTA, La disposizione del corpo. Regole di appartenenza e di circolazione, in S. CANESTRARI – G. FERRANDO – C.M. MAZZONI – S. RODOTÀ – P. ZATTI (curr.), Il governo del corpo, I, in S. RODOTÀ – P. ZATTI (dirr.), Trattato di biodiritto, Milano 2011, 805 ss.
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ed altresì psichico»5, identificabile (secondo una certa prospettiva, non peraltro del tutto condivisa) con il diritto alla salute6, il profilo che qui interessa pertiene alla considerazione di quelle determinazioni dell’individuo che possano incidere sul bene medesimo, risultando o meno pregiudizievoli e che per questo sono oggetto di specifica attenzione, in senso negativo o in senso positivo, da parte del legislatore. I relativi riferimenti normativi sono rappresentati, proprio in quel rapporto tra fonti a cui in precedenza ci si richiamava, dall’art. 5 del codice civile e dal già menzionato art. 32 Cost. i quali, rispettivamente, prevedono il divieto di atti di disposizione del proprio corpo (laddove tali atti cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume) e, affermando la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, escludono l’obbligatorietà di trattamenti sanitari se non per disposizione di legge7. Invero le due disposizioni sono il frutto di valutazioni differenti, dal momento che la prima, ossia quella codicistica, si inserisce in una logica di contemperamento di contrapposti interessi: da un lato, «l’esigenza, di natura essenzialmente patrimoniale, di riconoscere un ambito di liceità alla libera contrattazione mediante atti di disposizione del proprio corpo; dall’altr(o), l’esigenza di salvaguardare (non tanto la salute, quanto) l’integrità fisica del singolo, visto sostanzialmente come soldato e produttore»8. L’altra, invece, si pone nella dire5 Così A. DE CUPIS, Integrità fisica (diritto alla), in Enc. giur. Treccani, XVII, Roma 1989, 1. 6 Nel senso della identificazione A. DE CUPIS, Integrità fisica (diritto alla), cit., 1 s.; in senso contrario G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 254 s.; M.C. CHERUBINI, Tutela della salute e c.d. atti di disposizione del corpo, in F.D. BUSNELLI – U. BRECCIA (curr.), Tutela della salute e diritto privato, Milano 1978, 81. 7 A queste due prime indicazioni (generali) di legge può anche aggiungersi, ad avviso di taluni, la previsione (altrettanto generale) di cui all’art. 13 Cost., relativamente alla inviolabilità della libertà personale. 8 L. BIGLIAZZI GERI – U. BRECCIA – F.D. BUSNELLI – U. NATOLI (curr.), Diritto civile, 1, I, Norme, soggetti e rapporto giuridico, Torino 1989 (rist.), 156; diversamente, in ordine ai relativi presupposti teorici e ricostruttivi in relazione al rapporto, per un
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zione di tutela della salute (e, dunque, della vita o delle condizioni di vita) quale «valore psichico oltre che fisico suscettibile non solo di conservazione e di reintegrazione, ma altresì di incremento e di promozione in una prospettiva di realizzazione del pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2° comma, Cost.)»9. In merito non è possibile non evidenziare la molteplicità di questioni riconducibili all’analisi dei riferimenti normativi ora citati e tuttavia in questa sede si escluderanno, per espressa scelta di campo, sia il problema dell’àmbito di operatività dell’art. 5 c.c., ossia se esso possa riferirsi anche agli atti di disposizione di tipo contrattuale10, sia il (correlato) problema della tenuta del divieto ivi contenuto nell’ottica del suo sostanziale superamento ad opera di una sempre più abbondante legislazione speciale11. Sotto quest’ultimo profilo il riferimento è, tra gli altri provvedimenti normativi, alla legge 26 giugno 1967, n. 458, sul trapianto del rene tra persone viventi; alla legge 4 maggio 1990, n. 107, sulla cessione del sangue umano (con l’abrogazione della precedente disciplina contenuta nella legge 14 luglio 1967, n. 592), poi abrogata e integralmente sostituita dalla legge 21 ottobre 2005, n. 219, contenente la nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati; alla legge 12 agosto 1993, n. 301, sui trapianti e innesti di cornea; alla legge 1° aprile 1999, n. 91, sui prelievi e trapianti di organi e tessuti; alla legge 16 dicembre 1999, n. 483, sul trapianto parziale di fegato; alla legge 6 marzo 2001, n. 52, relativa al riconoscimento del Registro nazionale italiano dei donatori di midollo osseo e integrante la disciplina del prelievo delle verso, tra atti e beni e, per altro verso, tra disponibilità e indisponibilità quali categorie applicate (indistintamente) ad aspetti della persona umana, v. D. MESSINETTI, Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano 1983, 355 ss. e spec. 384 ss. 9 BIGLIAZZI GERI – U. BRECCIA – F.D. BUSNELLI – U. NATOLI (curr.), Diritto civile, 1, I, cit., 156 s. 10 Si tratta della prospettiva di C.M. D’ARRIGO, Il contratto e il corpo: meritevolezza e liceità degli atti di disposizione dell’integrità fisica, in Familia (2005) 777 ss.; in precedenza, diffusamente, ID., Autonomia privata e integrità fisica, Milano, 1999. 11 Per tale rilievo A. GALASSO, Biotecnologie e atti di disposizione del corpo, in Familia (2001) 919.
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cellule staminali, midollari e periferiche a scopo di trapianto; alla legge 19 settembre 2012, n. 167, sul trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino. Al riguardo, la stessa prospettiva del superamento del divieto di cui all’art. 5 c.c. non appare pienamente convincente nella misura in cui considera espressione di un medesimo disegno legislativo sia regolamentazioni in chiara ed esplicita deroga (è il caso, ad esempio, della previsione contenuta nell’art. 1, comma 1, legge n. 483/1999) relative (è questo il senso della deroga) ad un rapporto di disposizione tra persone viventi, sia regolamentazioni che appaiono fondate su presupposti differenti in quanto legate ad un atto dispositivo da cadavere12. Del resto la valenza di principio sistematico (e generale) dell’art. 5 c.c. è da ultimo confermato dalla introdotta disponibilità a titolo gratuito di parti di polmone, pancreas e intestino ad opera della già menzionata legge n. 167/2012, il cui art. 1, comma 2 riconosce questa possibilità «in deroga al divieto di cui all’articolo 5 del codice civile». In posizione del tutto particolare, poi, si pone la pure richiamata (a conforto) disciplina di cui alla legge 14 aprile 1982, n. 164, in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, che consente (propriamente in termini di disposizione del proprio corpo) l’adeguamento volontario (sulla base di apposito trattamento sanitario) dei caratteri fisici esterni alla (diversa) identità psico-sessuale, materia incidente sull’ordinamento dello stato civile e pertanto riservata in via esclusiva dall’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. allo Stato13. Rispetto alla previsione costituzionale, invece, non è possibile in questa sede dare conto, nemmeno per cenni, del profondo e animato dibattito (dottrinale e giurisprudenziale) di cui la stessa è stata 12 Evidenzia l’esistenza di puntuali divieti M.C. VENUTI, Corpo (atti di disposizione del), in Diritto civile, a cura di S. Martuccelli e V. Pescatore, Milano 2011, 506 ss., pur rilevando «il generale approccio nel segno dell’ammissibilità, sia pure «controllata», degli atti di disposizione del corpo» (p. 506); in precedenza, altresì, EAD., Gli atti di disposizione del corpo, Milano 2002, passim; da ultimo EAD., Gli atti di disposizione, in R. ALESSI – S. MAZZARRESE – S. MAZZAMUTO (curr.), Persona e diritto. Giornate di studio in onore di Alfredo Galasso, Milano 2013, 95 ss. 13 Come puntualmente rilevato da Corte cost., 4 luglio 2006, n. 253, in Corr. giur. (2006) 1315.
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oggetto14. Non può peraltro sottacersi, in termini assolutamente generali, che il rapporto tra la tutela dell’integrità psico-fisica e la tutela della salute (soprattutto per come quest’ultima è stata spesso prospettata) in relazione alla ritenuta sussistenza (e assoluta valenza) del principio di autodeterminazione rappresenta il vero nodo da affrontare in ordine ai vari e rilevanti (ma spesso non coordinati) interventi normativi che, nel tempo, hanno interessato questo specifico settore dell’esperienza (umana e) giuridica. Il problema, ovviamente, non è soltanto di ordine tecnico, ossia di fattura normativa (buona o cattiva che sia) ma, come lucidamente rilevato, sottende «la difficoltà a conciliare l’idea dell’integrità psicofisica con le sue implicazioni naturalistiche e la sua immagine dell’uomo come un’entità biologicamente già data, e l’ambizione di una comprensione giuridicamente sempre più ampia di ciascun soggetto, con i suoi bisogni, i suoi desideri, ma soprattutto con l’assoluta libertà delle sue possibilità di determinazione»15. 4. UN POSSIBILE PERCORSO DI INDAGINE Poste queste premesse di carattere generale in ordine ai princìpi ricavabili dalle disposizioni sopra richiamate che, evidentemente, debbono essere considerate in maniera sistematica, può adesso prospettarsi un possibile quadro d’insieme attraverso cui delineare il sistema dei rapporti tra corpo umano e disponibilità giuridica, quantunque si tratti di un contesto di estrema problematicità per la evidente complessità delle questioni sottese. Nello specifico viene anzitutto in evidenza l’àmbito della disponibilità tout court, tratteggiata cioè a contrario dalla previsione dell’art. 14 Per tutti R. FERRARA, Salute (diritto alla), in Digesto, disc. pubbl., XIII, Torino 1997, 513 ss.; nonché, più di recente, C.M. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano 2001, 1009 ss. 15 S. AMATO, Sessualità e corporeità. I limiti dell’identificazione giuridica, Milano 1985, 8; sul difficile giudizio di contemperamento tra il valore della salute e dell’integrità fisica con altri interessi ugualmente meritevoli di tutela v., con riferimento agli atti di disposizione del corpo, A. PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in R. SACCO (dir.) Trattato di diritto civile, Torino 2000, 26 ss.
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5 c.c. e rappresentata dagli atti disposizione di parti staccate del proprio corpo le quali diventano, dal momento della separazione, oggetto di proprietà della persona, come nel caso (tradizionale) delle unghie e dei capelli; mentre si presenta più difficile (sia in termini di inquadramento sia in termini di ammissibilità) il caso del liquido seminale che, tuttavia, costituisce oggi questione di preminente interesse considerata la stretta connessione con le tecniche di procreazione medicalmente assistita (in particolare) di tipo eterologo (ossia per l’appunto con contributo di soggetto “donatore”, esterno alla coppia ricorrente)16. Poi, viene in considerazione l’àmbito della disponibilità controllata, ossia quel settore che l’ordinamento vàluta positivamente e la cui regolamentazione viene affidata a discipline speciali volte ad assicurare il rispetto di taluni princìpi di sistema, come (esemplificativa16
Il tema della procreazione medicalmente assistita, oggetto di specifica disciplina da parte della legge 19 febbraio 2004, n. 40, già peraltro interessata da alcuni interventi del giudice delle leggi, costituisce, senza ombra di dubbio, un ottimo banco di prova, anche alla luce delle interpretazioni e delle correlative applicazioni fornite dalla (ormai copiosa) giurisprudenza, per misurare il senso delle scelte normative rispetto ad una questione, quale quella della filiazione, che attesta la possibile contrapposizione tra interessi privati (secondo l’affermato principio del c.d. diritto al figlio) e interessi pubblici (o sociali) diretti invece a considerare non soltanto la posizione (individuale) dei genitori ma anche le ricadute all’interno della società con particolare riguardo alla posizione del (futuro) figlio. Sotto questo profilo, allora, acquista un rilievo preminente l’individuazione non soltanto dei soggetti che possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ma, altresì, la determinazione normativa delle tecniche medesime (se, cioè, omologhe o eterologhe), rispetto a cui, da ultimo, Trib. Firenze (ord.), 29 marzo 2013, Trib. Milano (ord.), 3 aprile 2013 e Trib. Catania (ord.), 13 aprile 2013, tutte in Nuova giur. civ. comm. I (2013) 912 s., con nota di I. RAPISARDA, Il divieto di fecondazione eterologa: la parola definitiva alla Consulta, che, rimettendosi alla Corte costituzionale, hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, per contrasto con l’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3 legge n. 40/2004 nella parte in cui vieta il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Nelle more della stampa di questo contributo la Corte costituzionale, con decisione del 9 aprile 2014, ha riconosciuto la illegittimità del divieto, contenuto nell’art. 4, comma 3 legge n. 40/2004, di ricorrere alla procreazione c.d. eterologa. Sul tema della procreazione medicalmente assistita sia consentito il rinvio a G. DI ROSA, Dai princìpi alle regole. Appunti di biodiritto, Torino 2013, 39 ss.
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mente) nel caso dei trapianti d’organo ex mortuo e dei trapianti da esseri umani viventi (cfr. in particolare, ma come in precedenza indicato non con tratti di esclusività, la disciplina contenuta nella legge n. 91/1999) oppure nell’ipotesi della c.d. cessione del sangue (secondo la dettagliata regolamentazione contenuta nella legge. n. 219/2005)17. Infine, vengono in esame gli àmbiti di indisponibilità (assoluta), ove tale valutazione di segno negativo è affidata ad esiti interpretativi che possono reputarsi conformi al complessivo disegno normativo (il riferimento è alla pratica della sterilizzazione volontaria non terapeutica) oppure a puntuali indicazioni di legge, anche estranee (almeno direttamente) al settore squisitamente civilistico ma con esso facilmente coordinabili e comunque applicative di criteri che presentano carattere di generalità (il riferimento è alla fattispecie classica di esercizio della prostituzione), oppure ancora alla più significativa tradizione normativa (da cui sono certamente ricavabili) unitamente alle recenti (ma incompiute) iniziative di regolamentazione (il riferimento è alla questione delle questioni, ossia la rinunciabilità della vita medesima)18. 17 Il dato comune delle discipline richiamate in testo è rappresentato dalla preminente (ed esclusiva) caratterizzazione in chiave pubblicistica dell’atto dispositivo, escludendo, per un verso, un’autodeterminazione assoluta (nel senso che la scelta privata, proprio perché di rilevanza pubblica va incanalata, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto il profilo oggettivo, all’interno di un percorso normativamente predeterminato e non modificabile dalla volontà individuale) e assicurando, per altro verso, la prevalenza della scelta solidale rispetto a quella economicamente interessata attraverso la fissazione dell’inderogabile principio della incommerciabilità delle parti del corpo umano considerate secondo la logica della assoluta gratuità. Qui, invero, la diversa rilevanza dell’autodeterminazione si misura non soltanto rispetto al soggetto disponente ma anche rispetto al soggetto ricevente, come nel caso, ben noto alle cronache, del rifiuto opposto da parte dei Testimoni di Geova alle trasfusioni di sangue, in una prospettiva (quest’ultima) strettamente correlata al problema della disponibilità del bene-vita. 18 Il leading case è qui costituito dalla vicenda di Eluana Englaro, giovane donna in stato vegetativo permanente dopo un gravissimo incidente stradale (avvenuto esattamente il 18 gennaio 1992), morta il 9 febbraio 2009 (all’età di trentanove anni) a séguito dell’attuazione della intervenuta autorizzazione giudiziale al progressivo distacco del sondino che le assicurava alimentazione e idratazione, dopo una lunga battaglia legale condotta in tal senso dal padre e conclusa (nella sostanza) dalla deci-
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Come è possibile notare ciascuno degli àmbiti sopra indicati si inserisce in un complessivo quadro ricostruttivo che muove dalla considerazione del bene-vita preso in esame nelle relative (differenti) cadenze temporali di svolgimento, ossia relativamente al proprio inizio (come nel caso della filiazione da procreazione medicalmente assistita), al proprio sviluppo (come nel caso della disponibilità di parti del corpo umano inter vivos), alla propria cessazione (come nel caso della rinuncia all’esistenza). In questa complessa articolazione delle diverse fattispecie prese in esame si snoda allora la particolare relazione tra la legge (intesa come tecnica di risoluzione di un conflitto), la regola del consenso (libero e informato) e il sotteso principio di autodeterminazione (che designa la libertà del soggetto); si tratta peraltro di un percorso di indagine in cui alla norma giuridica non può non assegnarsi un valore pedagogico in quanto, per definizione, essa è espressione di una selezione valoriale a cui deve necessariamente rapportarsi la dimensione individuale del volere (tra consenso e autodeterminazione) in una costante (ma difficile) dialettica rispetto alle problematiche di interesse.
sione di Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, in Dir. fam. e pers. (2008) 77, con nota (tra gli altri) di F. GAZZONI, Sancho Panza in Cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri) e in Nuova giur. civ. comm. I (2008) 83, con nota di P. VENCHIARUTTI, Stati vegetativi permanenti: scelte di cure e incapacità, i cui principi sono stati applicati al caso di specie da App. Milano (decr.), 9 luglio 2008, in Dir. fam. e pers. (2008) 1943.
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SOVRANITÀ POPOLARE E “CONSENSO”: L’INFLUENZA DEI MODELLI OCCIDENTALI ED I RECENTI SVILUPPI DEL COSTITUZIONALISMO ISLAMICO
EMILIO CASTORINA*
1. IL “CONSENSO DEI GOVERNATI” E IL CONTRATTUALISMO COSTITUZIONALE NORD-AMERICANO La concezione della costituzione come risultato di un “contratto fra i cittadini” si colloca, agli albori del costituzionalismo moderno, quale elemento peculiare del pensiero democratico dell’esperienza coloniale nord-americana. Alla base vi è la dottrina ecclesiasticopolitica del covenant1, la quale, unitamente alle diffuse concezioni di diritto naturale, anche in ragione degli allentati rapporti tra le colonie e la madrepatria, diede luogo alla “idea che tutto l’ente statale si basa su di una costituzione emanante dalla volontà del popolo, mediante la quale la pienezza del potere, insita potenzialmente nel popolo intero, viene ripartita, per l’esercizio, fra organi diversi”2. La dichiarazione d’indipendenza ha emblematicamente sancito il primato del “consenso dei governati” nella costruzione di un ordina-
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Docente di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Catania. A. BARBERA, Le basi filosofiche del costituzionalismo, in Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari 2004, 14 ss. 2 Tale ricostruzione è magistralmente proposta da G. JELLINEK, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1949, 111. 1
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mento politico, che, su presupposti rappresentativi, intende assicurare i diritti inalienabili di cui il Creatore ha dotato tutti gli uomini3. Si tratta, in particolare, di una nozione (“the consent of the governed”) riferibile, nella sua matrice ideale, al covenant sociale del contrattualismo puritano. In tal modo, veniva realizzato nella dimensione politico-istituzionale il “covenant teologico”, vale a dire la sacra alleanza del popolo eletto con Dio, propria dell’esperienza biblica dell’antico Israele4. È stato, al riguardo, opportunamente ricordato che i puritani5, sostenendo che il governo politico dovesse trarre la propria legittimazione dal “consenso” popolare (salvo il diritto di quest’ultimo di rovesciarlo se fosse stato tradito il patto fondamentale), predicavano il principio secondo cui, “come l’uomo cristiano aveva stretto un covenant teologico con Dio e come esso si era legato ad altri cristiani per l’edificazione della Chiesa, analogamente ogni altra comunità sociale e politica doveva fondarsi sui medesimi presupposti e cioè su un contratto pubblico, libero e volontario tra gli uomini ed un’autorità terrena”6. Secondo tale concezione, la costituzione è “stipulata” da tutto il popolo (costituzione-contratto), il quale, come insegna appunto l’esperienza nord-americana, già esiste come entità socio-politica in
3 Noto è il secondo punto della Dichiarazione del 4 luglio 1776 che afferma: «We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness. That to secure these rights, Governments are instituted among Men, deriving their just powers from the consent of the governed». 4 Le convinzioni religiose di cui erano animati gli emigrati rappresentò il «fondamento morale del nuovo ordine politico» (G.B. UGO, Il Senato nel governo costituzionale, Torino 1881, 122). 5 I Padri Pellegrini guardavano all’America come il “nuovo Israele”; gli americani, avendo stretto un patto con Dio, erano il popolo eletto cui era stata affidata la responsabilità di istituire un “impero religioso” o un commonwealth cristiano nella nuova terra (L. OZZANO, Il fondamentalismo protestante americano dalle origini alla Christian Right, in Ricerche di storia sociale e religiosa [2007] 115). 6 Al riguardo, si rinvia al contributo di L. PETROSILLO – E. SMEDILE, The Origins of Modern Federalism: the “Covenant” in American History, in www.thefedalist.eu XXXVIII (1996) 3, 175 ss.
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grado di darsi, unitariamente come “corpo comune”, la propria legge fondamentale7. Il celeberrimo incipit del preambolo della Costituzione di Filadelfia “We, the People” incarna, a tutto tondo, una concezione della sovranità popolare e della costituzione basata sul consenso e la partecipazione popolare (a partire già dal momento strettamente procedimentale e genetico del testo costituzionale), in grado di identificare — diversamente da quanto lasciava intendere la francese “sovranità della nazione” — la costituzione con lo stesso popolo sovrano, dal quale la prima deriva, e, dunque, di farla assurgere a strumento di organizzazione di poteri pubblici “delegati” in funzione di garanzia dei diritti individuali8. In un regime politico fondato sulla sovranità popolare, inoltre, non è possibile ammettere l’esercizio di poteri che non trovino nel “consenso” dei governati la loro giustificazione. La dottrina nordamericana evidenzia, in particolare, come gli argomenti che consentono di legittimare il controllo di costituzionalità delle leggi (capace di invalidare atti del potere legislativo) abbiano anche natura “metacostituzionale” (politica, filosofica, storica) e come, secondo un diffuso indirizzo dottrinale, il controllo di costituzionalità si possa giustificare su un “consenso attuale” — ancorché difficilmente decifrabile e non sempre di valenza generale — che è, però, cosa ben diversa dal “consenso storico” espresso dal “We, the People” del preambolo, su cui si regge la costituzione nel suo complesso. Non a caso, il procedi7 Al riguardo, si può rinviare alla lucida impostazione di M. DOGLIANI, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna 1994, 204 s., secondo cui, diversamente dal costituzionalismo americano, la concezione che si ricollega all’esperienza rivoluzionaria francese «enfatizza la discontinuità tra l’insieme concreto degli individui e la nazione», sicché la costituzione s’identifica come «atto del potere politico esercitato da un’entità astratta» in assenza di «una vera unità politica pre-formata». 8 Sul punto, cfr. M. PATRONO, Studiando i diritti, Torino 2009, 45 ss., il quale sottolinea il “ruolo costituente” dell’espressione con la quale è presentato il nuovo soggetto della politica (“We, the People”), diversamente dalla coeva concezione della “sovranità della nazione”, la quale «mal si concilia con un governo di poteri limitati e con l’idea che i poteri non delegati al governo sono riservati al popolo cioè appunto ai singoli individui che lo vanno a comporre hic et nunc» (p. 49).
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mento di nomina dei giudici della Corte suprema ha carattere eminentemente politico ed è affidato alla competenza presidenziale, che vi procede sulla base del “consenso” (“Advice and Consent”) del Senato (art. II, sez. 2.2, della Costituzione di Filadelfia), formalmente limitato al solo potere di veto9. 2. IL FONDAMENTO DEL POTERE POLITICO NEL MONDO ISLAMICO I motivi d’interesse per le vicende istituzionali dei paesi di diritto sciaraitico si arricchiscono ulteriormente in considerazione dell’inserimento nel preambolo di numerose carte medio-orientali dell’espressione “We, the People”, con la quale esordiscono i testi di recente riformati, enfatizzando il concetto di sovranità popolare e facendo irrompere, con esso, l’idea di un fondamento contrattuale del potere politico, sostenuto e legittimato dal “consenso” popolare. La dottrina maggioritaria ritiene, invero, che nel mondo islamico tale concetto non esista, dovendosi piuttosto ritenere che la comunità e, quindi, il legislatore mai potrebbero disporre in senso contrario ai sacri testi o alla Sunna (complesso precettivo risultante dagli atti e detti tradizionalmente attribuiti al Profeta Maometto). E ciò a prescindere dal “consenso” dei governanti o da una maggioranza in senso contrario: nessun potere legislativo, infatti, spetta, in contrasto con la legge rivelata, alla nazione dei fedeli e ai suoi capi politici, i quali possono dedurre le norme quasi esclusivamente dal messaggio divino. In applicazione del principio di gerarchia tra le fonti, la legge rivelata può essere abrogata soltanto da una successiva legge del medesimo tipo e, pertanto, se il Corano e la Sunna non si pronunciano su alcune questioni, unicamente in tale ambito sarà consentito l’intervento del legislatore, in ogni caso, nel rispetto dello spirito dei principi generali
9 Per tali notazioni si può rinviare al volume di L.H. TRIBE, American Constitutional Law, New York 1988, 61 ss. Negli equilibri della forma di governo statunitense, il “consent” del Senato, richiesto sugli atti presidenziali di più elevato profilo politico, sembra ricalcare il “consensus universorum” di Senato e Popolo romano, richiesto come forma di legittimazione del principato augusteo, deposti i poteri straordinari.
