Synaxis xxxii 1 2014

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SYNAXIS

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SYNAXIS Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania

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XXXII/1 – 2014

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Sommario:

XXXII/1 2014

Finito di stampare nel luglio 2015 da Grafiser s.r.l. 94018 Troina (En) Tel. 0935 657813 - Fax 0935 653438

• P. MARINI, Perché riformare la liturgia: i criteri di fondo • F. ALEO, Logos Anghelos. Appunti di cristologia angelomorfica negli scritti di Clemente d’Alessandria • R. OSCULATI, Ioannes Iustus Lansperger (1490 ca1539) e l’ “uomo interiore” • M. ALIOTTA, L’ethos del ministero ordinato • G. PICENARDI, A. Rosmini: educare alla fede nello spirito della Liturgia • A. CRIMALDI, La concezione della corporeità in Schopenhauer • S. PISCIONE, Riflessioni su Lc 11,41.Per un tentativo di comprensione linguistico-filologica • E. PISCIONE, La saggezza tragica e il suo superamento in Gabriel Marcel • Presentazione • Recensioni • Notiziario

Direttore: Maurizio Aliotta Direttore responsabile: Salvatore Consoli Pubblicazione realizzata con il contributo Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali, Pubblica Istruzione.

Euro 25,00 (i.i.)

EDIZIONI GRAFISER TROINA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA

Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri


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SYNAXIS XXXII/1 – 2014

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2014


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SOMMARIO

SOMMARIO .

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Sezione teologica PERCHÉ RIFORMARE LA LITURGIA: I CRITERI DI FONDO (Piero Marini) . . . . . . .

In tutta la storia della Chiesa il Vaticano II è stato l’unico Concilio che ha dedicato un documento specifico alla Liturgia: la Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium. È stato possibile inoltre, avere una visione generale di secoli di evoluzione e di studio della prassi liturgica in occidente e in oriente, visione che quattro secoli prima, ai tempi del concilio di Trento, non era stato possibile avere ed approfondire. Per la prima volta nella storia della chiesa è stato anche possibile delineare, a seguito anche degli studi promossi dal movimento liturgico, sia i principi fondamentali della liturgia che gli elementi essenziali della celebrazione liturgica, avendo presente anche l’esperienza delle liturgie delle Chiese orientali. Il presente contributo intende ritornare sugli altiora principia dei santi padri e sulla loro applicazione nella riforma liturgica post – conciliare. Throughout the history of the Church, it was not until the Second Vatican Council that a speciflc document was dedicated to Liturgy: the Sacrosanctum Concilium Constitution. Furthermore, what followed was the possibility to have a wider vision of the centuries of study and the evolution that liturgical practices underwent both in the East and in the West. Such a vision was neither possible to have nor to research four centuries earlier during the Council of Trent. For the first time in the history of the Church, it was also possible to delineate, thanks to studies promulgated by the Liturgical Movement, both the fundamental principles of Liturgy and the essential elements of the liturgical celebration, while also keeping in mind the liturgical experience of the Eastern Churches. The following essay (work/ thesis) will focus on the altiora principia of the Holy Fathers and on their application in the post-counciliar liturgical reform.


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LOGOS ANGHELOS. APPUNTI DI CRISTOLOGIA ANGELOMORFICA NEGLI SCRITTI DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA (Francesco Aleo) . . . . . . . .

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La prima riflessione teologica della comunità cristiana primitiva, ovviamente cristologica, nasce nella comunità giudaica o giudeocristiana ed è debitrice della concezione messianica giudaica. L’esito di questa prima riflessione cristologica viene normalmente denominato “cristologia angelica” (Engelchristologie) oppure “cristologia angelomorfica”, secondo la quale Cristo era un Angelo, in ebraico malak. Il presente contributo intende mostrare le fonti di Clemente d’Alessandria riguardo alla cristologia angelomorfica che si presenta attraverso i tratti “acroamàtico” ed “upomnemàtico” della sua didaskalìa. The first theogical reflexion of the Christian community, obviously christological, born into Judaic or Judaic – Christian community and depended by the Judaic and Messianic idea. The issue of this first christological reflection is normally named “angelic christology” (Engelchristologie) or angelomorphic christology, where Jesus Christ was an Angel or malak in Hebrew language. The present contribution want to show the sources of Clement of Alexandria about angelomorphic Christology, revealing the “akroamàtic” and “ypomnemàtic” features of the Clement’s didaskalìa. IOANNES IUSTUS LANSPERGER (1490 CA-1539) E L’ “UOMO INTERIORE” (Roberto Osculati) . . . . . . . .

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Il monaco certosino, tedesco e contemporaneo di Lutero, ha una chiara coscienza dei problemi accumulatisi nel corso dei secoli nel cristianesimo occidentale. Le dispute religiose che infiammavano la Germania nei primi decenni del secolo XVI esigevano una rigorosa analisi della teologia e della vita ecclesiastica più diffuse. Un pensiero astratto, formale e litigioso si accompagnava ad una pratica ecclesiastica intrisa di interessi mondani. La tradizione monastica invece riponeva le sue radici nel Nuovo Testamento e in una lunga teoria di maestri dell’interiorità e della coerenza personali. La figura evangelica e mistica di Cristo andava rimessa al centro di un’esperienza religiosa di conversione, di umiltà, di imitazione, di silenzio operoso. Anche il monachesimo femminile tedesco ne aveva dato testimonianze ricche di affetto e di fantasia. Le numerose opere del monaco rinnovano, in un’epoca di grandi tensioni, la storia spirituale di un cristianesimo di indirizzo affettivo e neoplatonico. Caratteristico dell’Europa centrale, rimase sempre vivo al di là delle opposizioni confessionali e giuridiche. This Carthusian monk, a German and a contemporary of Luther, had a clear understanding of the various problems that had built up over the centuries in western Christianity. The religious disputes which flared in Germany during the first decades of the sixteenth century required a rigorous analysis of the widespread theology and ecclesiastical life of the time. Abstract thinking of a formal and litigious nature characterised the style of some ecclesiastics inevitably involved in worldly matters as well. By contrast, the monastic tradition had it roots deep in the New Testament and in the long and consistent practices of spiritual masters. The evangelical and mystical figure of


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Christ was central to the religious experience of conversion, humility, imitation, and productive silence. Even among the German monastic nuns of the time there was a rich legacy of affective spiritual imagination. In a period of high tension, the many writings of this Carthusian served to reinvigorate a Christian spirituality which was of an affective and neoplatonic turn and which, in central Europe, has always remained vivid and above and beyond confessional and juridical controversy. L’ETHOS DEL MINISTERO ORDINATO (Maurizio Aliotta) . . . .

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L’articolo cerca di tracciare il profile morale delle guide della comunità Cristiana. Il punto di vista scelto nasce dalla convinzione che una riflessione morale sul ministero nella Chiesa cattolica debba considerare le conseguenze dell’ordinazione nella vita concreta del ministro. Si pensa perciò il ministero come servizio nella ekklesìa, che è una koinonìa. We attempt to express the demand to draw the guide’s moral profile of the Christian Community. The chosen point of view rises from the persuasion a moral reflection about the ministry in the catholic Church have to consider the consequence of the ordination in the clergyman’s life. You think therefore the ministry like service in the ekklesìa, that is a koinonìa

Colloqui rosminiani A. ROSMINI: EDUCARE ALLA FEDE NELLO SPIRITO DELLA LITURGIA (Gianni Picenardi) . . . . . . . . 119 In Rosmini l’interesse per i problemi educativi fu sempre vivo e costante. Viva e vivace era in lui la preoccupazione di come trasmettere la verità trovata al fine di contribuire a migliorare l’uomo e la società. Per Rosmini, nel suo amore alla Chiesa di Gesù Cristo, la liturgia è la prima, più sicura e più certa via per realizzare quell’intima originaria aspirazione dell’uomo di unirsi con Dio, impressa in lui dallo stesso Creatore. La tesi fondamentale su cui Rosmini fonda la sua concezione della liturgia è il sacerdozio battesimale o sacerdozio dei fedeli. Il presente contributo intende chiarire il suo concetto di “comunione liturgica”. In Rosmini’s work, there was always a vivid and constant interest in pedagogical issues. The concern for how to instill the revealed truth, for the purpose of improving both man and his society, was always part of him in an intense and vivacious way. When considering Rosmini's love for the Church of Jesus Christ, it is Liturgy that becomes the first, the safest and the most certain way far man to attain that most intimate original aspiration necessary to join and unite with God, a condition impressed on man by our very own Creator. The fundamental thesis on which Rosmini establishes his conception of Liturgy is the Baptismal Priesthood or the Priesthood of the Faithful. The aim of the following essay (work/ thesis) is to highlight Rosmini’s concept regarding “liturgical communion”.


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Sezione miscellanea LA CONCEZIONE DELLA CORPOREITÀ IN SCHOPENHAUER (Antonio Crimaldi) . . . . . . . .

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Sul terreno specifico del pensiero filosofico, nella temperie culturale romantica e postromantica in Germania, gli estremi si toccavano: itinerari di “presa della realtà” e di liberazione dell’umano andavano in direzione opposta al delirio speculativo degli idealisti. Feuerbach capovolge Hegel proclamando non lo Spirito o il pensiero o l’Idea o il soggetto pensante, bensì il corpo quale “fondamento del mondo”, e l’io corporeo, l’essere corporeo dell’uomo quale unica via d’accesso alla conoscenza dell’essere. Secondo Schopenhauer, l’unica realtà che ci è dato di attingere immediatamente e che si presenta a noi non solo esternamente ma anche dall’interno è il nostro volere, la volontà, l’atto del volere. L’esperienza corporea ci apre il “passaggio sotterraneo”, il cunicolo segreto attraverso il quale la cosa in sé, costitutiva della nostra essenza, affiora alla nostra consapevolezza per via diretta. The specific area of philosophical thought, the cultural climate, romantic and postromantic in Germany, the extremes touched: itineraries of “grip of reality” and of liberation of the human went in the opposite direction to the speculative frenzy of the idealists. Feuerbach overturns Hegel not proclaiming the Spirit or the thought or idea or the thinking subject, but the body as “the foundation of the world”, and the body ego, being human body as the only means of access to knowledge being. According to Schopenhauer, the only reality that is given to us to tap immediately and that is presented to us not only externally but also from within is our will, the will, the act of the will. The bodily experience opens the “underground passage”, the secret tunnel through which the thing itself, constitutive of our essence, our consciousness emerges directly.

Note e discussioni RIFLESSIONI SU LC 11,41. PER UN TENTATIVO DI COMPRENSIONE LINGUISTICO-FILOLOGICA (Salvatore Piscione) . . . . . . . .

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Nel contributo “Riflessioni su Lc. 11,41” dal titolo “Per un tentativo di comprensione linguistico-filologica”, l’Autore si occupa del significato del termine “elemosina”. Essa appare come una benevolenza per il prossimo fino a volerne la totale salvezza, per cui la vera purificazione voluta da Cristo è un cammino che trasformi il nostro mondo interiore in atteggiamento di autentica misericordia che imiti lo stile di Dio. In the essay “Reflections on Lc. 11,41” entitled “A linguistic-philological comprehension attempt”, the Author deals with the meaning of the term “charity”. Charity appears as a benevolence towards neighbor which broadens until the desire of his complete salvation. Thus, the real purification wanted by Christ is a path that transforms our interior world in an attitude of authentic mercy that imitates the style of God.


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LA SAGGEZZA TRAGICA E IL SUO SUPERAMENTO IN GABRIEL MARCEL (Enrico Piscione) . . . . . . . . 153 Il saggio di Marcel “La saggezza tragica e il suo superamento” è il titolo dell’ultimo volume del noto filosofo francese. In esso si svolgono una varietà di temi che costituiscono — direbbe Dante — una “circulata melodia”. Nella conclusione del testo, Marcel non accetta né la “comunità economicista” di Lanzo Del Vasto perché gli appare costruita sulle fondamenta di un “fariseismo estetizzante”, né quella forma di socialità proposta da Theilard de Chardin che, secondo l’autore, si ridurrebbe ad un quid che non riesce a cogliere la vera saggezza. The essay of Marcel “The tragic wisdom and its overcoming” is the name of the last volume of the famous French philosopher. Such volume develops several matters which — as Dante would say — constitute a “circulata melodia”. In the conclusion of the essay, Marcel does not accept either the “economistic community” of Lanzo Del Vasto because it appears built on the foundations of a “pharisaism aesthetics”, or such form of sociality proposed by Theilard de Charden that, according to the author, is reduced to a quid that would not reach the real wisdom.

Presentazione

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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Sezione teologica Synaxis XXXII/1 (2014) 9-31

PERCHÉ RIFORMARE LA LITURGIA: I CRITERI DI FONDO PIERO MARINI*

1. INTRODUZIONE 1.1. La grande riforma liturgica L’importanza del Concilio Vaticano II per la liturgia appare evidente se si considera che in tutta la storia della Chiesa è stato l’unico Concilio che ha dedicato un documento specifico alla Liturgia: la Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium. Con il Vaticano II è stato possibile inoltre, avere una visione generale di secoli di evoluzione e di studio della prassi liturgica in occidente e in oriente, visione che quattro secoli prima, ai tempi del Concilio di Trento, non era stato possibile avere ed approfondire. Si pensi ad esempio ai grandi vantaggi che l’invenzione della stampa portò, dopo il Concilio tridentino, alla conoscenza e alla diffusione della bibbia, dei libri liturgici e dei testi del periodo patristico. Con il Vaticano II per la prima volta nella storia della Chiesa è stato possibile delineare, a seguito anche degli studi promossi dal movimento liturgico, sia i principi fondamentali della liturgia che gli elementi essenziali della celebrazione liturgica, avendo presente anche l’esperienza delle liturgie delle Chiese orientali. In questi

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Docente di Liturgia presso il Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo di Roma.


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Piero Marini

cinquanta anni circa dall’inizio della riforma liturgica voluta dal Concilio, a partire cioè dal 7 marzo 19651, si è compiuta una riforma che supera in ampiezza e in profondità tutte la altre grandi riforme del passato compresa quella attribuita a S. Gregorio Magno e quella del sedicesimo secolo. La riforma è stata ampia e profonda anche per alcune particolarità proprie del Concilio stesso. Il Concilio Vaticano II è stato infatti il primo Concilio della Chiesa universale della storia del cristianesimo. L’episcopato infatti proveniva da tutto il mondo e non era semplicemente un episcopato europeo esportato attraverso i vescovi missionari europei. Inoltre i problemi non riguardavano solo la storia dell’Europa ma la storia di tutto il mondo. Si ricordi che quando venne annunciato il Concilio erano passati solo quattordici anni dalla conclusione della seconda guerra mondiale e il Vangelo doveva essere in qualche modo reinterpretato in un linguaggio comprensibile per il mondo moderno. L’umanità infatti si trovava alla svolta di un’era nuova, segnata dall’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, dall’ingresso della donna nella vita pubblica — in Italia le donne voteranno per la prima volta nel 1948 — ; dalla scomparsa della distinzione tra popoli dominatori e popoli dominati; dal bisogno della pace in un mondo dominato dalla guerra fredda. Il primo atto voluto dal Concilio in tale processo fu proprio la Costituzione sulla sacra liturgia. Il Vaticano II è stato anche caratterizzato dalla presenza delle Chiese separate da Roma e dalla presenza dei teologi. Per questo Papa Giovanni nel suo discorso di apertura disse che: «Il punctum saliens di questo Concilio non è quindi una discussione di un articolo o dell’altro della dottrina fondamentale della Chiesa … lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze»2.

1 Data di entrata in vigore della Istruzione Inter Oecumenici, del 26 settembre 1964. 2 G. CAPRILE S.I. (cur.), Il Concilio Vaticano II Cronache del Concilio Vaticano II, Il Primo Periodo 1962-1963, II, Roma 1968, 4.


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Perché riformare la liturgia: i criteri di fondo

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1.2. L’eredità del passato La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e la riforma liturgica che ne è seguita non sono stati eventi nati all’improvviso e inaspettatamente a partire dal Concilio. In realtà il documento è stato il punto di arrivo di un lungo lavoro avviato dal movimento liturgico, che la Costituzione stessa riconosce come «segno dei provvidenziali disegni di Dio sul suo tempo, come un passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa»3. La Sacrosanctum Concilium non è solo un documento conciliare, ma anche il frutto maturo del lungo e faticoso cammino che ha condotto la Chiesa cattolica a risalire alle fonti della sua liturgia per poter «fare un’accurata riforma generale della liturgia»4. Oggi dunque non si può dimenticare l’eredità del passato e soprattutto l’interesse, lo studio e l’amore per la liturgia e per la Chiesa di tanti esperti che hanno caratterizzato il cammino del movimento liturgico e che hanno reso possibile il documento, sui cui è convenuto l’interesse e il consenso di quasi tutti i Padri conciliari, e la conseguente riforma liturgica. In verità il problema della riforma della liturgia era presente nella Chiesa già a partire dalla prima metà dell’800. Il Beato Antonio Rosmini nel 1848 intitolava il primo capitolo di un suo famoso libro: “Della piaga della mano sinistra della Chiesa che è la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto”5 . Il movimento liturgico è stato accompagnato e arricchito dal movimento patristico, si pensi ad esempio alla pubblicazione dei testi dei Padri della Chiesa, dal movimento biblico che ha suscitato un rinnovato interesse per la Bibbia e dal movimento ecumenico. San Pio X fu il primo Papa ad accogliere alcune istanze del movimento liturgico. L’espressione “partecipazione attiva” ad esempio si trova nel suo “Motu proprio” Tra le sollecitudini del 1903. Il testo di Pio X rimase tuttavia lettera morta fino al 1909, quando fu ripreso e divulgato dal monaco benedettino Dom Lambert Beauduin. 3

Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, n. 43. Ibid., n. 21. 5 A. ROSMINI, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Roma 1981, 21ss. 4


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Piero Marini

Papa Pio XII infine nel 1951 attua la riforma della Veglia pasquale e nel 1955 la riforma di tutta la settimana santa. Si tenga presente che la riforma di Pio XII era iniziata proprio dal cuore della liturgia. Pertanto l’annuncio del Concilio dato dal Beato Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, fu salutato con soddisfazione da tutti coloro che erano impegnati nel rinnovamento della vita liturgica della Chiesa. Erano allora trascorsi 50 anni dalla Comunicazione con la quale Dom Lambert Beauduin aveva inaugurato il 23 settembre 1909 il Congresso delle Opere cattoliche di Malines ponendo le basi del movimento liturgico che in qualche modo ha preparato e ha facilitato la trattazione sulla liturgia durante il Concilio. Pensando oggi al Concilio Vaticano II non possiamo non aver presente la relazione tra questi due anniversari che si richiamano e in qualche modo si intrecciano a vicenda. Ambedue hanno al loro centro il testo della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia. Essa infatti da una parte accoglie e arricchisce le proposte del movimento liturgico e apre dall’altra il versante della grande riforma liturgica conciliare. 1.3. Il divario tra le acquisizioni del movimento liturgico e la prassi liturgica della Chiesa Nonostante la grande diffusione delle idee del movimento liturgico e le riforme attuate da Pio XII, alla vigilia del Concilio era molto diffusa l’idea di una Chiesa fortemente centralizzata e generalmente si riteneva che le causae maiores fossero di competenza esclusiva della Curia Romana. Tale modo di pensare si era consolidato a seguito della prassi fortemente accentratrice instaurata a partire dal Concilio tridentino con l’istituzione delle sacre Congregazioni. Tale prassi, giustificata allora dalla necessità di difendere l’unità della Chiesa, si era ancor di più radicalizzata dopo la definizione della infallibilità pontificia nel Concilio Vaticano I. D’altra parte prima del Vaticano II mancava ormai da secoli nella Chiesa una diffusa esperienza dei sinodi dei Vescovi. In Italia ad esempio prima del Concilio i Vescovi non si erano mai riuniti insieme. Non solo la vita ecclesiale ma anche la prassi liturgica, nonostante


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Perché riformare la liturgia: i criteri di fondo

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le riforme promosse da Pio XII, era caratterizzata ormai da quattro secoli dalla immobilità. La liturgia tridentina infatti era fondata sulla unicità della lingua e la fissità delle rubriche. Tale situazione era il risultato non solo della risposta data dal Concilio alle Chiese della riforma ma anche di un lungo processo iniziato già nel primo millennio che aveva portato la liturgia romana dalla semplicità e dallo stile pastorale, tipici dell’epoca patristica, all’aspetto di corte e di complessità rituale che aveva raggiunto il culmine nel periodo avignonese e post avignonese con la redazione dei libri “Caeremoniales”. «I libri liturgici pubblicati su ordine del Concilio di Trento dai Papi San Pio V, Gregorio XIII, Clemente VIII e Paolo V erano una semplice revisione, in uno sforzo di ritorno alle origini, della liturgia romana tale quale l’aveva fissata il Medio Evo: si può dire in genere che i testi liturgici erano ben poco cambiati dalla fine del XIII secolo e che, nel loro insieme, i riti conservavano la fisionomia che avevano dato loro i liturgisti carolingi»6.

A) Gli altiora principia e la celebrazione concreta L’annuncio del Concilio, come accennato, fu salutato generalmente con soddisfazione. Tuttavia prima ancora che il Concilio potesse iniziare la sua attività alcuni fatti crearono un certo disagio tra coloro che proprio dal Concilio si attendevano un impulso al rinnovamento concreto della liturgia secondo le acquisizioni già da tempo raggiunte dal movimento liturgico. In particolare vorrei richiamare l’attenzione sul Motu proprio Rubricarum Instructum del 25 luglio 1960 il cui testo venne poi collocato all’inizio del Missale Romanum pubblicato nel 1962 dalla Sacra Rituum Congregatio. All’inizio del Motu proprio, dopo aver ricordato la Commissione istituita da Pio XII il 28 maggio 1948 “per studiare una riforma liturgica generale”, si diceva quanto segue: « Siamo giunti alla deliberazione […] di sottoporre ai Padri del prossimo Concilio Ecumenico i più alti principi che riguardano la riforma liturgica 6

G.A. MARTIMORT, Bilancio della riforma liturgica, Milano 1974, 14-15.


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Piero Marini generale, ma di non procrastinare ulteriormente la menzionata revisione delle rubriche del Breviario e del Messale»7.

È vero che la Commissione piana lavorava già da alcuni anni al progetto di una riforma generale della liturgia 8, ma aver preso l’iniziativa di procedere alla revisione e alla pubblicazione di due libri liturgici fondamentali proprio alla vigilia del Concilio sembrò allora a molti esperti di liturgia il tentativo della Congregazione dei Riti di mettere le mani avanti per quanto riguardava la riforma del Messale e del Breviario, lasciando poi ai Padri conciliari di limitarsi a proporre solo i grandi principi più generali della riforma9. Il Motu proprio sembrava accettare una certa separazione tra gli altiora principia, denominati poi nei libri della riforma “Premesse generali”, e le indicazioni rubricali, le sequenze rituali e i testi liturgici. Dietro la separazione tra gli altiora principia e la prassi liturgica si nascondeva una particolare concezione della liturgia che considerava i principi generali della teologia e della liturgia lontani se non proprio separati dalla vita e dalla celebrazione rituale concreta. Il Motu proprio rimaneva quindi il segno della necessità di una riforma non più procrastinabile, ma anche l’espressione di una mentalità ancora lontana dai principi generali ormai acquisiti dal movimento liturgico.

B) I riti di apertura del Concilio Che la celebrazione concreta della liturgia fosse rimasta fondamentalmente legata alle rubriche e lontana dalle idee ormai diffuse un po’ ovunque dal movimento liturgico apparve chiaramente anche 7 «In sententiam devenimus, altiora principia, generalem liturgicam instaurationem respicientia, in proximo Concilio Oecumenico Patribus esse proponenda; memoratam vero rubricarum Breviarii et Missalis emendationem diutius non esse protrahendam». Missale Romanum, anno 1992 promulgatum, IX. 8 Cfr. C. BRAGA, La riforma liturgica di Pio XII, Documenti, Roma 2003; A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1997, 902. 9 Cfr. E. CATTANEO, Il Culto cristiano in occidente, Roma 2009, 524-525.


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nella “revisione” del Messale Romano del 1962 pubblicato a seguito del menzionato Motu proprio e in qualche modo proposto in anteprima come modello della riforma conciliare. In realtà il Messale del 1962 rimaneva essenzialmente l’espressione della liturgia di un’altra epoca, quella che era stata fissata dai libri liturgici tridentini. Il contrasto tra le idee del movimento liturgico e la prassi concreta della liturgia apparve in tutta la sua evidenza nei riti di apertura del Concilio l’11 ottobre 1962. - Lo svolgimento dei riti di apertura Il rito secondo la cronaca del P. Caprile10 ha avuto i seguenti momenti di svolgimento: - adorazione del SS.mo Sacramento nella Cappella Paolina del Palazzo Apostolico e canto della prima strofa dell’Ave Maris Stella - lungo corteo dei padri conciliari durato oltre tre quarti d’ora, che uscendo dal Portone di bronzo raggiungono la Basilica - canti eseguiti durante il corteo dalla Sistina e dal coro del Pontificio Seminario Romano Maggiore - canto del Veni creator intonato dal Papa - Messa solenne celebrata dal Cardinale Tisserant all’altare conciliare - dopo la Messa, intronizzazione sull’altare del libro dei Vangeli - solenne professione di fede prima fatta dal Papa e poi dal Segretario generale “a nome di tutta l’assemblea” con relativo giuramento dei padri conciliari - varie preghiere e litanie dei Santi - discorso inaugurale del Papa - comunicazione dell’ordine del giorno. Giovanni Caprile della Civiltà Cattolica si limita alla semplice cronaca. Egli fa un’unica osservazione al canto “fuori posto del Tu es Petrus” da parte della Cappella Sistina, osservazione mitigata dall’elogio “cantato benissimo”. Egli parla inoltre di «rito solenne, gran10

G. CAPRILE S.I. (cur.), Il Concilio Vaticano II Cronache del Concilio Vaticano II, Il Primo Periodo 1962-1963, CIT., 16-18.


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dioso e commovente» e fa notare “le ottime riprese televisive». Dalla cronaca appare evidente che la celebrazione del “Santo Sacrificio” veniva allora considerata come una breve parentesi nell’insieme grandioso dei solenni riti di apertura del Concilio. - Alcune testimonianze L’11 ottobre 1962 si apre il Concilio. Ma sono proprio i solenni riti di apertura a mettere in evidenza lo stato di “archeologismo” in cui si trovava allora la liturgia. Si riportano solo alcune testimonianze. Yves Congar «11 ottobre 1962. Il movimento liturgico non è arrivato nella Curia romana. Questa immensa assemblea non dice niente, non canta niente. Si dice che gli ebrei siano il popolo dell’orecchio, e i greci quello dell’occhio. Ma qui vi è solo l’occhio e l’orecchio musicale: nessuna liturgia della Parola. Nessuna parola spirituale. So che adesso verrà intronizzata, per presiedere il Concilio, una Bibbia. MA PARLERÀ? Sarà ascoltata? Vi sarà un momento per la Parola di Dio? …»11.

Joseph Ratzinger «Mancava a questa cerimonia di apertura un elemento integratore ed anche un’unità interiore. Era normale che più di due mila cinquecento vescovi, senza parlare degli altri fedeli, fossero condannati ad essere spettatori silenziosi di una liturgia nella quale, tranne i celebranti ufficiali, soltanto i cori che facevano parte della Cappella Sistina facessero sentire la loro voce? Il fatto di non favorire la partecipazione attiva dei fedeli presenti non era il segno del trionfo di una situazione bisognosa di cambiamento? … Erano state giustapposte due liturgie senza creare dei legami tra di loro ed era stato così chiaramente messo in evidenza l’archeologismo pericoloso nel quale era immersa la liturgia della messa fin dal concilio di Trento, archeologismo che fa si che si percepisca appena il vero senso delle

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Y. CONGAR, Diario del Concilio 1960-1963, I, Cinisello Balsamo 2005, 145-149.


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diverse parti della messa, e che neppure fa percepire che essa comporta l’intronizzazione del vangelo, la professione di fede e le preghiere d’intercessione …»12.

Virgilio Noè Un’idea della situazione in cui si trovava la ritualità della liturgia papale di quel tempo si può avere dalla semplice lettura di un testo del card. Virgilio Noè. «I riti che duravano tre o quattro ore, erano intessuti di sacro bacato di frivolezze tipiche di ogni corte principesca; c’erano segni che per la maggior parte dei presenti erano senza significato». Inoltre il corteo papale era costituito da «una siepe di ecclesiastici e laici, in vesti rinascimentali o barocche che creavano una variopinta cornice di sete, ermellini, cappe magne e ferraioloni, rocchetti con pizzi preziosi, più adatti a signore che non a ministri sacri. E poi i corpi militari con le loro divise michelangiolesche o del tempo napoleonico, i cantori, i rappresentanti delle confraternite nelle loro sacche o mantellette e i religiosi nei loro abiti più differenti … alcuni di questi “corpi” avevano cessato le loro funzioni con la fine dello Stato pontificio»13.

Un altro esempio della fastosità degli apparati della ritualità di quel tempo lo fa notare A. Bugnini a proposito della liturgia esequiale dei Cardinali quando veniva usato un «enorme catafalco costruito nella crociera dei Santi Processio e Martiniano nella Basilica di S. Pietro: tre metri di altezza con la cassa finta al di sopra, mentre quella vera era spinta con un carrello sotto il catafalco. Intorno cento grossi ceri rinnovati ad ogni morte di cardinale»14. Queste ultime osservazioni, prese dagli scritti di due responsabili della liturgia papale di quel periodo, mettono in rilievo l’aspetto aulico

12 J. RATZINGER, Mon Concile Vatican II. Enjeux et perspectives, Perpignan 2011, 55-57. La traduzione in lingua italiana è nostra. 13 V. NOÈ, Paolo VI: uno stile liturgico, in Notitiæ 265-266 (1998) 24, 567. 14 A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1997, 787.


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e la mancanza di verità nei segni e nelle sequenze rituali in cui si trovavano allora immerse le cerimonie pontificie. I riti di apertura del Concilio avevano dunque sottolineato, come ha affermato il Prof. Ratzinger, un certo “disagio”: da una parte i principi e le realizzazioni del movimento liturgico e dall’altra l’apparato della liturgia papale evidente espressione dell’aspetto aulico in cui si trovava immersa la liturgia tridentina. In sintesi quindi si può affermare che le testimonianze citate fanno notare nei riti di apertura del Concilio la presenza di alcuni aspetti negativi già superati dal movimento liturgico. Tali aspetti saranno trattati durante il Concilio, esposti in senso positivo nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia e successivamente tradotti o messi in pratica dalla riforma liturgica. 2. I CRITERI DI FONDO DELLA RIFORMA 2.1. Le finalità della riforma Prima di soffermarci sui criteri di fondo posti dal Concilio alla base della riforma liturgica è opportuno avere presente alcune finalità che il Concilio si è posto nel riformare la liturgia. 2.1.1. Una riforma per il nostro tempo La riforma della liturgia, in particolare dei libri e della legislazione, è stata vista anzitutto dalla Sacrosanctum Concilium come una necessità per far fronte alla situazione degli uomini e delle donne del nostro tempo: «Il Sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti … Ritiene quindi di doversi interessare in modo speciale anche della riforma e dell’incremento della liturgia» (SC 1). La necessità di far fronte alle esigenze del nostro tempo e alla utilità della Chiesa ha dunque portato il Concilio a «fare un’accurata riforma generale della liturgia … In tale riforma l’ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà, da esse significate, siano espresse


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più chiaramente, il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso, e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria». (SC 21) Secondo la Sacrosanctun Concilium dunque far crescere la vita cristiana e venire incontro alle necessità del nostro tempo, porta dunque necessariamente con sé l’adattamento della liturgia e la partecipazione attiva del popolo cristiano. La liturgia pertanto secondo il Concilio rimane semper reformanda perché la Chiesa deve comprendere il Vangelo nel proprio periodo storico. 2.1.2. Riformare la liturgia per riformare la Chiesa La Sacrosanctum Concilium ci insegna a considerare sempre le celebrazioni liturgiche in relazione con la vita della Chiesa. Nella celebrazione della liturgia, dice la Costituzione, «vi è una speciale manifestazione della Chiesa» (SC 41); «Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa … tali azioni appartengono all’intero Corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano» (SC 26). Inoltre «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC 10). Il primo capitolo della Costituzione ci ricorda che il Concilio si proponeva quattro precisi obiettivi: la crescita della vita cristiana; l’aggiornamento delle istituzioni ecclesiali alle esigenze del nostro tempo; l’unità di tutti i credenti in Cristo, cioè l’ecumenismo; la chiamata di tutti nel seno della Chiesa, cioè la missione. Per conseguire questi quattro obiettivi il Concilio «ritiene di doversi interessare in modo speciale anche della riforma e dell’incremento della liturgia» (SC 1). In altre parole, per il Concilio rinnovamento della Chiesa, ecumenismo e azione missionaria sono strettamente legati tra di loro e dipendono dal modo con cui la Chiesa celebra e vive la liturgia. Le celebrazioni presiedute dal Vescovo nella sua diocesi e dal Papa a Roma e nelle Chiese particolari sono dunque il fondamento su cui costruire il rinnovamento, l’unità e la missione della Chiesa.


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2.1.3. Superare la centralizzazione e riscoprire la Chiesa locale nella liturgia Il tipo di Chiesa centralizzata che aveva caratterizzato il periodo anteriore al Concilio venne superato dal Vaticano II attraverso la riscoperta della relazione tra Chiesa e liturgia. Tale riscoperta ha portato alla rivalutazione della Chiesa locale. Infatti secondo la più antica prassi della Chiesa, resa evidente soprattutto dai Concili ecumenici, il Concilio è pervenuto ad esplicitare che: «L’Ordine dei Vescovi, che succede al Collegio degli Apostoli nel magistero e nel governo pastorale, nel quale anzi si perpetua ininterrottamente il corpo apostolico, è pure, insieme con il suo capo, il romano Pontefice e mai senza di esso, soggetto di suprema potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata senza il consenso del romano Pontefice» (LG 12). Il Concilio quindi nel chiarire la costituzione gerarchica della Chiesa ha riconosciuto l’episcopato universale, pur con tutte le riconferme della funzione primaziale del Papa, come collegio dotato di una propria potestà, potestà riconosciuta come suprema nella Chiesa. Ciò ha portato alla riscoperta e alla valorizzazione fondamentale della chiesa locale (cfr. LG 23; CD 11) e in ultima analisi alla ecclesiologia eucaristica. Il primo e fondamentale impulso in tale direzione è stato dato proprio dalla Sacrosanctum Concilium a partire dalla celebrazione: la celebrazione eucaristica infatti, con la partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio, presieduta dal Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri nella sua chiesa cattedrale è infatti da considerarsi come la principale manifestazione della Chiesa (cfr. SC 41). 2.1.4. Unire principi generali e celebrazione Per quanto riguarda la liturgia, la Sacrosanctum Concilium ha superato di fatto l’idea di poter separare gli altiora principia dalla celebrazione concreta dei santi misteri. I Padri del Concilio infatti non solo hanno stabilito i principi fondamentali della riforma liturgica ma ne hanno anche indicato l’applicazione dando disposizioni concrete circa le modalità celebrative di attuazione, la revisione dei libri liturgici, dei


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testi, delle sequenze rituali, ecc. Non solo, ma i Padri del Concilio hanno delineato l’immagine della Chiesa, come già accennato, non partendo dalla speculazione teologica, ma proprio dalla celebrazione concreta dell’Eucaristia (cfr. SC 41). Da allora teologia e prassi cristiana del celebrare sono talmente uniti da non poter più concepire una senza l’altra. La Sacrosanctum Concilium pertanto non propone una teologia speculativa sulla natura della liturgia e neppure contiene una definizione di liturgia, ma presenta piuttosto una riflessione teologica sul contenuto della azione celebrativa. In realtà la Sacrosanctum Concilium affermando la impossibilità di separare i principi generali dalla prassi del celebrare, conferma che gli altiora principia derivano dalla tradizione celebrativa della chiesa e che la celebrazione della chiesa si ispira agli altiora principia. Solo con questa ermeneutica è possibile leggere e comprendere la riforma liturgica. 2.2. I fondamenti della riforma I Padri del Concilio oltre ad indicare alcune finalità che essi si erano proposte nell’intraprendere la riforma dell’ordinamento dei testi e dei riti, stabilirono anche i criteri di fondo su cui impostare l’intera riforma. La Costituzione liturgica ha proposto nel capitolo primo i principi generali della riforma e dell’incremento della liturgia secondo la tradizione e le esigenze del nostro tempo. Nella Costituzione si possono individuare una duplice serie di principi: orientativi e operativi. Principi orientativi: - La liturgia esercizio del sacerdozio di Cristo (SC 7) - La liturgia culmine e fonte della vita della Chiesa (SC 10) - La partecipazione piena, consapevole, attiva (SC 8) - La manifestazione della Chiesa (SC 26) - Sostanziale unità, non rigida uniformità (SC 38) - Sana tradizione e legittimo progresso (SC 23) Principi operativi: - La lingua - La Parola di Dio - La catechesi


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- Il canto - La riforma della liturgia. Tali principi posti a fondamento della riforma liturgica sono stati ampiamente illustrati e approfonditi15. Qui mi vorrei soffermare brevemente solo su due principi fondamentali stabiliti dalla Sacrosanctum Concilium: il ritorno alle fonti e il sacerdozio unico per il culto. Questi principi, indissolubilmente legati tra di loro, mi sembra costituiscano il fondamento di tutti gli altri. 2.2.1. Il ritorno alle fonti: la Sacra Scrittura e la Chiesa dei Santi Padri Le fonti della liturgia indicate dalla Sacrosanctum Concilium sono essenzialmente due: la Sacra Scrittura e la norma dei Santi Padri. a) La Sacra Scrittura Il rapporto tra Scrittura e liturgia è chiaramente espresso dalla Costituzione: «Le azioni e i gesti liturgici traggono il loro senso dalla Sacra Scrittura»16. La liturgia attua ciò che è scritto nella Scrittura. La Scrittura sottolinea l’importanza del popolo di Dio: il cammino della salvezza alla quale Dio conduce il suo popolo è compiuto non da uno solo ma da tutto il popolo. La Scrittura ci aiuta dunque a comprendere non solo il contenuto della celebrazione ma anche l’importanza dell’assemblea e la natura pubblica della stessa liturgia. La Scrittura cioè testimonia una storia vissuta tra Dio e il suo popolo, è la storia della salvezza che continua nella liturgia attraverso preghiere e atti simbolici: per ritus et preces. Gli elementi che compongono la liturgia: atteggiamenti, gesti, formule, hanno una valenza, un significato che va oltre la loro dimensione puramente antropologica, funzionale o utilitaristica. Questi elementi devono essere percepiti e vissuti come “segni della nuova ed

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Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1997, 53-62. Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, n. 24.


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eterna alleanza”, che assumono significato e valore salvifico in riferimento a parole e fatti della storia della salvezza e quindi da quel grande progetto, a noi noto dalla Rivelazione, che è finalizzato alla comunione che Dio vuole realizzare con gli uomini e che ha nel mistero di Cristo il suo centro. Ciò significa che la comprensione delle parole e dei gesti della liturgia è legata ad una catechesi che partendo dal senso antropologico faccia comprendere il valore simbolico-salvifico che rivestono in rapporto ad eventi e parole della storia di Israele e della vita di Cristo. Essi hanno un significato umano ma nel loro rapporto con la Parola di Dio invitano ad “andare oltre” e consentono al credente di ricevere lo spirito che proprio i segni sono destinati a significare e a comunicare. Per comprendere è necessario andare oltre e per andare oltre è necessaria la Parola di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento e così nella cena pasquale di Cristo potremo scoprire il sacrificio dell’eterna e nuova alleanza. È chiaro che la “comprensione” del mistero sarà facilitata se il segno umano sarà eloquente e dall’altra se il riferimento alla Parola di Dio sarà ricco e costante. La Sacra Scrittura è pertanto la norma e il giudizio per comprendere la liturgia e per riformare la sua prassi. «Per promuovere la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia è necessario che venga favorita una appassionata e viva conoscenza della Sacra Scrittura»17. Esiste quindi un intimo legame tra approfondimento della Scrittura e riforma liturgica. Già gli antichi testi mistagogici attestano che la conoscenza della liturgia non è altro che la conoscenza della Scrittura. b) La norma o prassi dei Santi Padri Se la Scrittura è la fonte cui deve attingere il rinnovamento della liturgia, la primitiva prassi liturgica delle Chiese dei Santi Padri, cioè la “pristina Sanctorum Patrum norma” (cfr. SC, 50) è da ritenersi la norma e la regola ispiratrice della stessa riforma. Per comprendere la portata ecclesiale del principio conciliare sul “ritorno alla norma dei

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L.c.


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Santi Padri” è di grande aiuto riferirsi al testo che Papa Paolo VI ha pronunciato in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto di Patrologia Augustinuanum18. Il testo, estremamente denso e ricco di significato, si apre con una affermazione generale sulla assoluta necessità del ritorno alle origini. Senza tale «risalita alle origini cristiane non sarebbe possibile attuare il rinnovamento biblico, la riforma liturgica e la nuova ricerca teologica auspicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II». Sono tre le motivazioni portate a difesa di tale affermazione. - I Padri sono testimoni della fede dei primi secoli vitalmente inseriti nella tradizione che deriva dagli Apostoli. Essi attestano «la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono 18

«Il ritorno ai Padri della Chiesa, infatti, fa parte di quella risalita alle origini cristiane, senza la quale non sarebbe possibile attuare il rinnovamento biblico, la riforma liturgica e la nuova ricerca teologica auspicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II». Per convincerci di ciò, basta pensare alla particolare funzione che i Padri esercitano nella Chiesa. Testimoni della fede dei primi secoli, essi sono vitalmente inseriti nella Tradizione che deriva dagli Apostoli. «Le asserzioni dei Santi Padri — come rileva il Concilio — attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega» (Dei verbum, 8) … Ma i Padri furono altresì teologi illuminati che illustrarono e difesero il dogma cattolico, e, per la maggior parte, zelantissimi pastori che lo predicarono e l’applicarono ai bisogni delle anime. Come teologi, essi per primi diedero forma sistematica alla predicazione apostolica, per cui, come afferma S. Agostino, essi furono per lo sviluppo della Chiesa quello che erano stati gli Apostoli per la sua nascita: «Talibus post Apostolos sancta Ecclesia plantatoribus, rigatoribus, aedificatoribus, nutritoribus crevit» (Contra Iulianum Pelagianum [de originali peccato] 11, 10, 37; PL 44, 700). Come pastori, poi, i Padri sentirono la necessità di adattare il messaggio evangelico alla mentalità dei loro contemporanei e di nutrire con l’alimento delle verità della Fede se stessi e il popolo di Dio. Ciò fece sì che per essi catechesi, teologia, Sacra Scrittura, liturgia, vita spirituale e pastorale si congiungessero in una unità vitale, e che le loro opere non parlassero soltanto all’intelletto, ma a tutto l’uomo, interessando il pensare, il volere, il sentire. Essi ebbero in più una sovrabbondante ricchezza di spirito cristiano, derivata dalla loro personale santità, per cui alla loro scuola la Fede non si accontenta di pure elucubrazioni intellettuali, ma facilmente si accende anche di senso mistico»: PAOLO VI, Discorso per l’inaugurazione del nuovo Istituto di Patrologia “Augustinianum”, 4 maggio 1970.


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trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega». - I Padri inoltre sono protagonisti di un secondo processo: hanno dato forma sistematica alla predicazione apostolica, per cui essi sono stati per lo sviluppo della Chiesa quello che erano stati gli Apostoli per la sua nascita. Essi, anche come teologi, testimoniano ancora una volta il legame di continuità della Chiesa con la tradizione degli Apostoli. - I Padri infine sono testimoni del processo di adattamento che essi hanno realizzato adattando il messaggio evangelico alla mentalità dei loro contemporanei. Essi infatti sono riusciti a congiungere catechesi, teologia, Sacra Scrittura, liturgia, vita spirituale e pastorale in una unità vitale per cui le loro opere non parlano solo all’intelletto, ma a tutto l’uomo, e interessano il pensare, il volere, il sentire. Tutto ciò — conclude il testo — è unito nei Padri alla testimonianza personale della santità in modo che in essi la fede viene espressa nella vita non partendo da ragionamenti intellettuali ma dalla partecipazione concreta ai santi misteri. Per quanto concerne in particolare la liturgia, i Padri sono testimoni della raggiunta maturità nella comprensione e nella successione delle sequenze rituali della celebrazione ecclesiale. La prassi liturgica del loro tempo testimonia in qualche modo la conclusione del cammino di progressiva chiarificazione che la Chiesa ha intrapreso nella celebrazione dei santi misteri a partire dall’ultima cena e in particolare dal comando di Cristo: “Fate questo in memoria di me”. Essi pertanto proprio nella prassi liturgica del loro tempo sono la garanzia della continuità della tradizione apostolica pur nell’adattamento dei testi e dei riti alla mentalità dei loro contemporanei. Per questo la liturgia deve tornare continuamente al periodo dei Padri, cioè alle origini cristiane. La prassi liturgica delle Chiese dei Santi Padri è diventata cioè la forma originaria della liturgia cristiana sulla quale la vita liturgica della Chiesa di ogni epoca è chiamata a misurarsi e a verificarsi. Per questo sia la riforma voluta del Concilio Tridentino che la riforma voluta dal Concilio Vaticano II hanno avuto come principio ispiratore il ritorno alla tradizione dei santi


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Padri19. Per questo alcune caratteristiche fondamentali del periodo patristico sono state assunte dal Concilio Vaticano II come guida e fondamento della riforma. Ad esempio la originaria semplicità: «I riti splendano per nobile semplicità: siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni …»20. E ancora: «I riti conservata la loro sostanza siano resi più semplici; si sopprimano quegli elementi che con il passare dei secoli furono duplicati o meno utilmente aggiunti; alcuni elementi invece, che con il passare del tempo andarono perduti, siano ristabiliti secondo la primitiva tradizione dei Padri»21. L’intento dei Padri del Concilio nel fissare i principi della riforma e la fatica della Chiesa che ne ha dato attuazione è stata ed è proprio quella del ritorno alle fonti. Partorire cioè una novità che sia radicata, riplasmare un deposito che è già acquisito. E per fare ciò essa ha sempre bisogno di piegarsi sulle fonti della propria fede, avendo davanti agli occhi — o meglio nel cuore — i bisogni del mondo d’oggi. Solo uno sguardo ampio, rivolto a tutta la tradizione antica, di ogni tempo e di ogni luogo, può offrirci; uno sguardo che osa andare al di là del nostro passato più prossimo, come ricorda ancora il proemio del nuovo Messale Romano che dice: «La “tradizione dei santi Padri” esige dunque che non solo si conservi la tradizione trasmessa dei nostri predecessori immediati, ma che si tenga presente e si approfondisca fin dalle origini tutto il passato della Chiesa e si faccia un’accurata indagine sui modi molteplici con cui l’unica fede si è manifestata in forme di cultura umana e profana così diverse tra loro, quali erano quelle in uso nelle regioni abitate da Semiti, Greci e Latini. Questo approfondimento più vasto ci permette di constatare come lo Spirito Santo accordi al popolo di Dio un’ammirevole fedeltà nel conservare immutato il deposito della fede, per grande che sia la varietà delle preghiere e dei riti»22.

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Cfr. PAOLO VI, Costituzione apostolica Missale Romanum, 3 aprile 1969. Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, n. 34. 21 Ibid., n. 50. 22 Messale romano, riformato a norma dei decreti del Concilio ecumenico vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, proemio 9. 20


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2.2.2. Un sacerdozio unico per il culto Il secondo principio, vero cardine attorno al quale ruota l’intera Costituzione Conciliare, è la liturgia intesa come esercizio del sacerdozio di Cristo e attualizzazione del suo Mistero pasquale attraverso l’azione della Chiesa. Infatti come il Padre ha inviato il Figlio per la salvezza del genere umano (cfr. Gv 3,16; Rm 8,32; 1Gv 4,9), così il Figlio ha associato a sé gli Apostoli e, pieni di Spirito Santo (cfr. Gv 20,21-22), li ha inviati nel mondo (cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,15), perché continuassero dappertutto visibilmente la sua opera salvifica. Gli apostoli, infatti, dopo l’effusione del Paraclito il giorno di Pentecoste, hanno proclamato la parola e santificato i fedeli con i sacramenti pasquali del Battesimo, della Confermazione e dell’Eucaristia (cfr. At 2,14 e ss.). Essi, dunque, non sono stati inviati soltanto a proclamare l’annunzio della Risurrezione, ma anche ad attuare «per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, sui quali s’impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annunziavano»23, rendendo così evidente che «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche»24. Nel nostro tempo è stata ormai compresa la genuina natura di tali azioni liturgiche, come sono descritte nella Costituzione conciliare: «Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della missione sacerdotale di Gesù Cristo, mediante la quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale»25. La liturgia quindi, in quanto azione di Dio, è opus Dei: opera del Padre per Cristo nello Spirito; in quanto l’uomo agisce attraverso segni sensibili di carattere cristologico, ecclesiologico e antropologico è simultaneamente opus hominis: azione dell’uomo che, per mezzo di riti, nello Spirito di Cristo, Sommo Sacerdote, rende ogni onore e gloria al Padre e si impegna a cooperare al suo disegno salvifico (cfr. 2Cor 5,20). 23

Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, n. 6. Ibid., n. 7. 25 L.c. 24


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Il sacerdozio di Cristo è dunque alla base sia del sacerdozio universale che del sacerdozio ministeriale. Essi si comprendono solo nella loro mutua relazione in rapporto al Sommo Sacerdote che è Cristo. Il Messale del 1962 fa iniziare l’Ordo Missæ con il seguente testo: «Sacerdos paratus cum ingreditur ad altare, facta illi debita reverentia, signat se signo crucis a fronte ad pectus, et nisi peculiari rubrica aliter statuatur, clara voce dicit: In nomine Patris …»26. Il Messale di Paolo VI da inizio alla celebrazione della forma tipica della Messa con il seguente testo: «Quando il popolo è radunato, mentre il sacerdote fa il suo ingresso con il diacono e i ministri, si inizia il canto d’ingresso»27. Nel testo del Messale del 1962 si sottolinea solamente la figura del sacerdote che celebra, nel Messale di Paolo VI si sottolinea anzitutto la presenza dell’assemblea radunata, e subito dopo del sacerdote e dei ministri. Questo testo ci insegna che per comprendere pienamente il “dono” e il “compito” del sacerdozio ministeriale è necessario considerarlo nell’ambito della comunità ecclesiale. Il sacerdozio ministeriale si comprende pertanto solo in relazione con il sacerdozio universale e cioè con il sacramento del Battesimo che costituisce il fondamento e pertanto rende possibile il sacramento dell’Ordine in seno e a servizio dell’assemblea. CONCLUSIONE I Padri del Concilio hanno stabilito nella Sacrosanctum Concilium i principi della riforma liturgica allo scopo di provvedere ad un migliore adattamento della liturgia alle esigenze di oggi. Essi tuttavia, nell’assolvere tale compito, hanno guardato alle necessità degli uomini e delle donne del nostro tempo non allo scopo di creare una nuova liturgia ma per dare inizio ad una nuova primavera dell’albero secolare della Chiesa. 26 27

Missale Romanum, anno 1962 promulgatum, 216 Messale Romano, Ordinamento generale, 20003, n. 47.


