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SYNAXIS

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XXXIV/1 – 2016 Sommario: • FRANCESCO ALEO, Il rapporto tra logos e philanthropìa nel protreptikòs di Clemente d’Alessandria • VITTORIO G. RIZZONE, Addenda et corrigenda a “Opus Christi edificabit. Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia Attraverso l’apporto dell’epigrafia” • DOMENICA FLAVIA FERRETO, Religiosi scienziati e strumenti scientifici nel settecento • ENRICO PISCIONE, Riflessioni sul volume “Trattato delle virtù” 2,21 mm di Jean Jánkélevitch • Recensioni

XXXIV/1 2016

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SYNAXIS XXXIV/1 – 2016

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2016


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IL RAPPORTO TRA LOGOS E PHILANTHROPÌA NEL PROTREPTIKÒS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA (Francesco Aleo) . . . . . . . . 7 Presso i greci ed i romani, la religione costituiva un complesso di credenze, di culti, di gesti e di riti, prestati alle divinità o alla divinità. Tramandata da tempo immemorabile e custodita insieme alle memorie degli antenati, non poteva essere messa in discussione, tanto meno sostituita da un’altra, tanto più se questa fosse una religione apparsa da poco tempo o religio nova, come quella testimoniata e propagandata dai cristiani nei primi secoli della loro esistenza, nel cristianesimo. Gli apologisti del II secolo avevano cercato di apprezzare e di rinvenire, nella cultura pagana, quegli aspetti e quegli elementi che a loro avviso era possibile accostare al cristianesimo oppure conciliarli con la rivelazione cristiana. Con l’Incarnazione del Logos l’eternità è entrata nel tempo, Dio è entrato nella storia facendosi uomo. Clemente porta avanti la Teologia del Logos verso importanti conseguenze future, ne approfondisce i contenuti con l’apporto originale della sua riflessione, potendosi confrontare con altri apporti e contributi teologici e filosofici di un ambiente plurale e pluralistico qual era Alessandria al suo tempo. For the Greeks and Romans, religion was a complex of beliefs, cults, gestures and rituals, performed to the gods or deities. It could not be replaced, even more so if it were a religion appeared recently or religio nova, like that witnessed and propagated by Christians in first centuries of their existence, in Christianity. The second-century apologists had tried to appreciate and find in pagan culture, those aspects and elements which they believe could pull over to Christianity or reconcile with the Christian revelation. By the Incarnation of Logos Eternity entered into time, God has made history by becoming man. Clemente continues the theology of the Logos towards important future consequences, it deepens the contents with the original


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contribution of his reflection, being able to compare with other contributions and theological and philosophical contributions of a plural and pluralistic environment which was Alexandria in his time. ADDENDA ET CORRIGENDA A “OPUS CHRISTI EDIFICABIT. STATI E FUNZIONI DEI CRISTIANI DI SICILIA ATTRAVERSO L’APPORTO DELL’EPIGRAFIA” (Vittorio G. Rizzone) . . . . . . . . 59 Questo contributo è un aggiornamento della ricerca pubblicata con il titolo “Opus Christi edificabit. Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia attraverso l’apporto dell’epigrafia (secoli IV-VI)”, nella serie “Studi e ricerche di Synaxis” (n. 26). This paper is an update of what is published in “Opus Christi edificabit. States and functions of the Christians of Sicily through the epigraphy intake (IV-VI centuries)”, in the series” Studies and research of Synaxis “(n. 26) RELIGIOSI SCIENZIATI E STRUMENTI SCIENTIFICI NEL SETTECENTO (Domenica Flavia Ferreto) . . . . . . . 85 Questo contributo presenta la figura di alcuni religiosi scienziati appartenenti a ordini religiosi che annoverano tra le loro fila un certo numero di cultori delle scienze esatte, e che custodiscono nei loro archivi storici (generalmente a Roma) un mondo culturale scientifico insospettato, un patrimonio solo in parte conosciuto e valorizzato nella ricchezza e varietà delle sue espressioni. Tanti scienziati sono stati poco noti, e altrettanti lo sono tuttora, soprattutto perché i documenti di prima mano manoscritti, inediti, appunti, disegni, certificazioni, lettere necessitano ordine e sono inaccessibili. È necessario accedere agli archivi “dimenticati”, per scoprire la figura di questi uomini nella loro composita formazione culturale; la definizione dei campi scientifici e del metodo di lavoro applicato; individuare le tematiche di fondo e le principali questioni affrontate. Questi sono autentici archivi scientifici, testimonianza originale della concreta dimensione storico-contestuale dell’attività svolta: lo studio di questa fonte primaria consente di valorizzare l’interazione della dimensione personale della ricerca nel contesto della comunità scientifica, rappresentata dai corrispondenti, italiani e stranieri. Si può vedere come attraverso i passaggi per diversi ambienti culturali si compie e si consolida la maturazione della loro personalità, nel dibattito stimolante con la comunità scientifica. This paper presents the figure of some religious scientists belonging to religious orders they preserve their historical archives (generally in Rome) an unsuspected scientific cultural world. Many scientists have been poorly understood, and many still are, especially since the primary documents manuscripts, unpublished notes, drawings, certificates, letters require order and are inaccessible. You need access to the archives “forgotten” to discover the figure of these men in their composite cultural training; the definition of scientific fields and the working method applied; identify the basic themes and major issues addressed. These are authentic scientific


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archives, the original testimony of the concrete historical and contextual dimension of the activity: the study of this primary source allows you to enhance the interaction of the personal dimension of research in the context of the scientific community, represented by the corresponding Italian and foreign. You can see how through the steps to different cultural environments is accomplished and consolidated the maturation of their personality.

Note e discussioni RIFLESSIONI SUL VOLUME “TRATTATO DELLE VIRTÙ” DI JEAN JÁNKÉLEVITCH (Enrico Piscione) . . . . . . . . 121

Recensioni .

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ALBERTO BONDOLFI – MILENA MARIANI (cur.), Dio uomini città, EDB, Bologna 2015 [pp. 147; €13,00] (M. Aliotta) FRANCESCO GIACCHETTA, Tra gli altri. “Chiesa in uscita”. Appunti teologici di un fedele laico, Cittadella Editrice, Assisi 2015 [pp. 151; €13,50] (M. Aliotta) ELENA BOSETTI – NELLO DELL’AGLI, L’altra metà della Chiesa. Per la reciprocità donna-uomo nella Pastorale, Cittadella Editrice, Assisi 2015 [pp. 201; €14,80] (M. Aliotta) NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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IL RAPPORTO TRA LOGOS E PHILANTHROPÌA NEL PROTREPTIKÒS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA

FRANCESCO ALEO1

PREMESSA Presso i greci ed i romani, la religione costituiva un complesso di credenze, di culti, di gesti e di riti, prestati alle divinità o alla divinità. Tramandata da tempo immemorabile e custodita insieme alle memorie degli antenati, non poteva essere messa in discussione, tanto meno sostituita da un’altra, tanto più se questa fosse una religione apparsa da poco tempo o religio nova, come quella testimoniata e propagandata dai cristiani nei primi secoli della loro esistenza, nel cristianesimo. La religione greco-romana, nota anche come pagana, era politeista ed animista; attraverso la mitologia essa si dotava della forma del racconto o mythos, con cui le potenze o le forze della natura e tutte le cose inanimate del cosmo prendevano vita2. Era nel mito che l’ansia religiosa dell’uomo antico con la personificazione di certe divinità, trovava la sua espressione, trovandovi pur sempre una risposta agli interrogativi dell’esistenza. Oggi, gli studiosi più avveduti propendono per concepire la religione e la religiosità greco-romana ed ellenistica di età imperiale come un processo dinamico e ne cercano di cogliere il movimento interno, i processi di trasformazione, la

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Docente stabile di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. P. STOCKMEIER, Fede e religione nella Chiesa primitiva, Brescia 1976, 26-34.


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Francesco Aleo

complessa interazione dei fenomeni religiosi che si producevano all’interno di un impero multietnico, multiculturale e multireligioso come quello romano3. L’opera di predicazione dei primi missionari cristiani, in verità, incontrava un ambiente religiosamente sviluppato, nel quale gli studi moderni hanno troppo spesso ravvisato un concetto negativo di paganesimo. Il termine «paganesimo» nasce e si diffonde nella tarda antichità, per designare la religione dei pagi o delle campagne, contrapposta a quella cristiana, ormai presente e diffusa nelle civitates o nelle poleis dell’Impero romano, divenuto nel IV secolo d.C. ufficialmente “cristiano”4. Con tale denominazione si caratterizza in maniera inadeguata il complesso fenomeno della religione e della religiosità antiche, sia quanto all’aspetto esterno sia quanto alla spiritualità. Si deve accogliere, pertanto, con qualche riserva la tesi tradizionale, secondo la quale il paganesimo, al momento della comparsa del cristianesimo, fosse in declino. Cicerone (106-43 a.C.), nel De natura deorum, pone le seguenti, interessanti considerazioni, utili al nostro assunto: «Vi sono e vi furono filosofi che ritengono che gli déi non abbiano nessuna cura delle cose umane. Se la loro opinione è esatta, quale devozione (pietas) può esistere, quale rispetto per il culto (sanctitas), quale religione (religio)? Tutti questi sono tributi che dobbiamo rendere alla maestà degli déi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli déi e se vi è qualcosa che gli déi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli déi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare (cultus), onorare (honores), pregare (preces) gli déi immortali? La pietà (pietas), d’altra 3 Cfr. M. MAZZA, Tra Roma e Costantinopoli. Ellenismo, Oriente e Cristianesimo nella Tarda antichità. Saggi scelti, Catania 2009, 89; inoltre, vd. P. VEYNE, I greci hanno creduto ai loro miti?, Bologna 2005; L’Impero greco-romano. Le radici del mondo globale, Milano 2007; Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino. La conversione, l’impero, Milano 2008. 4 Mentre per i Padri greci, il termine «elleni» o «greci», il cui significato è etnico o di «proveniente dalla Grecia», divenne sinonimo di «pagani» o di «non credenti», per quelli latini è il termine gentes o «appartenenti alla stessa famiglia», a divenire sinonimo di «pagani».


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parte, come le altre virtù (virtutes), non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione (simulationis); e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la reverenza (sanctitatem) e la religione (religionem); una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento (perturbatio) della vita e una grande confusione (confusio); e sono propenso a credere che, una volta eliminata la pietà (pietate) verso gli déi, vengano soppressi anche la lealtà (fides) e i rapporti sociali (societas) del genere umano e la giustizia (iustitia), virtù per eccellenza.»5.

Le forme religiose e gli atti di cui era costituito il culto da rendere agli déi, presso i romani ma anche presso i greci, erano varie e significative e debbono essere esaminate con attenzione. Si può osservare in Cicerone la distinzione e la differenza, ritenute importanti, di pietas, sanctitas e religio. Questi termini esprimono e significano l’atteggiamento giusto e corretto da tenere verso gli déi. Agli déi si tributa cultus, honores e preces, ovvero gli déi si venerano, si onorano e si pregano. Senza pietas, sanctitas e religio anche i valori della convivenza umana, le stesse virtù e la morale vengono meno. Una forma di manifestazione tipica dell’antichità era la magìa, esercitata da astrologi ed oracoli, da figure quali il goes ed il màntis dei greci e l’augur ed il vates dei romani, con la quale l’uomo antico voleva vincere l’inesorabilità del Fato o Eimarméne e la cecità del Destino o Týche6. Anche fra i 5

CICERONE, La natura divina. Introduzione, traduzione e note di C.M. CALCANTE, Milano 1992 (Classici della BUR) con testo latino a fronte, I,2,3, 42: Sunt enim philosophi et fuerunt qui omnino nullam habere censerent rerum humanarum procurationem deos. Quorum si vera sententia est, quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio? haec enim omnia pure atque caste tribuenda deorum numini ita sunt, si animadvertuntur ab is et si est aliquid a deis inmortalibus hominum generi tributum; sin autem dei neque possunt nos iuvare nec volunt nec omnino curant nec quid agamus animadvertunt nec est quod ab is ad hominum vitam permanare possit, quid est quod ullos deis inmortalibus cultus honores preces adhibeamus? in specie autem fictae simulationis sicut reliquae virtutes item pietas inesse non potest; cum qua simul sanctitatem et religionem tolli necesse est, quibus sublatis perturbatio vitae sequitur et magna confusio; atque haut scio an pietate adversus deos sublata fides etiam et societas generis humani et una excellentissima virtus iustitia tollatur. Si consiglia la lettura di ciò che segue che è assai illuminante sulla religione e la religiosità dei romani. 6 Vd. A.D. NOCK, Conversion. The Old and the New in Religion from Alexander the Great to Augustine of Hippo, Oxford 1933; P. DE LABRIOLLE, La reaction païenne,


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pagani è attestata la fede nei miracoli, come dimostrano i numerosi ex voto, ritrovati presso il santuario di Asclepio ad Epidauro, in Grecia. I miracoli non erano compiuti soltanto dal dio o dagli déi che apparivano agli uomini in sogno oppure assumevano nei miti spesso e volentieri sembianze umane o di animali oppure la forma di fenomeni naturali o prodigiosi, per amare, ad esempio, le donne mortali, ma erano compiuti anche dagli «uomini divini» o theiòi àndres, come Apollonio di Tìana, il “Gesù dei pagani”, vissuto nel I secolo d.C. di cui ci parla la Vita redatta da Filostrato nel III secolo d.C.7. Un elemento fondamentale della religione e della religiosità antiche erano i sacri-

Paris 1934; I. CASTER, Lucien et la pensée religieuse de son temps, Paris 1937; J. BIDEZ - F. CUMONT, Les mages hellénisés, I-II vv., Paris 1938; C. BONNER, Magical Amulets, in Harvard Theological Review 39 (1946) 24-28; E.R. DODDS, Theurgy and its Relationship to Neoplatonism, in Journal of Roman Studies 37 (1947); F.H. CRAMER, Astrology in Roman Law and Politics, Philadelphia 1954; O.E. NEUGEBAUER-H.B. VAN HOESEN, Greek Horoscopes, Philadelphia 1959; M. NILSSON, Geschichte der griechischen Religion, II, München 1961; C. BONNER, Studies in Magical Amulets, Ann Arbor 1969; W. BURKERT, Go/hj. Zum Griechischen Schamanismus, in Philologus 105 (1962) 36 ss.; A. DELATTE-PH. DERCHAIN, Les intailles magiques Gréco-Egyptiennes, Paris 1964; R. MACMULLEN, Enemies of the Roman Order, Cambridge Mass. 1967; A.J. FESTUGIÈRE, Hermetisme et mystique païenne, Paris 1967; H.W. PARKE, Greek Horacles, London 1967; L. STORONI MAZZOLANI, Sul mare della vita, Milano 1969; A.D. NOCK, Essays on religion and the Ancient World, Oxford 1972; J. DE ROMILLY, Magic and Rethoric in the Ancient World, Cambridge Mass. 1975; F. GRAF, La magia nell’antichità greco-romana, Roma-Bari 1995; C. LANÇON, La vita quotidiana a Roma nel tardo Impero, Milano 1999; A. STRAMAGLIA, Res inauditae, incredulae. Storie di fantasmi nel mondo grecolatino, Bari 1999; E. WIPSZYCKA, Storia della Chiesa nella tarda antichità, Milano 2000; C.O. TOMMASI MORESCHINI (a cura di), Dio Ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, Brescia 2002; L. PADOVESE, Cercatori di Dio, Milano 2002; R. LANE FOX, Pagani e cristiani, Roma-Bari 2006; S. PRICE-P. THONEMAN, In principio fu Troia. L’Europa nel mondo antico, Roma-Bari 2012. 7 Ricordiamo, per esempio, Zeus assumente forma di aquila per rapire Ganiméde, di toro per Europa, di pioggia d’oro per Dànae e via dicendo. Per la vita di Apollonio di Tiana, vd. P. GRIMAL (ed.), Philostrate. Vie d’Apollonios de Tiane dans Romans grec et latin, Paris 1958; D. DEL CORNO (a cura di), Filostrato. Vita di Apollonio di Tiana, Milano 1978; M. RUGGERI, Apollonio di Tiana. Il Gesù pagano, Milano 2014. Su Flavio Filostrato, vd. M. MAZZA, L’intellettuale come ideologo: Flavio Filostrato e uno “speculum principis” del III secolo d.C., in P. BROWN - L. CRACCO RUGGINI - M. MAZZA, Governanti e intellettuali, popolo di Roma e popolo di Dio (I-VI sec.), Torino


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fici o le offerte di primizie del raccolto e di vittime sacrificali; i sacrifici erano pubblici per tenere buone le divinità poliàdi ed ottenere la pax deorum oppure per placare gli déi adirati. Dopo i sacrifici seguivano sempre i banchetti sacrificali, soprattutto quelli pubblici, nei quali la consumazione delle carni sacrificali esprimeva un concetto sociale e religioso estremamente importante: quello della commensalità tra mortali ed immortali, tra uomini e déi. Le carni e le viscere delle vittime sacrificali venivano ripartite fra le divinità e gli uomini, allo scopo di rinvenire e di sancire gerarchie divine e sociali, intrinsecamente legate8. Chi non partecipava ai sacrifici pubblici, come per esempio cominciarono a fare subito i cristiani nelle civitates o nelle pòleis dell’Impero romano, dove erano presenti e si diffusero sempre più, era considerato un perturbatore dell’ordine pubblico9. Il culto

1982, 82 ss.. Sull’ambiente in cui questo testo vide la luce e sulle motivazioni della sua redazione, vd. A. BALLANTI, Documenti sull’opposizione degli intellettuali a Domiziano, in Annali della Facoltà di Letteratura e Filosofia dell’Università di Napoli, IV (1954) 76-95; F. GROSSO, La «Vita di Apollonio di Tiana» come fonte storica, in Acme VII (1954) 33-532; F. LO CASCIO, La forma letteraria della «Vita di Apollonio Tianeo», Palermo 1974; D. DEL CORNO, Lo scritto di Filostrato su Apollonio Tianeo e la tradizione della narrativa, in La struttura della fabulazione antica. Pubblicazioni dell’Istituto di filologia classica e medievale, 54, Genova 1979, 65-78; A. BILLAULT, L’univers de Philostrate, Paris 2000. Sui tratti in comune con il Gesù dei Vangeli canonici ed apocrifi, vd. M.J. LAGRANGE, Les Légendes pythagoriciennes et l’Evangile, in Revue biblique 1937, 15-28; J.-L. BERNARD, Apollonius de Tyane et Jesus, Paris 1977. Sugli «uomini divini» o sull’«uomo santo», vd. P. BROWN, The Rise and the Function of the Holy Man in Late Antiquity, in The Journal of Roman Studies 61 (1971) 80-101; La società e il sacro nella tarda antichità, Torino 1988; Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Roma-Bari 1995; D. PEVARELLO, Modelli di intervento divino: La vita degli «uomini divini» nella biografia greca, in Ricerche storico bibliche XXVIII (2016) 1-2 255-286, con Bibliografia. 8 Cfr. J. SCHEID, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, Roma-Bari 2011, 230. 9 Vd. J.L. DURAND, Bêtes grecques. Propositions pour une topologie des corps à manger, in M. DETIENNE - J.P. VERNANT, La Cuisine du sacrifice en pays grecs, Paris 1979 (tr.it. La cucina del sacrificio in terra greca, Torino 1982). Secondo Durand, presso i greci il corpo della vittima sacrificale era disfatto in modo da coincidere con i limiti stessi dello spazio urbano della po/lij, spazio che si organizza intorno al corpo della vittima, realizzando una sorta di topografia urbana, animale o sacrificale.


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sacrificale e la religiosità pagana, intimamente legati l’uno all’altra, sia presso i greci che presso i romani, avevano dunque una grande importanza e non possono essere liquidati ambedue come credenze od atti superstiziosi e formalistici, vuoti di senso religioso. I romani facevano derivare la parola religio dal verbo relego che significa «rileggere», «raccogliere», «ripassare», «ritornare su», avente in sé anche il senso di prestare rigorosa attenzione ai segni divini, ai riti ed ai sacrifici, nonché alle vittime animali al momento di essere sacrificate oppure alle loro carni, durante la combustione, ed alle loro interiora, durante il rito sacrificale, compito quest’ultimo precipuo degli haruspices, detentori dell’antica ars haruspicina, di cui presso i romani erano depositari gli etruschi. Sempre Cicerone, nel De natura deorum, afferma che: «Quelli che tutti i giorni pregavano gli déi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero (superstites) a loro stessi, furono chiamati superstiziosi (superstitiosi), parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli déi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intelligere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode.»10.

Dietro i riti ed i sacrifici vi era quindi un atteggiamento spirituale, che non permette di squalificare in blocco la religione romana o tutto il culto pagano come vuoto formalismo. Se la religio dei romani, allora, 10

Cfr. CICERONE, La natura divina. Introduzione, traduzione e note di C.M. CALCANTE, II,28,72, 214: Nam qui totos dies precabantur et immolabant, ut sibi sui liberi superstites essent, superstitiosi sunt appellati, quod nomen patuit postea latius; qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent diligenter retractarent et tamquam relegerent, <i> sunt dicti religiosi ex relegendo,<tamquam > elegantes ex eligendo, [tamquam] <ex> diligendo diligentes, ex intellegendo intellegentes; his enim in verbis omnibus inest vis legendi eadem quae in religioso. Ita factum est in superstitioso et religioso alterum vitii nomen alterum laudis. Da cui si evince l’attività del relegere o del «raccogliere» come attitudine religiosa dei romani.


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esigeva una qualche attività di riflessione posta sugli atti di culto o sui riti immemorabili del mos maiorum, la religione greca, invece, non aveva una tale base razionale; per i greci, i miti spiegavano le cause dell’esistenza dei diversi culti, il cui scenario, come nel mito di Perséfone o Kore, fa vedere, anzi rende presenti, più che i racconti, gli avvenimenti del mondo degli déi11. La condotta religiosa dei greci però non è arbitraria, sbaglieremmo infatti nel giudicarla dominata da una libertà incondizionata e da un ingenuo spirito primitivo nell’assecondare gli istinti o le pulsioni dell’indole umana e le forze della natura; anch’essa si trovava situata nel pàtrios nomos o nella legge patria e nella tradizione religiosa di ogni polis. Il Nomos non abbraccia solo le norme concrete per gli adempimenti degli atti di culto, ma viene inteso come principio ordinatore del cosmo. Direttamente dal Nomos proviene così il theoùs nomìzein, il «credere negli déi» oppure l’«adorare gli déi» e l’esercizio del culto deve svilupparsi katà ta pàtria o «secondo le patrie leggi». A differenza della religiosità romana che aveva a disposizione il termine religio da cui deriva l’aggettivo religiosus, quella greca non aveva una denominazione particolare per indicare l’esperienza religiosa ed il conseguente, rispettivo atteggiamento di chi vi prendeva parte. I termini deisidamonìa, eulàbeia, eusébeia, therapéia, threskéia si riferiscono all’esperienza religiosa dell’uomo greco, ma ognuno sotto un aspetto diverso. La deisidamonìa indica il timore dovuto di fronte al divino; eulàbeia esprime riguardo, timore religioso, coscienziosità e designa la pietà in generale equivalente alla pietas dei romani; eusébeia indica l’adorazione dovuta agli 11

Citiamo per ragioni di brevità, come esempio, il mito di Perséfone o Kore. Figlia di Demétra, dea delle messi, fu rapita da Hades e trascinata nell’Ade o agli Inferi, suo regno. Per il dolore della madre, la terra, allora, non produsse più frutti; il mito spiega, così, l’alternarsi delle stagioni con l’Inverno e la Primavera. Quest’ultima coincide con il ritorno di Perséfone dall’Ade, a cui è condannata a tornare, per aver ingerito dei semi di melograno, nascosti nel cibo da Hades, obbligato da Zeus a restituire Kore a Demétra. Il Mito, in assenza di strumenti e di categorie logiche e verbali, era il modo pre-concettuale per esprimersi in materia di conoscenza della natura, vd. R. GRAVES, I miti greci, Milano 1992. Sul mito e la mitologia dei greci, vd. M. ELIADE, Il sacro e il profano, Torino 1966; L. ARCELLA – P. PISI – R. SCAGNO (edd.), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, Milano 1998; K. KERÉNYI, Miti e misteri, Torino 2010.


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déi ma anche l’atteggiamento rispettoso verso norme di vita. Il rifiuto di tale adorazione, di cui peraltro si rendevano colpevoli i cristiani, era asébeia. Il termine therapéia indica il servizio da rendere agli déi, servizio che permette all’uomo di dimostrare agli déi la venerazione loro dovuta; threskéia presenta un’etimologia incerta: abitualmente, si riferisce all’atteggiamento religioso, all’attenzione mostrata verso la divinità con l’osservanza precisa dei riti. Questo lessico religioso, così sinteticamente rappresentato, mostra una varietà di sentimenti e di maniere con cui i greci rendevano culto agli déi. Esso attesta e documenta un legame religioso con il patrios nomos, che consentì ai greci di intraprendere un esame critico e filosofico dello stesso Nomos, nel corso del quale, la divinità fu spiritualizzata, liberandola sempre più dalla sacralità degli atti di culto e degli antichi riti. Alla fine dell’età arcaica (VI - V sec. a.C.), il pensiero greco cominciò ad analizzare i miti, dandone spiegazioni razionalistiche con Senòfane di Colofone (571-565 – 475 a.C.). Alla fine di quella classica (V - IV sec. a.C.), Socrate (469 - 399 a.C.), fu condannato a morte dagli ateniesi, in quanto athéos, «senza dio», poiché non accettava i miti quindi la religione della Pòlis. Durante l’Ellenismo (III - I sec. a.C.), l’Evemerismo, che prende il suo nome da Evémero da Messana (340 - 260 a.C.), considerava gli déi come uomini superiori e benefattori dell’umanità, poi divinizzati12. Sempre presso i greci, agli atti religiosi dell’uomo appartiene la preghiera, precisamente l’euché come orazione informale e l’ýmnos come preghiera con testo preciso - il carmen dei romani - di solito cantato e poi il sacrificio o thysìa. Alla base dell’atto di culto compiuto nel sacrificio sta l’aspirazione dell’offerente ad ottenere l’aiuto divino per uno scopo determinato: l’offerta di un bene terreno, un animale od altro prodotto della natura provoca il contraccambio da parte del dio o degli déi. Il sacrificio o thysìa si compiva nelle sue diverse forme: l’aparché o offerta delle primizie; spondé o libagione; sphaghion o sacrificio d’immolazione; choé o libagione funebre. Nel culto dei greci, la spartizione del corpo della vittima sacrificale nello sphaghion o sacrificio d’immolazione si compiva in due 12

Cfr. P. WENDLAND, La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo, Brescia 1986, in particolare alle pp. 158-167.


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tempi: tagliate seguendo le articolazioni anatomiche, le parti più pregiate dell’animale erano distribuite fra il sacerdote, il re o i magistrati più importanti; il resto delle sue carni era ripartito in porzioni di peso uguale tra gli altri partecipanti, tramite estrazione a sorte. Questo fa comprendere come, accanto all’offerta, venisse progressivamente valorizzato anche l’offerente ovvero il sacerdote o il funzionario civile preposto al sacrificio, la cui funzione civile veniva integrata in quella cultuale e sacerdotale della Polis. Tuttavia, solo difficilmente avveniva o si sperimentava un legame personale tra l’individuo e la divinità poliàde; questo spiega la fortuna che incontrarono in tutto il bacino del Mediterraneo i culti orientali, in quanto essi promettevano un incontro personale con la divinità. L’impatto con le civiltà, le culture, le religioni ed i culti dell’Oriente antico, a seguito delle conquiste di Alessandro Magno, ebbe fra i suoi effetti anche quello di aprire l’anima ed il cuore dell’uomo antico e di quello greco in particolare, ad un nuovo rapporto con il divino e ad una nuova esperienza religiosa, nota presso gli studiosi come misticismo greco13. Sulla scia di Platone, va profilandosi in età ellenistica l’ideale del saggio come conoscitore della divinità, accolta come misura della vita umana e con l’intenzione di rassomigliarle. Comincia così ad aprirsi la strada una religiosità individuale, nella quale l’uomo greco si interroga sul suo posto nel cosmo e sul destino dell’anima dopo la morte. Correnti filosofiche come lo stoicismo, l’epicureismo e l’orfismo ma anche il pitagorismo - queste ultime due molto antiche - affondando le loro radici nella cultura greca arcaica - come attesta la tradizione orfica - offrivano all’uomo antico risposte nuove, più consone al suo spirito ed alla temperie culturale, spirituale e religiosa nella quale viveva, staccandolo sempre più dalla cornice e dalle sicurezze istituzionali della Polis, per avviarlo alla conoscenza dei mystéria o misteri. Si compie così nella religiosità e nella cultura greca il passaggio dal polìtes al mýstes, dal «cittadino» all’«iniziato». Già Platone parla degli orpheotelestài, i conoscitori dei misteri orfici, che peregrinando da una polis all’altra diffondevano per tutta la Grecia gli hieròi logoi o i «discorsi sacri», apportatori di salvezza. Grazie alla trasmissione delle credenze, 13

Vd. D. SABBATUCCI, Saggi sul misticismo greco, Roma 1979.


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tramite i riti iniziatici, i fedeli dei culti misterici entravano nella via della purificazione che apre all’immortalità14. I misteri consistevano in un insieme di credenze e di cerimonie religiose di carattere iniziatico ed esigevano dal mýstes il più rigoroso segreto. Nel caso dei misteri di Dioniso, si trattava di un’esperienza che non si combinava con la religione ufficiale ed istituzionale del patrios nomos. Proprie dei misteri dionisiaci sono le corse nella natura, le danze frenetiche fino al delirio sacro, con la pretesa di realizzare una identificazione con la divinità. Il culto di Dioniso si diffuse fuori della Grecia, in Tracia ed in Italia, dove fu bandito dalla Repubblica romana ad opera del Senato con il Senatus consultum de bacchanalibus del 186 a.C.15. Le Dionisiache, le Antestherie ed altre feste, insieme al culto dei sovrani che si consideravano neo-dionisi, segnano il rinnovamento dell’antico culto del dio Bacco, unendo alla celebrazione delirante della vita la ricerca dell’immortalità. I misteri eleusini sono legati invece al culto di due dée: Demétra, giunta ad Eleusi, in Grecia, per cercarvi la propria figlia Perséfone o Kore, rapita da Hades, dio degli Ínferi. L’iniziazione avveniva nel corso di un pellegrinaggio, quale cammino collettivo teso all’acquisizione di una nuova qualità da parte del singolo, conferita nel luogo sacro: qualità che significa preparazione alla sopravvivenza immortale. Il futuro mýstes partecipava dapprima ai “piccoli misteri”, celebrati in primavera, successivamente ai “grandi misteri”, celebrati in autunno. Tutto ciò comportava processione solenne, cerimonia d’iniziazione nel tempio o in un luogo sacro detto telestérion, ostensione degli oggetti sacri, gesti rituali, recitazione delle formule consacrate. È con questo rituale che il mýstes veniva iniziato al senso del destino umano; la felicità provata nei misteri lo preparava alla sopravvivenza beata, unendolo alle due dée, Demétra e Kore, rispettivamente le due dée, signore della vita e della morte. Tornando alla religio dei romani occorre dire che questa era in gran parte un affare di Stato, aveva quindi carattere pubblico; era una 14

Cfr. J. RIES, I cristiani e le religioni, Milano 2006, I, 16 ss. Cfr. M. PANI-E. TODISCO, Storia romana. Dalle origini alla tarda antichità, Roma 2012, 151. Vi si ricorda anche un’espulsione di cultori caldei e di esperti astrologi nel 139 a.C.. 15


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religione ritualistica, i cui gesti e comportamenti costruivano rappresentazioni ed enunciati sul sistema delle cose e degli esseri viventi. Tali enunciati, alla maniera degli atti performativi, potevano diventare una realtà nella coscienza di coloro che celebravano tali riti e di coloro che vi assistevano. I riti quindi avevano un tenore implicito che i romani potevano esplicitare o meno, attraverso la discussione e la riflessione16. Lo Stato assolveva al suo dovere costituendo il collegio dei sacerdoti, i quali curavano l’adempimento corretto dei riti, mentre era sempre lo Stato a provvedere al finanziamento del culto. Non si eseguiva nessun atto civile senza l’adempimento delle cerimonie prescritte; tale dimensione politica della religione romana si esprimeva, in età imperiale, soprattutto nel culto dell’imperatore che poneva un legame religioso sull’unità dell’Impero, rendendo gli imperatori romani degli uomini divinizzati ma sempre nel contesto del culto imperiale17. Nell’esercito romano si doveva offrire il sacrificio o sacrificium all’imperatore; giudei e cristiani, naturalmente, non potevano farlo. Ai giudei era concesso il privilegio di non sacrificare agli idoli e di pregare per l’imperatore. Quando lo Stato romano distinse i cristiani dai giudei, ai primi non fu concesso il privilegio dei secondi, per ragioni storicamente non ancora chiare. I cristiani che si rifiutavano di sacrificare agli déi ed alla statua dell’imperatore venivano condannati a morte18. Secondo Catone il Censore (234 – 149 a.C.) nel suo De agri cultura liber, quindi fra il III ed il II secolo a.C., in età repubblicana, il sacrificium agli déi consisteva di otto o nove fasi fisse: una preghiera (prex) agli déi - come al dio Giano che iniziava l’anno romano con il mese di Gennaio (mensis Iuanuarius) ed inaugurava la vita - o più esattamente 16 Cfr. J. SCHEID, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, 62. 186: « … il rito è una forma di pensiero.». 17 Ibidem, 185. Per Scheid, i Cesari divinizzati non erano divi ma Manes, associati alle divinità degli Inferi, al di sopra degli esseri umani e mortali, ma non propriamente déi. 18 Una buona sintesi del conflitto ideologico che divideva pagani e cristiani è offerta da M. MESLIN, Le christianisme dans l’Empire romain, Paris 1970 e da M. SIMON, La civilisation de l’antiquité et le christianisme, Paris 1972.


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una formula introduttiva ed augurale, quasi una preghiera (praefatio); l’immolazione della vittima, il cui capo veniva cosparso di farina salata (mola salsa); il suo abbattimento con una mazza rituale (mactatio) seguito dall’ispezione delle interiora (exta); il taglio delle interiora e la loro cottura; dopo un tempo morto, nuova formula augurale ed offerta delle interiora19. Quasi in modo identico, la maniera repubblicana di sacrificare si protrasse fino in età imperiale, come testimonia l’attività del collegio dei Fratelli Arvali o Fratres Arvales. In questo modo, il sacrificium diventava offerta gradita o litatio agli déi20. Nel mondo romano, sacrificare equivaleva a mangiare con partners divini, o almeno vicino a loro e questo pasto non era un semplice banchetto. Sacrificare per i romani consisteva, anzitutto - nel corso di un festino al quale gli déi erano convitati - dividere un alimento in due parti: una destinata agli immortali, l’altra ai mortali21. La spartizione delle carni sacrificali dava luogo a distinzioni tra le componenti politiche e sociali della civitas22. Si può ritenere che a Roma, in epoca storica, ogni sacrificio era seguito da una spartizione e da una distribuzione, non necessariamente da un banchetto. Il banchetto, anche se non era legato al sacrificio, purtuttavia utilizzava la terminologia e le regole 19

Cfr. CATONE, Opere di Marco Porcio Catone Censore. A cura di P. CUGUSI – M.T. SBLENDORIO CUGUSI, II, Torino 2001, De agri cultura liber, CXLIII,134, 212-215; vd. J. SCHEID, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, 135. 20 Vd. P. VEYNE, Images de divinité tenant une phiale ou patére. La libation comme «rite de passage» et non pas offrande, in Metis 8 (1991) 17-28, in particolare, a p. 25, ove afferma che il praefatio con cui si iniziava il sacrificium fosse proprio una formalità d’ingresso nella sfera del sacro, dove vivevano gli déi. Il sacrificium, in quanto «fa il sacro», è un’offerta che permette ai fedeli di penetrare nel sacro, ma è anche un atto di adorazione che mette in opposizione polare l’adorante e l’adorato. Tuttavia, come nota Veyne, differente è il senso della libagione che è invece un segno di appartenenza al sacro, permanente (per il dio) o provvisoria (per il fedele). Egli spiega in questo modo perché nei rilievi e nelle raffigurazioni dell’arte romana, gli déi recano in mano una patéra o brocca rituale. 21 Cfr. J. SCHEID, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, 160-161. 22 Ibidem, 231-233. I decurioni dei municipia e delle coloniae ricevevano una parte maggiore di carne rispetto ai membri del popolo; inoltre, nei sacrifici pubblici, i sacerdoti o i senatori, talvolta anche i cavalieri, mangiavano separati rispetto al resto della civitas. Sempre di Sheid, vd. La spartizione a Roma, in Studi storici 25 (1984) 945-956.


