Imprese e Beni Culturali Raccolta degli Atti dei Workshop Consulta LIBERALITÀ, SPONSORIZZAZIONI, NORMATIVA FISCALE FRUIZIONE E VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI 2007 -2008 - 2009
A cura di: Angela Griseri e Maria Cristina Lisbona Š Novembre 2010 Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali di Torino Realizzazione e Stampa M.G. snc Torino
La Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino associazione tra imprese private ed enti da oltre vent’anni impegnata nel recupero del patrimonio della Città - ha raccolto gli Atti dei workshop organizzati nel 2007, 2008 e 2009 presso l’Unione Industriale di Torino in occasione della Settimana della Cultura d’Impresa di Confindustria. Queste riflessioni sul rapporto Imprese-Beni Culturali testimoniano la volontà della Consulta di favorire un maggiore coinvolgimento delle aziende nella tutela, valorizzazione e fruizione dei beni storico-artistici, mettendo a disposizione risorse e competenze e approfondendo le opportunità offerte dalla legislazione vigente. In questi anni la Consulta ha investito più di 20 milioni di euro e realizzato oltre 32 interventi di restauro e valorizzazione, in collaborazione con le Istituzioni e gli Enti di tutela. La Consulta è un “valore” per il territorio piemontese e i Soci, che hanno dedicato tempo ed impegno, sentono la responsabilità di mantenere e sviluppare questo “unicum” che Torino ha rispetto alle altre città italiane.
Il Presidente Lodovico Passerin d’Entrèves
Indice
Il ďŹ nanziamento privato dei Beni Culturali: ruolo delle imprese, prospettive e percorsi innovativi 12 ottobre 2007
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FiscalitĂ - Beni Culturali - Imprese 18 novembre 2008
La sponsorizzazione dei Beni Culturali nuovo media per le imprese? OpportunitĂ ed Esperienze 17 novembre 2009
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I SOCI CONSULTA 2007 ARMANDO TESTA BANCA POPOLARE DI BERGAMO-GRUPPO BPU BANCA BURGO GROUP BUZZI UNICEM CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI TORINO COMPAGNIA DI SAN PAOLO DELOITTE & TOUCHE ERSEL FERRERO FIAT FONDAZIONE CRT FONDIARIA-SAI GAROSCI G. CANALE & C. IFI-ISTITUTO FINANZIARIO INDUSTRIALE INTESA SANPAOLO ITALDESIGN - GIUGIARO ITALGAS LAVAZZA MARCO ANTONETTO FARMACEUTICI MARTINI & ROSSI PIRELLI PRESIDER REALE MUTUA ASSICURAZIONI SKF TELECOM ITALIA TORO ASSICURAZIONI UNIONE INDUSTRIALE DI TORINO VITTORIA ASSICURAZIONI
Il finanziamento privato dei Beni Culturali: ruolo delle Imprese prospettive e percorsi innovativi Saluto del Sindaco di Torino Sergio Chiamparino Saluto del Presidente di Consulta Lodovico Passerin d’Entrèves
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Luca Cordero di Montezemolo Presidente di Confìndustria e Fiat Imprese e Beni Culturali: prospettive e percorsi innovativi
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I protagonisti del mondo dei beni culturali: • i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione Alain Elkann Presidente Fondazione Museo Egizio Cristina Acidini Luchinat Soprintendente Speciale per il Polo Museale di Firenze Claudio Massimo Strinati Soprintendente Speciale per il Polo Museale di Roma Joseph Krakora Executive Officer External and International Affairs National Gallery of Art, Washington Antonio Paolucci Storico dell’Arte
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• che cosa offrire e richiedere alle imprese Louis Godart Consigliere del Presidente della Repubblica, Quirinale Anna Lo Bianco Direttore del Museo di Palazzo Barberini Nicola Spinosa Soprintendente Speciale per il Polo Museale di Napoli
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• le opportunità all’estero per le imprese italiane: restauri e grandi eventi Antonia Pasqua Recchia Direttore Generale per l’Innovazione tecnologica e la Promozione Coordinamento Ministero per i Beni Culturali - MAE Ministero per i Beni e le Attività Culturali
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L’investimento nei beni culturali: nuova opportunità per l’impresa Maurizio Costa Presidente della Commissione Cultura di Confìndustria e Amministratore Delegato Mondadori Stefano Lucchini Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione ENI Paolo Targetti Presidente Targetti Sankey Consuelo de Gara Fondazione Targetti
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• gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura e il ritorno per le imprese Anna Somers Cocks Editorialista, II Giornale dell’Arte Gino Famiglietti Ministero dei Beni e Attività Culturali Michela Bondardo Presidente Sistema Impresa Cultura Colin Tweedy Direttore Arts&Business, Londra
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Sergio Chiamparino Sindaco di Torino
Un augurio alla Consulta. Perché vent’anni cominciano ad essere un compleanno rispettabile e perché insieme abbiamo dato vita a molte realizzazioni, ben ricordate dal video che sta scorrendo sullo sfondo. E un saluto particolarmente cordiale al Presidente Luca Cordero di Montezemolo, la cui presenza conferisce un rilievo speciale a questo incontro della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino e del Piemonte. Personalmente sono molto affezionato al restauro del monumento a Vittorio Emanuele II, a pochi passi da noi, all’incrocio tra corso Vittorio Emanuele e corso Galileo Ferraris. Non sarà forse la più significativa realizzazione della Consulta, né l’opera di maggior pregio artistico riportata all’originario splendore, mi ricorda però la prima uscita importante da sindaco, con l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: mi muovevo forse con qualche imbarazzo e incertezza formale, avvolto nella fascia tricolore da primo cittadino. Ma sono rimasto particolarmente affezionato a quel momento, che ha segnato la mia uscita - diciamo così - sulla scena della grande politica. Un ricordo personale, dunque, che si ricollega al lavoro fatto dagli amici della Consulta. Mi si consentano due brevi considerazioni che vanno oltre l’impegno ovvio di continuare a lavorare insieme. Per Torino non c’è ombra di dubbio che in questi anni la cultura, la politica culturale, l’intervento sui beni storico-artistici siano stati elementi trainanti di una ripresa di fiducia. Utilizzando - credo - bene l’opportunità offerta dalle Olimpiadi. E concentrando attorno al grande evento olimpico anche numerosi altri interventi: che hanno permesso, ad esempio, di raddoppiare i visitatori al Museo Egizio da una parte e, dall’altra di riaprire dopo 18 anni Palazzo Madama. Si è ottenuto un effetto massa critica in termini di capacità di attrazione del patrimonio culturale torinese: un passo avanti molto significativo che non è rimasto effimero, ma appare anche stabilizzato e consolidato.
Un passo in avanti importante anche nella collaborazione fra istituzioni pubbliche, private e fondazioni bancarie (che in realtà si collocano a cavallo fra la sfera pubblica e privata). Credo che si debba adesso guardare al 2011, all’altro grande appuntamento che abbiamo innanzi a noi: il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, con l’obiettivo di rafforzare la capacità di attrazione del sistema culturale torinese e di far compiere alla collaborazione fra pubblico e privato un nuovo rilevante progresso. Senza scomodare lo slogan ormai obsoleto, forse, di Torino-città laboratorio, ma operando concretamente, perchè Torino sia in grado di essere uno dei punti di riferimento, anche a livello nazionale, nel campo della collaborazione fra pubblico e privato. Sembra esistere un impegno molto serio del governo per il 2011, che se verrà confermato - come mi auguro - dal Parlamento durante l’iter della legge finanziaria, permetterà di realizzare buona parte dei progetti contenuti nel dossier che il Comitato per i 150 anni dell’Unità Italiana ha elaborato, una straordinaria opportunità anche per coloro che pur con motivazioni comprensibili - sono stati alla finestra durante l’evento olimpico. Comprendo l’imprenditore che ogni giorno deve cercare di conquistare sui mercati mondiali un pezzettino di spazio in più per vendere, per creare valore e occupazione. Comprendo la sua cautela verso gli investimenti che possono apparire superflui, almeno in qualche misura. Le Olimpiadi tuttavia hanno offerto a tutto il mondo economico un segnale forte dell’importanza della crescita del territorio. Mi auguro che il 2011 dia la possibilità di alzare ancora l’asticella dei record, di alzare la posta in gioco, che sia l’occasione per lanciare una nuova forma di moderno mecenatismo, da non fraintendersi come una novella questua, ma come opportunità di significativi investimenti. Al di là della non sufficiente forma della sponsorizzazione, ma - se è possibile - nella forma del lavorare insieme, dell’investire insieme, del gestire insieme, per valorizzare il patrimonio culturale e ricavarne le positive ricadute insieme.
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Lodovico Passerin d’Entrèves Presidente Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali di Torino
Le aziende e gli enti soci della Consulta, che in occasione del ventennale hanno promosso la Giornata di Studio sul finanziamento privato dei beni culturali, rivolgono un ringraziamento particolare al Ministero per i Beni e Attività Culturali, alla Confindustria, alle Soprintendenze e ai Relatori per l’aiuto offerto nella preparazione di questo incontro. Così come ringraziano gli imprenditori, docenti, esponenti di musei e fondazioni che hanno aderito alla Giornata di Studio, insieme a personalità della cultura e a semplici cittadini che vogliono in tal modo testimoniare la propria attenzione e impegno per il patrimonio artistico e culturale. Un grande Sindaco di Torino, Ernesto Balbo Bertone di Sambuy - alla fine dell’Ottocento - nel presentare un progetto urbanistico coraggioso, la diagonale Pietro Micca, diceva: “le idee ardite hanno sempre quattro fasi: il ridicolo, la discussione, lo studio e l’attuazione”. Vent’anni fa pensare che aziende ed enti torinesi potessero unirsi stanziando una somma ogni anno per costituire un fondo finalizzato a migliorare e valorizzare il patrimonio artistico della città, allora in situazione drammatica, era certamente un’idea ardita. Molti di noi, che per dovere d’ufficio avevano accompagnato personalità di livello internazionale a visitare la città, con crescente imbarazzo avevano osservato lo stupore degli ospiti di fronte ad un patrimonio di così alta qualità in un uno stato di conservazione disastroso. L’idea ardita è divenuta realtà: in vent’anni i Soci - dai dodici fondatori - sono saliti a trenta e la Consulta ha realizzato venti interventi, investito 16 milioni di euro, impegnato 1 milione di ore di lavoro, di esperti, di restauratori e di professionisti sui principali monumenti della città. L’unicità della Consulta deriva dall’impegno a compiere interventi efficaci, duraturi, caratterizzati da spirito imprenditoriale e, per altro verso, da un rapporto costante e positivo con le Istituzioni e la Soprintendenze. Si è, in tal modo, inaugurato una sorta di modello torinese che trova nella salvaguardia e promozione dei beni artistici la propria ragione sociale. Molte richieste sono pervenute per avere lo Statuto
della Consulta, molti di noi sono stati chiamati in varie sedi a presentare la Consulta, ma in nessuna città italiana le aziende, duramente impegnate nell’innovazione e nella competizione sui mercati internazionali, hanno deciso - come le aziende e gli enti torinesi - di fare qualcosa nell’interesse comune, nell’interesse della propria città. Oggi, fortunatamente, tutto è cambiato: i beni sono stati restaurati e Torino si presenta splendida ai turisti in coda per visitare i principali musei. Ma è cambiato profondamente l’ambiente esterno: si allarga l’interesse della gente all’arte, si affinano nuove tecniche di restauro e studio, i musei esprimono vitalità e percorsi inediti, migliora la cultura dell’accoglienza. Parallelamente nelle aziende è cresciuta la consapevolezza della responsabilità sociale e l’interazione tra imprese e contesto nel quale operano. È per me doveroso ringraziare di cuore i Soci della Consulta per la costanza e la tenacia dell’impegno profuso in questi 20 anni e in particolare ringraziare molti amici che, in giornate di lavoro impegnative alla guida delle loro aziende, hanno sempre trovato il tempo per la Consulta. Riccardo Gualino, spregiudicato finanziere, industriale innovatore, mecenate e collezionista, nel suo libro di ricordi scrive: “Dopo mezz’ora che ero rientrato a casa, gli affari, i tormenti, le crisi che avevano turbato la mia giornata erano spariti dalla mia mente. A casa mi occupavo intensamente di arte, letteratura e cultura”. Questo spirito Consulta chiarisce il perchè della Giornata di Studio: come aziende sentiamo profondamente la necessità di riflettere sull’evoluzione del rapporto tra beni culturali ed imprese. Infatti oltre alle varie forme di mecenatismo ed alla sensibilità sociale di chi gestisce, oggi sembrano presenti nuove condizioni in grado di avviare un ciclo virtuoso nei rapporti tra patrimonio storico artistico e imprese. Ciclo del quale si sente la necessità in presenza di una crescente difficoltà della finanza pubblica a sostenere la gestione ordinaria e la valorizzazione dei beni dopo consistenti investimenti di restauro. Nuova è la sensibilità dei protagonisti e la loro
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presenza alla Giornata del ventennale della Consulta ne è la testimonianza. Nuovi pubblici si affacciano al mondo dell’arte: in alcuni casi una vera riappropriazione del patrimonio artistico da parte dei cittadini. Nuove sono le opportunità di presenza internazionale delle nostre aziende valorizzando il patrimonio artistico: un formidabile biglietto da visita. Nuova è la possibilità di considerare i beni culturali fattori di sviluppo: turismo, aziende attive nel restauro, formazione, comunicazione culturale, editoria specializzata, ecc. Nuove le occasioni per superare la rigidità temporale dei flussi turistici. Nuove le opportunità di coinvolgere nella valorizzazione e gestione dei beni, persone di qualità in pensione, ma desiderose di rimanere attive. La reputazione internazionale delle aziende italiane, passa anche attraverso l’identità della quale la componente storico artistica è parte fondamentale. Jean Paul Sartre aveva chiaro che l’Italia possedeva un grande vantaggio in questi campi: “se pensate 8
che i nostri nonni abbiano provato dei gusti e delle sensazioni che noi non conosceremo mai, potete essere clienti dell’Italia”. Perché questo avvenga, i protagonisti dei beni culturali e le imprese hanno gli strumenti per raggiungere la domanda con modalità innovative. Il successo delle piccole/ medie imprese trova un’occasione in più nei tesori custoditi nelle loro città di origine. Determinante sarà quindi il completamento di una normativa attuativa che consenta di tradurre in pratica una legislazione pur valida nel suo intento di favorire la collaborazione con i privati, ma purtroppo scarsamente incisiva. Determinanti saranno la considerazione fiscale e la possibilità di misurare i ritorni mediante strumenti adeguati. La Giornata di Studio della Consulta è stata disegnata per avere un taglio operativo: per consentire a chi deve decidere una miglior conoscenza delle potenzialità e dei percorsi possibili. Queste sono quantomeno le nostre intenzioni. Vorrei concludere citando Marco Aurelio: “Ho fatto qualche cosa per la società? Dunque a me stesso ho recato vantaggio”..
Luca Cordero di Montezemolo Presidente Fiat e Confindustria
Ogni volta che entro in questa Sala dei Cinquecento dell’Unione Industriale di Torino provo sempre una grande emozione. Lo dico con molta franchezza: mentre parlavano il presidente Tazzetti, il sindaco Chiamparino e Lodovico Passerin d’Entrèves riflettevo che riuscire ad avere una sala così piena di persone che rappresentano la classe dirigente di questa città - in ruoli, in posizioni, in mestieri diversi - è un segnale estremamente importante e molto positivo. È un segnale che indica, una volta di più, l’esistenza a Torino di un radicato e profondo senso di responsabilità, personale e collettiva. Ma anche la capacità di dimostrare, con i comportamenti e con i fatti, il significato di essere classe dirigente. Sono reduce da una lunga riunione di lavoro alla Fiat per esaminare i nuovi modelli, poi dall’assemblea dell’Associazione Industriale di Aosta e stasera è in programma l’incontro con il Governo a Roma. Vengo, cioè, da due giornate molto intense: la vostra presenza così massiccia oggi mi conferma ulteriormente che è giusto riflettere sul cosiddetto “bicchiere mezzo pieno” e non sul bicchiere mezzo vuoto. Ieri a Roma abbiamo inaugurato uno straordinario campus universitario della Luiss, l’università di Confindustria, che si colloca all’interno della città e che sarà frequentato da 4000 giovani studenti. Adesso sono qui per i 20 anni di un’iniziativa di grande valore civile come la Consulta, di un’iniziativa importante, di un’iniziativa utile al tempo stesso. Questi sono segnali veri che inducono a pensare positivo. Lo ripeto alla classe dirigente di questa città: Torino è una città che vive con un impegno che non è dono della cicogna, ma nasce per meriti propri, che vive un momento e una stagione bellissimi, una stagione che mi dà la sensazione di una città che è capace a fare sistema. La presenza in questa aula di tante persone che rappresentano le realtà diverse delle istituzioni, della scuola, dell’università, del mondo della finanza, del mondo dell’industria, del mondo della cultura, del mondo della produzione, mi induce a parlare del bicchiere mezzo pieno. E a parlarne proprio qui da Torino, a parlarne da
una città che per tanti anni, nella vita di questa nostra Italia, ha saputo essere all’avanguardia, anche sopportandone, sulla propria pelle, le ferite. Mi rivolgo a voi tutti: mai come in questo momento in Italia occorre rendersi conto che bisogna sottolineare le cose positive. Il paese ha bisogno di fiducia. Ha bisogno di capire che se continuiamo a ragionare ognuno dal proprio punto di vista, ognuno secondo il proprio egoismo, ognuno secondo il proprio machiavellico particolare, non è possibile crescere. Non possiamo assolutamente accettare che da oltre 10 anni l’Italia sia il paese che cresce meno di qualunque altra nazione europea. Non lo possiamo accettare e la vostra presenza qui dimostra - se mai fosse necessario - che esistono tante persone straordinarie nel pubblico, nel privato, nella scuola, nelle istituzioni, nella pubblica amministrazione, nella sanità, nell’industria che lavorano con capacità, con successo, con generosità e con grandissime competenze. Qualche tempo fa, con un pizzico di provocazione, dissi: “rischiamo che ci siano gli Italiani e non ci sia l’Italia”. Abbiamo bisogno di un paese che faccia sistema, altrimenti è il declino. Eppure esistono tanti aspetti positivi: recentemente sono rientrato da due giorni in Kazakistan con una missione di 200 imprenditori. Solo tre anni fa con il presidente Ciampi facemmo fatica a portare in Cina 70 imprese. Molte imprese, molti imprenditori stanno dimostrando - nei fatti - il vero ruolo sociale dell’impresa. O meglio: anziché al ruolo sociale dell’impresa, preferisco riferirmi alla assunzione di responsabilità degli imprenditori piccoli, medi, grandi. Vedo una classe imprenditoriale del Mezzogiorno che dice no al pizzo, che dice no all’illegalità diffusa, che dice no a qualunque complicità - anche di affari e di convenienze - con tale illegalità. Quando ancora pochi anni fa molti di loro ammettevano pubblicamente l’inevitabilità del pagamento del pizzo, considerato come una maledizione ineludibile. Abbiamo imprenditori sempre del Mezzogiorno - dove spesso fare impresa è un atto eroico - che si dichiarano disponibili ad accettare una diminuzione degli incentivi da parte dello stato a condizione che la tassazione diventi
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più europea: cioè meno esorbitante e più equa. Si sta facendo strada, cioè, la consapevolezza che non si può fare l’imprenditore con i soldi dello stato. Si diventa validi imprenditori con le proprie capacità. Non è la politica che risolve i problemi delle imprese, ma la capacità dei manager, degli imprenditori e di chi lavora nelle imprese stesse : più automatismi, più trasparenza, meno intermediazioni, meno amici degli amici, meno faccendieri, meno commercialisti di serie C. Assisto con interesse al riaprirsi un dibattito sulle riforme dello stato. L’apparato statale è una macchina che, chiunque la guidi, va semplificata. Occorre il coraggio di affrontare anche interventi che possano aggiornare la Costituzione del nostro paese. In un mondo che cambia pensate ai poteri del primo ministro, che da noi dispone, forse, di meno autorità di un sindaco. Siamo un paese in cui ancora oggi la macchina dello stato è talmente complessa per cui il time to market di qualunque decisione ha tempistiche inaccettabili, perché deve attraversare veti spesso incrociati, palesi ed occulti. Tempistiche inaccettabili con il progresso del mondo, quelle del nostro paese, che fa grandissima fatica a tradurre i progetti in realizzazioni. L’Italia è troppo lenta. Stare fermi, oggi come oggi, significa che il nostro paese rischia inesorabilmente di indietreggiare, perché la competizione mondiale è enorme ed è una concorrenza a 360 gradi. Ecco perché credo che sia più che mai urgente produrre risorse ricreando il circolo virtuoso dell’avere coraggio e dell’avere la forza della decisione politica. Si pensi al bicameralismo imperfetto: Camera e Senato che spesso fanno esattamente le stesse cose, con il risultato di una inutile duplicazione. Si pensi alla necessità di eliminare molte province, che rappresentano sempre costi per il cittadino e spesso anche lungaggini e ulteriori complicazioni per l’imprenditore. Tagliare spese improduttive significa reperire risorse per il futuro e in almeno tre aree ciò appare fondamentale: ricerca, spesa sociale e infrastrutture. Si pensi all’assoluta necessità di riformare il meccanismo più importante per una democrazia: la legge elettorale. Per consentire ai cittadini di poter decidere chi mandare in Parlamento e non - come oggi avviene - di trovarsi di fronte a liste precostituite dalle burocrazie di partiti e partitini. Fin qui ho citato riforme tecniche, ma vedo finalmente arrivare al centro del dibattito
anche il grande discorso sull’economia. Ben venga la lotta all’evasione fiscale. Lo ripetiamo ancora una volta: chi non paga le tasse ruba e fa concorrenza sleale a chi le paga. Chi non paga le tasse non ha a cuore l’interesse del proprio paese e del suo futuro. Però non si può fare una politica economica solo di entrate. Finalmente sentiamo sottolineare ciò che noi diciamo da mesi: ricreare un circolo virtuoso di meno tasse, meno spese, più investimenti. Sento finalmente riparlare di politica energetica, dell’esigenza di studiare le tecnologie più avanzate del nucleare, dopo che per anni la demagogia ha prevalso sulle scelte verso il futuro. Queste sono le altre facce della medaglia del concetto di bicchiere mezzo pieno. Perché non può camminare verso il futuro un paese senza politiche energetiche, un paese che continua a far pagare l’energia ai cittadini e alle imprese a un prezzo più caro di qualunque altro stato evoluto. Perché il costo dell’energia è anche uno dei motivi per cui gli investimenti produttivi e industriali sono arrivati negli ultimi anni al lumicino: oggi l’ Italia intercetta a stento il 2% di tutti gli investimenti stranieri in Europa contro il 7% della Francia, l’8% della Germania e il 9% dell’Inghilterra o della Spagna. Con ciò mi riallaccio al tema odierno, che è centrale alla vita del nostro paese. Un tema che ci deve far riflettere perché ne scaturiscano comportamenti innovativi, che ho cercato di illustrare con l’immagine del bicchiere mezzo pieno. L’arte, i giacimenti culturali, i patrimoni storici e architettonici di questo paese sono i più cospicui del mondo, una ricchezza che abbiamo ereditato dai nostri avi, che tuttavia rischia di rappresentare soltanto una rendita di posizione e non opportunità di lavoro innovativo verso il futuro. Non è merito né della mia, né della vostra, né di altre generazioni a noi vicine, avere giacimenti culturali che rappresentano da soli il 50% del patrimonio mondiale, di cui la metà localizzati al sud d’Italia. Non credo che vi siano paesi al mondo che possano offrire una città come Siracusa, dove in uno spazio di poche centinaia di metri si trova un teatro greco, un teatro romano e altre opere insigni che ripercorrono oltre due millenni di antichità e di cristianità. Non credo ci sia paese al mondo che possa offrire l’equivalente di Roma, Firenze, Venezia, ma soprattutto che possa offrire un giacimento come Pompei. Per quanto riguarda
i beni culturali ci sono, dunque, certamente straordinarie opportunità, ma occorre lavorare molto, con intelligenza e organizzazione, non solo nella tutela e nella valorizzazione, ma anche nei settori collegati: turismo in primo luogo, ma anche ricerca ed educazione superiore. Non dimentichiamo che all’inizio degli anni ’70 l’Italia era il primo paese al mondo per capacità di attrazione turistica. Negli anni 1990 - 2000 era scesa alla quinta posizione e, purtroppo, tutte le previsioni pronosticano, nei prossimi anni, il settimo posto. Ciò vuol dire che abbiamo lavorato male, che il nostro paese non ha saputo sfruttare insieme il core business di quei due filoni che dopo la guerra ci hanno permesso di crescere e diventare forti nonostante l’assenza di materie prime: il turismo e l’industria, perché, come ricordavo prima, i giacimenti, le città le bellezze c’erano e grazie a Dio rimangono, mentre il turismo, di contro, lamenta i poco lusinghieri numeri che ho citato. Tuttavia anche l’Italia della ricerca e dell’accademia non vive tempi felici e fa enorme fatica ad attirare studenti stranieri - a differenza di quanto accade per Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Olanda e anche Belgio - quegli studenti che, qualora si laureassero nelle nostre università, potrebbero diventare i primi ambasciatori del nostro paese. C’è qualche cosa che non funziona nell’università, nella didattica, nella capacità - finalmente - di aprire le finestre del nostro paese sul mondo. Così come c’è qualche cosa che non funziona nel turismo, un settore importante sotto molti aspetti. Ne cito tre: 1) è un grandissimo business per il paese, nonché una vetrina importante per le nostre piccole aziende commerciali e industriali, che devono affrontare una globalizzazione già di per sé difficile per le grandi imprese e, per loro, difficilissima; 2) significa promozione di territori e possibilità di nuove attività e di business; 3) turismo vuol dire, in parole molto semplici, capacità di un paese di esporre al mondo le proprie bellezze e le proprie qualità. Guardiamo allora patrimonio artistico e turismo dal punto di vista delle imprese. Più rapporto tra imprese e cultura vuol dire rendersi conto di alcuni elementi: a) il tempo libero nel mondo aumenta nei paesi più sviluppati, ma anche in quelli economicamente emergenti;
b) cresce la domanda di cultura: osservate le mostre in giro per il mondo e per l’Italia e le lunghe code di visitatori che esse richiamano; c) diventa straordinaria la concorrenza tra città e territori in funzione dell’offerta culturale: è il cosiddetto marketing territoriale. Ferrara, ad esempio, è una città italiana che ha basato il marketing culturale negli ultimi anni su una grande strategia culturale di musica, concerti, mostre. Ma si pensi anche al rapporto mecenatismo/ arte negli Stati Uniti, paese che non ha nemmeno lontanamente i giacimenti culturali della nostra Italia. Si pensi al grande business che l’India ha davanti a sé nel turismo: le imprese italiane potranno giocare un ruolo importantissimo nel restauro di monumenti molto deteriorati di un subcontinente di straordinaria cultura come India. Aumenta, dunque, la voglia di arte, la voglia di conoscenza, la voglia di cultura, cresce la concorrenza fra territori, paesi, città o regioni. Abbiamo bisogno di città e regioni che sappiamo promuovere iniziative, organizzare eventi. L’Europa è ricca di esempi di collaborazioni tra industria e cultura: come ben sanno quanti di noi colgono l’occasione di viaggi all’estero per visitare mostre o a assistere ad eventi. È in atto un variegato rapporto tra mondo della cultura e mondo dell’industria. L’imprenditore investe il proprio denaro per ottenere un ritorno per la sua azienda: abbiamo attraversato il boom della pubblicità, il boom del rapporto sport e industria, della sponsorizzazione e organizzazione di eventi. L’imprenditore, il vero imprenditore - che è figura diversa dal mecenate - investe in cultura se ne ha un ritorno: di promozione, di immagine, di redditività economica. La domanda che giustamente l’imprenditore si pone: è perché mai l’investimento in beni culturali dovrebbe poter aiutare l’azienda ad essere più competitiva? A tale domanda si danno risposte spesso generiche, invocando considerazioni di immagine o di prestigio. Raramente all’imprenditore si sottopongono - da parte degli operatori culturali - argomentazioni convincenti sul perché un investimento in cultura potrebbe costituire uno strumento di promozione più efficace delle tante altre possibilità alternative. Né, a maggior ragione, sul perché la promozione dell’immagine dovrebbe legarsi al potenziamento della capacità competitiva e non soltanto a una generica maggiore notorietà dell’azienda. È necessario, allora, chiarire il ruolo che le aziende
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possono svolgere, attraverso un confronto con gli altri soggetti che a livello territoriale, regionale o nazionale hanno responsabilità nel settore del patrimonio artistico, perché si possano sviluppare le potenzialità anche economiche dei beni culturali, a vantaggio della collettività L’esempio di 20 anni della Consulta è, da questo punto di vista, emblematico di un corretto rapporto tra il mondo della cultura e il mondo dell’industria, tra la sponsorizzazione di iniziative e il loro utilizzo per il miglioramento del prestigio proprio e del territorio, a dimostrazione che è possibile ottenere un ritorno per l’immagine delle aziende associate e, al tempo stesso, consolidare un corretto rapporto tra pubblico e privato, un esempio cui fare riferimento. Per quanto siano ancora numerose le realtà aziendali che non comprendono a sufficienza il grande potenziale di vantaggio competitivo che un investimento culturale intelligente e ben scelto può dischiudere, il rapporto tra le aziende italiane e la cultura sta cambiando sicuramente in meglio. Tutto ciò è avvenuto lungo un percorso che da un atteggiamento delle aziende prevalentemente mecenatistico è passato a scelte di strategia aziendale che hanno motivazioni diverse, ma sono tutte contrassegnate da una concezione innovativa dell’imprenditorialità. La dimensione sulla quale le aziende italiane risultano ancora poco attente è, se mai, quella della creazione di partnership con le tante realtà culturali di eccellenza, piccole e grandi, che esistono nel paese e che apporterebbero significativi benefici reciproci. Non sempre, d’altronde, gli imprenditori italiani posseggono le competenze per orientarsi nel mare magnum, difficile e insidioso, dei tanti progetti culturali che vengono loro sottoposti. Le imprese italiane che investono nei beni culturali sono, comunque, in crescita costante e stanno imparando a muoversi con chiarezza di idee: meno sponsorizzazioni occasionali fini a sé stesse e avanti, invece, con i progetti nati e cresciuti all’interno dell’azienda, spesso con la collaborazione di esperti del settore, progetti, quindi, sviluppati e vissuti come una scommessa imprenditoriale. Perché non occorre essere una mega-multinazionale per dare vita ad investimenti culturali efficaci; per ottenere risultati interessanti bisogna saper pensare in un’ottica di medio-lungo periodo e possedere spirito di iniziativa, disponibilità a rischiare e a mettersi in discussione.
La casistica che si è accumulata in questi ultimi anni mostra che i risultati possono arrivare e, in alcuni casi, superare le attese, purché si riescano a vincere gli stereotipi, a sperimentare, a imparare con pazienza e passione autentica. La cultura e il patrimonio artistico sono beni da tutelare e mettere a frutto nell’interesse di tutta la società. È questa convinzione che ha spinto le imprese a evolvere, in casi recenti e innovativi, nella direzione dell’organizzazione dell’offerta culturale, contribuendo a migliorarne la qualità, oppure ad aprire un altro fronte ancora: a diventare esse stesse committenti d’arte, un ruolo estremamente importante, che meriterà di essere valorizzato e incentivato. È altresì vero che resta il problema delle risorse necessarie per la tutela di un patrimonio immenso, che non sarà mai in grado di auto-finanziarsi. L’arte e i musei non si finanziano da sé. È necessario, per tale ragione, anche l’apporto finanziario e manageriale delle imprese. Una quota significativa di risorse aggiuntive può certamente provenire dai privati, ma si devono creare le condizioni affinché ciò possa avvenire. Su questo versante permane in Italia un problema culturale che nessuno sembra avere il coraggio di affrontare apertamente: soprintendenti e curatori di musei accettano le risorse dei privati - anzi le sollecitano - ma troppo spesso non accettano che questi ultimi possano avere un qualche potere decisionale sulla destinazione delle risorse. Salvo poi guardare con invidia alla generosità dei donatori americani - sempre attribuita alla ricchezza della tradizione civica statunitense o al regime fiscale delle donazioni (che, al contrario di quanto solitamente si ritiene, non è, negli USA, molto più favorevole di quello attualmente vigente in Italia) - e mai alla fondamentale differenza nella strategia adottata dalle istituzioni culturali americane nei confronti dei privati. Strategia americana che fa leva su tutte le armi psicologiche a disposizione, pur di catalizzare risorse di grandi e piccoli donatori privati. Negli Stati Uniti, per esempio, se un ricco imprenditore decide di compiere una donazione di opere d’arte ad un museo, gli si consente di non vedere smembrata la sua collezione, cui, anzi, si dedica e si intitola una sezione del museo stesso. Si può essere d’accordo o in disaccordo con questo approccio. Resta il fatto che in un momento in cui il settore pubblico, a livello centrale e locale, sembra non essere in grado di accrescere il proprio ruolo nel
finanziamento dei beni culturali, l’atteggiamento da assumere verso mecenati e donatori dovrebbe diventare oggetto di una profonda riflessione, che non si limiti all’aspetto fiscale, ma investa il cuore del problema legato al rapporto tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati Termino con un ultimo argomento su cui desidero attirare la vostra attenzione: la gestione imprenditoriale del nostro patrimonio. È inutile fare polemiche, perché mai come in questi momenti abbiamo bisogno di un paese che dialoghi in funzione del bene comune e che guardi al futuro con decisioni condivise. È fuori discussione che in questi ultimi dieci anni le imprese hanno offerto un contributo non piccolo alla valorizzazione dei beni culturali e, nei limiti ristretti che sono stati loro consentiti, anche alla gestione. Infatti, l’affidamento ai privati dei servizi per la fruizione dei musei, delle aree archeologiche e dei monumenti statali (consentito in via sperimentale dalla nostra legislazione da oltre un decennio) permane carico di criticità, sia sul piano economico, che su quello gestionale. L’imprenditoria del settore è interessata ad una progressiva estensione della esternalizzazione della gestione del patrimonio culturale, nella convinzione che l’introduzione di modelli imprenditoriali possa accrescere le qualità e la produttività dell’offerta museale. Naturalmente mantenendo nella competenza pubblica la definizione degli obiettivi culturali e il controllo dei risultati, sono infatti le stesse imprese private che gestiscono la fruizione di musei e siti di interesse artistico a richiedere un sistema di regole certe e un efficace controllo da parte della pubblica amministrazione sulle attività esternalizzate. L’introduzione di modelli imprenditoriali di gestione modifica solo in parte, tuttavia, la sostanza. L’affidamento a soggetti imprenditoriali della gestione dei musei: - non è una panacea di tutte le disfunzioni attuali; - né tanto meno significa una privatizzazione del patrimonio culturale: la critica che si può muovere alle aziende del nostro paese non è quella di voler entrare a tutti i costi nell’arte e nella cultura, ma se mai, di non dedicare abbastanza attenzione a questi settori; - infine neppure può diventare una scusa per trascurare l’esigenza di attrarre risorse aggiuntive a fondo perduto per i beni culturali. Noi scontiamo un divario purtroppo crescente tra nord e sud. Pensate se un grande paese come gli
Stati Uniti avesse Pompei che, dopo il Vaticano, sembra sia il sito turistico, archeologico, culturale più visitato della penisola. Un importante leader europeo mi disse di aver visitato Pompei dieci anni fa e di essere rimasto stupito (per non dire peggio) che nelle vicinanze non esistesse un albergo di qualità, un negozio di tendenza, una grande libreria, una biblioteca. Vorrei aggiungere che quando visito Pompei non rimpiango solo la carenza di un ambiente esterno più accogliente, ma anche l’erbaccia e quant’altro imbratta l’area e i dintorni, nonché un territorio limitrofo che appare abbandonato all’incuria. Non è accettabile tutto questo. Dobbiamo uscire dalla demagogia vecchia e superata della contrapposizione pubblico-privato. Se le istituzioni locali o regionali non sono in grado di tutelare, gestire, valorizzare, promuovere i grandi patrimoni culturali, ben venga una corretta gestione dei privati, sia pure con tutti i controlli necessari. A Maranello ho l’ufficio dentro la fabbrica. Il Lingotto non è più una fabbrica, ma vorrei che lo fosse ancora perché mi piacerebbe avere l’ufficio nella fabbrica. Ciò detto sull’attrazione che provo per le fabbriche, non sono così miope da chiedere di portare solo fabbriche o ciminiere al sud d’Italia. Servizi, turismo attività congressuali sono fattori di sviluppo almeno altrettanto importanti, ma abbiamo bisogno di un sud che sappia valorizzare, promuovere, gestire, utilizzare quegli straordinari patrimoni che sono dislocati dappertutto nel mezzogiorno. Sono andato in viaggio di nozze sulla Sila perché trovavo assurdo che tutti mi consigliassero il Colorado, la Svizzera o l’Austria quando io non ero mai riuscito a visitare la Sila: un luogo straordinario, con un potenziale turistico enorme, ma quasi del tutto abbandonato a se stesso. Quando si entra in un museo come quello di Reggio Calabria dove sono collocate due delle opere più belle ed emozionanti della scultura greca, quali i Bronzi di Riace, si percepisce un museo non grande ma perfettamente curato, quasi fossimo in Svizzera. Si percepisce però anche poca promozione e, quando si esce dal museo, non vi è un’offerta altrettanto adeguata di servizi turistici. Ecco il perché abbiamo bisogno di realizzare un ciclo virtuoso di rapporto tra pubblico e privato. Tre sono le esigenze prioritarie per cui dobbiamo attivarci, se vogliamo essere classe dirigente con un decoroso senso dello stato e del bene comune: - idee chiare nella valorizzazione del patrimonio e
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dei servizi ad esso connessi; - disponibilità all’impegno e alla collaborazione per cambiare uno stato di cose che penalizza l’economia e l’occupazione specie dei giovani; - lungimiranza nell’ investire nella formazione del turismo e nei beni culturali. Non possiamo attendere i turisti cinesi e indiani del prossimo futuro senza una compagnia aerea che sia sana e competitiva.
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Abbiamo bisogno di Stato, ma di uno stato però che compia un passo indietro in economia e uno avanti in infrastrutture materiali e immateriali. Coerenza di comportamento, iniziative civili e molto valide come le vostre di Torino, volontà di reazione, possono fermare il declino. Ognuno di noi nel suo lavoro quotidiano dia il proprio importante contributo in questa giusta direzione.
I protagonisti del mondo dei beni culturali : * i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione
Alain Elkann Presidente Fondazione Museo Egizio, Torino I temi da affrontare nel primo dibattito della Giornata di Studio della Consulta sono due: 1) i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione; 2) le opportunità all’estero che scaturiscono dalla tutela del patrimonio culturale per le imprese italiane e, soprattutto per quelle aziende che si occupano di restauri e grandi eventi. Il fatto che questo dibattito si svolga a Torino mi consente, innanzitutto, di ringraziare molto chi mi ha dato l’opportunità di occuparmi del nostro Museo Egizio, di occuparmi, cioè, di questa novità italiana che è consistita nel creare con i poteri locali, le fondazioni bancarie e lo stato italiano la prima fondazione che gestisce un museo dello stato. Il risultato, per lo meno in termini di visitatori, è stato davvero clamoroso: un aumento molto considerevole delle visite. Raggiungere un milione e duecentomila visitatori in due anni è, per un museo, un traguardo sorprendente; così come i dieci mila visitatori che hanno affollato le nostre sale espositive il giorno di ferragosto 2007. Cifre sorprendenti, in una città che non ha una naturale vocazione ad essere una città della cultura ma, se mai, ha una lunga tradizione - almeno fino a pochi anni fa - di essere una città industriale. Come è stato possibile questo risultato? La prima motivazione va ricercata nel tessuto connettivo che si è creato tra fondazioni bancarie, enti locali, industria e - più in generale - classe dirigente cittadina, che ha permesso a Torino un lavoro di squadra, al di sopra dei diversi schieramenti politici. Un lavoro di squadra cominciato con una regione governata dalla destra e continuato con la sinistra. Non c’è stata una contrapposizione lacerante tra un polo e l’altro. Al contrario si è progressivamente consolidata una unità di idee e quindi i progressi compiuti sono sotto gli occhi di tutti e si sono realizzati più facilmente. Quello che ho notato - e che è importante aggiungere e sottolineare - è la passione civile della borghesia, che non ha cariche istituzionali. Ne abbiamo avuto prove anche recentissime: per il Museo Egizio si sono riunite ieri sera a Palazzo Madama centinaia di famiglie di industriali, avvocati, banchieri, commercianti, persone tutte che svolgono
attività produttive, ma non ricoprono cariche politiche nè sono presidenti di fondazioni. È la società che partecipa a questo fenomeno di Torino. Ricordo un fenomeno del genere negli Stati Uniti: quando la città di New York andava veramente male, molti anni fa. L’allora sindaco di New York aveva dato in affidamento un pezzettino di parco a ognuno dei cittadini della Grande Mela, invitando a coltivarlo, a occupare e vivere uno spicchio di parco. La partecipazione fu grande. Ciò che è successo a Torino è alquanto simile: anche i cittadini, anche la borghesia piemontese hanno partecipato e partecipano fortemente a sostenere il Museo Egizio nella sua evoluzione. Eppure si tratta di persone che non sono direttamente addette ai lavori, ma che sono una forza molto importante di cui tenere veramente conto. Il cambiamento in corso a Torino è stato indubbiamente motivato dalle Olimpiadi; è un successo non di singoli individui, ma complessivo. Un cambiamento di sistema, oserei dire, di un sistema che si estende dal territorio fino al sindaco o alle autorità locali, regionali, statali. Inviterei dunque a riflettere sul ruolo che può svolgere l’assunzione di responsabilità del singolo cittadino, anche e forse soprattutto, per ciò che concerne il patrimonio artistico e culturale. Ho citato come esempio il caso del Museo Egizio, ma analoga considerazione vale per gli Uffizi, i Musei romani o qualsiasi altra collezione d’Italia. Occorre far partecipare i cittadini ai beni culturali che posseggono nella loro città, che si collocano vicino a loro. “Gli Uffizi sono anche vostri”, è uno slogan che ho ascoltato. Qualsiasi museo di rilievo può riavvicinare il cittadino a ciò che è stato prodotto dai suoi antenati e che appartiene a lui, ai suoi figli e ai suoi nipoti. Non è un processo immediato questa sorta di risveglio della borghesia locale, ma dopo aver privilegiato le discussioni sul denaro, sui profitti, sulla internazionalizzazione dei mercati - che sono elementi fondamentali - arriva, poi, anche il momento della passione. La passione per ciò che hanno lasciato in eredità i nostri avi. Sono convinto che ogni cittadino, in ogni luogo, senta prima o poi risvegliarsi un sentimento di affezione alle cose che sono l’orgoglio del proprio
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territorio. Un sentimento da cui anche gli altri vengono contagiati e da cui prenderanno esempio anche i nipoti. Questo processo in Piemonte e a Torino credo si sia messo in moto e sia il collante per l’evoluzione, che ha avuto e sta vivendo la nostra città, che sembra dimostrare di saper diventare non una città turistica-culturale anziché industriale, ma di rimanere una grande città industriale, che ha aperto una finestra nuova, cioè che si è resa conto di ciò che aveva e lo sta, giorno dopo giorno, valorizzando in modo entusiasmante. Voglio dire che anche quando l’esempio viene dato dall’alto, occorre poi risvegliare tutti gli altri; ciò è possibile perché negli italiani c’è comunque passione, orgoglio e amore per le cose che li circondano. Occorre però che ci sia chi li stimola con proposte concrete, che mettano in movimento l’orgoglio spesso nascosto. È il tema del primo dibattito sui nuovi pubblici dell’arte e sulle nuove forme di comunicazione. La mia esperienza del Museo Egizio è stata quella che comunicando diversamente, ripulendo certe
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abitudini obsolete si può innovare non poco. Per noi la prima novità è stata mettere una guardia giurata nell’atrio. Tutti parlano dello Statuario di Dante Ferretti, della spettacolarità degli oggetti esposti; certamente questo ha aiutato e dato un volto nuovo, ma quando siamo giunti al punto della presenza dei vucumprà che vendevano borsette nell’atrio, della gente che si drogava nei gabinetti, della mancanza di indicazioni su orari e giorni di chiusura (salvo un pezzettino di carta incollato sulla porta) il primo passo doveroso era ripulire. Oggi c’è una grande placca d’ottone bilingue con orari, numeri di telefono e-mail e fax, una guardia giurata impedisce di vendere nell’atrio e anche la sicurezza è cambiata in meglio. Ciò ha mutato moltissimo la percezione del cittadino verso il nostro museo. Saranno aspetti poco artistici, poco clamorosi: ma è la sicurezza, insieme alla pulizia che offrono il senso di tranquillità a chi visita il museo. Sono aspetti molto importanti, ma di solito si tace, perché non sono “cose di cultura”.
