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MEMORIA OBLIO PERDONO

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XXXIII/1 – 2015

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Sommario:

XXXIII/1 2015

Finito di stampare nell’aprile 2016 da Grafiser s.r.l. 94018 Troina (En) Tel. 0935 657813 - Fax 0935 653438

• S. DI NUOVO, Memoria e Oblio come presupposti del perdono: una lettura psicologica, dalla psicoanalisi alle neuroscienze • G. GURCIULLO, Il processo canonico in chiave personalista. Particolare esperienza istituzionale di memoria, oblio e perdono • A. MINARDO, Al di qua o al di là della giustizia? Considerazioni teologiche sul rapporto tra memoria, oblio e perdono • M. TOMARCHIO, Memoria operante e processi formativi. Percorsi educativi e didattici • L. M. DAHER, Sociologia della memoria: strumento per l’interpretazione del passato, filtro per la comprensione del presente • C. RASPA, Amaleq: memoria e oblio • G. BASILE, Oblio necessario? Riflessioni e provocazioni in P. Ricoeur e H. Blumenberg • A. CATALFAMO, La funzione educativa del perdono

Direttore: Maurizio Aliotta Direttore responsabile: Salvatore Consoli

Euro 25,00 (i.i.)

EDIZIONI GRAFISER TROINA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA

Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri


SYNAXIS XXXIII/1 – 2015

Studio Teologico S. Paolo – Catania Edizioni Grafiser – Troina 2016



MEMORIA OBLIO PERDONO Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo di Catania e dal Dipartimento di Scienze della Formazione dell’ Università degli Studi di Catania

Catania 5 maggio 2015 a cura di Angela Catalfamo – Maurizio Aliotta

Edizioni Grafiser – Troina 2016



PREFAZIONE Il tema del convegno non è del tutto nuovo, ma la sua riproposizione è stata suggerita da recenti constatazioni che, a partire dagli anni ’80 del Novecento, hanno assunto notevole rilevanza e che coinvolgono le inquietanti domande poste dai temi della memoria, dell’oblio e del perdono. I motivi di tale rilevanza sono ben noti: la rivoluzione culturale prodotta dall’introduzione dei media elettronici con conseguente costruzione di memorie artificiali; la diffusione di un atteggiamento di postcultura (come lo chiama Jans Assmann); la quasi scomparsa delle generazioni che hanno vissuto in prima persona le tragedie umanitarie che hanno attraversato il secolo scorso. Soprattutto quest’ultimo motivo ha suscitato l’attenzione degli studiosi, nella considerazione che tali tragedie pare ritornino costantemente senza che qualcuno ne avverta l’opportunità di riesaminarle. La triade Memoria oblio e perdono sollecita una tale complessità che per affrontarla è necessario fare riferimento a molteplici approcci, a piani scientifici diversi: storico, antropologico, filosofico, teologico, psicologico, pedagogico, sociologico e giuridico. Le suddette prospettive, che concettualmente possiamo ben distinguere per ambiti scientifici, in realtà interagiscono e tale confronto è emerso nelle relazioni presentate, come si potrà evincere dalla raccolta delle stesse nel presente volume. Il criterio di sistematizzazione dei contributi ha inteso iniziare con quelli che maggiormente delineano la difficile dinamica che agita la triade menzionata, per seguire con le relazioni che propongono approfondimenti su alcuni elementi, sempre puntualmente ricondotti all’interazione degli stessi. In apertura, il contributo di S. Di Nuovo coglie la complessa dinamica tra memoria oblio e perdono partendo da alcune spiegazioni neuropsicologiche che dimostrano come nel funzionamento della memoria l’oblio rappresenta un meccanismo di difesa dell’Io per rimuovere o per accantonare emozioni traumatiche. In questo processo inconscio si innesterebbe il processo dell’oblio motivato. Ma la mente umana non vive isolata rispondendo ad impulsi bioprogrammati, ma interagisce con un ambiente umano, ricco di costru-


zioni individuali e collettive, sorrette da valori e ideali. Ragion per cui l’oblio non solamente è determinato dai meccanismi interni della memoria, ma esso può essere l’esito di una scelta volontaria della mente. Su questo oblio volontario si innesta il perdono. Il perdono come scelta etica può essere riconnessa al singolo, che attribuisce valore alla riconciliazione, all’empatia, al benessere psicologico di se stesso e del perdonato. Il perdono può essere attuato dalla collettività (il riferimento è soprattutto alla giustizia minorile) che accorda valore al ravvedimento del colpevole e stima la rieducazione e il reinserimento del soggetto che ha deviato un valore superiore alla retribuzione sociale. In quest’ultimo caso, precisa Di Nuovo, il perdono sociale non è legato all’oblio ma alla memoria prospettica, che guarda ad un futuro migliore senza dimenticare il passato ma prevedendo i benefici della riconciliazione. Dal quadro prospettato dall’Autore emerge l’articolato intreccio che le tematiche della memoria dell’oblio e del perdono assumono se colte nel loro intersecarsi e vicendevole rinviarsi, tra approcci neuropsicologici, etico-religiosi, sociali e giuridici, convergenti ineludibilmente su orientamenti esistenziali che possono migliorare le persone e le loro relazioni. Il canonista G. Gurciullo vuole mostrare come il processo canonico, espressione della potestà giudiziaria in ambito ecclesiale, tenta di comporre i diritti delle persone fisiche o giuridiche da perseguire o rivendicare, i fatti giuridici da dichiarare, le pene da erogare, le controversie da rimediare. Senza omettere i presupposti antropologici e teologici che hanno condotto la Chiesa cattolica a rinnovare profondamente il suo diritto, il relatore spiega i rapporti tra memoria oblio e perdono e l’esperienza processuale. Quest’ultima infatti non esiste senza un recupero del passato di coloro che vantano delle pretese soggettive nei confronti della legge e di un confronto con quanti si collocano in una posizione divergente e quanti intervengono come testimoni. Nel processo non c’è spazio per l’oblio inesorabile (secondo l’affermazione di P. Ricoeur) perché persegue l’accertamento della verità per conseguire una giustizia riparativa. Secondo questa prospettiva giustizia e perdono non si contrappongono, ma si integrano. Diversamente la pena si ridurrebbe a mera coercizione, producendo lo stesso male che vuole combattere. La centralità della “persona” umana fa sì che si dovrebbero tralasciate forme di giu-


stizia che vorrebbero rispondere al male commesso con altrettanto male, riducendo la pena ad una risposta equivalente alla negatività del delitto o dell’illecito commesso. In questo senso il giudizio finale dovrà aprirsi al perdono rendendo la gestione della giustizia in termini riparativi, capace di umanizzarsi, prospettare percorsi di recupero e riabilitazione e continuare a rispettare la dignità personale del reo o del colpevole, che non viene mai meno nonostante le sue azioni delittuose o illegali. A. Minardo sposta l’attenzione sul terzo elemento della triade, vale a dire il perdono, che considera il perno attorno a cui ruotano oblio e memoria. Il perdono, infatti, è la “conciliazione possibile di due contrari apparenti: di una memoria che sempre rivive il male subito, di un oblio che invece lo dimentica”. La relazione prende le mosse dall’obiezione che può essere mossa a questa impostazione, se cioè il perdono così inteso non contravvenga alla giustizia (retributiva). Detto diversamente, la domanda è se sia giusto perdonare. L’Autore procede nella sua riflessione richiamando dapprima la portata filosofica e morale della memoria e dell’oblio per giungere infine a tracciare una prospettiva teologica. Anche Minardo prende le mosse da Paul Ricoeur e dal suo perdono “attivo” per andare alle considerazioni di Deridda e Jankélévitch. Tutte le suggestioni e i termini del dibattito contemporaneo sono recepiti dalla teologia cristiana alla luce della sua tradizione spirituale ispirata al Vangelo. Non ne consegue una visione irrealistica o ingenua della storia umana segnata dalla violenza e dal peccato, nella logica evangelica non ci si muove per “operare miracolosamente sull’irreversibilità del passato, ma di indicare la possibilità di una traiettoria altra, che trova nel perdono la condizione del suo nuovo inizio”. Da qui la sfida del perdono: assumere la carica trasgressiva della colpa disumanizzante per restituire alla persona la sua piena umanità. M. Tomarchio propone un approfondimento sul tema della memoria colto secondo istanze pedagogiche ben definite. La problematica prende avvio da alcune riflessioni critiche che, evidenziando il rapporto essenziale tra tempo e memoria, richiamano pedagogia e pedagogisti ad un rigoroso impegno verso la considerazione del tempo interno del vissuto, oggi spesso trascurato perché ridotto, esautorato dalla tirannia dell’urgenza che determina pronte e omo-


loganti risposte che negano la complessità di ogni autentica relazione educativa. L’Autrice avverte sul rischio che riguarda il tempo mancante, quello privo di vera esperienza e che conduce a distacchi e a disaffezioni nei confronti della vita, del mondo, del futuro. La concezione lineare di un tempo, stralciato dai vissuti reali e posto su un asse lineare che procede in un’idea preconcetta di progressione di crescita esclude le periferie umane, quelle distanti dal centro, relegate così nei non luoghi e defraudati del tempo interiore. Il tempo va recuperato, pertanto, all’interno di una progettualità educativa che sappia guardare al futuro da uno sguardo diverso sul passato e sul presente. In questa prospettiva di temporalità Tomarchio inserisce la memoria, sia come esperienza significativa, affidata ad una rielaborazione critica di eventi trascorsi, sia come ricerca di senso originaria, attraverso il metodo della memoria operante. L’Autrice, infatti, non tralascia gli aspetti operativi di tale direzione richiamando la memoria operante, intesa come strategia educativo-didattica in grado di costruire il tempo significativo, quale rielaborazione critica di vissuti individuali e collettivi, di rinforzare il dialogo intergenerazionale, al fine di promuovere impegno etico e civile e autentica cittadinanza attiva. La dimensione temporale della memoria viene ripresa da L. M. Daher secondo un approccio sociologico. L’Autrice evidenzia le dinamiche che interagiscono tra passato e presente, tra individuo e comunità, volte a legittimare i ricordi secondo interpretazioni atti ad assolvere le importanti funzioni di produzione della cultura e di costruzione dell’identità di gruppo. In tale processo la memoria si adegua continuamente al presente generando una proficua instabilità che dà senso al presente e ne orienta le aspettative. In questa direzione L. M. Daher pone le convergenze e le distinzioni della memoria assunta nella ricerca storica rispetto a quella sociologica, che, pur condividendo il nesso temporale, si pongono obiettivi diversi. La memoria, infatti, non coincide con la storia, ma piuttosto, contribuisce alla partecipazione dell’uomo alla trasmissione storica. La ricerca storica addita oggi un’ossessione commemorativa, amplificata dai mezzi di comunicazione di massa, a cui si dovrebbe ovviare promuovendo esperienze equilibrate, in cui per poter ricordare bisogna anche saper dimenticare. Le giovani generazioni sono esposte


ad una socializzazione in cui l’individuale prevarica il collettivo, in cui il tempo naturale si contrappone a quello sociale, determinando un diffuso senso dell’anonimato, che pregna le relazioni umane e compromette il senso di appartenenza alle comunità. L’Autrice, alla luce di articolate riflessioni sul tempo presente, auspica fortemente l’utilizzazione di strumenti comunicativi adeguati a sollecitare un dialogo con i giovani, agito sulla memoria collettiva, indispensabile per costruire identità personali e soggetti capaci di gestire il presente e il futuro. Sul versante dell’oblio si colloca, anche se in modo atipico per il peculiare punto di vista assunto, quello esegetico delle Scritture ebraiche, il contributo di C. Raspa. Egli prende in esame il testo di Deuteronomio 25, 17-19, che presenta un caso emblematico di opposizione tra memoria e oblio nel contesto della guerra tra Amaleq e Israele, a cui il testo in questione fa riferimento. L’attacco ingiustificato degli amaleciti agli israeliti è interpretato dalle Scritture come attacco a Y hwh . Ciò spiegherebbe la durezza del comando “di cancellare del tutto la memoria di Amaleq sotto il cielo”. Nel testo deuteronomico si legge che il Signore ordina a Mosè di scrivere in un libro il suo comando: “vi sarà guerra del Signore contro Amaleq di generazione in generazione”. L’assunto, fissato per iscritto, costituisce un memoriale (zikaron): Israele dovrà celebrare di generazione in generazione la cancellazione assoluta della memoria di Amaleq. Raspa espone alcune delle interpretazioni ebraiche che spaziano da una lettura simbolica e spirituale ad una lettura alla luce dell’attualità. In quest’ultimo caso vanno ricordate le opinioni contrastanti di Hartmann e Ben Gurion a proposito della costituzione dell’odierno stato di Israele. La relazione di G. Basile, da un punto di vista filosofico, pone l’accento sul secondo termine della triade “memoria, oblio, perdono”. Seguendo la riflessione di P. Ricoeur e H. Blumenberg, l’oblio emerge come dato necessario per vivere l’umano. Per Ricoeur l’oblio ha essenzialmente una qualità funzionale perché consente di attivare “nuove e ritrovate letture della storia” (non ha dunque una connotazione negativa). L’oblio, da questo punto di vista, non è nemico della memoria, ma ad essa in qualche modo è collegato. Operando delle distinzioni tra vari tipi di oblio, il filosofo francese giunge a


pensare un oblio attivo, “la cui funzione è quella di permettere una più semplice e funzionale selezione dei ricordi”. Riconoscendo le ferite patite dall’uomo questo oblio attivo “conduce ad un riconoscimento profondo delle stesse ferite” che vengono infine sanate con il perdono. “L’oblio diviene così porta di ingresso per un percorso redentivo verso una piena e riconciliata umanità”. Diversamente, in Blumenberg, l’oblio è metafora e strumento che consente di esorcizzare la realtà che si presenta a noi ostile. Il mito e la narrazione sono gli strumenti per tale funzione liberatoria. Attraverso una rilettura del mito della caverna, egli considera la situazione dell’uomo posto in un mondo difficile da vivere e da capire. L’oblio è un guadagno perché spinge l’uomo a nuove e sempre rinnovabili elaborazioni e in questo presenta un tratto comune con Ricoeur. L’interpretazione pedagogica viene ripresa da A. Catalfamo a proposito della funzione educativa del perdono. Il tentativo di accostare il perdono di Dio, come insegnamento ai valori per antonomasia, si connette alla finalità educativa del perdono e alla promozione di un processo evolutivo-metabletico, mai definito ma sempre in fieri, rappresentato in ambito sociale da alcuni istituti giuridici (anche qui il riferimento è alla giustizia minorile), che evidenziano come il perdono sia una strada educativa percorribile di indubbio spessore e valore educativo. In conclusione, quanto delineato dagli Autori restituisce un panorama ricco e variegato, a volte contradditorio ed ambiguo, nella misura in cui emergono dimensioni di contrasto, di contrapposizione, che il confronto tra memoria oblio e perdono possono legittimamente suscitare nell’esperienza umana, considerata nella sua massima estensione. Infatti, dai profili neuropsicologici, storici, pedagogici, sociali e giuridici, a quelli antropologici e teologici, attraverso i quali la triade viene affrontata, emergono tesi ed antitesi, punti di forza e di debolezza, accoglienze condizionate, aperture e chiusure, che, per buona parte, segnano esiti davvero critici quando memoria e oblio vengono assunti in direzione o alla base del perdono e/o ad esso finalizzate. In questa inevitabile dialettica, derivante dal raffronto degli elementi in esame, affiorano però alcune nitide convergenze e profonde strutture condivise, tutte rotanti attorno alla salvaguardia della


persona e della sua ulteriorità quale espressione significativa di crescita umana ed umanizzante, in equilibrio costante tra tempo passato e futuro da collocarsi e svolgersi dentro un presente fecondo di autentiche relazioni tra uomini e ispirato all’esperienza del perdono divino. Angela Catalfamo - Maurizio Aliotta



Synaxis XXXIII/1 (2015) 13-23 MEMORIA E OBLIO COME PRESUPPOSTI DEL PERDONO: UNA LETTURA PSICOLOGICA, DALLA PSICOANALISI ALLE NEUROSCIENZE SANTO DI NUOVO1 1. Perché si ricorda,

perché si dimentica ?

La storia della psicologia è ricca di spiegazioni cliniche e neurofisiologiche dei meccanismi della memoria e dell’oblio. Tra le spiegazioni psicologiche, la più nota è quella che Sigmund Freud propose all’inizio del secolo scorso. Per la psicoanalisi le cancellazioni della memoria avvengono con precise motivazioni, spesso non coscienti e conseguenti alle vicissitudini delle pulsioni. La rimozione di tracce dalla memoria configura un “oblio motivato”, mediante il quale i ricordi non voluti possono essere dimenticati relegandoli nel serbatoio dell’inconscio; la traccia non più presente alla coscienza non è però cancellata del tutto. Così i processi legati alle lacune di memoria, quali le “dimenticanze”, gli “atti mancati”, sono spiegati come esiti di meccanismi di difesa dell’Io da emozioni spiacevoli e perturbanti emergenti dall’inconscio. Oltre che la rimozione inconscia dei contenuti spiacevoli, l’oblio può essere motivato dalla repressione come tendenza a dimenticare qualcosa che provocherebbe attivazioni negative, che rientra nella sfera del preconscio2. Professore ordinario di Psicologia, Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Catania. Una prima versione di questo testo è stato presentato come relazione al convegno tenuto a Catania il 5 maggio 2015 su ‘Memoria, oblio, perdono’. 2 Cf. S. Freud, Repression, Standard Edition, vol. 14, London 1915, pp. 146-158. 1


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Alcuni autori hanno tentato di dimostrare sperimentalmente il funzionamento della repressione freudiana3; altri confermano che questo fenomeno è connesso al contenuto emotivo degli stimoli4. Si può ipotizzare inoltre che incidano caratteristiche personali quali le capacità cognitive, e che alcuni contenuti della memoria possano restare latenti e quindi possano riemergere indipendentemente dalla volontà del soggetto5. Più recentemente sono stati approfonditi i fondamenti neuropsicologici della memoria, rintracciandone le localizzazioni (e quindi le sue lacune e/o alterazioni) in precise aree cerebrali e meccanismi di funzionamento con basi genetiche ed epigenetiche. L’oblio può essere indotto da traumi o da sostanze ma senza cancellazione definitiva. Diversi studi neuroscientifici, individuando una serie di neuroni che sarebbero responsabili della conservazione dei ricordi traumatici, hanno dimostrato la possibilità di cancellare mediante specifici interventi questi ricordi emotivamente spiacevoli, prima ancora che possano consolidarsi come tali. Alcuni ricercatori, dopo aver indotto un evento traumatico su delle cavie, hanno distrutto alcuni neuroni della parte del cervello nota come amigdala laterale. Dopo questo intervento, quando gli eventi traumatici si ripetevano le cavie dimostravano di aver ‘cancellato’ i ricordi negativi. I neuroni che memorizzano gli eventi paurosi si troverebbero nella stessa regione del cervello umano, per cui si potrebbe intervenire per aiutare le persone che hanno subìto uno stress post-traumatico, minimizzando l’associazione tra la memoria e le emozioni negative che ne derivaM.C. Anderson, C. Green, Suppressing unwanted memories by executive control, Nature Reviews Neuroscience, 2001, 410, 366–369; M.C. Anderson Repression: A cognitive neuroscience approach, in M. Mancia (Ed.) Neuroscience and Psychoanalysis, Milan 2006 pp. 327-350; M.C. Anderson, B.J. Levy, Suppressing unwanted memories, Current Directions in Psychological Science, 2009, 18, 184-194. 4 L. Winerman, Can you force yourself to forget? APA Monitor on Psychology, 2005, 36, 8, 52. 5 D. Conti, S. Di Nuovo, La repressione delle memorie: una ricerca sperimentale, Formazione Psichiatrica, 2011, 2-3, 65-79. 3


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no, evitando con questo ‘oblio indotto’ l’instaurarsi di condizioni patologiche6. Altri autori7 hanno dimostrato che le paure conseguenti a traumi possono essere cancellate dalla memoria se si individuano i meccanismi che le mantengono o le eliminano definitivamente: per esempio, rimuovendo entro un certo tempo da un trauma i recettori nell’amigdala del α-amino-3-hydroxyl-5-methyl-4-isoxazolopropionato (AMPAR) si possono indebolire i collegamenti creati nel cervello con il trauma stesso, in modo da cancellarne la memoria. Si apre così la possibilità di manipolare i ricordi con farmaci utili ad integrare la terapia comportamentale nelle sindromi da stress post-traumatico legate ad esempio alla guerra, agli stupri o altri gravi eventi8. Altri recenti studi hanno confermato la possibilità di prevenire la stabilizzazione di un’emozione negativa nella memoria mediante l’uso di sostanze come il neuropeptide Y (Npy) che diminuisce la risposta noradrenergica cerebrale. Bloccando questa azione neurobiologica dello stress con un farmaco, il metyrapone, si possono ridurre ricordi emotivamente dolorosi9. Se i ricordi si depositano mediante un’alterazione a livello biologico, è possibile cancellarli mediante la somministrazione di sostanze che agiscono in zone mirate del cervello: questo è stato dimostrato in cavie animali, e se fosse possibile ottenere lo stesso risultato negli umani senza effetti collaterali, si potrebbe intervenire sul deposito e la conservazione di memorie spiacevoli e perturbanti10. M. W. Salter, Deepening understanding of the neural substrates of chronic pain, Brain, 2014, 137, 651-653. 7 R.L. Clem, R.L. Huganir, Calcium-permeable AMPA receptor dynamics mediate fear memory erasure, Science, 2010, 330, 1108-1112. 8 Via quella proteina e passa la paura. Così si cancelleranno i ricordi dolorosi, La Repubblica online, 2 novembre 2010. 9 M.F. Marin e al., Metyrapone administration reduces the strength of an emotional memory trace in a long-lasting manner, Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2011, 96, 1221-1227. 10 Cf. J.D. Sweatt, Mechanisms of memory, 2nd ed., New York 2007. 6


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2. Ma

la memoria ( e l ’ oblio ) stanno solo nel cervello ?

Il funzionamento cerebrale è certamente fondamento di memoria e oblio come meccanismi essenziali della mente umana, che però è ‘estesa’ nel mondo relazionale delle persone e dei gruppi sociali. Di conseguenza anche memoria ed oblio fanno parte di costruzioni individuali e collettive, sorrette da valori e ideali, che vengono in molti casi fissati in norme giuridicamente rilevanti, ma spesso sono non normati (se non da leggi di tipo religioso) e lasciati alla volontà del singolo. L’oblio può essere dunque determinato non da meccanismi di rimozione inconscia o da interventi esterni mediante sostanze o altri interventi biologici, ma da una precisa azione volontaria della mente stessa, in interazione con situazioni ambientali che ne determinano le condizioni. In alcuni casi di conflitto o altre condizioni stressanti o emotivamente perturbanti si può: - forzare l’oblio del passato, attuando una rimozione volontaria di contenuti della memoria; - accedere alla ‘memoria prospettica’ che consente di guardare al futuro anticipandone i contenuti. Da questa interpretazione dell’oblio consapevole e motivato da scelte valoriali discende quella del perdono, applicato a situazioni in cui per la persona che ha subìto un torto il valore prevalente è la riconciliazione, perché ne valuta positivamente i benefici per sé e per l’altro. 3. Perché perdonare? Un’ampia letteratura filosofica e psicologica esiste sui processi che portano al perdono, cioè all’oblio volontario di azioni emotivamente negative subite da altri11. Non sono state trascurate le relazioni Cf.. A. Gouhier, Pour une métaphysique du pardon, Paris 1969; R.D. Enright , J. N orth , Exploring forgiveness, Madison 1998; J. D errida , Perdonare. 11


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fra le dimensioni psicologiche e quelle teologiche12 del ‘dimenticare le offese’ in quanto cambiamento di senso, su base valoriale e che può essere ‘gratuito’, anche indipendente da pentimenti da parte dell’attore dell’offesa. Sul piano psicologico il perdono implica il cambiamento nelle motivazioni interpersonali nei confronti di chi ha commesso un torto. Diminuisce la motivazione alla rivalsa, si mantiene l’esigenza di mantenere un rapporto con l’altro anche dopo l’offesa, e nonostante essa13. Il ‘per-dono’ è collegato al ‘dono’, anche rispetto alle sue caratteristiche psicologiche: volontà, riconoscimento dell’altro, empatia14. Sul piano sociale, la collettività (ad esempio, lo Stato nelle sue manifestazioni normative) di fronte ad una colpa può cancellarne la punizione, ‘perdonando’ il colpevole e rimettendogli la colpa, senza riferimento a fattori emotivi come l’empatia ma a bisogni, interessi e valori di tipo sociale. Alcuni esempi del perdono attuato dallo Stato in quanto portatore di esigenze collettive di oblio motivato: - Il condono fiscale, che ‘perdona’ un comportamento omissivo o trasgressivo di norme sulla contribuzione alle finanze della collettività. - Il perdono giudiziale nelle procedure penali minorili, che L’imperdonabile e l’imprescrittibile, Milano 2004; C. Mucci, Trauma e perdono, Milano 2014. 12 Cf. E. Worthington (a cura di) Dimensions of forgiveness: Psychological research and theological perspectives, Philadelphia 1997. 13 Cf. F. G. Paleari, S. Tomelleri (a cura di) Risentimento, perdono e riconciliazione nelle relazioni sociali, Roma 2008; C. Regalia, F. G. Paleari,, Perdonare, Bologna 2008. 14 Cf.. E. Scabini, G. Rossi (a cura di) Dono e perdono nelle relazioni familiari e sociali, Milano 2001; E. Molinari, A. Ceccarelli, Il processo del perdono: aspetti psicologici, Rivista di Psicologia Clinica, 2007, 4, 242-251.


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comporta l’estinzione del reato secondo quanto previsto dall’art. 169 del codice penale. Questo ‘perdono’ della società nei confronti del minorenne deviante può essere concesso anche più di una volta purché la somma delle pene inflitte non superi i due anni di reclusione. Si tratta di una misura che i giuristi definiscono di ‘prevenzione speciale’: nei confronti di un minore che per la prima volta, o anche ripetutamente ma in modo del tutto occasionale, si renda autore di un illecito non grave, lo Stato rinuncia al diritto di punire in ragione degli effetti negativi che ad una personalità in evoluzione potrebbero derivare dalla pena e dallo stesso processo. - La sospensione del processo con messa alla prova per minorenni (art. 28 legge 488 del 1988). Con la sospensione del processo il minorenne imputato viene affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento di opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno; possono essere impartite prescrizioni atte a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. L’obiettivo della misura è anticipare l’inter­vento di trattamento e recupero rispetto al processo e alla condanna, tentando di indurre mediante esso positivi cambiamenti nel giovane deviante e – nel caso di riuscita della ‘prova’ – restituirlo alla società, evitando non solo la punizione carceraria ma lo stesso processo. Lo Stato rinuncia quindi all’affermazione della responsabilità penale del soggetto ed a perseguire l’esigenza di una punizione, quando risulta che mediante la prova si può prevedere la rieducazione del soggetto ed un suo proficuo reinserimento sociale. Come il perdono giudiziale, questa misura attua una sorta di ‘memoria prospettica’ sociale in quanto lo Stato – che deve tutelare la sicurezza sociale – intravvede nella rieducazione futura del deviante un beneficio maggiore che non la punizione immediata. - L’amnistia (art. 79 della Costituzione, e art. 151 del Codice penale), che estingue un reato obliando la colpa: il nome deriva dal greco che vuol dire proprio ‘dimenticanza’. Inve-


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ce l’indulto, atto di ‘indulgenza’, estingue la pena (art. 79 della Costituzione, e art. 174 del Codice penale). Ambedue queste modalità di ‘perdono’ legalizzato sono concesse per motivi di pacificazione sociale e opportunità politica. - La grazia (nome un tempo assegnato al Ministero insieme alla Giustizia): atto di clemenza individuale, concesso per particolari ed eccezionali ragioni, con condono totale o parziale della pena o commutazione in altra meno grave. La grazia storicamente viene fatta risalire al potere divino (e per diritto divino, al potere regio) di perdonare il colpevole in modo che, usando la stessa radice etimologica, si può definire appunto ‘gratuito’. Le motivazioni di queste condizioni di perdono previste per legge sono evidenti (anche se non sempre si realizzano come auspicato): fare ravvedere il colpevole; evitargli l’inserimento in un circuito penale dannoso in età evolutiva; offrire una concreta possibilità di riscatto; riconquistare il reo alla convivenza civile; enfatizzare il potere di rimettere le colpe derivato da Dio. In alcuni casi – come è stato fatto rilevare criticamente – si tratta semplicemente di ammettere (come nell’amnistia o nel condono fiscale) che non si è capaci di attuare le conseguenze della punizione. Sono comunque forme di oblio della colpa formalizzate e sostenute da ragioni giuridiche, e realizzano modalità di ‘perdono sociale’. 4. Il perdono deve

comportare necessariamente l ’ oblio ?

Resta il problema di fondo: se il perdono socialmente determinato è davvero un ‘colpo di spugna’, come secondo la psicoanalisi si rimuove il ricordo spiacevole, o secondo le neuroscienze un farmaco cancella la memoria (ma si è visto che in entrambi i casi qualcosa resta, e può portare comunque delle conseguenze). In base all’alternativa proposta prima, si deve necessariamente ‘cancellare’ qualcosa dalla memoria o si può soltanto traguardare il futuro (memoria prospettica) per concludere che è utile e conveniente per tutti dimenticare la colpa?


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Nel secondo caso il perdono può essere razionalmente giustificato e ‘spiegato’; nel primo non sempre il gesto del perdono può essere chiaramente interpretato da chi lo riceve. Quando un minorenne (o un evasore fiscale) viene ‘perdonato’: la motivazione del perdono viene effettivamente compresa e correttamente interpretata, come un modo per costruire un futuro senza reati? O viene considerata piuttosto una debolezza della società e dello Stato che la rappresenta? Quando un omicida viene ‘graziato’: l’opinione pubblica, o la famiglia della vittima, cancellerà anch’essa la gravità della colpa e le risonanze emotive che ne sono derivate, come se “nulla fosse successo”? Nel caso di un tradimento perdonato: davvero “torna tutto come prima”, o qualcosa resta, e proprio questo qualifica il perdono come gesto di amore15? Mentre, secondo Arthur Schnitzler “perdonare senza dimenticare logora le nostre anime nel modo più rapido e peggiore possibile”16, Cercignani scrive 17: “È certamente bene perdonare sempre con generosità, ma è senza dubbio giusto non dimenticare mai i torti subiti: fanno parte del cammino che conduce alla maturità interiore”. Diceva Giovanni Giolitti18: “perdonare sempre, dimenticare mai”. Oblio delle conseguenze della colpa, non necessariamente della colpa stessa, e perdono – cioè cancellazione di queste conseguenze – sono frutto di una maturazione, in cui si decide di mantenere comunque i rapporti con l’altro che ha commesso una colpa o un’offesa, per dei valori di ordine superiore (amicizia, convivenza, ecc.) e quindi in previsione di un beneficio futuro. Il perdono si contraddistingue così quale atto di scelta, da parte di singole persone o dello stato, in base ad una struttura valoriale, 15 Cf. M. Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, Milano 2014. 16 A. Schnitzler, Aforismi, in Opere, Milano 1988. 17 B. Morris (a cura di), Simply Transcribed. Quotations from Writings by Fausto Cercignani, Lulu Press, 3ª ed., 2014, p. 32. 18 Cf. G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano 1922.


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che guarda ad un futuro migliore senza dimenticare il passato ma prevedendo i benefici della riconciliazione. 5. Il perdono è utile per

il benessere ?