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della spartizione sacrificale23. La funzione statale e sociale del culto dimostra come l’interiorizzazione di una religiosità così concepita restasse in secondo piano; l’elemento determinante in questa religione così ritualistica è il gesto, l’esecuzione precisa dei riti e delle cerimonie. Il romano considerava in gran parte il suo rapporto con gli déi un commercium, applicandovi il principio del do ut des. Nel caso del culto reso agli imperatori divinizzati od a quelli viventi, la venerazione religiosa dell’imperatore, inscenata nel modo più enfatico, poteva ricordare a noi moderni l’atmosfera dei grandi raduni dei partiti di massa. Nel migliore dei casi, tali manifestazioni poterono dare un senso di stabilità politica, ma di certo contribuirono anche ad ingenerare nei partecipanti l’impressione di essere consegnati senza difesa ad un potere politico assai superiore alle loro forze ed alle loro capacità. Quella imperiale era, in verità, la religione di coloro i quali erano stati sottoposti militarmente e dello stesso esercito; priva di contenuto teologico o di una riflessione paragonabile a quella sui misteri della fede cristiana, lasciava però spazio ad altre forme cultuali24. Eppure, sarebbe errato pensare ad un vuoto formalismo fatto di riti e cerimonie; piuttosto vi si scorge un’impronta giuridica, tipicamente romana, impressa anche sulle forme religiose. Così, nel concetto di fas rientra tutto ciò che interessa il rapporto con gli déi, in primo luogo, i decreti da loro dettati agli uomini. Certe persone, edifici, luoghi, possono passare in possesso di una divinità, appunto dal profanum al fanum, indicando anticamente tutto quello che era posto fuori o dentro la sede ed il luogo sacro della divinità o fanum. Questo possesso nella lingua latina lo si esprime con i concetti di sacrum, religiosum ed anche sanctum. La consecratio quindi si rivela essenzialmente come la dedicazione alla sfera religiosa o al sacrum di un oggetto, di un animale o di una persona come quella dell’imperatore25. Tutto quanto finora detto non può ovviamente esaurire un argomento 23

Cfr. J. SCHEID, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, 237. Cfr. A. EICH, L’età dei cesari. Le legioni e l’Impero, Torino 2015, 143. 25 Vd. J. R. FEARS, Princeps a diis electus: the divine election of the Emperor as a political concept at Rome, American Academy in Rome, 1977; R. A. MARKUS, Saeculum: History and Society in St. Augustine, Cambridge 1977; I. CHIRASSI 24


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tanto complesso quale quello della religione, della religiosità e delle credenze religiose diffuse nell’antichità, in primo luogo quelle relative alla thysìa presso i greci ed al sacrificium presso i romani. Non tiene conto delle complesse mutazioni che subirono la religione grecoromana e la religiosità ellenistica di età imperiale nel periodo denominato tarda antichità, nel corso del quale ebbe luogo il passaggio dall’Impero pagano all’Impero “cristiano”, con la sostituzione ad opera degli imperatori dei culti pagani con il cristianesimo26. Per quanto riguarda il presente contributo ci soffermeremo sommaria-

COLOMBO, La religione in Grecia, Bari 1983; P. CARRARA, I Pagani di fronte al Cristianesimo. Testimonianze dei secoli I e II, Firenze 1984; D. COMPOSTA, L’ateismo nel mondo greco-romano antico, in Ateismo e Bibbia. Atti del XIII Convegno Biblico Italiano Francescano (Verona, 23-28 settembre 1985), Assisi 1988, 53-70; P. CHINI, Vita e costumi dei Romani antichi. La religione, 9, Roma 1990; R. DI DONATO, Per una antropologia storica del mondo antico, Firenze 1990; R. PENNA, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, Bologna 1991; E. R. DODDS, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze 1997; J. SCHEID, La religione a Roma, Roma-Bari 2001; Il sacrificio nel Giudaismo e nel Cristianesimo, in Annali di Storia dell’Esegesi 18 (2001), numero monografico; R.L. WILKEN, I cristiani visti dai romani, Brescia 2007; M. KAHLOS, The Importance of Being Pagan, in Cristianesimo nella Storia 31 (2009) 305-311; E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano 2011; A. OVADIAH - S. MUCZNIK, Deisidaimonia, Superstitio and Religio: Graeco-Roman, Jewish and Early Christian Concepts, in Studium Biblicum Franciscanum. Liber Annuus LXIV (2014) 417-440, con Bibliografia. 26 Sul tardo-antico e la tarda antichità, vd. P.E. HUBINGER, Spätantike und Frühesmittelalter. Ein historishes Problem, Bad Hamburg 1959; A.H.M. JONES, Il tramonto del mondo antico, Bari 1972; P. BROWN, Il mondo tardo antico, Torino 1974; S. MAZZARINO, Antico, tardoantico, era costantiniana, I, Bari 1974; A. CARANDINI - L. CRACCO RUGGINI - A. GIARDINA, Storia di Roma. L’età tardoantica. I luoghi e le culture, III/2, Torino 1993; A. GIARDINA, Esplosione di tardoantico, in Studi Storici 40 1 (1999) 157-160; P. BROWN, Genesi della tarda antichità, Torino 2001; G. FOWDEN, L’elefantiasi del tardo-antico, in Journal of Roman Archeology 15 (2002) 681-686; H. BRANDT, L’epoca tardoantica, Bologna 2005. Accanto alla tesi della continuità, ultimamente si sta sviluppando, specie con il contributo dell’archeologia e lo studio della cultura materiale del tardo-antico, la tesi della cesura violenta o della fine di un’epoca cui ne segue un’altra che non raggiunge più gli standards di quella precedente, soprattutto per quanto riguarda il genere di vita urbano, vd. B. WARD PERKINS, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Roma-Bari 2008. Anche sul versante della storiografia, si considera sempre più il tardoantico come un’epoca finale di un ciclo, con un mutamento radicale degli assetti


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mente sul quadro complesso, variegato e diversificato - a motivo del coesistere di religioni, correnti culturali e scuole filosofiche - ad Alessandria d’Egitto, la metropoli del regno ellenistico dei Tolomei nel II secolo d.C., allo scopo di illuminare brevemente la personalità e l’opera di Clemente d’Alessandria, discepolo di Panteno. Quindi, nel Protreptikòs di Clemente, dopo aver illuminato i tratti salienti della Teologia del Logos in Clemente e la Synétheia, procederemo ad illustrare il rapporto esistente tra Logos e Philanthropìa, mostrando come la disamina dell’Alessandrino, cruda ed ironica, dei culti pagani e di quelli misterici, sia condotta da precise motivazioni apologetiche e teologiche. sociali e culturali, vd. P. HEATHER, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Milano 2006; A. BALDINI, L’impero romano e la sua fine, Bologna 2008; A. GOLDSWORTHY, La caduta di Roma. La lunga fine di una superpotenza dalla morte di Marco Aurelio fino al 476 d.C., Roma 2011; G. RAVEGNANI, La caduta dell’impero romano, Bologna 2012. Tuttavia, vd. R. PFEILSCHIFTER, Il Tardoantico. Il Dio unico e i molti sovrani, Torino 2015, il quale mostra il persistere della cultura antica e di quella classica ed ellenistica per molto tempo ancora dopo la caduta ufficiale dell’Impero romano d’Occidente nel 476, fino a distendersi e prolungarsi per parecchi secoli nell’Impero bizantino. Sulle mutazioni religiose della tarda antichità, ovviamente, la Bibliografia è sterminata, ci limitiamo a segnalare: A. MOMIGLIANO (a cura di), Il conflitto fra pagani e cristiani nel IV secolo, Torino 1968; E. GABBA, I cristiani nell’esercito romano del IV secolo d.C., nel suo Per la storia dell’esercito romano in età imperiale, Bologna 1974, 75-109; P. BROWN, Religione e società nell’età di sant’Agostino, Torino 1975, in particolare: L’atteggiamento di sant’Agostino verso la coercizione religiosa, alle pp. 245-263; I. OPELT, Firmico Materno, il convertito convertitore, in Augustinianum 27 (1987) 71-78; Cristianesimo nella Storia 11 (1990), numero monografico; F. CANFORA, L’altare della Vittoria, Palermo 1991; G. LETTIERI, Tollerare o sradicare? Il dilemma del discernimento. La parabola della zizzania nell’occidente latino da Ambrogio a Leone Magno, in Cristianesimo nella Storia 26 (2005) 1 65-121; E. DI SANTO, Giuliano l’Apostata nel pensiero di Giovanni Crisostomo: imperatore, filosofo, persecutore, in Augustinianum 45 (2005) 349-387; G. STROUMSA, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose nella tarda antichità, Torino 2006; E. MAZZA, In che senso l’eucaristia è sacrificio? La testimonianza delle antiche preghiere eucaristiche, in Spirito Parole e Vita 54 (2006), 219-237; G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Roma-Bari 2011; F. ALEO, Un Adventus di reliquie a Costantinopoli nel IV secolo: il consensus, in un’Omelia di Giovanni Crisostomo, in Synaxis XXXI (2013) 3 63-96; J. LEONI, Martiri e soldati in Eusebio di Cesarea, in Revue d’Histoire Ecclesiastique 110 (2015) 1-2 5-30.


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INTRODUZIONE Eusebio di Cesarea ed Epifanio di Salamina, entrambi appartenenti al pieno IV secolo, ci forniscono le poche notizie che abbiamo sulla vita e le opere di Tito Flavio Clemente27. Incerta appare essere sia la sua provenienza dal paganesimo che la sua città natale28. Dallo stesso Clemente, la cui nascita dovrebbe porsi intorno alla metà del II secolo, apprendiamo che viaggiò molto, incontrando vari maestri che egli enumera nei suoi Stròmata29. Nel suo vagare per il Mediterraneo orientale, Clemente vi rievoca la ricerca personale di un maestro, fino all’incontro con l’«ape sicula», il solo maestro o didàskalos, ritenuto 27

Su Clemente d’Alessandria, la sua vita e le sue opere, vd. C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1996, I, 360-383; S. DÖPP – W. GEERLINGS (a cura di), Dizionario di Letteratura Cristiana Antica, Roma 2006, 200-203. Sui problemi, inerenti la sua vita e la sua formazione culturale ed intellettuale, vd. G. LAZZATI, Introduzione allo studio di Clemente Alessandrino, Milano 1939; C. MONDÉSERT, Clement d’Alexandrie. Introduction à l’étude de sa pensée religieuse à partir de l’Ecriture, Paris 1944; S. LILLA, Clement of Alexandria. A study in Christian Platonism and Gnosticism, London 1971. 28 Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Praeparatio evangelica, II,2,60, in PG 21,120 A, quale uomo che aveva «rifiutato prontamente l’errore per essere dalla parte del Logos salvifico». La conoscenza dei misteri pagani, mostrata da Clemente nei suoi scritti, quali il Protreptiko/j, in realtà, non è così approfondita da comprovare la sua ascendenza religiosa pagana e la sua provenienza da Atene, cfr. S. DÖPP – W. GEERLINGS (a cura di), Dizionario di Letteratura Cristiana Antica, 200. Peraltro, cfr. EPIFANIO DI SALAMINA, Panàrion, 32, 6, in PG 41, 551 B, per il quale, «alcuni dicono che Clemente è alessandrino altri ateniese». 29 CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Les Stromates. Stromate I. Traduction de C. MONDESERT et M. CASTER, Paris 1951 (Sources Chretiennes 30), 11, 2, 51, si rinvia a CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia. Introduzione di M. RIZZI, traduzione e note di G. PINI, Milano 2006 (Letture cristiane del primo millennio 40), I, 1, 11, 2, 20-21, per la versione italiana: «Fra costoro, uno era Ionico, dell’Ellade, altri della Magna Grecia, un altro ancora della Celesiria, uno dell’Egitto, altri dell’Oriente; di lì, uno (era) Assiro, l’altro, per origine, Ebreo di Palestina: mi imbattei nell’ultimo (mio maestro), il primo, però, per capacità (duna/mei) e dopo avergli dato la caccia (qhra/saj), essendosi nascosto, mi fermai allora in Egitto. Era costui ape sicula che coglieva i fiori dal prato profetico ed apostolico, che ingenerò (e)nege/nnhse) nelle anime di coloro i quali lo ascoltavano (a)kroome/nwn) un perenne tesoro di conoscenza (gnw¤¤sewj).».


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capace di generare in lui la vera conoscenza o gnosis30. Eusebio di Cesarea ci informa che l’epiteto di «ape sicula» apparteneva a Panteno31. Questi, a dire di Eusebio, si sarebbe occupato della catechesi volta alla preparazione dei catecùmeni nella chiesa di Alessandria32. Clemente, ormai stabilitosi in quella città, avrebbe in seguito assunto la direzione e la responsabilità della catechesi di quella chiesa, sostituendo il suo venerato maestro. Dalle scarne notizie del vescovo di Cesarea possiamo ritenere che Clemente abbia avuto incarichi di una certa responsabilità nella chiesa alessandrina, ma molto probabilmente non era presbitero. Nell’anno 202/203, il verificarsi di atti persecutori nei confronti dei cristiani sotto Settimio Severo lo costrinse a lasciare la città33. Secondo un’altra opinione, Clemente si sarebbe allontanato da Alessandria, a motivo di attriti con il vescovo Demetrio34. Non conosciamo l’anno preciso della sua morte che probabilmente sarebbe avvenuta intorno al 22035. Negli Stròmata, oltre che dei maestri dell’Ellade, della Magna Grecia e dell’Oriente,

30 Vd. J. Moingt, La gnose de Clement d’Alexandrie, in Recherhches des Sciencies Religieuses, 1950, 195-251; 398-421; 537-564. 31 Cfr. EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiatica (V-VII). Traduction de G. BARDY, Paris 1955 (Sources Chretiennes 41), V,11,2, 40, il quale ricorda Panteno e la sua menzione da parte di Clemente d’Alessandria nelle )Upotupo/seij e nel primo libro degli Strw¤mata. Su Panteno, ancora più scarse sono le notizie fornite dal vescovo di Cesarea, di lui dice soltanto che si recò in India, cfr. Ibidem, V,10,3, 40. L’aggettivo «siculo» fa pensare che egli provenisse dalla Sicilia. 32 Cfr. Ibidem, V,10, 1, 40. Nonostante Eusebio affermi che Panteno dirigesse il Didaskale/ion, non pare possibile identificare quest’ultimo con la celebre istituzione, nota come la scuola catechetica di Alessandria. Eusebio proietta al tempo di Panteno e di Clemente una situazione del suo tempo, quando il Didaskale/ion, da Orìgene in poi, era diventato una vera scuola catechetica, vd. G. BARDY, Aux origines de l’ecole d’Alexandrie, in Recherches de Sciences Religieuses, 27 (1937), 65-90; A. VAN DEN HOECK, The “Catechetical” School of Early Christian Alexandria, in Harvard Thelogical Review, 90 (1997), 59-87. 33 Sul carattere della persecuzione contro i cristiani ad Alessandria sotto Settimio Severo, vd. M. SORDI, I cristiani e l’Impero romano, Milano 1998, 94-95. 34 Cfr. S. DÖPP – W. GEERLINGS, Dizionario di Letteratura Cristiana Antica, 200. 35 Sulle fonti che ci parlano della morte di Clemente come già avvenuta da anni, vd. IBIDEM, 201 e C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana, I, 36.


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Clemente fa menzione di un significativo contatto, tra gli altri, con quel maestro «ebreo di Palestina» precedente all’incontro con Panteno, rendendo evidente un insegnamento giudaico o rabbinico. Si può presumere, pertanto, il confluire, nella sua formazione, di apporti filosofici delle scuole ellenistiche del suo tempo, dell’apporto della tradizione giudaica e dell’apporto dell’insegnamento catecumenale di Panténo, quale «ape sicula che coglieva i fiori dal prato profetico ed apostolico», ovvero fondato sugli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma che, connettendosi alla tradizione degli Apostoli, non trascurerebbe quegli scritti che si rifanno alla tradizione apostolica più antica ed a quella giudeocristiana36. L’ambiente socio-culturale alessandrino dovette indubbiamente esercitare un influsso determinante nello sviluppo intellettuale, nella riflessione teologica e nella stesura degli scritti di Clemente37. I frammenti papiracei, risalenti al II secolo d.C., rinvenuti nell’area urbana e nelle sue immediate adiacenze, testimoniano per quell’epoca l’esistenza di comunità cristiane nella metro36 Cfr. EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), VI, 13, 2. 4. 7. 8. 9, 104106, e tutto il Capitolo 13, si rinvia a EUSEBIO DI CESAREA, Storia ecclesiastica/2. Traduzione e note a cura di F. MIGLIORE, Roma 2005 (Collana testi patristici 159), VI, 13, 2. 4. 7. 8. 9, 28-29, per la versione italiana, ove si parla di Panteno e delle interpretazioni delle Scritture e delle tradizioni «da lui apprese»; della spiegazione delle dottrine «sia dei greci che quelle dei barbari» o giudei; degli autori giudeo-ellenisti secondo i quali «Mosé e la stirpe degli ebrei sono più antichi dei greci»; di Clemente, il quale dice «di se stesso di essere vicinissimo alla successione degli apostoli»; infine, delle tradizioni «che egli aveva ricevuto dalla viva voce degli antichi presbiteri». 37 Alessandria era il centro culturale dei giudei ellenizzanti, dispersi in tutto l’Oriente in seguito alla diaspora. Proprio in questo centro culturale cosmopolita, i giudei avvertirono la necessità di tradurre in greco il Pentateuco, realizzando la versione greca della LXX o Septuaginta, vd. ARISTÉE, Lettre d’Aristée. Traduction de A. PELLETIER, Paris 1962 (Sources Chretiennes 89); La Bible d’Alexandrie LXX. La Genèse. Traduction du texte grec de la Septante, introduction et notes par M. HARL, Paris 1994, Introduction, 31-82; E. S. GRUEN, The Letter of Aristeas and the Cultural Context of the Septuagint, in M. KARRER – W. KRAUS – M. MEISTER (edd.), Die Septuaginta – Texte, Kontexte, Lebenswelten. Internationale Fachtagung veranstaltet von Septuaginta Deutsch (LXX. D), Wuppertal, 20. – 23. Juli 2006 (WUNT 219),Tübingen 2008, 134–156; sull’organizzazione della cultura in genere e sulla produzione di copie di opere letterarie o «copie delle navi», ad Alessandria, vd. A. PASSONI DELL’ACQUA, La produzione letteraria giudaica e la rilevanza del fattore linguistico, in Ricerche


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poli ellenistica e nei suoi immediati dintorni. Un’opera clementina quale il Quis dives salvetur, destinata ai cristiani abbienti, mostra e testimonia la diffusione del cristianesimo fra i ceti agiati alessandrini. Studi recenti fanno emergere dalle fonti antiche che ci parlano di questo centro cosmopolita, multiculturale, multietnico e multireligioso dell’antichità, il quadro di un sistema complesso di tradizioni di pensiero tra loro molto simili, sotto il profilo dei problemi filosofici, teologici, etici. Ad Alessandria, convivevano scuole di carattere ora più filosofico ora più religioso, ma di fatto non troppo diverse tra loro38. Tutto ciò è provato, peraltro, dalle numerose fonti greche ed ellenistiche ma anche giudeo-ellenistiche, utilizzate da Clemente nel Protreptikòs e nel Paidagogòs, ma anche negli Stròmata. Non secondaria in Clemente appare essere l’escussione e la discussione dell’insegnamento delle scuole gnostiche, com’è possibile riscontrare negli Excerpta Theodoti. Si può parlare di questa città mediterranea dell’anStorico Bibliche XXVII (2015) 1 101–106. Giudaismo ed ellenismo, incontrandosi nella metropoli alessandrina, crearono incontri ed incroci fra culture, vd. S. HONIGMAN, The Septuagint and Homeric Scholarship in Alexandria. A Study in the Narrative of the “Letter of Aristea”, London 2003. La Biblioteca di Alessandria era localizzata nel Museo o Mousai/on; erano entrambe istituzioni culturali e scientifiche prestigiose, la cui fama era riconosciuta in tutto il mondo antico, volute, fondate e protette dai Tolomei. Sulla Biblioteca, di minori dimensioni, situata nel tempio di Serapide o Serape/ion e sulle loro controverse vicende di sopravvivenza e distruzione, vere e presunte, nelle fonti storiche antiche che ce ne parlano, vd. L. CANFORA, La Biblioteca scomparsa, Palermo 1991; sull’impianto urbanistico della città antica, vd. C. HAAS, Alexandria in Late Antiquity: topography and Social Conflict, Harvard 2006; sugli scavi archeologici più recenti, vd. N. BONACASA, Alessandria antica e le recenti ricerche archeologiche, in Ricerche Storico Bibliche XXVII (2015) 1 211-235, con Nota bibliografica ed apparato iconografico. 38 Per un approfondimento ed ulteriore Bibliografia sul complesso quadro sociale, culturale, filosofico e religioso di Alessandria nell’antichità, vd. P. WENDLAND, La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo, Brescia 1986; il più recente A. JAKAB, Ecclesia Alexandrina. Évolution sociale et istitutionelle du christianisme alexandrine (IIe-IIIe siècles), Lang – Bern – Berlin – Bruxelles – Frankfurt - New York –Oxford - Wien 2001; sulla Chiesa di Alessandria, vd. F. PERICOLI RIDOLFINI, Le origini della Chiesa di Alessandria d’Egitto e la cronologia dei vescovi alessandrini dei secoli I e II, in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche 17 (1962) 5-6 317-328.


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tichità, allora, come del luogo privilegiato per il formarsi ed il realizzarsi di un sincretismo culturale, filosofico, religioso, di cui era permeato il giudeo-ellenismo, come pure la tradizione platonica e lo gnosticismo che diede la possibilità e l’opportunità a Clemente di formarsi in un ambiente plurale o pluralistico39.

1. IL PROTREPTIKÒS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA L’esortazione o l’invito alla conversione dei pagani al cristianesimo sono insiti nel genere protréttico cui chiaramente appartiene il Protreptikòs di Clemente d’Alessandria. Rivolto chiaramente ai pagani, questo testo vuol essere una pressante esortazione a costoro, a lasciarsi convincere ad abbandonare il culto idolatra, i riti e le 39

Clemente si sarà servito certamente nella composizione e nella redazione delle sue opere di antologie e di compilazioni di opere e di autori, allora molto in uso nell’antichità, specialmente ad Alessandria. Sull’uso delle citazioni letterarie e poetiche nelle opere degli autori pagani del II secolo, quali ad esempio Plutarco di Cheronea, è illuminante il saggio di P. CARRARA, Plutarco ed Euripide: alcune considerazioni sulle citazioni euripidee in Plutarco (De aud. Poet.), in Illinois Classical Studies XIII (1988) 2 447-455. Quasi tutti gli studiosi non condividono l’opinione di J. GABRIELSSON, Uber die Quellen des Klemens von Alexandria, Uppsala 1906, 406, per il quale Clemente fu un compilatore acritico di citazioni di autori classici. Diversa, articolata e puntuale, è l’opinione di D. DAINESE, Passibilità divina. La dottrina dell’anima in Clemente Alessandrino, Roma 2012, in particolare nella sua Conclusione generale, sulle fonti giudeocristiane e gnostiche, utilizzate da Clemente, alle pp. 227-231. Sull’insegnamento nelle scuole dell’età ellenistica e sull’influenza che esse hanno avuto sulla formazione di una paidei/a cristiana, vd. W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze 1966; A. QUACQUARELLI, Le fonti della Paidei/a ante nicena, Brescia 1967; IDEM, Scuola e cultura dei primi secoli cristiani, Brescia 1976; E. OSBORN, Ethical Patterns in Early Christian Thought, Cambridge 1978; P.L. DONINI, Le scuole, l’anima, l’impero. La filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1982; M. MAZZA – C. GIUFFRIDA (a cura di), La trasformazione della cultura nella Tarda Antichità. Atti del Convegno (Catania Università degli Studi, 27 settembre – 2 ottobre 1982), I-II, Roma 1985; A. GIARDINA (a cura di) Società romana e impero tardo antico, IV (Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura), Roma – Bari 1986; P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2005; F. ALEO, L’educazione classica greca antica e la cultura cristiana in Basilio di Cesarea. La relazionalità come forma educativa, in Ho Theologos XXVIII (2010) 2 283-291.


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credenze dei Misteri, per abbracciare la fede cristiana e la conoscenza del divino Logos. Da quanto Clemente lascia intendere all’inizio del Paidagogòs, era sua intenzione scrivere tre opere per costituire una trilogia, composta da un Protreptikòs, un Paidagogòs ed un Didàskalos40. Le prime due sono opere scritte effettivamente da Clemente – il Protrèttico ai Greci ed il Pedagògo - la terza, intitolata il Maestro, non fu mai iniziata, probabilmente a causa della sopraggiunta persecuzione del 202/203 ad Alessandria41. Nonostante nel Protreptikòs si individuino facilmente i logoi protreptikòi o «discorsi esortativi», non manca nell’opera clementina un chiaro carattere apologetico con il quale Clemente difende la vera religione e che si può rintracciare nella prima parte dell’opera. A motivo della veemenza e della serrata polemica che l’Alessandrino conduce nella prima parte, vi troviamo la sua disamina dei culti e dei miti pagani, portata avanti doviziosamente, con una certa durezza, talvolta con crudezza ed ironia, descrivendovi il culto degli déi greci ed i loro miti. Questa prima parte, chiaramente apologetica, potrebbe considerarsi negativa per distinguerla dalla seconda parte, più propriamente esortativa, da ritenersi più positiva, in confronto alla prima. Tuttavia, ad un più attento esame, la tratta-

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Cfr. CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I). Texte grec, introduction et notes de H.-I. MARROU, traduction de M. HARL, Paris 1960 (Sources Chretiennes 70), I,1,34, 110-111 e CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo. Introduzione, traduzione e note a cura di DAG TESSORE, Roma 2005 (Collana di testi patristici 181), I,1,1,3-4, 34-35. 41 Non sarebbe peregrina l’ipotesi, secondo la quale gli Strw¤mata sarebbero gli appunti o le bozze, preparatori alla composizione del Dida/skaloj, opera che non poté essere ultimata da Clemente a motivo del suo allontanamento da Alessandria. È questa l’ipotesi discussa e riassunta per brevi cenni da M. Rizzi, in CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Gli Stromati. Note di vera filosofia, Introduzione, XIII; mentre D. Dainese, in Passibilità divina. La dottrina dell’anima in Clemente Alessandrino, 223, opterebbe per la tesi in base alla quale gli Strw¤mata sarebbero l’abbozzo con lo schema preparatorio ed i relativi appunti di Clemente, per un trattato De anima, a noi non pervenuto oppure mai portato a termine dall’Alessandrino. Tuttavia, la tesi della trilogia, suggerita dallo stesso Clemente nel suo Paidagogo/j è stata più volte messa in discussione o più o meno rigettata. Per conoscere i termini della questione e le opinioni degli studiosi che se ne sono occupati, vd. CLEMENTE ALESSANDRINO. Il Protrettico. Introduzione, traduzione e note a cura di F. MIGLIORE, Roma 2004 (Collana di testi patristici 179), Introduzione, 20-23.


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zione dell’Alessandrino, nella prima parte, è da considerarsi costruttiva42. Se nel primo capitolo, Clemente fa intendere al lettore l’appello diretto del Logos alla conversione, nei seguenti sei capitoli costituenti la prima parte, Clemente costruisce con sarcasmo la sua critica corrosiva delle credenze e dei culti pagani che si estende anche ai filosofi ed ai poeti greci che hanno pur intravisto la verità e reso testimonianza al Dio vero. I restanti capitoli della seconda parte, dall’ottavo al dodicesimo, costituiscono la parte positiva ed esortativa dell’opera con un appello alla conversione43. Il Protreptikòs è stato ritenuto risalire agli anni compresi tra il 180 ed il 189, ma le questioni inerenti la sua cronologia sono ancora oggi discusse dagli studiosi44.

2. LA TEOLOGIA DEL LOGOS IN CLEMENTE D’ALESSANDRIA Il Protreptikòs opera un’efficace e solerte riflessione cristiana sugli aspetti ed i tratti peculiari e specifici della cultura greca ed ellenistica oltre che sui culti e sui misteri pagani, quali i miti e la religiosità che essi ispirano ed infondono negli uomini del tempo e dell’ambiente nel quale è stato redatto. Clemente impronta del suo apporto culturale e della sua originale riflessione teologica quella che suol denominarsi come Teologia del Logos. Attraverso il ricorso palese e manifesto a Mosé ed Omero, nel Paidagogòs, Clemente delinea quale sia l’azione del Logos fra i giudei ed i greci, prima della sua incarnazione ed in qual modo il Logos Figlio 42 Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Protreptico ai Greci. Testo, introduzione, traduzione, commento, note a cura di Q. CATAUDELLA, Torino 1940, Introduzione, IX e XXIX, dove lo studioso siciliano ritiene che l’Octavius di Minucio Felice si sia rifatto all’opera clementina e ad essa abbia attinto. 43 Per la descrizione dei singoli capitoli, del contenuto e dello stile dell’opera, vd. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique. Introduction, traduction et notes de C. MONDESERT, Paris1949 (Sources chretiennes 2), Introduction, 27-42 e CLEMENTE ALESSANDRINO. Il Protrettico. Introduzione, traduzione e note a cura di F. MIGLIORE, Introduzione, 23-29. 44 Per una sintesi delle proposte e delle ipotesi degli studiosi relative alla datazione del Protreptiko/j, cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO. Il Protrettico. Introduzione, traduzione e note a cura di F. MIGLIORE, Introduzione, 29-31.


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possa farsi loro riconoscere, quale salvatore ed unico Dio. Nonostante sia la prima opera della trilogia, sarebbe scontato affermare che il Protreptikòs presenti i culti ed i miti pagani per procedere semplicemente ad una loro demolizione e preparare quindi l’ascoltatore all’opera successiva. Secondo quest’opinione, solo apparentemente congrua, Clemente dimostrerebbe la verità del divino Logos nel Protreptikòs, preparando ed introducendo il lettore o l’ascoltatore al Paidagogòs o seconda opera della trilogia. L’Alessandrino si rende perfettamente conto di dover operare non soltanto e semplicemente l’inculturazione del dato della rivelazione ed in particolare dell’Incarnazione del Verbo, all’interno di un quadro religioso, culturale, filosofico, sociale tanto complesso e variegato quale quello che recava Alessandria in sé al suo tempo. Ponendosi il problema serio delle motivazioni e delle ragioni per le quali i greci dovrebbero persuadersi ad abbandonare i loro culti ed a considerare i loro miti per quello che realmente sono, ossia racconti e tradizioni leggendarie, ininfluenti sulla loro vita e sulla loro condotta morale, Clemente redige un’opera completa in sé ed autonoma. Opera necessaria, perché i pagani o i greci si volgano alla verità offerta loro dalla conoscenza del Logos. Per questo motivo, il Protreptikòs precederebbe il Paidagogòs, in quanto, prima di accettare e di acconsentire alla guida del Logos, alla maniera di un pedagògo, gli ascoltatori devono necessariamente soffermarsi sulle argomentazioni di Clemente e comprendere i motivi per i quali i miti, i riti ed i misteri pagani sono falsi e fallaci45. Soffermarsi sul Paidagogòs per poi tornare al Protreptikòs permette di comprendere quanto le due opere siano intimamente legate da un nesso profondo, le cui argomentazioni meritano di essere analizzate nei loro elementi principali. Il nesso evidente è quello del Logos: il Logos esortante o protreptikòs ed il Logos educante o paidagogòs è lo stesso unico

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La parola greca paidagogo/j, composta da pai/j «fanciullo, bambino» ed a)gogh/ «guida» indicava nell’antichità il pedagògo, uno schiavo, appartenente alla familia, a capo della quale stava il Pater familias, con la mansione di accompagnare a scuola ogni giorno il puer nel mondo romano o il pai/j nel mondo ellenistico di lingua greca. Il fanciullo, in tal modo, aveva una guida che lo accompagnava, letteralmente, verso il suo dida/skaloj, cfr. H.I. MARROU, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 2010, 199-200.


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Logos che conduce gli uomini alla salvezza ed alla vita divina. Facendo propri i caratteri e lo stile dell’insegnamento catecumenale, acroamàtico ed upomnemàtico, appresi e praticati ad Alessandria, Clemente fa notare agli ascoltatori del Paidagogòs, come, pur nell’inadeguatezza del logos umano, della parola umana, del parlare umano, Dio parla continuamente agli uomini, nelle Scritture e nei Profeti46. Già nel Protreptikòs, Clemente dichiara apertamente che: «Ora che abbiamo trattato tutti gli altri argomenti nell’ordine dovuto, è tempo ormai di passare alle scritture dei profeti. E, infatti, presentandoci nella maniera più chiara le basi da cui partire per arrivare alla vera religiosità (theosébeian), le loro profezie costituiscono il fondamento della verità. Le divine Scritture, sagge norme di vita, sono scorciatoie che conducono alla salvezza. Infatti, in quanto prive di fronzoli e di suoni gradevoli estranei, di loquacità e di adulazione, esse sono in grado di risollevare l’uomo soffocato dal male, rendono saldo quanto di viscido c’è nella vita, guariscono molti mali con una sola e medesima voce, distogliendoci, da un lato dalla menzogna malefica e, dall’altro, indirizzandoci in maniera evidente alla salvezza che ci sta dinnanzi.»47. 46 I tratti acroamàtico ed upomnemàtico della didaskali/a pantenica, passati e trasfusi in quella clementina, potrebbero connotare un importante testo clementino e spiegarne la sua genesi ed i suoi caratteri: gli Stro/mata. Il Paidagogo/j, insistente sul «prato profetico ed apostolico», riproporrebbe l’insegnamento acroamàtico, accostandolo a quello delle scuole filosofiche ellenistiche e giudaiche alessandrine, nelle quali l’insegnamento della filosofia constava di pratiche terapeutiche, volte alla cura delle passioni e ad una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere dell’individuo, una delle quali era propriamente l’ascolto o a)kro/asij del dida/skaloj, cfr. FILONE D’ALESSANDRIA, L’erede delle cose divine. Prefazione, traduzione, note e apparati di R. RADICE, Milano 1994, 253, 177; P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, 19; A.-M. MALINGREY, «Philosophia». Ètude d’un group de mots dans la literature grecque, de Presocratiques au V siecle après J.-C., Paris 1961. Gli Stro/mata, invece, insisterebbero sugli «appunti» o u)pomnh/mata, tratti dalla «viva voce o per iscritto» come ci dice Eusebio di Cesarea [EUSÈBE DE CÉSARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), V,10,40], riguardo al dida/skaloj Panteno, riproponendo non soltanto l’insegnamento acroamàtico, ma anche quello mnemonico ed upomnemàtico, solo apparentemente sconnesso e frammentario del maestro. 47 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, VIII,77,1, 143-144, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO. Il Protrettico, 8,77,1, 156, per la versione italiana. Si osservi


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Con questa dichiarazione programmatica, insistente sul «prato profetico ed apostolico» ovvero sull’insegnamento dei Profeti e delle Scritture, dell’A.T e del N.T si apre, per così dire, la porta d’ingresso alla seconda parte del Protreptikòs, più propriamente esortativa, da ritenersi positiva, in confronto alla prima parte apologetica o pars destruens dell’opera clementina. Le Scritture vi sono definite quali «sagge norme di vita» e scorciatoie oppure più semplicemente, come vie, conducenti alla salvezza. Tornando però al Paidagogòs, Clemente tiene a sottolineare come Dio negli ultimi tempi abbia parlato nel suo Figlio, Logos o Parola vivente che viene incontro all’uomo. Così, il Verbo incarnato nel Dio fatto uomo è il Logos-paidìon, il Verbo-bambino che stende le braccia per esser curato ma soprattutto per curare ed educare gli uomini alla vita divina48. Il Logos divino è Parola di Dio, proferita dal Padre, ma è anche lo stesso Figlio di Dio; Dio, così, si è fatto Logos, non semplicemente Parola, ma Parola intima e nascosta, nei secoli, di un Dio che con la sua Parola rivolta all’uomo, si è rivelato Padre. La Parola divina, in quanto comunicazione, implica alterità e reciprocità, quindi una relazione con chi l’ascolta49; cosicché, Colui che parla si rivela a colui che ascolta e questi, conoscendo sempre più il “Tu” divino, conosce sempre più anche il proprio “io”, penetrando sempre più in profondità nella mutualità della relazione tra Dio e l’Uomo50. Questo assunto “apoca-

l’insistenza sul valore didascalico e morale delle Scritture e dei Profeti, mostrando un chiaro riferimento alla didaskali/a pantenica. 48 CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), V, 24,2-3, 152-154, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, I,5,24,3, 57, per la versione italiana: «Mirabile Consigliere, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace” nell’accrescere l’educazione (paidei/a), “e la sua pace non ha confini” (Is 9,5-6). O grande Dio, o bambino perfetto! “Figlio nel Padre e Padre nel Figlio (cfr. Gv 10,38). E come non sarebbe perfetta l’educazione (paidei/a) impartita da questo bambino, la quale raggiunge noi tutti fanciulli ed è la pedagogia (paidagwgi/a) che ci guida, noi piccoli del Bambino? Egli “ha steso” verso di noi “le sue braccia” (Is 65,2; Rm 10,21) che sono divenute per noi oggetto chiaro di fede (pepisteume/naj).». 49 Cfr. Le Pedagogue (I), Introduction, 34-42. 50 Su questo tema può essere stimolante la lettura di un autore del XX secolo recentemente riscoperto: Ferdinand Ebner; vd. E. DUCCI, La parola nell’uomo. Umanazione e disumanazione nella pneumatologia di Ferdinand Ebner, Brescia 2005; «Paidéia» e


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littico” – da apokàlypsis o «rivelazione» - non ancora espresso ed elaborato in forma sistematica, può essere considerato una vera e propria “scoperta” della riflessione teologica cristiana del II secolo che darà vita con Giustino, Clemente d’Alessandria e poi con Orìgene, alla Teologia del Logos51. È con la parola o logos, propria dell’uomo, in quanto lo distingue dagli animali, che l’uomo vive e si esprime; è con la propria parola o logos che l’uomo va incontro al mistero di un Dio che, pur inconoscibile e nascosto, si rivela nel Logos divino del proprio Figlio, fatto carne, in comunicazione con gli uomini, quale Parola vivente del Padre. Come arrivava a sostenere il Danielou, quella di logos è in Clemente la denominazione privilegiata di cui è debitore verso Filone d’Alessandria (30 a.C. – 45 d.C.)52. In verità, Logos è pure la denominazione privilegiata del Prologo giovanneo, denominazione di un concetto accolto e prediletto nella filosofia greca che ci mette sulle tracce proprio del medesimo ambiente culturale di Clemente, come ci induce a fare anche l’Epistola agli Ebrei, scritta pare proprio ad Alessandria, verso la fine del I secolo d.C., il cui autore lascia scorgere l’esistenza di un certo rapporto tra la teologia e l’esegesi alessandrina53. Si può quindi ritenere che già nel Vangelo secondo Giovanni abbiamo una testimonianza dell’incontro tra il cristianesimo e lo spirito dell’ellenismo. Secondo Danielou, è Filone d’Alessandria ad identificare il principio ordinatore del cosmo con il logos54. È proprio Filone, infatti, a parlare del logos, quale «logos eterno «Metéxis», in Rassegna di Scienze Filosofiche, (1967), 264-292; Il rapporto io-tu nella persuasione, in Pedagogia e Vita (1971), 640-644; Essere e comunicare, Roma 2003; La comunicazione da anima ad anima è ancora auspicabile?, in Aprire su paideia, a cura di E. DUCCI, Roma 2004, 15-20. 51 Sulla Teologia del Lo/goj, vd. J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Bologna 1975, 429-440; D. BOURGEOIS, La sagesse des anciens dans le mystére du Verbe chez Sain Justin philosophe et martyr, Paris 1981; M.J. EDWARDS, Clemens of Alexandria and his Doctrine of the Logos, in Vigiliae Christianae 54 (2000), 159-177; C. CERAMI, La Trasfigurazione del Signore nei Padri della Chiesa, Roma 2010. 52 Cfr. J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, 429. 53 Vd. R. BAUCKAM - D. DRIVER - T. HART - N. MACDONALD (ed.), The Epistle to the Hebrews and Christian theology, Grand Rapids 2009. 54 Cfr. J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, 430.


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di Dio immortale, il più saldo e sicuro fondamento (éreisma) di tutte le cose»55. Il termine éreisma, hapax presente soltanto nel De Plantatione di Filone, ricorre nel Protreptikòs di Clemente, leggiamo infatti: «E questo canto (àisma) incorrotto sostegno (éreisma) di tutto il creato e armonia dell’universo, che si estese dal centro alle estremità e dalle estremità al centro, armonizzò tutto il creato, non secondo la musica tracia che è simile a quella di Iubal, ma secondo la volontà paterna di Dio, che David cercò di uguagliare. Il Logos di Dio che discendeva da David ed esisteva prima di lui, … .»56.

Con questo canto si introduce il primo capitolo del Protreptikòs di Clemente, presentando il Logos come un canto, rendendo evidente l’importanza riservata all’ascolto, nell’insegnamento acroamàtico o nella didaskalìa clementina. Nel prosieguo del passo testé citato si riscontrano significative analogie, pressoché letterali con il testo filoniano cui rinviamo per una lettura più attenta. Ciò che qui più interessa notare è l’affermazione della filiazione del Logos, con la sua provenienza da Dio Padre o più precisamente dalla sua volontà paterna, quindi della sua preesistenza. Sbaglieremmo nel ricercare nei testi clementini un’affermazione netta e precisa della generazione divina del Logos dal Padre; siamo in presenza, piuttosto dell’esito di una prima riflessione teologica cristiana, assumente tratti filosofici e spirituali dagli scritti di Platone e del Platonismo medio57. Nel Protrep55 FILONE D’ALESSANDRIA, De plantatione, 2, 8: lo/goj de/ o( a)i/dioj qeou¤ tou¤ ai)wni/ou to£ o)xurw/taton kai£ bebaio/taton eÃreisma tw¤n $(n oÀlwn. Per il testo filoniano citato da Danielou, si rinvia alla versione francese con testo greco a fronte: PHILON D’ALEXANDRIE, De Plantatione. Traduction de J. POUILLOUX, Paris 1963. Un’altra opera di Filone in cui si parla del lo/goj divino come principio ordinatore e prosecutore della creazione, in particolare come divisore, è l’Heres, cfr. FILONE D’ALESSANDRIA. L’erede delle cose divine, 133-140, 123-127. 56 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I, 5,2-3, 57-59, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO. Il Protrettico, 1,5,2-3, 52-53, per la versione italiana 57 La prospettiva filosofica sia di Filone che di Clemente è platonica, in particolare quella presente nel Timeo, vd. D.T. RUNIA, Philo of Alexandria and The Timaeus of Plato, Leiden 1986.


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tikòs, il Logos è assimilato da Clemente al «canto» o àisma di Dio Padre, creatore di tutto l’universo che sorregge e dispensa la sua armonia ed il suo ordine per tutte le cose create58. Non troveremmo in Clemente un’affermazione dichiarata della consustanzialità con il Padre, estranea alla riflessione clementina come del resto a quella degli apologisti59. Filone, profondamente influenzato dalla filosofia stoica e da quella platonica - che cerca di trasfondere nell’interpretazione delle Sacre Scritture giudaiche - individuava, nella santità degli uomini e delle donne della Bibbia, quella ricerca della sapienza divina che accomuna greci e giudei60. Tuttavia, il dato della rivelazione evangelico e giovanneo del Logos fattosi carne è a lui del tutto estraneo61. In Clemente, pertanto, il rapporto del Logos con gli uomini e le cose create, in quanto Figlio di Dio incarnato nel mondo, sarà mantenuto nel rispetto della sua divinità e della sua appartenenza al Padre, sotto l’aspetto dell’amore di questi disposto a donare il Figlio, il quale a sua volta dona sé stesso per amore dell’umanità. Allo scopo di chiarire quanto stiamo tentando di dire sul concetto di Logos in Clemente, tanto simile ma anche tanto diverso da quello di Filone, occorre far parlare i testi clementini, quali il Quis dives salvetur, nel quale leggiamo: «Guarda i misteri dell’amore (agàpes) e allora contemplerai il seno del Padre che soltanto l’unigenito Figlio di Dio ha manifestato (cfr. Gv 1,18).

