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XX.

— Sì, le cose stavano a questo punto poco prima della catastrofe. Vivevamo apparentemente in pace e non v'era nessun motivo che potesse turbare questa pace: a un tratto cominciò un discorso su di un cane che all'esposizione aveva avuto una medaglia, dicevo io. Essa disse: Non una medaglia, ma un diploma d'onore. S'iniziò una discussione. Si cominciò a saltare da un argomento ad un altro, vennero i rimproveri: «Già, si sa da un pezzo, sempre così», «tu hai detto...», «no io non l'ho detto», «dunque io mentisco!...». Si sentiva che stava per nascere uno di quei tremendi litigi per i quali io volevo uccidermi o ucciderla. Tu sai che sta per nascere, ne hai paura come del fuoco, vorresti trattenerti ma l'ira s'impossessa di tutto l'essere tuo. Essa si trova nel medesimo stato, anche peggio; apposta essa ritorce ogni tua parola, dandole un falso significato: ogni parola di lei è impregnata di veleno; essa ti colpisce sempre nel punto più doloroso. Più si va oltre, peggio è. Io grido: Taci! o qualcosa di simile. Essa scappa via dalla stanza, corre nella camera dei bambini. Io tento di trattenerla per finire il discorso e spiegarmi, e l'afferro per un braccio. Essa finge che io le abbia fatto male e grida: «Ragazzi, vostro padre mi batte». Io urlo: «Non mentire!». «Già, non è la prima volta — urla lei. I ragazzi si slanciano verso di lei. Essa li ac-

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queta. Io dico: «Non fingere!». Essa dice: «Per te tutto è finzione: uccideresti un uomo e gli diresti che finge. Ora ti ho capito. Questo vorresti!». «Oh! se tu crepassi!» — grido io. Ricordo come mi atterrirono queste orribili parole. Non avrei mai creduto di poter dire tali orribili, brutali parole e mi meraviglio che potessero uscire dalla mia bocca. Urlai queste orribili parole e fuggii nel mio studio, mi misi a sedere e cominciai a fumare. Sentii che essa usciva in anticamera e si preparava ad andar fuori di casa. Le chiesi: «Dove vai?». Non rispose. «Il diavolo se la porti!» dissi fra me, tornando nello studio e di nuovo mi sdraiai e mi misi a fumare. Mille progetti differenti mi passavano per la testa: vendicarmi di lei, liberarmene, o accomodar tutto e fare come se nulla fosse avvenuto. Penso a tutto ciò e fumo, fumo, fumo. Penso di fuggire da lei, di nascondermi, di scappare in America. Arrivo fino a fantasticare sul modo di sbarazzarmi di lei, e a immaginarmi come sarà bello, come mi unirò con un'altra donna, una donna bellissima, tutta diversa da mia moglie. Me ne sbarazzerò se muore o se divorziamo e penso al modo di divorziare. Capisco che mi confondo, che non penso come dovrei e per non seguire questi pensieri sballati, fumo. Ma la vita in casa continua. Entra la governante, chiede: «Dov'è madame? Quando ritorna?». Il domestico chiede: «Si deve servire il the?». Vado in sala da pranzo; i ragazzi, specialmente la maggiore, Liza, che già capisce, mi guardano interrogativamente e con ostilità. Beviamo il the in silenzio. Lei non si vede. Viene la sera: lei non

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si vede. Due sentimenti si alternano nell'animo mio: l'ira contro di lei perchè tormenta me e i ragazzi con la sua assenza, la quale poi finirà con un ritorno, e la paura che non ritorni e che commetta qualcosa su di sè. Andrei a cercarla: ma dove? Da sua sorella? Ma è stupido andare a chiedere di lei. Dio l'accompagni! Se vuole tormentarci che si tormenti anche lei. Del resto, non aspetta altro. E la prossima volta sarà anche peggio. Ma se non è dalla sorella? Se tenta qualcosa su di sè o l'ha già tentato?... Le undici, le dodici! Non vado in camera, sarebbe stupido mettermi a letto solo e aspettare, e mi sdraio nello studio. Vorrei occuparmi di qualche cosa, scrivere una lettera, leggere, ma non posso far nulla. Me ne sto solo, nel mio studio, mi tormento, mi arrabbio, e sto con l'orecchio teso. Le tre, le quattro, e non si vede. Verso la mattina mi assopisco. Mi sveglio, non è tornata. Tutto in casa procede come sempre, ma tutti stanno in sospeso e mi guardano interrogativamente e con rimprovero supponendo che io sia la cagione di ogni cosa. E in me lottano l'irritazione per il tormento che essa mi dà e l'inquietudine per lei. Verso le undici di mattina viene la sorella, mandata da lei. E comincia la solita storia: «Lei è in una situazione tremenda. Ma perchè tutto questo? Se non è successo nulla!». Io parlo della difficoltà del suo carattere e dico che io non ho fatto niente. — Ma non si può mica rimaner così — dice la sorella. — È affar suo e non mio — dico. — Io il primo passo non lo faccio. Vuol divorziare? Divorziamo.

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Mia cognata se ne va senz'aver concluso nulla. Io ho detto recisamente che non farò il primo passo: ma quando lei se n'è andata e io vado di là e vedo i ragazzi tristi, spaventati, sono pronto a fare il primo passo. Sarei contento di farlo ma non so come farlo. Di nuovo mi metto a camminare in su e in giù, a fumare, a colazione bevo della vodka acquavite e del vino e giungo a ciò che inconsciamente desidero: non vedo più la stoltezza, l'abbiettezza della mia posizione. Verso le tre essa giunge. Incontrandomi non dice niente. Immagino che si sia calmata, comincio a dirle che mi aveva provocato coi suoi rimproveri. Essa, col medesimo viso severo e terribilmente abbattuto dice che è venuta non per spiegarsi ma per prendere i bambini perchè non possiamo più vivere insieme. Io dico che la colpa non è mia, che è lei che mi provoca. Essa mi guarda con una solennità severa e poi dice: «Non parlare più: te ne pentirai». Io dico che non posso soffrire le commedie. Allora essa grida qualcosa che io non intendo e scappa in camera sua. Si sente il rumore della chiave nella serratura: si è chiusa dentro. Io picchio: nessuna risposta e io me ne vado irritato. Dopo una mezz'ora arriva Liza correndo, in lacrime. «Che è? Che cosa è successo?». «Mamma non dà segno di vita». Andiamo. Io scuoto la porta con tutta la mia forza. La serratura chiude male e i due battenti si aprono. Vado verso il letto. In sottana e con gli stivaletti lei è buttata sul letto. Sulla tavola c'è una bottiglina d'oppio vuota. La facciamo rinvenire. Lacrime e finalmente la pace. Ma non è pace; nell'animo di

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ciascuno di noi c'è sempre la vecchia ostilità dell'uno verso l'altro, con l'aggiunta dell'irritazione prodotta dal male che ha fatto quest'ultimo alterco, che ciascuno mette sul conto dell'altro. Ma bisogna pur finirla in qualche modo, e la vita seguita come prima. I soliti litigi, e anche peggiori, erano diventati continui: ora una volta alla settimana, ora una volta al mese, ora tutti i giorni. E sempre in un modo. Una volta io avevo già fatto il passaporto per l'estero, il litigio durava da due giorni. Ma poi di nuovo una mezza spiegazione, una mezza pace, e io rimasi...

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