Il ruolo delle emozioni nel processo del perdono è stato indagato in psicologia clinica e della salute in relazione al costrutto di intelligenza emotiva19, alle strategie di regolazione emozionale nella risoluzione dei conflitti20, e distinguendo tra perdono frutto di una decisione consapevole e quello che deriva da uno stato emozionale21. Rabbia, tristezza e rancore sono le emozioni più comuni in relazione ad un’offesa interpersonale22. Il rancore, sommato alla sofferenza per il torto subìto, ne incrementa il carattere di sofferenza, tanto più quanto è associato al rimuginìo mentale, cioè a pensieri ripetitivi legati all’offesa e all’offensore23. Come l’oblio può rappresentare un lenimento del dolore psichico, il perdono può configurare una liberazione da questa spirale di malessere. Cf. L. Ray, Extremera N. Positive psychological characteristics and interpersonal forgiveness: Identifying the unique contribution of emotional intelligence abilities, Big Five traits, gratitude and optimism, Personality and Individual Differences, 2014, 68, 199–204. 20 Cf. E. Halperin, Emotion, emotion regulation, and conflict resolution, Emotion Review, 2014, 6, 68-76. 21 E.L. Worthington Jr., C. V. O. Witvliet, P. Pietrini, A. J.Miller, Forgiveness, health, and well-being: a review of evidence for emotional versus decisional forgiveness, dispositional forgivingness, and reduced unforgiveness, Journal of Behavioral Medicine, 2007, 30, 291–302. 22 J. W.Berry, E. L.Worthington Jr, L. E.O’ Connor, L. Parrot, N. J.Wade, Forgivingness, vengeful rumination, and affective traits, Journal of Personality, 2005, 73, 183-225. 23 M. E.Mc Cullough, G. Bono, L. M. Root, Rumination, emotion, and forgiveness: three longitudinal studies, Journal of Personality and Social Psychology, 2007, 92, 490-505. 19


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“Con il perdono la vittima si libera da una relazione con il colpevole dominata da emozioni negative come il rancore e/o l’odio, mentre il colpevole riceve la grazia di poter ricominciare un nuovo rapporto con se stesso e forse anche con l’offeso … il perdono dunque è la novità nell’ambito dei rapporti umani che genera novità”24. La disponibilità alla riconciliazione, al primato del legame, sono la cifra della reciprocità che costruisce un modo nuovo, autenticamente umano di intendere la relazione, al di là dell’arroccamento sulle spirali che coinvolgono ciclicamente diritti, violazioni, colpe, punizioni. Si è detto che il perdono necessita del riconoscimento dell’altro, dei suoi limiti come conseguenza della comune condizione di finitudine umana, e dell’empatia come condizione che consente di comprendere l’altro, percepirlo come ‘prossimo’, com-patire le sue carenze25: solo così si sarà veramente in condizione di ‘mettere il passato nel passato’26. Dati sperimentali mostrano, in conseguenza di ciò, benefici per la salute collegati al perdono, dalla pressione arteriosa al sistema endocrino ed immunitario. La persona incline a dimenticare e a perdonare le offese presenta minori segni di stress e depressione, si libera più facilmente dai vissuti negativi e conflittuali, è più ottimista e soddisfatta27. Il benessere relazionale è al tempo stesso benessere mentale e incremento della capacità di adattamento e della qualità di vita. Dunque il precetto evangelico di riconciliazione con la persona da cui si è subito un torto non ha solo una valenza etica ma può A. Malo, Dono, colpa e perdono, in B. Barcaccia, F. Mancini (a cura di) Teoria e clinica del perdono, Milano 2013, cit. p. 9-11. 25 Cf. E. Bianchi, Dono e perdono. Per un’etica della compassione, Torino 2014. 26 Cf. M. E. Mc Cullough, S. J.Sandage, E. L.Worthington, To forgive is human. How to put your past in the past, Downers Growe 1997. 27 G. Bono, M. E. Mc Cullough, L. M. Root, Forgiveness, feeling connected to others, and well-being: two longitudinal studies, Personality and Social Psychology Bulletin, 2008, 34, 182-195; Worthington E. L. L’arte del perdono, Milano 2003. 24


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anche avere ricadute sul benessere psicologico di chi perdona e di chi è perdonato. Certo, sarebbe riduttivo ricondurre il perdono solo all’aspettativa di migliorare il proprio benessere: torneremmo ad un gesto che Derrida definiva intrinsecamente “contaminato da un calcolo che lo corrompe”28. Ma la conquista del benessere mediante la dinamica oblio-perdono è un elemento che alla luce degli studi sperimentali e clinici non può essere trascurato. Se per-donare, oltre che derivare da motivazioni etiche o religiose29, fa anche bene a chi dà e a chi riceve il perdono, si innesta una spirale positiva che può migliorare le persone e le loro relazioni.

J. Derrida , op. cit., 93. È interessante, e per certi versi sorprendente, che non siano state riscontrate correlazioni significative fra propensione al perdono e pratica religiosa, ma solo con l’abitudine alla preghiera: Lambert M. N., F. D. Fincham, T. F. Stillman , S. M. G raham , S. R. H. B each , Motivating change in relationship: can prayer increase forgiveness, Psychological Science, 2010, 21, 126-132. 28 29



Synaxis XXXIII/1 (2015) 25-51

Il Processo canonico in chiave personalista Particolare esperienza istituzionale di memoria, oblio e perdono GIUSEPPE GURCIULLO1 Premessa Il processo canonico2 è quella particolare esperienza istituzionale , all’interno della quale, nell’esercizio della potestà giudiziaria 3

Docente incaricato di Diritto Canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania 2 Benché la legislazione canonica abbia previsto un sistema processuale a risoluzione dei conflitti ecclesiali, ciò non esime e non deroga dal superiore dovere di risoluzione di tali situazioni per mezzo della carità che, salvo il rispetto delle situazioni giuridiche soggettive e comunitarie, cerchi in qualunque momento, sulla base di un comune accordo tra le parti in lite, soprattutto prima, ma anche a processo avviato, una soluzione pacifica della controversia (cf. Can. 1446). Ciò risponde al principio secondo cui, anche se il male in quanto tale non sta nel processo, bensì nella conflittualità, dal punto di vista ecclesiale il processo è un male, cioè una realtà nell’assoluto non positiva, una situazione patologica che danneggia la comunione ecclesiale. In altre parole, qualcosa in sé d’irregolare, di anomalo, poiché presuppone la trasgressione della legge, la violazione dei diritti altrui, una situazione di conflittualità o almeno di dubbio, d’incertezza, di fatto o di diritto, che occorre risolvere, chiarire. In questo senso, il processo canonico, pertanto, è da intendersi come extrema ratio, via da praticare quando non ve ne siano altre praticabili per l’accertamento della verità. 3 Convergono nella definizione di istituzionalità canonica, usata per la prima volta in ambito ecclesiale da Papa Innocenzo IV, che la impiegò in riferimento alla personalità giuridica della Chiesa, elementi comuni presenti in altre discipline quali la sociologia e il diritto civile. Una lettura in sinossi di tali contributi porterebbe a elencare come suoi requisiti propri: la permanenza o la stabilità di una data realtà (nel senso che l’istituzione non perde la sua identità per il mutare 1


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in ambito ecclesiale, possono trovare una loro plausibile soluzione4: i diritti di persone fisiche o giuridiche da perseguire o rivendicare, i fatti giuridici da dichiarare, le pene da irrogare, le controversie da rimediare5. Tali finalità rappresentano l’oggetto diretto del contenzioso ordinario canonico da soddisfare, tuttavia, tenuto conto del superiore dovere di contemperare con esse il bene comune e quello delle persone coinvolte nell’esperienza processuale6: binomio, quest’ultimo, che rientra in ambito canonico tra le questioni sostanziali sia per la sua odierna legislazione profondamente personalista, sia perché i bisogni giuridici del fedele nell’Ordinamento giuridico canonico non potranno mai essere disattesi dato che la sua vera peculiarità risiede proprio nell’inscindibilità dell’interesse ecclesiale da quello della persona. L’utile, il bene del singolo è certamente garantito, perché si identifica con il bene della collettività7. Difatti «anche se delle persone che ne fanno parte), del suo patrimonio, dei suoi mezzi, dei suoi interessi, dei suoi destinatari. L’appartenenza è in riferimento, pertanto, ad una realtà già costituita che gode di una fisionomia organica preesistente ai membri dell’ente come elemento regolatore della convivenza sociale da cui scaturiscono un’organizzazione interna che coordini ruoli, compiti, poteri ed uffici. Cf. F. Ruffini, La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi (Innocenzo IV) ed in Federico Carlo di Savigny, in Scritti giuridici minori, II, Milano 1936, 5-90; S. Romano, L’Ordinamento giuridico, 3ª ed., Firenze 1977, 39; A. Longhitano, Il Diritto nella realtà ecclesiale, in G.I.D.D.C. (cur.), Il Diritto nel mistero della Chiesa, 2ª ed., I, Roma 1988, 81. 4 Cf. Codex Iuris Canonici, Ioannes Pauli Pp. II auctoritate promulgatus, in die 25 ianuarii 1983, Romae, in AAS, LXXV (1983), II, 1-317 (D’ora innanzi abbreviato con: CJC), Can. 1400. 5 Si fa riferimento alle controversie nate per un atto amministrativo non corretto. 6 Cf. M. J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, 4ª ed., Roma 2001, 18. 7 Cf. R. Coppola, Pubblico e privato, in Aa. Vv., Il giudizio di nullità matrimoniale dopo l’istruzione “Dignitas Connubii”. Parte prima. I principi (Studi Giuridici LXXV), Città del Vaticano, 2007, 315-318. Scardinando qualunque impostazione privatistica del processo, l’interesse ad agire manifesta la natura pubblica del processo, visto che l’azione della parte non è finalizzata a rivendicare


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il rilievo assoluto accordato nella Chiesa alla singola persona - il christifidelis - non appare come oggetto diretto dei Codici canonici, né più generalmente della normativa canonica come tale, questo rilievo s’impone tuttavia al Diritto canonico ed alla stessa vita ecclesiale attraverso il “valore” ontologico e fondativo riconosciuto alla persona stessa, valore che spesso risulta addirittura “derogatorio” rispetto al “sistema legale”»8. Secondo tale prospettiva, l’opera di recupero del passato, dei fatti storici, funzionale e necessaria per una sentenza giusta, secondo la natura dialogica del processo canonico, trova pertanto nella persona il punto di partenza autorevole (e non necessariamente il punto di arrivo), una delle fonti d’informazione e l’indiscusso destinatario della tutela giudiziaria. In chiave perfettamente personalista, infatti, il legislatore ecclesiastico ha sancito con l’attuale diritto processuale canonico che le dichiarazioni delle parti siano il primo mezzo di prova -anche se non l’unico- non solo da un punto di vista sistematico, poiché se ne tratta in cima a tutti gli altri strumenti d’indagine praticabili in un processo9, ma, e soprattutto, per il loro valore10. In tal modo si è inteso attribuire alla capacità della persona di riferire con coscienza il proprio vissuto, una credibilità prioritaria rispetto a tutti gli altri strumenti probatori, fino a riconoscerle piena forza probante, anche da sola, per certi elementi soltanto un bene per sé, ma un bene in sé fruibile dall’intera comunità ecclesiale, secondo l’ottica che il carattere personale dell’interesse ad agire non significa individualità, come se fosse funzionale al solo bene di colui che chiede l’intervento di un tribunale ecclesiastico, quanto anche al bene comune della Chiesa. 8 P. Gherri, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, in Apollinaris, LXXXII (2009), 249. 9 Cf. CJC, Cann. 1530-1538. 10 Nei lavori di revisione del Codice del 1917 si legge infatti: «Visum est Coetui indicem prabationum redigendum esse iuxta momentum maius singulis probationibus tribuendum. Ita probatio per instrumenta secundum locum accepit, ante probationem per testes. In novo ordine tractationis Caput “De confesione partium” titulum coepit “De declarationibus partium”, ut comprehendere posset etiam declarationes illas quae non constituunt confessiones, ad finem ut de earum quoque vi iuridica aliqua taxatio poneretur». Pontificia Commissio CIC Recognoscendo, Acta Commissionis, in Communicationes, II (1970), 185-186.


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testimoniati in giudizio, quando non vi sia altra fonte di cognizione sugli stessi11. Ciò rappresenta un’assoluta novità rispetto alla normativa canonica del passato, la quale, al contrario, figlia di «scetticismo e reticenza […, per] il sospetto e pregiudizio nutrito nella persona umana, le cui affermazioni si consideravano a priori come non vere […], affondava le sue radici in una regola iuris antica, secondo la quale “nullus idoneus testis in re sua intelligitur”»12. Questa nuova impostazione legale, trae la propria prospettiva di senso dalla riflessione teologica per la quale il mistero dell’uomo va decifrato alla luce del mistero di Dio rivelato in Cristo13, perché «la Teologia è antropologia e l’antropologia è Teologia: Dio e l’umanità non possono essere pensati separatamente»14. Nella prospetCf. M. J. Arroba Conde, Prova e difesa nel processo di nullità del matrimonio canonico. Temi controversi, Lugano 2008, 77; 82. 12 E. Di Bernardo, Accertamento razionale dei fatti nella fase probatoria, Roma 2002, 76. [Il testo tra parentesi quadre è un’aggiunta alla citazione]. 13 «Per capire l’essere personale dell’uomo bisogna partire dall’essere personale di Dio, [anche perché se] l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, la sua persona, come pure la sua natura, porta il riflesso di ciò che esiste in Dio». I. Sanna, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Brescia 2006, 373. Cf. G. Salonia, Odòs - la via della vita, Bologna 2007, 26-30. A riguardo si tenga presente che fondamentale per la Canonistica è il suo costante riferimento ad un orizzonte di senso soprannaturale, che massimizza in esso la sua alterità rispetto ad un sistema di norme chiuso e autosufficiente che riceve la propria efficacia giuridica unicamente dalla volontà del Legislatore. In questo senso si afferma la sua capacità di salvaguardare l’autorevolezza e la indiretta incidenza dei presupposti teologici fondativi. Detto in altri termini, il canonista trova il proprio orizzonte di senso al di fuori del Diritto stesso, e, precisamente, nel Kerygma, l’annunzio di salvezza, creatore di una nuova realtà: l’essere tutti figli di Dio e fratelli gli uni degli altri. In tal modo l’attività legislativa tipicamente ecclesiale si inscrive nel quadro di un ordine, allo stesso tempo creazionale e redentivo, ai cui principi risulta funzionalmente e strumentalmente piegata. La Canonistica, pertanto, non esiste, né può concepirsi, senza un contenuto teologico, in quanto il canonista riceve ed assume i contenuti del proprio sapere e operare dalla riflessione teologica. 14 D. Mongillo, La condizione umana: struttura trinitaria e cristologica, in Aa. Vv., Iniziazione alla pratica della Teologia. Dogmatica II, vol. III, Brescia 1986, 610. 11


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tiva del Figlio l’uomo, in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio e capace di trascendere l’universo, diviene persona elevata al di sopra di qualunque altra cosa terrena15, tanto da non consentire una sua benché minima riduzione come parte della natura o anonimo elemento della civiltà umana16. È l’essere che si «autocomprende come soggetto spirituale dotato di valori eterni, capace di entrare in rapporto dialogico con un Dio trascendente»17 di cui la stessa capacità di autotrascendersi sarebbe da intendersi in un certo qual senso l’altro nome di persona18, ciò che gli consentirebbe di aprirsi verso l’infinito e verso tutti gli essere creati. Un «essere che si autopossiede, un soggetto padrone di sé, [...], capace di configurare la sua esistenza in modo creativo»19 e l’essere «unico ed irripetibile; [...] un valore a sé e per sé»20. La persona umana è quindi un valore assoluto che si impone come fine e criterio, tanto da non poter essere posto in funzione di nessuna altra realtà, sia essa la produzione economica, la classe, lo stato, la religione, la società21. Referente di spettanze giuridiche soggettive, o altrimenti detti diritti soggettivi22, da coniugare con i Cf. GS, 12. Cf. Ivi, 14. 17 I. Sanna, L’identità, 374. 18 Cf. K. Wojtyła, La persona: soggetto e comunità, in G. Reale - T. Styczeń (curr.), Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Milano 2003, 1346. 19 L. F. Ladaria, Antropologia teologica, 3ª ed., Casale Monferrato 2002, 158. 20 I. Sanna, L’identità, 377. 21 Cf. U. Galeazzi, Persona, in Aa. Vv., Dizionario teologico interdisciplinare, II, Torino 1977, 707-709. 22 Si preferisce la terminologia “spettanze giuridiche soggettive” a quella più comune in ambito giuridico di “diritti soggettivi” perché l’orientamento dottrinale che soggiace all’operato disciplinare ecclesiastico è quello che procede dalla consapevolezza che il processo è uno strumento istituzionalizzato proprio di una collettività non spontanea o necessaria, ma indotta, cioè realizzata sulla base della volontaria adesione ed elezione dei suoi membri, per cui l’agire giudiziale non esplica la propria funzione secondo l’ottica delle categorie civilistiche dei “diritti soggettivi”, alla stregua di autonome ed individualistiche rivendicazioni che si im15 16


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rispettivi doveri23, e non riassunto all’interno di una libertà di coscienza sganciata da una riflessione etica sulla vita. Questa verità antropologica, appartiene ad ogni persona, la quale porta in sé la propria ragione d’essere, la propria dignità24, che diviene, la prima ed ineliminabile via dell’Ordinamento giuridico canonico e del suo sistema processuale, in quanto verità peculiare, centrale e causa fondante25. Ciò genera un diritto processuale che della persona deve cogliere la concretezza della singolarità (la persona), ricco di un preciso vissuto storico, non solo la categoria teoretica in quanto tale (l’uomo)26, «questo soggetto storico-sociale, per non incorrere in una [sua] visione idealistico-trascendentale, perché l’uomo lo si può intendere pienamente [...] soltanto nella sua pongono a maggioranza erga omnes, ma come precise attribuzioni giuridiche concesse dallo stesso Ordinamento giuridico canonico al fedele, purché questi possa conseguire la migliore esperienza personale, terrena e spirituale, della vita cristiana, oppure a chi non appartenga ai chirstifideles e tuttavia gli venga riconosciuto, in quanto uomo, un interesse giudizialmente degno di tutela in ambito canonico. 23 Si esprimeva in tal senso Giovanni Paolo II nella allocuzione alla Rota Romana del 1979 in cui ricordava il messaggio al Segretario generale dell’ONU per il XXX anniversario della Dichiarazione dei “Diritti dell’uomo”. Disse infatti: «Mentre si insiste – e a buon diritto – sulla rivendicazione dei diritti umani, non si dovrebbero perdere di vista gli obblighi e i doveri che si associano a questi diritti. Ogni individuo ha l’obbligo di esercitare i suoi diritti fondamentali in una maniera responsabile e moralmente giustificata. Ogni uomo e donna hanno il dovere di rispettare negli altri i diritti che reclamano per sé. Inoltre, tutti dobbiamo dare il nostro contributo alla costruzione di una società che renda possibile e praticabile il godimento dei diritti e l’adempimento dei doveri inerenti a questi diritti». Ioannes Paulus PP. II, Allocutio: Ad Decanum Sacrae Romanae Rotae ad eiusdemque Tribunalis Praelatos Auditores, ineunte anno iudiciali, 17 februarii 1979, in AAS, LXXI (1979), 3, 426. 24 Cf. F. D’Agostino, Parole di giustizia, Torino 2006, 14. 25 PT, 5 26 Cf. P. Gherri, Diritto canonico, Antropologia e Personalismo, in P. Gherri (ed.), Diritto canonico, Antropologia e Personalismo. Atti della II Giornata Canonistica Interdisciplinare (PUL, 6-7 marzo 2007), Città del Vaticano 2008, 14-15.


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dimensione storico-sociale»27. Contemporaneamente, deve essere superata «qualsiasi attitudine individualista o totalizzante che dissolva la singolare coscienza della persona-membro nella impersonale volontà della società»28. La tutela giudiziale dello stato giuridico dei fedeli nella Chiesa in senso personalista, o degli iura personarum29, trova consistenza S. Pié-Ninot, La Teologia fondamentale, Brescia 2002, 140. P. Buselli Mondin, Il Personalismo cristiano di Giovanni Paolo II: Quale significato giuridico?, in P. Gherri (ed.), Diritto canonico, 73. A partire da queste affermazioni l’Ordinamento giuridico canonico e la sua esperienza processuale assurgono a livelli di vera e propria esemplarità rispetto ai sistemi giuridici delle società civili. In questo senso «il Diritto canonico [...] acquista una dimensione di esemplarità per le società civili perché le spinge a considerare il potere ed i loro Ordinamenti come un servizio alla comunità, nel supremo interesse della persona umana. Come al centro dell’Ordinamento canonico c’è l’uomo redento da Cristo e divenuto con il Battesimo persona nella Chiesa [...] così le società civili sono invitate dall’esempio della Chiesa a porre la persona umana al centro dei loro Ordinamenti, mai sottraendosi ai postulati del Diritto naturale». Ioannes Paulus PP. II, Discorso: Il Diritto canonico può essere d’esempio ad una società civile che non voglia cadere in pericoli d’arbitrio e di false ideologie. Ai partecipanti al Simposio internazionale di Diritto canonico, 23 aprile 1993, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XVI/1, Città del Vaticano 1995, 984. 29 Terminologia utilizzata nel sesto principio di revisione del primo Codice canonico. Principia di revisione di stampo più operativi-direttivi che contenutistici, approvati dal primo Sinodo dei vescovi nel settembre del 1967 (Pontificia Commissio CIC Recognoscendo, Acta Commissionis, in Communicationes, I (1969), 77-85), perfettamente in sintonia con la ecclesiologia conciliare del Vaticano II, il Sesto sottolineava che per la fondamentale uguaglianza di tutti i fedeli e per la diversità degli uffici e delle funzioni, fondata nello stesso ordine gerarchico della Chiesa, era opportuno che nel nuovo Codice di Diritto canonico, gli stessi diritti delle persone fossero in modo idoneo definiti e tutelati, in modo che ciò potesse contribuire a far più chiaramente apparire l’esercizio dell’autorità come un servizio e che il suo uso fosse rafforzato rimuovendo gli abusi. Vi si legge infatti: «Quaestio eaque in futuro Codice solvenda proponitur, videlicet, qua ratione iura personarum definienda tuendaque sint. [...] Unicuique christifidelium iura agnoscenda ac tuenda sunt, et quae in lege naturali vel divina positiva continentur, et 27 28


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all’interno di una concezione del diritto canonico maggiormente vicina alla legalità che non alla morale. Tale risultato si deve intendere come il superamento di quell’impostazione di natura inquisitoria ed autoritaria del processo del vecchio codice, ereditata dal medioevo e fortemente condizionata da una concezione sacrale-morale della potestas regiminis ecclesiastica che, nel caso in cui avesse dovuto intervenire nella vita dei fedeli, di fatto, non conosceva alcuna limitazione, potendo spaziare indifferentemente dal foro della coscienza a quello esterno e viceversa. Hanno contribuito a questo cambiamento dottrinale, di conseguenza processuale, la spinta della grande stagione dei diritti umani che il mondo ha conosciuto dalla metà del secolo scorso30 e gli elementi personalistici connessi alle acquisizioquae ex illis congruenter derivantur ob insitam socialem conditionem quam in Ecclesia acquirunt et possident. Et quoniam non omnes eamdem functionem in Ecclesia habent, neque idem statutum omnibus convenit, merito proponitur ut in futuro Codice ob radicalem aequalitatem quae inter omnes christifideles vigere debet [...], statutum iuridicum omnibus commune condatur, antequam iura et officia recenseantur quae ad diversas ecclesiasticas functiones pertinent». Pontificia Commissio CIC Recognoscendo, Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant, in Communicationes, I (1969), 82-83. 30 Con il pontificato di Giovanni XXIII, a differenza di quello dei suoi predecessori, ha inizio per la Chiesa una nuova fase, di “aggiornamento” e di attenzione ai “segni dei tempi” continuata dai suoi successori Paolo VI e Giovanni Paolo II, i quali hanno insistito con fermezza, nei loro insegnamenti dottrinali, difendendo e promovendo i diritti umani in tutto il mondo e in tutti gli ambiti della vita: Paolo VI, nelle sue encicliche Populorum progressio (1967) e Octogesima adveniens (1971), così come nei Sinodi dei vescovi del 1971 e 1974; Giovanni Paolo II, lungo tutto il suo esteso pontificato, già nelle sue encicliche Laborem exercens (1981) e Sollicitudo rei socialis (1987) e, soprattutto, nella Centesimus annus, in commemorazione dei cento anni della Rerum novarum di Leone XIII. Cf. F. Hafner, Hirchen im Kontext der Grund-und Menschenrechte, Freiburg Schweiz 1992, 127-135. A riguardo ci si confronti anche con altri autori quali: Z. Bauman, Voglia di continuità, Roma-Bari 2001; Id., Il disagio della postmodernità, Milano 2002; Id., La società individualizzata, Bologna 2002; Id., Una nuova condizione umana, Milano, 2003; J. M. Castillo, La Chiesa e i diritti umani, Verona 2009; G. Salonia, Sulla felicità e dintorni-tra corpo, parola e tempo, Trapani 2011, 115120.


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ni ecclesiologiche del Concilio Vaticano II, soprattutto in riferimento al concetto di Popolo di Dio e alla visione comunionale della Chiesa, che indussero ad una profonda revisione lo Ius publicum ecclesiasticum internum circa le categorie concettuali della Chiesa come una Societas iuridice perfecta contenente al proprio interno tante societates imperfectae caratterizzate da un regime di governo del tutto individualistico31. 1. Processo e Memoria Parafrasando Aristotele, la memoria è invocata dal tempo processuale32. Non esiste esperienza processuale senza recupero del passato di coloro che vantano delle pretese soggettive nei confronti della legge e di un confronto di questo vissuto narrato con quello riferito da altri che intervengono a titolo di testimoni33. In questo senso il processo può essere assimilato ad un theatrum, o, per meglio dire «al palcoscenico di un teatro, in cui entrano in scena [...] diverse persone, ciascuna nel suo proprio ruolo, per assolvere alla funzione che del singolo ruolo è propria»34. Si tratta di un orizzonte scenico che esclude ovviamente i monologhi, ma non anche la libera iniziativa o l’improvvisazione delle parti in causa, frutto della loro caparbietà nell’attuare la propria difesa. Del resto l’originalità dei contenuti della memoria di ciascun ‘attore’ -per usare la terminologia propriamente teatrale- riferiti in seno all’esperienza processuale, Cf. P. Gherri, Introduzione al Diritto amministrativo canonico. Fondamenti, 110; P. Bellini, Diritti fondamentali dell’uomo diritti fondamentali del cristiano, in Ephemerides Iuris Canonici, XXXIV (1978), 211-214. 32 Cf. Aristotele, Perì mnémes kaì anamnéseos, in Parva naturalia, 449b. 33 Il diritto fondamentale alla tutela giudiziaria rimane sempre vincolato all’esistenza di un vero diritto leso, che trovi nel processo, una possibile via risolutiva della discordanza esistente tra la legge e la realtà dei fatti e dei rapporti in cui è coinvolto un soggetto. 34 S. Villeggiante, Il giudice e le parti nel processo di nullità matrimoniale in Diritto canonico: problematica attuale, in Angelicum 85 (2008), 765. 31


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sostanziano il suo modus procedendi, stabilito dallo jus conditum, orientando il suo sviluppo e il suo esito finale. Il personale contributo storico da portare in seno al processo, deve godere di quei tratti specifici che Paul Ricoeur attribuisce alla memoria individuale e personale nel suo saggio Passato, memoria, storia, oblio35. Si dovrà qualificare come: 1. modello della individualità personale delle esperienze vissute dal soggetto, in quanto ciascun uomo custodisce dei ricordi che gli appartengono in maniera esclusiva e che si differenziano da quelli degli altri. In questo senso, i ricordi di uno non sono quelli di un altro e non si possono trasferire i ricordi dell’uno nella memoria dell’altro36; 2. presente del passato, in quanto assicurazione della continuità temporale della persona che permette di risalire, senza soluzione di continuità, dal presente vissuto agli eventi più lontani; 3. direzione dell’orientazione nel passaggio del tempo: dal passato verso il futuro perché in un modo o nell’altro riportare i contenuti della memoria personale in ambito processuale37 determinerà il prosieguo della vita delle persone. L’applicazione di questa memoria individuale e privata, nell’ambito della teoria che definisce il processo giudiziale secondo gli estremi dell’istituzione giuridica38, consentirà di superare la Cf. P. Ricoeur, Passato, memoria, storia, oblio, in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Bologna 2004, 52-53. 36 A questo proposito varrà ricordare che per una maggiore comprensione dei ricordi soggettivi è necessario tenere presente la differenza e la complementarietà del ricordare secondo il registro contenutistico, che riguarda i fatti, e quello connotativo, che riguarda i significati e le emozioni correlate con gli stessi fatti. Cf. G. W. Allport, Psicologia della personalità, Roma 1977. 37 Pur consapevoli che esiste un percorso al contrario, dal presente al passato, per cui i ricordi del passato nel soggetto sono possibili di trasformazioni a causa dell’esperienza dell’oggi. Cf. L. Ancona, Dinamica della percezione, Milano 1970; C. Cornoldi, I modelli della memoria, Firenze 1978. 38 L’iniziatore «della teoria istituzionalista è lo spagnolo J. Guasp [...]; tra i canonisti il miglior sostenitore è il professore claretiano Marcelino Cabreros de Anta, che definisce l’istituzione come un insieme di azioni e omissioni, unite tra loro in modo tale da permettere ai soggetti che le realizzano di raggiungere un fine comune [...]; secondo il professore Cabreros la teoria dell’istituzione non si oppo35


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posizione dottrinale della teoria del processo come mero rapporto giuridico39 dove le parti di una causa sarebbero da considerare totalmente sfrondate della loro soggettività sostanziale e titolarità di rapporti sostantivi, per essere inquadrate semplicisticamente all’interno della generica categoria di parti di un processo, cioè come attore e convenuto, che nulla hanno da condividere tra di loro al di là del tempo processuale. In tal modo sarebbe minimizzato l’apporto determinante della memoria personale. Ulteriore risvolto positivo sarebbe quello di sublimare i caratteri della preventività, genericità ed astrattezza del diritto, tipici della sua fase normativa, la quale soltanto potenzialmente può risolvere problemi relazionali, per cedere il posto, al contrario, alla contingenza, concretezza e specificità del caso in questione. In tal modo si realizza quella specifica estrinsecazione a cui il diritto è sottoposto quando entra nella sua fase applicativa, di iuris dictio, tipica della dimensione processuale. In questo frangente, la persona sveste i contorni astratti, generali ed incorporei delle teorie dottrinali personaliste, per incarnarsi in quel preciso soggetto del quale il processo coglie la condizione attuale e reale, hic et nunc. In altri termini, nella sua fase operativa-processuale il diritto subisce un’opera di identificazione, acquista cioè un’identità, fatta delle coordinate spazio-temporali e personali di quanti si relazionano in esso. Diviene un personalismo relazionale, ossia una soggettività-in-relazione40, dai contorni precisi e definiti sulla base della dimensione storico-esistenziale degli interessati ed intervenienti al giudizio41. Secondo quest’ordine di cose il processo canonico si conne a quella del rapporto giuridico, ma la perfeziona scientificamente. Il professore Carmelo De Diego-Lora, della scuola di Navarra, aderisce a quest’impostazione, anche perché gli sembra la più aderente agli insegnamenti del magistero su alcune questioni particolari relative al processo canonico». M. J. Arroba Conde, Diritto, 64. 39 Cf. E. Di Bernardo, Il Cardinal Roberti e la teoria del “rapporto giuridico processuale”. Linee evolutive, Città del Vaticano 2008, 237. 40 Cf. E. Mounier, Il personalismo, Milano 1952. 41 Cf. P. Gherri, Quali istanze istituzionali pone oggi la pastorale al modo in cui comprendere e vivere il cammino di iniziazione cristiana? Prospettiva canonistica, in G.I.D.D.C. (cur.), Iniziazione cristiana: Confermazione ed Eucaristia


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ferma nella sua accezione categoriale, fenomenica, di attività: modo di relazionarsi che non si cala dall’alto nella storia degli uomini, ma si attualizza come concreta e puntuale espressione del vissuto degli uomini divenendo esso stesso storia, storia vivente42. La memoria del passato, recuperata nel processo per mezzo dei singoli contributi personali, secondo la dinamica squisitamente dialettica del processo, come si è già detto, è solo il primo passo del procedimento giudiziale. L’esperienza del singolo, infatti, non è avulsa e sganciata dalla socialità, come fosse rinchiusa in una sorta di camera iperbarica cosicché debba considerarsi a priori una verità oggettiva o assoluta. La memoria individuale e personale, vista la selettività della stessa memoria in termini contenutistici e connotativi, postula, anzi necessita, per la sua piena oggettività, dell’interazione e dell’integrazione di altri racconti, di una memoria relazionale che in ambito processuale canonico è definito contraddittorio43. P. Ricoeur postula, inoltre, la memoria collettiva: «non ci si ricorda da soli, ma con l’aiuto dei ricordi altrui. Inoltre i nostri pretesi ricordi sono molto spesso presi in prestito da racconti sentiti da altri. Infine, e questo è forse il punto decisivo, i nostri ricordi sono inquadrati in racconti collettivi […] da cui è dipeso il corso della storia dei gruppi cui apparteniamo»44. L’accoglienza del concetto di memo(Quaderni della Mendola). XXXV incontro di studio (Hotel Planibel di La Thuile, 30 giugno-4 luglio 2008), Milano 2009, 109-110. 42 Cf. P. Grossi, Storicità del Diritto, in P. Gherri (ed.), Categorialità e trascendentalità del Diritto. Atti della Giornata Canonistica Interdisciplinare (PUL, 23 marzo 2006), Città del Vaticano 2007, 109. 43 Secondo l’attuale prospettiva personalista processuale che si sta proponendo, per la quale si parte dal presupposto di conferire fiducia alla persona, al termine classico di contraddittorio, che custodisce etimologicamente un certo riferimento ad aspetti negativi in capo alla persona e alla reale possibilità di essere sempre e comunque fonte veritativa, si potrebbe preferire quello di memoria relazionale che non contempla lo stesso senso di sfiducia nella persona e salvaguarda il senso della partecipazione degli intervenienti al processo come comune collaborazione alla ricerca dell’unica verità fattuale. 44 P. Ricoeur, Passato, memoria, storia, oblio, 54. Questo autore con memoria collettiva fa prevalentemente riferimento alla tradizione culturale della


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ria relazionale e di memoria collettiva in seno alla dinamica processuale, inteso, in senso analogico, come concetto operativo, privo di originarietà45, alla luce dell’impostazione teoretica del processo come istituzione giuridica, legittima ancora di più il contraddittorio (o memoria relazionale) come comune collaborazione alla ricerca dell’unica verità storica e per ciò stesso condivisibile in coscienza da tutti i protagonisti alla controversia. In questo senso ci si allontana totalmente dall’impostazione dottrinale del processo come situazione giuridica che lo vorrebbe piuttosto come una strategica ed opportunistica contrapposizione di egoistici interessi, dove la memoria individuale e personale sarebbe certamente prevalente ma estranea al confronto con quella relazionale e collettiva. Il vero contraddittorio, in un processo che non voglia rinunciare ad essere strumentale alla ricerca della verità dei fatti storici, e non limitarsi alla mera verità processuale46, è quello in cui prevale l’insieme dei fatti riferiti al di sopra delle convinzioni soggettive e dei propri punti di vista. La verità sostanziale diventa, quindi, il naturale legame che unisce nel processo canonico tutte le parti. Il suo accertamento diventa la chiave di lettura attraverso cui il processo canonico non può concepirsi come un congegno che ha esclusivamente in sé stesso la propria ragione d’essere, ma sia nato per il conseguimento del bene delle persone -in ambito canonico da intendersi quest’ultimo sia in senso terreno che eterno- a cui, proprio per questo, è riconosciuta una posizione di vero ed effettivo protagonismo47. Questa prospettiva teoretica, comunità in cui si è inseriti. Mentre la memoria relazionale fa riferimento al qui e adesso delle persone coinvolte nel processo. 45 Cf. Ivi, 55-56. 46 In ambito civile, precisamente nel Diritto anglosassone, perché un giudice possa emanare una sentenza, si necessita che a favore del diritto in causa convergano la prevalenza delle prove, anche qualora queste siano qualificate solo da un certo grado di probabilità o di per sé insufficienti a produrre il grado di certezza così come richiesto in ambito canonico. Cf. Z. Grocholewski, La certezza morale come chiave di lettura delle norme processuali, in Ius Ecclesiae 9 (1997), 421. 47 A questo proposito, si tenga presente che in ambito processuale non vi è alcuna possibilità di conferire cittadinanza alcuna alla immaginazione che, tuttavia, secondo Paul Ricoeur, con la memoria condivide un destino comune: rendere


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incentrata sulla ricerca e definizione della verità storica, diventa il punto d’incontro tra il diritto sostanziale e quello processuale48. 2. Processo e Oblio Proprio in ragione del fine specifico di accertare la verità di fatti storici, tutta l’impalcatura procedurale del processo poggia sull’ottenimento della maggiore informazione possibile del concreto vissuto oggetto d’indagine. Non c’è spazio per quello che Ricoeur definì oblio inesorabile, figura dell’oblio profondo, «che non si limita a impedire, ma si adopera nel cancellare la traccia di ciò che si è […] vissuto»49. Questo sarebbe una sciagura per l’accertamento della verità. Tantomeno, è ammesso l’oblio di fuga, «espressione della cattiva fede, che consiste in una strategia di evitamento, essa stessa motivata da una volontà oscura di non informarsi, di non indagare sul male commesso nell’ambiente del cittadino: insomma un volernon sapere»50. Per evitare tali forme di oblio la procedura canonica impone all’organo giudiziale di attenersi scrupolosamente alla legge processuale sia nel conoscere il merito delle cause sia nel dirimerle51 e prevede tutta una serie di norme circa le dichiarazioni o testimonianze a garanzia tanto della credibilità soggettiva, cioè la volontà di dire la verità, quanto di quella oggettiva, ossia la capacità di dire la verità e di riferire i fatti, necessari in sede di valutazione. Tali norme urgono la verifica dell’attendibilità del teste per mezzo di generalità certe, il chiarimento del tipo di rapporto e grado di conoscenza con gli interessati alla causa, la fonte di cognizione dei fatti, per scienza presente qualcosa che è assente. Questa impossibilità è data dal fatto che l’immaginazione non si riferisce a fatti realmente accaduti e, oltretutto, caratterizzati per la finzione, per l’irreale, per il virtuale, per la probabilità. Cf. P. Ricoeur, Passato, memoria, storia, oblio, 67-70. 48 Cf. P. A. Bonnet, Giudizio ecclesiale e pluralismo dell’uomo. Studi sul processo canonico, Torino 1998, 6. 49 Ivi, 99. 50 Ivi, 106. 51 Cf. CJC, Can. 135, § 3.