58

Vd. B. MONDIN, Filone e Clemente, Roma 1984, in particolare, alle pp. 64-69. Anche Giustino dà luogo ad ambiguità, quando reputa il Lo/goj come eÃteroj o l’«altro», nel senso di «diverso» da Dio, riferito al Figlio rispetto al Padre. Cfr. Dialogus cum Tryphone, 55, in PG 6, 595-596A, in cui l’apologista professa dinanzi al giudeo Trifone la sua fede «in un altro Dio accanto al creatore di tutte le cose». Vd. M. SIMONETTI, Il problema dell’unità di Dio da Giustino a Ireneo, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa XXII (1986) 2, 201-240, in particolare a p. 210. 60 Per un inquadramento dell’opera di Filone nella cultura ellenistica ed in particolare nell’ambiente culturale di Alessandria, si rinvia a G. REALE, Saggio introduttivo, in FILONE D’ALESSANDRIA. L’erede delle cose divine, 7-51. 61 Cfr. A. GRILLMEIER, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa. Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), Brescia 1982, I,1, 176-177. 59


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È anche lui stesso il Dio amore (cfr. Gv 4,8.16) e da amore per noi fu catturato. E, mentre l’ineffabilità di lui è Padre, la compassione verso di noi è divenuta madre. Il Padre per avere amato si fece femminile, e di questo è grande segno colui che egli generò da se stesso: anche il frutto generato da amore è amore. Per questo anche lui discese, per questo rivestì l’umanità, per questo patì volontariamente ciò che è degli uomini, affinché, dopo essersi misurato con la debolezza di noi che egli amò, potesse in cambio misurare noi con la sua potenza.»62.

Vi si dice chiaramente che è il Padre a generare il Figlio, ma la sua generazione si comprende soltanto nell’amore o agàpe. È per amore che Dio Padre trasmuta la sua natura: non si fa soltanto da invisibile visibile, ma da Padre si fa Madre, assume la debolezza dell’umanità nella carne del Figlio unigenito. In tal modo, la prospettiva platonica che è quella della contemplazione dei beni eterni o del Sommo Bene, dalla quale Clemente considera l’agàpe, viene assunta e trasformata nella prospettiva della discesa del Logos in mezzo agli uomini, per continuare a vivere nell’amore verso gli uomini la vita divina. In un contesto cosmopolita di scambi culturali, filosofici, spirituali, fra grecità, ellenismo, giudaismo e cristianesimo, qual era Alessandria alla fine del II secolo, Clemente si impegna a tracciare un percorso “pratico” (proaktikòs) che prepari all’ascolto dell’insegnamento acroamàtico, proprio del Didàskalos oppure che favorisca la spinta in avanti verso la gnosis63. Una volta, infatti, che il discepolo uditore avesse ricevuto l’esortazione del Protreptikòs, quindi l’istruzione del Paidagogòs, una volta incoraggiato, sostenuto e soprattutto purificato dalle passioni, poteva dedicarsi con profitto all’ascolto dell’insegnamento acroamàtico ed upomnemàtico del Didàskalos, divenendone «ascoltatore» o akroatés. Clemente, così, assimila al Cristianesimo la Philosophìa, per

62 Cfr. CLEMÉNT D’ALEXANDRIE, Quel riche sera sauvé? Introduction, notes et index par C. NARDI, traduction par P. DESCOURTIEUX, Paris 2011 (Sources Chretiennes 537), 37,1-3, 194-195, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Quale ricco si salverà? Introduzione, traduzione e note a cura di M. GRAZIA BIANCO, Roma 1999 (Collana Testi patristici 148), 37,1-3, 62-63, per la versione italiana, 63 Cfr. CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), 1,3-4, 110-111, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, I,1,3-4, 34-35, per la versione italiana.


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la precisione le “pratiche” filosofiche del suo tempo64. In questo contesto variegato, plurale e pluralistico, anche la nascente Teologia del Logos, in Clemente, assume un tratto particolare, soffermandosi sulla mediazione salvifica del Logos Figlio e sul suo rapporto con Dio Padre. Per Clemente, il Logos Figlio è il Verbo generato dalla volontà del Padre fin dall’eternità, venuto nel mondo nella carne a dare la propria vita per amore degli uomini. Sulla scorta degli stoici ma in particolare di Filone, il Logos Figlio, come abbiamo appena visto, è anche il principio ordinatore di tutta la creazione, la sostiene e continua l’opera della creazione di Dio Padre, quale principio immanente, in certo qual modo, alla creazione stessa. Tuttavia, ancora più importante del rapporto del Logos con il mondo appare in Clemente il rapporto del Logos con il Padre. Cosicché, in Clemente, Dio Padre è philànthropos, a differenza degli stoici ma anche di Platone. Per Platone, infatti, Dio non partecipa della creazione; nell’Incarnazione, invece, il Padre per Clemente compromette sé stesso e si intromette nel mondo con il suo Logos Figlio, come possiamo leggere nel Paidagogòs: «Egli dichiara che solo il Pastore buono fa così: munifico oltre misura, dona per noi la cosa più grande, cioè la sua stessa vita; beneficante oltre misura e pieno di amore per l’uomo (philànthropos), poteva essere Signore e invece ha voluto essere fratello degli uomini. Ha portato la sua bontà a tal punto da morire per noi.»65.

Il Logos ha rinunciato alla sua divinità, preferendo morire per noi. Il Dio Padre del Logos Figlio è così un Dio d’amore, un Dio philànthropos che ama l’uomo al punto da farsi suo fratello nel Logos Figlio e da morire per lui. L’amore di Dio per l’uomo che si manifesta nella dispensazione del suo divino Logos che è Protreptikòs ovvero esortatore e Paidagogòs ovvero educatore e pedagògo dell’umanità, si esplica anche nella compassione o sympàtheia che Dio Padre prova sempre nel 64

Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, 67: «Nei primi secoli il Cristianesimo ha presentato sé stesso come una filosofia, nella misura stessa in cui assimilava la pratica tradizionale degli esercizi spirituali.». 65 Cfr. Le Pedagogue (I), IX, 85,9,1-2, 258-261, si rinvia a Il Pedagogo, I, 9, 85,1-2, 110-111, per la versione italiana.


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ed attraverso il Logos Figlio per l’uomo66. Clemente coglie nell’azione del Logos una sapienza che la sapienza biblica e l’insegnamento evangelico completano, dispiegano e compiono ma che si ritrovano e si arricchiscono, in svariati modi, anche a contatto con la sapienza dei pagani, nati prima di Cristo67. Come per Giustino, anche per Clemente, il Logos è mediatore o mesìtes (cfr. I Tm 2,5) fra Dio e l’uomo e come in Giustino anche in Clemente, la Cristologia del Logos o Logoschristologie è implicitamente subordinazionista. Clemente, tuttavia, non affronta la problematicità del rapporto fra Dio Padre ed il Logos Figlio, quanto, piuttosto, l’aspetto ed il fine salvifico della mediazione del Logos incarnato. Tale indirizzo, attinente alla soteriologia, sarà condotto e portato avanti da Clemente nelle sue opere verso importanti conseguenze ed esiti futuri. In Dio ristà la volontà amante del Padre di farsi uomo e di soffrire nel suo Logos Figlio, fattosi carne per noi. In ciò consiste il vero Mistero o mystérion della divinità del Logos: «Mistero manifesto! Dio è nell’uomo e l’uomo è Dio e il mediatore compie il volere del Padre; mediatore (mesìtes) infatti è il Logos comune ad entrambi, essendo figlio di Dio e salvatore (sotér) degli uomini: di lui è servo (diàkonos), di noi è pedagogo (paidagogòs). Ora, essendo la carne schiava, come attesta anche Paolo (cfr. Fil 2,7), come si potrebbe ragionevolmente adornare questa ancella a mò di prostituta? … . Ebbene, Dio che ha voluto soffrire con noi, ha liberato egli stesso la carne dalla corruzione e, sottrattala alla mortifera e amara schiavitù, l’ha rivestita di incorruttibilità, avvolgendola con questo santo ornamento di eternità che è l’immortalità.»68.

66 Vd. V. GROSSI, Il titolo cristologico ‘Padre’ nell’antichità, in Augustinianum XVI (1976) 2, 237-269, in particolare, per Clemente d’Alessandria, alle pp. 253-255. 67 Cfr. CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (III). Traduction de C. MONDESERTET, C. MATRAY, notes de H.I. MARROU, Paris 1960 (Sources Chretiennes 158), I,2,1-3, 14-17, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, III,1,2,1-3, 253-254, per la versione italiana, ove è una massima del filosofo Eraclito ad introdurre la sumpa/qeia di Dio Padre. Proprio riguardo alla sumpa/qeia vi si riscontra l’influenza dell’insegnamento gnostico, cfr. CLÈMENT D’ALEXANDRIE, Extraits de Théodote. Traduction de F. SAGNARD, Paris 1948 (Sources Chretiennes 23), B,30,2, 124-125. 68 CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (III), 1,2,1-3,14-17, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, III,1,2,1-3, 253-254, per la versione italiana.


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Il Mistero del Logos è un mistero resosi manifesto nella carne, non è vincolato dal segreto come i misteri pagani, né destinato a rimanere nell’oscurità di poco comprensibili e singolari riti iniziatici e misterici. Nella sua manifestazione, il Logos è salvatore, apportatore di salvezza per tutti gli uomini non per pochi iniziati. Rispetto al Padre, il Logos è servo o diàkonos, rispetto all’uomo, è pedagògo o paidagogòs. Clemente, infatti, mostra come il Padre nel Logos assuma la carne e rivesta questa d’immortalità; nell’evento salvifico dell’incarnazione non si realizza allora un’ambigua commistione tra umano e divino, come nelle metamorfosi pagane, ma si compie l’identità e l’operazione propria del Logos Figlio. L’identità propria del Figlio è così quella del Logos incarnato; l’operazione propria del Logos Figlio è quella dell’Incarnazione. Leggiamo ancora nel Quis dives salvetur: «Questo è il seme (sperma), immagine (eikòn) e somiglianza (omòiosis) di Dio, e suo figlio legittimo ed erede, mandato quaggiù, come per un soggiorno in terra straniera, da un progetto (oikonomìas) grande e da affinità (analoghìas) col Padre; per mezzo di lui sono state fatte sia le cose visibili sia le cose invisibili del mondo, le une perché siano a suo servizio, le altre perché egli si eserciti, le altre perché egli impari, e tutte, fino a che il seme rimarrà quaggiù, sono unite e queste saranno immediatamente sciolte quando esso sarà stato raccolto.» 69.

In questo brano, Clemente ci consegna una sintesi efficace della teologia del Logos. Teologia interessata all’oikonomìa o al disegno salvifico di Dio Padre verso gli uomini, pur non dichiarando ancora la consustanzialità del Figlio con il Padre ma piuttosto, la sua analoghìa. Occorre però rilevare la sottolineatura di Clemente sul movimento della divina oikonomìa, precedentemente rilevato, in virtù del quale Dio per la sua ineffabilità è Padre, ma per la sua compassione è Madre. Non si tratta semplicemente di un moto emotivo o sentimentale o di un antropopatismo. Si tratta della Philanthropìa di Dio 69 Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Quel riche sera sauvé?, 36,2-3, 194-195, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Quale ricco si salverà?, 36,2-3, 61-62, per la versione italiana.


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Padre, la cui magnanimità, bontà o misericordia verso gli uomini si è rivelata, nella vita umana del Logos Figlio. È il Logos Figlio fattosi carne che manifesta la Philanthropìa del Padre. Riteniamo che nel rapporto tra Logos e Philanthropìa nel Protreptikòs, Clemente giochi un’importante scommessa, per dimostrare l’esistenza del moto intimo d’amore di Dio Padre, manifestatosi nel Figlio, verso l’umanità; in questo intimo e veritiero moto divino o Philanthropìa ristà dinanzi ai greci la novità e la credibilità del cristianesimo, a confronto con i miti ed i culti pagani.

3. RELIGIOSITÀ E CULTO DEI GRECI NEL PROTREPTIKÒS: LA SYNÉTHEIA All’inizio del Proteptikòs, nel capitolo I, presentando il problema della tradizione religiosa dei pagani, Clemente parla dei mitici cantori dell’antichità ed aggiunge: «Per primi hanno indotto gli uomini al culto degli idoli ed è fuor di dubbio che con pietre e con legni, cioè con statue e pitture illusorie, hanno costruito le fondamenta di questa stolta consuetudine (ethous), soggiogando alla più dura schiavitù, con i loro canti e i loro incantamenti, la libertà veramente bella, di coloro che vivono come liberi cittadini sotto il cielo (cfr. Rm 8,21;Gal 5,13).»70.

Vi troviamo il termine ethos, indicante il costume e la condotta morale dei greci, connessi con i miti ed il culto degli déi, costituenti il patrios nomos dei greci ed il mos maiorum dei romani. La problematica che ne deriva viene discussa nel prosieguo dell’opera clementina ed è caratterizzata dall’impiego del termine synétheia. La synétheia, per gli antichi, fondava e costruiva la morale e l’etica o l’ethos della civiltà, la condotta e la vita umana. Nel Protreptikòs, il termine synétheia ha il significato quindi di «consuetudine», «uso», «costume», rite-

70

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,3,1,55, si rinvia a CLEMENTE ALESai greci, I,3,1, 50, per la versione italiana.

SANDRINO, Protrettico


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nuto da Clemente come ormai superato e dall’accezione negativa. Prendiamo in esame alcuni luoghi testuali e quindi le principali e più significative accezioni del termine nel Protreptikòs. Iniziamo con il seguente brano: «Il presente, infatti, suole essere in certo qual modo disprezzato a causa della consuetudine (synethéia), invece ciò che appartiene al passato, a motivo dell’oscurità prodotta dal tempo, e per l’impossibilità di un’immediata confutazione, di solito trae onore dalle cose inventate e, mentre non prendiamo in considerazione il presente, invece, per quanto riguarda il passato, giungiamo addirittura all’ammirazione.»71.

In questo caso, la synétheia è identificata chiaramente con il patrios nomos dei greci ed il mos maiorum dei romani. Il cristianesimo - ritenuto dai pagani una religio nova - non vi è nominato esplicitamente. Esso si configurava negativamente, come una novitas che scardina e contesta il culto vigente, quello degli déi e degli eroi che un tempo erano uomini e che solo successivamente diventarono miti. Clemente, però, smonta un atteggiamento ed una mentalità che stanno alla base della synétheia, appartenente a quelli per i quali tutto ciò che apparteneva al passato era venerabile e degno di rispetto per essere osservato ed essere assunto come norma dell’agire. Tale mentalità - fa osservare l’Alessandrino - spinge gli uomini a non far attenzione al presente bensì al passato. Un passato, peraltro, offuscato da miti e leggende antiche, ma artificiose. Clemente fa vedere come, presso i greci, i miti o le leggende antiche nascondano in realtà meccanismi mentali per difendersi dalla paura dell’ignoto e della morte. I miti, allora, non sono altro che costruzioni di uomini, quindi inventati. Inoltre - osserva Clemente - la consuetudine, contenente la doxa o l’«opinione», ritenuta corretta, di queste false credenze, rende schiavi. Anche alcuni pagani come Cleante Pedase (330-320 – 264 a.C.), filosofo stoico, compresero ciò:

71

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, IV,55,2,118, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, IV,55,2, 126, per la versione italiana.


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«Qui in verità egli (Cleante) insegna assai chiaramente, credo, quale è la natura di Dio, e come l’opinione (doxa) comune e la tradizione (synétheia) rendano schiavi coloro che seguono esse e non cercano Dio.»72.

La synétheia e la dòxa, entrambe errate ed inventate dagli uomini, non permettono ai sophòi o agli antichi saggi pagani di riconoscere le opinioni corrette sulla divinità. Clemente riconosce ai due concetti, quali “pratiche” filosofiche o di pensiero, una connessione, per la quale è la synétheia a generare la doxa. Poiché, però, la synétheia non è fondata sulla verità, ma su credenze e su miti favolosi e leggendari, ritenuti venerabili per la loro antichità ma non per la loro coerenza e verità intrinseca, anche la doxa o l’opinione derivante dalla synétheia, sarà come questa, falsa e fallace, impedendo una corretta ricerca “teologica”. Clemente fa osservare ai pagani, i quali rimproverano ai cristiani con la loro religio nova di smantellare tutto il patrimonio venerabile della cultura e dei valori antichi, che anche loro mostrano di allontanarsi dai loro costumi avìti. Infatti: «Oltre a ciò, quando si tratta delle vostre passioni, le deviazioni dalla tradizione, anche se sono disastrose e rischiose, tuttavia vi riescono, in un certo senso e in una qualche misura, gradevoli: orbene, trattandosi della vita, abbandonando la consuetudine (ethos) malvagia, dannosa ed empia, non ci volgeremo verso la verità, anche se i nostri padri si indigneranno? E, messa da parte la tradizione (synétheia) come se fosse un veleno mortale, non cercheremo colui che è veramente nostro padre?»73.

Le passioni, turpi e disdicevoli, inducono i pagani a trasgredire il costume morale od ethos, quindi la questione non è se i cristiani introducano un nuovo nomos per distruggere l’ethos esistente, ma, piuttosto consiste in quello che veramente è in gioco: l’ethos vero. Al pari della doxa, errata e fallace, anche l’ethos derivante dal Nomos o dalla syné72 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, VI,72,3, 137, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, VI,72,3, 148 e nota 31, per la versione italiana. 73 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, X,89,2,158-159, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, X,89,2, 170-171, per la versione italiana.


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theia, è turpe ed immorale, come d’altra parte testimoniano i miti rappresentanti gli déi immortali, agitati dalle stesse passioni e con gli stessi vizi degli uomini mortali. È in gioco, infatti, il bìos o la vita stessa dell’uomo. Così, l’alessandrino, implicitamente, avverte come la vita giusta e buona debba essere animata e guidata da un ideale di moderazione e temperanza che rinviene nella metriopàtheia o nell’etica stoica del controllo e della misura delle passioni74. Proprio la synétheia, i cui miti e le cui usanze, Clemente ha dimostrato essere insani e corruttori, è un veleno mortale che uccide la vita dell’uomo, impedendogli soprattutto di ricercare il fine vero della vita umana: il Padre. L’Alessandrino, così, in maniera più chiara, illustra la vita davvero umana, quella buona dell’uomo, come quella volta alla ricerca del Padre. Contro l’adorazione ed il culto reso alle statue, Clemente fa osservare che: «Pertanto, la vita (bìos) che con così grande passione si interessa esclusivamente della materia, mi sembra, è colma unicamente di follia (manìas).»75. La manìa o «follia» dei pagani volge la vita dei pagani alla bellezza delle statue, rendendola, in realtà, «una morte senza fine»: «Inoltre, se, da un lato, la tradizione (synétheia) che vi ha spinto ad assaporare la schiavitù e l’irrazionale superstizione, è stata alimentata da una vana opinione, dall’altro, l’ignoranza è stata la causa dei riti sacrileghi e delle ingannevoli cerimonie. In verità, tale ignoranza, avendo posto nel genere umano imbrogli di sventure funeste e di esecrabili idoli, mediante l’invenzione di numerose forme di demoni, ha finito per imprimere in coloro che la seguono il marchio di una morte senza fine.»76.

74 Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), 99,2, 286, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, I,99,2, 2124-125, per la versione italiana. 75 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, X,99,1, 167, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, X,99,1, 181, per la versione italiana. 76 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, X,99,1, 167, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, X,99,1, 181-182, per la versione italiana. In riferimento all’ate omerica ed alla manìa classica che rendevano l’uomo incapace di agire secondo il proprio giudizio, cfr. E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, 84: «Strettamente affini a quest’operatore dell’ate sono gli impulsi irrazionali che, contro la volontà dell’uomo, sorgono in lui per tentarlo».


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L’ignoranza, dunque, o àgnoia è stata responsabile della credulità dei pagani e della loro adesione a riti e cerimonie inconsulte e superstiziose. L’uomo ha a disposizione la sua vita da vivere come tempo per nascere alla vita nuova. Clemente pone quindi un’esortazione al battesimo: «Accogliete, dunque, l’acqua razionale; lavatevi, voi che vi siete infangati e con le stille della verità purificatevi delle macchie della tradizione (synethéias): occorre essere puri per poter salire al cielo. Tu sei un uomo (è questa la cosa che ti accomuna a tutti): cerca colui che ti ha creato; sei figlio: (e questa è la cosa che maggiormente ti distingue): allora riconosci il Padre.»77.

Spogliarsi della synétheia fallace ed ingannatrice significa per l’uomo riconoscere sé stesso, la propria umanità, congiunta alla propria creaturalità - poiché l’uomo è stato creato da Dio - ed insieme riconoscersi figlio di Dio, poiché Dio è Padre. Ormai alla fine dell’opera, un’altra esortazione di Clemente pone la seguente affermazione: «Fuggiamo dunque la tradizione (synethéian), fuggiamola come se fosse un pericoloso promontorio o come se si trattasse della minacciosa Cariddi o delle leggendarie Sirene: la tradizione (synétheia) strangola l’uomo, lo allontana dalla verità, lo porta lontano dalla vita, è un cappio, è un abisso, è una fossa, è un male funesto.».78

Fuggire la synétheia è dunque indispensabile per Clemente perché l’uomo conosca la verità che gli permetta di vivere la sua vera, umana vita, creata e donatagli dal Padre, poiché non si tratta di passare da una religione ad un’altra oppure da una schiavitù all’altra ma di giungere alla conoscenza del Logos che è vera gnosis, arrecante all’uomo la salvezza. 77 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, X,99,3, 167, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, X,99,3, 182, per la versione italiana. 78 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, XII,118,1,187, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, XII,118,1, 205, per la versione italiana.


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4. LOGOS E PHILANTHROPÌA NEL PROTREPTIKÒS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA I greci ed i romani non amavano gli déi ma li temevano o ne avevano paura79. Contro la synétheia e la doxa dei pagani che oltre a rendere la vita degli uomini «una morte senza fine», impediscono loro di compiere la ricerca del vero Dio, i Padri anteniceni insistettero nel porre ed illustrare la fede cristiana in un Dio che ama l’uomo e vuole la conversione di tutti, specialmente dei malvagi. L’amore di Dio Padre verso gli uomini o la sua Philanthropìa o la magnanimità di un Dio philànthropos che invia il proprio Logos Figlio a salvare l’umanità viene ripresa ed originalmente riformulata da Clemente d’Alessandria, nel II secolo. Procedendo nella nostra breve rassegna di testi, a ritroso, dal Paidagogòs al Protreptikòs, quindi - seguendo l’ordine presunto della trilogia clementina - tornando al Paidagogòs, si è evidenziato finora come Dio Padre, philànthropos, si sia volto verso il mondo e verso l’uomo, mostrando di non essere lontano dal mondo e di non essere estraneo all’uomo. Il Vangelo o «lieto annunzio», espresso e contenuto nella Teologia del Logos, mostra uno scarto insuperabile rispetto alla Philosophìa degli antichi. Afferma infatti Clemente: «Avremmo potuto citare come nostri sostenitori in questo discorso (zétesis) i filosofi, che affermano che solo chi è perfetto è lodevole, mentre il malvagio è da biasimare. Ma poiché alcuni di loro denigrano l’essere beato ritenendo che esso non agisca nella realtà, né agendo in se stesso né intervenendo fuori di sé poiché non comprendono il suo amore per l’uomo (philanthropìa) – a causa dunque di costoro e di quelli poi che non accettano la connessione tra il giusto e il buono, abbiamo lasciato perdere il riferimento [ai filosofi]»80.

79 Cfr. E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, 78: «D’altra parte, l’amore di Dio manca nel vocabolario greco più antico: filo/qeoj, compare per la prima volta in Aristotele.». 80 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), 93,2, 274, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, I,93,2, 118-119, per la versione italiana.


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L’Alessandrino denomina il suo argomentare nel Paidagogòs come una ricerca o zétesis; per questo motivo, attesta ed esamina la testimonianza di altri prima di lui che si sono occupati della ricerca di Dio. I filosofi pagani, quali quelli stoici, non comprendono la Philanthropìa da lui attribuita a Dio. Per gli stoici, Dio non agisce nel mondo e non interviene al di là ed al di fuori della sua natura. Quelli, allora, non possono aiutare ad approfondire il mistero del Logos, della sua rivelazione agli uomini, della sua conoscenza e della sua ricerca degli uomini cui offrire la salvezza. Nel Paidagogòs, rispetto agli stoici, Clemente va avanti, scorgendo nella Philanthropìa di Dio verso gli uomini, in Gesù Cristo, il compimento ed il fine dell’amore e dell’obbedienza che gli uomini devono a Dio. Afferma ancora che: «Davvero molta è la sapienza della sua pedagogia (paidagoghìas) e le vie della sua divina economia (oikonomìas) per condurci alla salvezza sono molteplici. Il Pedagogo testimonia in favore dei buoni, richiama gli eletti a diventare migliori e distoglie dal loro slancio coloro che corrono nelle vie dell’iniquità, esortandoli a convertirsi a una vita migliore. … . E anche l’ardore dell’ira [di Dio] – se vogliamo chiamare ira il suo rimprovero – è segno del suo amore per l’uomo: è Dio che scende (katabainòntos) ad assumere sentimenti umani (pathos), per amore dell’uomo (philànthropos), per il quale il Logos di Dio si è anche fatto uomo»81.

È soltanto per amore degli uomini che Dio, invece, ha inviato il suo Logos, il Verbo divino che si è fatto uomo. In questo suo farsi uomo, Dio discende nel mondo e va incontro all’uomo. Impiegando il verbo katabàinein, indicante il discendere di Dio, questi, rinunziando alle prerogative della sua natura, «discende» nel mondo verso l’umanità, assume le passioni dell’uomo o pathe. Dio Padre con il suo divino Logos da impassibile, alieno dalle passioni umane, si fa passibile, uomo in tutto e per tutto. Lo ha fatto per esortare gli uomini a convertirsi ad una vita migliore.

81

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), 74,3, 242, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, I,74,3, 102, per la versione italiana.


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Proprio in questo discendere del Logos o katàbasis in mezzo agli uomini, consiste in Clemente la Philanthropìa. Si può facilmente rilevare come tale accezione del termine si riscontri a pié sospinto nel Paidagogòs. Qual è invece l’accezione e quali le risonanze del termine Philanthropìa nel Protreptikòs? Allo scopo di rispondere a questa domanda è più opportuno porre il problema del rapporto tra Logos e Philanthropìa, nella prima opera della trilogia clementina, dal momento che la riflessione e l’argomentare dell’Alessandrino toccano non soltanto la dimostrazione, la dimostrabilità e la ragionevolezza della fede cristiana, contrapposte alla falsità, alla fallacia ed all’irragionevolezza dei culti e dei miti pagani. Il procedere delle argomentazioni clementine nel Protreptikòs afferisce alla “pratica” del credere e del rendere culto al vero Dio ovvero alla corretta pietà o adorazione della divinità. Vedremo quindi come il significato ed il senso religioso della Theosébeia, a motivo della Philanthropìa del vero Dio, ne escano completamente trasformati. La Theosébeia come “pratica”, nuova ed originale, umana e cristiana, del vero culto da rendere a Dio, si presenta come capace di purificare l’anima dell’uomo dalle passioni che deturpano l’immagine della divinità e piegano gli uomini, pur dotati di ragione, a venerare statue, oggetti ed idoli. Nel capitolo I del Protreptikòs, nel suo appello al Logos, Clemente dichiara: «Il Signore, lo strumento (organon) di Dio, ama gli uomini (philànthropon), ha pietà, istruisce, esorta, ammonisce, salva, custodisce, e, come ricompensa della nostra istruzione, ci annunzia il regno dei cieli, traendo da noi questo solo profitto: la nostra salvezza.»82.

La prima operazione compiuta dal Logos è quella di amare gli uomini; il Logos ha pietà di loro, se ne prende cura, in sintesi, li ama. 82 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,6,2, 59: Fila/nqrwpon to£ oÃrganon tou¤ qeou¤! o( ku/rioj e)leei¤ paideu/ei protre/pei nouqetei¤ s%¤zei fula/ttei kai£ misqo£n h(mi¤n th¤j maqh/sewj e)k periousi/aj basilei/an ou)ranw¤n e)pagge/lletai tou¤to mo/non a)polau/wn h(mw¤n oÀ s%zo/meqa. Si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,6,2, 54, per la versione italiana.


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Dio nel suo Logos, quale suo strumento di salvezza, vuole salvare gli uomini. Ogni operazione del Logos, il suo amore, il suo essere ed il suo provenire da un Dio philànthropos ha come suo fine e vero senso la salvezza di tutti gli uomini. Subito dopo, ricorre per l’unica volta nel Protreptikòs, il termine Philanthropìa. Vi afferma Clemente: «Tu hai dunque la promessa di Dio, hai il suo amore (philanthropìa): prendi parte allora alla grazia. E non credere “nuovo” questo mio canto salvifico nello stesso senso in cui si dice nuovo un attrezzo o una casa: esso, infatti, esisteva prima della stella del mattino (Sal 109,3), e: in principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era Dio (Gv 1,1).»83.

L’argomentazione dell’Alessandrino è puntuale, e nonostante vi ricorra una sola volta, sulla Philanthropìa è costruito tutto il capitolo I84. Clemente è tutto proteso non già a dimostrare la verità del Logos come ragionevole ed indiscutibile, quanto, piuttosto, a smascherare la religione e la religiosità dei pagani o dei greci, ritenuta venerabile e depositaria dell’Ethos della civiltà antica, quando, invece, è un complesso sistema mitico, mitologico e rituale con lo scopo di proteggere i pagani dal terrore della morte e dell’ignoto. L’argomentazione o le argomentazioni di Clemente nel capitolo I, all’inizio della prima parte, più propriamente apologetica, o pars destruens e di tutta l’opera, si dipana fra due capi, l’uno avvalorante l’importanza dell’altro: il Logos con la sua archetipicità e la sua Philanthropìa. Occorre pertanto ripercorrere, dall’inizio, il Protreptikòs ed il capitolo I, soffermarsi sui contenuti distribuiti entro un percorso, in cui Clemente mostra l’antichità, la precedenza cronologica del Logos o

83 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,6,3, 59: E à xeij ouån th£n e©pagghli/an eà xeij th£n filanqrwpi/an. Kai/ mou to£ aåsma to£ swte/rion mh£ kaino£n ouÃtwj u(pola/bvj w(j skeu¤oj hÔ w(j oi)ki/an! pro£ e(wsfo/rou ga£r hån kai£ e)n a)rx$¤ hån o( lo/goj kai£ o( lo/goj hån pro£j to£n qeo£n kai£ qeo£j hån o( lo/goj. Si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,6,3, 54, per la versione italiana. 84 Vd. D. DAINESE, Il Protrettico ai Greci di Clemente Alessandrino. Una proposta di contestualizzazione, in Adamantius 16 (2010) 256-285, in particolare alle pp. 268-269.


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Francesco Aleo

la sua archetipicità. Quindi, rivelando la Philanthropìa di Dio Padre, annunzia ai pagani l’avvento del «Canto Nuovo». L’opera nel capitolo I si apre con l’illustrazione dei miti greci, precisamente di quelli che hanno al centro la figura dei mitici cantori dell’antichità: Anfìone di Tebe, Ariòne di Metìmna ed Eunòmo di Locri85. Specialmente a proposito del mito di Eunòmo, Clemente coglie l’occasione per porre il mito al vaglio della ragione: non furono infatti le cicale ad imitare il canto di Eunòmo, ma fu quest’ultimo ad imitare il canto delle cicale86. Al vecchio canto dei mitici cantori, Clemente contrappone il nuovo canto del divino Logos; ai cantori propagandati da antichi miti e leggende, Clemente contrappone il proprio cantore, Cristo, poiché: «E in verità il mio Eunomo canta, ma non certamente un canto secondo le regole di Terpandro e di Cepione, e neppure alla maniera frigia o lidia o dorica, ma il canto perenne sull’eterno (aìdion) modo (nomon) della nuova armonia (armonìas), quello giustamente chiamato «di Dio», il «Canto Nuovo», il canto levitico: che calma il dolore oblio di tutte le pene (Od., IV,221). In questo canto è stato infuso un farmaco dolce e autentico contro il dolore.»87.

Quello del Logos è il canto perenne dalla nuova armonìa, un canto che guarisce le pene e gli affanni, la cui musica è curativa. Il suo potere terapeutico può spiegarsi anche con i versi dei poeti pagani come Omero, di cui Clemente cita un verso dell’Odissea. Omero, infatti, sia pur involontariamente o àkon, ha testimoniato il Logos che opera o profetizza come Logos therapeutikòs per guarire il cuore e l’anima

85 Certamente, l’abbondanza dei miti e dei loro racconti nel Protreptiko/j rende conto dell’impressionante mole di lavoro e di erudizione, profusa in questa come nelle altre opere clementine, grazie ai mezzi ed agli strumenti messi a disposizione dalle scuole di Alessandria e dalla sua Biblioteca, la più rinomata del mondo antico. 86 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,1,3, 53, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,1,3, 47, per la versione italiana. 87 Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,2,4, 55, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,2,4, 49-50, per la versione italiana.


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degli uomini dagli effetti degli affanni della vita e delle passioni sulla loro anima88. La Pòiesis o la versificazione omerica rende presente e vivente Omero, nella mente e nel cuore dei suoi ascoltatori e di quelli del Protreptikòs. Omero, cantando nei suoi versi del Logos, inconsapevolmente, vi pone precetti philanthròpoi, manifestanti anch’essi la philanthropìa dell’insigne poeta, quale «amante dell’uomo» o della sua umanità89. La Philanthropìa è presente dunque anche nei greci e nel loro poeta più grande. Quest’argomento è presente e sviluppato nel Paidagogòs; tuttavia, nel Protreptikòs, il cantore di Clemente non è come gli antichi cantori pagani, propagatori di menzogne ed ispiratori di riti misterici, fallaci ed inconsulti: «Ma non è come costoro il mio cantore, il quale non è soltanto venuto per liberarci dopo lungo tempo dalla dolorosa schiavitù (cf. Rm 8,31;Gal 5,13) dei demoni che ci tiranneggiano; al contrario, facendoci passare dal giogo dei demoni al giogo (zygòn) mite (cf. Mt 11,30) e umano (philànthropon)

88

Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), VI,36,1, 174-175, si rinvia a Il Pedagogo, I,6,36,1, 69, per la versione italiana. L’opera poetica di Omero è connotata da Clemente dal verbo manteu/ein o «vaticinare», come un ma/ntij od un oracolo pagano, mentre altrove, l’opera legislativa di Mosé è connotata dall’avverbio profhtikw¤j o «profeticamente» (cfr. Le Pedagogue (I), VII,60,2, 218, si rinvia a Il Pedagogo, I,7,60,2, 90, per la versione italiana). Clemente, nell’accostare sia Mosé che Omero, a guisa di profeti, in realtà pone una distinzione importante, nel rispetto dell’identità giudaica dell’uno e dell’identità ellenica dell’altro, ma mai in vista dell’esclusione dell’uno o dell’altro dall’ O ) ikonomi/a del divino Lo/goj. Così, Omero non è profeta ma «vaticina» secondo gli oracoli pagani; Mosé non è profeta ma agisce «profeticamente». 89 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), I,3,2, 112-113: «La guarigione (iÃasij) dalle passioni (pa/qh) ne consegue; il Pedagogo, infatti, servendosi degli esempi (e)ikwnw¤n) incoraggianti, fortifica gli animi e con i suoi benevoli (filanqrw¤poi) precetti (u)poqh/kaij) – quasi fossero “dolci farmaci” (Il. IV,218) – conduce verso la piena conoscenza (gnw¤sin) della verità quelli che erano stanchi e abbattuti. Salute (u)giei/a) e conoscenza (gnw¤sij) invero non sono la stessa cosa: questa si acquista con l’apprendimento, l’altra con la cura (i)as / ei) guaritiva.». Si rinvia a Il Pedagogo, I,1,3,2, 35-36, per la versione italiana; si noti come la versione letterale legga paramuqi/a come «esortazione» avvalentesi di esempi incoraggianti, si tratta così di una pratica terapeutica.


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Francesco Aleo della pietà religiosa (theosebéias), richiama nuovamente verso il cielo quelli che sono stati scagliati sulla terra.»90.

Clemente, nel capitolo I, presenta la Theosébeia come un giogo rispettoso dell’uomo o philànthropon, insegnata da questo cantore, così diverso da quelli degli antichi miti. Un giogo mite che non vuole rendere l’uomo schiavo ma vuole liberarlo, volgendolo al vero culto. La corretta pietà religiosa o la Theosébeia viene presentata da Clemente come una “pratica” di liberazione che sviluppi nell’uomo la sua piena umanità, facendogli riconoscere il vero Logos e non lo riduca a venerare gli idoli. Il cantore di Clemente, Cristo, viene a portare la vera, umana (philànthropon), Theosébeia, opposta a quella antica, rivelantesi come giogo (zygòn) di schiavitù, ad opera dei demòni. Il Canto Nuovo del Cristo, il nuovo cantore, insegna agli uomini a tornare al cielo proprio con la corretta pietà religiosa o Theosébeia. Questa, allora, si rivela non essere finalizzata a tener buoni od a placare gli déi capricciosi o una divinità o Fato incomprensibili, con riti, gesti, cerimonie e sacrifici, ma capace invece di elevare lo sguardo degli uomini dalla terra e dagli idoli, fino al cielo. Infatti, afferma l’Alessandrino, subito dopo: «Gli stolti sono pietre e legno, ma ben più insensibile delle pietre è l’uomo sprofondato nell’ignoranza (agnòia).». La giusta e corretta Theosébeia debella l’àgnoia o l’ignoranza, fa comprendere, inoltre, come il divino Logos, ancor prima della sua Incarnazione, nelle scritture profetiche, muovesse gli uomini a riconoscere il vero Dio: «Dio, il quale, avendo avuto compassione della smisurata stoltezza e della durezza di cuore di coloro che sono diventati pietre rispetto alla verità, fece nascere il seme della pietà religiosa (theosebéias), in grado di percepire la virtù da quelle pietre, cioè da coloro che hanno confidato nelle pietre.».91 90 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,3,2, 55-56, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,3,2, 50-51, per la versione italiana. 91 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,4,2, 56, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,4,2, 51, per la versione italiana.


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Il Logos, ha sparso il seme della Theosébeia per preparare ed educare gli uomini alla conoscenza ed all’adorazione della divinità vera, non fatta di pietra. Clemente riconosce la Theosébeia o il culto divino come capace di operare la trasformazione di chi rende culto o di chi adora la divinità. Cosicché, coloro i quali adorano la pietra diventano pietra; mentre il Logos ha fatto in modo che anche dalle pietre si potesse trarre, attraverso la Theosébeia, la virtù o areté, che permettesse agli uomini con la loro condotta, di cominciare in qualche modo a conoscere il Dio vero, fino a quando non apparisse, negli ultimi tempi, la Philanthropìa di Dio che vuole portarci alla salvezza (cfr. Tt 3,3-5). Così, Clemente può lasciarsi andare alla seguente grata considerazione: «Vedi quanto sia potente il Canto Nuovo! Esso ha tratto uomini da pietre e uomini da fiere. Quelli che altrimenti erano morti, che non erano partecipi di quella che è veramente vita, tornarono a nuova vita solo perché divennero ascoltatori (akroatài) di questo canto.».92

Il Canto Nuovo è allora il Logos, capace di un insegnamento acroamàtico che renda gli uomini non degli iniziati ma degli «ascoltatori» o akroatài del Logos o della Parola di Dio che si è fatta carne. Subito dopo, questo stesso divino Logos è il medesimo Logos che crea tutte le cose, come se eseguisse una musica od una sinfonia, le cui parti o le cose create si mantengono in equilibrio, ciascuna al proprio posto, nel cosmo. Questo Logos esisteva ancor prima della Creazione e del re Davide: «Il Logos di Dio, che discendeva da David ed esisteva prima di lui, disdegnò la lira e la cetra, strumenti senza vita, e, avendo armonizzato mediante lo Spirito Santo questo mondo, vale a dire l’uomo, tanto la sua anima quanto il suo corpo, mediante questo strumento suona in onore di Dio, e canta con questo strumento che è l’uomo.»93. 92

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,4,4, 57, si rinvia a CLEMENTE ALESai greci, I,4,4, 52, per la versione italiana. 93 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,5,3, 58, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,5,3, 53, per la versione italiana. SANDRINO, Protrettico


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Francesco Aleo

Il divino Logos ha fatto dell’uomo il proprio strumento, in maniera da rendere la sua vita un canto gradito a Dio. Ecco allora che l’uomo, divina creatura, rende culto a Dio con la sua stessa vita. Ne deriva che l’uomo con tutta quanta la creazione è bello o kalòs: «Il Signore creò l’uomo bello, a sua immagine (cfr. Gn 1,27), come uno strumento (òrganon) inanimato: e certamente egli stesso, il Logos celeste, è uno strumento di Dio, uno strumento in tutto melodioso, assolutamente accordato e santo, sapienza che è al di sopra di questo nostro mondo, Logos celeste.»94.