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Essi inoltre nel superare il fissismo delle rubriche e della legislazione liturgica28 hanno determinato anche il superamento della centralizzazione che da secoli caratterizzava la vita della Chiesa. La Sacrosanctum Concilium infatti attraverso la celebrazione della liturgia ci ha invitato a riscoprire la Chiesa locale, come Chiesa comunionale, composta di vari uffici e ministeri, superando così il tipo di Chiesa centralizzata che aveva caratterizzato il periodo prima del Concilio. L’aspetto celebrativo Mi sembra utile fare una considerazione a riguardo dell’aspetto celebrativo. Se si prendono in esame i numeri 26-39 della Costituzione, dove sono fissati i criteri della riforma liturgica, ci si rende conto che la riforma ha avuto al suo centro l’aspetto celebrativo: il mistero salvifico e cioè l’agire di Dio in Cristo si dà oggi all’uomo nella Chiesa in quanto è celebrato. Inoltre la Sacrosanctum Concilium ricorda sempre il rapporto tra liturgia e Chiesa locale in quanto riunita in assemblea che agisce nella celebrazione e che si costituisce nella celebrazione. La Chiesa dunque ha una natura liturgica ed è presente dove c’è il popolo convocato da Dio. L’assemblea è la vera Chiesa, il vero spazio e il vero luogo dove si attua l’evento della salvezza. Se la Chiesa come assemblea si costituisce e vive in forza della relazione che ha con Dio e tra le persone che la compongono, “comunione con Cristo e tra di noi”, ne consegue la necessità su cui tanto ha insistito la Sacrosanctum Concilium della actuosa participatio e anche della pluralità e complementarietà di carismi e ministeri. 28

Che i Padri desiderassero fin da dall’inizio del Concilio un rinnovamento dei riti è attestato dal fatto che proprio su loro richiesta nei riti di chiusura della prima sessione venne dato più spazio alla partecipazione attiva dell’assemblea: “L’osservatore non poteva evitare di pensare involontariamente che la differenza tra la liturgia del giorno di chiusura e quella del giorno dell’apertura costituisse un buon sintomo della riuscita del Concilio. La decisione, presa a seguito della iniziativa dei vescovi, di fare cantare in comune le risposte e le parti fisse della messa di chiusura della prima sessione, l’8 dicembre, da parte di tutte le persone presenti nella basilica non era, da questo punto di vista, un segno incoraggiante?”: J. RATZINGER, Mon Concile Vatican II. Enjeux et perspectives, cit., 56.


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Ascoltare i Papi del Concilio Vorrei concludere con un invito a meditare alcuni testi dei due Papi del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII e Paolo VI, testi che ci richiamano alla Chiesa e necessariamente alla liturgia. Il primo testo è una frase che il Beato Giovanni XXIII amava spesso ripetere: «la Chiesa non è un museo da conservare ma un giardino da coltivare»29. Frase che richiama altre parole del Papa, oggi ancora attuali come cinquanta anni fa: «La vita del cristiano non è una rassegna di antichità. Non si tratta di esaminare un museo od accademia del passato. Ciò, senza dubbio, può essere utile — come giova la visita di antichi monumenti — , ma non basta. Si vive per avanzare, pur facendo tesoro di quanto il passato ci offre, come pratica ed esperienza, per andare sempre più oltre secondo le vie che nostro Signore ci ha dischiuse»30. Ascoltiamo ora alcuni testi di Papa Paolo VI. «La speranza, ch’è lo sguardo della Chiesa verso l’avvenire, riempie il suo cuore e dice com’esso palpiti in nuova e armoniosa attesa. La Chiesa non è vecchia, è antica; il tempo non la piega, e, se essa è fedele ai principi intrinseci ed estrinseci della sua misteriosa esistenza, la ringiovanisce. Essa non teme il nuovo; ne vive. Come un albero dalla sicura e feconda radice, essa estrae da sé ad ogni ciclo storico la sua primavera»31. «La Chiesa prega traendo forza e alimento dal Sacerdozio di Cristo, che si rinnova e prolunga nel sacerdozio ministeriale, e a cui i fedeli hanno anch’essi parte, seppure a diverso titolo; e tutto ciò attraverso la divina liturgia, che è mirabile complesso di “santi segni” per il culto di Dio e per l’educazione alla vera, ricca, autentica spiritualità; la Chiesa prega traendo ispirazione e consolazione dalle Scritture, dai suoi Padri e dai suoi Dottori; la Chiesa prega traendo forza e incoraggiamento dall’esempio dei suoi Santi»32. 29 G. ALBERIGO, Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, in ID. (cur.), Papa Giovanni, Roma-Bari 1987, 230. 30 GIOVANNI XXIII, Udienza generale, 7 novembre 1962, L’Osservatore Romano, 9 novembre 1962. 31 PAOLO VI, Insegnamenti 1969, 995. 32 ID., Insegnamenti VII, 1969, 249.


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Perché riformare la liturgia: i criteri di fondo

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«Sarà la vita liturgica bene curata, bene assorbita nelle coscienze e nelle abitudini del popolo cristiano quella che terrà vigile ed operante il senso religioso nel nostro tempo, così profano e così dissacrato, e che darà alla Chiesa una nuova primavera di vita religiosa e cristiana»33. Ma, domandiamoci, dove si coltiva il giardino della Chiesa? Dove l’albero della Chiesa riceve la linfa che lo fa rifiorire ad ogni primavera? Il Concilio ci ha ricordato che l’immagine più bella della Chiesa che noi possiamo offrire al mondo è quella della celebrazione liturgica nella Chiesa locale. Ai testi dei due Papi del Concilio desidero infine accostare un testo del Papa Benedetto XVI: «Ho ritenuto che far iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari, secondo le parole del Beato Giovanni Paolo II, “non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati e normativi del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa … Sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre”. Io pure intendo ribadire con forza quanto ebbi ad affermare a proposito del Concilio pochi mesi dopo la mia elezione a Successore di Pietro: “se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa»34.

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ID., Insegnamenti VIII, 1970, 341. Lettera Apostolica Porta fidei ,11 ottobre 2011, n. 5.


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LOGOS ANGHELOS. APPUNTI DI CRISTOLOGIA ANGELOMORFICA NEGLI SCRITTI DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA

FRANCESCO ALEO*

INTRODUZIONE La prima riflessione teologica della comunità cristiana primitiva fu ovviamente cristologica1. Essa, concepita e nata nella comunità giudaica o giudeocristiana, era largamente debitrice della concezione messianica giudaica anche se intravedeva nel Figlio dell’uomo un Messia diverso da quello che aspettavano i giudei. Gesù di Nazareth, pur possedendo carismi straordinari, era pur sempre un uomo e la sua vita rimaneva estranea alla divinità del Dio d’Israele. L’esito di questa prima riflessione cristologica viene normalmente denominato “cristologia angelica” (Engelchristologie) oppure “cristologia angelomorfica”, secondo la quale Cristo era un Angelo, in ebraico malak (Dlm). Le tracce di questa cristologia si ritrovano nell’Epistola agli Ebrei (capp. 1-2), in testi apocalittici giudaici come nell’Ascensione d’Isaia ed

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Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Si rinvia a A. GRILLMEIER, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa. Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), Brescia 1982, vol. I, t. I, in particolare, riguardo alla riflessione giudeocristiana, al cap. I, 169-181, sul Cristo Logos ed al cap. II, 202-211, sul Cristo Anghelos. Può essere utile anche E. SCOGNAMIGLIO, Immagini di Gesù Cristo nel cristianesimo primitivo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, 51-55. 1


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in testi cristiani come nel Pastore di Erma2. Databili tra la fine del I, l’inizio e lungo il protrarsi del II secolo, questi testi documentano il costituirsi di un’identità cristiana autonoma dal giudaismo che avvia un aperto confronto con la cultura pagana e registra al suo interno l’esplodere di conflitti teologici, in ispecie cristologici3. Lo studio delle origini e dello sviluppo della cristologia antica, negli ultimi decenni, ha aperto nuovamente la questione dell’influenza dell’angelologia giudaica nel sorgere e nel definirsi della fede della comunità cristiana primitiva in Gesù Cristo, nei primi due secoli dell’era cristiana. In particolare, sotto l’aspetto della persistenza di questa influenza, ci si è rivolti al problema della formazione delle dottrine e del Canone del Nuovo Testamento4. L’opinione di J. Dunn, risalente ad alcuni decenni or sono, secondo la quale gli scrittori neotestamentari non avevano la convinzione che Cristo fosse un angelo, si è imposta negli anni successivi alla pubblicazione del suo studio, fondamentale per la questione

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Sulla cristologia della Lettera agli Ebrei si rinvia all’importante studio di R. BAUCKAM – D. DRIVER – T. HART – N. MACDONALD (edd.), The Epistle to the Hebrews and Christian theology, Grand Rapids 2009; su quella dell’Apocalisse d’Isaia, si rinvia a J. KNIGHT, The Christology of the «Ascension of Isaiah», in Cristianesimo nella Storia, 34 (2013) 2, 465-506; su quella del Pastore di Erma, si rinvia a L. CIRILLO, La christologie pneumatique de la cinquième parabole du “Pastoeur d’Hermas”, in Revue de l’histoire de religions 184 (1973), 25-48. 3 Le Epistolae del Corpus giovanneo, sono il primo documento attestante una controversia cristologica nella Chiesa primitiva ed in particolare in una comunità quale quella giovannea che ama dotarsi di un linguaggio iniziatico, ammantato di un certo esoterismo, cfr. I Gv 1,5;2,12 e ss. e II Gv 7, dove alcuni non credono che Cristo sia venuto nella carne. 4 M. WERNER, Die Entstehung des christlichen Dogmas, problemgeschitliche dargestellt. Mit einer Bildbeilage, Bern 1941 e W. MICHAELIS, Zur Engelchristologie im Urchristentum: Abbau der Konstruktion Martin Werners, Bern 1942, negli anni della II Guerra Mondiale, diedero luogo ad un acceso dibattito che dalla parte di Werner nasceva dalla sopravvalutazione di una presunta “messianologia angelica” giudaica che avrebbe influenzato Paolo di Tarso, respinta recisamente da Michaelis. Per Werner, infatti, i giudeocristiani ritenevano che Cristo fosse un angelo o una creatura celeste, inviata da Dio nel mondo; mentre Michaelis ha dimostrato che l’appellativo di «angelo» conferito a Cristo, nei testi che ce lo testimoniano, non implica affatto che Cristo fosse considerato dai giudeocristiani una creatura.


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che ci proponiamo di affrontare nel nostro contributo5. Tuttavia, è innegabile la presenza nei testi del Canone neotestamentario ed in altri testi del cristianesimo primitivo di un linguaggio e di un immaginario afferenti a Gesù Cristo, derivanti dall’angelologia giudaica, al fine di descrivere gli eventi riguardanti il Verbo incarnato e la sua opera, sulla terra e nei cieli6. Nel corso del II secolo dell’era cristiana, l’opera di Giustino e degli apologisti non si limitò semplicemente all’apologetica, alla spiegazione ed alla dimostrazione della divinità di Cristo ai giudei oppure alla difesa del cristianesimo e dei cristiani dalle accuse rivolte loro dai pagani, ma consistette anche nell’iniziare una prima riflessione sul mistero del Verbo incarnato che assunse il formarsi della teologia del Logos o Logostheologie. Questa, assumendo nel contempo i tratti della filosofia pagana, in specie stoica e soprattutto platonica, assunse anche i tratti della cultura biblica veterotestamentaria e della riflessione giudaica, considerando e soffermandosi sulla “teologia angelica” od Engeltheologie. L’esito della cristologia angelica convisse per vari decenni con la teologia del Logos, presso gli scrittori cristiani del II secolo, fra i quali si annovera Clemente d’Alessandria. Lo scopo che ci si prefigge nel presente

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J.D.G. DUNN, Christology in making, London 1980. Per citare soltanto alcuni studi o saggi che hanno aperto la questione ed il dibattito successivo sul Cristo Angelo nei testi del giudeocristianesimo e del cristianesimo primitivo, si rinvia a A. BAKKER, Christ an Angel?, in Zeischrift für Neutestamentliche Wissenschaft XXXII (1933), 255265 ed a J. BARBEL, Christos Angelos, Bonn 1941. Per quanto riguarda la “cristologia angelomorfica” od Engelchristologie ed i problemi ad essa relativi, riguardo ai termini impiegati nei testi giudaici, neotestamentari e cristiani, in particolare in Clemente d’Alessandria, si rinvia a C.A.M. OEYEN, Eine früchristliche Engel pneumatologie bei Klemens von Alexandrien, Bonn 1966; L. T. STUCKENBRUCK, Angel veneration and Christology: A study in early Judaism and in the Christology of the Apocalypse of John, Tübingen 1995; J. KNIGHT, Disciples of the Beloved One: The Christology, social setting and theological context of the Ascension of Isaiah, Sheffield 1996; C.A. GIESCHEN, Angelomorphic Christology: Antecedents and early evidence, Leiden 1998; D.D. HANNAH, Michael and Christ: Michael traditions and angel Christology in early Christianity, Tübingen 1999. 6 Per ulteriori informazioni sulla teologia e l’angelologia giudeocristiane, soprattutto sugli autori e sui testi che ce ne parlano e la testimoniano, vd. J. DANIELOU, La teologia del giudeocristianesimo, Bologna 1998, 215-252.


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contributo consiste nel rinvenire i termini ed i tratti di una cristologia angelomorfica negli scritti di Clemente d’Alessandria e di passare in rassegna alcuni fra i testi più importanti e significativi che ce ne parlano e la testimoniano. 1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA NELLE FONTI ANTICHE Le notizie più numerose e più sicure riguardanti la vita e le opere di Tito Flavio Clemente le apprendiamo da Eusebio di Cesarea e da Epifanio di Salamina, entrambi pienamente appartenenti al IV secolo7. Incerta appare essere sia la sua provenienza dal paganesimo che la sua città natale8. Dallo stesso Clemente apprendiamo che viaggiò molto, incontrando vari maestri che egli enumera negli Stròmata: «Fra costoro, uno era Ionico, dell’Ellade, altri della Magna Grecia, un altro ancora della Celesiria, uno dell’Egitto, altri dell’Oriente; di lì, uno (era) Assiro, l’altro, per origine, Ebreo di Palestina: m’imbattei nell’ultimo (mio maestro), il primo, però, per capacità (dynàmei) e dopo avergli dato la caccia (theràsas), essendosi nascosto, mi fermai allora in Egitto. Era costui ape sicula che coglieva i fiori dal prato profetico ed apostolico, che inge-

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Su Clemente d’Alessandria, la sua vita e le sue opere, vd. C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1996, I,360-383; S. DÖPP – W. GEERLINGS (a cura di), Dizionario di Letteratura cristiana antica, Roma 2006, 200-203. Sui problemi, inerenti la sua vita e la sua formazione culturale ed intellettuale, vd. G. LAZZATI, Introduzione allo studio di Clemente Alessandrino, Milano 1939; C. MONDÉSERT, Clement d’Alexandrie. Introduction à l’étude de sa pensée religieuse à partir de l’Ecriture, Paris 1944; S. LILLA, Clement of Alexandria. A study in Christian Platonism and Gnosticism, London 1971. 8 Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Praeparatio evangelica, II,2,60, in PG 21,120 A, quale uomo che aveva «rifiutato prontamente l’errore per essere dalla parte del Logos salvifico». La conoscenza dei Misteri pagani, mostrata da Clemente nei suoi scritti, quali il Protreptikòs, in realtà, non è così approfondita da comprovare la sua ascendenza religiosa pagana e la sua provenienza da Atene, cfr. S. DÖPP – W. GEERLINGS (a cura di), Dizionario di Letteratura cristiana antica, 200. Peraltro, cfr. EPIFANIO DI SALAMINA, Panarion, 32,6, in PG 41,551 B, per il quale, «alcuni dicono che Clemente è alessandrino altri ateniese».


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nerò (eneghénnese) nelle anime di coloro i quali lo ascoltavano (akroménon) un perenne tesoro di conoscenza (gnòseos)»9.

Al centro della testimonianza di Clemente non stanno tanto le dottrine o le scuole filosofiche dell’antichità, quanto piuttosto la figura dei maestri che ha avuto l’opportunità di incontrare10. Clemente rievoca, a beneficio dei suoi lettori e come motivo introduttivo alla lettura ed alla comprensione degli Stròmata, la ricerca personale di un maestro, mossa e sostenuta da una domanda implicita e non ancora chiaramente espressa, quale ricercatore della verità, allo scopo di divenire vero gnostico. È una ricerca la sua consistente nel vagare per il Mediterraneo orientale, fino all’incontro con l’«ape sicula», il solo maestro o didàskalos, ritenuto capace di generare in lui la vera conoscenza o gnosis. Dalle parole di Clemente, la cui nascita si può collocare intorno alla metà del II secolo, emerge chiaramente la particolarità dell’incontro con quest’ultimo didàskalos; particolarità evidenziata nell’ascolto di coloro i quali a lui si rivolgevano. A differenza degli altri maestri da lui incontrati nelle sue peregrinazioni, il didàskalos che Clemente incontra ad Alessandria si mostra capace di

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CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Les Stromates. Stromate I. Traduction de C. Mondesert et M. Caster, Paris 1951 (Sources Chrétiennes 30), I,11,2,51: tou/twn oÁ me\n e)piì th=j ¸Ella/doj, o( ¹Iwniko/j, oiá de\ e)piì th=j Mega/lhj ¸Ella/doj th=j koi¿lhj qa/teroj au)tw½n Suri¿aj hÅn, oÁ de\ a)p'Ai¹gu/ptou, aÃlloi de\ a)na\ th\n a)natolh/n: kaiì tau/thj oÁ me\n th=j tw½n ¹Assuri¿wn, oÁ de\ e)n Palaisti¿nv ¸EbraiÍoj a)ne/kaqen: u(sta/t% de\ perituxwÜn duna/mei de\ ouÂtoj prw½toj hÅn a)nepausa/mhn, e)n Ai¹gu/pt% qhra/saj lelhqo/ta. Sikelikh\ t%½ oÃnti hÅn me/litta profhtikou= te kaiì a)postolikou= leimw½noj ta\ aÃnqh drepo/menoj a)kh/rato/n ti gnw¯sewj xrh=ma taiÍj tw½n a)krowme/nwn e)nege/nnhse yuxaiÍj. Si rinvia a CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia.

Introduzione di M. RIZZI, traduzione di G. PINI, Milano 2006 (Letture cristiane del primo millennio 40), I,1,11,2,20-21, per la versione italiana. 10 La testimonianza di Clemente richiama quella di Giustino nel Dialogus cum Triphone, della prima metà del II secolo. All’inizio dell’opera, Giustino, dinanzi al suo interlocutore giudeo, evoca il proprio itinerario giovanile, attraverso le filosofie del suo tempo: stoicismo, aristotelismo, pitagorismo, platonismo, per approdare infine al cristianesimo, in cui trovò la sola filosofia sicura ed utile. Si rinvia a S. GIUSTINO, Dialogo con Trifone. A cura di G. VISONÀ, Milano 1988 (Letture cristiane del primo millennio 5), per la versione italiana.


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porre un insegnamento diverso da quello degli altri maestri, i quali quasi sicuramente — com’era d’uso nelle scuole dell’antichità greco — romana ed ellenistica — esigevano un compenso dai loro allievi. L’insegnamento di questo maestro diverso dagli altri era “acroamàtico”, tale che l’ascolto (akròasis) era il segno ed il luogo di una relazione profonda tra il discepolo ed il suo maestro, finalizzata al perseguimento ed al raggiungimento della vera gnosis. È proprio in questa relazione d’ascolto che consiste la preziosità dell’apporto dell’insegnamento “acroamàtico”, conosciuto ad Alessandria, in ordine alla formazione personale e cristiana di Clemente. In ordine invece alla sua metodologia di studio e di ricerca, il tratto “acroamàtico” dell’insegnamento (didaskalìa) di Clemente si sperimenterà e si condurrà, da quel momento, sul «prato profetico e apostolico», ovvero sugli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Eusebio di Cesarea, nella sua Historia Ecclesiastica, ci informa che l’epiteto di «ape sicula» apparteneva a Panteno11. Malgrado la scarsità di notizie intorno alla vita ed all’opera di Clemente, Eusebio ci informa che: «A quel tempo, succeduto a Panteno, Clemente assumeva la guida della catechesi di Alessandria, dove, fra i suoi frequentatori (phoitetés), vi era Origene. Clemente, commentando la materia degli Stròmata, pone nel primo libro una lista cronologica, comprendente il periodo di tempo sino alla fine del regno di Commodo, tanto che appare evidente come egli vi s’impegni negli ultimi ritocchi, sotto il regno di Severo, il cui periodo racconta la presente opera»12.

11 Cfr. EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII). Traduction de G. BARDY, Paris 1955 (Sources Chretiénnes 41), V,11,2,40, il quale ricorda Panteno, menzionato da Clemente d’Alessandria nelle Ypotypòseis e nel primo libro degli Stròmata. Su Panteno, ancora più scarse sono le notizie fornite dal vescovo di Cesarea, di lui dice soltanto che si recò in India, cfr. IBIDEM, V,10,3,40. L’aggettivo “siculo” fa pensare che egli provenisse dalla Sicilia. 12 EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), VI,94: Pa/ntainon de\

Klh/mhj diadeca/menoj, th=j kat' ¹Aleca/ndreian kathxh/sewj ei¹j e)keiÍno tou= kairou= kaqhgeiÍto, w¨j kaiì to\n ¹Wrige/nhn tw½n foithtw½n gene/sqai au)tou=. th/n ge/ toi tw½n Strwmate/wn pragmatei¿an o( Klh/mhj u(pomnhmatizo/menoj, kata\ to\ prw½ton su/ggramma xronikh\n e)kqe/menoj grafh/n, ei¹j th\n Komo/dou teleuth\n perigra/fei tou\j xro/nouj, w¨j eiånai safe\j oÀti kata\ Seuh=ron au)t%½ pepo/nhto ta\


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Eusebio, pur mostrandosi lettore attento di Clemente e studioso della sua biografia, fino a citare lunghi brani delle sue opere, induce gli studiosi moderni a vagliare con cautela le notizie contenute nella sua Historia Ecclesiastica. Tuttavia, il vescovo di Cesarea ci fornisce una datazione relativamente sicura nella biografia di Clemente d’Alessandria, vedendolo impegnato nella composizione e nella stesura finale dei suoi Stròmata, sotto il regno di Commodo e sotto quello di Settimio Severo. Si può ragionevolmente ritenere che l’espressione «a quel tempo», si riferisca all’ultimo decennio del II secolo, durante il quale Clemente attese alla stesura degli Stròmata. Panteno, a dire di Eusebio, si sarebbe occupato della catechesi volta alla preparazione dei catecùmeni nella chiesa di Alessandria13. Clemente, ormai stabilitosi in quella città, successe a Panteno nella direzione della catechesi di quella chiesa. La catechesi di Alessandria sarebbe stata composta così di corsi liberi, diretti prima da Panteno, poi da Clemente; sotto quest’ultimo, Orìgene vi avrebbe frequentato i corsi da catecùmeno. Di lì a poco, il vescovo di Alessandria, Demetrio, avrebbe affidato la formazione dei catecùmeni di Alessandria proprio ad Orìgene, come ci informa Eusebio, per il quale: «all’età di diciotto anni fu posto a capo della scuola (didaskaléion) di catechesi»14. Dalle scarne notizie di spouda/smata, ou tou\j xro/nouj o( parwÜn i¸storeiÍ lo/goj. Il vescovo di Cesarea daterebbe così il compimento degli Stròmata verso la fine del regno di Commodo. 13 Cfr. EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), V, 10,40. Nonostante Eusebio affermi che Panteno dirigesse il Didaskale/ion, non pare possibile identificare quest’ultimo con la celebre istituzione, nota come la scuola catechetica di Alessandria. Eusebio proietta al tempo di Panteno e di Clemente una situazione del suo tempo, quando il Didaskale/ion, da Orìgene in poi, era diventato una vera scuola catechetica. Sulla scuola catechetica di Alessandria, vd. G. BARDY, Aux origines de l’ecole d’Alexandrie, in Revue de Sciences Religieuses 27 (1937), 65-90; A. VAN DEN HOECK, The “Catechetical” School of Early Christian Alexandria, in Harvard Thelogical Review 90 (1997), 59-87. 14 EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica (V-VII), VI,3,3,87: eÃtoj d' hÅgen o)ktwkaide/katon kaq' oÁ tou= th=j kathxh/sewj proe/sth didaskalei¿ou. È solo con Orìgene, quindi, che si può parlare di una vera e propria scuola o Didaskale/ion ad Alessandria; tuttavia, nonostante la testimonianza di Eusebio, non sembra probabile che Orìgene sia stato allievo di Clemente, cfr. C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana, cit., I, 361.


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Eusebio, possiamo concludere che Clemente ebbe incarichi di una certa responsabilità nella chiesa alessandrina, ma molto probabilmente non era presbitero. Nell’anno 202/203, il verificarsi di atti persecutori nei confronti dei cristiani sotto Settimio Severo, lo costrinse a lasciare la città15. Secondo un’altra opinione, Clemente si sarebbe allontanato da Alessandria a motivo di attriti con il vescovo Demetrio16. Non conosciamo nemmeno l’anno preciso della sua morte che probabilmente sarebbe avvenuta intorno al 22017. Dalle scarse notizie in nostro possesso su Clemente d’Alessandria e sulla sua formazione, possiamo trarre la conclusione che fu Panteno, questo Didàskalos, di probabile origine siciliana, ad insegnargli la vera gnosis. Egli, però, non «insegnava» semplicemente, bensì «generava» nelle anime di chi lo ascoltava, la gnosis. L’impiego del verbo enghennào indica il «generare» alla vita, rientra nel linguaggio iniziatico e nel contesto catecumenale e catechetico del Didaskaléion di Alessandria. L’insegnamento di Panteno, diversamente da quello degli altri maestri, secondo il ricordo di Clemente, prendeva vita dalla gnosis, generava la gnosis ed attraverso la gnosis portava alla vita chi lo ascoltava, quale tesoro perenne (akeràton), per la salvezza delle anime. Questo insegnamento “acroamàtico”, diverso da quello degli altri maestri, convince Clemente a rimanere ad Alessandria; è l’esperienza dell’incontro con questo maestro diverso dagli altri, che induce Clemente a fermarsi nella sua ricerca. Il verbo therào che significa «dare la caccia», «cacciare», «inseguire», vuole render ragione di una ricerca appassionata, volta alla ricerca di un insegnamento e di un maestro come Panteno. L’epiteto di sikeliké mélissa o «ape sicula», riferito a Panteno, può suggerire il metodo di ricerca da lui perseguito. Quale ape su un prato che sceglie e sugge da fiori diversi svariati pollini, per produrre il miele migliore; allo stesso modo, il vero Didàskalos, quale Panteno, 15

Sul carattere della persecuzione contro i cristiani ad Alessandria sotto Settimio Severo, cfr. M. SORDI, I cristiani e l’Impero romano, Milano 1998, 94-95. 16 Cfr. S. DÖPP – W. GEERLINGS, Dizionario di Letteratura cristiana, cit., 200. 17 Sulle fonti che ci parlano della morte di Clemente come già avvenuta da anni, vd. ibid., 201 e C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana, cit., I, 36.


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«sul prato profetico ed apostolico» — ovvero sui testi dell’Antico e del Nuovo Testamento — sceglie ed assimila gli insegnamenti migliori dei Profeti e degli Apostoli, per produrre la vera e divina gnosis. Questa appare dunque essere frutto, innanzitutto, di ascolto di veri maestri, quindi di dialogo con essi e di costante ricerca18. La formazione culturale e filosofica, variegata e poliedrica, di Clemente, nonché il suo contatto con Panteno e l’ambiente cosmopolita di Alessandria induce a pensare che vari e complessi siano stati gli apporti alla formazione della sua cristologia o degli enunciati attraverso i quali passa la formulazione di Gesù Cristo quale Angelo nei suoi scritti. In particolare, la menzione di un significativo contatto, tra gli altri, con quel maestro «ebreo di Palestina» che precede l’incontro con Panteno ci metterebbe sulle tracce di un insegnamento giudaico o rabbinico che potrebbe essere confluito nella successiva didaskalìa esercitata e compiuta da Clemente nel Didaskaléion di Alessandria. Da questi esigui riferimenti si può presumere il confluire nella formazione di Clemente di apporti filosofici delle scuole ellenistiche del suo tempo, dell’apporto della tradizione giudaica e dell’apporto dell’insegnamento catecumenale di Panteno che si rifà agli scritti dell’Antico e del Nuovo testamento ma che, connettendosi alla tradizione degli Apostoli, non trascurerebbe quegli scritti che si rifanno alla tradizione apostolica più antica e giudeocristiana. Infine, l’insegnamento di Panteno come quello successivo di Clemente non doveva essere immune dall’apporto e dal contributo della riflessione e dell’insegnamento dei maestri gnostici, presenti ad Alessandria a quel tempo. 2. IL LOGOS FIGLIO IN CLEMENTE D’ALESSANDRIA È fuor di dubbio che l’ambiente socio-culturale di Alessandria abbia esercitato un influsso determinante nello sviluppo intellettuale, 18 Su Scrittura, Gnosi e mistica nel Cristianesimo antico, possono essere utili i seguenti studi di L. BOUYER, Il Figlio eterno: teologia della Parola di Dio e cristologia, Milano 1977; Gnosis la conoscenza di Dio nella Scrittura, Città del Vaticano 1991; Sophia ou le monde en Dieu, Paris 1994; La Bibbia e il Vangelo: il senso della Scrittura: dal Dio che parla al Dio fatto uomo, Magnano 2007.


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nella riflessione teologica di Clemente e nella stesura dei suoi scritti19. L’esistenza di comunità cristiane ad Alessandria e negli immediati dintorni è testimoniata dai frammenti papiracei rinvenuti, risalenti al II secolo d.C. Probabilmente, il cristianesimo si diffuse inizialmente proprio in ambiente giudaico e solo in un secondo tempo cominciò a far presa sui pagani, dapprima tra le classi inferiori ed i ceti meno abbienti, successivamente, presso individui appartenenti agli strati più elevati socialmente e culturalmente. Non si spiegherebbe allora un’opera di Clemente d’Alessandria quale il Quis dives salvetur, destinato proprio ai cristiani abbienti della società urbana alessandrina. Altri scritti di Clemente, quali per esempio gli Stròmata, rilevano in particolare il dato dell’inculturazione di elementi filosofici nel cristianesimo alessandrino. Studi recenti fanno emergere dalle fonti antiche che ci parlano di questo centro cosmopolita, multietnico e multireligioso dell’antichità, il quadro di un sistema complesso di tradizioni di pensiero tra loro molto simili, sotto il profilo dei problemi filosofici, teologici, etici, come testimoniano peraltro, le numerose fonti greche ed ellenistiche utilizzate da Clemente nel Protreptikòs e nel Paidagogòs, ma anche giudeo-ellenistiche, insieme con l’escussione e la discussione di quelle gnostiche. Ad Alessandria convivevano, quindi, scuole di carattere ora più filosofico ora più religioso, ma di fatto non troppo diverse tra loro20. Clemente, una volta giunto ad Alessandria, ebbe così la possibilità di formarsi in un ambiente plurale o plurali19 Non occorre ricordare che Alessandria era anche il centro culturale dei giudei ellenizzanti, dispersi in tutto l’Oriente in seguito alla diaspora; è in questo centro che si avvertì la necessità di tradurre in greco il Pentateuco, realizzando la versione greca della LXX o Septuaginta. Al riguardo, un testo molto importante è la Lettera di Aristea a Filocrate che ci informa sulla comunità giudaica alessandrina nonché sulle condizioni e le esigenze nelle quali e per le quali sorse la Septuaginta. Vd. ARISTÉE, Lettre d’Aristée. Traduction de A. PELLETIER, Paris 1962 (Sources Chretiénnes 89). Sulla celebre Biblioteca di Alessandria, su quella presente nel Serapeo e sulle controverse vicende nelle fonti storiche che ce ne parlano, vd. L. CANFORA, La Biblioteca scomparsa, Palermo 1991; sull’impianto urbanistico della città antica, vd. C. HAAS, Alexandria in Late Antiquity: topography and Social Conflict, Harvard 2006. 20 Vd. A. JAKAB, Ecclesia Alexandrina. Évolution sociale et istitutionelle du christianisme alexandrine (IIe-IIIe siècles), Lang-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt-New York-Oxford-Wien 2001.


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stico, imparando a conoscere molto bene le correnti e le dottrine, soprattutto quelle gnostiche, che egli confuta nei suoi scritti. Si può quindi parlare di Alessandria come del luogo privilegiato per il formarsi ed il realizzarsi di un sincretismo culturale, filosofico, religioso, di cui era permeato il giudeo-ellenismo, come pure la tradizione platonica e lo gnosticismo21. L’esito ed il frutto di questo incontro con le molteplici influenze dell’ambiente alessandrino negli scritti di Clemente fu la teologia del Logos. A differenza di Giustino e degli altri apologisti, i quali parlano di preferenza del Figlio, Clemente d’Alessandria parla di Logos, designando con questa denominazione il Verbo incarnato22. Come arrivava a sostenere il Danielou, quella di 21 Clemente si sarà servito certamente nella composizione e nella redazione delle sue opere di antologie e di compilazioni, allora molto in uso nell’antichità, specialmente ad Alessandria. Sull’uso delle citazioni letterarie e poetiche nelle opere degli autori pagani del II secolo, quali ad esempio Plutarco di Cheronea, è illuminante il saggio di P. CARRARA, Plutarco ed Euripide: alcune considerazioni sulle citazioni euripidee in Plutarco (De aud. Poet.), in Illinois Classical Studies XIII (1988) 2, 447-455. Quasi tutti gli studiosi, però, non condividono l’opinione di J. GABRIELSSON, Uber die Quellen des Klemens von Alexandria, Uppsala 1906, 406, per il quale Clemente fu un compilatore acritico di citazioni di autori classici. Diversa, infatti, articolata e puntuale, è l’opinione di D. DAINESE, Passibilità divina. La dottrina dell’anima in Clemente Alessandrino, Roma 2012, in particolare nella sua Conclusione generale, sulle fonti giudeocristiane e gnostiche, utilizzate da Clemente, alle pp. 227-231. Sull’insegnamento nelle scuole dell’età ellenistica e sull’influenza che esse hanno avuto sulla formazione di una paide/ia cristiana, vd. W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze 1966; A. QUACQUARELLI, Le fonti della Paideiéa ante nicena, Brescia 1967; ID., Scuola e cultura dei primi secoli cristiani, Brescia 1976; E. OSBORN, Ethical Patterns in Early Christian Thought, Cambridge 1978; P.L. DONINI, Le scuole, l’anima, l’impero. La filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1982; M. MAZZA – C. GIUFFRIDA (a cura di), La trasformazione della cultura nella Tarda Antichità. Atti del Conv. (Catania Univ. degli St., 27 sett. – 2 ott. 1982), I-II, Roma 1985; A. GIARDINA (a cura di), Società romana e impero tardo antico, IV (Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura), Roma – Bari 1986; P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2005. Vd. anche F. ALEO, L’educazione classica greca antica e la cultura cristiana in Basilio di Cesarea. La relazionalità come forma educativa, in Ho Theologos XXVIII (2010) 2, 283-291. 22 Sulla cristologia di Clemente d’Alessandria, vd. A. GRILLMEIER, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, cit., 336-343; sulla cristologia di Giustino e degli apologisti, vd. M. SIMONETTI, Il problema dell’unità di Dio da Giustino a Ireneo, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, XXII (1986) 2, 201-240, in particolare, alle pp. 204-225.


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Logos è in Clemente la denominazione privilegiata di cui è debitore verso Filone d’Alessandria (30 a.C. – 45 d.C.)23. In realtà, Logos indica pure la denominazione privilegiata del Prologo giovanneo; denominazione di un concetto accolto e prediletto nella filosofia greca che ci mette sulle tracce proprio dell’ambiente culturale alessandrino, come ci induce a fare anche l’Epistola agli Ebrei, scritta pare proprio ad Alessandria, verso la fine del I secolo, il cui autore lascia scorgere l’esistenza di un certo legame tra la teologia e l’esegesi alessandrina. Si può quindi ritenere che già nel Vangelo secondo Giovanni abbiamo una testimonianza dell’incontro tra il cristianesimo e lo spirito dell’ellenismo. Tuttavia, il dato della rivelazione evangelico e giovanneo del Logos fattosi carne è del tutto estraneo a Filone24. Ripercorrere la via per la quale Clemente d’Alessandria sia giunto a parlare del Logos, appropriandosi di termini filosofici per designare le operazioni divine attribuite al Figlio, potrebbe aiutarci a comprendere in qual modo persista accanto a quella di Logos anche la denominazione di Anghelos. Secondo Danielou, è Filone d’Alessandria ad identificare il principio ordinatore del cosmo con il Logos25. Clemente, nel Protreptikòs, afferma: «E questo canto incorrotto sostegno (éreisma) di tutto il creato e armonia dell’universo, che si estese dal centro alle estremità e dalle estremità al centro, armonizzò tutto il creato, non secondo la musica tracia che è simile a quella di Iubal, ma secondo la volontà paterna di Dio, che David cercò 23

Cfr. J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Bologna 1975, 429. Cfr. A. GRILLMEIER, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, cit., vol. I, t. I, 176-177. 25 Cfr. J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, cit., 430, il quale, riguardo alla ricorrenza di lo/goj in Clemente, cita FILONE D’ALESSANDRIA, De plantatione, 2,8: lo/goj de\ o( a)i¿dioj qeou= tou= ai¹wni¿ou to\ o)xurw¯taton kaiì bebaio/taton eÃreisma tw½n oÀlwn e)sti¿n, ove si parla del lo/goj eterno di Dio, sostegno o eÃreisma dell’universo. Per il testo filoniano citato da Danielou, cfr. PHILON D’ALEXANDRIE, De Plantatione. Traduction de J. POUILLOUX, Paris 1963 (Oeuvres de Philon d’Alexandrie 10), versione francese con testo greco a fronte. Un’altra opera di Filone in cui si parla del lo/goj divino come principio ordinatore e prosecutore della creazione ed in particolare come divisore è l’Heres, cfr. FILONE D’ALESSANDRIA. L’erede delle cose divine. Saggio introduttivo di G. REALE, prefazione, traduzione, note e apparati di R. RADICE, Milano 1994 (Testi a fronte 12), 133-140,123-127. 24


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di uguagliare. Il Logos di Dio che discendeva da David ed esisteva prima di lui, … .»26.

Ciò che qui più interessa notare sono l’affermazione della filiazione del Logos, con la sua provenienza da Dio Padre o più precisamente dalla sua volontà paterna, quindi della sua preesistenza. Sbaglieremmo nel ricercare nei testi di Clemente un’affermazione netta e precisa della generazione divina del Logos dal Padre; siamo in presenza, piuttosto, dell’esito di una prima riflessione teologica assumente tratti filosofici e spirituali dagli scritti di Platone e del Platonismo medio. Il Logos è assimilato al canto di Dio Padre, creatore di tutto l’universo che sorregge e dispensa la sua armonia ed il suo ordine per tutte le cose create27. Non troveremmo qui un’affermazione dichiarata della consustanzialità con il Padre che anzi è estranea alla riflessione clementina come del resto a quella degli apologisti28. L’immanenza del Logos in quanto Figlio di Dio incarnato nel mondo sarà mantenuta nel rispetto della sua divinità e della sua appartenenza al Padre, sotto 26 CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique. Traduction de C. MONDÉSERT, Paris 1949 (Sources Chretiénnes 2), I,V,2-3,57-59: Kaiì dh\ to\ #Åsma to\ a)kh/raton, eÃreisma

tw½n oÀlwn kaiì a(rmoni¿a tw½n pa/ntwn, a)po\ tw½n me/swn e)piì ta\ pe/rata kaiì a)po\ tw½n aÃkrwn e)piì ta\ me/sa diataqe/n, h(rmo/sato to/de to\ pa=n, ou) kata\ th\n Qr#/kion mousikh/n, th\n paraplh/sion ¹Iouba/l, kata\ de\ th\n pa/trion tou= qeou= bou/lhsin, hÁn e)zh/lwse Dabi¿d. ¸O de\ e)k Dabiìd kaiì pro\ au)tou=, o( tou= qeou= lo/goj, … . Si rinvia a

CLEMENTE ALESSANDRINO. Il Protrettico. Introduzione, traduzione e note a cura di F. MIGLIORE, Roma 2004 (Testi patristici 179), I, 5,2-3,52-53, per la versione italiana. Nel passo clementino ricorre il termine eÃreisma, apax presente soltanto nel De Plantatione di Filone con il cui passo, ove è presente, si riscontrano significative analogie pressoché letterali, cui rinviamo per una lettura più attenta. Ovviamente, la prospettiva filosofica sia di Filone che di Clemente è platonica, in particolare quella presente nel Timeo, vd. D.T. RUNIA, Philo of Alexandria and The Timaeus of Plato, Leiden 1986. 27 Sul lo/goj in Filone d’Alessandria, si rinvia a B. MONDIN, Filone e Clemente, Roma 1984, in particolare, alle pp. 64-69. 28 D’altra parte, anche l’apologista Giustino dà luogo ad ambiguità, quando si evince in certe sue espressioni il Lo/goj come eÃteroj (éteros), o l’«altro», nel senso di «diverso» da Dio, riferito al Figlio rispetto al Padre, cfr. Dialogus cum Tryphone, 55, in PG 6,595-596A, in cui Giustino professa dinanzi al giudeo Trifone la sua fede «in un altro Dio accanto al creatore di tutte le cose», cfr. M. SIMONETTI, Il problema dell’unità di Dio da Giustino a Ireneo, cit., 210.


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l’aspetto dell’amore di questi disposto a donare il Figlio, il quale a sua volta dona sé stesso per amore dell’umanità. A conferma di ciò, nel Quis dives salvetur, leggiamo questo bellissimo passo clementino: «Guarda i misteri dell’amore e allora contemplerai il seno del Padre che soltanto l’unigenito Figlio di Dio ha manifestato (cfr. Gv 1,18). È anche lui stesso il Dio amore (cfr. Gv 4,8.16) e da amore per noi fu catturato. E, mentre l’ineffabilità di lui è Padre, la compassione verso di noi è divenuta madre. Il Padre per avere amato si fece femminile, e di questo è grande segno colui che egli generò da se stesso: anche il frutto generato da amore è amore. Per questo anche lui discese, per questo rivestì l’umanità, per questo patì volontariamente ciò che è degli uomini, affinché, dopo essersi misurato con la debolezza di noi che egli amò, potesse in cambio misurare noi con la sua potenza.»29.

Vi si dice chiaramente che è il Padre a generare il Figlio, ma la sua generazione si comprende soltanto nell’amore. È per amore che Dio Padre trasmuta la sua natura: non si fa soltanto da invisibile visibile, ma da Padre si fa Madre, assume la debolezza dell’umanità nella carne del Figlio unigenito. In tal modo, la prospettiva platonica dell’Agàpe viene assunta e trasformata nella prospettiva della discesa del Logos in mezzo agli uomini, per continuare a vivere nell’amore verso gli uomini la vita divina. L’incarnazione è del tutto assente ed improponibile sia per Platone che per Filone ma anche per gli gnostici. Così Clemente, negli Excerpta Theodoti può affermare che:

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CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Quel riche sera sauvé? Introduction, notes et index par C. NARDI, traduction par P. DESCOURTIEUX, Paris 2011 (Sources Chretiénnes 537), 37,1-3,194-195: qew½ ta\ th=j a)ga/phj musth/ria, kaiì to/te e)popteu/seij to\n ko/lpon tou= patro/j, oÁn o( monogenh\j qeo\j mo/noj e)chgh/sato. eÃsti de\ kaiì au)to\j o( qeo\j a)ga/ph kaiì di' a)ga/phn h(miÍn e)qea/qh. kaiì to\ me\n aÃrrhton au)tou= path/r, to\ de\ ei¹j h(ma=j sumpaqe\j ge/gone mh/thr. a)gaph/saj o( path\r e)qhlu/nqh, kaiì tou/tou me/ga shmeiÍon oÁn au)to\j e)ge/nnhsen e)c au(tou=: kaiì o( texqeiìj e)c a)ga/phj karpo\j a)ga/ph. dia\ tou=to kaiì au)to\j kath=lqe, dia\ tou=to aÃnqrwpon e)ne/du, dia\ tou=to ta\ a)nqrw¯pwn e(kwÜn eÃpaqen, iàna pro\j th\n h(mete/ran a)sqe/neian ouÁj h)ga/phse metrhqeiìj h(ma=j pro\j th\n e(autou= du/namin a)ntimetrh/sv. Si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Quale

ricco si salverà? Introduzione, traduzione e note a cura di M. GRAZIA BIANCO, Roma 1999 (Testi patristici 148), 37,1-3,62-63, per la versione italiana.


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«Il Logos si è fatto carne, non soltanto diventando uomo al momento della sua venuta quaggiù, ma ancora in principio (Gv 1,1), quando il Logos nella sua identità (en tautòteti) è diventato Figlio, secondo la delimitazione (perigraphé) e non per essenza (ousìa).».

Segue quindi una serie di importanti passi biblici sull’incarnazione: Gv 1,1.3-4;Ef 4,24. In modo ancora più esplicito egli può affermare che: «Con l’immagine del Dio invisibile (Ef 4,24) egli designa il Figlio del Logos nella sua identità: primogenito di tutta la creazione perché, generato impassibilmente (apathòs), è divenuto il creatore ed il generante di tutta la creazione e della sua essenza.»30.

Il Logos è il Figlio, ha una sua identità ed una sua delimitazione o perigraphé rispetto all’identità del Padre. Clemente non ritiene di poter ammettere che il Logos abbia parte all’essenza o ousìa divina del Padre, come del resto ritenevano anche Giustino e gli apologisti. Purtuttavia, il Logos — Figlio è generato dal Padre, ma impassibilmente. Esso si è fatto carne non soltanto al momento della sua discesa fra gli uomini ma fin dall’eternità. Clemente si dimostra per una certa parte debitore — come del resto gli apologisti — verso la visione platonica di Dio, Sommo Bene. Nello stesso tempo, però, ripropone e ripresenta il dato della rivelazione cristiana dell’incarnazione del Verbo. Per Clemente, allora, il Logos Figlio è il Verbo fatto carne, generato dal Padre fin dall’eternità, venuto nel mondo nella carne a

30

CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Extraits de Théodote. Traduction de F. SAGNARD, Paris 1948 (Sources Chretiénnes 23), A,19,1-4,92-97: “Kaiì o( Lo/goj sa\rc e)ge/neto”, ou) kata\ th\n parousi¿an mo/non aÃnqrwpoj geno/menoj, a)lla\ kaiì “e)n ¹Arxv=” o( e)n tau)to/thti Lo/goj, kata\ “perigrafh\n” kaiì ou) kat' ou)si¿an geno/menoj [o(] Ui¸o/j. … àOj e)stin ei¹kwÜn tou= Qeou= tou= a)ora/tou”. Eiåta e)pife/rei: “Prwto/tokoj pa/shj kti¿sewj”. “ ¹Aora/tou” me\n ga\r “Qeou= ei¹ko/na” to\n <ui¸o\n> le/gei tou= Lo/gou tou= e)n tau)to/thti: “Prwto/tokon de\ pa/shj kti¿sewj”, <oÀti> gennhqeiìj a)paqw½j, kti¿sthj kaiì genesia/rxhj th=j oÀlhj e)ge/neto kti¿sew¯j te kaiì ou)si¿aj. Si rinvia a M.J. EDWARDS,

Clement of Alexandria and his doctrine of the Logos, in Vigiliae Christianae 54 (2000), 159-177; cfr. J. DANIELOU, Messaggio evangelico, cit., 431, per un primo approfondimento; sulla gnosi e lo gnosticismo, vd. K. RUDOLPH, La gnosi. Natura e storia di una religione tardoantica, Brescia 2000.


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dare la propria vita per amore degli uomini. Il Logos, però, è anche il principio ordinatore di tutta la creazione, la sostiene e continua l’opera della creazione di Dio Padre, quale principio immanente alla creazione stessa. Ancora più importante del rapporto del Logos con il mondo appare il rapporto del Logos con il Padre; ebbene, in Clemente Dio Padre è philànthropos, a differenza degli stoici ma anche di Platone, per il quale Dio non partecipa della creazione, il Padre compromette sé stesso e si intromette nel mondo con il suo Logos Figlio. Nel Paidagogòs, leggiamo: «Ci è possibile, se lo volete, cogliere la sovrana sapienza del santissimo Pastore e Pedagogo, l’onnipotente Logos del Padre, vedendo quel che egli dice allegoricamente, quando presenta se stesso come pastore di pecore, cioè pedagogo di bambini.».

Interessa qui notare la quasi identificazione tra il Padre ed il Logos, appellato Pastore e Pedagogo. Il Logos qui non è più principio ordinatore dell’universo bensì compie ed esprime le operazioni del Padre. In questa identificazione pressoché totale, il Logos si concede una deroga alla propria indistinguibilità dal Padre. Vediamo in qual modo: «Egli dichiara che solo il Pastore buono fa così: munifico oltre misura, dona per noi la cosa più grande, cioè la sua stessa vita; beneficante oltre misura e pieno di amore per l’uomo (philànthropos), poteva essere Signore e invece ha voluto essere fratello degli uomini. Ha portato la sua bontà a tal punto da morire per noi.»31.

31

CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I). Introduction et notes de H.I. MARROU, traduction de M. HARL, Paris 1960 (Sources Chrétiennes 70), 9,84,1;85,9,12,258-261: ¹Eco\n de/, ei¹ bou/lesqe, tou= panagi¿ou poime/noj kaiì paidagwgou=, tou= pantokra/toroj kaiì patrikou= lo/gou, th\n aÃkran sofi¿an katamanqa/nein h(miÍn, eÃnqa a)llhgoreiÍ, poime/na e(auto\n proba/twn le/gwn: eÃsti de\ paidagwgo\j nhpi¿wn. … . Toiou=toj h(mw½n o( paidagwgo/j, a)gaqo\j e)ndi¿kwj. “Ou)k hÅlqon”, fhsi¿, “diakonhqh=nai, a)lla\ diakonh=sai.” Dia\ tou=to ei¹sa/getai e)n t%½ eu)aggeli¿% kekmhkw¯j, o( ka/mnwn u(pe\r h(mw½n kaiì “dou=nai th\n yuxh\n th\n e(autou= lu/tron a)ntiì pollw½n” u(pisxnou/menoj. Tou=ton ga\r mo/non o(mologeiÍ a)gaqo\n eiånai poime/na: megalo/dwroj ouÅn o( to\ me/giston u(pe\r h(mw½n, th\n yuxh\n au)tou=, e)pididou/j, kaiì megalwfelh\j kaiì fila/nqrwpoj, oÀti kaiì a)nqrw¯pwn, e)co\n eiånai ku/rion, a)delfo\j eiånai bebou/lhtai: oÁ de\ kaiì ei¹j tosou=ton a)gaqo\j wÐste h(mw½n kaiì u(per apoqaneiÍn. Si rinvia a CLEMENTE


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Il Logos, infatti, ha rinunciato alla divinità, preferendo morire per noi. Il Dio Padre del Logos Figlio è così un Dio d’amore, un Dio philànthropos che ama l’uomo al punto da farsi suo fratello nel Logos Figlio e da morire per lui. L’amore di Dio per l’uomo che si manifesta nella dispensazione del suo divino Logos che è paidagogòs ovvero educatore e pedagògo dell’umanità, si esplica anche nella compassione o sympàtheia che Dio Padre prova sempre nel ed attraverso il Logos Figlio verso l’uomo. Clemente coglie nell’azione del Logos una sapienza che la sapienza biblica e l’insegnamento evangelico completano, dispiegano e compiono ma che si ritrova e si arricchisce, in svariati modi, anche a contatto con la sapienza dei pagani, nati prima di Cristo32. Così è una massima del filosofo Eraclito ad introdurre la sympàtheia di Dio Padre: «Mistero manifesto! Dio è nell’uomo e l’uomo è Dio e il mediatore compie il volere del Padre; mediatore (mesìtes) infatti è il Logos comune ad entrambi, essendo figlio di Dio e salvatore (sotér) degli uomini: di lui è servo (diàkonos), di noi è pedagogo (paidagogòs). Ora, essendo la carne schiava, come attesta anche Paolo (cfr. Fil 2,7), come si potrebbe ragionevolmente adornare questa ancella a mò di prostituta? … . Ebbene, Dio che ha voluto soffrire con noi, ha liberato egli stesso la carne dalla corruzione e, sottrattala alla mortifera e amara schiavitù, l’ha rivestita di incorruttibilità, avvolgendola con questo santo ornamento di eternità che è l’immortalità.»33.