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propria de visu o de auditu, opinione, diceria, ecc.52, il tempo in cui vennero a conoscenza di quanto asseriscono53, l’onestà, la coerenza, la sicurezza mantenuta nella testimonianza, nonché la concordanza di quanto detto con altre deposizioni54, l’obbligo di dire tutta e solo la verità anche con l’ausilio di vincolarsi ad essa mediante giuramento55. Se una qualche forma di oblio inesorabile si verifica nel processo, questa sarebbe da ravvisare nell’effetto processuale che produce il mancato rispetto dei cosiddetti fatalia legis, i termini perentori e improrogabili stabiliti per la perenzione dei diritti56. Di certo lo scadere di questi periodi temporali non incide sui contenuti del passato che la memoria custodisce e che rimangono fatti successi, pertanto, incontrovertibili. Incide tuttavia sulla loro reale possibilità di rivendicarli processualmente quando sono diritti formalizzati in una legge. Esplicitazione di quanto appena detto è ciò che avviene con la prescrizione57 che trae la sua origine dalle disposizioni di leggi, sia canoniche che civili, per la quale si perde un diritto soggettivo o si è liberati dagli obblighi derivanti da un fatto, anche criminale. In questo caso, certamente si può applicare la predetta categoria di oblio inesorabile, ma solo in riferimento alla concreta possibilità di far diventare i fatti legati ai predetti diritti o obblighi, memoria da riferire nel tempo processuale. Un esempio a riguardo è l’effetto ultimo della prescrizione in sede penale dove si produce la cancellazione della perseguibilità del reato, non anche, ovviamente, del fatto criminoso che rimane indelebilmente inscritto nella storia. Un ulteriore caso di oblio è quello prodotto dalla stessa legge processuale quando vieta di attribuire valore a ciò che è asserito nell’istruttoria per errore, timore grave o estorto con violenza oppure deposto da un solo teste58. Cf. CJC, Can. 1572, 2°. Cf. CJC, Can. 1563. 54 Cf. CJC, Can. 1572,1°; 3°-4°. 55 Cf. CJC, Can. 1562. 56 Cf. CJC, Can. 1465, § 1. 57 Cf. V. De Paolis, Prescrizione acquisitiva, in Aa.Vv., Nuovo Dizionario di Diritto canonico, 2ª ed., Milano 1996, 830. 58 Cf. CJC, Cann. 1538; 1573. 52 53


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In generale, per qualunque contenzioso ordinario, in forza dell’istituto della prescrizione che è la «fine definitiva dell’istanza, la sua morte o estinzione»59 a causa dell’inattività delle parti per un tempo stabilito dalla legge, si può parlare di oblio inesorabile, cioè cancellazione, dello stesso processo. Non tutte le forme di oblio sono tuttavia nocive al fine veritativo del processo. Essendo l’indagine processuale sempre definita nel suo oggetto, non è utile di per sé un generico rimando al passato o una sua ripetizione non pertinente. I termini della controversia, che l’organo giudicante ha l’obbligo di fissare su istanza di quanti chiedono il suo autoritativo intervento, impongono che l’indagine processuale non verta, a discapito delle legittime aspettative di tale istanza, su una materia differente da quella per la quale il tribunale è stato adito. A tal fine ogni recupero del passato, in senso processuale, deve necessariamente essere preciso, puntuale e circostanziato60. In questo senso si può senz’altro recuperare una forma benevola di oblio, definito da Ricoeur, attivo, che permette di selezionare il ricordo da riferire. L’oblio attivo, proprio del racconto, è selettivo e risponde ad una necessità inerente al compito stesso di raccontare. Esso conserva una funzione onesta e benefica al racconto processuale e riguarda coloro che vi dovranno intervenire per rilasciare la propria deposizione. Questa forma di oblio incide «sul piano […] del richiamare alla memoria e del rimemorare […] ed è consustanziale all’operazione di composizione dell’intreccio: per raccontare è ovviamente necessario omettere avvenimenti, peripezie, episodi, considerati non significativi, non importanti, dal punto di vista dell’intreccio privilegiato. La possibilità di raccontare […] risulta da questa attività di selezione che integra l’oblio attivo al lavoro della memoria»61. L’oblio attivo o selettivo, in senso lato, riguarda anche il giudice. In modo particolare quando si trova a gestire l’accoglienza delle prove dovendo valutare la loro utilità e liceità ai fini processuali. M. J. Arroba Conde, Diritto, 364. A tal fine le norme prevedono i requisiti formali per un interrogatorio comprensibile, appropriato e informato. Cf. CJC, Cann. 1564-1565. 61 P. Ricoeur, Passato, memoria, storia, oblio, 106-107. 59 60


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Vale a dire, che le stesse non siano logicamente irrilevanti o lesive della dignità della persona, tanto in sé, quanto nella modalità di acquisizione e nel fine che vogliono raggiungere62. L’effetto dell’oblio, in questo caso, ricadrà pertanto sulle prove ambigue, dilatorie e pretestuose, che avessero come unico obiettivo quello di ritardare in modo ostruzionistico il processo ed impedire la risoluzione della controversia ritenuta dalla parte presumibilmente a sé sfavorevole. Al livello di principio, ad eccezione di quello attivo o selettivo secondo le predette forme, si deve necessariamente escludere l’oblio dalle dinamiche processuali, quasi fosse un suo presupposto. La certezza del diritto, su cui la suprema istanza di una vera giustizia si fonda, deve necessariamente potersi avvalere di tutte le informazioni di cui necessita l’accertamento di una concreta verità fattuale. A tutela di ciò il giudice, pur sotto la vigenza dell’imparzialità, che non è sinonimo di indifferenza, e della terzietà, è sempre obbligato ad una piena responsabilità dell’interazione processuale che potrebbe anche richiedere, per salvaguardare il bene pubblico e personale nelle cause legittimamente introdotte, fermo restando il divieto di presentare nuove prove dopo la conclusione della causa63, di dover procedere ex officio alla presentazione di nuove prove o all’opposizione di eccezioni nelle cause penali, in quelle di interesse pubblico o che riguardano la salus animarum, e ogniqualvolta debba supplire un’eventuale negligenza delle parti così da evitare che si giunga a produrre una sentenza gravemente ingiusta64. Questa attività di supplenza dell’organo giudicante, in linea con la sensibilità personalista del sistema processuale canonico, si fonda su evidenti motivi di equità, in quanto non si può sacrificare la giustizia per ragioni di formalità processuali: ne sarebbe frustrata la funzione stessa dei tribunali, che hanno lo scopo di accertare la verità dei fatti e di difendere i diritti65. Cf. M. Ferrante, Le prove in generale (artt. 155-161), in Aa. Vv., Il giudizio di nullità matrimoniale dopo l’istruzione “Dignitas Connubii”. Parte terza. La parte dinamica del processo (Studi Giuridici LXXVII), Città del Vaticano 2008, 312-313. 63 Cf. CJC, Can. 1600. 64 Cf. CJC, Can. 1452. 65 Questa eccezione, che si configura come iniziativa suppletiva del giudice, al carattere assoluto dell’assioma nemo iudex sine actore previsto al Can. 62


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La giusta imparzialità e la terzietà, anche quando si adoperano, in via eccezionale, alla raccolta ex officio di informazioni processuali, per rimediare alle lacune memoriali delle parti, sono pertanto, in ultima analisi, direttamente funzionali alla ricerca della verità giuridica e fattuale, proprie dell’attività processuale canonica66. 3. Processo e Perdono Diversamente da quanto si potrebbe pensare, giustizia e perdono non si contrappongono o si escludono a vicenda: «[…] il concetto di perdono non si contrappone, come un alternativa, a quello di giustizia, così che […] implicherebbe la rinuncia alla giustizia»67. Anzi, il concetto di perdono rappresenta una componente irrinunciabile di quello di giustizia perché quest’ultima possa umanizzarsi, così come ebbe ad affermare Giovanni Paolo II: «nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ‘politica del perdono’ espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano»68. Il punto di convergenza o di incontro tra queste due istanze deve essere ricercato nel significato che si attribuisce alla colpa che 1452, è da intendersi come piena manifestazione del carattere pastorale del ufficio giudicante a servizio della verità (cf. V. Andriano, Tutela dei diritti delle persone. Diritto processuale canonico (Cann. 1400-1752), in G.I.D.D.C. (cur.), Il Diritto nel mistero della Chiesa, 2ª ed., vol. III, Roma 1992, 557). Non fa venire meno il principio dispositivo che soggiace a tutto l’iter della causa, grazie al quale si superano impostazioni processuali di natura inquisitoria, legate ad una visione del diritto processuale canonico di altri tempi, più legalista e moralista (cf. M. J. Arroba Conde, Diritto, 275). 66 Cf. P. A. Bonnet, Giudizio ecclesiale e pluralismo dell’uomo. Studi sul processo canonico, Torino 1998, 132-135. 67 L. Eusebi, Giustizia umana e perdono, in Vita Minorum 4-5 (2009), 181. 68 Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2002, in AAS, 94 (2002), 8, 136. È ovvio che in questo contesto si debba ritenere il termine giustizia riferito alla gestione della giustizia più che alla virtù teologale.


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scaturisce da un delitto e alla pena che ricade in capo al suo responsabile. Nei confronti di quest’ultimi concetti si possono percorrere due itinerari diversi. Da un lato una giustizia che viene concepita in termini di reciprocità, nel senso che verso il bene si agisce con il bene, ma al male si risponde con il male, come in un impeto d’istinto non conforme a giustizia. È questa la giustizia della bilancia per la quale la colpa ha inesorabilmente come conseguenza una reazione altrettanto negativa ed equivalente all’azione negativa commessa. La risposta al delitto, in questo caso, sarebbe esclusivamente la ritorsione nei confronti del male posto in essere. Quest’impostazione della giustizia è definita in dottrina retributiva secondo la quale si «deve rispondere al reato con interventi analoghi al negativo che il reato manifesta, riproducendolo in termini di reciprocità»69. Altra via, diametralmente diversa, è quella che al bene si debba rispondere con il bene e al male, senza cadere nei meccanismi della reciprocità, sempre con il bene. Ciò dà vita ad una giustizia che non perde di vista sia la dignità della persona umana che si ha di fronte, anche quando quest’ultima fosse rea di una qualche colpa grave70, sia della vittima. L’obbiettivo che scaturisce, in questo senso, dal procedimento giudiziario è quello di conformare il proprio agire ad «una visione dei rapporti umani diversa da quella secondo cui l’agire nei confronti di chi abbia agito negativamente dovrebbe uniformarsi ai contenuti negativi della sua condotta: ed è proprio in tale ottica che prende forma una giustizia orientata a recepire la prospettiva del perdono»71. Un perdono che non è, nella sostanza, rinuncia ad agire nei confronti del male subito, che deve assolutamente emergere perché si possa parlare di vera giustizia, ma un imperativo che obbliga la gestione di quest’ultima ad umanizzarsi, a svestire i panni della ritorsione, e ad ottenere, non la punizione, ma, al contrario, la responsabilizzazione del colpevole, perché si ravveda, assuma consapevolezza dei propri errori, ritrovi se stesso, muti il suo stile di vita e ripari il danno commesso: «La rinuncia a chiedere M. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione nel diritto penale canonico, Roma 2012, 72. 70 Cf. L. Eusebi, Giustizia umana e perdono,181-182. 71 Ivi, 184. 69


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che si riproduca verso chi ha sbagliato il male da lui compiuto apre a percorsi di riparazione e responsabilizzazione, costituendone, anzi, condizione necessaria e indispensabile»72. Se i provvedimenti sanzionatori non contemplassero l’idea di perdono insieme a quella di giustizia si ridurrebbero a ‘mere ritorsioni’ nei confronti delle condotte criminose, producendo lo stesso male dei delitti a cui si applicano e a nulla varrebbero al fine di un ristabilimento dell’ordine pubblico ferito73. Quanto detto trova fondamento nelle considerazioni sulla giustizia riconciliativa: «[…] la giustizia non si limita a stabilire ciò che è retto tra le parti in conflitto, ma mira soprattutto a ripristinare relazioni autentiche con Dio, con se stessi, con gli altri. Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione fra perdono e giustizia. Il perdono, infatti, non elimina né diminuisce l’esigenza della riparazione, che è propria della giustizia, ma punta a reintegrare sia le persone e i gruppi nella società, sia gli Stati nella comunità delle Nazioni. Nessuna punizione può mortificare l’inalienabile dignità di chi ha compiuto il male. La Porta verso il pentimento e la riabilitazione deve restare sempre aperta»74. Altrettanta sintesi si riscontra in quella che è stata definita giustizia riparativa, che supera quella retributiva, perché sposa una logica di fondo: «Il criterio di partenza della potestà punitiva è l’opzione di reagire al reato perseguendo al meglio il bene di tutti i soggetti coinvolti: dell’intera società, di chi abbia posto in essere la condotta delittuosa e di chi ne sia stato vittima. In tale orientamento, reagire al male secondo ciò che è altro dal male è ritenuta l’unica opzione liberatrice e responsabilizzante, capace di produrre o ripristinare relazioni autenticamente umane, al punto da essere ritenuta l’unica feconda nella lotta contro il male, per limitarne l’estensione e salvaguardare chi ne sia vittima»75. M. Riondino, Giustizia riparativa, 135. Cf. L. Eusebi, Quale giustizia per la pace?, in Dignitas. Percorsi di carattere e giustizia 1 (2002), 6 ss. 73 Cf. M. Riondino, Giustizia riparativa, 135. 74 Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 1997, in AAS 89 (1997), n. 5, 196. 75 M. Riondino, Giustizia riparativa, 76. Questo autore, insieme alle teorie della giustizia retributiva e di quella riparativa, nello stesso testo, presenta 72


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Nella stessa prospettiva, il perdono esercitato secondo la prospettiva di una giustizia che vuole ricavare un bene anche dal male, esprimerà la dignità personale della stessa vittima, che non si collocherà sullo stesso piano negativo di colui che ha compiuto il male76. Paul Ricoeur riassumerebbe quanto detto dicendo che il perdono si lega all’oblio attivo perché verte a cancellare il senso della colpa, non certamente i fatti delittuosi, il suo peso proiettato nel futuro, che paralizzerebbe la memoria e la capacità del reo di riscattarsi. Da qui, nascerebbe l’esigenza del concetto di giustizia riabilitativa che tende a ristabilire il condannato nella sua capacità di ritornare a diventare cittadino a tutti gli effetti77. In una prospettiva più etica o morale, non necessariamente processualistica, una seconda forma di perdono, che ritengo si intrecci in qualche modo con il concetto di giustizia, possa essere collegato a quanto Ricoeur dice con il perdono difficile, ulteriore esplicitazione dell’oblio attivo: «quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi»78. In questo senso il perdono muove dalla consapevolezza che è certamente un dono di riconciliazione che si offre al reo verso se stesso, ma che lascia sempre il debitore o l’assassino insolvente. Per quanto l’agente valga sempre di più dei suoi atti, e questi ultimi siano separabili da lui, potendo egli stesso fare dichiarazioni del suo pentimento e del suo rammarico, tali atti anche la teoria risocializzativa e rieducativa. Quest’ultima parte dal presupposto che non bisogna punire l’ingiustizia in sé stessa, quanto invece il male che dal reato può derivare per la società, di cui fa parte lo stesso autore del delitto. In questo senso, partendo dal binomio ingiustizia uguale antisocialità, la reazione penale si qualifica in termini di utilità della pena al fine di prevenire altri reati. La pena da infliggere, perché possa avere un valore anche preventivo, dovrà, pertanto, essere proporzionale alla pericolosità soggettiva di chi commette il delitto, tenuto conto della sua indole recidiva, personalità e volontarietà nel delinquere (cf. Ivi, 73). 76 Cf. L. Eusebi, Giustizia umana e perdono, 185. 77 Cf. P. Ricoeur, Passato, memoria, storia, oblio, 110-111. 78 P. Ricoeur, Passato, memoria, storia, oblio, 116-117.


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continuano comunque a seguirlo e a condannarlo soprattutto quando non sono rimediabili, riparabili e rimangano impressi nell’animo come nodi irrisolvibili, anche quando fossero già stati scontati. Il perdono difficile, riguarda pertanto in questo caso il responsabile in prima persona, quando, impegnato nel processo di ravvedimento, si scontra contro il limite invalicabile dell’irreparabilità di ciò che ha commesso e di cui sente tutta la drammaticità e la responsabilità. Affermare, in tali casi, nonostante tutto il supremo valore della dignità della persona umana, anche se colpevole, secondo la logica di una giustizia che vuole essere realmente riparativa, ritengo debba necessariamente contemplare l’eventualità di perdonare sé stessi anche quando ciò significhi «accettare il debito non pagato, accettare di essere e rimanere un debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita»79. In ultima analisi, il perdono e la riconciliazione, in ambito penale canonico, possono essere beni tipici «della tecnica della mediazione, in quanto spazio di incontro e confronto tra l’autore e la vittima del reato, per una risposta più soddisfacente al male arrecato dal delitto»80. In questo senso, tali beni sono entrambi riflesso «dell’essenza e del destino di comunione della persona umana, che passa attraverso la comunicazione reciproca, orientata al bene supremo dell’amore. Di fronte al male subito o arrecato, pur con le ovvie diversità di oneri e prospettive per ciascun soggetto, la tecnica della mediazione poggia sulla fiducia nella comunicazione, capace di ricomporre ciò che è spezzato, riconciliandolo, e aprendo ad orizzonti proficui»81 e ciò in virtù del fondamento antropologico cristiano della persona in quanto essere relazionale. Ivi, 118. M. Riondino, Giustizia riparativa, 128. 81 Ivi, 128-129. 79 80


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Conclusione Memoria, oblio e perdono, in ambito processuale canonico, si iscrivono nel fine ultimo del processo canonico che è l’accertamento della verità fattuale, alla quale si potrà pervenire, senza dimenticanza alcuna, solo mediante tutto il recupero del passato oggetto d’indagine. Ciò sarà reso possibile mediante i ‘contributi della memoria’ riferiti da parte degli interessati all’esperienza giudiziale e degli intervenienti in essa a titolo di testimoni. Si tratterà pertanto di costruire una narrazione che recuperi il passato, nel dialogo e nel confronto (contraddittorio o memoria relazionale), tra le memorie soggettive dei partecipanti al processo. Aiuterà in questo lavoro di ricerca lo strutturale formalismo processuale, che salvaguarda il sostanziale personalismo di un giusto processo. A questo proposito non si dovrà perdere di vista il valore fondativo attribuito alla persona umana, verso la quale la legislazione canonica processuale attuale attribuisce fiducia e credibilità del tutto nuovi rispetto al passato. Questo non deve essere considerato frutto di leggerezza o ingenuità rispetto al dovere del legislatore di garantire la bontà del procedimento giudiziale contemperando, da un lato, il bene della persona e il suo ius defensionis e, dall’altro, la certezza del diritto e la comunione ecclesiale, visto che la medesima autorità ha predisposto a salvaguardia di tale istanza le solennità processuali. Queste ultime, soprattutto nella fase istruttoria, dove si pone in massima urgenza il recupero di tutta la verità fattuale, che non ammette negligenze o dimenticanze, dovranno contribuire a superare quelle narrazioni che si limitassero a riferire dati del passato solo da un punto di vista emozionale o connotativo, che non aiutano in ultima analisi all’accertamento della verità sostanziale, per assurgere al recupero degli stessi fatti in termini di contenuto e descrizione oggettiva, gli unici capaci di riferire come in effetti si sono svolti i fatti. Unitamente a tale fine, le stesse formalità processuali, provvederanno ad aiutare l’organo giudicante alla selezione delle informazioni del passato al fine di provvedere ad una ricerca puntuale e circoscritta della parte di storia oggetto d’indagine giudiziale, l’unica pertinente al processo. Alla luce di tali considerazioni dovranno essere tralasciate forme di giustizia che vorrebbero rispondere al male commesso con altrettanto


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male, riducendo la pena ad una risposta equivalente alla negatività del delitto o dell’illecito commesso. In questo senso il giudizio finale dovrà aprirsi al perdono rendendo la gestione della giustizia in termini riparativi, capace di umanizzarsi, prospettare percorsi di recupero e riabilitazione e continuare a rispettare la dignità personale del reo o del colpevole, che non viene mai meno nonostante le sue azioni delittuose o illegali. Una prospettiva di bene per il futuro, implica che non si permetta al male di proliferare mediante provvedimenti sanzionatori offensivi o lesivi della persona, tenuto conto che quest’ultima è stata creata a immagine e somiglianza di Dio e depositaria di una vocazione soprannaturale. In questo modo sarà più agevole configurare la salus animarum, che nella Chiesa semper suprema lex est, come salus personarum e dell’intera comunità anche nell’ambito della giustizia canonica. Bibliografia Fonti: Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Constitutio Pastoralis: Gaudium et Spes, 7 decembris 1965, in AAS LVIII (1966), 1025-1120; Ioannes PP. XXIII, Litterae Encyclicae: Pacem in Terris, 11 aprilis 1963, in AAS LV (1963), 257-304; Ioannes Paulus PP. II, Allocutio: Ad Decanum Sacrae Romanae Rotae ad eiusdemque Tribunalis Praelatos Auditores, ineunte anno iudiciali, 17 februarii 1979, in AAS LXXI (1979), 3, 422-427; Ioannes Pauli Pp. II, Codex Iuris Canonici, in die 25 ianuarii 1983, Romae, in AAS, LXXV (1983), II, 1-317; Ioannes Paulus PP. II, Allocutio: Il Diritto canonico può essere d’esempio ad una società civile che non voglia cadere in pericoli d’arbitrio e di false ideologie. Ai partecipanti al Simposio internazionale di Diritto canonico, 23 aprile 1993, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XVI/1, Città del Vaticano 1995, 984-985; Ioannes Paulus PP. II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 1997, in AAS 89 (1997), n. 5, 191-200; Ioannes Paulus PP. II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2002, in AAS 94 (2002), 8, 132-140; Pontificia Commissio CIC Recognoscendo, Acta Commissionis, in Communicationes I (1969), 77-100; in Communicationes II (1970), 181-191.


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Synaxis XXXIII/1 (2015) 53-69 AL DI QUA O AL DI LÀ DELLA GIUSTIZIA? CONSIDERAZIONI TEOLOGICHE SUL RAPPORTO TRA MEMORIA, OBLIO E PERDONO. ADRIANO MINARDO1 A primo acchito, riflettere sulla triade “memoria, oblio e perdono” non risulta compito agevole. Una considerazione superficiale e sommaria sulla possibile convergenza di questi tre elementi costitutivi l’apparente trilemma, infatti, potrebbe far concludere immediatamente verso l’inutilità dell’impresa. Come conciliare facoltà mentali, condizioni fisiologiche, disposizioni interiori per sé eterogenee se non, addirittura, opposte o antitetiche? Come accostare memoria e dimenticanza? Come ritenere che il perdono possa legare entrambe in un’unità di senso convincente? Eppure, molti pensatori hanno messo mano all’opera offrendo una serie di riflessioni in grado di rendere plausibile una certa corrispondenza tra i tre o, invece, sentenziarne la definitiva divergenza. D’altronde su cosa insistere? Sulla memoria, come facoltà di ricordare? Sull’oblio, come capacità, di segno contrario, di non più rammentare? Sul perdono, quale modalità di azione per riparare la dignità offesa e, dunque, sanare la cicatrice di una memoria ferita? A questo punto occorre precisare la prospettiva di fondo di questo contributo. L’ipotesi di lavoro è che per tenere insieme memoria, oblio e perdono, serve un elemento di raccordo tra di loro, un 1

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Docente incaricato di Teologia sistematica presso lo Studio Teologico


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perno, al loro interno, su cui far ruotare la triade. Questo perno, a mio avviso, è proprio il perdono, in quanto conciliazione possibile di due contrari apparenti: di una memoria che sempre rivive il male subito, di un oblio che invece lo dimentica. Eppure rimane sottesa un’obiezione: il perdono, così inteso, non contravviene alla giustizia (retributiva)2? Da qui prende l’abbrivio questa relazione che, nel titolo, presenta una domanda alla quale tenterò di rispondere: al di qua o al di là della giustizia? Prescindendo dalle sensibilità psichiche individuali o dalle implicazioni sociali e politiche di una precisa scelta morale, occorre chiedersi se sia giusto perdonare. Non solo in ordine al retto funzionamento di un sistema organizzato giuridicamente, per il quale la giustizia prevede la comminazione di una pena adeguata ad ogni crimine commesso, ma più in generale in ordine alla permanenza di un sistema di valori condiviso e non scritto che riguarda l’elementare senso comune della vita, basato sulle regole non legiferate della pacifica convivenza. Dalle relazioni difficili tra singole persone ad eventi macroscopici che hanno offeso la dignità di interi popoli, emerge con forza la questione sulla opportunità di perdonare chi ha inflitto il male al fine di non oltraggiare l’onore di altri valori che richiederebbero la giusta ricompensa. Il dibattito suscitato, per esempio, dall’altrimenti inqualificabile iattura del nazismo, verteva proprio su questo aspetto morale. H. Arendt, J. Derrida, V. Jankélévitch, P. Ricoeur, S. Wiesenthal, a seguito dell’immane tragedia dell’Olocausto, «crimine metafisico» senza pari3, hanno affrontato la questione etica del perdono senza concessioni vittimistiche e al di qua di ogni deriva moralistica, cogliendo, ciascuno di loro in misura e soluzioni diverse, la paradossalità dell’assoluzione della colpa quale via possibile per un certo riscatto dell’umanità offesa. Il tema, dunque, appare in tutta la sua complessità e, poiché Cf. C. Torcivia, Il perdono e le antropologie teologico-pastorali in gioco, in Id. (ed.), Il perdono che genera la vita. Oltre il predominio della giustizia retributiva, Trapani 2012, 9-25, qui 12 ss. 3 Così lo ha definito V. Jankélévitch, Perdonare?, Firenze 1987, 18. 2


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tocca le corde più sensibili dell’animo umano, tutte le discipline antropologiche sono chiamate a poter dare un contributo alla causa, per districare il groviglio delle involuzioni o delle esasperazioni di un pensiero quanto meno turbato. Procederò, dunque, con una breve disamina dei principali argomenti a favore o contro la possibilità del perdono, richiamando la portata filosofica e morale della memoria e dell’oblio, per poi concludere con un punto di vista teologico che inquadri la questione all’interno di uno spazio ermeneutico ulteriore, per sostenere la tesi secondo cui il perdono, come il di più di un atto supererogatorio, né normale né normativo4, esige valori, principi e motivazioni che, senza negare la giustizia umana, si radicano nell’esperienza del perdono di Dio. 1. La memoria, l’oblio, il perdono Il nostro assunto di base è che la possibilità del perdono, come questione etica, è legata a doppio nodo alla realtà della memoria e dell’oblio5. Sulla memoria, P. Ricoeur nel suo Ricordare, dimenticare, perdonare6, evidenzia tre necessarie distinzioni degne di attenzione. La prima concerne la differenza tra memoria individuale e collettiva: se la memoria è sostanzialmente personale, esiste pure una memoria collettiva che è data dall’incrocio delle memorie personali; entrambe si costituiscono e si condizionano reciprocamente. La seconda distinzione su cui insiste, riguarda la differenza tra memoria e immaginazione, onde evitare di sovrapporle e confonderle: mentre Cf. J. Derrida, Il secolo e il perdono, in B. Moroncini, La lingua del perdono, Napoli 2007, 65. 5 Pare che, dopo secoli di silenzio, il tema dell’oblio sia tornato al centro dell’attenzione della riflessione filosofica. Ne offre un sintetico ma esauriente resoconto G.C. Pagazzi, Il polso della verità. Memoria e dimenticanza per dire Gesù, Assisi 2006, 23-47. 6 Cf. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Bologna 2004. 4


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la memoria presenta una pretesa di verità riguardo ad un evento passato, l’immaginazione rielabora il medesimo evento secondo una propria rappresentazione mentale7. La terza differenza approfondisce la distanza tra la patologia della memoria ferita (una memoria che ricorda troppo8 o, viceversa, troppo poco un evento doloroso) e la storia che, intervenendo sull’irreversibile accadimento del già fu, consentirebbe (terapeuticamente) di spiegarlo ed interpretarlo attraverso una logica di distanziazione e di oggettività. Qui il filosofo innesta il tema dell’oblio, considerato non come il nemico della memoria, ma quale suo corrispettivo necessario9. Anche qui occorre procedere per distinzioni successive. Se l’oblio profondo cancella dalla memoria il ricordo, l’oblio manifesto, attraverso alcuni meccanismi interiori particolari, trattiene il ricordo dal riaffiorare alla coscienza10. Vi è dunque un oblio “di fuga” che consentirebbe di 7 Come riconosce J. Curcovic: «A differenza della storiografia, la memoria non è un registratore fedele della realtà, ma una sua interpretazione e una provvista dei significati del passato, per cui è sempre attiva e dinamica e, quindi, sottoposta alla continua trasformazione. I fatti accaduti sono incancellabili, ma il significato attribuito ad essi non lo è» (Id., Tra memoria e oblio. Alcuni aspetti antropologici ed etici nella costruzione dell’identità, in Studia Moralia 44 (2006) 2, 489-505, 492). 8 Sugli effetti nefasti di una memoria che tutto trattiene, rimangono paradigmatiche le pagine letterarie di Jorge Luis Borges, il quale, nel racconto Funes, l’uomo della memoria, narra di un giovane che, a seguito di un incidente, aveva più ricordi lui «di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da quando il mondo è mondo» (p. 101). Eppure, il narratore, sospettava che non fosse in grado di elaborare pensieri altri, giacché «pensare significa dimenticare differenze, significa generalizzare, astrarre» (103). Ben presto, tuttavia, il giovane morì a motivo di una congestione polmonare. Straordinaria metafora di una patologia della memoria, soffocante e oppressiva, che non può non condurre, prima o poi, a motivo della sua abnormità, alla morte (interiore). Cf. J. L. Borges, Funes, l’uomo della memoria, in Finzioni, Milano 2015, 95-104. 9 Ha riflettuto sulla necessità dell’oblio come contromisura difensiva per non lasciarsi sommergere da processi psichici deleteri legati alla memoria, M. Augé, Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, Milano 2000. 10 Sebbene, come nota J. Curcovic, dal punto di vista psicanalitico «ciò che è stato rimosso non viene perduto, ma [è] solo non disponibile e continua ad


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evitare il ricordo doloroso del vissuto, e vi è un oblio “inesorabile” con cui si intenderebbe annientare ogni traccia di ricordo11. Secondo Ricoeur, il perdono si incastonerebbe nella cornice di un oblio “attivo” con cui, selezionati i ricordi del passato, di essi si conserva il senso e non la memoria degli avvenimenti presi in sé. Dunque, se leggiamo bene Ricoeur, il perdono non è un processo che lavora sul tempo che passa per voler dimenticare, ma sul presente di una continua rielaborazione del senso di un vissuto – che rimane incancellabile – al fine di ricreare la possibilità di un nuovo futuro. Il perdono così riguarda il regime della colpevolezza12 il cui discernimento, operato dalla memoria (dell’interpretazione) e dall’oblio (dei nudi fatti), consente un giudizio storico veritiero e oggettivo. Così scrive: «Il perdono se ha un senso e esiste, costituisce l’orizzonte comune della memoria, della storia e dell’oblio. Sempre in ritirata, l’orizzonte sfugge alla presa. Esso rende il perdono difficile: né facile, né impossibile […] il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi»13. Ovviamente occorre distinguere il perdono dalle sue finzioni, dai suoi mascheramenti o dai suoi succedanei14. Il perdono, infatti, non va confuso con la scusa, intesa sia come il “passare sopra” un agire per vie traverse e travestimenti, manifestandosi talvolta in atti mancati come lapsus verbali e di scrittura, fino al momento in cui riesce nuovamente a irrompere nel campo della coscienza» (J. Curcovic, Tra memoria e oblio, 494 n. 9). 11 Cf. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, 106 ss. 12 Cf. T. Pastore, Colpa, vendetta, perdono. Educazione affettiva e formazione dell’uomo, Roma 2010, 13 ss. 13 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, 116. 14 Cf. G. Cucci, Il perdono, un atto difficile, ma necessario, in La Civiltà Cattolica 3950 (2015) 166, 142-156, 146 ss.