I protagonisti del mondo dei beni culturali : * i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione
Cristina Acidini Luchinat Soprintendente, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Firenze Le mie riflessioni nascono da un osservatorio del tutto particolare - e direi anche privilegiato - quale la Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino, retta fino a un anno fa dal collega e amico professor Antonio Paolucci e che da poco tempo è stata a me affidata. La Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino annovera musei e luoghi d’arte a decine, per la precisione 18 collezioni. Può contare su dipendenti a centinaia, oltre 700 persone. Annovera oggetti a migliaia, molte e molte migliaia certamente, anche se con caratteristiche così differenti che sarebbe di scarsa utilità indicare una cifra complessiva. Si tratta dunque di un sistema che comprende una parte soltanto del complesso museale territoriale di Firenze, ma che però, per la sua rilevanza, ne determina la fisionomia per quanto concerne l’offerta internazionale. Per citare un esempio recentissimo, il sindaco Domenici nell’incontro che ha avuto con il ministro Padoa Schioppa ha indicato tra le priorità della città di Firenze il potenziamento del Polo Museale, ai fini sia della valorizzazione di arte e cultura, sia del restauro dei capolavori. Il Polo Museale nel suo complesso annovera, infatti, musei di rilevantissima notorietà internazionale quali la Galleria degli Uffizi e la Galleria dell’Accademia; ma anche luoghi minori quali Cenacoli, parchi, ville. Tutto questo insieme accoglie oltre 5 milioni di visitatori all’anno ed il trend è in leggero aumento se si osservano i primi nove mesi del 2007, in cui l’incremento dei visitatori è stato di circa il 2%. Sottolineo che il Polo Museale Fiorentino non è una eccezione, ma si inserisce in una tendenza che è comune anche alle altre realtà analoghe di Roma, Napoli, Venezia, che i colleghi Soprintendenti potranno illustrare con maggiore competenza. Così come in termini analoghi alle altre Soprintendenze Speciali, il Polo Fiorentino sviluppa politiche di attrazione specifiche: tenendo conto, ad esempio, che alcuni musei (per noi in particolar modo gli Uffizi e la Galleria dell’Accademia) sono al limite della sostenibilità per ciò che attiene all’impatto dei visitatori. Cioè al limite della ricettività fisica. La sfida è rivolta ad incrementare l’accoglienza
degli altri musei, che a torto sono ritenuti minori solo perché, pur essendo concentrazioni collezionistiche formidabili (per di più inserite in un ambiente architettonico di qualità) sono vittime della concorrenza interna che la stessa città di Firenze con le sue molteplici offerte determina, penalizzando chi non ha uno status di museo maggiore. Le modalità volte ad attrarre il pubblico sono molteplici, a partire dalla valorizzazione delle acquisizioni. La Soprintendenza per il Polo Museale - a Firenze come altrove - ha infatti una sua forma di autonomia amministrativa che consente di acquistare opere d’arte giudicate pertinenti alle collezioni e, quindi, di presentarle al pubblico in anteprima, arricchendo al tempo stesso l’offerta delle collezioni permanenti e puntando sugli ampliamenti. I nuovi Uffizi sono certamente fra le attese di tali ampliamenti. Come tutti sanno, l’attesa è riuscita ormai a produrre una sorta di appuntamento futuro certo, che richiederà ancora alcuni anni (ma non molti) a conclusione di una gestazione abbastanza problematica e protrattasi fin troppo a lungo nel tempo. Altri ampliamenti sono stati gradualmente realizzati all’interno del Museo degli Argenti e nella Villa di Poggio a Caiano. Aperture di specifici settori collezionistici sono state inoltre rese possibili e gli eventi espositivi che le accompagnano sono sempre un’occasione di attrazione di pubblico e spesso di pubblico nuovo. Ma soprattutto - e non pretendo certo di dire cosa originale - lo strumento con il quale si rinnova l’attenzione del pubblico sia locale, sia di provenienza straniera, è costituito dalle mostre temporanee. In questo campo il Polo Fiorentino produce mostre ed è anche “prestatore” per mostre che avvengono altrove. È prestatore di opere chiave: rammento soltanto la Annunciazione di Leonardo da Vinci che è stata il nostro ultimo e grande ambasciatore culturale a Tokyo nella primavera scorsa. Così come il Polo è protagonista artistico che riesce a inviare opere all’estero, per mostre che si svolgono in località anche meno convenzionali: penso a una mostra realizzata con la nostra collaborazione, anni
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fa, a Memphis; penso alle opere d’arte prestate per esposizioni alla Polonia prima della caduta del muro di Berlino e, successivamente, alla Venere di Tiziano insieme alla Fornarina di Raffaello presentate in una mostra breve, ma di eccezionale successo, a Palazzo Reale di Varsavia. Sono in corso di definizione altri progetti di esposizione, in località importanti d’Europa e del mondo. Sottolineo questa attività organizzativa perché ha una forte incidenza sul piano culturale, portando all’attenzione temi artistici e autori delle collezioni permanenti, che attirano pubblico nuovo e fanno fiorire anche attività che poi trovano sostegno di imprese o, comunque, attenzione nell’ambito privato. L’interazione tra pubblico - vale a dire i musei statali dipendenti dal Ministero per i Beni e Attività Culturali - e privato (rappresentato da una sfaccettata molteplicità di soggetti come le fondazioni bancarie, in particolare l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze che è tradizionalmente vicino al Polo Museale) è, per Firenze, una consolidata tradizione. Ma anche altri soggetti partecipano come co-promotori alle nostre attività di accoglienza oppure di valorizzazione, altri privati sono stati e sono vicinissimi al nostro sistema. Penso agli Amici degli Uffizi, agli Amici di Boboli, a singoli sponsor per interventi mirati, alle assicurazioni che hanno con noi un rapporto economico fruttuoso e quindi possono anche destinare a importanti sponsorizzazioni una parte dei proventi che ne derivano. In sintesi l’interazione tra pubblico e privato è una delle caratteristiche più positive e più consolidate di Firenze e ritengo si possa ampliare ulteriormente coinvolgendo altre componenti della società civile. È una sinergia che si ricollega alla sfida dei nuovi pubblici e delle nuove forme di comunicazione. Tutti abbiamo collegato l’espandersi della rete internet con la possibilità di raggiungere, con i nostri messaggi, i punti più remoti del paese, gli utenti estranei alle nostre tradizioni. Però ci siamo rapidamente resi conto che i messaggi nella rete producono effetti solo in quanto ci sia qualcuno che li vada a cercare. Non solo: essi non raggiungono indiscriminatamente chiunque, ma occorre un visitatore virtuale che li sappia ricercare e un motore di ricerca che immetta una parola chiave capace di destare curiosità e interesse. La nostra sfida consiste quindi nell’indurre curiosità e interesse affinché le informazioni - che le
nuove tecnologie rendono così immediate e così ricche - si incontrino con un desiderio da parte dei potenziali nuovi pubblici. Nuovi pubblici che mi sentirei di individuare soprattutto con riferimento ad alcune fasce di età. I nostri concittadini infatti, una volta superato il crinale dell’età scolare, spesso si allontanano dal mondo della cultura che fa riferimento ai musei. E vengono recuperati solo nella terza età. Vi è una ampia fascia di giovani e di adulti che, essendo nel pieno dell’ attività lavorativa e produttiva - che forse è la stagione più impegnata della vita - si allontana in percentuale rilevante dalla fruizione del sistema museale, dalla visita alle collezioni permanenti innanzitutto, ma anche dalla presenza alle mostre. L’altro orizzonte al quale guardare con attenzione è quello dei nuovi paesi che si affacciano al turismo internazionale. Per esempio ho acquisito alcuni dati relativi all’affluenza di croati e sloveni a Firenze: sono interessanti, anche se in negativo. In quanto non pare che questi nostri vicini di casa vengano nella città del Giglio in quanto spinti dal desiderio di avvicinarsi ai beni culturali, ma piuttosto a seguito di una lieta scoperta di una nuova e geograficamente prossima meta per il tempo libero, avvenuta per lo più via internet. Guardiamo inoltre al pubblico delle crociere, che arriva in modo massiccio a Firenze dalla costa livornese e viene instradato dai tour operator. Non sappiamo abbastanza del nostro pubblico. L’interessamento dei privati e delle imprese, già così vivo nella valorizzazione dei beni culturali, potrebbe aiutarci ad approfondire, ad analizzare e a scorporare i dati in modo da comprendere meglio i “desiderata” dei nuovi visitatori, così come a valutare con attenzione l’impatto non tanto dei mezzi di comunicazione, quanto dei contenuti relativi ai beni culturali in essi riversati, che spesso suscitano in noi - storici dell’arte, curatori, responsabili dei musei - non poche perplessità e qualche irritazione. Riflettiamo, per esempio, sul potere di certi eventi letterari e cinematografici quali il Codice Da Vinci. Lo scrittore Dan Brown e il regista Ron Howard hanno sottoposto a radicali alterazioni tre luoghi: il Louvre, il Cenacolo delle Grazie a Milano, la Cappella scozzese di Rosslyn. Il Museo del Louvre ha reagito facendo propria questa opportunità a creando le visite guidate “alla Dan Brown” al proprio interno, durante le quali sono illustrati i luoghi e i quadri presi in considerazione
nel romanzo. Il Cenacolo delle Grazie a Milano si è limitato a prendere atto della maggiore affluenza di visitatori, mantenendo modalità d’accesso sostanzialmente invariate. La Cappella di Rosslyn in Scozia è stata sopraffatta e tutto l’intorno sembra sia stato sconvolto, non esistendo in loco un’adeguata accoglienza e ricettività turistica. Cortona, splendido paese della Toscana vicino ad Arezzo, ha conosciuto una stagione che potremmo definire di nuovo rinascimento delle attenzioni internazionali, perché fatta oggetto dei libri di Frances Meyes. Vi sono veri e propri pellegrinaggi di turisti americani (perché i libri di questo autore hanno successo principalmente negli Stati Uniti) che vanno a Cortona per vedere la casa dove Frances Meyes abita, ma, al tempo stesso, visitano anche la piazza del Comune, il museo, la chiesa e altri siti di interesse artistico o paesaggistico. Dobbiamo perciò includere nelle possibilità comunicative dei beni culturali, anche episodi che non appartengono alla sfera della promozione scientificamente qualificata e storicamente approfondita. Soprattutto auspico che si studino, come è già avvenuto in passato con alcune campagne televisive promosse dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, forme di comunicazione e valorizzazione del nostro patrimonio che raggiungano fasce di pubblico che nei musei non vengono, ma il telegiornale lo vedono, perché la televisione resta pur sempre il mezzo di comunicazione più popolare nei riguardi del pubblico ancora da acquisire al mondo dei beni culturali. In termini generali si può infatti dire che il maggior impatto comunicativo nei confronti di coloro che fino a ieri avevano una scarsa consuetudine con l’arte e che solo da poco la stanno scoprendo - e, forse potrebbero diventarne anche appassionati lo ha e lo può avere sempre di più la televisione o l’abbinamento - di prevedibile prossima diffusione - di internet alla televisione. È indubbio che ancora oggi il maggior effetto di traino sul pubblico attualmente o potenzialmente interessato all’arte lo esercita un telegiornale nazionale o una trasmissione in fascia oraria buona quando offre una, sia pur breve, illustrazione di una mostra o dell’apertura di nuove sale in un museo prestigioso. Si parla spesso di nuovi pubblici dell’arte, per distinguerli da quello che viene considerato il pubblico tradizionale di musei, collezioni e mostre.
Peccato che in Italia si sappia poco in generale del pubblico - nuovo o tradizionale - che frequenta i luoghi dell’arte, dal momento che lo si è sempre scarsamente analizzato, quantomeno con criteri scientificamente attendibili. Se, dunque, che cosa si intenda come pubblico tradizionale è un quasi mistero da un punto di vista scientifico, di contro ciò è ben chiaro nell’immaginario collettivo e anche negli stereotipi non facili da modificare, secondo i quali il pubblico tradizionale dei musei viene visto come composto da visitatori di elevata cultura, con studi classici come retroterra scolastico e con una qualche propensione alla pedanteria dello studioso. Nuovi pubblici dell’arte è, quindi, una definizione felice, in quanto da un lato ribalta l’ingiusta immagine troppo seriosa del fruitore di beni culturali e dall’altro perché allo stesso tempo fa intuire due fenomeni di questi ultimi decenni: -la crescita imponente del numero di persone che visitano i luoghi dell’arte, siano essi templi, monumenti, collezioni o mostre; -la diversità di gran parte di questi visitatori: sia perché si accostano per le prime volte ai capolavori artistici; oppure perché provengono da Paesi lontani dalla nostra tradizione europea occidentale e ben poco sanno della mitologia greco-romana o della storia sacra giudaico-cristiana che influenzano gran parte del nostro patrimonio culturale, specie del passato. Affermare che la globalizzazione investe anche il patrimonio culturale può sembrare una ovvietà, ma non è soltanto uno slogan. La globalizzazione del viaggio culturale è una realtà evidente. E ciò, senza dubbio, è una delle cause del grande afflusso di pubblici nuovi. Ma a questo proposito dovremmo riflettere molto su una caratteristica: la globalizzazione del viaggio culturale è una globalizzazione fragile, che sarebbe errato considerare acquisita per sempre, quasi fosse una rendita di posizione. L’undici settembre insegna. Gli attentati alle Torri Gemelle hanno per qualche periodo gravemente danneggiato la globalizzazione fragile del viaggio culturale. Non l’hanno, tuttavia, interrotta. Si è anzi constatato, allora, che esisteva una dinamica, per così dire sotto traccia, che anche in quel drammatico periodo ha alimentato il flusso del pubblico internazionale, sia pure ridotto. Si può ricavare da quanto è avvenuto una prima considerazione: l’afflusso dei nuovi pubblici internazionali può subire flessioni a ragione di
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turbolenze dello scenario mondiale o locale, ma i visitatori esteri vengono e continueranno a venire. Ciò che non conosciamo ancora a sufficienza, invece, è che cosa chiedano per poter cogliere il senso di ciò che vedono, e quali siano le loro esigenze per capire il patrimonio culturale dei musei. In altre parole si tratta dell’interrogativo su come comunicare loro più efficacemente il patrimonio culturale di un contesto (il museo o la collezione) o di una singola opera d’arte. Tentativi interessanti sono stati compiuti o si stanno realizzando: ad esempio a Firenze in accordo con le associazioni delle guide turistiche; non dimentichiamo, infatti, che la guida turistica è il primo interfaccia tra il visitatore giapponese o russo o comunque di altra cultura e l’arte contenuta nei nostri musei. Non solo: la guida turistica, in base alla propria esperienza diretta e pratica, conosce meglio di altri le caratteristiche e le reazioni dei visitatori di altra cultura, non si scandalizza né stupisce di fronte a domande di una ingenuità o superficialità che a noi potrebbe apparire clamorosa. Nel tempo, questo impegno profuso dalle guide turistiche del patrimonio artistico fiorentino che si potrebbe definire quasi come un impegno alla educazione culturale di base del visitatore - ha dato e sta dando frutti interessanti. Nel caso specifico sono occorsi dieci anni. Grazie infatti anche a quel misterioso, ma concretissimo, passaparola che esiste fra i visitatori provenienti da uno stesso paese, oggi è sempre più frequente osservare gruppi di giapponesi che si recano alla Galleria degli Uffizi con una specifica preparazione sui temi religiosi dell’arte, quanto meno sufficiente a dare voce al mutismo dell’opera d’arte e a leggere dignitosamente un quadro del medio-evo o dell’epoca barocca. Generare nuovi pubblici dell’arte è possibile: a titolo di esemplificazione quasi banale vorrei sottolineare tre target nei cui confronti si sta già facendo molto e che presentano un diverso livello di difficoltà per essere conquistati. L’obiettivo più difficile - come ho già ricordato - è attrarre nuovi pubblici dell’arte nelle fasce d’età che coprono i 40 anni che intercorrono tra l’inizio e la fine di una carriera di lavoro. Per attrarre queste persone si può far leva solo sul loro tempo libero, che è limitato ai fine-settimana e ai periodi di ferie (natalizie, pasquali ed estive), peraltro spesso già ipotecati da altri impegni e progetti alternativi. Per di più si tratta di un pubblico che i musei della
propria città - e non solo - li ha visitati negli anni della scuola e tende quindi ad affermare “l’ho già visto” come alibi per mascherare il proprio scarso interesse, che apparirebbe altrimenti politicamente scorretto dichiarare esplicitamente. La difficoltà è alquanto minore quando il nuovo pubblico da interessare ai luoghi dell’arte è costituito da seniores, cioè da quelle fasce di anziani-giovani che sono ormai in pensione, hanno una certa curiosità a ricercare interessi nuovi e molteplici, godono di discreto reddito, ottima salute e, non di rado, soddisfacente livello culturale. E che, soprattutto, nel caso dei seniores, possono essere coinvolti tramite strutture organizzate come le Università della Terza Età o associazioni diverse. Infine nuovo pubblico per definizione sono i giovani e giovanissimi: l’esperienza maturata a Firenze, ma anche altrove, sottolinea un risposta che non esiterei a definire straordinaria da parte di allievi e insegnanti delle scuole elementari; meno entusiasmante, ma comunque sempre significativa, da parte degli studenti della scuola media. Si deve rilevare a questo proposito che è stato anche molto notevole e meritevole l’impegno rivolto alla didattica del patrimonio culturale manifestato negli anni da musei, soprintendenze, assessorati: disponiamo di una vera e propria ricchezza di materiale didattico e metodologie attive per l’insegnamento e l’apprendimento. Il punto debole consiste nel fatto che è carente la rete degli scambi di informazione e del materiale per l’apprendimento. Carente sia per quanto riguarda il fare sistema tra i diversi attori del mondo dei beni culturali, sia tra questi e le istituzioni scolastiche. Il giorno in cui si riuscisse a fare sistema nella produzione e nella fruizione di quanto è stato realizzato avendo come fine l’attività didattica, l’Italia potrebbe raggiungere una posizione di leadership, forse al pari di quanto è già avvenuto o sta avvenendo nel campo del restauro o della catalogazione. Se mi fosse permesso un suggerimento, direi che una organizzazione come Consulta, snella e ricca di eccellenti capacità manageriali, potrebbe forse aiutare molto le istituzioni dei beni culturali e della scuola a fare sistema nella attività didattica relativa al patrimonio culturale del paese e nella diffusione del prezioso materiale esistente. A cominciare dal Piemonte, in cui Consulta opera, ma - spero - non solo in Piemonte.
Vorrei concludere con una nota al tempo stesso di ottimismo e di realismo. In Italia si è fatto moltissimo per avvicinare i beni culturali al pubblico, alla gente. Una tendenza che ha coinvolto tutte le istituzioni operanti nell’ambito dei beni culturali: musei statali, musei comunali o provinciali, musei diocesani, quasi senza eccezione alcuna. Una tendenza rispettosa del pubblico, cui interessano le opere d’arte e poco importa, invece, distinguere i musei in base alla diversa appartenenza proprietaria. E anche le opere ecclesiali, le gallerie, i centri espositivi si sono pienamente inseriti in tale tendenza. Si sono creati gli abbonamenti ai musei di un’intera area metropolitana e di un’intera regione, come nel caso di Torino e del Piemonte. Si sono inventati gli abbinamenti, come nel caso di Boboli e del Museo degli Argenti a Firenze. Si sono moltiplicate le mostre, spesso inserite negli stessi musei che ospitano collezioni permanenti, come è avvenuto non di rado nel caso di nuove acquisizioni, in modo da offrire al visitatore l’occasione di acquisire la conoscenza delle prime e delle seconde, spesso con un unico biglietto di ingresso. Si è riusciti anche in un’impresa eccezionale: quella di avvicinare il restauro alla gente. Oggi una mostra sui restauri della Torre di Pisa o di Villa della Regina a Torino attira un numero importante di visitatori, mentre in passato interessava solo specialisti e studiosi. Ed è attraente anche per un pubblico internazionale, come dimostrano le esposizioni di restauro italiano organizzate all’estero, dagli Usa, al Giappone, alla Cina.
Si capisce allora perché all’Italia sia stato assegnato il compito di svolgere il ruolo che è tipico dei caschi blu dell’Onu proprio laddove vi siano emergenze di patrimonio artistico da salvare, come in Afghanistan o in altri teatri di guerra. Ovviamente ottimismo e realismo servono a far capire anche che molto resta da fare. Per citare proprio il caso del restauro, è indubbio che l’Italia e le sue istituzioni a ciò preposte godono di prestigio internazionale. L’Istituto Centrale del Restauro, l’Opificio delle Pietre Dure, il Laboratorio della Soprintendenza di Venezia e, in prospettiva la Venaria Reale sono realtà leader. Sono tuttavia molto validi anche alcuni atelier privati. Ciò detto, con maggiore flessibilità e anche con qualche pizzico di aggressività in più, si potrebbe concretizzare e tradurre in business, più efficacemente, il prestigio internazionale. Permane infatti una notevole resistenza ad associarsi e una certa passività burocratica di fronte al “si è sempre fatto così”, per cui quando uno stato estero richiede un intervento al governo italiano, la richiesta viene solitamente ribaltata sull’ Istituto Centrale del Restauro; mentre quando un’istituzione estera cerca direttamente la specializzazione corrispondente alle sue esigenze di restauro, l’interlocutore diventa l’Opificio. Ciò che manca ancora è, in sintesi, un canale italiano di acquisizione del business. E forse anche una rete italiana di imprese di restauro minori che accompagnino, integrino e siano di complemento all’attività internazionale delle grandi istituzioni pubbliche o semi-pubbliche prima citate.
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I protagonisti del mondo dei beni culturali : * i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione
Claudio Massimo Strinati Soprintendente, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Roma Il mio compito è dare risposte o, quantomeno, indicazioni relativamente al tema dei nuovi pubblici dell’arte e della comunicazione appropriata per dialogare con chi ha minore consuetudine con musei e patrimonio culturale. Ovviamente cercherò di assolvere a questo compito prendendo spunto dall’esperienza maturata a Roma e dalle attività culturali che la Soprintendenza Speciale sviluppa a Roma. Il caso di Roma induce a riflettere, quando sia paragonato alla situazione generale italiana o anche alla situazione torinese, dove da vent’anni opera la Consulta. Oppure, di contro, quando il confronto avvenga con Pompei, sito unico al mondo, oggi tutelato con crescente efficacia, ma inserito in un contesto disastroso in termini di approccio al visitatore e di accoglienza; perché nel quadro generale del nostro paese la situazione dei beni culturali a Roma per certi aspetti è, in qualche modo, se non un modello, quanto meno un esempio vivido di una positiva convergenza di fattori. Chi conosce, frequenta o vive il mondo del patrimonio culturale a Roma, nota effettivamente un dinamismo che a me non è capitato di osservare facilmente in altri luoghi. Per altri versi, Roma dal punto di vista della politica culturale, dell’approccio tra cittadini, visitatori e patrimonio, riassume in sé quasi tutte le tendenze, innovative e non, riscontrabili nel nostro paese. Mi spiego: chi esce da Roma per recarsi verso il nord, verso quella che per Roma è sempre stata la campagna, oggi compresa nella provincia di Viterbo, osserva un contesto rasserenante da un punto di vista ambientale, culturale, amministrativo. Trova una campagna ordinata e coltivata. Trova una vigilanza soddisfacente nell’impedire gli abusivismi edilizi e gli arbitri sul territorio. Apprezza l’ordine e la gradevolezza: elementi questi che in qualche modo sono connotati del nord del nostro Paese. Non a caso Viterbo, un tempo, è stata uno dei grandi siti della storia politica e culturale italiana. Se poi si permane nel centro della città, è immediato riscontrare la caratteristica per antonomasia di Roma: la imponente presenza, nella città vivente, della città antica, del passato. Una tradizione vissuta dalla cittadinanza con un
misto singolare di ammirazione, di indifferenza, di coinvolgimento. E, al tempo stesso, di estraneità. Dimensioni che convivono e, in qualche modo, nel corso del tempo hanno anche garantito forme di conservazione del patrimonio stesso. Chi si reca verso il sud seguendo l’autostrada o le vie consolari come la Prenestina, la Casilina che si dirigono verso mezzogiorno, si trova, invece, in un ambiente piuttosto degradato, dove emergono, scarsamente contrastati, abusivismo, disordine, le cartacce sparpagliate per le città, di cui parlava il presidente Montezemolo: una esplicita ammissione, insomma, di scarsa vigilanza delle amministrazioni e di non grande amore al proprio territorio da parte dei cittadini stessi. Elementi che purtroppo confermano il luogo comune che ognuno di noi può avere in mente del sud del nostro paese. Ho compiuto questa digressione per dimostrare che, in effetti, nella situazione culturale e dei beni culturali di Roma convivono un po’ tutte le tendenze positive e meno positive. C’è una istanza evidentissima volta a recuperare una dimensione collaborativa nel rapporto tra la pubblica amministrazione, le imprese e gli ambienti vivi e produttivi, che però non riescono a fare sistema, come è avvenuto nel caso di Consulta, perché sono molto disuniti tra loro. Vi è, a Roma, un immenso amore per la cultura, un turismo poderoso e fortemente incrementato dagli amministratori locali e nazionali, che però è massimamente orientato verso obiettivi tradizionali e costanti, per cui i visitatori aumentano laddove erano sempre stati numerosi e ciò non avviene riguardo ai siti che potrebbero - e dovrebbero essere ulteriormente apprezzati. Esiste una indubbia tendenza a vivere sugli allori, consentendo peraltro - quasi fosse una conseguenza ineluttabile - che i siti più valorizzati siano anche quelli a maggior rischio di degrado. Porto un esempio clamoroso: una recente pubblicazione relativa ad una statistica sulle nuove meraviglie del mondo (o come tali giudicate da una cosiddetta opinione pubblica internazionale) ha indicato - per Roma e l’Italia - il Colosseo. Interrogato da qualche amico, collega e giornalista,
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mi sono lasciato sfuggire che era una valutazione assolutamente assurda: il Colosseo ha indubbio valore storico e ingegneristico, nonché un eccezionale impatto visivo, ma non è certo un capolavoro artistico. La tesi irriverente che ho sostenuto ha destato naturalmente, a sua volta, la ripulsa di molti colleghi. Resto tuttavia fedele alla convinzione che il Colosseo sia, da un punto di vista turistico, una preziosa macchina per fare soldi, ma per molto tempo è stato visitato gratuitamente. Successivamente gli amministratori hanno considerato che la gratuità fosse un enorme spreco: lo si è classificato, allora, come museo e in quanto tale è diventato congruente il biglietto d’ingresso, perché un museo ha diritto a richiedere il biglietto d’ingresso. D’altronde qualunque tour operator, qualunque promotore di attività turistiche, non può esimersi dal condurre le persone in visita al Colosseo: le code dei visitatori in fila sono sempre imponenti e costituite quasi esclusivamente da turisti. Sulla base, infatti, di una modesta e artigianale statistica da me compiuta - dilettantistica e naturalmente non scientifica - posso sostenere la tesi che su 100 visitatori del Colosseo, 98 sono turisti, per lo più stranieri: gli italiani sono pochi e i romani, per antica tradizione, al Colosseo non vanno. Ciò detto, è una realtà che il Colosseo sia fortemente degradato: il fatto di essere un polo turistico di così potente attrazione non induce tuttavia l’amministrazione a una cura particolare del monumento. Anzi avviene il contrario, perché “la gente ci viene comunque”. La superficie esterna del monumento è in una condizione di sporcizia e di trascuratezza esemplari, lo spazio circostante nel quale approdano i turisti è un bazar. Alain Elkann ricordava come sia stata sufficiente una guardia giurata che controllasse l’atrio del Museo Egizio per impedire attività fastidiose per il pubblico dei visitatori e illecite per chi le svolge. Intorno al Colosseo, di contro, siamo giunti al comico: alla moda di farsi fotografare con i finti gladiatori. È cosa esilarante osservare come ciò si svolga: con la reciproca presa in giro del gladiatore al turista e del turista al gladiatore, un gioco divertente, ma indubbiamente squalificante, che si può guardare con occhio benevolo e sorridente, ma è tuttavia sintomatico di uno strano connubio tra polarizzazione turistica di grandi numeri e indifferenza - se non addirittura accanimento - nella trascuratezza. Si pensi che - anche per impedire che il pubblico entri senza pagare - i fornici a
livello del piano stradale sono tutt’ora chiusi con una struttura di tubi “Innocenti” che danno luogo a una specie di griglia, che sarebbe disdicevole all’ingresso di un supermercato o di un garage, ma non appare esserlo al Colosseo. Uscire dalla demagogia del rapporto pubblicoprivato è cosa sacrosanta. L’attività della Consulta mi sembra dimostri nei fatti quanto ciò sia vero e quanto sia fondato il principio in base a cui occorre uscire dalla dimensione della sponsorizzazione per entrare in quella del lavorare insieme. La Consulta funziona perché gli imprenditori agiscono e sentono proprio quel patrimonio su cui vanno a operare, che valorizzano, valorizzando al medesimo tempo se stessi e la città. Per riprendere la citazione di Marco Aurelio, è importante la soddisfazione di incidere sostanzialmente su fenomeni importanti della nostra vita quali la cultura, la conoscenza e l’amore del bello. Però occorre un presupposto che scarseggia, per esempio, in contesti come Roma e come tutto il sud dell’Italia: cioè il lavoro. È cosa ottima che chi lavora e produce guardi verso la dimensione culturale e introduca anche in quella una spinta produttiva, perché la valorizzazione del patrimonio può portare sviluppo e opportunità di lavoro, senza peraltro sopravvalutarne l’impatto, che è crescente, ma comporta tempi piuttosto lunghi. E, comunque, non può compensare a breve termine situazioni di crisi del sistema produttivo, manifatturiero o commerciale, di un determinato territorio, né quanto a reddito prodotto, né quanto a posti di lavoro. Dico ciò perché talvolta percepisco molta leggerezza nell’enfatizzare in modo esagerato le virtù occupazionali dei beni culturali. Si consideri che nel campo dei beni culturali, a livello istituzionale pubblico, si verifica un fenomeno sconcertante. I giovani dotati degli elementi-base per poter operare sul patrimonio culturale, cioè laurea e formazione specialistica, non trovano lavoro perché lo stato non offre più lavoro stabile a nessuno. In un certo senso si va verso l’implosione del sistema pubblico dei beni culturali. È il vero problema, perché noi stessi amministratori della cosa pubblica non siamo in grado di attivare le forze lavorative che potenzialmente esistono, che sarebbero più che mai necessarie, ma che, di fatto, non hanno sbocchi professionali. Su questo punto la situazione romana è uno specchio, una cartina di tornasole emblematica:
uno stimolo per noi a individuare davvero il nuovo pubblico che non sia soltanto quello incanalato dall’agenzia turistica, che ha un interesse solo effimero e modesto per i beni culturali. Il nuovo pubblico dell’arte di cui sentiamo il bisogno è molto semplicemente costituito da quelle persone che hanno maturato un interesse per i beni culturali, mentre fino a qualche tempo fa non se ne curavano affatto, e che riconoscono che il loro “nuovo” interesse è stato suscitato anche da un certo tipo di lavoro e di comunicazione che i responsabili di musei e beni culturali hanno posto in atto. Il concetto di nuovi pubblici dell’arte rende bene l’idea di una attenzione crescente verso i beni e le attività culturali, ma è anche complicato, perché richiede articolate distinzioni tra le diverse tipologie di visitatori nuovi, che consideriamo pubblico non tradizionale. Perciò, più semplicemente, preferisco riferirmi al pubblico dell’arte tout court. Un pubblico che aumenta e che proprio per questa ragione conta una notevole percentuale di persone che fino a ieri si erano accostate poco o nulla ai tesori dell’arte e che oggi, invece, visitano con interesse musei, monumenti, mostre. Direi di più: li visitano con piacere, il che fa la differenza. Un pubblico che cresce, ripeto, perché questa è la tendenza innegabile che caratterizza gli ultimi decenni, ma con non pochi paradossi. È un paradosso, ad esempio, che in tempi recenti si stia assistendo ad un marcato aumento numerico del pubblico dell’arte in regioni come la Sicilia e la Campania, mentre meno effervescente appare la crescita in altre regioni, specie del Nord Italia: la Lombardia, per citarne una sola. Non è un problema né di latitudine, né di benessere. La Liguria di 20 anni fa godeva di un discreto e piuttosto diffuso benessere, ma dal punto di vista della valorizzazione del patrimonio artistico appariva culturalmente poco attiva. Oggi, di contro, grazie ad una molto importante attività di restauri, favorita dalle Colombiadi del decennio scorso e ancor più da “Genova 2004, Capitale Europea della Cultura”, appare molto viva e vivace. Non solo per ciò che concerne il capoluogo genovese. Genova ha avuto certamente una funzione propulsiva, ma l’ effetto vivacità culturale si sta diffondendo all’intera regione. L’attenzione della gente comune verso i beni culturali - non solo, cioè, degli intellettuali, degli studiosi, degli addetti ai lavori - è il terreno di coltura della vivacità culturale di un territorio. Essa cresce
soprattutto laddove i cittadini percepiscono che vi è un impegno reale di soggetti privati, pubblici, imprese, banche per il recupero e la valorizzazione del patrimonio artistico. Lo stesso fenomeno lo osservo a Roma. Roma, sia chiaro, è un caso particolare, come lo sono Firenze e Venezia, città, cioè, con una ricchezza di storia, tesori artistici, paesaggio, tali da avere sempre una crescita del pubblico dell’arte. Ciò premesso, osserviamo il caso del Vittoriano: senza dubbio emblematico. L’Altare della Patria, la Tomba del Milite Ignoto, da sempre hanno costituito un monumento insigne e in certo senso “sacro” del panorama capitolino. Amato dai più : in primis dai turisti stranieri, detestato da altri. Ma fino a pochi anni fa, per tutti, era un monumento e nulla più. Poi vi è stata l’apertura diurna della cancellata, che ha permesso ai visitatori di viverlo, di farlo proprio. Successivamente si sono organizzate al suo interno dapprima piccole mostre e, poi, prestigiose esposizioni. La gente ha così potuto conoscere che cosa vi fosse all’interno di quella enorme costruzione, di quell’edificio che 30 anni fa con qualche disprezzo veniva definito “la macchina da scrivere”. E ne ha apprezzato non solo le mostre, ma anche il fascino e l’eleganza architettonica delle strutture interne. In sintesi, il Vittoriano è oggi divenuto un polo di attrazione, che si potenzia vicendevolmente con l’altro polo attrattivo, le Scuderie Papali, ubicate a poche centinaia di metri dall’Altare della Patria. Se il Vittoriano ha un secolo di esistenza, le Scuderie Papali al Quirinale di anni ne hanno molti di più, ma né il primo, né le seconde erano - fino agli anni novanta - poli di attrazione culturale. Lo sono divenuti quando sono divenuti fruibili dal pubblico e animati da eventi artistici ed esposizioni di grande rilievo. Voglio dire, in altri termini, che la grande novità di Roma negli ultimi quindici anni, dal punto di vista dei beni culturali, è stato l’impegno delle istituzioni, delle soprintendenze, dei privati (anche se in misura minore questi ultimi, eccezione fatta per le fondazioni bancarie) per incanalare il pubblico italiano e straniero verso le manifestazioni d’arte, il che ha consentito di affiancare ai grandi poli, da sempre attrattivi, numerose altre luci che brillano ormai di energia propria. E che vicendevolmente se la scambiano, cioè si rafforzano a vicenda. In precedenza ho citato la Lombardia come regione in cui vi è una minore effervescenza di crescita di pubblico dell’arte. Desidero però correggermi,
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citando il caso di Mantova. Mantova, come altre città che non sono lombarde, quali Verona e Ferrara, ha perfettamente compreso che i beni culturali sono una fondamentale risorsa per la promozione - anche economica - del proprio territorio. Queste città hanno creato un indotto imprenditoriale che, da un lato, sviluppa tale promozione sul territorio stesso, con importanti mostre ed eventi, ma che, d’altro lato, promuove anche il proprio territorio all’estero, sempre attraverso l’organizzazione di eventi qualificati e di livello alto in altri Paesi. Lo sviluppo trainato dai beni culturali è dunque diventato un fenomeno (sia pur abbastanza recente) che caratterizza non solo le grandi capitali dell’arte, ma anche una medio-piccola città quale Treviso. È un segno di tempi nuovi: davvero molto positivo, che va sostenuto con lungimiranza. Un’ultima considerazione riguarda il modo di comunicare al pubblico eventi e iniziative concernenti i beni culturali. Ritengo che la via più efficace resti quella di presentare l’informazione riguardante, ad esempio, una mostra o una nozione culturale, nel normale contesto delle notizie che vengono fornite dai quotidiani o dalla TV. L’informazione culturale fino a qualche tempo fa non veniva presentata come notizia ma come riflessione o approfondimento per un pubblico già esperto. Non faceva, cioè, notizia, come si diceva un tempo: era materia da terza pagina. Oggi, di contro, l’informazione culturale fa notizia. Deve fare notizia, deve fungere da calamita per attirare l’attenzione del lettore, dell’ascoltatore, del telespettatore. Questa è la svolta comunicativa in tema di beni culturali, che va assecondata e accentuata. avvalendosi anche delle donne e degli uomini dell’arte che possono calamitare l’attenzione della gente. Il caso Sgarbi insegna. Al fare notizia si deve accompagnare la tappa successiva: l’accoglienza, che deve essere
adeguata, in termini non astratti, ma terribilmente concreti. L’accoglienza adeguata deve derivare da una osservazione empirica di che cosa il pubblico si aspetti. Da questo punto di vista le Soprintendenze Speciali per i Poli Museali costituiscono un osservatorio eccezionale, perché possono mettere a confronto che cosa i visitatori si aspettino da ciascuno dei differenti musei che ad esse fanno capo. Oppure, al contrario, mettere a confronto le criticità che, in ciascun caso, i visitatori rilevano. Nella grande maggioranza dei casi il pubblico dell’arte è diverso dagli specialisti o dagli addetti ai lavori. Vuole trovare quella tipologia di accoglienza che gli consenta di mettere insieme la propria esperienza o il proprio bagaglio culturale personale - vasto o modesto che sia - con i contenuti della mostra o del museo che visita o di cui ha avuto notizia dalla carta stampata o dalla televisione. Il pubblico è soddisfatto se, quando visita un museo, non viene intimorito dalla maestà della cultura. I musei sovraccarichi di opere esposte dovrebbero raccogliere la sfida di evitare il superfluo. Si afferma che il museo è un baluardo della classicità e dell’umanesimo. Condivido l’affermazione e aggiungo che anche il pubblico meno colto, quando è soddisfatto della visita, può diventare in qualche modo attore della diffusione della classicità, a condizione che capisca il significato di classico. Comprendere il significato di classico può anche voler dire: capire le tecnologie del passato, che danno sostanza alle opere d’arte e capire come sono fatte le opere d’arte, che cosa contengono. Molti giovani che visitano i musei non sanno verosimilmente che cosa significhi umanesimo. Ma avendo una qualche consuetudine con la tecnica e la tecnologia possono probabilmente comprendere e apprezzare i saperi tecnici del passato. Anche quest’ultima è una modalità per avvicinarsi meglio all’opera d’arte.
I protagonisti del mondo dei beni culturali: * i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione
Joseph Krakora Executive Officer, Internal and International Affairs National Gallery of Art, Washington La Consulta ha davvero una storia alle sue spalle, una storia che ha esercitato un grande impatto - ad opera delle aziende - nel sostegno alla riqualificazione di monumenti ed opere d’arte. Non è solo una mia personale convinzione, ma lo dico a nome dei vostri amici americani. Il sostegno delle imprese per la National Gallery di Washington è di capitale importanza. Non soltanto per poter sostenere le attività delle esposizioni e collezioni permanenti, ma anche per le mostre di carattere temporaneo. Sono state organizzate, in questi ultimi anni, ben 800 mostre temporanee che hanno attratto circa 137 milioni di persone. Con l’incremento delle mostre, ovviamente sono incrementati anche i costi. Le dinamiche finanziarie sono perciò una vera e propria sfida per noi, anche a causa degli aumenti dei costi di assicurazione, nonché di quelli di trasporto. Il sostegno delle imprese 15 anni fa ammontava a circa 1 milione di dollari per azienda, fino ad arrivare a un massimo di 3-4 milioni di dollari, sempre per impresa. Oggi invece le aziende, in media, contribuiscono con 500 mila dollari l’anno, al massimo raggiungendo, in alcuni casi, il tetto di 1 milione di dollari. Quindi si può facilmente constatare che siamo di fronte ad un problema non indifferente ed è per questo motivo che ci siamo adoperati non solo per continuare a chiedere il sostegno delle società, ma anche per cercare altre fonti di finanziamento, tra i cittadini e le fondazioni. Abbiamo comunque cercato di coinvolgere sempre di più le società, le imprese sia pubbliche che private, raccogliendo in toto 40 milioni di dollari per le nostre mostre. Nello stesso tempo abbiamo ricevuto da parte di individui e famiglie finanziamenti pari a altri 30 milioni di dollari, sempre per le varie mostre. Tali risorse sono andate in parte in finanziamenti direttamente spendibili. In altra parte, invece, in investimenti i cui proventi cui verranno utilizzati per finanziare le nostre attività. Dalle fondazioni abbiamo ottenuto circa 60 milioni di dollari, che sono andati a sostenere non soltanto le mostre, ma anche tutte le attività connesse. L’obiettivo per i prossimi 5 anni è di aumentare questa disponibilità di fondi a fino a 350 milioni di dollari.
Due sono state le iniziative speciali varate per poter pervenire a tale obiettivo di medio termine. Innanzitutto l’istituzione di un fondo in conto capitale i cui proventi (interessi e capital gain) vengono poi utilizzati unitamente a quelli provenienti dai vari sponsor per promuovere le nostre attività: fino ad oggi siamo riusciti ad ottenere ben 30 milioni di dollari che sono poi aumentati in quest’anno a 40 milioni di dollari. L’ obiettivo ottimale sarebbe quello di arrivare a 100 milioni di dollari entro i prossimi 5 anni, proprio quando si celebrerà il 75° anniversario di fondazione della National Gallery. Anniversario che tra l’altro coinciderà anche con il 25° compleanno della Consulta. Avremo a disposizione, grazie al suddetto fondo, 5 milioni di dollari che potranno essere spesi immediatamente per sostenere le nostre attività. La seconda iniziativa speciale è consistita nello stimolare il supporto economico dei cittadini (e in primo luogo dei collezionisti) che sono particolarmente interessati a specifici settori. Grazie al loro contributo siamo già riusciti a raccogliere 1 milione di dollari per finanziare specifici progetti relativi alla fotografia, alla pittura danese, all’arte moderna e contemporanea. Ulteriore iniziativa è stata poi la creazione di un “Circolo delle Mostre”, sostenuto da un contributo di adesione-partecipazione che è pari a 20 mila dollari, 20 mila dollari pro capite che hanno già permesso di promuovere diverse mostre. Il “Circolo delle Mostre”, iniziativa il cui avvìo risale soltanto a 8 mesi fa, sperabilmente in futuro dovrebbe raccogliere un gruzzolo di denaro sufficiente a raggiungere la soglia del milione di dollari; oppure, forse, a raggiungere il traguardo ancor molto più ambizioso dei 3 milioni di dollari. Elemento fondamentale nel sostegno delle attività della National Gallery sono i partenariati. Motore e forza trainante delle partnership - bisogna riconoscerlo - sono proprio state le imprese, che hanno agito come veri e propri catalizzatori e si sono assunte un ruolo di leadership. È questa la storia che ritroviamo quasi in ogni Paese, una storia che però molto spesso non viene raccontata. Sto lavorando su un libro intitolato “I moderni Medici” in cui conduco un excursus storico
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degli ultimi 50 anni di storia artistica nel mondo occidentale, proprio per documentare come, senza l’appoggio delle imprese, non sarebbero state possibili tante esposizioni, tante opere di restauro. È una storia - desidero sottolinearlo - che va raccontata in tutti i paesi e a tutti i livelli della scena internazionale. È necessario che la gente, l’opinione pubblica si renda conto dell’impatto eccezionale che il supporto delle aziende ha giocato sul nostro patrimonio culturale. Ritengo che sia altresì importante raccontare la storia dei monumenti, specie di un paese come l’Italia, ma anche di altre nazioni culturalmente e artisticamente rilevanti. Sei anni fa, grazie alla collaborazione di Cristina Acidini e di Antonio Paolucci, ho potuto girare il film del restauro della Trinità di Santa Maria Novella: un film che si è rivelato estremamente popolare, anzi il più popolare nella raccolta della National Gallery degli Stati Uniti. In esso veniva raccontata la storia del monumento e la storia del restauro, si conduceva lo spettatore, quasi per mano, a vedere che cosa accadesse dietro le quinte. Mi è stato anche concesso di realizzare pellicole simili su opere del Bernini, sul Teatro Olimpico di Vicenza e su altri capolavori d’arte presenti a
Firenze. Quasi tutte sono diventate estremamente popolari, alla National Gallery e in altri musei americani. A mio avviso dovremmo cercare di dar vita a una serie televisiva intitolata “le meraviglie dell’Italia” e diffondere queste produzioni in tutto il mondo, per conoscere e far conoscere la storia, le opere di conservazione, di manutenzione, di restauro. Perché è un patrimonio che appartiene a ciascuno di noi. La nostra Galleria sta investendo moltissimo nelle nuove tecnologie basate su internet. L’età media dei nostri visitatori è infatti piuttosto alta e dobbiamo cercare rapidamente di fare leva sulle giovani generazioni, che sono interessate alla storia del monumento, ma ancor più a capire che cosa succeda dietro le quinte, che cosa ci sia dietro la tela. Siamo riusciti a creare un catalogo digitale che permetta ai giovani di avere un esperienza di prima mano con l’opera d’arte e di portare con sé questa esperienza, anche a casa e a scuola. Ben 3 milioni di dollari sono stati investiti nella realizzazione del catalogo digitale. E, ancora una volta, anche in questa sfida, è stata fondamentale la partnership tra il governo (il pubblico, come si preferisce dire in Italia) e i privati.
