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XXIII
XXIII.
— Credo superfluo il dire che io ero molto vanitoso: se non si fosse vanitosi nella vita abituale che meniamo non ci sarebbe scopo a vivere. Sicchè, quella domenica, mi occupai con piacere a disporre tutto per il pranzo e per la serata musicale. Andai io stesso a comprare alcune cose per il pranzo e a invitare gli ospiti. Verso le sei gli invitati erano riuniti, ed egli comparve, in frack e con dei gemelli di brillanti di cattivo gusto. Aveva un contegno disinvolto, rispondeva a ogni domanda in fretta, con un sorrisetto di acquiescenza e d'intesa: sapete, con quella particolare espressione che significa che tutto quello che voi fate o dite è proprio quello che si aspetta. Tutto ciò che c'era in lui di sconveniente io lo notavo con particolare piacere perchè tutto ciò doveva tranquillizzarmi e mostrare che, per mia moglie, egli era tanto al disotto che lei, come mi aveva detto, non poteva abbassarsi fino a quel punto. Io ora non mi permettevo più d'esser geloso. Prima di tutto, m'ero già tormentato abbastanza e avevo bisogno di riposo: secondo, volevo credere alle assicurazioni di mia moglie e ci credevo. Ma, quantunque non fossi geloso, ero tuttavia impacciato con lui e con lei, e durante il pranzo e la prima metà della serata, finchè non cominciò la musica, io seguii gli sguardi e i movimenti di loro due. Il pranzo fu come suole essere un pranzo, noioso, convenzionale. Abbastanza presto cominciò la musica. Oh!
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come mi ricordo tutte le circostanze di quella serata! Ricordo come egli portò il violino, aprì l'astuccio, tolse la fodera che gli doveva aver ricamata una qualche signora, prese l'istrumento e si mise ad accordarlo. Ricordo come mia moglie, con aria falsamente indifferente, sotto la quale io la vedevo nascondere una grande timidezza, timidezza specialmente cagionata dalla sua poca valentìa nella musica, sedette davanti al pianoforte a coda e cominciarono i soliti la del pianoforte, il pizzicato del violino, la disposizione delle carte di musica. Ricordo poi come si guardarono fra loro, guardarono gli astanti, si dissero qualcosa e cominciarono. Egli prese i primi accordi. La sua fisonomia diventò seria, austera, simpatica, e, con l'orecchio teso al suono, egli fregava accuratamente le corde. Il pianoforte gli rispondeva. E cominciò il pezzo... Pozdnicev si fermò e più volte fece quel suo solito verso. Voleva ricominciare a parlare ma tirò su il fiato dal naso e si fermò di nuovo. — Sonarono la Sonata a Kreutzer di Beethoven — seguitò. — Conoscete il primo tempo, il presto? Lo conoscete? Oh! Oh! — esclamò. — Tremenda cosa questa sonata! E specialmente questa parte. E in generale, tremenda cosa la musica! Che cosa è mai? Io non capisco. Che cosa è mai una simile musica? Che cosa fa? e perchè produce di tali effetti? Dicono che la musica agisca sull'anima elevandola. Stoltezza! menzogna! Agisce sì, agisce terribilmente, lo dico per parte mia, ma non eleva affatto l'anima. Agisce non elevando nè abbassando
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l'anima, ma irritandola. Come dirvi? La musica mi fa dimenticar me stesso, la mia vera esistenza: mi trasporta in un'atmosfera che non è quella della mia vera esistenza; sotto l'influsso della musica mi par di sentire cose che assolutamente non sento, di capire cose che non capisco, di poter far cose che non posso fare. Io spiego questo col dire che la musica agisce come lo sbadiglio, come il riso: non ho voglia di dormire ma sbadiglio guardando uno che sbadiglia; non ho motivo di ridere ma rido guardando uno che ride. La musica, a un tratto, immediatamente mi trasporta nello stato d'animo in cui si trovava colui che ha scritto quella data musica. Io mi confondo con l'anima sua e con lui passo da uno stato all'altro: ma perchè ciò accada io non so. Colui che ha scritto la Sonata a Kreutzer, Beethoven, sapeva perchè si trovava in quel tale stato