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certo fatto spiacevole, sia come la tolleranza nei confronti di un male ritenuto tutto sommato sopportabile; non va neanche identificato con la clemenza, quando è intesa come atto magnanimo orientato all’autocompiacimento, reso per dimostrare la propria superiorità morale15; inoltre non va assimilato né alla grazia, né alla prescrizione, né all’amnistia, né all’indulto, quali istituti giuridici volti all’impunibilità del reo16. Il perdono sembra riguardare una dimensione/disposizione diversa dell’animo umano, che abbisogna di processi dinamici di integrazioni cognitive, affettive e relazionali, che superano l’esteriorità di un atto pubblico. Come scrive G. Cucci: «Il perdono riguarda i sentimenti, le emozioni e le valutazioni interiori, [mentre] la giustizia l’aspetto giuridico e istituzionale. Per questo è possibile ottenere giustizia senza perdonare, e perdono senza giustizia»17. L’esperienza del perdono autentico deve dunque liberarsi dalle macerie del rancore e dell’oblio, dal desiderio di vendetta, come pure dalla remissiva rinuncia ad onorare i propri diritti lesi. Così tale differenziazione porta con sé nuove domande: si perdona la persona o il suo comportamento? Ancora: si perdona la sconsideratezza di un atto (“non sanno quello che fanno”) o l’omissione (“non fanno quello che sanno”) o la cattiveria con cui è stato commesso? E poi: a chi spetta perdonare? chi va perdonato? E a quale scopo: per ricostruire, per recuperare, per dimenticare (per scongiurare il dolore del ricordo) o, piuttosto, per fare memoria (perché non accada più)18? Del resto, dimenticare è già perdonare? Cf. A. Ceccarelli, Il processo del perdono. Aspetti psicologici, in C. Torcivia. (ed.), Il perdono che genera la vita, 85-117, qui 93 ss. 16 In tal caso, per decorrenza dei termini di tempo (prescrizione) o per opportunità politica e pacificazione sociale (amnistia), lo Stato ritiene estinto il reato; con l’indulto, invece, ritiene estinta la pena condonandola completamente o commutandola parzialmente in altra minore. Cf. M.G. Carnevale, Il perdono come problema filosofico, in Revista Direitos Humanos e Democracia, 1 (2013) 1, 147-169, qui 154; M. Bouchard – F. Ferrario, Sul perdono. Storia della clemenza umana e frammenti teologici, Milano 2008. 17 G. Cucci, Il perdono, un atto difficile, ma necessario, 146. 18 Cf. L. Boella, Il coraggio dell’etica. Per una nuova immaginazione 15


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Prendere sul serio domande del genere, significa considerare attentamente le obiezioni contro un perdono facile e liquidatorio, significa affrontare, più esplicitamente, la questione del paradosso del perdono. 2. Il paradosso dell’(im)perdonabile Risuonano ancora forti e lancinanti le parole di Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, agente della scorta ucciso nella strage di Capaci del 1992: «io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare»19. Se astraiamo l’espressione dal suo contesto proprio – straziante e tragico – siamo posti dinanzi ad una questione dalla valenza teorica estremamente delicata che si articola in due declinazioni: la prima, più evidente, secondo cui sarebbe possibile accordare un perdono a prescindere dalle conseguenze penali previste dall’ordinamento di diritto: il perdono in questo caso riguarderebbe la colpa, non la pena; la seconda, per la quale in alcune circostanze non basta concedere il perdono: occorre che questo sia anche chiesto, persino accettato, se non si vuole che il perdono resti sospeso tra il già e non ancora, come una cambiale non ancora riscossa. È esattamente su quest’ultima questione che si sono cimentati a riflettere, all’indomani della Shoah, alcuni tra i maggiori pensatori del XX secolo, esponendo il cosiddetto paradosso del perdono così formulato: non si tratta di perdonare ciò che è perdonabile, ma ciò che è imperdonabile. In particolare, V. Jankélévitch e J. Derrida figurano tra coloro che hanno offerto le riflessioni più spiazzanti e opposte. La loro argomentazione si basa sull’assunto di partenza secondo cui ciò che deve essere perdonato, in realtà non lo merita. Però mentre il filosofo di origine russa sottopone l’accordo del perdono a determinate condizioni, prima fra tutte la richiesta del perdono medesimo, J. Derrida morale, Milano 2012, 135-139. 19 Citato in E. Deaglio, Patria 1978-2008, Milano 2009, 367.


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ritiene che il perdono autentico sia frutto di un’etica iperbolica, ovvero un atto gratuito concesso prima di ogni pentimento o punizione. Jankélévitch, in realtà, ha mostrato una certa evoluzione di pensiero riguardo al tema del perdono. Con il saggio Pardonner?, contenuto nel volume L’Imprescriptible, pubblicato nel 1971, si inserisce nell’infuocato dibattito, scoppiato in Francia, sulla possibilità della prescrizione dei crimini del nazismo. Qui argomenta per l’impossibilità, anzi per l’immoralità della concessione di perdono, giacché esso «è morto nei campi della morte»20. Ciò che è imprescrittibile diventa, per se stesso, imperdonabile. In altre parole, poiché «ciò che è accaduto è alla lettera inespiabile»21, eccedendo la misura umana persino della pensabilità oltreché della tollerabilità, il perdono non si deve accordare. Come ultima ratio si può concedere solo se invocato dal colpevole, qualora questi abbia riconosciuto la propria responsabilità22. Infatti, poiché non si tratta di un monologo ma di un dialogo23, si esige da parte dell’offensore un’ammissione di colpa e la conseguente richiesta di perdono. Gli fa eco P. Ricoeur, secondo cui: «Non possiamo sostituire la grazia alla giustizia. Perdonare significherebbe ratificare l’impunità, la quale sarebbe una grande ingiustizia commessa a spese della legge e, ancor di più delle vittime»24. L’argomento che fonda la tesi è dunque presto detta: poiché «non c’è pena appropriata a un crimine sproporzionato»25, dunque lo stesso perdono risulta impossibile. Siccome si tratta di un orrore senza misura, di conseguenza, il perdono impraticabile «resta il contrassegno della nostra incapacità di amare assolutamente. È il senso della conclusione di Jankélévitch. Il perdono è forte come il male, il male è forte come il perdono»26. V. Jankélévitch, Perdonare?, 40. V. Jankélévitch, Perdonare?, 22. 22 Cf. V. Jankélévitch, Perdonare?, 37 ss. 23 Cf. V. Jankélévitch, Il perdono, Milano 1969, 216. 24 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano 2003, 670. Cf., inoltre, E. Piscione, Il tema del perdono in Jankélévitch e in Ricoeur, in Laos 20 (2013) 1, 49-58. 25 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, 670. 26 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, 672. S. Wiesenthal, soprav20 21


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Secondo J. Derrida, invece, il perdono per rispondere a se stesso, non deve prevedere alcuna condizione. D’accordo con Jankélévitch che il perdono talvolta sia impossibile da concedere, Derrida si chiede se questo non vada accordato esattamente per la ragione contraria alla logica del pentimento e dell’espiazione. In Jankélévitch egli vedrebbe attuata una logica dello scambio come una pre-condizione necessaria che apra alla possibilità del perdono27. Ma, sostiene Derrida, il soddisfacimento di questa condizione non è indice di un perdono autentico, degno di questo nome. Nella dialettica tra possibile e impossibile si situa il paradosso del vero perdono, in quanto esso si dà solo dove c’è l’imperdonabile. Così scrive: «Se dico: “Ti perdono a condizione che, chiedendo perdono, tu sia cambiato e non sia più lo stesso”, ho forse perdonato? che cosa perdono e a chi? […] Sarebbe troppo facile da ambo le parti: si perdonerebbe qualcuno diverso dal colpevole. Perché ci sia perdono non bisogna forse al contrario perdonare la colpa e il colpevole in quanto tali, là dove l’una e l’altro restano, irreversibilmente come il male, come il male stesso, e sarebbero ancora capaci di ripetersi, imperdonabilmente senza trasformazione, senza miglioramento né promessa?»28. Il dono è l’integrale del per-dono. Si tratta, pertanto, di un dono in eccesso, senza alcuna condizione, una “follia dell’imposvissuto a 4 anni di campo di concentramento, ha comprovato la difficoltà pratica e teorica del perdono. Noto al pubblico come il “cacciatore dei nazisti”, l’autore de Il Girasole, racconta del perdono che egli ha negato ad una SS in fin di vita che, sul letto di un ospedale, prima di morire desiderava riceverlo proprio da un ebreo. Questo mancato perdono ha però inquietato a tal punto S. Wiesenthal, che ha chiesto a molti amici intellettuali (appartenenti al mondo della cultura, della filosofia, della teologia, della politica), di esprimersi circa la correttezza morale del suo diniego. Al di là delle risposte pervenute, poi pubblicate nelle edizioni seguenti, Wiesenthal ha avuto il merito di aver suscitato una riflessione comune, ponendo un problema serio: chi è sopravvissuto può perdonare al posto delle vittime? Cf. S. Wiesenthal, Il Girasole. I limiti del perdono, Milano 2009 (l’originale è del 1970). 27 Cf. J. Derrida, Il secolo e il perdono, 69. 28 J. Derrida, Il secolo e il perdono, 73-74.


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sibile”, che non rientra nelle possibilità dell’ordinamento giuridico o nel sistema morale comuni. Proprio per questa ragione il perdono non è normale, né normativo, né normalizzante29. Eppure, come afferma H. Arendt, il potere o la facoltà di perdonare inaugura una novità, secondo un’irruzione inattesa: «perdonare in altre parole è la sola reazione che non si limita a reagire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata»30. Si tratterebbe pertanto di considerare il perdono come l’esatto opposto della vendetta. Mentre quest’ultima si inserisce nella normale catena a reazione che continua il processo del male ricevuto e ricambiato, il perdono è la sola reazione inaspettata capace di distinguere e separare l’offensore dal suo atto. Come afferma M.G. Carnevale: «sotto il segno del perdono il colpevole può essere ritenuto capace di qualcosa d’altro che dei suoi delitti, può ricominciare, senza cancellare nulla, ma facendosi carico dei suoi sbagli»31. Nondimeno, l’effetto benefico del perdono sarebbe un guadagno della stessa vittima la quale, allentando la morsa del rancore, è in grado di re-definire il proprio passato alla luce della promessa di una novità di vita aperta al futuro32. Sotto questo profilo, come scriveva Jankélévitch, il perdono «fa epoca»33. 3. Una teologia del perdono La teologia cristiana recepisce le suggestioni e i termini del dibattito alla luce della sua lunga tradizione spirituale ispirata al vangelo. Evidentemente, anche questo messaggio vive di una memoria biblica che affonda le sue radici nelle Scritture ebraiche delle quali sa di essere il coronamento. J. Derrida, Il secolo e il perdono, 65. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano 2008, 178; cf. L. Boella, Il coraggio dell’etica, 136 ss. 31 M.G. Carnevale, Il perdono come problema filosofico, 166. 32 G. Cucci, Il perdono, un atto difficile, ma necessario, 154 ss.; V. Elizondo, Perdono ma non dimentico, in Concilium 22 (1986) 2, 93-106. 33 V. Jankélévitch, Il perdono, 178. 29 30


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Solitamente si comprende il perdono nel contesto del comandamento evangelico dell’amore verso i nemici, nella logica antivendicativa del porgere l’altra guancia, al fine di spezzare la spirale di recriminazione permanente e di rompere la catena ininterrotta del male, che si inviluppa nel circolo vizioso della ritorsione contro gli altri (vendetta) o, persino, contro se stessi (depressione, senso di sconfitta, frustrazione, etc.). Riconoscendo che il perdono non è invenzione esclusiva dei cristiani34, esso trova la sua origine, il suo fondamento e la sua formalizzazione nella prassi esemplare di Gesù. Come imitatio Christi l’esercizio del perdono diventa esclusivo, semmai, entro l’orizzonte di senso e nell’unità di misura dell’amore teandrico di Gesù. È il suo dono, e il dono del suo stile, a costituire sia il significato sia la misura che regola il comandamento nuovo dell’amore reciproco. Il modello, tuttavia, risulta spiazzante, perché è provocazione che invita il discepolo ad una relazione di de-centramento in Cristo: «come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Il perdono evangelico, in altre parole, non intende ac-centrare l’attenzione su di sé per dimostrare all’altro la propria virtù e la propria superiorità morale. Vi è una esemplarità e una misura (“come io ho amato voi”) che rinvia ad un campo di forze del tutto esterno a quello coinvolto in una situazione di conflitto, che oltrepassa (senza negarlo) il piano del diritto, della giustizia o, persino, del buon senso. Il perdono di Gesù, assume la forma e la sostanza di un dono in eccesso, incondizionato e gratuito, elargito proprio a chi non lo merita o non lo attende: i peccatori, i pubblicani, le prostitute, i reprobi, etc.35 Il vangelo è il lungo racconto non della riesumazione Cf. M. Rubio, La virtù cristiana del perdono, in Concilium 22 (1986) 2, 107-126; G. Soares-Prabhu, “Come noi perdoniamo ai nostri debitori”. Il perdono interumano nell’insegnamento di Gesù, in Concilium 22 (1986) 2, 79-92. 35 P. Ricoeur sostiene che questa disposizione totale all’incontro dell’altro, chiamato amore ai nemici, «è la misura assoluta del dono, alla quale è associa34


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del passato, ma della resurrezione per il futuro della vita. Detto diversamente, non si tratta di operare miracolisticamente sull’irreversibilità del passato, ma di indicare la possibilità di una traiettoria altra, che trova nel perdono la condizione del suo nuovo inizio. Si tratta di una forza rivoluzionaria che, lungi dal mostrare debolezza di carattere, consentirebbe sia l’attivazione di un’energia liberante, benefica per l’offensore e per la vittima, sia una valutazione più profonda dell’animo umano, ultimamente irriducibile ai suoi errori o alle sue contraddizioni, oscillando tra una memoria attualizzante e un oblio rigenerante, quale antidoto efficace contro la sclerocardia che paralizza ogni autentico slancio vitale36. In questo senso, la prassi di Gesù si inserisce nel solco della tradizione spirituale di Israele, popolo della memoria per antonomasia37. Lo zakhor è l’imperativo del “ricordo”, attraverso cui il popolo mantiene l’alleanza con Jahvè e si consolida nella sua identità sociologica e storica38. Eppure, a quanto pare, la prerogativa del ricordare nell’Antico Testamento appartiene a Dio39. È su questa memoria, quale segno della fedeltà intramontabile alla parola data nell’alleanza, che Israele può fondare la sua memoria Dei40. Senza memoria – come ritiene G.C. Pagazzi – non si costituisce una relazione duratura. Ma è una memoria che necessita del suo corrispettivo apparentemente contrario: l’oblio. La circolarità dialettica e paradossale ta l’idea di prestito senza speranza di ritorno» (P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, 115). 36 R. Studzinski, Ricorda e perdona. Dimensioni psicologiche del perdono, in Concilium 22 (1986) 2, 25-38, 33-34: «Perdonare significa ricordare il passato per assimilarlo e farne parte della propria storia. Il ricordo che è perdono è un lavoro creativo e non semplicemente una ripetizione mentale di un evento passato. […] Colui che perdona separa l’offensore dal suo comportamento e vede il vero valore dell’altro. […] Sia nel dolore che nel perdono si può verificare anche la dimenticanza, ma soltanto dopo che s’è verificato il lavoro creativo del ricordare». 37 Cf. J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1982, 367. 38 Cf. Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Firenze 2011. 39 Cf. G.C. Pagazzi, Il polso della verità, 49 ss. 40 G.C. Pagazzi, Il polso della verità, 52-53: «Il ricordo di Dio e delle sue opere è forma e criterio dell’agire credente».


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tra memoria e oblio all’interno delle Scritture ebraiche si esprime nella necessaria dimenticanza da parte di Dio della dimenticanza da parte di Israele. Come si evince esemplarmente dalla predicazione profetica di Osea, la misericordia del Signore (Os 14,5) prevale sulla dimenticanza da parte del popolo del suo Creatore (Os 8,14). Come efficacemente sintetizza G.C. Pagazzi: «l’amnesia di Dio è amnistia per Israele. L’equivalenza tra dimenticanza del Signore e remissione del peccato mostra la novità creata dalla misericordia divina in chi è raggiunto da essa: una volta perdonato, il colpevole – davanti agli occhi di Dio – non ha mai commesso peccato. L’infedele perdonato non solo non è più un malfattore, ma non lo è mai stato, perché se Dio perdona dimenticando, Egli trasforma il peccatore in innocente»41. Dall’Antico Testamento – dal quale non evinciamo una teoria sul perdono, ma la testimonianza di un perdono praticato – cogliamo, pertanto, un singolare accostamento tra memoria e oblio che risulta costitutivo per la conservazione dell’identità del popolo eletto. Non si tratta di un’azione divina che alterna ora l’una ora l’altro, ma del dinamismo attraverso cui Dio proprio perché conserva la memoria di Israele è disposto a dimenticarne le colpe e, proprio perché ne dimentica le colpe, Dio continua a ricordarsi del popolo come fosse appena creato42. Gesù – come accennavamo sopra – innestato nel terreno fertile della tradizione spirituale veterotestamentaria, ricorre con frequenza al tema della memoria, al punto da renderlo l’integrale della sua relazione con i discepoli di tutti i tempi: il memoriale, infatti, ripresenta l’attualità senza tempo dell’unico evento cristico. Solo in virtù di questa memoria perenne è possibile al discepolo riproporre nella storia i gesti che furono propri del loro Maestro e Signore. E tra questi, evidentemente, spiccano atti e parole di perdono. G.C. Pagazzi, Il polso della verità, 63-64. Sulla stessa linea si pone l’oracolo di Geremia: «io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,34). 42 Cf. G.C. Pagazzi, Il polso della verità, 68. All’ambivalenza tra memoria e oblio della prassi divina corrisponde però l’ambiguità della prassi umana: il popolo è sempre tentato di ricordare i suoi antichi idoli e di trascurare l’alleanza. 41


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In particolare, Gesù con la sua prassi, con la pretesa originale e originante di esercitare il perdono in nome di Dio, invita i discepoli ad assimilarla come segno di una metanoia in fieri. Non si tratta di ignorare le contraddizioni e le ambiguità di una memoria ingrata e di un oblio lasso, ma di attivare la possibilità di un nuovo inizio, sottoponendolo al rischio di un fallimento continuo43. Il perdono di Gesù, garanzia e suggello del perdono divino, affonda nell’abisso della libertà umana e ne scandaglia limiti e fragilità, ma anche potenzialità e opportunità di rinascita, ne vede incoerenze e stupidità, ma anche slanci vitali e desideri di bene, ne scorge ferite e debolezze, ma anche bisogno di assoluto e aspirazioni alla felicità44: l’opportunità è quella di ricentrarsi sul criterio della verità di sé, non malgrado, ma a partire dalla condizione di ciascuno. Questo modo di pensare e di agire, tuttavia, è stato contestato da molti dei suoi contemporanei, perché giudicato esuberante rispetto allo status quo, con l’accusa esplicita di contraddire o, almeno, elevarsi al di sopra della legge morale e religiosa che va salvaguardata perché essa è, evidentemente, tutela di un certo ordine sociale. Ora, si può certamente discutere sull’interpretazione della legge da parte di Gesù, ma alcune sue parole e altri suoi gesti non lo rendono un rivoluzionario anarchico, senza legami né con l’uomo né con Dio45. Sotto questa luce vanno lette alcune delle sue parabole, dove emerge l’importanza di andare allo spirito della lettera più che al letteralismo della legge, dove il perdono implica la rinuncia a vendicarsi di un’offesa o a riscuotere un debito, la capacità di non serbare rancore, come rivelativo dell’agire di Dio nei confronti degli uomini. Emblematica la risposta di Gesù a Pietro su quante volte va perdonato il fratello: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18, 21). 44 M. Rubio, La virtù cristiana del perdono, in Concilium 22 (1986) 2, 107-126, 125: «Perdonare presuppone l’ottimismo della grandezza umana; al di là della sua fragilità, l’uomo che perdona o accetta perdono trova il meglio di se stesso, afferma che in lui “vi sono sempre più cose degne di ammirazione che di disprezzo” (A. Camus, La peste)». 45 Cf. Mt 5,17: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento». 43


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Esempi paradigmatici li troviamo in Lc 15,11-32 e in Gv 8,3-11, dove tra parabole, gesti, silenzi e parole, Gesù spiega qual è l’atteggiamento di Dio nei confronti dei peccatori. Nella parabola dei due fratelli (o del padre buono o del figliol prodigo), salta fuori il ventaglio delle configurazioni possibili della memoria e della dimenticanza legate al perdono. Il figlio minore che dimentica di essere “ancora” sotto la tutela del padre, il figlio maggiore che dimentica di avere un fratello e ricorda-rinfaccia al padre di non aver corrisposto al bene che egli ha fatto, il padre che non dimentica ciò che è per l’uno e l’altro dei figli. Dio, in questa parabola, non viene citato neanche una volta – se non indirettamente nel monologo del figlio perduto – ma si intravede in trasparenza, quale sottofondo e atmosfera in cui si sente e si respira l’aria di una nuova chance di vita. Lo stesso orientamento si scorge in Gv 8, dove si racconta dell’adultera che, secondo la legge, avrebbe dovuto subire la condanna a morte per lapidazione. Invece viene salvata dalla furia omicida degli astanti, da una breve frase di Gesù (“chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra”), pronunciata la quale gli accaniti giustizialisti, progressivamente scompaiono in dissolvenza, e tutti – evidentemente – cominciano a riflettere sulla propria ambiguità di fondo, sulla verità di se stessi, a cominciare dai più anziani, che sono solitamente i più esperti e saturi delle contraddizioni di una vita navigata. In entrambi i casi, come nel resto delle parabole sulla misericordia, si mette in luce l’orizzonte del perdono nel vangelo: mette in guardia chi ha sbagliato dalle voragini che la libertà umana può aprire, ma scommette sulla rigenerabilità altrui e propria. Ma la vera sfida del perdono è la capacità di assumere la carica trasgressiva della colpa. Qui si svela l’accesso teodrammatico della croce. Cristo ha fatto saltare il meccanismo della ri-vendicazione e della violenza, prendendola su di sé, e trasformandola in gesto di somma libertà. Tutto ciò egli lo realizza tramite il perdono che signi-


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fica un gesto estremo di abbandono e di dono: con l’abbandono, non stringe la presa della recriminazione e della difesa ad oltranza, ma prende le distanze diventando vittima consapevole del tradimento dei singoli. Egli si consegna abbandonandosi volontariamente, non subendo lo scacco matto del peccato e della colpa! Si consegna e abbandona innanzitutto nelle mani di Dio, come primo atto che sfonda le camere impenetrabili della dittatura del risentimento. Ma poi si consegna e abbandona anche agli uomini, condotto da innocente alla morte della giustizia (divina), in nome della giustizia (umana)46. Tutto ciò diventa dono, è per-dono – rispetto al quale non si può pensare uno maggiore – che supera, come dato di fatto e non semplicemente come teoria allo stato puro, il principio regolatore di una legge senz’anima. Così proprio perché è vittima può perdonare i suoi detrattori. E lo ha fatto da Figlio dell’uomo. Per questo chiede che anche i suoi discepoli possano rimanere nel mondo come testimoni di questo perdono che insieme è umano e divino. Divino, perché questo perdono non è giustificato né dalla ragione, né dalla giustizia dell’uomo. Ma profondamente umano, perché l’uomo ne è capace. Esso diventa pertanto la cifra simbolica di un’apertura totale che fa dell’uomo la creatura capax Dei; esso diventa il confine, oltrepassato il quale, l’uomo fa l’esperienza del divino, gratuità pura, libertà assoluta, grazia elevante e sanante. Conclusione In questo contributo ci siamo proposti di riflettere sulla originale differenza teo-drammatica quale innocente compimento di una giustizia che include in sé la possibilità del suo superamento. Come scrive F. Conigliaro: «l’atto di giustizia di Dio sulla carne di peccato ha fatto sì che la “giustizia della legge fosse compiuta”, ma, come risulta dal Nuovo Testamento, il vero compimento della legge è l’amore. Per di più, la morte di Cristo sulla croce, con cui il peccato viene giustiziato nella carne, è giustizia di Dio innanzitutto perché è l’espressione culminante della rivelazione dell’amore compassionevole di Dio» (F. Conigliaro, Generati dal perdono, in C. Torcivia (ed.), Il perdono che genera la vita, 43-84, qui 59). 46


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Abbiamo tentato di capire se, nell’articolazione tra memoria e oblio, il perdono si colloca al di qua o al di là della giustizia, premesso che se il colpevole ha pagato il suo debito di giustizia e scontato la pena, ha acquisito formalmente il diritto di essere non più perseguito; egli non ha più nulla da farsi perdonare, almeno secondo il principio medievale aut satisfactio aut poena47. Eppure, ci rendiamo conto che spesso non è sufficiente fare giustizia per soddisfare e sanare l’offesa arrecata dal male: la memoria di quest’ultima, potrebbe spingere ancora ad una ritorsione infinita. Peraltro, vi sono crimini che infrangono la proporzione tra la tipologia del delitto e la massima pena prevista. Come perdonare e dimenticare l’Olocausto e tutti gli altri genocidi o le efferatezze senza misura che la storia continua a registrare (abusi, violazioni di dignità, di libertà, violenze fisiche o morali)? Perdonare è perciò un processo non facile, periglioso e delicato, dalle infinite coloriture e conseguenze, anche politiche, per le quali nessuno può imporre alcunché48. Ma esiste anche un perdono che comprende una diversa dimensione soteriologica, un perdono che supera la giustizia non a motivo di una subdola complicità con il male, ma come atto trasgressivo, eccessivo, che sfora la cortina ingessata del risentimento permanente. Se perdonare è umanamente difficile, la forza del perdono cristiano indica una via di riconciliazione dalla valenza antropologica e teologica determinanti: da un lato si dischiude la possibilità di interrompere il ciclo della spirale della rivendicazione violenta o della auto-afflizione incupita ed inesplosa, dall’altro si scopre l’alternativa di trasporre, su un livello di nuova libertà, la normale dialettica combattiva evangelicamente trasfigurata nel suo opposto.

Cf. G. Paradisi, Compendio di storia del diritto medievale e moderno, Napoli 2012, 11. 48 Cf. J. Peters, La funzione del perdono nelle relazioni sociali, in Concilium 22 (1986) 2, 15-24. 47



Synaxis XXXIII /1 (20015) 71-78 MEMORIA OPERANTE E PROCESSI FORMATIVI. PERCORSI EDUCATIVI E DIDATTICI

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Entro una dimensione esclusivamente cronologica, si vive oggi un tempo sempre ‘in fuga’, mancante, troppo spesso vuoto d’esperienza, proprio di soggetti che appaiono privi di aspettative sul futuro, senza speranza. La capacità di operare scelte responsabili, di elaborare progetti, di dialogare, di accogliere e condividere, opera tuttavia al fondo di tanti momenti imprescindibili della formazione di ogni persona, che richiedono consapevolezza rispetto al proprio vissuto, sia personale che collettivo. Il contributo propone una riflessione di carattere pedagogico in ordine alla nozione di memoria operante, ponendo in luce le opportunità offerte in sede educativa e didattica da tale dispositivo formativo, tanto sul terreno dell’elaborazione creativa e personale dei saperi, quanto sul piano del dialogo intergenerazionale, dell’impegno etico e civile, dell’educazione alla cittadinanza e alla pace.