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del diritto musulmano e del “messaggio dei profeti”, dal quale, in definitiva, e non dalla ragione umana, dipende la distinzione tra il bene e il male10. Si comprende, allora, perché si affermi comunemente, e non senza ragione, che l’Islam sia, insieme, “religione e stato” e che, anche alla luce di non lontane esperienze istituzionali (l’Iran di Khomeini è la manifestazione più eloquente della sostanziale coincidenza tra sfera religiosa e sfera politica), esso dia luogo alla realizzazione di una forma di stato in cui il potere politico è strettamente dipendente dal comune sentire religioso nel quale il popolo si riconosce come comunità (“sovranità divina”) e se ne fa interprete. La realizzazione dell’autonomia della sfera politica da quella religiosa è fondamentale, si potrebbe dire preliminare, perché nello Stato islamico possa innestarsi una concezione occidentale di democrazia. Tentativi in tal senso sono, del resto, già presenti in quella letteratura, ove, in particolare, si contesta la tesi secondo la quale il capo politico è il mero interprete del potere divino in terra e si tende a ricercare, invece, l’esistenza di un fondamento contrattualistico del potere politico11. In tale prospettiva, la relazione tra religione e politica non andrebbe intesa nel senso che quest’ultima sia un’imperfetta traduzione umana della prima, ma nel senso che il divino può essere compreso soltanto attraverso la politica, sicché “umanizzare il divino diventa una fonte di cooperazione”12. All’interno della stessa cultura islamica si fa strada, pertanto, una concezione che tende a ridimensionare l’idea che non vi sia distinzione alcuna tra religione (mancano, invero, una Chiesa e un clero strutturati sull’esempio del cristianesimo occidentale) e Stato. Tale impostazione
10 Per tali posizioni presenti nella dottrina islamica, cfr. S.A. ALDEEB ABUSAHLIEH, Il diritto islamico. Fondamenti, fonti, istituzioni, ed. it., a cura di M. Arena, Roma 2008, 37 ss. 11 Utile, per un’ampia panoramica della dottrina islamica dello Stato, è il contributo di L. OZZANO, Islam e democrazia: problemi, opportunità e modelli di sviluppo, in www.docsity.com. 12 A. MOUSSALLI, The Islamic Quest for Democracy, Pluralism, and Human Rights, Gainesville 2001.
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si fonda sulla rivalutazione dei processi di fondazione della prima realtà politico-sociale islamica, a partire, dunque, dalla “Costituzione di Medina” (che dà luogo alla Ummah, prima comunità politica islamica della storia13) e che suffragherebbe un’origine “consensuale” (Shura) dell’attribuzione del potere ai primi Califfi14 — successori di Maometto, rappresentanti di Dio in terra, ancorché figure non contemplate nel testo del Corano — legati alla comunità (Ummah) per contratto15 e sulle cui basi si può affermare che la nozione di sovranità popolare, intesa come fonte legale dei poteri pubblici e di governo, non è comunque estranea alla concezione politico-istituzionale musulmana16. Da questo punto di vista, tuttavia, non è possibile valorizzare oltre misura il significato insito nel concetto di “consenso della Comunità della Ummah” (Ijma), atteso che, se si può convenire sul fatto che il consenso del popolo diede il fondamento pattizio alle prime aggregazioni politico-sociali musulmane, tale “consenso” col passare del tempo si è venuto a circoscrivere nel “consenso dottrinale” degli
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Si trattò di un accordo (622 d.C.) voluto da Maometto per la pacificazione sociale e multireligiosa fra le tribù e i clan musulmani, ebrei e pagani, e mise fine, a Medina, al conflitto intertribale. 14 Con il termine Shura s’intende la “consultazione democratica” che portò all’identificazione di ‘Uthm n b. ‘Aff n come terzo Califfo dell’Islam. In argomento, cfr. M. CAMPANINI, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna 2009, 138. 15 C. SBAILÒ, Islamismo e costituzionalismo: la problematica compatibilità, in Costituzione e Religione, Padova 2013, 111, il quale precisa il contenuto del “contratto” nei termini seguenti: far osservare e osservare la legge del Corano e della Sunna, tutelare i diritti e gli interessi dei musulmani ovunque si trovino, amministrare giustizia e difendere il territorio; fedeltà collaborazione e obbedienza da parte della Ummah al Califfo. 16 «Al di là delle denominazioni (califfo, imam, presidente, parlamento o assemblea) e delle procedure con cui si formalizza l’investitura del titolo, il capo dello Stato (soggetto singolo od organo assembleare) è semplicemente il rappresentante della comunità, del popolo o dei cittadini che lo scelgono, lo sorvegliano e, se necessario, lo sollevano dalle sue funzioni. Il ruolo e il potere del capo dello Stato è chiaramente subordinato e funzionale al benessere dalla Umma o del popolo» (C. DECARO BONELLA, L’Islam e lo Stato nella storia, in C. DECARO BONELLA (cur.), Tradizioni religiose e tradizioni costituzionali. L’Islam e l’Occidente, Roma 2013, 137).
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Ulema17, i quali, pur non governando direttamente, sono comunque gli interpreti privilegiati della volontà di Dio ed è per tale ragione che siffatto tipo di “consenso” viene ritenuto una fonte umana del diritto islamico, di natura suppletiva rispetto al Corano e alla Sunna18, ma necessario per lo sviluppo e l’evoluzione dell’ordinamento giuridico. 3. SEGUE: L’INFLUENZA DEI MODELLI OCCIDENTALI: “WE, THE PEOPLE” L’incidenza della cultura costituzionale occidentale si palesa evidente nella redazione delle nuove costituzioni di numerosi Stati islamici, in varia maniera interessati dall’intervento armato militare a guida statunitense. Invero, non si può negare come il processo di occidentalizzazione del diritto musulmano si sia da tempo avviato e come abbia determinato l’incremento di materie e rapporti regolamentati dal legislatore o sui quali ha decisiva incidenza la giurisprudenza, sulla base, di volta in volta, dei modelli di civil o di common law di riferimento, ad eccezione di consistenti aree del diritto civile (in particolare, lo statuto delle persone) che hanno formato oggetto di apposite codificazioni, rimaste per lo più fedeli ai principi della Shari’a19. Tuttavia, sul piano strettamente costituzionale, mancava, sino a questo momento, una così forte, esplicita e tanto emblematica, sotto il profilo valoriale e della teoria generale, influenza del modello occidentale come quella che si è realizzata nei testi costituzionali di quei numerosi paesi che esordiscono, adesso, con il richiamo al potere costituente del popolo, nei medesimi termini di come raffigurato, nel 17 In argomento, più ampiamente, J. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Torino 1995, 35 ss. 18 H.P. GLENN, Tradizioni giuridiche nel mondo, Bologna 2011, 300 ss., fa notare che «proprio come nel diritto talmudico non poteva reggersi esclusivamente sulla Torah scritta e la Mishnah e giunse al Talmud, allo stesso modo il diritto islamico si spinse fino ad una fonte ancor più esplicita e di origine ancor più evidentemente umana: il consenso dottrinale o ijma», il quale si fa risalire ad un celebre editto del Profeta (“Il mio popolo non concorderà mai sull’errore”). 19 G.F. FERRARI, Sistemi giuridici: origine e diffusione, in G.F. FERRARI (cur.), Atlante di Diritto pubblico comparato, Torino 2010, 19.
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preambolo della costituzione nordamericana del 1787, attraverso la celebre espressione “We, the People”, facendo, altresì, appello alla Carte delle Nazioni Unite20 e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo per introdurre, nel testo costituzionale, anche un dettagliato sistema di libertà fondamentali. Il nodo problematico che attualmente investe la Shari’a (intesa come sistema di norme di comportamento derivanti dalle leggi divine e come vera e propria costituzione materiale degli Stati islamici21) risiede nel ruolo che essa dovrebbe avere all’interno delle nuove costituzioni che hanno deciso di fare proprie le tradizionali categorie del costituzionalismo occidentale (pluralismo, diritti umani, principio di uguaglianza, superiorità della costituzione rispetto alla legge parlamentare e relativo controllo di legittimità di quest’ultima). Nel dibattito filosofico e giuridico dei musulmani riformisti si contrappongono, al riguardo, due distinte concezioni, ancorché sia condivisa la prospettiva di democratizzazione degli ordinamenti: secondo un indirizzo, infatti, la Shari’a dovrebbe ricevere espressa menzione all’interno delle nuove costituzioni, proprio per dare allo sviluppo dei processi democratici un sostegno «dall’interno» della religione e della cultura islamica; per altri, invece, le sfere della religione e della politica dovrebbero rimanere separate al fine di garantire la laicità dello Stato22. 20 F. MERNISSI, Islam e democrazia. La paura della modernità, Firenze 2002, 83, sostiene che Shari’a e Carta delle Nazioni Unite sono “due leggi contraddittorie”. 21 G. DI PLINIO, Il costituzionalismo e la Shari’a, in Studi in onore di Luigi Arcidiacono, III, Milano 2010, 1195 ss., evidenzia come la Shari’a, insieme di valori islamici eterni e immodificabili, «si pone come sistema normativo di nucleo per ciascuno degli Stati in cui si applica, e dunque rappresenta anche la parte più alta e intoccabile, cioè non soggetta a revisione, della Costituzione anche in senso formale di ciascuno di detti Stati». 22 Interessante, al riguardo, Shari’a e democrazia nelle costituzioni arabe, per il quale cfr. il sito dell’associazione internazionale Reset-Dialogues on Civilizations, in www.reset.it, 11 gennaio 2013, che riporta il video del dibattito tra Tariq Ramadan e Abdullahi An-Na’im. Pur condividendo entrambi la speranza nella piena realizzazione della democrazia nel modo arabo, il primo sostiene, in particolare, la necessità che la Shari’a abbia rilievo costituzionale, affinché i musulmani possano trarne i principi di giustizia per perseguire la democratizzazione dei propri Paesi in un percorso “interno” all’Islam e dunque legittimato dal punto di vista della religione e
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Il richiamato modello occidentale incarna, essenzialmente, l’idea che la costituzione è atto di originaria autodeterminazione della sovranità popolare, avente valore normativo superiore a quello delle altre fonti, al precipuo fine di apprestare ai diritti dei cittadini una solida garanzia nei confronti del potere politico23. Sicché risulta interessante verificare l’effettiva incidenza del recepimento di tale modello nel percorso di progressiva “laicizzazione” dell’ordinamento costituzionale musulmano e del tentativo di “secolarizzazione” dei diritti fondamentali della persona umana, tradizionalmente ancorati alla Shari’a24. 4. SEGUE: LE RECENTI RIFORME COSTITUZIONALI NEGLI STATI ISLAMICI
I processi di transizione democratica che a vario titolo e per le ragioni più diverse hanno coinvolto l’assetto costituzionale di numerosi Stati del mondo islamico25, richiedendone comunque una moder-
tradizione. Ramadan evidenzia, al contempo, come il riferimento in costituzione metta in luce il carattere originario inclusivo ed egualitario della Shari’a, avente natura intrinsecamente etica, in contrasto con le letture normative e letteraliste diffuse dagli esegeti più estremisti. An-Na’im, invece, sostiene che in un’evoluzione costituzionale coerentemente democratica le sfere della legittimità religiosa e di quella politica non dovrebbero intersecarsi, né tantomeno sovrapporsi e che, pertanto, un riferimento esplicitamente religioso (come quello alla legge islamica nella costituzione egiziana, tunisina o libica) rappresenterebbe di per sé una minaccia ai diritti delle minoranze non musulmane, all’uguaglianza dei cittadini, al rispetto delle donne e alla stessa libertà religiosa; il riferimento alla Shari’a nel sistema costituzionale e normativo di uno Stato equivarrebbe a imporla ai cittadini, travisandone la natura e i valori eminentemente religiosi e, quindi, volontari. 23 Più ampiamente, in argomento, cfr. B. CASALINI, Sovranità popolare, governo della legge e governo dei giudici negli Stati Uniti d’America, in P. COSTA – D. ZOLO (curr.), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano 2006, 224 ss. 24 In argomento, M. CAMPANINI, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., 140. 25 L. BOUONY, Rapporti di potere e democrazia consensuale: considerazioni relative al patto nazionale, in G. GOZZI (cur.), Islam e democrazia, Bologna 1998, 33, avverte che in tali transizioni democratiche si guarda al popolo o alla società civile quali origini del potere.
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nizzazione, sino alle più recenti rivoluzioni della c.d. “primavera araba”, mostrano la diffusa adesione al modello della forma di Stato occidentale da parte di ordinamenti, i quali, tuttavia, continuano a fondarsi su un vincolo molto stretto tra religione e diritto, tra leggi divine e leggi dello Stato26. La costituzione afghana del 200427 — la prima, tra queste, ad aver imboccato la strada della democratizzazione — traduce l’evidente tentativo di realizzare un accostamento tra i valori del costituzionalismo occidentale e quelli islamici28, emblematicamente (e anche contraddittoriamente) racchiusi tutti nel testo del giuramento degli organi supremi, tenuti tanto all’obbedienza nei confronti dei sacri dettami della religione, quanto al rispetto della costituzione e delle leggi (artt. 63, 74, 119), queste ultime, per altro, soggette a controllo di legittimità da parte della Corte suprema, unitamente ai decreti legislativi, i trattati e le convenzioni internazionali (art. 121). Già nell’incipit del nuovo documento29, approvato sotto l’egida delle Nazioni Unite, si avverte il tentativo di conciliare il riconoscimento del soggetto costituente (“Noi, popolo dell’Afghanistan”), ancorché non ritenuto propriamente sovrano (sovrana rimanendo la “nazione”, intesa come insieme di tutti i gruppi etnici presenti, a mente dell’art. 4), con l’invocazione a Dio e l’enfatizzazione del “credo nella sacra religione dell’Islam”. Sebbene il fine dichiarato
26 In argomento, A. REPOSO, in G. MORBIDELLI – L. PEGORARO – A. REPOSO – M. VOLPI, Diritto pubblico comparato, Torino 2012, 157 s. 27 Come stabilito dall’Accordo di Bonn del 5 dicembre 2001, intervenuto col patrocinio delle Nazioni Unite, questa costituzione fu predisposta da una Commissione costituente nominata dal Presidente dell’Autorità provvisoria, per essere successivamente approvata dalla elettiva Assemblea tradizionale tribale afgana. In argomento, I. COSOLETO, Le minoranze in Afghanistan tra Costituzione formale e materiale, in www.forumcostituzionale.it. 28 G. SERRA, La costituzione afghana del 2004 e le insidie del negoziato coi talebani, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. 29 Esso fa seguito, com’è noto, all’Operazione Enduring Freedom e, quindi, alla reazione statunitense all’attentato alle torri gemelle, la cui responsabilità venne attribuita anche al supporto logistico e territoriale dello Stato teocratico talebano concesso all’organizzazione al-Qaida.
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fosse quello “di creare una società civile libera da oppressioni, atrocità, discriminazioni e violenza, basata sul principio di legalità, sulla giustizia sociale, sulla tutela dei diritti umani e della dignità, garantendo i diritti fondamentali e le libertà del popolo” (punto ottavo del preambolo), la traumatica caduta della preminenza politica talebana, invero, non ha aperto le porte all’instaurazione di uno Stato laico, come probabilmente si attendevano gli osservatori internazionali. Infatti, l’Islam è la religione ufficiale dello Stato (art. 2) e “nessuna legge può essere contraria ai principi e alle disposizioni della sacra religione” (art. 3)30. Non meno interessante è la costituzione transitoria sudanese del marzo 2005 — sancita, alla conclusione di una guerra civile (che ebbe in contrapposizione gruppi etnici e religiosi31), tra il Governo del nord e il Movimento Armato di Liberazione dei Popoli del Sudan, insediato nel sud del paese32 — la quale esordisce con la medesima espressione (“Noi, popolo del Sudan”) e configura la parte II, relativa alle libertà fondamentali, come “patto tra il popolo del Sudan e tra questo e i suoi governanti”, dedicandovi, in particolare, un’apposita disposizione intitolata “Natura della carta dei diritti” (art. 27). Questa costituzione si autoproclama “suprema legge” del paese (art. 3); afferma che l’autorità e i poteri di governo emanano dalla sovrana volontà del popolo (art. 4, lett. d), sancendo, al tempo stesso, che la legge islamica si applica solo al di fuori dei territori del Sud del paese e soltanto nella parte Nord avrà come fonte la Shari’a e il “consenso del popolo” (art. 5.1). Tra le prime libertà ivi sancite vi sono i “diritti di religione” (art. 6) e l’art. 31 proclama l’uguaglianza 30 C. CIMINELLO, La nuova Costituzione afghana: un compromesso tra tribalismo, islam e diritto moderno, in http://archivio.rivistaaic.it. 31 In Sudan vi è sempre stata una rilevante presenza cristiana, sia nel nord islamico (Sudan), sia, adesso, anche nella Repubblica del Sudan del Sud, dove è stimata intorno al 27% della popolazione. 32 Alla firma del trattato di pace erano presenti, in qualità di mediatori internazionali, anche Stati Uniti, Gran Bretagna, Norvegia ed Italia. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si è impegnato a sostenere l’impiego di una forza multinazionale. Il referendum sull’indipendenza del Sudan del Sud, previsto in detto accordo, si è tenuto, con esito favorevole alla secessione, nel gennaio 2011.
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davanti alla legge senza alcuna discriminazione, compresi i motivi di credo religioso. Eppure, la disciplina di rango costituzionale non è in grado di contraddire i principi della Shari’a. Nonostante il notevole fermento che ha caratterizzato l’ultimo decennio istituzionale, si deve concludere, comunque, che le costituzioni nei paesi islamici non assurgono a “legge suprema” della comunità, come accade, invece, nell’esperienza occidentale33. Il caso della donna abbandonata dal padre e cresciuta nella fede cristiana, condannata a morte (in avanzato stato di gravidanza) per apostasia in applicazione delle leggi sciariatiche (che la considerano comunque musulmana in quanto di padre musulmano) ed anche a pena corporale per adulterio, considerata la nullità del vincolo contratto con un sudanese avente cittadinanza americana (poiché il matrimonio con un cristiano non è considerato valido dalla Shari’a), in attesa della pronuncia definitiva da parte della Corte Suprema sudanese ha portato alla ribalta la questione della prevalenza delle norme di derivazione religiosa rispetto alle previsioni del testo costituzionale (art. 38) che garantiscono, nello specifico, la libertà di coscienza e di adesione volontaria a una determinata fede religiosa. Altrettanto indicativa dell’anomala posizione spettante alle norme costituzionali nella gerarchia delle fonti è la sanzione prevista per adulterio ai sensi dell’art. 146 del codice penale sudanese del 1991 (che prevede la pena capitale per le donne che hanno tradito il marito), a dispetto della garanzia del diritto alla vita e del principio di dignità umana, oggetto di apposite previsioni costituzionali (art. 28). La pena di morte per i crimini più gravi è, a sua volta, specificamente ammessa dall’art. 36 dello stesso testo costituzionale e della quale, anzi, è affermato il carattere di “sacralità” conformemente alla disciplina contenuta nelle leggi sciaraitiche34. 33
A. PREDIERI, Shari’a e Costituzione, Roma-Bari 2006, 173 ss., sottolinea come la Shari’a si pone, negli Stati islamici, come norma superiore alle norme giuridiche, comprese quelle di rango costituzionale. 34 Il caso di Meriam, la donna condannata per apostasia, è stato riportato dalla stampa nel maggio 2014 e fa seguito all’altro, altrettanto eloquente, che accomuna
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Proprio sul piano della garanzia dei diritti civili, con particolare riferimento al principio di parità tra uomini e donne e di libertà religiosa, apparve carente, a giudizio dei movimenti laici e cristiani e dell’opposizione politica ai Fratelli Musulmani, che avevano appoggiato l’ascesa del Presidente Morsi, la nuova costituzione egiziana, da quest’ultimo voluta per sugellare la transizione politica che si era compiuta. Il testo, infatti, si caratterizzava per un’ispirazione profondamente islamica, sostenuta nel dicembre 2012 da una larga maggioranza popolare che si pronunciò favorevolmente in sede referendaria sul testo predisposto da una contestatissima assemblea costituente. Esso, dopo avere indicato nel popolo il soggetto che si dava la costituzione (nel testo inglese: “We, the people of Egypt”) e affermato a chiare lettere, ancora nel medesimo preambolo (punti uno e due), il principio della derivazione popolare di ogni potere di governo in uno al principio di legalità e difesa della costituzione (punto sei), all’art. 2 il testo ha precisato, tuttavia, che i principi della Shari’a islamica sono la principale fonte della legislazione; e sottolineato ancora che, in base all’art. 4, il Parlamento era obbligato a consultare al-Azhar (l’Università del Cairo, uno dei principali centri d’insegnamento religioso dell’Islam sunnita) su ogni questione concernente la Shari’a, dovendosi dare la prevalenza all’interpretazione della dottrina sunnita (art. 219)35. La costituzione del gennaio 2014, approvata con il voto referendario quasi unanime (su un testo elaborato da 50 esperti) dopo il colpo di Stato che ha condotto il giudice costituzionale Adli Mansour alla Presidenza ad interim, nel sostituire quella del 2012 non ha mantenuto il precedente preambolo, esordendo, questa volta, “In nome di Allah”, ma proclamando, al contempo, un “governo civile” (né religioso, né militare, quindi), sebbene sia stata riprodotta la previsione di cui all’art. 2 del precedente testo. Si segnala, al riguardo, l’avvertenza, riposta nel preambolo, secondo cui l’interpretazione dei principi della Shari’a islamica dovrà essere compiuta alla luce della giurisprudenza dell’Alta Corte Costituzionale e il divieto, introdotto Layla e Intisar, condannate a morte in Sudan per essere state ritenute colpevoli di adulterio (agosto 2012). 35 Il testo, in lingua inglese, è reperibile in www.egyptindependent.com.
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nel successivo articolato, di partiti a base religiosa (art. 74)36. Non deve stupire che la cerimonia d’insediamento dell’ex capo dell’esercito, al-Sîsî, a nuovo presidente egiziano dall’8 giugno 2014 si sia aperta con la lettura di alcuni versi del Corano. Un procedimento sostanzialmente analogo a quello appena richiamato — se non fosse per il dato peculiare di un periodo transitorio retto dalla coalizione a guida anglo-americana che aveva assunto il controllo del territorio dopo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein e che aveva disciplinato le regole per l’instaurazione di un governo legittimo in Iraq37 — aveva in precedenza già caratterizzato la formazione della costituzione irachena del 2005, approvata da un’assemblea costituente all’uopo eletta, al cui interno una commissione di 55 deputati aveva avuto il compito di redigere un testo, poi sottoposto all’approvazione della prima e, quindi, a referendum popolare, nel quale si registrò l’approvazione di sedici delle diciotto province esistenti38. L’incipit del preambolo è “In nome di Dio”, ma nel prosieguo dello stesso, dopo aver rammentato la tradizione laica ed insieme religiosa dell’Iraq, erede della Mesopotamia (“la patria degli apostoli e dei profeti, la dimora degli “imam puri”), più di una volta il soggetto costituente è riferito a “We, the People of Iraq”, in un contesto nel quale l’Islam è la religione ufficiale dello Stato e fondamentale fonte della sua legislazione (art. 2). Sembra di cogliere, tuttavia, nell’elaborazione di questa disposizione una maggiore apertura al concorso di altre fonti del diritto, come la medesima lascia intendere stabilendo (ciò che, del resto, era stato già sancito all’art. 7 della “Legge provvi36
Il relativo testo, in lingua inglese, è consultabile in www.sis.gov.eg. A. LANCIOTTI, Il processo elettorale iracheno alla luce del diritto internazionale, in www.federalismi.it. 38 In argomento, E. MISTRETTA, La nuova costituzione irachena, in http://archivio.rivistaaic.it, il quale ricorda che, come disponeva la Legge provvisoria per l’amministrazione dello Stato iracheno (Transitional Administrative Law, ovvero “TAL”), si fosse registrata una maggioranza sfavorevole in tutto il paese, o anche i due terzi di questa in almeno tre delle diciotto province irachene, la bozza doveva considerarsi respinta e l’Assemblea Nazionale sarebbe stata sciolta per darsi luogo a nuove elezioni per il rinnovo dell’assemblea costituente. 37
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soria per l’amministrazione dello Stato iracheno”, predisposta dall’Autorità facente capo alle potenze anglo-americane di occupazione) che non possa essere approvata nessuna legge che contraddica le “regole indiscusse” dell’Islam e i principi della democrazia, né i diritti e le libertà fondamentali previsti nella stessa costituzione. Un percorso diverso ha caratterizzato, invece, le modifiche alla costituzione della Repubblica araba di Siria, intervenute nel 2012. Anch’esse approvate a larga maggioranza popolare — ancorché in un contesto fortemente condizionato dalla guerra civile avverso il regime monopartitico Ba’ath e da gruppi fondamentalisti tendenti alla piena instaurazione della Shari’a — per mezzo di un referendum confermativo, convocato dal presidente Assad sul testo elaborato, non da un’assemblea costituente, ma da una commissione nominata dallo stesso presidente: non a caso, il preambolo testimonia l’esercizio del potere costituente in capo alla “Repubblica Araba di Siria”39. Le “concessioni” presidenziali più rilevanti attengono essenzialmente all’introduzione del sistema multipartitico; per ciò che qui interessa più direttamente, viene affermato che la dottrina giuridica islamica è fonte principale della legislazione e che l’Islam è la confessione del capo dello Stato (art. 3). La costituzione tunisina del gennaio 2012 è stata approvata dalla quasi totalità dei membri dell’Assemblea Costituente Nazionale, a tre anni dalla fine del ventennio di Zeine el Abidin Ben Ali, caratterizzandosi per l’introduzione del principio di uguaglianza tra uomini e donne (art. 20). L’art. 1 (non soggetto a revisione) proclama l’Islam come religione di Stato (non, dunque, uno Stato islamico), è espressamente garantita la libertà di coscienza (art. 6) e proprio nel preambolo — da considerarsi parte integrante della stessa costituzione, come recita l’art. 143 — risiede la chiave di volta di un ordinamento che, attribuendo il potere costituente ai rappresentanti del popolo, con la benedizione di Dio (“We, in the name of the people, draft this Constitution with God’s blessings”40), si definisce “Stato laico”, come Il relativo testo, in lingua inglese, è disponibile in www.voltairenet.org. La traduzione in lingua inglese della nuova costituzione tunisina può essere consultata in www.tunisia-live.net. 39 40
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condizione necessaria in vista della realizzazione di una democrazia partecipativa e repubblicana. I recenti emendamenti alla costituzione algerina — approvati a larga maggioranza dall’Assemblea nazionale, con il voto contrario delle componenti islamiche e nazionaliste, entreranno in vigore alla fine del 2014 — concernono anch’essi una più avanzata concezione del principio di uguaglianza e dei diritti fondamentali. Il testo, pur affermando che l’Islam è religione di Stato (art. 2) e che le istituzioni statali non sono autorizzate a porre in essere pratiche contrarie all’etica islamica, proclama il principio della sovranità popolare (art. 6), che il potere costituente appartiene al popolo (art. 7) e stabilisce, altresì, che il motto dello Stato sia “Dal popolo e per il popolo”. In Libia è stata, di recente, eletta un’assemblea costituente, la quale, secondo la “Dichiarazione costituzionale” del 3 agosto 2011, avrà quattro mesi di tempo per redigere una nuova carta costituzionale e sottoporla, entro un mese, a referendum popolare. La Dichiarazione, adottata dal Consiglio nazionale di transizione libico, sorto per coordinare le sommosse popolari che si opponevano al regime di Gheddafi (alla cui caduta contribuirono, per altro, forze militari di paesi appartenenti alla NATO, come Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Italia e Canada e alcuni paesi arabi, come Qatar e Emirati Arabi Uniti, a seguito dell’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), aveva, infatti, disposto la cessazione del regime transitorio nel febbraio 2014 e, a tale scadenza, previsto l’elezione dell’organo costituente, avvenuta, puntualmente, alla fine dello stesso mese, smentendo, così, le preoccupazioni che, sull’esempio egiziano, l’esercito potesse prendere il sopravvento. Le problematiche più rilevanti investono, al momento, il riconoscimento costituzionale dei diritti delle minoranze etniche (tebu, tuareg e amazigh), in un contesto ordinamentale in cui — come si legge nella Dichiarazione del 2011 — il popolo è la fonte di tutti i poteri, l’Islam religione di Stato e la Shari’a la principale fonte della legislazione (art. 1).