ALESSANDRINO, Il Pedagogo. Introduzione, traduzione e note di DAG TESSORE, Roma 2005 (Testi patristici 181), 9,84,1;85,1-2,110-111, per la versione italiana. 32 Anche l’influenza gnostica è presente, proprio riguardo alla sumpa/qeia, cfr. CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Extraits de Théodote, cit., B,30,2,124-125. 33 CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (III). Traduction de C. MONDESERT et C. MATRAY, notes de H.I. MARROU, Paris 1960 (Sources Chrétiennes 158), 1,2,1-3,1417: ¹Orqw½j aÃra eiåpen ¸Hra/kleitoj: “ ãAnqrwpoi qeoi¿, qeoiì aÃnqrwpoi. Lo/goj ga\r wu)to/j:” musth/rion e)mfane/j: qeo\j e)n a)nqrw¯p%, kaiì o( aÃnqrwpoj qeo/j, kaiì to\ qe/lhma tou= patro\j o( mesi¿thj e)kteleiÍ: mesi¿thj ga\r o( lo/goj o( koino\j a)mfoiÍn, qeou= me\n ui¸o/j, swth\r de\ a)nqrw¯pwn, kaiì tou= me\n dia/konoj, h(mw½n de\ paidagwgo/j. Dou/lhj de\ ouÃshj th=j sarko/j, kaqwÜj kaiì o( Pau=loj martureiÍ, pw½j aÃn tij ei¹ko/twj th\n qera/painan kosmoi¿h proagwgou= di¿khn; … . ¸O de\ sumpaqh\j qeo\j au)to\j h)leuqe/rwsen th\n sa/rka th=j fqora=j kaiì doulei¿aj th=j qanathfo/rou kaiì pikra=j


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Qui Clemente chiama il Logos mediatore o mesìtes fra Dio e l’uomo. Si tratta della riflessione teologica di Giustino e degli apologisti o Logostheologie o piuttosto della loro cristologia o Logoschristologie, implicitamente subordinazionista. Clemente, tuttavia, non affronta la problematicità del rapporto fra Dio Padre ed il Logos Figlio, quanto, piuttosto, l’aspetto ed il fine salvifico della mediazione del Logos incarnato. Tale indirizzo, attinente alla soteriologia, sarà condotto e portato avanti da Clemente nelle sue opere verso importanti conseguenze ed esiti futuri34. In Dio ristà la volontà amante del Padre di farsi uomo e di soffrire nel suo Logos Figlio, fattosi carne per noi. Rispetto al Padre, il Logos è servo o diàkonos, rispetto all’uomo è pedagògo. Clemente, infatti, mostra come il Padre nel Logos assuma la carne e rivesta questa d’immortalità; nell’evento salvifico dell’incarnazione non si realizza un’ambigua commistione tra umano e divino, ma si compie l’identità e l’operazione proprie del Logos Figlio. L’identità propria del Figlio è così quella del Logos incarnato; l’operazione propria del Logos Figlio è quella dell’incarnazione. Nel Quis dives salvetur, scritto sicuramente negli anni del periodo trascorso ad Alessandria, Clemente ci consegna una sintesi efficace della teologia del Logos: «Questo è il seme (sperma), immagine (eikòn) e somiglianza (omòiosis) di Dio, e suo figlio legittimo ed erede, mandato quaggiù, come per un soggiorno in terra straniera, da un progetto (oikonomìas) grande e da affinità (analoghìas) col Padre; per mezzo di lui sono state fatte sia le cose visibili sia le cose invisibili del mondo, le une perché siano a suo servizio, le altre perché egli si eserciti, le altre perché egli impari, e tutte, fino a che

a)palla/caj th\n a)fqarsi¿an perie/qhken au)tv=, aÀgion tou=to tv= sarkiì [kaiì] a)idio/thtoj kallw¯pisma periqei¿j, th\n a)qanasi¿an. Si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, cit., III,1,2,1-3,253-254, per la versione italiana. 34 Per la cristologia di Giustino ed il problema dell’unità di Dio, vd. M. SIMONETTI, Studi sulla cristologia del II e III secolo, Roma 1993, 73-82, cui rinviamo per la cristologia giudeocristiana e l’Ascensione d’Isaia, rispettivamente alle pp. 7-22 e 53-69. Per un approfondimento della Teologia del Lo/goj in Giustino, vd. D. BOURGEOIS, La sagesse des anciens dans le mystére du Verbe chez Sain Justin philosophe et martyr, Paris 1981.


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il seme rimarrà quaggiù, sono unite e queste saranno immediatamente sciolte quando esso sarà stato raccolto.»35.

Il seme è il Logos, questi non soltanto è il Figlio ma è anche principio generatore ed agente divino nelle opere create, sostenendo la creazione, è colui per mezzo del quale il Padre crea e continua la creazione. Il Logos, inoltre, è immagine e somiglianza di Dio, presenta affinità o corrispondenza (analoghìas) con il Padre, ma Clemente non professa né afferma la sua eguaglianza con Dio. Per Clemente, così, il Logos partecipa del mondo e di lui si serve il Padre per continuare l’opera della sua creazione. Riteniamo che la Logostheologie di Clemente o piuttosto la sua Logoschristologie risenta di un subordinazionismo latente, in comune con Giustino e gli apologisti, ma che trovi in qualche modo un correttivo od un suo approfondimento nell’Engeltheologie o “teologia angelica”. È questo quanto cercheremo di mostrare più avanti. 3. IL LOGOS ANGHELOS IN CLEMENTE D’ALESSANDRIA Quanto detto finora, pur non essendo minimamente esaustivo della complessità della questione affrontata, vuol fornire alcune linee introduttive ed alcune puntualizzazioni, utili alla comprensione della presenza e del ricorrere del termine «angelo» o anghelos, attribuito e riferito al Logos, negli scritti di Clemente d’Alessandria. Come

35

CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Quel riche sera sauvé? cit., 36,2-3, 194-195: tou=t' eÃsti to\ spe/rma, ei¹kwÜn kaiì o(moi¿wsij qeou=, kaiì te/knon au)tou= gnh/sion kaiì klhrono/mon, wÐsper e)pi¿ tina cenitei¿an e)ntau=qa pempo/menon u(po\ mega/lhj oi¹konomi¿aj kaiì a)nalogi¿aj tou= patro/j: di' oÁ kaiì ta\ fanera\ kaiì ta\ a)fanh= tou= ko/smou dedhmiou/rghtai, ta\ me\n ei¹j doulei¿an, ta\ de\ ei¹j aÃskhsin, ta\ de\ ei¹j ma/qhsin au)t%½, kaiì pa/nta, me/xrij aÄn e)ntau=qa to\ spe/rma me/nv, sune/xetai, kaiì sunaxqe/ntoj au)tou= pa/nta ta/xista luqh/setai. Si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Quale ricco si salverà? cit., 36,2-3,61-62, per la versione italiana. Il passo clementino qui riportato, alla fine, allude alla Parabola evangelica della zizzania, quindi alla Parousìa; su protologia ed escatologia nel cristianesimo antico, vd. E. PRINZIVALLI, il rapporto fra mito protologico e destino escatologico nel cristianesimo antico, in Cristianesimo nella Storia XXX (2009) 3, 491-511.


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abbiamo visto, Clemente non si discosta poi molto dalla Logostheologie o dalla Logoschristologie di Giustino e degli apologisti, come rileva il Danielou nel suo fondamentale lavoro su Messaggio evangelico e cultura ellenistica. Così, in Clemente, il Logos Figlio è pressoché identificato al Padre con un subordinazionismo assai sfumato ma presente nei testi sopra evidenziati. Ci chiediamo, pertanto, per quale motivo Clemente continui ad impiegare la denominazione del Logos quale angelo. Tenteremo di rispondere a questa domanda presentando alcuni fra i suoi testi più importanti e più significativi, nei quali non soltanto ricorre la denominazione di Logos Anghelos, ma si ritrovano i tratti di una Engelchristologie quale “cristologia angelica” oppure “cristologia angelomorfica”36. Cominciamo con il Paidagogòs, ove troviamo: «Ebbene, chi ci potrebbe educare in maniera più amabile di così? Inizialmente, per il vecchio popolo c’era la vecchia Alleanza, e la Legge, come un pedagogo, guidava il popolo con il timore, e il Logos era un angelo. Al popolo nuovo e giovane invece fu donata un’Alleanza anch’essa nuova e giovane e il Logos fu generato (cfr. Gv 1,14) e il timore fu volto in amore, e quel mistico angelo, Gesù, fu partorito.»37.

L’attenzione alle fonti antiche, volta alla ricerca di alcuni tratti della formazione e della personalità di Clemente d’Alessandria nonché alle sue opere come il Paidagogòs, consente di rinvenire una valenza pedagogica inerente la prima riflessione teologica cristiana sul Logos, che comincia a porsi con Giustino a Roma ed a delinearsi ad Alessandria,

36

Per la discussione di una cristologia angelomorfica, in rapporto con la dottrina dell’anima in Clemente d’Alessandria e la sua antropologia, si rinvia a D. DAINESE, Passibilità divina, cit., 108.109.121.216.218.220. 37 CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), cit., 7,59,1,214-217: Ti¿j aÄn ouÅn tou/tou ma=llon h(ma=j filanqrwpo/teron paideu/sai; To\ me\n ouÅn pro/teron t%½ presbute/r% la%½ presbute/ra diaqh/kh hÅn kaiì no/moj e)paidagw¯gei to\n lao\n meta\ fo/bou kaiì lo/goj aÃggeloj hÅn, kain%½ de\ kaiì ne/% la%½ kainh\ kaiì ne/a diaqh/kh dedw¯rhtai kaiì o( lo/goj gege/<n>nhtai kaiì o( fo/boj ei¹j a)ga/phn metate/traptai kaiì o( mustiko\j e)keiÍnoj aÃggeloj ¹Ihsou=j ti¿ktetai. Si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, cit., I,7,59,1,89, per la versione italiana.


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con Clemente nel corso del II secolo, per raggiungere, nel III secolo con Orìgene, la sua forma ed elaborazione più compiute. In questo testo di Clemente, la denominazione di Pedagògo, attribuita altrove sempre al Logos, viene ora riferita alla Legge dell’Antica Alleanza o nomos38. Clemente, dichiaratamente, appella il Logos quale anghelos: non si possono così sottacere i tratti angelomorfi assunti dal Logos. Anche se nel testo considerato si intende che per Clemente il Logos è sempre l’unico ed il medesimo, sia nella Nuova che nell’Antica Alleanza, non si può non notare una certa oscurità nel delineare l’attività e l’operazione del Logos, tanto da restare talvolta perplessi sulla questione dell’unità di Dio in Clemente d’Alessandria39. Il Logos è presente quale angelo dell’Antica Alleanza, espressa e documentata dall’Antico Testamento, quando aiutava il popolo a compiere la Legge. Partorito quindi Gesù, il Logos non assumerebbe soltanto i tratti “angelici” che già possiede ma diventerebbe anche «mistico». La generazione nella carne farebbe guadagnare al Logos Anghelos, operante a stretto contatto con il popolo ebraico nell’Antica Alleanza, l’attributo di mystikòs. Così Gesù, partorito nella carne, si rivela quale mistico angelo, in grado di presiedere ad una complessità di operazioni che solo l’anghelos può compiere, sul modello delle azioni compiute dagli angeli nell’Antico Testamento, continuandole, volgendo il timore in amore e rivelandosi quale mystikòs. Esiste quindi uno scarto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, manifestatasi quest’ultima in Gesù mistico angelo, ma esiste una distinzione ancor più importante. Clemente, infatti, sembra distinguere le due generazioni del Logos: quella ab eterno da quella nella carne. Il Logos ab aeterno, quale Anghelos operava nell’Antico Testamento, la cui menzione della Legge non può essere casuale. Infatti, sembra essere in una posizione

38 Ovviamente, Clemente coglie, recepisce e pone la lezione dell’Apostolo Paolo della Legge quale pedagògo, cfr. Gal 3,24. 39 Cfr. M. SIMONETTI, Il problema dell’unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, XXII (1986) 3, 442: «Sono soprattutto significativi il suo silenzio sulla funzione cosmologica del Cristo preesistente, così ben rilevata da Paolo, e il suo riserbo a definire Cristo non solo Dio ma anche Figlio di dio in senso proprio.».


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di servo, subordinata al Dio d’Israele. Nell’Antico Testamento, un angelo simile accompagnava il popolo per fargli compiere la Legge e quest’angelo era il Logos che si evince essere il Logos ab aeterno. Nella Nuova Alleanza, il Logos viene generato nella carne rivelandosi come Gesù quale mistico angelo (mystikòs anghelos). L’aggettivo dimostrativo in funzione appositiva ekéinos vuol indicare la particolarità di questo mistico angelo che è Gesù, l’angelo della Nuova Alleanza, la cui legge non è fondata sul timore ma sull’amore. Si evince allora che Clemente distinguerebbe il Logos Paidagogòs ab aeterno dell’Antica Alleanza, strettamente unito a Dio, da Gesù, Logos incarnato nel tempo della Nuova Alleanza. Questi sarebbe l’angelo mistico quasi contrapposto all’angelo del Signore dell’Antica Alleanza. Purtuttavia, non si può negare che vi sia una certa oscurità nel procedere del discorso clementino40. Riteniamo che l’oscurità di questo testo sia ricercata ed i sottintesi in esso presenti voluti, a conferire al suo discorso un tono iniziatico, tipico di un contesto catechetico e catecumenale. Una riflessione interessante potrebbe essere suggerita dal dato secondo il quale il termine nomos o Legge è attribuito soltanto all’Antica Alleanza; l’angelo del Signore è al servizio della Legge e ne è un esecutore. La Nuova Alleanza, invece, è offerta e decisamente instaurata dal Logos generato nella carne, Gesù, angelo mistico, il quale volge il timore della Legge in amore. Di questo sviluppo e significativa evoluzione è chiaramente responsabile Gesù, il mistico angelo. Sarebbe errato considerare e ritenere soltanto l’apporto giudaico nella cristologia angelomorfica di Clemente d’Alessandria, infatti, non va disconosciuto l’apporto della riflessione e dell’insegnamento degli gnostici, quali Teodoto, com’è possibile

40

A tal proposito, cfr. M. SIMONETTI, Studi sulla cristologia del II e III secolo, cit., 20, per il quale: «Clemente, che ignora, o piuttosto rifiuta, l’identificazione del Cristo preesistente con la Sapienza, non a caso non solo gli nega quella funzione cosmologica che pure ben conosceva dalle lettere di Paolo, ma addirittura sembra ignorare quasi del tutto la sua preesistenza.». A nostro modesto avviso, l’osservazione di Simonetti tiene conto della problematicità delle questioni cristologiche presenti alla riflessione di Clemente d’Alessandria.


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riscontrare negli Excerpta clementini41. In altri testi di Clemente, i tratti angelomorfi non sono così dichiarati ma la personificazione e le operazioni del Logos Figlio corrispondono a quelle assunte da esseri sovrumani o spiriti, identificabili con gli angeli. Negli Stròmata, leggiamo: «Il candelabro d’oro ha anche un altro significato allusivo, come segno (seméiou) del Cristo, non soltanto per la foggia, ma anche perché irradia della sua luce (photemboléin) «in molti modi e a più riprese» (cfr. Eb 1,1) coloro che in Lui credono e sperano e a Lui guardano attraverso il ministero (diakonìas) dei protoctisti.»42.

La Menoràh giudaica è il segno o seméion del Cristo; come dalla luce posta nel centro del candelabro giudaico si dipartono sei braccia o sei luci, provenienti dall’unica luce, così Cristo irradia della sua luce o photemboléin coloro i quali in lui credono e sperano ed a lui guardano. Queste operazioni possono essere esercitate da Cristo attraverso il servizio o diakonìa dei protoctìsti. Sono essi ad irradiare la luce di Cristo sui fedeli che a lui vogliono volgersi. Esiste quindi un’attività mediatrice e di servizio messa in atto da esseri chiamati protoktìstoi o «primi creati», in numero di sei — come ci suggerisce il «segno» della Menoràh — che permette ai fedeli di credere, sperare e guardare a 41

Cfr. CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Extraits de Théodote, cit., B,36,1-2,138-139, ove troviamo che: «Nell’unità gli Angeli furono gettati fuori, essendo provenienti (proeblh/qhsan) dall’Uno (a)po£ eno/j). Poiché noi siamo i divisi, per questo Gesù è stato battezzato, per essere uniti nel Pléroma insieme ad essi (gli Angeli). Perché noi, i molti, divenuti uno, fossimo tutti mescolati nell’Uno, diviso per mezzo nostro.». Non si può escludere dal testo sopra citato il suo carattere, in realtà vagamente polemico, contro quegli gnostici, in particolare i marcioniti, che dividevano l’unità di Dio con il sostenere che il Dio, severo ma giusto, autore dell’Antico Testamento, era diverso da quello, benevolo e misericordioso, autore del Nuovo Testamento. 42 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Les Stromates. Stromate V. Introduction, texte critique et index par A. LE BOULLUEC, traduction de P. VOULET, Paris 1981 (Sources Chrétiennes 278), VI, 35,1,82-83: eÃxei de/ ti kaiì aÃllo aiãnigma h( luxni¿a h( xrush= tou= shmei¿ou tou= Xristou=, ou) t%½ sxh/mati mo/n%, a)lla\ kaiì t%½ fwtemboleiÍn “polutro/pwj kaiì polumerw½j” tou\j ei¹j au)to\n pisteu/ontaj e)lpi¿zonta/j te kaiì ble/pontaj dia\ th=j tw½n prwtokti¿stwn diakoni¿aj. Si rinvia a CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia, cit., V ,6,35,1,520, per la versione italiana.


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Cristo. Si tratta dunque di angeli intorno al Cristo, posto da Clemente come al centro di una corte o di un coro angelici. A fugare il dubbio di un fraintendimento o di un equivoco, ci viene in aiuto un altro testo, il De centesima, sexagesima et tricesima dello Pseudo Cipriano che parla espressamente di sette angeli che Dio creò (crearet). Sempre Dio avrebbe costituito (constituere) uno fra i sette angeli come suo Figlio. Sarebbero così sei gli angeli creati da Dio insieme con il Figlio o sex quidem angelos cum filio creatos43. Il testo latino pseudociprianeo che sembra però doversi datare al II secolo si riferisce chiaramente ai sei protoctìsti che troviamo negli Stròmata di Clemente e per il suo anonimo autore, come per Clemente, il Figlio sembra essere un angelo di rango superiore rispetto agli altri sei, ma pur sempre un angelo o ex his unum in filium sibi constituere. Sull’identità dei sei angeli ci viene in soccorso un altro testo del II secolo: il Pastore di Erma. Leggiamo: «Ella venne con sei giovani, che avevo visto anche prima, e si avvicinò a me e mi ascoltò mentre pregavo e confessavo al Signore i miei peccati. E toccandomi disse: “Erma, smettila di pregare solamente per i tuoi peccati; prega anche per la giustizia, per ricevere una parte di lei per la tua casa.”.».

La vecchia o la signora conduce Erma in compagnia dei sei giovani in un campo, allora Erma nel dialogo con lei le chiede: «Rispondendo le dico: “Signora, questa cosa è grande e mirabile; e i sei giovani che costruiscono chi sono, signora?”. “Questi sono i santi angeli 43

Cfr. PS. CIPRIANO, Sermo de centesima, sexagesima, tricesima, in Supplementa, Appendix, PL 1,60,50-61,37: Angelos enim Dominus cum ex igne principum numero VII [creaturam filium Dei dicit contra catholicam fidem] crearet, ex his unum in filium sibi constituere, quem Isaia dominum Sabaot [ut] praeconaret, disposuit. Remansisse ergo repperimus sex quidem angelos cum filio creatos, quos agonista imitatur. Su questo trattato che ci pone di fronte all’apocalittica giudeocristiana del II secolo, cfr. J. DANIELOU, Le origini del cristianesimo latino, Bologna 1993, 66-96, ove le opinioni di H. Koch, il quale lo datava alla fine del III secolo, non sono ritenute decisive. Sul passo in questione, vd. ibid., 77, per un approfondimento ed una discussione ulteriori. Sugli angeli nella riflessione biblica e teologica patristica, vd. B. STUDER, Angelo. I. Angelologia, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Genova 2006, I, 292-299.


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(àggheloi) di Dio creati per primi (pròtoi ktisthéntes) ai quali il Signore ha affidato tutta la sua creazione per accrescerla, per costruirla e per governarla. Per mezzo di loro sarà compiuta la costruzione della torre.”. “E gli altri che trasportano le pietre, chi sono?” “Anche questi sono santi angeli di Dio; ma i sei sono loro superiori (yperéchontes); quando la costruzione della torre sarà terminata, tutti insieme si rallegreranno intorno alla torre, e glorificheranno il Signore, perché fu compiuta la costruzione della torre.”.»44.

Il Pastore di Erma che secondo il Canone muratoriano sarebbe stato composto a Roma negli anni dell’episcopato di Pio dal 140 al 155, destinato alla lettura privata ma non a quella liturgica, recante fra l’altro l’affermazione che Erma fosse il fratello del vescovo di Roma Pio, si pone alla metà del II secolo. Sarebbe dunque un testo precedente l’inizio ed il fiorire dell’attività di Clemente ad Alessandria, quindi, al suo allontanamento da quella città45. Vi ritroviamo i protoctìsti degli Stròmata di Clemente e la conferma che questi sono 44 HERMAS, Le Pasteur. Introduction, texte critique, traduction et notes par R. JOLY, Paris 1958 (Sources Chrétiennes 53), Vision III, 9,6,100-101;12,1-2,108-111: h(

de\ hÅlqen meta\ neani¿skwn eÀc, ouÁj kaiì pro/teron e(wra/kein, kaiì e)pesta/qh moi kaiì kathkroa=to proseuxome/nou kaiì e)comologoume/nou t%½ kuri¿% ta\j a(marti¿aj mou. kaiì a(yame/nh mou le/gei: ¸Erma=, pau=sai periì tw½n a(martiw½n sou pa/nta e)rwtw½n: e)rw¯ta kaiì periì dikaiosu/nhj iàna la/bvj me/roj ti e)c au)th=j ei¹j to\n oiåko/n sou. … . ¹Apokriqeiìj le/gw au)tv=: Kuri¿a, mega/lwj kaiì qaumastw½j eÃxei to\ pra=gma tou=to. oi¸ de\ neani¿skoi oi¸ eÁc oi¸ oi¹kodomou=ntej ti¿nej ei¹si¿n, kuri¿a; OuÂtoi¿ ei¹sin oi¸ aÀgioi aÃggeloi tou= qeou= oi¸ prw½toi ktisqe/ntej, oiâj pare/dwken o( ku/rioj pa=san th\n kti¿sin au)tou=, auÃcein kaiì oi¹kodomeiÍn kaiì despo/zein th=j kti¿sewj pa/shj. dia\ tou/twn ouÅn telesqh/setai h( oi¹kodomh\ tou= pu/rgou. Oi¸ de\ eÀteroi oi¸ parafe/rontej tou\j li¿qouj ti¿nej ei¹si¿n; Kaiì au)toiì aÀgioi aÃggeloi tou= qeou=: ouÂtoi de\ oi¸ eÁc u(pere/xontej au)tou/j ei¹sin. suntelesqh/setai ouÅn h( oi¹kodomh\ tou= pu/rgou, kaiì pa/ntej o(mou= eu)franqh/sontai ku/kl% tou= pu/rgou kaiì doca/sousin to\n qeo/n, oÀti e)tele/sqh h( oi¹kodomh\ tou= pu/rgou. Si rinvia a ERMA, Il Pastore. Introduzione, versione e

commento di M.B. DURANTE MANGONI, Bologna 2003 (Scritti delle origini cristiane 27), Visione III, 1,6,61;4,1-2,67-68, per la versione italiana. 45 Sul Pastore di Erma, vd. C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana, cit., 240-246; S. DÖPP – W. GEERLINGS (curr.), Dizionario di Letteratura cristiana antica, cit., 311-312; per il suo rapporto con l’eredità letteraria del giudeocristianesimo, vd. J. DANIELOU, La teologia del giudeocristianesimo,cit., 50-58; sul Canone muratoriano, vd. ID., Le origini del cristianesimo latino, Bologna 1993, 22-25.


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angeli superiori, inoltre essi sono sei, facendo intendere che il settimo angelo è diverso per attività, non ha comune partecipazione con gli altri e fra di essi ha il suo primato46. Sempre nel Pastore di Erma, i sei angeli superiori insieme con quelli inferiori sono impegnati nella costruzione della torre, allegoria della Chiesa. Rispetto al Pastore di Erma, Clemente pone più decisamente il primato di Cristo sugli altri sei angeli, impiegando la foggia della Menoràh, per mostrare come i sei angeli traggano la loro luce, quindi la loro esistenza ed attività, dalla luce posta al centro che è il Cristo. Riteniamo che nell’opera di Clemente, in particolare negli Stròmata, non vi sia una riflessione o una trattazione sistematica sia della Logostheologie che della Logoschristologie, queste fanno parte della sistematizzazione propria della riflessione teologica moderna, ma in realtà, trovi posto e la possibilità di esprimersi una particolare riflessione “upomnemàtica”47. Questa era fondata su ypomnémata o «appunti», probabilmente tratti dalla viva voce del suo maestro Panteno o degli altri maestri che Clemente aveva avuto modo di frequentare. Negli Stròmata, si troverebbero così le tracce di questa particolare riflessione cristologica, soltanto apparentemente frammentaria e sconnessa, nel caso dei tratti angelomorfi del Logos Figlio, ravvisabili in altri passi clementini che subito evidenzieremo e cercheremo di mettere in collegamento fra loro. Leggiamo così negli Stromata:

46

Non possiamo dilungarci in questa sede sulla cristologia del Pastore di Erma, basti citare la Visione o la Rivelazione V, 2, ove si parla dell’«angelo più venerabile» che ha inviato ad Erma l’«uomo glorioso», pur non affermando che è Figlio di Dio, cfr. HERMAS, Le Pasteur, cit., 25,140-141; oppure la Similitudine VIII,3,3, ove lo si identifica con l’arcangelo Michele, cfr. ibid., 69,266-267. Per un approfondimento della cristologia pneumatica o geistchristologie del Pastore di Erma, vd. M. SIMONETTI, Il problema dell’unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi, cit., 442-446. 47 Cfr. EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), V, 10,40, cit., il quale ci informa che Panteno «commentava» o u(pomnhmatizo/menoj «a viva voce o per iscritto i tesori dei divini dogmi». Si deve dunque a Panteno, il maestro di Clemente, questo carattere particolare o “upomnemàtico”, congiunto a quello “acroamàtico” del suo insegnamento, quindi della sua riflessione teologica. Questa testimonianza, unita a quella di Clemente sul suo maestro, ricercato e trovato ad Alessandria, converge sulla particolarità e l’unicità dell’insegnamento “acroamàtico” di Panteno.


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«E dicono (gli Ebrei) che i “sette spiriti” (eptà pnéumata) che riposano (enapauòmena) sul trono fiorente “dalla radice di Jesse” (cfr. Ap 4,5;5,6; Zc 4,10; Is 11,1-2) sono i “sette occhi” del Signore. Invece la tavola, su cui si faceva l’esposizione dei pani, aveva il suo posto al lato nord del turibolo, perché i venti (pneumàton) boreali arrecano la maggior fertilità (cfr. Es 26,35; Nm 4,7); e potrebbero pure rappresentare le varie sedi di chiese che tutte cospirano (sympneousòn) ad un corpo e ad una (en) comunità sola.»48.

Ritornano quindi i sette spiriti identificati con i sette angeli superiori del Pastore di Erma, detti dunque anche spiriti o pnéumata, accostati da Clemente agli pnéumata o venti di Borea che spirano da Nord, accostati alle chiese, sparse per il mondo, che tutte insieme «cospirano» o sympneousòn. I sette angeli, posti da Clemente sulla Menoràh sono anche i sette spiriti che «riposano» sul trono o sui troni, tutti provenienti (ek) dalla radice di Jesse. Il servizio o diakonìa dei protoctìsti o sei angeli superiori consente alle anime di accostarsi a Cristo, assumente così tratti angelomorfi. È l’operazione dell’«irradiare luce» del Cristo che rende possibile la diakonìa dei sei protoctìsti oppure lo «spirare» dei sette spiriti o dei sette angeli; inoltre, rende possibile lo «spirare» degli angeli inferiori oppure degli spiriti, insieme al «cospirare» delle chiese. Troviamo, infatti, negli Stròmata, gli «spiriti glorificanti simboleggiati dai cherubim», ove lo «spirare» è identificabile con la glorificazione o la doxologhìa degli angeli inferiori49. Infine, lo «spirare» è proprio del Logos che, negli Stròmata di Clemente compie, unificandole, le operazioni, quali appunto la glori48

CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Les Stromates. Stromate V, VI,35,2-4,82-83: fasiì d' eiånai “e(pta\ o)fqalmou\j” kuri¿ou ta\ “e(pta\ pneu/mata”, <ta\> e)panapauo/mena tv= r(a/bd% tv= a)nqou/sv “e)k th=j r(i¿zhj ¹Iessai¿”. pro\j de\ toiÍj borei¿oij tou= qumiathri¿ou tra/peza eiåxe th\n qe/sin, e)f' hÂj h( para/qesij tw½n aÃrtwn, oÀti trofimw¯tata tw½n pneuma/twn ta\ bo/reia. eiåen d' aÄn monai¿ tinej ei¹j eÁn sw½ma kaiì su/nodon mi¿an sumpneousw½n e)kklhsiw½n. Si rinvia a CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia, cit., V, 6,35,1-4,520-521, per la versione italiana. 49 Ibid., 36,3-4,84-85: meta\ tw½n docolo/gwn pneuma/twn, aÁ ai¹ni¿ssetai Xeroubi¿m. Si rinvia a CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia, cit., V, 6,36,3-4,520-521, per la versione italiana.


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ficazione, che le anime a loro volta, al pari degli angeli, compiono nella Chiesa «cospirante». Per cui Clemente può dire: «L’essere animato dallo stesso spirito (sýmpnoia) è invece attributo proprio della chiesa, perché il sacrificio della chiesa è Logos esalante (anathymiòmenos) dalle anime (psychòn) sante, e insieme al sacrificio (thysìa) è manifestata completamente a Dio anche l’intenzione (dianòia).»50.

Il Logos, dunque, è presente anche nelle anime sante, intendendo Clemente il Logos non solo come principio ed agente divino trascendente, ma anche come immanente alla creazione ed inabitante nelle creature razionali. Il Logos, così, non procede soltanto dal Padre ma anche dalle anime sante, in quanto queste offrono il sacrificio o il culto, veramente spirituale. Così, come Cristo dona l’esistenza, raccoglie, aduna a sé ed unifica i protoctìsti, quali angeli superiori che insieme compiono la diakonìa, permettendo alle anime sante di volgersi a Cristo e di rendergli gloria, quale vero ed unico Logos angelomorfo, parimenti, i cherubini od angeli inferiori, quali spiriti, e le anime sante, angelomorfe, si volgono a Cristo e lo glorificano. Queste ultime, quali angeli e spiriti, anime angelomorfe, glorificano il Logos angelomorfo, attraverso il sacrificio o thysìa, animando e costruendo la Chiesa. Si evincerebbe, così, negli Stròmata, una riflessione cristologica, pneumatologica, ecclesiologica, non compiuta né sistematica, ma “upomnemàtica”, nella quale comincia ad emergere la problematica identità o “personalità” dello Spirito Santo o divino pnéuma con le sue operazioni, anch’esso dai tratti angelomorfi, unito al Logos, quindi al Figlio. Il Logos, anghelos e pneuma, attraverso i sei angeli superiori, i cherubini e le anime dei santi edificherebbe la Chiesa, a somiglianza di

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CLEMENT D’ALEXANDRIE, Les Stromates. Stromate VII. Introduction, texte critique, traduction et notes par A. LE BOULLUEC, Paris 1997 (Sources Chrétiennes 428), VI, 32,4-5,118-119: h( su/mpnoia de\ e)piì th=j e)kklhsi¿aj le/getai kuri¿wj. kaiì ga/r e)stin h( qusi¿a th=j e)kklhsi¿aj lo/goj a)po\ tw½n a(gi¿wn yuxw½n a)naqumiw¯menoj, e)kkaluptome/nhj aÀma tv= qusi¿# kaiì th=j dianoi¿aj a(pa/shj t%½ qe%½. Si rinvia a CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia, cit., VII, 6,32,4-5,752,

per la versione italiana.


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quanto si dice nel Pastore di Erma, testo con il quale gli Stròmata di Clemente presentano importanti e significativi contatti51. CONCLUSIONI Non potendosi trarre conclusioni definitive in una materia tanto complessa ed in un argomento tanto particolare, quale la cristologia angelomorfica, negli scritti di Clemente d’Alessandria, riteniamo non debba essere sottaciuto il carattere peculiare della didaskalìa di Clemente. Questa dipende ed è influenzata dai molteplici contributi appresi dai suoi maestri, conosciuti nel suo vagare per il Mediterraneo orientale, fra i quali abbiamo ritenuto di attirare l’attenzione sui maestri dell’Oriente come genericamente li chiama Clemente negli Stròmata. Clemente riesce però ad essere più preciso, specificando che quei maestri dell’Oriente da lui conosciuti erano due: «di lì, uno (era) Assiro, l’altro, per origine, Ebreo di Palestina.». L’apporto orientale, in particolare giudaico, riteniamo non debba essere sottovalutato in ordine all’emergere del problema dell’unità di Dio e della cristologia negli scritti clementini. L’approdo ad Alessandria con la scoperta e la conoscenza della didaskalìa di Panteno fu decisivo per Clemente, venendo a contatto con una didaskalìa particolare, di cui abbiamo intravisto nel presente contributo due caratteri principali: il carattere “acroamàtico” e quello “upomnemàtico”. Questi due caratteri, dalle esigue fonti in nostro possesso sulla vita e la formazione di Clemente ad Alessandria, si ritrovano operanti nella persona più che nella didaskalìa di Panteno, il quale «ingenerò (eneghénnese) nelle anime di coloro i quali lo ascoltavano (akroménon) un perenne tesoro di conoscenza (gnòseos)». Inoltre, Panteno era aduso «commentare» o ypomnematìzein «a viva voce o per iscritto i tesori dei divini dogmi». La teologia del Logos, nota a Clemente d’Alessandria da Giustino e dagli apologisti, viene recepita da Clemente, sia pur all’interno delle complesse coordinate della sua formazione personale e del quadro del 51 Il Lo/goj edificherebbe ed organizzerebbe anche l’anima dell’uomo, come si affermerebbe in Stromata, VI, 16,134-136, ma su questo punto, cfr. D. DAINESE, Passibilità divina, cit., 210 ss.


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pluralismo religioso, filosofico e culturale di Alessandria. In particolare, Clemente sembra più interessato alla relazione del Logos con il Padre e quindi alla natura ed alla missione del Logos, come d’altra parte era indotto a fare, a motivo della predominanza della dottrina del logos nell’ambiente alessandrino con Filone e l’apporto della filosofia stoica. Clemente, però, insistendo sull’incarnazione, si distacca tanto da Filone quanto dagli stoici ed ha il merito di cominciare a porre il carattere salvifico della mediazione del Logos, motivo e senso ultimo dell’incarnazione. La soteriologia consentirebbe così a Clemente di porre il problema dell’azione e delle operazioni del Logos nel suo rapporto con Dio e con il mondo. Il terreno scritturistico gli suggerirebbe la presenza dell’unico Logos, mediatore nell’Antico e nel Nuovo Testamento, avente effettivamente tratti angelomorfi: così, nell’Antico Testamento, il Logos era l’Angelo del Signore e nel Nuovo Testamento, Gesù, il Logos incarnato, è il mistico Angelo. Piuttosto che sul Logos ab aeterno, Clemente si soffermerebbe sull’operazione del Logos Angelo quale pedagògo, distinguendo la disciplina del timore al cui servizio era l’Angelo del Signore nell’Antica Alleanza, da quella dell’amore instaurata da Gesù, mistico Angelo nella Nuova Alleanza. Questa riflessione elaborata e quasi resa sistematica nel Paidagogòs, con un gergo iniziatico, a motivo del contesto catechetico e catecumenale, qual era quello del Didaskaléion di Alessandria, cede il passo, negli Stròmata, ad un diverso modo di procedere e di argomentare. Allontanandosi temporaneamente dal terreno scritturistico quindi esegetico o dal «prato profetico ed apostolico» del Paidagogòs, Clemente si cimenterebbe su quello più speculativo e teoretico, “acroamàtico” ed “upomnemàtico degli Stròmata, proprio del Didàskalos, attingendo la sua didaskalìa non soltanto da Platone e dal platonismo medio, ma dalla tradizione apostolica e dall’insegnamento gnostico. Così, nella tradizione apostolica, documentata dal De centesima, sexagesima et tricesima pseudociprianeo e dal Pastore di Erma, Clemente individua il retroterra giudaico e giudeocristiano, consistente nella presenza e nella funzione degli angeli; ma non teme di volgere la sua attenzione anche allo gnosticismo, nel quale individua, oltre agli angeli ivi presenti ed alle potenze decadute, il tratto della loro promanazione dall’Uno e del ritorno degli angeli all’unità


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nel Pléroma, presente negli Excerpta Theodoti. Riteniamo quindi che lo gnosticismo abbia giocato un ruolo importante nella formazione della riflessione clementina che sulla scorta dell’angelologia giudaica e gnostica volse la sua attenzione al problema pneumatologico ed ecclesiologico. I tratti angelomorfi della riflessione giudeocristiana, combinati con la riflessione gnostica sulla promanazione dall’Uno ed il ritorno degli angeli all’unità del Pléroma avrebbero posto Clemente sulla strada della «spirazione» che si sprigiona dal Cristo angelomorfo, dal Logos Figlio angelomorfo, dagli angeli, dagli spiriti e dalle anime sante, dalle quali, grazie al sacrificio del Logos fattosi carne, promana od «esala» (anathymiòmenos) il Logos immanente nelle anime, anelando esse a tornare all’unità della Chiesa celeste ed angelica e rendendo presente il Logos nelle varie sedi dell’unica Chiesa terrena. Questa volge la sua supplica a Dio onnipotente, perché la sua offerta sia portata sull’altare del cielo «per le mani del tuo angelo santo»52.

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Dal Canone Romano.


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IOANNES IUSTUS LANSPERGER (1490 CA-1539) E L’ “UOMO INTERIORE”

ROBERTO OSCULATI*

1. LA BIBLIOTECA DI UN CERTOSINO Ad un giovane novizio di nome Goffredo lo sperimentato ed erudito collega invia una serie di raccomandazioni sul modo adeguato di prepararsi alla vita monastica certosina. Essa contempla pure una sistematica attività di lettura e di studio. Assieme alla disciplina della vita comune e al continuo riferimento alla figura del maestro è necessaria la conoscenza di una scelta di autori del passato. Le loro opere testimoniano la secolare vitalità dell’istituzione e guidano il singolo ad assumerne personalmente le caratteristiche interiori ed esteriori. Il monaco ha bisogno di costruire giorno per giorno se stesso in tutti gli aspetti della sua vita in base a modelli caratteristici. Il primo classico consigliato è Tommaso da Kempis, ritenuto l’autore dell’Imitazione di Cristo e di altri opuscoli analoghi: «totum enim interiorem hominem informant suaviter ac quodam modo pungunt»1. Segue l’ Horologium

* Docente di Storia del Cristianesimo presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. 1 I.I. LANSPERGIUS, Operum minorum…libri XIII, Colonia 1555, n. 16, ep. XI. Il grosso volume è privo della numerazione di fogli o pagine e ai primi tredici libri ne sono stati aggiunti altri. L’ esemplare qui usato apparteneva alla biblioteca della comunità monastica benedettina di San Nicola l’Arena ed è disponibile presso le Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero di Catania. Una antologia uscì anche


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divinae sapientiae del domenicano Enrico Suso assieme agli opuscoli del francescano Bonaventura. Dionigi Certosino è suggerito per le opere Scala e Eptalogus. Poi la memoria si volge al passato più antico e ricorda le Vite dei padri assieme alle Collationes di Cassiano. Di nuovo la teologia francescana appare con lo Stimulus divini amoris, già spesso attribuito a Bonaventura ed in seguito assegnato a Giacomo da Milano. Lo Speculum spiritualium è seguito dall’ opera dell’umanista italiano del XV secolo Matteo Vegio De perseverantia e dal Directorium di Hendrik Herp. La teologia mistica dei fiamminghi è presente ancora con Jan Ruusbroec, di cui si richiamano genericamente alcuni opuscoli. La segue Jean Gerson, le cui opere sono “devotioni et monasticae eruditioni accomodata”. Si aggiungono Profectus religiosorum, in italiano ad opera del canonico regolare Serafino da Bologna ed ebbe per decenni una larga diffusione e ripetute edizioni: Libro spirituale chiamato Pharetra divini amoris, Venezia 1548. Giovanni Giusto, detto Lansperger dalla città bavarese di Landsberg cui deve le sue origini, studiò filosofia a Colonia. Poi dal 1509 esercitò la vita monastica nella Certosa di Santa Barbara nei pressi di Colonia. Suoi compiti principali furono l’istruzione dei novizi, la predicazione e soprattutto la stesura di una grande quantità di scritti religiosi nel periodo turbolento dei primi decenni del XVI secolo. L’edizione complessiva delle numerose opere avvenne dopo la morte sotto la guida del collegaTeodorico Loher († 1554) e fu più volte ripresa fino alla conclusione del XIX secolo. I singoli testi, dal linguaggio fortemente emotivo e dalla semplice struttura didattica, ebbero pure una notevolissima diffusione internazionale attraverso molteplici traduzioni. Essi vollero presentare l’esperienza religiosa cristiana nelle forme della lettera, del breve manuale, della raccolta di preghiere e di invocazioni. Il credente deve essere accompagnato da un benevolo ed esperto maestro lungo il percorso dell’imitazione di Cristo, segno universale di misericordia e amico dell’anima. Le dispute dottrinali della chiesa del tempo vanno superate in una visione teologica sperimentale e pratica, basata su una positiva educazione interiore di ogni cristiano illuminato in ogni momento dalla parola evangelica. La tradizione benedettina, nella rielaborazione certosina di Bruno ed in quella cistercense di Bernardo, fornisce i tratti concreti ed aperti a tutti di una riforma ecclesiastica che prenda le sue mosse dall’intimo di ogni cristiano. Le basi neotestamentarie della teologia della Certosa, ripresa tra la fine del XV secolo e il XVI, sono evidenti ad esempio in Bruno, Expositio admodum peculiaris in omnes divi Pauli epistolas, Parigi 1509. Si noti che a questa edizione sono state aggiunte in appendice le omelie di Giovanni Crisostomo sull’apostolo Paolo.La figura, un tempo assai celebre ed oggi quasi ignota di Giovanni Giusto, è stata delineata da S. Autore, Lansperge, in Dictionnaire de théologie catholique, VIII, Parigi 1925, coll. 2606-2609 e H. ROSSMANN, Lanspergius, in Dictionnaire de spiritualité, IX, Parigi 1975, coll. 230-238.


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Alphabetum divini amoris, Epistola Jesu Christi ad fidelem animam, dovuti all’autore stesso, il Melogranatum del cistercense Gallo del XIV secolo, Gabriel Biel con il trattato Super canon missae, adatto per chi aspira al presbiterato. Agostino predicatore e commentatore dei Salmi, Gregorio Magno dei Dialogi e dei Moralia, Bernardo rappresentano i classici della teologia occidentale. Infine lo Speculum historiale di Vincenzo Di Beauvais delinea le tappe fondamentali della storia umana e propone le vite dei santi. Per le questioni prevalentemente giuridiche e formali si consiglia l’uso di due Summae moderne un tempo molto diffuse, quella domenicana di Silvestro Mazzolini e quella francescana di Angelo da Chivasso. Nell’indirizzo dottrinale del certosino appare subito evidente il totale disinteresse per le grandi opere speculative come quelle di Bonaventura, Tommaso d’Aquino, Scoto e Ockham e dei loro seguaci nei due secoli successivi. La vera sapienza cristiana non ha bisogno della metafisica, della logica e della dialettica aristoteliche, che avevano invaso le aule universitarie e sembravano presentarsi come il più solido canone razionale per l’esposizione della dottrina ecclesiastica. I concetti astratti, gli orizzonti impersonali delle visioni filosofiche, le infinite dispute che ne nascono non hanno nulla a che fare con l’evangelo e la sequela personale dell’umanità di Cristo. Questa infatti, come appare nel Nuovo Testamento e nelle sue premesse profetiche, è il criterio unico della teologia intesa come conversione personale, imitazione fedele, amicizia intima, immedesimazione appassionata. Esempio ne sono i racconti che descrivono la vita dei monaci antichi assieme alle opere didattiche di Cassiano, basate su esperienze esemplari, immediate e coerenti. Il monaco Agostino commentatore dei Salmi e predicatore segue questa medesima impostazione pratica, basata sull’imitazione di Cristo e sulla partecipazione al suo mistico corpo. Pure Gregorio, formatosi nella vita monastica, esalta nei Dialogi il rinnovarsi della fede e dei prodigi caratteristici dei primi passi dell’evangelo e nel commento a Giobbe mostra come la Scrittura antica diventi esistenza viva in coloro che vi si identificano e ne fanno la loro guida pratica e quotidiana. Bernardo riprende la tradizione tipicamente latina in cui prevalgono l’affetto nei confronti del concetto, l’emozione e l’immagine contro ogni calcolo, la pratica oltre


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ogni teoria, la partecipazione personale come vera vita della comunità. La lettera XXVII ad un nuovo certosino aggiunge a Cassiano il monaco Giovanni Climaco, autore di una notissima Scala. Il grande teorico di questa esperienza viva e concreta è il cosiddetto Dionigi l’Areopagita, ancora ritenuto discepolo ateniese dell’apostolo Paolo. A lui spetta aver formulato i principi della vera sapienza cristiana come teologia mistica o teosofia, che si contrappone a quella recente delle scuole universitarie. Il certosino sa bene che questo tipo di teologia predilige il rapporto affettivo nei confronti di una verità fatta esistenza umana ed essa, partendo dalle sue origini neotestamentarie, è andata continuamente rinnovandosi anche negli ultimi secoli. Egli la ritrova sia presso i domenicani che tra i francescani oltre che nel rigore dell’opera attribuita al canonico Tommaso da Kempis e nella sottile sensibilità dei fiamminghi. Di fronte a quel grande edificio esteriore che era andato costruendosi da tempo e alle contestazioni cui ormai veniva sottoposto soprattutto in Germania occorreva vagliarne le autentiche fondamenta. Esse non stavano né in una visione dottrinale astratta ed impersonale, né in un sistema gerarchico autoritario, nemmeno in riti garantiti da una lunga tradizione e neppure in sicurezze economiche e politiche o alleanze con i poteri civili. Neppure si poteva accettare l’esaltazione luterana di una fede priva di una continua educazione spirituale e morale, quale invece stava alla base dell’impegno monastico. Se questo però, assieme a qualunque attività ecclesiastica, si fosse posto esclusivamente su un piano esteriore e formale, avrebbe tradito le sue origini e la sua vera natura. Ad una ipocrisia ecclesiastica se ne sarebbe sostituita una solo apparentemente religiosa. Anzi due riduzioni della fede a formalità impersonali si sarebbero rispecchiate e contrapposte in una società solo nominalmente cristiana. Invece la figura viva di Cristo, che emerge dagli evangeli, dalle lettere di Paolo, dall’Apocalisse, doveva essere il vero punto di riferimento della fede e del suo radicamento interiore. La sapienza monastica ed in particolare quella certosina avevano il compito di mostrare con la massima coerenza anche nei tempi recenti questo aspetto essenziale della religione cristiana. Le dispute e le ribellioni che squassavano l’edificio ecclesiastico sembravano infine riferirsi ad aspetti


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esteriori e secondari. Il vero problema doveva essere posto nel continuo confronto con la delineazione evangelica dell’umanità di Cristo quale canone unico, fondamentale e concreto della fede. La serie di autori proposta è una severa selezione nell’ambito di molte e diverse forme di teologia cristiana e di vita ecclesiastica quali venivano presentandosi nei primi decenni del secolo XVI. La biblioteca certosina esprime una scelta tra possibilità diverse, mentre sostiene un indirizzo teorico e pratico coerente. Il monaco lo ribadisce in un’altra lettera, rivolta ad un Enrico in procinto di aggregarsi all’ordine domenicano2. Di nuovo appare la preoccupazione di buone letture, capaci di orientare praticamente il novizio. Intanto viene ribadita l’importanza degli opuscoli di Bonaventura anche per un adepto della comunità domenicana. A lui si aggiunge il francescano Davide di Augsburg con il suo Speculum virtutis. Poi il certosino si preoccupa di indicare autori domenicani capaci di fornire una visione pratica, concreta e personale della fede. Così ricorda l’opuscolo De vita spirituali di Vincenzo Ferrer, il De eruditione claustralium di Umberto di Roman, assieme ad alcuni testi attribuiti ad Alberto Magno e a Tommaso d’Aquino. Infine torna ai suoi preferiti: le Vitae patrum, Cassiano, Giacomo da Milano e Suso, che era domenicano. La Scrittura, esaminata secondo questo criterio ed applicata alla propria vita, presenta una serie di visioni coerenti e interconnesse. La natura nella sua immediatezza rivela le opere divine più universali: nella loro armonia e organicità si manifestano anche nella vita vegetale ed animale. Ad essa si sovrappone l’esperienza spirituale caratteristica degli esseri umani e della vicenda biblica, che culmina nell’umanità esemplare di Cristo. Questa duplice visione della natura e della storia deve trasformarsi in una autocoscienza interiore del soggetto umano alla ricerca della conoscenza di se stesso e della vera giustizia. L’esperienza interiore e l’azione esteriore diventano così il riflesso di un ordine supremo iscritto nella natura universale, intessuto nella storia e divenuto sapienza pratica di colui che se ne lascia illuminare e ne diventa partecipe. Come appare nel linguaggio di molte

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I. I. LANSPERGIUS, Operum minorum, ep. XXV.