L’uomo è quindi uno «strumento»; questa non è una definizione riduttiva di Clemente dell’umanità creata da Dio, quanto piuttosto l’immagine del divino Logos, il quale, allora, è anch’egli strumento e per di più, sapienza sovrannaturale. A differenza del Logos celeste, l’uomo è come uno strumento inanimato, prende vita - la sua vita vera - soltanto al canto del Logos creatore. Il divino Logos o il «Canto Nuovo» vuol liberare l’uomo, ma Clemente aggiunge alla fine che vuole «riconciliare i figli disobbedienti con il Padre.». A tale scopo, il Logos philànthropos esercita la sua Philanthropìa. L’Alessandrino introduce subito dopo il problema della “novità” del Logos. Questi infatti è prima della creazione. In qual senso allora il Logos è «nuovo»? Certamente, non come «un attrezzo o una casa». Clemente tenta di rispondere, spiegando ai pagani che il Logos è nuovo, in quanto è Cristo stesso ovvero il Logos incarnato presso Dio Padre fin dall’eternità: «Ora, dato che il Logos era dal principio, egli crea ed è origine di tutte le cose; ma poiché ora prese il nome già fin dall’antichità riconosciuto come santo, e degno della potenza, il Cristo, è stato da me chiamato Canto Nuovo.».95 94

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,5,4, 58, si rinvia a CLEMENTE ALESai greci, I,5,4, 53, per la versione italiana. 95 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,6,5, 60, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,6,5, 55, per la versione italiana. SANDRINO, Protrettico


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Il Logos è dunque nuovo in Cristo. L’Incarnazione rappresenta l’autentica novità del Logos: il Canto Nuovo. Più esattamente, l’archetipicità del Logos assume in Cristo la sua ulteriore e definitiva qualificazione o la nuova armonia, quella del Canto Nuovo. Clemente, infatti, si accorge che sarebbe assurdo, dinanzi ai pagani, rivendicare l’antichità del proprio culto e della propria religione con l’archetipicità del Logos, creatore di tutte le cose, esistente prima della creazione nell’eternità. In tal modo, risponderebbe all’accusa dei pagani, secondo la quale il cristianesimo sarebbe una religio nova, dunque né credibile né affidabile, affermandone al contrario la sua antichità o la sua precedenza nel tempo, in una parola, la sua eternità. A Clemente questo non basta, egli scorge, proprio nel culto degli ìdoli, la perversione cui sono giunti i pagani. Allo scopo di sottrarli a tale perversione, non occorre semplicemente dimostrare la maggiore antichità di un altro culto o di una nuova religione. Clemente pone allora la sua scommessa, cui accennavamo più sopra, riguardante il vero ethos ovvero il vivere bene: «Dunque il Logos, cioè Cristo, è la causa sia del nostro esistere anticamente (il Logos era, infatti, in Dio), sia <la causa> del nostro esistere bene. Ora è apparso agli uomini questo Logos, il solo che è tutte e due le cose, Dio e uomo, egli che è la causa per noi di tutti i beni. Dal momento che da lui abbiamo imparato il vivere bene, siamo avviati verso la vita eterna.»96.

Il divino Logos è antico (pàlai), è nostra causa ed origine, in quanto creati a sua immagine, ma in Cristo è anche nuovo, in quanto nell’incarnato ci insegna a vivere bene. L’Ethos, dunque, non è più da intendersi come vuota consuetudine oppure come Synétheia, tradizione religiosa che alla nuova musica o armonìa del Logos si rivela essere vuota ed insulsa, rendendo schiavi gli uomini. Al contrario, l’Ethos, promanante dal Logos e dalla sua Theosébeia che Egli stesso ci insegna con il Canto Nuovo, libera l’uomo, gli permette di conoscere sia la divinità vera che la vera umanità, in quanto il Logos, esistente 96

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,7,1, 60, si rinvia a CLEMENTE ALESai greci, I,7,1, 55, per la versione italiana.

SANDRINO, Protrettico


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dall’eternità presso il Padre, in Cristo, ora, è vero Dio e vero uomo (cfr. Tt 2,11-13). Gli déi oggetto del culto idolatrico si rivelano essere uomini od eroi vissuti nell’antichità quindi divinizzati oppure si mostrano incapaci di osservare la virtù e l’Ethos che invece il Mito pretenderebbe di custodire e di far osservare agli uomini. Sin dall’antichità, infatti, il divino Logos ha avuto «compassione del nostro vagare» ma, ora, apparso agli uomini nella carne, ci chiama alla salvezza97. Il Logos, fin dall’eternità, antico e sempre nuovo, si è progressivamente rivelato nella storia degli uomini, allo scopo di migliorare la vita umana non di asservirla ad una religione o ad una religiosità cieca ed oscura che si fregia di un passato apparentemente venerabile ma che in realtà rinchiude gli uomini nella paura e nella superstizione. Più avanti, Clemente pone ai greci o ai pagani l’annunzio, ritenente in sé l’esortazione ad ascoltare il Logos incarnato ed a convertirsi: «E lo stesso Logos ormai ti parla chiaramente, confondendo la vostra incredulità; si, lo ribadisco, il Logos di Dio fattosi uomo, affinché in verità anche tu da un uomo possa imparare come un uomo diventi Dio.»98. Il Logos fattosi carne ci insegna, allora, a divenire come lui, dal momento che l’uomo è chiamato in Cristo a divenire Dio. Il capitolo I, avviato ormai verso la conclusione, si sofferma su Giovanni Battista, il Precursore, quanto all’atteggiamento su “pratiche” autentiche di purificazione. Queste non sono quelle superstiziose dei pagani che si servono di «foglie di alloro e di bende guarnite di lana e di porpora», ma, Clemente esorta quanti, dotati di giustizia e temperanza, «si danno da fare», a conoscere Cristo99. Poiché solo Cristo può farci conoscere il Padre. 97

Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,7,4, 61, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,7,4, 56, per la versione italiana. 98 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,8,4, 63, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,8,4, 58, per la versione italiana. 99 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Protreptique, I,10,2, 65, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico ai greci, I,10,2, 61, per la versione italiana.


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CONCLUSIONI Gli apologisti del II secolo avevano cercato di apprezzare e di rinvenire, nella cultura pagana, quegli aspetti e quegli elementi che a loro avviso era possibile accostare al cristianesimo oppure conciliarli con la rivelazione cristiana. Con l’Incarnazione del Logos l’eternità è entrata nel tempo, Dio è entrato nella storia facendosi uomo. Clemente porta avanti la Teologia del Logos verso importanti conseguenze future, ne approfondisce i contenuti con l’apporto originale della sua riflessione, potendosi confrontare con altri apporti e contributi teologici e filosofici di un ambiente plurale e pluralistico qual era Alessandria al suo tempo.100 La Teologia del Logos nel Protreptikòs si sofferma su due aspetti: quello dell’archetipicità del Logos Figlio e quello della Philanthropìa di Dio Padre, inerente al suo divino Logos. Questi due aspetti del Logos o del mistero divino rivelatosi nell’Oikonomìa salvifica, Clemente li fa entrare in contatto, trasformandoli, con due concetti importanti della cultura pagana, conservatrice e idolatra: la Synétheia e la Theosébeia. La prima o la Synétheia rappresenta il vincolo del patrios nomos per i greci e del mos maiorum per i romani che li legava alle memorie degli avi ed alla tradizione religiosa animistica, alimentata dal mito e dalla mitologia, le cui narrazioni si intrecciavano e si elaboravano in complesse genealogie e culti, articolati in un composito rituale, in particolare, nei culti sacrificali e successivamente, nei culti misterici. Riguardo al sacrificio, thysìa per i greci o sacrificium per i romani, la Synétheia si presentava come un complesso di riti, di gesti, di usanze e credenze aventi valore apotropàico e magico, allo scopo di alleviare l’ansia e l’angoscia derivante dal cieco destino di morte riservato a ciascun mortale, l’Anànche o la Tyche dei greci, il Fatum o la Fortuna dei romani. La fissità delle cerimonie e del loro rituale, la puntuale e 100 Vd. E. Albano, Rivelare e Tacere: Note per una riflessione su Scrittura e Tradizione nel pensiero di Clemente di Alessandria. I. Il principio biblico-filosofico della rivelazione, in «Augustinianum» LVI (2016) I-II 5-20;301-330, sul rapporto tra cultura o filosofia greca e Scrittura o rivelazione, richiamante anche la dimensione etica di quest’ultima in Clemente d’Alessandria.


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scrupolosa prescrizione dei riti e della loro osservanza nel sacrificio, seguite dalla sagace spartizione e distribuzione delle carni sacrificali tra i membri della polis o della civitas rendevano la religio sia in Grecia che a Roma uno strumento di coesione sociale e di disciplinamento, allo scopo di procurare la pax deorum ed il favore degli déi oppure di incrementare anche la concordia civium e la lealtà al patrios nomos o al mos maiorum, nell’età arcaica ed in quella classica, quindi al dinasta ed all’imperatore, in età ellenistica ed in quella imperiale. La seconda o la Theosébeia rappresenta la corretta pietà religiosa verso gli déi, equivalente alla Pietas dei romani. Questa veniva investita di un compito importante: assicurare che la religiosità o l’atteggiamento con il quale si compissero i riti, i sacrifici e le cerimonie per rendere culto od onore agli déi fossero quelli giusti e corretti, in grado di muovere la divinità in favore degli uomini, allo scopo di ottenere una qualsiasi richiesta o semplicemente per avere gli déi propizi. Clemente intende penetrare in questa complessa materia ideologica, culturale, antropologica e religiosa con gli elementi della prima riflessione teologica cristiana o la Teologia del Logos. La lezione delle Scritture dell’A.T. e del N.T., ordinata ed assimilata entro un insegnamento catecumenale acroamàtico ed upomnemàtico o «sul prato profetico ed apostolico» costituisce la via per la quale giungere al cuore della religiosità dei greci e scalzare le fondamenta dell’edificio religioso, mitologico e cultuale pagano. L’esortazione di Clemente ai greci o Protreptikòs verte sul Logos, sulla sua antichità o più esattamente sulla sua archetipicità, poiché il Logos è presso il Padre prima di tutta la creazione e sulla sua Philanthropìa, dal momento che nel Cristo, Figlio di Dio e divino Logos incarnato e fatto uomo, Dio si rivela e si manifesta quale Padre philànthropos, amante degli uomini. La Philanthropìa, tuttavia, non è un semplice antropopatismo della divinità, anche Zeus è, a suo modo, padre degli déi e degli uomini. La divinità di Cristo, attraverso il divino Logos, assume l’umanità ed intona il «Canto Nuovo» con il quale Dio Padre vuole che attraverso il Figlio suo gli uomini diventino come Lui, partecipi della sua divinità e figli di Dio. Il «Canto Nuovo», anche se antico ed immemorabile, esistente fin dall’eternità, prima che gli uomini fossero creati ovvero l’archetipicità del Logos, trasforma sia la Synétheia che la Theosébeia.


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Logos e Philanthropìa

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La Synétheia, a contatto del Logos eterno diventa l’Ethos, non il costume e l’agire corrotto ed immorale, propagandato dai miti pagani, che non riesce ad emendarsi, perché gravato dalla materialità dei culti e dalla perversione dell’idolatrìa. L’Ethos del Logos dal «Canto Nuovo» è il vivere bene, è la stessa vita umana che ricerca e segue il Padre e vive del suo amore per gli uomini. Eternità e storia, archetipicità e Philanthropìa, Logos ed Ethos trovano in Clemente il loro punto d’incontro nel tempo e nello spazio, nel Logos Figlio incarnato. La Theosébeia, nell’ascolto del «Canto Nuovo» del Logos incarnato, si trasforma, diventa una nuova “pratica” religiosa e di purificazione. La Theosébeia si integra e si completa con l’Ethos o il vivere bene. Per cui, il culto perfetto da rendere alla divinità non consiste in riti, gesti, sacrifici e cerimonie, ma d’ora in poi in una vita santa e buona, purificata dalla paura e dalle passioni, secondo i comandamenti della legge divina e l’esempio del Salvatore. Assunta l’archetipicità e l’operatività del Logos, nella sua eternità e Philanthropìa, per Clemente, la creazione si presenta come un processo di distensione del medesimo Logos piuttosto che di emanazione o di caduta come nel platonismo medio e nello gnosticismo. Nello spazio e nel tempo o lungo il continuum spazio-temporale del cosmo, il Logos con la sua Philanthropìa si rivela, assume configurazioni diverse nei luoghi, nei livelli e nella qualità della materia e del tempo, ove tutto è destinato a sfociare nella contemplazione unitaria del Logos101. La conoscenza o Gnosis permette di leggere all’interno 101 Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE, Les Stromates. Stromate VI. Introduction, texte critique, traduction et notes par P. DESCOURTIEUX, Paris 1999 (Sources Chretiennes 446), VII,1-3, 184-187, si rinvia a Clemente di Alessandria, Gli Stromati, VI, 7, 61, 1-3, pp. 647-648, per la versione italiana: «anche la “gnosi” (gnw¤sij) deve essere sapienza (sofi/a): essa è scienza (e)pisth/mh) e comprensione (kata/lhyij) sicura ed infallibile di ciò che è, che sarà e che è passato, in quanto tramandata e rivelata dal Figlio di Dio. E se il fine del sapiente è la contemplazione (qewri/a) , ebbene l’attività contemplativa di chi tuttora fa filosofia tende, sì, alla divina scienza, ma non la consegue ancora: … ma proprio questa “gnosi” (gnw¤sij), concessa per diretta trasmissione, discese solo su pochi fra gli apostoli, tramandata senza scrittura (a)gra/fwj). Perciò questa “gnosi” (gnw¤sij) ossia sapienza (sofi/an) va conquistata con ascetico sforzo (sunaskhqh¤nai) per appropriarsi di un abito eterno ed inalterabile di contemplazione (qewri/aj).».


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della storia della salvezza e di quella degli uomini i segni ed il manifestarsi della Philanthropìa di Dio Padre nel Logos, in tutte le culture e le religioni. Nella legge come in Mosé presso gli ebrei, nella poesia come in Omero e nella filosofia come negli stoici, presso i greci, si individuano le fasi di polarizzazione della differenza o delle differenze del Logos philànthropos nello spazio e nel tempo. La Philanthropìa si accorda e si modula nell’ultima fase del tempo e della storia nella melodia o armonìa del «Canto Nuovo». In Cristo, Logos incarnato nel tempo, l’amore del Padre o la sua misericordia verso gli uomini, operante nel Logos dall’eternità, prima del tempo, finalmente si è manifestata. Solo per amore verso di loro o per Philanthropìa, il Padre può riuscire a convincere gli uomini ad abbandonare gli idoli ed i riti artificiosi, per volgersi al Figlio coeterno con Lui, spoglio della divinità ed assumente l’umanità nel tempo e nella storia, fino a dare la sua vita per la salvezza di tutti.


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ADDENDA ET CORRIGENDA A “OPUS CHRISTI EDIFICABIT. STATI E FUNZIONI DEI CRISTIANI DI SICILIA ATTRAVERSO L’APPORTO DELL’EPIGRAFIA”

VITTORIO G. RIZZONE1

A un lustro circa di distanza dalla pubblicazione “Opus Christi edificabit. Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia attraverso l’apporto dell’epigrafia (secoli IV-VI)”, per la collana “Studi e ricerche di Synaxis” (n. 26)2, lo stato degli studi di epigrafia cristiana in Sicilia è ulteriormente progredito soprattutto per l’edizione di nuove iscrizioni o la rilettura di iscrizioni già conosciute. Questo è il caso di alcuni documenti epigrafici della Sicilia orientale3, e, in particolare, del ferace territorio ibleo4. Procedendo in senso antiorario, per quanto concerne il territorio ragusano occidentale, sono stati editi nuovi documenti epigrafici tardoantichi dell’Antiquarium di Kamarina5, nel quale si raccolgono, tra l’altro, iscrizioni rinvenute a Ragusa, a Chiaramonte Gulfi e a Comiso: 1

Abate del monastero benedettino di San Martino delle Scale, docente di Archeologia presso lo Studio Teologico S. Paolo 2 Le abbreviazioni, le sigle e le numerazioni del presente articolo riprendono quelle di questo studio. 3 V.G. RIZZONE, Letture e riletture di iscrizioni della Sicilia orientale, in Seia 19-20 (2014-2015), 71-97: documenti epigrafici di Comiso, Ragusa, Modica, Vendicari, Bauly, Buscemi, Siracusa, Catania, Biancavilla, Paternò, Centuripe. 4 G. DI STEFANO – V.G. RIZZONE, Miscellanea epigrafica iblea, in Seia 17-18 (20122013) 45-73: documenti epigrafici di Cava Ispica, Ragusa, Comiso, Chiaramonte Gulfi, Kamarina, Modica. 5 V.G. RIZZONE, Schede, in G. DI STEFANO (cur.), Camarina. Le acquisizioni, il


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dalla contrada Terravecchia di Comiso, in particolare, proviene l’iscrizione di Prigomenia (GA15, in appendice, fig. 10), la cui rilettura, tuttavia, non sembra consentire il novero della defunta tra i “fedeli”. A Punta Secca (Kaukana) è stata portata alla luce un’iscrizione con la citazione biblica del trisagios (Is 6,3; Ap 4,8)6. Sono stati ripresi e meglio riediti epitaffi di contrade del territorio di Santa Croce Camerina7, tra i quali, in particolare, quello del “servo del Signore” e “cristiano” Kallitychos (F11=G26, in appendice; fig. 8). La ripresa complessiva della documentazione archeologica del territorio di Giarratana ha costituito l’occasione anche per pubblicare delle nuove iscrizioni8. Per il territorio ragusano orientale gli scavi condotti nella necropoli di contrada Treppiedi (Modica), hanno permesso di portare alla luce l’epitaffio di Soter, il primo in latino di questo cimitero, nei cui ipogei funerari ne erano già stati rinvenuti sette9. Per quanto concerne la Cava Ispica, l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla documentazione epigrafica restituita dall’ipogeo familiare degli Antonii, di recente sottoposto a indagini archeologiche10, e sull’epitaffio del museo tematico, la collezione “Biagio Pace”, il lapidario, Ispica 2014. In questa sede si riprende l’iscrizione GA15. 6 R.J.A. WILSON, An unusual early byzantine “thrice-holy” inscription and accompanying design from Punta Secca, Sicily, in Phoenix 67 (2013) 163-181; BE 127 (2014) 601-602, n. 593. 7 V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, Le necropoli tardoromane delle contrade Pirrera e Grassullo, in Società Santacrocese di Storia Patria. Archivio Storico 3 (2016), in c.d.s. 8 A.M. MANENTI – V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, L’età tardoantica, in Giarratana e il suo territorio. Storie dal passato, s.l., 2014, 23-24. 9 G. TERRANOVA, Scheda, in A.M. SAMMITO – S. SCERRA (curr.), I tesori di Modica. Catalogo della mostra (Modica, 2 aprile – 30 luglio 2014), Ispica 2014, 81, n. 87; A.M. SAMMITO – S. SCERRA – G. TERRANOVA, La necropoli tardoromana di c.da Treppiedi: la rilettura dei dati alla luce delle recenti scoperte, in Ollus leto datus est. Architettura, topografia e rituali funerari nelle necropoli dell’Italia meridionale e della Sicilia tra antichità e medioevo (Reggio Calabria, 22-25 ottobre 2013), in c.d.s. 10 G. DI STEFANO – V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, Scavi e scoperte della stagione 2009 nell’ipogeo degli Antonii a Cava Ispica (Modica), in X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana. Martiri, santi, patroni: per una archeologia della devozione (Arcavacata di Rende, 15-18 settembre 2010), Rossano 2012, 707-713; V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, L’ipogeo degli Antonii a Cava Ispica e le sue iscrizioni, in Seia 17-18 (2012-2013) 22-41.


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diacono “del candelabro” Tertyllanos (C4), molto probabilmente un ebreo, del quale si è potuta appurare l’originaria appartenenza a un ipogeo di Cava Ispica11. Una inedita iscrizione latina è stata rinvenuta presso lo sbocco della valle di Cava Ispica, al Parco Forza di Spaccaforno (oggi Ispica)12. Passando al territorio siracusano sono state edite delle lamine magiche in metallo rinvenute a Cava Grande (di Cassibile ?), presso Priolo Gargallo e alla Cittadella di Vendicari13; per Siracusa vecchi e nuovi dati sono stati presentati riprendendo gli studi di Paolo Orsi sulla catacomba di Vigna Cassia14, e, occasionalmente, anche su quella di San Giovanni15; per Priolo Gargallo si è raccolta la documentazione per un corpus delle numerose iscrizioni rinvenute nel suo territorio16; poco più a Nord, a Megara Hyblaea, è stato recentemente rinvenuto un epitaffio, che documenta la frequentazione del sito anche in età tardoantica17.

11 V.G. RIZZONE, Una sinagoga a Cava Ispica ?, in ZPE 200 (2016) 234-238: in questa sede viene ripresentata anche l’iscrizione del diacono Theodoulos (C3). 12 V.G. RIZZONE – A.M. SAMMITO, Ricognizione archeologica dei siti tardo-antichi del territorio dell’attuale Ispica, in G. BATTAGLIA – S. FIORILLA (curr.), In viaggio per gli Iblei (aprile-giugno 2010), Ragusa 2012, 87-88. 13 V.G. RIZZONE, Inedite lamine magiche dal territorio siracusano, in Aere perennius. Studi in memoria di Giacomo Manganaro, Sicilia Antiqua, Pisa – Roma 2016, 147-151. 14 A.M. MARCHESE (cur.), Sulle orme di Paolo Orsi. La necropoli di Vigna Cassia a Siracusa, Acireale – Roma 2012; in particolare il contributo di M.D. LO FARO, Iscrizioni, 107-142, la quale presenta alcuni documenti epigrafici inediti; qui si riprendono anche le iscrizioni EA1 e GB1. 15 Cfr. note 2 e 33. Vd. anche G. LAMAGNA – R. AMATO (curr.), La Rotonda di Adelfia. Testimonianze archeologiche dalla catacomba di San Giovanni. Catalogo della esposizione, Palermo 2014, per le iscrizioni G1=GA1=GD1 e G8 (testi di M. Sgarlata e C. Scandurra); G.S. BEVELACQUA, Una minaccia «per il dio di Zaccaria» o «per san Zaccaria» su una iscrizione cristiana da San Giovanni a Siracusa ? Una nuova proposta di lettura e alcune osservazioni, in Formule, simboli, riti, luoghi sacri nel cristianesimo siciliano (Siracusa, 23-24 ottobre 2015), in c.d.s. 16 V.G. RIZZONE, La documentazione epigrafica tardoantica del territorio di Priolo Gargallo: una messa a punto, in Seia 19-20 (2014-2015), 43-61, per l’iscrizione G21. 17 H. TRÉZINY, À propos d’une inscription funéraire paléochrétienne de Megara Hyblaea, in Provence Historique LXI (2011) 127-134.


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Per quanto riguarda il resto della Sicilia orientale, iscrizioni di Catania e di Centuripe sono state riprese nella pubblicazione dei materiali della collezione di Guido Libertini18; un rinnovato interesse si è manifestato per la nota iscrizione catanese di Iulia Florentina (B13 =GA20)19; sono state riedite anche alcune iscrizioni di Mineo20. Per Taormina è stato realizzato un corpus della documentazione epigrafica21. Passando alla parte occidentale dell’Isola, mentre per Palermo sono stati ripresentati dati già noti22, nuovi documenti epigrafici ha restituito la catacomba di Villagrazia di Carini23, tra i quali occorre in questa sede riportare un paio di epitaffi relativi a due “servi di Dio” 18 G. BIONDI, Schede, in G. BIONDI – G. BUSCEMI FELICI – E. TORTORICI, Il Museo di Archeologia dell’Università di Catania. Collezione Libertini, Acireale – Roma 2014, 171 e 173; qui, tra l’altro, viene ripresentata l’iscrizione del presbitero ebreo Eirenes (BB1). 19 A. TEMPIO, Catania. La scoperta dell’epigrafe di Iulia Florentina e alcune ipotesi sui luoghi delle Fores Martyrum, in Tradizione, Tecnologia e Territorio, II, Acireale – Roma 2014, 109-142; G. MANGANARO, Costantino e la bambina di Hybla: uno sguardo sulla Sicilia “costantiniana”, in Seia 19-20 (2014-2015), 3-30; C. SORACI, Zoilo, Costantino e le fores martyrum catanesi. Ancora sull’epigrafe di Iulia Florentina, in Klio 99/1 (2017), in c.d.s. 20 A. MESSINA, La tenuta della Maddalena nella piana di Mineo, in Aitna, Quaderni di Topografia Antica, 4, Catania 2010, 45-48 (appendice I); F. CORDANO, Materiale vecchio e nuovo dalla Sicilia Orientale, in T. ALFIERI TONINI – S. STRUFFOLINO, Dinamiche culturali ed etniche nella Sicilia orientale (PRIN 2009), in Aristonothos. Scritti per il mediterraneo Antico, Quaderni 4 (2014), Trento 2014, 105-111. In entrambi questi studi si ripresentano le iscrizioni B11, EB2, EB3-4, in maniera, però, decisamente insoddisfacente. Per esse vd. ora SEG LIX (2009), 1108-1110; AE 2009, nn. 438-440. 21 F. MUSCOLINO, Epigrafi greche e latine di Taormina, in Rivista di Archeologia Cristiana 87-88 (2011-2012) 209-248; qui si riprendono gli epitaffi F15, FA19, GA26; BE 127 (2014) 601, n. 592. 22 I. GELARDA, Palermo paleocristiana. Fonti documentarie e testimonianze archeologiche, in Mediaevalsophia 3 (2008) 66-113. Per Palermo vd. già R.M. BONACASA CARRA, Testimonianze e monumenti del primo cristianesimo a Palermo, in Kokalos 33 (1987) 305-326. 23 G. FALZONE, Epigrafi greche e latine dalla catacomba di Villagrazia di Carini (PA), in Tre note di epigrafia cristiana, Palermo 2014, 49-84; G. CIPRIANO – G. FALZONE, Epigrafi inedite dalla catacomba di Villagrazia di Carini (PA), in O. BRANDT – G. CASTIGLIA – V. FIOCCHI NICOLAI (curr.), Acta XVI Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae (Romae, 22-28.9.2013), Città del Vaticano 2016, 2013-2040.


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(F17bis e F17ter, in appendice) – incerta è la lettura di un terzo “servo” (o forse “serva”) in un’altra iscrizione molto lacunosa24 –, l’iscrizione di Erma, qualificato sanctus (GE1, in appendice); viene, inoltre, ripreso un sigillo in piombo rinvenuto nel territorio di Carini, appartenente a Felix, un vescovo di Palermo (A17, in appendice), sede della quale si discuterà più avanti. Nuovi e significativi dati gettano luce sulla Selinunte paleocristiana25. Poco rilevanti, nel complesso, sono invece i nuovi dati relativi ad Agrigento26. Sono state esaminate anche le iscrizioni rinvenute in siti dell’entroterra siciliano quali indicatori dell’irradiazione del cristianesimo oltre i siti costieri, con particolare concentrazione lungo le vie di comunicazione27. Altre iscrizioni che accompagnano l’arredo personale (fibbie, anelli, monili, amuleti…) sono state pubblicate in contributi che prendono in esame questa classe di manufatti28, o in occasione di 24 CIPRIANO – FALZONE, Epigrafi inedite, cit., 2020-2021, tav. 5D; essa si potrebbe integrare come segue: K$u,ri%e boÎh,ÐqñÎei Suntu,ÄÐ Õ ch| ÎdÐouleÎusa,sh| tÐw|Î/ Qew|Ð/ oppure, meglio, per ragioni di spazio tra CH e OULE, K$u,ri%e boÎh,ÐqñÎei th|/ dei/naÐ Õ ch,Îra| dÐouleÎusa,sh| tÐw|Î/ Qew|Ð/ ) 25 F. LENTINI, L’insediamento tardoantico alla foce del fiume Modione, in S. TUSA (cur.), Selinunte, Roma 2010, 199, fig. 10. 26 Cfr. A. MAGNELLI, Le iscrizioni, in R.M. BONACASA CARRA – F. ARDIZZONE (a cura di), Agrigento dal Tardo Antico al Medioevo. Campagne di scavo nell’area della necropoli paleocristiana. Anni 1986-1999, Todi 2007, 293-297; V. CAMINNECI, Carnem suam quisque naturaliter diligit (August. De cura pro mortuis 7, 9). La cura dei corpi in una necropoli tardoantica dell’Emporion di Agrigento, in P. ARTHUR – M.L. IMPERIALE (a cura di), VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Lecce, 9-12 settembre 2015), Firenze 2015, 52-53, fig. 2,7, per un amuleto con iscrizione Ku,rie boh,qi. 27 V.G. RIZZONE, Indicatori epigrafici della diffusione del cristianesimo nella Sicilia centrale, in F.P. RIZZO (cur.), La Villa del Casale e oltre. Territorio, popolamento, economia nella Sicilia centrale fra tarda antichità e altomedioevo (Piazza Armerina, 30 settembre – 1 ottobre 2010), in Seia 15-16 (2012) 251-277: in questa sede si riprendono le iscrizioni B11, BA1, BB3, DD2=A12, EA5, EB1-5; F13, F17, FA12-13. 28 S. METAXAS, Zur materiellen Kultur des byzantinischen Sizilien, in B. BÖHLENDORFARSLAN – A. RICCI (curr.), Byzantine Small Finds in Archaeological Contexts, in Byzas 15 (2012) 39-48; V. ZANASI, Anelli nuziali tardoantichi: uso e significato, in I. BALDINI LIPPOLIS – A.L. MORELLI, Oggetti-simbolo. Produzione, uso e significato nel mondo antico, Bologna 2011, 229-252; F.P. MASSARA, Sincretismo e immagine alle porte del Medioevo. Le gemme gnostico-magiche del Museo Archeologico di Palermo, in A. MUSCO – G. MUSOTTO (curr.), Coesistenza e cooperazione nel Medioevo. IV Congresso Europeo di Studi Medievali. In memoriam L.E. Boyle (Palermo, 2009), Palermo 2014, 891-906.


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mostre, in particolare quella allestita dal Museo Archeologico Regionale di Palermo e che presenta materiali per lo più rinvenuti nella Sicilia occidentale29: tra quelli illustrati si segnala, in particolare, l’anello in bronzo del presbitero Gregorios databile al VII secolo, rinvenuto a Palermo (B21, in appendice). Altri contributi si sono concentrati sulla storia degli studi30, o su singoli aspetti presentati dai documenti epigrafici, quali quello iconografico che esplora il nesso tra rappresentazioni figurate e iscrizioni31, quello linguistico sia della documentazione epigrafica relativa alla Sicilia32, che all’arcipelago maltese33; e ancora l’aspetto liturgico quale emerge soprattutto dalle iscrizioni a carattere funerario34, quello delle istituzioni della chiesa antica35. Le iscrizioni, inoltre, sono state valutate come espressione del processo di cristianizzazione36, o sono servite per cogliere singoli aspetti della società antica, come, ad

29 L. GANDOLFO (cur.), Pulcherrima Res. Preziosi ornamenti dal passato. Catalogo della mostra, Palermo 2008. 30 V.G. RIZZONE, L’epigrafia cristiana in Sicilia tra le due guerre, in R. PANVINI – A.M. SAMMITO (curr.), L’archeologia in Sicilia tra le due guerre (Modica, 5-7 giugno 2014), in c.d.s. 31 G. CIPRIANO, La decorazione pittorica nei contesti funerari della Sicilia. III-V secolo d.C., Palermo 2010; M. SGARLATA, Parole e immagini nelle catacombe di Siracusa, in F. BISCONTI – M. BRACONI, Incisioni figurate della Tarda Antichità. Atti del Convegno di Studi (Roma, 22-23 marzo 2012), Città del Vaticano 2013, 511-521. 32 K. KORHONEN, Greek and Latin in the urban and rural epigraphy of Byzantine Sicily, in Acta Byzantina Fennica n.s. 3 (2010) 116-135. 33 M.D. LO FARO, Observations on the linguistic epigraphic choice in late antique inscriptions from Malta, in Malta Archaeological Review 9 (2008-2009) 14-21. In questa sede si riprendono le iscrizioni BA2 e BC1. Per la seconda, per E20 e per FA23 vd. anche SEG LIX (2009), nn. 1082-1084; AE 2010, n. 614-617; BE 124 (2011) 532, n. 734. 34 V.G. RIZZONE, Riflessi di liturgie dei morti nelle iscrizioni paleocristiane e protobizantine della Sicilia, in F. ALEO – R. GISANA – G. ZITO (curr.), In servitio magistri. Miscellanea in onore dei docenti emeriti dello Studio Teologico S. Paolo, Troina 2011, 439-454 (si riprendono le iscrizioni FA2, FA4, GA24). 35 G. FALZONE, Usi di evkklhsi,a nella prassi epigrafica dei cristiani di Sicilia, in Tre note di epigrafia cristiana, cit., 7-38. 36 I. GELARDA, Sulle tracce dei primi cristiani nella Sicilia occidentale, Palermo 2010 (si riproducono le illustrazioni delle iscrizioni C9 e FB1).


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esempio, quello delle professioni: tale argomento, già affrontato da Francesco Paolo Rizzo37, è stato ristretto di recente al solo tema dell’arte medica38. I convegni organizzati a Palermo dall’Istituto Siciliano di Studi Patristici e Tardoantichi “J.H. Newman” hanno offerto l’occasione per inquadrare in contesti più dilatati oltre i confini siciliani molte iscrizioni paleocristiane e bizantine dell’Isola39. Di particolare importanza, sono i lavori sulla prosopografia dei cristiani e dei membri della gerarchia ecclesiastica in particolare40, e, più specificamente, sui fasti episcopali delle diocesi di Siracusa, Catania, Palermo e Cefalù.

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F.P. RIZZO, La menzione del lavoro nelle epigrafi della Sicilia antica (Per una storia della mentalità), in Seia 6 (1989), ma 1993. 38 M. CASSIA, L’esercizio della medicina nella Sicilia repubblicana ed imperiale, in Minima Epigraphica et Papyrologica XII-XV (2009-2012) 156-186. Vd., in precedenza, E. SAMAMA, Les médicins dans le mond grec. Sources épigraphiques sur la naissance d’un corps medical, Genève 2003; In entrambi questi studi, in particolare, si presenta l’iscrizione del medico maltese Domestikos G29. 39 V.G. RIZZONE, L’uso di kaqoliko,j/catholicus nelle iscrizioni dell’orbis christianus antiquus, in V. MESSANA – S. COSTANZA (curr.), L’apologetica in John Henry Newman e nei Padri di IV e V secolo, Convegno di studi (Palermo, 25-26 novembre 2011), Roma 2016, 229-265 (iscrizioni A13; DC2=FA22=GA29); ID., La magia come via della salvezza. La documentazione epigrafica della Sicilia tardo antica, in La salvezza. Relazioni fra pagani e cristiani nella tarda antichità. Convegno di studi (Palermo, 14-15 dicembre 2012), in c.d.s.; ID., Echi della cultura classica nelle iscrizioni paleocristiane di Sicilia, in I cristiani e la sapienza delle nazioni (secc. I-VI) (Palermo, 16-17 aprile 2015), in c.d.s.; ID., Stranieri in Sicilia. Siciliani in terra straniera. La documentazione epigrafica tardoantica, in L’estraneo. Inquietudini e mutazioni dell’alterità nella Chiesa e nella società (III-VII secolo), (Palermo, 15-16 aprile 2016), in c.d.s. 40 G. FALZONE, L’ecclesia Dei nella prassi epigrafica della Sicilia tardoantica. Tesi di dottorato di Ricerca in Scienze archeologiche e storiche. Università degli Studi di Messina, 2012; ID., Vescovi e membri della gerarchia ecclesiastica in Sicilia attraverso la documentazione epigrafica, in XV Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Toledo, 8-12 settembre 2008), Toledo – Città del Vaticano 2013, 1619-1636.


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VESCOVI 1. Vescovi di Siracusa In occasione del riassetto della cronotassi episcopale di Siracusa41, si è avuto modo di condurre un esame autoptico sulla lapide rinvenuta nella catacomba comunitaria di San Giovanni e conservata nel MAR di Siracusa (A4, in appendice; fig. 3). Esso ha permesso di stabilire la lettura del nome del vescovo siracusano, Ouesperion, corrispondente al latino Vesperio, antroponimo attestato in greco a Homs42. Si è avuta conferma, pertanto, della lettura già suggerita dal Wessel43.

2. Vescovi di Catania Anche per la sede vescovile di Catania è stata proposta una cronotassi che tiene conto degli apporti della sfragistica44. Si aggiunge che nel mercato antiquario olandese ha fatto la comparsa un altro sigillo di Iohannes (Iohannius) vescovo di Catania (A11bis, in appendice, fig. 4)45; esso fa il paio con l’esemplare conservato nella collezione Manga41 V.G. RIZZONE, L’apporto dell’epigrafia, della sfragistica e dell’archeologia alla cronotassi dei vescovi di Siracusa, in V. MESSANA – V. LOMBINO (curr.), Vescovi, Sicilia, Mediterraneo nella tarda antichità. Atti del I Convegno di Studi (Palermo, 29-30 ottobre 2010), Caltanissetta – Roma 2012, 307-337; ID., I vescovi di Siracusa tra VIII e IX secolo e la diffusione dell’iconoclasmo in Sicilia: fonti documentarie e archeologiche, in VIII Congresso dell’Associazione Italiana Studi Bizantini (Ravenna, 22-25 settembre 2015), in c.d.s. 42 L. JALABERT – R. MOUTERDE, C. MONDÉSERT, IGLS V, (Émésène), Paris 1959, 176, n. 2394. 43 WESSEL, IGCVO 860; ripreso da PCBE Italie, s.v. Oue(s)perion, 1567, e accettato da A.E. FELLE, Epigrafia pagana e cristiana in Sicilia: consonanze e peculiarità, in Vetera Christianorum 42 (2005) 247. 44 V.G. RIZZONE, Elementi per la ridefinizione della cronotassi dei vescovi di Catania di età paleocristiana e bizantina, in Synaxis XXX/2 (2012) 247-261; ID., Note per la cronotassi dei vescovi di Catania di età paleocristiana e bizantina e l’apporto della sfragistica, in XV Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, cit., 1659-1667. 45 www.vcoins.com/it/stores/gert_boersema/25/product/john_bishop_of_the_churc h_of_catania_byzantine_lead_seal_c_7th_century_ad/64996/Default.aspx


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naro (A11). È stato presentato recentemente anche un altro sigillo conservato al Museo Archeologico di Palermo (inv. 40820), inedito, appartenente al metropolita catanese Theodoros, evidentemente un Theodoros II, diverso dal noto Theodoros I, vescovo presente al Niceno II46. Esso, tuttavia, databile al IX secolo perché è in questo periodo che Catania diviene sede metropolitana senza suffraganee47, esula dai limiti cronologici del presente lavoro. La cronotassi prenormanna dei vescovi di Catania, allo stato attuale delle ricerche, risulta essere la seguente: - Berillus (III-IV secolo ?) - Serapio (IV secolo ?) 1. Fortunatus (…515-516…) 2. Elpidius (559-…) 3. Leo I (…591-604…) 4. Magnus (VI-VII secolo) 5. Iohannes (VII secolo) 6. Constantinus I (seconda metà del VII secolo) 7. Georgius (…-679) 8. Iulianus (680-…) - Sabinus? - Leo II ?(…- 780 circa?) 9. Theodorus I (…784-787…) 10. Severus (…802-814…) 11. Euthymius (…858-869…) 12. Theodorus II (IX secolo) 13. Constantinus II (IX secolo) 14. Antonius (IX secolo) 15. Leo II (o III ?; …997…).