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5. IL “CONSENSO” NEI PRINCIPI RELIGIOSI QUALE ELEMENTO DI RICONOSCIMENTO DEL GRUPPO POLITICO-SOCIALE Secondo l’esperienza occidentale, il preambolo, ove sia adottato, assume, di norma, la “funzione politica” di anticipare gli orientamenti fondamentali contenuti nella decisione costituzionale e sviluppati, coerentemente, all’interno dell’articolato che lo segue, esprimendo i principi ideologici e i valori di base dell’ordinamento politico considerato41. Esso, com’è il caso del “We, the People” nord-americano, dà atto dell’unità del popolo intorno ai principi di regime e ai valori condivisi, trasfusi nel testo fondamentale. In definitiva, il preambolo, non solo deve risultare coerente con la disciplina giuridica contenuta nel corpo della costituzione, ma, di più, ne dovrebbe esprimere la sintesi ideale e, quindi, anticipare le decisioni fondamentali assunte. Sarebbe, tuttavia, riduttivo e non rifletterebbe né i percorsi procedimentali seguiti (per lo più, rimessi ad assemblee costituenti elette dal popolo e all’approvazione referendaria), né, più in generale, il vivace dibattito — del quale, attraverso il web, è stata resa partecipe anche la comunità internazionale — che ha accompagnato l’avvio del processo di democratizzazione in questi paesi, confinare il contenuto del preambolo delle nuove costituzioni di essi allo stereotipo di una forzata occidentalizzazione della cultura costituzionale degli Stati islamici, quantunque possa essere vero che l’importazione del modello nord-americano è stata favorita dalle vicende militari che hanno guidato l’istaurazione di nuovi assetti socio-politici. In tale quadro, va evidenziata una significativa partecipazione popolare nella redazione dei nuovi testi costituzionali e ciò avvalora, sotto il profilo procedimentale, l’affermazione del principio di sovranità popolare annunciato nei preamboli e ribadito, come si è visto, in seno alle diverse Carte. Il popolo, inteso come insieme dei cittadini, è concepito, nel nuovo modello islamico, come fonte formale dell’autorità e dei poteri costituiti. Pur rilevando ciò, non si potrebbe giungere,
41 J. TAJADURA TEJADA, Funzione e valore dei preamboli costituzionali, Quad. cost., 2003, 517 ss..
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però — a differenza di quanto caratterizza il contrattualismo democratico occidentale — alla ulteriore conclusione secondo cui dal popolo, questa volta necessariamente inteso come totalità dei fedeli, dipende (anche) la legittimazione sostanziale dell’esercizio di detti poteri e autorità e che i governanti siano rappresentanti ed esecutori, per così dire, di una visione originaria ed esclusiva della comunità e non, invece, prevalentemente, di un superiore ordine divino, nel quale risiede la giustificazione prima di una sovranità, legale e morale, ultraterrena42. È, dunque, sul versante del “consenso” legittimante il punto in cui difetta il sinallagma (imperfetto, applicando lo schema del costituzionalismo occidentale) tra governanti e governati, il quale, invece, è fonte di giustificazione esclusiva dell’esercizio del potere politico da parte delle istituzioni rappresentative occidentali, dove la separazione tra Chiesa e Stato è il presupposto dell’agire politico43. Non può darsi, allora, nel mondo islamico, una nozione di “sovranità popolare” corrispondente a quella del costituzionalismo occidentale, non fosse altro per la riferibilità dei principi supremi dell’ordinamento (Shari’a) a un ordine trascendente quello terreno, dal quale deriva l’ossatura di una vera e propria costituzione materiale dettagliata44, alla quale il documento formale dovrà adeguarsi, rimanendo, in definitiva, il potere costituente del popolo circoscritto alla scelta della forma di governo. A ciò si aggiunga che i diritti di libertà non sono apprezzati come universali e il fondamento di essi non è collocato nella natura inviolabile della persona umana, trovando, 42
Si segnala che l’art. 56 della costituzione iraniana del 1979 afferma che “L’assoluta sovranità sul mondo e sull’umanità appartiene a Dio, il quale ha voluto che l’umanità fosse sovrana sul proprio destino sociale”. 43 B. LEWIS, Il linguaggio politico dell’Islam, Roma-Bari 1991, 809, osserva che gli obblighi dei governanti sono sia religiosi sia pratici e principale dovere di essi è rispettare e rafforzare la Santa Legge. Per realizzare ciò, devono salvaguardare gli interessi secolari dello Stato e della comunità islamica; nei confronti del singolo credente hanno il dovere di aiutarlo a vivere una vita da buon musulmano in terra e prepararlo alla vita futura. 44 R. BAHLUL, Prospettive islamiche del costituzionalismo, in Lo Stato di diritto, cit., 623.
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invece, ragione — quantunque le nuove costituzioni si impegnino a enunciare veri e propri Bill of Rights — all’interno della dimensione comunitaria dell’insieme dei fedeli (Ummah), fondamento nella personalità divina, disciplina sostanziale nella Shari’a ed enunciazione privilegiata in specifiche dichiarazioni internazionali dei diritti, efficaci per il solo mondo islamico45. L’interrogativo se l’esplicito richiamo alla sovranità popolare delle istituzioni occidentali vada relegato, negli Stati islamici, a una sorta di a-giuridicità del preambolo, ovvero se esso è in grado di innovare nell’ambito del costituzionalismo islamico, può ricevere comunque una risposta più vicina a quest’ultima alternativa. Infatti, le vicende costituzionali che hanno, più di recente, caratterizzato la “primavera araba” dimostrano indiscutibilmente una presa di distanza rispetto a quegli ordinamenti nei quali (si pensi, in particolare, all’Arabia Saudita) il Corano e la Sunna del Profeta Maometto rappresentano “la costituzione” o nei quali è ancora inconcepibile giustificare un potere costituente popolare in grado di decidere sulla forma di governo da adottare (nel Sultanato di Oman ancora non vi è una costituzione scritta e al Sultano appartiene ogni potere). Ma, dato ingresso alla sovranità popolare, è ancora il “consenso” nei confronti dei principi religiosi a rappresentare l’elemento che tiene insieme i componenti del gruppo sociale, non la costituzione. Se, infatti, la Shari’a — in base alla costituzione stessa — è la prevalente fonte del diritto, nel “consenso dei dotti” si regge, in definitiva, il patto fondamentale: i governanti sono tenuti a rispettare, sotto il controllo degli Ulema, le norme religiose interpretate da questi ultimi come titolari di fatto del “consenso del popolo”46. 45 Con specifico riferimento all’evoluzione delle Carte di protezione dei diritti fondamentali nel mondo islamico, si rinvia al contributo di F. ALICINO – M. GRADOLI, L’Islam del XXI secolo e gli international human rights, in Tradizioni religiose e tradizioni costituzionali, cit., 147 ss.. 46 R. BETTINI, Ulema e Costituzione in Egitto, La “Carta dei valori 2011” della moschea-università di al-Azhar, in Riv. trim. scienza dell’amm., 2012, 34. Secondo R. GUOLO, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari 2005, 59, il potere umano nello Stato islamico risulta limitato mediante un doppio circuito di controllo della Shari’a e del consenso della Umma.
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Il punto nodale risiede, allora, nel ruolo che nel sistema assumeranno le Corti Supreme, deputate al controllo di costituzionalità sulle leggi (si veda, ad esempio, l’art. 121 della costituzione afghana), anche se non può essere trascurata la circostanza secondo cui i giudici che la compongono sono tenuti a giurare, in nome di Dio, di servire la giustizia non solo nel rispetto delle norme costituzionali e delle altre leggi ma anche in conformità alle disposizioni della “sacra religione” (art. 119 cost. cit.). Saranno le giovani Corti Supreme, previste nelle nuove costituzioni, a chiarire la strada attraverso la quale i diritti e le libertà, ivi sancite, dovranno risultare compatibili, e in quale misura, con le regole della Shari’a47, ovvero se, in quanto poteri costituiti, saranno anch’esse tenute ad affermare, in ogni caso, la prevalenza dei principi religiosi su norme costituzionali che, in definitiva, non esprimono pienamente il contenuto valoriale presente nel patto sociale delle comunità islamiche.
47 A. DELEDDA, L’Islam nelle fonti: la Costituzione dell’Afghanistan, in Daimon – Annuario di diritto comparato delle religioni, 2006, 195.
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PROFILI INTERNAZIONALISTICI DEI MECCANISMI DI FORMAZIONE DEL CONSENSO
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1. IL DIRITTO INTERNAZIONALE PUBBLICO: UN SISTEMA NORMATIVO PER GLI STATI Con il diritto internazionale pubblico nasce un sistema normativo per disciplinare l’interazione degli Stati. E crea un ambiente normativo di secondo livello, nel quale agiscono in piena autonomia questi enti. Un ambiente normativo modellato sugli ordinamenti giuridici che all’interno degli Stati disciplinano i rapporti tra le persone umane. E, in fin dei conti, agito dalle persone umane. Come ciò accada lo vedremo fra un momento. Studi recenti additano nella seconda metà dell’Ottocento il periodo nel quale collocare la nascita del diritto internazionale pubblico come disciplina scientifica e autonoma dimensione professionale del mestiere di giurista. Ed in verità proprio in quegli anni si istituiscono le prime cattedre espressamente dedicate all’insegnamento del diritto internazionale pubblico. La prima fra tutte sembra proprio essere stata quella di Diritto Pubblico Esterno e Internazionale Privato che nel 1850 si istituì a Torino per Pasquale Stanislao Mancini, dalla quale egli dettò il 22 gennaio del 1851 la celeberrima prolusione «Della
* Docente di Diritto internazionale e Diritto dell’Unione europea presso l’Università degli Studi di Catania.
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nazionalità come fondamento del diritto delle genti» quale prelazione al suo corso di diritto internazionale e marittimo. Seguirono in Italia diverse altre cattedre, come anche a Catania nel 1864 la cattedra istituita per Giuseppe Carnazza Amari, mentre fuori d’Italia l’entusiasmo tardò a diffondersi. Le tematiche del diritto internazionale pubblico rimasero confinate al ruolo ancillare all’interno degli insegnamenti di diritto naturale o di diritto pubblico universale fino a quando nel 1859 venne istituita la Chichele Chair a Oxford ricoperta da Montague Bernard e nel 1866 la Whewell Chair a Cambridge con William Harcourt. E in quello stesso periodo i cultori di quella disciplina si organizzano in società scientifiche internazionali quali ad esempio l’Institut de Droit International fondato a Ghent nel 1873. Sempre nel 1873, ma a Bruxelles, venne fondata l’International Law Association, con l’originaria denominazione di Association for the Reform and Codification of the Law of Nations (mutato poi in quello attuale nel 1895). Alla base della costituzione dell’associazione sta l’idea di un gruppo di giuristi e pacifisti statunitensi (tra di essi ricordiamo Burritt, Miles e Field) che occorresse dar vita ad un’associazione che si incaricasse di redigere un codice di diritto internazionale come strumento per assicurare ai popoli una pace duratura. Un altro elemento da non trascurare è poi l’affermarsi, in questo stesso periodo, di una giurisprudenza autenticamente internazionale. Nel 1872 venne resa quella che viene tradizionalmente considerata la prima decisione di un tribunale arbitrale autenticamente internazionale, quella che decise le cosiddette Alabama Claims. Nel corso della guerra civile americana, avendo le forze dell’Unione sottoposto a blocco navale i porti della Confederazione, il Regno Unito vendette ai Confederali alcune navi (violando il blocco), la più celebre delle quali è il vapore Alabama, che ha dato il nome a questa decisione arbitrale, normalmente ritenuta la prima nella storia dell’arbitrato contemporaneo. Al comando del capitano Semmer, l’Alabama affondò oltre settanta navi dell’Unione, fino a quando venne a sua volta attaccata e colata a picco il 19 giugno del 1864 dalla nave da guerra dell’Unione Kearsarge. L’Unione protestò presso il governo inglese per la violazione del blocco e per l’implicito riconoscimento
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dunque dei confederali come legittimi belligeranti. La soluzione della controversia fu affidata a un tribunale arbitrale la cui decisione è considerata a buon diritto la prima resa da un tribunale autenticamente internazionale. 2. LA SOGGETTIVAZIONE DELLO STATO CHIAVE DI VOLTA DELL’EDIFICIO NORMATIVO INTERNAZIONALE Sulla base di questi variegati materiali, questo nuovo ceto di giuristi si mise al lavoro per edificare un sistema giuridico che fosse autenticamente internazionale. Questo intento si realizza dapprima attraverso un progetto di soggettivazione giuridica dello Stato che diviene così in questo nuovo ordinamento giuridico del quale si postula l’esistenza ciò che l’individuo soggetto giuridico è nell’ordinamento dello Stato. Si crea così un secondo livello, più elevato di quello della coesistenza tra gli uomini, al quale accede solamente lo Stato e questo secondo livello viene pensato come un sistema di norme coerente e coeso, basato sulla ipotesi che solo lo Stato, in quanto ente superiorem non recognoscens, possa agirvi e interagirvi. La persona umana, ad esempio, ne è esclusa, in quanto semplice oggetto, tutt’al più, dei diritti dello Stato. E questo nuovo sistema giuridico verrà costruito secondo lo schema tipico dell’approccio civilistico dell’epoca secondo il quale la materia giuridica si ordina nello studio delle condizioni di esistenza del soggetto, del regime giuridico della interazione tra i vari soggetti attraverso la quale si fissano i canoni di comportamento (il contratto), della individuazione delle conseguenze dei comportamenti non conformi a questi canoni (la responsabilità). Questi soggetti sono gli Stati, delle vere e proprie magnae personae. L’espressione “soggetti di diritto” o “soggetti” tout court ha, per la verità, nella scienza giuridica un significato tecnico ben preciso. Con tale espressione si designano gli enti in capo ai quali sorgono i diritti e gli obblighi discendenti dalle regole dell’ordinamento considerato. In questo senso soggettività giuridica è sinonimo di personalità o capacità giuridica. Oggi si riconosce comunemente che l’ordinamento internazionale è un sistema giuridico nel quale esistono varie categorie
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di soggetti: vengono in primo luogo citati gli Stati, successivamente gli enti che in passato e anche al giorno d’oggi vengono considerati su un piede di parità con gli Stati (come ad esempio la Santa Sede), ancora gli enti che aspirano a diventare degli Stati (come gli insorti o i movimenti di liberazione nazionale) e da ultimo le organizzazioni internazionali. Normalmente si tende a pensare (e lo si afferma) che siamo di fronte a enti che, ciascuno a modo suo, parteciperebbero di quelle caratteristiche di sovrana indipendenza che fanno dello Stato un soggetto di diritto internazionale. In quest’ottica, questione del tutto distinta sarebbe quella della soggettività internazionale dell’individuo che implicherebbe a questo punto un globale ripensamento dell’assetto dell’ordine internazionale che, a voler accettare l’ipotesi della soggettività internazionale dell’individuo, non sarebbe più l’ordinamento degli enti superiorem non recognoscentes. Occorre però, dapprima, porsi la domanda relativa all’esistenza di un’unica nozione internazionalistica di soggettività internazionale (che si fonderebbe a questo punto sulla comune natura di enti superiorem non recognoscentes dei soggetti internazionali). Orbene, il fatto che per lungo tempo gli Stati fossero gli unici soggetti di diritto internazionale e che, in ultima analisi, gli insorti e i movimenti di liberazione nazionale siano enti politici in lotta con organizzazioni statali, ha portato a ritenere che il fondamento della soggettività internazionale risiedesse nel possesso da parte dell’aspirante soggetto internazionale di quelle caratteristiche sulle quali si fondava la statualità e dunque la soggettività internazionale dello Stato. Vero è comunque che storicamente il primo e tipico soggetto dell’ordinamento internazionale è lo Stato. 3.IL TRATTATO INTERNAZIONALE QUALE STRUMENTO ATTRAVERSO IL QUALE LO STATO COSTRUISCE IL DIRITTO CON LE PROPRIE MANIFESTAZIONI DI CONSENSO
Costruita secondo questo complesso percorso l’identificazione del soggetto di diritto internazionale con lo Stato e con gli enti ad esso assimilabili, ci si è applicati alla elaborazione e allo studio di un regime giuridico per le relazioni tra questi soggetti, e in particolare per quelle che si formalizzassero in uno strumento capace di produrre
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effetti giuridici certi e prevedibili, secondo il modello del contratto in uso nei sistemi di diritto civile. Questo strumento è il trattato internazionale, accordo attraverso il quale le differenti volontà degli Stati sovrani si coordinano secondo un assetto concordato. Il processo di definizione del regime giuridico applicabile al trattato internazionale è peraltro tutt’ora in corso. L’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia pone al primo posto tra le fonti del diritto internazionale il trattato internazionale. Comunque denominato, convenzione, patto, accordo, scambio di note, il trattato internazionale è un accordo concluso fra Stati attraverso manifestazioni di volontà che essi formulano e dichiarano allo scopo di obbligarsi al rispetto di un dato regime giuridico che forma appunto l’oggetto dell’accordo stesso ed in verità esso rappresenta il principale strumento attraverso il quale il diritto internazionale si è sviluppato. C’è molto di vero nell’affermazione secondo la quale il trattato internazionale potrebbe essere ricondotto alla categoria di teoria generale del negozio giuridico bilaterale o multilaterale ed in particolare esso condivide con il contratto molti profili decisamente comuni o comunque assimilabili. Non si deve però commettere l’errore di ritenere che in tutto e per tutto la disciplina dei contratti, o meglio le idee che la sottendono, siano trasponibili nel diritto internazionale e applicabili ai trattati internazionali. Il trattato internazionale è infatti indubbiamente uno strumento convenzionale di composizione dei conflitti di interessi e in ciò esso si apparenta al contratto nel diritto interno, ma è pur sempre uno strumento convenzionale stipulato tra due o più enti che si vogliono e sono effettivamente sovrani. Ciò determina non solo alcune peculiarità nel regime giuridico dei trattati sulle quali ci soffermeremo qui di seguito, ma costituisce il trattato internazionale, specie quello multilaterale, in una posizione affatto peculiare nel sistema delle fonti del diritto internazionale. Ben può dirsi che esso si identifica con il sistema giuridico che chiamiamo diritto internazionale. Il regime giuridico del trattato internazionale è stato elaborato dalla prassi delle relazioni fra gli Stati, specie nel periodo che va dalla seconda metà dell’ottocento in poi, prassi che ha dato vita a una serie di norme generalmente accolte come diritto consuetudinario e che è
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poi stata oggetto di una importante opera di codificazione e sviluppo progressivo che è culminata nella stipulazione di alcune convenzioni, la più importante delle quali è la Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati, comunemente ritenuta in molte sue parti riproduttiva del diritto consuetudinario vigente in materia. 4. LA FORMAZIONE DEL TRATTATO ATTRAVERSO LA MANIFESTAZIONE, DA PARTE DEI SUOI ORGANI, DEL CONSENSO STATALE AD OBBLIGARSI La definizione del testo di un trattato è occasione di manifestazione del consenso ad obbligarsi di questo particolare tipo di soggetto giuridico che è lo Stato, il quale agisce, come dicevamo, attraverso i propri organi. La redazione del testo del trattato avviene attraverso i negoziati. Con questa parola si indicano gli incontri nel corso dei quali si discute e si definisce il testo del trattato. A volte, specie nel caso di trattati bilaterali il negoziato si svolge in occasione di incontri fra le delegazioni dei due Stati interessati, mentre per i trattati multilaterali il negoziato si svolge nel corso di riunioni dei rappresentanti degli Stati chiamate conferenze diplomatiche. Ai negoziati prendono parte i rappresentanti degli Stati interessati alla stipulazione del trattato. Secondo l’articolo 7 della Convenzione di Vienna, una persona è considerata rappresentante di uno Stato per l’adozione o l’autenticazione del testo di un trattato o per esprimere il consenso dello Stato a essere obbligato da un trattato sia se essa esibisce i dovuti pieni poteri, sia se risulta dalla pratica degli Stati interessati o da altre circostanze che essi avevano l’intenzione di considerare quella persona come rappresentante dello Stato a quei fini e di non richiedere la presentazione dei pieni poteri. I pieni poteri sono un documento che viene rilasciato dalle competenti autorità statali e che attesta appunto che la persona in essi indicata è il rappresentante dello Stato per l’adozione degli atti relativi alla stipulazione del trattato. Sempre il medesimo articolo 7 prevede che «sono considerati rappresentanti dello Stato in virtù delle loro funzioni e senza essere tenuti ad esibire pieni poteri: a) i Capi di Stato, i Capi di governo e i Ministri degli affari esteri, per tutti gli atti relativi alla conclusione di un trattato;
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b) i capi di missione diplomatica, per l’adozione del testo di un trattato fra lo Stato accreditante e lo Stato accreditatario; c) i rappresentanti degli Stati accreditati a una conferenza internazionale o presso una organizzazione internazionale o uno dei suoi organi, per l’adozione del testo di un trattato in quella conferenza, organizzazione o organo». I negoziati si concludono con l’adozione del testo. In altre parole, il testo viene definito una volta per tutte e ciò chiude il negoziato. Secondo l’articolo 9 della Convenzione di Vienna l’adozione del testo avviene con il consenso di tutti gli Stati partecipanti al negoziato ovvero, in seno alle conferenze internazionali votandolo alla maggioranza dei due terzi degli Stati presenti e votanti. Sempre con la medesima maggioranza si può scegliere un’altra modalità di adozione. Si diffonde sempre di più nelle conferenze internazionali il metodo del consensus, che consiste nell’adozione del testo del trattato non attraverso un esplicito voto, ma semplicemente prendendo atto del fatto che nessuno si oppone alla sua adozione. Si tratta di una procedura tipicamente internazionalistica che ha origini in esigenze diplomatiche. Spesso, infatti, sia in seno alle conferenze diplomatiche sia in seno agli organi assembleari di organizzazioni internazionali, Stati che non condividono orientamenti politici generali non gradiscono di essere registrati come favorevoli al medesimo testo. Non vogliono cioè che si dica che hanno votato nello stesso modo, dato che ritengono le loro opzioni politiche generali inconciliabili. Il consensus risolve il problema, poiché nella sostanza esso è un … non voto. Una volta che il testo del trattato sia stato adottato, esso viene firmato, allo scopo di autenticarlo, ossia di attestare che quello è proprio il testo che venne adottato. Secondo la Convenzione di Vienna (articolo 10) l’autenticazione del testo del trattato avviene: a) secondo la procedura prevista nel testo medesimo o concordata dagli stati partecipanti alla elaborazione; b) in mancanza di tale procedura per mezzo della firma, della firma ad referendum (ossia con riserva di conferma da parte delle competenti autorità statali) o della parafatura, ossia l’apposizione delle iniziali da parte dei rappresentanti. La firma non ha, di solito, il valore di manifestazione del consenso
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statale ad obbligarsi, a meno che non sia in tal senso esplicitamente disposto o non si evinca comunque che la firma abbia questo effetto (in questo caso si parla di stipulazione in forma semplificata). La procedura di manifestazione del consenso considerata ordinaria nel diritto internazionale è ancora quella cosiddetta solenne, nella quale la manifestazione avviene con un atto particolare chiamato ratifica. Alla ratifica sono equiparate l’adesione o l’accessione che altro non sono se non la ratifica di un trattato da parte di Stati che non abbiano partecipato ai negoziati e che ad esso aderiscono successivamente. I trattati che permettono questa successiva adesione si definiscono aperti, mentre quelli che non la permettono si definiscono chiusi. 5. SEGUE: L’ISTITUTO DELLA RISERVA Una importante peculiarità della manifestazione del consenso ad obbligarsi da parte degli Stati è rappresentata dalla possibilità di apporre delle riserve a questa manifestazione. La materia delle riserve ha conosciuto una sensibile evoluzione. Secondo il diritto internazionale classico, la possibilità di apporre delle riserve doveva essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione e doveva quindi figurare nel testo predisposto dai negoziatori del trattato, vuoi con l’esplicita previsione di alcune riserve a determinate clausole ovvero prevedendo una generica possibilità di apporre riserve. Inoltre, si richiedeva che tutti gli Stati parti al trattato accettassero la riserva (principio dell’unanimità o della rigidità). Notevole è stata, però, l’evoluzione, che ha condotto all’adozione dell’opposto principio della flessibilità in materia. Una tappa importante di questa evoluzione è stata rappresentata dal parere della CIG reso il 28 maggio 1951 nell’affare relativo alle riserve alla Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio. L’Assemblea Generale aveva richiesto alla Corte, se, in assenza di esplicite disposizioni in materia di riserve nella Convenzione potessero gli Stati ugualmente apporre delle riserve al momento della ratifica. La Corte rispose che, pur in assenza di previsioni esplicite nel testo del trattato, doveva considerarsi possibile l’apposizione di riserve purché esse fossero «compatibili con l’oggetto e lo scopo» del trattato stesso,