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opere citate, tutta la realtà diviene specchio di un’origine sublime ed invisibile che diffonde ovunque i raggi della sua luce. Oppure è parte di un universale orologio che scandisce per tutti il suo tempo. Il susseguirsi del giorno e della notte, il mutare delle stagioni, lo sviluppo dei vegetali, il comportamento degli animali accompagnano la liturgia biblica della comunità e la costruzione progressiva della propria vita spirituale. L’educazione monastica si compie in una scuola che tutto comprende ed è sempre attiva in attesa del compimento finale della vita del cosmo e della storia. Il male e la colpa costituiscono un limite esterno rispetto alla zona di luce. Il mondo dell’oscurità, della confusione, della menzogna, dell’ipocrisia fin dall’inizio cerca di invadere quello originario e deve sempre di nuovo essere respinto in un esercizio continuo di illuminazione, redenzione e rinascita. I confini tra l’uno e l’altro passano all’interno di ogni persona ed in ogni sua azione, debitrice di un doppio universo spirituale sempre in lotta nel suo intimo. Soltanto l’umanità di colui che è stato sorretto pienamente dalla forza del divino può entrare senza timore in questo agone, trasformare le opere sataniche della sofferenza e della morte in forza redentrice, attrarre a sé ogni essere umano. Di fronte alla sfida che percorre l’esistenza di ognuno si deve prendere coscienza della totale nullità delle forze spirituali del singolo. Dopo la colpa delle origini l’individuo è irrimediabilmente attratto dalle tenebre del male, ma l’energia spirituale diffusa dalla redenzione è pure universalmente attiva. Ad essa occorre affidarsi totalmente, con essa bisogna immedesimarsi e con la sua forza confondersi in ogni aspetto dell’esistenza. Ogni dignità, diritto, merito, arroganza sono abbandonati nella coscienza della propria nullità, per rifugiarsi infine nel mistico corpo di Cristo, che tutti accoglie, purifica e presenta al Padre. È evidente quanto una simile teologia sia dotata di una energica ispirazione paolina, secondo la quale la fede è immedesimazione nelle estreme vicende del messia, ucciso e vincitore della morte. Insieme è debitrice della visione spirituale di Giovanni e della sua contemplazione della parola divina fatta carne umana, superiore a tutte le formulazioni ecclesiastiche e ai conflitti della ragione. Dionigi l’Areopagita l’aveva indicata in modo esemplare. Da essa si deve venire istruiti per


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sollevarsi oltre la spessa coltre degli artifici di una mente chiusa in se stessa ed avvolta nelle proprie visioni parziali suggerite da meschini legami con la materia. La vera sapienza si basa sulla immersione nella parola divina che la rende semplice ed unica, certa ed infallibile. Essa produce la sospensione dei sensi e dell’intelletto, è pacifica, silenziosa, modesta, dotata della massima evidenza, dignità ed elevatezza. È abbondante e splendente. Mostra un metodo pratico e concreto per liberare la mente ed il cuore dalle catene del mondo e avvicinarsi con umiltà e fiducia alla sublimità e alla condiscendenza del divino3. Da questa visione interiore della giustizia e della grazia nasce l’impegno morale quotidiano come lotta contro l’incombenza illusoria delle passioni ed imitazione dell’umiltà evangelica. 2. FIDELES INFIDELITER VIVUNT «I fedeli vivono da infedeli e detestano nei fatti lo stesso mio crocifisso che a parole proclamano. Lo confessano con la lingua, lo negano con le opere»4. Questo è il giudizio che l’anima unita al Cristo proferisce sulla cristianità. Dalle origini della predicazione evangelica nella sua semplicità e nettezza si è verificato un costante processo di allontanamento dalla sua vera natura. Lo stesso moltiplicarsi di tradizioni ecclesiastiche, che sembrano essersi sostituite alla parola e ai fatti dei primordi, rivela un processo di degenerazione apparentemente inarrestabile. Se si vuole essere davvero evangelici, non sarebbe meglio per tutti rifarsi direttamente a quell’insegnamento ed abbandonare tutto il resto? Infatti “chi vivesse in maniera autentica e sincera per l’evangelo (come ho affermato), a costui non mancherebbe nulla sia rispetto alla salvezza che rispetto alla perfezione”5. Così termina una lunga serie di istruzioni che il Cristo, unico e vero maestro dell’ anima, rivolge ad essa. Come un tempo egli ha parlato ed agito davanti ai suoi discepoli e ne è poi seguita la loro testimonianza, così fa sempre e dovunque nei confronti di chi non si accontenti di apparenze superfi3

ID., Methodus ad veram christianamque pertingendi theosopphiam, n. 1. ID., Soliloquia animae fidelis, n. 22, c. V. 5 ID., Institutio et summa christianae perfectionis, n. 15, l. II, p.V. 4


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ciali ed esiga di ascoltare direttamente l’istruzione evangelica. Il genere letterario scelto dal monaco riprende una tematica apocalittica (Apocalisse 1-3): colui che ha compiuto tutto il percorso dalla natura divina alla sua rivelazione nella carne umana diviene maestro interiore sempre attivo con il suo insegnamento ed esempio. Oltre la congerie spesso confusa ed ipocrita della vita ecclesiastica, è necessario tornare alle origini del messaggio che risuona sempre di nuovo nell’intimo delle persone desiderose di ascoltarlo. La chiesa moderna deve riprendere il suo cammino dall’esperienza interiore dei singoli. Fondandosi sul carattere esemplare delle origini e sulla tradizione del monachesimo viene proposta ancora una volta la via dell’educazione personale, della costruzione interiore, della rinascita morale. Il grande edificio ecclesiastico esteriore accumulatosi nel corso di molti secoli è completamente privo di valore, se non è accompagnato da un rigoroso ed appassionato impegno personale. Tutti i suoi diversi aspetti sono strumenti, spesso mutevoli e provvisori, che acquistano valore solo per quanto esprimano un contenuto spirituale sorgivo ed originale. Esso è un frutto esclusivo dell’incontro tra le più intime esperienze personali ed il divino mostratosi nella figura del maestro evangelico6. L’essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza del divino. L’astuzia diabolica ha reso impossibile l’esercizio di questa dignità, ma l’evangelo è divenuto una scuola dove chiunque può scoprire la sua vera natura, accogliere un dono ultimativo, esercitare la sua libertà. Il discepolato evangelico si costruisce attraverso una serie di esperienze in cui l’essere umano prende coscienza di se stesso ed entra in comunione con le sue vere origini oltre le tenebre della colpa. Innanzitutto deve percepire al di là di ogni esercizio intellettuale la suprema realtà del divino e scoprire, nonostante la miseria umana, la propria affinità con essa. La conoscenza di se stessi diventa aspirazione ad una vita originaria e fontale, da cui ci si è allontanati nelle tenebre e nelle illusioni. La condizione di peccato, quale estraneazione dal divino e costruzione di un mondo artificioso, esige il

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ID., Exercitiorum christiformium liber unus, n.17.


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distacco da tutto quanto ha sviato l’anima dalla sua origine e l’ha immersa in contraddizioni, menzogne e miserie. I cinque sensi soprattutto esercitano uno stretto legame nei confronti di realtà solo apparentemente essenziali, ma divenute esclusive e dominanti. I primi quattro esercizi descrivono la vita purgativa. Alla radice di questo rivolgimento spirituale lungo e faticoso sta un continuo esercizio (il quinto) di autocoscienza e liberazione, che indica il cammino della vita illuminativa. L’intelligenza deve liberarsi da tutte le costruzioni false e meschine in cui l’intelletto umano usa disperdersi. La volontà deve staccarsi dai legami con valori parziali e secondari per volgersi ad un amore unico e supremo. Infine la memoria, che fa da sfondo a tutta l’esperienza spirituale, deve imparare a riposare su una realtà primordiale ed onnicomprensiva. Anche dal punto di vista religioso e morale l’essere umano ha bisogno di un rovesciamento totale di se stesso dalla molteplicità all’unità, dalla dispersione alla concentrazione, dall’esteriorità all’interiorità, dalla dimenticanza di se stesso all’esercizio dell’autocoscienza, dalle illusioni alla verità. Una vera riforma del grande sistema ecclesiastico, ereditato dal passato e messo sotto giudizio dalle sempre più diffuse ribellioni, deve basarsi sulla prima radice interiore e spirituale della vita umana sia del singolo che delle comunità. Un mutamento delle strutture esteriori, quasi fossero il vero problema della cristianità, non farebbe che perpetuarne le carenze. Un efficace processo riformatore deve prendere le mosse dalla propria educazione personale alla scuola dell’evangelo, che si trasforma sempre di nuovo e per ognuno da un evento storico verificatosi nel tempo e nello spazio in una esperienza immediata ed interiore. Così esso è apparso ai primi discepoli sul lago di Galilea o nella Gerusalemme del tempio e della legge. Allo stesso modo si ripresenta come evento spirituale nella scuola quotidiana della liturgia, nel dialogo spirituale con maestri e compagni di strada, nell’analisi sincera e continua di se stessi, nello studio dei testi esemplari. La riforma ecclesiastica come trasformazione personale trova la sua radice in questo rispecchiamento del divino nell’umano ed è scandita da un universale orologio. La conformazione di sé ad una sapienza nascosta e sublime esige di liberarsi dalle finzioni caratteristiche della vita mondana. Predilige la povertà,


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l’umiltà, il silenzio, la compassione, la misericordia, l’amicizia, l’uguaglianza. Non apprezza l’arroganza, la violenza, l’esibizione, l’inganno, il lusso, le dispute, le rivalità: sono manifestazioni diaboliche, come le Scritture insegnano. 3. COR IMPERTURBATUM ET NUDUM Il sesto esercizio per raggiungere l’unione con il Cristo evangelico richiede un totale spogliamento interiore dalle realtà mondane, per quanto vogliano attrarre a sé l’attenzione e si facciano dominatrici della vita morale. Ma pure l’attenzione verso se stessi, quasi ponendosi al centro dell’universo con le proprie esigenze individuali, va superata assieme al piacere sensuale, se non si limiti alla pura necessità. Tutti i legami affettivi con la natura devono essere tagliati, se si vuole “essere dipinti secondo l’immagine di Cristo, elevati al suo amore ed assorbiti nel suo abisso”. La solitudine, il silenzio, la custodia del proprio cuore sciolgono i legami con le creature, mentre va eliminata ogni preoccupazione che non sia necessaria, utile e motivata dall’obbedienza. Anzi “ci si deve preoccupare di più dell’intimo esercizio dell’amore che delle opere esteriori delle virtù”, dal momento che solo “l’amore puro rende lo spirito puro, semplice e libero da tutti affinché possa senza fatica ritrovarsi in Dio”. Ogni amarezza, vanagloria o ricerca di consolazione va respinta, dal momento che “una vita perfettamente cristiana non si fonda su una scienza elevata, ma in una profonda umiltà, in una santa semplicità e in un ardente amore di Dio, a cui dobbiamo sempre anelare per morire a noi stessi in un completo abbandono, affinché siamo in grado di essere uniti perfettamente a Dio e di essere assorbiti da lui”. Assieme vanno aboliti gli scrupoli e il timore dell’inferno e della giustizia di Dio con una piena confidenza nella divina bontà. Le difficoltà e le prove non devono muovere all’impazienza, piuttosto confermare nell’obbedienza con la rinuncia alla propria volontà. Una volta raggiunta la purificazione e semplificazione della propria esistenza, il monaco esorta a rivolgersi direttamente all’immagine del crocifisso. La ferite dei piedi devono insegnare l’obbedienza, la pazienza e il silenzio. Quelle del capo mostreranno la sapienza del


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timore di Dio, della discrezione e della semplicità. Il cuore trafitto è segno di fede, speranza e perseveranza. La mano destra, indice di giustizia, mostra la misericordia, la verità e la gratitudine. La sinistra richiamerà all’esercizio delle virtù, in particolare alla castità, alla sobrietà e alla povertà. E così ci si rivestirà di Cristo e ci si trasformerà in lui, come esige l’apostolo Paolo, il grande maestro della conversione e della rinascita. L’ottavo esercizio si baserà sulla continua conformazione alla divinità fattasi carne umana, attraverso l’imitazione, la compassione, lo stupore, la gioia, il dissolvimento e la pacificazione. Pertanto «medita la passione del Signore con l’imitazione, in vista della purificazione della mente e dell’amore; con la compassione, in vista dell’amore e dell’unione; con lo stupore, per innalzare il cuore; con la gioia per l’affetto del cuore; con il dissolvimento per una perfetta conformazione, con il riposo per conservare la devozione».

Raggiunta questa meta e rinnovandone continuamente la presenza ci si può volgere alla realtà esteriore con l’esercizio della povertà, che è una vera circoncisione dell’animo, e soprattutto con l’amore del prossimo. Esso richiede la rinuncia ad ogni condanna, disprezzo, offesa e danno nei confronti degli altri. Si conclude così l’illuminazione dell’animo che ormai volge all’unione con Dio, spoglio di ogni realtà creata, riconciliato con se stesso, immerso nell’amore divino, nella vita unitiva. L’anima individuale si fa liquida ed accoglie il sigillo di Dio sulla sua creazione portata a compimento. È il Cristo vivente con tutto il suo corpo universale, che vive della fede, della speranza e dell’amore. L’essere umano condotto dalla luce e dall’amore divini a questa meta ultima si racchiude in Dio e Dio in lui. In questa esposizione, severa, appassionata e rivolta a chiunque, dell’esperienza propriamente cristiana e dei suoi caratteri fondamentali, si può notare la totale assenza della struttura ecclesiastica, dei suoi riti, delle sue gerarchie, del suo volto mondano. Il monaco è teso soprattutto a delineare la natura di ogni essere umano di fronte al duplice volto che emerge in tutte le sue esperienze. È insieme materia e spirito, peccatore e desideroso di giustizia, chiuso nella sua individualità pervicace e mosso dal desiderio di universalità, pronto alle


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aberrazioni più turpi e dotato di un’elevata dignità. La vita morale si muove su uno stretto crinale tra due abissi: il divino e il diabolico, la luce e le tenebre, l’amore e l’odio, la grazia e la condanna, la vita e la morte. Soltanto uno è stato in grado di camminarvi fino all’estremo senza perdersi e trasformando ogni più angusto limite in testimonianza di bene. A lui e alla sua infinita energia occorre affidarsi dimenticando tutto il resto. Solo a partire da questa fondamentale esperienza interiore si potrà agire positivamente nel mondo di tutti e di fronte alle sue contraddizioni. Forse per questo un altro pio monaco ha aggiunto agli esercizi di conformazione al Cristo una breve appendice. Vi si ricorda ripetutamente la chiesa, ma quella vera è già stata ampiamente delineata nelle sue universali caratteristiche, molto lontane da ogni vanagloria mondana. Essa è nascosta nell’intimità dei veri discepoli e operosa nel silenzio, nell’umiltà e nell’uguaglianza di tutti gli esseri creati. Di fronte alla croce sono tutti allo stesso modo segno di una razionalità ed un amore infiniti. Quelli umani tuttavia per se stessi sono soltanto ignobili peccatori, miserabili vermiciattoli, mendicanti spregevoli in attesa di un gesto di grazia cui afferrarsi per essere trascinati oltre i loro artifici ovvero stabiliti secondo la natura delle origini e della fine. 4. SCINTILLAE ANIMAE Il percorso interiore della conversione, dell’illuminazione e dell’unione deve continuamente essere ripetuto e rivolto al racconto evangelico della vita di Cristo. Essa è la scuola suprema dell’anima e del corpo di chi voglia essere pervaso dalla sapienza divina. Colui che medita il testo, colto nella sua connessione con la profezia e la sapienza ebraiche, contempla la divinità fatta carne umana. La segue nella sua rivelazione, si immedesima con essa, la ama e la invoca. Il monaco propone centocinquanta aspetti della narrazione, da cui nasce un linguaggio umano capace di rivolgersi direttamente al divino ed invocarlo secondo le diverse vie della conoscenza acquisita. Meditazioni e invocazioni sono divise in tre gruppi dal numero identico. Il primo va dalla creazione e dalla figura di Maria fino all’infanzia di Cristo e alla sua azione pubblica. Il secondo è dedicato alla passione,


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dal tradimento di Giuda fino alla salita al Calvario. Il terzo è ispirato alla crocifissione, agli inizi dell’attività apostolica e all’ultimo giudizio. Tutto l’itinerario è riassunto in trenta versi latini, costruiti con centocinquantatre espressioni che richiamano la lettura evangelica. A loro volta i richiami sono commentati ad uno ad uno con tre versi ed una breve preghiera. Ciò che è apparso esteriormente e si è disteso nel processo del tempo e delle esperienze diventa vita attuale dell’anima nella sua ricerca del divino e criterio dell’azione morale. Il lettore è chiamato a farsi partecipe della storia esemplare, a riviverla in se stesso e ad entrare in comunione con Dio e con tutta la creazione secondo i canoni proposti. Ciò che richiede una lunga applicazione intellettuale e morale può essere in ogni momento e sotto ogni aspetto sintetizzato come una scintilla interiore dotata di infinite modalità. Tutte nascono dalla stessa fonte e sono dirette alla stessa meta. Il tempo, lo spazio, le vicende del mondo si raccolgono in aspirazioni istantanee che unificano e superano qualsiasi molteplicità7. La successiva raccolta somiglia ad una faretra ricca di centinaia di invocazioni che possono essere considerate come frecce lanciate verso la meta ultima della divinità. Esse servono per ogni persona ed occasione: tutto può essere vissuto nella prospettiva del cammino che conduce dall’esteriorità ingannevole del mondano all’unità sublime del divino attraverso l’umanità di Cristo. L’anima illuminata dalla sua verità e dal suo amore non conosce estraneità o opposizione, deve farsi testimone di tutti e per tutti di fronte alla grazia in cui ogni colpa è sommersa. I propri problemi, le amicizie, i giusti e i peccatori, i tentati e i desolati, assieme ai battiti dell’orologio e ai compiti quotidiani sollecitano l’animo desideroso di una universale giustizia a vegliare con attenzione sul cammino del mondo. Di peculiare interesse sono le formule suggerite “pro ecclesiae catholicae reformatione”. Il monaco è lontanissimo dal pensare a provvedimenti dottrinali, rituali o giuridici, ad iniziative della gerarchia politica o religiosa. Ritiene che la vita ecclesiastica sia caduta in una gravissima corruzione: ne nascono i conflitti che la dilacerano e 7

ID., Theoriarum de ortu, vita, passione et glorificatione domini nostri Iesu Christi beatissimaeque matris eiusdem liber unus, n. 18.


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sono la punizione delle sue infedeltà. Tuttavia solo la voce e l’esempio di Cristo possono riunire la chiesa nell’unico ovile dell’unico pastore. Nessuna iniziativa umana è in grado di compiere questa azione riformatrice, che spetta invece a lui e deve scaturire dalla profondità dell’animo dei suoi veri seguaci. Egli è l’unico maestro e il redentore di tutti, ugualmente sommersi nella propria follia. La sua sofferenza e la sua morte indicano quell’abisso di grazia in cui i peccati sono travolti ed annullati, purché si voglia accettare questo dono. Nessun essere umano può attribuirsi una simile iniziativa, piuttosto la coscienza della propria nullità accoglie un gesto che tutto purifica. Una vera riforma della chiesa può nascere soltanto da quegli atteggiamenti che l’evangelo attribuisce a Pietro dopo il tradimento, al buon ladrone sulla croce, alla peccatrice gettatasi ai piedi di Cristo8. La riforma scaturita dalla contemplazione della sofferenza e della morte sacrificali deve partire dal significato spirituale e definitivo del cuore trafitto di Cristo e delle piaghe del suo capo, delle sue mani e dei suoi piedi. Quello è il punto di incontro tra l’umano e il divino a favore di tutti coloro che, persi in un mondo illusorio, nel corso della vicenda mondana non sono mai oggetto di una sentenza definitiva. La teologia della Certosa si confronta con i sommovimenti ecclesiastici dei primi decenni del XVI secolo basandosi sull’immagine evangelica del crocifisso quale canone supremo della fede. Essa è ampiamente ribadita nel Libro unico delle meditazioni o dell’alfabeto d’oro di ciascuna anima fedele e devota a Dio su Gesù Cristo sposo sofferente. Il libro sulla partecipazione di Maria alla sofferenza del figlio la indica come esempio sublime del percorso di ogni anima e di tutta la chiesa. Una grande sensibilità immaginosa, emotiva e poetica si fa spesso luce pur nella severità della vita monastica e si manifesta in una serie di inni dotati di indicazioni per l’esecuzione musicale. I Soliloqui dell’anima fedele riassumono il percorso verso la giustizia ottenuta per grazia. Gli esseri umani, tutti ugualmente segnati dalla colpa, sono invitati dalla forza dell’amore divino ad uscire da un corpo pervertito e da un mondo fallace. Devono volgersi alla Geru-

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ID., Pharetrae…., n. 20, l. I, parte IV.


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salemme celeste assieme a tutta la creazione rimasta esente dalla colpa. Nel cuore di Cristo tutto trova la liberazione e la strada verso un positivo compimento. Il monaco che vive fedelmente in base alle sue tradizioni spirituali, proprio nella umiltà e nel suo silenzio, si fa maestro di una cristianità depravata ed indica a tutti la via universale della redenzione. La sua esperienza non rimane isolata quasi fosse qualcosa di riservato solo ad alcuni. Pone in luce al contrario la vera natura della fede cui tutti devono adeguarsi, pur nella differenza delle vie esteriori. 5. MILITIA CHRISTIANA «L’humiltà, la serenità nella faccia, la benignità nel cuore, nella voce la piacevolezza, nella parola la maturità, la compositione ne i costumi, ne i gesti una lieta vergogna»: questi sono i caratteri di colui che unisce la sapienza naturale e quella evangelica, l’umanesimo razionale e quello cristiano9. L’ideale della vita monastica può essere allargato anche ad altre condizioni di vita, che pur nella loro diversità, mostrano quale dignità debba essere conquistata da ogni essere umano con un lungo lavoro di analisi e di costruzione di sé. Arrivando alla fine del suo opuscolo, che per molti decenni conobbe un grande successo, il certosino riassume il percorso verso quella che egli considera vera umanità attraverso quindici tappe interiori. Da questa progressiva educazione di sé nascono le azioni positive e concrete nel contesto della società umana. Conformemente ad una allora diffusa interpretazione del cristianesimo il primo passo da compiere è quello di una completa diffidenza verso le proprie forze spirituali. Soltanto la fiducia esclusiva nella misericordia divina può costituire la base di un cammino spirituale positivo. L’attenzione spirituale poi deve essere rivolta alla critica di se stessi tralasciando ogni attenzione verso i difetti altrui. Ognuno deve essere preoccupato delle proprie insufficienze indipendentemente da quelle che crede di rilevare in altri. 9 ID., L’enchiridion della militia christiana per il quale si instituisce l’huomo perfettamente alla nuova vita che è in Cristo, Venezia 1566, f. 191r. L’opuscolo fu pubblicato per la prima volta nel 1532.


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La calma, la pace, l’umiltà, il silenzio devono essere sempre tutelati nei rapporti con le altre persone, cui si deve prestare servizio con sollecitudine senza temere eventuali rimproveri. La parola deve essere ridotta al minimo, assieme alla curiosità e a tutto ciò che non può essere riferito a Dio, di cui esclusivamente si deve essere solleciti. Ogni evento deve essere accolto come se provenisse direttamente dalla sua mano. Ci si deve accontentare del cibo comune, senza chiedere uno speciale trattamento se non a motivo di particolari necessità. Non ci si deve intromettere nei fatti altrui, mentre si deve obbedienza e rispetto ai superiori. Devono sempre essere preferite la solitudine ed una attività lontana dagli interessi mondani. Bisogna seguire con scrupolo tutte le prescrizioni della regola monastica, a meno che non si presentino peculiari necessità. Il certosino, nel delineare questo ritratto dell’uomo spirituale, riprende temi caratteristici della regola benedettina. Senza badare a fenomeni straordinari, a preoccupazioni intellettuali o morali complesse, a contraddizioni e tensioni, occorre piuttosto entrare in un’atmosfera dominata dal silenzio, dall’operosità, dal servizio alle comuni necessità, dalla modestia e dalla fiducia. Al di sopra di qualsiasi evento personale o sociale domina la figura di un divino provvidente e benefico, cui ci si deve rimettere con discrezione, umiltà e amore. Di fronte ai grandi fenomeni della società del XVI secolo, alle sue tensioni e alle sue sciagure, è inutile formulare grandi programmi civili o ecclesiastici, progettare rivoluzioni e trasformazioni dell’ordine esteriore. È necessario piuttosto iniziare da se stessi ed impegnarsi nella correzioni dei propri vizi e delle proprie negligenze. Solo questa trasformazione del singolo, accolta per propria scelta e sviluppata attraverso un lungo percorso, può essere utile agli esseri umani. I grandi fenomeni del mondano appaiono come artificiosi, vuoti, ingannevoli. Sono spesso costruzioni diaboliche cui si contrappone l’esempio del Cristo evangelico, della sua semplicità ed umiltà. Come sempre nelle sue manifestazioni più coerenti il cristianesimo monastico si rifà all’etica degli evangeli sinottici e ad una interpretazione apocalittica della storia umana. Il mondo può essere corretto solo se gli esseri umani non si lasciano affascinare dal potere, dal denaro, dalla violenza. Il divino è presente nei fenomeni opposti e


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nascosti, che possono essere scoperti solo nell’intimo della propria coscienza e in un continuo sforzo di autocritica e di semplificazione. È compito della comunità liturgica ed etica fornire la testimonianza di questa sapienza che, proprio nella sua umiltà, può trovare posto in ogni cuore umano. Una Lettera di Gesù Cristo, molte volte riedita e tradotta fino al presente, riassume in modo semplice e rivolto a tutti la teologia sperimentale del certosino10. 6. LE BEATE VERGINI GERTRUDE, MATILDE ED ELISABETTA Nella seconda metà del XVI secolo e all’inizio del successivo ebbe un grande successo un grosso volume curato dal teologo tedesco e pubblicato nel 1536. Vi sono contenute le rivelazioni della monaca cistercense Gertrude di Helfta (1256-1302). Si tratta di cinque libri in parte dovuti alla dettatura della colta visionaria, in parte a testimonianze e rielaborazioni delle compagne nel celebre monastero sassone. Il testo latino fu tradotto anche in italiano e nelle biblioteche storiche se ne trovano tuttora moltissime copie11. Il genere letterario dell’opera rispecchia un canone per il quale il curatore dimostra una chiara preferenza: il dialogo dell’anima con il Cristo vivente nel suo intimo e sempre presente con la sua voce, i suoi gesti, i suoi esempi. L’interpretazione spirituale del Cantico sta alla base di questa letteratura e il cistercense Bernardo è il modello di un profondo rapporto affettivo ed immaginoso con la figura dello sposo evangelico. Il racconto storico relativo alla figura di Gesù viene trasferito in una presenza interiore che avvolge completamente l’anima e il corpo. Anzi il Cristo glorificato, ma con i segni vivi della passione, prende possesso del tempio personale dell’amata. Tutta l’esperienza personale è occasione perché si possano descrivere i tratti della sua trasformazione in una amicizia intensa ed intima con l’amico sempre presente ed attivo. Il sonno e la veglia, il lavoro e il riposo, la preghiera liturgica, le 10

Una lettera di Gesù Cristo, Roma 1990. Tra le diverse edizioni si veda ad esempio: G. LANSPERGIO, Vita della B. Vergine Gertruda, Venezia 1589. La traduzione italiana è di Vincenzo Buondi, uscì per la prima volta nel 1560 e fu ampiamente diffusa. 11


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relazioni con le compagne, le vicende della comunità, i luoghi e i tempi della giornata sono occasioni per un sempre più stretto dialogo d’amore. Ogni evento viene reinterpretato in una prospettiva immaginosa che trasfigura ogni istante e lo fa vivere in un modo da superare le modeste dimensioni della clausura monastica. L’universo assume la sua figura più propria di fronte alla sublime maestà del divino, rivelatosi nella carne di Cristo cui l’anima si associa senza remore. Tutto appare trasfigurato, posto in una prospettiva originale, dotato di un senso ultimativo. L’esperienza religiosa assorbe in sé la vita del corpo e dell’anima e la colloca in una dimensione apocalittica ovvero di continua rivelazione del divino attraverso immagini o emozioni. La realtà appare in una dimensione doppia, dove all’esteriorità elementare e mondana si accompagna una scenografia che la trasvaluta e fa apparire la vera dimensione dello spirito. Se Gertrude giace ammalata e non può partecipare alla liturgia comunitaria, lo sposo le è vicino e la consola osservando che egli stesso è al centro della preghiera ufficiale: l’esteriorità dell’adempimento regolare può essere ben sostituita dalla sua presenza interiore. Qualsiasi sofferenza fisica o morale diventa una partecipazione alla croce, così come ogni felicità rivela la liberazione dai limiti umani. Dietro ogni parola del canto liturgico si manifesta l’immensità della nuova vita e soprattutto l’eucaristia diviene una comunione con la vita dell’amato. Nelle relazioni con le compagne e nei problemi che ne possono sorgere lo sposo è sempre vicino per consolare, sostenere, spiegare, incitare. La sua parola e la sua presenza amorosa superano ogni dubbio o conflitto. Le sue braccia sono sempre pronte ad accogliere e proteggere, i due cuori palpitano uniti e danno luogo ad un affetto comune che dovunque si effonde. Nelle sue ferite si trova sempre rifugio, il sangue e l’acqua del suo petto cancellano ogni male e donano sempre nuova fiducia. Se egli sembra assente o in preda al sonno, vuole così rendere più sollecita l’amata nel ricercarlo. I baci, gli abbracci, gli sguardi, le parole sussurrate o ferventi costituiscono il linguaggio più proprio di questa teologia dell’amore vissuto nelle sue più profonde emozioni. Al seguito della poesia del Cantico anche la natura inanimata è resa partecipe delle emozioni amorose. Giardini fioriti e profumati, acque


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pure e fluenti, luci d’ogni colore, vestiti, oro e pietre preziose fanno da sfondo al rapporto tra i due amanti, che celebrano la riconciliazione di tutto il creato. La natura, trasformatasi in un paradiso interiore, rivela la sua primitiva e finale origine divina, dove un nuovo e sublime Adamo ed una nuova Eva iniziano il cammino dell’umanità redenta. Il lungo trattato teologico assume l’aspetto di un romanzo o diario poetico molto lontano da qualsiasi strumentazione impersonale ed obiettiva. Esso inizia con le prime esperienze della protagonista, una volta che ha abbandonato la vita mondana, e percorre una lunga serie di tappe che la conducono verso l’apice dell’amore supremo proprio nella ristrettezza ed austerità della vita monastica. In una chiesa che nelle sue strutture più imponenti si è sovraccaricata di pesi mondani l’esperienza interiore della monaca mostra la via opposta della dimensione affettiva. L’evangelo va riscoperto e vissuto come si è mostrato alle sue origini: non come organizzazione giuridica, politica, economica e rituale, ma come intimità con il suo testimone esemplare. Ci si deve ispirare soprattutto al discepolo prediletto, che riposò sul petto di Cristo, fu presente alla sua crocifissione, ne accolse la madre e ne comprese i più profondi misteri. Il divino è presente nel mondo in una condizione rovesciata rispetto alle grandi strutture della vita comune cui la chiesa gerarchica si è troppo facilmente adeguata. La monaca dell’epoca gotica e le sue compagne sono pervase da un atteggiamento spirituale caratteristico di quei tempi: la ricerca di una visione interiore e simbolica di un mondo purificato dal male, l’esigenza di una verità e di un amore ultimativi che cancellino le ombre e conflitti del male. Molti passi appaiono molto vicini alla poesia del Paradiso di Dante o alla pittura e scultura del tempo. A partire dalla più esigente sensibilità umana si apre l’infinito amore, che sceso nella carne sofferente la trasporta verso il divino. Il monaco rinascimentale vuol ripresentare, davanti alle tensioni della chiesa del XVI secolo, una teologia insieme della croce e dell’amore, di un rovesciamento della coscienza mondana di sé. Verità ed amore si mostrano anzitutto con le piaghe del crocifisso, respinto ed ucciso dai poteri diabolici. Ma, come insegnano Paolo e Giovanni, si rivelano nel cuore e nelle opere dei suoi veri amici e seguaci, dove egli vive ed opera senza ostacoli. Ed anche qui domina una interpretazione apocalittica della storia. Di fronte all’e-


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vangelo essa manifesta un doppio volto: quello diabolico della violenza e quello divino della sofferenza innocente e dell’amore senza limiti. L’erotismo medievale, tanto presente nella letteratura e nella teologia, e quello rinascimentale, non meno vivido nel pensiero e nell’arte, fanno uso di un movimentato linguaggio sentimentale. Nell’atteggiamento onnicomprensivo di quelle culture, ogni minimo aspetto della realtà proviene dalla medesima fonte e riconduce ad essa, purché non si elevi nella propria peculiarità a canone esclusivo o a meta ultima. Una raffinata emotività conduce ad immaginare il Cristo celeste come un giovane sedicenne in un giardino primaverile, come un amante che finge di dormire per farsi vezzeggiare, come chi afferra il mento dell’amata per avvicinare le sue labbra all’orecchio. Si tratta di una via per raggiungere il fine ultimo dell’esistenza, dove ogni traccia di verità e di amore trova il suo compimento. Le esperienze umane naturali e fondamentali costituiscono i gradini di una scala infinita che passa sempre oltre se stessa e le sue singole tappe. La trascendenza evangelica è strettamente congiunta al cammino del singolo tra i beni del mondo, immagini di una realtà totale verso la quale indirizzano in base al loro volto più proprio. L’immaginosa e fervida sensibilità femminile della monaca si pone al centro del mondo. Oltre ogni struttura esteriore, per quanto rispettata, la sua intimità supera ogni criterio obiettivo e convenzionale. Come nell’umanità sofferente ed amante di Cristo si manifesta il bene supremo, così accade nella sua, sempre più strettamente associata a quella. La liturgia pubblica della chiesa e della regola monastica si trasforma in un totale assorbimento di se stessa nei misteri celebrati. Il quarto libro è una completa interpretazione dell’anno liturgico come identificazione nel sacrificio di Cristo, nella maternità di Maria, nelle diverse esperienze dei santi. La vera chiesa terrestre si unisce a quella apocalittica per redimere quella dei tradimenti, delle malvagità e delle ipocrisie. Si tratta di un compito di offerta, di purificazione e di dedizione analogo a quello della croce e si rinnova sempre fino al termine della storia12. La condizione apocalittica della nuova crea-

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Ibid., 233-399.


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zione, che si sostituisce a quella deformata dalla colpa, è così descritta con gesti e parole dello sposo divino: «Inchinandosi l’anima, egli la ricevette nel suo divino seno, e di questa maniera tenendola stretta nelle braccia, soavemente facendole vezzi, cantava così: All’immagine d’Iddio fatto è l’huomo, e poi toccando gli occhi, e l’orecchie, la bocca, il cuore, le mani, e i piedi di quest’anima ed ogni parte del suo corpo, dolcemente cantando ridiceva le medesime parole, per cagione delle quali degnamente venia a rinovare in lei la sua divina imagine e la sua degna sembianza»13.

Il cristianesimo occidentale dei secoli successivi è stato assai spesso condizionato dall’esigenza di darsi una rigida conformazione impersonale e razionale per delinearsi nettamente nella varietà delle confessioni e di fronte alle pretese sempre più organiche dello stato moderno. Una teologia basata su un linguaggio poetico, affettivo, esistenziale è sembrata incapace di definire i tratti della vera chiesa e rinviata ad un aspetto secondario della religiosità. Solo qualche individuo o piccolo gruppo di ferventi o mistici ne avrebbe potuto dare testimonianza, mentre alle masse e ai loro gerarchi era più importante presentare una dottrina ed una morale esattamente circoscritte in tutti i particolari. Le testimonianze amorose della beata Gertrude, un tempo molto apprezzate ma poi considerate provocatorie ed antiquate, meritavano solo un lontano ricordo da parte di un cristianesimo propenso alle formule dottrinali e all’ordine giuridico. Il romanzo della monaca cistercense, riproposto dal certosino contemporaneo di Lutero, voleva mostrare invece una via che rimanesse lontana dalle dispute dottrinali, giuridiche e politiche in cui il cristianesimo stava logorando se stesso. Alle scenografie pericolose della mondanità voleva sostituire quelle intime e segrete dell’amore, con la sua libertà, i suoi paradossi, i suoi sogni e le sue provocazioni. È la strada percorsa in Italia dalla teologia francescana di Angela da Foligno, da quella domenicana di Caterina da Siena, dall’agostiniana Chiara da Montefalco, da Caterina da Genova e da molte altre.

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Ibid., 281.


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L’avrebbero seguita alla fine del XVI secolo la carmelitana Maddalena de Pazzi ed ancora più avanti la francescana Veronica Giuliani. In Spagna dominò la figura eminente di Teresa d’Avila. L’immagine dell’unione amorosa doveva indicare il cardine della teologia e della chiesa nel corso dei tempi. Secondo la monaca sassone lo avevano mostrato Agostino, Leone, Benedetto, Gregorio, Bernardo, Francesco e Domenico assieme alle vergini e martiri della chiesa primitiva. In una delle visioni più ardite Cristo stesso quale supremo sacerdote celebra per lei una solenne liturgia eucaristica. Ma poi, «chiamandola a lui, e nel suo seno delicatamente riponendola, con dolci baci facendole vezzi, si degnò tanto grandemente verso di lei, che con la virtù della sua divinità, meravigliosamente ingombrandola, diede a lei forza di poterlo ricevere tutto dentro di sé e di unirsi di tal maniera con esso lui, che la venne a fare un’istessa cosa con esso lui, per quanto però si può credere ch’alcun’altra persona mai vestita dal peso di questa carne il possi intendere»14.

L’editore certosino aggiunge alle visioni un breve manuale, I sette esercizi spirituali della B. Gertruda15. Si tratta di un serie di meditazioni e invocazioni attraverso le quali un vero cristiano prende coscienza della sua fede e ne rinnova in se stesso la presenza. Gli argomenti sono: 1. il battesimo, la confermazione e l’eucaristia; 2. la conversione; 3. il matrimonio spirituale; 4. il voto monastico; 5. l’amore divino; 6. la lode e il rendimento di grazie; 7. la penitenza dei peccati e la preparazione alla morte. Tutto il percorso dell’esistenza viene interpretato come un dialogo ininterrotto con il Cristo vivente e le tappe fondamentali vanno ripetutamente riprese in giornate dedicate all’uno o all’altro tema. Non soltanto la vita monastica deve esercitarsi in questa autocoscienza spirituale, ma ogni cristiano può adattare a se stesso questi percorsi interiori che guidano la sua attività nella vita mondana. La stessa scuola monastica di Helfta produsse un’altra opera riproposta dal monaco di Colonia assieme alla precedente. Si tratta dei

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Ibid., 398. Ibid., 497-572.


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cinque libri delle rivelazioni di Matilde di Hackerborn (1240-1299)16 . Anche qui, conformemente alla tradizione benedettina, la celebrazione liturgica assume un ruolo fondamentale. Ogni sua parola o simbolo apre una dimensione apocalittica analoga a quella del visionario di Patmos, sebbene qui la preferenza vada ad immagini consolatorie e positive. Il primo libro è tutto dedicato a questa prospettiva17. L’umanità di Cristo anche negli aspetti fisici rivela la vera giustizia, in cui ci si deve immergere per raggiungere la perfezione del divino. In particolare il cuore è il simbolo più efficace della sua presenza, in cui ci si deve perdere per essere del tutto conformi a lui: «Et a questo modo quella beata anima tutta con Giesù Christo incorporata et unita e liquefatta dell’amor divino, come cera nel sigillo impressa, rappresenta la sua bella immagine e col suo diletto divenne una cosa stessa»18. Questa identificazione emotiva con il crocifisso permette di farsi testimoni della sua universale misericordia verso il genere umano corrotto. Un minimo gesto di fiducia nella misericordia divina apre le porte della salvezza anche a chi non ha compiuto alcuna opera giusta, come in una visione afferma una figura esemplare, il minore tra i santi: «Tutti i mali ch’io feci, non li feci io per malitia, ma quasi per una certa consuetudine, non sapendo meglio fare, perché da’ parenti miei a questo ero stato allevato e in questo nutrito»19. Qualsiasi colpa può essere dimenticata e sommersa dall’effusione dell’amore crocifisso, di fronte al quale tutti sono ugualmente peccatori. Anche il più incallito delinquente trova comprensione ed aiuto da parte della grazia divina e di chi se ne fa testimone. Un’altra raccolta di visioni femminili e monastiche si aggiunge alle due precedenti ed è attribuita ad Elisabetta di Schönau (1129-1164)20. Sette sono le vie per ascendere al monte della perfezione spirituale, 16 Libro della spiritual grazia, delle rivelazioni e visioni della beata Mettilde vergine, Venezia 1589. La traduzione italiana fu preparata da Antonio Ballardini e conobbe anch’essa una larga diffusione. 17 Ibid., 7-98. 18 Ibid., 31. 19 Ibid., 85. 20 Libro delle visioni della beata Elisabetta vergine, ibid., 210-240.


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divise a seconda della funzioni svolte nella chiesa e nella società: la contemplazione, l’operosità, il martirio, il matrimonio, la continenza, le prelature, la vedovanza. Ognuno percorre una sua strada, che converge nella meta e rivive il messaggio evangelico secondo una propria prospettiva. Molto duro è l’ammonimento nei confronti degli ecclesiastici, tanto diversi dagli antichi pastori, che vissero «non già nelle cupidigie del guadagno, non nella magnificenza delle vesti, né anco erano i loro discorsi dietro a i cani e uccelli, non nella dissoluzione del cuore, non nella crapula ed ebrietà, non nelle immondizie della carne, né anco nella vanità dei giuochi»21. Questo atteggiamento 21 Ibid., 234. Alla Certosa di Santa Barbara, fondata nel XIV secolo e vivace centro di studi, appartennero altri personaggi di grande rilievo culturale e teologico come Pietro Blomevenna ( 1466-1536) e Gerardo Kalkbrenner ( 1494-1566). Vi operò pure Lorenzo Surio (1522-1578), a cui si deve il rifacimento della raccolta agiografica di Luigi Lippomano (1496-1559). L’enorme collezione, De probatis sanctorum historiis, I-VI, Colonia 1570-1575, presenta i testi relativi ai santi celebrati nella liturgia cattolica e suddivisi per giorno, mese e anno. Si tratta di una sconfinata galleria di personaggi e di leggende che vogliono indicare con le loro vite prodigiose la vera natura della chiesa terrestre quale preparazione a quella dei cieli. Il laborioso certosino si dedicò pure alla traduzione latina e alla diffusione europea delle opere di Taulero, Ruusbroec e Susone. Teodorico Loher aveva intanto preparato, oltre alla edizione complessiva delle opere di Lanspergius, quella di Dionigi di Rijkel. È evidente la presenza di un programma teologico e pratico ispirato alle tradizioni monastiche, mistiche e liturgiche del tardo medioevo e della cultura umanistica di ispirazione neoplatonica. Si deve pure notare la vicinanza di queste posizioni a quelle di alcuni primi gesuiti di cultura settentrionale come Pietro Favre (1506-1546) e Pietro Canisio (1521-1597), che ebbero relazioni assai strette con i certosini. Vedi L. FELICI, Favre Pierre, in Dizionario biografico degli italiani, 45, Roma 1995, 482-487. Sul periodo di maggiore attività della Certosa di Santa Barbara vedi G. CHEUX, Recherches sur la Chartreuse de Cologne au XVI siècle, Analecta cartusiana, Salisburgo 1981. Il traduttore italiano di una parte delle opere di Lanspergius, Serafino Aceti de’ Porti (14961540), un canonico lateranense detto pure Serafino da Fermo o da Bologna, nei suoi opuscoli teologici si ispira alla medesima scuola nordica. Vedine la traduzione latina in Opuscula ad vitae perfectionem apprime facentia, Piacenza 1570. Una linea parallela fu seguita dal benedettino Louis de Blois (1506-1566), abate di Liessies in Francia. Spinto da analoghe esigenze riformatrici e sulla base della medesima tradizione teologica produsse sintesi molto apprezzate per lungo tempo in tutta Europa. Tra le edizioni dei suoi scritti vedi ad esempio la raccolta Opera, Colonia 1615. Qualche decennio dopo un analogo stile teologico fu seguito in Italia dal poeta e monaco cassinese Angelo Grillo (1550-1629), un tempo assai noto. Tra le sue raccolte di testi molte


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Ioannes Iustus Lansperger (1490 ca-1539) e l’ “uomo interiore”

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emotivo e basato sulle immagini trova sempre una sua ragione di fronte ai problemi della chiesa e della società cui deve testimoniare la misericordia evangelica. La comunità monastica fedele alle sue origini non deve dare soltanto una testimonianza spirituale, ma ha pure il compito di soccorrere le infermità fisiche e la povertà che spesso la circonda. Così sovente le visionarie usano un linguaggio molto concreto riguardo ai compiti sociali che la regola benedettina da secoli imponeva. La fiducia nella presenza di Cristo, l’unità, il culto misterico, la coerenza morale, la concretezza, la libertà e le attese apocalittiche della chiesa primitiva sono di nuovo proposte dal monachesimo femminile medievale e dal loro estimatore certosino del XVI secolo. Il cardinale Giovanni Bona, cistercense ed eruditissimo espositore della teologia monastica, esprimeva questo sintetico giudizio: «Ioannes Iustus Lanspergius verae pietatis instructor exactissimus»22. Un tono asciutto e severo assumono le collezioni dei discorsi religiosi dedicati ai testi della liturgia. Dopo una rapida parafrasi del testo apostolico il monaco presenta diversi esempi di commenti evangelici. La figura di Gesù nei suoi vari aspetti è il canone sia dell’esposizione didattica sia delle conseguenze morali che ne vengono tratte. Eretici e falsi cristiani si arrestano alle affermazioni di una fede che non si trasforma nell’imitazione effettiva della vita di Cristo quale è presentata dal racconto. I primi infatti si vantano di una fede che ignora l’esercizio spirituale del singolo, i suggerimenti di una lunga tradizione ascetica e l’unità del corpo di Cristo. I secondi, soprattutto nella gerarchia sacerdotale, hanno spesso stravolto l’esercizio dei ministeri ecclesiastici e ne hanno fatto occasione dei vizi più depravati. Invece ogni tratto del testo è indice della grazia spirituale di cui ci si deve rivestire per farsene imitatori e testimoni. Quanto viene presentato deve volte riediti vedi ad esempio De’ pietosi affetti, Venezia 1613. Soprattutto il Cristo torturato ed ucciso e il dolore di Maria sono motivi presentati con variazioni senza fine all’anima che cerca la verità e l’amore. Il tumulto delle vicende mondane e l’inconsistenza della vita individuale possono essere superati solo nell’adesione ad una testimonianza estrema di redenzione e di grazia. A proposito di questa tradizione teologica e letteraria vedi F. FERRETTI, Le muse del Calvario. Angelo Grillo e la poesia dei benedettino cassinesi, Bologna 2012. 22 G. BONA, Notitia auctorum et librorum, in Opera omnia, Anversa 1734, 600.


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trasformarsi nella vita concreta di coloro che partecipano all’azione liturgica. In base a questo criterio esemplare ed esistenziale viene commentato il percorso di tutto l’anno liturgico sulla base dei suoi tempi per poi illustrare l’esempio dei santi. La partecipazione intensa e coerente al ciclo annuale nei suoi diversi aspetti costituisce la più solida introduzione ad una fede divenuta esperienza compiuta23.

23

Vedi ad esempio l’edizione secentesca: I. I. LANSPERGIUS, Sermones in evangelia et epistolas, I-II, Colonia 1609. Quanto le tradizioni bibliche, pratiche ed esistenziali della teologia monastica rimanessero vive nella teologia luterana e tedesca sulla grazia evangelica può essere rilevato ad esempio da una vasta trattazione sistematica come quella di J. Carpov, Theologia revelata methodo scientifico adornata, II, Jena-Lipsia 1739, 659-1188. Ispirata da una parte al Nuovo Testamento e dall’altra all’universalismo di Leibniz, essa pone al suo centro la fede come compimento dell’ordine naturale e legale nell’imitazione concreta della vita di Cristo. In questa prospettiva vengono superate le dispute sul rapporto tra fede e opere, sulla libertà umana, sulla predestinazione. La Scrittura è la testimonianza suprema di un definitivo ordinamento spirituale, cui occorre adeguarsi in modo sempre più intenso e personale. Il ministero ecclesiastico, liberato da ogni pretesa di dominio delle coscienze, ha piuttosto un compito di sollecitazione e di esempio. Secondo un’immagine riproposta dal teologo la fede con una mano si afferra all’umanità e alla divinità di Cristo, con l’altra ne dà testimonianza operosa nel mondo storico in attesa del compimento finale.


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L’ETHOS DEL MINISTERO ORDINATO

MAURIZIO ALIOTTA*

PREMESSA Al di là della crisi degli ultimi anni causata dagli scandali degli abusi sessuali sui minori1 e dal cattivo uso del denaro da parte di ministri della Chiesa, non è nuova l’esigenza di tracciare un profilo morale di coloro che sono chiamati a svolgere il servizio di guide delle comunità cristiane. A semplice titolo di esempio basti ricordare i testi del corpus paolino, per la testimonianza neotestamentaria, e il discorso sui pastori di Agostino2, per la tradizione patristica latina. Nel corpus paolino, il ministero è presentato come un dono che si attua nel servizio. Esso si colloca sullo sfondo delle comunità fondate dall’A*

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. N.J. RIGALI, S.J., Church Responses to Pedophilia, in Theological Studies, 1994, 55, 124 ss.; X. DIJON, S.J., L’Eglise de Belgique dans la tourmente pedophile, in Nouvelle Revue Theologique, 2010, 132, 607 – 618; N. HAUSMAN, S.C.M., Note sur la crise des “pretres pedophile”, in Nouvelle Revue Theologique, 2010, 132, 619 – 627; E. CONWAY – L. LUKÁCS, Casta meretrix – the Church, Sinful and Holy, in ETStudies 2 (2011) 2, 157-174, S. MÜLLER, ‘Touching the body, hurting the soul’. Some reflections about the importance of non-dulistic anthropological conceptions in moral theology, in ETStudies 2 (2011) 2, 175-196 ; N. MAGUIRE, Repentance and the Law. The Intersection of Theological, Legal and Criminological Perspective, in ETStudies 2 (2011) 2, 197-221. 2 Cfr. il ben noto Discorso ai pastori, disc. 46 in CCL 41, 529-557; cfr. pure il Discorso per l’ordinazione di un vescovo, in AGOSTINO, Discorsi/5, Roma 1986, 10001023. 1


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postolo che possiamo definire “carismatiche”, perché «composte da individui, ciascuno dei quali ha ricevuto i doni del ministero da esercitare per il bene comune (1Cor 12, 7-11)»3. Alcuni ricoprivano un ruolo di presidenza con la funzione di consentire a tutti gli altri di esercitare i propri ministeri. Così si menzionano figure come quelle di vescovi, diaconi e presbiteri di cui si traccia il ritratto ideale nella prima lettera a Timoteo4. Spesso tali considerazioni sono formulate a partire dal punto di vista dei requisiti umani (psicologici, spirituali e morali) necessari per accedere al ministero. Con le riflessioni che seguono vorrei considerare un altro punto di osservazione. Tracciare il profilo etico del ministero a partire da ciò che la teologia comprende del ministero stesso. Si tratta in un certo modo semplicemente di applicare i dati della teologia del ministero ordinato all’ambito morale. Per far ciò assumerò come punto di partenza quanto elaborato da Karl Rahner già prima del Concilio Vaticano II ma in qualche modo già anticipatore dell’insegnamento del Concilio stesso, da cui sviluppare alcune riflessioni sistematiche. 1. IL PROBLEMA Il punto di vista scelto nasce dal convincimento che una riflessione morale sul ministero ordinato nella Chiesa ha senso se si occupa delle conseguenze del sacramento dell’ordine nell’esistenza di colui che lo riceve. La questione è posta con chiarezza e immediatezza da Rahner: «Ci domandiamo se il sacerdozio cattolico influisca in qualche modo essenzialmente sul comportamento esistentivo dell’uomo che ne è rivestito»5

3

C.G. KRUSE, Ministero, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, tr. it. a cura di R. Penna, Cinisello Balsamo 1999, 1002. 4 1Tim 3,1-13; 5,17-20. Sono numerosi i richiami di Papa Francesco al modello ideale di pastore; i suoi interventi sono facilmente reperibili in www.vatican.va. 5 K. RAHNER, Esistenza sacerdotale, in Saggi sui sacramenti e l’escatologia, Roma 19692 [ed. ted. 19593], 265-305: 265.