I protagonisti del mondo dei beni culturali : * i nuovi pubblici dell’arte e le nuove forme di comunicazione
Antonio Paolucci Storico dell’Arte, Presidente Comm. Scientifica-Scuderie del Quirinale Vorrei toccare un argomento a mio giudizio importantissimo che di solito (forse per pudore) non entra mai, non in modo chiaro almeno, in convegni come questo. Intendo esemplificarlo in maniera forse brutale però, mi auguro, efficace: l’Italia dei beni culturali intesa come unità omogenea e come politica condivisa, non esiste. Nel settore dei beni culturali come in ogni altro (amministrazione, economia, servizi etc. etc.) non esiste l’Italia. Esistono le Italie. Il presidente Luca di Montezemolo citava il caso il Pompei. Ricordava il disordine, il caos, il malgoverno che caratterizzano la gestione pubblica (anche dei beni culturali) in quella parte del paese. Occorreva aggiungere, tuttavia, che i mali presenti nell’area archeologica di Pompei come in gran parte della provincia napoletana e casertana, sono le conseguenze di una organizzazione sociale, di una cultura politica, di un costume amministrativo assolutamente speciali. Il territorio di Pompei è uno di quei posti, così tipici dell’Italia meridionale, dove è difficile segnare i confini fra democrazia rappresentativa, ruolo del sindacato, clientelismo e malaffare. Pompei rappresenta una delle Italie realmente esistenti. Poi c’è questa Italia, l’Italia del sindaco Chiamparino e di Alain Elkann, giustamente orgogliosi del virtuoso coordinamento di talenti, di energie, di mestieri e di saperi, di professionalità e di volontà politica che ha caratterizzato la storia recente della Consulta torinese e ha portato ai risultati che conosciamo. Sono risultati di cui tutti noi siamo stati e siamo testimoni: la Torino rinnovata e resa splendida dalle Olimpiadi invernali, la Venaria che oggi inauguriamo, Palazzo Madama che apre i suoi tesori all’ammirazione del mondo. Torino sembra dunque essere speciale. In realtà è semplicemente un’altra Italia, una fra le molte esistenti. Il fatto è che ogni parte del nostro paese è il risultato della sua particolare storia. Dietro il disordine di Pompei c’è l’autocrazia paternalistica dei Borbone, c’è la politica dei notabili, c’è la rendita parassitaria, c’è la burocrazia come status sociale, ci sono il clientelismo e il famiglismo, c’è la camorra.
Dietro la Consulta torinese c’è una regione virtuosa e disciplinata, che ha conosciuto la caserma e la fabbrica, che ha una lunga tradizione di ordine militare ed operaio, che ha sempre coltivato i valori etici del lavoro e della appartenenza istituzionale: alla patria, al re, all’esercito, alla fabbrica, al sindacato, al partito. Questa è la storia ed è una storia che produce certi risultati. L’Italia di Pompei ha avuto un’altra vita e i risultati sono ovviamente diversi. La lunga premessa era solo per dire che noi dobbiamo essere consapevoli della contraddittoria realtà di questo singolare paese che chiamiamo Italia. Che si parli di economia o di scuola, di sanità o di cultura, non si può ragionare con la stessa logica e quindi applicare gli stessi criteri in Piemonte o in Calabria, in Friuli o nelle Marche. Michela Bondardo che è qui presente e che quest’anno festeggia il decimo anniversario di “ e ” (una associazione che ogni anno individua seleziona e premia l’eccellenza aziendale coniugata alla sensibilità culturale) potrebbe testimoniare quanto sia stato e sia difficile creare quel tipo di collegamento in aree diverse dal Piemonte, dalla Lombardia e da pochi altri distretti del CentroNord. La sensibilità e le culture possono essere diverse anche in parti del Paese apparentemente omogenee. A Torino - tutti noi ne siamo stati testimoni - abbiamo visto all’opera la concordia operosa, l’alleanza di persone e di istituzioni per il raggiungimento di obiettivi condivisi. La Consulta Torinese è animata da uno spirito pragmatico e lungimirante che sacrifica l’individualismo al lavoro di squadra. I risultati si vedono e ne siamo tutti orgogliosi. Altrove non è così. Io sono stato soprintendente nel Veneto, nel ricco e laborioso Nord-Est. Ebbene in quella parte d’Italia è l’iniziativa individuale ad emergere e ad imporsi anche nelle attività di mecenatismo e di valorizzazione culturale. Era abbastanza facile per me, soprintendente, convincere l’industriale di Montebelluna o di San Donà di Piave a staccare l’assegno per il restauro della pala di Lorenzo Lotto o di Cima da Conegliano conservata nella chiesa parrocchiale.
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Perché? Ma perché quella era la sua chiesa, dove aveva fatto la prima Comunione, dove da piccolo lo portava la mamma ai vespri. Il restauro del dipinto era l’omaggio alla piccola patria, al campanile e alla piazza, era l’orgogliosa consapevolezza di una identità. Ma se io avessi cercato di convincere quell’industriale a mettere i suoi soldi insieme a quelli di altri per un progetto più ampio di recupero urbanistico e di valorizzazione culturale e turistica dell’intero comprensorio, l’insuccesso sarebbe stato pressoché certo. Vi ho portato l’esempio di una Italia per molti riguardi simile eppure diversa da quella che ha dato forma alla vostra Consulta torinese. C’è l’Italia vasta e profonda delle banche locali custodi attente e generose del patrimonio culturale del loro territorio. È la stessa Italia della microimpresa, dei distretti di valle o di cespuglio con l’artigiano imprenditore orgoglioso della sua fabbrica di mobili o di occhiali, così come è orgoglioso del celebre dipinto custodito nella chiesa parrocchiale. Ma fuori dall’ombra del campanile, fuori dei confini della valle, non si esce. Ho parlato delle molte Italie, delle diversità che fanno il carattere distintivo e forse anche il fascino del nostro paese. Ebbene, in base alla mia esperienza personale, mi permetto allora di dire che è su queste diversità che dobbiamo lavorare. Senza modelli precostituiti, con flessibilità e con opportuinismo, dove con questa parola intendo la capacità di cogliere le opportunità quando e come si presentano. Pretendere di esportare il modello torinese sarebbe un errore. Io ammiro la formula operativa che vi siete dati e che ho seguito con interesse negli anni passati. Ma sono anche consapevole che difficilmente essa potrebbe uscire dai confini del Piemonte. Un’ultima considerazione infine sul ruolo che, nel mercato globale, può giocare la artisticità italiana. I cinesi hanno chiesto e ottenuto la consulenza degli italiani (Istituto Centrale del Restauro di Roma) per progettare interventi conservativi sui loro massimi monumenti identitari: la Città Proibita, la Grande Muraglia. I cinesi, con la loro straordinaria
prensilità mimetica, sanno prima capire e poi servirsi, di quanto di meglio le culture e i saperi dei vari paesi sono in grado di offrire. Da parecchi anni (dall’inizio degli anni Ottanta, ancora prima che l’I.C.R. di Roma inaugurasse nel ’95 a Xian accanto all’armata sepolta del primo imperatore, il suo clone operativo e didattico sino-italiano) i Cinesi sapevano che noi italiani siamo i primi del mondo nel restauro o scienza della conservazione. È uno dei pochi primati che ancora ci restano. I cinesi lo hanno capito per tempo e ne stanno facendo tesoro. A Tokyo la mostra sul Genio di Leonardo ha riscosso clamoroso successo, con file ininterrotte di visitatori. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che ci è riconosciuto, a livello internazionale, non solo un ruolo primario nel possesso di una grande e decisiva quota del patrimonio culturale del mondo, ma ci è riconosciuto anche un primato nei mestieri e nei saperi del patrimonio: dal restauro alla museografia, alle scienze storico-artistiche, archeologiche, librarie, archivistiche. In generale il nostro paese è percepito come il luogo della bellezza diffusa e della artisticità totale; che vuol dire arte e musica, moda e spettacolo, artigianato di qualità e turismo di eccellenza, gastronomia, design, qualità della vita. Durante la mia lunga esperienza di soprintendente ed anche, per un breve periodo, di ministro, mi sono accorto che il mondo economico ha capito (con gradualità, con diffidenza all’inizio) che questo - l’artisticità totale, la qualità diffusa, l’eccellenza dei prodotti che rendono piacevole la vita - è il brand vincente del nostro paese nella competizione globale. Quale è allora il problema? A mio giudizio, il problema consiste nel fatto che il mondo economico italiano non è in grado - per storia, per cultura, per dimensioni - di coordinarsi in una politica nazionale di salda affermazione all’estero delle nostre specificità. Il deficit serio è quello di una politica nazionale. È un deficit che solo il ministero, non le regioni, potrebbe colmare in maniera efficace.
I protagonisti del mondo dei beni culturali : * cosa offrire e richiedere alle imprese
Louis Godart Direttore, Ufficio per la Conservazione del Patrimonio Artistico, Consigliere del Presidente della Repubblica, Quirinale Una breve riflessione iniziale: è vero che ci sono tante Italie, come sostiene Antonio Paolucci; è altresì anche vero che esiste un comune denominatore tra queste varie Italie. Un comune denominatore fondato su due elementi: prima di tutto, sommando le pur diverse Italie, si ha di fronte una parte essenziale del patrimonio culturale dell’intera umanità. In secondo luogo, queste varie Italie hanno trasmesso all’Europa e al mondo il messaggio civilizzatore della classicità. Quel messaggio civilizzatore derivante dalle culture dei classici, che cercherei di illustrare attraverso le parole di un grande uomo politico antico, protagonista per eccellenza della trasmissione di quella stessa cultura e di quel messaggio di civiltà. Mi riferisco a Pericle, quando fu chiamato inaugurare i nuovi monumenti dell’Acropoli di Atene, dopo che gli edifici e templi di quella antica erano stati distrutti dall’invasione persiana nel 480 a.C. Quando Pericle fu chiamato a inaugurare i monumenti dell’Acropoli ricostruita dopo la tragedia della seconda guerra persiana, pronunciò una frase che conservo nel mio cuore, oltre che scolpita nella mia mente: “Possiate dire di noi, nei secoli futuri, che abbiamo costruito la città più bella e più felice” e aggiunge “con lo sforzo di un intera città e la fatica dell’intero popolo ateniese”. Lo sforzo che noi dobbiamo chiedere alle varie Italie è di guardare all’arte e al patrimonio culturale con un rispetto comune, di parlare un linguaggio comune quando in gioco è la salvaguardia dei capolavori e della memoria del passato. E di mettere insieme tutte le loro forze, le forze dell’impresa, le forze dell’economia, le forze della cultura per contribuire allo sviluppo e alla trasmissione di un grande messaggio di civiltà e di umanità. Lo possiamo fare. È infatti ormai convinzione comune che lo sviluppo economico di un Paese (o di un insieme di Paesi come la UE) debba necessariamente andare di pari passo allo sviluppo culturale. Convinzione comune che però spesso stenta a tradursi nella realtà concreta, come testimoniano le difficoltà ad attuare nei singoli paesi-membri la Dichiarazione del Consiglio Europeo di
Lisbona 2000. Per quanto riguarda il patrimonio culturale è altresì convinzione diffusa che la sinergia tra mondo economico e beni culturali sia fondamentale e benvenuta. Pure in questo caso, tuttavia, non mancano le difficoltà a tradurre in pratica tale sinergia tra privato e business da un lato e ambienti dei beni culturali. Eppure sono più che mai convinto che, soprattutto nel caso di paesi come l’Italia, il patrimonio artistico-archeologico possa essere il più efficace biglietto da visita non solo per il turismo, ma anche per l’economia nel suo complesso. L’interrogativo cui dobbiamo dunque ricercare di dare una risposta è: “che cosa occorre fare per rendere redditizio - per le imprese stesse l’investimento in beni culturali?” Ritengo che il coinvolgimento delle imprese nei beni culturali debba puntare ad ottenere l’attenzione di un pubblico vasto, se possibile, di un pubblico di massa, perché sono convinto - da sempre - che i beni culturali debbano diventare un fatto di popolo. Rendere il bene artistico leggibile a un pubblico di massa è - a mio avviso - la sfida che innanzitutto dobbiamo affrontare noi che operiamo nel campo dell’arte, dell’archeologia, dei musei, delle esposizioni storico-artistiche. Ma è una sfida che dovremmo e vorremmo affrontare insieme alle imprese, perché dare leggibilità alle opere d’arte e attirare verso di esse il grande pubblico è proprio ciò che produce un ritorno: di crescita culturale per la gente e di successo di immagine per chi ha contribuito alla realizzazione degli interventi, siano essi interventi ora di recupero, ora di restauro, ora di promozione e valorizzazione. Il museo deve essere o diventare un luogo di incontro: una Agorà. Non è un caso che l’Agorà dei Greci o il Forum dei Romani oppure la Piazza dei Comuni medievali e delle Signorie risorgimentali fossero i luoghi che venivano adornati di statue e di monumenti. E fiancheggiati dai templi degli Dei dell’Olimpo, dalle basiliche romane e cristiane, dalle chiese, perché erano i luoghi più frequentati e il popolo poteva incontrare l’arte e ammirarla. Il museo, pur con le sue caratteristiche diverse rispetto alla piazza, deve tornare a svolgere un ruolo simile
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e saper parlare alle persone che hanno poca formazione. La moderna museologia può e deve diventare una disciplina finalizzata a trasformare musei e realizzare esposizioni oppure mostre oppure eventi accessibili al grande pubblico. Anche i cataloghi debbono accompagnare questa ricerca di leggibilità, diventando soprattutto un aiuto a capire meglio ciò che si osserva, mentre invece troppo spesso riflettono ancora l’auto-compiacimento dell’erudizione. E al visitatore appaiono bellissimi quanto alle immagini e alla qualità dell’edizione, noiosi o poco comprensibili per ciò che concerne il testo. L’Agorà, luogo degli edifici di comando della Polis, era al tempo stesso luogo di dibattiti, divertimenti, ricreazione. Ebbene, sono favorevole al fatto che i nostri musei diventino anche sede di musica e teatro.Per fare incontrare la gente e per avvicinare anche quel pubblico che non ha mai sentito il desiderio di entrare in una sede museale. Esistono anche per l’Italia precedenti significativi di sinergia tra imprese e istituzioni per valorizzare economicamente il paese facendo leva sui beni culturali. Mi riferisco a “Italia in Giappone 2001”. Un evento - o meglio, un programma molto nutrito e variegato di eventi - che si è prolungato per quasi un anno e che ha visto mettersi d’accordo grandi imprese italiane, ma anche un consistente numero di medie aziende, per essere presenti in un grande e difficile paese come il Giappone, per finanziare eventi e ottenere ritorni di mercato e di immagine. A molti “Italia in Giappone 2001” può sembrare un ricordo, un bel ricordo di qualcosa che è ormai lontano nel tempo. Non è così. Rendiamoci conto che è proprio grazie a “Italia in Giappone 2001” che il cittadino giapponese medio ha scoperto che cosa fossero gli Uffizi. E il flusso di cittadini giapponesi medi che, allora, avevano scoperto la Galleria degli Uffizi pur rimanendo nella loro patria, è quello che si snoda, oggi, per le vie di Firenze. E che continuerà a snodarsi attraverso Firenze per almeno altri dieci anni. Un’altra risposta illuminante viene dall’esperienza torinese. Non vorrei fare arrossire Elkann né gli imprenditori della Consulta se dico che considero un successo senza precedenti nel campo della collaborazione tra imprese e cultura l’esperienza del Museo Egizio di Torino. Ero venuto per preparare la visita del capo dello stato, l’allora presidente Ciampi, che conosceva il mio amore per l’Egitto. Mi disse “va a vedere ciò che stanno facendo
all’Egizio di Torino, eventualmente lo andremmo a visitare”. Ero alquanto perplesso perché il presidente sapeva che il museo di Torino era, dopo quello del Cairo, la più importante raccolta d’arte egizia del mondo, ma non era convinto che le novità del recente allestimento giustificassero una visita. Andai e rimasi profondamente colpito da ciò che allora si stava realizzando grazie alla collaborazione tra imprese e mondo scientifico: la straordinarietà dello Statuario rinnovato. Per la prima volta si potevamo ammirare le statue del museo di Torino come nessuno, nemmeno nell’antico Egitto, aveva potuto ammirarle. Ciò era stato possibile perché si erano demolite le frontiere di un mondo troppo specializzato e si erano aperte le porte a una collaborazione con tutte le forze più vive della cultura italiana. Sono rimasto entusiasta del nuovo allestimento della grande sala dello Statuario, perché è un allestimento capace di coinvolgere i non-esperti e di sviluppare un discorso semplice e scientificamente rigoroso. Che può essere apprezzato anche dagli specialisti o dagli studiosi, ma non è certamente rivolto a loro soltanto. Quando si osservano le cifre dell’incremento straordinario di visitatori che è stato registrato a seguito del nuovo allestimento è naturale chiedersi se sia possibile estendere un’ esperienza di questo genere alle varie Italie. Rispondo si con grande determinazione. Sono convinto che attraverso una collaborazione forte tra imprese, beni culturali, operatori e studiosi si possano far decollare tante regioni del nostro paese che in questo momento conoscono periodi difficili. Tre soli esempi. Alcuni anni fa ero in visita alle province di Siracusa e Agrigento. La Valle dei Templi è un luogo fascinoso, anche se alle spalle è sovrastata dalla montagna di cemento dell’Agrigento moderna. Quando chiesi al presidente della Regione Siciliana quanti fossero i visitatori che vengono ad ammirare la Valle dei Templi ogni anno, orgoglioso mi rispose che, all’epoca, erano 200 mila. Feci notare che era assurdo che uno dei siti più prestigiosi dell’intero mediterraneo fosse visitato soltanto da 200 mila persone/anno.Mi rispose che le navi da crociera non potevano attraccare a Porto Empedocle e che occorreva, di conseguenza, adeguare tale scalo marittimo. Mi auguro che il progetto di adeguamento del porto siciliano sia andato avanti, perché la Valle dei Templi di Agrigento dovrebbe quantomeno accogliere più di un milione e mezzo di visitatori ogni anno, al pari cioè dell’altro grande
sito archeologico del Mediterraneo, che è Efeso. Con l’indubbio ritorno economico che un simile incremento potrebbe generare. Cito un altro esempio a me caro, in quanto mi considero un napoletano di adozione, avendo insegnato 30 anni all’Università Federico II della città partenopea, città che amo molto. Nel territorio napoletano esiste una zona di straordinaria ricchezza archeologica, i Campi Flegrei, oggi in uno stato di quasi totale abbandono. Un territorio dove è sufficiente volgere lo sguardo per reperire testimonianze fantastiche del passato e della prima storia d’Europa. Cuma, la solfatara di Pozzuoli, sono luoghi magici che non sono valorizzati. Non essendo né mantenuti né utilizzati a scopo turistico, inevitabilmente diventano preda di traffici illeciti e quindi di un degrado economico e sociale senza precedenti. Sono convinto che attraverso una collaborazione intensa tra poteri locali e imprese si potrebbe giungere alla riqualificazione sistematica dell’area flegrea, che merita veramente di figurare tra i territori facenti parte del patrimonio mondiale dell’Unesco. Organizzare ogni anno un grande evento nel contesto di tale eccezionale patrimonio sarebbe qualificante sia per Napoli, sia per le aziende promotrici. Certamente si richiede una forte cooperazione tra imprese, istituzioni locali, autorità statali preposte ai beni e alle attività culturali. E occorre anche un notevole investimento, che deve scaturire da una grande impresa, o da un pool,da un consorzio di imprese. Ne potrebbe scaturire un evento culturale di portata mondiale, con un impatto mediatico anch’esso mondiale. Sempre a proposito di una ancora scarsa sensibilità a valorizzare a fini economici il patrimonio artistico, confesso di essere rimasto
sconvolto ai tempi delle Olimpiadi di Atene 2005, non a causa delle Olimpiadi e tanto meno a causa di Atene, città bella e accogliente, bensì a causa delle manifestazioni di piazza inscenate a Reggio Calabria contro l’ipotizzato trasferimento, per qualche settimana, in Grecia dei Bronzi di Riace. La Grecia li aveva richiesti; avevamo un debito di gratitudine da onorare verso le autorità greche per il prestito del celebre Auriga. Con i Bronzi di Riace sui siti olimpici avremmo avuto un formidabile ambasciatore dell’Italia. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Credo che il maggiore danno economico lo abbia procurato la città di Reggio Calabria a se stessa e al suo bel museo, giustamente lodato dal presidente Montezemolo. I Bronzi di Riace sono un caso eclatante; ma quanti sono i pezzi non accessibili al pubblico racchiusi nei depositi dei nostri musei, che potrebbe diventare in qualche modo ambasciatori delle nostre città ? Concludo con un invito. Un invito ai privati e alle imprese italiane: abbiate una nuova consapevolezza che investire nei beni culturali consente un ritorno. Abbinare l’immagine dell’azienda a un bene o a un evento culturale sarà molto apprezzato dal pubblico, nazionale ed estero, che è, al tempo stesso, la vostra clientela. Occorre insistere, ma il ritorno sarà significativo e soddisfacente. Occorre la voglia di collaborazione, e tanto impegno, ma anche un minimo di entusiasmo, necessario per promuovere un patrimonio che è il fiore all’occhiello dell’Italia, ma non ancora sufficientemente valorizzato dal punto di vista economico. La Giornata di Studio della Consulta può, a questo fine, diventare essenziale, per aprire la porta a nuove iniziative altamente qualificanti. Non solo per Torino.
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I protagonisti del mondo dei beni culturali : * cosa offrire e richiedere alle imprese
Anna Lo Bianco Direttore, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini Il museo di Palazzo Barberini è relativamente antico, in quanto l’istituzione risale alla fine dell’Ottocento ed è nata sull’onda dei sentimenti post-unitari. A sua volta, la rinascita di Palazzo Barberini come grande museo era stata prevista dallo Stato italiano quando, nel 1949, decise di acquistare l’imponente dimora principesca per ospitare le collezioni di arte antica di sua proprietà in un’unica, ineguagliabile sede nel cuore di Roma. Ma è altresì un museo giovane, direi giovanissimo, perché la sua vera rinascita risale all’inizio dei grandi lavori di ristrutturazione avviati circa 3 anni fa. Per di più, solo un anno fa ha ricevuto l’impulso definitivo. Grazie al trasferimento del Circolo degli Ufficiali, che lo occupava da oltre 60 anni e poneva il museo in uno stato di soggezione, obbligandolo a un condominio forzato, ha finalmente riacquistato la sua piena autonomia. Di conseguenza la Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma non riusciva mai a decollare, pur avendone le potenzialità. Potenzialità notevolissime, perché la collezione di opere d’arte di Palazzo Barberini racchiude capolavori celeberrimi: ricordo soltanto la Fornarina di Raffaello, Giuditta e Oloferne di Caravaggio, altri due dipinti, sempre di Caravaggio, quali Narciso e San Francesco, cui si aggiunge un gran numero di altri quadri splendidi. I nostri prestiti sono richiesti da tutti i musei del mondo. Solo poco tempo fa abbiamo imprestato alla National Gallery di Washington un bellissimo ritratto di Erasmo da Rotterdam. Altre nostre opere sono presenti in mostre allestite nei musei di città prestigiose, in Europa e non solo. In breve, siamo un museo giovanissimo, che deve imparare molto, ma che può anche offrire moltissimo. Ora il Palazzo Barberini, orgoglio del barocco romano, è tutto - o quasi - nuovamente museo. I lavori finiranno nel 2009, con il completamento del piano terreno, un’intera ala sarà destinata esclusivamente alle mostre. È stato anche possibile concepire una configurazione diversa e, a volte, ciò contribuisce non poco a comunicare meglio il senso del bello e dell’innovazione. Come è avvenuto per il già restaurato “giardino (seicentesco) segreto”, cui la Soprintendenza per il Polo Museale Romano ha dedicato una cura particolare.
Una attenzione particolare che attualmente conferisce al giardino un senso di ordine e di eleganza, grazie alla ricchezza della vegetazione, alla pedonalizzazione del piazzale e soprattutto alla rinnovata rampa a gradoni che introduce al giardino. E che è stata ricostruita fedelmente a come si presentava nel Seicento grazie all’ausilio di incisioni del tempo. Sarà quindi un museo moderno in un palazzo antico. Per chi non l’ha visitato ancora, ricordo che questo meraviglioso palazzo è stato realizzato in poco più di 5 anni da uno staff di giovani talenti che, ai tempi, costituivano una assoluta avanguardia: Bernini, Borromini, Pietro da Cortona. Era l’avanguardia d’allora e il papa, Urbano VIII Barberini, che evidentemente possedeva cultura e intuito, capì che erano quelli gli artisti in grado di rappresentare il suo desiderio di potere, di ascesa politica e di dimostrazione di cultura. In virtù dell’interesse del ministero e in particolare dell’attuale ministro, si è creato un movimento di persone e di opere che consente di affermare con sicurezza che Palazzo Barberini sta crescendo. Abbiamo la possibilità di crescere in un momento in cui possiamo già contare su una realtà consolidata, sulla apertura recente e prossima di nuove sale, su un modo di operare che sta assumendo caratteristiche definite anche per ciò che riguarda la didattica e la documentazione: entrambe già in linea con gli orientamenti più moderni. Il fatto di essere un museo work in progress facilita la nostra azione in diversi modi, anche per quanto concerne il rapporto con le imprese, con il privato in senso lato, come preferiamo dire a Roma, dal momento che parlare di rapporto con l’industria sarebbe (per ora) fin troppo ambizioso. In un primo momento per arrivare ad avere un rapporto con interlocutori diversi dallo stato, credevo che si dovesse lavorare soprattutto con le mostre, campo nel quale avevo maggiore esperienza. Mi sono resa successivamente conto che la mostra sta diventando abitudine, una realizzazione temporanea, poi si chiude e se ne intraprende un’altra. Si tratta invece di giungere (attraverso strategie che - sia chiaro - possono eventualmente anche contemplare mostre temporanee) a creare
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una affezione verso il museo, un rapporto, se possibile, non episodico, che in qualche modo si sta già rendendo possibile grazie all’attenzione che la città manifesta verso il museo e che noi facciamo di tutto per potenziare e incentivare, pur riconoscendo onestamente di essere solo all’inizio di un percorso. Dobbiamo esplorare, verificare e, quando possibile, accogliere tutte le opportunità che ci vengono offerte: a cominciare delle opportunità di una comunicazione adatta al pubblico che intendiamo coinvolgere. Sappiamo che - in questi anni soprattutto - Caravaggio gode di una fama univoca, diffusa ovunque, a livelli diversificati di tipologia di interlocutori. Palazzo Barberini - come ho già ricordato - ha la fortuna di ospitare ben tre opere di Caravaggio tra cui una delle più famose e splendide: la Giuditta e Oloferne. Ebbene, in occasione delle Notti Bianche, quando Palazzo Barberini resta sempre aperto, valorizziamo proprio Caravaggio come driver per quel pubblico di giovani che popolano la Notte Bianca, ma in un museo, forse, non sono mai entrati. O sono entrati con la scuola e poi mai più, ma hanno sentito parlare di Caravaggio e ne sono in qualche modo affascinati e incuriositi. Entrano in museo per scoprire Caravaggio e poi restano ammirati anche di altre opere e, in primo luogo del museo stesso. Sono spesso catturati dalla atmosfera unica che uno spazio come Palazzo Barberini riesce a comunicare, facendoli sentire unici e privilegiati, insomma dei protagonisti anche loro. Forse ritorneranno, forse porteranno gli amici, forse ritorneranno alla successiva occasione di un’altra Notte Bianca. Il che non è poco. Anche i giornali locali, anche le testate a diffusione limitata, possono essere di aiuto per acquisire un pubblico crescente e fidelizzarlo. Ogni inaugurazione che abbia luogo a Palazzo Barberini è una occasione per fare notizia e attrarre visitatori. Ultimamente sono state aperte due sale che erano antiche anticamere dei Barberini, (dopo essere state ridotte a cucine con le piastrelline verdi o a magazzino ai tempi del Circolo degli Ufficiali). Due sale amplissime che ospitano opere di Caravaggio, dei caravaggeschi e della pittura emiliana. La loro inaugurazione è servita ad attirare pubblico nuovo, che, come nel caso delle Notti Bianche, entra affascinato da Caravaggio e poi, per semplice curiosità o per uno spontaneo senso di progressione, visita il museo. E - speriamolo - si affeziona ad esso.
Il fascino di Palazzo Barberini e l’eco degli sviluppi che stava avendo la nostra Galleria Nazionale di Arte Antica hanno raggiunto anche grandi organizzazioni aziendali quali Lottomatica o Telecom Italia; a una iniziale sponsorizzazione o disponibilità a finanziare il restauro di un’opera sono seguiti rapporti più continuativi, che stanno proseguendo nel tempo. Ad esempio, i grandi lavori di restauro finanziati da Lottomatica a Palazzo Barberini in base alla normativa che prevede la devoluzione ai beni culturali di una aliquota dei proventi di giochi e scommesse, sono stati anch’essi l’occasione per aprire la strada ad altre attività, che noi promuoviamo oppure ospitiamo. E che sono a noi estremamente gradite, perché raggiungono la città e costituiscono eventi per il museo: dalle conferenze, alla musica, al teatro, al dibattito con singoli intellettuali. Eventi per cui il pubblico arriva e spesso, quando è interessato, ritorna. Abbiamo un nucleo di cittadini ormai fidelizzati alle nostre attività, che da due anni quasi si sentono di casa a Palazzo Barberini. Sempre al riguardo del rapporto con i privati, ho notato anche un altra richiesta che, a mio giudizio, va presa in considerazione. È la richiesta di poter organizzare a Palazzo Barberini incontri di lavoro ristretti di 12-20 persone, specie per ospiti o partner che provengono da un altro Stato, o da un’altra città, quasi fosse una sorta di sede di rappresentanza temporanea. Incontri che non diventano invasivi per il museo, essendoci la possibilità di utilizzare locali ad hoc. E, al tempo stesso, contribuiscono a creare un rapporto di affinità con l’azienda richiedente, di affezione al museo e un sostegno reale nella sua vita organizzativa. Non solo; lo scambio particolarmente importante di opere, ha generato finanziamenti al museo. È il caso di una grande mostra tenutasi ad Amsterdam e di un altro prestito di un’opera di Caravaggio a Genova 2004, in occasione della mostra su Rubens. In sintesi, la possibilità di ottenere nuovo pubblico e nuovi supporti finanziari è veramente vasta. A volte è la mancanza di consapevolezza della nostra forza di attrazione che porta a non essere abbastanza propositivi. La stessa cosa , cioè la mancanza di intraprendenza, forse si può chiamare in causa anche in tema di potenzialità economiche dei beni culturali in termini di internazionalizzazione e opportunità di lavoro e di business. Cito un esempio del tutto di-
verso dai precedenti. Ospitiamo, in stage o in diverse forme di intern-ship o di contratti brevi, ottimi giovani storici dell’arte che provengono dalle più importanti università non solo romane. Hanno una preparazione molto valida, talvolta ovviamente troppo teorica, ma imparano presto a coniugare le conoscenze degli studi con la vita delle opere nel museo, promovendo verifiche storiche e documentarie, collaborando all’attività di organizzazione di mostre, eventi, condividendo insieme la vita quotidiana di chi lavora nel museo. Questi giovani storici vorrebbero, comprensibilmente, trovare lavoro da noi, ma non è certo possibile assumerli tutti. Vorrebbero, in ogni caso, lavorare in Italia. Anche ciò è comprensibile e condivisibile. Ciò nonostante, sono sicura che le loro prospettive migliori sarebbero all’estero, anche facendo leva sul prestigio che gode a livello internazionale l’Italia degli studi filologici e del restauro e, soprattutto, sulla competenza acquisita con la formazione in uno dei più prestigiosi istituti, celebrato nel mondo, ovvero l’ICR. Andare fuori significa affrontare un rischio: ma nel loro caso molto probabilmente tale rischio sarebbe ripagato, come possiamo vedere dai casi noti a tutti. Sempre a proposito dell’internazionalizzazione, questa volta delle nostre imprese che operano nel campo dei beni culturali, vorrei spendere qualche parola. Molto importante ritengo che possa essere lo spazio per le imprese che in qualche modo si legano all’Italia dell’arte e che, soprattutto, sapranno nei prossimi anni essere creative nel fare emergere modalità sempre nuove di relazione con il patrimonio artistico del nostro paese. È infatti giusto e corretto sostenere che ci viene quasi ovunque riconosciuto un ruolo primario in numerose attività che si collegano ai beni culturali, al loro recupero, alla loro valorizzazione. Non vorrei però che questa consapevolezza facesse perdere di vista le potenzialità che tuttora abbiamo ancora da esplorare. E sono proprio le potenzialità ad essere straordinarie. Qualche esempio ben concreto. Numerose opere dei nostri musei sono temporaneamente all’estero, inserite in mostre importanti, di grande rilievo internazionale. Quasi sempre la comunicazione sostiene e valorizza la mostra: è una prassi normale. Perché non provare anche, noi qui, a promuovere un battage comunicativo intorno al quadro o alla scultura italiani che sono presenti nella mostra, intorno al museo da cui provengono, intorno alla città
o alla regione in cui il museo di provenienza è inserito, intorno alle imprese che in quel territorio operano e ai loro prodotti che possono interessare un pubblico internazionale ? È infatti quanto mai opportuno promuovere le prerogative e la cultura di una regione italiana, con le sue bellezze anche paesistiche e le sue imprese, cogliendo l’occasione per far conoscere opere di pittori di vari secoli e di diversi luoghi, presenti temporaneamente in una grande mostra organizzata da un importante museo del mondo. Collegare un’azienda e un capolavoro italiani può dar vita ad una forma di comunicazione attraente, intelligente e assolutamente non scontata, purché ovviamente sia un collegamento acuto, efficace, ma anche pienamente comprensibile. Altro esempio, più tradizionale, per promuovere l’Italia dei beni culturali (e, in prospettiva, imprese o gruppi di imprese che ad essa si colleghino) è quello degli scambi di opere. È mia convinzione che gli scambi di opere debbano essere incentivati, soprattutto gli accordi tra musei di diversi Paesi. Nel 2006 - come ho già ricordato - Palazzo Barberini ha prestato un’opera di Caravaggio ad una grande mostra organizzata dal Rijksmuseum di Amsterdam. Un prestito su cui riconosco io stessa di avere avuto qualche perplessità, perché privava la nostra Galleria di uno dei capolavori più apprezzati; ma poco dopo, grazie a una trattativa cordiale e proficua, il museo olandese si è offerto di effettuare uno scambio, prestandoci un’opera di grandissimo rilievo, in grado di attirare l’attenzione sulla nostra Galleria: la Lettera d’amore di Johannes Vermeer.Un dipinto ben celebre, che descrive “un importante momento di amore visto attraverso la lente della solida borghesia olandese del Seicento. Un quadro alla parete che non lascia dubbi sull’origine della ricchezza della casa: il commercio d’oltremare” e che è particolarmente consono a Palazzo Barberini “uno tra i più importanti e sontuosi della Roma barocca” ** Uno scambio dal valore fortemente positivo. È infatti nella consuetudine della vita di ogni grande museo avviare, sul piano internazionale, scambi di capolavori che favoriscano la conoscenza reciproca di diverse culture figurative, creando così nel pubblico nuovi stimoli e nuove aperture. Da qui possono partire rapporti di collaborazione duraturi tra istituzioni, che arricchiscono le possibilità reciproche. Il confronto tra la cifra nascosta della cultura intimista e borghese della pittura olandese
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del Seicento, e l’imponente spazio barocco di Palazzo Barberini è stato particolarmente apprezzato. Un confronto riuscito,che avviene tramite “la consapevole sicurezza che emana dalle piccole cose del Seicento olandese, posta a confronto con la retorica altisonante del barocco romano espressa dal Palazzo Barberini” **. Uno scambio positivo per entrambi i musei, per entrambi i paesi, Italia e Olanda, per la crescita dell’Europa dell’arte, perché possano svilupparsi, da quel momento, forme varie di collaborazione e di sinergia. Per la nostra Galleria Nazionale di Arte Antica, in particolare, l’esposizione del dipinto di Vermeer è stata una tappa importante del percorso di rinascita di Palazzo Barberini. Gli scambi di opere d’arte tra musei sono dunque un formidabile strumento per arricchire l’orientamento all’internazionalità del nostro sistema paese nel suo complesso, senza abdicare al ruolo e alla consapevolezza di pari dignità nei confronti di partner stranieri. Qualche dubbio conservo invece su una proposta che ricorre con una certa frequenza: quella di utilizzare le opere d’arte non esposte, ma giacenti nei depositi dei nostri musei, come veicolo di internazionalizzazione dell’Italia dell’arte. La considero un’idea troppo pragmatica, che non tiene conto del valore unico e irripetibile delle opere dei musei, ovunque esse si trovino, se esposte o meno. I dubbi mi derivano anche dalla realtà che meglio conosco: la Galleria di Palazzo Barberini. Nel nostro caso infatti le opere che non sono esposte rientrano in due categorie: - quelle con problemi di conservazione, bisognose di restauro, che ovviamente non possono essere trasferite altrove neppure in via temporanea; - le altre opere: le quali potrebbero, in linea di principio, essere oggetto di eventi da promuoversi all’estero. Certamente esse testimoniano molto validamente le epoche storiche e le tendenze artistiche del periodo in cui sono state realizzate.
Ma non sempre, tuttavia, sarebbero in grado per livello qualitativo e omogeneità di tono - di rappresentare in maniera efficace e esaustiva quella cultura della quale pure sono espressione compiuta. I miei dubbi, ripeto, non escludono che in casi particolari anche le opere dei depositi possano costituire strumento di valorizzazione del patrimonio dei nostri musei. A condizione che eventuali mostre abbiano un filo conduttore o una tematica ben precisi e ben comunicati al pubblico. Ritornando all’esperienza che si sta vivendo a Palazzo Barberini, desidero sottolineare, infine, che il nostro proposito fondamentale è solo quello di creare un luogo di eccellenza culturale in cui si possano accogliere in maniera privilegiata quelli che possono diventare i nostri interlocutori: dal pubblico che si avvicina la prima volta a Palazzo Barberini al visitatore colto, studioso o imprenditore che sia. Concludo citando un fatto reale, solo apparentemente insignificante. Nel corso dei recenti lavori di allestimento delle sale, la ditta che svolge i lavori è composta da buona parte di operai rumeni, molto bravi. Uno di loro, in particolare, un ragazzo intorno ai 20 anni, si è rivelato particolarmente preparato e autorevole: quando conferma che un’opera, un quadro, sono collocati a perfezione, gli si può credere con piena fiducia. Questo ragazzo si ferma minuti, decine di minuti, a osservare i singoli quadri. Gli ho regalato uno dei nostri cataloghi. Lo ha letto e apprezzato; me ne ha chiesto un altro per conoscere il mondo dell’arte nel quale si svolge il suo lavoro. Quando questo ragazzo avrà dei figli, che quasi certamente saranno cittadini italiani, sono convinta che comunicherà loro il suo amore per l’arte.Saranno persone come queste che, verosimilmente, formeranno il nostro pubblico dei decenni a venire **(dalla Introduzione al piccolo catalogo”I MEER: una lettera d’amore dall’Olanda” pubblicato in occasione della mostra dallo sponsor CREDIT SUISSE ITALIA)
I protagonisti del mondo dei beni culturali: * cosa offrire e richiedere alle imprese
Nicola Spinosa Soprintendente, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Napoli L’Italia è un paese particolare. Possiede un patrimonio culturale immenso e unico al mondo. Non ha musei “grandissimi” come il Louvre, il Prado, il Reina Sofia, il Centre Pompidou/Beaubourg, bensì un tessuto di musei importanti, che sono un punto di forza certamente. Ma salvo laddove si è disposta la creazione di strutture come le Soprintendenze Speciali per valorizzare eccezionali patrimoni culturali locali, si sente la carenza di un’autorità che programmi e regoli i flussi. Siano essi flussi di risorse umane, economiche, oppure flussi di eventi o di prestiti di opere. In Germania sono prevalentemente i singoli laender a pianificare e coordinare la gestione dei musei. In Francia è lo stato a programmare il sistema dei beni culturali e il sistema esiste davvero. Da noi è lo stato, che in realtà promuove e realizza operazioni meritorie e, a volte di notevolissimo spessore culturale, ma siamo lungi dal possedere un sistema dei musei, sia pure soltanto circoscritto a quelli statali. Quanto alle regioni, intese come istituzioni, la situazione si presenta a macchia di leopardo. Innanzitutto le loro competenze in materia di valorizzazione del patrimonio culturale non sono ampie e, in prevalenza, si tratta di competenze concorrenti con quelle dello stato. Ma al di la di tale aspetto normativo, in parte derivante da disposizioni costituzionali, il problema forse principale consiste nel fatto che le regioni si sono sempre occupate - e preoccupate - poco del patrimonio culturale, dedicando, invece, la loro attenzione prioritaria alla realizzazione di infrastrutture. Lo conferma il fatto che le risorse di provenienza Unione Europea che le regioni si sono trovate a gestire sono spesso state molto ingenti, specie tramite i Fondi Strutturali; ma alla cura del patrimonio ne sono state dedicate modeste quote, in particolare se paragonate a quelle dedicate alle infrastrutture. O più precisamente alla costruzione di nuove infrastrutture, come testimonia, di contro, la scarsità storica di risorse dedicata alla loro stessa manutenzione. Qualcosa sta cambiando, indubbiamente, anche per quanto riguarda le regioni. Conosco gli sforzi della regione Lazio e di Roma, encomiabili anche
se per ora, sembra, finalizzati soprattutto a fare immagine. Conosco l’impegno della regione Campania, rivolto soprattutto all’arte contemporanea, encomiabile anch’esso, ma che non è riuscito a mutare la situazione per cui Napoli e il suo territorio restano oggetto di un turismo culturale di passaggio, che da Roma si sposta a Pompei e viceversa, quasi sempre senza soste intermedie. Infine, particolarità della particolarità di questo nostro paese, splendido per arte, paesaggio e altri aspetti ancora, è l’assenza - o quantomeno la pochezza - di una legislazione incentivante per i finanziamenti privati finalizzati alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale. Il che spiega la pochezza degli investimenti privati nel settore. Sia chiaro: le leggi rivolte ad incentivare i privati esistono e sono anche numerose, ma dalla normativa che porta il nome dell’allora ministro Scotti in poi, non sono mai stati varati i relativi decreti attuativi. Il che vanifica, ovviamente, i risultati di leggi aventi una ratio ottima e una pur valida formulazione. Conosciamo i musei americani: quelli privati basati sui trustees, che sono la grande maggioranza; quelli pubblici di Washington finanziati dallo Stato, ma sostenuti in percentuale elevata da erogazioni private. In entrambi i casi, tutti i contributi privati sono defiscalizzati. Conosciamo i musei inglesi, anch’essi basati in prevalenza sui trustees. Non godono dei livelli di defiscalizzazione tipici degli USA, ma il favor legis del legislatore britannico è comunque evidente. Non credo di esagerare, quindi, nell’affermare che il problema principale del settore dei beni culturali in Italia è la quasi assenza delle risorse finanziarie apportate dai privati. Mi riferisco ovviamente ai privati come cittadini e imprese, che altrove, invece, sono il primo o il secondo pilastro (secondo per consistenza, dopo le istituzioni pubbliche) su cui si regge il sistema dei musei e dello Heritage. Le fondazioni bancarie richiedono un discorso a parte. Sono infatti istituzioni private, ma obbligate per legge ad investire in un certo numero di settori di interesse generale, tra cui i beni e le attività culturali. Sono un fenomeno solo italiano, indubbiamente
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molto importante per il settore culturale, che non deve però far dimenticare i problema centrale: i privati veri in Italia partecipano ben poco alla valorizzazione del patrimonio artistico perché non sono incentivati a farlo. Si potrebbe obiettare che negli ultimi anni si è sviluppata non poco la capacità di musei e gallerie nell’offrire alle imprese o comunque a privati opportunità per svolgere convegni, organizzare convention, realizzare eventi quali la presentazione di nuovi prodotti. È uno sviluppo che giudico positivamente: a Napoli siamo tra i primi della classe al riguardo. Abbiamo stipulato un accordo triennale per la presentazione del Calendario Pirelli, che è un evento prestigioso sia per noi che per l’Azienda e che consente alla Soprintendenza di ricevere un finanziamento di un qualche rilievo. A Sant’Elmo e a Capodimonte da tempo ospitiamo mostre di prodotti. Alla Certosa di San Martino abbiamo aperto un ristorante panoramico, da cui si gode la più affascinante vista sul Golfo di Napoli e non solo: il ristorante può infatti operare anche al di fuori degli orari di chiusura della Certosa. Al Palazzo Reale di Capodimonte è prossimo il completamento e l’apertura di un grande salone multifunzionale che sarà utilizzato per cene di gala, ricevimenti e mostre, cui si stanno per affiancare un auditorium e una sala delle feste per il ballo e i party. In entrambi i casi abbiamo curato il posizionamento, l’allestimento e gli accessi in modo tale che queste strutture operino come spazio extra-museale, non condizionato dai vincoli e dagli orari del complesso espositivo. La stessa disponibilità esiste a Villa Pignatelli. Ciò detto si tratta di sviluppi che sono importanti per rendere il mondo dei beni culturali sempre più partecipe ed integrato con la città, la società civile, l’ambiente dell’economia e dell’impresa, ma che - anche se molto benvenuti - sono sviluppi che non devono essere sopravvalutati in termini di resa finanziaria. Anche perché lo sponsor sostiene gli oneri dell’evento, ma - almeno per ora, per ragioni promozionali - siamo noi come Soprintendenza o come museo a coprire le spese di pulizia e gli straordinari per il personale addetto ai servizi essenziali di accoglienza e sorveglianza. Il personale - come è peraltro è ben noto - è una componente delicata e critica nell’ambiente dei beni culturali e, in particolare, nella realtà museale e archeologica. Il fatto che da lungo tempo non vengano banditi i concorsi, provoca e
provocherà sempre più un grave problema di turn over e di ricambio del personale. Mancano infatti quasi del tutto le generazioni dei trentenni e dei quarantenni. E la generazione dei “cinquanta e più” si avvia alla pensione. Per troppo tempo si è mascherata l’assenza di concorsi facendo ricorso al precariato e al volontariato. Un precariato mal retribuito, che ha richiesto - e in molti casi ottenuto - l’inserimento in ruolo. Il risultato è che oggi, nel caso della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Napoletano, su 650 dipendenti si contano 400 custodi e 15 storici dell’arte: questi ultimi in prevalenza signore, che possono accedere al pensionamento a 60 anni e che quindi presto lasceranno il servizio attivo. Come sostituirle resta una incognita. Sottolineare le criticità è un dovere civico. Non significa, però, pessimismo. Non si può infatti essere pessimisti quando si constata che nel corso dell’ultimo decennio i musei si sono sempre più fortemente ancorati al territorio. A Napoli come nel resto dell’Italia. Non si può essere pessimisti quando si constata che pur nella scarsità degli incentivi agli investimenti privati in beni culturali, a Torino si sviluppa da vent’anni la Consulta. Non si può essere pessimisti quando i visitatori degli Uffizi raggiungono numeri da capogiro. L’Italia dei beni culturali cresce ed è sempre più europea: negli orari di apertura dei musei; nell’offerta che i musei rivolgono al territorio; nell’attenzione ai restauri fatti a regola d’arte; nella cura che tante piccole città e borghi italiani dedicano alle emergenze artistiche di casa propria. La grande sfida - non mi stancherò mai di ripeterlo - consiste, ora e nel medio periodo dei prossimi cinque-sei anni, nel far partecipare di più i privati alla valorizzazione del patrimonio artistico. A questo fine, tuttavia, non bastano gli appelli alla responsabilità sociale delle imprese. Occorrono fatti concreti: vale a dire incentivi. E occorrono anche incentivi perché un certo numero di risorse manageriali delle imprese e di tecnici aziendali possa essere messo a disposizione degli interventi per la salvaguardia dei beni culturali, affinché le risorse economiche, per definizione sempre scarse, possano essere spese meglio, cioè con sempre maggiore efficienza ed efficacia.