Il tema proposto dal Convegno mi sembra rechi in sé, da un punto di vista pedagogico, il richiamo implicito ad un atto di riflessione, ad una presa di consapevolezza, in ordine all’importanza e al ruolo che le prassi educative giocano entro l’orizzonte di una necessaria opera di promozione del dialogo intergenerazionale, di impegno etico-civile, di cultura della pace e dell’incontro. Ordinario di pedagogia generale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania 1


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L’orizzonte di considerazioni entro il quale verranno condotte le seguenti riflessioni, chiama pertanto in causa una pedagogia impegnata sul fronte delle prassi trasformative, una pedagogia che in virtù del peculiare carattere intrinseco alla propria natura di sapere teorico-pratico, oltre a riflettere sulle responsabilità che giungono oggi al suo indirizzo, cerca risposte che possano divenire anche soluzioni praticabili per un impegno come atto necessario. Quella che Bertin appellava in senso negativo, alla fine degli anni Sessanta, ‘pedagogia del minimo sforzo e dell’accessibile’2, appare oggi più che mai improponibile. Le finalità e le responsabilità che la società contemporanea pone innanzi alla sensibilità e all’intelligenza di educatori e pedagogisti chiamano a ben altro dovere. Guardarsi attorno con onestà intellettuale, giusta dose di disincanto, capacità progettuale, appare passaggio obbligato. Ma da quali circostanze, in riferimento al tema in oggetto, deriva oggi il particolare carattere di evidenza e di necessità nel concepire e per-seguire l’impegno sul fronte pedagogico come atto necessario? Quotidiane ed incalzanti, le numerose emergenze legate alla tutela e al rispetto dei diritti dei bambini e delle bambine, delle comunità e delle famiglie, delle culture e dei soggetti in stato di particolare necessità, pongono in evidenza l’attestarsi e il diffondersi di strategie di risposta generalmente, troppo spesso, ispirate ad una logica della pronta risoluzione. Persone al pari di ‘cose’ ci vengono poste innanzi: ne leggiamo le necessità e i bisogni in termini di problematicità materiale esterna, ma trascurato, se non rimosso, appare ogni spazio per una narrazione ed una progettualità che restituisca voce al ‘tempo interno’ del vissuto. Eppure un pedagogista sa, gli educatori lo sperimentano ogni giorno, che il tempo che accompagna consapevoli e meditate scelte in educazione mai può essere scandito dalla ‘tirannia dell’urgenza’, né consumarsi nella continua necessità di una pronta, pertanto omologante, risposta. L’azione semplificatrice e riduttiva di un tempo bruciato nell’emergenza materiale è soltanto assolutamente impropria a sviluppare e dunque a restituire in termini formali la complessità di ogni autentica relazione educativa; Cfr. G. M. Bertin, Società in trasformazione e vita educativa, Firenze

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riproduce e rinforza, infatti, anche la raffigurazione di un tempo che è ‘limitato spazio’, direzione univoca in corsa lungo un asse lineare. Entro i termini di siffatta raffigurazione resta sullo sfondo il valore della singolarità dei soggetti, il senso stesso e più profondo del cammino di conoscenza della persona, il peso reale della condizione del vivere, specialmente in situazioni di marginalità, mentre le scelte tras-corrono dettate da circostanze a noi sempre più estranee. Dal bambino all’anziano, dall’immigrato all’emarginato, o ancora in riferimento al vivere entro un sistema più o meno tecnologicamente avanzato, fino ad arrivare all’annosa questione della valutazione nei progressi della conoscenza, si conferma la tendenza diffusa a riportare e contenere ogni considerazione o problematicità, ogni possibile intervento, entro il disegno pre-giudiziale di un asse lineare che procede nella sola direzione di una idea preconcetta di progressione di crescita. Su scala più ampia, anche il modo di concepire lo sviluppo economico (sul quale raramente torniamo ad interrogarci), cela l’inganno di una mistificante progressione inarrestabile, mentre periferie umane ed esistenziali sono ‘luoghi’ che, a dispetto dei tanti facili proclami sull’inclusione, percepiamo sempre più distanti da un posizionato centro. Deprivato della propria esperienza del tempo interno, l’uomo contemporaneo vive così la condizione di chi può “fare” ma non “avere” esperienza, scrive Giorgio Agamben, perché sempre essa gli sfugge, dentro un inarrestabile succedersi di istanti puntuali3. Cfr. G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino 1978: «La giornata dell’uomo contemporaneo non contiene quasi più nulla che sia ancora traducibile in esperienza – afferma in Infanzia e storia –: non la lettura del giornale, così ricca di notizie che lo riguardano da un’incolmabile lontananza, né i minuti trascorsi al volante dell’automobile in un ingorgo, non il viaggio agli inferi nelle vetture della metropolitana. […] L’uomo moderno torna a casa alla sera sfinito da una farragine di eventi – divertenti o noiosi, insoliti o comuni, atroci o piacevoli – nessuno dei quali è però diventato esperienza». 3


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È questo il tempo che siamo ormai soliti definire ‘mancante’, in realtà vuoto d’esperienza, proprio di soggetti che appaiono tristemente spogli di aspettative sul futuro, senza speranza. Nell’impossibilità di essere agenti di autentica, pienamente vissuta, esperienza, rassegnati alla perdita di ogni ‘presa sul mondo’, nel migliore dei casi finiamo allora, fatalmente, per strutturare comportamenti contraddistinti da aristocratico distacco o passivo disinteresse. Alla luce di tali premesse, posto che la qualità dell’esperienza del tempo è, primo fra tutti, fattore decisivo sul terreno di ciò che giudichiamo più o meno formativo, si può procedere con delle considerazioni di carattere teorico-pratico atte ad introdurre e a sostenere la bontà di alcune pratiche educativo-didattiche. “Il tempo non può essere una determinazione di fenomeni esterni - afferma Kant nella Critica della ragione pura - : non appartiene né alla figura, né al luogo; determina, al contrario, il rapporto tra le rappresentazioni nel nostro stato interno. E appunto perché questa intuizione interna non ha nessuna figura noi cerchiamo di supplire a questo difetto con analogie, e rappresentiamo la serie temporale con una linea che si prolunghi all’infinito, nella quale il molteplice forma una serie avente una sola dimensione; e dalle proprietà di questa linea derivano tutte quelle del tempo, fuorché questa sola: che le parti della linea sono simultanee, laddove le parti del tempo sono sempre successive.”4 Ma è proprio questa successione che fa del tempo ‘il tempo’. La proprietà essenziale del tempo non può, dunque, essere raffigurata in alcun modo. Luogo, linea, sono insomma, a giudizio di Kant, “analogie per difetto”. Da una prospettiva pedagogica la questione potrebbe risultare decisiva allorché, avverte Roger Cousinet ne La culture intellectuelle (Paris, 1954), divenendo il paragone ragione, ogni elaborazione legata a saperi e competenze pedagogiche rischia di rimanere falsata, manomessa nelle sue fondamenta. Restiamo in impasse; ostaggio di facili slogan, in un inno alla corsa intriso di falso e mistificante efficientismo, all’interno del qua I. Kant, Critica della ragione pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Bari 1949, vol. I, p. 78. 4


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le un tecnologismo unicamente strumentale trova facile mercato e largo consenso, volgarizzato in obbedienza al “nuovo che avanza” (cosa è nuovo in educazione?) e alla necessità di “fare correre il paese.” Alla ricerca della logica dell’oggetto specifico che chiamiamo ‘esperienza educativa’, è John Dewey che in età contemporanea, con analisi particolarmente lucida, si sofferma sulla categoria della continuità. In Experience and Education (1938) il filosofo dell’educazione dichiara espressamente che il principio del continuum sperimentale è implicito “In ogni tentativo di distinguere le esperienze che hanno un valore educativo da quelle che non lo hanno”5. Ogni esperienza educativa, a giudizio di Dewey, continua a vivere in qualche grado nelle condizioni sotto le quali opereranno le esperienze future; così come riceve qualcosa da quelle che l’hanno preceduta, essa modifica quelle che seguono, ponendosi, in rapporto alla precedente, non in un ordine di successione come due eventi posti uno accanto all’altro lungo un’ipotetica linea, piuttosto quale momento ulteriore. Lo scarto tra le due è di carattere qualitativo. A ricomporre e definire quella che diciamo ‘situazione educativa’ è così, in definitiva, l’azione e la posizione del soggetto in rapporto a condizioni circostanti, quale agente insostituibile di elaborazione dell’esperienza stessa. Va da sé che non vi può essere produttivo cambiamento, né crescita della persona, se non nel contesto di una progettualità che sappia guardare al futuro muovendo da uno sguardo diverso sul passato e sul presente. Una prospettiva soggettiva, ma anche collettiva, sul modello della volontà generale di Rousseau. Alla luce delle analisi fin qui condotte, è ancora possibile concepire e tradurre in atto progetti educativi, pedagogicamente fondati, che veramente valorizzino il soggetto, la propria capacità di cambiare e conservare in un unico movimento di pensiero? Si avverte, diffusa, una profonda ricerca di coerenza e di “armonia” originaria, cui bisogna dare ascolto e tentare di offrire risposta. Una ricerca che chiama in causa a più livelli la memoria, Cfr. J. D ewey , Esperienza e educazione, Firenze 1990

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ora come esperienza di rielaborazione critica di eventi trascorsi, ora come ricerca di senso originaria. A livello di associazionismo, di volontariato e di movimenti culturali, in Sicilia emergono non poche voci che testimoniano un impegno in tal senso orientato di educatori, di insegnanti, di cittadini consapevoli. Nel desiderio di offrire un contributo che possa essere esemplificativo anche sul piano operativo, farò riferimento all’attività svolta in Sicilia, all’insegna del metodo della ‘memoria operante’, presso una di queste realtà, il Centro studi, ricerche e documentazione Sicilia/Europa ‘Paolo Borsellino’ che mi vede al suo interno personalmente impegnata dal 2011. La scelta di titolare l’attività del Centro alla figura di Paolo Borsellino è particolarmente significativa. Come è noto, il magistrato indicava nei luoghi educativi e d’istruzione un fattore strategico di crescita civica e culturale della società; il suo nome rappresenta ancora oggi, più viva che mai, un’insegna che chiama ad una profonda responsabilità, che impegna in termini di scommessa sulle possibilità di un futuro migliore. A distanza di più di vent’anni dalla strage del 19 luglio 1992, si ha come l’impressione che Egli non abbia mai interrotto il rapporto avviato con le giovani generazioni. Il dialogo resta incredibilmente vivo, affidato alla possibilità di trasmettere, valorizzare, elaborare memoria. In prospettiva pedagogica parliamo di ‘memoria operante’ per sottolineare proprio l’aspetto attivo di un tale ‘congegno formativo’, patrimonio di opportunità formative da mettere a frutto con lungimiranza e progettualità educativa. L’intenzione è proporre una messa a fuoco sulle prerogative proprie di un’esperienza di ‘con-tatto’ con pagine, vicende elaborate, trasmesse da una generazione all’altra, personalmente testimoniate, e, andando più a fondo, anche sottoporre ad indagine, tanto nei loro riferimenti fondativi di ordine epistemologico, quanto nelle implicazioni di tipo sociale ed etico-politico in senso lato, gli stessi processi formativi così attivati. Lungo due importanti direttrici il Centro studi muove i propri scopi. La prima è orientata al recupero delle tante fonti di storia


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dell’educazione in Sicilia, rimosse o rimaste invisibili nel tempo, con particolare riferimento ad esperienze di scuola attiva, di educazione popolare, di scuola rurale, di educazione degli adulti. La seconda guarda, invece, in direzione della tutela e diffusione delle fonti-testimonianza del patrimonio di impegno, di sacrificio, di idee e di valori, che la Sicilia ha prodotto sul terreno della legalità democratica, del volontariato sociale, dell’educazione civica, dell’associazionismo di base. Un ingente patrimonio culturale si ritiene così di dover tutelare, se dovesse andare irrimediabilmente perduto a pagarne il prezzo più alto saranno le generazioni a venire, private di una fetta importante della memoria della nostra terra. Una parte consistente dell’attività offerta dal Centro si sviluppa all’interno degli istituti scolastici. Allo scopo di rendere fruibili tali fonti e documenti ad un pubblico allargato, anche ai fini della ricerca scientifica, è stata istituita una mediateca organizzata per sezioni che accoglie documentazione video/audio, narrate e/o resocontate da operatori, educatori, insegnanti e offre servizi di consultazione dei documenti archiviati. Nell’ottica di una promozione diffusa della capacità riflessiva e della consapevolezza rispetto ai propri comportamenti, l’obiettivo formativo è sempre direttamente riconducibile ai processi di conoscenza di sé, del proprio tempo ed ambiente di vita, del territorio di appartenenza, a progetti di costruttiva partecipazione dei soggetti alla vita collettiva. Da un punto di vista più strettamente scientifico la nozione di ‘memoria operante’ è il punto d’approdo di un percorso di ricerca avviato circa un decennio fa. Matura progressivamente all’interno di un contesto di studi condotti su terreni attinenti gli apporti della psicopedagogia di area francofona alle scienze dell’educazione6. PrenCfr. R. C ousinet , La Culture intellectuelle, Paris 1954. Per una trattazione in lingua italiana sul pensiero del pedagogista francese che operi esplicito rimando alla nozione di ‘contatto operante’ cfr. M. T omarchio , Coltivare l’essere che trasforma le cose: “La culture intellectuelle” di Roger Cousinet, in “Cadmo” a. IX, n. 27, Napoli, 2001 e Id., Educazione Nuova e Culture intellectuelle, Catania 2003. 6


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de spunto, in particolare, dal pensiero pedagogico di Roger Cousinet, che indica nell’esperienza di contact opérant la prassi ispiratrice di una metodologia capace di promuovere un radicale rinnovamento nella pratica didattica. È per contatto operante che si approda ad esperienze culturali in senso proprio, afferma Cousinet, anzi è possibile affermare che a costituire uno spartiacque per definire l’ambito che separa il culturale da ciò che culturale non è sia proprio la qualità dell’attività trasformativa messa in campo dai soggetti stessi. Dalla reciprocità riflessiva si sviluppa, infatti, una logica delle relazioni funzionale all’esercizio delle capacità critiche, fonte di razionalità e di autoregolazione. Una pratica di memoria condivisa, che sia esperienza in atto di elaborazione critica e consapevole, che valga anche a recuperare importanti passaggi di dialogo intergenerazionale, che segua assi tematiche a forte radicamento su territorio (in Sicilia certamente, come abbiamo avuto modo di considerare, i temi dell’impegno etico-civile e della cittadinanza attiva) se operante, può costituire un dispositivo di circolare riconfigurazione e ricollocazione di sé non marginale. Saremo dentro un cammino convincente verso la formazione di soggetti autonomi, capaci di progettare e accedere al proprio futuro, di esserne parte determinante, quando avremo garantito, in una circolarità di rapporto tra processi di liberazione e status di libertà, che teorie e prassi formative possano essere non soltanto concepite, ma anche vissute, partecipate ed elaborate, contestualizzate con atteggiamento critico-riflessivo, entrando a far parte di un progetto formativo fondato sulla co-operazione, su scambi, prestiti interculturali, consegne intergenerazionali. Ad ogni passaggio il valore della memoria, non ‘altra’ che si aggiunge in rapporto di somma dentro una memoria-contenitore, ma ‘ulteriore’, che introduca, lungo una comune storia, al decentramento e al radicamento di sé allo stesso tempo, segnerà il tracciato di un percorso che mi appare oggi praticabile per disinnescare meccanismi di esclusione e di emarginazione sociale.


Synaxis XXXIII/1 – 2015, 79-95 SOCIOLOGIA DELLA MEMORIA: STRUMENTO PER L’INTERPRETAZIONE DEL PASSATO, FILTRO PER LA COMPRENSIONE DEL PRESENTE LIANA MARIA DAHER1 La sociologia della memoria si è molto sviluppata negli ultimi decenni, anche in combinazione con altre discipline. L’attenzione per il passato, all’interno degli studi sociologici, si è infatti evoluta parallelamente a quella per la previsione del futuro. L’interesse sociologico per la memoria deriva ovviamente dal riconoscimento dell’importanza della dimensione temporale nelle questioni umane. I meccanismi del ricordare, dimenticare, selezionare eventi e accadimenti sono alla base dei processi umani di continuità e discontinuità rispetto al passato. Tali meccanismi mettono al centro la memoria e la sua importanza per un certo tipo di analisi sociologica2. Difatti, il tema della memoria ha sempre attraversato la riflessione nelle scienze sociali e più o meno esplicitamente si è palesata quale oggetto di studio e categoria concettuale per l’analisi sociologica, presentandosi come strumento e filtro di fondamentale importanza al pari di altre categorie come la cultura e l’identità. Tale interesse scientifico emerge da una sempre più crescente importanza data dalle comunità ai propri ricordi. È oggi sempre Professore associato di sociologia generale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania 2 P. J edlowski , Memory and Sociology: Themes and Issues, «Time & Society», 1(X), 2001: 29-44, p. 30. 1


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più ricorrente l’espressione “ossessione memoriale”, intendendo l’eccesso di memoria che talvolta limita la comprensione storica, una sacralizzazione istituzionalizzata della memoria di alcuni eventi (per esempio l’Olocausto) che rischia di neutralizzare ogni possibile ricaduta critica della memoria sul presente delle nostre società3. Una ricostruzione del passato per opera delle istituzioni e amplificata dai mass media, che non può che confliggere con la ricerca storica in senso stretto, schiva dalla spettacolarizzazione e orientata alla conoscenza oggettiva e alla ricerca di dettagli ignoti utili a un’interpretazione originale e innovativa del passato. Per questo la storia spesso ricerca la memoria negli archivi, nei documenti, nelle testimonianze che possono contribuire alla ricostruzione di eventi passati in modo particolareggiato e inconsueto. La ricerca sociologica sancisce il legame tra le società e il loro passato; non ha il principale interesse del cogliere minuziosamente accadimenti, ma piuttosto di utilizzare memoria e memorie per l’interpretazione dell’attuale, per la comprensione di fenomeni sociali che appartengono alla contemporaneità. La rappresentazione del passato e quella del futuro s’intrecciano: da un lato, i ricordi sono influenzati dagli interessi e dagli attuali progetti degli individui e dei gruppi, dall’altro, i ricordi influenzano il modo in cui il futuro può essere anticipato e concretamente trasformato in azione. Questo può essere rilevato a tutti i livelli della vita sociale: culturale, economico, giuridico, politico e tecnologico. Emerge un legame tra il modo in cui rappresentiamo il nostro passato e i nostri orizzonti di aspettativa; tale interdipendenza, orientata pure dall’interpretazione personale e sociale del concetto di tempo, apre nuove prospettive nel campo della sociologia. È evidente che la memoria risente di tutta una serie di svantaggi derivanti da numerose e possibili interpretazioni soggettive dello stesso evento, nonché dalla rielaborazione soggettiva dei ricordi. L’idea secondo Cfr. E. T raverso , Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona 2006. 3


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la quale esperienze e eventi passati possano essere individualmente e collettivamente registrati per poi essere rievocati con assoluta fedeltà è pertanto respinta a favore di una concezione della memoria come costrutto sociale e elaborazione continuamente attualizzata del passato4. Tale concezione è rivolta alla riduzione di precarietà identitaria, indebolita da una perdita di memoria, e dunque a rafforzare il legame tra memoria e identità. 1. I nterattività

e intersoggettività della memoria nelle

fonti orali

La memoria è patrimonio del singolo, ma spesso si esteriorizza in oggetti percepibili dagli altri (narrazioni, documenti, archivi, ecc.)5. Tali oggetti modificano il carattere di volatilità del ricordo, rendendolo stabile, indissolubile, visibile agli altri. In questo senso il ricordo può essere metaforicamente comparato/contrapposto a una fotografia. Quest’ultima, in quanto oggetto materiale, fissa l’immagine e la rende persistente al tempo, una traccia indissolubile della memoria, differentemente dalla mente del soggetto dove il ricordo/ immagine muta, acquistando tratti diversi col trascorrere del tempo. La memoria non è esattamente specchio del passato, ma piuttosto un insieme di tracce, impronte, frammenti indiziari, che chiedono di essere interpretati6, dove il ricordo rappresenta il principale elemento attraverso il quale la memoria si dipana e si ricostruisce. Spesso diventa cultura condivisa ed è denotata con l’espressione, tanto diffusa quanto problematica7, di “memoria collettiva”, indicando il quadro Cfr. M. H albwachs , La memoria collettiva, Milano 1996, ed. or. 1946. P. M ontesperelli , Sociologia della memoria, Roma-Bari 2003, p. v; corsivo dell’autore. 6 Cfr. U. E co , Segno, Milano 1973. 7 Facciamo a questo proposito riferimento a una possibile ipostatizzazione del concetto che, come spiegheremo tra breve, deve invece essere definito attraverso le operazioni di condivisione e interazione umana a partire dai singoli soggetti (cfr. L.M. D aher , Azione collettiva. Teorie e problemi, Milano 2002). 4 5


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sociale che orienta e rafforza i singoli ricordi attraverso strategie di legittimazione. Nella sociologia della memoria, tale concetto emerge dalla mediazione, punto d’incrocio e integrazione fra memorie diverse8, all’interno della quale la persona ha un ruolo attivo nell’organizzazione dei propri e degli altrui – per virtù del processo interattivo – ricordi. La memoria collettiva così costituita influenzerà significati individuali e significati condivisi creando un intenso rapporto tra memoria e senso, producendo cultura, intesa come «rete di significati continuamente riformulati dalle interazioni e dalle pratiche sociali»9. Questa è una dimensione intersoggettiva della memoria: condivisa tra più soggetti, comunicata tra soggetti. Non si tratta di una “facoltà” posseduta da un individuo indipendentemente dagli altri, ma di un oggetto di scambio, al quale più persone fanno riferimento10. In questo caso l’elemento centrale del processo, che non esclude momenti di conflittualità, è la negoziazione. All’interno di tale sequenza il passato non è mai definito una volta per tutte, ma viene riletto continuamente in una prospettiva di continuità nel cambiamento: continuità di identificazione con un elemento essenziale, fondante, che si può rintracciare in un vissuto di eredità – di valori – comune; cambiamento nei modi differenziati di porsi rispetto a questo passato, costruendo la propria identità nel presente11. P. J edlowsky , Memoria, esperienza e modernità, 1989, p. 108. Cfr. P. M ontesperelli , op. cit., p. 3-18. 10 P. J edlowsky ., “Il testimone e l’eroe. La socialità della memoria”, in P. Jedlowski, M. Rampazi (a cura di), Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Milano 1991, p. 27. 11 M. R ampazi , I Giovani, la memoria e la storia, relazione al Convegnoseminario su “L’età incerta, riflessioni sull’adolescenza”, Pavia, 18 dicembre 1998. 8 9


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Talvolta i gruppi sociali avvertono la necessità di ricostruire, ricordare, il passato per ribadire la propria identità di gruppo. La funzione sociale della memoria rileva la necessità di adeguamento della memoria al presente, e dunque a ricorrenti ricostruzioni che alterano continuamente l’immagine di un evento passato sulla base delle necessità dell’attuale, dando origine a rappresentazioni del passato instabili. Il ricordo è in grandissima parte una ricostruzione del passato operata con l’aiuto di dati presi dal presente, e preparata d’altronde da altre ricostruzioni fatte in epoche anteriori, dalle quali l’immagine originale è già uscita abbondantemente alterata12.

Si tratta di una rappresentazione sociale del passato che, attraverso l’interazione di memorie diverse e individuali, e a seguito di un processo d’istituzionalizzazione, può considerarsi una vera e propria produzione culturale, «che prende forma, si struttura e muta nel tempo e nello spazio sociale»13. Il ricorso alla fonte orale, quale testimonianza di eventi passati, dovrà pertanto tener conto di tale rapporto di circolarità tra passato e presente, così come del forte legame d’influenza tra memoria personale e memoria istituzionalizzata. Gli approcci non standard non considerano il rapporto tra narrazione individuale e realtà in termini di validità, pur tenendo ben presente come tale narrazione sia il risultato della convergenza tra memoria individuale e memoria collettiva, emergente sia dalle interazioni sociali sia dall’esposizione dell’individuo alle produzioni massmediatiche. Compito del sociologo, e in particolare del sociologo della memoria, è identificare, verificare e misurare il rapporto d’influenza tra produzione culturale, interazione sociale e memoria individuale, M. H albwachs , op. cit., p. 144. C. L eccardi , Presentazione, in A. Tota (a cura di), La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Milano 2001, p. 11. 12 13


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rilevandone contraddizioni, discrepanze e sovrapposizioni. L’analisi sociologica non è, infatti, una mera registrazione dei racconti a fine descrittivo, ha altresì l’obiettivo specifico di comprendere eventi passati e di interpretarne il ruolo e il condizionamento sul presente. Non è agevole “ripulire” tali narrazioni da interpretazioni e ricordi soggettivi, non sempre aderenti alla realtà dei fatti, per questo esse devono essere considerate come “soggettive” e indicative non sempre e non solo di ciò che le persone hanno fatto, ma anche di quello che avrebbero voluto fare o che nel presente credono e/o pensano di aver fatto nel passato. Accade spesso, ad esempio, che alla memoria si accosti un sentimento di nostalgia. Si guarda al passato come ciò che non c’è più ma al quale si vorrebbe ritornare, come qualcosa di cui si avverte l’assenza; questo può condurre il testimone a cadere nel sentimentalismo e può condizionare la realtà a cui il ricordo rimanda, condizionandone l’autenticità14. Il soggetto ci riferisce delle sue esperienze e rappresentazioni, è importante pertanto che sia instaurato un patto di fiducia e che quindi il racconto dell’intervistato possa essere (dall’intervistatore) considerato affidabile, aderente ai suoi ricordi, piuttosto che vero in senso stretto15. Anche l’intervista, come la memoria, ha carattere interazionale, è interazione sociale alla base della quale, in particolare nell’intervista narrativa, sta un patto biografico tra le parti (intervistato e intervistatore) che da vita a una relazione biografica e alle sue implicazioni funzionali, sociali e psicologiche16. All’interno di tale relazione si ha, in primo luogo, un riconoscimento reciproco di saperi e significati condivisi che attivano la comunicazione, ma Cfr. A. M argalit , L’etica della memoria, Bologna 2006. A. P ortelli , “Intervento”, in L. Lanzardo, Storia orale e storie di vita, Milano 1989, p 39; P. D iana , P. M ontesperelli , Analizzare le interviste ermeneutiche, Roma 2005, p. 102. 16 Cfr. R. B ichi , L’intervista biografica. Una proposta metodologica, Milano 2002, p. 94-103. 14 15


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soprattutto è concordato un dialogo aperto e pieno, dove l’intervistato è «chiamato a raccontare con onestà e completezza»17. Un tale accordo tenderà ovviamente a superare le suddette difficoltà legate ai ricordi e al modo in cui il soggetto seleziona i contenuti della sua narrazione tra il ricordare e il dimenticare. 2. I l rapporto tra sociologia , storia e memoria : la centralità del testimone

La sociologia della memoria non può far altro, per sua stessa definizione, che rivolgere uno sguardo al passato e cercare di coglierlo attraverso le testimonianze; i ricordi e le interpretazioni di chi c’era ieri, ma racconta oggi. Il testimone privilegiato diventa pertanto elemento centrale nell’interpretazione sociologica del passato ponendo una distinzione fondamentale tra memoria in senso sociologico e memoria in senso storico, interrogandosi dunque sul nesso tra sociologia, storia e memoria. Ciò non significa che le due discipline non si presentino palesemente connesse. Le differenze devono pertanto essere valutate attraverso lo strumento del “diverso punto di vista”, che dà altresì luogo a una serie di sfaccettature utili a delinearne i punti di contatto e di intersezione. Già agli inizi dello scorso secolo Weber sanciva il legame indissolubile tra sociologia e storia: La sociologia elabora […] concetti di tipi e cerca regole generali del divenire, in antitesi alla storia, la quale mira all’analisi causale di azioni, di formazioni, di personalità individuali che rivestono un’importanza individuale. L’elaborazione concettuale della sociologia trae il suo materiale ─ in forma di modelli ─ essenzialmente, anche se non esclusivamente, dalle realtà dell’agire che sono rilevanti anche dal punto di vista della ri17

Ibidem, p. 95.


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cerca storica. Essa forma infatti i suoi concetti e indaga in cerca di regole soprattutto anche in base alla prospettiva dell’utilità che essi possono, per tale motivo, rivelare in vista dell’amputazione storico-causale dei fenomeni di importanza culturale18.

Il suo approccio vede il rapporto tra storia e sociologia come basato su (a) reciproco e indispensabile sostegno e (b) antecedenza sul piano logico19, secondo il quale, parafrasando Cavalli20, la sociologia senza la storia è cieca e la storia senza la sociologia è muta. Posto che la sociologia ha, e da sempre ha avuto, il principale obiettivo di studiare il cambiamento sociale, emerge l’esigenza di ricostruire i processi sociali in senso longitudinale, attraverso metodi di ricerca, dati e interpretazioni caratterizzati da una relazione dinamica tra registri temporali: un’analisi dove sia possibile distinguere il passato, il presente e il futuro come parti costitutive e inseparabili dei flussi temporali21, ma al tempo stesso stabilire una continuità narrativa tra i tre spazi temporali al fine di comprendere l’agire umano22. Il tempo diventa, in questo caso, elemento essenziale e fondativo del rapporto tra sociologia e storia. Il tempo, e la sua percezione attraverso la memoria, siglano la relazione tra le due discipline e tra i due modi di indagare realtà sociali temporalmente difformi ma poste in relazione di continuità. La comparazione tra passato e presente, e un approccio basato sulla rilevazione e interpretazione della memoria, possono certamente supportare il ricercatore nella ricostruzione del suddetto nesso temporale, anche relativamente alle summenzionate esigenze di M. W eber , Economia e società, Milano 1961, p. 17; ed. or. 1922. Cfr. P. D e N ardis , Nuova rappresentazione per una sociologia scientifica, http://sociologi.altervista.org// Storia_della_Sociologia.pdf. 20 A. C avalli , Incontro con la sociologia, Bologna 2001, p. 76. 21 Cfr. N. E lias , “Time: an essay” in N. E lias , S. M ennell , J. G oudsb lom (eds.), On Civilization, Power, and Knowledge. Selected Writings, Chicago 1992, pp. 253-268; pp. 253-8. 22 Cfr. F. C respi , La sociologia contemporanea, Bologna 2002. 18 19


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differenziazione. La memoria sarà, in questo caso, considerata come risorsa che contribuisce a dar senso alla realtà, al rapporto tra continuità e mutamento23. Tale ruolo della memoria ribadisce il legame tra storia e sociologia, quantomeno di quella sociologia che si discosta da approcci squisitamente standardizzati rivolti all’esclusiva rilevazione delle ricorrenze, rivolgendosi a metodi idiografici (e non standard) tesi a comprendere i fenomeni nella loro unicità, nel senso di non rappresentatività statistica, ma comunque all’interno di una situazione di complessità sociale. La memoria non coincide però con la storia. La storia rimane ferma, si fissa nei libri e nei documenti, si colloca al di sopra e al di fuori dei gruppi umani, la memoria è instabile e in costante mutamento24. La memoria contribuisce piuttosto alla partecipazione dell’uomo alla trasmissione storica essendo esperienza del passato: il presente utilizza il passato attraverso la memoria e si riappropria criticamente della tradizione25. In questo senso, la sociologia della memoria è strumento e tramite per la costruzione e l’interpretazione del presente, in continuità con il passato, dal quale tenta di trarre l’esperienza. Il rapporto tra passato e presente è circolare: la conoscenza del presente dipende dalla conoscenza del passato, che è punto di riferimento per l’esperienza attuale. All’interno di tale relazione d’interdipendenza la memoria coopera in maniera fondamentale sia alla conservazione di ciò che è stato che alla costruzione di ciò che è. L’elemento della continuità è fondamentale in tale rapporto, seppure costantemente messa alla prova dagli enormi e rapidi mutamenti sociali e tecnologici26. La sociologia della memoria non studia però quel che è stato (come la storia) ma le ricostruzioni individuali e collettive del pasCfr. P. M ontesperelli , op. cit., pp. 106-112. Cfr. M. H albwachs , op. cit., pp. 156-7. 25 P. M ontesperelli , op. cit.; p. 118. 26 Cfr.. A. T offler , Lo shock del futuro, Milano 1972. 23 24


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sato, passando attraverso i ricordi che operano selettivamente sugli eventi attraverso il problematico binomio ricordare/dimenticare. Per questo si scontra con una serie di passaggi interpretativi, di cui solo parzialmente si è detto, con i quali il ricercatore deve fare i conti e che rappresentano ostacoli ma al tempo stesso opportunità per l’ampliamento della comprensione degli eventi. La mente umana è capace di trasformare stringhe di eventi non strutturate in narrazioni storiche coerenti, che non possono però essere considerate né oggettive né universali27. La memoria non registra fedelmente il passato, ne trattiene solo quanto ritiene utile al presente, la memoria rappresenta un punto di continuità tra passato e presente, la storia invece non può fare a meno di perseguire l’oggettività degli eventi del passato e opera una netta separazione tra passato e presente in modo da poter cogliere il passato attraverso schematizzazioni e classificazioni, tracciare confini definiti e osservare gli eventi dall’esterno e al di fuori dei gruppi sociali. La memoria, e in particolare quella memoria che è sinteticamente indicata come collettiva, è invece frutto delle interazioni comunicative tra individui e gruppi sociali. 3. L’ influenza

sul presente : un ponte tra generazioni

Che cos’è la memoria culturale? Brevemente si può definire come una memoria, socialmente costruita, che opera al fine di trasmettere significati essenziali condivisi, durevoli e utili alla coesione dei gruppi sociali. La memoria culturale fornisce solide rappresentazioni simboliche tratte da un passato significativo e in grado orientare l’agire sociale, nonchè di creare le basi per un forte senso di appartenenza al gruppo e alla sua identità28. Alla base sta una memoria Cfr. E. Z erubavel , Mappe del tempo. Memoria collettiva e costruzione sociale del passato, Bologna 2005; pp. 29-31. 28 Cfr. P. J edlowski ., Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, Milano 2002. 27


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comunicativa che attraverso l’interazione e il linguaggio consente la definizione dell’identità, della coscienza e dei ricordi. Quei gruppi sociali che intendono durare nel tempo, non possono non fare riferimento al passato e coltivare una cultura del ricordo. Nella produzione di una tale cultura, memoria comunicativa e memoria culturale si trovano in soluzione di continuità: la prima si riferisce al passato recente, che un individuo ricorda insieme ai suoi contemporanei, la seconda si fonda su ricordi solitamente non biografici, ma che poggiano su rituali, miti, luoghi, ecc. La memoria culturale è il luogo della tradizione, è formalizzata e istituzionalizzata, mentre la memoria comunicativa rimane legata alle biografie e/o a un quadro generazionale, non ha una codificazione fortemente formalizzata, basandosi spesso sull’interazione intersoggettiva quotidiana e sulla vicinanza temporale dei ricordi29. Se dunque oggi la ricerca storica ci parla di ossessione commemorativa in termini sufficientemente negativi e svantaggiosi per l’evoluzione della disciplina, parlarne invece in termini sociali e societari potrebbe risultare processo fecondo per la costruzione dell’identità collettiva e culturale dei gruppi sociali, nonché per stabilire un ponte, comunicativo e interazionale, tra le generazioni. Non v’è dubbio che la memoria, attraverso gli individui e i gruppi che ne sono testimoni, svolge importanti funzioni sociali. In primo luogo di rafforzamento dell’identità, in secondo luogo di trasmissione alla nuove generazioni di saperi condivisi e di convenzioni verbali e comportamentali, ma anche di eventi significativi e esemplari per la costruzione di civiltà e cittadinanza. La memoria quando viene trasmessa si cristallizza in patrimonio culturale; su tale patrimonio trovano fondamento i processi di socializzazione e educazione nella società. Tale patrimonio è incessantemente costruito e trasmesso sia in senso intragenerazionale che intergenerazionale. Cfr. J. A ssmann , La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997. 29


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In uno stesso gruppo, questa trasmissione ripetuta un gran numero di volte e diretta a un gran numero di individui, sarà alla base della riproduzione della società considerate30.