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Il linguaggio di Rahner è ovviamente datato, ma i termini della questione sono attuali. Parla di “esistenza” nel senso heideggeriano: «La parola “esistenza” […] è presa nella sua accezione moderna, per indicare l’essere concreto del singolo uomo come tale, che nel suo agire morale dispone definitivamente di esso nella sua totalità»6. Per comprendere in che modo l’ordinazione influisca sul ministro ordinato occorre ricordare non solo, ovviamente, cosa sia l’ordine e quali le sue funzioni (servizio, governo, parola, culto), ma prima ancora e in termini generali che il “sacerdozio” per il cristiano non è la possibilità di porre un atto di culto e di adorazione a Dio, atti mediante i quali arriviamo a Lui, perché in realtà è per «un’azione di Dio stesso, solo per la quale l’uomo è in grado di porre un atto, che onora Dio e santifica lui stesso»7. Qui c’è la differenza tra cristianesimo e altre religioni: il culto non è visto come la possibilità dell’uomo di arrivare a Dio e, con ciò, di santificarsi, ma come l’onore dovuto a Dio, con cui ci si santifica, reso possibile dall’iniziativa di Dio stesso. Il cristianesimo, infatti, è in «primo luogo e fondamentalmente Cristo stesso. Perciò è anzitutto una realtà salvifica esistente nell’ambito della storia umana, dal momento in cui il Figlio di Dio, facendosi uomo, divenne capo e rappresentante dell’intera umanità in forza della sua dignità personale e della sua appartenenza alla stirpe di Adamo. Come tale egli rese il culto di adorazione e di oblazione assoluta e definitiva a Dio, redimendo così radicalmente l’umanità. La presenza nella storia umana di questo atto salvifico, quale atto unico, libero e storico di Dio stesso, è il fondamento del cristianesimo»8. Questa verità fondamentale del cristianesimo delinea i limiti della “mediazione” del ministero ordinato nella Chiesa. Questa precede il ministero, nel senso che già è costituita nei suoi tratti essenziali da Cristo stesso, di cui è «espressione necessaria, [presenza storica e sacramentale] della realtà salvifica di Cristo»9. La conseguenza è che 6

L.c. Ibid., 274. 8 Ibid., 273 s. 9 Ibid., 281. 7


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«coloro che detengono in essa i poteri, non creano la “Chiesa” o la possibilità di una mediazione storica e universale della salvezza, ma la suppongono. Essi non saranno mai “mediatori”, nel senso di poter stabilire di loro iniziativa “un rapporto” fra Dio e l’uomo, gettare per la prima volta un ponte su un presupposto abisso. Rappresentano in forma concreta e più visibile, sono i segni sacramentali di una realtà già stabilità da Cristo e da lui solo per una funzione mediatrice fra Dio e gli uomini: la Chiesa»10. Dopo aver precisato quello che è solo di Cristo e non si può attribuire al ministero ordinato, bisogna però comprendere quali elementi che lo caratterizzano sono determinanti per l’esistenza “sacerdotale” e che, quindi, influenzano il suo comportamento, l’ agire morale del ministro. Posta la premessa precedente, dovremmo escludere — come fa Rahner — l’elemento cultuale, perché tutti i battezzati ne sono partecipi e da ciò ne consegue un impegno per tutti i battezzati (cfr. il “sacrificio spirituale” di cui parla Paolo: tutta la vita deve esser un culto reso a Dio). Inoltre il culto non impegna in senso “tecnico” tutta la vita del ministro, lo fa come dovrebbe farlo ogni altro battezzato. Diversamente le cose stanno per l’elemento “profetico” e “apostolico” che accompagna l’ordine. Si tratta infatti di una vocazione che impegna tutta l’esistenza del cristiano e in un modo del tutto nuovo quella del ministro ordinato. Bisogna subito chiarire che anche l’elemento profetico è una partecipazione a Cristo il solo profeta in senso proprio. Nella sua partecipazione a Cristo profeta, il ministro è dunque semplicemente un discepolo, però un discepolo che è a servizio non solo di Cristo, ma anche dei fratelli in quanto il suo sacerdozio ministeriale ha lo scopo di rendere possibile il sacerdozio universale11. 10

L.c. «Se è impossibile immaginare un corpo vivente privo di struttura relazionale dei suoi organi, non si potrà immaginare nemmeno un corpo della chiesa privo di un ordine suo interno, di un’articolazione dei diversi compiti, e tra questi i compiti dell’apostolo, del profeta, del dottore (1Cor 12, 28). Ma di che tipo è questo ordine interno? Quale rapporto riconoscere fra i diversi compiti? La prima e fondamentale risposta 11


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Di più, l’elemento profetico è accompagnato dalla “predicazione”: qui vi è il coinvolgimento permanente di tutta l’esistenza del ministro ordinato. La validità del sacramento prescinde — per la teologia cattolica — dalle qualità morali del ministro. La predicazione in verità coinvolge tutta la persona del ministro, perché nella sua qualità di annunciatore egli non è un “freddo” professionista. Non deve essere soltanto un uomo che “riferisce” la Parola di Dio, ma «fa in modo che questa parola divina e salvifica tocchi l’uomo». Rahner nota la differenza tra una professione e la vocazione cristiana e ministeriale: «Dal punto di vista esistenziale e cristiano esse [le professioni civili]12 sono solo della variazioni non essenziali dell’unico essere e dell’unica vita cristiana assunti col battesimo e con la cresima, quali sacramenti che conferiscono un carattere; perciò non implicano nuovi sacramenti. Oppure, sotto un altro punto di vista, il sacramento corrispondente alla vocazione della vita cristiana “ordinaria” è il battesimo con la confermazione»13. La professione civile perciò non aggiunge sostanzialmente nulla al carattere battesimale ed è praticamente limitata nel tempo e nello spazio. Il ministero della Parola, invece, è un compito che investe l’intera vita del ministro che «esclude limiti interni di tempo, benché alcuni di questi siano imposti esternamente dalle necessità pratiche della vita. […] La predicazione del vangelo di Cristo […] non è solo

potrebbe suonare: il rapporto d’immediatezza con Dio, come istituito mediante Cristo e in lui; è l’asse attorno al quale ruota la comunione del popolo di Dio e quindi anche la vita di ciascun cristiano. E proprio per mantenere viva questa vocazione comunitaria ed anche esistenziale, esistono i ministeri» (F. COURTH, I sacramenti. Un trattato per lo studio e per la prassi, Brescia 20053, 363-364). 12 Si tenga conto che nel tedesco contemporaneo “professione” è Beruf e “vocazione” è Berufung; ambedue provengono dalla comune radice verbale rufen, che nella forma transitiva significa “chiamare”. Per le implicazioni di tale radice comune e lo sviluppo semantico del termine Beruf / Berufung, cfr. l’interessante excursus nel classico di MAX WEBER, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tübingen 1922 (tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze 19845, 138163). 13 K. RAHNER, Esistenza sacerdotale, cit., 293.


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un’esposizione di realtà oggettive ”in sé evidenti”, in cui la persona debba rimanere il più possibile fuori dal gioco […]. Al contrario, per sua particolare natura dipende fondamentalmente dall’impegno esistentivo e personale del predicatore»14. L’ordinazione, inoltre, conferendo un particolare carisma dello Spirito Santo «necessario alla predicazione del Vangelo e in forza del quale essa si dimostra vera e reclama legittimamente l’obbedienza, santifica il predicatore stesso e determina quindi la sua esistenza. Ciò significa che la predicazione è avvalorata essenzialmente dalla prova che la grazia annunciata è nel predicatore stesso una realtà»15. Vi deve essere un rapporto tra santità e ministero perché si manifesti la verità della predicazione. «Il grado più elevato di esistenzialità della verità si raggiunge nella verità in cui Dio rivela se stesso. Ad essa dovrebbe corrispondere un’esistenza resa dalla comunicazione dello Spirito Divino ontologicamente “congeniale”, sicché l’impegno esistenziale sarebbe sempre un operare nello Spirito Santo. Quando invece la verità non è manifesta nel corrispondente impegno esistenziale, si esprime nella proposizione solo il suo involucro concettuale umano inanimato, la sua “esattezza” formale, non il suo contenuto oggettivo. Nell’istante in cui la Chiesa cessasse di essere santa in tutti i suoi predicatori, cesserebbe anche d’essere la “verace” proclamatrice della verità cristiana. Questa finirebbe di esistere. La predicazione della rivelazione divina esige, proprio per il grado specifico di verità del suo intimo contenuto costitutivo, l’impegno esistenziale del predicatore»16. Naturalmente bisogna spiegare come questo impegno sia nuovo rispetto a quello di ogni battezzato. La novità risiede nel legame tra predicazione e culto. Infatti l’ordinato che annuncia da ministro di Cristo il messaggio che Cristo gli ha affidato, «parla come l’unico autorizzato a rendere nuovamente presente nel culto la realtà salvifica di Gesù. Per questo e per la missione a lui trasmessa da Cristo attraverso

14

Ibid., 297-98. Ibid., 299. 16 Ibid., 301. Nella Evangelii gaudium, papa Francesco cita, tra gli altri, un passaggio della Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II in cui si afferma che «la 15


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la successione apostolica, egli non parla solo come uno che sia stato colpito dalla parola di Dio. Non rende testimonianza della sua personale qualità di cristiano in quanto tale, pur essendo ciò, per lui e chi lo ascolta, condizione indispensabile della predicazione genuina. Egli annuncia la stessa parola di Cristo»17. Diversamente da tutti gli altri battezzati che devono sempre testimoniare la propria fede e predicare quando le circostanze della vita lo richiedano, il ministro ordinato lo deve fare e dovunque (predicazione e testimonianza, naturalmente vanno sempre insieme nel senso detto). Ora, «un compito che impegna l’esistenza dell’uomo e non è concesso con la situazione propria della vita umana e cristiana, assume un significato esistentivo essenzialmente nuovo»18. L’argomentazione di Rahner è sostenuta dalla testimonianza neotestamentaria che fa derivare ogni “etica” sacerdotale dall’elemento apostolico in senso stretto, non da quello cultuale (cfr i discorsi missionari del Signore, At 20, 18-38; 1Cor 2, 1ss.; 3, 5-15; 4, 1-21; 9, 123; 2Cor 1-7; 10-12; Col 1, 23-4,1; 1Ts 2, 1-12; Lettere pastorali; Eb 13, 7s.17 ecc.). «L’apostolo è chiamato ad attualizzare, all’interno della comunità ed al tempo stesso pure di fronte ad essa, in modo vincolante, Gesù, la sua persona, il suo messaggio ed il suo servizio. Questo compito apostolico viene poi affidato ai discepoli degli apostoli ed ai collaboratori, maschili e femminili, variamente qualificati, oltre che ai diaconi, agli anziani ed ai vescovi»19. Il ministero apostolico si configura dunque come servizio permanente20. Su questo aspetto dobbiamo ora soffermarci, perché il servizio costituisce un tratto tipico dell’agire del ministro ordinato.

maggiore o minore santità del ministro influisce realmente sull’annuncio della Parola» (PDV 26, cit. in EG 149). 17 Ibid., 302. 18 Ibid., 303. 19 F. COURTH, I sacramenti, cit., 373. 20 Cfr. ibid., 366.


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2. IL MINISTERO COME “SERVIZIO” «Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero (tèn diakonían)» (2Tim 4, 5): si descrive qui il programma di vita del “ministro” (cfr il contesto dei vv. 1-5). Il “fare” del discepolo è “servizio”: spesso Paolo parla di diakonìa senza ulteriori specificazioni. Parlando di se stesso designa il suo “ministero” in quanto tale semplicemente come diakonìa: rivolgendosi agli anziani di Gerusalemme riuniti con Giacomo «cominciò a esporre nei particolari quello che Dio aveva fatto tra i pagani mediante la sua diakonìa (Cei: “per mezzo del suo ministero”)» (At 21, 19). Così pure scrivendo ai Romani rivendica il fatto che «come apostolo dei Gentili faccio onore alla mia diakonìa (Cei: al mio ministero”)» (Rom 11, 13). Chi lavora per il Regno è “servo/diacono”, così lui e Apollo sono «servi/diaconi attraverso i quali siete [voi corinzi] venuti alla fede …» (1Cor 3, 5. Cei: servitori attraverso i quali …”). I “servizi” sono diversi ma uno solo è il Signore (cfr. 1Cor 12, 5). Tutti i “ministeri” sono connotati, pur nella loro varietà, da una caratteristica comune, cioè per la loro natura (la diakonìa) sono destinati a … per il Signore. La diakonìa è un servizio a favore dei santi (cfr. 2Cor 8, 4 e 9, 1): sia che si tratti dell’annunzio dell’evangelo mediante la predicazione («noi ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della parola (diakonía toû lógou)» di At 6, 4), sia si tratti del servizio alle mense (At 6, 2) o ai fratelli che soffrono per la carestia (2Cor 8,40.9, 1). … per il Signore: l’adempimento di questo servizio sacro [l’aiuto ai cristiani di Gerusalemme che soffrono la fame] non provvede soltanto alle necessità dei santi, ma ha anche maggior valore per molti ringraziamenti a Dio (2Cor 9, 12). Il servizio, dunque, caratterizza il discepolo: sia i discepoli storici di Gesù, sia quelli attuali. Nella prospettiva matteana della sua catechesi sul discepolo e il discepolato si descrive una scena di vita familiare, comune a tanti. Una malattia, una visita, un’espressione di amicizia e partecipazione: le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo (cfr. Mt 8, 15). Notiamo una progressione: Gesù va dalla suocera di Simone,


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opera un beneficio: Gesù serve (“Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire …” (Mt 20, 28 // Mc 10, 45; Lc 22, 27: io sto in mezzo a voi come colui che serve) ed è prontamente servito. Gesù che benefica è beneficato. Matteo sottolinea questo aspetto del servizio a Gesù perché Mc e Lc dicono: “cominciò a servirli”. La suocera di Pietro potrebbe essere modello di chi si mette alla sequela di Gesù e lo serve e servendo Lui serve tutti gli altri21. Ci si potrebbe domandare se non si nasconda qui una forma di strumentalizzazione dei poveri. Servire i poveri per salvarci? No! il povero si ama perché ha bisogno di essere amato. Vedi la sorpresa dei giusti e dei malvagi. Chi serve per secondi fini (sia pure per la salvezza) strumentalizza l’altro. Chi è insofferente, per non dire altro (ribrezzo, disprezzo, razzismo, …), verso i poveri è fuori dal Regno. La tradizione ebraica conosceva una tale concezione. Servire le categorie a cui si riferisce lo stesso Gesù è servire Dio. Escludere qualcuna di esse dalla propria vita è escludere Dio. Il criterio di giudizio della prassi, nella prospettiva escatologica, è l’amore, il servizio. La categoria di servizio è usata da Gesù per indicare il premio eterno: Dio stesso serve a tavola i giusti (Lc 12, 37: beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli). Dunque il servizio è una dimensione escatologica caratterizzante la sequela attuale; una dimensione escatologica da vivere già ora nel tempo storico. Il servizio nella storia è anticipazione del Regno – proprio come l’eucaristia22. 3. LA PECULIARITÀ DEL SERVIZIO DEL MINISTRO ORDINATO Il ministero ordinato si è configurato molto presto come «uno speciale servizio che si presta nel quadro della comune missione della 21

Cfr. Mt 25, 31-46: contesto escatologico e discepoli attuali di Gesù. Coloro che servono i poveri hanno servito Gesù. 22 Ricordiamo qui semplicemente che il cap. 7 di Matteo afferma che la prassi cristiana si sintetizza nell’amore e nel cap. 25 di Matteo si mostra che il giudizio ultimo verterà sul servizio.


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chiesa»23. La concezione attuale del ministero pastorale è fondamentalmente quella tracciata da Agostino: «Se siamo cristiani, siamo anche capi. Cristiani lo siamo per noi, capi per voi. Il fatto che siamo cristiani torna a nostra utilità, che siamo capi alla vostra»24. Nella visione agostiniana, il ministro è al contempo pastore e membro del gregge, maestro e condiscepolo. Questo ministero consiste essenzialmente nell’annunzio della fede e la celebrazione dei sacramenti. Questo spiega la particolare posizione di fronte alla comunità: si ha un onere di cui si deve rendere conto25. Lo “speciale servizio” che il ministro ordinato è chiamato a svolgere nella comunità non è altro accanto ai molteplici servizi che lo Spirito suscita nella chiesa. Tutto ciò che il ministro ordinato “fa” nella sua vita è in funzione della predicazione e dell’eucaristia, tutto perciò nella sua vita deve assumere la forma del servizio. Non si tratta di quantificare le ore dedicate al servizio e le ore “fuori servizio”: nel senso che il prete celibe avrebbe più tempo dello sposato. Ciò è, innanzi tutto, smentito dai fatti; in secondo luogo non si tratta solo di quantità di tempo da dedicare, ma del modo e dello stile del tempo dedicato: quello della diakonìa. In questo quadro di riferimento possiamo rileggere quanto il Concilio Ecumenico Vaticano II dice circa una connotazione del ministro ordinato nella sua relazione con la comunità cristiana: l’essere “messo a parte”: «I presbiteri, presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati, vivono in mezzo agli altri uomini come fratelli» (Po 3). Il testo prosegue mostrando il fondamento cristologico: “così fece Gesù”.

23

F. COURTH, I sacramenti, cit., 393. Sermo 46 (De pastoribus), 2; cfr pure il Sermo 340/A per l’ordinazione di un vescovo. 25 Sermo 46, 2: «Ebbene, noi siamo insigniti di due dignità che occorre ben distinguere: la dignità di cristiani e quella di vescovi. La prima, cioè l’essere cristiani, è per noi; l’altra, cioè l’essere vescovi, è per voi. Nel fatto di essere cristiani vanno sottolineati i vantaggi che derivano a noi; nel fatto di essere vescovi, ciò che conta è esclusivamente la vostra utilità». 24


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L’essere messo a parte per … del presbitero si traduce in un radicarsi sempre di più tra gli uomini, da cui si è presi, ma al modo di Gesù: fratello tra i fratelli. Vi è un retroterra paolino che possiamo esplicitare. Nel saluto della Lettera ai Romani l’Apostolo si presenta come «servo (doûlos) di Gesù Cristo, chiamato (kle¯tós) apostolo, consacrato (afe¯risménos) al vangelo di Dio». La sua “consacrazione”, il suo “essere messo a parte” è evidentemente legato all’essere servo e apostolo per chiamata. “Servo” ci dice la sua dipendenza da Gesù, “chiamato” ci dice che l’iniziativa non parte da Paolo stesso ma dal Signore, “consacrato/scelto” ci dice la finalizzazione del suo essere servo e chiamato: annunciare la buona notizia di Dio. Ora, il “vangelo di Dio” è Gesù Cristo e tutta la vita del discepolo è consacrata a Lui. È il senso di questa consacrazione che bisogna, dunque, approfondire. Ci si può consacrare per molte buone cause e anche per delle cattive cause. Paolo stesso si era consacrato alla difesa delle tradizioni dei padri e per questo era diventato un persecutore dei discepoli di Gesù. L’incontro con Lui (la chiamata) lo trasforma: ciò che Paolo ha sperimentato diventa la ragione del suo apostolato. Egli gratuitamente è stato incontrato da Colui che gli svela il senso della “sua” tradizione, della sua vita. Possiamo ben dire che Paolo dopo l’esperienza di Damasco non cambia le sue idee, cambia la sua vita. Cambia il suo modo di vedere le cose e di concepire il suo rapporto con Dio. Il carattere totalmente gratuito di questo rapporto si rivela nello stesso saluto ai Romani, che per Paolo “sono amati da Dio e santi per chiamata”, non per i meriti acquisiti. La santità non è una conquista propria, né è fine e se stessa, ma è dono e testimonianza. Il dono apre uno spazio entro cui la nostra vita si attua nel modo della gratuità e dell’incontro della nostra libertà con la libertà di Dio e in questa sua attuazione diventa testimonianza, manifesta quella gratuità di Dio da cui tutto scaturisce. In questo spazio aperto dall’azione di Dio per noi in Gesù Cristo, la nostra vita trova il suo orientamento e sebbene la meta non sia raggiunta pienamente, tuttavia essa è come la stella polare che indica


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il cammino da fare per non smarrirsi: «Non ho certo raggiunto la meta – dice Paolo –, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù (ef’hô kaì katele¯mfthe¯n hypò Christoû) [la Vulgata traduce: comprehensus sum a Christo Jesu]» (Fil 3, 12)26. Essere presi da Gesù Cristo: non sta qui forse il senso di tutta l’esperienza del discepolo? Del suo essere afferrato da Cristo e vedere in Lui la sola ragione della propria esistenza? Certo, si può diventare cristiani (e preti) per calcolo opportunistico o per convenzione ma ciò non ci fa discepoli, perché la ragione vera della “conversione” non sarebbe Lui, ma il nostro io. Questo essere afferrati da Lui, esige però specularmente una nostra decisione: accogliere Lui e accoglierlo significa radicarci sempre di più in Lui: «Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui (errizôménoi kaì epoikodomoúmenoi en autô), saldi nella fede come vi è stato insegnato » (Col 2, 7). Afferrati da Cristo, ci radichiamo in Lui per farlo vivere in noi: «e non vivo più io, ma Cristo vive in me (zê dè en emoì Christós)» (Gal 2, 20). Non si deve credere che Paolo pensasse ad una sostituzione del nostro io, della nostra coscienza con l’io e la coscienza di Gesù, ma certamente la nostra soggettività radicata e nutrita dalla vita e dalla parola di Gesù si conforma sempre di più a Lui. Non lo vediamo anche nell’esperienza di coloro che si amano davvero? L’amore non cambia le persone? Non le avvicina a tal punto da renderle “simili”, non le fa cambiare nei gusti, nelle abitudini? (Questo esempio lo usava Tommaso d’Aquino per spiegare cosa accade nell’uomo che vive nella relazione con Dio). D’altronde basta proseguire nella lettura di Gal 2, 20: «E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Se il discepolo è una pianta radicata nel buon terreno che è Gesù, porterà “buoni” frutti, potrà annunciare credibilmente la “buona 26 “Comprendere” è far spazio: essere presi da Gesù significa — nella traduzione della Vulgata — essere accolti da Gesù, che fa spazio nella sua esistenza a ciascuno di noi. Si rivela così l’esistenza di Gesù come pro-esistenza.


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notizia”, nonostante tutti i limiti della sua condizione. Il discepolo potrà dire: “Io vivo nel corpo”, in tuta la mia umanità con tutti i limiti e le qualità che essa porta con sé. Come vive Cristo in me? Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. L’evento della croce mi svela il volto di amore di Dio Padre, perché più che un prezzo la croce è un dono! Nel dono radicale di sé a ciascuno di noi, troviamo la ragione dell’essere suoi discepoli. Se questo vale per tutti i battezzati, tutti i battezzati devono vivere il radicamento in Cristo nella loro chiamata specifica, non in astratto. In questo senso allora “Cristo vive in me” perché egli ora è il criterio e la norma della mia vita. Il Concilio sottolinea questa tensione tra l’essere separati da … e l’essere in come Cristo. Più che la dogmatica, in passato è stata la teologia spirituale che ha sottolineato la responsabilità morale di tale vocazione. Essa non può essere mediocre, né siamo noi che possiamo realizzarla ma solo Cristo stesso a cui ci affidiamo, come ricordava il p. Voillaume ai suoi Piccoli Fratelli. «Se è vero che tocca l’infinito, perché appartiene totalmente a Gesù ed è per lui solo, lascia che le mani dell’infinito la realizzino in te. Tu non lo puoi, e se credi di realizzarla, il tuo olocausto non è ancora completo. Se la tua vocazione è divina nel suo scopo e nei suoi mezzi di irraggiamento, deve essere incomprensibile agli occhi degli uomini. Anche tu sei uomo, e agli occhi del tuo amor proprio la tua vocazione, per vivere, deve sfigurare e sembrare una follia»27. “Io vivo nel corpo”: il concilio non a caso sottolinea l’importanza della maturità umana. Come possono esser trasparenza di Gesù preti non pienamente realizzati umanamente? Il servizio che il ministro deve rendere alla comunità esige una maturità umana: non si tratta, infatti, solo del servizio sacramentale28, ma anche del servizio della Parola unito a quello sacramentale. È chiaro che per il carattere di servizio sacramentale, il ministero ecclesiastico va al di là del talento personale e delle doti naturali, ma per la complessità del ministero le 27

R. VOILLAUME, Come loro. Nel cuore delle masse, Cinisello Balsamo 1987, 431s. Come sottolineato da SC 33 e PO, passim, oltre che in LG 10 in maniera esplicita (… compie il sacrificio eucaristico nella persona di Cristo). 28


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qualità umane e le virtù personali non sono indifferenti. Questo naturalmente non significa che la santificazione del popolo di Dio dipenda dai ministri, ma solo da Dio, tuttavia proprio la “grandezza” dell’azione salvifica e gratuita di Dio richiede che l’incarico ricevuto sia assolto in modo degno (nel senso più esteso di questo termine): «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (At 20, 28). Qui l’invito a vegliare il gregge è preceduto da quello di vegliare su se stessi! D’altra parte l’ordinazione è data non per il bene della singola persona, del destinatario del sacramento, ma per il bene di tutta la comunità cristiana, come già Tommaso d’Aquino notava: ordo datur (non) in remedium unius personae, sed totius ecclesiae 29. «Se il ministro e fiduciario di Cristo vede nella comunità il punto di riferimento del proprio servizio non corre poi il rischio di interpretare in modo individualistico l’autorità che egli è chiamato ad esercitare. Qui potremmo lasciarci ispirare da Paolo, quando dice di voler partorire di nuovo i suoi Galati nel dolore, finché non sia formato Cristo in loro (Gal 4, 19). Bisogna però che tutti i battezzati siano all’altezza di questo servizio in vista dell’edificazione del corpo di Cristo. Operando in tal senso anche i pastori della chiesa non dimenticheranno che: 1. al pari e insieme a ciascun cristiano hanno bisogno della grazia del Signore che li salva; anche loro devono accostarsi ai sacramenti; 2. nonostante i differenti compiti che sono chiamati a svolgere, essi vivono pur sempre di reciproci rapporti, improntati al “dare e ricevere”; 3. la loro responsabilità di ministri non esclude quella propria dei membri della comunità, dato che spetta proprio ad essi favorirla e coordinarla»30. In altri termini, si può sinteticamente dire che il ministero pastorale si esercita in un contesto ecclesiale, caratterizzato dalla comunione.

29 30

S.Th. Suppl. q. 35, a. 1. ad 1. F. COURTH, I sacramenti, cit., 400.


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Possiamo perciò riprendere i tre termini del discorso nella loro mutua relazione. 4. DIAKONÌA EKKLESÌA KOINONÌA Ekklesìa koinonìa diakonìa sono i tre termini neotestamentari che dobbiamo riprendere. Il termine ekklesìa in verità non è mai riferito al gruppo dei discepoli che seguono Gesù (neanche il gruppo degli “Apostoli” è indicato col termine ekklesìa). Invece, si riferisce a coloro che credono nella risurrezione di Gesù, dunque è un termine post-pasquale. La realtà dell’ekklesìa è inseparabile dall’evento della morte-risurrezione. Ora, la morte-risurrezione inaugura i “tempi nuovi” e da qui la dimensione escatologica dell’ekklesìa. Ciò spiega perché fin dall’antichità la nascita della chiesa si lega alla Pentecoste (cfr. At 2). At 2, senza usare il termine Ekklesìa, descrive la comunità dei credenti come risultato immediato del dono dello Spirito (2,38-40), unita in una comunione (di solidarietà, di koinonìa, di preghiera di fede, di condivisione) molto tipica, così come è descritta nei “sommari” (2,42-47; 4,32-35; 5, 12-16), che non sono delle cronache, ma un modello teologico (l’ideale a cui tendere). La comunità degli Atti ha la propria origine nello Spirito e nella potenza del Signore Gesù. Ma questa potenza ha raggiunto uomini e donne solo grazie alla “testimonianza” e all’azione degli apostoli (2, 32.37.40-42). Il gruppo apostolico — preso nel fuoco dello Spirito — è cellula madre della chiesa, perché esso solo è capace di rendere testimonianza della morte e risurrezione di Colui che “Dio ha fatto Signore e Cristo” (2, 36), quindi attestare che sono giunti “gli ultimi giorni” (2, 17) e i tempi escatologici — quelli dello Spirito cioè — sono penetrati nel tempo del mondo. Secondo questa prospettiva — tipica dei primi secoli — la chiesa trova la sua forma iniziale in una comunione il cui legame profondo invisibile è lo Spirito del Signore, reso visibile da questo nucleo apostolico che lo testimonia. La testimonianza apostolica centrata sul Risorto, in un certo senso,


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prende il posto della presenza fisica sperimentata da Colui che prima della pasqua veniva ascoltato e “seguito”, di cui d’ora in avanti si proclamerà l’opera salvifica. Entrare nella comunione significa aver parte di questa opera di Dio, significa quindi appartenere al mistero dei tempi escatologici, quelli dell’ “avvenire” dell’avventura umana. Tutti i gesti e le parole del ministero di Gesù verranno riletti alla luce di Pasqua cogliendone il senso autentico. Così è della diakonìa, che emerge come tratto distintivo di Gesù di Nazaret. In realtà ogni cristiano è chiamato a servire, perché servire gli altri fu lo scopo della vita di Cristo. Il servizio è la base della vita spirituale del cristiano perché col nostro servizio generoso e obbediente agli altri — con le sofferenze e le umiliazioni che può comportare — partecipa alla vita divina di Dio. «Io sono fra voi come colui che serve (hôs ho diakonôn)» (Lc 22, 27). Dicendo così Gesù capovolge l’ordine delle cose, perché Lui, che era più alto nei cieli, il cui «nome è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2, 9), è diventato un servo per la nostra salvezza. Il “padrone” divenne “servo” e offrì la sua passione a servizio di tutti per la loro salvezza. Questo stesso capovolgimento è chiesto da Gesù ai suoi discepoli (Mt 20, 25-28). Questo “servizio” comune a tutti è un patrimonio lasciato in eredità dal Signore a tutta la chiesa ed è conferito continuamente ad essa dallo Spirito Santo, secondo le necessità dei tempi. È bene ricordare che questo servizio non è solo un segno della chiesa in ordine alla sua missione, ma è la base dell’unità nella chiesa stessa. In essa vi sono individui che vivono questo servizio comune in modo personale, come una funzione svolta per la chiesa. In queste persone il servizio è un ministero specifico dato da Dio. È un ministero che nella Tradizione della chiesa si è articolato molto presto in tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato. Nel servizio il ministro ordinato è testimone dell’amore. Ovviamente tutti i cristiani sono chiamati ad essere testimoni dell’amore e per questo le “forme dell’amore” dovrebbero essere il programma di vita dei singoli cristiani e dei cristiani nei loro reciproci rapporti, dei cristiani nel contesto del mondo. Il compito del ministro ordinato, allora, è di essere «testimone e patrocinatore di questo amore; tenere


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aperte, a disposizione di tutti, le sue fonti; essere servitori della communio nello spirito di questo amore. L’amore è il compito tanto della sua attività quanto della sua esistenza. L’amore come forma di vita del sacerdote è perciò elemento costitutivo della sua missione. Non che con questo tutta la sua vita divenga “meritoria”. Al contrario, essa ne risulterà “umanizzata”. Soltanto se anche l’umanità del sacerdote è improntata dall’amore, essa è redenta, libera dalla pressione di una coercizione puramente esterna e, di conseguenza, non sussiste alcuna frattura tra l’ambito del suo servizio e la sua esistenza di uomo tra gli uomini»31. Nessuna frattura perché «chi scopre nella prosecuzione della missione di Cristo la ragione della propria esistenza, non può essere suo inviato soltanto per determinate funzioni ma lo è con l’intera sua vita. Questo non significa trasformazione dell’intera vita in funzione di qualcosa, ma piuttosto trasformazione delle funzioni in vita, e di conseguenza alternativa alla maniera ususale di vivere»32. Presupposto di tutto ciò: «La missione del sacerdote che vuole essere conforme al proprio stile di vita, deve avere il proprio nucleo più intimo, il proprio fondamento, nella vita stessa di Dio». Ma allora «solo comprendendo chi è Colui che manda, si può capire cosa sia la missione. Chi manda poi, è colui del quale sta scritto: Dio è amore (cfr. 1Gv 4, 8.16)»33. Insomma essere testimoni del Dio Uno-Trino. Qui si inserisce la riflessione sulla “carità pastorale” e, dopo, sulla “paternità spirituale” — suo senso e responsabilità. 5. “CARITÀ PASTORALE” Il Concilio Vaticano II non usa molto questa espressione, che invece acquista un suo spazio significativo in molti documento del Magistero post-conciliare. Anche la teologia del ministero ordinato la usa come categoria adatta ad esprimere l’unità di vita del ministro ordinato, con particolare riferimento al presbitero. Negli studi posteriori al Concilio 31 K. HEMMERLE, Scelto per gli uomini. Profilo del sacerdote, Roma 1995 [ed. ted. 1986], 197. 32 Ibid., 200. 33 Ibid., 188.


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punti di riferimento emblematici sono stati la Presbiterorum ordinis [=PO] (in particolare i nn° 14-17) e la Pastores dabo vobis [=PDV] di Giovanni Paolo II (i nn° 21-23.31). Di fronte al pericolo di dispersione che corrono gli uomini della contemporaneità, e con essi i presbiteri, il Concilio vede nella carità pastorale la via di composizione in unità delle molteplici attività del ministero a cui si è chiamati: «Nel mondo d’oggi i compiti che gli uomini devono affrontare sono tanti e i problemi che li preoccupano — e che spesso richiedono una soluzione urgente — sono assai disparati; di conseguenza in molte occasioni essi si trovano in condizioni tali che è facile che si disperdano in tante cose diverse. Anche i presbiteri, immersi e agitati da un gran numero di impegni derivanti dalla loro missione, possono domandarsi con vera angoscia come fare ad armonizzare la vita interiore con le esigenze dell’azione esterna. Ed effettivamente, per ottenere questa unità di vita non bastano né l’organizzazione puramente esteriore delle attività pastorali, né la sola pratica degli esercizi di pietà, quantunque siano di grande utilità. L’unità di vita può essere raggiunta invece dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l’esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera» (n° 14). Secondo il pensiero del Concilio — come espresso nel testo della PO — la carità pastorale ha un fondamento cristologico: «L’unità di vita può essere raggiunta invece dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l’esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera» (n° 14). È presente, anche se presente tra le righe, pure quello ecclesiologico: «Per questo, la carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano lavorino sempre in stretta unione con i vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio. Se procederanno con questo criterio, troveranno l’unità della propria vita nella unità stessa della missione della Chiesa, e così saranno uniti al loro Signore, e per mezzo di lui al Padre nello Spirito Santo, per poter essere colmati di consolazione e di gioia […]. D’altra parte, il ministero sacerdotale, dato che è il ministero della Chiesa stessa, non può essere realizzato se non nella comunione gerarchica di tutto il corpo» (nn° 14.15).


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La carità pastorale non è accanto al cammino di santità che il ministro ordinato è chiamato come battezzato a compiere, ma è attraverso l’esercizio del ministero che egli risponde alla chiamata alla santità. La PDV riprende PO 14 accentuando la fondazione cristologica. Anzi parla innanzi tutto della carità pastorale di Cristo, a cui si deve conformare l’azione pastorale del ministro ordinato, che può farlo in virtù della consacrazione dello Spirito Santo mediante l’ordinazione, come è sinteticamente espresso al n. 23: «Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo: dono gratuito dello Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla risposta libera e responsabile del presbitero» [cfr. nn. 21-23). In qualche modo la dimensione ecclesiale è recuperata al n. 31: «Come ogni vita spirituale autenticamente cristiana, anche quella del sacerdote possiede un’essenziale e irrinunciabile dimensione ecclesiale: è partecipazione alla santità della Chiesa stessa, che nel Credo professiamo quale “Comunione dei Santi”. La santità del cristiano deriva da quella della Chiesa, la esprime e nello stesso tempo l’arricchisce. Questa dimensione ecclesiale riveste modalità, finalità e significati particolari nella vita spirituale del presbitero, in forza del suo specifico rapporto con la Chiesa, sempre a partire dalla sua configurazione a Cristo Capo e Pastore, dal suo ministero ordinato, dalla sua carità pastorale». Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo. «La carità pastorale è quella virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. Non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi, che mostra l’amore di Cristo per il suo gregge. La carità pastorale determina il nostro modo di pensare e di agire, il nostro modo di rapportarci alla gente. E risulta particolarmente esigente per noi» (n. 23). L’esercizio del ministero è “vivere secondo lo Spirito”: «L’esercizio del ministero è già “vita secondo lo Spirito”: preghiera, ascesi, meditazione, contemplazione, ecc. risulteranno così determinate ‘pastoralmente’ e solo in seconda battuta determineranno a loro volta l’azione


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pastorale, sostenendola e motivandola adeguatamente»34. La santità, d’altra parte, non è che la perfezione della carità. La conseguenza è che il ministro ordinato nell’esercizio del suo ministero non deve essere altro che testimone dell’amore (come lo saranno gli sposi nella loro vita coniugale e familiare). Si tratta di capire allora cosa significa per un vescovo, un presbitero, un diacono essere un testimone dell’amore di Dio. 6. LA CARITÀ PASTORALE NEL CELIBATO ECCLESIASTICO Nel contesto della carità pastorale PO rilegge il celibato ecclesiastico. La questione va letta nel contesto della disciplina ecclesiastica della chiesa latina. In altre parole, si deve considerare la dimensione morale del celibato ecclesiastico, come condizione di vita de facto che il ministro ordinato nella chiesa latina è chiamato a vivere. Una condizione di vita che deve nascere però da una scelta consapevole delle responsabilità che comporta e, come elemento previo, del suo significato autentico. Alcune considerazioni preliminari sono necessarie. - Il celibato ecclesiastico nasce da precise condizioni storiche non strettamente legate al significato ascetico che successivamente gli è stato attribuito, infatti ha inizialmente un carattere funzionale. In quanto però esso è stato assimilato alla verginità consacrata, necessita una adeguata riflessione teologica sul suo significato per la chiesa di oggi e per i soggetti che sono chiamati a viverlo35. - Le categorie che stanno a indicare il celibato ecclesiastico sono indicative dei diversi modi di comprenderlo: castità,verginità, continenza sessuale, infatti non sono sinonimi.

34 E. CASTELLUCCI, Il dibattito sul ministero ordinato nella teologia cattolica successiva al Vaticano II, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Il ministero ordinato. Nodi teologici e prassi ecclesiale, (a cura di M. Qualizza), Cinisello Balsamo 2004, 17-112: 106. 35 Il concilio riconosce che il celibato non è per sé legato alla natura del ministero ordinato quando afferma: «La perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosa-


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- Opportuna dunque una chiarificazione terminologica e uno sguardo alla tradizione. Castità significa “integrità” e la persona casta è chi vive una piena integrazione delle dimensioni fondamentali della vita. In questo senso tutti sono chiamati alla castità: celibi e sposati. Il sesso — come energia vitale delle persone — è una di queste dimensioni. Esso va integrato nella persona umana, come le altre componenti della persona, diversamente diventa energia disgregante. Altra cosa è la continenza sessuale: come suggerisce lo stesso termine si considera il sesso qualcosa da contenere. La castità si può vivere nella verginità o nelle nozze (una conseguenza è che nella verginità vi è una dimensione nuziale e nelle nozze una dimensione verginale). Le Scritture non conoscono una contrapposizione tra verginità e nuzialità. La contrapposizione semmai è tra verginità e sterilità. La donna sterile è tale per un “difetto” di natura, la vergine è tale per una decisione libera. La distinzione ha una rilevanza teologica: la donna sterile può vincere la sua sterilità con l’aiuto di Dio, ma senza omettere il concorso dell’uomo. La donna vergine può generare con l’aiuto di Dio, ma senza il concorso dell’uomo. La sterile ha un figlio da Dio, la vergine ha un figlio di Dio; qui è chiara l’allusione alla gratuità della salvezza in Gesù36. mente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale. Essa è infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, nonché fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo. Essa non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati: per questo il nostro sacro Sinodo, nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che è legittimamente in vigore nelle Chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano nello stato matrimoniale a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato» (PO 16). 36 Queste osservazioni sono suggerite da V. MATRANGOLO, La venerazione a Maria nella tradizione della Chiesa bizantina, in La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, “Quaderni di Synaxis 5”Acireale 1989, 63-116.


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La verginità — nella sua conseguenza di sterilità fisica — assimilando apparentemente la donna vergine alla donna sterile, pone nella condizione dei “poveri di YHWH”. La verginità sta, dunque, tra potenza di Dio e povertà (marginalità) umana. Ciò che è disprezzato e ultimo diventa segno della potenza benefica di Dio. In qualche modo a questo contesto è riconducibile il discorso di Gesù sull’eunuchìa per il Regno: «[…] vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli» (Mt 19,12). Eunuco è un termine offensivo: indica disprezzo, emarginazione e giudizio. Eunuco per scelta, per il Regno, è assunzione libera e consapevole di una condizione di inferiorità, l’accettazione di essere uomini non pienamente compiuti … per il Regno. Le tre tipologie a cui si riferisce Gesù: per nascita (un fatto “naturale”), per gli uomini (frutto di una violenza), per scelta (frutto di una decisione libera), ci suggeriscono subito che essere eunuchi per il Regno è fondamentalmente condivisione, assunzione di una condizione di minorità e disprezzo a motivo del Regno. Il Vangelo del Regno che Gesù ha predicato e realizzato nella sua prassi è Vangelo di comunione, l’eunuchìa per nascita o per violenza è, per definizione, solitudine. Il celibato ecclesiastico scelto per il Regno è la consapevole assunzione della solitudine e in particolare della radicale solitudine del morire; è un farsi compagni di strada di ogni persona che va verso questa radicale solitudine. La castità vissuta nel celibato ecclesiastico, come ha ben notato Arturo Paoli, si caratterizza perciò per questa fondamentale e prima connotazione, la condivisione. Una particolare condivisione legata alla sfera della sessualità. Non solo condivisione della solitudine (della morte), ma condivisione delle condizioni di violenza e disintegrazione del sesso. «La persona che vive seriamente il suo celibato raggiunge il fondo di quella inguaribile solitudine della persona in cui affondiamo le radici della nostra aggressività; la nostra incostanza nell’amore, le nostre deviazioni verso oggetti di sostituzione. Penso che ad ogni persona che ha scelto il celibato “per il regno” debba presentarsi in tutta la sua drammaticità, come momento spaventosamente orrido, la vera solitudine umana»37. Nella prospettiva della 37

A. PAOLI, Cercando libertà. Castità – obbedienza – povertà, Torino 19812, 50-51.


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condivisione e della scelta dei poveri, il celibato per il Regno, assunto come forma di condivisione significa anche mettersi dalla parte delle vittime, perché diventa condivisione di ogni forma di “solitudine”, in particolare la solitudine legata alle tante forme di violenza, disaggregazione del sesso, come forma emblematica di povertà umana38. Il celibe che non vive nella prospettiva del dono e della gratuità è come un libertino: «Il libertino, palese o clandestino, è uno che ha rinunziato all’integrazione [non vive la castità], alla possibilità di comunione dalla parte dell’eros […] Il celibe rinunzia, volontariamente, all’integrazione dalla parte dell’amore. Tutte e due — il libertino e il celibe — testimoniano questa incapacità di integrazione che è in noi: l’uno sta dalla parte della vittima, l’altro dalla parte dell’oppressore»39. La castità, in senso cristiano, è dunque apertura alla relazione, non la sua negazione come potrebbe sembrare. Se la castità è integrazione, lo è in quanto spazio aperto alla relazione autentica di gratuità e dono. 7. LA PATERNITÀ SPIRITUALE40 «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo» (1Cor 4, 15). Così Paolo fa riferimento alla sua “paternità spirituale” nei confronti dei corinzi: lo fa contrapponendo pedagogo a padre. Egli ha generato i credenti in Cristo di Corinto, mediante il Vangelo. La paternità a cui Paolo allude non ha generato figli suoi, ma L’autore prosegue le sue considerazioni affermando che «Nel momento in cui il celibato è “scelta” della solitudine, autentica “scelta personale”, si raggiunge la barriera del suono e si entra nella vera povertà umana. Si tocca così il vero senso della castità, che è entrare nel vero, grande dolore dell’uomo, nella profondità del “misterium crucis”. […] Nessuno ama di un amore così disinteressato, e perciò veramente liberante, come colui che ha accettato di guardare in faccia la solitudine come la vera povertà umana» (ibid., 51.52). 38 Cfr. ibid., 41-42. 39 Ibid., 43. 40 Cfr. G. I. MANTZARIDES, Etica e vita spirituale. Una prospettiva ortodossa, Bologna 1989, 137-143; C. YANNARAS, La libertà dell’ethos, Bologna 1984, 159-160.


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figli di Dio in Cristo, nostro fratello. È in realtà la paternità di Cristo che regge la paternità di Paolo. Cristo ci fa entrare nella figliolanza divina non come un’autorità esterna, ma diventando nostro fratello e, quindi, facendoci partecipare della sua figliolanza. In questa prospettiva, la paternità rivendicata da Paolo non contraddice la parola di Gesù: «E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il padre vostro, quello del cielo» (Mt 23, 9). L’unico padre, che è nei cieli, fonda l’unità della famiglia umana; la paternità del Padre celeste rende convenzionale e relativa ogni paternità terrena. Ogni paternità terrena, sia fisica sia spirituale, è relativizzata da quella celeste. L’unico padre degli uomini è Dio e perciò solo a Lui appartiene il nome di Padre. D’altra parte la paternità di Dio sostiene ogni paternità terrena, perché Dio è colui «dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3, 15). Esiste la paternità terrena, ma ha senso e dignità solo se inserita nella prospettiva della paternità celeste e quando aiuta la persona umana a conoscere e a custodire la paternità celeste. In questa prospettiva di superamento e di inveramento della paternità terrena la tradizione cristiana ha compreso il ministero del padre spirituale. Nella chiesa latina esso coincide essenzialmente col presbitero, che esercita questa paternità soprattutto nel sacramento della riconciliane. Questa sovrapposizione ha comportato e comporta dei rischi: praticare la “confessione” come controllo spirituale delle persone (stabilendo una relazione organica tra morale e disciplinamento sociale); vedere il padre spirituale come “direttore di coscienza”. Il padre spirituale in realtà, alla luce della Parola di Dio e della tradizione del primo millennio almeno, non è colui che offre insegnamenti morali, ma un modo di vita. Questo è molto chiaro per esempio nella grande tradizione dei padri e monastica in particolare. «Nella persona del padre spirituale il fedele vede Cristo stesso, che è il suo vero padre. Ed il suo amore a Cristo si mostra con l’amore rivolto al padre spirituale»41.