I protagonisti del mondo dei beni culturali : * le opportunità all’estero per le imprese italiane:
Antonia Pasqua Recchia Direttore generale, Ministero per i Beni e le Attività Culturali L’obiettivo delle pagine che seguono, è illustrare il percorso che il Governo italiano sta seguendo nei contesti internazionali per la promozione del patrimonio culturale, ma anche per favorire ricadute positive per il mondo imprenditoriale italiano. Non posso esimermi dal plauso verso l’eccellente esempio rappresentato dalla Consulta che testimonia una alta coscienza di sé, del proprio ruolo e del ruolo di protagonisti che gli imprenditori possono svolgere nelle vicende della propria città ed offre un eccellente esempio di consapevolezza del legame che esiste tra patrimonio culturale e sviluppo economico territoriale Dall’analisi degli interventi di restauro che voi avete realizzato in 20 anni, emerge un segno comune: la volontà di un recupero dei simboli delle proprie radici che ritengo possa essere indicato come modello di impegno del mondo delle imprese. Un modello da seguire anche in altri ambiti, anche nei piccoli contesti dell’Italia dei mille campanili. Ma si può diffondere un modello virtuoso di collaborazione Città - Soprintendenze - Imprese per la salvaguardia del patrimonio artistico? L’amarezza che deriva dalla constatazione dei tanti aspetti di degrado ambientale ed umano che pesano negativamente sul patrimonio culturale italiano, non deve trasformarsi in una percezione pessimistica della possibilità di diffondere modelli positivi. Sottolineare i modelli positivi come fortunate eccezioni, frutto di una felice specificità di approcci, non dà risultati utili e non spinge al ravvedimento, ma piuttosto alla frustrazione. Se la legge speciale per Pompei, che esiste ormai da 9 anni, ha avuto un esito che non ha risposto alle aspettative - forse per un approccio troppo specialistico - la si migliori e la si renda più efficace, tenendo in massimo conto le specificità territoriali negative che ne hanno depotenziato l’impatto. Analogamente se la responsabilità sociale ed il bilancio sociale dell’impresa che intende essere mecenate per la propria città, sono frenati da forme di incentivazione fiscale nell’investimento in cultura che, pur essendo state attivate, hanno dato risultati abbastanza deboli, si attivino adeguate modalità di concertazione tra le parti interessate che
consentano di migliorare la normativa esistente e tengano realisticamente conto dei limiti di bilancio italiani, al momento non oltrepassabili. Nel 2006 si è raggiunto a livello nazionale, tra investimenti posti in detrazione e in deduzione, un massimo di 34 milioni di euro: a fronte del tetto ben superiore di 139 milioni di euro, che il legislatore - vedi l’amministrazione fiscale aveva posto come possibile (oltre il quale sarebbe scattato il riversamento all’erario). Rispetto, quindi, a quello che ci si sarebbe potuto aspettare si è riscontrato un gap che deve fare meditare ed è essenziale chiedersi, perché non si sia colta appieno l’opportunità di utilizzare in detrazione i restanti 105 milioni di euro che la normativa fiscale offriva. Una risposta molto positiva e concreta, invece, proviene sia dalla Giornata di Studio della Consulta, evento volto a sollecitare l’attenzione dei privati ai temi della valorizzazione del Patrimonio e della fiscalità per l’arte, sia dall’altro evento di Maratonarte, inteso a richiamare i cittadini a contribuire per la cultura. Per rispondere all’ interrogativo se sia possibile diffondere un modello virtuoso di collaborazione Città - Soprintendenze - Imprese occorre, in prima istanza, tenere presente che in Italia il rapporto del mondo dei beni culturali con le imprese appare ancora piuttosto debole. Da poco tempo, rispetto ad altri paesi, gli imprenditori italiani si pongono il problema della responsabilità sociale e ed è ancora esiguo il numero di coloro che percorrono questa strada. Non stupisce, quindi, che sia relativamente limitato il numero delle imprese italiane interessate a investire nella valorizzazione dei beni culturali e soprattutto a superare la logica della semplice sponsorizzazione per puntare su una strategia di corresponsabilizzazione con le Soprintendenze e le Istituzioni locali nei confronti dei beni culturali del territorio. È dal territorio che deve partire questa nuova strategia: imprenditori, amministrazioni locali, operatori dei beni culturali devono acquisire la consapevolezza che investire sul patrimonio culturale significa una crescita di prestigio e di valore del luogo in cui si vive e si lavora.
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Un ruolo importante va giocato da noi, operatori dei beni culturali, per un radicamento territoriale della strategia di corresponsabilizzazione, scorgendo, per primi, nel tessuto imprenditoriale dell’area in cui si collocano i nostri musei, il partner e l’interlocutore, e non solo l’ufficiale pagatore di una mostra o di un altro evento. Il patrimonio culturale è senza dubbio un’occasione di sviluppo economico, così come una opportunità per le imprese. In quel grande distretto culturale che è l’Italia esistono - almeno in linea di principio - tutti i presupposti perché ciò avvenga: il patrimonio artistico, il capitale, gli investimenti fissi e la presenza di filiere produttive, aventi entrambi i propri radicamenti territoriali. Dai dati strettamente limitati ai visitatori dei siti statali dei beni culturali, che ormai riusciamo a monitorare in modo molto rapido, quasi in tempo reale, e che si riferiscono ai 403 musei e siti archeologici dello stato, risulta che nel 2006 vi sono stati 34 milioni e mezzo di visitatori. Cifra che non contraddice quanto citato dal dottor Mario Turetta, in relazione all’affluenza relativa ai musei top ten (15 milioni e 980 mila) oppure ai top thirty (23milioni e 800 mila). Esulano da questa cifra tutti i dati del Vaticano, dei Musei Capitolini e di tutti i grandi musei civici italiani. I 34 milioni e mezzo di visitatori sono peraltro in crescita continua nel 2007, in numero ed introiti. A ciò contribuiscono eventi nazionali di promozione e comunicazione che riguardano, nel caso della Settimana della cultura, il patrimonio diffuso. La Settimana della cultura ha registrato un incremento del 15-20% rispetto all’edizione 2006: in pochi giorni si è avuta la presenza di un milione e mezzo di visitatori nei siti dello Stato. Per quanto attiene, dunque, alla fruizione turistica e culturale emerge un quadro ben positivo. Per di più, si assiste ad un notevole cambiamento che si sta verificando nei musei e nelle raccolte espositive. I direttori dei musei di oggi sono ormai perfettamente consapevoli che il patrimonio culturale è anche una forma di consumo, diversa a seconda delle tipologie di pubblico. Un pubblico di ragazzi ha un proprio stile di fruizione del museo, ben differente da quello della coppia benestante che acquista anche il catalogo, o da un pubblico di anziani che, nei casi in cui si tratta di una prima volta, si accosta con timore reverenziale, mentre se è di buona cultura e lunga consuetudine con i musei, si mostra particolarmente esigente.
I direttori di oggi sanno che la preparazione di un evento o di una mostra richiede la costruzione di un alone di eccezionalità. L’eccezionalità va costruita oppure bisogna cogliere al volo le opportunità che nel corso del tempo si presentano. L’opportunità costituita dal film The Gladiator, ad esempio, ha permesso nel 2006 di raggiungere ed oltrepassare la soglia dei tre milioni di visitatori al Colosseo. Le responsabilità dei direttori di musei o dei soprintendenti sono ben diverse da quelle di un organizzatore esterno di eventi. Entrambi, infatti, devono provvedere alla conservazione che è il primo pilastro della valorizzazione, ma a livelli diversi e per una diversa durata temporale. L’organizzatore esterno ha l’esigenza di salvaguardare e conservare le opere per il periodo di tempo in cui l’evento si svolge e durante le fasi dell’allestimento, smontaggio e trasferimento. Un direttore o un soprintendente devono, invece, sistematicamente e permanentemente provvedere alla conservazione, peraltro, non di rado in strutture o in contesti non adatti ad accogliere adeguatamente il visitatore. Questo si verifica soprattutto in città medio-piccole con una modesta, per non dire scadente, qualità di accoglienza, dovuta a carenze dell’assetto urbano o delle infrastrutture. Un esempio: recentemente è stato inaugurato il Museo Archeologico di Pontecagnano, in provincia di Salerno. Si tratta di un museo perfetto che ospita i reperti di maggior pregio di una necropoli della quale sono state censite 9.000 tombe, risalenti a una successione di periodi storici differenti. Il museo eccezionale e perfetto, però, si trova inserito in un contesto di abusivismo edilizio e, nei mesi dell’inaugurazione, lo svincolo autostradale di Pontecagnano risultava chiuso per lavori in corso. È difficile fare promozione in situazioni del genere, eppure la promozione è il secondo pilastro della valorizzazione del bene culturale. Sono convinta che i direttori di museo sempre di più dovranno interagire con il territorio, non solo con gli enti locali, che restano il principale interlocutore, ma anche con i tour operator, il cui ruolo è ormai fondamentale per una crescente richiesta di fruizione del patrimonio culturale diretta anche alle località d’arte minori. Entrambi, dunque, vanno contemporaneamente coinvolti, se si vuole proporre al visitatore un’offerta integrata che non sia penalizzata da imprevisti disastrosi, come, ad esempio, la chiusura dello svincolo autostradale di cui sopra.
Come ho già ricordato, il quadro positivo nella fruizione turistica e nella fruizione culturale si scontra spesso con carenze ben note relative al sistema dell’accoglienza, dell’alberghiero/ ristorazione, dei trasporti. Si tratta di carenze che non possono certo essere imputate alla gestione pubblica della cultura, della produzione culturale e del patrimonio culturale, ma che sono strettamente legate a contesti poco dinamici e poco friendly. In altri casi, l’inadeguatezza si manifesta nell’assenza di un porto che possa ospitare le navi da crociera o dell’aeroporto che possa ospitare voli low cost e dall’assenza di collegamento tra il sistema locale e gli operatori che potrebbero generare, invece, flussi di turismo culturale. Il potenziale di crescita che potrebbe essere innescato dai trend positivi prima citati, da un patrimonio culturale che in questi anni recenti è stato spesso innovato nella sua esposizione e rinnovato nella conservazione, viene dunque compromesso e riportato in basso dalla carenza di infrastrutture e servizi. In questi casi chi perde è il nostro paese, ma le responsabilità di tale perdita vanno collocate nei giusti ambiti e non genericamente attribuite allo stato e al sistema statale di gestione, conservazione e di valorizzazione del patrimonio perché non sarebbe corretto. Voglio anche ricordare, per quanto riguarda la proiezione turistica dell’Italia all’estero, che la comunicazione e l’informazione, che tanta parte occupano nel determinare l’appeal turistico dell’Italia, sono competenza in primo luogo delle singole regioni. Questo sistema determina la grande difficoltà, a tutti nota, di ricondurre ad univocità ed efficacia la comunicazione del Marchio Italia. Una nostra regione , tra le meno grandi, ma neppure tra le più piccole, come è a tutti noto, ha investito decine di migliaia di euro per acquistare uno spazio pubblicitario enorme presso l’aeroporto di Dubai. A Dubai certo si conosce l’Italia, ma non è altrettanto certo che si conosca la regione in questione, sicuramente non troppo nota da quelle parti. Ognuno deve assumersi, dunque, le proprie responsabilità rispetto alla mancata trasformazione in fatti reali delle potenzialità che esistono. Le criticità che ho menzionato, sono un aspetto di debolezza che è giusto sottolineare e stigmatizzare, ciononostante non si deve dimenticare che negli ultimi anni l’Italia è internazionalmente considerata uno dei grandi paesi dell’arte che meglio tutela il proprio patrimonio. Da quarant’anni, infatti, è in corso una grande svolta che considero come una
vera e propria conquista. Mi riferisco alla tutela non solo del singolo bene culturale in sé, ma anche - per adoperare un termine di solito utilizzato quando si pensa alle piante o agli animali - del suo habitat. Il rispetto del contesto che sta intorno ad un tempio greco, ad una chiesa cristiana, o ad un altro monumento di valore artistico, è una caratteristica che ormai distingue positivamente il nostro paese, quasi alla pari della leadership nel campo del restauro. In altre grandi e civilissime nazioni ciò non sempre avviene o non avviene ancora. Un altro punto di forza dell’Italia dei beni culturali consiste nella molteplicità di musei civici o ecclesiastici di assoluto rilievo, sebbene non possediamo quei musei monstre come il Centre Pompidou/Beaubourg o il Guggenheim Bilbao. Inoltre, per quanto non si possa ancora parlare di una nostra primazìa nel campo della didattica del patrimonio culturale rivolta ai ragazzi, è anche vero che stiamo compiendo notevoli passi in avanti. In ogni soprintendenza si è creato un centro per la didattica dell’arte, rivolto ai bambini delle elementari e ai ragazzi delle medie e delle superiori. Ciò significa che in ogni regione italiana esiste almeno uno di tali centri che dovrebbero entrare in rete con le sezioni didattiche dei musei del territorio e diffonderne il materiale e le metodologie di apprendimento. Al di là di ciò, le strutture istituzionali dei beni culturali dispongono ormai di una soddisfacente conoscenza del pubblico degli studenti e delle tendenze in esso presenti. I ragazzi giocano e comunicano con la tecnologia: è un’opportunità che si sta cavalcando, dal momento che le ICT sono pervasive e possono contaminare anche le loro famiglie in un nascente, o crescente, interesse verso i beni culturali. Per i bambini si ricorre all’uso di game boy, fornendo loro - come ad esempio avviene alla Villa Adriana di Tivoli - una cartuccia che anima e illustra il sito antico come se si trattasse di un complesso vivo e contemporaneo. Ciò avviene anche in molti siti del Sud, specie per quanto concerne i musei e i siti archeologici, di norma i più difficili da apprezzare per un ragazzino: ad esempio in musei e siti archeologici del Lazio, della Puglia, della Basilicata, della Campania, della Sardegna, nelle quali con l’ausilio di gameboy o di palmari si vivificano le informazioni storiche e artistiche attraverso una ricostruzione virtuale che rievoca il fascino paesaggistico del contesto antico da cui provengono i reperti museali. Più in generale
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quasi tutti i musei sono ormai attrezzati con sale multimediali che ripercorrono la vita dell’epoca nella quale sono stati originati gli oggetti esposti. L’universo degli anziani è quello nei cui confronti appare più carente l’accoglienza offerta attualmente dalle istituzioni museali e, poiché siamo tutti consapevoli che in prospettiva il pubblico anziano sarà probabilmente prevalente anche come fruitore di beni culturali, attrezzarsi adeguatamente appare la sfida cui si deve attribuire, oggi, particolare priorità. Ho accennato, in precedenza, che il pubblico anziano è molto variegato. Il maggiore sforzo di musei e istituzioni dei beni culturali dovrà concentrarsi, tuttavia, soprattutto su progetti che possano coinvolgere il pubblico degli anziani con scarsi strumenti cognitivi. Si tratta della tipologia di visitatori più difficile che non va delusa, altrimenti si rischia di perderla definitivamente. Passi in avanti significativi si stanno facendo anche per quanto riguarda il turismo congressuale per il quale ci si trova in presenza di un pubblico con una capacità di spesa anch’essa significativa. Si tratta di un pubblico che appare particolarmente recettivo a conoscere e visitare musei e beni culturali, proprio perché composto da persone inserite per uno o più giorni in un contesto particolare - il congresso - caratterizzato da momenti di dibattito, di approfondimento, di studio ed anche di relazioni sociali. In quest’ambito l’inserimento di intervalli qualificati di loisir ed entertainment sono fortemente richiesti. Si nota infatti, in tutto il paese, ma soprattutto nelle grandi città, una attenzione sempre più forte da parte dei responsabili di musei e centri espositivi a ricercare contatti con gli organizzatori di convegni o congressi e viceversa per rispondere positivamente e con impegno alle richieste di questa fascia di utenza. Passando al tema della cooperazione culturale ed all’analisi della sua influenza sulle possibilità di crescita anche del sistema imprenditoriale nazionale, è giusto affermare che in questi ultimi anni l’attività dell’Italia nel campo delle relazioni e della cooperazione culturale internazionale è andata notevolmente crescendo e intensificandosi. Un intensificarsi determinato da scelte che afferiscono sia alla strategia politica generale del nostro paese che alla specifica strategia culturale che ha riguardato da vicino il Ministero dei Beni e Attività Culturali. La prima scelta decisiva è consistita nel considerare il patrimonio culturale, una delle
più importanti componenti del made in Italy, e, di conseguenza, uno dei più importanti fattori di competitività nazionale. Infatti, la qualità e la quantità del patrimonio, il suo sistema di gestione, le modalità e le metodologie di conservazione, restauro, valorizzazione e nuova produzione culturale costituiscono un insieme di eccellenze, non separabili, che contribuiscono a conferire affidabilità e credibilità al nostro paese. A tale proposito, va sottolineato l’aumentato impegno internazionale dell’Italia in coerenza con le politiche europee e con il nostro ruolo nell’ambito di organismi culturali internazionali come Unesco, Icrom, Icomos. A livello europeo, la consapevolezza di un ruolo trasversale e molto positivo della cultura è più matura, anche in attuazione della strategia di Lisbona, che mira a fare dell’Europa una economia basata sulla conoscenza. In questo ambito il patrimonio culturale è - almeno nelle dichiarazioni - una delle chiavi di volta: ne deriva un impegno maggiore a inserire il settore della cultura e del patrimonio a livello di competenze U.E. L’Italia offre un contributo nello stimolare l’inserimento del settore in tutti i programmi UE di sviluppo che in qualche modo possano recepire istanze culturali. Non solo, quindi, in quelli specifici di sviluppo culturale (mi riferisco al Programma Cultura della Commissione Europea), quanto in quelli trasversali della information technology, della ricerca - settimo programma quadro-, delle relazioni esterne e di aiuto ai paesi emergenti (che sono più di tipo politico, ma poi si declinano anche nella cooperazione culturale con i paesi terzi, in particolar modo gli stati della sponda sud ed est del Mediterraneo). Negli organismi internazionali che rientrano nell’ Onu, il ruolo di primissimo piano dell’Italia per i beni culturali è ormai acclarato: noi siamo il paese dei caschi blu del patrimonio, dello heritage, nelle situazioni di emergenza. Da questo quadro discende un complesso di azioni intese anche a dare una risposta alla forte domanda di formazione rivolta dall’estero all’Italia e che riguarda tutta la filiera del settore beni culturali: formazione al restauro, alla valorizzazione e alle tematiche gestionali relative al patrimonio (organizzazione e legislazione). Si determina un incremento degli arrivi in Italia di persone interessate a specializzarsi in beni culturali provenienti dai paesi con i quali noi ci relazioniamo e abbiamo accordi bilaterali che
può avere sia impatti positivi per quanto attiene all’immagine/paese ed all’economia, ma anche qualche criticità. Per citarne una, l’accoglienza degli studenti, problema che si verifica nei rapporti bilaterali con la Cina, ad esempio, a causa delle difficoltà nella concessione dei visti. Per contro, il sistema universitario francese, per citare un caso, o il sistema tedesco hanno elaborato procedure velocissime di rilascio dei visti agli studenti cinesi che arrivano nei rispettivi paesi. Quelli che desiderano formarsi in Italia potrebbero essere molti di più, quantomeno nello specifico comparto dei beni culturali, a condizione che non vi siano troppi ostacoli amministrativi. Il risultato di lungo periodo potrebbe condurre, in tal modo alla formazione di una élite di professionisti che, ritornati nei rispettivi paesi, opereranno nel settore della gestione del patrimonio culturale: comparto ad alto valore aggiunto e in notevole crescita dovunque. Vi sono ambiti specifici (sub-settori del comparto beni culturali) per i quali esiste un’esportazione italiana di know how, accompagnata da modelli organizzativi, che può essere veicolata in un numero crescente di altri paesi in modo agevole dal momento che si tratta di trasferire metodologie. Mi riferisco ai sub-settori dell’inventariazione, della catalogazione, dei sistemi informativi : nelle tre aree implicate, in cui le tecnologie dell’informazione giocano un ruolo determinante, le opportunità di export riguardano la componentistica e il software per la cooperazione e la gestione dinamica di servizi applicativi, i prodotti di controllo climatico e di illumino-tecnica per esposizioni permanenti o temporanee. Abbiamo anche sviluppato un importante progetto di possibili applicazioni del sistema satellitare europeo Galileo. I settori coinvolti sono quelli: • delle tecnologie di controllo ambientale e di area; • delle tecnologie legate alla radio frequenza: per esempio per il controllo dei visitatori all’interno dei musei, nonché per il controllo dei depositi di materiali all’interno dei siti archeologici; • dei prodotti per la musealizzazione e delle relative tecnologie di controllo climatico e digitalizzazione applicate alle vetrine, teche, pannelli per l’esposizione. Nello specifico, dunque, il nostro paese esercita un ruolo di leader per quanto riguarda le tecnologie applicate alla conservazione dei beni culturali,
restauro ed esecuzione del restauro, controllo ambientale e territoriale, diagnostica, telesorveglianza dedicata al patrimonio culturale, telerilevamento delle emergenze archeologiche. Esistono Paesi avanzatissimi, come ad esempio il Giappone, che possono insegnarci molto sull’uso delle nuove tecnologie, ma sul come questi sistemi possano essere utilizzati per il patrimonio culturale, la sua conservazione e la sua valorizzazione, l’Italia ha la leadership. Nel campo del restauro, in particolare, l’Italia ha sempre avuto riconoscimenti non solo per la capacità di indicare linee guida, ma anche di intervenire direttamente sul bene culturale. Nel restauro, è prima di tutto la materialità che deve essere recuperata e ripristinata; le tecnologie, per quanto importantissime, sono un corollario. I Cinesi, fino ai tempi recenti in cui si è creata una collaborazione con l’Italia, consideravano come restauro il rifacimento del pezzo. Un approccio che non deve scandalizzare perché veniva adottato anche da noi e che, tuttavia, abbiamo abbandonato da almeno 40 anni. All’inizio della cooperazione con i colleghi Cinesi, venivano richiesti all’Italia semplicemente interventi nel campo del restauro. Oggi, invece, ci viene richiesta una collaborazione culturale a tutto campo. È stato compreso il nostro approccio: una concezione ampia del patrimonio culturale e del suo ripristino che prevede fra le professionalità da coinvolgere anche validi architetti, oltre che bravi restauratori provenienti dalle nostre scuole di restauro. Con la Cina e con gli altri importanti paesi dell’arte, il meccanismo di diffusione internazionale della cooperazione italiana nei beni culturali si basa principalmente sulla formula della Convenzione bilaterale, che ha come capifila il Ministero Affari Esteri e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Oggetto delle convenzioni non è solo il restauro, ma anche, spesso, la catalogazione. Per citare ancora una volta la Cina, abbiamo spiegato ai loro responsabili che la scheda di catalogazione deve essere unica. Poco importa che, poi, venga compilata - come nel caso italiano - da strutture statali preposte ai beni culturali, oppure da strutture regionali, o da enti ecclesiastici e non è così essenziale che, poi, sia digitalizzata o meno o che si possa trasferire e mettere in comune tramite l’uso delle tecnologie. Oltre alla Cina citerei anche i paesi Balcanici,
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quelli del Mediterraneo, dell’area caucasica: richiedono tutti una collaborazione con l’Italia a tutto tondo. Questo significa, in termini di business, trasferimento di brevetti. Un semplice esempio: la fornitura o la licenza di produzione delle vetrine da esposizione o dei corpi per l’illuminazione. Anche l’India chiede collaborazione per un progetto pilota volto alla valorizzazione delle grotte di Ajanta. Per non parlare del Giappone, che con noi collabora ormai da decenni come partner nella gestione del patrimonio culturale e che ha chiesto all’Italia di essere partner anche nella gestione delle catastrofi che possano coinvolgere beni culturali, ben prima che l’Onu designasse l’Italia nel ruolo di caschi blu delle Nazioni Unite per tale specifico compito. Ed è sempre il Giappone ci
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chiede cooperazione nelle telecomunicazioni per il patrimonio, nelle tecnologie di tele-rilevamento e controllo da satellite, nei servizi applicativi tramite terminale che richiedono interazione con l’utente. Consideriamo, infine, che una delle linee di innovazione industriale presenti nella legge finanziaria 2007 è proprio dedicata alle tecnologie innovative per i beni culturali. Essa comporta un meccanismo di incentivazione per le imprese avente la specifica finalità di sostenere la capacità di innovazione di quelle aziende che operano nel campo dei beni culturali. L’augurio è che in questo caso - a differenza delle detrazioni e deduzioni fiscali ricordate all’inizio - le suddette incentivazioni possano essere utilizzate al meglio. Dalle aziende, soprattutto.
L’investimento nei beni culturali: nuova opportunità per l’impresa
Maurizio Costa Vice Presidente e Amministratore Delegato Mondadori Editore e Presidente della Commissione Cultura di Confindustria
Come premessa alle riflessioni che seguiranno desidero illustrarvi due esperienze, entrambe legate al mondo della cultura: la prima abbraccia la mia esperienza professionale maturata in Mondadori, che rappresenta un operatore importante in materia di cultura, mentre la seconda riguarda l’esperienza associativa di Confindustria, e in particolare della Commissione Cultura, alla cui guida sono stato chiamato quattro anni fa da Luca Cordero di Montezemolo, e con cui abbiamo anche definito le linee guida del programma. All’inizio del nostro mandato come Commissione Cultura, abbiamo individuato tre aree a cui dare priorità: l) la responsabilità sociale dell’impresa 2) la cultura di impresa 3) il rapporto tra impresa e beni culturali Su quest’ultimo punto abbiamo voluto dare un’impronta pragmatica e concreta, volta a stimolare un approccio imprenditoriale a problematiche di grande interesse, che richiedono anche un notevole impegno operativo per non restare nel limbo delle buone intenzioni. L’approccio ai beni culturali deve essere organico, senza separare la problematica della tutela da quella della valorizzazione. I due aspetti sono infatti complementari e parte integrante di uno stesso percorso. È utile innanzitutto sottolineare come le imprese, negli ultimi anni, abbiano dato un contributorilevante e crescente alla valorizzazione dei beni culturali, proprio in una prospettiva d’insieme, integrata e comprendente, in alcuni casi, anche la gestione. Le imprese sono ancora molto limitate nell’agire: si riscontrano ancora forti ostacoli nella gestione dei beni culturali affidata a privati. La Commissione Cultura di Confindustria ha voluto approfondire con un’indagine l’analisi dei dati relativi agli investimenti delle imprese destinati al patrimonio. Dall’indagine è emersa chiaramente la dimostrazione del fatto che gli investimenti e le risorse finanziarie sono cresciuti in questi ultimi anni, sebbene dal rilevamento siano state escluse alcune filiere, riguardanti in primis una parte delle attività delle piccole imprese. Non sono infatti state censite sponsorizzazioni
e altri interventi inferiori ai 4-5 mila euro, né sono state classificate iniziative che, pur essendo sempre nell’ambito dei beni culturali, sono state presentate come iniziative educative e/o sociali.Inoltre, da una parte emerge che il complesso degli investimenti è superiore a quello censito, dall’altra si riscontra la mancanza di un osservatorio nazionale autorevole che presenti un quadro certificato e completo della dimensione dell’impegno finanziario delle aziende nei beni culturali. Sono necessari maggiori elementi di conos cenza. Qualche passo avanti significativo è stato compiuto, non solo dalla nostra Commissione confindustriale ma anche da altri, sebbene risulti ancora insufficiente perché si tratta di un terreno tutto da esplorare. Nel 2006 si è tenuta a Roma in Confindustria una tavola rotonda alla quale hanno partecipato il presidente Montezemolo, il sindaco Veltroni e il ministro Rutelli: in questa occasione è emersa la necessità di censire lo stato dell’arte degli investimenti privati e imprenditoriali nel settore dei beni culturali. In quella sede venne proposto e poi avviato dal ministro un osservatorio sulla cultura d’impresa e sul patrimonio storico culturale. Ne è derivata un’inchiesta sulla quantità, qualità e tipologia delle iniziative culturali che nascono nell’impresa e hanno come baricentro il patrimonio storico documentale. Il primo obiettivo è stato focalizzare la realtà degli archivi e dei musei d’impresa che sono per definizione promotori di cultura industriale sul territorio. In secondo luogo si è cercato di stimolare la collaborazione tra le diverse entità locali coinvolte nel sistema cultura, sviluppando da un lato anche i rapporti con le scuole e con il sistema educativo e dall’altro quello con gli operatori turistici; anche l’osservatorio e il censimento sono strumenti che aiutano a superare gli steccati. Un altro elemento rilevante da porre all’attenzione dell’opinione pubblica riguarda il modo in cui le risorse vengono investite. Gran parte delle maggiori imprese e delle fondazioni ha una preferenza verso l’allocazione delle risorse in investimenti che comportino
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iniziative di carattere strutturale come il restauro e gli interventi architettonici. In altri casi le preferenze sono rivolte al settore piu tradizionale dei beni culturali: musei o mostre, teatri di musica classica o di musica lirica. Dovremmo ragionare anche sull’evoluzione rapida del mondo della cultura in relazione all’uso del tempo libero, da cui non può che derivare anche un’evoluzione dei ruoli e delle modalità attraverso cui le imprese partecipano alla valorizzazione del patrimonio culturale. Dall’approccio storicamente piu tradizionale del mecenatismo o dal ruolo di sponsor, che ha caratterizzato una prima fase di intervento delle aziende nell’ambito dei beni culturali, si sta passando a nuove strategie in cui l’impresa non è più soltanto passiva. Il fenomeno delle sponsorizzazioni richiede di aprire una parentesi per rimarcare l’incompiutezza della normativa italiana in materia di defiscalizzazione per l’impresa-sponsor. Si sta delineando un’evoluzione verso una nuova modalità di sponsorizzazione, in cui l’impresa contribuisce a finanziare e, al tempo stesso, è parte attiva nel lavorare insieme ai fini della realizzazione di un progetto culturale. La strada da percorrere con ancora maggiore determinazione nel futuro è quella di vere e proprie partnership tra pubblico e privato per la gestione e valorizzazione di progetti culturali, musicali, teatrali, di monumenti e di musei, Un caso emblematico di ruolo attivo dei privati mi pare sia proprio quello della Reggia di Venaria Reale. Progettare partenariati tra pubblico e privato significa definire uno schema nel quale le competenze siano
definite chiaramente e nel quale ciascuno si assuma le proprie responsabilità per operare meglio in massima trasparenza. Si puo parlare di una sorta di modello distrettuale in cui la corelazione tra cultura, nella sua accezione ampia, e territorio produca un effetto virtuoso. La Commissione Cultura di Confindustria ha avuto modo di analizzare esperienze di distretti culturali in alcune aree italiane. È un percorso innovativo sul quale vale la pena di procedere, seppur con qualche cautela. Le aree di intervento che appaiono prioritarie e meritevoli di attenzione sono tre: - l’area dell’intervento normativo, necessario per abbattere steccati burocratici e per ridefinire la tematica degli incentivi fiscali; - l’area dei servizi, incentivando le strutture per la gestione delle attività di valorizzazione culturale. Per dare concretezza ai progetti occorrono infrastrutture e servizi logistici; - l’area del dibattito culturale: due esempi sono la Giornata di Studi di Consulta e le iniziative che vengono sviluppate nell’ambito della Commissione Cultura di Confindustria. La sfida consiste nel far crescere la consapevolezza che l’investimento nel settore dei beni culturali non è soltanto un servizio al paese, ma è una straordinaria opportunità per creare valore. Anche nel settore turistico, che rappresenta uno degli asset piu importanti del nostro paese, il patrimonio culturale potrebbe e dovrebbe diventare, in maniera sempre piu significativa, un’opportunità di crescita anche economica.
L’investimento nei beni culturali: nuova opportunità per l’impresa
Stefano Lucchini Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione Eni Eni ha una tradizione di impegno in ciò che riguarda la responsabilità sociale d’impresa. E una lunga tradizione di interventi nel settore nel campo dei beni culturali.Una tradizione che deriva dalla consapevolezza di una propria missione nel contribuire al progresso civile e, soprattutto, nel rispondere alle istanze dell’opinione pubblica, tra le quali ha assunto progressivamente un’importanza primaria la valorizzazione del patrimonio culturale. Fino a qualche tempo fa l’impresa ha contribuito - soprattutto sul piano economico - alla organizzazione e alla riuscita di singole iniziative legate al mondo dei beni culturali. È stato senz’altro un intervento rilevante: ha permesso eventi di portata internazionale che hanno innescato grande interesse nell’opinione pubblica e hanno contribuito a generare una cultura diffusa, grazie al loro facile accesso e ad un linguaggio comprensibile anche per un pubblico generale di non specialisti e di non addetti ai lavori. Credo però che la stagione del mecenatismo sia piuttosto superata, anche se è costata uno sforzo notevole e ha richiesto un approccio pragmatico che resta più che mai valido anche oggi. Indubbiamente nella stagione del mecenatismo è prevalso un atteggiamento auto-referenziale delle aziende, più che un loro reale coinvolgimento nel mondo dei beni culturali. Un atteggiamento auto-referenziale che, in un passato non lontano, è stato comune alla nostra come a quasi tutte le grandi aziende. Oggi sta mutando: dal mecenatismo si sta passando a una strategia aziendale di intervento più attento e partecipato nella valorizzazione dei beni culturali: direi che si sente davvero una responsabilità sociale verso il patrimonio artistico e culturale. La si sente davvero nei comportamenti e nelle strategie adottate dalle imprese che hanno compreso che il patrimonio è importante per loro stesse. Richiamo il pensiero di Adrian Cadbury, il padre della governance, che sottolineava come l’esistenza delle aziende si fondasse su un accordo implicito tra il mondo del business e la società. L’essenza di questo contratto implicito comporta che le aziende non debbano perseguire i propri obiettivi di profitto immediati a spese dell’ interesse genera-
le e a più lungo termine della comunità. È un principio che ha una valenza etica, ma al tempo stesso richiama le imprese ad un sano realismo: ha valore per le aziende, qualunque sia il settore in cui operano, perché implica la reciprocità tra l’azienda e il territorio. Particolarmente questo vale per quelle aziende che operano nel mondo intero, nel contesto internazionale. L’azienda che si riconosce nel territorio e lo rispetta, che ne conosce e ne apprezza la storia e la cultura, fa il possibile per integrarsi con la comunità locale e in essa si impegna con azioni socialmente responsabili. Imprese e beni culturali costituiscono un binomio che in apparenza esula dal business: i beni culturali non sono primariamente un oggetto economico, anche se in molti casi possono diventarlo, ma non è questa la sede per discuterne. È da sottolineare invece che quei principi di rispetto, conoscenza, tutela e integrazione prima citati a proposito dell’internazionalizzazione e dei rapporti con le comunità “altre” sono principi applicabili anche quando si tratta non di paesi, ma di categorie “altre” rispetto all’impresa: i beni culturali nel nostro caso. È importante non solo la meta, che per l’azienda è la redditività, ma, per utilizzare un linguaggio metaforico, va apprezzato non solo il raggiungimento della meta, bensì l’intero viaggio, un viaggio che percorre la conoscenza e l’integrazione. La costruttiva partecipazione con cui un’impresa come la nostra si pone oggi nei confronti della cultura, si sta traducendo in una pratica di comunicazione che è indice di un atteggiamento - oserei dire - di entusiasmo. Non è quindi più sufficiente un rapporto in cui l’impresa ritagli per sé il ruolo di garantire il sostegno economico in cambio di visibilità del proprio brand, del proprio logo, lasciando agli operatori culturali il compito di assicurare i risultati attesi. Il brand rappresenta il carattere distintivo che firma tutte le attività dell’impresa, ma le modalità di interazione con l’esterno non possono essere limitate a uno sforzo economico fine a se stesso; perché il brand non si rafforza nell’ambiente esterno per effetto della sola generosità economica, bensì per azioni che implicano coinvolgimento responsabile. Oppure per altri valori guida, che identificano
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il brand come un’immagine di garanzia, di affidabilità, di sostenibilità ambientale, di credibilità, di autorevolezza, in una parola, di fiducia. L’impresa crea lavoro, produce e cambia il paesaggio sociale di cui è parte. Sono queste le ragioni che rendono attuale il concetto di un passaggio da sponsor a vero e proprio partner responsabile di progetti culturali, perché la possibilità di offrire una maggiore fruibilità di alcuni beni culturali a coloro che sono non solo gli stakeholder, bensì il territorio in cui si opera, è un aspetto strategico per quanto riguarda la credibilità delle aziende. È necessario che si crei in questo modo un circolo virtuoso tra le istituzioni in loco, con le loro competenze scientifiche proprie dei beni culturali, e l’impresa. Questa, a sua volta, può mettere a disposizione managerialità, tecnologia, uomini e risorse finalizzate. L’insieme di tali competenze può generare un sistema moderno, efficiente, scientificamente affidabile, che renda la gestione del bene culturale - dall’individuazione, al restauro, alla fruizione capace di generare un valore riconoscibile per i protagonisti e per la collettività. È chiaro a tutti che lo stato, di fronte alle esigenze di intervento sui beni culturali di un paese come l’Italia, ha spesso gravi difficoltà. Una recente indagine del Ministero dei Beni Culturali evidenzia che in Italia ci sono circa 20 mila centri storici, 45 mila tra castelli e giardini, 30 mila dimore storiche, 100 mila chiese, 2000 siti archeologici, oltre 3000 musei pubblici e privati, per non citare un numero considerevole di biblioteche e archivi. A questi beni culturali di tipo tradizionale si devono poi aggiungere tutte le opere prodotte nel ‘900: spesso caratterizzate dalla riproducibilità, come ad esempio i primi apparecchi radio, i primi stereo, le automobili, i primi laboratori elettronici, le invenzioni del design industriale e della moda, fino alle opere della fotografia, del cinema e della televisione, della cartellonistica e della stessa pubblicità creativa. Periodicamente suona l’allarme per il rischio che tali beni importanti del nostro patrimonio vengano definitivamente compromessi. L’argomento che viene addotto a giustificazione del rischio di deterioramento è la cronica mancanza di fondi e di personale. Le denunce di grandi istituzioni culturali e musei che conservano nei loro scantinati opere
di eccezionale valore artistico, senza essere in grado di esporle, raccontano una storia desolante di gestione di un patrimonio che potrebbe, invece, diventare una straordinaria opportunità dal punto di vista economico: andando a qualificare l’offerta culturale del settore economico del turismo e dell’accoglienza. Tocca allora alle imprese, in particolare in Italia, svolgere un ruolo di guida e prendere in adozione il territorio in cui si interagisce da sempre, tenendo fede al patto che le impegna a restituire alle comunità i benefici, che vanno oltre l’occupazione e la ricchezza create dal business. Si tratta di far emergere nuovi giacimenti di intelligenza diffusa, attraverso la promozione di eventi culturali che intercettino interlocutori non tradizionali, a cominciare dai giovani e più in generale da tutti coloro che, per ragioni diverse, spesso rimangono estranei ai circuiti della cultura. Prendere in adozione un bene o un evento culturali, significa progettare insieme alle istituzioni. Si apre una gamma vasta di interventi sul patrimonio esistente: nella maggior parte dei casi, ad esempio, il censimento stesso delle opere di un territorio non esiste o è incompleto. Oppure la messa in rete e consultazione informatica dei beni presenti è riservata a un pubblico di specialisti. Il ruolo socialmente responsabile delle aziende si può quindi estrinsecare nel mettere a disposizione, soprattutto dei distretti locali, le proprie strutture associative e fondazioni; oppure le competenze che servono a sviluppare un progetto e monitorarlo nella sua implementazione, fissando gli obiettivi e i tempi di realizzazione. Se questa collaborazione tra imprese e istituzioni culturali funzionerà, si avranno un incremento della fruizione da parte dei cittadini e la qualificazione dei servizi offerti nel segno dell’innovazione gestionale di prodotto, uno scambio reciproco di valore tra impresa e territorio. Per la preservazione di un patrimonio il cui valore simbolico nella percezione dell’opinione pubblica può andare anche oltre i confini del territorio di riferimento. Esistono esempi significativi di intervento realizzati con logica di partenariato. Uno di questi è il restauro, agli inizi degli anni 2000, della facciata della Basilica di San Pietro: ha permesso a Eni di trasferire in un intervento culturale applicazioni tecnologiche assai sofisticate e di sperimentare modelli organizzativi e progettuali avanzati, primo fra tutti il project management ancora assai carente negli interventi di recupero
artistico, raccogliendo per l’azienda informazioni utili al fine tuning delle proprie strategie di qualità dei prodotti. Un altro esempio di collaborazione tra imprese e territorio si è realizzato recentemente: mi riferisco a una iniziativa meritoria, fortemente voluta dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, denominata Maratonarte, ideata con l’obiettivo di raccogliere fondi attraverso una sottoscrizione solidale pubblica per il restauro il mantenimento e la fruizione di 7 siti culturali in varie regioni italiane. Ha visto scendere in campo diverse importanti imprese che hanno messo a disposizione le proprie reti commerciali, tra queste la rete Agip. Iniziative del genere poggiano le basi del loro successo anche sulla credibilità delle imprese partecipanti nel chiedere il gesto simbolico di una sottoscrizione. Tra i compiti di un impresa socialmente responsabile non può mancare poi la tutela del patrimonio industriale: è la promozione consapevole della propria cultura industriale e non solo un’ occasione di visibilità. È un aspetto che riguarda molto direttamente la nostra azienda, perché quella Eni è una cultura d’impresa forte, grazie al fatto che Eni si è sempre sentita come ambasciatore del proprio paese nelle aree del mondo in cui si è trovata ad operare, una condizione ben conosciuta a noi ma anche a grandi importanti imprese italiane e torinesi in particolare. Una caratteristica per noi ancora più accentuata dall’impronta di Enrico Mattei. Enrico Mattei, fondatore di Eni nel 1953, aveva
sempre voluto che un tratto distintivo dell’azienda fosse il coinvolgimento sul territorio, con attenzione a tutto quello che riguardava istruzione e salvaguardia del patrimonio artistico: raccontandone l’arte, la letteratura, la scultura, l’architettura, ma anche il patrimonio di innovazione tecnologica, le competenze professionali e la qualità dei propri prodotti. Ancora oggi questa impronta resta. E, tramite Eni, ha contribuito agli eventi di straordinario successo promossi negli anni scorsi da alcune grandi imprese italiane . È stato infatti possibile far apprezzare all’estero, a San Pietroburgo come ad Hong Kong o altrove, il nostro patrimonio artistico attraverso istituzioni di prestigio internazionale quali La Scala o il Piccolo Teatro. Così come è importante favorire la valorizzazione della cultura dei paesi in cui l’impresa si trova ad operare: progettando ad esempio il recupero di un bene archeologico locale e mescolando uomini e competenze scientifiche del posto con professionalità ed esperienze maturate da noi: come avvenuto nel caso di Eni in Libia. Progetti sono allo studio nel prossimo futuro. Probabilmente grazie alla possibilità offerte dalla multimedialità più evoluta, sarà possibile assistere a migliaia di cittadini che, in Kazakistan come a Tokyo e ad Algeri, si metteranno in fila per ammirare gli affreschi di Pompei e le stanze di Raffaello. Tutto questo è cultura ed è energia. Il futuro, come diciamo noi in Eni, parafrasando Mattei, è di chi lo sa immaginare.