Non si tratta però, come si è detto, di una ripetizione meccanica bensì di un rimodellamento sulla base delle interazioni e della selezione dei ricordi. Sono molteplici le agenzie di socializzazione e/o istituzioni culturali che mettono in atto, nelle società odierne, tale trasmissione: a partire dalle classiche di socializzazione primaria (famiglia) e secondaria (scuola) sino al ruolo sempre più preponderante dei mezzi di comunicazione di massa. La stampa, la radio, il cinema, la televisione trasformano i ricordi in immagini, ne fissano i tratti che altrimenti muterebbero col trascorrere del tempo. Tali mezzi consentono inoltre di trasmettere informazioni – e memoria – a vastissimi strati di popolazione, le loro comunicazioni sono peraltro solitamente di facile comprensione e apprendimento. Se è vero dunque che questo è uno dei modi in cui la sucitata “ossessione memoriale” si esplicita, va però considerato che tale tipo di trasmissione consente la diffusione di memorie relative alla storia e alla tradizione di ogni società, utili alla costruzione di un’identità comune e del senso di appartenenza al proprio gruppo sociale. I giovani rappresentano senza dubbio il target di tali comunicazioni-trasmissione. La condizione giovanile è spesso connotata da una sostanziale interruzione della comunicazione tra generazioni, rispetto ai modelli di vita e di comportamento, ma anche relativamente alle «opzioni di valore che emergono nel processo di trasmissione della memoria e di riflessione sulla storia31». Da un punto di vista socio-biografico, i giovani sono concentrati sul problema della ricerca di senso per la propria vita, appaiono spesso schiacciati sul presente, talvolta ridotto a presente quotidiano. 30 31

J. C andau , La memoria e l’identità, Napoli 2002, p. 128. Cfr. M. R ampazi , I Giovani, la memoria e la storia, op. cit.


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Rimane pertanto la difficoltà di coniugare passato, presente e futuro, attraverso un progetto centrato su specifiche assunzioni di responsabilità che garantisca quella continuità nella discontinuità, fondamentale per la sopravvivenza della vita sociale 32. Rispetto a tale obiettivo è legittima la preoccupazione espressa da Primo Levi secondo la quale sia sempre più difficile parlare coi giovani; non si può non condividere che questo sia dovere e, al tempo stesso, rappresenti un rischio: «il rischio di sembrare anacronistici, di non essere ascoltati33». È pure vero però, che non tutto merita di essere ricordato, non si può sovraccaricare la memoria di informazioni inutili e eccessive, soprattutto quella delle nuove e future generazioni: «Per poter ricordare bisogna anche saper dimenticare34». Si dovrebbe pertanto fornire equilibrio al rapporto tra massa di informazioni socialmente disponibili e capacità individuali di appropriarsene significativamente, al fine di colmare la sproporzione tra “quantità” e “qualità” della trasmissione culturale. L’attualità di G. Simmel è in questo caso inquietante: Se consideriamo l’immensa quantità di cultura che si è incorporata negli ultimi cent’anni in cose e conoscenze, in istituzioni e in comodità, e la paragoniamo con il progresso culturale degli individui nel medesimo lasso di tempo […] fra i due processi si mostra una terrificante differenza di crescita […]. Forse meno nella coscienza che nei fatti, e nei confusi sentimenti che ne derivano, l’individuo è ridotto a una quantité négligeable, ad un granello di sabbia di fronte ad un’organizzazione immensa di cose e di forze che Ibidem. P. L evi , I sommersi e i salvati, Torino 1996, p. 125. 34 R. W iehl , Kultur und Vergessen, in J. Assmann, T. Hölscher (a cura di), Kultur und Gedächtnis Frankfurt a.M. 1988, pp. 20-49, cit. in A.Cavalli “Memoria”, Enciclopedia delle scienze sociali Treccani, Roma 1996. 32 33


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gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità, i valori, trasferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva 35.

Bisognerebbe riappropriarsi della storia, bisognerebbe insegnare ai giovani a coltivare il passato (memoria collettiva?) del gruppo al quale appartengono, per poter comprendere meglio il presente e riceverne indicazioni per il futuro. La sucitata continuità nella discontinuità non può che reggersi sui processi di trasmissione e elaborazione di memoria che si esplicano nella comunicazione fra generazioni. Una dialettica intergenerazionale che vede però scontrarsi l’azione del tramandare in senso verticale, messa in atto dagli adulti, e gli atteggiamenti differenziati verso la memoria delle nuove e giovani generazioni, a seconda del tempo e dei contesti. Si registra da parte delle generazioni senior una certa difficoltà a accettare nei giovani una volonta di memoria parallela volta all’elaborazione di nuove modalità attraverso le quali attualizzare il passato nel presente36. Le generazioni precedenti hanno elaborato un loro tempo della storia, attraverso un processo di socializzazione politica e formativa; hanno interpretato la memoria attraverso la suddetta esperienza e rivolto tale interpretazione al futuro, intervenendo sul tracciato storico. Le generazioni più giovani hanno invece ricevuto una socializzazione diversa, esterna all’arena politica; una certa disaffezione per le istituzioni, che sfocia in un marcato assenteismo elettorale, mostra come i giovani non partecipino spesso a scelte ideologiche significative e rifiutino la politicizzazione della memoria37. Un’inquietudine, a tratti estrema e dovuta anche all’invaden35

1903.

Cfr. G. S immel , Le metropoli e la vita dello spirito, Roma 1995, p. 54;

Cfr. M. R ampazi , I Giovani, la memoria e la storia, op. cit. Cfr. A. C avalli , a cura di, Il tempo dei giovani, Bologna 1985; la ricerca IARD coordinata da Cavalli sul rapporto tra i giovani e la categoria del tempo, rivolta anche alla memoria storica, risulta in alcuni tratti ancora attuale, anche se rivolta a generazioni precedenti a questa, in particolare per gli aspetti appena sottolineati. 36 37


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za delle nuove tecnologie, conduce il giovane a separare e contrapporre il tempo individuale da quello collettivo, il tempo naturale da quello sociale, rompendo talvolta quella soluzione di continuità nella discontinuità di cui si è detto prima. Com’è possibile ricostruire tale segmento? Chi sono gli attori coinvolti? Quali strumenti abbiamo a disposizione per rimembrare ai giovani un passato significativo, al tempo stesso consentendo loro l’utilizzo di modalità efficaci, e adeguate da punto di vista generazionale, alla creazione di nuovi legami tra passato e presente? La postmodernità ha acuito la condizione sociale sopra descritta attraverso le parole di Simmel. Un diffuso senso di anonimato pregna le relazioni umane e priva i membri della società del basilare desiderio di sentirsi parte di qualcosa più grande di sé. Tale sensazione si traduce, in termini identitari, in una prevalenza dell’“io” rispetto al “noi” e in una complessità difficile da dirimere. Identità autoreferenziali e frammentate, assorbite nel presente che danno luogo a una serie di atteggiamenti, orientamenti e comportamenti sostanzialmente inediti nella storia della società occidentale, ma peculiari della nostra epoca. La persona è sempre più libera di modellare il proprio spazio nella società, la vita moderna è infatti caratterizzata da profondi processi di riorganizzazione del tempo e dello spazio, e da un processo di sradicamento e destrutturazione (disembedding) delle identità che ha reso le interazioni sociali sempre più complesse e interconnesse, introducendo elementi di incertezza e multiple possibilità di scelta38. Un’incertezza che deriva da condizioni strutturali e globali39 e che si manifesta nelle relazioni umane e sociali traducendosi in identità frammentate, narcisiste e/o precarie. In un tale contesto, identificarsi col gruppo e essere riconosciuto da questo, e da altri, diventa per la propria appartenenza fondamentale elemento di stabilità40. Cfr. A. G iddens , Modernity and Self-Identity: Self and Society in the Late Modern Age, Cambridge 1991. 39 Cfr. Z. B auman , La società dell’incertezza, Bologna 1999, pp. 61-6. 40 Si veda a questo proposito L.M. D aher , “Il ruolo delle appartenenze 38


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Liana Maria Daher

La memoria, e la sociologia della memoria, possono divenire punto di riferimento per tale ricostruzione identitaria, tassello la prima e strumento la seconda per la costruzione dei link tra passato, presente e futuro per le giovani generazioni. Evocare il legame tra passato e presente e attualizzare il passato attraverso strumenti tipici della contemporaneità, sostenere una riorganizzazione della memoria basata sull’utilizzo di temi e mezzi di utilizzo quotidiano41 rappresenta un passaggio all’interno del quale non solo la storia incontra la società – e la sociologia – ma è anche il tramite per coinvolgere i giovani in quella memoria che non è loro in senso stretto, ma del gruppo sociale a cui appartengono. Quella trasmissione di memoria che utilizza codici e registri comunicativi adeguati alla net generation42 potrebbe altresì superare sia l’ostacolo della scomparsa delle memorie viventi che il rischio, prima rilevato attraverso le parole di Levi, di essere anacronistici nel dialogo con le generazioni presenti e future. Il tentativo di evitare la possibilità che le giovani generazioni divengano “generazioni senza memoria”43, fornendo strumenti adeguati affinché identità personali contemporanee e memoria collettiva si incontrino su uno stesso terreno temporale e comunicativo, non può che essere campo di riflessione della sociologia. L’elaborazioai gruppi sociali nella socializzazione alla cooperazione”, «Annali della Facoltà di Scienze della Formazione», Università di Catania, 11, 2012; L.M. D aher , “I confini delle appartenenze. Ipotesi di superamento in chiave interculturale”, in I. G iunta , S. V illani (a cura di), Lo specchio deformante: vecchi e nuovi paradigmi della diversità, Lecce 2013; L.M. D aher , “Membership in Social Groups and Contexts”, in G.J. K aczynski , A. G amuzza (eds.), Social Mindedness in Learning Community. Concepts, Fieldwork, Exploratory Results, Milano 2014. 41 Cfr. C. S aita , V. G rienti , Linkati alla storia. La narrazione biografica e il ruolo delle comunicazioni sociali, Leonforte 2015. 42 Cfr. D. T apscott , Net Generation. Come la generazione digitale sta cambiando il mondo, Milano 2011. 43 Cfr. P. S orcinelli , A. V arni , a cura di, Il Secolo dei giovani: le nuove generazioni e la storia del Novecento, Roma 2004.


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ne di supporti alla trasmissione generazionale, la supervisione della costruzione e ricostruzione dei nessi temporali e comunicativi tra le generazioni e tra gli eventi, non potrĂ pertanto che vedere la sociologia della memoria impegnata in un ruolo di primo piano.



Synaxis XXXIII/1 – 2015, 97-110 AMALEQ: MEMORIA E OBLIO CARMELO RASPA1 A maleq Il testo di Dt 25,17-19 appare come una costruzione letteraria semanticamente densa, nella sua espressione ossimorica che contrappone i termini del ricordare e della memoria – quest’ultima peraltro da cancellare – al lessema del dimenticare. L’oggetto della memoria da abolire è ‘Amaleq, il non dimenticare si riferisce all’ordine dato, quello appunto di cancellare il ricordo dell’eterno nemico di Israele. Esso così recita: v. 17 zāk̠ôr ’ēt ’ašerˉ‘āśāh lek̠ ā ‘amālēq badderek̠ beṣ’tek̠ em mimmiṣrāyim v. 18 ’ašer qārek̠ ā badderek̠ wayezannēb̠ bek̠ ā kolˉhanneḥoešālîm ’aḥareyk̠ā we’attāh ‘āyēp weyāg̠ēa‘ welō’ yārē’ ’oelōhîm v. 19 wehāyāh behānîaḥ yehwāh ’oelōheyk̠ā lek̠ ā mikkolˉ’ōyeb̠ ek̠ ā missāb̠îb̠ bā’āreṣ ’ašer yehwāhˉ’oelōheyk̠ā nōtēn lek̠ ā naḥalāh lerištāh timḥeh ’etˉzēk̠er ‘amālēq mittaḥat haššāmāyim lō’ tiškāḥ

“Ricordati di ciò che ti ha fatto Amaleq lungo il cammino quando uscivate dall’Egitto: come ti assalì lungo il cammino e aggredì nella tua carovana tutti i più deboli della retroguardia, mentre tu eri stanco e sfinito, e non ebbe alcun timor di Dio. Quando dunque il Signore tuo Dio ti avrà assicurato tranquillità, liberandoti da tutti i tuoi nemici all’intorno nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità, cancellerai la memoria di Amaleq sotto al cielo: non dimenticare!”2. Docente invitato di Esegesi Biblica pesso lo Studio Teologico S.Paolo La traduzione in italiano è secondo la versione CEI come appare in La

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L’inserzione dei vv. 17-19 nel contesto del cap. 25 sembra a molti un’aggiunta posteriore di matrice redazionale. Una giustificazione della loro presenza in tale contesto è stata avanzata notando come il cap 26 richiami il cap 12 circa i luoghi di culto delle popolazioni straniere non solo da evitare (12,29-31), ma da distruggere (vv 2-3), mantenendo in tal modo solo il culto a YHWH nel luogo che Egli avrà scelto3. La proposta, tuttavia, non convince: il cap. 12 è preoccupato di stabilire un luogo di culto ad YHWH che sia lo stesso per tutte le tribù, una volta che esse siano entrate nella terra promessa (vv 4-12); inoltre, esso fornisce delle prescrizioni dettagliate circa la carne da mangiare in zone lontane dal luogo di culto (vv 15-16.20-21), il divieto di consumare le primizie, le decime e le offerte volontarie nelle città (vv 17-19), per un’attenzione al levita (v 19b), il divieto di cibarsi del sangue (vv 22-25). Il cap 26, nel contesto dell’offerta delle primizie nell’unico luogo di culto scelto dal Signore (vv 1-2), presenta una confessione di fede (vv 5-11) e, di seguito, per ciò che concerne la presentazione della decima (v 12), una preghiera di esecrazione al positivo (vv 13-15), dove l’israelita, riconoscendo la giustezza delle sue azioni, in obbedienza al comandamento del Signore, invoca su di sé la benedizione, allontanando in tal modo il castigo previsto per chi non osserva la legge sulla decima. Probabilmente, il comandamento di cancellare la memoria di Amaleq è posto in parallelo ai vv 5-10 dello stesso cap 25, dove si decreta la legge del levirato, un istituto atto a serbare la memoria dell’israelita morto senza prole mediante il matrimonio di suo fratello con la sua vedova, assicurando così una discendenza. Di contro, ‘Amaleq, nemico di Israele, non deve aver memoria: i suoi figli devono essere cancellati4. La durezza dell’ordine che comanda ad Israele di sterminare ‘Amaleq è motivata dall’attacco mosso dallo stesso ‘Amaleq verso Israele senza il rispetto dei canoni delle battaglie: ‘Amaleq attacca Israele quando esce dall’Egitto, mentre è stanco, assalendo i membri Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna, 199110. 3 G. Papola, Deuteronomio. Introduzione, traduzione, commento, Cinisello Balsamo 2011, 279. 4 ibid., 280.


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più deboli della retroguardia. La mancata osservanza delle regole di guerra rivela come ‘Amaleq non temi Dio. Di questa battaglia ingaggiata da ‘Amaleq contro Israele, subito dopo l’uscita dall’Egitto, narra il testo di Es 17,8-16: v. 8 wayyāb̠ō’ ‘amālēq wayyillāḥem ‘imˉyiśrā’ēl birp̠îdim v. 9 wayyō’mer mōšeh ’elˉyehōšua‘ beḥarˉlānû ’anāšîm weṣē’ hillāḥēm ba‘amālēq māḥār ’ānōk̠î niṣṣāb̠ ‘alˉrō’š haggib̠‘āh ûmaṭṭēh hā’oelōhîm beyādî v. 10 wayya‘aś yehōšua‘ ka’ašer ’āmarˉlô mōšeh le hillāḥēm ba‘amālēq û mōšeh ’aharōn weḥûr ‘ālû rō’š haggib̠‘āh v. 11 wehāyāh ka’ašer yārîm mōšeh yādô wegāb̠ar yiśrā’ēl wek̠ a’ašer͞​͞ yānîaḥ yādô wegāb̠ar ‘amālēq v. 12 wîdê mōšeh keb̠ ēdîm wayyiqḥûˉ’eb̠en wayyāśîmû taḥtāyw wayyēšeb̠ ‘āleyhā we’aharōn weḥûr tāmek̠ û beyādāyw mizzeh ’eḥād ûmizzeh ’eḥād wayehî yādāyw ’oemûnāh ‘adˉbō’ haššāmeš v. 13 wayyaḥalōš yehōšua‘ ’etˉ‘amālēq we’etˉ’ammô lep̠ îˉḥāreb̠ v. 14 wayyō’mer yehwāh ’elˉmōšeh ketōb̠ zō’t zikkārôn bassēp̠er weśîm be’oznê yehōšua‘ kîˉmāḥōh ’emḥeh ’etˉzēk̠er ‘amālēq mittaḥat haššāmāyim v. 15 wayyib̠en mōšeh mizbbēaḥ wayyiqrā’ šemô yehwāh nissî v. 16 wayyō’mer kîˉyād ‘alˉkēs yāh milḥāmāh layhwāh ba‘amālēq middōr dōr

“Allora Amaleq venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amaleq. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amaleq, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amaleq. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amaleq e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora


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il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amaleq sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare, lo chiamò «Il Signore è il mio vessillo» e disse: «Una mano s’è levata sul trono del Signore: vi sarà guerra del Signore contro Amaleq di generazione in generazione!»”.

Il testo segue alla protesta di Massa e Meriba, dove il popolo lamenta la mancanza d’acqua, dubitando della presenza di YHWH in mezzo ad esso (vv 1-7). ‘Amaleq scende a battaglia contro Israele senza una ragione. Le mani alzate5 di Mosè durante la battaglia tra l’esercito d’Israele, capeggiato da Giosuè, e quello di ‘Amaleq, non rilevano una preghiera di intercessione, indicando invece la presenza di Dio che combatte insieme al suo popolo. La climax narrativa6, infatti, rivela come il protagonista del brano non sia tanto Israele, quanto YHWH, contro il quale si scaglia la furia bellica, ingiustificata, di ‘Amaleq. Le parole che il Signore ordina a Mosè di scrivere in un libro7 lo testimoniano chiaramente: “vi sarà guerra del Signore contro Amaleq di generazione in generazione”. L’assunto, fissato per iscritto, costituisce un memoriale (zikkāron): Israele dovrà celebrare di generazione in generazione la cancellazione assoluta della memoria di Amaleq (maḥoh ’emeḥeh et-zeker ‘Amaleq: v. 14). 1. L’ interpretazione ebraica tra simbolo e realtà 1.1. ‘Amaleq quale simbolo Il comandamento duplice, in Dt 25,19, di cancellare la memoria di ‘Amaleq e di ricordare tale oblio insieme a ciò che ‘Amaleq Vd. H. W. Propp, Exodus 1-18. A new Translation with Introduction and Commentary, New York 1999, 618; M. Priotto, Esodo. Nuova versione, introduzione e commento, Milano 2014, 326. 6 M. Priotto, Esodo, cit., 324. 7 Ibid., 327-328. 5


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ha inflitto a Israele, ciò che è un ordine espresso di YHWH, essendo Egli il bersaglio unico della guerra che ‘Amaleq muove ad Israele, ha cercato, nell’ermeneutica ebraica, la giustificazione della sua durezza. Alcune correnti hanno preferito interpretare il testo in chiave simbolica: lo Zohar vede nello scontro tra Israele ed ‘Amaleq la lotta tra bene e male, o meglio l’eterna battaglia tra le sefirot di Dio e le forze impure esterne che tendono a rompere la loro integrità e perfezione (Zohar 3,205-207)8. Le mani alzate di Mosè indicherebbero, per l’appunto, questa guerra celeste ed eterna. Da notare come, nell’interpretazione simbolica, ‘Amaleq sia astratto dalla sua definizione storica, differentemente da Israele, il quale, rappresentando il bene, rimane sempre tale: l’identità di ‘Amaleq può variare nel tempo, mentre la sua concretezza storica e la sua determinazione in un luogo e in un tempo esatto della storia biblica risulta irrilevante9. In tal senso, durante la seconda guerra mondiale, nota Mendel Piekerz nel suo Ḥasidut Polin bein Shtei Milḥamot ha-Olam, Mosad Bialik, Jerusalem 1990, 327, ebrei sionisti ed ebrei ultra-ortodossi antisionisti identificarono entrambi ‘Amaleq con l’Olocausto e con l’antisemitismo, interpretati come il riflesso storico della lotta celeste tra bene e male. Allo stesso modo, sono giudicati appartenenti alla stirpe di ‘Amaleq quanti tra le nazioni odiano Israele costituitosi come stato, come scrive Y. Arieli10. L’interpretazione simbolica di ‘Amaleq sviluppata da Arieli, in realtà, denuncia un’ideologia di fondo: la trasposizione sull’attuale momento storico della lotta eterna in cielo tra bene e male si esplica in un processo argomentativo, redatto secondo uno stile immaginifico, teso a distinguere l’identità 8 Seguiamo qui e di seguto A. Sagi, The Punishment of Amalek in Jewish Tradition: Coping with the Moral Problem, in HTR 87/3 (1994) 323-346: 330-331 che cita lo Zohar secondo l’edizione e la traduzione in inglese di H. Sperling – M. Simon (curr.), The Zohar, 5 vols, London 1949. 9 l.c. 10 Y. Arieli, Midrash Ariel al ha-Torah, vol. 2, Jerusalem, 1992, 322-323, in A. Sagi, The Punishment, cit., 332, nota 28.


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di Israele da quella delle altre nazioni, difendendola da eventuali attacchi di quest’ultime. Il comandamento di Dio si giustifica, pertanto, come la volontà di preservare la purità di Israele dall’impurità delle nazioni, sia che essi scendano in guerra in armi contro di esso sia che lo osteggino nelle sue espressioni, tra le quali qui è sottolineata quella politica. Altre posizioni, citate da Sagi, come quella di R. Hirsch11 e M. Amiel12, pur conservando l’orizzonte simbolico della guerra tra Israele ed ‘Amaleq, riflettono in altro modo sull’asprezza del comandamento di Dio, che è la questione in atto su cui si ragiona. Hirsch contrappone al potere della spada, che appartiene ad ‘Amaleq (ma anche alla generazione del Diluvio, ad Esaù, a Nimrod), la forza di Israele, il quale trionfa su di esso mediante l’instaurazione della giustizia. La spada, secondo il commento di Hirsch, si identifica, per i figli di ‘Amaleq, con il dominio ed il potere, i quali non sono ritenuti strumenti della giustizia. Ma la giustizia, di contro, è ciò che permette di governare: potere e dominio sono i suoi strumenti, mentre essa non è loro serva. La giustizia è espressione storica della voce di Dio, cioè del comandamento, che Israele accoglie. Il comandamento, a parere di Sagi, a sua volta si definisce come l’ordinare da parte di Dio ciò che è intrinsecamente morale di per sé (o al negativo: il proibire da parte di Dio ciò che è intrinsecamente malvagio di per sé), seguendo in questo il dilemma posto da Platone nell’Eutifrone 9e: “il santo, proprio perché è santo, è amato dagli dei, oppure è santo perché è amato da essi?”. Attraverso l’osservanza del comandamento di Dio, espresso dal “non dimenticare”, che permette lo sviluppo e l’instaurazione di una società giusta, Israele cancella senza l’uso delle armi nella storia, in ogni luogo ed in ogni tempo, il ricordo di ‘Amaleq ed i suoi figli, i quali tendono, di contro, ad imporre in ogni luogo e in ogni tempo il regime della spada e della violenza. Hirsch, e con lui M. Amiel, interpretano il comandamento di cancellare la memoria di ‘Amaleq per quel che esso letteralmente intende affermare: la cancellazione della memoria, non di ‘Amaleq S. R. Hirsch, Be-Ma‘agalei Shanah: Pirkei Iyun midei Ḥodesh beḤodsho,vol. 2, Bnei Barak 1966, 190 12 M. Amiel, Derashot el Ami, vol. 3, Tel Aviv 1964, 132. 11


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in quanto popolo concreto, il che significa impedire che la cultura di ‘Amaleq risorga nella storia13. 1.2. ‘Amaleq quale popolo L’esegesi ebraica, che si attiene alla lettera del testo, ricerca i motivi che hanno determinato la durezza dell’ordine di cancellare la memoria di ‘Amaleq senza dimenticare l’oblio e l’azione malvagia di ‘Amaleq nei confronti di Israele. Nel suo Commento alla Torah, proprio in riferimento a Dt 25,17, Yitzḥak Abrabanel riconduce l’asprezza dell’ordine di Dio al fatto che ‘Amaleq attaccò Israele senza una previa dichiarazione di guerra e - altro campo di imputazione lo colpì nelle frange più deboli della sua retroguardia. Naḥmanide14 rileva come la distruzione di ‘Amaleq sia da ricondurre al suo non temere Dio, a differenza degli altri popoli, quali Edomiti, Moabiti e Filistei, i quali tremarono di paura, udendo le grandi meraviglie compiute dal Signore per il suo popolo al momento dell’uscita dall’Egitto. ‘Amaleq rappresenta, a parere di Naḥmanide, un attentato alla fede in Dio: questo rimane l’unico motivo atto a giustificare la cancellazione della sua memoria. In tal senso, la guerra di ‘Amaleq rappresenta una dura prova per Israele, tentato di difendersi con le armi per salvaguardare se stesso. Ma se la cancellazione di ‘Amaleq non è mossa unicamente dalla consapevolezza che ‘Amaleq rappresenti un pericolo per la fede in Dio, essa può configurarsi come un atto moralmente deprecabile. 2. C ritica

della simbolizzazione

La critica della simbolizzazione di ‘Amaleq quale nemico di Israele, che può apparire in ogni tempo e in ogni luogo della storia umana e che si è rivelato in modo drammatico e grandioso durante Ibid.,143. Naḥmanides, Commentary on the Torah [trad. ingl. A cura di C. B. Chavel], New York 1973: è il commento a Es 17,16. 13 14


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la Seconda Guerra Mondiale, perpetrando il crimine della Shoah, si sviluppa all’interno di una nuova comprensione di quest’ultima, sempre più scevra dal trauma della vittima, rintracciabile tra i sopravvissuti e i discendenti più vicini a loro, che vuole addossare sull’Occidente il senso di colpa per quanto commesso o per il silenzio indifferente. La società israeliana non si percepisce, oggi, come il resto della Shoah; allo stesso modo, la difesa di Israele quale Stato non fonda più le sue argomentazioni sul ricordo dello sterminio di sei milioni di ebrei o su di una resistenza ad un attuale, nuovo antisemitismo, almeno in un sentire collettivo sempre più diffuso, anche se non esteso. Scrive D. Hartman: “Israele non è solo una risposta al moderno antisemitismo; esso è soprattutto un’espressione moderna dell’eterna alleanza del Sinai che ha modellato la coscienza ebraica attraverso i millenni. Non è stato solo l’Olocausto che ci ha riportati a Sion, ma anche, e più importante, lo spirito eterno del Sinai – il rifiuto di abbandonare le mostre memorie e il nostro destino storico. Non è necessario visitare Yad Vashem per capire il nostro amore per Gerusalemme. È pericoloso per la nostra crescita come popolo sano se i memoriali dell’Olocausto sostituiscono il messaggio vivente della Torah”15. Hartman si pone pertanto in contrasto con la teologia di Ben Gurion, secondo il quale la Torah di Dio e la storia biblica in genere vanno compiute nel senso di una loro attuazione storica. Ben Gurion insiste sul ritorno alla Terra da parte degli ebrei sparsi nel mondo, rifiuta la cultura diasporica e ritiene il bet midrash solamente un’espressione simbolica. Il pensiero teologico di Hartman sottolinea, di contro, la preminenza della parshanut, dell’interpretazione, che caratterizza lo status di Israele quale popolo che studia16. L’interpretazione ha permesso ad Israele di rendere attuale e viva la parola eterna della Torah, donata da Dio ad Israele sul Sinai attraverso Mosè; allo stesso modo essa rende possibile, entro la costituzione dello Stato di Israele, quella che Hartman definisce una ongoing D. Hartman, Sub specie humanitatis. Elogio della diversità religiosa, Reggio Emilia 2004, 180-181 16 R. Fontana, La guerra della Torah. Democrazia, giudaismo, idolatria, Milano 2008, 47-64. 15


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conversation17 tra il Sinai e la modernità, nella difficile ricerca di un dialogo tra democrazia ed halakhah. In questa prospettiva ‘Amaleq non può essere assurto a simbolo di un male metafisico o di una pulsione negativa racchiusa nel cuore dell’uomo (yetzer-ha-ra’). Esso va collocato all’interno della tradizione interpretativa delle mizwot: è il Sinai che decide dello statuto di ‘Amaleq e della moralità dell’ordine di Dio circa la cancellazione del suo ricordo, allo stesso modo in cui “Auschwitz, come ogni sofferenza ebraica del passato, deve essere assorbito e compreso entro il quadro di riferimento normativo del Sinai” medesimo18. 3. ‘A maleq

nell ’ halakhah

Il trattato talmudico b.Yoma 22b così interpreta l’espressione bannāhal, che ricorre in 1Sm 15,5, lì dove si narra di come Saul tese un’imboscata ad ‘Amaleq per eliminalo, obbedendo così all’ordine di Dio rivoltogli per bocca del profeta Samuele: “«Ed egli tese un’imboscata presso il corso d’acqua (bannāhal)»”. R. Mani dice: «A causa di ciò che accade presso ‘il corso d’acqua’ (bannāhal)». Quando il Santo, Benedetto Egli sia, ordina a Saul: «Ora va e colpisci ‘Amaleq», egli risponde: ‘Se per una persona sola la Torah prescrive: «Compirai il rito della giovenca, alla quale si spezza la nuca», tanto più per tutte queste persone! E se gli esseri umani peccano, che c’entra il bestiame con loro? E se gli adulti peccano, che colpa ne hanno i bambini?’. Uscì una voce dal cielo e disse: «Non essere saggio oltre misura». E quando Saul ordinò a Doeg: «Accostati tu e colpisci i sacerdoti», uscì una voce dal cielo e disse: «Non essere stolto oltre misura». I primi versetti del cap 15 di 1Sm narrano dell’ordine di Dio impartito a Saul di attaccare ‘Amaleq e votarlo allo sterminio: Saul eseguirà solo la prima parte di quanto gli viene comandato, decretando in tal modo la sua fine come re scelto dal Signore. Il v 5 racconta di come Saul attacchi ‘Amaleq “presso un corso d’acqua”. R. 17 18

ibid., 81. D. Hartman, Sub specie humanitatis, cit., 184.