41

G. I. MANTZARIDES, Etica e vita spirituale, cit., 139.


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Questo amore paterno che unisce il padre spirituale con i fedeli che a lui si rivolgono e il corrispondente amore dei fedeli per il padre spirituale non fa cresce solo l’unità tra loro padre spirituale e singolo fedele, ma anche l’unità spirituale tra i fedeli stessi. L’affidarsi ad un padre spirituale non è una forma di limitazione della propria libertà o, ancor meno, una rinuncia all’esercizio della responsabilità di coscienza. Una tale concezione spiega la difficoltà dell’uomo moderno ad accettare la paternità spirituale. In realtà offrire liberamente il proprio volere al volere del padre spirituale significa ritrovare la propria libertà. Notava Doroteo di Gaza che «non avendo una sua propria volontà fa superare la sua volontà perché qualsiasi cosa accada lo soddisfa, dal momento che non vuole che le cose accadano come vuole, ma le vuole come accadono»42. È importante notare che lo stesso padre spirituale vive lo statuto di “figlio” perché anche lui è figlio di Cristo e quindi fratello dei suoi “figli spirituali” (locuzione per sé impropria). Il padre spirituale e i suoi “figli spirituali” sono figli del Cristo che si è fatto fratello degli uomini e li ha costituiti figli dell’unico Padre celeste. La paternità spirituale, perciò deve servire la fraternità in Cristo o non è vera paternità spirituale — sarà dipendenza spirituale, controllo delle coscienze e altro. Il presbitero/padre spirituale deve vivere una fraternità spirituale e deve rivelare il volto paterno di Dio vivendo l’ amore come fratello degli uomini. La fraternità spirituale sorge dal vissuto stesso dell’adozione filiale in Cristo comune a tutti i battezzati. Il padre spirituale trasmette la vita comunicando la sua esperienza, che è l’esperienza della chiesa (diversamente — se ciò cerca di trasmettere la sua vita — fallisce miseramente): in altri termini, il fedele conosce la vita della chiesa attraverso la vita del padre spirituale, così la vita della chiesa è un evento personale, come la tradizione orientale ha ben sottolineato43. Certamente l’inserimento nella vita della chiesa è frutto di una scelta libera, ma non ha la veste della “conquista” individuale. Come 42

Doctrinae diversae: PG 88, 1810 BC. Sull’essere personale della chiesa non si può non rinviare il lettore italiano alle opere di I. Zizioulas e C. Yannaras. 43


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evento libero e personale che passa dall’affidarsi al padre spirituale è un atto di comunione e di relazione. «In altre parole, la vita della chiesa diventa accessibile attraverso un evento di vita e non con un approccio individuale, come accade con l’adesione a qualche ideologia o “sistema”»44. Nella relazione con il presbitero/padre spirituale, in conclusione, si attua una comunicazione di esperienza e conoscenza non in modo convenzionale e impersonale, ma come amore e l’accettazione come umiltà. CONCLUSIONI Nel saggio di Rahner da cui ho preso le mosse, l’autore si domanda dove stia la novità dell’esistenza del ministro ordinato rispetto a quella del battezzato tout court in ordine all’esercizio della predicazione. La stessa domanda possiamo porci a conclusione di queste riflessioni riguardo i punti toccati, visto che essi in realtà riguardano tutti i cristiani in quanto tali o di alcuni di essi che, pur non essendo ministri ordinati, li assumono come dati permanenti della loro vocazione cristiana (per esempio i monaci e le monache). Provo a trarre delle conclusioni partendo dalla considerazione che Rahner pone come chiusa del suo articolo: «il Nuovo Testamento fa derivare ogni “etica” sacerdotale dall’elemento apostolico in senso stretto, non da quello cultuale»45. Nelle testimonianze neotestamentarie addotte46 san Paolo presenta la sua attività apostolica in qualche modo come una realtà unica, in quanto dipendente direttamente da

44

C. YANNARAS, La libertà dell’ethos, cit., 160. K. RAHNER, Esistenza sacerdotale, cit., 304. Ciò è detto come conferma di quanto sostenuto nel corso dell’articolo, cioè a dire che la novità del ministero ordinato, ciò che coinvolge tutta l’esisetnza del ministro è il carattere permanente dell’atttività apostolica e il suo essere legata ad un ministero conferito “ufficialmente” e quindi determina una attività che non è mai svolta a titolo personale, ma in nome della Chiesa. 46 Cita At 20,18-38; 1 Cor 2, 1ss.; 3, 5-15; 4, 1-21; 9, 1-23; 2 Cor 1-7; 10-12; Col 1, 232,1; 1 Ts 2, 1-12; Lettere pastorali; Eb 13, 7 e 17. 45


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Cristo e guidata dallo Spirito santo. In tal modo tutta la sua esistenza è strutturata attorno alla predicazione del Vangelo di Cristo. L’accento posto sul legame tra “predicazione” del Vangelo e sua incidenza sulla vita stessa del ministro a ciò deputato, in altri termini tra ministero e santità di vita del ministro, non deve indurre a pensare che si dimentica un dato che ha segnato per secoli l’identità del ministro ordinato, vale a dire l’eucaristia. In realtà proprio perché il concilio Vaticano II ci ha restituito il carattere misterico della liturgia (ove “mistero” non significa una realtà occulta, ma al contrario la manifestazione e il rendersi presente della realtà) essa diventa veramente “culmine e fonte” della vita di tutta la Chiesa e non solo del ministro che la presiede. È in questo contesto che il “servizio”, la carità pastorale, la dedizione esclusiva al Regno nel celibato e la paternità spirituale acquistano un sapore nuovo e determinano l’ethos che dovrebbe guidare il comportamento integrale del ministro. In questa prospettiva l’irreprensibilità di vita del ministro ordinato non è solo una questione di coerenza formale tra ciò che si annuncia e ciò che si vive. Questa coerenza è certamente importante, perché ne va della credibilità dell’annuncio stesso, ma c’è di più. Il Rito di ordinazione dei presbiteri più volte pone l’accento sulla “fedeltà”, associata alla “devozione”, nell’assolvere gli impegni che si assumono con l’imposizione delle mani; così è per esempio nel dialogo iniziale tra ordinante e candidato al presbiterato. Consegnando la patena del pane e il calice del vino, l’ordinante esorta il candidato a ri-conoscere ciò che farà, a imitare ciò che celebrerà e a conformare la sua vita al mistero della croce di Cristo Signore (agnosce quod ages, imita quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicae crucis conforma). Il riferimento alla croce di Cristo rimanda al senso dell’obbedienza del Figlio al Padre, così da fondare la fedeltà del ministro ordinato agli impegni derivanti dell’imposizione delle mani nell’obbedienza di Gesù, il cui contenuto essenziale è la dedizione a coloro per cui è venuto. Non a caso nel dialogo sopra menzionato si precisa che le “offerte” sono quelle del popolo santo (accipe oblationem plebis sanctae Deo offerendam) e dunque il ministro non agisce a nome proprio, ma a nome della plebs sancta di cui è ministro e ciò determina quell’ethos che configura la sua esistenza come pro-esistenza.


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Colloqui rosminiani Synaxis XXXII/1 (2014) 119-133

A. ROSMINI: EDUCARE ALLA FEDE NELLO SPIRITO DELLA LITURGIA

GIANNI PICENARDI*

1. LA PASSIONE EDUCATIVA In Rosmini l’interesse per i problemi educativi fu sempre vivo e costante. A fianco alla appassionata ricerca della verità e della sapienza, vi è sempre stata in lui altrettanto viva e vivace la preoccupazione di come trasmettere la verità trovata al fine di contribuire a migliorare l’uomo e la società. Ancor giovane studente, nel 1813 nel suo diario scriveva: «Quest’anno fu per me un anno di grazia: Iddio mi aperse gli occhi su molte cose e conobbi che non vi era altra vera sapienza se non in Dio»1; e tra i “Frammenti” di alcuni lavoretti di quello stesso anno: «L’istruzione è la principale fonte per il miglioramento dell’uomo. Per essa le tenebre dell’intelletto umano si schiariscono e il cuore riceve il suo nutrimento venendo a conoscere le cose e il modo di amarle. Per cui questo è l’affare più importante di ogni governo e la cura più tenera degli uomini caritatevoli, per mezzo della quale la gioventù e tutti coloro che ne hanno bisogno vengano saggiamente educati»2. * 1

Vicedirettore del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa. E. CASTELLI (cur.), Diario personale, in Scritti autobiografici inediti, Roma 1934,

419. 2

Dei testi per la gioventù del Ginnasio Roveretano, secondo il Metodo già posto in uso, in Scritti pedagogici, parte seconda, 478.


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Tuttavia nel Roveretano non troviamo un trattato completo ed esauriente di pedagogia, ma non c’è scritto o studio da lui composti in cui non sia sottesa la finalità pedagogica. Così anche alla più alta speculazione filosofica soggiace questa finalità; nel suo scritto Sistema filosofico3, annota che se invece di considerare la filosofia nella sua natura di scienza «si vuol considerare la scuola della filosofia, ella in tal caso diventa la vera pedagogia dello spirito umano: della mente, che conduce alla scienza più compiuta, e dell’animo, ai cui affetti svela innanzi il più compiuto bene»4. Rosmini intravide che il maggior problema della società del suo tempo consisteva nell’«universale dissolversi di tutti i legami che stringono gli uomini fra loro»: famiglia, società civile e chiesa; «e l’uomo privo di tutti gli affetti e di tutte le abitudini si trova solo in mezzo agli uomini». Comunque la sua non è una visione pessimistica, in quanto afferma che «l’errore non sta che alla superficie dell’uomo», perché soltanto la verità «penetra il cuore dell’uomo» e vive in lui «immortale anche dove dall’errore ne sono state cancellate le tracce»; l’errore ha creduto di occupare il seggio della verità nel cuore degli uomini, ma non ha fatto che toglierne l’immagine esteriore di cui era abbellita la superficie, che rendeva visibile all’esterno la sua interiore bellezza divina5. La via per uscire da questo empasse negativo rimane uno solo: l’educazione delle nuove generazioni. Nondimeno non basta conoscere lo “strumento”, è altrettanto necessario che venga indicato il modo ed i mezzi con cui applicarlo. Ed era proprio in ciò, che Rosmini vedeva la difficoltà maggiore: «Non è che l’uomo non voglia fare, quanto piuttosto che non sa come fare»6.

3

Fu pubblicato per la prima volta a Torino nel 1844 dai Fratelli Pomba, nel volume Sulla filosofia. Documenti per la storia universale di Cesare Cantù, e confluito poi nel 1850 nel primo volume della collezione dei suoi scritti da lui ideata ed intitolato Introduzione alla filosofia. 4 Sistema filosofico, n. 263, in: Introduzione alla Filosofia, Roma 1979, ECR 1, 302 5 Cfr. Sull’unità dell’educazione, in Scritti pedagogici, parte seconda, 4-6. 6 Ibid., 7-8.


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Se da una parte bisognava aver chiaro il concetto di uomo — e per chiarirlo sviluppò studi e scrisse opere di antropologia, di morale, di logica e di metafisica —, dall’altra doveva essere altrettanto chiaro cosa fosse e che fine avesse la pedagogia. Rispondendo nel 1850 a Don Bernardo Smith7, benedettino cassinese residente nel Collegio Irlandese di Roma, che gli aveva chiesto indicazioni per un trattato sull’educazione formula una chiara definizione di pedagogia: «la Pedagogia è quell’arte e scienza8 che intende condurre l’uomo al punto più alto della perfezione morale a lui possibile e quindi all’eterna beatitudine, per mezzo di uno sviluppo ben ordinato e la coltivazione armonica di tutte le sue facoltà»9. 2. LA VIA MAESTRA DELLA LITURGIA Una delle note dominanti della vita di Rosmini è certamente l’amore alla Chiesa di Gesù Cristo e la sua liturgia è la prima, più sicura e più certa via per realizzare quell’intima originaria aspirazione dell’uomo di unirsi con Dio, impressa in lui dallo stesso Creatore10. Egli cominciò fin dagli anni giovanili a maturare il suo pensiero liturgico con un’opera del tutto personale, in quanto la formazione teologica del suo tempo nelle università — compresa quella di Padova dove il Roveretano fu studente — riduceva la materia unicamente alla prassi cerimoniale. È raro trovare nei suoi scritti il termine “liturgia”, se si eccettuano la Lettera sopra il cristiano insegnamento (2 volte) e Le cinque piaghe della santa Chiesa (6 volte), ma non i principi, i conte7 Fu poi uno dei consultori nell’esame delle opere di Rosmini e validamente lo difese nelle sedute della Sacra Congregazione Romana dell’Indice nel 1854. 8 La pedagogia come scienza è lo studio dei principi pedagogici, la pedagogia come arte è l’applicazione effettiva e concreta dei principi studiati. 9 Lettere pedagogiche, lettera del 7 marzo 1850, in Scritti pedagogici, parte seconda, 324. 10 Nelle catechesi agli adulti del 1834-1835, anno in cui fu parroco a Rovereto, così insegnava: «L’uomo è fatto per Dio; quindi se l’uomo arriva a conseguire il suo fine, vale infinitamente e, per così dire, quanto Dio stesso»: A. ROSMINI, Catechesi degli Adulti, catechesi II, in ID. Catechesi parrocchiali, testo trasposto in lingua aggiornata a cura di G. Picenardi, Stresa 2012, 23.


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nuti e lo spirito, userà espressioni come “preghiera pubblica della Chiesa”, “pubblico culto”. Nel 1824 quando con la santa marchesa Maddalena di Canossa intratteneva un serio scambio epistolare in seguito ad una sua richiesta di realizzare il progetto di istituire il ramo maschile della sua congregazione religiosa, in due lettere, una del 9 e l’altra del 20 gennaio, delinea come vorrebbe vedere rinnovata la liturgia. È nei grandi libri della Chiesa, come il messale il breviario e il martirologio che sono contenuti i più grandi tesori di pietà e di affetti della liturgia; ma ormai per la maggior parte dei fedeli sono tesori irraggiungibili e incomprensibili. La partecipazione alla Messa per i fedeli è divenuta solo un atto esteriore dovuto perché non istruiti nel mistero del santo Sacrificio, nell’andamento di tutta la celebrazione, nell’intelligenza delle parole che dice il sacerdote, quasi sempre al plurale perché unito col popolo, nella conoscenza di quanto significano gli indumenti e i vasi sacri e le cerimonie che accompagnano la santa Messa, ma: «quanto più utile non è una Messa vissuta con queste cognizioni! Quale unione più intima non nasce fra Gesù Cristo, il sacerdote che sacrifica, e il popolo che anch’egli insieme offre la stessa vittima divina! Questa intelligenza retta e fondata fu la devozione ferma e magnifica istituita dagli Apostoli santi, e lasciata da loro alla santa Chiesa. Ma poiché … questa devozione si rese troppo difficile, si cercarono delle altre devozioni, le quali sono state buonissime ed hanno supplito al bisogno di quei fedeli che non arrivavano, o per mancanza di mezzo o d’altro, alla devozione grande e pubblica della Chiesa».

Tuttavia, benché nuove di forma, sono devozioni minori e diverse dalla pubblica devozione della Chiesa e possono sviare il popolo. Non potranno mai realizzare quella completa e visibile « unione che nasce nella Chiesa, quando il popolo prega allo stesso modo, cogli stessi sensi, e colle parole stesse dei sacerdoti»11. La tesi fondamentale su cui Rosmini fonda la sua concezione della liturgia è il sacerdozio battesimale o sacerdozio dei fedeli. Trova la sua 11

A. ROSMINI, Lettere alla Marchesa Maddalena di Canossa a Verona, del 9 e del 20 gennaio 1824, in ID., Epistolario ascetico, vol. I, lett. 29, 70-72, e lett. 32, 75-76.


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ragion d’essere nell’intero insieme del suo pensiero. Il problema liturgico non è scisso da quello morale, come questo non prescinde dal problema ontologico e metafisico nell’uomo individualmente preso e nell’ordine in cui vive. Lo stile di riflessione e di ripensamento che fece sul sacerdozio dei fedeli, ne fonda una base ontologica che dopo i Padri della Chiesa non venne più considerata fino al Concilio Vaticano II, con l’eccezione dell’enciclica di Pio XII Mediator Dei. Per il cristiano tutto ha inizio con il battesimo; questo dopo averlo purificato dalle conseguenze del peccato, lo rigenera, «cioè [l’uomo] riceve il principio di una vita morale di un ordine superiore, ossia soprannaturale»12: è uno stato nuovo che lo stacca dal modo di comportarsi delle altre creature, è lo stato sacerdotale: «Ogni Cristiano ora è chiamato a partecipare del suo [di Cristo] sacerdozio e del suo regno. Per questo la Chiesa unge sulla fronte colui che battezza, secondo l’antichissimo uso di ungere i Re e i Sacerdoti […] Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi il carattere indelebile di persone destinate a servire eternamente alla gloria divina […] Ogni cristiano sarà sempre sacerdote, perché una volta per sempre è consacrato al culto divino […] Tutto ciò che abbiamo, l’abbiamo però in Cristo, cioè membra del suo corpo, perché unico è il sacerdozio e unico il regno da lui posseduto, al cui possesso ci rende partecipi. Ciò si esprime dalla Chiesa con quel segno che fa il Sacerdote mettendo il lembo della sua stola sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. La dignità possibile dell’uomo sta appunto in questo rivestimento regale e sacerdotale»13.

È il carattere battesimale che consacra l’anima al culto divino e l’uomo diventa per sempre sacerdote:

12

A. ROSMINI, Del principio supremo della Metodica e di alcune sue applicazioni in servigio dell’umana educazione, in ID., Scritti pedagogici, a cura di G. Picenardi, Stresa 2009, parte I, n. 137, 86. 13 A. ROSMINI, Dell’educazione cristiana, a cura di L. Prenna, Roma 1994, l. III, n. 304, 174.


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«Il sacerdozio di Cristo non si esauriva solo nell’offrire un sacrificio esterno, senza proprio merito; egli offriva un sacrificio interno, infinito, che era il massimo atto di culto e il compimento di ogni perfezione morale […] Questo potere, che Cristo come sacerdote aveva di placare Dio e di attirarlo per così dire ad abitare nelle anime a cui si applicava l’effetto di quel sacerdozio, viene partecipato ai cristiani e forma il carattere indelebile … Cristo ricondusse al suo vero effetto ciò che al popolo ebreo non era stato che promesso ed esteriormente in vari simboli rappresentato, cioè di rendere il popolo “un regale sacerdozio, una gente santa” (1Pt 2,9), vale a dire consacrata al divino culto […] Solo Cristo dunque poteva essere un vero sacerdote, capace di chiamare Dio dal cielo e farlo amico dell’uomo, e di comunicare questa virtù sacerdotale all’uomo comunicandogli se stesso. Tale è la natura del carattere»14.

3. EDUCARE ALLA LITURGIA. EDUCARE CON LA LITURGIA Consapevole dunque della profonda ignoranza liturgica a cui si era giunti nel suo tempo, fin dagli anni giovanili si propose di fare quanto gli era possibile per educare alla liturgia. Negli anni 1820-1821 compose un piccolo ma prezioso testo da offrire alla sorella, suora canossiana, che aveva assunto a Rovereto la direzione di un orfanotrofio femminile; lo pubblicò nel 1823 con il titolo Della educazione cristiana. L’opera è divisa in tre libri e nel terzo, intitolato Della pratica della virtù si sofferma ampiamente nello spiegare vari aspetti della liturgia, in particolare nel capitolo quarto il cui titolo, La devozione attuale, secondo la mentalità odierna, lo potremmo certamente intitolare: la preghiera liturgica15. Il fondamento da cui parte è biblico; è Gesù stesso che, parlando alla Samaritana lo indica prima quando le dice: «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità»16 dove per «spirito» si deve intendere l’affetto interno, e per «verità» la forma esterna della preghiera; e poco 14 A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, a cura di U. Muratore, Roma 1983, 2 voll., libro IV – parte I – capitolo VII – sezione II – articolo IX – § 9/f, vol. II, 230. 15 Cfr. A. ROSMINI, Dell’educazione cristiana, cit., nn. 208-216. 16 Gv 4,23.


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oltre: «È lo spirito che dà la vita, la carne non giova nulla»17: chi prega Dio in spirito, prega in Dio che è Spirito. Perciò «Non basta il moto delle labbra nella preghiera ed un corpo composto, non la scelta del luogo o l’apparato esterno; si richiede l’affetto dell’animo, affetto tanto più puro, quanto è la vita»18. La Chiesa è l’ottima guida che Cristo ci ha dato per imparare questo stile liturgico; le sue preghiere e le sue celebrazioni sono per «ogni Cristiano un nutrimento così abbondante, che se si nutre di quello, non brama altro». Non che le altre forme di preghiera, soprattutto quelle che sgorgano spontanee dalla libertà del cuore, non siano valide e buone, perché «spesso sono frutto dello Spirito di Dio, perciò conformi allo spirito e alla Verità»; ma molte delle nostre pratiche esteriori particolari, quando vengono preferite alla pubblica preghiera della Chiesa, sono false. Bisogna ancora considerare che anche le preghiere e le celebrazioni liturgiche non servirebbero a nulla «quando non s’aggiungesse la voce del cuore. Poiché si direbbero cose vere e giuste, ma non in modo del tutto efficace. Si adorerebbe Iddio in verità ma non in spirito; si peccherebbe come coloro, a cui fu detto: Questo popolo mi onora colle labbra, ma il suo cuore è lontano da me»19. Per il cristiano le devozioni particolari non saranno mai essenziali a differenza della liturgia: «Queste però non sono mai necessarie, come il rigagnolo non è necessario a chi ha il fiume; e giovano principalmente a chi, per propria imperfezione, non sa pienamente abbeverarsi all’abbondanza delle maggiori. La Chiesa, come dice Agostino, non è aggravata da obbliganti pesi servili, come la Sinagoga dalle sue cerimonie. Ella è libera, è signora; pochissimi, evidentissimi sono i suoi sacramenti, cioè le sue funzioni essenziali. Che immenso frutto trae quel Cristiano, che pone il suo impegno nell’intendere quelle semplici voci della Chiesa gravide di significato, e le cerimonie e i simboli e le espressioni che variamente li vestono! La preghiera del Signore, il saluto dell’Angelo, il Credo, la Salveregina: ecco pochissime e chiarissime 17

Gv 6,63. A. ROSMINI, Dell’educazione cristiana, cit., n. 210. 19 Ibid., n. 212. La citazione è: Mt 15,8. 18


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formule. Che semplicità, che facilità e brevità! Eppure, chi vi penetra dentro, oh in che ampiezza di cose immerge la mente e il cuore! Il Sacrificio della Messa, gli Uffici pubblici e i Sacramenti: ecco pochissime, evidentissime e abbondantissime istituzioni! In queste che c’è anima che possa essere tanto arida, da non potersi saziare; tuttavia non ce n’è alcuna per quanto affettuosa e fervente, che sappia abbracciare e pascersi di tutta la copiosità degli affetti divini in esse contenuti, e dei modi d’avvicinarsi ed entrare in intima familiarità per Cristo con Dio»20.

Prosegue poi nei successivi capitoli spiegando i fondamentali momenti liturgici: la preghiera del Signore (capitolo VI), la celebrazione dell’Eucaristia (capitoli VII-XII), l’Ufficio divino (capitolo XIII), lo studio che ogni cristiano deve fare per comprendere le celebrazioni liturgiche (capitolo XIV), gli oggetti gli ornamenti e gli arredi sacri con cui si esprime la liturgia (capitoli XV e XVI), le varie celebrazioni liturgiche (capitolo XVII), il calendario liturgico quotidiano, settimanale mensile ed annuale (capitolo XVIII), i sacramenti ed in particolare il battesimo (capitoli XIX e XX). Altra attenzione privilegiata Rosmini la riserva a quella forma dell’educazione cristiana che è la catechesi. Ne delinea i principi nella prefazione alle sue Catechesi per gli adulti, che tenne durante il periodo in cui fu parroco a Rovereto: «La dottrina di Gesù Cristo deve insomma esser trasfusa non quasi da una memoria in un’altra memoria, ma tutta intera da una intelligenza in un’altra intelligenza, da un cuore in un altro cuore, se pur si vuole che d’ora in avanti gli spiriti se ne nutrano e l’assaporino, e ne sentano la manna nascosta, e per così dire se ne rinvigoriscano. Per cui le formule delle scuole teologiche, utilissime e da aversi come ancore da gettare ovunque sia necessario assicurare la navigazione dell’insegnamento cristiano, devono esser spiegate ampiamente in maniera dignitosa e piena di spirito di Dio, come facevano i più grandi Padri, un s. Basilio, un s. Cirillo Alessandrino, un s. Giovanni Crisostomo, un s. Ambrogio, un s. Agostino ed altrettanti simili principali maestri»21. 20 Ibid., n. 216. Il riferimento a S. Agostino, di cui poco prima aveva riportato il testo è: Quali sono le consuetudini da abolire, in Lettere, 55,19,35. 21 A. ROSMINI, Catechesi parrocchiali, cit., Prefazione, 15-16.


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Un suo carissimo amico e compagno di studi all’Università di Padova, don Giovanni Stefani, fu l’occasione propizia per occuparsi della catechesi dei fanciulli. La lettera con cui gli rispose divenne un’articolata esposizione sul modo con cui si doveva tenere questa catechesi22. Descrivendo tre possibili modi con cui trasmettere la fede cristiana, il secondo si basava sul seguire lo svolgersi della liturgia nella Chiesa che distribuisce nel distendersi dell’anno i più importanti misteri della fede. Riportiamo per intero il testo rosminiano relativo. «Un altro ordine delle materie molto proprio e molto conforme alle intenzioni della Chiesa che essa sempre raccomanda ai parroci, come si può vedere nello stesso Catechismo Romano, è quello di spiegare al popolo le sacre solennità che celebra lungo l’anno, seguendo continuamente la liturgia. Questa, come voi sapete, è ordinata partendo dalla maggior solennità dei cristiani, la Santa Pasqua, e la Chiesa viene di mano in mano, nei diversi tempi dell’anno, giudicati dalla sua sapienza più adatti, solennizzando i grandi misteri in cui consiste tutta la nostra religione. Ora, soprattutto perché la lingua latina non è più lingua del popolo, tornano sommamente necessarie delle istruzioni intorno alle pubbliche celebrazioni e preghiere, affinché il popolo si unisca allo spirito della Chiesa, che è lo spirito vero, col quale trattare con Dio. Non c’è cosa più utile, né più importante e bella di questa, cioè di unire i figli colla madre, di fare che i figli intendano e s’imbevano dei sensi sublimi della loro genitrice spirituale, la cui bocca è retta dallo Spirito Santo e diretta alla santificazione dei suoi figli. Ma tutto è sterile nella Chiesa là dove non è accompagnato dalla parola: i riti e le preghiere sono movimenti e gesti vani, quasi scene e spettacoli senza senso, se la parola del sacro dottore non li rende intelligibili ed utili al popolo. Questa parola, che deve accompagnare tutto nella Chiesa, è la vita delle funzioni e delle solennità sacre e senz’essa non sono vive, ma morte. Ora questa necessità di spiegare quanto la Chiesa dispone a onor di Dio, non si potrebbe prendere per regola nell’ordine delle materie da esporsi al popolo nei catechismi? In questo modo, seguendo fedelmente i passi della Chiesa nelle sue funzioni, non ci sarebbe verità che in un anno non si toccasse e spiegasse al popolo e doppiamente, cioè colla voce e con le pubbliche celebrazioni; 22 Questa lettera col titolo Lettera sopra il cristiano insegnamento, fu stampata per la prima volta a Rovereto nel 1823 dal Marchesani e qualche anno dopo, nel 1827, a Firenze dal Conti.


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quanto poi non si potesse fare in un anno, si potrebbe aggiungere in un altro, cosicché dovendo omettere qualche parte delle dottrine cristiane nell’annuo corso per la loro vastità, non si ometta mai però un trattato intero, ma le parti meno essenziali d’ogni trattato teologico, per riservarle ad un altro giro annuale d’insegnamento. Cominciando per esempio dal tempo d’Avvento, con cui inizia l’anno liturgico, si potrebbe insegnare al popolo la creazione dei primi uomini, la loro caduta, gli effetti del peccato, le promesse, le predizioni e le figure del Cristo, e di mano in mano sviluppare tutto il sistema della religione, colle dottrine intorno ai misteri della incarnazione, della nascita, della vita e della morte di Cristo e della manifestazione alle genti (Epifania). Poi nelle domeniche dopo l’Epifania, gli effetti della redenzione, con tutto il trattato della grazia. Nella Quaresima s’apre il campo a parlare della penitenza, della unzione degli infermi e dei modi di riacquistare la grazia perduta. Poi si celebrano i misteri della passione e della risurrezione di Cristo. Nel sabato dopo la Pasqua e nella domenica in Albis si venga a parlare del battesimo, essendo questo il tempo in cui i catecumeni vengono battezzati. Alla Pentecoste del sacramento della confermazione. Poi degli altri sacramenti, della fondazione della Chiesa, della diffusione del vangelo e tutta la dottrina intorno ad essa. Questo sarebbe l’argomento delle parti d’inverno e di primavera. Nell’estate, cominciando dalla domenica della SS. Trinità, si può parlare di questo mistero; poi viene l’ottava del Corpus Domini, adatta per parlare del sacramento eucaristico, del sacerdozio di Cristo e della partecipazione a questo sacerdozio fatta dagli altri sacerdoti, della venerazione dovuta a questi, del deposito che conservano le divine scritture e qui, quanto si vuole o si può, è a dire dei libri ispirati. Non abbiamo qui già quasi tutta la dogmatica? Cominciando dunque dalla sesta domenica dopo la Pentecoste, viene opportuno insegnar cose morali e prima i fondamenti della morale: l’onnipotenza di Dio, la libertà dell’uomo, la legge eterna. Quindi della fede, della speranza, della carità e col principio del trattato intorno alla preghiera privata e pubblica potrebbe terminare l’estate. L’autunno, cominciando dalla quattordicesima domenica dopo Pentecoste, si potrebbe parlare delle doti della preghiera e poi, coll’occasione delle feste della Beata Vergine, di tutti i Santi, di San Michele, della solennità della Santa Croce; si potrebbero insegnare di mano in mano le verità cattoliche circa l’invocazione dei santi, il culto degli angeli, della Santa Croce, delle Reliquie. Al giorno della Commemorazione dei fedeli defunti il discorso è naturalmente intorno a questi e poi bella occasione troviamo di parlare della pazienza, della fortezza, due figlie della speranza, della moderazione, del serio contegno


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dell’uomo cristiano, della carità verso il prossimo, dell’elemosina e, in ultimo, si può finir l’anno ragionando intorno allo stato della Chiesa, intorno alle promesse future, della conversione dei Giudei, del giudizio, della fine del mondo e della rimunerazione celeste. Quest’ordine, che io in fretta vi ho abbozzato, seguendo la traccia della liturgia, voi potreste ordinarlo meglio e grazie alle vostre rare doti eseguirlo assai convenientemente. A seguire un tale filo di cose vi gioverà fra i Breviari quello della Congregazione Benedettina di S. Mauro stampato in Parigi l’anno 1787, il quale tenni specialmente sott’occhio nel tracciarvi un tal corso di dottrina, come quello che offre una compendiosa raccolta ben ordinata dei più bei testi della tradizione ecclesiastica in tutte queste materie»23.

4. FORMARE I FORMATORI Una buona e costante formazione del popolo di Dio, come abbiamo visto, rimane per Rosmini la prima grande opera da compiere, e la responsabilità primaria di questa educazione liturgica spetta al clero. In un’opera, ancora poco conosciuta, ritroviamo tutta l’attenzione e la preoccupazione di Rosmini per questa formazione. Si tratta delle Conferenze sui doveri ecclesiastici, una serie di venti meditazioni utilizzate dal Rosmini per la predicazione di vari corsi di esercizi spirituali al clero: la prima volta dal 5 al 14 agosto 1838 al Sacro Monte Calvario di Domodossola, e negli anni successivi al santuario della Beata Vergine Addolorata di Rho (Milano) dove ha sede il Collegio degli Oblati di S. Carlo, a Rovereto, Verona, Bergamo, Brescia, Ivrea, Varallo, Vercelli, Lodi e altrove. Vivente Rosmini, il manoscritto non fu mai pubblicato perché lo riteneva uno strumento per la sua predicazione. Solo nel 1880, Francesco Paoli, che era stato uno degli ultimi suoi segretari, lo diede alle stampe con la tipografia Sperani di Torino. Tra le varie meditazioni particolare attenzione meritano la diciassettesima, che tratta della Scienza sacerdotale e pastorale, e la diciottesima, sulla Scienza e l’amore del sacerdote alla verità. 23

A. ROSMINI, Come formare il cristiano. Lettera a don Giovanni Stefani di Val Vestino, in ID., Catechesi parrocchiali, cit., 168-170.


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Uno dei più stretti doveri dell’ecclesiastico è lo studio senza il quale egli non può parlare al popolo, altrimenti se gli parla si hanno continui errori24. Vastissimo è il ministero ecclesiastico e vastissima è la scienza ecclesiastica. Biasima il giovane ecclesiastico che quando esce dal seminario ed ha finito il corso scolastico dice di non aver più bisogno di studio: «Purtroppo si vedono talora i giovani sacerdoti lasciare da parte in poco tempo i libri, abbandonarsi all’ozio o totalmente alle attività esteriori … Invece di cominciare a imparare e a studiare da adulti quando hanno cessato di essere ragazzi, anzi, non dedicandosi più allo studio, disimparano da adulti quello che hanno imparato da ragazzi, e crescono miseramente ogni giorno in un’ignoranza maggiore, con disonore del nostro stato sacerdotale … Dopo essere divenuti sale insipido e spregevole e abietto davanti a tutto il popolo, devono inoltre rendere conto a Dio di un peccato continuo, perché l’ignoranza volontaria in un sacerdote è un peccato continuo, padre di innumerevoli altri»25.

Vani sono i pretesti e le scuse: il sacerdote deve studiare. Il suo studio però non lo distoglierà dalla preghiera bensì si ordinerà «al fine del sacerdozio medesimo, che è il culto di Dio»26 alla salvezza delle anime, all’incremento della Chiesa, e alla carità di Cristo: «Il sacerdote deve coltivare uno studio al tutto celeste e professare una scienza divina; deve anche insegnarla al mondo; deve poter insegnare al mondo che cosa vi sia di vano e di dannoso in quel sapere del quale il mondo s’insuperbisce; deve saper studiare per sé e saper dirigere gli studi degli altri uomini, dominare le scienze umane e sottometterle alle divine, perché il mondo, col suo furore d’incivilimento, da cui è agitato, sarebbe irreparabilmente perduto, se il clero colla sua sapienza non giungesse a dirigerlo, mettendosi alla testa dei buoni, e regolandone il corso impetuoso e disordinato»27. 24 A. ROSMINI, Della scienza sacerdotale e pastorale, in: Conferenze sui doveri ecclesiastici, 17,3, Torino 1880, 315-316. 25 A. ROSMINI, Della scienza sacerdotale e pastorale, cit., 17,6, 321-322. 26 Ibid., 17,9, 327. 27 Ibid., 329.


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Nello studio che il sacerdote deve fare per esercitare bene il suo ministero, non può omettere quanto riguarda la liturgia: In secondo luogo il sacerdote è tenuto a celebrare la santa Messa. Egli deve dunque studiare in modo speciale ciò che spetta ad una celebrazione esatta e santa. Non deve limitarsi dunque solamente a conoscere i riti e le cerimonie esteriori della celebrazione, pure necessario, rivedendoli di quando in quando per non dimenticarli; in più deve leggere e considerare talvolta le orazioni e le parti della santa Messa … Deve applicarsi a studiare la dottrina della santissima Eucaristia, che deve formare le sue più sincere gioie, il riposo e il conforto quotidiano del suo spirito, la fonte della sua virtù e della sua fortezza … è obbligato a recitare le Ore Canoniche. Questa preghiera è composta dai Salmi e da molte altre parti estratte da tutti i libri della Sacra Scrittura. È dunque necessario che il sacerdote faccia uno studio speciale della sacra Scrittura, libro chiamato da S. Gerolamo «il libro sacerdotale», e in modo particolare dei Salmi, sublimi canti che esaltano le lodi di Dio, che annunciano con profezie i fatti e i misteri del Salvatore e le vicende e le glorie della sua Chiesa28. Lo spirito del vero sacerdote deve nutrirsi e inebriarsi di questi sentimenti, attingervi consolazione e speranza, non accontentandosi di pronunciarle con la bocca …»29.

5. RICOSTRUIRE LA COMUNIONE LITURGICA NELLA CHIESA Nella sua opera, forse più conosciuta, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Rosmini, per l’amore che le portava, sentì potente il bisogno di indagare obiettivamente sulla sua situazione nel suo tempo, per individuare la radice dei mali che la ferivano e proporre le 28 Spinto dalla necessità di comprendere e di aiutare a comprendere i Salmi, fin dal suo soggiorno a Roma nel 1829, Rosmini intraprese a scrivere un testo che intitolò: Alcuni salmi con annotazioni cavate dai santi Padri, con intento indubbiamente a carattere pastorale, ma non senza rigore scientifico e critico nella traduzione dall’ebraico e nell’esattezza delle fonti citate. L’operetta venne condotta avanti ad intervalli fino al 5 marzo 1847, come risulta dalle date che appose sul manoscritto. Oggi il testo è disponibile nel volume dell’edizione critica: Operette spirituali, a cura di A. Valle, Roma 1985, 121-184. 29 A. ROSMINI, Della scienza sacerdotale e pastorale, cit., 17,4, 317-319.


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medicine necessarie per guarirla. Tali mali avevano provocato dolorose divisioni tra popolo, clero, vescovi, sommo pontefice ed autorità civili. Erano piaghe che ferivano profondamente l’unità della Chiesa e ne limitavano gravemente la libertà. Solo ricostruendone la comunione potevano essere risanate. La prima piaga da sanare, il cui effetto era il più evidente, immediato e conseguenza della relazione stretta con le altre quattro piaghe, aveva provocato una profonda divisione tra popolo e clero nella liturgia. Il popolo infatti non intendeva più non solo la lingua, ma anche i significati dei gesti dei simboli della grande preghiera pubblica della Chiesa30, ma: «… quell’unanimità perfetta di sentimenti e di affetti è dunque quasi condizione che Cristo mette al culto che i cristiani rendono a lui, affinché sia a lui gradito ed egli si trovi in mezzo a loro; ed è degno di osservazione, con quanta efficacia Cristo esprima questa condizione o legge che deve contraddistinguere la vera preghiera cristiana e separarla dall’ebraica, che consisteva in un culto materiale e in una fede implicita, perché non si accontenta di dire che i suoi fedeli preghino insieme uniti e che preghino con consenso di volontà, ma espressamente dice che li vuole uniti «in tutte le cose che a lui domandano»31.

Emblematica è una riflessione che il cardinal Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, offrì alla sua diocesi nella prima delle tre lettere pastorali (1995-1996) in preparazione al grande Giubileo dell’anno 2000. «Il nostro modo di pregare in comune lascia trasparire qualcosa del mistero di Dio? se un non credente entrasse in chiesa nel momento della 30 Anche il Concilio Vaticano II individuò nella liturgia il primo grande tema a cui por mano, la Costituzione dogmatica sulla liturgia, Sacrosantum Concilium, è stato infatti il primo documento che ha promulgato. 31 A. ROSMINI, Le cinque piaghe della Santa Chiesa, n. 15, testo trasposto in lingua aggiornata a cura di G. Picenardi, Stresa 2012 (Antonio Rosmini Maestro per il Terzo Millennio – opere, n. 2), p. 25. La condizione a cui riferisce sono le parole di Gesù: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per domandare qualunque cosa … lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,19,20). «E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola» (Gv 17,22).


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preghiera o di una celebrazione, si sentirebbe portato a gustare qualcosa di un al di là invisibile ma presente, adorato, amato, cercato con tutta l’ansia del cuore? Le nostre comunità insegnano a pregare? facciamo conoscere i metodi di preghiera, il metodo della “lectio divina”, le tradizioni semplici di orazione che ci vengono dall’antichità cristiana? chi volesse imparare a pregare può venire da noi senza sentirsi costretto a cercare in tradizioni lontane o esoteriche un avviamento al modo di incontrare Dio nella preghiera e nel silenzio? il nostro modo di cantare sostiene la preghiera, eleva lo spirito e il cuore a Dio e ce ne fa presagire la grandezza e la bontà? La preghiera dei preti e dei consacrati è visibile, esemplare, capace di far desiderare la gioia della preghiera? avviene talvolta ciò che è avvenuto a Gesù, che dopo la sua preghiera si sente domandare: insegna a pregare anche a noi così (cfr. Lc 11,1)?»32.

Si rendeva necessario ricostruire questa “comunione liturgica”, perché «è grandemente utile e conveniente che il popolo possa intendere le voci della Chiesa nel culto pubblico, che sia istruito in ciò che si dice e si fa nel santo sacrificio, nell’amministrazione dei sacramenti e in tutte le funzioni ecclesiastiche»33. Quando questa comunione viene ricostruita: «il popolo piglia un gusto e un diletto spirituale maggiore delle sacre funzioni, il suo cuore s’infervora, acquista maggiore stima, riverenza e devozione agli esercizi della pietà cristiana e, soprattutto, si lega al clero, di cui meglio conosce la dignità; quindi la carità si diffonde soavemente tra clero e popolo e tra i fedeli che compongono il popolo, per l’unanimità dei santi affetti e dei sentimenti religiosi, per una comunicazione spirituale, onde tutti si sentono efficacemente uniti in un cuor solo, in un’anima sola, come una sola famiglia di cui Dio è padre»34.

32 C. M. MARTINI, Ripartiamo da Dio! Lettera pastorale per l’anno 1995-1996, n. 4.2, Milano 1995, 51. 33 Ibid., 25. 34 A. ROSMINI, Le cinque piaghe della Santa Chiesa, cit., n. 16, 26.


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Sezione miscellanea Synaxis XXXII/1 (2014) 135-148

LA CONCEZIONE DELLA CORPOREITÀ IN SCHOPENHAUER*

ANTONIO CRIMALDI**

A ventisette anni di distanza dalla morte di Schopenhauer, Nietzsche, il filosofo che lo aveva elevato al rango di educatore degli spiriti liberi, nella Prefazione alla seconda edizione della Gaia Scienza (1887) non esitava a scrivere, in controtendenza rispetto al percorso di una tradizione millenaria, una delle sue notazioni più provocatorie: «L’inconscio travestimento di necessità fisiologiche sotto la maschera dell’oggettività, dell’idealità, della spiritualità pura si spinge sino a limiti orripilanti, e spesso mi sono domandato se, detto grossolanamente, la filosofia fino ad ora non sia stata altro che una interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo […] tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, si posso sempre considerare sintomi di determinati corpi; esse […] forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono […] sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, auto dominio nella storia, ma anche dei suoi impedimenti, stanchezze, impoverimenti, del suo presenti-

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Relazione tenuta il 21 novembre 2012 al Colloquio del CeSIFeR su: Il corpo e l’esperienza religiosa, presso le Biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero, Coro di notte dei Benedettini (Catania 21-22 novembre 2012). ** Docente di Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania.


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mento della fine, della sua volontà di finire».1 Le formulazioni della metafisica, le sue “ardite follie” come sintomi del corpo: difficilmente l’autore dello Zarathustra sarebbe giunto, sia pure nel segno di un intento demistificatorio, a dare peso a una simile ipotesi, se Schopenhauer, anch’egli in controtendenza rispetto all’intera tradizione filosofica dell’Occidente e, soprattutto, della tradizione filosofica della modernità, non avesse “sdoganato” il corpo come luogo privilegiato dell’essenza segreta della realtà (noumeno), della natura nascosta di tutte le cose che esistono al mondo. Propiziarono la sua scoperta gli studi di scienze naturali da lui compiuti a Gottinga e il fatto che Kant, punto di riferimento ineludibile per il pensatore di Danzica, avesse inopinatamente conferito dignità filosofica alla medicina, la quale, secondo il suo modo di vedere, come “dietetica del corpo” veniva a integrarsi perfettamente con la filosofia come “dietetica dell’anima”. D’altro canto, più frequentemente di quanto si potrebbe pensare, nella temperie culturale romantica e post-romantica, gli estremi si toccavano: il massimo grado di idealità e di rêverie ben si accordava con il massimo grado di concretezza; capacità visionaria, esaltazione del sentimento e immaginazione ben si accompagnavano al realismo nudo e crudo tipico della mentalità della borghesia in ascesa. Sul terreno specifico del pensiero filosofico, l’impulso prepotente al concreto suggeriva, in Germania, itinerari di “presa della realtà” e di liberazione dell’umano in direzione opposta al delirio speculativo degli idealisti e, specialmente, alle suggestioni consolatorie del sistema di Hegel che, avendo dichiarato e, a suo modo illustrato, il primato e il potere dell’Idea e dello Spirito nel corso storico, aveva sostenuto l’integrale coincidenza di idealità e razionalità, vale a dire la tesi secondo cui riportare l’essere al dover essere, ipotizzare un mondo altro da quello che è, lottare per la costruzione di un mondo alternativo e migliore di quello esistente, sono propositi e imprese vani e inconcludenti, poiché l’essere, il mondo, proprio in quanto reale, e già razionale, possiede già in sé la giusta misura; donde il compito del filo1

F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, trad. it. di F. Ricci, introd. di F. Desideri in ID. Le grandi opere, Milano 2011, 1104-1105.


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sofare, che non è quello di trasformare la realtà, bensì di comprenderla. In terra tedesca, è il tempo dei capovolgimenti. Così, prima dell’impegno di Marx a dedicarsi a una filosofia della prassi, ad una filosofia che finalmente camminasse reggendosi sui piedi e non solo sulla testa come aveva teorizzato l’assertore del sapere assoluto, tra i “giovani hegeliani” un Feuerbach capovolge Hegel proclamando non lo Spirito o il pensiero o l’Idea o il soggetto pensante, bensì il corpo quale “fondamento del mondo”, e l’io corporeo, l’essere corporeo dell’uomo quale unica via d’accesso alla conoscenza dell’essere, poiché il pensiero ha tutt’al più a che fare con l’essere possibile, mentre i sensi, e soltanto i sensi, toccano e svelano l’essere reale: «Nelle sensazioni, e proprio nelle sensazioni più comuni, sono celate le più sublimi verità. L’amore è la vera prova ontologica dell’esistenza di un oggetto fuori della nostra testa, né l’essere può essere provato in altro modo che attraverso l’amore, e in generale attraverso la sensazione. Esiste soltanto ciò la cui esistenza ti allieta e la non esistenza ti addolora»2. E non sarebbe un azzardo gratuito, a mio parere, supporre che una qualche traccia di tale mutamento in direzione del concreto possa essere raccolta perfino in quel “sentimento fondamentale corporeo” che in Italia, un pensatore metafisico come Rosmini, pone a base della conoscenza del mondo esterno. Naturalmente, Schopenhauer, la guida «che dalle caverne del malumore scettico e della rinuncia critica conduce in alto, verso la sommità della contemplazione tragica»3. È ben lungi dal considerare il corpo fonte esclusiva di misconosciute (dai filosofi), ancorché tangibili, realissime gratificazioni, o dall’esprimere verso di esse compiaciute condiscendenze alla maniera di Feurbach. Né il suo pensiero è riportabile alla reazione anti-idealistica, dal momento che egli, giustamente, si ritiene appartenente ad una costellazione filosofica estranea sia all’idealismo sia ai suoi superamenti o capovolgimenti dialettici e non dialettici. Egli, anzi, dichiarò in tutte le forme e in tutte le occasioni di non voler avere nulla da spartire con i “ciarlatani idealisti”. Seguì,

2 3

L. FEUERBACH, Scritti filosofici, a cura di C. Cesa, Bari 1976, 273. F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, in ID. Le grandi opere, cit., 405.


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certo, le lezioni di Ficthe a Berlino (come anche quelle di Schleirmacher), e tuttavia la cosa non influì minimamente nel senso di indurlo a mitigare i drastici giudizi liquidatori espressi nei loro confronti. Si sbaglierebbe, però, a pensare che egli li avesse condannati in quanto cultori di un pensiero metafisico, egli li condannò, invece, in quanto fautori di una cattiva se non pessima metafisica. Schopenhauer respinse, lui, devotissimo all’autore del criticismo, proprio un aspetto che del criticismo fa parte integrante, il divieto kantiano rivolto al sapere metafisico. Da parte sua, volle essere e fu un filosofo metafisico, a dispetto di Kant e a somiglianza di Platone, le due stelle polari della sua ricerca filosofica, propostegli (paradosso di un insegnamento impartito con indole libera e liberale) da uno scettico interprete della filosofia trascendentale kantiana, lo Schulze (Aenesidemus). Ciò significa che la via al concreto, al nocciolo duro delle cose seguite da Schopenhauer non fu quella che potremmo aspettarci da un filosofo anti-metafisico, sensista, empirista, o materialista, sebbene talvolta e volentieri egli strizzi l’occhio al materialismo quando mostra di identificare cervello e intelletto, attività pensante e processi neuro-celebrali. La forte vocazione filosofica precocemente avvertita e assecondata parlò in lui con voce antica e lo condusse presto sul terreno dei problemi classici, specifici della nostra tradizione filosofica, primo fra tutti il problema del fondamento della totalità dell’essente, ma lo introdusse anche e principalmente ai problemi tipici della filosofia moderna come quello delle possibilità e dei limiti della conoscenza umana, e ad esso correlato «il problema del rapporto tra il mondo nella mente e il mondo fuori dalla mente». Mai Schopenhauer palesa alcun sospetto circa la possibile causa del perché questo rapporto nella filosofia moderna fosse diventato così problematico; e ciò dimostra che egli, di tale filosofia, condivide, come dirò, il presupposto di fondo, vale a dire la conclamata impossibilità o almeno l’insuperabile difficoltà, per chi parte dal soggetto pensante e programmaticamente circoscrive l’attingimento della certezza al solus ipse della soggettività pensante, di ripristinare o ristabilire il contatto con l’altro-da-sé, col mondo esterno, una volta scisso, separato il soggetto da esso. Ma qui non è il caso di sottoporre a vaglio critico tale posizione filosofica o di richiamare le radicali contestazioni cui essa è andata incontro, in particolare,


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nell’ambito del pensiero filosofico del Novecento. Qui basterà sottolineare o constatare che il problema del rapporto tra il mondo dentro e il mondo fuori della mente, la cui variante più prossima alla considerazione è formulazione del nostro autore, seppure non perfettamente coincidente con questa riportata, è data dal problema del rapporto tra fenomeno e noumeno impostato nei termini kantiani, la questione del rapporto tra il per-noi e l’in-sé delle cose finirà con il configurarsi per il pensatore di Danzica come necessità teoretica di reperire per il soggetto pensante un varco che porti fuori da ciò che semplicemente appare alla mente e consenta di cogliere ciò che veramente è e come veramente è, la cosa in sé appunto, per via diretta, evitando la mediazione della mente e del mentale. Per Schopenhauer, la tendenza al concreto di cui si è detto, trasposta nel proprio della sua cifra filosofica si manifesta nel proposito di capire come il mondo sia in sé stesso, oltre o sotto il velo del suo apparire, e di approdare a una nuova immediatezza o apprensione immediata dell’essere reale, scavalcando l’intervento del mentale, l’applicazione delle strutture percettive e cognitive del soggetto conoscente, scavalcando, quindi, le categorie dell’intelletto, l’organizzazione del dato cognitivo operata dalla mente che, per sua costituzione, non afferra e non ci offre la cosa così com’è, bensì la rappresentazione di essa. La quale rappresentazione è, a sua volta, l’esito di una sintesi deformante in quanto mette insieme il modo di apparire della cosa alla mente (immagine) e il modo in cui la mente con il suo apparato categoriale la costituisce in oggetto di conoscenza e la comprende. Poiché la conoscenza è necessariamente rapporto di soggetto e oggetto, essa è necessariamente sintesi e necessariamente rappresentazione. Il mondo, scrive Schopenhauer all’inizio della sua opera principale, «è la mia rappresentazione»: l’uomo «non conosce né il sole né la terra, ma sempre e solo un occhio che vede un sole e una mano che sente una terra; […] il mondo che lo circonda esiste solo come rappresentazione, cioè sempre e solo in rapporto a un altro, al portatore della rappresentazione che è egli stesso»4. Non solo il mondo è 4

A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di S. Giametta, I, Milano 20093, 123.