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L’investimento nei beni culturali: nuova opportunità per l’impresa
Paolo Targetti Presidente Targetti Sankey, Firenze
La mia voce sarà in controcanto perché non appartengo al mondo della conservazione dei beni culturali. Appartengo, semmai, a quel mondo che si occupa di mettere in valore le opere d’arte di cui il nostro paese è ricchissimo. L’esperienza che ho vissuto, e a cui vorrei accennare, parte proprio da un aspetto peculiare: spesso siamo chiamati a intervenire sulle opere d’arte di artisti importanti, che sono divenute patrimonio universale. La mia azienda, che da poco meno di un secolo opera nel campo dell’illuminazione, era stata contattata 25 anni fa dalla direttrice della Galleria dell’Accademia di Firenze, il Museo in cui sono esposti il David e i Prigioni di Michelangelo, con la richiesta di sponsorizzare l’allestimento delle luci del complesso espositivo. Proposi un tipo di illuminazione molto innovativa e scenografica, con un David che si potesse vedere nella luce più adeguata a ciascuna delle diverse fasi della giornata: questa operazione ha comportato uno studio che è durato molti mesi e mi ha portato a convivere con il David anche di notte, nel silenzio assoluto. Non c’era nessuno, tranne un collaboratore che erigeva i ponteggi provvisori per le prove di l’illuminazione. Posso assicurare che questo rapporto così intimo con un’opera d’arte di tale importanza non solo mi ha procurato grande emozione, ma mi ha anche stimolato una riflessione che sintetizzo con molta semplicità: Michelangelo, con il suo carattere forte e irascibile, che cosa mi avrebbe mai detto, come mi avrebbe trattato, di fronte alla “violenza” che stavo perpetrando su una sua opera con la mia luce? Un’opera, tra l’altro, di cui era molto geloso; ricordiamoci che decise lui stesso, poco più che ventenne, il luogo in cui avrebbe dovuto essere esposta: Piazza della Signoria, cuore indiscusso della Firenze di allora. E Michelangelo, lo sappiamo, era maniaco dei dettagli. Che cosa avrebbe detto, mi chiedevo? E che dire di Caravaggio, altro grande pittore altrettanto difficile da illuminare per l’uso pittorico che fa della luce e per la straordinaria tridimensionalità sulla superficie dei suoi quadri che solo l’illuminazione può far risaltare. Pensavo a come sarebbe stato bello avere oggi un rapporto con un artista vivente. Pro-
prio allora decisi che dovevo fare qualche cosa per collegarmi agli artisti di oggi, per vivere la mia contemporaneità. Mi rivolsi a un amico curatore di musei, l’israeliano Amnon Barzel, che allora dirigeva lo Judisches Museum di Berlino e che in precedenza era stato tra i fondatori del “Pecci” di Prato, uno dei non molti - per non dire dei pochissimi - centri espositivi italiani che potevano considerarsi punti di riferimento dell’arte contemporanea. Gli chiesi di aiutarmi a realizzare una collezione d’arte con caratteristiche particolari: avrebbe dovuto infatti raccogliere opere di artisti contemporanei realizzate su commissione con la massima libertà quanto a contenuto concettuale e scelta dei materiali, ma con il vincolo di usare la luce artificiale come strumento espressivo. Abbiamo vissuto questa esperienza, iniziata ormai da oltre un decennio, con non poca passione e anche con qualche difficoltà. Su questa collezione ho poi creato una Fondazione, in occasione del 70° anniversario della nostra impresa: per dare vita a questa avventura sono stati chiamati una dozzina di artisti tra cui il torinese Gilberto Zorio, il fiorentino Fabrizio Corneli, il veneziano Fabrizio Plessi, il giapponese Nagasawa e altri importanti esponenti dell’art system internazionale come l’allora giovanissimo Olafur Eliasson. La Fondazione si è progressivamente sviluppata e come sede abbiamo acquisito una residenza storica molto importante, costruita nel 1428 sui colli di Firenze, non lontana dalla Certosa (la mia città, per fortuna, è ricca di questi piccoli tesori!). In un contesto che fa della contaminazione tra tradizione e innovazione, l’avventura continua. Recentemente abbiamo commissionato un’opera ad Arnaldo Pomodoro: è la prima volta che lavora con la luce. Sono due anni che “giochiamo” insieme alla ricerca della soluzione perfetta: posso assicurare che il rapporto che si stabilisce fra il committente e l’artista è qualcosa di magico, che ciascuno dovrebbe vivere almeno una volta. Dal 1998 la collezione è impegnata in una mostra itinerante, che l’ha portata in alcuni dei musei più importanti del mondo: è stata a Buenos Aires, a New York, a Varsavia, a Vienna, a Mosca, a Lipsia,
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a Milano, a Londra e la porteremo presto a Copenaghen e a Madrid. Siamo riusciti a esporla anche nel Sancta Sanctorum dei francesi, la Sainte Chapelle, durante una serata particolare all’insegna della musica contemporanea, espressamente composta per quell’evento. Un’altra esperienza unica che condivide con le altre il suo fondamento: il desiderio di vivere la contemporaneità dell’espressione artistica. Lavorando con la luce - e quindi con il mondo della progettazione dello spazio - negli ultimi anni abbiamo ampliato l’attività della Fondazione, dando vita all’Osservatorio dell’Architettura, un laboratorio in cui riuniamo i maestri del pensiero architettonico contemporaneo e ci interroghiamo insieme a loro sui problemi e sulle potenzialità del presente e del futuro dell’architettura e dell’urbanistica. Ci piacciono non tanto gli architetti che fanno muovere le ruspe, quanto coloro che fanno muovere le coscienze e le idee. Tra gli ospiti dell’Osservatorio ci sono stati Jona Friedman, Norman Foster, Peter Eiseman, Tom Mayne, Bernard Tschumi, Vito Acconci, Alvaro Siza: con loro e con tanti loro allievi e colleghi abbiamo cercato di immaginare quale dovrebbe essere l’Acropoli di domani. Noi imprenditori abbiamo una grande responsabilità sociale. È nostro preciso dovere lavorare per il benessere di oggi, avendo chiaro in mente anche un progetto per il futuro. Che cosa stiamo facendo in questa prospettiva? Come manifestiamo e viviamo individualmente questa nostra responsabilità? La nuova immagine acquisita attraverso queste iniziative ha portato beneficio all’azienda, è vero. Ma sono benefici che abbiamo voluto restituire subito alla collettività: per questo la Fondazione ha,
ad esempio, la Lighting Academy che si occupa di corsi di formazione illuminotecnica, aperti a tutti coloro che sono interessati a come usare la luce per valorizzare sia le architetture pubbliche che i contesti urbanistici. Alcune cifre: nel decennio trascorso abbiamo investito circa 500 - 700 mila euro/anno. La collezione d’arte è stata visitata da 230 mila persone/anno. Cifre incredibili sono state raggiunte anche dal portale www.lightingacademy.org che si occupa di promozione della “cultura della luce” e che è stato visitato da 3 milioni e mezzo di utenti del web. In totale abbiamo investito nell’attività culturale 6 milioni di euro con un risultato di quasi 41 milioni di contatti diretti: semplici cittadini o esperti che hanno visitato il centro di formazione o sono entrati virtualmente all’interno della nostra collezione. Sono cifre impressionanti, che hanno sorpreso anche noi e che dimostrano un nuovo grande interesse verso la cultura della luce, con un incredibile ritorno di prestigio per la nostra impresa. Un risultato prodotto da un’iniziativa nata quasi per caso, per la mia personale curiosità su cosa avrebbe pensato Michelangelo del mio impianto di illuminazione. Iniziativa che, sfruttando per qualche aspetto la fiorentinità - certamente l’immagine fiorentina è molto attrattiva per chi ama il bello e la cultura - riesce esportare azienda e arte in giro per il mondo, con l’obiettivo finale di portare una testimonianza della creatività contemporanea nei prossimi decenni: le opere d’arte contemporanea sono uno straordinario veicolo per portare una testimonianza viva della nostra cultura e del nostro modo di interpretare la vita di oggi.
L’investimento nei beni culturali: nuova opportunità per l’impresa
Consuelo de Gara Fondazione Targetti, Firenze
Squarciamo innanzitutto il velo su un radicato malinteso: affinchè un’azienda investa con continuità in cultura è necessario che questo investimento non venga inquadrato in una semplicistica logica di mecenatismo fine a se stesso, ma diventi una vera e propria leva strategica della sua politica di comunicazione e di crescita. L’era della sponsorizzazione indifferenziata, in cui l’istituzione culturale chiede contributi economici e offre in cambio loghi sui depliant e targhe in ottone nelle sale dei musei è finita. Alla maggior parte delle aziende oggi non interessano più né i loghi né le targhe. Quello che l’impresa cerca sono ben più complesse e innovative forme di partnership, capaci di trasformare le ormai logore “elargizioni liberali” in veri e propri investimenti in ricerca e sviluppo. Uno dei punti critici nel rapporto tra il mondo dei beni culturali e quello dell’industria e del commercio sta proprio nell’ancor diffusa incapacità di riconoscersi come partner capaci di offrirsi reciproci vantaggi. Quello che serve di più è dunque uno sforzo duplice e reciproco: da una parte le aziende devono smettere di interpretare l’investimento in cultura solo come un accessorio del proprio piano di marketing e comunicazione; dall’altra le istituzioni culturali devono imparare a essere meno diffidenti nei confronti della possibilità di trarre dalle aziende benefici ben più efficaci delle semplici donazioni, ampliando l’orizzonte collaborativo al know-how dell’impresa e offrendo ritorni che non si limitino al puro mondo dell’immagine. Illuminante - in questo senso - è quanto sessant’anni fa scrisse Lucio Fontana nel suo “Manifesto Spaziale”: “Ci rifiutiamo di pensare che le imprese scientifiche e le imprese artistiche appartengano a mondi differenti: le imprese scientifiche provocano imprese artistiche; le imprese artistiche anticipano le imprese scientifiche”. È da questo senso di reciproca appartenenza, da questa potenziale comunione di valori che nascono le migliori esperienze di cooperazione. In Targetti abbiamo cercato di fare tesoro di questa ispirazione: all’interno dell’azienda e della Fondazione facciamo incontrare tecnici e artisti, fisici e filosofi, architetti e grandi pensatori. Ci
piace l’idea di lavorare insieme ai progetti, anche e soprattutto a quelli che hanno a che fare con il mondo dei beni culturali. È stato così nel caso dell’illuminazione realizzata nel 1985 per il David di Michelangelo e continuamente rinnovata e adeguata sulla base delle nuove tecnologie della luce o in quello del progetto illuminotecnica ideato per il Cenacolo di Leonardo da Vinci: è solo confrontandosi con gli storici dell’arte, i restauratori, i soprintendenti e gli studiosi di molteplici discipline umanistiche che è possibile dare un contributo davvero efficace anche dal punto di vista strettamente tecnico. Progetti di questo tipo implicano sfide molte impegnative che - se affrontate con lo spirito giusto - diventano immediatamente occasioni straordinarie di crescita, soprattutto per i professionisti della nostra azienda. In altre occasioni la collaborazione con il mondo dell’arte segue canali meno istituzionali e ancora più innovativi: alla Fondazione Targetti fa capo la Targetti Light Art Collection, una collezione di opere d’arte contemporanea realizzate da alcuni dei più affermati artisti internazionali utilizzando la luce artificiale come strumento espressivo. “Le imprese scientifiche - riprendo ancora Fontana - provocano le imprese artistiche; le imprese artistiche anticipano le imprese scientifiche”: questa collezione è la prova tangibile dell’efficacia di questo pensiero. I tecnici specializzati della Targetti lavorano a stretto contatto con artisti provenienti da ogni parte del mondo, ognuno con una sua idea precisa sulla luce che vuole raccontare: sta ai nostri uomini suggerire le soluzioni luminose più adatte a dare forma a quell’idea. Queste opportunità di collaborazione si sono a poco a poco rivelate una delle più efficaci fonti di ispirazione per affrontare la creazione di prodotti e progetti di illuminazione non convenzionali e straordinariamente innovativi. I light artistici hanno ad esempio insegnato che la luce non è solo funzione ma anche emozione, che la sua percezione non è un fenomeno soltanto fisico, ma anche emotivo. Uno dei prodotti più interessanti proposti da Targetti al mercato negli ultimi anni (Aria) è nato dalla riflessione su alcune opere del grande artista americano James Turrell
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con cui abbiamo avuto il privilegio di lavorare in occasione della mostra della nostra collezione al MAK di Vienna. Ed è attraverso esperienze di questo tipo che abbiamo imparato a comunicare anche i valori extra-prodotto legati all’universo creativo dell’azienda, trasformando così l’investimento in cultura (prima considerato un virtuoso costo) in un virtuosissimo investimento in ricerca e sviluppo. Se inseriti sotto questa voce del budget, è probabile che i soldi, le energie e le competenze spese diventino davvero fruttuosi. Diventano “cultura d’impresa”, che non è più solo “cultura della produzione”, ma anche “cultura dell’interrelazione”, ovvero un impegno che va ben oltre la fatica di organizzare un evento o di individuare l’istituzione culturale che ricambia i favori con targhe e loghi particolarmente grandi. L’arte, quando entra in azienda, la trasforma in un luogo di esperienza; aumenta la consapevolezza del tempo in cui si vive. La luce, materia prima del nostro lavoro, non ha alcuna ragione di esistere, se non per rendere visibili le cose all’uomo. È dunque intorno all’uomo e a una maggiore conoscenza della sua complessità psicologica, fisica e percettiva che l’arte ci porta a concentrare il nostro sforzo. Credo, infine, che un altro vantaggio significativo di questo tipo di esperienze sia il riscontro che esse ottengono sulla crescita delle persone che lavorano insieme a noi a questi progetti: lavorare a stretto contatto con il mondo dell’arte arricchisce anche la cultura dei nostri collaboratori. Si tratta, in un certo modo, di un’ulteriore assunzione di responsabilità da parte delle imprese: farsi portatrice di valori che vanno al di là della pura logica del profitto e della relazione tra un’azienda e i suoi uomini.
E tra questi valori c’è quello della formazione permanente, così come quello dell’educazione a una sorta di “democrazia partecipativa” dell’arte in cui ognuno, sulla base delle proprie competenze, è in grado di dare il suo contributo, di esprimere il suo parere, di manifestare curiosità o repulsione. Di pensare, anche di fronte a un tornio, che quel tornio può creare qualcosa di straordinariamente sorprendente, qualcosa - appunto - su cui pensare. L’arte contemporanea - nostro terreno privilegiato di riflessione - ha il vantaggio di lasciare a tutti la libertà di dire “non mi piace”, “non la capisco”, perché non è codificata e non devi provare una reverenza obbligata. Di fronte a uno Zorio si può chiedersi liberamente che diavolo sia quell’ammasso di lampadine, di vernici, di palloni gonfiabili. Forse una società democratica si costruisce anche in questo modo, investendo sulla responsabilità sociale dell’impresa intesa come capacità di aiutare a coltivare cultura e libertà di pensiero. Quanto agli strumenti che potrebbero favorire una crescita degli investimenti dei privati nell’ambito dei beni culturali, credo sia necessario investire soprattutto nella formazione di nuove figure professionali capaci di fare da mediatori tra la logica delle istituzioni pubbliche e quella dei capitali privati, contribuendo alla creazione di un linguaggio comune, presupposto ineludibile per qualsiasi confronto. I tentativi finora operati per rendere l’investimento privato interessante dal punto di vista fiscale, si sono invece rivelati assolutamente inefficaci e le relative leggi attuative restano - di fatto - inapplicabili e inapplicate.
* gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura e il ritorno per le imprese
Anna Somers Cocks Il Giornale dell’Arte, Allemandi Editore Ho vissuto durante la mia carriera, che avevo iniziato come curatrice al museo Victoria & Albert, quello che l’Italia dei beni culturali sta vivendo attualmente: la progressione da una situazione in cui la cultura e il patrimonio erano quasi al 100% finanziati dallo Stato, ad un economia della cultura che definirei mista. Quando entrai come dipendente nel grande museo nazionale londinese nel 1973, esso era al 100% sostenuto economicamente dallo stato. Adesso il V&A, così come il British Museum o la Tate ed altri, sono per un terzo finanziati dal governo, per un terzo dai denari che ciascun museo riesce a raccogliere e, per l’ ultimo terzo, finanziati dagli sponsor. Questo cambiamento è avvenuto in poco più di 30 anni. Com’è successo questo e in che cosa è simile, oppure diversa, la situazione italiana? Disponiamo nel Regno Unito di un sistema legislativo più semplificato. Mi permetto di dire che in Italia c’è una grandissima necessità di semplificare le leggi che riguardano i musei; qualora ciò non avvenga, gli organismi privati che erogano risorse non riusciranno mai ad influire abbastanza sull’interlocutore pubblico. In tre decenni, i musei nazionali britannici hanno acquisito un’autonomia d’azione quasi totale, salvo la licenza di vendere o di sottoporre a rischi rilevanti le opere d’arte, che appartengono al nostro heritage. Questo significa che ogni singola sterlina che i musei riescono a raccogliere appartiene a loro. In teoria ciò è vero anche per i musei statali qui in Italia: da quando esiste la legge Ronchey, il 90% delle risorse guadagnate dovrebbe rimanere al museo. Ma la realtà è un po’ diversa. Sembra, per esempio, che il Palazzo Reale e gli altri castelli intorno a Torino nell’anno 2006 abbiano raccolto per iniziativa loro circa 500 mila euro, ma non abbiano riscosso da Roma ancora un euro di questa somma, la somma su cui contava la direzione per il rinnovo e l’apertura al pubblico del secondo piano del Palazzo Reale. Le risorse contano eccome, ed avere il controllo del proprio denaro significa un totale cambiamento d’atteggiamento, una responsabilizzazione, un incentivo ad offrire un servizio migliore, un coinvolgimento maggiore col pubblico. Ne derivano, inoltre, opportunità di maggiore
sponsorizzazione o di raccolte di fondi presso i cittadini. Un’altra importante differenza tra la situazione italiana e quella della Gran Bretagna è che lì le interferenze burocratiche sono minime, mentre sussistono in Italia tante rigidità contro le quali si deve lottare. Per esempio, oggi il Museo Egizio è noto come il primo museo privatizzato d’Italia. È vero che ha un consiglio d’amministrazione e che è dotato di uno status legale diverso da quello degli altri musei statali, ma per spostare anche di soli due metri una statua, occorre che il museo chieda per iscritto il permesso dalla Soprintendenza. In questo modo si dà la libertà con una mano e la si toglie con l’altra. Procedendo in questo modo, difficilmente si otterrà l’auspicata valorizzazione del patrimonio culturale italiano. In aggiunta alle ben note difficoltà dell’ Italia nel fare riforme dei sistemi della vita pubblica, nel contesto specifico dei musei vi è anche un aspetto ideologico da non sottovalutare. Dove il museo o il mondo culturale s’incontra con il mondo degli affari - o meglio, si scontrano - accade spesso una specie di lotta di casta, chiamiamola la casta sacerdotale (curatori/studiosi) contro quella dei guerrieri (persone d’affari). È successo da noi in Inghilterra e lo vediamo anche negli USA, che si confrontano con un vasto dibattito in corso concernente le caratteristiche che dovrebbe possedere la figura del direttore di museo. In tanti musei (al British, al Metropolitan, per esempio) si è provato a mettere a capo di musei esperti amministrativi, o potenti trustees che hanno cercato di dettare la loro politica. Non ha mai funzionato. Si è sempre dovuto ritornare a nominare come capo una persona dalla categoria “curatore”. Perché un museo ha una missione culturale, che non è solo una simpatica aggiunta alla buona gestione dell’istituzione, ma sta alla base d’ogni scelta della gestione: per esempio, quante risorse dedicare all’istruzione pubblica, alle mostre (e che tipo di mostra), alla ricerca ecc. La soluzione è di distinguere bene tra le varie mansioni, di fornire ai curatori l’aiuto amministrativo di cui hanno bisogno, di sviluppare una cultura d’impresa al servizio della cultura
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(budget, programmazione, gestione di personale ecc), ma di riconoscere anche che, alla fine, è il curatore che decide. Dalla sua parte, il curatore deve impadronirsi della cultura d’impresa. Ma come? In Italia vi è una proliferazione di master in amministrazione culturale, e tanti neolaureati pagano per seguirli. La preferenza nella Gran Bretagna e negli USA (il Clore Leadership Programme a Londra, il Getty Museum Leadership Institute a Los Angeles, il Center for Curatorial Leadership a New York) va invece verso una formazione per i curatori in carriera, principalmente - ma non solamente - per quelli che mirano a diventare direttori. Sono corsi di studio non troppo lunghi, di un anno al massimo, ma sufficienti ad insegnare le nozioni di base per poter dialogare e collaborare serenamente con gli uomini e le donne d’affari. Nel corso di tale dibattito, è emerso come fondamentale che questi uomini e donne d’affari abbiano rispetto per i professionisti della cultura, siano essi gli specialisti d’arte o coloro che organizzano gli eventi di musica e di teatro, perché, ripeto, sono loro i veri motivatori, mentre businessmen e businesswomen sono, per così dire, gli assistenti ai motori. Considerare irrimediabilmente inefficienti gli esperti di patrimonio culturale, di musei, d’eventi e, quindi da rimpiazzare con persone d’impresa, è un grave errore che ha generato lotte inutili, in Inghilterra come in America, soprattutto nel periodo di transizione dal pubblico al semi-privato. In Italia, dove la transizione è incominciata, si potrà evitare quest’errore con rispetto e tolleranza reciproca. I privati possono imporre condizioni, ma con ragionevole prudenza. Per esempio, se le risorse dei privati sono necessarie per un museo e se occorrono risorse ingenti, è giusto che richiedano un business plan, che vogliano capire come s’intenda gestirlo per mantenere un equilibrio economico e quali progetti vi siano per accrescere e attrarre il pubblico. Con questo tipo di collaborazione si può trasformare in meglio la gestione della vita culturale molto rapidamente. Termino con qualche riferimento alla fiscalità e agli incentivi ai privati che intendano investire in cultura. Desidero innanzitutto sfatare il mito per cui si dice che in America il finanziamento privato dei beni culturali è facile, grazie a una deduzione fiscale che sarebbe quasi integrale. Non è affatto così. In America si può dedurre fino al 50% del totale imponibile ed il meccanismo funziona in
questo modo: il signor Smith, la cui rendita tassabile è di 500 mila dollari, dona un’opera d’arte che vale 150 mila dollari. In quel caso deduce 150 mila dollari dai 500 mila e paga poi le tasse su restanti 350 mila dollari. La cultura del donare in America è dunque una vera cultura del dono, non semplicemente un sistema per alleggerire il peso fiscale. Però quando il governo USA - con il Tax Reform Act del 1986, rimasto in vigore fino al 1993 - rese meno attraente la deducibilità stabilendo che, quando si regala un’opera d’arte, la detraibilità sia limitata al solo valore d’acquisto del bene e non al suo valore di mercato al momento della donazione, la American Association of Museums rilevò che la quantità e il valore delle opere d’arte donate ai musei scesero mediamente, nel quinquennio, del 60% rispetto al periodo precedente. Una flessione drammatica, senza alcun dubbio, che dimostra da una parte l’esistenza, come ho ricordato, di una vera cultura del sostegno alla vita culturale, ma dall’altra parte conferma anche che la fiscalità conta, eccome. Non sorprende dunque che gli enti non profit americani fossero preoccupati quando l’attuale governo Bush promise di abolire le imposte di successione (in concreto la sospensione è durata un anno soltanto), perché temevano che questo avrebbe annullato uno dei principali incentivi alla donazione. Il fatto che l’Italia abbia abolito le imposte sulle successioni e sulle donazioni durante il governo Berlusconi dev’essere considerato positivo per l’arte italiana, ma per ragioni diverse; le agevolazioni fiscali sono deboli e vengono sfruttate poco perché il settore privato non si sente particolarmente coinvolto nelle donazioni d’arte. È regola ricorrente in materia d’arte che una forte pressione fiscale sui privati abbia sempre l’effetto dannoso di incoraggiare la segretezza nel collezionismo, molta evasione fiscale e scarsa o nulla accessibilità alle opere per gli studiosi e il pubblico. È dunque possibile che, adesso, possa esserci una maggiore trasparenza, se queste imposte sulle donazioni non saranno reintrodotte. In Italia, tuttavia, permane una anomalia. Le aziende possono dedurre il 100% delle loro donazioni dall’imponibile totale: è un sistema generoso. Molto meno generoso, invece, per la persona fisica, che può dedurne solo il 19%. Quale sia la logica di tale anomalia è un mistero. Essa conduce in ogni caso ad un risultato negativo e cioè, che
rimane insoluto l’obiettivo del coinvolgimento dei cittadini e in particolare dei molti italiani facoltosi nel sostegno della vita culturale del Paese. Questo è un argomento di cui il Ministro per i Beni Culturali italiano dovrebbe discutere al più presto col Ministro delle Finanze, perché il sistema fiscale influisce pesantemente sul patrimonio culturale della nazione; se si vuole una partecipazione di tutti alla cultura del futuro, sono convinta che aziende e privati cittadini dovrebbero insieme fare pressione per un cambiamento di tale normativa fiscale. Non a caso ho intitolato un articolo che ho pubblicato abbastanza di recente: “Dietro le quinte, il fisco sta plasmando i musei, le collezioni e il nostro patrimonio”**. Sono anche convinta che, prima di decidere qualsiasi misura fiscale, i nostri legislatori dovrebbero riflettere a fondo per evitare conseguenze impreviste. Quando l’Unione Europea impose un minimo del 5% di IVA sulle importazioni di opere d’arte dai paesi extracomunitari (lo stesso carico fiscale che grava sulle auto di seconda mano), intendeva armonizzare il mercato dell’arte. Ma non aveva previsto gli effetti contro-producenti di questa decisione: disincentivare l’importazione permanente d’opere d’arte da parte dei collezionisti che comprano al di fuori della U.E, per lo più a New York. Ciò potrebbe avere influito anche sulla decisione di François Pinault di abbandonare il suo progetto super-annunciato di creare un proprio museo privato vicino a Parigi. Il museo, per essere tale a tutti gli effetti, doveva avere una sua collezione permanente. Senonché, avendo Pinault comprato molte delle sue opere a New York, avrebbe dovuto pagare un’imposta del 5,5%, una bella spesa, se la sommiamo ai costi di costruzione, avviamento e mantenimento del museo. Così, Pinault ha optato per il Palazzo Grassi a Venezia, dove mette in mostra temporanea parti della sua collezione, una soluzione assai più conveniente dal momento che le opere importate temporaneamente non sono soggette a imposta. Anche il miliardario greco, Dakis Ioannou, ha scelto di mantenere la sua importante collezione d’arte americana fuori dai confini dell’Unione Europea, limitandosi a esporla in mostre temporanee nella sua Fondazione Deste ad Atene. A questa conseguenza imprevista dell’Iva sull’importazione si potrebbe rimediare copiando dagli svizzeri, che non fanno pagare nulla se l’opera viene importata per essere esposta al pubblico. Ma l’effetto dannoso sul mercato dell’arte di quest’Iva
rimarrebbe comunque, perché il mercato è ormai talmente internazionalizzato che è normale vendere le opere d’arte più costose là dove conviene di più. Ciò significa, attualmente, New York, perché a New York non si pagano tasse d’importazione né droit de suite, ma nel futuro potrebbe essere altrove, e sempre a danno dell’Unione Europea, specialmente per mercati di nicchia come quello dell’arte cinese, che sta già gravitando verso il porto franco di Hong Kong. È regola antica che l’arte segua i soldi e che le donazioni, sia di opere d’arte che di denaro, seguano le agevolazioni fiscali. Molti paesi europei stanno riducendo l’impegno finanziario dello stato verso le istituzioni culturali, sperando che il settore privato intervenga a coprire tale riduzione. Sperano che in tal modo vi sia anche un maggiore coinvolgimento del pubblico ed una maggiore efficienza delle istituzioni stesse, ma i ministeri delle finanze non dovrebbero illudersi: ciò non avverrà se non sarà reso fiscalmente attraente. Il potere delle tasse di plasmare le nostre vite non deve mai essere sottovalutato. Per esempio, nel Regno Unito un cambiamento recente nella legge fiscale sui fondi (trust) rischia di destabilizzare il fragile equilibrio raggiunto durante i governi della signora Thatcher dai proprietari delle dimore storiche con collezioni di grande valore (uno dei vanti del Regno Unito, molto apprezzato dal pubblico). Quest’equilibrio permetteva di garantirne la sopravvivenza. L’esempio più eclatante tuttavia risale alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1945 il nuovo governo laburista stava ponendo le basi per un futuro socialista e intenzionalmente impose tasse di successione fino al 100% sui proprietari di dimore storiche e sui loro terreni. La conseguenza fu che tra quella data e il 1975, non solo migliaia di poderi furono suddivisi e le collezioni vendute, ma 500 dimore storiche, molte delle quali architettonicamente importanti, sono state demolite, con un picco nel 1955, quando ne scomparvero 76 in quel solo anno. Solo il più fanatico riformatore sociale avrebbe potuto avere l’intenzione di compiere un tale scempio che, comunque, dev’essere attribuito alla temibilissima imprevedibilità delle conseguenze. **“Le tasse dell’arte” rapporto speciale 2006-2007, allegato al “Giornale dell’Arte” n 257, settembre 2006, Allemandi Editore,
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* gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura e il ritorno per le imprese
Gino Famiglietti Ministero dei Beni e delle Attività Culturali Alcuni dei temi che la Giornata di Studio della Consulta affronta possono utilmente essere esaminati alla luce di uno strumento nuovo, che oggi esiste. Il riferimento va al Codice dei Beni Culturali. Perché strumento nuovo, dal momento che la relativa delega al governo è stata attribuita nel 2002, è stata tradotta in pratica a partire dal 2004 e ha avuto una prima attuazione nel 2006? In realtà, pur in presenza di tali passaggi attuativi, il Codice dei Beni Culturali può essere considerato uno strumento nuovo in quanto sono intervenuti, tra il 2006 e oggi, due ulteriori decreti correttivi. È urgente quindi dare attuazione al Codice, perché da tale normativa dipende, per esempio, il futuro professionale di migliaia di persone i restauratori. Per comprendere meglio, occorre risalire nel tempo. Non da oggi l’Italia svolge un ruolo di eccellenza nel restauro. Vi è, nel retroterra culturale del restauro italiano, una grande scuola ottocentesca, la cui figura di maggior spicco è il maestro restauratore Suardo. C’è, attualmente, il ruolo affidato al nostro Paese dall’Unesco, volto a salvare i tesori artistici minacciati dai grandi disastri naturali, come il terremoto di qualche tempo fa a Bam in Iran; oppure causati dall’uomo nel corso dei conflitti. Ci sono, nel nostro presente e prossimo futuro, gli interventi in Cina, dove lo sviluppo economico impetuoso sta creando gravi guasti al patrimonio culturale e altrettanti problemi. È all’Italia che sono stati affidati i restauri a Xian, la città dei guerrieri di pietra, ed è verosimile che anche il recupero dei danni subiti dai mirabile complesso imperiale della Città Proibita in Pechino sia assegnato all’Italia dalle autorità cinesi. Ciò detto a proposito dell’eccellenza italiana nel restauro, va anche aggiunto che nel settore siamo oggi in presenza di una situazione di non poco disordine. Sono sorte, in anni recenti, molte iniziative imprenditoriali semi-spontanee sul territorio. A loro volta le regioni cui spetta la competenza sulla formazione professionale, si sono ritenute abilitate a promuovere e finanziare molti corsi di formazione in restauro dei beni culturali. Grazie al Codice dei Beni Culturali siamo e saremo in grado di mettere maggiore ordine. Viene infatti stabilito
che i corsi potranno solo essere di alta formazione, cioè di livello universitario. Tutti gli attuali restauratori dovranno sottoporsi ad un esame di abilitazione, superando il quale potranno essere inseriti in un elenco certificato, che dovrebbe sgomberare il campo dagli sprovveduti, soi-disant restauratori. Chi non rientra nel novero dei restauratori certificati potrà operare soltanto se supera le prove che qualificano al ruolo di collaboratore abilitato. L’altro ambito su cui il Codice dei Beni Culturali contribuirà a facilitare e a disciplinare riguarda proprio la materia delle sponsorizzazione e, più in generale, dell’intervento delle imprese nel finanziamento del recupero e valorizzazione dei beni di importanza storico-artistica. Durante il periodo in cui era ministro dei Beni e delle Attività Culturali Walter Veltroni, era stata elaborata una Convenzione, sottoscritta da Confindustria e Ministero, volta a favorire la cosiddetta adozione di un bene culturale da parte di imprese singole o associate. Tal convenzione, tuttavia, non ha mai funzionato né dato frutti, proprio a causa della mancanza di strumenti giuridici attuativi. Con il Codice dei Beni Culturali, di contro lo strumento giuridico attuativo esiste: all’art. 20 si stabilisce che le sponsorizzazioni che utilizzano il marchio di impresa siano completamente deducibili dal carico fiscale dell’azienda. Se, ad esempio un consorzio o una associazione di imprese acquista spazi televisivi o comunque spazi sui media per far conoscere un intervento di recupero o valorizzazione di un bene artistico o culturale, tali spese sono anch’esse totalmente deducibili. Il che è più importante di quanto possa apparire a un primo sguardo. Tende, infatti a favorire il superamento di un paradosso: le imprese italiane sono speso molto valide a migliorare il prodotto, ma molto meno capaci a migliorare la propria immagine con una pubblicità di marchio legata all’impegno per i beni culturali del proprio territorio o per tesori artistici altrove ubicati. Altro aspetto significativo connesso all’entrata del Codice dei Beni Culturali è la previsione di una concessione in uso al privato del bene culturale al cui recupero o restauro il privato stesso si impegna; nel caso che più interessa, il privato significa le
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aziende. Un solo esempio: nel settore dell’antiquariato potrebbero essere le piccole imprese antiquarie a richiedere in uso, a scopo espositivo, edifici di edilizia d’epoca che esse stesse si impegnerebbero a recuperare e rimettere all’onor del mondo. Ho fatto riferimento ad edifici da recuperare. Ma la stessa cosa - cioè la concessione in uso al privato che si impegna a restaurare - potrebbe avvenire per un patrimonio storico di beni mobili: ad esempio per il recupero di automobili storiche, di aerei d’epoca, di motocicli. Sempre in materia di creazione di spazi per l’intervento dei privati e dell’aziende, il Codice dei Beni Culturali delinea una previsione di soggetti giuridici cui affidare la gestione di beni e attività connessi con la salvaguardia e la promozione del patrimonio. Il pensiero corre subito alle Fondazioni come è già avvenuto per i teatri lirici e per alcuni musei o insiemi di raccolte espositive e Torino, al riguardo, insegna, ma anche il soggetto giuridico Fondazione può presentare inconvenienti e pesantezze. Il Codice dei Beni Culturali lascia dunque spazio ad altre tipologie di soggetti. Così come lascia spazio ad un impegno di privati diverso dal finanziamento in denaro. Ad esempio, per citare il caso di una Fondazione, una azienda potrebbe parteciparvi apportando risorse manageriali che gestiscano o collaborino alla gestione, anziché con un finanziamento diretto. Ritengo che quest’ultima forma di coinvolgimento delle imprese nella promozione dei beni culturali, per ora inedita in Italia, possa avere sviluppi che non esito a definire importanti, verso i quali vorrei sollecitare l’attenzione dei leader aziendali. La pubblica amministrazione, infatti, ha spesso difficoltà a valutare la congruità dei costi degli interventi che essa stessa gestisce; di conseguenza le componenti più attente e innovative della pubblica amministrazione sono sempre più sensibili a una esigenza di re-ingegnerizzare il modo di spendere. Cioè: - di affinare le tecniche di previsione di spese; - di capire dove si possano comprimere i costi;
- di comprendere dove si stiano commettendo errori. Per tali ragioni il ruolo dei privati con capacità manageriali ed esperienza aziendale sarebbe benvenuto anche - e forse soprattutto - nella gestione del patrimonio culturale, perché le risorse economiche per il settore sono limitate e una gestione innovativa, molto attenta al controllo dei costi, potrebbe consentire di accrescere il numero degli interventi a parità di risorse. Mi sono dilungato sulle opportunità per i privati e le aziende che il Codice dei Beni Culturali apre, perché vi credo molto e perché realisticamente ritengo difficile che, nella situazione attuale delle finanze pubbliche italiane, si possano varare legislazioni di defiscalizzazione particolarmente generose. Non soltanto è difficile nella situazione attuale, ma lo è sempre stato: come l’esperienza insegna. L’unico caso che mi torna in mente di una normativa italiana di defiscalizzazione importante - ben applicabile e concretamente applicata - relativa ai beni culturali, risale agli anni ’80 e riguardava le Dimore Storiche, o meglio, i privati che ne erano proprietari e si impegnavano al loro recupero e manutenzione. Per il resto, le leggi valide non sono mancate, ma sono state ben poco attuate e non credo - o non credo più - che la loro non attuazione sia derivata soltanto da lentezze burocratiche. In tale contesto ritengo si debba apprezzare non poco la filosofia del Codice dei Beni Culturali: che consiste nel cercare di convogliare nei canali già esistenti i flussi finanziari derivanti da auspicabili investimenti dei privati nei beni culturali, che sono i canali della sponsorizzazione, cui il Codice apre facilitazioni fiscali rilevanti. Siamo consapevoli che la sponsorizzazione è solo un aspetto e che l’obiettivo dell’auspicato coinvolgimento delle aziende nei beni culturali si configura più come partenariato o come investimento di interesse generale, che non come sponsorizzazione. Tuttavia cerchiamo di utilizzare al meglio i canali che sono già percorribili e che possono offrire significative soddisfazioni.
* gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura e il ritorno per le imprese
Michela Bondardo Bondardo Communication, Milano Da dieci anni come associazione non profit e da venti anni come appassionata, lavoro per diffondere nel nostro paese l’idea - e poi la pratica - che investire in cultura sia uno strumento strategico e non solo tattica. Per superare la finta immagine dell’investimento in cultura come fatto rilevante a fini quasi esclusivamente di pubbliche relazioni. Si possono anche fare pubbliche relazioni con la cultura, ma non si cambia l’impresa. Quando si parla di Cina, di India, di competizione globale è chiaro che si fa riferimento a grandi opportunità, ma anche a un grande pericolo, per circoscrivere il quale la cultura può avere un grande ruolo. Nella nostra esperienza di Sistema Impresa Cultura, ci siamo resi conto, nel corso di numerosissimi incontri con imprenditori, che ancora oggi l’idea dell’investimento in cultura è un’idea apprezzata in tempi di risorse abbondanti, quando si può spendere per accontentare un sindaco e creare legami più stretti con il territorio, meno formali e più amichevoli, ma difficilmente è un concetto che rientra nell’idea di fare impresa in un modo diverso. Ragionando con il linguaggio delle imprese, abbiamo cercato di convincere che investire in cultura non è un magnifico lusso, ma una pratica che costruisce brand, che differenzia il marchio, che aiuta a competere su quei mercati globali dove anche il valore intangibile della cultura o dell’arte fa la differenza. La cultura è parte del made in Italy, questa magica alchimia di elementi, così difficile a descriversi, ma che sicuramente ci rende vincenti nel mondo. Attraverso un premio annuale, la nostra ambizione e la nostra volontà è stata quella di seriamente valutare quali imprese avessero il merito di investire in cultura in maniera strategica, costruendo valore innanzitutto per sé, e poi anche per il territorio, per la comunità, per i pubblici di riferimento dell’azienda. Ci siamo resi conto che gli imprenditori si sentono soli nella grande competizione globale e fanno fatica a dialogare con le istituzioni culturali. Ciò è così vero che solo in Italia accade che siano gli imprenditori a costruire talune iniziative culturali, da soli. Non soltanto perché sono - e siamo un po’ tutti - individualisti unici al mondo, ma
soprattutto perché dialogare con gli enti culturali è arduo, richiede tanto tempo e un linguaggio in sintonia con quello di tali istituzioni, a volte quasi incomprensibile; richiede un approccio che non è quello dell’azienda, che, per vincere, necessita di tempi stretti. È un paradosso italiano per cui da una parte esiste la volontà, talvolta anche molto forte, di aprirsi al mondo della cultura e dall’altra la difficoltà di riuscire a trovare un linguaggio adatto e un contesto di reciproca fiducia. In questi anni, quasi mille sono le imprese che noi abbiamo osservato e con le quali abbiamo dialogato. In generale hanno quasi tutte difficoltà con le istituzioni che si occupano di cultura e beni culturali. Certo, tante difficoltà esistono anche per queste ultime, nonostante singoli direttori siano spesso dotati di buona volontà , determinazione e arriverei a dire - qualche volta - di spirito eroico. Sono difficoltà legate al fatto che non hanno potere e mezzi economici, ma soprattutto non hanno la possibilità concreta di poter agire con autonomia. Ho potuto rilevare, inoltre, che alle imprese finanziatrici - o potenziali finanziatrici - non viene quasi mai presentato un business plan, senza cui si va poco distante. Perciò il nostro impegno è stato rivolto a creare dialogo tra le due parti, a portare risultati, a documentare casi di successo, non tanto per riprodurli, perché spesse volte non è possibile, quanto per creare uno stimolo. Per far sapere che quella certa piccola impresa, con pochi denari e però con determinazione e visione strategica “c’è l’ha fatta”, per creare emulazione: “possiamo farcela anche noi”. Abbiamo cercato di convincere quei piccoli imprenditori che sono riusciti a collaborare con le istituzioni dei beni culturali a raccontare le loro storie e rispondere anche alle domande imbarazzanti, qualche volta difficili, che emergono negli incontri tra imprenditori, ma non emergerebbero in un ambiente un più formale. È in gioco la creatività, una parola che comincia a diventare abusata. Che cosa meglio dell’arte e degli artisti può stimolare il nuovo pensiero, aiutare ad avere idee per nuovi prodotti che riescano a posizionarsi al di sopra della concorrenza asiatica? Non mi riferisco a collaborazioni sofisticate rivolte a pochi artisti e
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a poche aziende ricche, ma sto parlando del futuro del nostro paese. Se non riusciremo a mettere insieme energie e volontà - perché la politica ha un ruolo determinante per guidare un processo di cambiamento e a sostenerlo con risorse economiche - le nostre rimarranno meravigliose, fantastiche, ma piccole esperienze: come gocce nel mare. Quanto alla leva fiscale, è vero che in Italia ci sono delle leggi apparentemente abbastanza favorevoli a un investimento in cultura, ma sono leggi che le nostre imprese non riescono ad applicare, anche le migliori, quelle che hanno, in staff aziendale, ottimi commercialisti, preferendo perdere il vantaggio fiscale, piuttosto che rischiare complicazioni. La legge sarà anche generosa, ma non funziona. Bisogna agire sul piano concreto per renderla attuabile, perché evidentemente oggi attuabile non è. Che cos’è che “fa la differenza” e motiva le aziende in Europa e in America ad investire in cultura? Significativo è il caso del Regno Unito, che è a mezza via tra gli USA (dove regna il libero mercato e lo stato, di norma, non sostiene direttamente la cultura) e l’Europa, dove di contro il modello prevalente è quello del sostegno pubblico alla valorizzazione del patrimonio e delle attività culturali. Negli ultimi quindici anni il governo britannico ha fatto capire chiaramente di non volere e di non potersi più assumere l’onere maggiore dei beni culturali. L’amministrazione Blair ha accresciuto gli stanziamenti nel settore ma, ciò nonostante, il messaggio ora citato resta la linea guida. La sfida consiste, verosimilmente, nel ridefinire il rapporto impresa/cultura. Già oggi le imprese più attente non affermano più di sponsorizzare, ma si prefiggono l’obiettivo di essere partner. Intendono mostrare la loro responsabilità sociale e, ancor meglio, si propongono di attribuire al proprio marchio un connotato culturale. Anche le pubbliche autorità, ministri dei beni culturali compresi, sempre meno si riferiscono a investimenti in arte e cultura - come avveniva nei decenni scorsi - ma a investimenti in creatività, adottando terminologie prese in prestito dal marketing o dalla pubblicità. Forse più immobili - o più “vecchi”- sono rimasti proprio gli artisti, che al mondo del business continuano a richiedere finanziamenti, sponsorizzazioni. In termini più brutali, a richiedere soldi, senza aver ancor ben compreso che la sfida consiste nell’aiutarsi e farsi aiutare a diventare impresa. Azzardo un paragone irriverente. La Biennale di Venezia è una bella mostra, prestigiosa, ma è vec-
chia, non trasforma l’arte in consumo. Appare decisamente più innovativa la Sony che durante la progettazione della nuova playstation ha stretto un’intesa con l’Opera di Londra e un teatro di danza, sempre londinese, per creare insieme i contenuti musicali e visivi da installare sulla playstation. Così come credo che abbiano meglio compreso i segni dei tempi i free artists che a Basilea, Miami e Londra promuovono eventi espositivi che in tre giorni fatturano 80 milioni di euro. È proprio per cogliere le tendenze che si stano delineando - a mio avviso sempre più chiaramente che la nostra Bondardo Communication organizza da qualche tempo circa 80 incontri all’anno in Italia, in cui cerca di spiegare come si possa sviluppare creatività attraverso i beni culturali e in virtù del patrimonio artistico, che il nostro paese possiede in massima misura. E di spiegare anche come il prodotto, da solo, riesca sempre meno a fare a differenza, qualora non si riesca a incorporare in esso creatività, incorporare creatività che - oserei dire sia in qualche modo simile a quella dell’artista. Vorrei citare tre casi concreti presentati in un recente incontro da noi organizzato a Venezia nel maggio 2007. La rappresentante di una fondazione olandese finalizzata alla valorizzazione di arte e scienza affermava che “la nostra ragione sociale è stimolare la gente ad esprimersi e ad esprimersi non isolatamente, ma facendo rete”. E aggiungeva che la novità consiste nel far incontrare l’artista e il mondo degli affari locale con l’arte e la moda di altri Paesi. Non solo: la novità è insegnare agli artisti il “che fare” per diventare imprenditori e manager culturali, nonché per reperire le risorse economiche, perché tre sembrano essere le parole-chiave da tenere sempre presenti per ricercare risorse: - fiducia, - networking, - inventiva. Un esperto svedese, a sua volta, sottolineava il fatto che, nel suo paese, non solo la gente ma lo stesso Ministero dell’Economia manifestano una crescente attenzione per la cultura e l’arte, in quanto le considerano come una leva per dinamizzare la società civile. E hanno maturato la convinzione che non solo occorra favorire l’investimento dei privati nei settori dell’arte, ma al di là dell’investimento, si debba favorire lo scambio tra mondo dell’arte e aziende, specie società di servizi. Ricordava, il medesimo esperto, come dai primi esperimenti risalenti ad una decina di anni, che
avevano aperto ai poeti le porte di un certo numero di studi legali, si fosse arrivati oggi ad un vero e proprio piccolo mercato. Infine la rappresentante di una fondazione norvegese affermava che sarà pur vero che la sponsorizzazione può sembrare un concetto riduttivo, ma nel caso del suo paese essa aveva costituito la prima e fondamentale tappa del percorso verso l’investimento privato nei beni culturali. Ricordava, infatti, come sponsorizzazione fosse parola sconosciuta nel suo paese fino al 1994, quando si svolsero le Olimpiadi invernali. Allora, comunque, le sponsorizzazioni erano rimaste confinate nell’ambito sportivo. La sponsorizzazione nell’arte è stata una scoperta degli ultimi anni, per la Norvegia, uno sviluppo avvenuto in coerenza con la cultura pragmatica del paese, poco incline ai mecenatismi. Ci si è chiesti in che cosa gli artisti potessero essere utili alle aziende; ciò è avvenuto soprattutto nella grande industria, che in Norvegia è presente, prevalentemente, in campo energetico. Le risposte sono state diverse, alcune particolarmente curiose, come quella di una grande azienda che produce e distribuisce gas. Questa ha fatto ricorso ad un ensemble musicale e lo ha fatto par-
tendo dalla considerazione che il jazz è musica che nasce dall’ascoltare e che i jazzisti sono famosi per essere i più sensibili al pubblico in sala e anche i più influenzabili dal pubblico, mentre, di contro, l’azienda suddetta soffriva di un deficit di comunicazione, sia verso l’ambiente esterno, sia al proprio interno con i dipendenti. All’ensemble si è chiesto di assistere alle riunioni del Consiglio di Amministrazione e di riprodurre in musica le sensazioni provate. La prima volta i jazzisti hanno prodotto solo rumore: unico modo per interpretare una seduta rissosa e poco costruttiva. È stata una lezione anche per i consiglieri di amministrazione. L’esperimento prosegue ancora oggi, dopo sei anni; anzi la notizia ha fatto il giro del paese e ha creato proseliti. Oggi si è in presenza di un certo numero di aziende che coinvolgono artisti, musicisti, attori di teatro, ma ciò che più conta è che i due Ministeri dell’Ambiente e della Cultura sono al lavoro per preparare un piano ad hoc per sostenere i rapporti impresa/cultura. In sintesi occorrerà, dunque, ancora lavorare molto sul tema degli investimenti delle imprese in cultura, che è un bellissimo sogno e per il momento, in Italia, rimane ancora un bel sogno di pochi. 65
* gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura e il ritorno per le imprese
Colin Tweedy Art&Business, Londra Arts & Business ha 31 anni ed è stata fondata nel 1976. È la più antica organizzazione del suo genere nel mondo ed è anche la più grande: i nostri soci sono 500 aziende e 1000 organizzazioni e associazioni del settore dei beni culturali, con 15 uffici in tutto il mondo. Spesso mi viene chiesto che cosa faccia esattamente Arts & Business e in che cosa consista; a volte rispondo provocatoriamente che siamo una specie di scuola di lingue, che insegna agli uomini d’affari la lingua dell’arte e alle persone che si occupano dei beni artistici la lingua degli affari. Dirò innanzitutto che noi siamo partiti con le sponsorizzazioni, perché era l’unico modo in cui, nel Regno Unito, potevamo di fatto interagire con le imprese, che avevano l’esigenza di detrarre le spese per la cultura. Solo successivamente siamo passati ad affrontare argomenti quali la creatività. Le sponsorizzazioni sono una tecnica, un metodo che Art&Business utilizza, ma la sponsorizzazione non può essere il solo focus. Infatti operiamo sulla strategia aziendale della responsabilità sociale, della costruzione del marchio. Perché oggi le sponsorizzazioni non sono più l’unico strumento proponibile per costruire una relazione tra il mondo degli affari e il mondo dei beni culturali. In realtà il sostegno alla cultura sta diventando e deve sempre più diventare, una parte integrante delle strategie dell’impresa che riguardano il marketing, deve entrare a far parte della forma mentis del direttore generale dell’impresa, deve riguardare le risorse umane, la ricerca e sviluppo. Deve essere cioè bagaglio professionale di ciascun singolo uomo d’affari. Senza questo impegno nei diversi livelli sopra citati dell’azienda, le arti rimarranno sempre un fatto individuale dell’imprenditore e avranno un ruolo marginale. In questi ultimi anni le imprese hanno donato al mondo dei beni culturali 157 milioni di sterline, ma i contributi, le donazioni individuali sono ammontate a 262 milioni: quindi il rapporto si è invertito. Mentre in passato erano in maggioranza le donazioni delle imprese adesso prevalgono quelle dei singoli individui. Per quanto riguarda il contributo delle imprese alla cultura, sia nel Regno Unito sia in Italia, il sostegno
ai beni artistici può sicuramente dirsi abbastanza simile, quantomeno in termini qualitativi. Tuttavia ci sono alcune differenze significative: per esempio, Art&Business può vantare il contributo a titolo di volontariato di 3000 uomini d’affari, che mettono a disposizione della nostra associazione le proprie competenze nel settore del marketing, come in quello della raccolta dei finanziamenti, oppure nel settore informatico. Nel Regno Unito, in Olanda, nei Paesi Nordici si sta infatti sviluppando il fenomeno dei cosiddetti business volunteers. Un altro aspetto interessante è che molti uomini d’affari fanno ora parte dei consigli di amministrazione dei principali musei britannici. Il presidente della Tate Gallery è un uomo d’affari e così analogamente alcuni esponenti imprenditoriali siedono nei consigli del Victoria and Albert e fanno pesare la loro influenza, nel bene e nel male - mi permetterei di aggiungere - ma comunque riuscendo a dare un particolare impulso, con effetti positivi sul mondo della valorizzazione del patrimonio, dello heritage. Michela Bondardo ha fatto richiamo alla creatività. Anche noi ci siamo cimentati su questo terreno a partire dalla metà degli anni 90 seguendo le parole e gli esempi che provenivano da San Francisco , dove si era iniziato a utilizzare un particolare metodo che sfrutta la creatività e cerca espressamente di sviluppare la creatività negli uomini d’affari. Utilizzando la pittura, la musica, la scultura, la danza e il teatro si cerca, infatti, di sprigionare le energie creative, che possono molto aiutare il mondo degli affari ad affrontare le sfide del 20° e del 21° secolo. Un esempio piuttosto interessante, nel Regno Unito, riguarda una società molto nota, che ha chiesto a scrittori e poeti di collaborare per educare meglio i dipendenti alla scrittura non burocratica di testi e documenti e che ha chiamato musicisti jazz per migliorare la comunicazione e la pubblicità. Non solo: con l’ausilio di pittori, partecipa ad un concorso piuttosto famoso, che all’azienda ritorna utile per far capire meglio ai propri collaboratori l’importanza del colore. Fa anche ricorso a William Shakespeare, perché questo sommo commediografo e poeta morto cinque secoli fa, pos-
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sa contribuire a migliorare la comunicazione, ivi compreso a scrivere meglio le e-mail. Insomma l’arte non è soltanto un bel dipinto appeso al muro, ma è qualcosa che può essere utilizzato per modificare e migliorare anche le attività più tradizionali del business. Quanto alla creatività, in questo momento nel Regno Unito il 7% dell’economia dipende dalla creatività. O meglio: il 7% delle attività economiche si colloca nel settore della creatività, se si includono in esso anche marketing, tecnologie informatiche e sviluppo del software, industria cinematografica e musica commerciale. Il Primo Ministro Gordon Brown è giunto a dire che entro 10 anni le attività basate sulla creatività raggiungeranno il 50% dell’intera economia britannica. Si pensi che lo i.pod è stato ideato da un cittadino britannico che ha studiato in un istituto artistico inglese e poi in California; oggi viene prodotto in Cina e venduto in tutto il mondo. Al centro del comparto della creatività ci sono le organizzazioni non profit, ivi comprese le scuole, gli istituti artistici e quelli di formazione teatrale e musicale che formano le nuove generazioni. Oggi è probabilmente più difficile gestire entità senza scopo di lucro che aziende profit oriented. È forse più complicato gestire la Galleria degli Uffizi o il Museo del Prado, che non una azienda del lusso come Gucci oppure Prada. E, comunque, non è molto diverso, perché gli uni e le altre si fondano su una risorsa immateriale che si chiama creatività e buon gusto. Di contro permane la convinzione diffusa che le Onlus non debbano guadagnare. Invece dovranno farlo. La creatività come punto nodale di qualunque attività suscettibile di sponsorizzazione, che sia un museo o un cantante o un cantante in un museo, deve essere al centro della attenzione delle nostre società e delle nostre imprese, se si vuole vincere la sfida della competizione globale con l’India e la Cina in questo XXI° secolo. Ricordiamoci che la scissione tra arte e economia è un fenomeno del XX secolo. Non era così ai tempi dell’Illuminismo, per non parlare del Rinascimento italiano e, prima ancora, del tardo medioevo lombardo e toscano. Resta poco tempo alla nostra Europa per creare un paradigma di incontro tra cultura e business che accresca la creatività dei nostri sistemi economici. Per troppe imprese tradizionali l’artista è ancora visto come un personaggio strano, da cui si può acquistare un’opera o una performance, ma che è
bene tenere fuori dai cancelli dell’azienda. Non ci si rende conto abbastanza del fatto che, in epoca di globalizzazione, il plus del prodotto europeo si chiama moda e compatibilità ambientale, fashion & sustainability, non un’opzione ma una necessità economica, perché anche le produzioni più tipiche sono a rischio. I laboratori del marmo di Pietrasanta stanno chiudendo, perché il marmo bianco di Carrara conviene trasportarlo in Cina, ivi lavorarlo e lucidarlo, per poi ri-trasferirlo. Qualche volta a Carrara, dove il sistema di commercializzazione sembra essere il migliore al mondo, oppure direttamente nelle diverse regioni del mondo, dove andrà ad abbellire case di lusso o grandi edifici. Attenzione: perché quando un laboratorio di Pietrasanta chiude, non riaprirà mai più. In precedenza ho citato il sorpasso delle donazioni dei singoli, rispetto a quelle delle aziende. Abbiamo pubblicato recentemente sul nostro sito web una guida al sistema fiscale britannico - redatta insieme a Deloitte and Touche e in collaborazione con il Ministero del Tesoro Britannico - relativa alle opportunità che vengono attualmente offerte dalla fiscalità del Regno Unito, una guida che contiene anche raccomandazioni per il futuro. Abbiamo inaugurato nella City londinese, agli inizi di ottobre 2007, un club di businesspersons della finanza che ha come scopo il sostegno dell’arte e della cultura, perché vogliamo coinvolgere le più grandi aziende finanziarie nel partecipare attivamente al mondo della creatività. Abbiamo conquistato qualche spazio nei siti della Deutsche Bank, perché puntiamo non solo a stimolare le banche nel finanziamento alla cultura, ma anche a coinvolgerle nel suscitare uno spirito filantropico nei propri collaboratori. Per quanto riguarda la fiscalità relativa all’arte, proprio per dissipare miti e malintesi, diffusi ovunque in Europa e in America, segnalo che esiste un interessante sito di una associazione europea di cui sono presidente, CERIC, che fornisce molte e aggiornate informazioni. I ministri della cultura europei fanno bene ad esaminare il modello inglese e quello americano di detrazioni fiscali per l’arte, perché Regno Unito e USA hanno una lunga tradizione al riguardo. Tuttavia farebbero bene a guardare alla soprattutto Francia, al sistema fiscale francese odierno, che in materia di fiscalità per l’arte si è profondamente trasformato ed è, al momento, particolarmente avanzato. Da due anni questa parte, infat-
ti, il governo francese consente alle imprese una deduzione fiscale del 100% per la donazione e il finanziamento all’acquisto di opere che verranno esposte nei musei e nelle gallerie. È stato un vero e proprio successo che ha molto stimolato a sostenere l’arte. Allo stesso tempo vorrei ricordare che in assenza di armonizzazione dei sistemi fiscali all’interno dell’Unione Europea, sempre più spesso ci saranno casi di fuga e di trasferimenti, perché ovviamente l’impresa cerca di approfittare del sistema fiscale più favorevole. Abbiamo visto che cosa è successo con Pinault che ha acquistato Palazzo Grassi e ha spostato la sua collezione dalla Francia all’Italia. E ciò è successo in altre occasioni: pensate a Gulbenkian che ha spostato le sue collezioni e attività culturali dal Regno Unito in Portogallo. Quindi dobbiamo stare attenti al fenomeno dei trasferimenti e alla ricerca della fiscalità più favorevole anche nel settore dell’arte e delle donazioni per l’arte, perché sono tipici di un’economia globale e ad essi non fanno eccezione né i beni culturali, né il non profit per l’arte. Vorrei terminare parlando della cooperazione internazionale.
Insieme a Michela Bondardo abbiamo lavorato per molti anni per cercare di sviluppare nuove forme di collaborazione tra il mondo privato e il sostegno pubblico alla cultura e alle arti: cerchiamo di sviluppare progetti anglo-italiani, sperando di rafforzare una modalità di relazione tra pubblico e privato, che possa servire da modello e da buona pratica a livello internazionale. Concludo citando una frase che è apparsa sul “World Wealth Report”, edito da due grandi società quali Cap Gemini e Merryl Linch. Si conclude il suddetto rapporto affermando che è necessario un nuovo linguaggio della finanza, che tenga conto degli investiments of passions. Gli investimenti di passione sono ormai un capitolo certamente non nuovo nella storia della finanza, ma che sicuramente sarà sempre più rilevante nel XXI secolo. “Investimenti di passione” è una definizione che appare davvero molto importante e giusta. È proprio un investimento di passione quello attuato dalla Consulta in questi vent’anni e di ciò dobbiamo esserle grati ed essere grati a ciascuno degli imprenditori che hanno creato la Consulta e che continuano ad operare con passione ogni anno di più. 69
I SOCI CONSULTA 2008 ARMANDO TESTA BURGO GROUP BUZZI UNICEM CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI TORINO COMPAGNIA DI SAN PAOLO DELOITTE & TOUCHE ERSEL FERRERO FIAT FONDAZIONE CRT FONDIARIA-SAI GAROSCI G. CANALE & C. GRUPPO FERRERO-PRESIDER IFI-ISTITUTO FINANZIARIO INDUSTRIALE INTESA SANPAOLO ITALDESIGN - GIUGIARO ITALGAS LAVAZZA MARCO ANTONETTO FARMACEUTICI MARTINI & ROSSI M. MARSIAI & C. PIRELLI REALE MUTUA ASSICURAZIONI SKF TELECOM ITALIA TORO ASSICURAZIONI UNIONE INDUSTRIALE DI TORINO VITTORIA ASSICURAZIONI
Fiscalità - Beni Culturali - Imprese Saluto del Presidente dell’Unione Industriale di Torino Gianfranco Carbonato Saluto del Presidente di Consulta Lodovico Passerin d’Entrèves
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Ricognizione delle agevolazioni e delle defiscalizzazioni esistenti nei principali paesi europei Pietro Piccone Studio Maisto, Milano
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Le opportunità di agevolazione degli investimenti in beni culturali offerte dalla normativa italiana vigente Anna Maria Buzzi Ministero Beni e Attività Culturali
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La prassi delle imprese italiane e francesi in materia di investimenti in beni culturali e i suggerimenti che ne derivano Alain Elkann Presidente Fondazione Museo Egizio di Torino 89 Patrizia Asproni Presidente Confcultura 93 Lucia Nardi Responsabile Progetti Culturali Eni 97 Christophe Monin Museo del Louvre 101 Pamela Jouven Museo del Louvre 105 Proposte e ipotesi di miglioramenti della legislazione nonché dei regolamenti attuativi Lucia Starola Dottore Commercialista in Torino 107 Enrico Bellezza Notaio in Milano, Consigliere del Ministro per gli Incentivi Fiscali e per gli Investimenti Culturali 113 Conclusioni Alessandro Laterza Presidente della Commissione Cultura di Confindustria
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Proposta di miglioramento della normativa fiscale Lucia Starola e Claudio Saracco Studio Saracco, Torino
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Gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura Vincenzo Busa Direttore Centrale Normativa e Contenzioso dell’Agenzia delle Entrate
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Contributo Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Presidente Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
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Gianfranco Carbonato Presidente Unione Industriale di Torino
Porgo a Voi tutti il benvenuto dell’Unione Industriale a questa giornata di lavori, dal titolo “Fiscalità - Beni culturali - Imprese”, promossa dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino. Ringrazio la Consulta, insieme ai numerosi studiosi ed esperti che oggi prenderanno la parola, e il Presidente della Commissione Cultura di Confindustria, Alessandro Laterza. Questa iniziativa si inscrive infatti nella VII Settimana della Cultura d’Impresa di Confindustria e vuole riflettere sulle opportunità offerte dalla legislazione italiana in materia di investimenti in beni culturali. Si tratta di un ambito che va studiato con attenzione perché offre ampi margini di crescita: le capacità e le risorse di quelle imprese interessate ad investire sulla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale del nostro territorio devono potersi muovere in un sistema efficiente e competitivo per mettere a punto interventi più premianti. L’anno scorso, proprio in queste sale, la Consulta ha promosso il suo primo incontro sul rapporto Beni Culturali e Imprese, in occasione della storica riapertura delle Sale auliche della Reggia di Venaria. Questo restauro ha restituito al territorio uno straordinario complesso monumentale, un gioiello che tutta l’Europa ci invidia, tornato ad un rinnovato splendore dopo secoli di incuria e abbandono. In questo primo anno, la Reggia di Venaria insieme ai Giardini - anch’essi splendidamente ritornati al loro aspetto originario - ha registrato un’altissima affluenza di visitatori. Ha raggiunto quasi il traguardo di un milione di accessi, divenendo così un traino fondamentale della nuova vocazione turistica su cui il sistema produttivo torinese sta puntando con particolare interesse. La Consulta, lo sappiamo, ha una lunga storia di interventi di recupero della memoria storica della città. Ha provveduto non solo al restauro concreto di opere d’arte ed edifici storici che diversamente non avrebbero ritrovato la forma e lo splendore originario, ma ha anche reso fruibile alla cittadinanza beni altrimenti non valorizzati nella dovuta misura. Essa ha costituito per lungo tempo un’esperienza unica in Italia: un gruppo di aziende, di mecenati
che si impegnano economicamente per realizzare interventi di recupero e restauro di beni artistici e culturali sul nostro territorio. Oggi, in Piemonte, a Fossano, Alessandria e Savigliano sono nate iniziative analoghe attingendo proprio dal nostro modello torinese. Negli anni la Consulta ha restituito alla città di Torino, e non solo, dei veri tesori. Nel 2008 hanno visto la luce diversi progetti, tra gli altri il restauro, già concluso, del plafone del Teatro Carignano e delle Cucine storiche di Palazzo Reale, da poco aperte al pubblico.E proprio nei giorni scorsi si è svolta l’inaugurazione dei nuovi allestimenti dell’Appartamento del Re nel magnifico scenario di Villa della Regina. La Consulta si appresta a continuare su questa strada anche nel futuro, confermando il suo impegno sul recupero delle residenze sabaude. Scommettere sulla cultura e sui diversi aspetti che essa racchiude si è rivelata una sfida vincente per il nostro territorio. Negli ultimi decenni i comportamenti turistici hanno subito una complessiva trasformazione e gli aspetti più strettamente connessi alla vacanza tradizionale conoscono una generale attenuazione; ne esce valorizzata invece la città, con la molteplicità delle sue offerte e la ricchezza del suo patrimonio storico. Il turismo, attirato e incentivato dall’importante vetrina che sono state le Olimpiadi Invernali 2006, ha scoperto una città che prima era per tutti solo la città dell’auto. Da allora molti passi avanti sono stati fatti: il presente vede Torino insignita delle prestigiose Tre Stelle della Guida Michelin, una città che guarda al prossimo traguardo, le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia di cui sarà protagonista. Ciò che attira visitatori a Torino sono la Reggia di Venaria, i palazzi e le dimore sabaude, un patrimonio d’arte ancora in parte da scoprire e poi il Museo del Cinema, il Museo Egizio, l’Enogastronomia d’eccellenza, ma non solo. Parliamo di un panorama di offerte culturali ricchissimo, un capitale naturale, artistico, storico, paesaggistico che va sostenuto e protetto perché porta nuovi posti di lavoro, porta sviluppo, crescita sociale, qualità.
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Lodovico Passerin d’ Entrèves Presidente Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali di Torino.
Ringrazio il Presidente dell’Unione Industriale Gianfranco Carbonato per le sue parole e tutti i presenti: autorità, relatori, invitati. Ringrazio le Soprintendenze presenti: una conferma dello stretto rapporto di collaborazione che è - da vent’anni - nel Dna di Consulta e che ha permesso tante fruttuose realizzazioni. Vorrei anche ringraziare la Confindustria/Commissione Cultura e il suo Presidente Alessandro Laterza. Il fatto che l’odierno Workshop di Torino di Consulta sia tra i 5 eventi nazionali della VII° Settimana della Cultura di Impresa promossa dagli industriali italiani, è per noi un onore. Ma anche molto di più. L’incontro di oggi è infatti importante, perché segna il consolidarsi di una nuova missione di Consulta, che consiste nel favorire un coinvolgimento sempre più significativo delle imprese e dei privati nei beni culturali. In questa prospettiva il rapporto Confindustria Consulta va ben al di là di una felice opportunità, assume un valore più ampio. Sarà nostro impegno facilitare il coinvolgimento nei beni culturali delle imprese italiane, offrendo loro ricerca e informazione perché possano utilizzare al meglio le occasioni di incentivi e di defiscalizzazioni. Tale obiettivo ha cominciato a delinearsi con il convegno dello scorso anno e intendiamo rafforzarlo. Perché integra e si aggiunge alla missione storica di Consulta, volta a restaurare edifici storici , monumenti, luoghi sacri di valore artistico, che è stata il nostro core business dalla nascita di Consulta ad oggi. E che rimarrà nostra priorità. Una fiscalità che agevoli le aziende nell’investire nei beni culturali è fondamentale. Lo è quando l’economia attraversa una fase espansiva. Lo è ancor di più in tempi di andamento non brillante dell’economia, come l’attuale, in cui non soltanto rischiano di ridursi le risorse pubbliche per la tutela e valorizzazione del patrimonio artistico, ma diminuiscono anche le possibilità di intervento dei privati. L’intento di Consulta, con il Workshop che sta per iniziare, è innanzitutto di porgere alle imprese una descrizione, il più possibile chiara, degli strumenti legislativi e della normativa che incentivano o
consentono un trattamento fiscale più favorevole degli investimenti sul patrimonio artistico. In secondo luogo il nostro obiettivo è di stimolare riflessioni su innovazioni e miglioramenti da apportare alle vigenti disposizioni legislative e regolamentari in materia, anche alla luce delle esperienze estere che verranno illustrate nella prima parte del seminario e soprattutto di quella francese, che Colin Tweedy, relatore al convegno Consulta dello scorso anno, definì come la più innovativa in Europa al momento attuale. In terzo luogo il nostro intento è di fare emergere suggerimenti per un utilizzo delle opportunità esistenti che non vengono adeguatamente sfruttate, perché poco conosciute o, peggio ancora, perché contenute in norme di difficile interpretazione. Desidero utilizzare ancora qualche istante per illustrare Consulta ai relatori e agli ospiti che per la prima volta sono con noi. Consulta è un esempio unico in Italia di 29 aziende ed enti che hanno deciso di mettere in comune gli sforzi per contribuire alla salvaguardia del patrimonio artistico di Torino e della sua provincia. All’inizio, 21 anni fa, le aziende erano 12. All’epoca il patrimonio artistico torinese, pur magnifico, mostrava forti segni di degrado. La sensibilità del territorio alla tutela e valorizzazione dei beni culturali locali era ancora relativamente modesta, né esistevano le fondazioni bancarie, né si delineavano all’orizzonte grandi eventi come le Olimpiadi invernali 2006, che comportano un flusso di denaro anche a beneficio del patrimonio culturale. Le risorse per tutela e valorizzazione erano, vent’anni fa, quasi soltanto quelle delle Soprintendenze. La collaborazione pubblicoprivato nel campo artistico destava ancora perplessità ed appariva come un obiettivo cui tendere, più che una prospettiva concreta. Dar vita a Consulta fu un’esperienza pionieristica di un piccolo gruppo di imprenditori e manager che amavano ed amano profondamente la loro città. Consulta si è consolidata nel tempo grazie ad un approccio molto pragmatico: - richiedere ai Soci un contributo annuo che consentisse di investire ogni 12 mesi una cifra
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equivalente a circa un milione di euro; - focalizzare tale investimento sul restauro; - mettere a disposizione risorse manageriali per la conduzione dei progetti di restauro, ovviamente di concerto con le Soprintendenze (che sono l’equivalente italiano delle Direzioni territoriali del patrimonio artistico esistenti in Francia). Cito alcuni soltanto dei restauri promossi da Consulta: le chiese di San Carlo e Santa Cristina in piazza San Carlo, le Fontane monumentali di Piazza CLN, le Aule del Parlamento Subalpino e Italiano a Palazzo Carignano, il Palazzo e il Cortile d’onore dell’Università, la Biblioteca Reale, la Pinacoteca dell’Accademia Albertina, il Castello Cavour di Santena, l’Asse del Belvedere e il Teatro d’Acque di Villa della Regina, la chiesa di San Filippo, il monumento a Vittorio Emanuele II. Più recentemente si è avviato il ripristino delle alberate storiche della Palazzina di caccia di Stupinigi e si è collaborato al restauro e alla ricollocazione di alcune opere nella Reggia della Venaria Reale. Solo pochi giorni fa abbiamo inaugurato l’allestimento dell’Appartamento del Re, a Villa della Regina, in collaborazione con la Presidenza della Repubblica, che ha imprestato le settecentesche Storie di Enea dipinte da Corrado Giaquinto, originariamente a Villa della Regina e oggi al Quirinale. Sono alcuni esempi dell’attività di Consulta, che hanno comportato l’impegno di oltre 1 milione di ore di lavoro per restauratori, esperti, specialisti, personale delle Soprintendenze, con una spesa complessiva - per Consulta - che si sta approssimando ai 20 milioni di euro. Adesso occorre accrescere la fruizione da parte del pubblico di tale patrimonio restaurato e riportato alla splendore delle origini. Questa sarà la terza e nuova missione di Consulta nei prossimi anni: valorizzare e far conoscere di più e meglio, i monumenti e gli edifici storici di Torino. A cominciare da quelli su cui Consulta ha operato. Farli conoscere meglio: agli appassionati e affezionati alla cultura artistica, ma anche ai nuovi pubblici dell’arte, che sono una realtà emergente con forza dalla società civile e che, tuttavia, sono molto diversi, articolati e, non di rado, difficili da
raggiungere. Sostenere, infine, le Soprintendenze nello sforzo di apertura al pubblico dei beni. Coinvolgere di più la gente nell’arte e nel patrimonio culturale favorisce la capacità di attrazione di un territorio e di una nazione. Al tempo stesso è un formidabile biglietto da visita per le imprese italiane che si presentano all’estero. Provo ancora emozione quando penso all’eccezionale esperienza di Italia in Giappone 2001: stato italiano e imprese si sono messi insieme per realizzare la più grande operazione di promozione dell’Italia e del suo patrimonio, mai compiuta prima di allora, che è stata anche il più efficace invito rivolto a milioni di cittadini giapponesi perché venissero in Italia e conoscessero la nostra grande arte. Diceva il professor Paolucci, lo scorso anno al convegno di Consulta, che le centinaia di migliaia di Giapponesi in coda ai musei di Firenze, dai primi anni 2000 fino almeno al 2010, sono e saranno quasi tutti figli di Italia - Giappone 2001. Uno storico del’arte piemontese che quando studiavo al liceo e all’università era per noi ragazzi un mito, Marziano Bernardi, scriveva nel 1957 che per valorizzare i tesori d’arte del Piemonte sarebbero occorsi almeno 50 anni. Non si è sbagliato di molto ed oggi tutto è cambiato: i beni sono stati restaurati e Torino si presenta splendida ai turisti; ma è cambiato profondamente l’ambiente esterno: si allarga l’interesse della gente all’arte, si affinano nuove tecniche di restauro e di studio, i musei esprimono vitalità e percorsi inediti, migliora la cultura dell’accoglienza. Contemporaneamente nelle aziende è cresciuta la consapevolezza della responsabilità sociale e l’interazione tra imprese e contesto nel quale operano. Su questi temi, Consulta, che ha solo 21 anni, intende sviluppare le tre missioni che ho cercato di illustrarvi: restauri, valorizzazione e fruizione, riflessione e approfondimento sugli argomenti che consentono una migliore interazione tra beni culturali e imprese. Questo chiede l’apporto di tutti, a cominciare dal vostro impegno nel workshop di oggi. Vorremmo per sempre seppellire la definizione di mecenate coniata da un pensatore inglese dell’800: “Il mecenate è uno sciocco che dona con arroganza, per ricevere soltanto adulazione ”.
Ricognizione delle agevolazioni e delle defiscalizzazioni esistenti nei principali paesi europei
Pietro Piccone Studio Maisto, Milano. La breve comparazione che abbiamo cercato di predisporre fa un riferimento, necessariamente sintetico, alle principali normative e discipline di altri paesi, specie europei - ma non solo - cercando di selezionare le più interessanti o evidenziando pregi che possono essere importati, forse, anche in Italia e che, comunque, sono utilizzabili come spunti per migliorare il sistema vigente. L’esame della normativa di altri paesi ha evidenziato che due sono le principali metodologie che gli stati utilizzano per incentivare dal punto di vista fiscale l’investimento privato nei beni culturali ( la nostra analisi è, infatti, limitata a profili squisitamente tributari). Le due metodologie sono: 1) un incentivo fiscale che opera sugli investimenti diretti e quindi sui costi sostenuti da privati o da imprese in relazione a interventi culturali che possono beneficiare di un regime fiscale di favore; 2) una seconda metodologia, completamente diversa, che consiste nell’agevolare fiscalmente le elargizioni, le donazioni e cioè gli interventi - non diretti ma indiretti - affidati a entità pubbliche quali Stato ed enti territoriali, oppure anche a enti privati, come fondazioni e associazioni riconosciute, che perseguono scopi di tutela del patrimonio artistico storico culturale della nazione. Queste due metodologie hanno riflessi diversi per quanto riguarda i risultati. E hanno anche discipline molto differenti a seconda degli stati. Quasi tutti i paesi adottano misure, più o meno rilevanti, di incentivazione delle donazioni, cioè interventi di tipo indiretto a favore di enti pubblici e privati per iniziative in campo culturale. Non tutti, invece, promuovono fiscalmente gli interventi diretti. Sembra emergere che siano i paesi che dispongono di un maggiore patrimonio culturale ad avere discipline più avanzate, primo fra tutti sicuramente la Francia. Al di là degli incentivi fiscali volti a favorire interventi di conservazione, diretti o indiretti, tramite donazioni, esistono poi normative di tipo promozionale, come nel caso della Francia, che si
pone non solo l’obiettivo di conservare, ma anche di promuovere: per esempio stimolare l’acquisto di opere contemporanee di artisti viventi. Si sono trovate sorprese: per esempio il Portogallo, che ha una disciplina molto favorevole per le donazioni e, guardando fuori dall’Europa, il Canada che, pur non avendo un patrimonio culturale paragonabile a quello delle grandi nazioni dell’arte europee, ha però dimostrato sicuramente coraggio nel assegnare una valenza forte agli investimenti in materia culturale. Il primo caso in esame è quello della Spagna che adotta, come prima metodologia di intervento, il sostegno fiscale all’intervento diretto, cioè ai costi sostenuti direttamente dai privati-persone fisiche, cui viene assegnata una deduzione dalla base imponibile pari al 15% dei costi sopportati. La possibilità di ridurre il reddito imponibile delle persone fisiche del 15% del costo sostenuto, non è di per se una misura particolarmente favorevole, perché rispetto ad un costo di euro 1000 si ottiene una deduzione pari soltanto a euro 150. Inoltre occorre che i beni in questione siano qualificabili come facenti parte del patrimonio nazionale, cioè proprietà immobiliari o anche beni mobili, che abbiano un particolare interesse sotto il profilo storico, artistico, archeologico, oppure anche documenti e siti archeologici o archivi. Una classificazione, in altre parole, che richiede l’intervento delle competenti autorità amministrative spagnole. Non è un caso unico, perché in quasi tutti i paesi si passa attraverso una qualificazione pubblicistica, demandata ad una autorità amministrativa, di quali siano i beni particolarmente meritevoli di tutela. Sempre in Spagna e sempre con riferimento agli investimenti relativi agli stessi beni, per le imprese si è in presenza di una deduzione, solo percentuale, del 12% dei costi sostenuti direttamente . In sintesi, le agevolazioni del sistema fiscale spagnolo alle erogazioni dirette non solo non sono particolarmente rilevanti, ma sembrano anche destinate a una graduale riduzione, fino a una scomparsa totale prevista a partire dal 2014. Di contro, la Spagna prevede invece una disciplina
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più favorevole per quanto riguarda le donazioni eseguite in favore di enti o autorità che si occupano direttamente o indirettamente della tutela del patrimonio culturale nazionale: sempre con riferimento a beni che costituiscano patrimonio culturale e a donazioni di opere d’arte di qualità certificata, viene, infatti, consentita una deduzione parametrata al reddito sia delle persone fisiche sia delle imprese. Ai fini della deducibilità, la donazione deve essere a favore di soggetti particolarmente qualificati, che abbiano una missione esclusiva di tutela del patrimonio. La donazione compiuta sia da parte di una impresa sia da parte del privato cittadino, è vista come strumento di tutela del patrimonio in quanto, nella ratio del legislatore, ciò significa trasferire il bene da un soggetto privato ad un soggetto che, occupandosi istituzionalmente ed esclusivamente di finalità di tutela senza scopo lucrativo, non potrà mai distogliere il bene stesso dal patrimonio culturale spagnolo o fargli subire destinazioni diverse. La Francia ha sicuramente una disciplina molto articolata e complessa, con un appeal molto maggiore. Innanzitutto, dal primo gennaio 2008, i costi sostenuti da una persona fisica per la conservazione e il restauro di beni considerati storici, sono detraibili direttamente dall’imposta nella misura del 25%. Si badi bene: non si tratta di deducibilità dall’imponibile, ma di detraibilità direttamente dall’imposta. Ciò significa che un importo pari al 25% dell’onere sostenuto dal privato cittadino è direttamente scomputabile dalla imposta sul reddito delle persone fisiche . Esistono limiti di detraibilità non trascurabili, anche se abbastanza elevati: non si può oltrepassare la soglia dell’erogazione di 20 mila euro annuali, con cui si ottiene una detrazione di 5 mila euro. Detrazione e non deduzione di imposta, quindi un vantaggio netto per il contribuente di minore tassazione del reddito pari a 5 mila euro, che corrisponde al 25% sui 20 mila euro del costo sostenuto. Sempre per le persone fisiche, per quanto riguarda invece le donazioni, l’importo detraibile è ancora più rilevante. Le detrazioni di imposta possono giungere al 66% del valore delle donazioni quando si tratti di dono del privato cittadino - persona fisica residente in Francia - e sia diretto a enti che abbiano come scopo statutario esclusivo la tutela e la valorizzazione
del patrimonio artistico. La detrazione, pur con un complesso di limiti previsti dal legislatore, è sicuramente molto rilevante, perché non è certo poca una detrazione di imposta pari al 66% del valore della donazione Per le imprese si consente addirittura una detrazione d’imposta pari al 90% dei pagamenti relativi all’acquisto di beni culturali qualificati che sono, cioè, classificati come tesori nazionali e presentano quindi un interesse superiore per il patrimonio culturale della Francia. Ovviamente non è consentita la detraibilità del costo nel momento dell’acquisto, in quanto deve essere prima assegnata la detrazione diretta dall’imposta; assegnata, cioè consentita, da parte dei Ministeri della Cultura e del Tesoro. Vi è quindi una combinazione di intervento privato accompagnato da una previsione di approvazione pubblica, con il limite in base al quale la detrazione non può eccedere il 50% dell’imposta dovuta dall’impresa. La detraibilità del 90% dall’imposta costituisce, dunque, un tetto molto elevato, che richiede però di essere in presenza di tesori nazionali. Ad eccezione di questo caso vi è comunque una previsione di detrazione di imposta del 40% per l’acquisto di beni culturali da parte di imprese, detrazione che appare significativa, sia pure con la particolarità che il bene non può essere ceduto prima di 10 anni. Durante tale arco di tempo il bene dovrà essere conservato presso un museo francese, un archivio o una biblioteca nazionali. In altre parole si consente all’azienda una detrazione di imposta del 40%, che è considerevole, anche perché è superiore all’aliquota dell’imposta francese sulle aziende. L’impresa che fa tale spesa si trova dunque nella situazione di detrarre dall’imposta un importo più che proporzionale rispetto all’esborso compiuto, con il vincolo di non poter alienare per un decennio il bene, o distrarlo dalla finalità di una sua fruizione da parte della collettività. Naturalmente anche in questo caso è previsto un iter amministrativo per approvare tale tipologia di investimenti: si concede infatti un rilevante credito fiscale a fronte di un investimento in un bene che resta nella titolarità del privato, pur se vincolato alla pubblica fruizione. Di qui un ulteriore aspetto interessante della normativa francese, che segue una ratio promozionale e non solo di tutela-conservazione dell’esistente, ma anche di incentivazione alla promozione artistica contemporanea. Infatti alle
società che acquistano opere d’arte di artisti viventi è consentito di dedurre una somma pari al prezzo di acquisto. Si tratta di una forma di ammortamento subordinata a determinate condizioni, limiti quantitativi innanzitutto. Il bene e il suo valore devono, infatti, essere registrati nel bilancio dell’impresa come parte del patrimonio; l’opera non può essere rivenduta sul mercato e deve essere esposta in luogo accessibile al pubblico per un periodo di 5 anni. Si tratta di condizioni che tendono ad incentivare l’attività degli artisti viventi e a favorire creatività e innovazione. Per quanto risulta, non vi sono altri paesi che abbiano una normativa così incentivante della produzione artistica contemporanea. La Germania ha una disciplina molto più povera in materia di fiscalità relativa a elargizioni o investimenti privati in arte. Pur essendo il patrimonio culturale tedesco di gran livello, è evidente tale relativa modestia della normativa per quanto concerne la tipologia delle incentivazioni fiscali, soprattutto se confrontata con l’ampiezza di quella francese. La legislazione tedesca non prevede infatti, una disciplina specifica in relazione agli investimenti diretti del privato e delle società in beni culturali, anche di interesse nazionale, acquistati in proprio. Prevede soltanto forme di agevolazione e incentivazione fiscale con riguardo a fattispecie di donazioni. In particolare sono deducibili dal reddito i costi sostenuti per donazioni a favore di enti che perseguono scopi culturali, nei limiti di un importo abbastanza limitato: 20% del reddito totale per le persone fisiche e 0,4% del fatturato per le imprese, con tuttavia, la facoltà di dedurre l’ammontare in eccesso nei 5 anni seguenti. Anziché dunque prevedere rigide limitazioni sull’importo deducibile della donazione (come avviene in altri ordinamenti), in Germania si consente di dedurre fino a una certa quota del reddito e l’eventuale eccedenza nei 5 anni successivi. Per le imprese, l’ammontare delle donazioni per scopi culturali che sono considerati utili e meritevoli, può essere dedotto, annualmente, fino ad un tetto massimo del 10% del reddito imponibile. In ogni caso, se si supera un determinato importo aggiornato ogni anno in funzione dell’inflazione (a titolo di esempio nel 2007 tale importo ammontava a 25.565 euro) la somma eccedente può essere detratta negli anni successivi. Il Portogallo, pur non essendo uno dei principali
paesi dell’Unione Europea, va citato per una disciplina interessante, soprattutto per specifiche fattispecie. Queste non riguardano tanto le persone fisiche - per le quali si prevede un credito di imposta pari al 25% dell’ammontare delle donazioni, sostanzialmente una detrazione dall’imposta pari ad ¼ del valore delle donazioni effettuate a favore di governo o agenzie governative, cioè entità pubbliche, oppure, con un limite leggermente inferiore, se a favore di musei e istituzioni culturali private - bensì riguardano le imprese. Nel caso di donazioni effettuate dalle imprese si concede una deduzione pari al 120% dell’importo del dono, quindi una deducibilità dal reddito imponibile delle società maggiore dell’importo della donazione. Se dono 100 ne deduco 120. E’ una agevolazione molto rilevante, perché di fatto costituisce un incentivo al netto del costo: un investimento in beni culturali non solo consente la deducibilità totale, ma addirittura regala un surplus di deduzione al di la del costo sostenuto. Ovviamente i soggetti beneficiari delle donazioni devono essere particolarmente qualificati, in maggior parte enti pubblici, ma anche fondazioni private. Appare infine importante citare il Canada, anche se non si tratta di un Paese europeo, dove la materia è disciplinata da norme particolarmente incentivanti, che non pongono limiti al credito di imposta di cui persone fisiche e imprese possono godere, qualora compiano erogazioni liberali a enti che perseguono finalità e scopi culturali. L’importo detraibile dalle tasse è addirittura di valore pari all’ammontare donato: se dono un bene del valore di 50 dollari canadesi, ottengo un credito di imposta di eguale importo. Una incentivazione particolarmente rilevante, ma valida soltanto per i privati cittadini. Per le aziende, infatti, il valore della donazione è esclusivamente deducibile dal reddito, previa certificazione del valore stesso e purché esso non ecceda il reddito dell’anno: se il reddito di impresa è pari a 100 e il bene donato vale anch’esso 100, il reddito imponibile si azzera. Anche per le imprese, quindi, la normativa appare fortemente incentivante. Esiste inoltre una detassazione delle plusvalenze realizzate da persone fisiche o imprese nel caso di vendita di beni culturali a determinati soggetti qualificati (allo stato sostanzialmente): la plusvalenza viene incassata dal venditore netta da imposta. Nel caso, di contro, in cui ne derivi al venditore una minusvalenza, essa sarà interamente
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deducibile. In conclusione, può essere utile una tabella riassuntiva dell’analisi comparativa in tema di agevolazioni per donazioni ed investimenti in beni culturali.