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ossia non riguardassero «clausole fondamentali e caratterizzanti l’intero trattato». La Corte introduceva, comunque, la possibilità di una contestazione della riserva da parte di un altro Stato contraente, che intendesse far valere l’incompatibilità della riserva con l’oggetto e lo scopo del trattato. Recentemente poi la Commissione del diritto internazionale ha ripreso in considerazione il tema delle riserve per aggiornarne la disciplina. Relatore speciale sul tema è stato nominato il prof. Alain Pellet che ha da poco presentato il suo rapporto definitivo. La materia delle riserve è assai delicata, come sottolineavamo, poiché attraverso l’apposizione delle riserve uno Stato può escludere o modificare una o più disposizioni del trattato, restringendo così l’area degli obblighi che esso assume. Secondo l’articolo 2 lettera (d) della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, una riserva è una «dichiarazione unilaterale, quale che sia la sua articolazione o denominazione, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica, accetta o approva un trattato o vi aderisce, attraverso la quale esso mira ad escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo Stato medesimo». L’affermazione che la riserva è una “dichiarazione unilaterale” non vuol dire che la riserva produca effetto per il solo fatto della sua formulazione. Essa, anzi, deve invece venire accettata per produrre effetti, come meglio vedremo. La riserva inoltre non sottostà a particolari requisiti di forma (il testo chiarisce, infatti, «quale che sia la sua articolazione o denominazione»), ma viene definita a partire dallo scopo cui essa tende che è quello di «escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo Stato». Essa in definitiva ripropone il meccanismo consensualistico tipico del trattato. 6. VIZI DEL CONSENSO E INVALIDITÀ DEL TRATTATO INTERNAZIONALE L’idea del fondamento consensualistico del diritto internazionale si ritrova anche nella teorizzazione delle cause di invalidità dei trattati internazionali. Le cause di invalidità dei trattati contemplate dalla Convenzione di Vienna possono essere ricondotte a tre differenti categorie. La prima è quella della violazione di norme del diritto
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interno sulla competenza a stipulare, ammessa a certe condizioni. La seconda categoria è quella dei cosiddetti vizi del consenso, costruita a ricalco sulle corrispondenti norme della teoria generale del negozio giuridico, sia pure con alcune peculiarità tipiche del diritto internazionale. La terza è quella della contrarietà del contenuto del trattato a certi principi fondamentali di ordine pubblico consacrati in norme imperative e, come tali non derogabili (il cosiddetto jus cogens). Ci interessa qui la seconda categoria di cause di invalidità dei trattati, quella, come già detto, dei cosiddetti vizi della volontà, ossia delle situazioni la cui presenza ha impedito che la volontà dello Stato o di chi l’ha formata o dichiarata si sia formata libera e scevra da condizionamenti. Alcune di queste situazioni richiamano la teoria dei vizi della volontà nel negozio giuridico assai nota a tutti coloro che hanno studiato diritto, altre sono tipiche del diritto internazionale. Cominciamo dall’errore, di cui si parla all’articolo 48 della Convenzione di Vienna, affermando che «uno Stato può invocare un errore in un trattato come vizio del suo consenso a vincolarsi a quel trattato se l’errore riguarda un fatto o una situazione che quello Stato supponeva esistente al momento in cui il trattato è Stato concluso e che costituiva una base essenziale del consenso di quello Stato a vincolarsi al trattato». Questo vizio della volontà non può però essere invocato «quando lo Stato in questione ha contribuito a quell’errore con il suo comportamento o quando le circostanze erano tali che esso doveva rendersi conto della possibilità di un errore». Si vuole cioè che l’errore possa essere invocato solo dallo Stato che ha usato la dovuta diligenza nel comportamento contrattuale. Inoltre, proprio perché l’errore che vizia il consenso deve riguardare questioni essenziali per la formazione del consenso stesso, «un errore che riguardi soltanto la formulazione del testo di un trattato non incide sulla sua validità» (Articolo 48.3) In questo caso, si farà ricorso alle modalità previste dall’articolo 79 per la correzione degli errori nel testo dei trattati. Altro vizio del consenso noto alla teoria generale del negozio giuridico è il dolo, accolto dalla Convenzione di Vienna nell’articolo 49, secondo il quale «se uno Stato venne indotto a concludere un trattato dal comportamento fraudolento di un altro Stato che ha parteci-
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Profili internazionalistici dei meccanismi di formazione del consenso
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pato al negoziato, può invocare il dolo come vizio del suo consenso a vincolarsi al trattato». Altra ipotesi tipica di vizio del consenso è la violenza esercitata sul rappresentante dello Stato, di cui all’articolo 51 della Convenzione, secondo il quale: «L’espressione del consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato che sia stata ottenuta attraverso la violenza esercitata sul suo rappresentante per mezzo di atti o di minacce diretti contro di lui, è priva di qualsiasi effetto giuridico». Con realistica consapevolezza della fragilità della natura umana, l’articolo precedente, il 50, parifica all’ipotesi della violenza quella della corruzione del rappresentante dello Stato chiarendo che «se l’espressione del consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato è stata ottenuta ricorrendo alla corruzione del suo rappresentante attraverso l’azione diretta o indiretta di un altro Stato che ha partecipato al negoziato, lo Stato può invocare tale corruzione come vizio del suo consenso a vincolarsi al trattato». 7. A MO’ DI CONCLUSIONE Questo elaborato e imponente sistema normativo di secondo livello, però, non può evitare che lo Stato agisca attraverso i suoi organi, persone fisiche abilitate a svolgere le funzioni dello Stato. Dunque, alla fine, questa magna persona agisce attraverso le persone ordinarie. E in particolare manifesta il suo consenso, il consenso di un ente sovraordinato alle persone comuni, attraverso l’azione di queste stesse persone. E per esempio i vizi del consenso dello Stato sono i vizi del consenso delle persone fisiche che agiscono quali suoi organi. L’errore dello Stato è l’errore delle persone fisiche che operano quali suoi organi. Le quali poi, a loro volta, si servono dello Stato per amplificare gli effetti della propria volontà e del proprio consenso. È dunque corretto affermare che lo Stato è una macchina, nel senso di un complesso di strumenti che amplifica le potenzialità umane, una macchina che però esiste ed opera solamente attraverso le persone umane. Il consenso dello Stato, con tutte le sue peculiarità, è pur sempre il
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consenso fragile e disarmato delle persone umane che per suo conto agiscono. NOTA BIBLIOGRAFICA Su tutte queste idee sia consentito rinviare al mio Diritto internazionale. Quattro pezzi facili, Torino 2013. Sulla ricostruzione del diritto internazionale nella seconda metà dell’ottocento e sull’idea del diritto internazionale come progetto sono fondamentali gli studi di Mannoni, Potenza e Ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell’equilibrio europeo (1870-1914), Milano 1999 e di Koskenniemi, The Gentle Civilizer of Nations. The Rise and Fall of International Law 1870-1960, Cambridge 2001. Sugli Stati come soggetti di diritto internazionale e, in genere, sui soggetti di diritto internazionale sono fondamentali gli studi di Gaetano Arangio Ruiz, tra i quali particolarmente utile la voce Stati ed altri enti, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, 132 ss. Sulla teoria della sovranità degli Stati esiste una letteratura sterminata, com’è del resto ovvio che sia. Il punto di partenza rimane comunque sempre costituito da Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, Tübingen, 1920, alfiere della teoria della sovranità come semplice immediatezza di rapporto con il diritto internazionale (la c.d. Völkerrechtsunmittelbarkeit) e da Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränitäts, München-Leipzig 1934, strenuo oppositore del formalismo kelseniano e sostenitore della teoria della sovranità come fatto, come potere di decidere nel concreto. I due sono anche autori di originali presentazioni complessive del diritto internazionale, Principles of International Law di Kelsen, apparso nel 1962 a Princeton negli Stati Uniti e Der Nomos der Erde im Völkerrechts des Jus Publicum Europaeum, Köln 1950, per Schmitt. In materia di diritto dei trattati tutt’ora insostituibile, anche se certamente assai datato, è il volume di Mc Nair, The Law of Treaties, Oxford 1961, cui adde, per una esposizione aggiornata alla Convenzione di Vienna del 1969, Strozzi, Il diritto dei trattati, Torino 1999.
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L’EUCARISTIA COME LUOGO E ORIGINE DEL CONSENSO
GIUSEPPE RUGGIERI*
1. LA PROBLEMATICA TEOLOGICA DEL CONSENSO Il problema cruciale esistente oggi all’interno delle singole chiese e nei rapporti tra le chiese è quello del consensus. Per un verso assistiamo all’interno delle chiese a “scismi” di fatto, anche se non sempre proclamati. Per altro verso le chiese sono come bloccate lungo la strada che le conduca ad un consenso pieno che permetta la comunione in sacris. Il motivo del consensus è invece centrale nella storia della chiesa fin dalle origini. Dal to en phronountes di Fil 2, 2 fino al sympho¯nein nel domandare qualsiasi cosa di Mt 18, 19, siamo peraltro avvertiti che il consenso non è principalmente sulle formule. Ma è un fatto che, almeno a partire da Ireneo fino ai nostri giorni, la dimensione del consenso linguistico (nella professione dell’unica fede) e del consenso nelle decisioni (dalla elezione dei ministri fino agli atti di governo in quanto tali) abbia assunto un ruolo preponderante per la comprensione della natura del consenso ecclesiale, portando spesso a conseguenze di grave portata per la pratica della comunione ecclesiale. Il dialogo ecumenico ha inoltre accentuato la dimensione linguistica del consenso e non ha sufficientemente elaborato il rapporto tra
* Docente emerito di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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questa dimensione linguistica e la dimensione pratica di un consenso tra le chiese nei vari ambiti dell’esperienza cristiana. Questi limiti storici non ci sottraggono all’obbligo di mettere alla luce le varie pieghe del consenso. Il consentire infatti non descrive uno dei tanti aspetti del mistero e della vita ecclesiale, ma ne esprime il centro più delicato, la koino¯nia che viene suscitata dal dono dello Spirito. E a volte, se non si ha presente l’intero orizzonte della problematica, si rischiano impostazioni poco feconde per la comunione dei cristiani e delle chiese. Mi permetto qui di ricordare allora soltanto alcuni di questi aspetti del consensus. E la prima cosa da notare anzitutto è il fatto che il consensus ecclesiale richiama sempre nel suo uso concreto una costellazione di soggetti. Così in Cipriano non si dà consensus episcoporum senza consensus omnium e suffragium populi1. Del resto anche nel dibattito contemporaneo possiamo verificare come il consensus richiami sempre una costellazione globale dei vari soggetti ecclesiali. Nella chiesa, per così dire, non si può dare un consenso “separato”. Sia che si parta dal consenso dei vescovi, sia che si parta dal sensus fidelium, essi vanno organicamente inseriti nella conspiratio degli altri soggetti ecclesiali2. Esiste cioè un insieme di termini (ad es. elezione, recezione, consenso)3 che rimandano sempre ad una interazione necessaria degli atti che qualificano l’esperienza cristiana nella chiesa. Il nuovo clima ecumenico che si è affermato lungo il secolo XX ha inoltre fatto percepire come il consensus vada considerato non come alternativa netta al dissenso, ma in maniera più differenziata giacché comprende diversi gradi di intensità. Sono sorti così sintagmi che
1 Cfr. T. OSAWA, Das Bischofseinsetzungsverfahren bei Cyprian.Untersuchungen zu den Begriffen iudicium, suffragium, testimonium, consensus, Frankfurt a.M. – Bern 1983, spec. 93-99. 2 Cfr. il dibattito contenuto in J.-M. R. TILLARD et alii, Foi populaire Foi savante. Actes du VeColloque ‘études d’histoire des religions populaires tenu au Collège dominicain de théologie (Ottawa), Paris 1976. 3 Cfr. G. ALBERIGO, Elezione-consenso-recezione nell’esperienza cristiana, in Concilium 7 (1972) 1247-1260.
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rendono conto di questa nuova esperienza dei rapporti fra le chiese: consenso “fondamentale”, consenso “differenziato etc.4. Una problematica particolare, che acquista un’importanza specifica per il nostro argomento, è data poi dal fatto che il “consensus omnium” è valso, con maggiore o minore intensità, nella tradizione filosofica e culturale come un criterio di verità. Non sono stati i Padri a farlo valere per primi5. Il contesto culturale dell’argomento del consenso come criterio della verità e della sua ricerca nei secoli è tuttavia variato. Per gli antichi e fino al secolo XVII, la visione del mondo in cui si inserivano le teorie del consenso era quella di un accordo predefinito tra Dio, la natura e l’uomo. A questo presupposto, di ordine culturale, non sfuggono, non solo uomini come Erasmo e Thomas More, ma anche riformatori come Melantone e Calvino che, nel contesto controversistico del XVI secolo, danno alla concezione del consensus ecclesiale un significato legato al dibattito sulla sufficienza della Scrittura6. Questa plausibilità della nozione di consenso, senza del quale non si comprende il carattere scontato di esso nella comprensione ecclesiale, entra in crisi già nel XVII secolo. Basti ricordare in tal senso la critica di Descartes a Herbert of Cherbury7: secondo costui il consenso è criterio di verità e si forma mediante l’uso della comune ragione; ma resta il fatto che, nell’uso di questa 4 Cfr. Grundkonsens-Grunddifferenz. Studie des Straßburgers Institut für Ökumenische Forschung. Ergebnisse und Dokumente, Eing. U. Hersg. Von A. Birmelé und Harduing Meyer, Frankfurt a. M. – Paderborn, 1992; H. MEYER, Die Prâgung einer Formel, in Einheit – aber wie? Zur Tragfähigkeit der ökumenischen Formel vom „differentierten Konsens“, hrsg. v. H. Wagner, Freiburg – Basel – Wien 2000, 36-58. 5 Cfr. K. OEHLER, Der Consensus omnium als Krierium der Wahrheit in der antiken Philosophie und der Patristik. Eine Studie zur Geschichte des Begriffs der Allgemeinen Meinung, in Antike und Abendland 10 (1961) 103-129; Consensus omnium, consensu gentium, in H.W.Ph, 1, 1031-1032 (M. Suhr); R. SCHIAN, Untersuchungen über da „argumentum e consensu omnium“, Hildesheim 1973. 6 Si veda per Erasmo: E. W. BAUMANN, Thomas More und der Konsens. Eine theologiegeschichtliche Analyse der„Responsio ad Lutherum„ von 1523, Paderborn 1993; M. BECHT. Pium consensum tueri. Studien zum Begriff consensus im Werk con Erasmus von Rotterdam, Philipp Melanchtom und Johannes Calvin, Münster 2000. 7 Cfr. la Einleitung di G. Gawlick alla riedizione anastatica di E. Herbert of Cherbury, De Veritate, Stuttgart – Bad Cannstatt, 1966, spec. XXIX-XXXII.
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ragione, molti uomini compiano lo stesso errore e che al tempo stesso si diano molte cose accessibili alla ragione comune alle quale nessuno ha mai pensato. Nel secolo XX le teorie del consenso come criterio della ricerca della verità muovono invece da una visione secolarizzata del mondo che ha ormai abbandonato il presupposto di un’assolutezza della verità e, soprattutto il linguistic turnpoint impone di prendere in considerazione la diversità radicale dei campi di esperienza e dei linguaggi corrispondenti. Il problema del consenso si sposta dal campo della verità a quello di una prammatica universale, dove il consenso non verte su stati di cose esistenti, ma sulla legittimità delle varie affermazioni e sulla validità delle norme comuni del comportamento8. A mio avviso ciò non è senza conseguenze, più o meno consapevoli, anche per la teologia9. Ritengo infatti che solo al’interno di questo nuovo contesto si può valutare la proposta di Rahner e Fries che partiva dal fatto che, nella nuova situazione dello spirito, risulta ormai impossibile conoscere le effettive motivazioni dell’altro e tutte le pieghe del suo linguaggio, per cui attorno ad un consenso fondamentale sulla Scrittura, sul Credo apostolico e sul Credo Niceno-costantinopolitano, nonché sul riconoscimento del papa romano come “concreto” (non necessariamente de jure divino) garante dell’unità, le chiese possono e debbono istaurare una comunione di ambone e altare10. Senza presumere peraltro la completezza di uno status quaestionis non posso qui tralasciare ancora un altro aspetto, quello che analizza i luoghi della formazione del consenso, luoghi che non sono estrinseci alla natura del consenso stesso. Si pensi alla differenza radicale tra un concilio, un’aula parlamentare, una discussione scientifica. Il luogo
8 J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns, 2 voll., Frankfurt a.M. 1981; Idem, Wahrheitstheorien, in Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1984, 127-183. 9 Per uno sguardo sufficientemente ampio sulla discussione teologica lungo il secolo XX (Loisy, Blondel, Le Roy, Pannenberg, Peukert, Rahner etc.), cfr. F. Gruber, Diskurs und Konsens im Prozeß theologischer Wahrheit, Innsbruck – Wien 1993. 10 H. FRIES – K. RAHNER, Unione delle chiese possibilità reale, Brescia 1986 (ed. ted. del 1985).
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della formazione del consenso è determinante ogni volta per la natura del consenso stesso. Tradizionalmente per la chiesa il luogo della formazione del consenso è quello che, durante l’epoca conciliarista, in Occidente viene chiamata la via concilii. Solo un concilio generale può rappresentare veramente il consenso della chiesa perché in esso agisce il Cristo capo mediante il suo Spirito. A ben guardare si può discutere sulla coerenza logica di questa convinzione. Infatti ci si può chiedere dove risiede la forza dell’argomento: è il presupposto della visione del mondo tradizionale secondo cui l’accordo tra Dio, la natura e l’uomo è rivelativo della volontà di Dio? Tradizionalmente la giustificazione dell’autorità dei concili risiedeva invece nel richiamo a Mt 18, 19. Ma, rigorosamente parlando, questo richiamo a Mt 18, 19 valeva per ogni riunione cristiana, e quindi a fortiori può certo valere anche per il concilio generale. E tuttavia proprio questo passaggio dalla riunione di due o tre ad una riunione molto più vasta e rappresentativa di tutti i cristiani è il problema. Perché una riunione più vasta è costitutivamente diversa da quella di due o tre cristiani? Proprio questo dubbio pone con forza il problema che qui ci interessa: qual è il luogo archetipo del consenso ecclesiale, quello che fornisce il criterio per ogni altro luogo ecclesiale di formazione del consenso? Certamente va ricordata la comprensione della “tradizione vivente” inaugurata nel secolo XIX in ambito cattolico già dalla cosiddetta “Scuola teologica cattolica di Tubinga” e poi dal Blondel di Histoire et dogme che, per tanti versi, riprende non solo Newman (influenzato a sua volta dai Tübinger), ma altresì l’antico concetto di tradizione dell’Oriente e dell’Occidente11 e che si rivela fecondo anche nella discussione attuale attorno al processo collettivo della Wahrheitsfindung12. Questo riferimento va tenuto presente e tuttavia rimane in qualche modo formale e, soprattutto, serve più a comprendere il passato che il presente della vita ecclesiale. Esso permette di rendersi conto del processo secolare del consenso ecclesiale, ma poi non appare molto fecondo per trovare dei parametri utili nel presente. 11
Y. CONGAR, La Tradition et les traditions, 2 voll. Paris 1960-1963. Cfr. la tesi di P. SCHARR, Consensus fidelium. Zur Unfehlbarkeit der Kirche aus der Perspektive einer Konsenstheorie der Wahrheit, Würzburg 1992. 12
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La strada che vorrei percorrere qui è invece diversa. Dando per scontato che sia la via concilii il processo che meglio esplicita le esigenze ecclesiali della ricerca del consenso, vorrei risalire in qualche modo ancora più a monte, a quello che va considerato come il luogo genetico di ogni consenso ecclesiale e cioè all’eucaristia. Giacché l’eucaristia è al tempo stesso il luogo genetico del fenomeno conciliare e di tutti i processi ecclesiali del consenso. Ma prima è necessario che noi analizziamo una categoria che spiega il nesso stesso tra eucaristia e consenso e quindi, a partire da qui, tra il consenso eucaristico e quello conciliare. Questa categoria, all’interno della tradizione latina è quella della repraesentatio. 2. REPRAESENTATIO La categoria della repraesentatio13 costituisce l’asse nascosto che attraversa non solo la liturgia, ma la teologia trinitaria, la cristologia, l’ecclesiologia, la stessa definizione della testimonianza cristiana, soprattutto nel martirio vero e proprio14. La sua restrizione, a partire dal secolo XVI, all’ambito cultuale e ministeriale è di grave pregiudizio. In epoca moderna infatti del concetto si impadroniranno soprattutto i politici, ne cambieranno il senso intendendolo come delega (rappresentanza significa “stare al posto di un altro”, sostituirlo) e per ciò stesso, saranno causa di inquinamento della categoria all’interno della chiesa e della riflessione teologica. 13 Resta fondamentale lo studio di un costituzionalista, H. HOFMANN, Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis in 19.Jahrhundert, Berlin 20034; Di recente anche i teologi hanno approfondito la storia e il significato di questo concetto chiave, con un privilegio tuttavia quasi esclusivo, della problematica soteriologica, senza nesso con il problema più vasto del consensus: K.-H. MENKE, Stellvertretung. Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologische Grundkategorie, Einsiedeln 1991; Chr. GESTRICH, Christentum und Stellvertretung. Religionsphilosophische Untersuchungen zum Heilsverständnis und zur Grundlegung der Theologie, Tübingen 2001; St. SCHAEDE, Stellvertretung. Begriffsgeschichtliche Studien zur Soteriologie, Tübingen 2004. 14 P. BROWN, The Saint as Exemplar in Late Antiquity in J. STRATTON HAWLEY, Saints and Virtues, Berkeley 1987, 3-14.
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Possiamo invece comprendere la portata del termine sottolineando l’emergenza, nei concili di Costanza e Basilea dell’espressione, universalem ecclesiam repraesentans applicata all’assemblea conciliare, espressione usata ancora a Ferrara nel 1438 nel concilio trasferito per ordine di Eugenio IV (COD 514) e la sua scomparsa dopo, già a Ferrara e Firenze. Che il concilio sia configurato come repraesentatio ecclesiae e non solo come modalità solenne dell’esercizio della suprema potestà del collegio dei vescovi (CIC, can. 337 § 1) non è differenza da poco. Nello spostamento operato dal Codice si riflette lo spostamento della chiesa dalla dimensione del popolo di Dio e della communio all’asse gerarchico e autoritario. L’evolversi della coscienza dei cristiani nel secolo XX ha portato invece alla riscoperta della dimensione misterica della chiesa, della sua dimensione come popolo di Dio, del posto centrale che ha nella chiesa l’evento della communio. Ed è proprio la rinnovata consapevolezza della chiesa come sacramento della communio trinitaria che esige un’adeguata teologia e una prassi corretta della repraesentatio. La ripresa del suo significato originario, che significa semplicemente il rendersi presente e attuale della realtà rappresentata, attraverso la virtus che le è propria15, ci permette di comprendere non solo quale sia ogni volta la posta in gioco, ma al tempo stesso quali siano le implicanze e le condizioni del farsi della communio. Infatti, al di qua di ogni ulteriore determinazione dottrinale e confessionale, la storia dell’esperienza cristiana è attraversata dalla convinzione che, nella comunità confessante, si rende presente e operante il Cristo glorioso il quale, mediante il suo Spirito, continua ad “essere in mezzo” a coloro che sono riuniti nel suo nome e a operare dei frutti. E giacché storicamente la comunità confessante si articola poi al proprio interno in ministeri, in istituzioni e in attività varie, la presenza operante del Cristo viene vista non solo come fonte di legittimazione, ma altresì come fondamento della verità e dell’efficacia di tutte queste articolazioni. Questo e non altro deve essere 15 Sul preciso significato della categoria della reprasentatio applicata all’eucaristia in Tommaso e, di conseguenza nei concili di Firenze e Trento, cfr. HOFFMANN, Repräsentation, cit., 73-80.