d'animo: questo stato lo aveva condotto a compiere alcune date azioni e quindi questo stato per lui aveva un senso, ma per me non ne ha nessuno. Perciò la musica eccita soltanto senza portare a una conclusione. Suonano una marcia militare, i soldati camminano al suono di questa marcia e la musica ha ottenuto il suo effetto; suonano un ballabile, si balla e la musica ha ottenuto il suo effetto; si canta una messa, io mi comunico e la musica ha ottenuto il suo effetto: ma questo non produce che eccitazione, e ciò che deve compiersi mediante questa eccitazione non si compie. E per questo, a volte, la musica ha un effetto così tremendo, così spaventevole. In Cina la musica è prerogativa dello Stato. E così dovreb-
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be essere dappertutto. Si può forse ammettere che chiunque voglia, possa ipnotizzare una o più persone e poi farne quello che gli piace? Specialmente poi se questo ipnotizzatore è il primo uomo immorale che capita? È un mezzo pericoloso messo nelle mani di uno qualunque. Per esempio, il primo presto di quella sonata a Kreutzer, si può mai sonare in un salotto, fra signore scollate? Sonare questo presto e poi applaudire, e poi prender gelati e parlare dell'ultimo pettegolezzo? Queste cose si possono sonare soltanto in date circostanze, importanti, significative, e allorchè si debbono ottenere delle date azioni, corrispondenti a questa musica. Sonare e far poi ciò che questa musica esprime. Ma suscitare energie e sentimenti non corrispondenti nè al tempo nè al luogo e che non conducono a nulla, non può far di manco di avere un effetto deleterio. Su di me, almeno, questo pezzo agiva in modo terribile: era come se mi si svelassero sentimenti che a me parevano assolutamente nuovi, nuove possibilità a me sconosciute fino a quel momento. «Ah! ecco, è così: non come io vivevo e sentivo prima. Ah! ecco, è così!». Mi pareva che mi dicesse una voce nell'anima. Questa cosa nuova che io avevo appresa, io non me ne potevo rendere conto, ma la coscienza di questo nuovo stato del mio spirito mi rallegrava. E tutti i presenti, compresi mia moglie e lui, mi si presentavano in un'altra luce. Dopo questo presto sonarono l'andante, bello ma comune e non nuovo, con ignobili variazioni e un finale assolutamente debole. Poi sonarono ancora, a richiesta
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degl'invitati, un'elegia di Ernst e vari altri pezzi. Tutto ciò era bello ma non mi fece neppure la centesima parte dell'impressione che aveva prodotta in me il primo pezzo. Tutto ciò passava oramai sul fondo di quell'impressione che avevo ricevuta dal primo pezzo. Tutta la sera mi sentii leggero, allegro. Non ho veduto mai mia moglie come la vidi quella sera. Quegli occhi lucenti, quell'austera, significativa espressione mentre sonava, quell'essere assolutamente estranea a ciò che aveva intorno, quel lieve, triste e languido sorriso dopo d'aver finito: io vedevo tutto ma non vi annettevo altro significato che questo: cioè che essa provava le stesse cose che provavo io; che a lei, come a me, si rivelavano nuovi, sconosciuti sentimenti, come se a un tratto li ricordasse. La serata finì molto bene e tutti se ne andarono. Sapendo che fra due giorni io dovevo andare alla seduta del Consiglio distrettuale, Trukhacevsky, salutandomi, disse che sperava, in una sua prossima venuta, ripetere il piacere di quella serata. Da ciò io conclusi che egli non credeva possibile venire in casa mia nella mia assenza, e me ne compiacqui. Siccome io non sarei tornato prima della sua partenza, pensai che non si saremmo più veduti. Per la prima volta gli strinsi la mano con molto piacere e lo ringraziai del godimento che ci aveva procurato. Egli si congedò definitivamente da mia moglie. E i loro addii mi parvero naturalissimi e convenienti. Tutto an-
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dava bene. Mia moglie ed io eravamo contentissimi della serata.
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