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SPAGNA Imposta sul reddito delle persone fisiche Deduzione dalla base imponibile pari al 15% dei costi di acquisizione, manutenzione, riparazione, restauro, promozione ed esposizione di beni aventi un interesse culturale. Condizioni: - detenzione dei beni per almeno tre anni a partire dalla data in cui le spese sono sostenute; - i beni devono essere registrati come Patrimonio Nazionale. Tipologia dei beni qualificabili come patrimonio nazionale Proprietà immobili situate in Spagna e beni mobili che abbiano un interesse storico, artistico, paleontologico, archeologico, etnologico, scientifico o tecnologico. Documenti, siti archeologi e depositi, siti naturali, giardini e parchi che abbiano un valore artistico, storico, antropologico. Limiti alla deducibilità La deducibilità dei costi sostenuti per spese riguardanti i beni culturali non può eccedere il 10% della base imponibile del contribuente. Nel limite del 10% devono essere comprese anche le donazioni in favore dello Stato, delle Comunità autonome, delle autorità locali, delle Università pubbliche, nonché in favore di associazioni e fondazioni riconosciute e non. Imposta sul reddito delle società Deduzione dalla base imponibile pari al 12% dei costi sostenuti per investimenti in beni culturali registrati come patrimonio nazionale: - acquisizione, conservazione, riparazione, restauro, promozione ed esposizione; - ammodernamento di edifici, mantenimento e riparazione dei relativi tetti e facciate; - miglioria di infrastrutture situate in zone oggetto di protezione delle città spagnole; - miglioria dei siti architettonici, archeologici, naturali o paesaggistici; - miglioria di quei beni situati in Spagna e classificati come patrimonio mondiale UNESCO. La deducibilità dei costi, già diminuita rispetto al passato, sarà gradualmente ridotta - sia nei
confronti delle persone fisiche che delle imprese, fino ad essere totalmente abolita a partire dal 1° gennaio 2014. Donazioni In relazione all’imposta sul reddito delle persone fisiche: è prevista una deduzione pari al 25% del valore di donazioni di: - beni che fanno parte del patrimonio nazionale; - elargizioni in denaro corrisposte al fine di proteggere e conservare beni del patrimonio nazionale. In relazione all’imposta sul reddito delle società: è prevista una deduzione pari al 35% del valore di donazioni di: - beni che fanno parte del Patrimonio Nazionale - elargizioni in denaro corrisposte al fine di proteggere e conservare beni del patrimonio nazionale. Usufruiscono delle agevolazioni suesposte anche le donazioni di opere d’arte. Donazioni. Condizioni per la deducibilità Per usufruire della deducibilità, le donazioni devono essere effettuate a favore di: - associazioni senza scopo di lucro - stato, comunità autonome ed entità locali - università pubbliche ed istituti superiori - istituti che presentino le medesime caratteristiche delle Entità Locali. FRANCIA Imposta sul reddito delle persone fisiche. Erogazioni: a partire dal 1° gennaio 2008 i costi sostenuti per la conservazione ed il restauro di beni classificati come monumenti storici sono detraibili dall’imposta in misura pari al 25%. Erogazioni: limitazioni: La percentuale di detraibilità (25%) deve essere calcolata su di un valore che non può eccedere i 20 mila annuali, qualora i costi sostenuti durante l’anno ammontino, ad esempio, a 30 mila la detrazione concessa sarà comunque pari a 5 mila. Imposta sul reddito delle persone fisiche. Donazioni: è concessa una detrazione d’imposta pari al 66% delle somme corrispondenti a: - donazioni e versamenti, compresa la rinuncia espressa a profitti e beni, erogati da contribuenti residenti in Francia in favore di opere o organismi di interesse generale a carattere culturale o aventi
la finalità di valorizzare il patrimonio artistico, in particolare mediante sottoscrizioni aperte volte a finanziare l’acquisto di oggetti o di opere d’arte volti ad arricchire le collezioni d’arte dei musei francesi aperti al pubblico, alla difesa dell’ambiente naturale, alla diffusione della cultura, della lingua e delle conoscenze scientifiche francesi. Donazioni: limitazioni. Imposta sul reddito delle persone fisiche: la detrazione d’imposta pari al 66% non può eccedere il limite del 20% della base imponibile; l’agevolazione opera come detrazione d’imposta e quindi i costi non sono deducibili. Imposta sul reddito delle società: detrazione d’imposta pari al 90% dei pagamenti effettuati: - per l’acquisto di beni culturali qualificati come Tesori Nazionali, - per l’acquisto di beni culturali situati in Francia o all’estero che presentano un interesse superiore per il patrimonio nazionale dal punto di vista storico, artistico o archeologico. Vincoli L’agevolazione opera come detrazione d’imposta e quindi i costi non sono deducibili. I pagamenti sono assoggettati all’approvazione del Ministero della Cultura e del Tesoro. La detrazione si applica all’imposta dovuta nell’anno in cui i pagamenti sono approvati. In ogni caso la detrazione d’imposta non può essere superiore al 50% dell’ammontare dell’imposta dovuta dalla società. In un gruppo societario il limite del 50% si calcola sull’imposta dovuta dalla società consolidante. È concessa una detrazione d’imposta pari al 40% delle somme utilizzate dalle società per l’acquisto di beni culturali alle seguenti condizioni: - il bene non deve essere stato oggetto di un’offerta d’acquisto da parte dello stato, - la società si impegna a consentire la classificazione del bene quale patrimonio storico, - il bene non può essere ceduto prima di dieci anni dalla data di acquisto, - durante questi dieci anni il bene dovrà essere situato in deposito presso un museo francese, un’ archivio o una biblioteca dello stato, - la detrazione d’imposta è subordinata all’accettazione del ministro dell’economia e delle finanze, sentito il parere di una commissione hoc Imposta sul reddito delle società: donazioni È prevista una detrazione d’imposta pari al 60%
dell’ammontare dei pagamenti, nei limiti del 5 per mille del volume d’affari, effettuati a favore di: (a) Opere ed organismi di interesse generale a carattere culturale aventi la finalità di: 1. valorizzare il patrimonio artistico, 2. proteggere l’ambiente naturale, 3. contribuire alla diffusione della cultura, della lingua e delle conoscenze scientifiche francesi. (b) fondazioni o associazioni riconosciute di pubblica utilità, (c) musei francesi e università con indirizzo artistico. Imposta sul reddito delle società: arte contemporanea realizzata da artisti viventi. Le società che acquistano opere d’arte originali di artisti viventi possono dedurre dal risultato dell’esercizio d’acquisto e per i successivi quattro anni una somma pari al prezzo d’acquisto, alle seguenti condizioni: - le opere d’arte devono essere inscritte in bilancio come attivo immobilizzato, - la deduzione non può eccedere ogni anno il 5 per mille del volume d’affari, - per beneficiare dell’agevolazione la società dovrà esporre le opere in un luogo accessibile al pubblico per un periodo di cinque anni. GERMANIA Imposta sul reddito delle persone fisiche: donazioni I costi sostenuti per donazioni effettuate a favore di organizzazioni che perseguono scopi culturali sono deducibili: per un ammontare massimo pari al 20% dei redditi totali al lordo delle deduzioni per spese speciali, eccezionali e personali, per un ammontare massimo pari allo 0,4% della somma totale del proprio fatturato e dei propri salari, qualora il valore delle donazioni ecceda tali limiti massimi, l’ammontare in eccesso può essere dedotto dal reddito dei successivi cinque anni. Imposta sul reddito delle società: donazioni L’ammontare delle donazioni effettuate per scopi culturali che siano considerati particolarmente utili e meritevoli può essere dedotto fino al 10% del reddito imponibile. Qualora il valore delle donazioni ecceda l’ammontare di euro 25.565, la somma in eccesso può essere dedotta nell’arco dei successivi cinque anni.
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ITALIA Imposta sul reddito delle persone fisiche: erogazioni In Italia viene concessa una detrazione dall’imposta lorda pari al 19% delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione, protezione o restauro dei beni vincolati ai sensi del “Codice Urbani”, nella misura effettivamente rimasta a carico. La necessità delle spese, quando non siano obbligatorie per legge, deve risultare da apposita certificazione rilasciata dalla competente Soprintendenza del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Imposta sul reddito delle persone fisiche: limitazioni La detrazione non spetta in caso di: - mutamento di destinazione dei beni senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione per i beni culturali e ambientali - mancato assolvimento degli obblighi di legge volti a consentire l’esercizio del diritto di prelazione dello stato sui beni immobili e mobili vincolati, - tentata esportazione non autorizzata dei beni mobili vincolati. Imposta sul reddito delle persone fisiche: donazioni Dall’imposta lorda si detrae un importo pari al 19% delle erogazioni liberali in denaro a favore dello stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di comitati organizzatori, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro che: - svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico, - organizzano e realizzano attività culturali, effettuate in base ad apposita convenzione, per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro dei beni indicati all’articolo 10 del “Codice Urbani” Beneficiano di tale detrazione anche le erogazioni effettuate per l’organizzazione in Italia e all’estero di mostre ed esposizioni di rilevante interesse scientifico-culturale, nonché per ogni altra manifestazione di rilevante interesse scientificoculturale anche a fini didattico-promozionali, ivi compresi gli studi, le ricerche, la documentazione e la catalogazione e le pubblicazioni relative ai beni culturali. Imposta sul reddito delle società: deducibilità Sono deducibili dal reddito imponibile le spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione,
protezione o restauro dei beni vincolati ai sensi del “Codice Urbani” nella misura effettivamente rimasta a carico. La necessità delle spese, quando non siano obbligatorie per legge, deve risultare da apposita certificazione rilasciata dalla competente soprintendenza del Ministero per i beni culturali e ambientali Imposta sul reddito delle società: limitazioni La deduzione non spetta in caso di: - mutamento di destinazione dei beni senza la preventiva autorizzazione dell’Amministrazione per i beni culturali e ambientali, - mancato assolvimento degli obblighi di legge per consentire l’esercizio del diritto di prelazione dello stato sui beni immobili e mobili vincolati, - tentata esportazione non autorizzata dei beni mobili vincolati. Imposta sul reddito delle società: deducibilità (art. 100, comma 2, TUIR) Sono deducibili dal reddito imponibile le erogazioni liberali in denaro a favore dello stato, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute che, senza scopo di lucro, svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico effettuate per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro delle cose indicate all’articolo 10 del “Codice Urbani”. Beneficiano di tale deduzione anche le erogazioni effettuate per l’organizzazione in Italia e all’estero di mostre ed esposizioni di rilevante interesse scientifico-culturale anche a fini didatticopromozionali, ivi compresi gli studi, le ricerche, la documentazione e la catalogazione e le pubblicazioni relative ai beni culturali. Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali controlla e vigila sul corretto impiego delle erogazioni stesse. Imposta sul reddito degli enti non commerciali residenti Dall’imposta lorda si detrae un importo pari al 22% delle spese sostenute per la manutenzione, protezione o restauro delle cose vincolate ai sensi del “Codice Urbani” nella misura effettivamente rimasta a carico. La necessità delle spese, quando non siano obbligatorie per legge, deve risultare da apposita certificazione rilasciata dalla competente Soprintendenza del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Ambientali.
Art. 14 del D.L. n. 35/2005 Comma 1: prevista una deduzione dal reddito nel limite del 10% del reddito complessivo dichiarato e comunque in misura non superiore ad Euro 70 milae erogazioni liberali in denaro e in natura da parte di persone fisiche e di enti soggetti ad Ires nei confronti di Fondazioni e associazioni riconosciute che perseguono statutariamente la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico. Comma 2: costituisce in ogni caso presupposto
per l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 la tenuta, da parte del soggetto che riceve le erogazioni, di scritture contabili atte a rappresentare le operazioni poste in essere nel periodo di gestione. Comma 3: è prevista la facoltà per l’erogante, titolare di reddito d’impresa, in relazione alle liberalità erogate e in luogo della disposizione prevista dall’articolo 14 in esame, di avvalersi di quella recitata dall’articolo 100, comma 2, del TUIR.
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Le opportunità di agevolazione degli investimenti in beni culturali offerte dalla normativa italiana vigente
Anna Maria Buzzi Ministero per i Beni e le Attività Culturali. I dati relativi ad altri paesi europei confermano che la disciplina italiana relativa alle donazioni a fini culturali dei privati ha pregi che è bene non sottovalutare. La legislazione in materia è piuttosto attenta, anche se molti miglioramenti sono possibili, miglioramenti che, soprattutto, non dovrebbero tardare a essere resi di pubblico dominio. Purtroppo, fino ad ora, c’è stato un difetto di comunicazione, per cui non si riesce sempre a far correttamente percepire agli interessati le possibilità esistenti. Il che è particolarmente spiacevole, specie in una fase in cui le risorse pubbliche sono destinate a decrescere. Stiamo, infatti, da qualche anno assistendo ad un progressivo depauperamento delle risorse pubbliche, mentre di contro diventano sempre più rilevanti le esigenze di tutela del patrimonio, perché esso è, per sua natura, soggetto a rischi di degrado ed è, in molti casi, esposto alle intemperie e al vandalismo. Un patrimonio, quello del nostro paese, su cui sono impensabili stime dettagliate, perché non possiamo ancora avere la pretesa di conoscerlo interamente. Anche se l’Unesco stima che il 40% di tutto il patrimonio mondiale sia conservato nel nostro paese, l’unico dato che possiamo citare con certezza è che, in Italia, esiste la più grande concentrazione di beni culturali del pianeta. Abbiamo 4 mila musei, di cui 400 statali, 40 mila castelli, 3 mila aree archeologiche, 100 mila chiese classificate come patrimonio nazionale; per di più lo stato, il ministero, le soprintendenze intervengono anche sul patrimonio ecclesiastico, in termini di conservazione e tutela. Eppure, come ministero, si dispone solo dello 0,28% del bilancio statale, per una competenza che si estende a tutto il paese, con la sola eccezione della Sicilia. Si pensi che la pubblica istruzione dispone del 5,30% del bilancio nazionale. Con queste risorse modeste il Ministero per i Beni e le Attività Culturali non solo interviene su tutto il patrimonio dello stato, ma anche concede contributi ai privati possessori di beni culturali considerati di interesse nazionale (quindi vincolati a controllo del ministero), per la loro preservazione: un importo che può variare
dal 30 al 40% delle spese sostenute. Vi erano state leggi che consentivano di ottenere risorse aggiuntive: la giocata supplementare del Lotto del mercoledì avrebbe dovuto essere interamente dedicata all’amministrazione dei beni culturali. La giocata di metà settimana continua e ha successo tutt’ora, ma lentamente decresce la quota destinata al patrimonio culturale. Anche l’otto per mille dell’Irpef era stato progettato con una quota dedicata ai Beni Culturali, ma tale quota diminuisce sempre più. È stata creata la società Arcus, con capitale pubblico ed era previsto che il 3% della spesa per le infrastrutture confluisse in tale società: una innovazione introdotta dal ministro Urbani, che per la prima volta considerava il patrimonio anche come realtà produttiva, prevedendo che si legasse la conservazione del patrimonio alle risorse per le infrastrutture. Si tratta, in ogni caso, di positivi sviluppi, ma ciò che massimamente occorre è sostenere l’intervento del privato a supporto del pubblico. Esempi come la Consulta di Torino sono eccellenti: 20 anni, 20 milioni di Euro investiti, 20 interventi realizzati, ciascuno concluso nell’arco di 12 mesi e tutti riguardanti un territorio ben definito, senza dispersioni. Il fatto che l’intervento venga realizzato in poco tempo rende possibile a chiunque apprezzarne i risultati; di contro, gli interventi del Ministero, proprio per la scarsità di risorse, necessitano di un piano triennale e, di conseguenza, appaiono più lenti. Per favorire l’apporto dei privati, sono state varate alcune norme importanti, purtroppo non molto conosciute e soprattutto non molto note a quella categoria di specialisti - i commercialisti - che dovrebbero consigliare le imprese sulle norme da applicare, al fine di legare il nome dell’azienda ad un progetto culturale, ottenendo, al tempo stesso, un beneficio in termini di detrazione fiscale o deduzione dal reddito. Vorrei soffermarmi su una norma che consente il mecenatismo da parte delle imprese, è l’art 38 della legge 342/ 2000, che è successivamente confluito nell’art. 100, lettera m, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR). Norma meglio conosciuta come legge sulle
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erogazioni liberali, essa nasce nel 2000, il primo decreto attuativo è del 2001, successivamente viene rivista con un decreto del ministro Urbani nel 2002, ampliando la categoria dei beneficiari. Purtroppo si tratta di un decreto di attuazione criptico e che è stato scritto sovrapponendosi ad una dizione normativa già di per sé poco comprensibile anche per noi collaboratori del ministero, che dobbiamo favorirne l’applicazione. Con l’apporto del dottor Vincenzo Busa della Agenzia delle Entrate, si è riusciti ad ottenere, in tempi più recenti, un decreto ministeriale di chiarimento. In secondo luogo, si è messa in rete una modulistica volta a far comprendere a chi accede al sito internet del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali le opportunità derivanti dalla suddetta norma. Infine si è pubblicata una guida, cioè uno strumento alquanto sintetico, composto di domande e risposte. La guida non è e non vuole essere un trattato di diritto tributario, ma uno strumento per comprendere meglio quale sia la norma, quali siano i vantaggi che ne derivano sia all’erogatore, sia al beneficiario e chi vi possa accedere. In tale guida sono inserite anche le altre disposizioni che consentono agevolazioni a favore dei privati e, soprattutto, delle imprese. In parole semplici l’art.100 del TUIR consente la totale deduzione dal reddito delle erogazioni liberali che l’impresa vada ad effettuare in favore dello stato, degli enti territoriali, delle fondazioni e Associazioni (purché legalmente riconosciute), per favorire il perseguimento dei loro fini istituzionali e per la realizzazione di progetti nel campo dei beni culturali e dello spettacolo. È dunque una norma liberale, che permette alle imprese di investire direttamente su un progetto reputato importante, senza che occorra una approvazione preventiva o consuntiva del ministero e che sollecita, anche nei soggetti culturali, una logica imprenditoriale per attrarre finanziamenti privati. La norma in questione è interessante
perché non sono previsti meccanismi di passaggio (tipo autorizzazioni da parte dello stato). Unico meccanismo amministrativo contemplato è una comunicazione dell’importo erogato al ministero e all’Agenzia per le Entrate, che specifichi, contemporaneamente, a qual tipo di progetto culturale l’erogazione sia stata o sia finalizzata. Per esempio, tale norma è perfettamente applicabile alle aziende di Consulta, perché gli interventi di Consulta sono statutariamente focalizzati sul patrimonio culturale. Un rischio, sia pure remoto, connesso all’art.100 del TUIR esiste, anche se in 5 anni di applicazione della norma non si è mai concretizzato: qualora, infatti, nella totalità delle erogazioni si dovesse superare l’importo di 139 milioni di euro - per il quale il Fisco ha previsto di introitare circa 51 milioni di euro in meno di gettito - il beneficiario dovrebbe riversare all’Erario una lieve differenza, cioè la quota della propria erogazione, che eccede il tetto massimo di 139 milioni di euro. Per ora siamo lontanissimi dalla soglia di rischio: nel primo anno di applicazione si è giunti ad un importo totale delle erogazioni liberali che hanno utilizzato l’art. 100 pari a 14 milioni di euro, salito nell’ultimo anno di cui abbiamo dati precisi, il 2007, a 32 milioni di euro: ammontare che corrisponde a circa ¼ del tetto di cui sopra. La norma quindi non è utilizzata ampiamente, nonostante presenti vantaggi notevolissimi. Va conosciuta meglio. Un’ultima considerazione: la Germania mette al primo posto, nell’utilizzo del tempo libero, i consumi culturali; la Francia il benessere; l’Italia la ristorazione. Al consumo culturale, dunque, l’Italia assegna un ruolo minore. Antonio Paolucci affermava che le risorse che lo stato assegna al patrimonio sono strettamente correlate all’importanza che gli italiani attribuiscono alla cultura. Forse, se crescerà l’interesse da parte della cittadinanza, aumenteranno anche le risorse riversate a favore del patrimonio.
La prassi delle imprese italiane e francesi in materia di investimenti in beni culturali e i suggerimenti che ne derivano
Alain Elkann, Presidente Fondazione Museo Egizio, Torino
È importante mettere a confronto Italia e Francia in materia di incentivazione ai privati ad investire nei beni culturali, perché la Francia, oltre ad essere importante per il suo patrimonio, si è data da qualche anno una legislazione innovativa. Su indicazione del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, ho incontrato nel luglio scorso a Londra, presso l’Ambasciata d’Italia, i Presidenti e direttori dei maggiori musei britannici (British Museum, National Gallery, Victoria and Albert Museum, Royal Academy): all’unanimità essi hanno sostenuto che era opportuno osservare il sistema francese in materia di fiscalità-impresebeni culturali, perché attualmente esso appare il più appropriato. Se lo dicono gli inglesi, in Inghilterra e nella sede dell’Ambasciata italiana, è probabile che sia una affermazione che ha qualche fondamento. Ho avuto il privilegio di incontrare due volte Mr. Christophe Monin al Louvre e di farmi illustrare come funzioni il sistema francese in tema di mecenatismo. Ho comunicato tutto ciò al nostro ministero e so che il notaio Bellezza, che è consulente del ministro, sta approfondendo e lavorando al riguardo. Ad Avignone , nei giorni scorsi, nel quadro di un Consiglio dei ministri europei, il primo ministro francese e il suo collega dei beni culturali, hanno ribadito quanto diventi sempre più importante il mecenatismo e quindi l’incentivazione fiscale per sostenerlo. Il ministro Bondi proprio in questi giorni sosteneva che il patrimonio culturale deve essere gestito come tale: se il mio patrimonio è una casa e voglio tutelarlo adeguatamente, dovrò prima di tutto impedire che diventi fatiscente e poi apportarvi migliorie per la sua valorizzazione. Valorizzare è una sfida, che richiede creatività e disponibilità. Quando la più grande compagnia televisiva giapponese (Fuji), insieme al più diffuso quotidiano del Sol Levante (12 milioni di copie/ giorno) e alla maggiore casa cinematografica nipponica, chiedono al Museo Egizio di Torino di esporre 130 pezzi in 5 musei del Giappone, dietro un corrispettivo di 700 mila dollari Usa, sarebbe
assurdo non farlo, una volta ottenuto, ovviamente, il consenso delle soprintendenze . Di contro, sarebbe assurdo voler alienare il Colosseo o vendere una statua del Museo Egizio, che sono patrimonio intangibile. Lamentarsi non serve: nel nostro settore ci sono opere che non potranno mai essere prestate, ma altre che possono esserlo. Per quale ragione il Museo Egizio, che possiede 25 mila pezzi di cui solo 6 mila esposti, non dovrebbe imprestarne 130, quando le Soprintendenze sono d’accordo e i mezzi di trasporto e le assicurazioni sono perfettamente idonei? Certo occorre il parere scientifico favorevole degli esperti del ministero; oltre a quello, occorre il buon senso. Non sono in gioco soltanto i 700 mila dollari, preziosi per il Museo Egizio, vi è anche l’altrettanto prezioso corrispettivo immateriale (ma con ricadute economiche in termini di turismo) della televisione giapponese che realizzerà due documentari sul Museo Egizio e che facendo ciò si occuperà di Torino, della Galleria di Arte Moderna, della Fondazione Sandretto-Re Rebaudengo, della Pinacoteca del Lingotto. Sicuramente non tutti i Giapponesi conoscono Torino. Lo sappiamo e ne ho avuto ulteriore conferma in occasione delle Olimpiadi invernali 2006: quando, grazie a Giugiaro che l’ha costruita, abbiamo esposto in Piazza Castello la copia della statua di Ramesse II. Al mattino ho notato molti giapponesi che si facevano fotografare con Ramesse e ho chiesto loro il motivo di tale interesse per l’antico faraone: credevano fosse il simbolo di Torino! Ne traggo una sola conclusione: non fidiamoci della memoria storica e cerchiamo di attualizzare il nostro Patrimonio. Come fa la Francia, che ad Abu Dhabi porta il Louvre. Ho visitato, una settimana prima delle elezioni americane, il Louvre di Atlanta, o meglio, ho visitato il Museo di Atlanta in cui, da tre anni, vi è un pezzo del Louvre. Non possono fare altrettanto i musei italiani? Non possiamo imprestare qualche opera degli Uffizi (che non siano i massimi capolavori, come la Venere di Botticelli, la cui assenza dal museo - sia pur temporanea - impoverirebbe di molto la Galleria) o
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di Capodimonte? Forse che facendo ciò spogliamo il visitatore dei suddetti musei? Non possiamo creare un logo dei musei italiani? Voglio dire che è importante capire, prima di arroccarsi nei luoghi comuni o negli stereotipi del passato, come pare stiano invece arroccandosi alcuni giornali italiani a proposito della nomina del nuovo Direttore Generale del Ministero che si occuperà di valorizzare i musei italiani. Capire significa tener conto della situazione attuale: bisogna andare avanti sapendo che il ministero ha poche risorse, che c’è crisi economica grave, che tutti i ministeri di spesa hanno subito tagli di bilancio drastici e che molto altro sarà ridimensionato nei prossimi mesi. Ho incontrato il professor Spinosa che soprintende al Polo Museale di Napoli e sta preparando una mostra voluta dal ministro Bondi (o forse due mostre parallele) che spieghi agli stranieri l’Italia: dagli Etruschi all’arte contemporanea. È difficile spiegare l’Italia, che cosa è e che cosa è stata, ma è ingiustificato il clima di sospetto che si sta creando al riguardo, quasi si trattasse di una commercializzazione dei beni culturali. È forse supermercato aver portato a Birmingham in Alabama alcuni disegni di Leonardo da Vinci imprestati alla Fondazione FIAC dalla Biblioteca Reale di Torino? Disegni che oggi sono a San Francisco e tra un mese nel Nevada, dove il presidente della locale fondazione corrisponderà 200 mila dollari Usa alla Biblioteca Reale della nostra città per compiere restauri. E’ un’operazione a somma positiva: in cui la Biblioteca Reale trova risorse per conservare i propri tesori, in cui Leonardo è andato in Alabama, dove mai nessuna sua opera aveva potuto essere ammirata de visu dai cittadini. Non è forse questa la vera diffusione della cultura ? È corretto quanto afferma l’Unesco: disponiamo, in Italia, del 40% del patrimonio mondiale. Ma è anche vero che esiste la parola concorrenza, che si declina negli artisti fiamminghi, in Vermeer, negli spagnoli Goya, Velasquez, così come esiste Fragonard, esiste la grande pittura inglese, esiste il Messico, i Cinesi, l’arte indiana. Vi è una competizione globale anche nell’arte e nella cultura: si pensi alle mostre che si aprono ovunque nel mondo. In sintesi, dobbiamo imparare a lavorare per il 2012, per il 2014, fare previsioni a lungo termine e avere organizzazione. Non è più sufficiente che qualche soprintendente si metta d’accordo con i colleghi
per prestare un quadro ad un certo museo. Nessuno vuole alienare oggetti del nostro patrimonio, li vogliamo solo far conoscere. Parafrasando Voltaire, dobbiamo ogni giorno coltivare il nostro giardino. Senza illuderci che tutti conoscano le nostre grandi opere d’arte. Anch’io mi illudevo, anni fa, che nelle università d’oltre Atlantico si conoscesse che cosa era stato il sessantotto. Finché uno studente americano, seccato dai miei ripetuti riferimenti a quel periodo, mi disse di spiegargli almeno che cosa fosse successo in quel fatidico anno, perché non ne sapeva nulla e poco gli interessava, in quanto era nato quattro anni dopo. Illuderci che gli altri abbiano la nostra stessa memoria storica è sempre più un rischio, perché il mondo cambia, le generazioni cambiano, le culture sono diverse e le sensibilità ancor più differenti. Anche noi dobbiamo stabilire regole nuove: ne è ben consapevole l’attuale ministro, che per ruolo istituzionale e per convinzione personale è il primo garante del patrimonio tramandato a noi dagli avi. Non è un crimine e, anzi, non vi è nulla di male nel copiare ciò che si fa all’estero. Anche i grandi copiavano. A Parigi hanno organizzato una mostra su Picasso, bellissima, in cui l’attenzione era focalizzata su tutto ciò - ed era moltissimo - che egli aveva copiato. Il che non gli ha impedito di essere l’artista del XX secolo. Perché chi è intelligente guarda gli altri, impara e anche copia. E poi, se è bravo, va avanti, giungendo a traguardi che gli altri difficilmente raggiungeranno. Per esempio, non vi sarebbe nulla di male a cogliere il meglio di quanto hanno fatto i Francesi per incentivare fiscalmente il mecenatismo, oppure per diffondere la conoscenza della Francia e del Louvre attraverso pezzi di Louvre ad Abu Dhabi ed Atlanta. Mi sono battuto per coniugare società civile, esperti, operatori culturali, enti locali, fondazioni bancarie, privati, associazioni di amici nel promuovere il Museo Egizio: perché era utile. E ringrazio il neo direttore generale per la valorizzazione dei musei italiani, Resca, per aver scritto che l’Egizio di Torino è l’esempio primo di quanto sta cambiando in Italia nella promozione dei beni culturali. La stessa linea stiamo perseguendo con la Fondazione Mecenate ’90 e con la Fondazione Città d’Italia (che presiedo pro tempore), attraverso il “Manifesto per la cultura e la bellezza”. È tramite il coinvolgimento di tanti soggetti della società che si può e si deve andare avanti. Non si può attendere che altri risolvano i nostri problemi. Non sarebbe un atteggiamento corretto neppure in campo reli-
gioso, tanto più in una città come Torino, città di volontariato, di forte sentimento religioso applicato (si pensi ai Salesiani o al Cottolengo e a molte altre realtà). L’esempio Torino è semplicemente la dimostrazione che anche nel campo della cultura - così come è avvenuto per l’industria - Torino ama elaborare, è città-laboratorio, come sosteneva Giulio Bollati quando era alla Casa Editrice Einaudi. Un laboratorio che, un secolo e mezzo fa, ha fatto l’Unità d’Italia. Una mentalità da laboratorio del nuovo, che è auspicabile si diffonda in qualche modo nel resto del paese. A cominciare dal Ministero per i Beni e Attività Culturali, in cui ci sono eccellenze di persone operosissime, di storici dell’arte, di archeologi, di restauratori, di esperti legislativi,
di carabinieri specializzati, che costituiscono tutti insieme un apparato formidabile, stimato nel mondo. Cambiare qualcosa, creare un manager dei musei italiani, non significa un’invasione di campo ai danni delle soprintendenze, ma può essere utile a tradurre nell’operatività l’indirizzo di rinnovamento che il ministro intende dare. Non più spese frammentate in mille rivoli e mille mostre di poco rilievo, ma impegno concentrato su un progetto epocale di riforma, che consenta di promuovere in Italia e fuori Italia i beni culturali che possediamo. Ciascun paese ha i propri punti di forza. Per noi si tratta di valorizzare la fortuna che l’Italia ha nel patrimonio culturale e imparare a collegare molto bene i cittadini, lo stato, il privato e la volontà politica che è necessaria per imprimere tale indirizzo.
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La prassi delle imprese italiane e francesi in materia di investimenti in beni culturali e i suggerimenti che ne derivano
Patrizia Asproni, Presidente Confcultura, Confindustria Confcultura è l’associazione che raggruppa le imprese private che gestiscono i musei e i luoghi della cultura in Italia ed è impegnata ormai da tempo nella progettazione di un modello organizzativo efficiente ed efficace per la gestione dei musei, dei siti archeologici e dei luoghi di cultura. Dal 2008 Confcultura è membro di Federturismo/Confindustria, avendo siglato uno specifico protocollo di intesa per lo sviluppo di progetti e programmi volti ad incrementare la filiera del turismo culturale. Ha inoltre aderito a Confindustria Servizi Innovativi per sviluppare le potenzialità delle imprese che producono tecnologia per i beni culturali: biglietterie “intelligenti”, comunicazione per i beni culturali - compresa la segnaletica stradale che indica i luoghi d’arte delle città - multimedialità e realtà virtuale applicate ai beni culturali, in primo luogo ai siti o alle collezioni archeologiche, in cui far rivivere è fondamentale, se si vuole coinvolgere un pubblico ampio. Confcultura ritiene che le politiche di valorizzazione dei beni culturali e del patrimonio vadano attuate con il modello più efficace e più efficiente possibile, che, per esperienza, è mutuato dal diritto privato e dall’organizzazione aziendale. Pur rispettando e, anzi, tenendo ben presente le esigenze di tutela, la gestione del patrimonio deve tendere a maggiori livelli di autofinanziamento possibile, ottimizzando le risorse e utilizzandole fino in fondo, controllando i costi di esercizio per alleggerire il carico sul settore pubblico. Va da sé che il coinvolgimento degli operatori privati alla valorizzazione è necessario e che l’esternalizzazione delle attività non strategiche serve anche per far fronte alla scarsità delle risorse. Le imprese culturali possono essere di aiuto a cogliere nuove opportunità, a tutto beneficio non solo delle imprese stesse, ma dei musei oppure siti o collezioni presso cui esse operano. Alle normative di defiscalizzazione si chiede proprio questo: di accompagnare l’innovazione nella valorizzazione dei beni culturali. Sia essa connessa con il turismo o anche con altre attività meno appariscenti, quali lo sviluppo di una funzione didattica. A giudizio di Confcultura la strada del cambiamento, che il ministero sembra aver intrapreso, è assolutamente fondamentale. Da anni chiedevamo che vi fosse
un Direttore Generale su cui far convergere tutta la materia attenente alla valorizzazione, perché si sente la necessità di un interlocutore con cui dialogare e condividere lo stesso obiettivo e un medesimo linguaggio. Non sono giurista, né fiscalista, ma cercherò di rappresentare i casi delle nostre imprese for profit, riunite in Confcultura. Al tempo stesso, con l’abito di Segretario Generale dell’Associazione degli Amici degli Uffizi, desidero illustrare il punto di vista del non profit. Per testimoniare che non sono due realtà inconciliabili, bensì entità che devono dialogare e confrontarsi. La detrazione in primis, ma anche la deduzione fiscale sono considerate da tempo, in tutti i paesi,uno degli strumenti più efficaci per finanziare la cultura e incentivare il finanziamento privato. La riduzione fiscale, quindi, per le imprese che conferiscono un contributo finanziario a una istituzione culturale, risponde anche a finalità pubbliche, in modo potenzialmente efficace. Da un lato, infatti, l’impresa che finanzia un’istituzione culturale si sostituisce, almeno in parte, all’intervento pubblico e deve essere compensata con una riduzione del carico tributario. D’altro lato il settore pubblico sa che l’assenza di contributi delle imprese finirebbe con l’aggravare l’intervento finanziario pubblico a sostegno del settore culturale. Viene da chiedersi perché non si giunga a predisporre un’ armonizzazione a livello UE della normativa in materia. L’Italia non brilla per gli stanziamenti legati alla cultura: in media, negli ultimi anni sono stati pari allo 0,3% del PIL, collocando il nostro Paese alla decima posizione in ambito UE. Il livello di indebitamento e la pressione fiscale che grava sui cittadini e sulle imprese, non consentono significative aspettative di variazione in meglio, anzi, la riduzione delle risorse impone soluzioni che possono sembrare meno creative, ma devono essere molto operative. Le strade percorribili per affrontare tale situazione sono due e non si escludono a vicenda: da una parte gli sgravi fiscali, dall’altra l’incentivazione volta a favorire l’intervento dei privati. La legge 342/2000 intendeva favorire l’incontro tra il pubblico e il privato, ma ha fallito il suo obiettivo, perché a fronte di un tetto previsto di oltre 130 milioni di euro si è raggiunto (nel 2006/7, dati
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del sito Ministero Beni Culturali) un importo pari a soli 32 milioni di euro. Sembra si sia inoltre in presenza di una flessione e non di un aumento delle erogazioni liberali. Il tetto sopra ricordato, che era stato stabilito nel timore di un eccesso di successo, è dunque ben lungi dall’essere raggiunto. I motivi vanno ricercati, innanzitutto, nella formulazione farraginosa del dettato normativo e nella pesantezza della burocrazia, per cui si è finalmente compreso che occorre andare rapidamente verso la semplificazione e una corretta e mirata comunicazione nei confronti delle imprese e dei commercialisti che operano nelle aziende o per le aziende. In secondo luogo lo strumento della defiscalizzazione non può, da solo, sbloccare la situazione di estraneità - che è evidente e perdura anche oggi - fra impresa e cultura. Con la cosiddetta legge Ronchey del lontano 1992, applicata solo nel 1998 attraverso le prime concessioni, finalmente i musei italiani hanno avuto la possibilità di utilizzare quei servizi di cui i musei esteri fruivano da molto tempo. È quindi da una decina d’anni soltanto che i nostri musei sono entrati in rapporto con tale realtà, che in Francia è presente nei musei da quasi un secolo e mezzo (1860), mentre nel mondo anglo-sassone spesso i servizi di accoglienza al pubblico sono nati con il museo stesso. Per di più, l’incontro tra pubblico e privato in base alla legge Ronchey, raramente ha dato vita a reali partnership che sfociassero in una gestione congiunta ed armonica, perché le direzioni dei musei hanno visto nell’impresa privata che gestiva i servizi museali prevalentemente un risolutore dei propri problemi interni e una cassaforte da cui prelevare per sopperire alla cronica mancanza di risorse. Con il risultato che spesso il privato si è dovuto pubblicizzare per sopravvivere. D’altra parte è evidente una mancanza di comunicazione e di interazione tra i due settori, come dimostra il fatto che nel 2006 le istituzioni che hanno beneficiato di erogazioni private appaiono essere quelle più forti e consolidate, quali il Teatro alla Scala, l’Accademia di Santa Cecilia e poche altre. Anche gli enti erogatori appaiono quasi sempre gli stessi e cioè quasi sempre le banche, poche imprese private: Pirelli, Enel… In altre parole, il privato erogatore quasi non esiste in Italia. Sappiamo, d’altronde, che gli incassi direttamente percepiti dalle istituzioni culturali sono insufficienti a coprire i costi di funzionamento e che, di fronte alla scarsità delle risorse pubbliche, un intervento di imprese quali finanziatori sarebbe
indispensabile per far sopravvivere gli enti culturali. Peraltro, l’intervento del privato che applica criteri di efficacia e di efficienza mutuati dall’organizzazione aziendale, renderebbe l’offerta culturale meno soggetta a sprechi e burocrazia. Gli Usa, che sono benchmark in materia, dimostrano che l’esenzione fiscale è uno strumento molto valido. Cito l’esempio che meglio conosco e in cui sono personalmente coinvolta. E’ noto come le istituzioni culturali italiane, anche quelle più celebri, abbiano difficoltà a reperire fondi, anche per la scarsa abitudine al fund raising, che penalizza il nostro Paese. Nel 1993, sull’onda dell’emozione suscitata in tutto il mondo dall’attentato alla Accademia dei Georgofili, che, oltre a provocare diverse vittime, distrusse un’ala importante degli Uffizi e molte opere d’arte in essa racchiuse, un gruppo di amanti dell’arte diede vita all’Associazione Amici degli Uffizi, affinché si potessero raccogliere fondi da consegnare direttamente al museo per recuperare l’edificio gravemente danneggiato e restaurare le opere lesionate. Senza l’Associazione i privati cittadini erano all’epoca impossibilitati a contribuire direttamente al ripristino del museo, a causa degli impedimenti burocratici che non prevedevano erogazioni personali. Per anni il numero dei volonterosi che avevano aderito all’iniziativa pro-Uffizi e costituito l’associazione rimase stabile, 400 persone circa. Negli ultimi anni abbiamo cambiato la nostra politica di marketing, aprendo ai giovani e offrendo benefits tangibili e programmi interessanti. Questa esperienza ci ha insegnato che, con una adeguata politica di marketing, si possono coinvolgere i giovani, le famiglie, gli anziani in un progetto che ha ricadute positive per tutta la comunità. Oggi i soci degli Amici sono circa 10 mila, e la nostra politica di fund raising ci ha spinto al di fuori dei confini nazionali con l’apertura di una “succursale” negli Stati Uniti, The Friends of Uffizi Gallery, facendo leva sul fatto che negli States le incentivazioni alla donazione consentono di detrarre l’ammontare elargito, non dall’imponibile, bensì direttamente dalle tasse che il donatore dovrebbe pagare. Siamo riusciti a comunicare il messaggio che gli Uffizi appartengono a tutti, non alla città di Firenze soltanto o allo stato italiano; siamo anche riusciti a comunicare che la richiesta di fondi è legata a specifici progetti concreti, di cui si vede l’inizio, il percorso e la fine. I soci ricevono il programma dei restauri, degli
acquisti e dei lavori che vengono finanziati. Le persone associate vengono fidelizzate attraverso visite guidate, mostre gratuite, visite nei depositi. La logica seguita non è molto diversa da quella adottata dalla Consulta di Torino, che ha coinvolto profondamente le imprese perché ha saputo collegare l’erogazione delle risorse al conseguimento di un obiettivo preciso (un certo restauro), con una durata definita (un anno) e un budget anch’esso definito (circa 1 milione di euro/anno). E dare certezza ai Soci che l’obiettivo prefissato ogni anno sarebbe stato raggiunto. Nessuno eroga - o tanto meno è contento di erogare - risorse al buio per finalità sia pur nobili, ma vaghe. Analogamente nessuno dovrebbe mai neppure richiedere donazioni, senza prima aver definito un progetto, alla cui realizzazione il dono possa concretamente contribuire e con quale tempistica. Abbiamo aperto la sede americana degli Amici degli Uffizi non a New York, come di solito avviene, ma a Palm Beach, resort soprattutto invernale per persone benestanti e facoltose. Si tratta di individui generalmente in pensione, con molto tempo libero e spesso con un profondo amore per l’Italia dell’arte. Per fare parte della “Friends of the Uffizi Gallery” pagano 25 mila dollari/procapite, il che è ammirevole, specie se si pensa che sono cittadini americani, fieri di essere tali. Costoro desiderano destinare tale importo a una istituzione italiana perché giustamente ritengono che il patrimonio della nostra penisola sia patrimonio del mondo e in un certo senso lo vivono anche come loro patrimonio. Sono solo desiderosi di venire in Italia e constatare che il loro contributo sia stato speso bene: in restauro, pulizia delle opere, nuovi acquisti. Attualmente i fondi che l’associazione Friends of the Uffizi Gallery riceve dai donors provengono al 30% da fondazioni, al 70% da altri privati (cittadini o imprese). Tuttavia, per poter fruire delle elargizioni di privati - consentendo, al tempo stesso, a questi ultimi di defiscalizzarle - l’Associazione deve depositare presso l’equivalente americano della nostra Agenzia per le Entrate - lo I.R.S. (Internal Revenue Service) - un programma annuale preventivo e, per ciascuna attività/progetto, un rapporto dell’avvenuto inizio; successivamente un secondo report della medesima attività in progress e un terzo rapporto a conclusione della attività/progetto in questione. Questo processo si ripete per ognuno dei 5 anni iniziali, dopo di che l’Associazione, accreditata
da IRS, è libera di spendere le risorse donate anche per sostenere il funzionamento della propria organizzazione interna. La consuetudine americana al fund raising è testimoniata dalle infinite possibilità di trovare risorse, anche in maniera collaterale. Ad esempio, l’elegante party per la raccolta fondi ospitato da una socia dei Friends of Uffizi Gallery nella sua ampia ed elegante mansion, è stato finanziato da una società di assicurazioni che ha sponsorizzato le spese per l’organizzazione dell’evento e il catering, con l’obiettivo di collegare il proprio marchio al prestigio degli Uffizi. Le riduzioni fiscali per le donazioni agli enti culturali sono quindi importanti incentivi perché le risorse private possano affluire senza aggravare i problemi per le casse pubbliche. Rappresentano un volano per la crescita culturale e anche per lo sviluppo del turismo, il che si ripercuote in maniera virtuosa sull’economia. Costituiscono, per di più, un meccanismo che elimina la distribuzione discrezionale delle risorse, perché è il cittadino o l’impresa l’unico giudice della validità delle iniziative cui contribuisce. Una possibilità di coniugare pubblico e privato, stato e mercato, è offerta da uno strumento poco utilizzato in Italia, il cause related marketing, finalizzato a favorire contemporaneamente il profitto dell’impresa, il soddisfacimento dei consumatoriclienti-visitatori, il pubblico interesse dei territori in cui le imprese operano. Il cause related marketing è una attività commerciale nella quale redditività e solidarietà si fondono, proponendo un’immagine, un prodotto, un servizio che offre un beneficio reciproco. L’abbiamo sperimentato a Firenze, con la pulitura del Davide di Michelangelo. Abbiamo coinvolto la Banca Toscana che, per un anno, ha emesso una carta di credito la cui movimentazione provocava, ad ogni transazione, una piccolissima donazione la quale andava a convergere su un fondo finalizzato alla manutenzione della statua. La Banca Toscana, in cambio, ha avuto la possibilità di riprodurre sulla propria carta di credito l’effige del Davide, e i cittadini la soddisfazione di poter contribuire alla mise au jour di uno dei simboli di Firenze. Un’ultima considerazione riguarda la valorizzazione. Affidare ai privati la gestione della valorizzazione significa non soltanto fornire servizi al visitatore, ma molto di più. A cominciare dalla istruttoria preventiva sul flusso e sulle caratteristiche di pubblico previsto, istruttoria che va fatta
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non soltanto per i grandi musei, ma soprattutto per quelli minori e per le tante chiese o pievi o edifici di interesse storico artistico disseminati sul territorio. Perché non tutti i suddetti beni culturali minori devono necessariamente assumere una destinazione museale. Esemplare è la logica seguita dal Demanio per quanto riguarda Villa Tolomei, piccolo borgo della Toscana, ridotto praticamente a ruderi. Il Demanio ha bandito una gara ed è stato chiesto ai candidati per il recupero di Villa Tolomei di presentare progetti tali da assicurare la tutela e la
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valorizzazione del sito. Ha vinto una società multinazionale che ha proposto di realizzare un resort a 5 stelle e che ha presentato un progetto, un conto economico, un piano finanziario e un programma di sviluppo dell’indotto, compresi i dati occupazionali. La concessione cinquantennale decretata dal Demanio si configura, nella fattispecie, come una concessione di valorizzazione e non solo di fornitura di servizi. Una indubbia innovazione dunque, che consentirà allo stato, dopo un cinquantennio, di recuperare un patrimonio che, altrimenti, sarebbe sicuramente andato in rovina.