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inteso come il contenuto fondamentale, anche se non ulteriormente determinato in maniera corrispondente agli sviluppi delle diverse tradizioni dottrinali, della repraesentatio Christi. Con questo non si vuol dire che il sintagma della repraesentatio Christi sia l’unica espressione capace di esprimere questo contenuto, ma nel senso che ogni altra espressione analoga (imago, similitudo, in persona, etc.) rimanda allo stesso “evento” fondamentale: quello della presenza operante del Cristo mediante il suo Spirito. In ambito cristiano chi ha introdotto il termine è stato Tertulliano. Egli lo usa in diversi contesti, quello sinodale e quello sacramentale, ma una volta anche per spiegare il rapporto tra il Cristo e il Padre. Ai fini di una comprensione esatta della repraesentatio in ambito ecclesiale è utile partire proprio da questo uso, dall’einziger Beleg (Hofmann), dall’unica documentazione esistente del lemma repraesentator in un contesto diverso da quello sinodale e sacramentale. Il brano sta nell’Adversus Praxean al cap. 24: giacché il Padre non è visibile in se stesso, “igitur et manifestam fecit duarum personarum coniunctionem ne Pater seorsum quasi visibilis in conspectu desideraretur et ut Filius repraesentator Patris haberetur”. Ma questo accade perché il Padre opera nel Figlio: “E pertanto viene rimproverato colui che desidera vedere il Padre in maniera quasi sensibile e viene istruito che egli si rende visibile nel Figlio ex virtutibus, non ex personae repraesentatione”. Appare qui chiaramente come la repraesentatio Christi per Tertulliano sia, non una riproposizione della persona del Padre, ma un effetto della presenza operante del Padre nel Cristo. Teologicamente ha cioè senso parlare di una repraesentatio Christi solo supponendo che si tratti di un evento reso attualmente possibile da Dio stesso e in cui Dio rende “presente” qualcosa di sé: la repraesentatio è sempre effetto di un’attività di cui l’ultimo soggetto è il Padre. Ed essa è vera solo in quanto è il Padre che, fontalmente, si comunica. Questa è la verità ultima della “monarchia” divina, dell’unico principio trinitario, ma è anche la verità di ogni linguaggio “pertinente” a ciò che l’esperienza cristiana contiene come suo nocciolo duro. Questa “fontalità”, ultimamente trinitaria, della repraesentatio, senza la presenza del termine come tale, si ritrova nelle fonti più antiche del NT (già nella Logienquelle ?), dove c’è l’esplicita consapevolezza che
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la repraesentatio Christi che qui stiamo chiamando “fontale”, quella per cui il Padre è all’origine dell’opera del Figlio, è il fondamento di ogni altra repraesentatio Christi. In questo senso non si tratta di un motivo esclusivamente giovanneo. Lc 10, 16 (“Chi ascolta voi ascolta me; chi respinge voi respinge me, e chi rifiuta me rifiuta Colui che mi ha mandato”) riecheggia Giov 13, 20 (“In verità, in verità vi dico: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato”). Ma nella forma più semplice il motivo è formulato da Matteo 10, 40: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”. Non bisogna in queste formule forse andare oltre al semplice principio giuridico fondamentale giudaico, secondo cui colui che viene inviato vale tanto quanto chi l’ha inviato16. Ma esso è sufficiente per permettere uno sviluppo e un approfondimento ulteriore della repraesentatio Christi. Questa sottolineatura, dell’ultimo presupposto trinitario della stessa repraesentatio Christi, acquisirà tutta la sua importanza esplicita quando, come accade nel XV secolo, si darà molta importanza al consensus come criterio dell’avvenuta repraesentatio. Giacché è la stessa relazione di concordia trinitaria che si rende efficace nel consenso di una riunione cristiana, come il concilio, e nella recezione da parte dei fedeli che così esprimono il loro consensus (Cusano). Per cui il dissenso è in qualche modo una spia di una non avvenuta repraesentatio Christi, di un’interruzione di quel flusso vitale che dal Padre, attraverso il Figlio e lo Spirito, rende presente nel mondo la stessa vita trinitaria. Ma questo flusso vitale può essere solo opera dello Spirito di Cristo che rende conformi gli uomini all’origine. Il contenuto strettamente teologico della repraesentatio Christi che è, prima ancora, una repraesentatio Patris, ci permette di comprendere gli altri significati della repraesentatio che hanno quindi nella repraesentatio Christi l’analogatum princeps. Gli ambiti principali di questa repraesentatio sono due: quello eucaristico e quello assembleare.
16 K. KERTELGE, Offene Fragen zum Thema “Geistliches Amt” und das neutestamentliche Verständnis von der “repraesentatio Christi”, in Die Kirche des Anfangs. Für Heinz Schürmann, Freiburg-Basel-Wien 1978, 589.
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3. EUCARISTIA, REPRAESENTATIO E CONSENSO È illuminante per comprendere il nesso tra eucaristia e repraesentatio il testo di Tertulliano a proposito dell’eucaristia, quando l’apologeta africano ribatte a Marcione che negava la dignità della materia e l’unità tra il Dio creatore e il Dio salvatore, come Cristo non avesse riprovato “né l’acqua del Creatore con la quale ci purifica, né l’olio con il quale unge i suoi, né la mescolanze del miele e del latte con la quale nutre i suoi nella prima infanzia, nec panem, quo corpus suum repraesentat, avendo bisogno anche per i propri riti, dei doni mediati dal Creatore (Adv. Marcionem I, 4). Con Hofmann17 possiamo notare come qui non possa esserci alcun dubbio che Tertulliano parli della presenza reale e corporea di Cristo, cosa del resto confermata dalla distinzione netta che Tertulliano introduce altrove tra un’immagine nella visione (imago in visione) e la veritas in repraesentatione, la verità che invece si ha nella repraesentatio. Possiamo anzi affermare con sufficiente certezza che l’ambito cultuale è quello in cui il significato originario della repraesentatio si è meglio conservato. Nel Novecento e all’interno della teologia cattolica, questa concezione tradizionale è stata esaltata soprattutto nella “teologia dei misteri” di O. Casel. La sua ispirazione fondamentale è data dalla convinzione che nella celebrazione cultuale si realizza la presenza di un’azione salvifica di origine divina, in particolare del mistero della Pasqua, mysterium Christi per eccellenza, in maniera tale che essa possa essere fatta propria dai partecipanti, i quali ricevono così la vita divina stessa. Nella liturgia della chiesa la memoria dell’azione salvifica operata da Cristo diventa, come realtà pneumatica, presenza di Cristo attraverso lo spazio e il tempo18. La repraesentatio Christi nella liturgia — accanto alla comunicazione immediata dello Spirito — diventa quindi il fondamento efficace della vita ecclesiale. Il Vaticano II, senza riprendere formalmente la “teologia dei 17
Ibid., 59. O. CASEL, Die Liturgie als Mysterienfeier, Freiburg 1922; Das christliche Kultmysterium, Regensburg 19604. 18
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misteri”, sintetizza la dottrina cattolica enumerando le varie “presenze” del Cristo nella chiesa e, in particolare, nelle celebrazioni liturgiche: «Christus ecclesiae suae semper adest, praesertim in actionibus liturgicis. Praesens adest in Missae Sacrificio cum in ministri persona […] tum maxime sub speciebus eucharisticis. Praesens adest virtute sua in Sacramentis […] Praesens adest in verbo suo […] Praesens adest dum supplicat et psallit Ecclesia, ipse qui promisit: “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt 18,20). Reapse tanto in opere quo Deus perfecte glorificatur et homines sanctificantur, Cristus ecclesiam, sponsam suam delectissimam, sibi sempre consociat, quae Dominum suum invocat et per ipsum Aeterno Patri cultum tribuit» (SC 7). Il Vaticano II non solo fonda su questa presenza attiva del Cristo, che rende così il culto al Padre (il contesto trinitario!), l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Cristo, capo e membra, da parte di tutto il corpo ecclesiale, ma inconsapevolmente evoca proprio i motivi fondamentali della repraesentatio non ancora vanificati nella sua accezione nominalistica di semplice fictio iuris. Il luogo eucaristico della repraesentatio è il più idoneo a comprendere la natura del consensus o to hen phronountes (Fil 2, 2) nella chiesa. Nell’eucaristia è il Cristo stesso, ricevuto nella fede, che opera l’unità con sé del corpo, al di là delle diversità dei membri. Noi siamo uniti nell’unico pane e nell’unico calice e non in ciò che noi siamo a partire da noi stessi. Ed è questa unità istaurata nel Cristo che rende possibile, produce e accresce il movimento di unità di coloro che partecipano all’unico pane e all’unico calice. Abitualmente l’attenzione del consensus si sposta invece sull’oggetto del consensus stesso (sia esso una formula, sia esso una decisione). Ritengo questa interpretazione radicalmente sbagliata. Non più che un qualsiasi atto del consenso possa essere vuoto, senza un oggetto su cui l’atto verte. Ciò sarebbe impensabile. Ma il consentire come dono operato dal Cristo trascende ogni altro convenire e consentire successivo dei cristiani, anche se non ne può fare a meno. Il consentire è più importante del mezzo in cui si esprime, che a volte può essere povero e inadeguato, ma mai insufficiente per esprimere il consentire. Il consentire “primario” è costituito dalla repraesentatio capitis semper influentis
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Christi e, in lui, della comunione trinitaria. Ma esso poi non produce di per sé la formulazione migliore in assoluto o la decisione ottimale. Ciò dipende dalla storia, dallo stato di crescita della chiesa verso la pienezza del Cristo (cfr. Ef 4, 11-16). Tra il consentire e l’oggetto del consenso ci sta cioè un rapporto analogo a quello che vige tra il significato e il suo significante. Il significato trascende sempre il significante, anche se mai non esiste senza di esso. 4. CONSENSO EUCARISTICO E CONSENSO SINODALE Gli autori recenti sottolineano il nesso tra eucaristia e sinodo, già a partire dal linguaggio originario. R. Sohm, con la sua ipotesi sull’origine dei sinodi come espansione dell’adunanza eucaristica19, come direbbe Congar, su questo punto “ci interroga ancora”. Certamente resta dal punto di vista delle nostre conoscenze storiche sulla nascita dei sinodi, tra il NT e i primi sinodi documentati, quelli antimontanisti, un grosso buco nero. In ogni caso resta tra le varie ipotesi la più plausibile quella formulata da Schlink: «I sinodi nella chiesa antica si sono sviluppati storicamente dalla riunione della comunità locale, cioè dalla riunione liturgica. Così come la riunione liturgica e il servizio che in essa veniva reso fu l’istanza centrale per lo sviluppo dell’ordinamento dei ministeri, altrettanto deve dirsi per lo sviluppo del sinodo. Esso è sorto, quando nella consultazione della comunità locale si inserirono membri autorevoli di altre comunità»20. Ma il problema fondamentale non è quello dell’evoluzione storica dei sinodi, quanto quello della natura della celebrazione sinodale, se esso sia cioè una celebrazione liturgica e se quindi, in quanto tale, esso non obbedisca alle stessi leggi che presiedono la celebrazione liturgica e, quindi, in primo 19 R. SOHM, Kirchenrecht I, Berlin 1970 (ripr. an della II ed. del 1923), 258-308. E. LANNE, L’origine des synodes, in Theologische Zeitschrift 27 (1971) 201-222, spec. 212, fa valere come il passaggio del termine per indicare la sinassi a quello che indica l’assemblea è quasi impercettibile e cita a tal proposito Eusebio. 20 L.c. Si noti come questa ipotesi, che ritengo la più plausibile, si incontri con quella di Junod, ricordata sopra.
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luogo l’eucaristia21. All’interno della tradizione latina è qui imprescindibile il riferimento all’ordo sinodale che va letto, non solo come cornice, ma come l’espressione della natura più profonda della celebrazione sinodale. Nella chiesa latina veniamo quindi rimandati ai concili mozarabici22. Soprattutto va ricordata la preghiera introduttiva Adsumus, Domine Sancte spiritus23, Di questa tradizione liturgica 21 Cfr. in tal senso il contributo di G. ALBERIGO, Sinodi come liturgia?, in Cristianesimo nella storia 28 (2007) 1-40, che costituisce come l’eredità e al tempo stesso la retractatio di uno studioso che aveva sempre privilegiato l’aspetto istituzionale dei sinodi come strumento di governo in cui si esprime la collegialità episcopale. 22 Lo studio più importante a tal proposito è quello di M. KLÖCKENER, Die Liturgie der Diözesansynode. Studien zur Geschichte des “Ordo ad Synodum” des “Pontificale Romanum”, Münster 1986. Ma, per una prospettiva più ampia, per il periodo precedente a Graziano, cfr. H. Schneider, Vorgratianische Kanonessammlungen und ihre Synodalordines, in Proceedings of the Ninth International Congress of Medieval Canon Law Munich 13-18 July 1992, Città del Vaticano 1997. 23 Per la prima volta, questa preghiera che apre tradizionalmente le assemblee sinodali della chiesa latina (da ultimo è stata usata anche nella liturgia del Vaticano II), appare in Spagna nell’ordo visigotico della fine del VII secolo. Da parecchi studiosi, ma senza prove decisive, come autore viene indicato Isidoro di Siviglia. In ogni caso l’orazione corrisponde alla spiritualità di quel tempo. Lo stile è mozarabico. Mentre le preghiere romane sono brevi, stringenti e con contenuto fortemente teologico, la liturgia mozarabica abbonda nelle richieste, nell’espressione dei sentimenti e nel riferimento chiaro alla situazione dell’orante. Ci si rivolge direttamente allo Spirito Santo, fatto questo abbastanza raro nelle altre liturgie, se si eccettua quella armena, mentre è abbastanza comune nella liturgia mozarabica soprattutto nel periodo di Pentecoste. La preghiera introduce alla duplice dimensione dell’evento sinodale: si tratta di un evento penitenziale, in cui la chiesa si riconosce peccatrice e bisognosa di perdono e di conversione; ma si tratta di un evento che è dominato dal dono dello Spirito che rende possibile la conversione e illumina i cuori. La dimensione penitenziale viene quindi giustapposta a quella pneumatologica: peccati quidem immanitate detenti (trattenuti) — nomine tuo specialiter aggregati. La sinodalità appare così non come celebrazione di fasto ecclesiastico, espressione di potere sia pure gerarchico, ma adorazione da parte di uomini peccatori del mistero della comunione (“aggregati”), che è resa possibile solo grazie allo Spirito. La dimensione pneumatologica viene descritta nel suo dinamismo progressivo: adesto – dignare illabi – doce nos – ostende – operare: renditi presente, degnati di penetrare, insegnaci, mostra, opera. È la presenza dello Spirito (adesto), pura grazia
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intanto vorrei subito sottolineare un aspetto importante. L’ordo attuale è nella sua struttura sostanzialmente identico a quello che si è costituito nella chiesa di Toledo del VII secolo, ivi compresa la preghiera di apertura. Il resto con le varie allocuzioni e le restanti preghiere si trova già in una compilazione liturgica redatta a Mainz non più tardi della metà del secolo X che, ripresa da Ivo di Chartres nel XII secolo, passa al Pontificale Romanum. Il Pontificale romanum a cui tutta la prassi postridentina fa riferimento è quello promulgato da Clemente VIII nel 1595. Attualmente è il Caeremoniale episcoporum, promulgato nel 1984 che indica le linee della celebrazione (parte VIII, cap. I, 1169-1176). Se l’ordo ad synodum è la chiara dimostrazione della natura liturgica dell’evento sinodale dal periodo medievale fino a noi, considerazioni analoghe possono essere fatte per i grandi concili dell’antichità. L’intronizzazione del vangelo come contesto vitale nel quale viene celebrato il concilio è presente nell’iconografia conciliare fin da Nicea, anche se non è assolutamente certo che a Nicea ciò sia effettivamente avvenuto. Di recente una giovane ricercatrice ha approfondito la dimensione liturgica soprattutto nei concili di Costanza e Basilea24. Sotto il coordinamento di G. Alberigo un intero seminario è stato dedicato a Bologna alla dimensione liturgica dei sinodi25. Ogni considerazione sulla sinodalità che prescindesse quindi dalla struttura epicletica, dossologica e penitenziale (espresse dall’ordo ad synodum) come struttura portante dell’evento sinodale sarebbe gravemente monca. Troppo l’ecclesiologia ha patito, fin nelle sintesi postconciliari, dell’esasperazione della dimensione dottrinale avulsa effusa nei nostri cuori (dignare), che deve illuminare la nostra mente (doce nos, ostende) per le decisioni giuste, rendendo possibile la nostra stessa prassi (operare). L’evento sinodale viene poi richiamato alla sua purezza: esto solus suggestor et effector judiciorum nostrorum. In negativo si descrive quindi quello che potrebbe essere di ostacolo alla purezza di questo evento: turbamento della giustizia, ignoranza, parzialità, sentimenti di preferenza per la mansione ricoperta o per una determinata persona. 24 N.-I. TINTEROFF, Assemblée conciliaire et liturgie aux conciles de Constance et Bâle, in CRST (2005/2). 25 Vedi i risultati in Cristianesimo nella storia 28/1 (2007): Sinodi e liturgia.
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dalla sua natura liturgica e pastorale26. Ma l’evento sinodale, come dimostra sempre l’ordo ad synodum, è dall’inizio alla fine invocazione dello Spirito27, anche se la caduta della preghiera finale del sinodo dall’attuale ordo, con la sua accentuazione del momento penitenziale deve essere considerata grave. La chiesa, nella costruzione del consenso, non può dimenticare di essere sempre inadeguata rispetto alle urgenze del regno. La considerazione della celebrazione liturgica come dimensione portante dell’evento sinodale è l’unica che possa conservare ad esso la sua logica originaria, che è quella stessa della liturgia, celebrazione della coniunctio tra il Cristo glorioso e la sua chiesa, coniunctio operata dallo Spirito.
26 Si veda invece una costruzione ecclesiologica basata sulla dimensione liturgica: G. W. LATHROP, Holy people. A Liturgical Ecclesiology, Minneapolis 1999. 27 Anche se è scomparsa la preghiera finale, di tono penitenziale, Nulla est Domine. Alla chiusura del Vaticano II questa preghiera fu preceduta dalla dichiarazione di riconciliazione tra Paolo VI e Atenagora. Dai tempi della Spagna visigotica essa non aveva avuto mai un tale impatto, osserva giustamente JOUNEL, cit., 59.
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CONSENSO E COMUNIONE ECCLESIALE. IL CONTRIBUTO DI J.-M. TILLARD
NUNZIO CAPIZZI*
1. COMUNIONE ECCLESIALE E SUE DINAMICHE Il tema della presente comunicazione, sul consenso e la comunione ecclesiale nel domenicano canadese Jean-Marie Roger Tillard (2 settembre 1927 – 13 novembre 2000), è intrinsecamente legato a quello sul rapporto tra il consenso e l’eucaristia, che Giuseppe Ruggieri ha trattato all’interno di questo convegno. Per fare risaltare il legame indicato, ovvero per ribadire la rilevanza che l’ecclesiologia di comunione ha per una trattazione sul consenso, è molto appropriato un passo dello stesso Ruggieri che, alcuni anni fa, nelle pagine di Cristianesimo nella storia, dedicate alla memoria di Tillard, ha scritto: «proprio il fatto di aver privilegiato il nesso eucaristia-chiesa lo ha poi condotto lungo gli anni, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, a sviluppare l’ecclesiologia di comunione, mettendone allo scoperto i nodi istituzionali più delicati: il primato del vescovo di Roma [L’évêque de Rome, Paris 1982] e la dignità delle chiese locali [L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Paris 1995], ma sempre in un ritorno al motivo originario e fondante [Chair de l’Église, chair du Christ. Aux sources de l’ecclésiologie de communion, Paris 1992]»1. *
Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. G. RUGGIERI, In memoria del padre Jean-Marie Roger Tillard, 2 settembre 1927 – 13 novembre 2000, in Cristianesimo nella storia 22 (2001) 1-2. 1
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A proposito del necessario orizzonte che l’ecclesiologia di comunione costituisce per pensare il consenso, vorrei menzionare pure l’apporto di alcune recenti dissertazioni di dottorato sull’ecclesiologia del teologo domenicano2. Fra queste, la ricerca di Riccardo Bollati fa alcune sottolineature che è opportuno riprendere. Per esempio, sulla comunione ecclesiale, quale centro della riflessione di Tillard, afferma: «al cuore della sua teologia sta la koinonia, quel grande dono che pro-viene agli uomini da quel Dio che visita il suo Popolo […]. Un dono che ha il suo centro nel sacramento dell’Eucarestia, realtà in cui l’unicità salvifica della Morte-Resurrezione di Gesù Cristo si rivela come il fuoco da cui tutto irradia, il Sacrificio unico e irripetibile che fonda e costituisce la koinonia ecclesiale». Proseguendo, Bollati mette in luce i risvolti della comunione e, relativamente al consenso, osserva: si tratta di «una comunione che dall’Eucarestia, memoriale della Pasqua di Cristo, si dilata nella vita nuova che anima la Chiesa e che trova il suo asse di bilanciamento nel rapporto fra sacramento dell’Ordine e Battesimo, fra episkopé e sensus fidelium». Nel chiarire alcuni aspetti della nuova vita indicata, scrive: «qui l’unità e la diversità, che caratterizzano la chair dell’umano, trovano la loro sintesi ed esprimono il loro equilibrio nella sinodalità, cioè in quel dinamismo che, a parere dell’Autore, deve informare la Chiesa a ogni livello, se si vuole rispettata la sua natura di koinonia essenzialmente relazionale». Sulla base di tale sinodalità, poi, Bollati mostra come Tillard intende articolare il rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali, rapporto in cui il vescovo di Roma occupa un posto particolare3. Il mio intervento non tratterà le importanti questioni ecclesiolo2 Cfr A. ATAKPA, L’Église de Dieu comme communion d’Églises locales: L’Église universelle et l’Église locale dans l’ecclésiologie de communion de Jean-Marie Tillard. Dissertatio ad doctoratum, Pontificia Unuiversità Gregoriana, Roma 2010; J. FONTBONA I MISSÉ, Comunión y sinodalidad: la eclesiología eucarística después de N. Afanasiev en I. Zizioulas y J.M.R. Tillard. Dissertatio ad doctoratum, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1994; R. BOLLATI, L’alba dell’unità. In dialogo con J.M. R. Tillard, Roma 2012. 3 R. BOLLATI, L’alba dell’unità, cit., 18-20. Per le opere di Tillard, a proposito della relazione tra Chiesa universale e Chiese locali, si veda ad esempio: «Le local e l’universel dans l’Église de Dieu», in Proche-
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giche appena accennate, ma si limiterà a cogliere il legame tra la formazione del consenso e la comunione ecclesiale, di cui è stata sottolineata la centralità nella riflessione di Tillard. A tale scopo, la prospettiva da privilegiare è quella delle dinamiche di comunicazione, ossia del permanere nella comunicazione e nel cercare insieme l’adesione alla Verità che è Gesù Cristo. Si tratta di dinamiche che sono al servizio della comunione e del suo esercizio nella Chiesa. Fra esse, risaltano la recezione e l’esercizio della sinodalità. In entrambi i casi, per Tillard, si è di fronte a un fenomeno complesso, in cui intervengono il sensus fidelium, o sensus fidei della comunità cristiana, e la responsabilità dei pastori, il magistero gerarchico4. Prima di procedere, si impone una chiarificazione dei termini. Riguardo al sensus fidei, connesso con il sensus fidelium, Tillard, rifacendosi a John Henry Newman, afferma che esso è come una sorta di fiuto, che si esprime in un giudizio di fede, un’intuizione che fa cogliere ciò che è in armonia con l’autentico senso della Parola di Dio e ciò che distoglie da essa. A proposito del consensus fidelium, ossia dell’assenso dei fedeli intorno ai contenuti della fede, Tillard indica in esso il senso soggettivo, le condizioni di tale consensus — espresse anche con conspiratio o concordia — e il senso oggettivo, i contenuti di fede, testimoniati dal sensus fidei fidelium5. Presenterò, di seguito, i nodi fondamentali della riflessione di Tillard sulla relazione tra il consenso e la comunione ecclesiale in due sue opere ecclesiologiche, secondo un ordine cronologico. Traccerò, infine, qualche linea sistematica per ripensare la questione del Orient Chrétien, 37 (1987) 225-235 e Église catholique ou Église universelle?, in Cristianesimo nella storia 16 (1995) 341-359. 4 Cfr J.-M. TILLARD, À propos du “sensus fidelium”, in Proche-Orient Chrétien 25 (1975) 113-134 ; ID., Le “sensus fidelium”. Réflexion théologique, in Foi populaire. Foi savante (Actes du Ve Colloque du Centre d’études des religions populaires tenu au Collège dominicain de théologie, Ottawa), Paris 1976, 9-40; ID., Reception – Communion, in One in Christ 28 (1992) 307-322. Si veda pure R. BOLLATI, L’alba dell’unità, cit., 410, nota 50. 5 Cfr J.-M. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Brescia 1989, 129-164. La nota 80 di pagina 131 rinvia al seguente studio di Newman: On consulting the Faithful in matters of Doctrine, in The Rambler 1859, 198-230.