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tale solo per il soggetto che se lo rappresenta, ma «quello che in qualche modo appartiene e può appartenere al mondo è inevitabilmente affetto da questo suo essere condizionato dal soggetto ed esiste solo per il soggetto»5. L’esistere del mondo solo per il soggetto implica la conseguenza che esso dipende dalla coscienza del soggetto, dalla soggettività del soggetto; il mondo, dunque, in quanto conosciuto e conoscibile, porta il marchio dell’idealità, della coscienza, e proprio per questo esso è mero fenomeno, puro apparire alla coscienza stessa «per cui esso dev’essere riconosciuto, almeno da una parte, come affine al sogno». Nulla è dato a noi immediatamente, tutto ci è dato tramite mediazione: «Giacché niente è più certo del fatto che nessuno mai può uscire da sé per identificarsi immediatamente con le cose diverse da lui […] tutto ciò di cui uno ha scienza sicura, e quindi immediata, si trova all’interno della sua coscienza. Al di là di questa non vi può essere dunque alcuna certezza immediata»6. E precisamente «Solo la coscienza è data immediatamente, quindi la sua base è limitata ai fatti della coscienza: cioè essa è essenzialmente idealistica»7. Ora, la tesi di Schopenhauer secondo cui la conoscenza non è rapporto tra pensiero ed essere, tra soggetto ed ente, tra intelletto e cosa ecc., bensì rapporto e rappresentazione dell’essere, dell’ente, della cosa, rapporto tra pensiero e immagine delle cose, ripete, ed egli lo ammette apertamente, l’impostazione di Cartesio, in base alla quale viene affermato che il soggetto non si confronta direttamente con le cose stesse, bensì con le rappresentazioni o idee che esso ha, o si costruisce, delle cose. E la tesi, a mio parere, rappresenta la conferma esplicita della ricaduta della filosofia di Schopenhauer nel vicolo cieco di una soggettività solipsistica, almeno riguardo all’ambito del conoscere. Ma non mi voglio soffermare sulla questione, anche perché tutto il filo dell’indagine in lui sembra proprio dipanarsi in conseguenza dell’insoddisfazione profonda che suscita la stessa ipotesi di essere frustrati nella nostra sete di certezza e di verità dall’insuperabile permanere della nostra soggettività nel cerchio di un mondo illusorio. 5

Ibid., 124. Ibid., 13. 7 Ibid., 14. 6


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Egli, infatti, si premura di precisare che il “lato della conoscibilità” è appunto un aspetto, non il tutto del mondo. C’è un altro lato del mondo, un altro spessore dell’umano, che non è in tutto e per tutto rappresentazione, e che ce ne rivela l’intima essenza al di fuori di qualunque tramite conoscitivo. D’altronde, pure Kant aveva sostenuto che la mente umana non è abitata solo da rappresentazioni e che le rappresentazioni non costituiscono il tutto della ragione umana: «[…] noi non siamo soltanto il soggetto conoscente, ma […] facciamo parte anche noi stessi degli esseri da conoscere, siamo noi stessi la cosa in sé»8, dice Schopenhauer. Nondimeno, proprio per il fatto che noi stessi siamo contemporaneamente soggetti conoscenti e parte degli esseri da conoscere, noi apparteniamo contemporaneamente al mondo fenomenico e al mondo noumenico. Perciò non “andando oltre” la rappresentazione, oltre il fenomeno, ci fermiamo al lato esterno delle cose senza mai penetrare e indagare l’interno, quello che le cose sono in sé stesse. Ma, continua Schopenhauer, questo andare oltre il fenomeno, non solo ci è possibile e ci è consentito, bensì ci mette in modo assolutamente diretto al contatto con la cosa in sé, con il lato interno dell’essere: «Perché […] per giungere a quella propria intima essenza delle cose, nella quale non possiamo penetrare da fuori, ci sta aperta una via da dentro, quasi un passaggio sotterraneo, un cunicolo segreto, che ci immette a un tratto, come a tradimento, nella fortezza che era impossibile prendere d’assalto da fuori. La cosa in sé, può, appunto in quanto tale, entrare nella coscienza solo in modo assolutamente diretto, cioè solo diventando essa stessa coscienza di sé […]»9. L’unica realtà che, secondo Schopenhauer, ci è dato di attingere immediatamente e che si presenta a noi non solo esternamente, bensì nello stesso tempo anche dall’interno è il nostro volere, la volontà, l’atto del volere. E qui subentra nella considerazione di Schopenhauer il ruolo insostituibile e unico esercitato dall’esperienza corporea nell’aprirci il “passaggio sotterraneo”, il cunicolo segreto attraverso il quale la cosa in sé, costitutiva della nostra essenza, affiora alla nostra 8 9

Ibid., II, 277. Ibid., II, 278.


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consapevolezza per via diretta. La cosa in sé ripete spesso Schopenhauer è la volontà stessa e lo strumento di cui si serve e la dimensione umana con cui si identifica è il corpo. In ogni individuo umano «ogni vero atto della sua volontà è subito e immediatamente anche un moto del suo corpo; egli non può volere realmente l’atto senza percepire insieme che esso appare come movimento del corpo»10. Schopenhauer spiega al riguardo come il soggetto umano in quanto soggetto conoscente possa rapportarsi al proprio corpo o possa vivere ed esprimere la sua identità col proprio corpo in due maniere del tutto diverse: conoscendo il proprio corpo “come oggetto fra gli oggetti”, al pari di qualunque altro ente o cosa esistente in natura, e quindi attraverso la mediazione della rappresentazione, come puro fenomeno; oppure, in alternativa, avvertendosi dall’interno quale corpo vivente, percezione in cui, l’atto della volontà e l’azione del corpo vengono ad identificarsi. In tal caso, la corporeità, essendo vissuta come componente immediata di percezione e di coscienza da parte del soggetto visualizza al soggetto medesimo, eludendo la necessità del ricorso all’apparato deformante della capacità cognitivorappresentativa. La cosa in sé o l’essenza nascosta della propria intima costituzione ontologica e svela allo stesso tempo, quella che il nostro filosofo definisce l’oggettità della volontà. Faccio notare, per inciso, che la duplice ottica illustrata da Schopenhauer nell’accostamento della complessa e per molti aspetti enigmatica corporeità umana introduce una distinzione nella riflessione antropologica sul rapporto corpo-soggettività che oramai è universalmente data per acquisita e condivisa nell’ambito di indagine dell’antropologia filosofica contemporanea. Resta, invece, di esclusiva pertinenza del pensiero di Schopenhauer l’indicazione della valenza metafisica dell’affermata identità corpo-volere umano; indicazione in virtù della quale, come egli sostiene, «la volontà è la conoscenza a priori del corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori della volontà»11. Ed è questo “incarnarsi” della volontà nel corpo che egli pone a premessa

10 11

Ibid., 265. L.c.


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della sua tragica e sconsolata descrizione della condizione umana e della condizione umana e della condizione di ogni essere vivente. È il presupposto dottrinale da cui si diparte la visione desolata che rende Schopenhauer l’interprete più ossessionante del “dolore generale della vita umana”. Egli si colloca, per riportare una bella osservazione di Kierkegaard, «come un Giobbe speculativo sul mucchio di cenere della finitezza»12. La volontà è il principio cosmico ontologico della totalità dell’essente, non solo, né esclusivamente, principio dell’agire umano, e la potenza sovrana, la forza che muove e subordina a sé l’essere di ogni ente. Infatti, Schopenhauer la vede operante dall’interno del soggetto umano nell’esperienza immediata della corporeità protesa a muoversi quasi mai a proprio agio e sempre per il proprio agio nel mondo circostante e, per analogia, in tutti gli altri esseri, nell’animale, nella pianta, nel cristallo, dal momento che qualunque uomo, osservando dall’esterno quanto sussiste e accade nella natura e cogliendo le somiglianze di tali manifestazioni con i dati offerti dalla esperienza immediata della propria corporeità, riconoscerà come “intima essenza di ogni cosa” quella identica volontà che spinge il suo corpo ad agire, preda della fame, della sete e del desiderio di vivere, e la constaterà all’opera non solo dentro di sé, ma anche fuori di sé «nella forza che ferve e vegeta nella pianta» o «nella forza per la quale si forma il cristallo» o anche in quella «che fa girare l’ago verso il polo nord»13. Sennonché «la volontà esperita nel proprio corpo come quell’oscura forza vitale che opera sia nell’uomo sia in tutta la natura»14 si manifesta e nell’uomo e in tutti gli esseri, sotto il lato fenomenico e sotto quello noumenico, con connotazioni di assoluta negatività: è volontà cieca, irrazionale, priva di qualunque scopo, ad eccezione del suo tendere a perpetuare se stessa, essa si incardina in ogni ente e trova in ogni ente il suo principium individuationis ed ogni ente la rivela ai nostri occhi come volontà di vivere prepotente, incoercibile, e sì, anche come impulso vitale, gioia di vivere, coraggio di vivere, onde ogni atto 12

Cit. in K. LÖEWITH, Da Hegel a Nietzsche, Torino 1974, 188. Ibid., 279. 14 R. SAFRANSKI, Il Romanticismo, Milano 2007, 106. 13


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di volontà «ha un motivo», quello della propria gratificazione, «mentre la volontà in genere non ne ha nessuno»15. È l’originario attuarsi e l’assolutezza di tale volontà a farci comprendere perché «l’uomo ami sopra ogni cosa un’esistenza piena di miseria, afflizione, dolore, angoscia, e poi ancora piena di noia, che, considerata e ponderata in modo puramente oggettivo, dovrebbe essere da lui aborrita e la cui fine dovrebbe essere assolutamente desiderabile»16. E soprattutto è l’assurda conduzione strumentalizzazione dell’essere da parte della volontà a farci comprendere il carattere illusorio di quelle gratificazioni verso cui ci spinge incessantemente il desiderio di vivere, giacché, sostiene Schopenhauer, ogni soddisfazione, o ciò che comunemente si chiama felicità è «propriamente ed essenzialmente sempre e solo negativa e assolutamente mai positiva». «La soddisfazione o felicità non può essere mai più della liberazione da un dolore, da una necessità». E tra le necessità sono da annoverare «non solo ogni reale aperta sofferenza, ma anche ogni desiderio la cui importunità disturbi la nostra pace, e finanche la mortifera noia che ci rende l’esistenza un peso»17. Non mi dilungo più di tanto a richiamare gli scenari evocati da Schopenhauer per descrivere le tragedie, le miserie, le sofferenze della condizione umana, il male di vivere e del vivere riscontrato in ogni esistente e in ogni esistenza. Dirò solo che, per lui, è l’esistere stesso che si configura come male, è l’esistere stesso in quanto offrente occasione di attuazione e di individuazione a una volontà cieca e irrazionale, a costituire una colpa originaria imperdonabile e irredimibile. Da questo punto di vista desta poca meraviglia il fatto che egli condivida in pieno la dottrina giudaico cristiana del peccato originale. L’esistere, la vita, è colpa e il dolore e il prezzo di tale colpa. Né sarà solo questo argomento a dimostrarci un imprevedibile recupero di tematiche cristiane, e non solo cristiane, da parte di un autore che pur tuttavia resta assertore di un rigoroso ateismo. La cosa non piacque affatto al Nietzsche già pieno d’entusiasmo per il messaggio eroico del filosofo di Danzica. Gli rimproverò, infatti, un arrestarsi e un arenarsi «nelle 15

A. SCHOPENHAUER, cit., I, 506. Ibid., II, 506. 17 Ibid., 576. 16


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prospettive ascetico-cristiane, alla fede nelle quali era stato dato il ben servito insieme alla fede in Dio». Nietzsche, a fiuto, colse nel pensiero di Schopenhauer un elemento che misurava la distanza abissale tra lui e il maestro d’adozione, senza peraltro accennare alla causa principale di tale arenarsi: il fatto è che il pensiero di Schopenhauer esprime un indubbia ansia di liberazione dell’umano e un afflato che oserei definire religioso pervade le sue pagine e le sue analisi. Se il male, per l’uomo e per ogni essere è dato dall’ospitare in sé il prepotente impulso di una volontà che utilizza ogni esistente per perpetuare se stessa, scatenando inenarrabili sofferenze e dolori e morte e disinganni, la liberazione da tale mostro sempre uno e identico a se stesso, pur uno e identico nelle infinite sue manifestazioni dentro la molteplicità degli enti, diventa l’unica prospettiva accettabile a cui può aderire la lucidità di un essere, quale è l’uomo, pensante e consapevole di se stesso, di un essere a cui l’occhio della contemplazione fredda ha dischiuso lo scenario di una verità amara, ma pur sempre liberante. La liberazione per Schopenhauer consisterà proprio nella negazione della volontà di vivere e passerà principalmente da quella realtà dell’umano, da quella dimensione corporea, da quel corpo la cui esperienza del vivere, precategoriale, antepredicativa, altro non è che l’esperire in sé e da sé una potenza aliena e alienante, causa e origine di ogni patimento e di ogni schiavitù: per cui, ripetendo Paolo, l’uomo vivendo il proprio corpo sembra dover dire non sono io che vivo, ma è l’altro, l’alieno, il nemico che vive in me. Il dolore, l’innegabile constatata presenza del dolore, l’incombente minaccia da esso esercitata in ogni istante sui pochi momenti di respiro e di sollievo concessi dal destino all’uomo, in una parola, l’intiera verità del negativo e della negatività è per Schopenhauer la scaturigine di ogni interessamento religioso e di ogni riflessione metafisica circa il senso della totalità dell’essente. E come «il sapere della morte e oltre ad esso la considerazione del dolore e della miseria della vita […] dà la spinta più forte alla meditazione filosofica e alle interpretazioni metafisiche»18 così pure il patire nella propria carne l’artiglio della

18

Ibid., II, 229.


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sofferenza e il coinvolgimento emotivo nella sofferenza altrui è il principio di ogni atteggiamento etico-morale. L’etica nasce dalle ripercussioni emotive suscitate in noi dalla consapevolezza di fronte alla morte e di fronte alla finitezza di ogni esistenza e, specialmente, dalla disposizione empatica a partecipare, a farci carico del dolore altrui. Ché, se la simpatia è condivisione della gioia, l’empatia è condivisione del dolore, compartecipazione al dolore, com-patire. Compassione: altro termine fortemente evocativo della sensibilità cristiana, benché tipico anche della spiritualità buddista. E dico cristiana anzitutto, giacché Schopenhauer usa come sinonimo di compassione (Mittleid) il termine agape, caritas, e pone il compatire, la compassione, a fondamento della morale. Il compatire segna la prima, seria sconfitta dell’egoismo, benché non lo estingua, secondo l’ottica di Schopenhauer, totalmente: l’egoismo, infatti, muore definitivamente allorché subentra la perfetta voluntas, l’estinzione totale di ogni desiderio, per la quale Schopenhauer non trova di meglio che mettere a disposizione l’impressionante panoplia degli strumenti ascetici adoperati dai mistici di ogni tempo e di ogni latitudine: rinuncia, abnegazione, oblio di sé, castità ecc. E tuttavia questi mezzi concernono sempre la relazione della soggettività a se stessa. Solo la compassione concerne in tutto e per tutto la relazione del soggetto umano al proprio simile, all’altro uomo. La compassione, lascia intendere Schopenhauer, laddove si spinge a quell’amore del prossimo che è la carità, se non porta a termine il processo di annichilazione del volere e almeno compimento dell’unico senso che possiamo conferire ai rapporti intersoggettivi: essa abbatte le barriere che separano gli uomini e li rende solidali tra loro, essa opera in modo che i dolori dell’uno penetrino nell’altro uomo e fa propri non solo i dolori altrui reali, ma anche quelli possibili. Potrei dire, per chiarire tale concetto, che Schopenhauer vede, in paradossale sintonia con l’indicazione evangelica proprio nella compassione, nell’amore del prossimo, nella caritas il compimento pieno della legge morale. Egli sottolinea come «le carezze del puro amore [termine, inutile dirlo, prelevato dal linguaggio dei mistici] coincidono in tutto con il tono della compassione» e come anche in lingua italiana compassione e puro amore vengano indicati con la stessa parola pietà. Nei confronti dell’amico la compassione è la sincera


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partecipazione al suo bene e ai suoi mali o il sacrificarsi disinteressatamente per lui nei confronti del nemico (ma per Schopenhauer il vero nemico, lo sappiamo, è il fondamento metafisico della volontà di vivere seguita fino all’estremo limite dell’egoismo). La compassione è riconoscimento dell’eterna giustizia. Chi non compatisce non comprende la tragedia umana di cui è partecipe consapevolmente o inconsapevolmente. Spesso si vedono i malvagi vivere nella gioia e uscirsene dal mondo indisturbati dopo misfatti e crudeltà di ogni genere e se ne conclude che nel mondo chi compie il male è felice e resta tante volte impunito e lo si invidia né ci si rende conto della verità che il malvagio è doppiamente preda della inutilità e della vanità del tutto, in quanto succube dell’egoismo e succube della volontà irrazionale. Comprende e afferma l’eterna giustizia solo chi si lascia ammaestrare dal dolore e chi attraverso la cognizione del dolore, preso da pietà per l’universale patire capisce che la lotteria della vita non ammette vincitori ma solo perdenti e che tutti gli esseri, carnefici e vittime, tormentati e tormentatori sono parimenti immersi nell’inferno dell’esistenza. Inferno, per altro, meritato, stante l’equivalenza di colpa e vita, l’equivalenza tra esistere, vivere e peccare. Perciò il grado di colpa da cui la nostra esistenza è affetta si misura sul dolore ad essa collegato: «ogni grande dolore, sia materiale che morale, dice quel che meritiamo, giacché non potrebbe venire a noi se non lo meritassimo»19. Lo possiamo immaginare, il nostro filosofo, nell’atto di scuotere il capo in segno di disapprovazione allorché da più parti gli viene rimproverata e contestata la tetra visione della condizione umana di cui si fa portavoce. «Si son levate grida sul lato malinconico e sconsolato della mia filosofia. Esso consiste però solo in ciò, che io, invece di favoleggiare di un inferno futuro come equivalente dei peccati ho dimostrato che dove c’è la colpa, nel mondo, c’è già qualcosa di infernale»20. Così, questo “Giobbe speculativo” mostra di misconoscere il dramma del Giobbe biblico, il dramma della sofferenza degli innocenti, la cui protesta scaturente da una coscienza immacolata costringe perfino Jahvè a rive-

19 20

Ibid., II, 816. Ibid., II, 815.


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larsi. Riconosce, però, il mistero dell’amore o l’amore come mistero; è lui infatti a dire che l’agape è mistero: in un mondo dominato metafisicamente dal principio egotico, la gratuità dell’amore disinteressato non si sa da dove venga, si sa soltanto che viene da fuori, come la psyché di Aristotele.


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Note e discussioni Synaxis XXXII/1 (2014) 149-152

RIFLESSIONI SU LC 11,41. PER UN TENTATIVO DI COMPRENSIONE LINGUISTICO-FILOLOGICA

SALVATORE PISCIONE*

Un passo evangelico ancora oggi di non immediata comprensione è Lc 11,41 nell’originale greco: plhèn taè e\noénta doéte e\lehmosuénhn, che la volgata traduce: verumtamen quod superest date eleemosynan1, cioè «piuttosto date in elemosina ciò che avanza». Il versetto si colloca nell’ambito di una querelle tra Cristo e i farisei; uno di loro, che lo ha invitato a pranzo, si meraviglia che Gesù non ha fatto le abluzioni rituali prima di prendere il cibo. Il maestro, leggendo nel pensiero di chi l’ha invitato, afferma: «voi farisei purificate l’esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina (a|rpagh%v) e di iniquità (ponhròav). Stolti!: Colui che ha fatto l’esterno non ha fatto anche l’interno?», Segue poi il versetto in questione. La traduzione latina e quelle nelle varie lingue nazionali che da essa dipendono sembrano però inadeguate, anzi errate, perché lasciano aperti vari problemi, Anzitutto il versetto così tradotto sembra del tutto fuori contesto; inoltre la traduzione della Vulgata ha dato luogo a non pochi fraintendimenti sulla pratica della carità e dell’ elemosina, come se Cristo invitasse i suoi discepoli a dare ai poveri gli scarti e ad avere la coscienza tranquilla nei confronti dei bisognosi *

Docente di Lettere classiche presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per il testo greco e quello della Vulgata viene seguito A. MERK, Novum Testamentum, Roma 199211. 1


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dando loro in elemosina tutto ciò ‘che al cristiano non serve’ più. Il povero insomma verrebbe considerato non come un fratello da amare, ma come (mi si passi l’espressione) un contenitore di spazzatura in cui riversare ciò di cui non sappiamo più cosa fare (quod superest). Siamo agli antipodi del Vangelo. In effetti, a mio parere, sulla base del testo, Cristo vuol dire ben altro, Ce ne rendiamo conto se riflettiamo sui significati di taè.e\noénta e di e\lehmosuénhn. Il participio neutro sostantivato non indica ciò che avanza, ma ciò che è (o/nta) dentro (e\n). Del resto, quando il NT vuole rendere l’idea di ciò che avanza usa il verbo perisseuéw come è attestato in un altro passo lucano: kaì h/rqh toè perisseu%san au\to_v klasmaétwn koéfinoi dwédeka2, che San Gerolamo traduce Et sublatum est quod superfuit: illis fragmentorum cophini duodecim. Il passo analogo di Matteo: «Tutti mangiarono e furono saziati e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati» usa lo stesso verbo perisseuéw: kaì e/fagon paéntev kaì e\cortaésqhsan, kaì h&ran toè perisseu%on tw%n klasmaétwn dwédeka kofònouv plhéreiv3.

L’uso di “questo” verbo è presente anche nel vangelo di Giovanni. Dopo la moltiplicazione dei pani, quando tutti furono saziati, Gesù ordina: sunagaégete taè perisseuésanta klaésmata, che S. Gerolamo traduce: Colligite quae superaverunt fragmenta4; perciò più opportunamente la traduzione della Bibbia della CEI rende il passo: «piuttosto date in elemosina quel che c’è dentro». Tuttavia tale traduzione, anche se più corretta, rimane ancora un’ espressione oscura, che mal si lega con la restante parte del versetto: «ed ecco tutto per voi sarà mondo». Ci si domanda cosa vuol dire Cristo con “quello che è dentro”. E dentro che cosa? E perché tutto sarà mondo? Non fa meraviglia, dunque, che la Bibbia di Gerusalemme commenta, in.nota, il passo dicendo “testo di interpretazione difficile”. Prima di arrivare a delle conclusioni, è bene soffermarsi sull’altra espressione e\lehmosuénh. Il termine, passando dal greco alle lingue 2

Lc. 9,17. Mt.14,20. 4 Gv 6,12. 3


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Riflessioni su Lc 11,41

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moderne ed in particolare all’italiano, ha avuto un restringimento del campo semantico, perché nella lingua degli antichi greci indica non solo l’atto concreto con cui si va incontro al bisogno dell’altro, ma soprattutto il vivo sentimento di compassione e compartecipazione che si prova per il male dell’altro. Insomma, in italiano il termine “elemosina” indica un atto quasi frettoloso e distaccato, spesso caratterizzato più da spilorceria che da vera generosità, con cui si crede di far del bene a un bisognoso, senza lasciarsi coinvolgere in profondità dalla sua condizione pietosa e senza tentare nulla di serio per affrancarlo dalla sua situazione in maniera definitiva e rispettosa della sua dignità. In greco il termine e\lehmosuénh indica invece oltre all’aiuto immediato che si offre, la misericordia del cuore, che si fa carico della miseria altrui, come è attestato ad esempio in Callimaco, nell’inno IV dedicato all’isola di Delo. Parlando di Peneo, personificazione del fiume omonimo, il testo callimacheo mette in evidenza la compassione della divinità fluviale nei confronti di Letò, che sta per partorire. La accoglie nelle sue acque, sfidando l’ira di Hera e l’aggressività del dio della terra. Il prezzo che il fiume è disposto a pagare per la salvezza della ninfa è alto: rischia di rimanere in secca per sempre e di essere considerato il più disonorato dei fiumi. Di fronte a tanta generosa compassione (indicata col vocabolo e\lehmosuénh) la stessa Letò invita il suo protettore a desistere: swézeo mhè sué g’e\me_o paéqhv kakoèn ei$nika th%sde a\nt’e\lehmosuénhv5, che in italiano si può rendere: «salvati, non soffrire il mio male per questa compassione». Interessante è anche l’uso del termine attestato dal Siracide che con esso indica quel sentimento di rispettosa compassione, cioè dì pietas che i figli devono ai genitori anche quando sono vittime della demenza senile. «La “pietà” verso il padre non sarà dimenticata e ti sarà contata a sconto dei peccati (}Elehmosuénh gaèr patroèv ou\k e\pilhsqhésetai kaì a\ntì a|martiw%n prosanoikodomhqhèsetai soò)6».

5 6

CALLIMACO, Inno IV, v. 151. Sir 3,14.


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Il termine e\lehmosuénh mantiene questo significato di “tenera compassione” anche in età bizantina, come attesta l’icona della Collegiata di Catania e altre simili immagini, presenti in alcune chiese del territorio etneo, icona denominata “Madonna dell’elemosina”; si tratta cioè dell’immagine della Mater misericordiae, che vuote la salvezza integrale dei suoi figli. In tal senso, sinonimo dì e\lehmosuénh, come attestato concordemente dai dizionari di greco antico, è il vocabolo e/leov, che, in più passi del NT, indica la stessa tenerezza misericordiosa di Dio. Tra i numerosi passi che si potrebbero citare ne indico solo due, ma significativi. Nel Cantico Benedictus (Lc 1,68-79) si parla della «bontà misericordiosa del nostro Dio (v. 78)»; ma il testo originale è molto più pregnante diaè splaégcna e\leéouv Qeou% h|mw%nche, più correttamente, la Vulgata traduce per viscera misericordiae dei nostri. La compassione, che Dio prova, ha qualcosa di materno e tocca le corde più profonde del suo intimo. L’altra espressione è quella di Ef 2,4-5, in cui si dice: «Dio, essendo ricco nella misericordia, (o| deè qeoèv plouésiov w£n e\n e\leéei), da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo». La vera elemosina quindi è avere benevolenza per il prossimo, fino a volerne la totale salvezza. Ritornando al versetto in questione, Gesù invita il fariseo e tutti noi a fare di ciò che abbiamo dentro, cioè i nostri atteggiamenti interiori, un vero e proprio dono di benevolenza per gli altri. È questa la vera purificazione che vuole Cristo: un cammino di conversione che trasformi il nostro mondo interiore, pieno di rapina (a\rpaghé) e di cattiveria (ponhròa), in atteggiamento di autentica misericordia, imitando lo stile di Dio. Perciò i versetti finali dell’episodio lucano, a mio parere, andrebbero tradotti: «dunque offrite ciò che è dentro [il vostro cuore]7 come dono8 (di misericordia. Ed ecco tutto per voi sarà mondo». Un vero e proprio capovolgimento: dalla malvagità iniziale all’apertura amorosa del cuore. 7 L’aggiunta in parentesi quadre si giustifica con l’ e\n di taè e\noénta, che è una ripresa concettuale di e/swqen del versetto 39. 8 L’idea del dono si ricava dall’uso del verbo dòdwmi.


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LA SAGGEZZA TRAGICA E IL SUO SUPERAMENTO IN GABRIEL MARCEL

ENRICO PISCIONE*

Il volume di Gabriel Marcel Pour une sagesse tragique et son audela, pubblicato nel 1968 per i tipi della casa editrice parigina Plon e che attende ancora una traduzione in italiano, offre un’immagine a tutto tondo dell’intera riflessione del noto pensatore francese, il quale si tiene però ben lontano dal proposito di costruire un sistema filosofico onnicomprensivo. Il testo, il quale costituisce — per dirla con Dante — una “circulata melodia”, si sarebbe potuto anche intitolare, e a ragion veduta, “L’Être devant la pensée interrogative”. L’Autore poi, rifiutando l’etichetta di “esistenzialista cristiano” affibbiatagli da Sartre, preferisce connotare il suo contributo speculativo come una teoresi dominata dall’idea della Luce, accostandosi in tal modo ad un pensatore come Hocking, a lui molto affine. Ed è proprio a questo filosofo, come a Bergson, che il Nostro avrebbe desiderato dedicare la sua ultima fatica teoretica. Ed ancora Marcel si sente debitore nei confronti di Royce, di questo originale filosofo del Nuovo Mondo, il quale da un punto di vista storiografico può essere collocato alla confluenza del pensiero di Whitehead e di James con la fenomenologia husserliana. Nel prosieguo del discorso, l’Autore si contrappone decisamente allo strut-

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Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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turalismo imperante nella Francia degli anni ’60 e conferma che i suoi “maîtres à pensée” sono appunto, come abbiamo appena ricordato, Hocking e Royce. A questo punto Marcel, entrando subito in polemica con Sartre, sostiene che la libertà umana non può identificarsi con l’esperienza della privazione e che la finitezza si colloca in un quadro speculativo ove un posto d’onore spetta all’attenzione. La qualcosa comporta pure l’affermazione che l’umiltà, per nulla riducibile alla hybris panlogistica di hegeliana memoria, si presenta come una virtù metafisica originaria. La redazione dell’opera marceliana era già in stampa allorché scoppiarono gli avvenimenti epocali del maggio ’68. L’Autore, con profetico intuito, avvertì subito che la rivolta parigina poteva approdare ad una sorta di infantilismo e ad uno sterile rifiuto della cosiddetta “società dei consumi” ed altresì sfociare in un “dadaismo” dell’azione. Se un merito ha avuto davvero il Maggio francese, esso è consistito soprattutto, a giudizio di Marcel, nella denuncia della sclerosi delle strutture universitarie, denuncia a riguardo della quale il Nostro apprezza in particolare il lucido impegno di Paul Ricoeur sul piano del giudizio e delle scelte culturali nel quadro di un ripensamento radicale del rapporto fra docenti e allievi. L’autore de Il conflitto delle interpretazioni si è rivelato pure molto avveduto nel sottolineare l’esigenza di un ritorno a Platone, al fine di salvaguardare il sapere nella sua integrità e difenderne la caratteristica più propria contro taluni attacchi molto virulenti dei cosiddetti contestatori dell’Università di Parigi. Per Marcel sembra opportuna una dura lotta contro la tentazione del nichilismo ed accettare la lezione proveniente da certo romanticismo tedesco. E proprio a questo punto della sua trattazione l’Autore si richiama al Nietzche del periodo della sanità mentale. E proprio al teorico della “morte di Dio” piuttosto che a Marx bisogna, secondo il pensatore francese, rifarsi nella ricerca di quella verità della quale il nostro testo offre al lettore come le primizie. Ci tocca ora esaminare il primo saggio del volume intitolato “Que peut-on attendre de la philosophie?” Notiamo in primo luogo come il Nostro affermi che, rimanendo nello stretto campo speculativo, non si riesce a dare a tale domanda adeguata ed univoca risposta, come accade invece in ambito scientifico. È innegabile, però, che la ricerca


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speculativa dovrebbe tentare proprio di rispondere ad un tale appello che, agostinianamente, sale dal più profondo dell’umana interiorità. L’Autore, dopo tali conquiste speculative, si chiede se l’Essere, in quanto meta-problematico, si identifichi del tutto con il “pleroma” della fede cristiana. Marcel, riallacciandosi al pensiero dell’ultimo Schelling più che a quello di Fichte, con trepidante certezza, perviene alla conclusione che il soggetto umano fa tutt’uno con “l’homo viator”, ossia con la creatura, che in solidarietà ontologica col suo prossimo, avverte l’esistenza come un preziosissimo dono. Riprendendo infine talune riflessioni di Royce, il filosofo francese osserva che ogni essere umano costituisce una persuasiva testimonianza della verità, la quale non si può mai disgiungere dall’esperienza della tenerezza. Nel percorrere le vie che talora possono apparire sinuose, Marcel scopre la nozione tomistica dell’ “actus essendi”. Egli così si lascia alle spalle “l’orizzonte ermeneutico del pensiero interrogativo” avvicinandosi, forte del metodo degli “approcci concreti”, alla fede la quale supera, in ultima istanza, ogni angosciante dubbio, caricando, in tal modo, di responsabilità la filosofia esistenziale. E il dibattito, apertosi al termine della II guerra mondiale, sull’“engagement” della pura teoresi, secondo Marcel, ancora alla fine degli anni ’60 può considerarsi aperto. Bisogna, innanzitutto, opporsi alla tesi di quanti sostengono che la verità ha un senso solamente nel campo scientifico. È innegabile, infatti, che tutti i filosofi si trovano d’accordo — anche un irrazionalista come Schopenauer — nel sottolineare che la ricerca speculativa ha come meta ultima il raggiungimento della verità. In questo senso, forse, l’unica eccezione è costituita da Nietzsche, il cui pensiero si colloca non soltanto al di là del bene e del male, ma anche del vero e del falso. Proseguendo nell’indagine, il primo problema da esaminare consiste — secondo Marcel — nell’indagare “davanti a chi” il filosofo è responsabile. Sostenere che è necessario assumere un atteggiamento di responsabilità nei confronti del contesto sociale è una risposta riduttiva perché, come suggerisce Péguy nel suo scritto “Nôtre jeunesse”, è necessario fare una distinzione fra dimensione mistica e sfera poli-


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tica o, per dirla con Blondel, fra “pensiero pensante” e “pensiero pensato”. Appare chiaro, a questo punto, che la generosità va ritenuta come ciò che caratterizza più propriamente una teoresi degna di tale nome. Il filosofo non può che accettare serenamente di esser votato ad una certa solitudine, la quale lo spinge talora fino alla decisione estrema del suicidio. La conclusione di questo saggio consiste dunque nel sottolineare che la responsabilità del pensatore presenta due aspetti non facilmente conciliabili: da un lato, egli non può transigere su certi principi universali e, dall’altro, per evitare l’approdo ad un inconcludente problematicismo, deve assumersi la responsabilità di conferire alle sue affermazioni teoretiche un peso storico. È forse necessario — suggerisce Marcel — che il filosofo si senta umiliato per immunizzarsi così contro il peccato d’orgoglio. Ciò comporta, innanzitutto, una presa di coscienza che l’idea di uomo in quanto tale va collocata in un quadro di antropologia filosofica come quella elaborata da Martin Buber e che, nel campo etico, non è per nulla scontato che l’innovazione giochi un ruolo positivo. Il compito proprio del filosofo consiste nel mantenere in sé un equilibrio paradossale fra lo spirito di universalità e l’esperienza da cui non può e non deve prescindere, e nel non abbandonarsi ad alcuna intellettualistica astrazione. Il senso di responsabilità verso se stessi s’accompagna al sentimento di una profonda solidarietà con gli altri. Pertanto, nota acutamente il Nostro, la filosofia non gode di uno “statuto privilegiato”, essa si deve sviluppare sotto il segno della fraternità che supera ogni forma di solipsismo. Il proprio dell’uomo consiste, dunque, nel rendere testimonianza alla verità; la qual cosa implica che si deve evitare di isolarsi dagli altri e di considerare l’esistenza come uno spettacolo da contemplare dal di fuori senza un “engagement” in prima persona. A tal proposito, cade opportuna l’osservazione secondo cui la morale kantiana presenta su tali questioni dei limiti insuperabili. Al termine di questa analisi il pensatore francese sottolinea, a chiare lettere, che un umanesimo autentico non può prescindere da un profondo legame con le proprie origini, come è espresso dai versi che sono al cuore del poema “Leave of years” di Walt Whitman. Allorché l’uomo prende coscienza della propria situazione d’esistente e la considera in relazione con quanto


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chiama l’avvenire, non può fare a meno di constatare che solo l’affermazione “Io morrò” appare indubitabile. La deficienza principale dei filosofi esistenziali dell’angoscia consiste nell’ignorare, senz’altro arbitrariamente, l’esperienza del “gaudium essendi” che irradia sugli uomini la luce della speranza. Introducendo, poi, la nozione di “ateismo vissuto”, Marcel osserva che esso non può non aprire la strada verso la disperazione e verso un cammino di morte. Pare all’autore che il filosofo sia quasi costretto, riflettendo con attenzione, a porsi la questione dell’essere. Sembra, però, scontato che si può sottoporre ad indagine il tema dell’ “Être” solamente a partire dall’essere stesso. Affrontando, quindi, la solenne problematica del rapporto fra verità e libertà, l’Autore procede “per viam negationis” e sottolinea che la nozione di “liberté” presenta caratteristiche assai differenti a seconda che la si consideri su un terreno politico o se si adotti, invece, una prospettiva etico-metafisica. L’uomo libero desidera essere riconosciuto come tale, convinto com’è che la libertà si trasforma facilmente in “offesa” allorché, come ha mirabilmente intuito Dostoevskij, una persona viene umiliata. Non umiliare significa provare un profondo rispetto verso gli altri. E, a tal proposito, non si può non riconoscere che Kant ha visto bene allorché ha stabilito un nesso fra “obbligazione” e “libertà” e si è opposto ad una visione meramente anarchica, la quale confonde l’obbligo con la costrizione. Bisogna, tuttavia, liberarsi da taluni pregiudizi legati ad un modo poco corretto di filosofare, consistente nel ritenere che un’azione è tanto più libera quanto è meno motivata. Tale posizione è stata sostenuta da André Gide quando ha teorizzato l’ “atto gratuito”. È pure da respingere la visione di un Sartre, il quale risolve tout court la libertà con la scelta e si spinge fino all’affermazione limite secondo cui l’uomo è condannato alla libertà. Come ci informa lo stesso Marcel nella sua presentazione della pièce, all’inizio del secondo atto, l’urto fra il protagonista dell’opera Eustache e Werner è motivato anche da un diverso gusto musicale e da una differente concezione della finalità dell’arte: Werner ne difende il valore autonomo, Eustache la giustifica nella misura in cui essa si integra con la vita collettiva. Fra i due appare evidente una diversa


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concezione del mondo, soprattutto per quanto riguarda il significato della dignità umana dei poveri e della maniera di venir loro incontro. Eustache non ha dubbi: solo “l’assistance pubblique” è lo strumento adeguato per attuare la giustizia sociale, strumento il quale ha superato quella anticaglia del passato che è la “charité individuelle”. Non possiamo non chiederci, a questo punto, cosa stia alla base del profondo “mal etre” di Eustache vittima di se stesso e della maschera ideologica che porta. La pièce si chiude, nonostante tutto, con un impressione di luce e di speranza, perché “la grâce est tangible” in un rapporto intersoggettivo liberante e il canto con cui Werner si esprime diventa, alla fine, testimonianza di fede negli uomini, preghiera laica, patrimonio esistenziale. Passando ora ad analizzare il saggio “Vérité et situations concrètes”, il Nostro intende andare al di là della diffidenza nei confronti della verità, diffidenza dettata da un atteggiamento psicologico e sociologico ad oltranza. Marcel, com’è suo costume, si ferma a delucidare il significato di situazione concreta adducendo l’esempio del medico il quale non può non tener conto, nell’esercizio della sua professione, della singolarità del malato onde evitare conseguenze disastrose. Nel saggio intitolato “La Vie et le Sacreé” Marcel affronta la tematica della sacralità della vita non da una prospettiva sociologica ma attraverso uno sguardo spirituale servendosi di un metodo squisitamente fenomenologico e assumendo come punto di riferimento la bella frase di Blake: «Tutto ciò che vive è sacro», convinto com’è che la generazione sessantottina sperimenta ciò che Pierpaolo Pasolini chiamò una “mutazione antropologica”. In un momento storico in cui si pensa di costruire un “cervello elettronico” Marcel sottolinea che l’uomo autentico si colloca al di là di ogni sapere biologico. Un biologismo ad oltranza, infatti, tende a desacralizzare e disumanizzare del tutto l’avventura umana. L’Autore, a questo punto, richiama un passo tratto da una conferenza intitolata “Osservazioni sulla irreligione contemporanea” in cui ha scritto stupendamente: «Non c’è niente di più caratteristico del gesto del credente che congiunge le mani, che non c’è nulla da fare, nulla da cambiare, ma semplicemente da donarsi». Questa citazione permette


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a Marcel di accennare all’esperienza del Sacro che si manifesta in modo particolare in un atteggiamento di dignitoso silenzio. Il filosofo francese, tracciando un bilancio del suo contributo intellettuale, in cui è da includere di certo anche il versante teatrale non separabile da quello filosofico, confessa che il suo impegno teoretico è stato segnato dal desiderio di condurre la persona verso il “centro vivente”, verso quel cuore dell’uomo e del mondo ove tutto si rimette misteriosamente in ordine e ove la parola sacra affiora sulle nostre labbra come un inno di lode e di benedizione. Nello scritto “Ma mort et moi” il pensatore francese analizza il rapporto che lega l’esser umano alla propria morte ed incontra così nel suo cammino la posizione di Heidegger descritta in Sein und Zeit e non può non fermarsi sulla nota espressione “Sein Zum Tode”. Appare così evidente che il Dasein heideggeriano trova la sua compiutezza nella fine, “Das Ende”. A Marcel, invece, la morte appare come un qualcosa di positivo che si presenta dopo un certo percorso esistenziale. E, a sostegno della sua tesi, il filosofo francese cita a questo punto un brano tratto dall’opera Du refus à l’Invocation nella quale troviamo scritto: «È lecito in qualsiasi momento staccarsi dalla propria vita per considerarla come una specie di sorteggio. Un certo numero di tali estrazioni hanno avuto già luogo, alcuni altri numeri devono ancora uscire. Non si può, tuttavia, non riconoscere che siamo stati ammessi a partecipare ad una lotteria, un biglietto ci è stato consegnato nel quale compare una sentenza di morte. Il luogo, la data, la modalità dell’esecuzione sono in bianco». Secondo il filosofo francese alla tesi heideggeriana dello “Sein Zum Tode” si oppone, nella filosofia moderna Spinoza, per il quale l’essere finito è destinato all’eternità o, come altri direbbe, alla vita eterna. Passando ora all’analisi del saggio “Le rencontre avec le Mal”, Marcel dichiara che, parlando da filosofo e non da teologo, non può non polemizzare con Hegel, il quale semplicisticamente sostiene che ci è data sempre una Aufhebung del male. Accennando, a questo punto, alla dottrina tradizionale della fede, Marcel sostiene che essa non implica nulla che assomigli all’affermazione della non realtà del male. Così posta la questione, appare evidente che non si può accettare l’idea di una collera di Dio. Incontriamo, a questo punto, il dogma


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della Communio Sanctorum che ci immunizza dalla tentazione del manicheismo contro cui si batté Agostino. Il male ha una sua realtà che non si può rifiutare ed esso non si può ridurre ad una buffonata e neanche ad una teodicea di leibniziana memoria. Il realismo cristiano, in generale, combatte radicalmente una concezione “illusionistica”, la quale il più delle volte si riduce ad una trasposizione, piuttosto grossolana, di alcuni aspetti del pensiero indiano. Nel saggio L’homme devant sont avenir Marcel si guarda bene dal formulare un pronostico sul futuro che attende la specie umana. Ed è pure lontano dalla nozione nicciana di “volontà di potenza”. Il Nostro riprende la posizione giovanile di Blondel e non degli ultimi saggi, ove sembra richiamare un tomismo di cui s’era liberato. Esaminando il saggio “L’athéisme philosophique” Marcel sottolinea innanzitutto che un tale ateismo perviene a negare, in modo formale ed esplicito, l’esistenza di Dio. Si potrebbe forse sostenere che il pensatore ateo intenda procedere ad una rettifica sul reale, paragonabile a quella effettuata dall’astronomo copernicano allorché afferma che chi non supera il geocentrismo rimane vittima di un giudizio ingenuo. Il filosofo ateo, inoltre, pretende di essere come il depositario di una lucidità che tuttavia non è priva di quel “risentimento” mirabilmente tematizzato da Max Scheler. Non ci si può non chiedere pertanto se la posizione atea non sfoci in una forma di nichilismo o se, al contrario, essa non s’identifichi con una specie di umanesimo costruttivo che però non può che far sua l’affermazione sartriana che l’uomo è “un dio mancato”. Accanto all’ateismo filosofico Marcel colloca il cosiddetto ateismo vissuto, il quale farebbe un tutt’uno con un pragmatismo di carattere bio-sociologico che si fonda su una sorta di etica del superamento. Una tale posizione si scandalizza di fronte alla realtà della sofferenza ed approda, non diversamente da Agostino, ad una sorta di manicheismo. Bisogna, secondo l’acuta analisi di Marcel, difendersi anche dalla trappola tesa alla coscienza cristiana dall’hegelismo. Connesso al precedente appare senz’altro il saggio Philosophie, théologie négative, atheisme. La prima osservazione del Nostro è di natura propriamente storiografica: nel contesto speculativo attuale si


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è molto lontani dall’avvertire come un rimprovero infamante l’accusa di ateismo come invece accadeva ai tempi di Fichte. L’espressione “sagesse tragique” deve risvegliare l’inquietudine, quell’inquietudine di cui Marcel si è occupato nel volume del 1955 L’homme problematique. L’ “homme problematique”, pertanto, in un contesto investito dalla speranza cristiana corregge l’atteggiamento dell’uomo della baracca, immagine fedele del nostro tempo il quale è pervenuto a quella radicale precarietà di cui discute Zeher nel volume L’homme en ce monde pubblicato ad Amburgo nel 1958. Una tale situazione, a giudizio del Nostro, non si supera però fondando quella piccola comunità economistica proposta da Lanza Del Vasto, comunità la quale, in ultima analisi, si connota per un “farisaismo estetizzante” ed è altresì destinata a morire per una anemia perniciosa. Un atteggiamento radicalmente antitetico a quello assunto da Lanza Del Vasto è, a parere dell’Autore, rintracciabile in Theilard de Chardin, il quale prospetta un’età dell’oro, frutto di un’ottimistica evoluzione che, superando il “taedium vitae” e cristianizzandosi, si sviluppa in una marcia inarrestabile. La proposta del noto teologo gesuita, secondo il Nostro, si ridurrebbe ad una specie di fatalismo del progresso che poi entrerebbe anche in flagrante contraddizione con gli stessi principi del cristianesimo. Il pensiero dell’autore de Il fenomeno umano del 1955 si collocherebbe al di là di quanto si può chiamare la saggezza, in una zona confusa dove scienza e religione tendono a ricongiungersi. Sottolinea ancora una volta Marcel che la tecnica non può dare un senso all’avventura umana, la quale è invece rischiarata da una Luce trascendente, di certo ben diversa dallo spersonalizzato Nous aristotelico. Quanto detto non può non esigere un cammino ove i tecnocrati e gli statisti da una parte, gli inquisitori e i burocrati dall’altra scompaiono come fumi al levarsi di un bel giorno.


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C. LOREFICE, La compagnia del Vangelo. Discorsi e idee di don Pino Puglisi a Palermo, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2014, pp. 178. INTRODUZIONE Il volume del professor Corrado Lorefice si snoda intorno ad una domanda di fondo: Pino Puglisi è un prete-antimafia o un pretecristiano del dopo Vaticano II? Attraverso un’attenta analisi della profonda umanità di don Pino, sempre velata da uno stile di vita umile e mite, l’Autore dimostra che si tratta di un cristiano-prete capace di vivere appieno la carità pastorale, presentata dal Vaticano II quale elemento che caratterizza l’identità dei pastori. Pino Puglisi, pur avendo ricevuto una formazione preconciliare (fu ordinato il 2 luglio ’60), accolse il Concilio con entusiasmo assimilandone le indicazioni di fondo anche a livello del ministero presbiterale. Dal Concilio imparò ad essere prete in modo che il suo ministero fosse segno della presenza di Cristo, pastore e guida, nella Chiesa: per questo scelse di vivere «l’esemplarità cristica in una forma ‘a-tipica’, non ‘inquadrata’ e dunque inedita» (p. 22). Da ciò deriva la particolare lettura di Lorefice: «l’essere-in/con/come Cristo… reputo possa fungere da chiave interpretativa della non-standardizzata, singolare identità cristiano-presbiterale di Pino Puglisi» (p. 23). IL CONTENUTO Nella prima parte del volume «La compagnia del Vangelo» l’Autore evidenzia tre aspetti del Beato: innanzitutto gli piace vederlo quale cristiano, poi come prete, quindi come educatore.


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1. Il cristiano Corrado Lorefice presenta Pino Puglisi come un discepolo che è riuscito a mettere al centro della sua vita Cristo Signore, riferimento radicale di tutto il proprio essere: quello che pensa e fa è frutto della sequela, anche la scelta del presbiterato. Gli era possibile “rimanere” in Cristo grazie all’ascolto delle Scritture e alla Liturgia, specialmente l’Eucaristia, ed esprimeva tale fondamento attraverso una relazione personale d’amore con Gesù. Don Pino è un cristiano che vive il discepolato all’interno della Chiesa, percepita da lui, grazie alle indicazioni della Lumen gentium, come fraternità. 2. Il prete In quanto discepolo, il beato Puglisi attingeva dalla relazione con Cristo la carità pastorale imparando ad essere guida della sua comunità: alla luce della lavanda dei piedi si convinse sempre più che l’essere pastore e guida è un servizio; in tale visione difendere e proteggere la comunità includeva l’evenienza del martirio. Don Pino vedeva il ministero nella linea dell’Incarnazione e quindi come un essere “compagno” degli uomini; e voleva la comunità cristiana capace di vivere accanto alle persone (= paroikos), in mezzo alle loro case: la sua pastorale, come ben annota Lorefice, «coniuga Evangelo e territorio» (p. 41), e lì, nel territorio, «egli si lasciava interpellare dalla vita delle persone» (p. 42). A livello personale faceva propria l’indicazione del Concilio di una Chiesa povera e dei poveri attraverso uno stile di vita di chiara sobrietà evangelica, aiutato in questo sia dalla sequela come pure dalla vicinanza al movimento francescano Presenza del Vangelo. Al centro di tale constatazione Lorefice pone una riflessione di padre Puglisi su Gesù: «Egli è stato povero, cioè non si è lasciato condizionare mai dalla ricchezza, dal potere e dai beni della terra» (p. 49), ciò diviene in Pino Puglisi fulcro dell’esistenza. Nel ministero era guidato da una visione di Chiesa profetica che annunzia il Vangelo come liberazione di “tutto” l’uomo e come luce


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che svela le oscure strutture di dominio; una Chiesa che prende le distanze da ogni compromesso con il mondo e la sua menzogna. Guidato dal Concilio, Puglisi ha viva coscienza sia dell’audacia della testimonianza cristiana come pure della tribolazione legata allo scontro con i poteri di questo mondo. C’era nel suo ministero la precisa finalità di voler ridare la dignità di figlio del “Padre celeste” a chi era ridotto ad essere “picciotto” del “padrino” mafioso. In tale compito è stato determinante l’aiuto ricevuto dalla Missionaria del Vangelo Lia Cirrito con la quale ha avviato il Centro sociale “Padre nostro” a Brancaccio. 3. L’educatore Nel mettere a fuoco la figura di don Pino quale educatore, don Corrado ne presenta la scelta pastorale come servizio al vissuto del territorio, la cui situazione è «appesantita dalla diffusa “cultura” della violenza alimentata dalla mentalità e dalla prassi mafiosa» (p. 56). Padre Puglisi è convinto che questa mentalità «bisogna contestarla con la forza della Parola di Dio e sostituirla con gli autentici valori che la Parola di Dio ci propone» (p. 57). Perciò egli proponeva la via della non violenza e della pace — caratteristica del discepolato cristiano — al cui centro vi sono le Beatitudini, la “nuova legge” vissuta, annunziata e proposta da Gesù ai discepoli. Per il discepolo la vita è vocazione all’amore che si concretizza nell’essere-per-gli-altri: il cristiano costruisce e non demolisce, genera vita e non uccide, condivide e non possiede, promuove e non sopprime. La vocazione all’amore costituisce anche la risposta alla domanda sul senso della vita: il Beato era convinto che l’uomo si può realizzare dopo aver trovato il senso da dare alla propria vita. Infatti egli ribadiva che l’uomo è relazione: tradisce se stesso quando all’apertura preferisce la chiusura, al dono la rapina, al dialogo la violenza, alla giustizia l’ingiustizia. Ed affermava che il discepolo impara la misura del dono di sé da


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Gesù, l’«Uomo perfetto»: alla luce di tutto ciò, nell’opera educativa don Pino presenta e media la luce di Gesù, che ha vissuto in pienezza l’umanità. Nella seconda parte attraverso una scelta antologica molto oculata degli scritti di Pino Puglisi viene presentato un percorso pedagogico di vita cristiana. ALCUNE VALUTAZIONI E INDICAZIONI 1. Corrado Lorefice presenta in modo convincente e documentato «non un mito, non un eroe, un diverso, un estraneo, un ennesimo ‘beato’da collocare nelle nicchie delle nostre chiese. Quanto un uomo capace di vivere la fede…Semplicemente un compagno cristiforme. Un fecondo e feriale riferimento per la vita ordinaria personale e comunitaria dei discepoli di Cristo. Non un modello da imitare bensì un typos cristico da assimilare» (pp. 79-80): il volume infatti mette bene in luce il fondamento teologale del discepolo e l’atteggiamento da discepolo del presbitero. Lorefice con abilità di teologo fa vedere quello che c’è prima del martirio e che fa del martirio un epilogo logico: «la morte violenta di Puglisi non è il frutto di una casualità ma l’epilogo di una comprensione del suo essere prete che gli fa esprimere non solo fedeltà a Dio e alla Chiesa, ma anche all’uomo e al mondo» (p. 39). 2. Don Pino è un cristiano che si fa prete e, per conseguenza, è un prete cristiano, come con perspicacia e intelligenza marca l’Autore; è cristiano anche perché la sua vita è continuamente motivata e alimentata da Cristo, dalla sua presenza viva nel Vangelo e nella Liturgia. 3. Pino Puglisi, cristiano forgiato dal Vangelo e pastore che attraverso la sequela diviene come Cristo: ritengo che questa visione, presentata con forza e lucidità, sia l’aspetto nuovo, caratteristico del volume di Lorefice; in tal senso rappresenta un apporto determinante per la conoscenza del Beato. 4. Il volume è scritto con chiarezza e semplicità di linguaggio. È ben fondato sui documenti dell’Archivio che custodiscono il pensiero del Beato e sulla conoscenza diretta, acquisita da Lorefice


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durante il periodo di collaborazione con il Centro vocazionale regionale; dunque è apprezzabile la scientificità e l’accuratezza della ricerca. È compilato con la passione propria dell’amico: pertanto, si legge con interesse, volentieri e tutto d’un fiato. 5. Certamente questo lavoro aiuta a capire e a vivere l’attuale primavera della Chiesa: Pino Puglisi è della stessa generazione di papa Francesco; come lui formato dal Vangelo e innamorato di Cristo; è figlio del Concilio Vaticano II, ad esempio nella percezione della Chiesa quale “Popolo di Dio”, da servire con il Vangelo e da ascoltare nei suoi bisogni concreti. 6. Il volume è di aiuto ai presbiteri nella cura della loro vita teologale e nel servizio da prestare alla Chiesa; ai seminaristi, che induce a riflettere sulla necessità di essere cristiani prima di diventare preti; ai catechisti per la chiara proposta di Gesù quale “Uomo perfetto” e uomo delle Beatitudini. 7. Un grazie al professor Corrado Lorefice per questo bel lavoro, nel quale ha riversato la profonda conoscenza dei documenti del Vaticano II e i frutti della sua precedente ricerca sulla Chiesa povera e dei poveri. Salvatore Consoli


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Recensioni Synaxis XXXII/1 (2014) 169-183

DEBORA TONELLI, Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2014, pp.187 (Scienze Religiose. Nuova serie, 31). Questo studio è frutto della rielaborazione della tesi di dottorato in Antico Testamento che l’autrice ha sostenuto presso la Westfählische Universität di Münster, sotto la guida di Ulrich Berges e del compianto Erich Zenger. L’autrice nella lucida introduzione al testo esplicita la finalità della sua ricerca: rispondere alla domanda sulla relazione tra violenza e fede religiosa attraverso l’analisi di alcuni testi biblici che rivelano un “volto” violento” di Dio. Ciò significa che la questione del rapporto violenza/religione è visto da un punto di vista che considera le immagini violente della divinità come legittimazione della violenza; sarebbero smascherati così i tentativi della coscienza pacifista contemporanea di ricondurre la legittimazione della violenza non a Dio stesso, anch’egli violento, ma all’interpretazione violenta dei credenti di un Dio che sarebbe invece in sé pacifico. La dolorosa cronaca quotidiana di efferata violenza che insanguina diversi paesi, perpetrata in nome di una religione1, consegna il libro all’attualità più tragica. L’autrice struttura la sua ricerca in cinque capitoli. Nel primo definisce l’ambito della sua ricerca e pone le questioni del metodo. La violenza divina, come emerge da alcune pagine della Bibbia, è compresa a partire dalla definizione generale della violenza in sé, identificata con “ogni forma di costrizione fisica o morale nei confronti di altri, arrivando a danneggiare l’esistenza o a distruggerla” [15]. Entro questa definizione ampia di violenza potrebbero essere inserite molte 1

Questa recensione è stata scritta nei giorni in cui alcuni uomini, che si dichiarano credenti dell’Islam, hanno ucciso in nome di dio 17 persone a Parigi colpevoli ai loro occhi di blasfemia, mentre in Nigeria negli stessi giorni, altri in nome della stessa religione ne uccideva circa 2000.