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Mani da quest’espressione risale al cap 21 del libro del Dt, dove essa è ugualmente attestata: si racconta del caso in cui un uomo sia rinvenuto morto per uccisione in campagna, ad una certa distanza della città, e del suo omicidio sia sconosciuto l’autore. In tal caso, la legge prevede che si conduca una giovenca presso il corso del fiume vicino al luogo del rinvenimento del cadavere e che le si spezzi il collo. I sacerdoti poi compiranno su di essa un rito espiatorio teso ad allontanare l’ira ed il castigo del Signore. Nell’interpretazione di R. Mani, Saul, rispondendo a Dio che gli ordina di attaccare ‘Amaleq, nota come, per un ragionamento a fortiori, il rito della giovenca, valido per un uomo solo, possa valere molto di più per più persone. Il testo sembra riferire il rito della giovenca anche ai figli di ‘Amaleq. Saul, inoltre, giudica immorale che per il peccato degli uomini siano uccisi gli animali; allo stesso modo non gli sembra confacente alla moralità che i bambini muoiano per i peccati degli adulti. Ma la voce dal cielo lo invita a non essere giusto oltre misura, citando Qo 7,16, e ricordandogli che quando egli darà ordine a Doeg l’Idumeo di uccidere i sacerdoti di Nob (1Sm 22,6-23: v 18) si mostrerà, sempre secondo le parole di Qo 7,17, stolto oltre misura. Il testo di b. Yoma 22b sembra, pertanto, affermare la moralità del comando divino di sterminare ‘Amaleq, nonostante il ragionamento di Saul circa l’estensione dell’efficacia del rito della giovenca ai figli di ‘Amaleq appaia poco chiaro in riferimento all’istituto del ḥerem. Quest’ultimo prevede, infatti, l’uccisione del popolo nemico per intero, compresi bambini e bestiame, anche se essi non sono colpevoli dei crimini degli uomini adulti. L’innocenza di bestiame e di bambini, che Saul denuncia a Dio, depone a suo sfavore: egli, che si mostra giusto al di là dell’ordine di Dio in questa circostanza, non si farà scrupolo di far uccidere i sacerdoti del Signore a Nob, dimostrandosi in quel caso stolto oltre misura. La sua moralità non ha parametri di riferimento uguali per ogni evento. Saul sembra più lasciarsi condurre dall’emozione. E la voce dal cielo lo rimprovera, decretando, allo stesso tempo, lo sterminio per ‘Amaleq. In 2Sm 1 è narrato come Davide, dopo la strage degli Amaleciti, venga a sapere della morte di Saul e Gionata in battaglia proprio dal figlio di un amalecita (v 13). La Mekhiltah de- Rabbi Yshmael 2,160-161, citata da A. Sagi, interpreta l’ordine dato da Davide ai


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suoi di uccidere il messaggero amalecita come motivato dal ricordo di Davide dell’insegnamento di Mosè, secondo cui Israele può accogliere coloro che desiderano convertirsi, eccetto i figli di ‘Amaleq. Rabbi Eleazar di Modi’im, attraverso un racconto, pone in bocca a Dio il giudizio secondo il quale i figli di ‘Amaleq debbono essere sterminati perché non si possa più udire l’espressione: “Questo cammello (come qualunque altro bene) appartiene ad un figlio di ‘Amaleq”. Fra i tre obblighi che sono imposti ad Israele dopo la conquista della terra promessa vi è quello di sterminare ‘Amaleq, secondo il testo di b.Sanh. 20b: “Tre comandamenti sono stati dati a Israele quando entrò nella Terra: nominare un re, sterminare ‘Amaleq, edificare la casa della scelta”. Maimonide19 giudica impossibile compiere l’ordine di Dio di sterminare ‘Amaleq: egli inserisce quest’ultimo nella lista delle sette nazioni contro le quali Israele si trova a combattere nel suo ingresso nella terra promessa ed alle quali deve offrire una proposta di pace prima di muovere guerra (Dt 7,1; 20,10-18), forzando in tal modo non soltanto l’interpretazione rabbinica, ma gli stessi testi biblici, a parere di alcuni commentatori. Gli studi di Bornstein tendono a dimostrare come Mamonide avrebbe giudicato l’ordine di cancellare la memoria di ‘Amaleq ristretto ad un determinato periodo della storia di Israele. Sempre secondo l’interpretazione che Bornstein fornisce del pensiero di Maimonide, l’ordine è stato eseguito non come una vendetta, ma per prevenire eventuali comportamenti futuri simili a quelli di ‘Amaleq. Infatti, poiché la Torah impedisce di punire i figli per le colpe dei padri, e poiché, interpretando alcune affermazioni rabbiniche, Bornstein perviene alla conclusione che questa norma non debba essere applicata soltanto ad Israele, ma anche alle nazioni, lo stesso Bornstein conclude che, a parere di Maimonide, ‘Amaleq venne cancellato per le colpe dei suoi padri, in quanto essi educarono i loro figli alla loro stessa pervicacia nel conservare la loro identità e cultura, rifiutando di accettare le norme noachidi come pure di paIl pensiero di Maimonide e la sua interpretazione da parte di A. Bornstein sono ben illustrati da A. Sagi, The Punishment, cit., 340-344, alla lettura delle cui pagine si rimanda. 19


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gare il tributo ad Israele, divenendone servo. Se i figli di ‘Amaleq fossero stati educati diversamente, cioè ad accettare le condizioni ora descritte, la loro memoria non sarebbe stata cancellata. Bornstein fonda le sue asserzioni sulla composizione halakhika, presente in b.Ber 7a, di due passaggi biblici apparentemente discordanti tra loro: 2Cr 25,4, secondo cui “Ma non uccise i loro figli, perché sta scritto nel libro della legge di Mosè il comando del Signore: «I padri non moriranno per i figli, né i figli per i padri, ma ognuno morirà per il suo peccato» ed Es 34,7, dove è detto: “(YHWH) che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». I rabbini risolvono la contraddizione dichiarando che “il versetto in Esodo si riferisce a quei figli che si comportano allo stesso modo dei loro padri, mentre il versetto di 2Cr si riferisce a quei figli che non si comportano allo stesso modo dei loro padri”. Se questa è l’interpretazione di Bornstein del pensiero maimonideo, lo stesso Maimonide conclude affermando come, in realtà, il comandamento della Torah sia ispirato ai suoi principi di compassione, di grazia e di pace con i quali intende illuminare il mondo. La cancellazione della memoria di ‘Amaleq è giudicata alla stessa stregua della punizione che una comunità infligge ad un suo membro malvagio, per far sì che l’intero popolo non si corrompa seguendo la sua malvagità. La punizione è inflitta al malvagio con l’intenzione di cancellare l’espressione precipua della sua malvagità. In tal senso, ‘Amaleq venne ucciso di spada perché esso era avvezzo ad usare la spada: la punizione risponde ad una sorta di misura per misura. Se ‘Amaleq non avesse usato la spada, ma fosse ricorso ad altre azioni, quale ad es., ipotizzando, la maledizione, la cancellazione della memoria di ‘Amaleq sarebbe consistita, quale punizione, in una sua maledizione, non in un’uccisione. Maimonide, in tal modo, difende la moralità dell’ordine di Dio in Dt 25,19, che rientra così fra i 613 precetti che il pio ebreo è tenuto ad osservare20. A. Sagi, The Punishment, cit., 344 cita Maimonide, Laws concerning the Sabbath, 2,3 (trans.) e dello stesso The Guide of the Perplexed, 2 vols (trans. S. 20


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e discepoli

Il Kelì Jakar21 interpreta il luogo nel quale ‘Amaleq venne a battaglia contro Israele, cioè Refidim, secondo il racconto di Es 17, 8-16, notando come esso abbia le stesse lettere del termine peridim, che significa “disgiunti”, “divisi”. Nella Megillat Ester, Aman, ritenuto della discendenza di ‘Amaleq, giudicherà il popolo di Israele come disperso, scisso. La dispersione di Israele, la sua divisione sono conseguenti al dubbio che Israele nutre sulla presenza di Dio in mezzo ad esso e, quindi, sulla sua identità e missione (cfr Es 17,7). A questo punto sorge ‘Amaleq, il cui valore numero, secondo la gematria ebraica, è lo stesso del termine safeq, dubbio per l’appunto. Il dubbio mina l’integrità di Dio: nel brano appaiono, infatti, nella forma tronca il suo nome come anche la menzione del suo trono. Si comprende, pertanto, il senso della durezza del comandamento di Dt 25,19, di non dimenticare di cancellare la memoria di ‘Amaleq. Rav Itzchak Hutner (1906-1980, autore del Pachad Itzchak) nota come il comandamento si compia mediante la relazione maestro – discepolo, peraltro fondamentale nella tradizione ebraica. Infatti, per combattere e sconfiggere ‘Amaleq, Mosè ordina a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek” (Es 17,9). L’interpretazione dei maestri si concentra sull’espressione “per noi”: essi ricavano da qui che Mosè ha posto sullo stesso suo livello il suo discepolo Giosuè. Ciò perché solo un rapporto di continuità e di coesione può debellare il male che è il dubbio: “Rabban Gamaliel dice: ‘Procurati un maestro, evita ciò che è dubbio e non prelevare le decime con eccessiva approssimazione” (m.Abot 1, 16). Riconoscendo Giosuè come suo pari, Mosè ha adempiuto il precetto secondo il quale un maestro deve aver caro l’onore del suo Pines), Chigago 1974, 2,566 (3,41). 21 R. Della Rocca, La risposta ad Amalek in La Rassegna Mensile di Israel, 1-2 (Terza Serie) Gennaio-Agosto 1993.; Carmelo Raspa, Fino a quanto è necessaria la relazione maestro – discepolo per la tradizione ebraica? in Itinerarium 13/30 (2005) 237-243.


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discepolo così come il discepolo tiene all’onore del suo maestro. L’onore, il Kabod, è la consapevolezza del maestro che solo un discepolo potrà fecondare e perpetuare il suo insegnamento: questo sconfigge il dubbio. Roberto della Rocca interpreta in questa direzione la “pietra” posta sotto le braccia di Mosè: scompone il termine ’eb̠ en in ’āb̠ (padre) e bēn (figlio), spiegando come solo la fecondità dell’insegnamento possa sconfiggere ‘Amaleq. Quando un maestro trasmette ai suoi discepoli la memoria dell’halakhah e questi la ricevono in una fedeltà creativa, allora il ricordo di ‘Amaleq si cancella, paradossalmente attraverso la memoria costante del comandamento che intima il suo oblio. La relazione maestro-discepolo si vive, inoltre, in una catena di tradizioni che dal Sinai giunge all’oggi e all’interno di tutta la comunità di Israele, il quale si configura come popolo che studia. Per questo motivo, Rabbi Hillel22, interrogato su una norma circa l’immolazione a Pasqua, non ricordando più ciò che i suoi maestri, Shemajah e Avtalion, avevano insegnato in merito, può affermare: “Questa halakhah l’ho udita, ma l’ho dimenticata! Comunque lasciate fare a Israele: se non sono profeti, sono figli di profeti!” (j.Pesaḥim 6,1; 33a).

Autorevole maestro della fine del I sec. a. C. Insieme a Shammaj costituisce l’ultima delle cosiddette cinque coppie, in ordine: 1. Josè ben Jo’ezer di Zeredà e Josè ben Jiochanan 2. Jehoshua ben Perachjà e Nittaj l’Arbelita 3. Jehudà ben Tabbaj e Shimon ben Shetach 4. Shemajah e Avtalion 5. Hillel e Shammaj 22


Synaxis XXXIII/1 (2015) 111-127 OBLIO NECESSARIO? RIFLESSIONI E PROVOCAZIONI IN P. RICOEUR E H. BLUMENBERG GIOVANNI BASILE1

Introduzione

Era il 2 novembre 1959 quando la “stella” del quiz show americano Twenty One, il prof. Charles Van Doren, dopo aver vinto 129.000 dollari, fu convocato con l’accusa di truffa dinanzi alla House Subcommittee on Legislative Oversight; una commissione apposita istituita dal governo americano. Van Doren infatti ammise di aver ricevuto, prima di andare in onda in trasmissione, le domande che gli avrebbero posto e le relative risposte. Si scoprì per tanto che le eccezionali capacità mnemoniche mostrate dal prof. Van Doren non erano dono di natura ma frutto di un inganno ideato dalla macchina dello show-business. Infatti, che ci piaccia o meno, e non solo televisivamente parlando, il venire a contatto con persone, o storie di persone, dalla memoria straordinaria provoca in noi una profonda ammirazione ed una certa invidia. Per noi ricordare è di fondamentale importanza. A differenza degli animali, infatti, non essendo più dotati di particolari capacità istintuali, l’unica arma che ci resta utile è proprio la memoria. Inoltre, per molti versi, noi siamo la nostra memoria. Se così non fosse non si spiegherebbe perché ci si disperi tanto quando non si ricorda qualcosa e perché ci si circondi di in1

tania

Docente invitato di filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Ca-


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numerevoli strumenti atti a farci ricordare; dal caro vecchio nodo al fazzoletto, ai post-it, alle lavagne magnetiche, ai pezzettini di carta, sino ai calendari ed alle note in cloud sui nostri diversi device (pc, tablet e telefonini). Sempre più ci sforziamo di ricordare; anche se, da qualche tempo, siamo spinti più verso l’ansia di essere ricordati. Ma è davvero così necessario ricordare tutto quello che ci accade e che ci è accaduto in passato? Se per un istante ci si fermasse a pensare alla capacità ed alla possibilità di tenere tutto a mente, come se fossimo costretti in un eterno presente, penseremmo davvero che l’arte del dimenticare, l’oblio, più che una falla presente nella nostra mente, non sia, in realtà, una grazia necessaria alla sopravvivenza della specie? (A tal proposito si pensi, per esempio, alla dimenticanza della quantificazione del dolore percepito dalle donne durante il parto!). E se l’oblio non fosse altro che una parte dell’umana memoria talmente importante da essere necessario per la funzionalità della memoria stessa, anzi memoria stessa? Partendo da queste considerazioni, e da altre che esporremo, cercheremo di porci alcune domande sul “perfetto contrario” della memoria, per l’appunto: l’oblio. Per far questo mi soffermerò, in modo particolare, sulle provocazioni avanzate dai filosofi P. Ricoeur e H. Blumenberg. Questi ci aiuteranno a comprendere che, pur discorrendo di memoria o di narrazione della storia, il valore dell’oblio non può non essere considerato che dentro i parametri del poter e saper ricordare correttamente. Per tali motivi il filo rosso che percorrerà la trama di queste pagine sarà la domanda: è necessario l’oblio?


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1. Per una introduzione alla questione: dalla memoria all’oblio «Questa conoscenza, o Re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza»2. È Platone qui che narrando della nascita della scrittura, pone essa stessa come rimedio alla dimenticanza e quindi strumento privilegiato per la sapienza. La memoria si mostra infatti fallace, ma grazie alla scrittura si potrà porvi rimedio. Posto dentro il mito che spiega la nascita della scrittura, il racconto ha come voce narrante, il maestro Socrate, mentre attori di questo dialogo sono il Faraone egizio Thamus e la divinità Theut. Il brano si apre con l’affermazione del dio Theut che abbiamo riportato ad inizio paragrafo, ma il dialogo continua con l’intervento del Faraone, il quale sottolinea il pericolo che, a suo avviso, andrebbe a porsi con la creazione della scrittura. Infatti, questo strepitoso «farmaco»3 aiuterà la memoria, ma è molto probabile che accentuerà la dimenticanza (lethe in greco). Il farmaco quindi aiuta il ricordo (hypomnesis) ma non la memoria (mneme). Dentro queste problematiche si nasconde il dilemma dell’interpretare la memoria come una capacità ben definita e distinta dal ricordo. Per tale motivo è bene chiedersi se memoria e ricordo camminino di pari passo o se l’una (la memoria) ha ceduto il passo all’altro (il Platone, Fedro, LIX 274b-275c, in Opere Complete, voll. 3, Roma-Bari 19763, 282-283 3 E’ bene a questo punto ricordare che il termine greco pharmakon significa anche veleno. In questo contesto, Platone stesso tende ad evidenziare il duplice effetto del pharmakon della Scrittura. 2


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ricordo), declassando la capacità stessa della memoria a pura “tecnica” del ricordo. Effettivamente quando ci si trova innanzi a persone capaci di ricordare non ci riferiamo mai alla qualità del ricordare, ma rievochiamo la memoria. La domanda quindi sarebbe: cos’è la memoria, se non possiamo propriamente identificarla con il ricordo? Se percorriamo l’asse della riflessione filosofica attorno al tema della memoria, seguendo i pensatori che si sono succeduti dall’antichità alla modernità, incontriamo almeno tre livelli di comprensione del termine memoria: la memoria come capacità di tenere traccia, la memoria come facoltà propria e la memoria come trattenimento della differenza4. Questi “livelli” della memoria, nonostante la chiara possibilità di distinguerli, non possono essere identificati come processi separati e a se stanti. Un livello infatti richiama l’altro e necessita d’essere letto in continuità e sinergia con gli altri atti della memoria. Prendiamo ad esempio la riflessione del pensatore cristiano Agostino di Ippona. La memoria, per questo filosofo della tarda antichità, è pensata, e proposta, quale contenitore capace di raccogliere tracce. Egli stesso la definisce come «il ventre della mente»5. Proprio la possibilità di trattenimento che la memoria ha dei ricordi, dimostra la capacità di operare, tra i ricordi stessi, delle scelte e delle analisi atte, in ultima istanza, ad aprirsi a nuove prospettive di indagine, di ricerca; nel caso di Agostino una ricerca interiore. Proprio per tale duttilità, la memoria, è singolarmente legata alla dimensione spirituale, al punto da definire l’anima stessa come “memoria che conduce oltre il senso della memoria stessa”6. Tali riflessioni sulla memoria ci spingono a leggere, in sintesi estrema, le interpretazioni Memoria, in Enciclopedia filosofica, vol. 11, Gallarate 2010, 7232-7246. Sant’Agostino, Le Confessioni, trad.it di C. Vitali, Milano 2000, 469; «nimirum ergo memoria quesi venter est animi». 6 id., 475 «Grande è il potere della memoria: un non so che di terrificante, o mio Dio; un complesso profondo e infinito: e tutto ciò è lo spirito, e tutto ciò sono io.». 4 5


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classiche sulla stessa come qualità eternamente oscillante tra la comprensione della realtà e la spinta verso una ulteriorità. Questa pista interpretativa sulla memoria ci apre ad una riflessione attenta sull’oblio. Indiscutibilmente infatti il ricordo e la memoria rappresentano una parte essenziale del riconoscersi come “essere uomini”. Sta di fatto che dentro le stesse pieghe della qualità mnemonica è presente l’oblio. Per tali motivi ci chiederemo nei seguenti paragrafi: serve a qualcosa l’oblio? Pensiamo di sì. Ma per una riflessione attenta sul tema entreremo in dialogo con due pensatori della filosofia contemporanea: P. Ricoeur e H. Blumenberg. La scelta è ricaduta su questi due pensatori semplicisticamente per il fatto che entrambi, trattando di memoria e oblio, hanno cercato di confinare le riflessioni su entrambe le qualità, dentro il recinto delle considerazioni sul concetto di uomo come essere eternamente oscillante tra realtà ed ulteriorità. Di questi autori rileggeremo Ricordare, dimenticare, perdonare7 e Uscite dalla caverna8. Attraverso le loro riflessioni e provocazioni proveremo a comprendere meglio come il concetto di oblio possa rivestire una certa importanza per la riflessione attuale sulla memoria e sull’uomo. Quel che intendiamo fare con questa indagine, dopo aver evidenziato i tratti salienti del concetto di oblio attraversati da Ricoeur e Blumenberg, è lasciare una traccia per guardare al concetto stesso di oblio attraverso nuovi paradigmi d’analisi. P. Ricoeur, Das Rätsel der Vergangeheit. Erinner –Vergessen- Verzeihen, Göttingen, 1998, trad. it. di N. Salomon Ricordare, dimenticare, perdonare, Bologna 2012 8 H. Blumenberg, Höhlenausgänge, Frankfurt am Main 1989, trad it. M. Doni, Uscite dalla caverna, a cura di G. Leghissa, Milano 2009. 7


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2. L’Oblio: per una antropologia dell’“homme capable ” di una giusta memoria

Iniziamo il nostro percorso attraversando le considerazione proposte da P. Ricoeur9. La riflessione ricoeuriana si aprirà alle problematiche dell’oblio dentro il quadro di quella che comunemente viene definita dagli studiosi la sua “ultima riflessione”. Tale momento riflessivo finale, concentrandosi in modo particolare sui concetti di memoria e storia, avrà come retroterra di questa ricerca la tematica di storia e verità. Per il Nostro infatti esse si incontrano per dare vita ad una «ermeneutica della condizione umana che è temporale e storica, intessuta di memoria e di oblio, dove non casualmente riaffiorano i temi della colpa, del giusto e, infine, di una difficile, persino improbabile, eppure possibile riconciliazione nel perdono»10. La triade memoria, perdono e oblio, più volte approfondita ed analizzata dal Ricoeur, si avvia ad una spinta di indagine rileggendo il senso ed il valore terminologico di storia. Attraversando il suo significato, Ricoeur, riattualizza il duplice senso del termine latino di storia. Questa infatti è intesa come da una parte come res gestae e dall’altra quale historia rerum gestarum. Si comprende per tali ragioni come l’uomo per un verso faccia la storia ma allo stesso tempo è la storia; essendo un essere storico. Questo quadro essenzialmente mira a ricondurre l’uomo sulla via della piena comprensione di sé, come un essere capax del mondo in quanto capace di essere nel mondo. In forza di tali considerazioni il termine oblio si incastra perfettamente quale ago della bilancia interpretativa delle dinamiche dell’agire umano; dinamiche che eternamente pendono tra l’interpretazione della storia e la costruzione della storia stessa. Partendo da tali argomentazioni si chiarifica inoltre che quando comunemente parliamo Paul Ricoeur, nato a Valence il 27 febbraio 1913, muore a Parigi il 20 maggio 2005. 10 D. Jervolino, Introduzione a Ricoeur, Brescia 2003 81-82 9


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d’oblio pensiamo ad esso quale nemico della memoria; anzi la memoria stessa è la medicina necessaria a combattere l’oblio. Ricoeur evidenzia però come una memoria incapace di dimenticare non sarebbe altro che una macabra minaccia alla capacità umana nell’interpretare i fatti storici. Per tali motivi il filosofo francese, per venire fuori da questo empasse interpretativo, parlerà di differenti tipi di oblio, tracciando, come già fatto per il termine storia, una lettura semantica del termine. Cercheremo adesso di ripercorrere i tratti di questa indagine seguendo ancora una volta le linee tracciate dal Ricoeur. Partendo dalla chiara individuazione di più gradi di “profondità”, o di orizzonti, dell’oblio, il Nostro rintraccia due macroaree di “profondità” dell’oblio definendo la prima come oblio profondo, mentre la seconda come oblio di riserva. Agisce contro la memoria stessa al livello della conservazione del ricordo, la prima, erode la permanenza stessa del ricordo nella memoria prendendosela, come sottolinea il Nostro «[…] con ciò che le antiche metafore esprimono in termini di impronta (del sigillo nella cera, come si legge già in Platone e Aristotele)»11. L’oblio è qui chiaramente collegato alle scienze cognitive, le quali leggono i fenomeni del ricordo seguendo le tracce neuronali. Tale percorso per Ricoeur è indispensabile sino al punto da essere la conditio dell’approccio psicologico allo studio della memoria e dell’oblio. Proprio dentro questa prima profondità si rintraccia la seconda caratteristica dell’oblio che è quella dei “ricordi obliati”. Di tali ricordi non ne abbiamo una chiara traccia in noi, ma restano in noi ad un livello profondissimo. Questo sottosuolo dei ricordi, nonostante sia impercettibile, come l’Es freudiano, si caratterizza come «ciò che non abbiamo mai veramente appreso, e che tuttavia ci fa essere ciò che siamo: forze di vita, forze creatrici di storia, “origine”, Ursprung».12 Intaccando la memoria al livello del richiamo del 11 12

P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., 100. Id, 100-101.


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ricordo, impedisce al ricordo di riaffiorare alla mente. Caratterizzandosi però come un oblio reversibile è capace di sostanziare la nostra presenza nell’esistenza stessa attraverso la capacità della rievocazione, del richiamo dei ricordi, insomma ci permette di uscire dall’oblio stesso. Immergendosi in tali profondità dell’oblio, ed analizzando quello di riserva, il Nostro evidenzia ancora tre diverse categorie. La prima è descritta come l’oblio passivo, e si caratterizza dalla costrizione alla ripetizione. Poi segue l’oblio semi-passivo e semi-attivo, che potremmo descrivere come una specie di fuga, che ci spinge ad un “non volerne sapere”, tale da costituirsi a volte come una istanza di irresponsabilità. Infine l’oblio attivo, la cui funzione è quella di permettere una più semplice e funzionale selezione dei ricordi. Tale capacità di selezione del ricordo ci permette di capire come Ricoeur tracci un percorso articolato dentro il quale l’oblio attivo stesso diviene una memoria capax di condurre ad una vera e propria maieutica dell’anima. Divenendo capace di riconoscere le lesioni dell’uomo, l’oblio attivo, conduce ad un riconoscimento profondo delle stesse ferite che in fine vengono sanate attraversando un’ultima tappa: il perdono. L’oblio diviene così porta d’ingresso per un percorso redentivo verso una piena e riconciliata umanità. Comprendiamo adesso perché «oblio e perdono offrono, separatamente e congiuntamente, l’orizzonte di tutta la ricerca di Ricoeur»13. Attraversando l’oblio, e connettendolo al perdono, diviene elemento funzionale e garanzia per una giusta memoria che va concretizzandosi in un passaggio verso un futuro che si prospetta, e spera, come sereno. Lavorando infatti sui fronti di memoria, oblio e perdono, il Nostro traccia, e rintraccia, un percorso essenziale per il risanamento delle ferite che ledono l’animo di quell’ homme capable di infinito il quale è proiettato, grazie anche al lavorio dell’oblio, verso un orizzonte di liberazione che si realizza quando l’uomo attraversa il perdono, portando così l’uomoriconciliato verso la felicità. 13

D. Jervolino, cit., 110.


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Attraversato il pensiero di Ricoeur, per un lavoro sull’oblio, è bene rileggere, a mio avviso, le provocazioni proposte dal filosofo tedesco H. Blumenberg in modo da avere, alla fine, un quadro sulla portata e sul valore dell’oblio quale qualità utile per la riflessione sull’uomo. 3. Una

antropologia dall’oblio.

Una

provocazione in

Hans Blu-

menberg

Divenuto egli stesso, negli ultimi anni della sua vita, metafora dell’oblio14, H. Blumenberg15, filosofo tedesco dalla personalità sfuggente, pur non occupandosi in modo esplicito dell’oblio, ha tracciato nei suoi innumerevoli, e lunghi, scritti sulla metafora e sulla mitologia16, diverse e profonde provocazioni sul senso del termine oblio e del suo valore. Ripercorrendo Ricoeur abbiamo compreso come l’oblio si dimostri essenzialmente come una qualità funzionale. Infatti attraverso le sue funzioni (o profondità) attiva nuove e ritrovate letture della storia, (personale e collettiva) così che essa successivamente possa aprirsi ad una via di “declinabilità” al perdono. In H. Blumenberg assistiamo invece ad una rilettura del senso dell’oblio quale metafora e strumento per la possibilità di nuove narrazioni sulla realtà (quella mondana) che, mostrandosi a noi ostile, non può essere compresa, o perdonata, ma necessita d’essere esorcizzata. Strumenti adatti a tale «Blumenberg ist zwar lesbar, nicht aber sichtbar», in Mito, metafora, modernità, a cura di A. Borsari, Bologna, 1999, 9. 15 Nasce a Lubecca il 13 luglio del 1920 e muore ad Altenberge il 28 marzo 1996. 16 Si veda: H. Blumenberg, Arbeit am mythos, 1979, trad.it di B. Argenton, Elaborazione del mito, Bologna 1991; Id., Nachdenklichkeit, in «Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung. Jahrbuch», 1980, 57-61, trad. it. di L. Ritter Santini, Pensosità, Reggio Emilia 1981; Id., Höhlenausgänge, cit. 14


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funzione liberatoria sono il mito e le sue narrazioni17. L’uomo ricoeuriano, capace del mondo svanisce e si fa avanti l’uomo blumenberghiano, impossibilitato a vivere nel mondo eppure capace di narrarlo. Tali narrazioni mitiche pur, dimostrandosi a primo impatto come un oblio logico-pratico, divengono, per Blumenberg, lo strumento capace di attivare, proprio per le peculiari logiche linguistiche e narrative, la “distanza di sicurezza” tra la nostra storia (di in-capaci), il modo di comprenderla ed il mondo stesso. Proprio tale distanza crea una sicurezza che rende possibile le narrazioni di fatti inenarrabili e apre l’uomo verso la possibilità di produrre sempre nuove domande, invece di sforzarsi di cercare nuove, e spera definitive, risposte18. Questo è, in sintesi, il nucleo centrale dell’interpretazione del mito in Blumenberg. Proprio da tali considerazioni partiremo per trattare della questione oblio. Faccio mie le considerazioni di M. Cometa19 il quale scriveva, in un contributo ad un bellissimo volume in onore di Blumenberg, quale fosse il cuore della definizione di mito per il Nostro filosofo tedesco: «cioè l’idea che il mito sia prima di tutto una sublime forma di oblio, nel senso pieno della Vergessenheit, oblio delle origini dunque, o più esattamente, del peso, dell’assolutezza delle origini e della realtà, e al limite, della verità stessa» 20. Concordando in pieno con Cometa, mi permetto qui di aggiungere una riflessione sulle “mitologie dell’oblio” in Blumenberg rileggendo un testo che manca all’analisi di Cometa. Il testo in que17 Per ulteriori indagini sulla funzione del mito in H. Blumenberg rinvio a H. Blumenberg, Arbeit am mythos,cit. Oppure per una sintesi si veda il mio G. Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo, Milano – Udine 2013, 63-76. 18 H. Blumenberg, Arbeit am mythos, cit, 247. 19 Michele Cometa è attualmente Ordinario di Letterature comparate e Cultura visuale presso l’Università degli Studi di Palermo. (Fonte: www.michelecometa.it 10/06/2015) 20 M. Cometa, Mitologie dell’oblio. Hans Blumenberg e il dibattito sul mito, in Mito, metafora, modernità, a cura di A. Borsari, cit., 141-165: 157.


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stione è Uscite dalla Caverna21. Questo volume molto articolato, come quasi tutti i testi di Blumenberg, amplifica il senso dell’analisi di Cometa ed evidenzia maggiormente quanto da lui già indicato attorno al binomio “mito - oblio”. Iniziamo dalla rilettura proposta da Blumenberg del mito della caverna22; quale migliore inizio per un percorso sull’oblio! Il nodo della questione per Blumenberg, va rintracciato a partire dall’episodio della derisione23 alla quale viene sottoposto il povero schiavo che, libero dalle catene, torna nella caverna per spiegare ai suoi amici che la verità tanto pensata, ha una diversa forma. La sorte di “deriso” gli tocca certamente in virtù della visio rinnovata dalla luce della verità incontrata fuori dalla caverna. La domanda che Blumenberg si pone è: perché i compagni della caverna, divenuti fratelli per il tempo e la condizione trascorsa, alle parole dello schiavo illuminato, non sono naturalmente spinti ad uscire fuori e godere della verità appena narratagli? Perché sorridere invece d’applaudire alle realtà narrate? Una prima e semplicistica riflessione ci porterebbe a pensare che i fratelli di caverna non si fidino dei racconti del compagno. Infatti, quale garanzia avrebbero nei riguardi di quel resoconto? Ma se per un attimo riflettessimo sul senso delle risa, ci renderemmo chiaramente conto, che non è la fiducia nel compagno che qui viene derisa, ma invece è il contenuto narrato che apre all’ilarità. Descritta adesso attraverso la luce del sole, la verità, si dimostra meno appetibile per gli abitanti della caverna che proprio in quel buio, hanno saputo trovare efficaci narrazioni. Il mito della caverna, per Blumenberg, ci svela l’inadeguatezza del “vero” mondo rispetto al “falso” mondo nella caverna. Il perno del discorso è: cosa H. Blumenberg, Höhlenausgänge, cit. Platone, Repubblica, 514 a-517 a, in Opere, vol. II, Bari 1967, 339-342. 23 Blumenberg dedicherà un volume intero sulla metafora della risata nel suo Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschicthe der Theorie, Frankfurt am Main, 1987, trad. it. di B. Argenton, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, Bologna, 1988. 21 22


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c’è dentro la caverna tale da rendere insufficienti i racconti dello schiavo liberato? Prima di rispondere il Nostro, analizza il valore positivo che le caverne hanno ricoperto per l’uomo preistorico. Leggiamo infatti che: «[…] l’uomo non è stato tratto alla luce dalle profondità della terra, dalle sue caverne, come pensavano i greci. Piuttosto le caverne erano il suo rifugio, un riparo che aveva imparato a cercare e ad abitare, dopo che gradatamente gli venne meno la foresta primordiale, che all’inizio era il suo vero luogo protetto […]»24. Proprio la caverna ha permesso dei lussi che nella pienezza dell’assolutismo della foresta non poteva assolutamente concedere all’uomo primitivo. Potrebbe sembrare di poco conto, ma la struttura della caverna, configurandosi con un’ unica entrata ed uscita, abbassava la soglia di vigilanza, poiché il pericolo, qualora ci fosse stato, avrebbe avuto una sola porta d’entrata. La sicurezza dalle intemperie, prodotta dal tetto e dalle mura della caverna, fece conoscere all’uomo primitivo un nuovo modo di dormire: il sonno profondo25. La caverna viene man mano delineandosi come il luogo adatto alla creazione di un ambiente che oggi definiremmo come familiare, cioè capace di produrre un clima atto alla cura degli abitanti della stessa. Andandosi così a spostare l’attenzione, dal generale (la savana) al particolare (la caverna) si assiste ad una concentrazione attenta e puntuale del pensiero, che adesso, acquistando la sicurezza, si concede il lusso del pensare e dell’immaginare. Non possiamo infatti dimenticare che proprio nelle caverne ritroviamo le pitture rupestri, le quali esprimono il primordiale modo di rappresentare il mondo ed il divino. Nelle caverne nasceva la fantasia e si moltiplicavano i racconti, «chi è escluso dall’esercizio della caccia, diventa sognatore, narratore, buffone, maestro di immagini e pagliacciate, per riempire i tempi morti della fame, i tempi oscuri della malattia e della vecchia24 25

H. Blumenberg, Höhlenausgänge, cit, 18 Id., 19


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ia, della perdita di capacità, che di per sé sarebbero inconsolabili, a partire dal dolore per il consenso perduto nell’orda. Ecco la risorsa: finzione e compensazione provengono dalla stessa sorgente»26. L’artificialità che si guadagna attraverso la perdita nelle viscere della caverna, non è sinonimo di falsità, ma di adeguatezza. Il piacere delle ombre e della poca luce che si introduce nella caverna, luogo sinonimo e metafora del nascondimento, e quindi dell’oblio, si articola nella produzione di infinite narrazioni del mondo e dell’uomo. Proprio nell’oblio viene a delinearsi un percorso antropologico che, attraverso la perdita parziale della luce, si dimostra più utile della luce stessa. La pienezza delle “idee” godute dallo schiavo che ritorna, e che adesso narra, non distoglie i compagni dalla realtà27 che pienamente li soddisfa. La parete proiettante le ombre si svela come la tela adatta alla conoscenza. Lo schiavo liberato, divenuto narratore, si svela incapace di insegnare qualcosa proprio perché appare totalmente insoddisfacente il contenuto descritto. L’oblio della caverna rende ciechi alle meraviglie narrate, ma proprio questa distanza visiva dalla realtà, permette agli abitanti, pur accontentandosi, di sopravvivere in mancanza di una alternativa che li soddisfi28. Ma se da una parte viene a perdersi il senso della visione, nella caverna assistiamo al trionfo dell’udito. Proprio il sentire, rispetto al vedere, attiva, per Blumenberg, un lavoro teoretico non indifferente, che troL. c., 23 Anche se considerata falsa, sempre di una realtà si tratta. 28 «Chi è sempre stato circondato dalle cure della caverna, si opporrà all’eventualità di essere svalutato e mediatizzato nei confronti del “mondo esterno”. Quindi la “cultura” è un arricchimento del mondo interno alla caverna e una validazione comparativa del suo esterno che appare anticipato nei riti e nelle immagini; dall’altra ogni mutamento delle condizioni esterne, ogni prestazione interna che non abbia un “contraccolpo” di conferma, inficia come mero succedaneo questo mondo proprio [Eigenwelt]. Per i suoi occupanti, la caverna è allestita secondo la finalità di tutti i contatti esterni, ma basta che uno faccia un salto fuori e subito porta con sé il rischio della svalutazione; a meno che non torni – al contrario del modello socratico – con un’offerta “migliore”» (L. c., 114). 26 27


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va il suo sfogo nel linguaggio mitico, l’unico capace di narrare quel che non si vede, poiché privo di ogni pretesa di coincidenza al vero. Narrare un mondo, più che descrivere un mondo, è quello che si è andato a guadagnare perdendosi dentro le caverne. Una narrazione che, pur priva di molte verità, permette, in virtù di questa leggerezza narrativa, una infinità di racconti senza pretesa. L’essere usciti dalla caverna, e dall’oblio fisico o narrativo, omai è chiaro, non ha comportato nessun miglioramento, per Blumenberg. Non godendo più della distanza, e quindi dell’oblio, siamo rimasti nudi, indifesi, di fronte ad un mondo esterno, che si mostra quasi sempre ostile a causa della sua difficile conoscibilità. Blumenberg non pretende che si ritorni in massa dentro le caverne (ormai l’entrata è stata sigillata!), ma dimostra come la distanza e il nascondimento favoriscano, in parte, nuove possibilità antropologiche. L’obliarsi dell’uomo nelle caverne, guadagnandosi una distanza, apre l’uomo stesso ad uno sforzo concettuale di rielaborazione della propria situazione come uomo posto in un mondo per molti versi difficile da vivere e da capire. Certamente il discorso di Blumenberg sembra chiaro, ma c’è una domanda ancora da porci: restando dentro la caverna c’è un progresso per l’uomo? Alla domanda rispondiamo che probabilmente c’è uno sviluppo antropologico. Ma ciò che è importante per l’uomo, ossia la sua sopravvivenza, è senza dubbio garantita. La caverna e l’oblio tutelano il diritto primario dell’uomo, che è il suo poter vivere. Per chiarire meglio la questione che solleva Blumenberg proviamo a fare un esperimento mentale. Immaginiamoci di avere innanzi a noi due pillole, una che amplifica la capacità di ricordare ma ci accorcia la vita e l’altra che ci cancella la memoria ma ci allunga la vita. D’impulso si sceglierà per la sopravvivenza, mettendo da parte la possibilità di tenere a mente quante più cose. Ecco perché, nell’itinerario tracciato da Blumenberg, la sopravvivenza della specie supera la possibilità stessa del dovere e poter conoscere il tutto che ci circonda.