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V. PRIGENT, L’évolution du réseau épiscopal sicilien (VIIIe-IXe siècle), in A. NEF – F. ARDIZZONE (curr.), Les dynamiques de l’Islamisation en Méditerranée centrale et en Sicile: nouvelles propositions et découvertes récentes, Bari 2014, 102, fig. 2: A D/ ÎQeoto,keÐ boh,qei, a R/ + Qeodwñ,Õrw| mhtÎroÐÕpoli,th| ÎKÐÕata,ÎnhjÐ. 47 RIZZONE, Elementi per la ridefinizione della cronotassi, cit., 258.


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3. Vescovi di Palermo Un recente contributo di G. Falzone ha dato la possibilità di conoscere qualche nome della cronotassi episcopale di Palermo48. Nel territorio di Carini è stato rinvenuto il sigillo di un certo vescovo Felix, con legenda latina e indicazione della chiesa di riferimento espressa mediante un monogramma (A17, in appendice; fig. 5)49. Sulla scia di quanto già da altri suggerito50, il Falzone ha ipotizzato di sciogliere il monogramma in P(an)ormi e di identificare, pertanto il titolare del sigillo con quel vescovo palermitano Felix, che partecipò al concilio lateranense indetto da Papa Martino nel 649. Il rovescio del sigillo è dello stesso tipo di quello del vescovo Theodorus (A18, in appendice; fig. 6), per cui è possibile pensare che essi appartengano a una medesima sede episcopale. Il Manganaro, sciogliendo il suddetto monogramma in “Romae”, ha identificato Theodorus con il Papa che pontificò dal 642 al 64951. Ma occorre osservare che i sigilli dei vescovi di Roma nel corso del VII secolo, allorquando, cioè, si possono datare gli esemplari di Felix e di Theodorus, presentano una tipologia differente: il sigillo di papa Deusdedit I (615-618), ad esempio, presenta, a R/ il Buon Pastore e, a V/, la legenda DEVSDEDIT PAPAE; le bolle papali, fino alla metà del IX secolo, presentano al R/ il nome del pontefice al genitivo e, al V/, la legenda PAPAE tra due croci52. Theodorus, pertanto, sarebbe un nome nuovo nella cronotassi episcopale di Palermo. D’altro canto, questi non può essere identificato, come, invece, vuole il Falzone, con il Theodorus che partecipò

48 G. FALZONE, Il contributo della sfragistica alla cronotassi episcopale panormitana, in Tre note di epigrafia cristiana, cit., 39-47. 49 C. GRECO – I. GAROFANO – F. ARDIZZONE, Nuove indagini archeologiche nel territorio di Carini, in Kokalos 43/44 (1997/1998), II/1, 658, tav. CLXVI,1. 50 J.-C. CHEYNET – C. SODE (curr.), Studies in Byzantine Sigillography, 10, Berlin – New York 2010, 124, sub n. 22. 51 G. MANGANARO, Sigilli diplomatici bizantini in Sicilia, in Jahrbuch für Numismatik und Geldgeschichte 53/54 (2003-2004), 76, n. 22. 52 G.C. BASCAPÉ, Sigillografia. Il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nella storia, nell’arte, II, Milano 1978, 17.


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al Concilio Niceno II del 787. Infatti, già dagli inizi dell’VIII secolo le cancellerie hanno cominciato ad abbandonare il latino e i sigilli recano legende in greco53. La lacunosissima cronotassi episcopale palermitana di età paleocristiana e bizantina, a seguire il presunto protovescovo Mamilianus, per il quale la forza della tradizione è piuttosto debole perché molto tardiva54, consta di pochissimi nomi55: Mamilianus (V secolo) 1. Agatho (…586/587-ante 591)56 2. Victor (591-602)57 3. Iohannes (603-…)58 4. Felix (…649…)59 5. Theodorus I 6. Theodorus II (...787…)60 7. Lucas (831)61.

53 Cfr. in proposito le osservazioni di V. LAURENT, Les corpus des sceaux de l’empire byzantin, V., L’Église, Paris 1963, 693-694, n. 884. 54 Cfr. V. SAXER, Relazioni agiografiche tra Africa e Sicilia, in S. PRICOCO (cur.), Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità. Atti del Convegno di Studi (Catania, 20-22 maggio 1986), Soveria Mannelli 1988, 32-33; D. MOTTA, Percorsi dell’agiografia. Società e cultura nella Sicilia tardoantica e bizantina, Catania 2004, 122-125. 55 Cfr. F.M. STABILE, Palermo, in G. ZITO (cur.), Storia delle Chiese di Sicilia, Roma 2009, 580-586, 655. 56 PCBE Italie 53, Agatho 3; PIB I, 108, Agatho2. 57 PCBE Italie, 2282-2284, Victor 16; R. RIZZO, Prosopografia siciliana nell’epistolario di Gregorio Magno, Roma 2009, 115-116. 58 PCBE Italie, 1137-1139, Iohannes 138; PIB II, 183, Iohannes207; RIZZO, Prosopografia, cit., 65. 59 PIB I, 455-456, Felix51; PmBZ I/1, n. 1888. 60 PmbZ I/4, n. 7597; J. DARROUZÈS, Listes épiscopales du Concile de Nicée (787), in Revue des études Byzantins, 33 (1975) 20, 62-63; E. LAMBERZ, Die Bischoflisten des VII. Ökumenischen Konzils (Nicaenum II), München 2004, 47. 61 PmbZ I/3, n. 4622.


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4. Vescovi di Cefalù È stato a ragione ipotizzato che la costituzione della diocesi di Cefalù62, attestata sicuramente a partire dall’866, sia da collocarsi, insieme a quella di Trapani, nel quadro del riassetto tematico della Sicilia e, più specificamente sia da attribuirsi alla volontà degli imperatori isauri63. In questo caso si rende necessario rivedere la cronologia al VI secolo già proposta per l’epitaffio del vescovo Petros sepolto ad Argo (A15): in effetti una datazione all’VIII-IX secolo è possibile. Cefalù venne conquistata dai musulmani nell’857 e ai suoi abitanti fu concesso di uscire immuni64: che Petros sia il vescovo del tempo dell’assedio riparato poi in Grecia ? APPENDICE EPIGRAFICA A. Vescovi A2. Siracusa, MAR 26701. Da San Giovanni. Lastra di marmo. Fig. 1. A3. Siracusa, MAR 110. Da San Giovanni. Lastra di marmo. Fig. 2. A4. Siracusa, MAR 14469. Da San Giovanni. Lastra di marmo. Fig. 3. VAlexa,ndroÄ u ke. `Rodo,phj mnhmi,wn evngÄ u.j evpisko,pou OÄ 62 S. VACCA, Cefalù, in G. ZITO (cur.), Storia delle Chiese di Sicilia, cit., 405-428; A. ALFANO, La diocesi di Cefalù tra alto e basso medioevo, in Notiziario Archeologico della Soprintendenza di Palermo 2, 2016, 1-39. Per la documentazione archeologica di età bizantina rinvenuta nell’area della cattedrale, vd. R.M. BONACASA CARRA, L’archeologia cristiana nella Sicilia occidentale. Bilancio di un quinquennio di studi e ricerche, in BCA Sicilia 5 (1984) 21, 23, 25-26, figg. 17-19. 63 V. PRIGENT, La Sicile byzantine, entre papes et empereurs, in D. ENGELS – L. GEIS – M. KLEU (curr.), Zwischen Ideal und Wirklichkeit. Herrschaft auf Sizilien von der Antike bis zum Spätmittelalter, Stuttgart 2010, 225. 64 M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, Torino – Roma 1881, rist. Catania 1882, II, 12.


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uveÉÉsËËperi,wnoj( o] evÄ pw,lhsen `Ermio,Ä nh h` quga,thr KeÄ sari,ou) «Tomba di Alexandros e di Rhodope, presso il vescovo Vesperion, (tomba) che vendette Hermione, figlia di Kesarios» Bibl.: Rizzone, L’apporto dell’epigrafia, cit., 311-313, n. 2, fig. 1. A11bis. Mercato antiquario (Hasselt, NL: Gert Boersema). Sigillo in piombo. Fig. 4. R/ + Iohannii episc(opi) V/ Eccl(esiae) Cat(inensis) «Di Iohannius vescovo della Chiesa di Catania» Webgrafia:www.vcoins.com/it/stores/gert_boersema/25/product/joh n_bishop_of_the_church_of_catania_byzantine_lead_seal_c_7th_cent ury_ad/64996/Default.aspx A17. Palermo, Soprintendenza BBCCAA, deposito. Da Carini, fondo Cutietta. Sigillo in piombo. Fig. 5. R/ + Feli ci[s] V/ + Episc(opi) P(an)ormi «Di Felix, vescovo di Palermo»


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Bibl.: GRECO – GAROFANO – ARDIZZONE, Nuove indagini archeologiche, cit., 658, tav. CLXVI,1; FALZONE, Il contributo della sfragistica, cit., 39-47; CIPRIANO – FALZONE, Epigrafi inedite, cit., 2022. A18. Collezione Manganaro. Sigillo in piombo. Fig. 6. R/ + The odo ri V/ + Episc(opi) P(an)ormi «Di Theodorus, vescovo di Palermo» Bibl.: MANGANARO, Sigilli diplomatici bizantini, cit., 76, n. 22, tav. III. B. Presbiteri. B21. Palermo, MAR 44111, da Palermo, Piazza della Vittoria. Anello di bronzo. + Grh& gori,w| presb$ute,rw|% «(Signore, soccorri) Gregorios presbitero » Bibl.: M.A. LIMA, Scheda, in L. GANDOLFO (cur.), Pulcherrima Res, cit., 259, n. 404.

C. Diaconi. C2 = GA7. Siracusa, MAR 26631. Da San Giovanni. Lastra di marmo. Fig. 7.


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F. Servi e serve di Dio. F11=G26. Santa Croce Camerina, catacomba in contrada Grassullo. Iscrizione incisa sulla parete rocciosa. Fig. 8. Mnh,sqhti( K$u,ri%e( tou/ dou,lou sou Kallitu,cou tou/ crhs& tianou/( o[sti$j% evteleu,thsen th|/ pro. z´ kal$andw/n% mart@i,#w@n#( @zh,saj e;th# ne´ aöw «Ricordati, o Signore, del tuo servo Kallitychos, cristiano, il quale morì sette giorni prima delle calende di marzo, essendo vissuto anni 55» Bibl.: alla bibliografia si aggiunga RIZZONE – SAMMITO, Le necropoli tardoromane, cit. F17bis. Villagrazia di Carini, catacomba. Iscrizione graffita sull’intonaco di una tomba. @ÄÄÄÐoj nh,pioj @Qeou/Ð dou/loj @evnqa,Ðde ki/te) «…infante, servo di Dio, qui giace» Bibl.: FALZONE, Epigrafi greche e latine, cit., 59-63, figg. 12-16; CIPRIANO – FALZONE, Epigrafi inedite, cit., 2016, tav. 3B. F17ter. Villagrazia di Carini, catacomba. Iscrizione graffita sull’intonaco di una tomba. ÎÄÄÄÐ o` Qeou/ dou/loj teleuta|/ mhni. marti,w|) «… servo di Dio morì nel mese di marzo»


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Bibl.: FALZONE, Epigrafi greche e latine, cit., 64-65, figg. 12-13, 17; CIPRIANO – FALZONE, Epigrafi inedite, cit., 2018, tav. 3B. FA2. Siracusa, MAR 122. Da San Giovanni. Lastra di marmo. Mnh,sqhti( o` Q¿eo.Àj( th/j dou,lhj sou Crusi,doj 3 kai. do.j auvth/| cw,ran fwÄ tinh,n( to,pon avnayu,Ä xewj eivj ko,lfouj vAbraÄ 6 a,m( vIsaa.k k¿ai.À vIakw.b) vAnepauÄ sato h` makari,aj mnh,mhj th/| pro. a´ nwnw/n mai,wn 9 u`p¿ati,a|À to. ie´ k¿ai.À to. d´ ev$pi.% iv¿ndikti,wnojÀ t$h/j% d´ d´) «Ricordati, o Dio, della tua serva Chrysis e donale una terra di luce, un luogo di refrigerio nei seni di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Lei di beata memoria riposò un giorno prima delle none di maggio sotto il consolato XV (di Teodosio) e IV (di Valentiniano), nella quarta indizione. IV (loculo)» 6.5.435 (con calcolo erroneo dell’indizione) Bibl.: RIZZONE, Riflessi di liturgie dei morti, cit., 477-479, fig. 1; Letture e riletture, cit., n. 10, fig. 24. G. Cristiani e fedeli G10. Siracusa, MAR 6136 (158). Da San Giovanni. Lastra di marmo. Fig. 9. Crusi.j crhsth. crhssianh. chrismon 3 pisteu,sasa Îe;zÐhsen e;th ih´ kate,qeto) hedera


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«Chrysis, buona cristiana, che credette in Cristo, visse 18 anni. Fu deposta» GA15. Kamarina, Antiquarium. Da Comiso, necropoli di contrada Torrevecchia. Lastra di arenaria. Fig. 10. Prigomeni,a crhs& ÎtÐa. ke. a,vmempte cëe/Ä rëe CTHëIE avmi,mhÔmhÖtoj ev,zhsen ev,t$h% i´Å «Prigomenia, buona ed irreprensibile, salve … inimitabile, visse anni 10» Bibl.: DI STEFANO – RIZZONE, Miscellanea epigrafica iblea, cit., 6869, fig. 15; RIZZONE, Letture e riletture, cit., n. 1, fig. 1. GE1. Villagrazia di Carini, catacomba. Iscrizione graffita sull’intonaco di una tomba. B(onae) M(emoriae) Erma sa(nctus) in loco est dep(o)s(i)t(us), annorum plus minus LII. Conplevit vota. [Mors] tul(it) a se kalendas nobem(bres) dies mar(tis) luna XII post [—-] «Erma, di buona memoria, santo, fu deposto nella tomba, di circa 52 anni. Adempì i voti. La morte lo condusse a sé le calende di novembre, il giorno di Marte, il dodicesimo giorno della luna, dopo…» Bibl.: FALZONE, Epigrafi greche e latine, cit., 74-77, figg. 24, 26, 3136; CIPRIANO – FALZONE, Epigrafi inedite, cit., 2021-2022, tav. 6C.

H. Altre categorie di cristiani. H1. Siracusa, MAR 52. Da San Giovanni. Lastra di marmo. Fig. 11.


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Fig. 1. Iscrizione del vescovo Syrakosios (A2).


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Fig. 2. Iscrizione del vescovo Syrakosios (A3).

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Fig. 3. Iscrizione del vescovo Ouesperion (A4).


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Fig. 4. Sigillo di Iohannius, vescovo di Catania (A11bis).

Fig. 5. Sigillo di Felix, vescovo di Palermo (A17).

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Fig. 6. Sigillo di Theodorus, vescovo di Palermo (A18).

Fig. 7. Iscrizione del diacono Felix (C2).


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Fig. 8. Iscrizione di Kallitychos (F11=G26).

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Fig. 9. Iscrizione di Chrysis (G10).


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Fig. 10. Iscrizione di Prigomenia (GA15).

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Fig. 11. Iscrizione della ekklesia di Nikon (H1).


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Synaxis XXXIV/1 (2016) 85-120

RELIGIOSI SCIENZIATI E STRUMENTI SCIENTIFICI NEL SETTECENTO

DOMENICA FLAVIA FERRETO1

PREMESSA La rivoluzione scientifica manifestatasi fra la seconda metà del XVI e la fine del XVII sec. sancì la nascita della scienza moderna e fu segnata dal formarsi di una nuova visione della società e della natura, con fondamentali progressi dell’astronomia, della fisica, della matematica, della chimica, della biologia e della medicina. I maggiori protagonisti del periodo furono Nicola Copernico (1473-1543), Tycho Brahe (1546-1601), Johannes von Kepler (15711630), Galileo Galilei (1564-1642), Francis Bacon (1561-1626), René Descartes (1596-1650), Isaac Newton (1643-1727) e Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716). La nuova immagine di scienza fu caratterizzata in particolare dall’affermarsi del metodo sperimentale per la scoperta e lo studio dei fenomeni naturali, dall’impiego sistematico della matematica per la loro interpretazione e dalla nascita e dall’utilizzo di utensili di indagine completamente nuovi. Fra questi, vi furono strumenti scientifici, come telescopi e microscopi, che aumentarono enormemente la capacità di osservazione permettendo di penetrare sia nel macro che nel microcosmo. Altri strumenti, come

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Docente invitato di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania


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Domenica Flavia Ferreto

termometri e barometri, permisero di quantificare e scoprire, come nel caso della pressione atmosferica, grandezze che sino ad allora erano rilevate solo qualitativamente. Infine, strumenti quali pompe pneumatiche e macchine elettriche furono in grado, per la prima volta, di produrre fenomeni nuovi e di ampliare grandemente l’orizzonte di indagine dei filosofi. All’interno di questo quadro risulta fondamentale lo stimolo e l’apporto fornito da uomini di Chiesa allo sviluppo delle scienze naturali, e della scienza strumentale che da quelle è imprescindibile. Il tema è assai ampio e variegato; esso richiama competenze storiche, filosofiche, scientifiche, tecniche e, non ultime, archivistiche. La presente esposizione non pretende di essere esaustiva; per necessità estremamente sintetica, si avvale di personali ed altrui studi nell’intento di dirigere l’attenzione su tematiche di recente interesse storiografico. 1. STRUMENTAZIONE PRECEDENTI)

SCIENTIFICA NEL

SETTECENTO (CENNI

AI SECC.

L’astronomia della fine del Cinquecento era praticamente ferma al limite invalicabile del potere risolutivo dell’occhio umano; l’avvento del cannocchiale permise di oltrepassare tale limite. Nel 1608 lo strumento era ormai conosciuto e proposto da vari occhialai in diverse città europee; l’anno successivo, Thomas Harriot (1560-1621) lo utilizzò per osservare la Luna e Galilei venne a conoscenza di tale nuovo strumento. Nel 1610 lo scienziato pisano pubblicò il Sidereus nuncius, dove illustrava le sue celebri osservazioni sulla morfologia della Luna, sulla natura della Via Lattea e la scoperta di quattro satelliti di Giove. Grazie a tali osservazioni il cannocchiale si diffuse rapidamente fra gli astronomi e altrettanto rapidamente ne vennero proposti miglioramenti. Kepler ideò uno strumento composto da due lenti convergenti che forniva un’immagine capovolta: questa poteva essere raddrizzata con l’aggiunta di una o più lenti quando lo strumento era utilizzato per osservazioni terrestri. Il cannocchiale kepleriano, che possedeva un campo di visione assai più ampio rispetto a quello galileiano, soppiantò quasi completamente quest’ultimo in campo astronomico


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Religiosi scienziati e strumenti scientifici nel Settecento

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entro la metà del secolo. Negli anni successivi ottici e astronomi si adoperarono per migliorare lo strumento, modificando le combinazioni di lenti, con l’introduzione di oculati composti. Gli astronomi cercarono di realizzare cannocchiali capaci di fornire ingrandimenti sempre più potenti, ma tale desiderio si scontrava con le aberrazioni inevitabili generate dalle lenti sferiche. Per ovviare a tale inconveniente si rivelò necessario utilizzare lenti di grande focale che, ovviamente, portarono alla costruzione di telescopi sempre più lunghi. Nella seconda metà del XVII sec. furono proposti vari tipi di telescopi a riflessione nei quali l’obiettivo lenticolare era sostituito da uno specchio metallico concavo, ma entrarono nell’uso corrente solo nel XVIII secolo. I primi tentativi di montare dei cannocchiali su strumenti astronomici di misura vennero effettuati quasi subito, ma fu solo verso la metà del Seicento che l’utilizzazione di mire e visori telescopici si generalizzò, non soltanto in campo astronomico, ma anche sugli strumenti topografici, geodetici e di navigazione. Gli astronomi avevano bisogno di misure – altezza, passaggio al meridiano, distanza fra due corpi celesti – sempre più precise per la compilazione di tavole, effemeridi e per tentare di capire le leggi della meccanica celeste. Il cannocchiale da solo era uno strumento di esplorazione e osservazione, ma non di misura. Una nuova generazione di strumenti astronomici venne elaborata utilizzando i cannocchiali e mire telescopiche montati su quadranti, sestanti o altri strumenti già in uso da tempo. Un importante progresso nella precisione di lettura delle scale graduate di strumenti ottici fu rappresentato dall’adozione di noni e vernieri. Fra i nuovi congegni di misura vi furono i micrometri che, inseriti sui cannocchiali kepleriani, permettevano di determinare il diametro dei corpi celesti o la loro distanza. L’uso di micrometri sempre più perfezionati si generalizzò nel corso del secolo. L’introduzione di strumenti astronomici muniti di telescopi e micrometro non risolveva il problema delle aberrazioni ottiche, e la loro eliminazione, allungando le focali, generava strumenti poco maneggevoli e non adatti alle misure di precisione. Nella seconda metà del XVII sec. ci si interessò alla possibilità di utilizzare uno specchio concavo in luogo della lente obiettiva. Il gesuato Bonaventura


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Cavalieri (1598 ca.-1647) aveva già esplorato questa strada, che fu ripresa negli anni Sessanta da James Gregory (1638-1675). Newton, che aveva riconosciuto la natura composta della luce bianca, aveva ben capito che il problema era causato dal fatto che ogni colore era rifratto diversamente, e nel 1668 presentò alla Royal Society il telescopio a riflessione da lui ideato e costruito. All’inizio del XVIII sec., anche grazie a una serie di descrizioni dello strumento apparse in vari trattati, alcuni costruttori si interessarono ai riflettori e acquisirono le competenze per costruire gli specchi. I riflettori, anche se apprezzati da ricchi dilettanti e appassionati di astronomia, rimanevano comunque di difficile fabbricazione e l’introduzione e l’uso sempre più diffuso di lenti acromatiche ne limitò la diffusione. Solo nell’ultimo terzo del secolo e grazie a William Herschel (1738-1822), i telescopi a riflessione acquisirono importanza anche presso gli osservatori astronomici, per la capacità di fornire immagini luminose e forti ingrandimenti, anche se però si dimostravano più adatti all’esplorazione della volta celeste piuttosto che a misure astronomiche. Per questa ragione il loro uso fu relativamente limitato. I telescopi a riflessione ridivennero molto importanti a partire dalla metà dell’Ottocento, quando fu possibile utilizzare specchi in vetro grazie all’introduzione di tecniche efficaci per la loro argentatura. La scomposizione della luce bianca effettuata da Newton nel 1666 e la comprensione del fatto che l’aberrazione cromatica deriva da una rifrazione ineguale delle sue diverse componenti cromatiche stimolarono studi e ricerche sulla possibilità di eliminare, o almeno ridurre, tale difetto nei sistemi ottici. Ciò si rivelò possibile (contrariamente a quanto pensava Newton) combinando due lenti, una concava e una convessa, costituite da vetri dalle caratteristiche ottiche diverse. Fu verso il 1730 che Chester Moore Hall (1703-1771), ottico dilettante, riuscì per primo a realizzare tale sistema. Gli osservatori si dotarono di orologi meccanici di precisione, indispensabili per determinare il momento di un evento (ad es., il passaggio di un astro al meridiano) o la sua durata. Nel 1658 Christiaan Huygens (1629-1695) descrisse un orologio a pendolo di cui furono realizzati diversi esemplari, ma il suo rudimentale scappamento a verga non permetteva la precisione desiderata. Con l’introduzione dello scappamento ad àncora, ma soprat-


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tutto di quello a riposo, che minimizzava le interferenze perniciose fra il pendolo e il meccanismo, e grazie all’adozione del pendolo compensato, fu possibile risolvere i più gravi problemi che contribuivano a rendere gli orologi strumenti poco affidabili. Nel Settecento il loro uso si generalizzò negli osservatori. Grazie, in particolare, all’opera dell’orologiaio John Harrison (1693-1776), nella seconda metà del secolo fu possibile costruire un cronometro in grado di traversare l’Atlantico su una nave (quindi in condizioni estreme di instabilità) accumulando un ritardo di pochi secondi; ciò permise di risolvere in modo semplice il problema della determinazione della longitudine, sul quale per lungo tempo si erano cimentati astronomi, navigatori e costruttori. Il microscopio si diffuse quasi contemporaneamente al telescopio; Galilei fu fra i pionieri nella realizzazione di tale strumento. È curioso notare come probabilmente il microscopio composto fu ideato prima di quello semplice (con una sola lente), per il fatto che esso derivò dal cannocchiale e dai suoi oculari. A ogni modo, per tutto il Seicento e per buona parte del Settecento, una gran parte delle migliori osservazioni e delle scoperte fu fatta con microscopi semplici. Grazie a tali strumenti, Antonj van Leeuwenhoek (1632-1723) poté osservare i batteri, gli infusori e gli spermatozoi. Nonostante alcuni miglioramenti, quali l’introduzione di oculari composti, restavano i problemi causati dalla cattiva qualità del vetro ottico dell’epoca e dall’inevitabile presenza delle aberrazioni ottiche, che poterono essere corrette solo nel XIX secolo. Per tali ragioni i microscopi composti fecero grandi progressi dal punto di vista meccanico, mentre da quello ottico si evolsero con meno successo, anzi, spesso l’aggiunta di lenti addizionali invece di migliorare le immagini le peggioravano, esasperando le aberrazioni. I microscopi composti, corredati da decine di accessori e costruiti con cura, incontrarono il favore dei naturalisti dilettanti e dei ricchi appassionati di scienza, e furono molto utilizzati in campo didattico. Nel Settecento, favoriti anche dalla moda delle dimostrazioni scientifiche, si diffusero i microscopi solari e lucernali, che combinavano alcune caratteristiche delle camere oscure, conosciute sin dall’antichità, e delle lanterne magiche, già descritte dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) verso il 1670: i primi permettevano di proiettare


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su uno schermo mediante i raggi solari immagini microscopiche fortemente ingrandite; i secondi, invece, sfruttavano la luce di una sorgente artificiale come una lampada a olio. Un altro importante strumento che vide la luce nel Seicento è il termometro. Munito di scala graduata fu un’evoluzione diretta del termoscopio, che permetteva solo di rivelare, ma non di misurare, le variazioni di temperatura. Il principio del termoscopio ad aria era conosciuto sin dall’antichità; all’inizio del Seicento tale strumento fu sviluppato da Galilei e da Santorio Santorre (1561-1636) e fu trasformato in un termometro utilizzato per le prime misurazioni meteorologiche. I termometri sigillati basati sulla dilatazione di un liquido furono ideati a Firenze verso la metà del secolo; famosi furono quelli ad alcool, di forme e dimensioni diversi, realizzati dall’Accademia del Cimento. I termometri si diffusero rapidamente nel resto d’Europa. Fra le innumerevoli scale di temperatura proposte nel Settecento, si affermarono soprattutto quella centigrada (detta anche di Celsius), quella di René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), divisa in 80 gradi, e quella di Gabriel Farhenheit (1686-1736). Fu lo stesso Farenheit a utilizzare per primo il mercurio come liquido termometrico all’inizio del secolo. Le indagini sul peso, sull’elasticità e le proprietà dell’aria portarono all’invenzione del barometro da parte di Evangelista Torricelli (16081647) e Vincenzo Viviani (1622-1703) negli anni Quaranta del Seicento. Composto da un tubo chiuso a un’estremità, riempito di mercurio e capovolto in una bacinella contenente lo stesso liquido, il barometro permise di misurare la pressione atmosferica; gli esperimenti in questo campo attirarono immediatamente l’attenzione di Blaise Pascal, di Gilles P. de Roberval (1602-1675) e di molti altri studiosi. Si osservò che l’altezza della colonna barometrica era influenzata dalle condizioni atmosferiche e dall’altitudine del luogo in cui si svolgevano le osservazioni. In Germania, nel 1654, Otto von Guericke (1602-1686), con un celeberrimo esperimento fatto davanti alla Dieta di Ratisbona, mostrò come la forza della pressione atmosferica impedisse a due tiri di 15 cavalli l’uno di separare una coppia di emisferi giustapposti e dai quali era stata estratta l’aria tramite una rudimentale pompa a forma di


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siringa. La pompa pneumatica si rivelò uno dei più potenti e versatili strumenti della fisica. Pompe meccaniche di questo tipo furono costantemente perfezionate e migliorate al fine di raggiungere vuoti sempre più spinti e, anche se poi soppiantate da macchine pneumatiche di altro tipo, furono molto utilizzate sino alla fine dell’Ottocento. I gabinetti di fisica si arricchirono di un gran numero di strumenti che, utilizzati con le pompe, permettevano di eseguire molte esperienze, spesso curiose e divertenti, sui fenomeni relativi al vuoto e alla pressione. Un altro strumento che caratterizzò lo studio della filosofia sperimentale del Settecento e contribuì grandemente all’interesse che essa suscitò fu certamente la macchina elettrica. Fu Francis Hauksbee (1666-1713) che, a partire dalla fine del Seicento, con una lunga serie di esperienze di elettrostatica elaborò il primo efficace generatore a strofinio, composto da un pallone di vetro, munito di rubinetto, fatto ruotare rapidamente tramite una cinghia da una ruota con manovella. Il pallone strofinato da una mano generava cariche elettriche capaci di attirare o respingere fili e oggetti leggeri, di generare scintille o di produrre bagliori luminosi all’interno del pallone. La curiosità per questi spettacolari esperimenti portò presto a migliorare le macchine elettriche che, negli anni successivi, si dotarono di conduttori per accumulare le cariche, di cuscinetti per sfregare il globo o il cilindro rotante. Nel 1745 la bottiglia di Leida venne inventata indipendentemente nei Paesi Bassi e in Germania; rudimentale, ma efficace condensatore elettrico, permetteva di accumulare le cariche prodotte dalle macchine a strofinio. I nuovi e poderosi effetti prodotti dalle bottiglie di Leida (che spesso venivano utilizzate collegate in batteria) contribuirono ulteriormente ad aumentare l’interesse per i fenomeni elettrici. Nella seconda metà del secolo si diffusero anche le macchine elettrostatiche a disco, che rimasero in uso sino al XIX sec. inoltrato. L’elettricità rimaneva essenzialmente una scienza qualitativa e fenomenologica, ma dopo il 1750 vennero intraprese nuove ricerche grazie alle quali apparvero i primi semplici strumenti di misura. In questo campo si distinse particolarmente Alessandro Volta (1745-1827) che, grazie ai suoi elettrometri comparabili, riuscì a stabilire la relazione fondamentale che lega carica, tensione e capacità. Volta ideò anche l’elet-


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troforo perpetuo, apparecchio funzionante grazie all’induzione elettrostatica che fu il primo passo verso la realizzazione di generatori a induzione, assai più efficaci di quelli a strofinio. In Francia, Charles-A. Coulomb (1736-1806) alla fine del secolo, grazie a una bilancia di torsione di sua invenzione, dimostrò che la forza elettrostatica, che attira le cariche di segno diverso e respinge quelle di segno uguale, agisce in maniera proporzionale al quadrato della distanza. Anche in Inghilterra, Henry Cavendish (1731-1810) fece importantissimi e fruttuosi studi di elettrostatica, ma non volle pubblicare i suoi studi, molti dei quali rimasero sconosciuti per circa un secolo. Mentre il Settecento volgeva alla fine, la matematizzazione dell’elettricità era in atto e stava divenendo una scienza quantitativa. Nel 1800 Volta annunciò l’invenzione della pila elettrica, che sanciva la nascita dell’elettrodinamica e dell’elettrochimica. I fenomeni magnetici, invece, studiati da William Gilbert (1544-1603) alla fine del Cinquecento, erano soprattutto importanti in relazione al campo terrestre e alla sua azione sulle bussole. Nel Settecento i cabinets di fisica si dotarono di magneti armati (pezzi di magnetite racchiusi in armature metalliche che ne aumentavano l’azione) o calamite artificiali. L’importanza crescente che il calcolo andava acquistando non solo in campo scientifico, ma anche in una serie sempre più ampia di professioni e di attività della vita quotidiana, motiva la richiesta di strumenti che facilitassero tale operazione. Un’attenzione particolare merita il compasso di proporzione, un vero e proprio calcolatore analogico tascabile con il quale era possibile eseguire un gran numero di operazioni geometriche e matematiche sfruttando le proprietà dei triangoli simili. Ideato alla fine del XVI sec. e derivato da altri strumenti, fu notevolmente perfezionato da Galilei. Il compasso di proporzione divenne uno strumento standard ampiamente utilizzato in ambiti diversi sino alla fine del XVIII secolo. Faceva parte integrante di ogni set di strumenti matematici e da disegno. Di rilievo furono gli strumenti derivati dall’introduzione dei logaritmi. Potenti utensili matematici, i logaritmi permettevano di ridurre a semplici somme e sottrazioni operazioni più complesse, quali moltiplicazioni, divisioni, estrazioni di radici ed elevamenti a potenza. Un altro ausilio per il calcolo furono i ‘bastoncini di Nepero’, illustrati


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dall’inventore dei logaritmi nel 1617, ma basati su un sistema già conosciuto. Fin dal Seicento, nel tentativo di facilitare le operazioni aritmetiche in varie professioni laboriose e ripetitive, vennero ideate e costruite innumerevoli macchine da calcolo automatiche. Si cimentarono nella loro ideazione Gottfried Wilhelm von Leibniz, Sir Samuel Morland (1625-1695), Giovanni Poleni (1683-1761), Blaise Pascal, Charles Stanhope (1753-1816). Tali macchine richiesero soluzioni ingegnose per il loro efficace funzionamento, Ciononostante la loro diffusione fu limitata, anche a causa del costo elevato rispetto ad altri strumenti di calcolo. 2. PRODUZIONE DI STRUMENTI E LUOGHI DELLA SCIENZA NUOVA Sino all’inizio del Seicento la produzione di strumenti scientifici non solo era ancora limitata, ma affidata ad artigiani appartenenti a corporazioni diverse con regole assai rigide. Questo sistema fu adottato spesso anche dai nobili committenti e dalle prime accademie scientifiche, che assumevano costruttori, magari concedendo loro speciali privilegi, quali vitto e alloggio. Gli strumenti costruiti rimanevano però spesso oggetti da collezione, oppure il loro uso era limitato a una stretta cerchia di persone. Alla fine del Seicento questa situazione stava però evolvendo e verso la metà del Settecento la costruzione di strumenti scientifici era diventata un’attività indipendente e molto più strutturata. La crescente matematizzazione della fisica, dell’astronomia, della topografia e di altre attività professionali contribuì a incrementare la collaborazione fra i membri della comunità scientifica e di quella artigianale. La richiesta in aumento e soprattutto regolare degli strumenti più svariati, non solo favorì lo svilupparsi di officine specializzate nella loro costruzione, ma anche l’apparizione di negozi dediti esclusivamente al loro commercio. Una delle ragioni che stimolò tali attività fu il sempre maggiore interesse per la fisica e per le sue scoperte che, a partire dalla fine del XVI sec. e per buona parte del XVIII, divenne una vera e propria moda. Il cannocchiale, il microscopio, la lanterna magica e vari giochi


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ottici, la pompa pneumatica e poi la macchina elettrostatica attirarono l’interesse delle classi sociali più agiate e istruite, interessate alle più recenti idee filosofiche e alle scoperte scientifiche, per le quali le serate accompagnate da esperienze scientifiche erano stimolate sia da una sincera curiosità intellettuale sia dal fascino di una nuova moda culturale. Questo interesse fu una delle ragioni del formarsi dei gabinetti scientifici settecenteschi, nei quali gli strumenti occupavano una parte importante. Ma tali collezioni erano diverse dalle Wunderkammer rinascimentali, dove gli strumenti erano curiosità preziose, oggetti inusuali e carichi di significati simbolici. I gabinetti di fisica di nobili o di ricchi scienziati dilettanti erano organizzati seguendo un ordine logico preciso, e le varie branche della fisica vi erano rappresentate dagli apparecchi capaci di mostrarne i fenomeni e da modelli di macchine che ne illustravano le applicazioni pratiche. Altre collezioni vennero a formarsi per le necessità di ricerca di singoli studiosi e di accademie e comprendevano sia strumenti di produzione corrente sia apparecchi per specifici studi. Inoltre, a partire dalla fine del Seicento vi fu un notevole incremento nelle collezioni scientifiche per la didattica. L’uso di strumenti non era certo nuovo nell’insegnamento (basti pensare all’astronomia), ma lo sviluppo di attività che richiedevano un numero maggiore di strumenti, quali la navigazione, la topografia, l’architettura ecc., e quello rapido e spettacolare della fisica spinse scuole, Università e collegi a dotarsi di nuovi apparecchi. L’insegnamento della fisica si affermò non soltanto in Francia, Inghilterra e Paesi Bassi, ma anche in molti altri Paesi europei e, soprattutto nei centri più importanti, vennero a formarsi collezioni di strumenti. Per limitarsi al caso dell’Italia, basti pensare, per es., alle ricchissime collezioni private settecentesche dei Lorena o a quella di lord Cowper, entrambe a Firenze, e a quelle universitarie di Padova, Bologna o Pavia. Certamente la diffusione della fisica sperimentale fu molto favorita e stimolata dall’opera di personaggi che potevano essere al tempo stesso studiosi, divulgatori, dimostratori (spesso peripatetici), autori di trattati scientifici e, a volte, anche costruttori di strumenti. In Francia, le lezioni di Pierre Polinière (1671-1734) ebbero molto successo, ma fu certamente l’abate Jean Antoine Nollet (1700-1770) che con le sue opere, con le sue lezioni


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dimostrative e con gli strumenti da lui ideati contribuì grandemente alla diffusione di questa disciplina. Il ruolo di questi personaggi fu estremamente importante: certamente contribuirono a innescare l’interesse per la fisica, idearono o perfezionarono un gran numero di strumenti per illustrarla, stimolarono la costituzione di gabinetti scientifici pubblici e privati e alimentarono il mercato degli strumenti. Inoltre, alcuni di essi, dopo aver fabbricato i propri strumenti, continuarono a produrne anche per terzi. Altri, come Nollet, provvidero a fornire gli strumenti per i loro clienti anche attivando una rete di costruttori e artigiani. La fabbricazione e il commercio di strumenti scientifici in Inghilterra si svilupparono in modo tale che alla fine del XVIII sec. il Paese si trovava in posizione di assoluta predominanza. Numerosi furono i fattori che contribuirono a tale successo: l’espansione coloniale e commerciale, la nascente industrializzazione, il moltiplicarsi delle esplorazioni, la domanda di migliori strumenti per determinare la posizione in mare, le ricerche per risolvere il problema della longitudine, l’istituzione di nuovi osservatori astronomici, sia pubblici sia privati. Uno dei vantaggi che già dal XVII sec. favorì i costruttori inglesi fu la capacità di produrre vetro ottico della migliore qualità. L’introduzione in Inghilterra di obiettivi acromatici, commercializzati da John Dollond (1706-1761) e successivamente da altri costruttori, fu un ulteriore fattore che contribuì all’espansione dell’industria di precisione inglese. Durante il secolo, favorita da una crescente richiesta, la produzione di strumenti evolse verso una specializzazione e una divisione del lavoro. Il successo dell’industria di precisione inglese e la necessità di produrre un numero sempre più grande di strumenti di questo tipo spinsero a ricercare nuovi metodi di produzione e a ideare nuove macchine utensili. Sino alla metà del Settecento i costruttori avevano a disposizione essenzialmente utensili manuali, come lime, seghe, martelli, sgorbie, ceselli, bulini, compassi a punte secche, punzoni, oltre a polveri abrasive per lucidare e altre sostanze. Un progresso fondamentale fu rappresentato dall’introduzione delle macchine da dividere, sperimentate con alterni successi sin dai primi decenni del Settecento, fino alla prima veramente efficace e funzionale ideata da


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Jesse Ramsden (1735-1800) fra gli anni Sessanta e Settanta. L’introduzione della macchina da dividere non solo dette ulteriore impulso alla produzione inglese di strumenti, ma fu un primo e importante passo verso la sua meccanizzazione e verso un processo di industrializzazione che continuò per tutto l’Ottocento, con l’introduzione di nuove macchine utensili e tecniche. La produzione francese di strumenti nel Settecento non fu in grado di svilupparsi e di progredire in maniera simile a quella inglese. Una delle ragioni che ostacolarono il progresso nella produzione di strumenti furono le regole corporative che sino alla loro soppressione, nel 1791, erano rigide e applicate con più severità di quanto non avvenisse a Londra. Le briglie corporative e altre circostanze relative, per es., all’organizzazione dell’apprendistato e del commercio portarono a una frammentazione deleteria che non permise a Parigi lo sviluppo di reti di collaborazione e di grandi officine di importanza paragonabile a quelle di Londra. Solo pochissimi costruttori che per privilegio reale lavoravano all’interno del Louvre godevano di ampia libertà di azione e commercio. Inoltre, contrariamente a quanto accadeva in Inghilterra, l’interazione fra costruttori e scienziati era quasi inesistente. L’Académie des sciences, diversamente dalla Royal Society, rimaneva un’istituzione d’élite alla quale i costruttori, considerati meri esecutori, non avevano accesso. Malgrado alcuni infruttuosi tentativi fatti per modificare questo stato di cose, la situazione cominciò a cambiare solo verso la fine del secolo. Con la Rivoluzione scomparvero le corporazioni e la committenza privata cedette il posto a quella pubblica; negli anni successivi furono intrapresi importanti progetti scientifici (come la misurazione dell’arco di meridiano e la susseguente realizzazione del sistema metrico decimale) e fondate nuove istituzioni scientifiche (École polytechnique, Bureau des longitudes, Conservatoire des arts et métiers, ecc.). Il sistema educativo francese si sviluppò e fu da esempio per altre nazioni. Questi e altri fattori, come i successi della scienza francese nel periodo fra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, contribuirono notevolmente al decollo della produzione di strumenti parigina, che ebbe il suo periodo d’oro nell’Ottocento.