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consenso nella Chiesa, nell’orizzonte delle dinamiche di comunicazione, con speciale riferimento alla singularis Antistitum et fidelium conspiratio (Dei Verbum 10). 2. COMUNIONE E COMUNICAZIONE IN ÉGLISE D’ÉGLISES La prima opera da considerare è Église d’Églises. L’ecclésiologie de communion, del 1987. Il contesto generale, in cui Tillard pone la riflessione sul processo di comunione e di comunicazione ecclesiale animato dallo Spirito Santo, è quello dell’interpretazione della Parola di Dio, ossia della «espressione in linguaggio umano dell’“evento di Dio” che fonda la chiesa»6. a) Ad esigere la suddetta interpretazione è il fatto che la Parola sia viva e che si comunichi in forma scritta, per suscitare la vita del popolo di Dio. Infatti, la Parola «non può essere semplicemente ripetuta con una lettura fondamentalista. Essa è “data” (come dono gratuito) da Dio al suo popolo con la missione di conservarla, nella potenza dello Spirito, sempre viva. Perché non è un documento da archivio. Essa è la base di un popolo di Dio in cammino attraverso la storia e i suoi meandri». La Parola, trasmessa dalla fede della chiesa nel canone delle Scritture, è viva e suscita vita: «attraverso la mediazione della Parola, il cui legame con ciò che Gesù è stato e con ciò che ha vissuto è in tal modo certificato, la chiesa rimarrà all’ascolto di ciò che Dio ha voluto veramente dirle in Gesù Cristo»7. L’interpretazione delle Scritture trasmesse, perciò, si accompagna al permanere nell’ascolto di Dio. A proposito dell’ascolto interpretante, però, secondo Tillard, possono sorgere due problemi fondamentali. Data la possibilità di una pluralità di interpretazioni, il primo problema emerge nel momento in cui la chiesa si trova nelle condizioni di dovere precisare «nell’intrigo di letture diverse che rischiano di dividere la comunità, 6 J.-M. TILLARD, Église d’Églises. L’ecclésiologie de communion, Paris 1987. In questo contributo, come ho già segnalato nella nota precedente, userò la traduzione italiana del volume. 7 J.-M. TILLARD, Chiesa di Chiese, cit., 129-130.
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quali di tali letture ha diritto di cittadinanza». La seconda questione, per alcuni versi più sottile e più complessa, risalta «quando i bisogni della cattolicità esigeranno che si passi ad un nuovo linguaggio, che le parole veicolate da secoli cedano il posto a quelle di un’altra cultura e di un altro contesto». In questo caso, è necessario «“riconoscersi” vicendevolmente in comunione gli uni con gli altri, nella comunione alla fede apostolica»8. Di fronte ai problemi indicati, per Tillard, emerge il carattere decisivo del sensus fidei, dell’istinctus della comunità credente, suscitato dallo Spirito. Lo Spirito Santo sta all’origine dell’ascolto e della comprensione della Parola di Dio: questa «porta in sé una profondità che viene dallo Spirito e che non viene percepita se non “nello Spirito”, quello Spirito che appunto anima la chiesa fin dalla pentecoste». La comprensione donata dallo Spirito, che agisce nella chiesa, è «spesso cristallizzata in una dottrina o in un dogma di fede “riconosciuti” come interpretazione autentica». Parlare di comprensione nello Spirito, secondo Tillard, equivale a prendere atto di un «fenomeno complesso che muove il popolo di Dio nel suo insieme». La complessità sta nel fatto che, in detta comprensione, «intervengono e il fiuto spirituale della comunità e la determinazione di coloro che esercitano un “magistero”, ma in simbiosi». Tale complesso processo di comunione, come suo nodo decisivo, ha la recezione «grazie alla quale sulla base del fiuto dei credenti (il sensus fidelium) si stabilisce un consenso su una determinata interpretazione proposta da coloro che hanno l’incarico di percepire questo sensus e di tradurlo». Uno sguardo attento al processo in questione coglie che «sensus fidelium e magistero gerarchico sono in tal modo in consonanza, in ascolto vicendevole, nel rispetto delle competenze specifiche reciproche, essendo ciascuno dei due normativo per l’altro»9. Per approfondire il suddetto processo di comunione, il teologo di riferimento, come è stato già accennato, è Newman. Riallacciandosi a questi, Tillard spiega che «in ogni battezzato ci sia un fiuto, un istinto
8 9
Ibid., 130. Ibid., 130-131.
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(un phrónêma) un senso, una sicurezza, che gli deriva dalla sua inserzione nel corpo del Cristo operata dal battesimo». L’orizzonte ecclesiologico e sacramentale tracciato dà una corretta prospettiva per l’insegnamento magisteriale in relazione al sensus fidelium: «la funzione magisteriale e gerarchica, data per ordinazione, è una funzione in questo corpo dotato di questo fiuto spirituale. E mira a precisare, spiegare, difendere, appunto l’oggetto di questo fiuto. Ma è chiaro che anch’essa cade sotto il suo verdetto». È talmente decisivo l’ascolto vicendevole e, meglio, l’esercizio della funzione magisteriale nel corpo ecclesiale, che Tillard ritiene che «una dichiarazione magisteriale nella quale il sensus fidelium non riesce a riconoscere il proprio bene è a priori inopportuna se non addirittura sospetta»10. Ciò non significa, si premura di puntualizzare Tillard, che coloro che esercitano la funzione di magistero lo facciano da delegati della comunità credente: i pastori, infatti, «ricevono […] una grazia dello Spirito proporzionata alla loro funzione, la quale non consiste nel dire semplicemente in modo più ordinato quello che pensano gli altri. È loro compito trovare formule nuove per tradurre la fede tradizionale (come a Nicea, a Calcedonia), correggere usi sbagliati, trattare questioni il cui impatto sfugge alla comunità nel suo insieme e che tuttavia sono cruciali per la sua vita». Tuttavia, essi devono tenere presente che «la fede di cui essi trattano è quella di tutta la chiesa, “sentita” dal sensus fidelium». Se non dovessero tenere conto di questo, il risultato sarebbe deleterio: «una separazione che non permetta nessun passaggio tra ecclesia docens ed ecclesia discens, tra chiesa che sa e chiesa che segue», con l’inevitabile conseguenza che tale separazione «rappresenta già una corrosione della comunione di fede»11. b) Davanti al quadro delineato, Tillard indica due osservazioni che potrebbero essere mosse e fa alcune sottolineature. La prima osservazione consiste nel considerare una domanda che potrebbe essere sollevata: «si dirà, riprendendo una espressione usata
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Ibid., 132-133. Ibid., 133; il corsivo è nel testo.
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per mettere in caricatura questa visione, che noi facciamo del magistero l’“ostaggio dell’opinione dei laici”?». In risposta, Tillard dice che porre il problema in questi termini significa non considerare onestamente tre elementi decisivi: «che il senso in questione è cosa ben diversa da un’opinione e risponde ad una certezza spesso inconscia ma infusa dallo Spirito; che, siccome sono dei fedeli, coloro che hanno l’ufficio di magistero hanno anch’essi questo sensus e non possono soffocarlo nell’esercizio del loro ufficio; che in conseguenza di questo ufficio essi devono entrare in dialogo con la comunità nel suo insieme educandola e nel contempo lasciandosi educare da essa»12. In secondo luogo, scrive Tillard, «qualcuno penserà senz’altro che una tale comunione è un ideale astratto […], inapplicabile ad una chiesa dalle dimensioni universali. E si metterà avanti “la consultazione elementare e molte volte superficiale dei fedeli prima della definizione dell’Assunzione”, spiegando che “la buona intenzione veniva vanificata dalla realtà concreta”». A riguardo, il teologo canadese sposta l’attenzione alla chiesa locale e spiega che è in questa e a partire da questa che il processo di comunione deve essere correttamente pensato: «la chiesa di Dio è comunione di chiese locali. È fondamentalmente a livello di chiesa locale che può e deve prendere forma quello che abbiamo presentato, non a livello di una chiesa concepita come un tutto uniforme e indifferenziato». Gli apporti delle chiese locali trovano espressione nel sinodo: «è nella comunione sinodale dei responsabili gerarchici di queste chiese locali che l’osmosi descritta si allarga fino a confini della catholica, anche qui dando ciascuno agli altri e dagli altri ricevendo». Quale esempio di processo comunionale in tal modo già realizzato, Tillard richiama l’esperienza fatta nel sinodo straordinario del 1985: esso «ha permesso di cogliere sul vivo questo processo in un “dialogo delle esperienze” che sfociava su una ri-ricezione di numerose tra le conclusioni maggiori del Vaticano II rilette però alla luce del sensus fidelium da parte di vescovi in atto di magistero»13.
12 13
Ibid., 134. Ibid., 134-135 ; il corsivo è nel testo. Si veda pure la nota 93 di pagina 135.
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Quanto detto permette di allargare la riflessione su un dinamismo di comunione tra chiesa universale e chiesa locale, centrato sull’esperienza sinodale, poiché «la comunione di fede che fa la comunione delle chiese dipende, su tutto un piano, da questa comunione sinodale». Questa, a sua volta, «ri-esprime, nel linguaggio e nelle necessità di ciascun luogo quanto la comunione delle chiese apostoliche ha lasciato come eredità. Si permette in tal modo alle chiese di “riconoscere” la loro fede in quella delle altre e di arricchirsi l’una con l’altra sia sul piano dell’intelligenza della Parola rivelata che su quello della sua difesa, della sua spiegazione, della sua traduzione nei nuovi spazi della vita del mondo»14. Messo il punto fermo dell’importanza della comunicazione nella chiesa locale e, di conseguenza, nella chiesa universale, dal momento che il vescovo della chiesa locale è in comunione con i vescovi delle altre chiese, è utile prendere atto delle sottolineature di Tillard. Egli fa una prima sottolineatura quando, nel considerare le relazioni comunicative all’interno della chiesa locale, dà risalto alla comunicazione tra il vescovo e il presbiterio: questo «costituisce la rete capillare attraverso la quale, da una parte, le questioni, le difficoltà, la prassi, ma anche le convinzioni del sensus della comunità accedono al vescovo e attraverso la quale, d’altra parte, le decisioni di quest’ultimo (le sue specifiche, come quelle del corpo episcopale nel suo insieme di cui è membro) vengono non soltanto comunicate, ma spiegate, tradotte se è il caso, alla comunità». La relazione con il presbiterio non fa altro che contribuire in modo migliore al servizio ecclesiale dei vescovi. Infatti, «il peso della loro parola magisteriale viene certo innegabilmente dalla loro specifica missione di responsabili, che adempiono con una assistenza speciale dello Spirito, ma viene anche dal fatto che il suo contenuto è in armonia con ciò che d’istinto, nel loro sensus fidei, le loro chiese sentono»15. Tillard, a proposito, con un richiamo alle consultazioni dell’episcopato fatte da Pio IX e da Pio XII prima delle definizioni dogmatiche
14 15
Ibid., 135; il corsivo è nel testo. Ibid., 136-137.
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dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, aggiunge una riflessione sul magistero infallibile del vescovo di Roma. Scrive: «non è il suo punto di vista personale bensì quello del collegio intero, anzi di tutti i vescovi che fin dalle origini sono stati nella comunione con il collegio apostolico, che in quel momento egli esprime. D’altronde, checché ne sia di una consultazione previa di tutto l’episcopato, il vescovo di Roma non può pronunciarsi se non dopo aver “ascoltato” e scrutato la fede di tutte le chiese affidate dallo Spirito al collegio episcopale. Egli “definisce” non la propria fede, bensì quella di tutte le chiese locali»16. Una seconda sottolineatura di Tillard concerne il ministero dei teologi nelle chiese locali. Essi hanno il compito di «far entrare nel pensiero della chiesa le questioni del mondo, pesandole, mostrandone la serietà e indicandone l’impatto prevedibile. A questo piano il magistero dei teologi è come un’antenna senza la quale il popolo di Dio rischierebbe di trasformarsi in un’enclave oscurantista o fanatica, incapace di assumere i progressi autentici e le questioni pertinenti dell’intelligenza umana». Poiché il teologo vive nella chiesa locale ed è al suo servizio, «spezzando […] il monolitismo della teologia ispiratrice, egli aiuta e il sensus fidelium e il giudizio ministeriale a distinguere bene tra fede della chiesa (ce n’è una sola) e teologie nella chiesa (ce ne sono molte)»17. c) Nel dinamismo comunionale della chiesa, un elemento decisivo è la recezione, a cui in precedenza è stato fatto cenno. Per Tillard, essa è «il processo per mezzo del quale o un individuo o il popolo di Dio in quanto tale fa di una parola che gli viene detta una verità (in senso pieno) della propria fede, integrata a quella che egli riconosce come l’autentica espressione della rivelazione»18. A proposito, due aspetti meritano di essere richiamati. 16
Ibid., 137; il corsivo è nel testo. Nella nota 98 di pagina 137, scrive: «le definizioni di Pio IX e di Pio XII si sono basate su questa consultazione che al Vaticano I la commissione dottrinale (deputatio de fide) s’è rifiutata di introdurre nel testo finale come condizione richiesta alla validità della definizione». 17 Ibid., 138-139. 18 Ibid., 148.
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La recezione, in primo luogo, presuppone la preghiera. Essa, infatti, «si riferisce fondamentalmente a ciò che permette di scoprire o di meglio percepire ciò che fa formalmente del contenuto della rivelazione, una buona Notizia». Tale percezione è legata all’azione dello Spirito Santo che si realizza in particolare nella preghiera liturgica: «non pensiamo di sbagliare affermando che verità tanto centrali ma anche tanto difficili da delimitare quali sono quelle riguardanti il mistero trinitario, siano penetrate nella vita delle chiese solo grazie alla liturgia. Lex orandi lex credendi ha anche questo senso. La fede non può abitare il popolo di Dio senza l’epiclesi della preghiera liturgica»19. La recezione, inoltre, ha bisogno di tempo, come mostra un riferimento alla storia del dogma: «ci sono voluti più o meno sessant’anni di discussioni spesso inquietanti perché il concilio di Nicea venisse “ricevuto”. E lo sarebbe stato senza la decisione del concilio di Costantinopoli (383), anch’essa incerta fino alla sua “recezione” da parte di Calcedonia? Apparenti non-ricezioni possono così rivelarsi a cose fatte come elementi provvidenziali della paziente economia dello Spirito. Erano nelle vie di Dio»20. 3. COMUNIONE E COMUNICAZIONE IN L’ÉGLISE LOCALE La seconda opera da considerare è L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, del 1995. Il contesto della riflessione di Tillard, qui, è quello del vissuto della chiesa locale21. a) Tillard mostra una preoccupazione che lo porta a fare delle precisazioni circa il sensus fidelium, conseguenza ed espressione della presenza del sensus fidei nei fedeli. Precisamente, nel timore che il sensus fidei possa venire confuso con il consensus fidelium, spiega che una riflessione fondata sul sensus fidei fidelium non deve assolutamente aprire il varco a una visione democratica della chiesa22. Tali precisazioni, fatte così esplicitamente, costituiscono una novità rispetto 19
Ibid., 149-150. Ibid., 156. 21 J.-M. TILLARD, L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Paris 1995. 20
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all’opera precedente. Inoltre, nonostante molti punti della riflessione siano in comune con quanto Tillard ha già detto sul sensus fidei in Église d’Églises, in L’Église locale emergono degli elementi di novità. Insieme a quello indicato, infatti, vi sono altri elementi nuovi. Ad esempio, uno di questi è il legame tra il sensus fidei e la vita cristiana, seriamente vissuta nell’autenticità evangelica, di cui il sensus fidei costituisce il frutto e, al tempo stesso, l’espressione. Detta autenticità conduce i fedeli a vivere la fedeltà al Vangelo, nel loro rapporto con i problemi e le sfide del mondo contemporaneo23. Come osserva giustamente Bollati, tale punto è di un’estrema importanza, soprattutto oggi quando il cristianesimo non è più legato alla cristianità, perché fa capire che il sensus fidelium presuppone «un affinamento continuo del sensus fidei», una formazione permanente. In tal senso, «ciò che viene proposto come proveniente dal sensus fidei esige la verifica della presenza in esso di criteri di giudizio e vedute mutuati, anche indirettamente dalla fede». Se non fosse così, «si potrebbe scambiare per vox Dei soltanto ciò che, non essendo neanche vox populi, è solo al livello di una “diceria” popolare»24. Altro elemento di novità è lo spazio ampio che il teologo domenicano accorda alle considerazioni sui sinodi e sugli organismi di consultazione, quali luoghi di espressione del sensus fidei fidelium e, in particolare, dei fedeli laici25. In particolare, per Tillard, il sensus fide22
Cfr. ibid., 314-315. Ibid., 315: «l’importance de ce sensus vient de son lien essentiel, constitutif, avec une vie chrétienne menée dans l’authenticité évangélique dont il apparaît comme l’expression». A pagina 316, prosegue: «pour une part importante des fidèles dits laïcs, engagés en pleins problèmes humains, aux prises pour leur propre fidélité évangélique avec les situations nouvelles de leur société, discernant en leur prudence chrétienne ce qu’il y a de vrai et de bon dans les aspirations et les tentatives des milieux auxquels ils appartiennent, ces chrétiens ont par leur ‘sensus fidei’ une perception particulière de la relation de la Parole de Dieu au monde concret». 24 R. BOLLATI, L’alba dell’unità, cit., 417. 25 J.-M. TILLARD, L’Église locale, cit., 317: «de plus en plus, le ‘sensus fidelium’ se manifeste directement et de façon réaliste chez les fidèles ‘laïcs’. La restauration de synodes diocésains et de conseils pastoraux, où les laïcs sont présents et actifs (can. 412), tout comme les consultations faites par certains épiscopats avant les synodes romains, ont fourni au laïcat des canaux d’expression». 23
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lium è come la dinamica che, nella conspiratio, fa sì che la vita della chiesa in ascolto della parola di Dio si mantenga semper ipsa et numquam eadem. In altri termini, se il sensus fidei fidelium dei laici spinge a rendere vero soprattutto il numquam eadem della vita ecclesiale, esso vive in comunione, nella conspiratio, con il sensus fidei dei ministri ordinati, che ha il compito di mantenere la chiesa semper ipsa, cioè sempre identica alla sua memoria26. b) Le considerazioni sulla sinodalità e sul dinamismo sinodale, cui si è appena fatto cenno, meritano di essere riprese, anche se brevemente e nelle loro linee fondamentali. In senso negativo, in un confronto con le strutture della società civile, Tillard spiega che la struttura della chiesa non può modellarsi secondo quella della società civile. La struttura della chiesa, in altri termini, non può modellarsi né su quella dei regimi autocratici, dove il responsabile agisce esercitando un’autorità assoluta e senza limiti, né sul modello democratico nel quale il potere dei membri è tale da determinare la forma e la struttura della loro vita sociale. In senso positivo, Tillard insiste sul fondamento sacramentale, nel senso che, specialmente per il battesimo, tutti i membri del corpo ecclesiale di Cristo, in forza della stessa grazia divina ricevuta, sono responsabili della vita della chiesa27. Nell’approfondimento dei risvolti pratici dell’esercizio della sinodalità all’interno della chiesa locale — ad esempio con i sinodi diocesani, con il consiglio pastorale diocesano e con il consiglio pastorale
26
Ibid., 318: «‘Semper ipsa, numquam eadem’, la tension des deux membres de cette phrase marque toute la vie de l’Église. Or si le ‘sensus fidelium’ pousse surtout à rendre vrai le ‘numquam eadem’, il est en osmose, en conspiratio, avec l’activité de ceux qui, parmi les fidèles, sont ministres ordonnés. En ceux-ci le ‘sensus fidei’ est lié à un charisme et une mission qui les chargent à titre particulier de maintenir l’Église ‘semper ipsa’, toujours identique à sa ‘mémoire’». 27 Ibid., 325-326: «la structure de l’Église ne peut ni se modeler sur quelque forme de régime autocratique, despotique, arbitraire où le responsable agit comme un souverain exerçant une autorité sans limite et sans contrepoids, ni se penser selon le mode démocratique dans lequel le pouvoir des membres est tel qu’ils peuvent par eux-mêmes (selon un consensus) déterminer jusqu’à la forme et la structure de leur vie sociale. En effet, par le baptême tous sont membres du Corps du Seigneur en vertu de la même grâce divine et authentiquement responsables de la vie de l’Église».
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parrocchiale —, Tillard mostra come, di fatto, la situazione sia complessa. In particolare, egli fa emergere il nodo del problema, quando si sofferma sull’esercizio dell’autorità nella chiesa, spesso modellato sui princìpi che sostengono le strutture di potere del mondo e non su quelli della relazione al Signore Gesù, la cui voce può risuonare attraverso i fratelli, santificati dai sacramenti. Nel dinamismo sinodale, inoltre, per Tillard, prende forma peculiare pure la dimensione regale del sacerdozio comune dei fedeli28. 4. CONCLUSIONI: L’IMPORTANZA DELLA SINGULARIS CONSPIRATIO La comunicazione ha tracciato alcune linee del contributo di J.-M. Tillard, per una riflessione teologica sul consenso nella chiesa, con un’attenzione alle dinamiche di comunicazione. In questa prospettiva, desidero ora concludere, riprendendo l’espressione di Dei Verbum 10, sulla singularis Antistitum et fidelium conspiratio, e leggendola in riferimento alla chiesa locale. Ritengo particolarmente interessante, a riguardo, una proposta di Dario Vitali, che pone il problema in modo concreto, considerando che la relazione tra vescovi e fedeli, ultimamente, è quella tra questi e il loro vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio29. Mi limiterò a rilanciarla. Vitali prende le mosse dalla descrizione della chiesa locale fatta da Christus Dominus 11, laddove si parla di essa come «porzione del popolo di Dio (populi Dei portio), che è affidata alle cure pastorali del 28 Cfr. ibid., 326-333. Ad esempio, si legga il seguente significativo passaggio: «Situation complexe! Mais le droit entend ainsi préserver ce qui résulte de la nature de l’Église locale, dans la difficile articulation des droits inaliénables des fidèles, tous égaux dans la dignité de membres du Corps du Christ chargés de coopérer à son édification […], et des fonctions dont seuls certains reçoivent la capacité pour cette édification commune […]. Ce que manifeste l’Eucharistie, que tous célèbrent mais où un seul est le sacramentum du Christ Tête, doit se vérifier, analogiquement, sur tous les plans de l’existence ecclésiale. Sur le plan de la régence, il est parfois malaisé de le vivre. Le jugement et la droiture des ministres y entrent en jeu». 29 Per queste considerazioni conclusive, rinvio a D. VITALI, La totalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere (LG 12): il sensus fidelium come voce della Tradizione, in Urbaniana University Journal 66 (2013) 2, 37-69.
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vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui unita per mezzo del vangelo e della eucaristia nello Spirito Santo (in Spiritu Sancto congregata), costituisca una chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica». L’orizzonte accennato, per Vitali, è decisivo al fine di cogliere l’origine e le conseguenti dinamiche della singularis conspiratio. Quest’ultima, infatti, nel suo formarsi come sentire comune, è intimamente legata alla chiesa locale congregata nello Spirito Santo dal suo vescovo attraverso il Vangelo e l’Eucaristia: «è questo il luogo privilegiato in cui si istituisce quella circolarità tra predicazione dei pastori e sensus fidei dei fedeli, che attua in modo unico e originale la singularis Antistitum et fidelium conspiratio. Qui, infatti, il credente, il quale ha ricevuto lo Spirito nel battesimo, alla mensa della Parola e dell’Eucaristia è nutrito e cresce nella conoscenza del mistero di Cristo; ma tale crescita avviene in quanto egli è membro di una comunità, della quale condivide la fede e nella quale matura le convinzioni e gli atteggiamenti della vita cristiana»30.
L’ascolto credente e comunitario del Vangelo, nella celebrazione eucaristica, costituisce il momento decisivo di quel continuo processo in cui si esercita l’accoglienza e l’attuazione del Vangelo stesso in un contesto culturale, poiché «l’annuncio del Vangelo non si dà in un ambiente asettico, ma sul terreno della storia, dentro una tradizione fatta di luoghi e persone, di istituzioni e usanze, nel quadro di un agire strutturato della vita cristiana, che assume forme e colori diversi a seconda delle situazioni contestuali»31. Nel suddetto processo, soggetto attivo e consapevole è tutto il popolo di Dio, con il suo sensus fidei. Per questo motivo, insieme a riconoscere al popolo di Dio la titolarità della sua funzione di intelligenza della fede, bisogna garantirne pure l’esercizio nel dispiegarsi del concreto vissuto ecclesiale. A proposito, secondo Vitali, non si tratta anzitutto di continuare a porre l’accento sui luoghi di esercizio del discernimento ecclesiale,
30 31
Ibid., 63. Ibid., 64.
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soprattutto dopo l’esperienza fallimentare degli organismi di partecipazione istituti nel periodo successivo al Concilio. Si deve, piuttosto, pensare alla formazione dei fedeli, formandoli all’esercizio responsabile del sensus fidei. Il compito è oltremodo delicato e ha delle implicanze sia per la condizione dei fedeli che per la capacità educativa dei pastori32. Tuttavia, vale la pena scommettersi per esso perché è in gioco l’indole profetica del popolo di Dio, come suggeriscono bene le parole dello stesso Vitali: «per fare questo bisogna essere convinti che il primo atto della Chiesa è sempre l’ascolto: di Dio anzitutto, della sua Parola, del suo Spirito. Ascolto che tuttavia passa necessariamente attraverso l’ascolto del Popolo di Dio, nella certezza che il vaticinio di Mosè — “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo Spirito!” (Nm 11,29) — è diventato realtà con il dono dello Spirito a Pentecoste, per cui «voi avete ricevuto l’unzione del Santo e tutti avete la conoscenza» (1Gv 2,20). A partire da qui, non soltanto i “luoghi” istituzionali dell’ascolto — sinodi, consigli, collegi vari — tornerebbero al centro della vita ecclesiale, ma ogni occasione sarebbe propizia e ogni luogo adatto per ascoltare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese”. Maturerebbe allora uno stile ecclesiale dialogico, che non pretende di imporre la verità dall’alto, ma cerca insieme le vie per mettere in pratica il Vangelo. Il Popolo santo di Dio raccolto nella chiesa cattedrale per la celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal vescovo, circondato dal suo presbiterio e dai ministri (cfr. SC 41) sarebbe realmente la praecipua manifestatio Ecclesiae, l’icona più bella di una Chiesa fondata veramente sulla singularis Antistitum et fidelium conspiratio»33.