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«Blumenberg preferisce “pensare alternativo, preferisce spiegare il mondo come un itinerario per prendere distanza da esso, per esorcizzarlo, per dimenticarlo […] Di contro all’ “assolutismo della realtà senza senso”, bisogna riattivare la forza della “distanza”, invece che celebrare i fasti della razionalità occidentale, riconoscere la “plausibilità” di quello che Blumenberg con felice espressione in una della sue raccolte di saggi più importanti, Le realtà in cui viviamo (Wiklichkeiten in denen wir leben), definisce il “principium rationis insufficientis”, l’assioma cioè di ogni retorica, il “correlato antropologico di un essere cui manca l’essenziale” e che per questo non può permettersi che strategie conoscitive parziali, non irrazionali tout-court, ma solamente “non regolate” […]. Il mito ci abitua a vivere in un mondo del “pressappoco” che però è l’unica realtà che ci è data […]»29. Il pressappoco svelatoci tra le pieghe delle ombre, e dell’oblio, ci costituisce come umani, certamente carenti, ma almeno esistenti in quanto capaci di produrre innumerevoli macchinazioni per interpretare, dentro la penombra, la luce che sta, intangibile, sopra di noi. Non lasciare la caverna diventa così un imperativo per il mantenimento della stabilità antropologica entro i suoi limiti propri, ovvero quelli della carenza. Una ultima considerazione sull’oblio, sempre partendo dal testo Uscite dalla caverna, ci viene offerta in merito al concetto stesso dell’anamnesis, del ricordo. Blumenberg evidenzia come nel mito della caverna non si faccia menzione alcuna della teoria del ricordo, e della maieutica, esposte nel libro del Menone. Gli schiavi rimasti in trappola nella caverna, non godono del privilegio del ricordo. Dentro la caverna regna sovrana ogni forma di oblio, anche quella del ricordo30. Soltanto ad alcuni viene concessa la possibilità di uscire, M. Cometa, Mitologie dell’oblio, cit., 145. Blumenberg sottolinea come questa dimenticanza della reminiscenza sia da attribuirsi ad una questione tipicamente politica presente nei due trattati. «Lo schiavo di Menone non è ateniese, è dunque un barbaro che solo grazie all’am29 30


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comprendere e ricordare, agli altri, non ovviamente eletti a filosofi, restano le ombre e la caverna. Comprendiamo però che da tutto il discorso tracciato nel pensiero blumenberghiano sulle caverne, e sul senso dell’oblio, restare incatenati più che una perdita è invece un prezioso guadagno31. L’oblio diviene necessario per l’emersione di un nuovo modo di teorizzare su di sé e sul mondo stesso. Blumenberg ci pone innanzi a realtà antiche ma ritrovando in esse il piacere tipico del filosofare, ovvero il pensare. La distanza, l’oblio e la dimenticanza si pongono come correlati in grado di disporre l’uomo ad elaborazioni nuove e sempre rinnovabili, in quanto quella penombra le rende plausibili. 4. Per una sintesi conclusiva Il percorso appena tracciato aveva il compito di riproporre alcune riflessioni attorno al tema dell’oblio per dare risposta ad una domanda: è necessario l’oblio? Per far questo abbiamo attraversato alcune tematiche classiche su la memoria per poi rileggere alcune riflessioni di P. Ricoeur e H. Blumenberg. Possiamo trarre delle prime conclusioni scrivendo che, almeno ad una lettura minima, l’oblio si biente è divenuto pratico della lingua greca. Proprio questo è il punto cruciale dell’esperimento di Socrate: chiunque in generale possiede la dote dell’anamnesis […]. Il dialogo politico, invece, tende all’esatto opposto: le differenze tra gli uomini in quanto a doti e attitudini nelle funzioni e nei servizi dello Stato. La filosofia non è affatto cosa di tutti, a tal punto che ha bisogno dello spiegamento di tutte le arti per individuare e formare i pochi che possano seguire la sua via. Il mito della caverna dimentica l’anamnesis, perché farebbe perdere legittimità alla sovranità dei filosofi nella polis.» (H. Blumenberg, Höhlenausgänge, cit., 239). 31 «Chi è in grado di vivere nella teoria, non si accontenterà dello spettacolo. Ma nella caverna di Platone, quel che avvince i prigionieri e li trattiene non è nemmeno il piacere, perché la quintessenza dell’interesse è l’agon. Per suo tramite, le ombre diventano semplici strumenti di una competizione che determina il posto nel mondo dei prigionieri, promuove il prestigio e getta nel ridicolo.» Id., 550.


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dimostra, viste le premesse degli autori, come necessario. In sintesi possiamo riassumere che l’oblio, come la memoria, è qualità funzionale all’uomo per orientarsi verso scelte di carattere antropologico. Oltre questa funzionalità possiamo ritrovare, nel concetto stesso, una capacità che potremmo definire “strumentale”, ossia atta a costruire, grazie all’oblio, non solo una fuoriuscita dai concetti di uomo ma anche una entrata negli stessi. Uscita e ritorno dall’oblio diventano movimenti capaci di attuare nell’uomo un moto di produttività riflessiva sui concetti di uomo. L’oblio così posto non si connota come antagonista alla memoria, ma strumento originario dell’agire e pensare umano sull’umano. Inoltre, si presenta in noi come rivelatore della pluridimensionalità di cui sembra essere costituito l’uomo; un essere capace di pensieri alti (al punto da perdersi oltre il cielo) e profondi (tali da far perdere le proprie tracce). Nel contesto del Convegno32 nel quale si incastra questa riflessione, abbiamo cercato di fare emergere in poche righe l’utilità, e l’utilizzo, di quello che chiamiamo oblio. Il Nostro intento era esclusivamente mostrare l’oblio quale possibile punto di passaggio tra i concetti di memoria e perdono, facendo emergere lo stesso quale strumento centrale, e non periferico, per una riflessione antropologica.

Convegno di Studi su: Memoria – oblio - perdono, Studio Teologico S. Paolo - Dipartimento di Scienze della formazione di Catania; http://www.disfor. unict.it/Pagina/It/Dipartimento/Eventi_Dipartimento/0/2015/4/24/6021_.aspx 32



Synaxis XXXIII/1 (2015) 129-139 LA FUNZIONE EDUCATIVA DEL PERDONO ANGELA CATALFAMO1 Il concetto di perdono rientra prevalentemente nel discorso religioso, in particolare, nella tradizione cristiana, esso è strettamente legato alla remissione dei peccati che Dio Misericordioso accorda a chi ha errato, offeso o trasgredito con comportamenti che contrastano la legge divina. Ma, dobbiamo precisare, che il perdono cristiano non si circoscrive al rapporto con Dio, ma si estende e chiede al cristiano di perdonare a sua volta il prossimo che lo ha aggredito, che gli ha inflitto un danno, materiale o morale, ricadendo così nella vita sociale. I tratti precipui del perdono cristiano non si limitano alla vita religiosa, dal momento che la nostra cultura e le nostre società, nel tempo, hanno recepito ed elaborato la lezione del cristianesimo sul rispetto e sulla centralità della persona. Ragion per cui i risvolti politici, filosofici, sociali, educativi e giuridici, che per ultimi tutti li sintetizza e rispecchia, non sono estranei o insensibili alla pratica del perdono: ora assumendo tratti di convergenza, o di dissonanza, molto spesso di contraddittorietà e/o di ambiguità riferite all’azione del perdonare. E’ complesso cogliere e distinguere e collegare le dimensioni varie e contrastanti che emergono attorno all’atto del perdonare nei diversi contesti in cui esso si assume. Infatti, nei diversi ambiti (politico, filosofico, sociale, educativo, giuridico, anche religioso) il perdono si confronta/scontra con dimensioni infinite, che, di volta in volta, sono: il concetto di giustizia, Docente associato di Didattica e Pedagogia speciale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania 1


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di uguaglianza; i sentimenti di carità, di speranza; l’individuazione dei soggetti che devono perdonare o ricevere perdono, individuo o collettività; la razionalità e la possibilità di ulteriorità da accordare alla persona; e, ancora, le categorie della temporalizzazione, dell’imprescrittibile o dell’ im-possibile/imperdonabile che suggerisce J. Derrida2 Quanto sin qui delineato introduce abbastanza nelle difficoltà che l’analisi di codesto concetto comporta e saremmo tentati di affrontare tale analisi, ma essa richiede uno spazio e un tempo di trattazione molto estesi, ci limiteremo, pertanto, ad assumere la dimensione religiosa, quale matrice del perdono, onde pervenire al focus del presente contributo, che è l’evidenziazione della funzione educativa del perdono, con il richiamo al contesto giuridico che include aspetti educativi, politici e sociali. Ci sembra opportuno partire dalla semantica del perdono, che in un certo qual modo, offre punti di confluenza e vie interpretabili. La parola perdono deriva dal latino, nella combinazione della preposizione per, che indica per mezzo, e donum, che significa regalo, concessione, grazia, che sta per atto di liberalità, di gratuità3. La composizione della parola latina lascia intendere che il perdono è una concessione, un’offerta di qualcosa in vista di altro, ovvero è mezzo attraverso il quale si vuole raggiungere qualcosa. Il significato etimologico, pertanto, suggerisce che il per-dono, a differenza del dono, presuppone un atto che persegue un fine, e in ragione di ciò può essere subordinato a determinate condizioni. Nel contesto cristiano, infatti, “… la misericordia di Dio non è gratuita concessione di perdono. E’ la risposta d’amore di Dio ad un atto umano che dev’ essere atto d’amore. Ma è giusto questo Dio 2

2004

Cfr. J. Derrida, Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, Milano

Si noti che in latino il termine perdono esiste nella dizione di venia, con una propensione all’oggetto del chiedere scusa e non comprende il perdono dei peccati che viene espresso nei peccata remittere. 3


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che antepone l’amore alla giustizia, che sacrifica, anzi, la giustizia alla carità?”4. Anche il perdono cristiano si scontra con il concetto di giustizia, ribaltando una fredda giustizia, un fare parti uguali, integrando all’atto di giustizia quello della carità, nella misura in cui “…è la carità stessa a significare un atto di giustizia, essa interviene per il pentimento, segue la contrizione, che è la condanna che il peccatore fa dei suoi peccati. E’ giustizia che si risolve in amore, dunque”5. Riconoscere le proprie colpe, rinnegare i propri peccati, conduce il cristiano alla riconciliazione con Dio, alla sua salvezza e ad un atteggiamento fraterno verso il prossimo da perdonare. Come indica Sant’Ambrogio: “...se vuoi meritare il perdono, cancella le tue colpe con le lacrime: in quel momento Cristo ti guarda. Se incappi in qualche colpa, egli testimone presente di tutta la tua vita segreta, ti guarda per ricordarti l’errore e spingerti a confessarlo”6. Quindi il perdono di Dio è condizionato, è subordinato all’atto di umiltà, al riconoscimento dell’errore, alla confessione, ma attesta l’amore e la fiducia e la speranza di Dio nei confronti della redenzione dell’uomo. Questa attestazione di Dio non si conclude nel rapporto del singolo con la sua redimibilità/salvezza, ma si propaga, diremmo, in una dimensione socio-educativa, nella misura in cui ogni uomo che riceve, che ha la possibilità di ricevere, il perdono di Dio lo deve, a sua volta, testimoniare agli altri perdonando. Come sottolinea G. Vico, nel perdono “…la buona volontà non è sufficiente: occorre fede profonda, “intelligenza del cuore, amore per la sequela indicata dal Cristo”7, ovvero per ciò che Cristo ci ha insegnato. Il perdono, come evento che emerge dal profondo della spiritualità dell’uomo, non cancella i fatti ma ne ridisegna il senso G. Catalfamo, Stralci di pedagogia vissuta, Messina 1983, p.69 Ibidem 6 Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, 10,89, in Conferenza Episcopale Italiana, La verità vi farà liberi, Città del Vaticano 1995 7 G.Vico, Emergenza educativa e oblio del perdono, Milano 2009, p.108 4 5


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per il futuro e per il presente, nella speranza di iniziare un nuovo cammino8. Interpretare il presente e ridisegnare il futuro implicano un processo, le condizioni poste dal perdono cristiano sono condizioni che inducono alla riflessione sugli errori e alla progettazione di una svolta nuova verso la ricerca di verità, verso il tentativo inesauribile di ricerca dei valori della bontà, della pacificazione, del rispetto di se stessi e dell’alterità, della solidarietà. Abbiamo sin qui tentato, in forma davvero sintetica, di delineare i punti forti che caratterizzano il perdono cristiano, rilevando anche la funzione educativa che esso assume, non solo finalizzata all’altra vita, in cui il rapporto con Dio si andrà a definire intimamente con ogni anima, ma soprattutto la funzione educativa che esso può esercitare nella vita terrena, incidendo e migliorando i rapporti tra gli uomini. Emergono le seguenti fondamentali componenti del percorso del perdono cristiano: pentimento, ammissione/confessione dell’errore, giustizia che integra amore e carità, riconciliazione e salvezza, fiducia e speranza, ricerca di verità e di valori, rinuncia alla rivalsa e cura dell’altro. Questi elementi possono costituire gli ingredienti che sostanziano il progetto educativo, adattato e calato nelle determinazioni storiche e sociali in cui esso viene proposto? Saremmo tentati, infatti, di assumere gli elementi cristiani del perdono come valori universali, poiché essi di fatto vivono imperituri, attraverso secoli di storia dell’umanità, nella proposizione e nel continuo tentativo di attuazione del messaggio di Cristo. Viene spontaneo, a questo punto, interrogarci sulle possibili correlazioni, sulle possibili recezioni, sulle specifiche percorribilità di un progetto educativo che tenga in serio conto la possibilità del perdono quale mezzo, anche qui, per raggiungere qualcosa, che non può che essere il farsi della persona, destinatario dell’educazione (bambino, adolescente, adulto) in direzione del suo divenire sempre più umano, della sua crescita umana. Stabilita in questi termini la fi8

Cfr. Ibidem


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nalità educativa, l’immediata domanda da porsi è quale ruolo, quale funzione può avere il perdono nel progetto educativo? Anche l’educazione degli uomini e per gli uomini, come il messaggio cristiano, si confronta necessariamente con la natura dell’uomo, buona o cattiva, angelica o demoniaca, con le circostanze della vita, favorevoli o avverse, con i vissuti inscritti nei limiti sociali e storici che ogni soggetto attraversa, in quelle congerie e instabili dimensioni a cui accennavamo in apertura di discorso, che pur intessono le trame di vita individuali e che tutti insieme, in una strana, a volte perversa, alchimia possono interagire/intercettare la disponibilità/accoglienza dei soggetti ad educarsi al bene, al buono o, al contrario, risolversi in una sfavorevole combinazione di elementi che spingono a socializzarsi alle frequentazioni più deleterie e seduttive, che possono esporre ai disvalori, al male, alla prevaricazione, alla rivalsa, alla negazione del perdono. Quello appena descritto è lo scenario precario ed imprevedibile entro il quale l’educazione si propone, si concretizza, e che caratterizza i contesti operativi ai quali la scienza e la pratica pedagogica sono estremamente sensibili e dai quali ricevono inevitabili orientamenti e con cui si confrontano, si scontrano e nei quali non sempre riscuotono consensi, anzi, molto spesso subiscono resistenze. “L’educazione consiste in un processo unitario di trasmissione e di promozione: di trasmissione dei beni di cultura e di promozione della capacità di incrementare i beni culturali e di accrescere di significati l’idea dei valori – ed entrambe queste direzioni-…interagiscono fra di esse e si sostengono vicendevolmente”9 determinando così le intenzionalità educative. Ma l’educazione è in egual misura pratica, attualizzazione di intenzionalità, e può confliggere, come spesso, di fatto, avviene, con quello scenario a cui accennavamo, ora buono e ricco di valori, ora malefico o perverso che, per G. Catalfamo, Fondamenti di una pedagogia della speranza, Brescia 1986, p. 81 9


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vari ordini di motivi, di vicissitudini, può avviluppare il soggetto da educare. Ne discende che l’educazione “ora deve assecondare la natura dell’uomo, ora deve contrastarla10, che non tutto può essere promosso, ma in determinate circostanze è bene reprimere, frenare, dominare, controllare, arrestare le condotte e gli atteggiamenti che nel soggetto attestano volontà /propensione verso il male o anche solo il rischio del male, in termini di trasgressione dell’ordine sociale, del rispetto verso gli altri, di danno verso se stessi e/o verso gli altri. In questi casi l’educazione deve prevenire, intervenire, in sintesi, deve punire. È qui, in queste probabili situazioni dell’agire educativo che può esplodere l’attrito con il perdono: di fronte alle estreme situazioni in cui l’azione educativa deve arrestare processi devianti dal sano farsi della persona, è possibile perdonare? E’ possibile introdurre il perdono, lo si può finalizzare alla correzione, ad arrestare i processi distorti di costruzione della persona per inscriverla nell’universo dei valori? E non è, si badi bene, una questione di mezzi e fini, perché potremmo liquidare la questione con la semplice risposta: se il perdono può costituire una via, un mezzo, per reprimere, per correggere, allora, che ben venga! L’educazione non propone soluzioni, formule da applicare a garanzia del successo, ma piuttosto ne è sempre alla ricerca, è dialettica e critica al tempo stesso. Si nutre di dialetticità nella misura in cui non si ferma ai fatti ma li interpreta. E fondamentalmente i fatti sui quali si sofferma l’educazione sono persone, nel qui ed ora (bambini, adolescenti, adulti), che vanno interpretati nella loro ulteriorità, nella infinita possibilità che hanno di essere in futuro, di divenire, nelle proiezioni temporali, che implicano il presente che può segnare, bloccare, ed il futuro che può aprire orizzonti al farsi della persona, al farsi sempre più persona umana. E’ in queste proiezioni che può essere possibile attingere al perdono. E’ dimensione critica l’educazione perché sempre deve rivedere le posizioni assunte, confrontarle e calarle nei contesti reali, nelle per10

Ivi, p.82


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sone concrete, e scegliere e decidere e dipanare problemi. Scegliere il perdono, decidere di concederlo in vista di... del bene futuro della persona e se, vogliamo della sua redimibilità, della possibilità di costruirsi persona autentica. Il significato cristiano del perdono è implicito ed anche orientativo e pone interessanti paralleli. Il perdono divino esige, abbiamo detto, un atto di contrizione, una confessione rivolta a qualcuno che prende in carico il peccatore, che ascolta, che assolve e addita azioni riparatorie, in grado di rimettere chi ha errato nella giusta strada. Ciò rappresenta una sollecitazione forte alla riflessione e alla rimessa in circolo di risorse umane positive, in grado di supportare un progetto nuovo di vita e costituisce la possibilità di cambiamento offerta a chi ha sbagliato. Possiamo accostare il perdono educativo a quello cristiano con qualche precisazione. Vico suggerisce che bisogna imparare dall’amore di Dio e che il perdono dovrebbe essere un’opportunità per tutti, in considerazione del rischio educativo e dell’esercizio della responsabilità11. Il perdono in educazione, infatti, assume il significato di contemperare/riequilibrare i rischi: il rischio dell’educatore, della comunità educante, dell’educando; è un richiamo forte alla presa in carico/ responsabilità dell’educatore/i, della società; innesta un processo di cambiamento, diretto all’educando, ma anche progettuale e strategico per chi accompagna e guida l’educando e va collegato , a nostro avviso, al paradigma della cura educativa, al quale attribuiamo il significato di educazione tout court. Le emergenze educative del nostro tempo sono addebitabili ad innumerevoli fonti , che vanno dalla frammentarietà dei valori alla complessità della società, che, tra contraddizioni/ambiguità, espone i soggetti in crescita a situazioni poco rassicuranti e/o minacciose, a modelli non sempre coerenti ed esemplari; la società dominata dall’apparenza, dalle suggestioni consumistiche e narcisistiche; la


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velocizzazione esasperata dei ritmi di vita che connotano una società poco propensa all’ascolto dell’altro per mancanza di tempo o di abilità prosociali, ed altro ancora. I motivi sono molteplici e di non facile elencazione, ma tutti concorrono al disorientamento dei soggetti più fragili, dei bambini, degli adolescenti. In questo scenario poco rassicurante l’educazione, di fronte alle devianze, agli insuccessi, agli scacchi dell’educatore non può soltanto punire, ma deve poter perdonare, ri-investire energie e risorse, concedere chance, possibilità, rivolte, a mio avviso, non soltanto agli educandi, ma anche all’educatore/i, alle agenzie educative primarie, famiglia e scuola, alla società educante. La punizione, infatti, costituisce “… una stimolazione inibitoria che può sopprimere, ma solo temporaneamente e non in via definitiva la risposta…” - errata del soggetto - … una risposta punita sembra-infatti- estinguersi rapidamente mentre in realtà rimane latente… e può riapparire improvvisamente e, per di più, con una maggiore frequenza…- e - spesso (determina) determinare11 nel soggetto elaborazione di tecniche sempre più sofisticate di evitamento e di difesa” 12 L’ottica appena espressa è corroborata da una sorta di negoziazione che la società, rappresentata nell’apparato della giustizia, in modo specifico da quella diretta ai minori, per quanto concerne il presente discorso ( non sono escluse altre forme di perdono rivolte agli adulti autori di reati, concesse anch’esse in propsettiva ri-educativa e di ri-socializzazione), riconosce agli insuccessi educativi, considerando l’interesse del minore, la sua presa in carico onde additare un percorso educativo che lo affranchi dagli errori o dal rischio dell’errore e lo rimetta in condizioni di scegliere consapevolmente di cambiare e di orientare la sua vita. Gli istituti del perdono giudiziale, della sospensione del giudizio e della messa alla prova o Cfr. G. Vico, cit., p. 173 A. Michelin Salomon, L’agire educativo strategie e contesti, Vol. I: Vincoli e risorse, B.C.L. Messina 2008, p.51 11

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l’affidamento temporaneo si basano sulla disponibilità al perdono, ad essi viene affidata una funzione squisitamente educativa, in cui la società transige sul concetto di giustizia retributiva, ovvero sulla forma di rivalsa che la società dovrebbe esercitare su coloro che violano la legge. La violazione delle leggi, il fondato rischio che alcuni soggetti possano trasgredirle, suscita una legittima aspettativa nella collettività a che l’ordine sociale venga preventivamente tutelato, o se sovvertito venga ripristinato attraverso un risarcimento attuabile con la pena da scontare. Il perdono sotteso ai predetti istituti non è però totalmente gratuito, vengono vagliate alcune condizioni, inerenti alle caratteristiche personologiche del minore. Può anche non esserci un manifesto o consapevole pentimento, ma possono esserci tracce, indizi di cambiamento che vanno supportati potenziati. Le misure che riguardano il perdono esigono, pertanto, che siano “accertabili e accettabili margini di plasticità”- in cui il minore mostra- capacità /volontà di assumere punti di riferimento diversi dai propri; nel saper, voler e poter utilizzare le retroazioni (gli errori) per modificare il proprio comportamento”13 . Accenniamo, a questo punto, soltanto a come questa presa in carico, questa responsabilità nei confronti del soggetto coinvolga le scelte politiche in direzione di interventi tendenti a migliorare le condizioni materiali di vita sociale e a potenziare tutte le risorse educative14. Per ritornare alla funzione educativa del perdono, ora assunto a fondamento degli istituti giuridici richiamati e riflettenti puntualmente orientamenti sociali e politici ben precisi, conviene approfondire gli scopi, gli intenti che tali istituti propongono e condividono con quelli educativi. Il processo educativo è processo mai concluso e sempre in fieri, diciamo per tutto il corso della vita di ogni persona. Questo processo richiede continui adattamenti e cambiamenti. D. Demetrio 13 14

Ivi, p.54 Cfr. Ivi,p.52


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sottolinea come “non c’è educazione senza cambiamento e cambiamento senza educazione”15. Questa profonda struttura che sostanzia l’educazione richiama un processo metabletico nelle sue essenziali componenti: temporalità, novità, spazialità, direzionalità, reversibilità, emozionalità16. Il perdono educativo può assumere e vitalizzare, a nostro avviso, queste componenti e ben promuovere un processo di cambiamento nei soggetti. Il perdono si distende lungo un tempo, che richiede alcune circostanze, momenti di riflessione, desiderio di ricominciamento; deve rappresentare un evento nuovo, un incontro diverso precedentemente non sperimentato; deve essere collocato in uno spazio che sia significativo, non in tutti i contesti può svolgersi l’efficacia del perdono, intendiamo qui contesti umani, rapporto con persone significative; il perdono stimola una direzione, una finalità verso il cambiamento percepito come possibile, accreditato; il perdono è reversibile, torna indietro per rivedere, per riconsiderare, per riconoscere errori, per ricordare; comporta un coinvolgimento emotivo, innesta i meccanismi della memoria pervasi di emozioni anche negative, della revisione e proietta in avanti con speranza, con fiducia. Così puntualizzato il perdono, in stretto rapporto con le componenti del processo metabletico, atte a generare processi educativi fondati sul cambiamento, accompagnati e supportati da persone significative, sostenute dalla fiducia e dalla speranza nel potenziamento delle risorse dell’uomo, dalla concessione di un tempo per ravvedersi e riprogettarsi; il perdono accordato negli spazi delle aule giudiziarie, autorevoli e socialmente rappresentative, rivela tutta la funzione educativo-formativa che puo’ svolgere e la condivisione della sua struttura profonda con il perdono cristiano. D. Demetrio, Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extrascolastici, Firenze 1990, p.58 16 Ivi Cfr. Ivi pp. 59-60 15


La funzione educativa del perdono

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Non a caso, infatti, a proposito di quest’ultimo, si parla di nuovi cammini, di incontri rivelatori con Cristo, con la sua parola, di ripiegamenti e di meditazioni, di un “lasciarsi indietro “sofferenze e sbagli per affrontare percorsi nuovi e diversi, all’insegna di promesse buone e costruttive per sé e per gli altri. In sintesi, anche il perdono cristiano esprime percorsi di rinascita, o di metabletica, a cui le prospettive, socio-politiche e giuridiche, sopra richiamate, si ispirano, attestando e confermando i valori di speranza e di fiducia nell’uomo, quali direzioni e modalità possibili dell’educazione e della sua educabilità.


INDICE

PREFAZIONE

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Memoria e oblio come presupposti del perdono: una lettura psicologica, dalla psicoanalisi alle neuroscienze (Santo Di Nuovo) 1. Perché si ricorda, perché si dimentica? 2. Ma la memoria (e l’oblio) stanno solo nel cervello? 3. Perché perdonare? 4. Il perdono deve comportare necessariamente l’oblio? 5. Il perdono è utile per il benessere?

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Il Processo canonico in chiave personalista. Particolare esperienza istituzionale di memoria, oblio e perdono (Giuseppe Gurciullo) Premessa 1. Processo e Memoria 2. Processo e Oblio 3. Processo e Perdono Conclusione

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AL DI QUA O AL DI LÀ DELLA GIUSTIZIA? CONSIDERAZIONI TEOLOGICHE SUL RAPPORTO TRA MEMORIA, OBLIO E PERDONO. (Adriano Minardo) 1. La memoria, l’oblio, il perdono 2. Il paradosso dell’(im)perdonabile 3. Una teologia del perdono Conclusione

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Indice MEMORIA OPERANTE E PROCESSI FORMATIVI. PERCORSI EDUCATIVI E DIDATTICI (Maria Tomarchio) SOCIOLOGIA DELLA MEMORIA: STRUMENTO PER L’INTERPRETAZIONE DEL PASSATO, FILTRO PER LA COMPRENSIONE DEL PRESENTE (Liana M. Daher) 1. Interattività e intersoggettività della memoria nelle fonti orali 2. Il rapporto tra sociologia, storia e memoria: la centralità del testimone 3. L’influenza sul presente: un ponte tra generazioni AMALEQ: MEMORIA E OBLIO (Carmelo Raspa) Amaleq 1. L’interpretazione ebraica 1.1‘Amaleq quale simbolo 1.2. ‘Amaleq quale popolo 2. Critica della simbolizzazione 3. ‘Amaleq nell’halakhah 4. Maestri e discepoli OBLIO NECESSARIO? RIFLESSIONI E PROVOCAZIONI IN P. RICOEUR E H. BLUMENBERG (Giovanni Basile) Introduzione 1. Per una introduzione alla questione: dalla memoria all’oblio 2. L’Oblio: per una antropologia dell’“homme capable ” di una giusta memoria

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Indice 3. Una antropologia dall’oblio. Una provocazione in Hans Blumenberg 4. Per una sintesi conclusiva

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LA FUNZIONE EDUCATIVA DEL PERDONO (Angela Catalfamo)

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• S. DI NUOVO, Memoria e Oblio come presupposti del perdono: una lettura psicologica, dalla psicoanalisi alle neuroscienze • G. GURCIULLO, Il processo canonico in chiave personalista. Particolare esperienza istituzionale di memoria, oblio e perdono • A. MINARDO, Al di qua o al di là della giustizia? Considerazioni teologiche sul rapporto tra memoria, oblio e perdono • M. TOMARCHIO, Memoria operante e processi formativi. Percorsi educativi e didattici • L. M. DAHER, Sociologia della memoria: strumento per l’interpretazione del passato, filtro per la comprensione del presente • C. RASPA, Amaleq: memoria e oblio • G. BASILE, Oblio necessario? Riflessioni e provocazioni in P. Ricoeur e H. Blumenberg • A. CATALFAMO, La funzione educativa del perdono

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