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Nell’Ottocento, la crescente industrializzazione, la nascita e l’affermarsi di nuove professioni tecnico-scientifiche, gli enormi progressi delle scienze e delle loro applicazioni pratiche, lo sviluppo del sistema educativo aperto a un numero sempre più grande di persone, l’incremento dei viaggi, dei commerci, delle esplorazioni coloniali, la realizzazione di grandi opere quali strade, ferrovie e canali generarono un bisogno sempre più capillare e generalizzato di strumenti di tutti i tipi. Ciò ne trasformò radicalmente la produzione e il commercio. Se alla fine del XVIII sec. la predominanza dei costruttori inglesi era soverchiante, già verso il 1850 l’industria di precisione parigina era in grado di fornire un gran numero di strumenti la cui qualità poteva uguagliare, e a volte superare, quelli inglesi. Nel periodo tardo medioevale e rinascimentale, l’Italia, frammentata in numerose entità politiche, ebbe essenzialmente due centri in cui la produzione di strumenti scientifici fu rilevante: Roma e, soprattutto, Firenze. Il fiorire del Rinascimento a Firenze e il crescente interesse per la matematica applicata, la prospettiva, l’architettura, la cartografia e i rilevamenti topografici stimolarono l’interesse per gli strumenti e favorirono le attività di alcuni costruttori che spesso godettero della protezione e del sostegno dei Medici. Lorenzo della Volpaia (1446-1512), attivo negli ultimi decenni del Quattrocento, fu orologiaio, artefice di strumenti, architetto, matematico e orafo. Su commissione di Lorenzo de’ Medici realizzò un complesso orologio dei pianeti. P. Egnazio Danti (1536-1586), attivo nel XVI sec., fu il cosmografo di Cosimo I de’ Medici e realizzò le grandi mappe geografiche che si trovano a Palazzo Vecchio. Perfezionò vari strumenti scientifici e scrisse trattati sull’argomento. A lui si devono gli strumenti astronomici istallati sulla facciata della chiesa di S. Maria Novella. Trasferitosi a Bologna e poi a Roma, divenne cosmografo di papa Gregorio XIII. Antonio Santucci (fine Cinquecento-1613), matematico e astronomo, fu al servizio di Ferdinando I e di Cosimo II. È ricordato soprattutto per le due grandi sfere armillari costruite sotto la sua direzione rispettivamente per Filippo II di Spagna e per Ferdinando I. Nel Seicento, Galilei, i suoi discepoli e i membri dell’Accademia del Cimento realizzarono numerosi strumenti, sia personalmente sia con l’ausilio di artigiani spesso rimasti anonimi. Ma due italiani primeg-


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giarono nella costruzione di telescopi e microscopi (e in particolare delle loro lenti): Eustachio Divini (1610-1685) e Giuseppe Campani (1635-1715). Campani e Divini, i cui cannocchiali vennero esaminati e accuratamente confrontati dall’Accademia del Cimento, furono certamente i migliori costruttori di strumenti ottici della loro epoca e la loro fama valicò i confini della penisola. La loro attività probabilmente marcò l’apice della produzione italiana di strumenti ottici. È infine necessario ricordare il cartografo ed enciclopedista veneziano Vincenzo Coronelli (1650-1718) che, nella seconda metà del Seicento, fu fra i maggiori costruttori di globi terrestri e celesti, spesso richiesti da principi e ricchi collezionisti di tutta Europa. Con il moltiplicarsi degli apparecchi utilizzati per lo studio e l’insegnamento della fisica e con una crescente sofisticazione degli strumenti ottici, astronomici e topografici, i costruttori di strumenti dovettero acquisire sia nuove conoscenze teoriche sia nuove competenze pratiche per realizzare elementi sempre più complessi e lavorare materiali diversi. Anche nella penisola nel Settecento si costituirono nuovi gabinetti di fisica e osservatori astronomici, alcuni dei quali appartennero a università, scuole o a collegi religiosi, altri a privati. Ma la pur crescente richiesta di strumenti non era sufficiente a sostenere officine di una certa dimensione. Era necessario ricorrere costantemente ai più famosi costruttori di Londra e di Parigi poiché la produzione di strumenti scientifici rimase quantitativamente limitata e, salvo eccezioni, di qualità piuttosto modesta. Molti fattori limitavano le possibilità di sviluppo delle loro attività e fra questi: la frammentazione dell’Italia in numerosi Stati, la difficoltà delle comunicazioni, la mancanza di materie prime, l’arretratezza di buona parte del Meridione dove, tra l’altro, l’esistenza del latifondo non incoraggiava le campagne topografiche. Tale situazione continuò per tutto il XIX sec. e la povertà dell’industria di precisione italiana fu costantemente rimarcata nei rapporti delle esposizioni nazionali e internazionali. Un’eccezione fu Giovanni Battista Amici (1786-1863), ottico, microscopista e astronomo, che, fra gli anni Venti e Sessanta dell’Ottocento fu in grado di costruire strumenti ottici eccellenti e innovativi la cui fama si diffuse in tutta Europa.


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3. LA SCIENZA DEGLI STRUMENTI Secondo le storiografie della scienza prevalenti, in una visione semplicistica, l’intervento strumentale, sia nella fase di elaborazione che di controllo delle teorie, è stato considerato come estraneo alla teoria stessa e finalizzato al controllo empirico (esperimento cruciale). I contributi recenti di Alexandre Koyré (1892-1964) ed altri, invece, hanno sottolineato la rilevanza delle teorie fisiche che presiedono alla costruzione e all’uso degli strumenti nell’esperimento fisico. Sicché gli strumenti scientifici recano concetti incorporati nella loro struttura, come ad es. concetti di forza meccanica ecc., che costituiscono i presupposti teorici nella formulazione di teorie fenomenologiche. Di qui la nascita di una storia della strumentazione scientifica che si occupa del rapporto fra teorie fisiche e metodi o teorie di controllo strumentale nella loro evoluzione storica. Infatti, la struttura concettuale di una teoria fisica non solo regola l’interpretazione dei risultati degli esperimenti, ma influenza anche ciò che lo sperimentatore si aspetta di vedere. La maggior parte degli strumenti di misura elettrici e magnetici fino all’Ottocento – p. es. quelli di Michael Faraday (1791-1867) e Georg Ohm (1789-1854) – sono riconducibili alla misura di forze elettriche e magnetiche, poi confrontate con forze elastiche o gravitazionali, cioè forze meccaniche. Occorre dunque ammettere un’influenza non trascurabile del contesto teorico prevalente; i prototipi di questi strumenti sono quelli inventati da Charles Augustin de Coulomb (1736-1806), André-Marie Ampére (1775-1836), Johann Carl F. Gauss (1777-1855), Wilhelm E. Weber (1804-1891), fortemente impregnati della immagine meccanicista della natura alla Newton e Pierre-Simon Laplace (1749-1827), per cui tutti i fenomeni hanno una causa meccanica e producono effetti meccanici (riduzionismo meccanicista). Gli schemi teorici interpretativi influiscono nella scelta dei dispositivi strumentali e delle tecniche di misurazione, anche quando questi schemi vengono ridotti da un campo scientifico ad un altro. Nella storia della strumentazione ogni strumento si rifà alla sperimentazione che ha posto le basi di un campo d’indagini, cioè ai prototipi di apparecchiature che sono state fondamentali per la ricerca.


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La centralità della precisione delle misurazioni nella scienza contemporanea è il risultato di un processo storico. All’inizio del percorso mancavano gli strumenti per realizzare misure qualsiasi in moltissimi campi, ad eccezione di quelle geometriche di lunghezze, superfici, volumi, angoli applicate fin dall’antichità all’astronomia, agli studi geodetici e dei pesi, e da Archimede allo studio di fenomeni statici e idrostatici. In realtà, mancava l’idea teorica la visione del mondo idonea, l’idea di illimitata misurabilità dei fenomeni, oltre le esigenze pratiche; l’oggetto della scienza naturale veniva identificato con i fenomeni, caratterizzati da instabilità e cambiamenti incessanti, perciò irriducibili alla precisione ed esattezza matematiche delle misurazioni quantitative. Era necessario un modo nuovo di guardare il mondo; solo quando si cominciano a concepire tutte le cose, anche quelle che non cadono immediatamente sotto i nostri sensi, come grandezze geometriche e meccaniche, si cominciano a costruire gli strumenti di misura. Essi sono in tal senso materializzazioni del pensiero, incarnazioni del pensiero geometrico e meccanico che trasforma i fenomeni qualitativi in rigorose grandezze matematiche attraverso ipotesi sulla loro natura fondamentale, perciò al di là dei nostri sensi. Significativo è il passaggio dall’utensile ottico del medioevo al telescopio di Galileo, quale vero e proprio strumento scientifico usato non per ingrandire oggetti di uso quotidiano, bensì applicato ad ingrandire oggetti mai visti prima e non altrimenti osservabili, nel quadro rigoroso delle leggi quantitative dell’ottica. Certo l’idea teorica è necessaria, ma la realizzazione degli strumenti scientifici richiede l’acquisizioni di competenze tecniche particolari, nonché lo sviluppo di macchine utensili per produrre strumenti nel modo più preciso possibile, ottenendo una standardizzazione impossibile alla produzione artigianale precedente. L’industria delle macchine utensili si è sviluppata in un largo lasso di tempo, e solo alla fine del Settecento ha dato piena credibilità a una conoscenza del mondo in termini di universo di precisione. Strumenti come regoli, compassi, goniometri, astrolabi e sestanti esistevano da lungo tempo, ma erano frutto di abilità personali artigianali. La prima macchina utensile moderna fu fatta nella prima metà del ‘600 con intenti strettamente scientifici, da Descartes ed è la


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macchina per tagliare i vetri parabolici. Così come furono introdotti i primi tornii meccanici, utilizzati per realizzare oggetti d’arte. Nel Settecento l’uso del tornio fu esteso alla fabbricazione degli orologi e all’industria meccanica della produzione in serie: una rivoluzione industriale che introdusse macchine capaci di compiere operazioni di precisione su grande scala. Nasce così la prima macchina per dividere utilizzabile nella grande industria meccanica nel 1773 ad opera del tecnico inglese Ramsden. Ma queste macchine trovarono immediato impiego anche nel mondo scientifico, ormai maturo nella nuova immagine quantitativa e meccanica della scienza. Tuttavia, la stessa scienza teorica aveva contribuito allo sviluppo di quella standardizzazione, che divenne indipendente col tempo, sempre riflettendo l’idea di un universo di precisione, esattamente ripetitivo. La determinazione precisa del tempo, la conservazione di tale misura, gli orologi intesi come cronometri che non si devono ricaricare continuamente, rispondevano a esigenze economiche e sociali prima che scientifiche. La soddisfazione di queste esigenze si deve alla scienza teorica: Galileo e Huygens; si tratta della scoperta dell’isocronismo applicato al sistema bilanciere-molla a spirale per conservare il moto isocrono. Essenziale all’estensione dell’universo di precisione fu anche la sperimentazione su modelli, non solo degli strumenti ma anche delle macchine utensili per costruire i primi, soprattutto a partire dal Seicento, età della manifattura in cui vi era una limitata disponibilità di materie prime. Tanto vale per gli orologi quanto per le bilance che solo alla fine del XVIII sec. si possono dire di precisione: esse sono costruite dai tecnici Harrison, Mégnié e Fortin per Cavendish e Lavoisier. Anche qui fu decisiva la scienza teorica e soprattutto l’intento di applicare gli strumenti in campi nuovi per trasformare il qualitativo in quantitativo, sebbene ancora approssimato. E’ questa la rivoluzione scientifica che avvenne ad esempio in chimica: qui la chimica qualitativa dei fluidi e del flogisto, intrisa di alchimia, fu sostituita dalla chimica ponderale esprimibile in termini quantitativi che richiedevano misure precise. I grandi fisici matematici elaborarono una metrologia applicata in particolare alla bilancia; ad esempio la doppia pesata introdotta da Jean-Charles de Borda (1733-1799) al principio del Settecento, mentre


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alla fine del secolo Gauss elaborò la teoria della distribuzione degli errori. In fisica la nuova impostazione era stata elaborata da tempo, prima in astronomia e nella geodesia e successivamente nell’ambito della gravitazione con la macchina di George Atwood (1745-1807) e la bilancia di torsione di Cavendish, nella calorimetria con Lavoisier e Laplace; infine nel campo dell’elettricità e del magnetismo con Cavendish e Coulomb. Perfezionamenti tecnici guidati dallo sviluppo concettuale di vecchie tecniche consentirono la misurazione della pressione atmosferica, già intuita da Galileo. La precisione delle misure trova significato all’interno delle teorie scientifiche che la giustificano: per es. la precisione in chimica riceve senso dall’interpretazione meccanicista dei fenomeni. Il sistema del mondo di Laplace e lo sviluppo industriale di fine Settecento crearono le condizioni per la realizzazione pratica, con strumenti di precisione e tecniche di standardizzazione, dell’universo matematico di precisione che aveva caratterizzato la scienza moderna sin dalle origini. Tuttavia, si deve dire che non sempre il progresso della scienza ha coinciso con lo sviluppo della precisione sperimentale. Altra cosa è il ruolo del costruttore di strumenti: con la sua competenza egli è in grado di aprire ambiti teorici di sperimentazione completamente nuovi, più che nel conseguire esattezza e precisione negli esperimenti. 4. DIMENSIONE CULTURALE DEGLI SCIENZIATI CREDENTI INVENTORI DI STRUMENTI

La Chiesa ha fornito un contributo essenziale nei più svariati campi della ricerca scientifica. Per amore di verità è opportuno evidenziare le tracce lasciate nella cultura scientifica da scienziati credenti e da uomini di Chiesa. A proposito di questi ultimi, solo di recente si è iniziato ad esplorare l’ambito degli studi scientifici, inteso come quanto non rientra nelle scienze sacre e umanistiche. Da monaci isolati in epoca medioevale, gli scienziati ecclesiastici raggiungono il culmine per numero nel XVIII sec., chiudendo drasticamente l’epoca con le soppressioni di fine Settecento. Prima dello sviluppo di società istituzionali esclusivamente dedicate a questioni scientifiche in Europa, il mondo dei regolari fornì agli


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‘scienziati’ modelli di condotta per perseguire e presentare il loro lavoro. Federico Cesi mutuò dalla Compagnia di Gesù la struttura organizzativa e normativa interna alla sua Accademia dei Lincei e sembra trasferisse all’Accademia l’affinità spirituale con l’Oratorio dei filippini alla Chiesa Nuova, che era stata della propria famiglia. Nel secondo Seicento, la condizione monastica non impedì ai regolari di partecipare attivamente ad accademie fisico-matematiche modellate sul Cimento, essendo stati spesso allievi di membri della stessa. Il benedettino Jean Mabillon (1632-1707), nel Tractatus de studiis monasticis (edizione 1745), dimostra che gli studi non sono estranei alla vita monastica, neanche quelli delle scienze profane. Il rinnovamento degli studi genera un’apertura verso la dimensione scientifica; col riordinamento delle ratio studiorum del XVIII secolo furono previste, anche solo come complementari al corso di filosofia, la matematica, la chimica e le scienze naturali. Nei monasteri, nei conventi, presso le chiese parrocchiali e nei seminari sorgono osservatori astronomici e meteorologici; gabinetti per gli esperimenti di fisica e di chimica; musei con collezioni di reperti archeologici, fossili e altre produzioni naturali. Le biblioteche si arricchiscono dei frutti recenti delle osservazioni scientifiche. Le chiese custodiscono le prime meridiane. La rete dei contatti tra uomini di scienza italiani ed europei, fatta di scambi di lettere, notizie, richieste di chiarimenti, relazioni accademiche, passa anche attraverso conventi, collegi, osservatori; ciò accomuna chi vive dentro i conventi a chi vive nel secolo. Alcune famiglie religiose si distinguono per il loro contributo agli studi e all’insegnamento nei collegi-convitti propri e presso le Università. I religiosi divengono membri di accademie o addirittura ne sono fondatori. Compiono escursioni geologiche, botaniche, ecc.; si relazionano con centri accademici stranieri; pubblicano resoconti di viaggi e di esperimenti. L’aggravio di impegni complica la vita e i doveri dello stato religioso, perciò sono frequenti le dispense, anche dal vivere in comunità. Eppure, nella maggior parte di ecclesiastici, religiosi, credenti scienziati si constata una stabile coerenza personale tra l’ascesi e lo studio, tra l’osservanza di regole e doveri e leggi metodologiche della speculazione scientifica. Si tratta di un atteggiamento mentale di disciplina ed equilibrio interiore razionale ed armonico, ben sottolineato


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dall’abate napoletano Antonio Genovesi (1712-1769) quando raccomanda a un giovane ecclesiastico di coltivare matematica geometria e fisica, perché formano al ragionamento logico necessario alla conoscenza del «primo libro di Dio che è il mondo». La matematica ha realizzato rispetto alle scienze naturali un sorta di sintesi con la filosofia, annullando di fatto rigide e schematiche distinzioni. Nella tradizionale suddivisione degli studi filosofici – logica, metafisica, etica, fisica – la matematica si presenta come un aspetto della fisica. Tra i matematici italiani del XVI ec. è famoso l’abate siciliano (forse di Messina) di S. Maria del Parto, Francesco Maurolico (14941575); commentatore della Sfera di Giovanni Sacrobosco (sec. XIII) ed altri matematici antichi; traduttore di Euclide, Archimede e molti altri; soprattutto dedito alla matematica pura e applicata all’ottica. Nel Settecento l’esigenza di sviluppare gli strumenti di calcolo matematici, in specie il calcolo infinitesimale, con Newton e Leibniz, determinò la nascita della matematica moderna. Diverse personalità di religiosi hanno dato contributi originali al dibattito nell’ambito analitico e differenziale, ben inseriti nelle sedi universitarie di Pavia, Pisa, Bologna, Roma. Va citato il camaldolese Guido Grandi (16711742), l’unico capace di risolvere il famoso enigma proposto da Vincenzo Viviani, della quadratura del cerchio. Suoi allievi e confratelli furono Abondio Collina (1691-1753) cattedra di geometria, geografia e nautica a Bologna, autore delle Considerazioni Istoriche di D. Abondio Collina sopra l’origine della Bussola nautica, e Claudio Fromond (1703-1765) matematica e filosofia a Pisa. Continuò e integrò gli studi del Grandi Ottaviano Cametti (1711-1789). Tra i tanti va ricordato l’olivetano di Brescia Ludovico Ramiro Rampinelli (1679-1759), la cui fama è legata all’opera didattica con cui incise sulla formazione di generazioni di matematici, tra cui Maria Gaetana Agnesi (1718-1799): scienziata autrice di esposizione sistematica della geometria analitica, calcolo integrale e differenziale. Spiccano gli studi e l’opera a favore degli studi scientifici di Celestino Galiani (16811753), abate celestino e arcivescovo di Taranto. E ancora, il celestino Girolamo Saladini (1731-1813) e il gesuita Vincenzo Riccati (17071775), che insieme ripresero e ampliarono l’opera dell’Agnesi.


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I succitati sono un minimo numero di coloro che, anche attraverso la didattica, favorirono la valorizzazione delle discipline matematiche. L’astronomia da sempre ha goduto di alta considerazione, come la più nobile tra le scienze esatte. È davvero altissimo il numero degli ecclesiastici che nei secoli si hanno coltivato questa scienza. Per limitarci all’ambiente di Galilei troviamo il vallombrosano Orazio Morandi (1570-1644); il barnabita Redento Baranzano (1590-1622), tra i primi seguaci; i cassinesi Girolamo Spinelli (morto nel 1648), Benedetto Castelli (1578-1643), che praticamente si occupò di qualsiasi problematica scientifica: ottica, calorico, astronomia, fisiologia, magnetismo, meccanica, algebra e calcoli per la determinazione dei periodi dei pianeti medicei. Suoi allievi furono il gesuato Bonaventura Cavalieri (1598-1647), Evangelista Torricelli (1608-1647), Giovanni Alfonso Borrelli (1608-1679), da lui introdotti nella cerchia di Galilei. Anche l’olivetano Vincenzo Renieri (1606-1647) era seguace di Galilei. Vincenzo Viviani (1622-1703), fedele amanuense di Galilei, conobbe il Renieri e la sua abilità nei calcoli astronomici. Le sue carte, assieme ad alcune del maestro gli furono rubate; vennero ritrovate solo nel XIX sec., dal Favaro, tra i codici galileiani della biblioteca di Palazzo Pitti. Nel Settecento si segnala il cassinese Giovanni Alberto Colombo (1708-1777), prof. di fisica sperimentale all’università di Padova. Progettò l’osservatorio astronomico di Padova; il progetto andò a buon fine ad opera del suo successore abate Giuseppe Toaldo (1719-1797), sulla torre di Ezzelino III. Gli osservatori nacquero con la funzione di determinare il tempo e scrutare il cielo. Col tempo i direttori aggiunsero strumentazione meteorologica e sismica, sicché gli osservatori sarebbero diventati davvero completi, come la Specola Vaticana, l’osservatorio del collegio Romano e quello al Campidoglio, dell’Università di Roma; l’osservatorio di Brera, l’osservatorio di Bologna, l’osservatorio del Museo di fisica e storia naturale di Firenze, l’osservatorio astrofisico di Catania, l’osservatorio di Palermo, l’osservatorio di Capodimonte e quello di Padova. La Luna è un vero e proprio approdo stellare del cristianesimo. Dei molti crateri di cui è butterata per via del bombardamento meteoritico, più di 35 prendono il nome di padri gesuiti che al contempo erano


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insigni scienziati e matematici. Tra questi, spiccano il cratere dedicato al gesuita Giovanni Battista Riccioli (1598-1671); quello intitolato al gesuita Georges Lemaître (1894-1966), che preparò il terreno alla teoria del Big Bang sull’origine dell’universo; quello dedicato al gesuita Cristoforo Clavio (1538-1612), e il cratere dedicato a padre Francesco Maria Grimaldi (1618-1663): di lui sono famosi gli esperimenti per provare la diffrazione della luce. Diversi religiosi applicarono le loro competenze matematiche e astronomiche in campo nautico, come il gesuita divenuto cistercense Onofrio Borri (morto nel 1632): propose uno strumento per il calcolo delle distanze; trattarono dell’arte di navigare l’olivetano Ferdinando Mexia (1757-1810) e il camaldolese Abondio Collina (1691-1753), allievo di Guido Grandi. Altri si applicarono all’ottica e alla costruzione di lenti, cannocchiali, microscopi in funzione delle osservazioni scientifiche: i vallombrosani Leto Guidi (1711-1777), Ottaviano Cametti (1711-1789), Mercuriale Prati (1715-1807); Giambattista Casini (1761-1817), silvestrino, costruttore di globi celesti e di telescopi per l’osservatorio astronomico di Fabriano, da lui fondato. L’osservanza della regola benedettina richiede un’attenzione alla misura del tempo, poiché questo scandisce tutte le attività giornaliere. Si spiega così la vasta cultura – matematica, astronomica, geometrica e geografica – necessaria a una costruzione accurata di orologi solari. Si distinsero in quest’arte i cassinesi Gerolamo Ruscelli (1538-1604), Clemente Mattei, del XVII sec.; il vallombrosano Mercuriale Prati; ancora Ferdinando Mexia, di cui sopravvivono le due meridiane a Bologna e a Napoli. Il certosino Giovanni Battista Vimercati che pubblicò i suoi studi di gnomonica nel 1557, corredati di disegni, schemi e calcoli. Legata all’esigenza liturgica, soprattutto alla determinazione della Pasqua è la scienza del calendario. La sfasatura tra calendario gregoriano, adottato dalla Chiesa al concilio di Nicea, 325, e la durata dell’anno solare produsse la questione cronologica della riforma del calendario. Tra i molti, se ne occupò nel XIII sec. il monaco benedettino Giovanni Sacrobosco. Clemente XI (1700-1721), favorì la cultura scientifica e coinvolse studiosi come Leibniz, l’Académie des Sciences


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di Parigi, gesuiti ecc. nella riforma del calendario. Alcuni significativi contributi vennero dai cassinesi Alderamo Desideri (morto nel 1709), Celestino Galiani (1681-1753). Le leggi della fisica moderna sono state applicate per affrontare il problema vitale della regolazione delle acque, ma già nel medioevo se ne erano occupati diversi monaci. Fra questi il camaldolese del XV sec. Fra’ Mauro. Nel Settecento troviamo l’olivetano Ramiro Rampinelli; il camaldolese Guido Grandi; il cassinese Andrea Bina (17241792), col suo opuscolo di ingegneria idraulica, in cui i problemi sono affrontati con rigore matematico e fisico. Ma la scienza idraulica vede la sua fondazione in senso moderno nel benedettino Benedetto Castelli, amico e discepolo di Galilei: egli applicò con rigore scientifico le leggi fisiche ed espose i fenomeni osservati nel noto trattato, Della misura dell’acque correnti, 1628. Nella storia dell’oceanografia è famosa l’opera di Fra’ Mauro, Il mappamondo di Fra’ Mauro (1445-1446). Altro famoso mappamondo, commissionatogli dal re del Portogallo Alfonso V, nel 1459, è quello al quale collaborò il cartografo veneziano Andrea Bianco. Si tratta di planisferi indispensabili ai commerci e ai navigatori della Serenissima; rappresentazioni cartografiche e portolani guidavano i viaggiatori con le descrizione delle particolarità degli itinerari. Poco precedenti al Mappamondo sono i Diarii di Marin Sanudo (inizio XIV sec.). L’opera di Fra Mauro’ recepì i resoconti dei viaggiatori Lusitani; fu anche criticata dal cartografo veneziano Giovanni Battista Ramusio (1485-1557), mentre Abondio Collina, nel 1748, riconosceva al Mappamondo il merito di avere guidato i portoghesi Bartolomeo Diaz e Vasco da Gama alle Indie circumnavigando l’Africa. Innumerevoli altri furono i religiosi che applicarono il proprio sapere di astronomia alla geografia celeste e terrestre, divenendo cosmografi, cartografi, costruttori di globi e di astrolabi. Risalta il ruolo fondamentale di alcuni ecclesiastici nello sviluppo di due rami del sapere molto importanti per la vita concreta della gente: la meteorologia e la sismologia. I monasteri sono stati, e sono talora anche oggi, i luoghi dove si raccolgono da molti anni, con pazienza e costanza, i dati sulle precipitazioni e sulla temperatura. Questo perché sin dal tempo dei monaci


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benedettini, l’ora et labora ha significato anche ora et ara: prega e lavora la terra. Mentre i popoli pagani veneravano divinità della fertilità e offrivano loro sacrifici, già i primi cristiani sapevano che l’acqua e la pioggia sono un dono di Dio, e che l’uomo, come giardiniere del creato, deve lavorare abbandonando scongiuri, formule, danze della pioggia e superstizioni varie. È per questo che per secoli i grandi esperti di tempo e di acqua sono stati uomini di Chiesa. Sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Raimondo Lullo e Ristoro d’Arezzo, uomini di Chiesa del XIII secolo, furono impegnati nel liberare la meteorologia dagli antichi miti della personalizzazione dei fenomeni atmosferici. Opera dell’inglese William Merle (forse fellow al Merton college, Cambrige, morto nel 1347), sono anche, a quanto risulta, le prime sistematiche ed empiriche registrazioni meteorologiche giornaliere della storia. Ancora a Benedetto Castelli va riconosciuto il merito dell’invenzione del pluviometro (utilizzato anche come evaporimetro), per misurare le precipitazioni atmosferiche. La paternità dell’igroscopio, strumento per misurare l’umidità dell’aria, è contesa tra il cardinale Niccolò Cusano (1401-1464) e l’ecclesiastico, e grande artista, Leon Battista Alberti (1404-1472), inventore nel 1450 anche del primo strumento per misurare la velocità del vento: l’anemometro. Il primo anemoscopio moderno, per indicare la direzione di provenienza del vento, fu invece invenzione del domenicano fiorentino Egnazio Danti (1536- 1586). Si possono poi citare i contributi del monaco Edme Mariotte (1620-1684), uno dei padri della fisica francese, che indagò la relazione tra pressione barometrica e piovosità, e ripeté, introducendovi nuove osservazioni, gli esperimenti di idrostatica e di idraulica di Evangelista Torricelli. La prima rete meteorologica al mondo fu promossa dal Granduca di Toscana, Ferdinando II, tra il 1654 e il 1667. Egli chiamò il monaco vallombrosano Luigi Antinori a coordinare una rete meteorologica comprendente stazioni di rilevamento italiane e straniere. Successivamente, nell’Ottocento, l’astronomo gesuita Angelo Secchi (1818-1878), dal 1855 introdusse il servizio meteorologico telegrafico giornaliero tra le principali città dello Stato Pontificio (Roma, Ancona, Bologna, e Ferrara) e, grazie alla generosità di Pio IX,


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realizzò il meteorografo, che registrava allo stesso tempo e con continuità i vari dati meteorologici. E il barnabita Francesco Denza (18341894), fu fondatore di una rete di osservatori meteorologici prima sulle montagne italiane, poi su tutta la penisola, e infine, con l’aiuto di missionari, anche in America Latina. A Denza, inventore del cosiddetto “anemopluviografo Denza”, dobbiamo la fondazione, nel 1881, della Società meteorologica italiana. In età medievale i teologi affermano, per un verso, che se un terremoto avviene, è perché in ultima analisi Dio lo permette (come castigo benefico, per “richiamare” gli uomini), e lo ricollegano, come ogni manifestazione di violenza naturale, al peccato originale, origine di ogni squilibrio spirituale e fisico; per altro verso, propongono delle interpretazioni naturalistiche, delle cause secundae, dei fenomeni sismici. Così, per esempio, sant’Isidoro vescovo di Siviglia (De natura rerum), il venerabile Beda, Dante Alighieri, sant’Alberto Magno nel suo De mineralibus et rebus metallicis e il frate Ristoro d’Arezzo nella sua Composizione del mondo (1282). Nel XIV secolo il canonico del Duomo di Regensburg, Konrad di Megenberg (1309-1374), respinge la spiegazione popolare di origine pagana secondo cui il terremoto era causato da un enorme pesce e, dopo aver identificato in Dio la causa prima, propone una spiegazione naturalista del fenomeno. Nel Seicento il beato Niccolò Stenone (1638-1687), studia con metodo scientifico – fondato sulle osservazioni dirette – gli strati geologici del terreno, concludendo che la formazione delle montagne è dovuta a terribili terremoti che hanno devastato la regolare stratificazione per sedimenti. Per questa ragione viene ritenuto caposcuola della moderna geologia, unita a una nuova visione dei fenomeni sismici. La prima analisi non soprannaturale dei terremoti risale ai filosofi greci i quali fornivano un’interpretazione meccanica di tali fenomeni naturali. Ma il primo che affrontò il problema della resistenza dei solidi alla rottura, o elasticità, in termini matematici fu Galileo Galilei, e le sue esperienze servirono da modello a molti ricercatori. Solo intorno alla metà del XVIII sec. si riconobbe che i terremoti hanno la loro origine all’interno della Terra e si cominciò ad applicare allo studio dei terremoti i principi e le leggi della geofisica.


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In questo percorso di graduale comprensione dei fenomeni sismici, occupa un posto di rilievo anche un religioso anglicano, l’inglese John Mitchell (1724-1793), parroco di Thomhill Church nello Yorkshire, secondo alcuni “il primo sismologo dell’età moderna”: egli descrive il terremoto in termini di meccanica newtoniana, come onda che si propaga nella terra grazie all’elasticità delle rocce. Un ruolo fondamentale lo hanno però alcuni religiosi, inventori di una grande varietà di strumenti di misurazione. Tra i primi sismometri, troviamo quello ideato nel 1703 dall’abate francese Jean De HauteFeuille (1647-1724). Egli costruì una vaschetta con fori presso l’orlo, orientati secondo i punti cardinali; la vaschetta era riempita di mercurio fin presso i fori. Ad ogni scossa il mercurio, oscillando, traboccava da uno o più fori e cadeva in apposite scodelle, indicando così non solo la direzione della scossa, ma anche la sua intensità, dalla quantità di mercurio traboccato. L’abate Atanasio Cavalli (17291797), nel 1784, vi aggiunse un orologio orizzontale con quadrante girevole e con fori corrispondenti alle diverse ore; il mercurio, cadendo nei fori che indicavano le ore, rivelava così anche l’ora della scossa. Di terremoti si occupò l’olivetano bolognese Michele Augusti (17461807); cominciò a studiare i terremoti succedutisi a Bologna, che spiegava mediante la teoria del fluido elettrico, come anche l’aurora boreale. Prima dell’invenzione del sismografo l’osservazione strumentale dei terremoti era effettuata per mezzo di numerose varietà di sismoscopi o sismometri, strumenti in grado di indicare la direzione degli impulsi generati dal sisma, mentre in situazione di quiete funzionavano come clinometri a pendolo verticale, cioè registravano le variazioni d’inclinazione del suolo sotto il pendolo. Nel sec. XVIII fanno la loro apparizione i primi sismografi a pendolo. Si ricorda Nicola Cirillo, che iniziava nel 1731 regolari osservazioni. Il benedettino Andrea Bina inventò uno dei primi sismografi moderni, a pendolo, nel 1751: «egli fece sì che una massa di piombo, sospesa ad un filo e munita di una punta nella parte inferiore, solcasse in uno strato di sabbia le tracce del movimento tellurico». Ciò rappresenta la prima esperienza scientifica di misurazione dei sismi. Dal Bina ebbe origine l’osservatorio sismologico del monastero di S. Pietro, a Perugia.


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L’introduzione della sismologia tra le scienze fisico-matematiche è avvenuta nel XIX secolo con lo sviluppo della teoria fisica dell’elasticità e la costruzione di strumenti, i sismografi, in grado di fornire informazioni dettagliate sui rapidi movimenti del suolo che costituiscono il terremoto. Il campo di ricerca si è ampliato notevolmente e comprende, oltre lo studio dei terremoti, lo studio dell’interno della Terra e il magnetismo terrestre, la sismologia applicata. Nell’Ottocento, dalla sismologia è nata la microsismologia: nel 1869, nell’osservatorio del collegio alla Querce di Firenze, il barnabita Timoteo Bertelli (1826-1905) cominciò le osservazioni delle oscillazioni microscopiche del pendolo che aveva fissato a un grosso muro, servendosi di un microscopio con cui seguiva la cuspide del pendolo. Fondatore e direttore dell’osservatorio, progettò e fece installare il tromometro, strumento per la registrazione dei movimenti microscopici. Correlate alle osservazioni sismiche da sempre sono state quelle vulcanologiche; a queste si dedicò il celestino Teodoro Monticelli (1759-1845). Il suo centro d’interesse era il Vesuvio. Assieme al botanico chimico Nicola Covelli (1790-1829) pubblicò numerosi studi sulle eruzioni vesuviane, correlando il fenomeno alle condizioni meteorologiche. La parte più interessante è l’analisi mineralogica e chimica delle lave. «Gli uomini hanno sempre vagheggiato il sogno di alzarsi in volo, come l’uccello in seno all’atmosfera». A titolo di esempio si ricorda Eilmer (Oliver) of Malmesbury (X secolo – XI secolo), un monaco benedettino noto per il suo primo tentativo di un volo planato con le ali, ma ne rimase vittima. A questa impresa scientifica si sono dedicati, fra gli altri, alcuni fisici italiani del secolo XVI, come Gian Battista Porta (1535-1615) e Girolamo Cardano (1501-1576). Pare che una delle prime persone nel mondo occidentale ad alzarsi in volo sia stato il perugino Gian Battista Danti (morto nel 1517). Fu in antitesi con il suo quasi coetaneo Leonardo da Vinci, il quale teorizzava macchine che “battevano le ali” come gli uccelli, mentre il Danti era convinto che l’uomo potesse volare soltanto con ali ferme (come sui deltaplani o sugli alianti) o col favore di vento o corrente ascensionale. Al Trasimeno il Danti provò a volare una prima volta nel 1498, ma senza successo. Però nel 1670 il gesuita Francesco Lana Terzi (1631-1687), nella sua opera


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Prodromo dell’arte maestra presentò un progetto di “nave volante”, descritto in tutti i suoi particolari costruttivi e illustrato da una famosa tavola; questo progetto, fondato su validi principi fisico-matematici, permise al Lana di essere annoverato tra i pionieri dell’aeronautica. Circa 50 anni dopo un giovane gesuita brasiliano, Bartolomeu Lourenço de Gusmão (1685-1724), noto come il “padre volante”, ideò la prima mongolfiera di cui si ha notizia e ne sviluppò il progetto grazie alla sovvenzione economica concessa dal re del Portogallo Don Giovanni V. Il nome del pallone aerostatico che funziona con aria calda, deriva dal nome degli inventori Joseph Michel Montgolfier (1740-1810) e Jacques Étienne Montgolfier (1745-1799). Il 5 giugno del 1783 ci fu la prima dimostrazione pubblica ad Annonay. Il volo coprì circa 2 km, durò 10 minuti e raggiunse l’altitudine stimata di 1.600-2.000 metri. Nel gennaio 1784 i cassinesi Bernardo De Rossi (1749-1827) e Agostino Da Rabatta (1761-1831) ripeterono con successo l’esperienza presso la badia di Firenze, precedendo quella che viene ritenuta prima esperienza italiana di volo aerostatico, del conte Paolo Andreani. Un mese dopo (febbraio 1784) trovò realizzazione il progetto seicentesco del Lana Terzi ad opera del benedettino Serafino Serrati, a Firenze. Fece seguito Vincenzo Lunardi, pioniere dell’aeronautica (1759-1799), ufficiale del Genio napoletano; divenne l’idolo della popolazione londinese dopo la sua prima ascensione dinnanzi al principe di Galles e ad oltre centomila persone, il 15 settembre 1784, eseguita con un pallone da lui progettato e costruito. Jean-André Mongez (1750-1788), mineralogista e religioso della congregazione di Sainte Génévieve, però escluse la possibilità del volo umano. 5. LA FEDE E LA SCIENZA NUOVA Nell’ambito delle relazioni politiche europee bisogna tener conto della particolare situazione in cui la Chiesa venne a trovarsi tra Settecento e Ottocento. Infatti, con il breve del 21 luglio 1773, papa Clemente XIV (1769-1774) aveva sancito la soppressione della Compagnia di Gesù, detentrice del monopolio dell’istruzione, i cui collegi dei nobili incarnavano il modello educativo di ancien régime,


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di contro a concezioni innovatrici. Giuseppe II e suo fratello Pietro Leopoldo di Toscana sono i principali riformatori illuminati del tempo, intenti a trasformare radicalmente lo Stato e la Chiesa all’insegna dei principi razionalistici dell’Illuminismo, frutto dei sistemi filosofici diffusi nel Seicento: l’empirismo e il razionalismo. Nella loro assolutezza, nonostante le differenze, l’empirismo e il razionalismo avevano posto il criterio di verità nel soggetto. Rifiutando l’oscurantismo del passato si aprivano nuove vie in filosofia, in politica, in economia, nel diritto, nella morale, e nella religione. Con questo paradigma filosofico dovette confrontarsi il lungo pontificato di Pio VI (1775-1799). Da un lato c’era la sua prima enciclica Inscrutabile divinae sapientiae, promulgata nel 1775, che stigmatizzava le idee dei Lumi per la volontà di spezzare, con la nascita di Chiese nazionali, ogni legame tra Chiesa e Stato; dall’altro c’era lo sforzo di ammodernare lo stesso Stato Pontificio con opere pubbliche, come la sistemazione dei porti di Ancona, Civitavecchia, Anzio e Terracina, il riordino delle strade, il prosciugamento dell’Agro Pontino, l’abolizione delle gabelle interne, le riforme in agricoltura, la compilazione del catasto; si distinse come mecenate (Roma in quel tempo era frequentata da Canova, Alfieri, Goethe, Verri, Monti); sostenne importanti scoperte archeologiche che culminarono nell’allestimento del museo Pio-Clementino in Vaticano. Dunque, all’interno dello Stato della Chiesa c’erano spinte innovative e trasformazioni sociali, oscurate dalla violenta libellistica antiromana e antipapale: Voltaire definì il papa:“il Lama d’Europa”. La Chiesa in ogni caso si trovava davanti a un inarrestabile progresso sociale e politico, spesso unito a uno spirito ostile che rifiutava ogni rivelazione e considerava l’uomo senza il peccato originale come incorrotto, buono, portato spontaneamente al bene (Rousseau). La società del Settecento conobbe notevoli innovazioni nei settori del commercio, dell’agricoltura, e soprattutto dei mezzi di produzione, con la comparsa e l’utilizzo diffuso delle macchine a vapore, che sostituivano il lavoro artigianale con quello industriale. Ma specialmente con la nascita dello Stato moderno, accentratore ed ugualitario, la Santa Sede finì per irrigidirsi nella difesa dello status quo, cioè dell’assetto sociale tradizionale e dello Stato confessionale.