32
Per un cenno alle implicanze accennate, si veda ibid., 68: «consegnare i battezzati all’ignoranza circa la loro stessa dignità e responsabilità è come mettere al mondo dei figli senza educarli, compromettendo la loro riuscita per non averli adeguatamente preparati alla vita. Né qualcuno può dare ciò che non ha: come i genitori insegnano ai figli — con le parole ma soprattutto con gli atteggiamenti — la scala di valori che li guida, anche i pastori comunicano anzitutto i valori che regolano la loro vita. Ma chi educherà i pastori ad assumere tale compito educativo, che implica la decisione di volere i figli della Chiesa adulti, autonomi, liberi? A tale sfida la stragrande maggioranza dei preti — anche tra i più attenti e motivati — non pare adeguatamente preparata». 33 Ibid., 68-69.
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ASPETTI ECCLESIOLOGICI CARATTERIZZANTI IL CONSENSUS NELLE CHIESE ORIENTALI
IRENE GIONFRIDDO*
CHRISTÒS ANÉSTI! — CRISTO È RISORTO! È con il saluto, tipico delle Chiese orientali, di questo periodo pasquale che rivolgo i cordiali e dovuti ringraziamenti… dando avvio a questo mio intervento, sottolineando la specificità del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium1 in ordine al suo orientamento ecclesiale ed ecclesiologico primario. Appena di seguito proporrò alcuni casi caratterizzanti il tema del Consensus nelle Chiese orientali. 1. CONTESTO GENERALE E PROSPETTIVE ECCLESIOLOGICHE Se il Codex Iuris Canonici (25/1/1983) della Chiesa latina, all’inizio, subito dopo la parte dedicata ai Christifideles — i fedeli cristiani, pone la parte De Ecclesiae constitutione hierarchica — sulla costituzione gerarchica della Chiesa, il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (18/10/1990) pone fra i due temi, necessariamente ed opportunamente, il Titolo riguardante le Chiese sui iuris e i Riti. È infatti necessario rilevare come il Codice orientale si rivolge, preliminarmente, ad un soggetto ecclesiale plurale: «I canoni di questo * Dottoranda in Diritto Canonico Orientale presso il Pontificio Istituto Orientale in Roma. 1 CCEO in AAS 82 (1990) 1047-1363. Per l’editio in lingua italiana vd. EV 12.
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Codice riguardano tutte e sole le Chiese orientali cattoliche…» (can. 1). Il Codice latino, invece, recita: «I canoni di questo Codice riguardano la sola Chiesa latina» (can. 1). Il Titolo citato sulle Chiese sui iuris e i Riti ritiene necessario identificare così la pluralità delle Chiese: «I riti di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana» (can. 28 §2). Di fatto si tratta di 21 Chiese, integrate nelle cinque grandi tradizioni orientali. Lo stesso Titolo ritiene ancora necessario dare una definizione di “rito” mirabile, bellissima, tutt’altro che riduttiva, ma di ampio respiro: «Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris» (can. 28 §1). Una definizione che orienta verso prospettive ecclesiologiche ampie e varie ed anche ecumeniche, trattandosi di diverse Chiese sui iuris – di diritto proprio, peraltro della medesima tradizione liturgica delle Chiese ortodosse, la cui presenza nella Chiesa cattolica «non solo non nuoce alla sua unità, ma anzi, la manifesta» (Orientalium Ecclesiarum 2); la cui presenza nella “pienezza” della Chiesa cattolica accomuna le 21 Chiese orientali alla maggioritaria Chiesa sui iuris latina. Pertanto, tutte le Chiese rituali sui iuris, sia orientali che occidentali, «godono di pari dignità, così che nessuna di loro prevale sulle altre per ragione del rito, e godono degli stessi diritti e sono tenute agli stessi obblighi» (OE 3). Da questo principio discende, per l’interprete del diritto canonico (sia orientale che latino), una presunzione a favore dell’uguale posizione giuridica nei rapporti interrituali di tutte le Chiese sui iuris. Ragion per cui se esiste una disuguaglianza giuridica a questo proposito, essa deve risultare espressamente e in caso di dubbio il testo va interpretato nel senso dell’uguaglianza. È evidente come il Concilio Vaticano II ispira i due Codici e fa da norma di interpretazione di essi; come è evidente che l’orientamento della Chiesa — in questo caso attraverso la giurisprudenza canonica — si proietta verso un’ecclesiologia di comunione, di rispetto dell’altrui dignità rituale e giuridica, di riconoscimento della diversità delle
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tradizioni socio-culturali-religiose come patrimonio che valorizza le singole Chiese e arricchisce il pleroma — la pienezza della Chiesa. Sempre all’insegna della comunione e della tutela delle proprie legittime tradizioni, il CCEO non manca di definire — in generale ed anche per opportuna chiarezza legislativa — cosa si intende per “Chiesa sui iuris”: “Si chiama, in questo Codice, Chiesa sui iuris, un raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma del diritto, che la suprema autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris” (can. 27). Questo sui iuris — di diritto proprio, viene individuato nel CCEO come disciplina comune alle Chiese orientali, ma lo stesso Codice prevede che alcune delle sue norme siano “obbligatoriamente” emanate all’interno di ciascuna delle Chiese sui iuris, in modo da configurare una disciplina più adeguata alla rispettiva tradizione. 2. ASPETTI DEL CONSENSUS NEL CCEO Un elemento giuridico caratterizzante la vita delle Chiese orientali nell’addivenire a determinate decisioni che siano espressione della più ampia comunione di intenti, è quello della “sinodalità”. È nell’esercizio della sinodalità che il “consensus” trova spesso la sua specifica attuazione. 2.1. Il consenso negli atti giuridici 1. Nel canone 934 del CCEO, simile al canone 127 del CIC, si evidenzia come il consenso assume un’importanza fondamentale in merito alle modalità di voto da seguire nelle procedure per porre atti giuridici. La linea adottata dalla codificazione orientale è quella di assicurare una procedura nella formazione degli atti ecclesiastici, maggiormente rispettosa del garantismo giuridico. L’autorità è obbligata a fornire le informazioni necessarie affinchè i consiglieri possano liberamente esercitare le loro funzioni di consenso. 2. I canoni 1035 e 1036 del CCEO trattano dell’alienazione dei beni ecclesiastici. In particolare, nel canone 1036 si individua quale sia
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l’autorità competente per concedere l’autorizzazione per alienare i beni in rapporto al loro valore. Oltre all’autorità del Vescovo o del Patriarca, per i beni di più consistente valore è necessario il consenso del Sinodo dei Vescovi. Circa l’evoluzione del canone 1036 e gli emendamenti in esso adottati, si può rilevare come siano stati tenuti presenti i criteri di applicazione del principio di sussidiarietà e le linee del Concilio Vaticano II nel n. 9 del Decreto Orientalium Ecclesiarum riguardo all’autorità dei Patriarchi e dei loro Sinodi. In effetti, per l’alienazione dei beni ecclesiastici nell’ambito dei territori delle chiese patriarcali, non si richiede mai la licenza della Santa Sede, dal momento che si attribuisce ai Sinodi di quelle chiese il compito di tutelarne i beni. 2.2. Il consenso nelle relazioni personali 1. Significativo si presenta il caso statuito dal canone 76 §2 del CCEO, per una qualche forma di consenso dal carattere genuinamente
comunionale. Il nuovo Patriarca di una Chiesa orientale, eletto dal Sinodo dei Vescovi, deve chiedere, con lettera sottoscritta di suo pugno, al Romano Pontefice la comunione ecclesiastica, alla quale quest’ultimo risponde, acconsentendo con gioia a tale richiesta di comunione (litterae communionis). Da notare che il CCEO non richiede, come avveniva in passato, la confirmatio del neoeletto Patriarca da parte del Romano Pontefice, ma al suo posto impone la richiesta della comunione ecclesistica al Romano Pontefice. 2. Particolare interesse riveste, infine, la considerazione giuridica del matrimonio nelle Chiese orientali e di conseguenza l’affermazione del consenso fra i nubendi. La netta diversità della normativa latina e orientale in materia è determinata dalle due tradizioni ecclesiali diverse. Nelle tradizioni delle Chiese Orientali, i Vescovi o presbiteri, sono testimoni del reciproco consenso scambiato fra i nubendi, ma anche la loro benedizione è necessaria per la validità del sacramento. Il sacramento viene conferito attraverso l’incoronazione degli
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Aspetti ecclesiologici caratterizzanti il consensus nelle Chiese orientali
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sposi e nel canone 776 del CCEO esso si concretizza con l’azione da parte del sacerdote sugli sposi battezzati i quali costituiscono il patto matrimoniale mediante lo scambio dell’irrevocabile consenso personale, affinchè siano uniti a Dio a immagine dell’unione nuziale indefettibile di Cristo con la Chiesa e siano consacrati l’uno all’altro dalla grazia sacramentale. Nella teologia orientale il consenso è la condizione essenziale affinchè sia operato il prodigio, ma chi lo opera è il Santo Spirito mediante il ministero epicletico (dell’invocazione) del sacerdote. Le Chiese orientali, celebrando il matrimonio secondo le loro genuine tradizioni, non pensano a far concludere ai loro fedeli un patto giuridico, bensì a compiere principalmente un atto di religione che abbia ugualmente i suoi effetti giuridici. CONCLUSIONE In conclusione, la considerazione giuridico-teologica del matrimonio nelle Chiese d’Oriente è riferimento esemplare per affermare che nella concezione orientale il diritto si presenta come una regola di fede, professata, celebrata e vissuta. Si tratta di diritto teologico, perché basato sulla teologia e mira anch’esso alla divinizzazione del popolo fedele, nel cuore di una ecclesiologia di comunione. La ricerca del consenso, quindi, ha bisogno di un approccio propenso all’umiltà, alla penitenza e all’ascolto, ma anche alla mediazione e al dialogo pacifico.
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LA FORMAZIONE DEL CONSENSO NEL SECONDO SINODO DELLA DIOCESI DI NOTO
CORRADO LOREFICE*
INTRODUZIONE Il sinodo diocesano, così come viene celebrato attualmente, è un frutto del Vaticano II. La sinodalità è la categoria e il sinodo è lo strumento — nell’ambito spazio-temporale di un convenire corresponsabile dei diversi membri del popolo di Dio — che traduce il dinamismo della comunione ecclesiale. L’elemento di novità è determinato, rispetto alla sua precedente composizione esclusivamente clericale, dalla partecipazione dei laici, espressione di tutte le componenti vive della chiesa locale, finalmente rivalutata e teologicamente intesa dal Concilio. Nel proemio del documento della Congregazione per i vescovi e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Istruzione sui Sinodi diocesani, del 19 marzo 1997, redatto per «rimediare ad alcuni difetti ed incongruenze che sono stati talvolta rilevati» nella celebrazione dei sinodi diocesani, si legge: «Nella Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, con la quale veniva promulgato l’attuale Codice di Diritto Canonico, il Santo Padre Giovanni Paolo II collocava tra i principali elementi che, secondo il Concilio Vaticano II, caratterizzano la vera e genuina immagine della
*
Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Corrado Lorefice
Chiesa “la dottrina, secondo la quale la Chiesa viene presentata come Popolo di Dio e l’autorità gerarchica viene proposta come servizio; la dottrina per cui la Chiesa è vista come ‘comunione’ e che, quindi, determina le relazioni che devono intercorrere fra le Chiese particolari e quella universale, e fra la collegialità e il primato; la dottrina, inoltre, per la quale tutti i membri del Popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale”. Nel suo impegno di fedeltà all’insegnamento conciliare, il Codice di Diritto Canonico ha dato, tra l’altro, un volto rinnovato alla istituzione tradizionale del sinodo diocesano, nel quale, a vario titolo, convergono i tratti ecclesiologici sopra ricordati. Nei canoni 460-468 è dato rinvenire le norme giuridiche da osservarsi per la celebrazione di questa assise ecclesiale».
La stessa istruzione, nell’introduzione sulla natura e finalità del sinodo diocesano, precisa ancora: «Il canone 460 descrive il sinodo diocesano come “riunione (‘coetus’) di sacerdoti e di altri fedeli della Chiesa particolare, scelti per prestare aiuto al Vescovo diocesano in ordine al bene di tutta la comunità diocesana” (“coetus delectorum sacerdotum aliorumque christifidelium Ecclesiae particularis, qui in bonum totius communitatis dioecesanae Episcopo dioecesano adiutricem operam praestant”). 1. La finalità del sinodo è quella di prestare aiuto al Vescovo nell’esercizio della funzione, che gli è propria, di guidare la comunità cristiana. Tale scopo determina il particolare ruolo da attribuire nel sinodo ai presbiteri, in quanto “saggi collaboratori dell’ordine episcopale e suo aiuto e strumento, chiamati al servizio del popolo di Dio”. Ma il sinodo offre anche al Vescovo l’occasione di chiamare a cooperare con lui, insieme ai sacerdoti, alcuni laici e religiosi scelti, come un modo peculiare di esercizio della responsabilità, che concerne tutti i fedeli, nell’edificazione del Corpo di Cristo»1.
1
CONGREGATIO PRO EPISCOPIS ET CONGREGATIO PRO GENTIUM EVANGELIZATIONE, INSTRUCTIO De Synodis dioecesanis agendis, 19 mensis Martii, in AAS 89 (1997) 706,708; e in EV 16/266.270, pp.151.155. Cfr. IOANNES PAULUS PP. II, Constitutio apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 ianuarii 1983, in AAS 75 (1983) pars. II, VII-XIV; e in EV, 8/611-639, 500-515.
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Al di là delle restrizioni operate dal Codice di Diritto Canonico e dalla stessa Istruzione sui Sinodi diocesani rispetto all’ecclesiologia del concilio Vaticano II (i criteri di scelta dei laici, mero parere o voto consultivo dell’assemblea sinodale, esclusivo potere legislativo del vescovo sulle decisioni “sinodali”), il sinodo diocesano non può e non deve essere considerato solamente un organo di governo bensì una raepresentatio ecclesiae, inveramento della natura comunionale della chiesa2. Appartiene al DNA teologico della Chiesa — assemblea dei “convocati” — e, nondimeno, all’etimologia stessa del lemma sinodo3, un imprescindibile carattere eucaristico ed euristico-dialogico-comunionale. La sinodalità — il tempo, lo spazio e la relazione sinodale — rimane sicuramente un’esperienza consolidata, seppur nelle diverse forme che ha assunto lungo due millenni, che rende possibile l’espressione di questa identità costitutiva della chiesa. Un sinodo è un vero atto liturgico di una chiesa che sa soprattutto ripensarsi a partire dall’eucaristia. Esso pertanto è chiesa in atto che, nell’unico stile che la può caratterizzare, cioè la comunione che riconosce le differenze e genera convergenze, riscopre le cose ultimamente essenziali per il suo cammino nella storia, dentro la quale, alla luce del Vangelo, è chiamata a discernere i segni dei tempi. Riunirsi in sinodo, darsi spazi di confronto per ripensare la vita delle comunità, verificare i cammini perché il Cristo sia individuato nelle variegate sembianze del suo “avvento” nella storia, diventa per le chiese locali un’opportuna possibilità di attivare il dinamismo eucaristico e di rinnovare la loro vitalità evangelica.
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Nella stessa Istruzione viene precisato che: «Il sinodo è, in questo modo, “contestualmente e inseparabilmente, atto di governo episcopale ed evento di comunione”» (CONGREGATIO PRO EPISCOPIS et CONGREGATIO PRO GENTIUM EVANGELIZATIONE, Instructio De Synodis dioecesanis agendis, cit., 271, 155). 3 Il termine sinodo, come d’altra parte il termine sinassi, rimanda all’idea del fare strada insieme, del convenire, del “condividere”. Sinassi nella chiesa delle origini era l’assemblea dei fedeli riuniti per l’ascolto della parola e la frazione del pane eucaristico.
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1. IL SECONDO SINODO DI NOTO «Un Sinodo è per i credenti, non un’iniziativa fra le altre, ma un evento dello Spirito che dona nuove Pentecosti alla Chiesa. […] quello che può dirsi di un Sinodo porta il timbro della partecipazione viva del popolo di Dio, interpellato — per quanto riguarda il Sinodo di Noto — nel momento più alto e più proprio della sua identità e cioè l’Eucaristia nel Giorno del Signore»4.
Da queste parole, stese da mons. Salvatore Nicolosi — il vescovo che ha indetto, presieduto e concluso il secondo sinodo della diocesi di Noto — per giustificare il perché della pubblicazione degli atti e dei documenti dell’assise netina, si evince chiaramente che tra eucaristia, chiesa e sinodo esiste un’intrinseca costitutiva connessione che non è assolutamente possibile spezzare, pena la perdita dell’identità e, conseguentemente, del senso della presenza stessa della chiesa nel mondo. Il prof. Ruggieri ha già messo in evidenza nel suo puntuale intervento il peculiare fondamento eucaristico del consenso ecclesiale. Il secondo sinodo di Noto, nel concreto vissuto pastorale di una chiesa locale, è stato certamente un evento corale, appunto “sinodale”. Lo si evince dalla sensibilizzazione e dal coinvolgimento della base (i fedeli delle eucaristie domenicali, non solo i cosiddetti operatori pastorali, come anche quanti vivono nel territorio e non frequentano le parrocchie) dalla rappresentatività che è riuscito ad esprimere (90 chierici, 96 membri eletti, 30 nominati dal vescovo, in tutto 216 sinodali nella prima sessione, e 219 nella seconda) e dallo schietto, acceso e sincero confronto tra le diverse e variegate componenti del popolo di Dio che lo hanno preparato e celebrato; come anche dalle sintetiche e sobrie decisioni finali — poi approvate e promulgate dal vescovo che lo ha indetto — frutto del consenso che progressivamente si è sviluppato, grazie alla graduale maturazione della coscienza sinodale di quanti vi sono stati coinvolti, vescovo compreso.
4 S. NICOLOSI, Prefazione, in DIOCESI DI NOTO, Atti del secondo Sinodo Diocesano. Riscoprire Gesù lungo le nostre strade. Documenti finali, Lavori preparatori, Lavori del Sinodo, a cura di M. Assenza, Rosolini 2001, 7-8.
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Nel sinodo diocesano netino questa sensibilità e questa prospettiva hanno trovato un ampio spazio già a partire dal fatto che è stato celebrato come un atto liturgico, un incontro con il Cristo-Parola a cui tutti i rappresentanti del popolo di Dio, scelti dall’assemblea eucaristia domenicale per non ridursi ai soliti “addetti ai lavori”, i cosiddetti cristiani pastoralmente impegnati, insieme ai ministri ordinati e ai religiosi, dovevano obbedire in atteggiamento umile e grato per una lettura evangelica della storia; un vero cammino comune fatto di confronto serio — non privo di tensioni a motivo delle diverse posizioni — e approfondimenti degli argomenti più complessi, verso una convergenza e un sagace discernimento delle decisioni, guidati dal riconoscimento del primato dell’Evangelo risuonato all’inizio di ogni assemblea sinodale. Come scrive Maurilio Assenza «nel sinodo della Diocesi di Noto questo centro e questa logica, prima che nei testi discussi e votati, sono stati positivamente ritrovati in due occasioni: quando il vescovo ha chiesto a tutti i partecipanti alla messa domenicale indicazioni per i temi da affrontare; quando sono stati eletti i sinodali proprio durante le celebrazioni eucaristiche. In entrambi i casi si è potuto sperimentare un alto senso di responsabilità, che ha fatto intravedere per un attimo cosa può significare […] rendere partecipe il popolo di Dio»5; renderlo corresponsabilmente attivo nel ripensare l’identità e la vita della comunità cristiana in vista di una rinnovata presenza evangelica lungo le strade della vita e della storia degli uomini e delle donne di questo lembo del sud italiano ed europeo che si affaccia sul mediterraneo solcato dal migrare dei popoli africani. Il sinodo di Noto già nel suo titolo sintetico, Riscoprire Gesù lungo le nostre strade, ha concentrato tutti i suoi sforzi perché la chiesa netina riconoscesse il volto del Cristo nel volto delle persone, negli eventi feriali, nei luoghi dove quotidianamente si vive, si spera, si soffre, si costruisce la città degli uomini6. 5 M. ASSENZA, Come un roveto ardente. L’esperienza e le provocazioni di un sinodo diocesano, Casale Monferrato 1998, 18. 6 «Durante la prima consultazione della base era emersa un serie di problemi, interessanti, ma che rischiavano semplicemente di essere catalogati in quattro ambiti
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Nella Prefazione agli Atti del secondo Sinodo Diocesano, mons. Nicolosi scriveva: «Una Chiesa sinodale è una Chiesa in cui, nel reciproco ascolto, ci si apre al Signore, ma anche agli uomini tutti, verso cui siamo debitori anzitutto del Vangelo. Non è più pensabile tornare a quei modelli di “cristianità” che, da Costantino in poi, tanto danno hanno arrecato alla credibilità evangelica della Chiesa. Siamo consapevoli, grazie al Concilio, che noi siamo solo un “segno”, che il disegno della salvezza è più grande dei “confini ecclesiastici”, che gli uomini e le donne vanno incontrati nella vita comune con cordialità e rispetto (cfr. Gaudium et spes 1), che l’evento unico di salvezza è la Pasqua del Signore con cui irrompe una novità radicale che eccede ogni nostro impegno e lo fa restare dono da offrire, da non pensare quindi come “progetto da gestire”, quasi fossimo plenipotenziari di Dio! Nel Sinodo questo si è espresso con scelte precise, soprattutto nei capitoli sulla trasmissione del Vangelo e sui poveri, ma anche in quelli sulla famiglia, sui giovani, sulla religiosità popolare, tutti collegati alla scelta di fondo espressa fin dalla prima decisione: “La Chiesa di Dio pellegrina in Noto, raccolta in sinodo, guarda a Gesù che ‘ci ha salvato tra povertà e persecuzioni’ (cfr. Lumen gentium 8) e si riconosce distante dalle sue strade e bisognosa di conversione. Per questo essa si impegna a contemplare il volto di Cristo povero e sofferente e ad approfondire lo stile di Dio che Gesù ci ha rivelato. Egli infatti, essendo ricco, si è fatto povero perché noi potessimo arricchirci, attraverso questa sua povertà, di tutti i doni della vita divina (2Cor 8, 9)”»7.
Per questo il sinodo ha avuto regole e tappe precise indicate da un apposito regolamento, sicura garanzia nell’impostazione e nel prosieguo dei lavori: pari diritto di parola, la libertà dei sinodali (“comunità cristiana”, “famiglia”, “poveri”, “giovani”), senza un vero filo conduttore. Soprattutto il livello e il tono erano quelli della ricerca di strategie risolutive. È stata una profonda e felice intuizione del vescovo, a metà del cammino di preparazione, la scelta di un tema che al tempo stesso unificava ed elevava le problematiche emerse. “Riscoprire Gesù lungo le nostre strade”: questo tema ha messo al centro la persona di Gesù e ha dato un taglio cristologico, impegnativo e pertanto difficile da mantenere, ma anche avvertito da molti come un dono, proprio perché capace di andare al cuore dei problemi e di dare fondamento a un vero rinnovamento della vita cristiana» (Ibid., 34). 7 S. NICOLOSI, Prefazione, cit., 9.
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nell’esprimere la propria idea con franchezza sulle questioni proposte, serietà del confronto, rispetto delle opinioni altrui, consapevolezza di doversi esporre, rispetto del tempo previsto per gli interventi. Come scrive Assenza: «Alla base del confronto nelle assemblee c’erano delle brevi ed essenziali proposte di decisione tratte dai documenti preparatori, in cui era già confluito il frutto delle varie consultazioni della base. Su di esse si è discusso. Chi voleva intervenire aveva cinque minuti per parlare, doveva presentare un testo scritto. I testi poi passavano alle commissioni per essere riformulati e quindi ai moderatori per verificarne la congruenza con gli scopi del sinodo. Infine ritornavano all’assemblea sinodale per la votazione. Tutti hanno avuto diritto di parola e di replica. Tutti per questo dovevano attenersi al regolamento»8.