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forme di “costrizione”, ma la studiosa trentina considera solo tre esempi che presentano soprattutto un dio guerriero e dominatore degli elementi naturali che usa per distruggere gli “avversari”: Esodo 15, 1-21 (capitolo secondo), Giudici 5, 1-31 (capitolo terzo), Abaquq 3, 1-9 (capitolo quarto). La scelta delle tre pericopi è ampiamente motivata sia nel capitolo introduttivo sia nel corso dell’analisi letteraria dei singoli testi. Questa è sempre introdotta dalla prospettiva da cui prende le mosse, dal tentativo di stabilire la datazione qualora sia possibile, la traduzione che cerca di restare fedele al testo anche nelle sue oscurità e contraddizioni, la strutturazione interna del testo (“la messa in scena”), un tentativo di ermeneutica teologica. Il quinto ed ultimo capitolo propone una lettura sintetica che mostra i caratteri comuni e le differenze dei tre brani traendone alcune conclusioni di natura teologica. La Tonelli distingue tra una lettura credente del testo biblico e una lettura puramente storico critica, mostrando però che i due approcci non sono per sé contrapposti. L’autrice non tematizza il rapporto che potrebbe esserci tra i due piani, di fatto però propone conclusioni teologiche a seguito della sua analisi. Sul piano del metodo occorre subito dire che l’autrice fa proprie le acquisizioni della linguistica e dell’ermeneutica contemporanee e “rinuncia” «all’ipotesi che il testo possieda un qualche significato oggettivo», cerca invece di osservarlo nella pluralità delle dinamiche interpretative» [17], perché ogni testo va oltre le intenzioni dell’autore ed è consegnato all’interpretazione del lettore. Una delle fonti significative di questo orientamento ermeneutico, numerose volte citata, è Umberto Eco, con i suoi Lector in fabula (1989) e I limiti dell’interpretazione (1995, 2ed.). Sembra che l’autrice sostenga l’impossibilità di «cogliere il senso profondo del testo […] Vi è una distinzione tra ciò che il testo dice e il modo in cui viene compreso» [20]. Nel caso della Bibbia vi sarebbe una aggravante: «la forma è parte del contenuto e quindi la comprensione del suo messaggio impone anzitutto quella delle sue modalità espressive» [ibid.]. Ciò non le impedisce tuttavia di proporre una interpretazione che le consente di formulare conclusioni teologiche sull’immagine di Dio che scaturisce dalla lettura dei testi. Nel capitolo introduttivo si pongono una serie di problemi che non


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trovano però, mi sembra, un adeguato riscontro nello sviluppo del libro. L’obiettivo della ricerca è detto “modesto”: «riposizionare il tema della violenza divina e di sollecitare una revisione critica della prospettiva a partire dalle quali può essere interpretata» [30]. Una corretta ermeneutica non ha lo scopo di piegare il testo alle nostre categorie culturali, così da poterli reinterpretare sciogliendo le difficoltà e gli imbarazzi causati da testi che contraddicono l’idea tramandataci di un Dio buono e misericordioso o di rifiutarlo in modo radicale, lo scopo è piuttosto di «comprendere quale poteva essere il ruolo e il messaggio di questi testi nell’ambito della rivelazione divina» [19]. La tendenza a adeguare i testi alla nostra sensibilità è per la Tonelli frutto della sensibilità post bellica. Ciò è certamente vero ma non bisogna dimenticare, per la verità storica, che da sempre i testi che mostrano la violenza divina hanno suscitato il disagio dei credenti più avvertiti. La stessa autrice ricorda il caso di Marcione in ambito cristiano, ma potremmo ricordare che anche nella tradizione rabbinica emerge la stessa questione, quando per esempio in un midrash di Esodo 15 (il primo testo esaminato nel nostro libro) si legge che quando tutto il popolo intonò un canto di ringraziamento e di gioia per la morte degli egiziani travolti dalle acque del mare, anche gli angeli celesti si unirono al canto per manifestare la loro allegrezza per la salvezza del popolo. Ma ecco che al di sopra dei canti si levò potente in tono di duro rimprovero la voce del Signore: “Nessuno gioisca mentre i miei figli muoiono!”. «Il Signore anche quando applica la sua “middath ha-din”, la sua “qualità di giustizia”, è sempre il padre di tutti gli esseri umani. E il “padre misericordioso” soffre quando il comportamento dei Suoi figli Lo mette nella dolorosa necessità di punirli severamente» [E. Kopciowski, Invito alla lettura della Torà, Firenze 1998, 98]. Un problema preliminare per la decodificazione del lettore moderno di testi antichi è la domanda sui requisiti per interpretarli. «Questa domanda, che sembra giungere per ultima, è in realtà anche il presupposto dell’interazione autore-testo-lettore, poiché può comprendere il messaggio del testo soltanto se già possiede, almeno in parte, i requisiti minimi affinché tale interpretazione avvenga». Occorre una chiave di lettura «che aiuti il lettore odierno a non consi-


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derare la propria visione di partenza come assoluta e a decifrare il testo e i suoi autori, permettendogli così di riposizionare la questione della violenza divina, a comprendere il ruolo e il significato e solo dopo a considerarla alla luce dell’immaginario divino contemporaneo» [27]. Per raggiungere questo obiettivo l’autrice adotta un procedimento che consiste nel partire dal contesto letterario di riferimento e non dalle domande che il testo pone a noi, nel nostro caso le domande che suscita la descrizione della violenza divina. Nell’analisi di Es 15 ciò significa non domandarsi a quale prezzo Dio salvi Israele, «ma perché gli autori biblici testimoniano la fede in un Dio violento» [77]. L’analisi condotta sul testo porta alla conclusione che l’intento dei redattori non è la celebrazione della guerra tra israeliti ed egiziani, né l’incitazione alla violenza, ma un «invito ad avere fede in Jhwh, come colui che compie la salvezza di Israele, salvezza che lo crea come popolo attraverso un evento che ha risonanza cosmica» [84]. Non si esalta la guerra in se stessa, ma che Dio intervenga in soccorso di Israele. Questa chiave di lettura pone il problema della “astoricità” della Bibbia, perché è chiaro che non vengono narrati o “cantati” fatti storici nel senso moderno del termine “storia”. I racconti biblici non sono una raccolta di “fatti”, ma semmai l’interpretazione dei fatti per «tramandare l’idea secondo la quale la storia di Israele è guidata da Dio e pertanto gli eventi che si susseguono vanno letti e interpretati all’interno di questo rapporto» [85]. Similmente a Esodo 15, il canto di Deborah in Giudici 5, 1-31 esprime la supremazia di Dio sugli elementi della natura che nelle epoche precedenti erano considerati alla stregua di divinità. Poiché il culto di queste divinità provoca rovina e insicurezza bisogna schierarsi dalla parte del vero Dio, “cioè schierarsi in battaglia con Lui”[ 90]. Diversamente da Esodo 15, dove l’azione si svolge al passato, in Giudici 5 «l’azione si sposta al presente, per poi tornare al passato nella descrizione della teofania (vv. 4-5). L’alternanza temporale è un artificio retorico per rendere presenti gli avvenimenti descritti al passato (vv. 3.9.10.12.24.31) e far sì che si rinnovino ogni volta che il poema viene cantato» [102]. Nel testo di Giudici scene esplicite di violenza si alternano a scene in cui si descrive solo il contesto nel quale


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essa si realizza, in ogni caso mai si condanna la violenza e anzi si incita alla guerra e si maledicono coloro che non vi partecipano. Vale per questo testo quanto detto in termini generali per la Bibbia nel suo insieme: non si vogliono narrare i fatti nel senso moderno di “storia”, ma si mira a suscitare il coinvolgimento dell’ascoltatore o del lettore in quella “storia” narrata attraverso il canto. Il suo contenuto si muove, dunque, su di un piano diverso da quello storico e «ci impone di interrogarlo non per sapere cosa è accaduto, ma per comprendere come è stato vissuto» [114]. Attraverso la combinazione di diverse tradizioni antiche i redattori di Giudici 5 vollero esprimere la concezione di Dio che avevano. A ragione perciò l’autrice sostiene che «“I fatti” vengono interpretati in chiave teologica: gli avvenimenti sono valutati in funzione della loro capacità di dire qualcosa su Dio» [ibid.]. Partendo dalle difficoltà letterarie del terzo testo considerato, Abaquq 3. 1-9, la Tonelli mette in evidenza che qui si attribuisce valore alla pace e tuttavia il profeta ritiene di cogliere la Rivelazione divina in avvenimenti violenti. Come mai allora «se la pace era un valore anche per gli autori di questo componimento, per quali ragioni essi attribuiscono a Dio azioni violente e le esaltano?» [126]. Lo scopo è comune agli altri due testi presi in esame: affermare la superiorità di Jhwh sulle forze della natura e sui nemici di Israele. L’azione di Dio è caratterizzata da due sentimenti: l’ira e la compassione. Il termine utilizzato per esprimere quest’ultima, rhm, nella tradizione biblica esprime il “grembo materno”; rinvia dunque a tutto ciò che ad esso è collegato, come dire che «l’ira di Dio si spegne come quella di una madre, nella quale prevalgono compassione pietà tenerezza» [145]. In ogni caso lo scopo primario del testo resta quello di esaltare la vittoria di Jhwh e dichiarare la nullità delle divinità straniere. « È in questo contesto che il profeta [Abaquq] esalta la violenza con cui Dio prevale sui nemici incutendo loro timore e infondendo speranza e forza in chi gli è fedele» [150]. Affermare la vittoria di Dio sui nemici di Israele comporta anche il riconoscimento che le uniche armi di cui dispone il fedele sono “la sua stessa fede e il canto con cui la confessa” [ibid.]. Nel capito conclusivo l’autrice ricapitola i risultati della sua ricerca mettendo in luce i tratti comuni e le differenze dei tre testi. Si sofferma pure sui motivi della difficoltà a comprendere oggi questi


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testi in cui la violenza divina sembra essere un luogo ove si svela il volto di Dio. La nostra sensibilità morale, frutto dell’interpretazione cristiana dei testi anticotestamentari ci orienta al rifiuto della violenza e all’incomprensione di quei testi. Le conclusioni cui giunge il libro sono però che la violenza di Dio è in definitiva la violenza dell’uomo e che «accogliere la violenza divina non significa adorare un Dio violento, ma accettare che l’uomo possa vivere con fede anche il fine ultimo dell’intervento di Dio per l’uomo e della fede dei testimoni biblici sa andare oltre essa» [164]. Nonostante il libro presenti alcuni limiti, legati alla sua natura di esercizio accademico, merita di essere letto, non solo per l’attualità del tema trattato, ma per l’esemplarità del metodo adottato. Vanno infine segnalate alcune sviste di carattere editoriale. A p. 27 si introduce un paragrafo “1”, ma poi non ne seguono altri. A p. 20, r. 12 dal basso: si apre una (che si può solo intuire dove si chiude. A p. 34, r. 9 dall’alto e a p. 49, r. 4 dall’alto c’è da rivedere la sintassi. A p. 57 nelle note esegetiche l’abbreviazione di Test Masoretico (TM) una volta è femminile “la TM”, un’altra maschile “del TM”. A p. 111 n. 60 il complemento di specificazione non è indicato (“esempio ironia” invece di “esempio di ironia”). A p. 131 n. 30: manca l’articolo determinativo in “sappiamo che causalità”. A p. 148 è rimasta evidentemente una osservazione di un revisore del testo là dove si legge “la frase è identica a p. 18”; identica osservazione è poi ripetuta a p. 152: “la frase è identica a p. 15”. A p. 158, r. 1: manca la preposizione “di” in “molteplicità sguardi”. Anche a p. 159 r. 6 è rimasta una nota del revisore, là dove si legge “(consiglio di sostituire l’espressione ‘sguardi di’)”. Maurizio Aliotta

ALBERTO BONDOLFI – MILENA MARIANI (edd.), Carlo Maria Martini. Potenza e inquietudine della parola, EDB, Bologna 2014; pp. 140 (Scienze Religiose. Nuova serie 30). Questo volume raccoglie contributi di diversa natura, accomunati non solo dal tema ma anche dalla occasione che li ha originati. Nel


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settembre del 2013 la Fondazione Bruno Kessler, l’Università e l’Arcidiocesi di Trento hanno organizzato un convegno il cui titolo sarebbe poi opportunamente diventato il titolo del libro Carlo Maria Martini. Potenza e inquietudine della parola. Si trattava di un convegno celebrativo, a poco più di un anno dalla morte del cardinale, avvenuta il 31 agosto 2012. Le relazioni di quel convegno sono state quindi rielaborate e raccolte per diventare i quattordici articoli che, raggruppati in tre sezioni (1. le radici; 2. le aperture; 3. la memoria), compongono l’attuale volume. I quattro contributi della prima sezione (le radici) illustrano alcuni aspetti della personalità e dell’opera di Martini. Gianpaolo Salvini, gesuita e diretto conoscitore del cardinale, scrive del Martini pastore, uomo di profonda spiritualità biblica e grande comunicatore della Bibbia attraverso la forma delle lettere pastorali, delle meditazioni, delle omelie o della lectio divina. Una figura che, nonostante la sua esposizione chiara e scevra di polemiche, ha attirato critiche anche all’interno della Chiesa. Prezioso per gli esegeti è il testo di Maria-Luisa Rigato che ebbe Martini quale docente di Critica Testuale, essendo lei la prima studente donna immatricolata nel 1965 nella Facoltà Biblica del Pontificio Istituto Biblico di Roma. Proprio per questo, la Rigato dedica alcune pagine istruttive all’apporto di conoscenza che il Martini studioso ha fornito alla critica testuale del Nuovo Testamento. Di tutt’altro tenore è l’articolo di Ghislain Lafont, monaco benedettino e raffinato teologo, come egli stesso scrive: «Indicherò quello che mi appare come il cammino che si dovrebbe percorrere perché si possa giungere a conclusioni fondate che permettano di meglio comprendere il dono divino fatto alla Chiesa attraverso l’esperienza, il pensiero e l’azione di Martini nel campo della Parola di Dio» (pagg. 37-38). In effetti, Lafont indica tre linee per un possibile approfondimento: lo stile di Martini, la tensione tra Parola di Dio e Bibbia nel suo magistero e la sua interpretazione della Bibbia. L’ultimo articolo della prima sezione è a firma di Piero Stefani, che cerca di mettere a fuoco la dottrina di Martini su Israele, l’ebraismo e i rapporti con il cristianesimo. Citando vari interventi del cardinale, Stefani rileva quelli che ritiene essere gli elementi qualificanti e l’evoluzione del modo in cui Martini considerava la fede e la cultura ebraica, anche in relazione alla Chiesa.


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La seconda sezione (le aperture) inizia con la trascrizione della relazione di Salvatore Natoli sul rapporto che Martini è riuscito ad intavolare con la cultura laica. L’autore ricorda quanto il cardinale ebbe a dire avviando la Cattedra dei non credenti del 1991, citando Norberto Bobbio: «Non distinguiamo in mezzo a noi tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti o, meglio, vogliamo essere pensanti, stimolarci ad un esercizio di autocoscienza, partendo dall’ipotesi che in ciascuno di noi, anche in me, ci sono un credente e un non credente». Natoli quindi individua con acume il tratto tipico di quello che definisce il “metodo Martini”: la sua capacità di ascoltare, di prendere sul serio la parola altrui. L’articolo di Marco Garzonio rileva l’incisività di Martini nella vita della diocesi e della città meneghina: «L’“attraversare la città”, in mezzo alla gente, ai problemi, agli ostacoli è cifra dell’episcopato martiniano. Si era manifestata sin dal primo giorno, 10 febbraio 1980, quando l’arcivescovo scelse di andare a piedi dal Castello al Duomo, con soste e preghiere, invece di arrivare in cattedrale a bordo di una limousine» (pag. 77). Ma in un certo senso Martini è stato anche un “vescovo europeo”: è questo l’aspetto sottolineato da Ivo Fürer, nel suo articolo dedicato alla presidenza del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE), che Martini ricoprì dal 1986 al 1993. Un presidente esemplare e dal respiro veramente ecumenico, che probabilmente maturò ulteriormente in quella sede la sua idea dell’importanza per la Chiesa di uno stile sinodale. Proprio su quest’ultimo aspetto si concentra l’articolo di Paolo Colombo, che vede tre modalità in cui Martini sognava la Chiesa di domani: sinodale, aperta al rischio della fede e in ascolto obbediente della Parola di Dio. La terza sezione (la memoria) raccoglie una serie di testimonianze, anche molto intime e toccanti, di persone che hanno conosciuto il cardinale. Massimo Giuliani ha rammentato il primo impatto con il cardinale negli Anni Ottanta durante le lectio divina in Duomo. In seguito, un rapporto epistolare accompagnò il percorso del giovane fino ad incoraggiarne la decisione di trasferirsi in Israele per dedicarsi allo studio dell’ebraismo: a questo incoraggiamento diretto si accompagna la certezza che Martini ha sempre avuto parole di attenzione per il mondo ebraico. Una percezione analoga scaturisce dalla breve


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ma intensa testimonianza di Paolo De Benedetti, che paragona Martini «ai grandi profeti di Israele» (pag. 118). Paolo Ricca racconta di due incontri personali e di una lettera. In particolare, riferisce di una circostanza fortuita in cui poté conversare brevemente in bus con Martini, che gli chiese di dirgli come avrebbe impostato una riflessione sulla libertà: «Ricordo – chiosa Ricca – con gratitudine quei momenti in cui un cardinale cattolico e un pastore valdese, seduti uno accanto all’altro verso una destinazione comune, hanno riflettuto e ragionato insieme intorno al mistero della libertà» (pag 123). I ricordi di Armido Rizzi sono legati a due situazioni: la prima concerne la sua tesi dottorale, pubblicata nel 1972 grazie alla mediazione dell’allora Rettore del Pontificio Istituto Biblico; la seconda è l’omelia che Martini dettò l’8 febbraio 1992 in occasione del funerale del frate Servita David Maria Turoldo, segno dell’amicizia stretta tra due giganti della fede. Ester Abbattista si sofferma sul sentimento che legava fortemente Martini a Gerusalemme. Con una felice intuizione poetica, conclude dando idealmente la parola alla Città santa perché parli di quell’uomo che l’ha tanto amata. Alla introduzione di Milena Mariani corrisponde infine l’ultimo breve intervento di Alberto Bondolfi. I due curatori del volume si riservano così di aprire e chiudere con intelligenza una pubblicazione variegata e senz’altro interessante. E se in avvio si erano dettate le direttrici su cui si sarebbero mossi i vari contributi, alla fine si può chiudere cercando di rispondere alla domanda “Perché continuare a ricordare Martini?”: «Fare memoria di una persona che ha saputo superare le varie barriere che intessono i nostri rapporti sociali in nome della sua fede, è esercizio pieno di senso sia per coloro che hanno condiviso questa sua fede sia per coloro che l’hanno rispettata e stimata, pur non identificandosi con essa» (pag. 140). Dionisio Candido


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H. BLUMENBERG, Storia dello spirito della tecnica, a cura di A. Schmitz e B. Stiegler, trad.it. di R. Scolari e B. Simona, MilanoUdine 2014, pp. 94. Schivo, specialmente gli ultimi anni della sua vita, complesso e torrentizio, questo il ritratto generale di Hans Blumenberg (19201996). Chi si accosta ai suoi testi viene spinto a confrontarsi con provocazioni linguistiche e filosofiche che spesso lasciano letteralmente di sasso chi si trova a leggere il pensiero di questo filosofo tedesco. Esempio ne è pure questo breve testo, (una rarità per chi conosce la penna del Nostro filosofo), dal titolo Storia dello Spirito della tecnica, (ed. tedesca: H. Blumenberg, Gesistesgeschichte der Technik, Frankfurt am Main, 2009), che raccoglie dei testi scritti attorno agli anni sessanta e che attualmente si trovano nell’Archivio Blumenberg, posto presso il Deutsches Literaturarchiv di Marbach. Il volume che qui presentiamo, curato in lingua tedesca da Alexander Schmitz e Bernd Stiegler, si propone di delineare una possibile storia dello spirito della tecnica. È necessario chiarire che, come evidenzierà lo stesso Autore, con il termine Geist, non si vorrà riprendere la categoria hegeliana di spirito, ma si sposterà l’attenzione, e l’indagine, sulla tecnica mostrando come nascono e si formano le ideologie attorno alla tecnica stessa. Punto di partenza sarà l’analisi del «gran numero di tentativi volti a guadagnare una prospettiva filosofica» (p. 63) su di una storia della tecnica, per poi mostrare come le prospettive centrali di questa storia ruotano sostanzialmente attorno a due principali letture filosofiche: la prima, volta a considerare la tecnica come “un fenomeno specificatamente umano” (p. 63), la seconda, orientata invece a mostrare la stessa come un mero “fenomeno storico”. L’indagine di Blumenberg, seguendo inizialmente questi due canovacci, e passando in rassegna il pensiero di illustri filosofi della modernità (Bacone, Leibniz, Nietzsche, Galilei e Newton) e del medioevo (Agostino, Guglielmo d’Ockham, Tommaso d’Aquino), prosegue su un terzo piano di interrogazione. Il Nostro vuole infatti «analizzare e mostrare come, in momenti storici diversi, la crescente tecnicizzazione del mondo e della vita degli uomini è stata descritta e rappresentata, quali tattiche e argomenti sono stati impiegati per spiegarla e anche legitti-


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marla» (p. 90). Fine di questa indagine è la fuoriuscita della tecnica dal bavaglio di una narrazione esclusivamente storico-cronologica (p. 31). Si tenterà pertanto di ricostruire un percorso sulla storia dello spirito della tecnica, concentrandosi su un terreno nuovo: «la storia della fuoriuscita della tecnica dalla storia». Questo spostamento di lettura, impone a Blumenberg da una parte la ricostruzione del progresso della tecnica fuori dai canonici plausi modernisti, dall’altra di rileggere la classica battaglia dicotomica tra natura e tecnica, come una mirabile invenzione del linguaggio umano per giustificare il proprio modo di intervenire nel mondo per la propria “autoaffermazione” (p. 64). Il lettore esperto di Blumenberg non si troverà certamente spiazzato nel leggere concetti quali autoaffermazione o “perdita d’ordine” (p. 64) del mondo o “non adattamento” (Nict-Ampassung) dell’uomo nel mondo. Come scriverà infatti in altri testi (cfr. di Blumenberg, Elaborazione del mito, [Arbeit am Mythos, 1979], tr. it. di Bruno Argenton, Bologna, 1991; La leggibilità del mondo: il libro come metafora della natura [Die Lesbarkeit der Welt, 1979], tr. it. di Bruno Argenton, ed. italiana a cura di Remo Bodei, Bologna, 1981; Uscite dalla caverna, [Hohlenausgange, 1989], tr. it. di Martino Doni, a cura e con postfazione di Giovanni Leghissa, Milano, 2009) proprio lo spaesamento dell’uomo di fronte a questo mondo così disordinato, distante e tremendamente “assoluto” rispetto al suo essere, porta l’uomo ad intervenire nella realtà, alle volte rileggendola, altre volte mitizzandola, oppure tecnicizzandola. Per tali motivi Blumenberg rintraccia i prodomi di una storia dello spirito della tecnica dentro l’esperienza che l’umanità fa del mondo (p. 26-27), un mondo complesso, a tratti intraducibile ed ostico. Dalle difficoltà sorte attorno all’inadeguatezza antropologica ed all’ «insufficienze della natura» (p. 24) stessa, sorge l’intero agire umano verso una più profonda impronta tecnicista. Spiega Blumenberg, che questa impronta non è il frutto «di una reazione a determinate circostanze ambientali e condizioni di natura, bensì di un programma esistenziale a cui l’uomo sottopone la propria esistenza storica» (p. 64). Tale programma esistenziale, è un progetto di autoconservazione che stavolta viene affrontato con l’uso di macchinari e di tecniche. Un mondo che diviene così alla portata dell’uomo poiché «più piccolo diventa il mondo, più grande diventa


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l’uomo» (p. 87), un uomo che, così facendo, non si chiederà più “che cosa sia il mondo” ma “a cosa servirà a lui” il mondo. Pubblicare oggi, (finalmente anche per il pubblico italiano) questi scritti inediti di Blumenberg rappresenta un lavoro utile per ricostruire un pezzo del lavoro intelletuale di questo filosofo tedesco mai banale, mai scontato, sempre provocatorio ed intenso. Giovanni Basile

VINCENZO BERTOLONE, Perfectae caritatis, cinquant’anni dopo – Né estranei, né inutili nella città, Arcivescovado, Catanzaro 2015, pp. 252. Anche se non abbondano, esistono iniziative, studi, articoli, convegni sulla vita consacrata nell’anno che papa Francesco ha voluto dedicare a questo antico genere di vita cristiana. Uno di questi saggi è quello che presentiamo, dovuto alla ricerca ed alla passione di un Pastore della chiesa che non tralascia le occasioni per sottolineare che la sua matrice di provenienza è la vita nella Congregazione fondata da Giacomo Cusmano, a Palermo, nel 1887, i “Missionari servi dei poveri”. Tra quanto sono riuscito a leggere in questi mesi, il saggio di Mons. Bertolone ha una sua particolarità. Se l’Autore non nasconde i motivi di una innegabile crisi numerica ed anche qualitativa, non si rifugia però nei luoghi comuni per altro abbondantemente visitati anche da altri studiosi (ambiente materialista ed edonista, relativismo galoppante, scarsa fertilità nelle famiglie, crisi di fede, poca trasparenza dei religiosi nella vita concreta, mutamenti culturali, ecc.) ma si sofferma sulle problematicità intrinseca alla vita consacrata. Un segno di questa problematicità è il fatto che la chiesa stessa non sa dove inquadrare i consacrati. Sono clero? Sono laici? O cosa? Sono “ecclesia docens”? “Discens”? Difficoltà originata dalla realtà: tra i consacrati ci sono donne, ci sono professi-non-sacerdoti, ci sono professi-sacerdoti. L’Autore non è un “consacrato-pentito”, tutt’altro. E non mette in discussione questo genere di vita presente nella chiesa da almeno 1700 anni. Non vuole neppure “ripartire da capo”, come ha potuto fare


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supporre la proposta di “rifondazione della vita consacrata”, avanzata già negli anni ’70 da alcuni religiosi e ritenuta eccessiva da altri impauriti ed “indignati” consacrati. Lo studioso, evidenziati quei punti fermi della vita consacrata che qualsiasi aggiornamento deve tenere ben presenti (punti ribaditi dagli abbondanti interventi magisteriali, a partire, appunto dal cap. VI della “Lumen Gentium” e dal Decreto “Perfectae caritatis”, fino a papa Francesco) mentre indica i nodi non del tutto risolti. Si può ancora parlare, dopo il Concilio, della vita consacrata come “stato di perfezione” se tutti i battezzati sono chiamati alla santità? E cosa è “perfezione”? Cosa “santità”? Può sembrare un “quaestio de verbis”, ma non è così. Si traduce in una domanda che assilla ogni aspirante novizio/a: perché abbracciare una vita di chiare rinunzie se la perfezione, la santità, la conformazione a Cristo, l’innamoramento appassionato di Lui e del suo Regno sono mete di ogni cristiano? Andando più in profondità, la domanda riguarda lo specifico della vita dei consacrati rispetto alla consacrazione-vocazione battesimale a cui tutti i cristiani tentano di rispondere. “Stato di perfezione” inoltre, suona quasi automatico inserimento in un mondo “altro”, separato, dove ci si può lasciare trasportare dalla scansione di orari e pratiche sante perché sicuramente si arriva alla foce beata dell’intimità con Dio. Ma è proprio questo che succede dentro un convento? Può, da sola, una istituzione (con le sue logiche, le sue leggi, la sua organizzazione) assicurare quel cammino a cui chiama il carisma? Forse nessuno lo pensa coscientemente, ma il rischio di una equivalenza “professato/perfetto” è sempre in agguato. Sempre a proposito del rapporto con l’istituzione c’è anche da notare che ogni Istituto di vita consacrata nasce come carisma offerto dallo Spirito alla chiesa e all’umanità. Carisma è sinonimo di dono, di creatività, di libertà di forme e di interventi per affrontare in modo nuovo le diverse esigenze dell’epoca. Ma il “nuovo” come si fa a coordinarlo con la legge, con l’istituzione? Non c’è il rischio che l’istituzione finisca per mortificare il carisma, o per ingessarlo in una modalità difficile poi da adattare ai tempi successivi? Non è per nulla facile promuovere — come vuole il Concilio — un rinnovamento insieme carismatico ed istituzionale.


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Anche il discorso della specificità (ed eventuale “superiorità”) della vita consacrata rispetto alla vita cristiana comune, non è facilmente afferrabile. Il sacerdozio ministeriale nasce dalla chiamata al sacerdozio regale del popolo di Dio, ma ha una sua particolare oggettiva eccellenza, dovuta alla “sacra potestas” di consacrare l’Eucaristia, perdonare i peccati, reggere la comunità credente, annunziare la Parola in nome e per conto di tutta la chiesa, fare del ministero e delle prospettive del Regno l’unico scopo della propria esistenza. Se questo è vero, sembra problematico il tentativo di affermare una qualche “oggettiva eccellenza” della vita consacrata sulla vita battesimale. Come problematico sarebbe il ripensamento corrispondente sul piano organizzativo e pastorale. Un punto fermo della vita consacrata è comunque quello enunciato dal sottotitolo del libro: “Né estranei agli uomini, né inutili alla città”. Ritengo che da questo bisogna partire per trovare una qualche pista di soluzione a problemi come quelli appena accennati. Se il carisma è un dono di amore dello Spirito da accogliere con generosa docilità, anche la nostra risposta di consacrati è dono di amore. Se ci fa superiori o uguali agli altri battezzati poco importa. Ciascuno ha la sua via, la sua “vocazione” (anche l’impegno nella vita secolare è tale per un cristiano che tende al Regno) e per ciascuno quella è la via migliore. Ci vuole fede autentica sia per essere battezzati che per essere consacrati. Il mondo a carico — con tutti i problemi della gente — lo hanno i comuni christifideles laici , i ministri ordinati ed i consacrati. Come non si può ricevere coscientemente il battesimo da adulti se non ci si sente chiamati a cambiare il mondo in Regno di Dio, allo stesso modo non serve a nulla fare i voti se si esula da questa prospettiva cristiana. Noi adoriamo un Cristo che ha voluto salvare il mondo, e per nulla ha inteso autorizzare gruppi o chiesucole o conventicole. Come sembra ribadire papa Francesco la vita consacrata supererà la sua crisi quando ricomincerà a “volare alto” ad essere “audace” nelle risposte al dolore del mondo, troverà nel mondo il suo laboratorio e non nel chiuso di uffici lontani dalla vita. Forse troveremo in un contatto con la vita, quella “luce” per dirimere e superare problemi che oggi sembrano teoreticamente insuperabili. Non mancano altri nodi da sciogliere. Si pensi al rapporto Vescovi-


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Istituti nell’ambito delle diocesi che esige una rivisitazione di “Mutuae relationes”. Si pensi ai tempi nuovi che chiedono una ridefinizione dei ruoli di comando-obbedienza tra i consacrati, quindi un ponderato passaggio dalla centralità dell’autorità alla centralità della fraternità (il genuino binomio non è autorità-obbedienza, bensì, obbedienzaamore); in sostanza, prima di essere superiori o sudditi, si è fratelli e sorelle, convocati da Cristo e, quindi, legati da vincoli di reciproco amore, al di qua delle antipatie e simpatie umane. Consegniamo il volume a quanti hanno a cuore non solo la vita consacrata, ma la vita della chiesa e, soprattutto, la condizione in cui oggi versa l’umanità. Da sempre la chiesa ha trovato nei chiostri e nei conventi quel “di più” che l’ha fatta ripartire alla sequela di Cristo ed a servizio dell’umanità. Questo, ci sembra il motivo fondante dell’anno speciale che stiamo vivendo. Questo si aspetta la chiesa ed il cuore di un papa che sente in sé il dramma della situazione attuale. Felice Scalia


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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE 14 febbraio 2014: LA MENDOLA GABRIELLA, Il tema conciliare dell’universale vocazione alla santità nel Magistero dei papi Paolo VI e Giovanni Paolo II. (relatore prof. M Torcivia) AREZZO DI TRIFILETTI MARIA ELVIRA, La spiritualità della beata Maria Schininà “alla ricerca del volto di Cristo nel sofferente”. (relatore prof. G. A. Neglia) GATTO SIMONE VITTORIO, La sfida educativa dei genitori a trent’anni dalla Familiaris Consortio. (relatore prof. C. Lorefice) SERAFINI MARIA PAOLA, L’importanza della formazione della coscienza morale in John Henry Newman. (relatore prof. V. Rocca) 20 giugno 2014: IMBALZANO GIOVANNI, Il “Padre” scrive alle “Figlie”. Tratti teologico-spirituali nell’epistolario del Beato Francesco Pianzola. (relatore prof. M. Torcivia)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

TIRENDI SALVATORE, Voci profetiche: da Geremia a G. Dossetti e G. Lercaro. (relatore prof. C. Raspa) D’AMBROSIO VALERIA, L’etica biblica della speranza: anima delle virtù teologali negli scritti di don Tonino Bello. (relatore prof. F. Luvarà) MUSSO CARMELA, La famiglia cristiana e la sua missione nella società in Chiara Lubich. (relatore prof. P. Buscemi) 10 ottobre 2014: DIMBW STEPHANIL NGAND, «L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori (Rm 5,5)». L’amore di Dio in Cristo e nello Spirito Santo nella Lettera di S. Paolo Apostolo ai Romani. (relatore prof. A. Gangemi) TOGBE KOFFI SENA, L’etica delle beatitudini nei sinodi della Chiesa in Africa. (relatore prof. M. Aliotta) RAGONESI MARIA, “Curare” e “Prendersi cura” alla luce della Salvifici doloris di Giovanni Paolo II. (relatore prof. A. Sapuppo) LICITRA MARIAGRAZIA, Spiritualità eucaristica nella Beata Maria Candida dell’Eucaristia (1884-1949). (relatore prof. M. Torcivia) 2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA 14 febbraio 2014: DI NATALE VALENTINA, «Va, vendi quello che hai e dallo ai poveri… poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). Implicazioni etiche del discepolato in Mt 19,16-30. (relatore prof. R. Gisana)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

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CATINELLO PAOLO, La teoria della satisfactio nel Cur Deus Homo di Anselmo d’Aosta. (relatore prof. A. Minardo) SGROI VALERIO, Maria discepola del Signore in Sant’Ambrogio e in sant’Agostino. (relatore prof. F. Aleo) CORSO ESTER, «Dio in noi e noi in lui». La vocazione dell’uomo alla vita trinitaria negli scritti di Edith Stein. (relatore prof. G. Schillaci) PROIETTO LUIGI, La vita cristiana nel cammino spirituale di Henri Nouwen. Tra solidarietà e compassione. (relatore prof. G. Schillaci) RAMONDETTA MARCO, Il Lettore e il ministero della Parola. (relatore prof. S. Magrì) SCALIA CARMELO, L’insegnamento di Gesù nel cammino verso Gerusalemme secondo il vangelo di Matteo. (Mt 16,21-20, 34; cfr. Mc 8,31-11, 52; Lc 9,21-19,27). (relatore prof. A. Gangemi) PATANÈ SALVATORE, (Uno dei soldati con la lancia colpì il costato). Il colpo di lancia inferto a Gesù crocifisso e l’effusione di sangue ed acqua alla luce delle Scritture. Analisi esegetico-teologica di Gv 19,31.33-34.36-37. (relatore prof. A. Gangemi) 20 giugno 2014: BLUNDO CORRADO ANTONIO, Il carisma del Beato Luigi Maria Monti: il desiderio di servire Dio e gli ultimi. (relatore prof. P. Buscemi) LO PRESTI IDA, Il primato di Cristo nell’evoluzione. Riflessione scientifica teologica in P. Teilhard de Chardin. (relatore prof. F. Brancato)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

MOSCUZZA EMANUELE, I metodi psicofisici e la preghiera cristiana alla luce della lettera Orationis Formas. (relatore prof. G. Buccellato) SCEVOLA MARIA CHIARA, La cristologia di Jon Sobrino. Presupposti, metodologia e rilevanza. (relatore prof. N. Capizzi) 11 ottobre 2013: OLIVO DAVIDE, Le implicazioni etiche della dipendenza da Internet. (relatore prof. A. Sapuppo) PANEBIANCO RAFFAELE, L’associazionismo confraternale a Palagonia fra storia e pastorale (secc. XVI-XX). (relatore prof. G. Zito) CALACIURA SALVATORE, La tavola di San Cono, monaco basiliano, di Vincenzo degli Azani, detto da Pavia. (relatore prof. E. Palumbo) VECCHIO EGIDIO, Il rapporto tra apostolato e orazione nella vita e in “Castello interiore” di Santa Teresa d’Avila: una lettura teologicopastorale. (relatore prof. A. Pennisi) DISTEFANO FRANCESCO GIUSEPPE, Il principio della fraternità nel Movimento dei Focolari con particolare riferimento al progetto Economia di Comunione. (relatore prof. V. Rocca) PATANÈ GABRIELE, La pastorale del creato. Sfide e prospettive per l’attuale prassi ecclesiale. Linee di un programma pastorale per il creato. (relatore prof. A. Pennisi)


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MAIO ROBERTO, Note di ermeneutica teologica sulla fede in Eb 11,1. (relatore prof. C. Raspa) 3. DISPUTATIO Mercoledì 19 febbraio 2014 è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio su Concilio e Liturgia: recezione e prospettive della Sacrosanctum Concilium, guidati da Matias Augè, dell’Istituto di Teologia della vita religiosa Claretianum. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema. 4. INCONTRI Giovedì 20 febbraio 2014 a Catania, presso la Sala Pedro Arrupe della Comunità dei Gesuiti, si è tenuta la prima di un Ciclo di Conferenze, Lectiones patrum su “Chiesa sì, papa no? Il primato petrino in Sant’Agostino”. È intervenuto Giuseppe Di Corrado, docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo. 5. INCONTRI Giovedì 6 marzo 2014, presso l’Aula ovest dell’INAF/Osservatorio Astrofisico di Catania, si è tenuto un incontro su “Contempla il cielo e osserva. Riflessioni sul libero arbitrio in una prospettiva multidisciplinare”. Sono intervenuti: Daniele Spadaro, dell’INAF/Osservatorio Astrofisico di Catania; Renato Bernardini, dell’Istituto di Farmacologia dell’Università degli Studi di Catania; Alessio Biondo, del Dipartimento di Economia e Impresa dell’Università degli Studi di Catania; Alessandro Pluchino, del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università degli Studi di Catania; Giovanni Salonia, dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairos. 6. INCONTRI Giovedì 27 marzo 2014 a Catania, presso la Sala Pedro Arrupe della Comunità dei Gesuiti, si è tenuta la seconda di un ciclo di conferenze, Lectiones patrum su “Ipazia la vera storia: con-senso e dis-senso


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nella Chiesa”. È intervenuto Francesco Aleo, docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo. 7. SEMINARIO INTERDISCIPLINARE Martedì 8 aprile 2014 si è tenuto, presso lo Studio Teologico S. Paolo, il 4° dei quattro Seminari interdisciplinari su: Memoria conciliare: le scelte del Vaticano II. Il Seminario di quest’anno aveva per tema: La Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium. Ha visto gli interventi dei docenti del S. Paolo: Francesco Aleo, “Sacramento e sacramenti in SC: l’apporto dei Padri della Chiesa”; Pietro Damiano Scardilli, “L’ecclesiologia della SC nel quadro del magistero conciliare”; Giuseppe Gurciullo, “La recezione della SC nel CIC del 1983”; Salvatore Consoli, “La liturgia: sorgente e norma dell’agire cristiano”; Attilio Gangemi, “Liturgia e Scrittura: l’evento di Dio celebrato e l’evento di Dio narrato”; Corrado Lorefice, “Ite Missa Est: Eucaristia e città degli uomini”. Coordinatore è stato Salvatore Magrì. 8. COLLOQUI ROSMINI Nell’ambito del progetto di studio del pensiero di Rosmini, martedì 6 maggio 2014, presso lo Studio Teologico S. Paolo, si è tenuta una lezione di Gianni Picenardi del Centro Internazionale Studi Rosminiani di Stresa su: “Educare alla fede nello spirito della liturgia. La lezione di Antonio Rosmini”. 9. INCONTRI Giovedì 15 maggio, in collaborazione con gli Uffici di Pastorale della Salute e di Pastorale Universitaria dell’’Arcidiocesi di Catania, presso il Salone S. Agata del Seminario Arcivescovile di Catania, si è tenuto un incontro su “Etica della donazione. La costruzione sociale della realtà medica e la sfida del giudizio clinico”. Sono intervenuti: Sergio Pintaudi, Primario Rianimazione Arnas Garibaldi; Nino Grimaldi, Docente di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Catania; Antonio Sapuppo, Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Universitaria; Mario Torracca, Direttore diocesano e regio-


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nale dell’Ufficio di Pastorale della Salute. Ha moderato Santo Fortunato, Medico oncologo. 10. INCONTRI Giovedì 22 maggio 2014 a Catania, presso la Sala Pedro Arrupe della Comunità dei Gesuiti, si è tenuta la terza di un Ciclo di Conferenze, Lectiones patrum su “Per un’identità dei cristiani: sulle tracce della cosiddetta Epistola a Diogneto”. È intervenuto Rocco Schembra, docente di Letteratura cristiana antica presso lo Studio Teologico S. Paolo. 11. CORSO DI PERFEZIONAMENTO UNIVERSITARIO IN GIORNALISMO ED EDITORIA RELIGIOSA Sabato 24 maggio 2014, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Catania e con la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, si è tenuta una Tavola rotonda conclusiva del Corso di Perfezionamento Universitario in Giornalismo ed Editoria Religiosa. Sono intervenuti: Giuseppe Costa, Direttore della Libreria Editrice Vaticana; Vincenzo Morgante, Direttore TGR Rai; Antonio Sciortino, Direttore di Famiglia Cristiana; Giuseppe Vecchio, dell’Università degli Studi di Catania. Coordinatore è stato Luigi Ronsisvalle, Vicesegretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. 12. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Venerdì 28 novembre 2014 si è tenuta l’inaugurazione del 46° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. Alla solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo di Latina, S. E. Mons Mariano Crociata, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina: la relazione del Preside. Mons. Maurizio Aliotta e la prolusione accademica su Il ministero del vescovo nella Chiesa di oggi, tenuta da Mons. Mariano Crociata.


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13. INCONTRI Giovedì 4 dicembre 2014, presso i locali dello Studio S. Paolo, in collaborazione con l’Osservatorio Astrofisico di Catania, si è tenuto un incontro su “Contempla il cielo e osserva. Riflessioni sull’etica della vita in una prospettiva multidisciplinare”. Sono intervenuti: Daniele Spadaro dell’INAF/Osservatorio Astrofisico di Catania; Gaetano Vittone, dell’Università degli Studi di Catania; Antonio Sapuppo, dello Studio Teologico S. Paolo. Ha moderato Francesco Brancato, dello Studio Teologico S. Paolo.


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INDICE

SOMMARIO .

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Sezione teologica PERCHÉ RIFORMARE LA LITURGIA: I CRITERI DI FONDO (Piero Marini)

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1. Introduzione .

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1.1. La grande riforma liturgica .

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1.2. L’eredità del passato

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1.3. Il divario tra le acquisizioni del movimento liturgico e la prassi liturgica della Chiesa

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2. I criteri di fondo della riforma

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2.1. Le finalità della riforma

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2.1.1. Una riforma per il nostro tempo .

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2.1.2. Riformare la liturgia per riformare la Chiesa

2.1.3. Superare la centralizzazione e riscoprire la Chiesa locale nella liturgia

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2.1.4. Unire principi generali e celebrazione .

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2.2. I fondamenti della riforma .

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2.2.1. Il ritorno alle fonti: la sacra Scrittura e la Chiesa dei Santi Padri

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2.2.2. Un sacerdozio unico per il culto .

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Conclusione

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Indice

LOGOS ANGHELOS. APPUNTI DI CRISTOLOGIA ANGELOMORFICA NEGLI SCRITTI DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA (Francesco Aleo) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Clemente d’Alessandria nelle fonti antiche . . . . 2. Il Logos Figlio in Clemente d’Alessandria . . . . 3. Il Logos Anghelos in Clemente d’Alessandria . . . Conclusioni . . . . . . . .

33 33 36 41 51 61

IOANNES IUSTUS LANSPERGER (1490 CA-1539) INTERIORE” (Roberto Osculati) . . . . . 1. La biblioteca di un certosino . . . 2. Fideles infideliter vivunt . . . 3. Cor imperturbatum et nudum . . 4. Scintillae animae . . . . 5. Militia christiana . . . . 6. Le beate vergini Gertrude, Matilde ed Elisabetta

E L’ “UOMO . . . . . . .

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65 65 71 74 76 79 81

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91 91 92 98 99 105 107 110 113 116

A. ROSMINI: EDUCARE ALLA FEDE NELLO SPIRITO DELLA LITURGIA (Gianni Picenardi) . . . . . . . . 1. La passione educativa . . . . . . 2. La via maestra della liturgia . . . . . .

119 119 121

L’ETHOS DEL MINISTERO ORDINATO (Maurizio Aliotta) . . . . . Premessa . . . . . . 1. Il problema . . . . . 2. Il ministero come “servizio” . . . 3. La peculiarità del servizio del ministro ordinato 4. Diakonia ekklesia koinonia . . . 5. “Carità pastorale” . . . . 6. La carità pastorale nel celibato ecclesiastico 7. La paternità spirituale . . . Conclusioni . . . . .

Colloqui rosminiani


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Indice

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3. Educare alla liturgia. Educare con la liturgia 4. Formare i formatori . . . . 5. Ricostruire la comunione liturgica nella Chiesa

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124 129 131

LA CONCEZIONE DELLA CORPOREITÀ IN SCHOPENHAUER (Antonio Crimaldi) . . . . . . . .

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Sezione miscellanea

Note e discussioni RIFLESSIONI SU LC 11,41. PER UN TENTATIVO DI COMPRENSIONE LINGUISTICO-FILOLOGICA (Salvatore Piscione) . . . . . . . .

149

LA SAGGEZZA TRAGICA E IL SUO SUPERAMENTO IN GABRIEL MARCEL (Enrico Piscione) . . . . . . . .

153

Presentazione

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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INDICE .

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NAXIS Direzione − Redazione − Amministrazione: viale O. da Pordenone, 24 95126 Catania

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Comitato scientifico: Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Attilio Gangemi, G. Alberto Neglia, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito

Comitato di redazione: Francesco Aleo, Nunzio Capizzi, Guglielmo Giombanco, Rosario Gisana, Salvatore Magrì, Vittorio Rocca, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito

Iscrizione presso il Tribunale di Catania n. 5/97

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• P. MARINI, Perché riformare la liturgia: i criteri di fondo • F. ALEO, Logos Anghelos. Appunti di cristologia angelomorfica negli scritti di Clemente d’Alessandria • R. OSCULATI, Ioannes Iustus Lansperger (1490 ca1539) e l’ “uomo interiore” • M. ALIOTTA, L’ethos del ministero ordinato • G. PICENARDI, A. Rosmini: educare alla fede nello spirito della Liturgia • A. CRIMALDI, La concezione della corporeità in Schopenhauer • S. PISCIONE, Riflessioni su Lc 11,41.Per un tentativo di comprensione linguistico-filologica • E. PISCIONE, La saggezza tragica e il suo superamento in Gabriel Marcel • Presentazione • Recensioni • Notiziario

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