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Dalla metà del Settecento in Europa i Piani di Studio delle Università cominciarono a lasciare l’impostazione scolastica favorendo le discipline scientifiche. In Italia, nel 1709 era apparso l’importante progetto del Marsili teso alla riforma dell’Università di Bologna, dove si pensava di introdurre una cattedra di fisica e di chimica sperimentale; non solo di insegnare Aristotele, ma studiare anche Giordano Bruno, Francesco Patrizio, Bernardino Telesio e, soprattutto, Galileo Galilei; si introdusse una cattedra di storia (non veniva insegnata né a livello universitario né a livello secondario). In questo vivace contesto socio-culturale si formarono ecclesiastici che seppero dar prova di equilibrio intelligente accogliendo delle nuove proposte filosofiche quanto poteva essere d’aiuto alla fede. Una posizione più aperta al nuovo pur senza scendere a patti con l’opzione razionalista. La diffusione nei collegi e nei seminari degli ordini religiosi di uno sperimentalismo di marca newtoniana implicava la presenza di strutture adeguate, in anticipo rispetto alle istituzioni pubbliche. Al Nazareno degli scolopi, per es., dove la didattica sperimentale della fisica venne introdotta nel 1747 dal padre Urbano Tosetti (1714-1768), i convittori avevano a disposizione un attrezzato gabinetto di macchine che utilizzavano durante le ‘accademie’ di fisica sperimentale e che da allora venne sempre costantemente accresciuto. Così come nei collegi convitti dei barnabiti, dove dal primo Seicento Redento Baranzano (1590-1622), tra i primi seguaci di Galileo Galilei, sostenitore del sistema Copernicano con il suo volume Uranoscopia seu de caelo (Ginevra 1617), impartiva un insegnamento scientifico innovativo. A Napoli, Joseph-Jérôme Lalande (1732-1807) poté ammirare la macchina parallattica conservata presso il collegio Massimo dei gesuiti, dotata di telescopio munito di micrometro obiettivo, mentre il somasco G.M. Della Torre (1713-1782) costruiva microscopi e obiettivi a sfera di sua invenzione che riducendo le aberrazioni cromatiche gli permisero importanti osservazioni naturali. Questi è annoverato tra i primi a descrivere le eruzioni del Vesuvio e a studiare la composizione delle lave con osservazioni del materiale al microscopio. La presenza nei chiostri di cabinets di curiosità e di fisica era segno della loro partecipazione alla rivoluzione scientifica, fenomeno che datava a Roma già dalla metà del Seicento. Al Collegio romano, il gesuita


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Athanasius Kircher (1602-1680) aveva allestito un museo di naturalia e artificialia riconosciuto come uno dei più avanzati e forniti centri di ricerca scientifica di tutta Europa. Fu poi arricchito dal gesuita Orazio Borgondio (1675-1741) – maestro del confratello Ruggero Boscovich – con una sala di strumenti di fisica e astronomia, mentre il papa Benedetto XIV dava impulso alla costruzione di una specola. Dal Seicento, il convento dei minimi di Trinità dei Monti era un luogo di sperimentazione nel campo delle matematiche applicate: gnomonica, ottica, prospettiva. Gli strumenti e le macchine che servivano per insegnare, ricercare o stupire il pubblico dei visitatori venivano spesso fabbricati all’interno dei chiostri; così quelle di Kircher; gli atlanti e i globi di Vincenzo Maria Coronelli (1650-1718), minore conventuale, le cui carte venivano incise nell’officina del convento veneziano dei Frari. Le loro scuole erano aperte, oltre che ai bisogni della società civile, anche ai controlli dei diversi Governi nell’Età dei Lumi, incluso quello sulla qualità dell’insegnamento impartito, per provvedere all’educazione cristiana della gioventù ovunque fosse possibile e in ogni situazione che in qualche modo la consentisse. Una cultura in dialogo con il proprio tempo, capace di assumere un progetto di formazione integrale della persona di ispirazione cristiana. Questi religiosi seppero sintonizzarsi sul mutamento delle aspettative scolastiche di una società Settecentesca in rapida trasformazione; basti considerare, all’opposto, l’ostinata difesa della dottrina aristotelico-tomista che si opponeva alla filosofia cartesiana, o la battaglia contro le nuove scienze matematiche e fisiche. Essi si occuparono di scienza, particolarmente nello studio della filosofia naturale, che inizialmente si svolgeva entro gli schemi concettuali dell’epistemologia e dell’enciclopedia scientifica aristoteliche. Anche se solo intorno alla metà del Settecento in Europa i Piani di Studio universitari vennero definitivamente svincolati dall’impostazione scolastica, già nel Seicento era iniziata l’applicazione del metodo sperimentale; nel Settecento si affermò uno spiccato orientamento scientifico di stampo cartesiano; le opere di Copernico, come quelle di Newton, erano presenti un po’ in tutte le biblioteche, nonostante l’apparente disaccordo tra ‘scienza e fede’, dovuto al tema dell’inerranza biblica.


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Pure i missionari nel XVIII secolo non potevano fare a meno di dedicarsi allo studio e alla ricerca, data la loro competenza nella matematica, nella fisica, nella cartografia e specialmente nelle scienze della terra, che insegnavano pure alle popolazioni locali. Seppero dare, così, un impulso fondamentale allo sviluppo culturale e scientifico dei territori. Nel Settecento si assiste a una vera e propria evoluzione negli studi. Si hanno notizie di “theses ex phisico” difese in pubbliche dispute con la consapevolezza di inaugurare una “nova philosophia”. Tra Sette e Ottocento si moltiplicarono le difese di tesi di fisica. Esse rappresentavano lo specchio fedele di quello che allora erano le scuole, soprattutto grazie alle loro biblioteche dove gli studenti, accanto ai classici greci, latini e moderni (Leibniz, Locke, Newton, Hobbes, Condillac, Malebranche, Galilei, Keplero, Newton, Galvani ecc.) disponevano dell’enciclopedia francese, degli “atti” dell’Accademia di Parigi, di quella di Berlino e della Società Enciclopedica di Bologna. Per questo nel Settecento entrarono a pieno titolo nell’insegnamento dei religiosi le discipline scientifiche, fisiche e matematiche, dove veniva riconosciuto grande spazio alla sperimentazione nei laboratori scientifici. Ogni collegio disponeva del suo osservatorio astronomico. Ogni ramo scientifico contava i suoi cultori: dall’astronomia alla sismologia, dalla meteorologia alla botanica, dalla matematica alla numismatica, dall’archeologia all’egittologia. Interi collegi, quali quelli barnabiti, si dedicavano allo studio delle scienze agrarie, intese come un sapere pratico volto alla soddisfazione dei bisogni primari dell’esistenza umana. Appare chiaro che molti religiosi possedevano una loro formazione umanistico-scientifica e tecnica davvero poliedrica e completa; la predisposizione e l’ingegno personali li rendeva capaci di spaziare tra matematica, geometria, trigonometria, fisica, astronomia, cartografia, meteorologia, geodetica, scienze naturali, applicazioni tecniche delle leggi fisiche. Dunque, la dimensione personale che emerge negli studi scientifici non contraddice, ma completa i valori della fede; viceversa, lo stato di religioso accompagna, integra e sostiene lo scienziato, sicché può ben coltivare la scienza come uno dei suoi doveri di uomo, religioso e scienziato. In tal senso questi religiosi sono testimoni dell’unità del sapere, cioè conoscenza scientifica e verità di fede in loro formano “il patrimonio” della conoscenza.


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CONCLUSIONE Si è trattato di religiosi scienziati appartenenti a ordini religiosi che annoverano un certo numero di cultori delle scienze esatte tra le loro fila, e che custodiscono nei loro archivi storici (generalmente a Roma) un mondo culturale scientifico insospettato, un patrimonio solo in parte conosciuto e valorizzato nella ricchezza e varietà delle sue espressioni. Tanti scienziati sono stati poco noti, e altrettanti lo sono tuttora, soprattutto perché i documenti di prima mano – manoscritti, inediti, appunti, disegni, certificazioni, lettere – necessitano ordine e sono inaccessibili. È necessario accedere agli archivi “dimenticati”, per scoprire la figura di questi uomini nella loro composita formazione culturale; la definizione dei campi scientifici e del metodo di lavoro applicato; individuare le tematiche di fondo e le principali questioni affrontate. Questi sono autentici archivi scientifici, testimonianza originale della concreta dimensione storico-contestuale dell’attività svolta: lo studio di questa fonte primaria consente di valorizzare l’interazione della dimensione personale della ricerca nel contesto della comunità scientifica, rappresentata dai corrispondenti, italiani e stranieri. Si può vedere come attraverso i passaggi per diversi ambienti culturali si compie e si consolida la maturazione della loro personalità, nel dibattito stimolante con la comunità scientifica. Il ricorso ai fondi archivistici costituisce la condizione indispensabile alla conoscenza del personaggio, attraverso la documentazione manoscritta; l’epistolario, con corrispondenza ricevuta e corrispondenza inviata; la documentazione scientifica prodotta e quella ricevuta; la letteratura scientifica prodotta e ricevuta. Ma la comprensione dei documenti è condizionata dalla visione generale delle scienze fisiche, chimiche e naturali ereditata dal passato. Lo sviluppo della tecnica della strumentazione per eseguire gli esperimenti ha inciso fortemente nel progresso della fisica classica, tanto da costituire un aspetto della storia della scienza tecnica. Da quando la dimensione temporale è entrata nella considerazione dei fatti naturali, la scienza nella sua concretezza, le nozioni teoriche e le realizzazioni oggettive sono divenuti fondamentali per la comprensione della storia della scienza. Perciò occorre recuperare la memoria


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storica anche di ecclesiastici scienziati attraverso lo studio dei loro archivi scientifici personali, secondo una nuova visione della “storiografia della scienza”, fondata su documentazione originale diretta a privati – talvolta prestigiosi – ad enti, come Università, Biblioteche, Osservatori meteorologici e astronomici, ecc. Indubbiamente i carteggi epistolari rivestono una notevole importanza dal punto di vista scientifico, perché contengono le immediate risposte a quesiti di varia natura, anche ai più curiosi. La lettura dei documenti, dei resoconti delle esperienze e degli scritti consente di rilevare metodo di studio; la concezione degli strumenti d’indagine scientifica; la coscienza di sé e del ruolo esercitato rispetto alla comunità scientifica e in seno alla propria famiglia religiosa, o nel contesto ecclesiale. Anche quando non hanno raggiunto particolare rinomanza, con la loro attività scientifica questi religiosi contribuiscono ad alimentare l’humus culturale da cui emergono e sono sostenuti scienziati meglio conosciuti. Pertanto, gli archivi scientifici costituiscono una testimonianza originale la cui scientificità è data dall’integrazione concreta della dimensione umana e personale della ricerca nel contesto della comunità scientifica. Dunque, in prospettiva, la loro riscoperta assicura un contributo alla storia del dibattito scientifico.

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Domenica Flavia Ferreto

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Note e discussioni Synaxis XXXIV/1 (2016) 121-124

RIFLESSIONI SUL VOLUME “TRATTATO DELLE VIRTÙ” DI JEAN JÁNKÉLEVITCH

ENRICO PISCIONE1

Ci pare di non essere lontani dal vero se affermiamo che l’opera più interessante ed ampia di Jánkélevitch è il Traité des vertus, edita a Parigi da Flammarion nel 1985. Facendo nostre le osservazioni di Francesco Alberoni, possiamo dire che l’Autore “riprende tutti i suoi temi e, nella prima parte, fa addirittura una esposizione sistematica delle categorie fondamentali del suo pensiero” (p.9). Robert Maggiori, allievo di Jánkélevitch, definisce ben a ragione il pensatore “filosofo dell’amore”. Jánkélevitch, opportunamente, non ha dato molto spazio a i grandi “notabili” della filosofia moderna Freud, Marx, Husserl, Heidegger” (p. 20) volgendo, invece, la sua attenzione ad autori come Plotino, San Francesco di Sales, Fénelon e Bergson. La tematica più cara a Jánkélevitch si rivolge – cosa che appare quasi scontata – all’amore, inteso sia come eros che come agàpe, tematica che costituisce – è a tutti noto – il nerbo stesso dell’etica e, perciò, non è azzardato sostenere che il Nostro, sulle orme del Platone del Simposio, ritiene che amare e filosofare coincidono. L’Autore, però, lungi dal fondare un nuovo sistema, ha offerto alla sensibilità contemporanea, potremmo dire, qualche principio sovrano tale da garantire l’amore universale dell’amicizia. 1

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Prendendo le mosse da Cartesio, Jánkélevitch afferma che “il Cogito è sempre presupposto” (p.28) e si scaglia pure contro l’“immoralismo” di Nietzsche ed intravede anche nell’antico cinismo “un alibi del dispetto amoroso” (p. 29). In questa prospettiva si comprende il primato dell’amore sull’essere e per questo l’Autore si scaglia conseguentemente contro il dolorismo che, a suo parere, è responsabile della metamorfosi dell’edonismo in eudemonismo. Soffermandosi appunto sull’egoismo, Jánkélevitch scrive che esso è “ciò che nessuno ammette sinceramente, ciò che nessuno confessa, né professa, né riconosce a cuor leggero, se non per il piacere di atteggiamenti cinici o civetteria letteraria” (p.36). Passando ora all’analisi dell’altruismo, esso appare, invece, una sorta di evidenza “particolarmente assiomatica” (p.46). La relazione amorosa è, secondo il Nostro, di certo da preferire all’egoismo perché essa “arricchisce incomparabilmente di più della tesaurizzazione solitaria” (p.40). L’Autore si scaglia convintamente contro Lutero che “ci invita a peccare fortemente per poter conoscere il fuoco del pentimento” (p.45). Anche Francesco di Sales, la cui spiritualità è molto apprezzata da Jánkélevitch,“crede indubbiamente che morire a sé nel sacrificio significhi rivivere nell’altro e in Dio” (p.42). Jánkélevitch esprime più volte la certezza che merito, perdono, fedeltà e sincerità si co-appartengono richiamandosi a vicenda. La fedeltà più meritoria si indentifica con quella che “conserva paradossalmente la propria fede a dispetto di tutte le cause di infedeltà” (p. 52). La sincerità, infine, è legata in modo paradossale al coraggio. Passando a trattare più specificamente della vita morale, essa, se deve essere “vita” zoé, non si limita all’avventura straordinaria, ma si incarna nell’intima concretezza di un culto. Jánkélevitch si scaglia contro il calvinismo, perché chiuso nel dogma della predestinazione, “esclude l’idea di un merito capitalizzabile” (p.100). La virtù, dunque, va considerata, per così dire, in coppia con l’azione. A questo punto il Nostro pone l’annosa questione se la virtù si insegna o si possa imparare. “La verità è o no un didakton, cosa inse-


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Riflessioni sul volume “Trattato delle virtù” di Jean Jánlkélevtch

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gnabile, cosa che s’impara?” (p.115). Le risposte, come è noto, sono varie: “Mentre Socrate vede in essa l’oggetto di una scienza intelligente, i sofisti la trattano come una routine” (p.115). Analizzando la virtù, Jánkélevitch ricorda, ad esempio, che il coraggio va distinto dalla cieca temerarietà e che essa è una media tra paura e coraggio (p.125). C’è da osservare ancora che “all’imperatività puramente positiva del coraggio, la fedeltà oppone la sua negatività proibitiva: non dimenticare, non tradire, né rinnegare, né smentire, né mancare di parola, non amare altre donne” (p.131). L’infedeltà è il tradimento. La fedeltà è prima di tutto “ la volontà di non cedere all’inclinazione apostasica” (p.132). “Gli stoici avrebbero riconosciuto in essa la constantia sapientis” (p.132). Pertanto “fiducia e confidenza, fede e fedeltà sono un solo e stesso credito” (p.134). “La fedeltà «ispira» fiducia e ci risparmia di vivere, come dice Gabriel Marcel, per contanti” e ha il potere di rendere “gli altri fedeli: dissipa intorno a sé lo scrupolo solipsista” (p.135). Jánkélevitch restaura ovunque quella “fiducia del cuore”, quel fedele fidanzamento ancando il quale la virtù si ridurrebbe ad un deludente e ingannevole “fuoco di paglia”. La fedeltà può impegnarsi per il futuro? Si chiede Marcel, a tal proposito, se sia possibile accettare un impegno che si sa di non poter mantenere. La fedeltà è convincente solo se costante per me, fedele all’altro, dice ancora Gabriel Marcel. In questo la filosofia marceliana si separa dal volontarismo etico (p. 139). “L’io, dice Gabriel Marcel, trascende i suoi stati pellicolari; la vita interiore, a sua volta, non è una successione cinematografica di istantanee, ma al contrario ciascuno dei suoi stati trabocca dal momento presente, anticipa l’avvenire, rigenera attorno al suo nunc una totalità” (p.140). La fedeltà, benché in sé sia “ben conservatrice” ci spinge “a inventare razionalmente una vita nuova a partire dall’impegno che abbiamo preso (…) e a trasformare e a riformare la nostra condotta in funzione del voto che ormai ci lega” (p.142). Certo, non è difficile “essere fedeli a una donna fedele, ma è difficile essere fedeli all’infedele che non ci ama”(p.143). L’umiltà, infine, non va confusa con la modestia che è strettamente legata alla giustizia. La modestia, come recita la Regola benedettina


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dell’umiltà, “Societas humana connectitur; simpatia nascente, essa contrasta l’atomizzazione dell’uomo” (p.147). San Tommaso, nel tentativo di fare la storia dell’umiltà, parla, invece, di una virtù regolatrice e riduttrice che potrebbe ben essere la modestia: “Considerans suum defectum, tenet se in infimis secundum modum suum” (p.149). L’Aquinate si oppone alla “tradizione dei santi, che sarà quella dell’Imitazione, ma anche all’ascetismo benedettino e bernardiano che chiede all’anima di “se contemnere” e di sminuirsi all’infinito”.


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Recensioni Synaxis XXXIV/1 (2016) 125-143

ALBERTO BONDOLFI – MILENA MARIANI (cur.), Dio uomini città, EDB, Bologna 2015 [147 pp; €13,00] Il volume raccoglie le relazioni del convegno sul tema della città organizzato dal Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento e dal Corso Superiore di Scienze Religiose che ad esso afferisce, l’8 e il 9 maggio 2014. Nella sua introduzione, Alberto Bondolfi spiega che i contributi pubblicati “non seguono una scansione sistematica rigida”, ma sono stati ordinati cronologicamente “dalle origini bibliche fino ai nostri giorni” (p. 7). Tutti i contributi, poi, cercano di rispondere ad una domanda comune: “quali significati teologici trasporta la realtà e la metafora della città sia nei testi fondativi sia nella riflessione ecclesiale passata e presente” (ivi). Il primo contributo “Vangelo e città. Per una responsabilità pubblica del cristianesimo”, di Carmelo Dotolo, docente di Teologia delle religioni presso l’Università Urbaniana di Roma, muovendo dall’assunto che “appartiene all’identità storica del cristianesimo la responsabilità socio-culturale della sua proposta” (p. 13), si prefigge di mostrare i motivi dell’interesse della teologia cristiana verso il tema della città. In realtà questo interesse è insito alla teologia che si relaziona con il contesto sociale e culturale entro cui nasce e si sviluppa. A questo proposito meraviglia costatare l’assenza di un riferimento allo studio pionieristico sulla teologia della città di J. Comblin (Théologie de la Ville, Éditions Universitaires, Paris 1968). È quel legame, dunque, che va considerato. In questa prospettiva Dotolo elabora le sue riflessioni e in particolare sviluppa le categorie di secolarizzazione e laicità, considerando in questo contesto la responsabilità pubblica del cristianesimo. Segue il contributo “Da Babele a Gerusalemme” di Donatella Scaloia, docente presso la medesima Università Urbaniana, che si


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Presentazione

sofferma sulle immagini simbolo di città che rinveniamo nella Bibbia: Babele e Gerusalemme. La biblista nota che non sono immagini da contrapporre tra di loro, riducendola “ad una dicotomia manichea (qui c’è il bene, là il male), che, come tutte le semplificazioni non rende effettivamente ragione della realtà e della sua problematica ricchezza” (p. 28). Il valore simbolico delle immagini di Babele e Gerusalemme ne consente la loro attualizzazione, diventano uno stimolo a vivere la città come luogo di comunicazione e cambiamento: “Gerusalemme, città della pace, diventa un’icona, l’immagine di una realtà da costruire attraverso scelte concrete, un progetto universale e attuale che si compirà, secondo l’Apocalisse, alla fine dei tempi” (p. 41). Sul rapporto tra vescovo e la città medievale si sofferma Emanuele Curzel, medievista dell’Università di Trento, con la relazione su “Chiesa vescovile e città nel medioevo: in difesa della dimensione pubblica”. Il vescovo a seguito di diverse congiunture storiche giunge a rappresentare la città, non avendo questa una configurazione giuridica propria. La ricostruzione storica del Curzel porta alla conclusione che “l’acquisizione del potere temporale da parte dei vescovi non fu dunque espansione illegittima o semplice supplenza, ma maturazione di un rapporto che già esisteva tra ruolo vescovile e città, i privilegi concessi dai sovrani a partire dalla fine del IX secolo, non fecero che sancire ufficialmente le trasformazioni in atto” (p. 46). L’organizzazione territoriale delle diocesi, a partire dal XI secolo, è possibile perché anche prima era vivo il senso della “necessità del singolo vescovo di riconoscere l’ambito in cui la sua responsabilità pastorale veniva esercitata” (p. 51). Questa responsabilità fu ovviamente facilitata dal confine urbano. Uno sguardo alla modernità volge Francesco Ghia, anch’egli docente presso l’Università di Trento, che presenta l’analisi weberiana dei processi di urbanizzazione. Max Weber “da buon ‘post-romantico’, subisce […] il fascino intellettuale del crescente e abnorme sviluppo metropolitano delle città” (p. 54-55). Egli vede nella città moderna “il terreno elettivo di quella ‘dialettica della razionalizzazione” (p. 58) che sarà poi teorizzata dalla Scuola di Francoforte. La crescente burocratizzazione produce però un effetto paradossale rispetto alla logica razionale, quella “gabbia di acciaio” “con la quale l’individuo diventa


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una rotellina di un ingranaggio talmente sofisticato e complesso da farlo da ultimo risultare, per riprendere un’espressione di Georg Simmel, ‘quantité négligeable’” (p. 59). In ultimo Ghia analizza l’influenza sui fenomeni di urbanizzazione esercitata dal cristianesimo medievale e riformato. Il ricercatore del Centro per le Scienze Religiose trentino, Paolo Costa con la relazione su “La città infinita: l’ideale di urbanità nell’età secolare” analizza se e come i processi di urbanizzazione abbiano influenzato la religiosità. Dal punto di vista storico è innegabile che il contesto urbano rispetto a quello rurale abbia favorito la liberazione da paure collettive difronte a fenomeni naturali che costituivano un pericolo per l’uomo, una liberazione accompagnata da una emancipazione da credenze tipiche di società agricole. Riferendosi al saggio del 1903 di Georg Simmel Die Großstädte und das Geistesleben, Costa mostra come l’uomo urbanizzato sia continuamente sollecitato da molti stimoli sì da creare “un sovraccarico di stimoli insostenibile”, compensati “da un calo della sensibilità e dell’affettività: una sorta di ‘schermatura’ (buffer) del sé” (p. 77). La relazione non manca di notare che l’ambiguità del contesto urbano si è tradotto nell’ambivalenza dell’atteggiamento dei moderni verso l’esistenza urbana fin dalle origini. L’analisi sociologica porta a concludere che nella città postsecolare il legame tra città e secolare si è rescisso (H. Cox): “Homo saecularis e homo urbanus non vanno più a braccetto” (p. 85). “Rubando”, come dice lo stesso Costa, una immagine a Dostoevskij conclude che l’ideale moderno di urbanità non ha fatto i conti con le forze sotterranee della personalità delle giovani generazioni dell’Occidente, non cogliendo così la complessità e le contraddizioni dell’animo umano. Salvatore Abbruzzese, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nell’Ateneo trentino, “Città e parrocchia: le trasformazioni di un’originaria complementarità sociale” considera i mutamenti della istituzione parrocchiale: città e parrocchia per secoli hanno costituito due contenitori delle medesime comunità. Non è più così, perché la parrocchia oggi ha senso e significato solo per quanti vi si riconoscono. L’analisi sociologica di Abbruzzese considera non solo la prima modernità, ma giunge fino agli anni recenti. Escludendo un


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rifiuto pregiudiziale della città, mette in luce le potenzialità presenti nel contesto urbano per chi vuole testimoniare la propria fede, con una “presenza ecclesiale che è, in primo luogo, condivisione e compagnia, ma anche «amicizia sincera», pronta a evidenziare le illusioni ed i «miraggi», quindi consapevolmente critica tanto nelle proprie analisi quanto nei propri giudizi” (p. 106). Maria Antonietta Crippa, docente presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, propone una interpretazione della funzione degli edifici sacri nelle città con la relazione su “Chiese e città: ritmi e figure di tempo e spazio”. Il passaggio dalla casa come domus ecclesiae delle prime comunità cristiane ad un luogo pubblico per il culto attesterebbe l’esigenza di avere uno spazio accessibile a tutti. Diversamente da una opinione diffusa, la relatrice ritiene che nei primi decenni del Novecento siano state costruite chiese di una certa qualità architettonica e ritiene che “si sta cominciando […] a valutare globalmente l’eredità inscritta nel patrimonio culturale, materiale e immateriale del periodo” (p. 116). Dei tentativi contemporanei di architettura sacra la Crippa prende in esame quello di padre Costantino Ruggeri (1925-2007) e il ruolo che vi svolge la luce che è messa a disposizione della qualificazione dello spazio: “La luce, si dice spesso in termini un po’ impropri, è uno dei materiali dell’architettura, più precisamente è un dato di natura che, come altri, l’architetto […] introduce nel progetto tramite modulazione, vale a dire capacità di orientare, graduare, colorare, far vibrare” (p. 118). L’ultimo saggio di Stefano Biancu, ricercatore presso Centro per le Scienze Religiose e docente di Filosofia morale presso la Libera Università “Maria SS.Assunta”-Lumsa di Roma, su “Essere cittadini della città in cui Dio vive. Sguardi sulla città nel pensiero di papa Francesco”, si propone “di raccogliere alcuni luoghi meritevoli di approfondimento sul tema della città nel pensiero e nel magistero di Jorge Mario Bergoglio/papa Francesco, e una loro messa in prospettiva” (p. 125). Come è noto uno dei motivi ispiratori del vescovo di Roma è la “teologia del popolo” elaborata in Argentina, una delle espressioni originali della teologia della liberazione. Da questa prospettiva papa Bergoglio non pensa ad una chiusura dei cristiani nei confronti delle diverse culture presenti nelle città, ma sono chiamati a “inculturare”


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lo spazio che condividono con tutti, soprattutto con i poveri, rendendolo il più possibile conforme al Vangelo che libera. Questo compito non va presentato secondo una logica egemonica, ma quella evangelica del lievito. “Si tratta […] di riscoprire di essere «popolo di Dio» in cammino nella storia e nelle strade di ogni città particolare: città dove Dio stesso abita” (p. 141). Questo approccio non é irrilevante né per la comunità civile, né per la comunità cristiana perché “Dio vive nella città ed è lì che è possibile incontrarlo” (ivi). Il volume si chiude con una postfazione della seconda curatrice degli Atti, Milena Mariani, tracciandone un bilancio sulla scia di alcune pagine del libro di Max Picard, La fuga davanti a Dio. Al lettore interessato alle problematiche trattate in questo libro ci permettiamo di suggerire due letture che possono utilmente integrare la bibliografia riportata in nota nei singoli contributi. Oltre il summenzionato testo di Comblin merita di essere segnalato al lettore italiano il testo di E. Benevolo, La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1993. Segnalo anche il numero monografico della rivista Horeb73/2016: “Dare un volto umano alla città”. M. Aliotta ElEna BosEtti – nEllo DEll’agli, L’altra metà della Chiesa. Per la reciprocità donna-uomo nella Pastorale, Cittadella Editrice, assisi 2015 [pp. 201; €14,80] i curatori della collana “tra Bibbia e Psicologia”, edita per i tipi di Cittadella Editrice, vi pubblicano il volume che presentiamo, dopo quello dal titolo Un Dio che prima sposa e poi fidanza (2015). non è inusuale che il testo biblico sia letto a “più voci”. nel nostro caso gli autori sono una biblista e uno psicologo con competenze teologiche. Per sgombrare subito il campo da un possibile equivoco, non si tratta di una interpretazione psicologica della Bibbia, sebbene si mettano in evidenza i tratti psicologici dei racconti e dei personaggi biblici. scopo dichiarato degli autori è di mostrare che “il tema della reciprocità … affonda le radici nella Bibbia e dischiude il suo fiorire nell’attuale contesto socio-ecclesiale, sotto


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un cielo che promette un’alba nuova” (p. 5). Questo obiettivo è perseguito presentando sei coppie in altrettanti capitoli (dal secondo al settimo). il primo capitolo è dedicato invece al senso della reciprocità attraverso i racconti biblici che narrano della sapienza che danza con Dio (“Quando la Sapienza danzava … la reciprocità”); l’ultimo presenta la reciprocità tra la comunità e le sue guide (“Nel vivo della comunità ecclesiale pastorale nutrita di relazioni”). ogni capitolo si compone di due parti, la lectio divina e la lectio humana. Questa doppia lettura è giustificata dagli autori dalla loro convinzione che i personaggi biblici “possono condurre a conoscere meglio il nostro cuore e, se ci identifichiamo creativamente con loro, ad intraprendere dei percorsi non solo di illuminazione, ma anche di trasformazione e di crescita” (p. 34). il metodo scelto consente di praticare una attualizzazione del testo biblico nell’ambito specifico della collaborazione pastorale tra maschi e femmine. Una ulteriore specificità è presentata nella relazione tra i presbiteri e le donne, siano esse collaboratrici sia semplicemente fedeli laiche che si accostano al prete per un dialogo pastorale. la prima coppia presa in esame è costituita da giacobbe e Rachele (“Con Giacobbe e Rachele in cammino verso l’adultità”). la lectio divina coglie le molteplici componenti della storia di giacobbe, che si intrecciano con quelli della personalità di Rachele, la quale – in una interpretazione cristologica del testo ebraico – è vista come “icona di Cristo pastore bello”. la lectio humana collega le vicende esistenziali di giacobbe e Rachele con la nostra vita. si prendono in esame, così, alcune dinamiche tipiche delle relazioni familiari (la genitorialità, la conflittualità tra genitori e figli e tra i figli, il ruolo della madre, …). nella vicenda di giacobbe si vede un processo di crescita verso l’adultità e le dinamiche che caratterizzano le relazioni donna-uomo vengono rilevate e analizzate nei rapporti che si stabiliscono tra un presbitero e le donne nell’esercizio del suo ministero. Mosè e Miriam sono la seconda coppia (Con Mosè e Miriam in cammino verso la libertà): come è noto al lettore della Bibbia sono fratello e sorella. Miriam assieme all’altro fratello aronne, è associata nella mediazione di Mosè tramite cui Dio libera israele dalla schiavitù dell’Egitto (sal 77, 21; Mi 6, 3-4). nella sua lectio divina, la Bosetti mette a fuoco la figura, spesso dimenticata, di Miriam che affianca Mosè nella missione di guida del loro popolo. Dell’agli, da parte sua, nella lectio humana, partendo dall’ana-


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lisi della biblista, sviluppa una riflessione sul rapporto tra libertà e processi cognitivi, libertà e processi relazionali, libertà e processi spirituali, libertà e processi evolutivi. la terza coppia è costituita da Davide e abigail (Con Davide e Abigail in cammino tra i conflitti). la coautrice considera inizialmente l’ambiguità della visione maschile della donna che i testi biblici contengono. si ha infatti al contempo una concezione che tradisce un “pessimismo maschile circa le capacità e le virtù della donna”, e “il fascino di una donna saggia” (p. 71). assegnando un volto femminile alla sapienza è possibile al testo biblico utilizzare la metafora sponsale per descrivere la stessa azione di Dio. Un’altra ambiguità è considerata, quella della personalità di Davide. la Bosetti rilegge l’episodio dell’incontro di Davide con abigail usando questa particolare chiave di lettura: la saggezza tutta femminile di abigail (che contrasta con la stoltezza del marito nabal) riconduce Davide sulla strada della giustizia distogliendolo da quella della vendetta, confidando nell’azione di Dio. la conclusione della storia – morte di nabal e Davide che prende con sé abigail in moglie – vuol insegnare che bisogna lasciare “che sia il signore a difendere il suo diritto. non voler affrettare i suoi tempi, fidati della sua giustizia” (p. 76). Dal punto di vista psicologico, “l’episodio dell’incontro tra Davide e abigail ci ricorda la presenza dei conflitti nella vita e l’importanza di un terzo o di una terza per gestirli costruttivamente” (p. 79). anche in questo caso Dell’agli riprende il tema dell’adultità, osservando che la possibilità di una reciprocità adulta richiede “il sapiente” attraversamento dei conflitti. la coppia successiva si muove su di un registro decisamente diverso perché è formata da giuseppe e Maria di nazaret (Con Giuseppe e Maria di Nazaret in cammino verso la rinascita): “indubbiamente una reciprocità peculiare la loro, visitata dall’irrompere del Mistero che sovverte i sogni e le attese” (p. 93). giuseppe è presentato precisamente come custode del Mistero. a lui sono dedicate diverse pagine (p. 94-99) restituendogli la giusta drammaticità che gli compete nell’itinerario di salvezza di cui è protagonista con la sua (promessa) sposa e suo figlio. È l’uomo giusto che sa andare “oltre”. Di Maria, “la piena di grazia”, si nota innanzi tutto lo spazio “laico”, vale a dire la casa, dell’incontro con l’angelo. nello stesso tempo è collocata entro lo svolgersi della storia del popolo eletto. Di questa coppia l’evangelista luca non cela lo smarrimento dinanzi agli eventi che


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la coinvolge (il concepimento, la nascita e l’esilio, lo “smarrimento” di gesù al tempio), ma sottolinea pure “l’atteggiamento sapienziale di Maria. […] la sua intensa attività interiore, la capacità di accogliere e [di custodire] nel suo cuore anche la parola “scandalosa” che non riesce a comprendere” (p. 105). nella lectio humana, l’autore si propone di mostrare la forza terapeutica dell’esperienza di sentirsi accolti dalla famiglia di nazaret. in particolare fa riferiemnto alla “compagnia di Maria e il suo aiuto terapeutico” (p. 106); si dice convinto che “la Bibbia non parla solo di Dio, ma anche dell’uomo e si presenta, per molti versi, come uno scritto di antropologia narrativa che può illuminare la nostra umanità e le nostre vicende esistenziali” (p. 107). in questa prospettiva giuseppe di nazaret “ci può aiutare a ricomprendere alcuni aspetti decisivi della crescita maschile e delle sue possibili evoluzioni” (p. 112). Per esempio, il senso del suo andare “oltre”, “primo eunuco per il regno” (ivi), si traduce nell’atteggiamento di “custodia”, che significa porre attenzione alle persone affidate alla propria cura e imparare “vederli nella loro alterità e non solo come occasione di autorealizzazione” (p. 113). seguendo la vicenda di giuseppe si delinea un percorso di maturazione dell’adulto maschio dal prendersi cura alla nuzialità, alla paternità e alla responsabilità. il capitolo successivo non presenta una coppia, ma riporta la riflessione su di un piano più generale riprendendo i racconti evangelici che descrivono la relazione di gesù con le donne (Uomini e donne nella diaconia del Vangelo). nella sua lectio divina la Bosetti sottolinea che i testi neotestamentari attestano la presenza di donne nella cerchia dei discepoli. tra le testimonianze addotte si cita Mc 15,49: alcune donne “lo seguivano e lo servivano”. Seguire e servire sono verbi chiave del discepolato. Con Luca si ricorda poi che vengono esplicitamente menzionate come discepole e diaconesse (cfr. lc 8, 1-3). le donne perciò sono presenti nella cerchia di gesù fin dall’inizio e lo resteranno, anzi uniche, fino ai piedi della croce. si fa notare pure che il capitolo ottavo di luca è inserito “nel contesto di un “sommario” che precede la parabola del seminatore, come a dire che l’opera di seminagione della Parola non è riservata solo agli uomini ma coinvolge non di meno le donne” (p. 128) inoltre il fatto che in lc 8, 1-3 delle donne di cui si parla si ricordino i nomi di tre (Maria detta la Maddalena, giovanna e susanna) le pone in parallelo con i tre discepoli più intimi di gesù (Pietro, giovanni, giacomo). le discepole sono le prime ad accostarsi al sepolcro,


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divenendo così testimoni privilegiate del Risorto, che affida loro “il compito di evangelizzare la comunità dei discepoli” (p. 132). in questa lettura dei testi appare che il Risorto “apre il cammino di una fraternità nuova in cui non sarà (non dovrebbe essere) più rilevante il genere sessuale e neppure la condizione sociale o il ruolo ecclesiale, bensì le nuove relazioni di fede e di libertà evangelica” (ivi). a quest’ultima considerazione si riallaccia la lectio humana di Dell’agli, che risulta così essere fondamentalmente una considerazione del rapporto tra uomini e donne nell’ambito delle relazioni ecclesiali. Ciò costituisce però anche il pretesto per una riflessione più ampia sul maschile e il femminile. si cerca di rispondere innanzi tutto alla domanda su quali siano le condizioni per costruire da uomini e donne una “fraternità”. Come costruire una alleanza che sappia accogliere l’altro/a. Una prima condizione “per non perdere la fiducia nella convivialità delle differenze” è la riconciliazione con se stessi (cfr. p. 133). Bisogna guarire le “patologie dell’animo”, che l’autore non chiama vizi o “pensieri malvagi” secondo la terminologia dei padri e delle madri seppure richiamati nel testo. il rimedio è individuato nel nutrirsi bene, “non solo di cibo, ma anche di relazioni e di pensieri “buoni”, evangelici, pensieri guida che siano “funzionali” allo scopo di umanizzarci sempre più” (p. 135). sullo sfondo tuttavia resta sempre l’indicazione del cibo per eccellenza che è la Parola di Dio, che deve diventare la guida sapiente dei discepoli. Un ulteriore tappa del percorso, che il libro si propone per comprendere la reciprocità donna-uomo nella vita della chiesa, è proposta con l’accostamento tra giobbe e Maria di nazaret (“Quale reciprocità nel dolore? Da Giobbe alla Madre sotto la Croce”). in verità l’accostamento appare piuttosto estrinseco perché si giustifica solo per il comune riferimento all’ambito dell’esperienza della sofferenza. la biblista prende le mosse caratterizzando i protagonisti del libro di giobbe. gli amici sono un esempio di solidarietà, che ben si manifesta nella compagnia silenziosa a giobbe. non raggiunge l’obiettivo, invece, quando si traduce in parole che si rivelano sbagliate (cfr. p. 146-147). la figura di Giobbe è interpretata – secondo la tradizione tipologica patristica – in chiave cristologica. se giobbe prefigura gesù l’incomprensione dei suoi amici prefigura l’incapacità dei discepoli di gesù a condividere la sua agonia (dormono!), non così la Madre, che segue il Figlio fin sotto la croce. in questo parallelismo, che segna l’analogia e la difformità dei comportamenti, si ha l’aggancio con