La reciprocità e l’apertura all’altro hanno segnato tutta l’esperienza sinodale: tra sinodali, e tra sinodali e il vescovo, nel riconoscimento della dignità battesimale così come del carisma-servizio gerarchico, sicura garanzia per la crescita del popolo di Dio accompagnato allo stato adulto della “respons-abilità” filiale. «La sinodalità — scrive Maurilio Assenza — si sviluppa in un contesto di preghiera, di ascolto delle Scritture, di penitenza che rimanda all’iniziativa della grazia, al protagonismo dello Spirito; al tempo stesso tutto passa per i limiti, i doni, le resistenze, le diversità di persone concrete, in un tempo e in un territorio concreti. I processi non sono quelli semplicistici della rivendicazione e di una generica democrazia maggioritaria e nemmeno quelli gretti di un autoritarismo verniciato di una patina di paternalismo, con chiazze di illusoria partecipazione. Essi sono nel segno della reciprocità e della maturazione comune»9. 2. IL PROCESSO SINODALE Dalla prima ipotesi di un sinodo espressa da mons. Nicolosi il 25 marzo 1988 nella Lettera pastorale “Chiesa in cammino con Maria”, 8 9
M. ASSENZA, Come un roveto ardente, cit., 22. Ibid., 30-31.
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alla Pentecoste del 1996 (26 maggio) giorno in cui entrano in vigore le decisioni sinodali, passano ben otto anni; dall’inizio della prima sensibilizzazione del clero, il 13 dicembre 1991, cinque anni. L’intenzione e il significato della convocazione del sinodo da parte del vescovo Nicolosi si radica certamente in quel singolare evento dello Spirito che è stato il Concilio voluto da Giovanni XXIII come “novella Pentecoste del nostro tempo” — il papa che nel 1963 lo volle vescovo — e a cui partecipò a partire dalla seconda sessione: «Il nostro sinodo non è stato altro — come scriveva a conclusione dei lavori — che l’umile tentativo di rendere il Concilio e il suo spirito ancora più efficaci nella realtà di questo estremo lembo d’Italia, in sintonia e attuazione del forte impegno verso una nuova evangelizzazione […]»10. Una opportunità per portare a piena sintesi gli anni del suo episcopato netino, specialmente dopo l’esperienza della visita pastorale (1982-1990). Tra il dicembre 1991 e il marzo 1992 si succedono tre incontri di aggiornamento del clero sul tema del sinodo tenuti dal prof. Giuseppe Ruggieri e dal prof. Adolfo Longhitano docenti del S. Paolo di Catania. Il 3 agosto del 1992 mons. Nicolosi avvia la preparazione del sinodo con la Lettera Orientamenti e direttive verso il sinodo diocesano, dove tra l’altro precisa che verrà coinvolto tutto il popolo di Dio. Nel settembre dello stesso anno, a conclusione degli esercizi spirituali del clero, viene presentato il documento La chiesa di Noto verso il sinodo diocesano con le diverse tappe di preparazione; nei mesi di ottobre e novembre comincia la sensibilizzazione degli operatori pastorali nei Consigli pastorali vicariali e nei consigli pastorali parrocchiali. Il 29 novembre 1992 con una lettera del vescovo, distribuita durante le eucaristie, viene presentato il senso del sinodo. Anche tre catechesi 10 S. NICOLOSI, Lettera del vescovo a conclusione del sinodo, in DIOCESI DI NOTO, Atti del secondo Sinodo Diocesano, cit., 23. In riferimento al Concilio precisava: «È la sostanza del Vangelo che dobbiamo riscoprire nella sua integrità e nella sua freschezza sorgiva. È questo l’aggiornamento voluto dal papa Giovanni XXIII e che il Concilio Vaticano II ha indicato a tutta la Chiesa, perché si facesse “un balzo innanzi” nella penetrazione della dottrina cristiana a vantaggio del cammino degli uomini verso la riconciliazione perfetta, a edificazione di una Chiesa che fosse “come segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1)» (L.c.).
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ad hoc (secondo uno schema preordinato), tenute nelle chiese nelle prime tre domeniche d’Avvento, contribuiranno a sensibilizzare la base. Il 20 dicembre viene distribuita la scheda dove si chiede ai fedeli di suggerire i temi e i problemi da affrontare nell’assise sinodale. Nel gennaio e nel marzo1993 si svolgono gli incontri diocesani per il clero e i laici tenuti da don Vincenzo Savio e da don Germano Zaccheo sull’esperienza dei sinodi di Firenze e Livorno e di Novara. A febbraio vengono raccolte 2838 schede con i temi suggeriti dalla base, poi elaborate dalla segreteria del sinodo, ed è distribuita la seconda lettera del vescovo alle famiglie per la quaresima 1993 insieme ai sussidi sul sinodo per la benedizione pasquale delle famiglie e per i ragazzi. Il 13 giugno il vescovo emana con una lettera rivolta agli operatori pastorali le norme per la costituzione delle commissioni presinodali. Il 30 giugno vengono avviati, con un apposito documento rivolto ai responsabili parrocchiali, i “gruppi sinodali di base” per favorire ulteriormente una sensibilizzazione capillare. Durante il convegno d’inizio anno pastorale il 22-23 settembre 1993 mons. Ablondi vescovo di Livorno condivide l’esperienza sinodale della sua chiesa e mons. Nicolosi consegna una nuova lettera dove comunica e presenta il tema generale del sinodo, i 4 ambiti di approfondimento e le corrispettive commissioni presinodali, unitamente alla commissione di coordinamento teologico-pastorale. Il 26 novembre in cattedrale si tiene la veglia penitenziale diocesana in preparazione del sinodo con una lectio divina guidata da sr. Emmanuelle Marie della comunità di Betania. Con il nuovo anno, il 2 gennaio 1994, si tiene la prima assemblea plenaria delle cinque commissioni che ricevono il regolamento e, in incontri successivi, preparano le bozze delle questioni sinodali che serviranno per la seconda consultazione della base, chiamata di nuovo a far arrivare apporti migliorativi o sostitutivi. Il testo definitivo delle questioni viene pubblicato il 27 marzo 1994. Questo passaggio permise una buona e sintetica problematizzazione pastorale coerente con i fini del sinodo (per es. sui poveri si passò da questioni organizzative alla prospettiva teologica della presenza del Cristo nei poveri e della sua via come via della chiesa).
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Dopo la seconda consultazione le 4 commissioni elaborano, in data 12 giugno, la bozza del documento sinodale da inviare alla base per la terza consultazione che si chiuderà il 6 novembre. Le commissioni rielaborano i documenti preparatori che, rivisti dalla commissione di coordinamento, vengono pubblicati con l’approvazione del vescovo a Natale del 1994. All’interno dei documenti preparatori, troppo lunghi, vengono formulate delle proposizioni più brevi per favorire un dibattito su scelte puntuali. Esse confluiranno in un documento agile che servirà da base per il dibattito nelle assemblee sinodali denominato “Proposte di decisioni del secondo sinodo diocesano”, con un ordine nuovo degli ambiti rispetto a quello iniziale: non più comunità cristiana, famiglia, giovani, poveri, ma comunità cristiana, poveri, famiglia, giovani. E ciò per il rilievo teologico che aveva assunto il tema dei poveri. Inoltre, si determinano nei vicariati le circoscrizioni elettorali e si accettano le candidature per la compilazione delle liste che vengono presentate ai fedeli durante le celebrazioni eucaristiche dell’8 gennaio 1995. Il 6 gennaio 1995 in Cattedrale a Noto, durante l’eucaristia, si apre il sinodo. Il 15 gennaio in tutte le parrocchie della diocesi, all’interno della celebrazione domenicale, vengono eletti i sinodali. Si pubblica il regolamento e vengono nominati da mons. Vescovo i 5 moderatori del sinodo. Domenica 22 gennaio si rendono noti i nomi degli eletti. Il 25 febbraio 1995 si tiene la prima assemblea sinodale ordinaria non pubblica. Vengono eletti i 24 membri delle commissioni sinodali a cui se ne aggiungono altri 12 nominati dal vescovo unitamente ai presidenti. Alle assemblee sinodali vengono invitati anche i rappresentanti delle chiese non cattoliche presenti nel territorio della diocesi che, secondo il n. 23 del Regolamento del sinodo «possono esprimere per iscritto il loro parere e possono essere invitati altresì ai lavori delle commissioni»11. Le assemblee sinodali della prima sessione si terranno ogni martedì e sabato di Quaresima dalle 18.00 alle 21.00. Intronizzazione e proclamazione del vangelo — solo l’evangeliario come nei concili ecumenici 11 Regolamento del sinodo, in DIOCESI Diocesano, cit., 431.
DI
NOTO, Atti del secondo Sinodo
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— omelia (tenuta anche dai laici), preghiera iniziale di invocazione dello Spirito santo Adsumus, dibattito sui testi da discutere, votazioni nelle ultime assemblee della sessione12, preghiera penitenziale finale Nulla est, Domine. Durante la prima sessione si svolgono 11 assemblee che affronteranno la discussione delle decisioni sulla comunità cristiana e sui poveri. Dopo la presentazione del testo da discutere da parte di un membro della commissione preposta, seguono gli interventi dei sinodali della durata di 5 minuti (10 minuti per chi interveniva a nome di almeno 10 sinodali) con consegna scritta del testo13. Inoltre durante la sessione, su mozione di diversi sinodali, si tiene l’approfondimento 12 Le votazioni riguardano le singole decisioni. Alla fine della sessione verranno votati l’introduzione e il capitolo sull’ascolto delle Scritture. È importante guardare anche ai numeri per verificare il grado di consenso raggiunto sulle decisioni sinodali: «Sabato 1 aprile 1995: decima assemblea ordinaria. […] Si è passati quindi alla votazione del testo suddetto diviso in quattro parti. Per ognuna della quattro parti del testo è stata tenuta una specifica votazione. La maggioranza richiesta per regolamento era dei due terzi. La prima votazione è stata sulla “premessa”. Votanti 195: quorum richiesto 130. Hanno votato “sì” 147, hanno votato “no” 46; schede bianche 2. La seconda votazione ha riguardato la prima delle “scelte essenziali di conversione” relativa all’ascolto della Parola di Dio. Votanti 195: quorum richiesto 130. Hanno votato “sì” 163, hanno votato “no” 31; schede bianche 1. La terza votazione ha riguardato la lettura settimanale della Bibbia in ogni comunità ecclesiale. Votanti 195: quorum richiesto 130. Hanno votato “sì” 136, hanno votato “no” 57; schede bianche 2. La quarta votazione ha riguardato i quattro suggerimenti pastorali del primo capitolo. Votanti 195: quorum richiesto 130. Hanno votato “sì” 146, hanno votato “no” 48; schede bianche 2. Il testo è risultato integralmente approvato» (DIOCESI DI NOTO, Atti del secondo Sinodo Diocesano, cit., 723.) Nella seconda sessione il consenso sarà maggiore, anche se bisogna considerare una significativa flessione delle presenze, come risulta per esempio dalle votazioni sulle “scelte essenziali di conversione” riguardanti per es. “Eucaristia e condivisione” (28 novembre 1995): su 219 sinodali, votanti 183; “si” 175, “no” 8. Oppure attorno ad un argomento “sensibile” “come condurre le feste religiose” sui 196 sinodali presenti all’inizio della sedicesima assemblea ordinaria del 2 dicembre 1995 (quinta della seconda sessione) i votanti scendono a 178 (c’era evidentemente chi non si fermava per tutta la durata dell’assemblea sinodale) con il seguente risultato: “si”139, “no” 38, bianca 1 (cfr. ibid., 726). 13 Nella prima sessione «Sull’ascolto e trasmissione della Parola si registrano 46 interventi, su catechesi e liturgia 17, sulla pietà popolare 21, sulla testimonianza di comunione 54, sui poveri 34» (M. ASSENZA, Come un roveto ardente, cit., 100).
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teologico pastorale su “Catechesi e iniziazione cristiana”, relatore il prof. Giuseppe Ruggieri, mentre vengono richiesti approfondimenti su “Religiosità e pietà popolare” e “Povertà nella chiesa”, poi sviluppati durante un’assemblea straordinaria rispettivamente il 9 maggio 1995 dai proff. Cataldo Naro e Giuseppe Ruggieri, e il 27 giugno dal prof. Rosario Gisana. Il 28 maggio 1995 mons. Nicolosi emana una lettera sinodale per il periodo dell’intersessione affinché si mantenesse viva l’attenzione al sinodo formulando proposte per le decisioni che ancora dovevano essere varate. Durante l’Avvento 1995 si svolgono le 9 assemblee sinodali della seconda sessione. Vengono votate le decisioni rimanenti sulla comunità cristiana e i poveri, discusse e votate quelle su famiglia14 e giovani15. Nell’ultima assemblea ordinaria della seconda sessione (19 dicembre), terminata con una celebrazione penitenziale e il segno dell’abbraccio di pace, il vescovo nomina i cinque membri (non tutti sinodali) della commissione per la revisione linguistico-letteraria dei testi incaricata della stesura finale delle decisioni sinodali. Il 13 febbraio e il 16 marzo 1996 hanno luogo due assemblee straordinarie. La prima, per la presentazione della bozza della stesura finale delle decisioni (che non presentava più i quattro ambiti degli schemi sinodali bensì i testi approvati nel rispetto dell’ordine di votazione: una introduzione e otto capitoli16) per eventuali emendamenti
14 Per le decisioni dell’ambito relativo alla famiglia «Mons. Nicolosi cambia il responsabile della commissione: si permette così la recezione del sentire dell’assemblea che vuole un documento per tutte le famiglie, e non semplicemente l’impegno ad organizzare la pastorale familiare applicando indicazioni degli uffici, e si accoglie l’invito ad atteggiamenti di misericordia nel trattare la morale sessuale» (M. ASSENZA, La brace e la cenere, Trapani 2013, 35). 15 Nella seconda sessione «39 sono gli interventi sulla famiglia, 18 sui giovani» (Ibid., 101). 16 Questo l’ordine e i temi dei capitoli: 1. L’ascolto della parola di Dio e la meditazione delle sacre Scritture; 2. La trasmissione della parola di Dio; 3. L’eucaristia fonte e culmine della vita della chiesa; 4. Comunione e testimonianza; 5. La pietà popolare; 6. La buona novella è annunziata ai poveri; 7. La famiglia; 8. I giovani. Nell’assemblea straordinaria del 13 febbraio dopo la consegna della bozza della
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da proporre; la seconda, per la votazione del testo definitivo, con il risultato, su 181 votanti, di 177 “si”, 2 “no”, 2 bianche. Il 4 aprile 1996 durante la messa Crismale, nel momento in cui si manifesta la forma eucaristica della chiesa radunata attorno al vescovo con la variegata ricchezza dei carismi e dei ministeri, viene proclamato il decreto vescovile di ricezione, approvazione e promulgazione delle 87 decisioni sinodali. I sinodali ricevono il testo e lo consegnano alle loro comunità. Il 26 maggio 1996 tali decisioni entrano in vigore e sono consegnate a tutti i fedeli presenti alla veglia e all’eucaristia di Pentecoste. Si aprirebbe ora il complesso capitolo della recezione. Ma su questo, rimandiamo ad altra sede. CONCLUSIONE Emerge chiaro il tragitto della formazione del consenso nel secondo sinodo di Noto. 1. La volontà del vescovo di riconoscere il “magistero” del popolo di Dio, promuovendo la responsabilità ecclesiale e valorizzando la partecipazione consapevole e attiva, secondo la dottrina stesura definitiva delle decisioni sinodali a nome della commissione per la revisione, d’accordo con il vescovo e i moderatori, don Ruggieri propose di sottoporre alla votazione la proposta di anticipare il capitolo 6° sui poveri come capitolo 1°, al posto dell’ascolto della parola di Dio e della meditazione delle sacre Scritture, per dare ulteriore forza alla prospettiva di una chiesa che, obbediente all’Evangelo avente come primi destinatari i poveri, si ripensasse povera a partire dai poveri. La votazione ebbe un esito negativo (65 “sì” e 103 “no”), nonostante il vescovo fosse d’accordo, segno della libertà dell’assemblea e del rispetto assoluto che mons. Nicolosi ha avuto nei confronti di essa. Un aneddoto-testimonianza diretta, visto che chi vi parla è stato un sinodale che custodisce viva la gratitudine alla storia per avergli riservato questi anni e alla sua chiesa locale per averlo reso partecipe di tale evento: nell’aula sinodale presso il Seminario Vescovile di Noto, nella disposizione dei posti assegnati, mi trovavo esattamente dietro l’eremita p. Ugo van Doorne. Spesso mi confrontavo con lui durante i dibattiti. In quella votazione, lui eremita che pratica la lectio divina quotidiana, votò “sì” per l’anticipo del capitolo sui poveri. Quando furono promulgati i risultati della votazione che vedeva i “si” perdenti, si voltò verso di me e mi disse: “poveri noi!”.
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tradizionale del sensus fidei del popolo di Dio17, e facendosene garante. Da qui la scelta di “camminare con”, di un «comune cammino con la celebrazione di un sinodo che avesse al suo centro questa preoccupazione: riscoprire il volto di Gesù nelle persone che incontriamo, nelle vicende di ogni giorno e nei luoghi dove conduciamo la nostra esistenza»18. 2. La formazione della coscienza sinodale. Un sinodo non conosce formazione del consenso, non può produrre delle decisioni condivise, se nei suoi membri non cresce la coscienza sinodale (incluso il vescovo che lo convoca) e, quindi, se non matura la consapevolezza della responsabilità ecclesiale del popolo di Dio e di chi sarà chiamato a rappresentarlo. 3. La costante sensibilizzazione e consultazione della base è risultata decisiva per la formazione progressiva della coscienza sinodale, attraverso un coinvolgimento capillare nelle varie fasi della preparazione e celebrazione del sinodo: le lettere del vescovo, i convegni, le catechesi, i sussidi, le relazioni esplicative, gli approfondimenti, l’informazione costante di tutti i fedeli nelle messe domenicali riguardo a quanto avveniva progressivamente nell’assemblea sinodale. Il tempo della preparazione e della celebrazione del sinodo è per una chiesa locale un tempo propizio di “ascolto” capace di invertire la tendenza frenetica ed attivistica dominante. 4. La predisposizione degli organismi sinodali, delle procedure e del regolamento secondo un fondamento e uno stile comunionale, sinergico e dialogico: dalle consultazioni della base, alle elezioni dei sinodali; dalle commissioni presinodali e sinodali, alla preparazione degli schemi per la discussione; dal dibattito in assem-
17 La costituzione conciliare Lumen gentium, al n. 12, così definisce il sensus fidei: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale». 18
S. NICOLOSI, Lettera del vescovo a conclusione del sinodo, cit., 21.
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La formazione del consenso nel secondo sinodo della diocesi di Noto
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blea, alle varie redazioni e alle approvazioni dei testi definitivi. Il tutto nel rispetto delle deliberazioni dell’assemblea sinodale e della libertà dei singoli membri. Va notata, sotto questo aspetto, l’esemplarità del vescovo di Noto. 5. La presenza e il suggello del vescovo che ha accompagnato con discrezione e solerzia e ha raccolto con arguzia pastorale le decisioni sinodali frutto di quel consenso progressivamente maturato dall’assise sinodale, che porta iscritta la fatica di una chiesa che tuttavia rimane testimone grata dell’opera creativa e unificatrice dello Spirito. 6. La “variante teologica” della formazione del consenso ecclesiale: e cioè l’indole liturgica e il tenore penitenziale della celebrazione del sinodo quale assemblea orante in ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture e nella Storia degli uomini del territorio della diocesi di Noto, per cui il comune discernimento e il consenso sulle decisioni sinodali diventano obbedienza «non alla lettera, ma allo Spirito che parla attraverso le povere parole degli uomini»19.
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Ibid., 23.
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INDICE
SOMMARIO.
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PRESENTAZIONE .
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PERCORSI PER LA FORMAZIONE AL VALORE ETICO DEL CONSENSO PERSONALE NELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA E NELLA RICERCA SCIENTIFICA (Salvatore Consoli) . . . . . . . . 1. Due premesse . . . . . . . . 1.1. La sperimentazione: un fatto solo scientifico? . . . 1.2. Il modello etico di riferimento personalista . . . 2. Il consenso informato . . . . . . . 2.0. Premessa “provocatrice” . . . . . . 2.1. Significato e ricchezza del consenso . . . . 2.2. Principali valori di riferimento per il valore del consenso . 2.2.1. Sacralità e indisponibilità della vita . . . 2.2.2. Tutela e cura della salute . . . . . 2.2.3. Sofferenza e morte . . . . . . 2.2.4. Solidarietà e carità . . . . . .
35 35 35 37 39 39 39 43 44 47 48 49
LA PAURA. IL CONSENSO E I MECCANISMI DEL POTERE (Salvatore Amato) . . . . . . . 1. Istituzionalizzazione della paura e paura istituzionalizzata . 2. Paure “dense” e paure “liquide” . . . . 3. Divites facti estis: una società della confidenza . .
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2.3. Qualche indicazione metodologica 2.3.1. La formazione della coscienza 2.3.2. Il consigliere spirituale . 2.3.3. Opinione pubblica . .
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LA DETERMINAZIONE DELLA HALAKHAH: CONFLITTO E CONSENSO (Carmelo Raspa) . . . . . . . .
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UN ADVENTUS DI RELIQUIE A COSTANTINOPOLI NEL IV SECOLO: IL CONSENSUS, IN UN’OMELIA DI GIOVANNI CRISOSTOMO (Francesco Aleo) . . . . . . . . 1. L’adventus come luogo di comunicazione del consensus . . 2. L’adventus nella cultura tardo antica . . . . . 3. L’adventus di Costantino e l’impero cristiano . . . 4. Adventus di reliquie e consensus . . . . . 5.Mediatori e registi del consenso a Costantinopoli: Giovanni Crisostomo ed Eudossia . . . . . . Conclusioni . . . . . . . .
63 63 68 73 79 80 93
RAGIONE, AUTORITÀ, CONSENSO: COSTANTI E VARIANTI NELLA DOTTRINA CANONISTICA DELLA NORMA GIURIDICA (SPIGOLATURE STORICHE) (Orazio Condorelli) . . . . . . . . 1. Graziano . . . . . . . . 2. Gli interpreti di Graziano . . . . . . 3. Il pensiero di Tommaso d’Aquino e la sua recezione presso i canonisti 4. Cenni su ulteriori itinerari della scienza canonistica . . . 5. Sviluppi in età moderna: la «supplicatio principis» . . . 6. Epilogo, al modo di una conclusione . . . . . Orientamento bibliografico e postille . . . . .
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IL CONSENSO TRA AUTORITÀ E CORPO. A PROPOSITO DEL TRATTATO DI BALTASAR GÓMEZ DE AMESCÚA (Maria Sole Testuzza) . . . . . . . 1. L’ “alterità” del corpo tra teologia e diritto . . . . 2. Transizioni e titoli eloquenti . . . . . .
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3. Due importanti dimensioni del consenso . . 4. Una specifica situazione giuridica: la potestas in se ipsum 5. Il governo pratico del corpo . . . .
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PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E INTERESSI METAINDIVIDUALI (Giovanni Di Rosa) . . . . . . . . 1. Funzione del diritto e valore della legge . . . . 2. Il diritto (quale legge) e il corpo umano nelle dichiarazioni di principio 3. Atti di disposizione del corpo, consenso e autodeterminazione nel sistema normativo interno . . . . . 4. Un possibile percorso di indagine . . . . . SOVRANITÀ POPOLARE E “CONSENSO”: L’INFLUENZA DEI MODELLI OCCIDENTALI ED I RECENTI SVILUPPI DEL COSTITUZIONALISMO ISLAMICO (Emilio Castorina) . . . . . . . . 1. Il “consenso dei governati” e il contrattualismo costituzionale nordamericano . . . . . . . . 2. Il fondamento del potere politico nel mondo islamico . . 3. Segue: l’influenza dei modelli occidentali: “We, the People”. . 4. Segue: le recenti riforme costituzionali negli Stati islamici . . 5. Il “consenso” nei principi religiosi quale elemento di riconoscimento del gruppo politico-sociale . . . . . . PROFILI INTERNAZIONALISTICI DEI MECCANISMI DI FORMAZIONE DEL CONSENSO (Rosario Sapienza) . . . . . . . . 1. Il diritto internazionale pubblico: un sistema normativo per gli Stati 2. La soggettivazione dello Stato chiave di volta dell’edificio normativo internazionale . . . . . . . 3. Il trattato internazionale quale strumento attraverso il quale lo Stato costruisce il diritto con le proprie manifestazioni di consenso . 4. La formazione del trattato attraverso la manifestazione, da parte dei suoi organi, del consenso statale ad obbligarsi . . . 5. Segue: l’istituto della riserva . . . . . . 6. Vizi del consenso e invalidità del trattato internazionale . .
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7. A mo’ di conclusione . Nota bibliografica .
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CONSENSO E COMUNIONE ECCLESIALE. IL CONTRIBUTO DI J.-M. TILLARD (Nunzio Capizzi) . . . . . . . . 1. Comunione ecclesiale e sue dinamiche . . . . 2. Comunione e comunicazione in Église d’Églises . . . 3. Comunione e comunicazione in L’Église locale . . . 4. Conclusioni: l’importanza della singularis conspiratio . .
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ASPETTI ECCLESIOLOGICI CARATTERIZZANTI IL CONSENSUS NELLE CHIESE ORIENTALI (Irene Gionfriddo) . . . . . . . . Christòs anésti! — Cristo è risorto! . . . . . 1. Contesto generale e prospettive ecclesiologiche . . . 2. Aspetti del consensus nel CCEO . . . . . 2.1. Il consenso negli atti giuridici . . . . . 2.2. Il consenso nelle relazioni personali . . . . Conclusione . . . . . . . .
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LA FORMAZIONE DEL CONSENSO DELLA DIOCESI DI NOTO (Corrado Lorefice) . . . Introduzione . . . 1. Il secondo sinodo di Noto . 2. Il processo sinodale . . Conclusione . . .
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L’EUCARISTIA COME LUOGO E ORIGINE DEL CONSENSO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . 1. La problematica teologica del consenso . . . 2. Repraesentatio . . . . . . . 3. Eucaristia, repraesentatio e consenso . . . . 4. Consenso eucaristico e consenso sinodale . . .
NEL SECONDO SINODO . . . . .
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