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giobbe. gli amici/discepoli non sanno consolare perché non condividono realmente la condizione di giobbe/gesù (“anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto …”, leggiamo in gb 16,4). Diversamente Maria che perciò diventa “icona di una Chiesa che sa davvero compatire e prendersi cura” (p. 148). il tema della com-passione della Madre sarà ripreso dopo un lungo inciso, che analizza l’unzione di gesù da parte della donna (anonima secondo i sinottici, Maria di Betania secondo giovanni) (cfr. p. 153-154). la com-passione di Maria di nazaret si manifesta nella presenza “silenziosa” ai piedi della croce, dove il Messia morente rivela un rapporto di reciprocità con il discepolo amato, giovanni. il Messia stesso “costituisce sua madre in un ruolo di maternità ecclesiale” (p. 153). non si tralascia di notare il ruolo delle altre donne discepole, mentre la figura di giobbe ricompare nella lectio humana, che riprende il significato tipologico dei personaggi del testo sapienziale e delle donne al seguito di gesù in ordine alla comprensione del senso della compassione nell’esistenza delle persone. Satana “rivela la nostra parte del cuore sospettoso” (p. 154) incapace di vedere il bene nell’altro. Dio “rispecchia invece altri aspetti del nostro cuore: uno spazio di sofferta incomprensibilità […], l’assoluto bisogno di vedere fiorire un amore incondizionato tra le spine della vita […], la capacità potenziale di ascoltare e contenere l’altro fino in fondo anche quando in radicale conflitto con noi, mostrando di riconoscerne le ragioni” (p. 155). gli amici “rivelano poi quella parte del nostro cuore desiderosa di dare vicinanza e compassione” (ivi). Giobbe “è la parte del nostro cuore colpita dalla vita, solcata da esperienze drammatiche o tragiche, che non riesce a trovare consolazione nel sentito dire teologico o laico che sia” (ivi). Ma giobbe è pure la parte di cuore che si fida di Dio nonostante le apparenze e può giungere a dire dopo una sofferta ricerca: “io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (gb 42, 5). Dell’agli spiega che nel libro di giobbe possiamo rintracciare una importante potenzialità dello psichismo umano, precisamente la possibilità di “fidarsi dell’alleanza con l’altro […] fino al punto di non privarlo della nostra aggressività e della nostra incredulità” (p. 156). insegna pure che per giungere alla maturità dell’adultità bisogna attraversare “l’esperienza del male e della sofferenza” (p. 156). l’amore adulto e sapiente è, infatti, “l’assunzione libera e responsabile della nostra parte vulnerabile come via all’umanizzazione necessaria” (ivi). a queste considerazioni Dell’agli


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collega le figure femminili presentate nella lectio divina, perché nel percorso verso l’adultità nella prova, è fondamentale “la compassione di qualcuno che sappia stare a fianco” (ivi). ora, le donne sono questo “qualcuno” in modo eminente. secondo l’autore “la donna ha in sé una capacità di compassione, di cura e di fedeltà che l’uomo il più delle volte deve apprendere e sviluppare” (p. 157). Come ambito paradigmatico dell’esercizio della com-passione, l’autore considera il “ministero pastorale con gli ammalati”. la ragione è che esso richiede la disponibilità a “lasciarsi maturare, dal punto di vista psicologico, sulle vie dell’amore compassionevole e ricco di discernimento” (ivi). Diverse pagine sviluppano questo aspetto offrendo una analisi dettagliata delle caratteristiche della relazione che l’ammalato sviluppa con l’altro (cfr. p. 157-163). al credente, infine, si pone inevitabilmente la domanda sulla presenza del Dio compassionevole nella sofferenza umana. Per l’autore la risposta è in gesù, “Medico Divino”, perché il “lui sta la capacità, divina, di abbracciare anche quanto nella vita vi è di più lacerante” (p. 164). il volume si chiude con un capitolo che propone un modello di “pastorale nutrita di relazioni” (“Nel vivo della comunità ecclesiale pastorale nutrita di relazioni”). Pur mantenendo l’articolazione delle due parti, lectio divina e lectio humana, quest’ultimo capitolo è un unico appassionato auspicio di riconoscere la presenza delle donne nella chiesa e di costruire una comunità fraterna. la lectio divina infatti offre un rapido sguardo soprattutto sui testi paolini e petrini che riguardano i carismi per la edificazione comune dell’edificio ecclesiale e il riconoscimento del lavoro apostolico delle molte donne menzionate nell’epistolario paolino. la lectio humana propone alcuni precisi obiettivi formativi per realizzare la fraternità: “insieme alla tavola della sapienza, per una pastorale nutrita di relazioni, in cui ciascuno stia e sia riconosciuto secondo il dono ricevuto. insieme sorelle e fratelli, capaci come Paolo di un elogio reciproco. insieme presbiteri e comunità” (p. 173). Parole chiave di questa proposta sono “carismi” e “fraternità”, per costruire nella reciprocità l’unica comunità. Richiamando la tradizione francescana (con la citazione del bel testo di san Francesco riportato nelle Fonti francescane 1782), l’autore sostiene che non esistono il fratello e la sorella ideali, ma “l’ideale è la fraternità” (p. 174). occorre dunque individuare le condizioni per giungere alla comunità fraterna (Dell’agli usa l’immagine del “cerchio fraterno”). ora da ricercare


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è la bellezza del cerchio fraterno, in cui ciascuno impara a riconoscere e valorizzare l’altro/a (cfr. p. 174). la riflessione non nasconde le difficoltà e gli ostacoli, enumerati puntualmente (cfr. p. 174) che si frappongono nel cammino verso la fraternità, ma si ricorda pure che “imparare a vivere da fratelli è il cuore del cristianesimo ed il culmine dei processi di umanizzazione” (p. 175). sebbene l’autore usi un linguaggio da cui traspare chiaramente l’esperienza della vita comune in una forma di vita comunitaria monastica, gli esempi e i riferimenti adoperati consentono di estendere le sue considerazioni a coloro che vivono l’ideale della fraternità in parrocchia o in famiglia, o in altri ambiti in cui le relazioni sono costitutive, fornendo gli elementi di natura psicologica necessari perché si possano vivere concrete relazioni fraterne. Particolare attenzione è presta al ruolo dei leader nella comunità, con l’applicazione specifica a chi presiede le comunità ecclesiali nelle sue diverse forme (cfr. p. 175-188). Con il medesimo linguaggio evocativo che caratterizza l’intero volume, la breve conclusione invita il lettore, che si è potuto ritrovare nei personaggi presentati, a “proseguire il cammino sulle orme di Colui che si è fatto servo per prendersi cura di ciascuno, che ha attraversato gli inferi senza paura di lasciarsi toccare e ferire dagli umani per offrire contenimento, salvezza, guarigione. Dinamismo terapeutico che più ci raggiunge quanto più ci apriamo alla convivialità delle differenze” (p. 190). M. Aliotta

FRANCESCO GIACCHETTA, Tra gli altri. “Chiesa in uscita”. Appunti teologici di un fedele laico, Cittadella Editrice, Assisi 2015 [pp.151; euro 13,50] Questo libro si presenta come il tentativo di tracciare un itinerario in tre tappe. Con modestia l’autore lo considera una raccolta di appunti. Entrando subito nel suo merito, possiamo trovare una chiave di lettura del testo di Francesco Giacchetta nel documento finale della V Conferenza generale dell’ Episcopato latino-americano e dei Caraibi, tenutasi ad Aparecida, nel maggio del 2007, dove leggiamo che «la scelta per i poveri dovrebbe condurci all’amicizia con i poveri» (n°. 398). La riflessione proposta, infatti, scorre tutta sul filo della vicinanza


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e della simpatia con l’interlocutore, sia esso il lettore sia gli interlocutori ideali che il testo fa scorgere. Vicinanza e simpatia consentono all’autore di attuare il suo proposito di «mettere a tema quanto inevitabilmente accade ad una “Chiesa in uscita”: l’essere “tra gli altri”» (p. 22). Lo fa senza presumere di possedere una risposta a tutte le domande che “gli altri” potrebbero porre, nello stile – come nota Giovanni Ferretti nella sua presentazione – del «dialogo in cui la nostra fede viene proposta alla libertà dell’altro con dolcezza e rispetto, mai con arroganza ed autosufficienza, comunicandola soprattutto attraverso la testimonianza e come dono del tutto gratuito, che nulla si aspetta in contraccambio» (p. 8). D’altronde l’autore deve quotidianamente “prestare orecchio” ai suoi “chiassosi sei figli”, egli infatti oltre che docente di Filosofia teoretica e Teologia fondamentale presso l’Istituto Teologico Marchigiano, è sposo e padre e ciò giustifica il sottotitolo del libro, articolato in sette capitoli lungo tre parti che illustrano tre aspetti dell’essere Chiesa in uscita: “tra gli altri nell’umiltà”; “tra gli altri con il Vaticano II”; “tra gli altri da fedele laico”. Lo stile del dialogo esige non solo l’ascolto, ma anche l’uso di un linguaggio che consenta di farsi comprendere. Nella sua introduzione Giacchetta dichiara di voler accogliere l’invito a non usare un linguaggio accademico da iniziati, né un linguaggio che esprima una teologia “da tavolino” (EG 133), augurandosi di riuscirvi almeno parzialmente. In realtà il libro è scritto con un linguaggio chiaro senza esser banale e accessibile anche ai non specialisti. La prima parte si sviluppa in tre capitoli. Il primo offre le ragioni per una presa di distanza da un cristianesimo “fatto di granitica certezza”. Si cerca di recuperare la certezza della fede scandagliando il rapporto tra l’essere credente e il dubbio. Ciò vien fatto attraverso le riflessioni di alcuni teologi tra i più significativi del Novecento (con l’eccezione di Newman), tra cui Guardini, Alfaro, Häring, Ratzinger. Non manca un riferimento al contributo della filosofia con Pascal e Kierkegaard. Riecheggiando Bonhoeffer, l’autore conclude la sua analisi riconoscendo che “la fede è certezza a caro prezzo, coraggio d’affrontare il dubbio e di vivere la quotidiana e perseverante lotta contro gli assalti dell’incredulità; ma è proprio in questo peculiare


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modo d’essere credente che la fede mostra quella sostanza che la rende autentica e che l’accomuna alla ragione: l’umiltà” (p. 42). Riprendendo la tesi programmatica della CEI per il decennio 2010-2020, il secondo capitolo mette a fuoco il valore della testimonianza per l’annuncio del Vangelo. Seguendo una logica sacramentale, specificatamente la logica eucaristica, si sostiene che “la testimonianza è un’azione efficace” (p. 46). Opportunamente l’autore precisa che non si riferisce alla testimonianza una tantum, ma all’impegno dei fedeli nella vita quotidiana, che è oggi valorizzata precisamente dall’auspicio di una “Chiesa in uscita”, “facendo riscoprire al fedele laico la propria vocazione ecclesiale” (ivi). Non ci troviamo di fronte ad una banalizzazione della testimonianza cristiana perché l’analisi del quotidiano avviene mediante un dialogo con la filosofia contemporanea che ha esaminato le condizioni “ordinarie” della vita comune. Vengono indicati tre punti di forza del testimone cristiano: “attitudine a transustanziare il mondo” (dove la categoria di transustanziazione è utilizzata per dire che il cristiano, come il pane eucaristico, deve “lasciarsi assimilare per transustanziare ‘umanità intorno a noi” (p. 50); la capacità di far gustare la vita buona del Vangelo; la vocazione a vivere la Chiesa come comunità inclusiva. In conclusione, Giacchetta vi vede “un nuovo orizzonte di comprensione del processo di identificazione” perché nella testimonianza quotidiana “la ricerca di sé non può che condurre a rintracciare l’altro nell’io. […] l’alterità non diviene mai estraneità e la nostra felicità non è assolutamente separabile da quella degli altri» (p. 55). Nel terzo capito si sviluppa l’assunto che il potere politico non può essere la via dell’annuncio del Vangelo. L’autore svolge la sua argomentazione rileggendo criticamente la proposta avanzata da Böckenförde di considerare la legge naturale il principio di coesione sociale, che altrimenti non si avrebbe altrove in una società pluralista e laica, venuti meno come punti di riferimento la religione e l’idea di nazione. Giacchetta non vuol criticare la legge naturale in sé, ma i rischi legati all’uso che se ne può fare. Un primo rischio riguarda chi dovrebbe interpretare la legge naturale per tradurla in ordinamento giuridico valido per tutti. Chi si ritiene legittimato a farlo potrebbe ritenere buone solo quelle norme che coincidono con i propri convincimenti. Inevitabilmente per l’autore si giunge a esaminare la rela-


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zione tra etica e politica, tra legge naturale e diritto. Una prima considerazione riguarda la funzione pedagogica della legge: “Il diritto positivo sostiene e protegge atteggiamenti etici preesistenti, mantenendo desta la coscienza etica della società” (p. 62-63). Fondandosi sull’autorità di Tommaso d’Aquino si giunge alla conclusione che non si potrà mai avere un sistema di leggi perfetto e che bisogna accettare una legge che potrebbe risultare anche permissiva senza tuttavia perdere la sua funzione regolatrice (cfr. p. 64). Su questo punto il lettore si potrebbe aspettare una considerazione più ampia, proprio a partire dalla considerazione del valore pedagogico della legge e delle implicazioni sulla formazione delle coscienze individuali, ma evidentemente i limiti imposti dal libro non hanno potuto consentire tale sviluppo che auspicabilmente potrà essere ripreso in un lavoro successivo. Vi sono conseguenze significative per l’evangelizzazione. Non ne scaturisce un atteggiamento rinunciatario dinanzi alle esigenze del Vangelo; semplicemente si riconosce che in un contesto pluralistico e laico la fede non può essere imposta, “si può presentarla e proporla come via per la felicità”. Una delle fonti esplicitamente citate per sostenere questa posizione è il cardinal Kasper. Uno sguardo seppur veloce ai primi secoli del cristianesimo ci dice che la fede non si trasmise perché le strutture sociali erano cristiane, ma da persona a persona. Questa modalità dovrebbe essere oggi valorizzata (anche sulla scorta di quanto già scritto in EN 46 e ripreso più volte da papa Francesco). Nella stessa tradizione Giacchetta vede indicazioni utili sulle modalità da adottare per questo annunzio. Il capitolo chiude la prima parte del testo con una breve ma interessante riflessione sulle “radici cristiane dell’Europa”, nella prospettiva delineata dalla “Chiesa in uscita”. Le radici non fanno solo volgere lo sguardo al passato, ma spingono al futuro: “Il pluralismo ha caratterizzato la storia europea e continuerà a farlo; dunque, richiamare le radici cristiane comporta credere ancora che il Vangelo possa, conservandola nella sua polifonia, donarle futuro” (p. 72). La seconda parte del libro si sviluppa in due capitoli (il quarto e il quinto) e lega la “chiesa in uscita” con le scelte del Vaticano II. Il capitolo quarto considera la singolarità del Concilio, prendendo le mosse dall’allocuzione di apertura di Giovanni XXIII Gaudet Mater Ecclesia.


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In essa l’autore vi trova una chiave interpretativa del Concilio. Sulle molteplici interpretazioni Giacchetta non si sofferma, ma indica una buona bibliografia per poterne prendere visione. L’intento principale è quello di mettere in luce il valore programmatico delle parole di papa Giovanni, come già Paolo VI riconosceva in apertura del 2° periodo chiamandolo “autore del grande Sinodo” (cit. p. 84). Dopo aver diffusamente ricordato le ben note peculiarità del Vaticano II, l’autore punta la sua attenzione su due elementi della Gaudet Mater Ecclesia che diventano criteri interpretativi dell’intero Concilio: il rapporto tra dottrina e persona, tra verità e pastoralità e il rapporto tra dottrina e storia ovvero tra Vangelo e “tempi moderni”. Il primo elemento ci dice che le formule dogmatiche non dovrebbero esser legate tanto all’esigenza di precisione accademica quanto alla “necessità di rendere comunicabile la verità vivente dell’amore di Dio rivelato in Gesù Cristo all’umo considerato nella sua particolarità storica” (p. 85). Il secondo si riferisce alla modernità non più vista come un’epoca “di accerchiamento della Chiesa, ma una opportunità per la stesa di crescere nella libertà per annunciare il Vangelo con maggior spigliatezza” (ivi). Il quinto capitolo si sofferma sulla Costituzione Pastorale Gaudium et spes, mettendone in evidenza subito i limiti e i problemi suscitati fin dalla prima ora, ma anche gli aspetti positivi e ancora di grande attualità per una “Chiesa in uscita”. Innanzi tutti la priorità che la GS indica per la pastorale della Chiesa: “radicarsi nella storia con uno sguardo di fede” (p. 93-94), “per correggere un certo essenzialismo moralista” (p. 94) che non avvicina, ma allontana dalla verità. L’autore condivide la convinzione che la vera novità di GS sia precisamente il riconoscimento che la Chiesa può ricevere un aiuto dalla “Storia” (cfr. p. 97 che commenta GS 44) riconoscendo il valore delle “realtà terrestri”. In questo modo si supera quella forma di dualismo che produce un atteggiamento di estraneità vicendevole tra Chiesa e “mondo”. Altro elemento qualificante la novità di GS è l’invito a discernere i “segni dei tempi”, la cui lettura secondo Giacchetta costituisce la filigrana della Costituzione pastorale. Il compito di discernere i “segni dei tempi” non è esclusivo di qualcuno nella Chiesa. Richiamando l’ecclesiologia di Lumen gentium e la categoria di “popolo di Dio”, nel capitolo si mostra che tale compito è conse-


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gnato a tutto il popolo di Dio, al cui interno si può in tutto il suo valore recuperare il ruolo dei fedeli laici. L’autore inserisce a questo proposito una breve ma incisiva considerazione sulla “identità” del fedele laico concludendo che si tratta di un falso problema che nasce dal voler definire in qualche modo chi è “laico” finendo per identificarlo solo in via negativa: colui che non è ordinato. Si adotta invece un punto di vista diverso, spostando l’attenzione sui carismi e i ministeri che sorgono nella Chiesa (facendo sua la proposta che a suo tempo era stata fatta da Bruno Forte) (p. 101-102). Il capitolo si chiude commentando tre brevi passaggi della Costituzione pastorale. Da GS 62 si prende lo spunto per sostenere che un “sentire cattolico” coincide con la capacità di “sentire tra gli altri” e che “rinnovare la forma dell’evangelizzazione è esattamente la capacità di chi sa parlare le lingue che si succedono nei secoli e sa farsi intendere da tutti” (p. 103). Il “sentire tra gli altri” diventa perciò lo stile evangelizzatore, che non consiste nel tentare di recuperare il terreno perduto ma nel sapere che il Vangelo ha una forza propria che si può testimoniare vivendo la differenza cristiana nella vita quotidiana. GS 76 è commentato con una lunga citazione di Benedetto XVI sulla libertà della Chiesa, intesa non solo come diritto di esprimere liberamente la propria fede, ma soprattutto come libertà “dai fardelli e dai privilegi materiali e politici”, che consente alla Chiesa “di dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo” (Discorso ai cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, del 25.09.2011; cit. p. 106). Il terzo passaggio è GS 92, da cui si ricava la prospettiva di una “identità ospitale” del credente. Può sorgere la domanda se lo stare “tra gli altri” non comporti il rischio del sincretismo. La risposta è negativa perché “il sincretismo è tipico d’una esperienza ecclesiale debole e non del desiderio dell’incontro” (p. 106). L’autore chiarisce bene che “il dialogo non scaturisce dal compromesso con l’errore, ma dall’attenzione verso l’errante, inteso come profugo, esule, vagabondo; nei suoi confronti non può che esserci ospitalità” (p. 107). Nella terza e ultima parte del libro (con altri due capitoli) si vede la “chiesa in uscita” dalla prospettiva del fedele laico (“Tra gli altri da fedele laico”). Il capitolo quinto riprende il tema della corresponsa-


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bilità del fedele laico, senza tornare pero volutamente sulla questione della sua identità. Assume come punti di riferimento autorevoli la Evangelii gaudium e la Evangelii nuntiandi di Paolo VI. Giacchetta ricorda innanzi tutto che la corresponsabilità che abilita all’annuncio del Vangelo nasce dall’incontro personale con Gesù. Da questo incontro nasce la possibilità di testimoniare il Vangelo “in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, nel lavoro, in una strada” (EG 127). Con EN si ricorda che se la chiesa vuole evangelizzare deve innanzi tutto essere essa stessa in ascolto della Parola, deve farsi evangelizzare da questo ascolto. Viene pure sottolineato un elemento spesso dimenticato, vale a dire la dimensione la dimensione comunitaria della missione. L’intera comunità cristiana, come popolo di dio deve avvertire e attuare il compito missionario. Prima di passare ad alcune indicazioni sulla concreta attuazione di questo impegno, dal punto di vista di un fedele laico, Giacchetta indica quattro ragioni che secondo la sua analisi hanno determinato un rallentamento, se non una inversione di marcia, lungo la via indicata dal concilio Vaticano II. 1) “un mancato decollo della categoria conciliare di ‘popolo di Dio’” (p. 114); 2) azione centralizzatrice della curia romana; 3) la scelta di “condurre l’evangelizzazione a partire dalle strutture civili e culturali, nella speranza che questa azione, per ricaduta, potesse suscitare nuovo fervore nella società” (p. 115); 4) una “mancata valorizzazione della facoltà consultiva del fedele laico” (p. 115). Questi fattori hanno provocato – secondo Giacchetta – una deresponsabilizzazione dei fedeli laici, che si sono adagiati su ruoli meramente esecutivi. Un discorso a parte è dedicato al ruolo svolto dai movimenti sorti o sviluppatisi dopo il concilio. Per Giacchetta essi hanno svolto al loro interno un ruolo di crescita dei fedeli laici, ma hanno mancato di interagire organicamente con la parrocchia, che resta come lo steso papa Francesco ricorda luogo sempre attuale della pastorale della Chiesa (cfr. EG 28-29). Il limite visto nell’azione dei movimenti è che si rivolgono a tutti, ma camminano con alcuni; la parrocchia si rivolge a tutti e “chiede la grazia di camminare con tutti” (p. 116). Ma come concretizzare la corresponsabilità? Giacchetta sceglie alcuni tra i molteplici ambiti della vita comune per indicare la modalità dell’attuazione dell’evangelizzazione “di persona a persona”, indicata da Paolo VI nella Evan-


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gelii nuntiandi, e precisamente: la sobrietà nella quotidianità; la ricchezza e la giustizia solidale; il rinnovamento dell’ordine temporale. Il sesto ed ultimo capitolo delinea una breve, quanto stimolante, teologia della famiglia inserita nel quadro tracciato nei capitoli precedenti. Di primo acchito potrebbe sembrare una forzatura, ma così non è perché prendendo sul serio la corresponsabilità di ogni membro del popolo di Dio nell’azione evangelizzatrice nella quotidianità, inevitabilmente si deve considerare il “luogo” ove essa si svolge. Le considerazioni dei capitoli precedenti, inoltre, offrono la possibilità di mettere a fuoco i significati racchiusi “nelle più elementari esperienze familiari: l’originario legame di alleanza, l’intimità dell’appartamento e l’estroversione sociale” (p. 130). Su questo innesta la riflessione sui vissuti, che Giacchettta definisce “tumultuosi”, “che rendono palpitante la vita in famiglia: l’eros, la generatività intesa come apertura alla vita a tutto campo ed il dono del potere di dono” (ivi). Una scrittura piana ma non banale, competente ma non presuntuosa ne consigliano la lettura soprattutto a chi ha la responsabilità di operare scelte pastorali che siano guidate dalla bussola del Vaticano II e del magistero di papa Francesco che di quella bussola fa uso. M. Aliotta


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1. LICENZIATI IN TEOLOGIA 13 febbraio 2015 indirizzo Teologia spirituale: CASTAGNA ADRIANO, La devozione al Santissimo Sacramento in San Filippo Neri. Analisi del Processo di canonizzazione e delle prime biografie (1601-1635). (relatore prof. M. Torcivia) indirizzo Teologia morale: MWASUBILA DAUDI MARTIN, To educate at the christian family life in the context of family of the Nyakyusa People. Analysis of the Tanzanian Episcopate Documents. (relatore prof. M. Aliotta) COPPOLINO ANNA, L’indissolubilità del matrimonio cristiano nella Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II. (relatore prof. V. Rocca) 26 giugno 2015


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indirizzo Teologia morale: LO GIOCO VALERIA, Aspetti etici della procreazione medicalmente assistita alla luce della Dignitas personae (relatore prof. A. Sapuppo) ARANCIO GIANNI, Il Vangelo del Matrimonio e della famiglia in un mondo che cambia alla luce del magistero della CEI (relatore prof. V. Rocca) SETTINERI GIUSEPPA, Cristianesimo e new age: alla luce del documento magisteriale “Gesù Cristo portatore dell’acqua viva” (relatore prof. V. Rocca) 9 ottobre 2015 indirizzo Teologia spirituale: FURNÒ ANNALISA, Parola e relazione in Ferdinand Ebner: piste interpretative. (relatore prof. M. Aliotta) KASONGO MUKENGA CLOVIS, La Parola di Dio, celebrata dalla liturgia, diventa preghiera. Commento all’inno “è asceso il buon pastore” e alle eucologie della settimana precedente la festa della Pentecoste, alla luce delle Scritture ivi alluse (relatore prof. A. Gangemi) indirizzo Teologia morale: DI MAURO GIUSEPPE, La proposta etica di Antonio Rosmini: fondamenti filosofici e antropologici per una formazione della coscienza. (relatore prof. P. Sapienza)


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NIYONZIMA ALBERT, La corporeità e il sacramento del matrimonio in S. Giovanni Crisostomo. (relatore prof. A. Sapuppo)

2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA 13 febbraio 2015 KALIMSENGA DAVID MORIS, L’impegno sociale della Chiesa tanzaniana nella situazione socio-politica ed economica della Tanzania. Dall’indipendenza ad oggi. (relatore prof. J. A. Bamanadio Kudielumuka) KISUSI LYAKI CRESENCIA EPIMARK, Dalla poligamia alla monogamia. Il contributo del cristianesimo nell’arcidiocesi di Mwanza (Tanzania). (relatore prof. C. Lorefice) GANGI LUCA JEAN PIERRE, La liturgia sorgente originaria dell’impegno morale del cristiano nel mondo. Il contributo rituale ed eucologico del RICA. (relatore prof. V. Rocca) MANGIAGLI ROBERTO, La spiritualità cristocentrica in Charles de Foucauld. Sequela e modalità particolari. (relatore prof. S. Consoli) LIPERA ALFIO, Il senso e il valore della festa cristiana. (relatore prof. S. Consoli) VICINO ROSOLINO, La passione di Dio. Il mistero della sofferenza divina come risposta alla sofferenza umana nella riflessione di alcuni filosofi e teologi contemporanei. (relatore prof. A. Minardo)


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PORTALE ANTONINO, Il presbitero nell’insegnamento di Benedetto XVI. Lettura delle omelie e delle messe crismali e delle ordinazioni presbiterali. (relatore prof. N. Capizzi) SCHETTINI HELENIO, Orientamenti pastorali di mons. Ettore Baranzini, arcivescovo di Siracusa. Il primo decennio del suo episcopato (19331943). (relatore prof. S. Marino) SPADA GIANLUCA, Fonti per la storia di una comunità parrocchiale: l’archivio della Chiesa Madre di Linguaglossa. (relatore prof. G. Zito) PAGLIARO MAURIZIO SALVATORE, Dimensione sociale dell’impegno pastorale del clero di Belpasso tra il 1890 e il 1930. (relatore prof. G. Zito) RIOLO GRAZIA CLAUDIA, Simone Weil. Dall’attesa di Dio all’amore di Dio. (relatore prof. G. Schillaci) FIORE MARCO, Il dialogo ecumenico tra Roma e Costantinopoli sul primato petrino e la sinodalità. Tentativo di lettura tematica del Documento di Ravenna. (relatore prof. N. Capizzi) VITALITI PIERA, «Ecco il vostro Re (Gv 19,14)». La proclamazione di Pilato ai Giudei. Analisi esegetica Gv 19,13-16a. (relatore prof. A. Gangemi) SERRA MARCO, «Amen. Vieni, Signore Gesù». Il ritorno del Signore nel libro dell’Apocalisse di S. Giovanni (relatore prof. A. Gangemi)


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MAZZAGLIA ALFIO, Gli Apophthegmata Patrum: tratti di un profilo spirituale di Antonio il Grande. (relatore prof. F. Aleo) PUGLISI MICHELE, La dichiarazione Dominus Jesus nel contesto del pluralismo religioso (relatore prof. N. Capizzi) BIUSO ALFIO GIUSEPPE, L’autocoscienza di Gesù. La riflessione della teologia contemporanea su un tema dibattuto. (relatore prof. A. Minardo) 26 giugno 2015 TORNABENE ORAZIO GIUSEPPE, Cappellani militari. Preti al servizio della pace (relatore prof. V. Rocca) TOMARCHIO ROSARIO, Il tema dell’“amore” nella Deus caritas est di Benedetto XVI (relatore prof. V. Rocca) MONTESSUTO RUDY, Il contributo dell’azione cattolica nel progetto pastorale della Chiesa Italiana. Una lettura teologico-pratica. (relatore prof. A. Pennisi) PATERNÒ CLAUDIO, La dimensione universale e cosmica del sacerdozio di Cristo (relatore prof. P.D. Scardilli) TROVATO ANTONINO, La cornice narrativa del libro di Giobbe. Analisi sincronica di Gb 1,1-2,10 e 42,10-17 (relatore prof. D. Candido)


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9 ottobre 2015: RAPICAVOLI UGO, «Perché mai sono uscito dal seno materno?». La passione del profeta Geremia nella sua ultima Confessione (Ger 20,7-18) (relatore prof. D. Candido) POLITINI MARCO, La Cristologia nel vangelo di Marco. Alcuni interrogativi che Gesù pone al mondo giudaico. (relatore prof. C. Raspa) NICOSIA SALVATORE, Iesu dulcis amicitia. L’amicizia spirituale cristiana alla luce della riflessione di Aelredo di Rievaulx. (relatore prof. G. Buccellato) PAGANA PATRIZIA, Parola e silenzio. “Lettera sulla vita contemplativa” di Guigo II certosino. (relatore prof. G.A. Neglia) MORABITO MARIA, La spiritualità dell’unità di Chiara Lubich. La Chiesa (relatore prof. N. Capizzi) GANDOLFO LUCA FRANCESCO, Il servizio diplomatico della Santa Sede. Storia, natura e facoltà. (relatore prof. G. Gurciullo) NAPOLI ALESSANDRO, Eutanasia: il dibattito tra il diritto alla buona morte e la dignità della persona umana. (relatore prof. A. Sapuppo) MINÀ GUIDO, La questione della procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Aspetti biogiuridici e antropologici. (relatore prof. A. Sapuppo) PULEO GAETANO, Lettura ermeneutica de La bottega dell’orefice di K.J. Wojtyla. Aspetti di etica sponsale (relatore prof. G. Schillaci)


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PRIVITERA GRETA, Una donna «sulla soglia». L’universalismo mistico di Simone Weil. (relatore prof. G. Schillaci) FLORIDIA MASSIMO, La città dei pazienti. La ricerca del Regno di Dio per un cambiamento psico-socio-spirituale. (relatore prof. G. Schillaci)

3. DISPUTATIO Giovedì 12 febbraio 2015 è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio su Antropologia e teologia spirituale, guidati da Benedetta Selene Zorzi, docente di Patristica e Teologia spirituale presso l’Istituto Teologico Marchigiano. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema.

4. PRESENTAZIONE VOLUME Venerdì 27 febbraio 2015 si è tenuta, presso i locali dello Studio Teologico S. Paolo, la presentazione del volume di Paolo Italia Per una cultura dell’unità. Il pensiero di Giuseppe Maria Zanghi. Presente l’autore, il volume è stato introdotto da Maurizio Aliotta, Preside dello Studio Teologico S. Paolo e presentato da Daniele Spadaro, dell’INAF/Osservatorio Astrofisico di Catania.

5. INCONTRI Il 19 e 20 marzo 2015, presso il Coro di notte – ex Monastero dei Benedettini, si sono svolte, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi Catania e con la Fondazione Synaxis, due Serate di Letture Medievali su: la Guerra, la Pace, il Buon Governo. Dopo i saluti iniziali di Maurizio Aliotta, Preside


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dello Studio Teologico S. Paolo, Giancarlo Magnano di San Lio, Direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania e Concetto Martello del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania, sono intervenuti: Giovanni Basile, Paolo Gionfriddo e Carmelo Raspa dello Studio Teologico S. Paolo di Catania; Andrea Vella, Ilenia Licitra, Hassan Ezzat e Arianna Rotondo dell’Università degli Studi di Catania; Luciana Pepi, dell’Università degli Studi di Palermo.

6. SEMINARIO INTERDISCIPLINARE Giovedì 16 aprile 2015 si è tenuto, presso lo Studio Teologico S. Paolo, il Seminario interdisciplinari su: Etica della felicità, etica dell’obbligo. Ha visto gli interventi dei docenti del S. Paolo: Dionisio Candido, “Bada di mettere in pratica i comandi del Signore, perché tu sia felice (Dt 6,3). Un itinerario tematico all’interno del Pentateuco/Torah”; Carmelo Raspa, “Interpretazione rabbinica della Torah”; Attilio Gangemi, “L’etica delle Beatitudini”; Luca Saraceno, “L’etica della felicità nella filosofia di Aristotile”; Francesco Aleo, “Beatitudine e felicità nel De vita beata di sant’Agostino”; Antonino Crimaldi, “L’eudemonismo nella filosofia contemporanea”; Adriano Minardo, “Felicità e redenzione. Riflessione a margine di una corrispondenza possibile”; Corrado Lorefice, “Il dibattito teologico morale contemporaneo”; Salvatore Consoli, “Il dovere cristiano della gioia dalla Gaudium et Spes alla Evangelii Gaudium. Fondamento teologico e modalità nell’odierna società”; Giuseppe Buccellato, “L’esame di coscienza nel solco della tradizione cristiana: obbligo o opportunità?”.

7. GIORNATA DI STUDIO Mercoledì 29 aprile 2015, presso lo Studio Teologico S. Paolo, in collaborazione con l’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale – Sez. Sicilia, si è tenuta una Giornata di Studio su: L’etica nella vita. Ha introdotto Maurizio Aliotta, Preside dello Studio Teolo-


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gico S. Paolo e sono intervenuti: Carmelo Torcivia, della Facoltà Teologica di Palermo, Alessandro Rovello, delegato dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale – Sez. Sicilia, Andrea Volpe, della Facoltà Teologica di Palermo, Mario Cascone, dell’ISSR di Ragusa.

8. CONVEGNO DI STUDI Martedì 5 maggio 2015 si è svolto, presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania, in collaborazione tra lo Studio Teologico S. Paolo e lo stesso Dipartimento, il Convegno di studi su Memoria, oblio, perdono. Sono intervenuti: Giovanni Basile, dello Studio Teologico S. Paolo; Santo Di Nuovo, dell’Università degli Studi di Catania; Carmelo Raspa, dello Studio Teologico S. Paolo; Maria Tomarchio, dell’Università degli Studi di Catania, Angela Catalfamo, dell’Università degli Studi di Catania; Giuseppe Gurciullo, dello Studio Teologico S. Paolo; Liana M. Daher, dell’Università degli Studi di Catania; Adriano Minardo, dello Studio Teologico S. Paolo.

9. PRESENTAZIONE VOLUME Giovedì 14 maggio 2015 si è tenuta, presso il Museo Diocesano di Catania, la presentazione del volume di Adolfo Longhitano Le Relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1904-1937). Presente l’autore, sono intervenuti: Daniele Menozzi, dell’Università degli studi di Pisa; Giuseppe Barone, dell’Università degli Studi di Pisa; Gaetano Zito, dello Studio Teologico S. Paolo.

10. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Venerdì 30 ottobre 2015 si è tenuta l’inaugurazione del 47° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. Alla solenne concelebra-


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zione eucaristica presieduta dal Vescovo di Caltagirone, S. E. Mons Calogero Peri, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina; la relazione del Preside, mons. Maurizio Aliotta e la prolusione accademica su Matrimonio e famiglia nella Chiesa dopo il Sinodo, tenuta da Basilio Petrà, della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

11. PRESENTAZIONE ENCICLICA Venerdì 27 novembre 2015 si è tenuta, presso il Salone Sant’Agata del Seminario Arcivescovile di Catania, la presentazione dell’Enciclica di Papa Francesco Laudato si’. Sono intervenuti: Salvatore Natoli, dell’Università di Milano Bicocca; Francesco Brancato, dello Studio Teologico S. Paolo.

12. CORSI ATTIVATI PER L’ANNO ACCADEMICO 2015 Scuola di Formazione all’impegno sociale e politico, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano Problemi sociali e lavoro dell’Arcidiocesi di Catania; Corso biennale di formazione di Pastorale Sanitaria, Etica sanitaria e Bioetica, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano di Pastorale della Salute dell’Arcidiocesi di Catania; Corsi opzionali Integrativi per Insegnanti di Religione Cattolica. Scuola di formazione per operatori di pastorale familiare, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano per la Pastorale della Famiglia dell’Arcidiocesi di Catania;


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IL RAPPORTO TRA LOGOS E PHILANTHROPÌA NEL PROTREPTIKÒS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA (Francesco Aleo) . . . . . . . . 7 Premessa . . . . . . . . . 7 Introduzione . . . . . . . . 22 1. Il Protreptikòs di Clemente d’Alessandria . . . . 26 2. La Teologia del Logos in Clemente d’Alessandria . . . 28 3. Religiosità e culto dei greci nel Protreptikòs: la Synétheia . . 39 4. Logos e Philanthropìa nel Protreptikòs di Clemente d’Alessandria . 44 Conclusioni . . . . . . . . 55 ADDENDA ET CORRIGENDA A “OPUS CHRISTI EDIFICABIT. STATI E FUNZIONI DEI CRISTIANI DI SICILIA ATTRAVERSO L’APPORTO DELL’EPIGRAFIA” (Vittorio G. Rizzone) . . . . . . . Vescovi . . . . . . . . 1. Vescovi di Siracusa . . . . . . 2. Vescovi di Catania . . . . . . 3. Vescovi di Palermo . . . . . . 4. Vescovi di Cefalù . . . . . . Appendice epigrafica . . . . . .

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RELIGIOSI SCIENZIATI E STRUMENTI SCIENTIFICI NEL SETTECENTO (Domenica Flavia Ferreto) . . . . . . . 85 Premessa . . . . . . . . 85 1. Strumentazione scientifica nel Settecento (cenni ai secc. precedenti) 86 2. Produzione di strumenti e luoghi della scienza nuova . . 93 3. La scienza degli strumenti . . . . . . 99 4. Dimensione culturale degli scienziati credenti inventori di strumenti 102 5. La fede e la scienza nuova . . . . . . 112 Conclusione . . . . . . . . 117 Bibliografia . . . . . . . . 118 Note e discussioni RIFLESSIONI SUL VOLUME “TRATTATO DELLE VIRTÙ” DI JEAN JÁNKÉLEVITCH (Enrico Piscione) . . . . . . . . .

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SYNAXIS Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania Comitato scientifico: Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito

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corrigenda a “Opus Christi edificabit. Stati e funzioni dei Finito stampare nell’aprile dell’epigrafia” • DdiOMENICA FLAVIA FERRETO2017 , Religiosi scienziati da Grafiser s.r.l. sul volume “Trattato delle virtù” ENRICO PISCIONE , Riflessioni 94018 Troina (En) Tel. 0935 657813 - Fax 0935 653438 www.grafiser.eu

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XXXIV/1 – 2016 Sommario:

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• FRANCESCO ALEO, Il rapporto tra logos e philanthropìa nel protreptikòs di Clemente d’Alessandria • VITTORIO G. RIZZONE, Addenda et corrigenda a “Opus Christi edificabit. Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia Attraverso l’apporto dell’epigrafia” • DOMENICA FLAVIA FERRETO, Religiosi scienziati e strumenti scientifici nel settecento • ENRICO PISCIONE, Riflessioni sul volume “Trattato delle virtù” di Jean Jánkélevitch • Recensioni

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