La prassi delle imprese italiane e francesi in materia di investimenti in beni culturali e i suggerimenti che ne derivano
Lucia Nardi, Responsabile Progetti Culturali Eni
In questi ultimi anni si è più volte constatato come l’atteggiamento delle grandi aziende nel rapporto con il mondo dei beni culturali sia considerevolmente mutato, transitando da interventi di mecenatismo legati al finanziamento occasionale di mostre, restauri e pubblicazioni ad azioni consapevoli che collocano l’impresa al centro di una riflessione sulla sua responsabilità nei confronti della società e del territorio. Complice di questo nuovo comportamento è stato senz’altro l’ingresso del tema sostenibilità nelle imprese. Le riflessioni che ne sono seguite hanno prodotto rapidamente una visione più attiva e consapevole del rapporto impresa-comunità sviluppando un canale di collaborazione che è ormai un riferimento per qualunque attività sul territorio. Da semplici gregari dello stato nel suo tentativo di avvicinare il cittadino alla cultura, sempre più spesso le imprese interpretano la parte di registi ed attori di eventi culturali studiati e realizzati per rispondere ad esigenze precise. Se da un lato la sostenibilità è il filtro attraverso il quale l’impresa studia e progetta il rapporto con la società, dall’altro è la società stessa ad aspettarsi una presenza attiva e responsabile. Ne abbiamo parlato a lungo in questi anni, interrogandoci sulle necessità e i ritorni legati all’adozione di strategie di questo tipo, giungendo alla fine tutti alle stesse conclusioni: nella costruzione di una società sostenibile, l’impresa può svolgere un ruolo niente affatto marginale. Nell’ambito della cultura, si gioca sicuramente una delle partite più interessanti. È d’altronde ormai diffusa la convinzione che la cultura sia per un’azienda una risorsa indispensabile per arricchire i propri asset immateriali: competenze, relazioni, valori e reputazione. Per l’impresa progettare un evento culturale, modellandolo sulle esigenze del territorio, dargli visibilità attraverso un’opportuna campagna di comunicazione (interna ed esterna), cercare di raggiungere il maggior numero possibile di persone, contribuisce a rafforzare l’identità e a collegare il brand ad una sfera di valori alti ; più in generale aiuta a potenziare il rapporto con gli stakeholder, le
istituzioni e, non ultima, la collettività, quel bacino di fruitori che qualcuno oggi chiama stakeholder globali. Alcuni esperimenti riusciti nel rapporto tra impresa e mondo dei beni culturali - e posso citare tra le innumerevoli iniziative il progetto dei distretti culturali avviato da Federturismo e Civita - stanno convincendo lo Stato ad abbandonare quel pregiudizio ideologico che vede l’impresa solo come produttore di reddito e non come partner strategico per l’ideazione e la realizzazione di eventi culturali. Lo dimostra il fatto, che il contesto operativo sia ancora poco disponibile all’acquisizione di logiche imprenditoriali; è il caso, ad esempio, dalla piena deducibilità prevista dalla vigente legislazione fiscale e che potrebbe estendersi dalle sponsorizzazioni a quelle spese di rappresentanza spesso legate ad iniziative di natura culturale (convegni o inaugurazioni), al momento deducibili solo per un terzo dell’ammontare. Come ricorda anche il Libro bianco della valorizzazione della cultura tra Stato e Mercato presentato il 27 febbraio 2008 da Confindustria e Confcultura alla Luiss, in Italia quando si è tentato di introdurre semi di imprenditorialità nella gestione dei beni culturali, il sodalizio tra cultura e privati ha dimostrato di saper assicurare al settore maggiori risorse e maggiori ritorni in termini di comunicazione e redditività. Da dove nasce questa reciprocità di benefit che il bene culturale è in grado di procurare nello stesso tempo al business e alla società? Due padri dell’economia classica, Adam Smith e David Ricardo, hanno risposto a questa domanda: secondo loro l’arte produce nell’uomo buoni sentimenti, esternalità positive. Un secolo dopo Alfred Marshall specificava il rapporto causa-effetto di tali esternalità : mentre nel consumo dei beni industriali, oltre un certo livello, la soddisfazione degli individui tende a rimanere costante, per gli eventi culturali vale esattamente il principio inverso, più se ne fruisce e più si è portati a fruirne, vale dunque il principio che oggi gli economisti chiamano utilità marginale crescente. Certo, ci si chiederà se sia possibile parlare, in un momento di crisi come questo, di
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esternalità positive e di utilità crescenti. Personalmente ritengo sia possibile e, oserei dire, doveroso. Nel libro di Carlo De Benedetti e Federico Rampini Centomila punture di spillo. Come l’Italia può tornare a correre, edito di recente da Mondadori, sono raccontate alcune di quelle ‘riforme dal basso’ che si possono realizzare per risvegliare il paese. Nell’ultimo capitolo del libro si riporta una tesi avanzata da Joel Kotkin, un geografo che ha studiato gli ingredienti su cui è costruito il successo di alcune metropoli cosmopolite come New York, Londra, Parigi e Berlino. Tra le cause del loro dinamismo, Kotkin individua la nuova centralità della cultura come motore dello sviluppo. Le università, i teatri, i musei, le sale da concerto, i villaggi artistici, gli archivi e le biblioteche fanno di queste città veri e propri imperi economici, che si fondano su una fiorente industria culturale. Questo vuol dire che, nel processo di nuova globalizzazione, la cultura diviene un fattore di spinta per l’economia. Le città si trasformano in fabbriche in cui si vive, si pensa, si crea; l’industria culturale, che è anche parte costitutiva del dna del nostro paese, diviene un serbatoio inesauribile di risorse strategiche per l’economia. Credo che le opportunità siano sotto gli occhi di tutti, così come le costanti difficoltà finanziarie del settore. Si tratta di difficoltà legate non tanto e non solo ad un intervento pubblico dotato di scarso potere incentivante, ma anche al perdurare di falsi miti, come la convinzione, ancora purtroppo diffusa, che l’atto del conservare si possa considerare un valore in sé rispetto a quello del valorizzare. Tocca allora all’impresa provare a colmare questo vuoto, attraverso una ridefinizione dell’offerta e delle modalità di fruizione dei beni culturali. Eni in questi anni ha raccolto la sfida, fornendo non solo un mero supporto finanziario ad iniziative importanti, ma proponendosi come catalizzatore di sollecitazioni e aspettative delle comunità e del territorio. Ci siamo concentrati su tre diverse modalità di approccio: la relazione con il territorio, il rapporto con i clienti e la mediazione con gli stakeholder, riservando ad ognuno di questi item una progettazione dedicata che tiene conto dei differenti target di riferimento. Voglio raccontarvi nello specifico le più recenti iniziative che testimoniano concretamente questa diversità d’approccio. In occasione del Festivaletteratura di Mantova, evento che richiama ogni anno migliaia di
persone, Eni ha sponsorizzato una sezione del festival (Il Giallo), scegliendo però di affiancare all’operazione di semplice patronage un proprio evento culturale. Nella splendida cornice della Casa del Mantegna, il 5 settembre 2008 abbiamo presentato la pubblicazione di dieci racconti inediti tratti dalla nostra rivista aziendale “Il Gatto Selvatico” corredati da un’intervista al suo fondatore e direttore Attilio Bertolucci. I racconti, pubblicati tra la seconda metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, erano tutti di grandi autori del novecento: da Natalia Ginzburg a Leonardo Sciascia, da Raffaele La Capria a Carlo Emilio Gadda, da Giuseppe Berto a Anna Banti, da Giovanna Manzini a Goffredo Parise. In questa operazione abbiamo deciso di fare cultura in prima persona offrendo al pubblico – un pubblico di lettori appassionati come è quello del Festival della Letteratura di Mantova – dei piccoli capolavori della letteratura italiana altrimenti sconosciuti. L’evento, dal titolo Eni, Inedita energia, è stato accompagnato dai contributi di un parterre molto qualificato: l’attore Neri Marcorè, il giornalista e scrittore Corrado Augias, la critica letteraria Gabriella Palli Baroni e Mario Pirani, editorialista di Repubblica e dirigente dell’Eni di Mattei. Si è discusso su cosa è stata Eni nei suoi primi anni di vita, su quali valori stava costruendo la propria identità, quali erano i riferimenti esterni, al di là del business. Abbiamo raccontato, in sostanza, la nostra capacità di dialogare da sempre con gli attori più interessanti del mondo della letteratura. Abbiamo detto al pubblico di Mantova che questa nostra sensibilità ha radici profonde, lunghe mezzo secolo. Notevoli i ritorni del progetto: circa 200 partecipanti all’iniziativa Inedita energia e oltre 2.500 complessivi in eventi a marchio Eni, presenza sulla stampa nazionale e consolidamento dei rapporti con le istituzioni e le autorità cittadine. Ma il risultato senz’altro più importante, il vero motore dell’iniziativa, è stato il potenziamento della reputazione e della credibilità di Eni in un territorio abituato ogni giorno a dialogare con noi. Il caso Mantova è un modello interessante che replica d’altra parte un’iniziativa analoga che ci ha visto impegnati, lo scorso anno, al Festival del cinema di Venezia. Preziosi in quell’occasione i pezzi sullo scacchiere: un rarissimo film del nostro archivio storico, La via del petrolio di Bernardo Bertolucci, un territorio di nostro interesse, Vene-
zia, e un evento progettato interamente da Eni. Abbiamo restaurato il film con un partner prestigioso e autorevole come la Cineteca Nazionale Italiana, lo abbiamo messo a disposizione del pubblico di Venezia raccontando la capacità dell’Eni degli anni sessanta di iintercettare giovani artisti (Bernardo Bertolucci ha solo 23 anni quando gira il documentario per Eni). Lo abbiamo poi presentato nei mesi successivi in numerosi festival e rassegne cinematografiche (Milano, Hollywood, Parigi, Brasilia). È questa forse la chiave più completa per declinare il binomio impresa e cultura. Nei due casi descritti infatti all’investimento economico fa eco una progettazione a 360 gradi che parte proprio dall’individuare piccoli sconosciuti gioielli di cultura nel patrimonio storico dell’impresa, per poi metterli a disposizione del pubblico. Una seconda modalità di intervento è il matching tra comunicazione d’impresa e strategie commerciali, in cui i clienti sono i destinatari principali delle iniziative progettate. Anche in queste occasioni, l’impresa non deve dimenticare il suo dovere nei confronti delle aspettative delle comunità. Esplicativa in tal senso è la mostra Mantegna (1431-1506) inaugurata al museo del Louvre di Parigi il 26 settembre 2008 e prevista fino al 5 gennaio 2009, nella quale siamo Mécène Principal. Dopo il successo della mostra mantovana Il Mantegna della collezione Gonzaga, Eni è tornata a promuovere l’arte italiana rivolgendosi questa volta ad un pubblico straniero. La scelta è direttamente collegata alla necessità di far conoscere Eni in un mercato, quello francese, in cui fino a ieri non eravamo presenti. Oggi, grazie alla quota del 38% in Altergaz, la presenza di Eni acquista un significato importante: entro la fine dell’anno è previsto in Francia il raggiungimento di una quota di mercato pari all’8% circa, con ulteriori potenzialità di crescita. L’inaugurazione della mostra al Louvre, che ha visto la partecipazione di circa 450 invitati, è stata dunque un’occasione privilegiata per ‘raccontare’ Eni e far dialogare l’impresa con le istituzioni, le personalità e la stampa. Tra le presenze degne di nota vorrei ricordare il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, il direttore del Louvre Henri Loyrette, il presidente di Eni Roberto Poli, il direttore attività estero di Gas&Power Camillo Michele Gloria e di Altergaz, Robert Delbos. La partecipazione del nostro ministro della cultura è significativa, ci dice che Eni con questa mostra è andata al di là della logica di pura comunicazione
legata al business e ha offerto un’occasione importante, direi istituzionale, per presentare il patrimonio e la cultura italiana in un contesto prestigioso come il Museo del Louvre. L’iniziativa, oltre a testimoniare ancora una volta una precisa ricerca di eccellenza, ha ottenuto dai partecipanti feedback molto positivi, la stessa formula verrà pertanto replicata in Belgio, con la mostra Da Van Dyck a Bellotto, al Museo Bozar di Bruxelles, prevista per il febbraio 2009. Terza modalità di relazione virtuosa tra impresa e cultura è poi la mediazione sociale. Accanto al sostegno economico di grandi eventi culturali, Eni ha progettato e realizzato iniziative assumendo un ruolo di mediatore tra il mondo della cultura, con le sue necessità di divulgazione e comunicazione, e quello di un pubblico eterogeneo per il quale l’ostacolo economico per l’accesso al bene può essere talvolta un vincolo significativo. Per questo motivo, in accordo con il comune di Milano, abbiamo pensato di dare alla città la possibilità di ammirare gratuitamente per un mese un’opera straordinaria come La conversione di Saulo di Caravaggio, la cui abituale collocazione in una casa privata - la collezione Odescalchi - ne rendeva impossibile la visione al grande pubblico. Attorno a questo evento, che si tiene a Milano dal 16 novembre al 14 dicembre, abbiamo immaginato varie iniziative per avvicinare il grande pubblico, anche quello non specialistico, ad un’opera d’arte straordinaria. Ci siamo ritagliati nuovamente un ruolo di primo piano, scegliendo un capolavoro da poco restaurato - e dunque in grado di comunicare al meglio la sua forza espressiva - costruendovi attorno diverse occasioni di approfondimento, studiate per un pubblico differenziato. Tutti potranno partecipare ad un quiz su Caravaggio, che metterà in palio il catalogo dell’esposizione, giocando direttamente attraverso dei totem sparsi per la città o su internet. In rete si potranno anche ascoltare le interviste fatte a vari attori dell’operazione, dal Soprintendente per i beni artistici e storici di Roma Claudio Strinati alla principessa Nicoletta Odescalchi, proprietaria dell’opera, a Valeria Merlini, una delle restauratrici. Si potrà perfino seguire un avvincente racconto di Neri Marcorè che, all’interno di uno studio virtuale, ‘animerà’ la storia della tela, svelandone i lati più curiosi e poco conosciuti. Per i ragazzi delle scuole di Milano è stata studiata invece un’attività didattica poliedrica con visite guidate affidate ad animatori specializzati
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a seconda dei diversi livelli scolastici. Per gli addetti ai lavori, un catalogo e un dvd dedicato al racconto delle delicate fasi del restauro, saranno gli strumenti di approfondimento specialistico. Per tutti, infine, sono previste visite guidate serali in cui le restauratrici accompagneranno gli spettatori nella visione dell’opera. L’esposizione della Conversione di Saulo diviene in questo modo un’occasione formativa ad ampio raggio, costruita utilizzando Eni come ponte ideale tra il crescente bisogno di cultura della società e la concreta possibilità di soddisfarlo in modo coinvolgente. Inoltre, il fatto che sia l’impresa a progettare l’intera architettura dell’evento porta con sé l’adozione di un sistema di gestione manageriale e di una modalità di comunicazione efficace, entrambe funzionali a raggiungere il maggior numero possibile di fruitori. Riconoscere Eni tra gli animatori di alcuni dei momenti più alti della vita culturale nazionale e non solo, coniugare il brand ad operazioni progettate e realizzate per avvicinare
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il grande pubblico all’arte, alla letteratura, alla musica, al teatro è quello che cerchiamo con operazioni di questo tipo, certi di contribuire ad un’inedita occasione di crescita individuale. Queste sono le nostre strade. I sentieri da trovare e da percorrere sono ancora molti. Davanti alla crisi dei grandi imperi finanziari e bancari, consumi e modelli di vita sono costantemente messi in discussione. All’interno delle aziende, proprio gli investimenti in cultura rischiano di essere drasticamente ridotti. Per questo, alla luce di quanto abbiamo detto, è proprio su temi grandi come i valori, il rafforzamento dell’identità, la capacità di essere un riferimento virtuoso per le comunità e i territori, che l’impresa può rivendicare oggi un ruolo da protagonista. Possiamo parafrasare Dostoevskij e dire che «la cultura salverà il mondo»? Io credo di sì. Ma potrà farlo solo con il nostro aiuto, elaborando insieme una strategia di alleanze - come quella suggerita dal binomio cultura e impresa - di cui Eni è da sempre portavoce.
La prassi delle imprese italiane e francesi in materia di investimenti in beni culturali e i suggerimenti che ne derivano
Christophe Monin, Direttore dello Sviluppo Culturale, Museo del Louvre Il concetto di mecenatismo dei privati e delle imprese è molto diffuso in Francia e lo è da lunga data. Oggi c’è molta concorrenza tra musei e altre istituzioni culturali per attrarre fondi privati. Nelle imprese è di solito il presidente a prendere la decisione finale dell’investimento mécénat in beni culturali e, anche, nel decidere il relativo destinatario/beneficiario. Più raro è in Francia il mecenate collettivo del tipo Consulta. Il particolarismo tipico delle imprese è un ostacolo, perché ciascuna azienda vuole comparire. Le quasi uniche forme di consorzio di imprese per fini culturali riguardano la valorizzazione di singole città: iniziative di interesse locale per il cui sviluppo le aziende del territorio, a volte, si consorziano. Qualche caso di mecenate collettivo si registra anche nelle realizzazione di singoli eventi culturali, musicali, teatrali. Al di là dell’evento, tuttavia, ciascuna impresa riprende la propria totale autonomia, anche in campo culturale e in materia di mecenatismo. Come si presenta il mecenatismo quando lo si osserva dal punto di vista di un’impresa culturale quale il Museo del Louvre ? Non è infatti, verosimilmente, lo stesso punto di vista delle imprese che fanno mecenatismo. Illustrare l’importanza delle facilitazioni fiscali che sostengono il mecenatismo non deve però far dimenticare che non sempre gli aspetti fiscali sono la principale motivazione delle imprese che fanno mecenatismo (almeno nel caso del Louvre). Così come il mecenatismo non sempre è la chiave del successo delle imprese culturali. In breve, le collezioni del Museo del Louvre coprono 9 mila anni di storia, dato che il reperto più antico risale a 7 mila anni prima di Gesù Cristo e l’opera esposta più recente risale alla metà del XIX secolo e, precisamente al 1850: la totalità degli oggetti d’arte presenti nelle sale ammonta a 35 mila manufatti, su una superficie di 60 mila metri quadri di esposizione, nei 5 palazzi che compongono il museo. Museo che ha beneficiato di un ammodernamento senza precedenti nel quadro del progetto conosciuto come il Grande Louvre, lanciato dal presidente François Mitterand nel 1981, nel quale lo stato francese ha investito somme considerevoli, dell’ordine di 1 miliardo di
euro, spalmate su 15 anni e che hanno permesso al Louvre di rafforzare il suo rango di vero museo internazionale. Il Louvre è una piccolagrande impresa con 2.500 addetti fissi e con più di 8 milioni di visitatori/anno. Il sito internet del Louvre accoglie ogni anno 10 milioni di visitatori virtuali. Il museo offre dunque un panorama completo dell’arte occidentale e delle civiltà antiche che l’hanno preceduta, ma è anche un luogo di produzioni culturali molto variegate, quali le esposizioni temporanee come l’attuale su Mantegna, sostenuta dall’Eni; gli spettacoli nell’auditorium e in certe sale del museo; nonché molte attività didattiche e multimediali. Il budget annuale di funzionamento del Louvre è di poco inferiore a 200 milioni di euro, di cui 50% finanziati da una sovvenzione dello stato e l’altra metà coperta dalle risorse proprie, cioè dalle risorse economiche che il museo riesce autonomamente a reperire. A questo proposito occorre notare l’evoluzione molto rapida che ha avuto il museo: fino al 1993, cioè meno di 20 anni fa, lo stato forniva il 100% del bilancio del Louvre. In quindici anni la metà del budget è reperita in proprio. Il mecenatismo consente al museo di organizzare grandi progetti: i più importanti riguardano le mostre temporanee; ma ci sono anche le acquisizioni, le attività educative e di mediazione culturale, finalizzate al coinvolgimento di pubblici diversi, a cominciare dalle persone svantaggiate oppure con handicap culturale o educativo. Il mecenatismo al Louvre serve dunque a finanziare progetti specifici, ma anche il bilancio generale con risorse classificate come non dedicate (affectées), cioè con denaro che la direzione può destinare per le necessità generali del museo. Il mecenatismo in denaro è prevalente, ma vi è anche un mecenatismo in natura oppure in competenze: ad esempio vi sono imprese che mettono a nostra disposizione specialisti che ci possono aiutare con un faire particolare e raro. Nel 2007, per citare l’ultimo anno di cui sono disponibili dati completi, 78 progetti sono stati finanziati in tutto o in parte grazie al mecenatismo. Di tali progetti sono stati protagonisti 108 partners diversi, di natura molto differente: le imprese
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sono senza dubbio prevalenti, ma vi sono anche donatori individuali, sempre più numerosi, così come fondazioni e fondazioni di impresa in primo luogo. I partners che ho citato sono stati individuati e contattati dal Louvre innanzitutto in Francia, ma vi sono anche partners di tutta Europa e di altre aree. Questo perché il Louvre è molto attivo a livello internazionale e in particolare in 3 aree: America del Nord, Giappone, paese da molto tempo altrettanto presente nel sostegno al Louvre degli americani e - più di recente - i Paesi del Golfo, fortemente impegnati a consentirci di realizzare un nuovo dipartimento consacrato alle arti dell’Islam e del Medio Oriente. Sempre il 2007 è stato un anno eccezionale per il mecenatismo: con un apporto di 77 milioni di euro, di cui una quota destinata ad acquisizioni sensazionali per qualità e prezzo. In ogni caso, al di là delle annate eccezionali, il contributo del mecenatismo costituisce in media il 15% del bilancio del Louvre. Quanto agli incentivi fiscali, indubbiamente generosi in Francia, l’aspetto più importante riguardante le imprese è la riduzione fiscale al 60% : quando un’impresa dona 1000 euro al nostro museo, l’anno seguente potrà risparmiare 600 euro sulle tasse, grazie a tale beneficio. Il costo netto del mecenatismo, per l’impresa, sarà pari a 400 euro soltanto. Non si può però superare lo 0,5% del volume d’affari annuale. Ma se l’impresa non intende o non può utilizzare interamente la riduzione tributaria nel primo anno, può farlo nei 5 anni fiscali che seguono. Se, dunque, in un certo anno vi è stata una grande operazione di mecenatismo, l’impresa può spalmare il beneficio sul quinquennio successivo. Tale beneficio fiscale si applica solamente per i contribuenti/imprese francesi (aventi domicilio fiscale in Francia), che pagano le imposte in Francia, non per quelli che le pagano in altri paesi. Nondimeno, gli stranieri/ imprese che compiono una erogazione liberale o una donazione a favore del Museo del Louvre (o di altro museo francese), possono beneficiare dei vantaggi fiscali vigenti nei loro paesi di residenza, questo però solo laddove vi sia un accordo in materia tra la Francia e il loro paese. Purtroppo un accordo del genere non esiste ancora con l’Italia: esiste invece con 6 Paesi, tra cui l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, si tratta di un dispositivo rilevante e significativo. Occorre sottolineare un aspetto particolare e notevole della normativa francese sul mecenatismo, che si applica nei casi che noi definiamo come “Tesoro Nazionale”,
cioè opere d’arte molto importanti che un museo intende acquistare. Lo Stato francese ritiene che, per mantenere in Francia questi capolavori di maggior valore, valga la pena utilizzare un dispositivo fiscale straordinario. Grazie a tale dispositivo, un’impresa - avente domicilio fiscale in Francia - che decida di aiutare un museo ad acquisire un Tesoro Nazionale, può detrarre dalle imposte non solamente il 60% bensì il 90% della somma donata, a condizione che la detrazione non superi il 50% dell’intera imposta dovuta. Se, cioè, un’impresa dona 1000 euro al Louvre per acquistare un Tesoro Nazionale, di fatto le verrà a costare solamente 100 euro. E’ una rinuncia ad introitare notevole, che lo Stato compie quando si tratti di opere maggiori, quasi sempre di costo molto elevato, per cui un investimento anche solo del 10% è spesso già notevolmente impegnativo per l’impresa che lo compie. I benefici fiscali citati consentono dunque vantaggi sostanziali per i nostri mecenati. Ciò detto, ho ricordato in precedenza che non è solo la fiscalità favorevole a spiegare lo sviluppo del mecenatismo in Francia. Spesso sono le contropartite che noi siamo in grado di offrire alle imprese che fanno mecenatismo, in particolare le contropartite che hanno un valore economico. La legge sul mecenatismo recita che la detrazione del 60% ha un limite, che consiste nella proibizione di beneficiare di contropartite che abbiano un valore economico superiore al 25% della donazione. Di contro , se a richiedere la defiscalizzazione per mecenatismo è un privato, il ritorno economico diretto non può superare 60 euro: il che significa che una donazione, anche significativa, di un privato cittadino per la realizzazione di una mostra, può essere defiscalizzata al 66%, ma il ritorno economico diretto può consistere al massimo nel ricevere gratuitamente 2 cataloghi della mostra stessa. Il che appare francamente alquanto ridicolo. Tornando alle imprese, al di la del (25%) di contropartite economiche, si possono ricevere comunque benefici interessanti, quali la possibilità per l’impresa di utilizzare gratuitamente fotografie delle opere presenti al Louvre; oppure riportare il proprio logo su tutti gli strumenti di comunicazione di una mostra, sulla pubblicità e il materiale di marketing legati a quel determinato evento sostenuto, finanziato o co-finanziato con risorse aziendali. Nel caso del Louvre, l’impresa può organizzare iniziative di relazioni pubbliche di alto livello, negli orari in cui il museo è chiuso,
quali cerimonie e ricevimenti riservati ai propri invitati. Infine, quando si tratti di nostri grandi mecenati, l’impresa finanziatrice può richiedere che i propri dipendenti possano accedere al Louvre senza pagare il biglietto d’ingresso e senza fare code, soltanto presentando il tesserino aziendale. Esistono inoltre altri vantaggi, più immateriali, quali il fatto che su tutte le comunicazioni del museo, relative ad un evento sponsorizzato da un’impresa, compaia il logo aziendale dello sponsor; oppure la partecipazione al vernissage organizzato dal museo in occasione dell’inaugurazione; o infine, quando si tratti di donazioni consistenti, la possibilità di incidere il nome dell’impresa sul marmo della hall Napoleon, sotto la pyramide. La soglia al di sopra della quale si ottiene tale beneficio corrisponde a una donazione di 1,5 milioni di euro in un periodo di 5 anni. Altra motivazione per la crescita del mecenatismo, almeno per ciò che riguarda il nostro museo, è il grande prestigio del suo nome, del marchio aziendale Musée du Louvre. Può sembrare iconoclasta parlare di marchio aziendale per una istituzione culturale così nobile, ma quando discutiamo con le aziende, che hanno familiarità con il marketing, ci accorgiamo che è proprio l’attrattività della Marca Louvre che a loro interessa, perché associare il loro nome ad un marchio così conosciuto a livello mondiale, è un immenso vantaggio di visibilità, che può essere utilizzato presso un pubblico molto differenziato, quale gli 8,3 milioni di visitatori all’anno che vengono da tutto il mondo. Una visibilità globale dei nostri mecenati, che grazie alla Marca Louvre si qualificano come buoni cittadini socialmente responsabili. Per le imprese culturali tutto ciò ha comportato un cambiamento: la professionalizzazione della ricerca di mecenati. Il mecenate non nasce dal nulla: bisogna andarlo a cercare, convincerlo. Per convincere imprese, fondazioni, donatori individuali ci vogliono equipe professionali organizzate. Abbiamo attualmente, al Louvre, 25 persone che dedicano il proprio lavoro alla ricerca di mecenati. Sono divise in 3 squadre: la prima, che si cura del mecenatismo delle imprese e di quello individuale, è composta da 12 persone; un team di 6 collaboratori si occupa, invece, di possibili mecenati internazionali, mentre 7 altre persone curano le manifestazioni private che le imprese possono organizzare al Louvre. Ad esse va aggiunta un squadra di 4 persone a tempo pieno, a New York, che cura gli “American Friends of the Louvre”, associazione da noi creata
5 anni fa , avente la veste giuridica di fondazione di diritto statunitense e che permette ai donatori americani, quando erogano al Louvre, di godere degli stessi vantaggi fiscali che avrebbero se il dono fosse fatto, per esempio, al Metropolitan Museum o al Museum of Modern Art. La ricerca di mecenati non si limita tuttavia ai soli professionisti, ma concerne l’insieme dello staff del Museo del Louvre, a cominciare dal Presidente/Direttore generale Henry Noyrette, così come riguarda l’insieme dei Conservatori che sono al nostro fianco nel sostenere i progetti; per non citare l’insieme degli impiegati e dei sindacati. Una Carta Etica del Mecenatismo, da noi adottata, prevede gli impegni che devono essere assunti nei confronti dei donatori da parte dei nostri collaboratori, costituendo un codice di buona condotta che stabilisce, per esempio, che non devono essere offerte contropartite diverse a seconda dei donatori. Ultimo punto è la capacità del Museo di avere una autonomia giuridica nelle prese di decisione. Il Louvre dal 1993 beneficia di tale autonomia come Etablissement Publique à caractère Administratif, rafforzata nel 2003 tramite un Contrat de Performance stipulato con il Ministero della Cultura . Quando un’impresa ha di fronte il Museo del Louvre, ha un vero partner, che non deve chiedere permessi ad amministrazioni esterne, con i tempi inevitabilmente più lunghi della burocrazia. Pamela Jouven, che tra poco illustrerà la mostra del Mantegna, è un esempio della professionalizzazione nella ricerca dei mecenati, cui accennavo sopra: proviene da HEC, una delle migliori scuole di management europee, dove si formano i quadri aziendali che dirigeranno le imprese nei prossimi anni. Avere con loro una consuetudine di rapporti e di linguaggio è un indubbio vantaggio per il futuro del mecenatismo..
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La prassi delle imprese italiane e francesi in materia di investimenti in beni culturali e i suggerimenti che ne derivano
Pamela Jouven, Incaricata del Mecenatismo d’Impresa,Museo del Louvre La mostra consacrata al Mantegna è un esempio del mecenatismo di Eni: è un evento di portata internazionale, che presenta 140 lavori dell’artista secondo un percorso cronologico ed ha fruito di prestiti eccezionali da musei quali il Kunsthistorisches Museum di Vienna o da collezioni inglesi. È la mostra vedette dell’autunno 2008 del Louvre: è infatti consuetudine allestire nell’ultimo periodo dell’anno 12 mostre, di cui 2 particolarmente importanti nella hall Napoleon. Per l’esposizione di Mantegna abbiamo beneficiato del mecenatismo di 3 imprese, innanzitutto Eni come principale mecenate, che per la prima volta ha finanziato un progetto del Louvre, secondariamente Deloitte, che invece è un partner del Louvre da lungo tempo, in terzo luogo dell’impresa inglese Farrow & Ball, che ha partecipato con un contributo in natura, cioè con le vernici che servivano a dipingere la hall Napoleon. Le contropartite sono state, per Eni la possibilità di organizzare una serata con un cocktail per 700 persone sotto la Piramide. Gli invitati di Eni hanno potuto visitare la mostra in anteprima, il giorno precedente l’apertura al pubblico. Il logo di Eni è comparso sul manifesto della mostra affisso nella metropolitana di Parigi, sul kakemono, cioè sui vessilli verticali dell’esposizione, innalzati di fronte all’ingresso situato lungo rue de Rivoli. Eni ha avuto, altresì, a disposizione la pagina di prefazione del catalogo dedicato al Mantegna e spazio nella cartella stampa che il Louvre invia ad un vasto numero di operatori professionali e a un pubblico selezionato, in occasione dei principali eventi espositivi. La mostra in questione non è certo il solo esempio di collaborazioni italiane, oltre al fatto che il museo ospita moltissime opere di autori italiani e quindi numerose sono le esposizioni ad essi dedicate in sede Louvre. Il prossimo evento all’insegna dell’Italia sarà Arioste et les Arts che inizierà a febbraio e che vuole testimoniare le influenze dell’Ariosto sugli artisti, dal Rinascimento fino ai pittori dell’800. Vi sarà una prima parte dedicata all’immaginario dell’Ariosto e all’Ariosto immaginato: un’illustrazione dell’universo dell’Orlan-
do Furioso, per cui saranno esposte 40 opere, dai contemporanei Pisanello e Nicolò dell’Abate, alla corte degli Este, fino al XIX secolo di Delacroix ed Ingrès, che saranno accompagnate da numerose e varie manifestazioni nell’Auditorium del Louvre, dall’opera lirica all’opera dei pupi siciliani, oltre a concerti e letture, con la partecipazione, per noi straordinaria, di Luca Ronconi. La mostra vedette del prossimo autunno 2009 sarà dedicata alla pittura lagunare, a Tiziano, Tintoretto, Veronese, esposti secondo un percorso tematico: le 75 opere saranno cioè suddivise per tema, con l’intento di mostrare quali influenze abbiano nutrito l’opera di ogni pittore e quali siano le particolarità di ciascun artista. Contemporaneamente alla mostra sulla pittura lagunare, vi sarà la programmazione di una breve stagione culturale, concepita da Umberto Eco, che si svolgerà al Louvre nel quadro di un programma creato dall’Auditorium nel 2005. La programmazione di Eco riguarderà la Poetica del Catalogo: il catalogo come espressione della nostra epoca, ma anche come figura ricorrente nella storia dell’arte, in letteratura e in ambito architettonico. Per finire 2 restauri programmati: il primo è particolarmente importante perché si tratta di restaurare la collezione dei Mosaici Romani del Louvre, una delle più notevoli che esistano e che comprende 14 mosaici provenienti dal sito di Antakya, acquistati all’inizio del XIX secolo e che da allora non hanno subito nessun perfezionamento della presentazione, rimasta identica per quasi un secolo. Il restauro avverrebbe nel contesto di un allestimento museografico ad hoc, in nuovi spazi del Louvre, che dovrebbero riunire le testimonianze della tarda antichità, anche alla luce dello specifico interesse che il Louvre sta rivolgendo all’arte medio-orientale. Il secondo restauro riguarda un’opera di Andrea della Robbia smaltata, senza dubbio bellissima, anch’essa acquistata oltre cent’anni fa, che richiede un restauro di rilevante spessore culturale e quindi adeguate risorse economiche, che il Louvre intende reperire presso donatori mecenati.
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Proposte e ipotesi di miglioramenti della legislazione nonché dei regolamenti attuativi
Lucia Starola e Claudio Saracco Studio Saracco, Torino 1. LE EROGAZIONI LIBERALI A SOSTEGNO DI INTERVENTI PER LA TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO E CULTURALE: BREVE PANORAMICA SULLA NORMATIVA FISCALE ITALIANA
1.a. Premessa 1.b. Le “erogazioni liberali” eseguite da “imprese” e/o da altri soggetti: sintesi delle 1.b.1. art. 100, comma 2, lettere f, h ed m del T.U.I.R. 1.b.2. art. 14 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 1.b.3. norme di coordinamento tra art. 100, comma 2, lettere f, h ed m del T.U.I.R. e art. 14 del D. L. 14 marzo 2005, n. 35 1.b.4. art. 15 lettera b e art. 152 del T.U.I.R. 1.c. L’art. 100, comma 2, lettere f, h ed m del T.U.I.R. 1.d. L’art. 14 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 1.e. Norme di coordinamento tra l’art. 100, comma 2, lettere f, h, m del T.U.I.R. e l’art. 14 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 1.f. L’art. 15 lettera h e l’art. 152 T.U.I.R., applicabili esclusivamente ai “privati” e agli “enti non commerciali”, non titolari di reddito d’impresa
2. LA DISCIPLINA FISCALE DELLE EROGAZIONI LIBERALI IN EUROPA: SPUNTI DI RIFLESSIONE. 3. IPOTESI DI MIGLIORAMENTO NORMATIVA FISCALE ITALIANA
DELLA
4. IPOTESI DI INTERVENTI NORMATIVI DI NATURA NON FISCALE ****************
1. LE EROGAZIONI LIBERALI A SOSTEGNO DI INTERVENTI PER LA TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO E CULTURALE: BREVE PANORAMICA SULLA NORMATIVA FISCALE ITALIANA. 1.a. Premessa Il vigente ordinamento tributario prevede un complesso di norme volte ad incentivare le iniziative di mecenatismo culturale dirette al finanziamento di interventi per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico ed artistico. Di fatto, a seguito di una stratificazione legislativa, la materia risulta disciplinata da una pluralità di disposizioni non sempre chiare e tra loro adeguatamente
coordinate, circostanza che può talvolta compromettere il conseguimento, da parte del donante e del beneficiario, dei benefici fiscali previsti dalla legge. Aggiungasi, quale ulteriore elemento di confusione che: * la materia della “tutela del patrimonio storico ed artistico” compete in via esclusiva allo stato, * la materia della “valorizzazione dei beni storici, artistici e culturali” è oggetto di competenze concorrenti dello stato e delle regioni. In questa sede mi limito a trattare la fattispecie delle “erogazioni liberali”; in altra sede, per completezza, sarà opportuno trattare la fattispecie delle “sponsorizzazioni”, con tutti gli annessi problemi di contrattualistica, di deducibilità e di imponibilità ai fini delle imposte sui redditi, come pure di detraibilità ovvero di imponibilità ai fini IVA. 1.b. Le “erogazioni liberali” eseguite da “imprese”e/o da altri soggetti: sintesi delle norme di riferimento Le norme a cui riferirsi sono: 1.b.1. l’art. 100, comma 2, lettere f, h ed m del T.U.I.R., applicabili ai titolari di reddito di impresa, siano essi soggetti Ires ovvero società di persone o imprenditori individuali; con riferimento alle “imprese”, la normativa vigente prevede, in linea generale, la deducibilità delle “erogazioni liberali” nella determinazione del reddito di impresa, purché eseguite a favore di soggetti considerati meritevoli; 1.b.2. l’art. 14 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80; 1.b.3. norme di coordinamento tra l’art. 100, comma 2, lettere f, h ed m del T.U.I.R., e l’art. 14 del D. L. 14 marzo 2005, n. 35, applicabili sia alle “imprese” sia a soggetti di altro tipo; 1.b.4. l’art. 15 lettera b e l’art. 152 del T.U.I.R., applicabili esclusivamente ai “privati” e agli “enti non commerciali”, non titolari di reddito d’impresa. Le norme di cui sopra rilevano ai soli fini dell’Ires e dell’Irpef; agli effetti dell’Irap, infatti, l’art. 11- bis del D.Lgs. n. 446/1997 prevede la indeducibilità di ogni erogazione liberale, a prescindere dalla sua destinazione. 1.c. L’art. 100, comma 2, lettere f, h ed m del T.U.I.R. 1.c.1. lettera f La lettera f, norma che origina dalla L. 512 del 2/8/1982, dispone la deducibilità dal reddito di impresa per “le erogazioni liberali in denaro a favore dello stato, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e di associazioni
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legalmente riconosciute che senza scopo di lucro svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico”, effettuate: * per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro di beni che costituiscono patrimonio storicoartistico, come definito dalle vigenti norme in materia di beni culturali; * per l’organizzazione di mostre e di esposizioni, che siano di rilevante interesse scientifico o culturale, dei medesimi beni culturali, e per gli studi e le ricerche eventualmente a tal fine necessari. In entrambe le ipotesi la deducibilità è subordinata alla preventiva autorizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (diretta o tramite le Soprintendenze territorialmente competenti) chiamato ad accertare la meritevolezza dell’iniziativa. La norma non prevede alcun limite quantitativo all’entità della deduzione, sul presupposto della meritevolezza dell’iniziativa accertata attraverso l’obbligatoria preventiva autorizzazione ministeriale; è peraltro prevista una disposizione di garanzia in base alla quale “le erogazioni liberali non integralmente utilizzate nei termini assegnati, ovvero utilizzate non in conformità alla destinazione, affluiscono, nella loro totalità, all’entrata dello stato”. 1.c.2. lettera h La lettera h dispone la deducibilità dal reddito di impresa per “le erogazioni liberali in denaro, per importo non superiore a 2.065,83 euro o al 2% del reddito d’impresa dichiarato, a favore delle ONLUS” (ivi comprese, pertanto, quelle aventi ad oggetto iniziative nel settore dei beni artistici, storici e culturali). La norma pone dunque una duplice limitazione, in ordine * alla natura dei beneficiari (ONLUS); * all’entità, molto contenuta, della deduzione ammessa (2% del reddito di impresa, da considerarsi, sulla base delle indicazioni fornite dalla prassi ministeriale, al netto delle erogazioni liberali deducibili, e comunque entro la soglia massima in valore assoluto di euro 2.065,83, sicché non si ha diritto ad alcuna deduzione se l’imponibile è negativo). 1.c.3. lettera m La lettera m (testo attualmente in vigore, frutto di molteplici rimaneggiamenti a partire dall’art. 38 della L. 21/11/2000 n. 342) dispone la deducibilità dal reddito di impresa per “le erogazioni liberali in denaro a favore dello stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e di associazioni legalmente riconosciute, per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali e per la realizzazione di programmi culturali nei settori dei beni culturali e dello spettacolo”. L’individuazione delle categorie di soggetti beneficiari è demandata ad apposito decreto emanando da parte del
Ministro per i Beni e le Attività Culturali; la disciplina di attuazione è attualmente contenuta nel D.M. 3 ottobre 2002, in base al quale “possono essere destinatari di erogazioni liberali in denaro, a condizione che non perseguano fini di lucro ed il proprio atto costitutivo o statuto preveda lo svolgimento di compiti istituzionali nei settori dei beni culturali e dello spettacolo e vi sia effettivo svolgimento di corrispondente attività di realizzazione di programmi culturali negli stessi settori”, tra gli altri: * le persone giuridiche che, almeno in uno degli ultimi cinque anni, abbiano ricevuto l’erogazione di contributi statali alle istituzioni culturali (ovvero che, pur non avendo ricevuto ausili finanziari, si trovino nella condizione di aver diritto a riceverli); * le persone giuridiche che, almeno in uno degli ultimi cinque anni, abbiano ricevuto l’erogazione di ausili finanziari (direttamente) previsti da disposizioni di legge statale o regionale; * le persone giuridiche private che esercitano attività dirette a formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte, così come definite dalla vigente normativa in materia di beni culturali (attualmente recata dal “codice dei beni culturali e del paesaggio” emanato con D.Lgs. 22/01/2004, n. 42). Le erogazioni corrisposte a soggetti rientranti nelle categorie di cui sopra sono integralmente deducibili da parte del donante, senza alcun limite di importo; peraltro, a tal fine, la normativa impone ai soggetti interessati (donanti e beneficiari) l’osservanza di alcuni adempimenti ulteriori: * la liberalità deve avvenire con sistemi di pagamento tracciabili (bonifici bancari, assegni circolari, vaglia postali ecc.); * nel documento di versamento e nella ricevuta rilasciata da parte dell’ente beneficiario, deve essere esplicitamente indicata la causale, con il preciso riferimento all’art. 100, comma 2, lettera m del T.U.I.R.; * i beneficiari delle erogazioni liberali devono, entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento, comunicare al Ministero per i Beni e le Attività Culturali (avvalendosi della apposita modulistica reperibile sul sito internet del ministero stesso) l’ammontare delle erogazioni liberali ricevute, le generalità complete dei donanti, le finalità o le attività per le quali le erogazioni sono state elargite, ovvero la riferibilità delle predette erogazioni ai loro compiti istituzionali; * analogamente, entro la medesima scadenza, le imprese che effettuano erogazioni liberali sono tenute a comunicare al ministero l’ammontare delle erogazioni effettuate nell’anno solare precedente, le proprie generalità comprensive dei dati fiscali ed i soggetti beneficiari delle erogazioni stesse (anche a questo fine devono utilizzarsi gli appositi moduli). La norma, come sopra riferito, non prevede limiti
di importo alla deducibilità da parte dei donanti; i beneficiari sono invece proporzionalmente soggetti al “tetto nazionale annuo” (per brevità il “tetto”) complessivamente agevolabile fissato annualmente dai ministeri interessati (Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Ministero dell’Economia); pertanto, ove a livello nazionale le liberalità eseguite ai sensi dell’art. 100, comma 2 lettera m del T.U.I.R. eccedano detto “tetto”, ogni soggetto beneficiario dovrà calcolare la propria quota di eccedenza in base alla percentuale nazionale di eccedenza; calcolata la propria quota di eccedenza, ogni beneficiario dovrà versare allo stato un importo pari al 37% della stessa. Si segnala peraltro che, sino ad oggi, non si è mai verificato lo sforamento del “tetto”, cosicché i beneficiari non hanno mai dovuto eseguire alcun versamento allo stato2; ciò in conseguenza del fatto che le erogazioni eseguite dalle imprese ai sensi di detta norma sono sempre stati inferiori alle previsioni, a causa non soltanto di una ridotta propensione delle imprese ad erogazioni liberali a sostegno della cultura, ma anche, presumibilmente, a causa di una insufficiente conoscenza della normativa e della complessità amministrativa a cui è subordinato il conseguimento dei benefici. 1.d. L’art. 14 del D. L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. La norma in esame dispone che “le liberalità in denaro o in natura erogate da persone fisiche o da enti soggetti all’imposta sul reddito delle società in favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale (…) nonché quelle erogate in favore (…) di fondazioni e associazioni riconosciute aventi per oggetto statutario la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (…) sono deducibili dal reddito complessivo del soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui”. Sotto il profilo soggettivo, come chiarito dalla prassi ministeriale3, l’elencazione dei possibili beneficiari delle erogazioni deve ritenersi tassativa (di modo che non risulterà deducibile l’erogazione, ad esempio, ad una associazione non riconosciuta, sebbene avente per oggetto la tutela di beni di interesse artistico). (1) Dal punto di vista oggettivo la norma pone due limiti di deducibilità (70.000,00 euro annui in valore assoluto e il 10% del reddito complessivo in termini percentuali) da ritenersi concorrenti, come specificato dall’amministrazione finanziaria, di modo che l’erogazione liberale è deducibile entro il minore dei due limiti; pertanto: * l’importo massimo di 70.000,00 euro vale solo nel caso in cui tale importo corrisponda o sia inferiore al
10% del reddito complessivo del soggetto erogante (quindi per redditi uguali o superiori a 700.000,00 euro); * nel caso in cui il reddito dell’erogante sia inferiore a 700.000,00 euro il limite è il 10% del reddito medesimo. A differenza delle disposizioni di cui all’art. 100 T.U.I.R., l’art. 14 D.L. 35/2005 riconosce espressamente l’ammissibilità (e la deducibilità) anche delle liberalità in natura per un ammontare corrispondente al loro “valore normale”, come definito dall’art. 9 del T.U.I.R. Si segnala, da ultimo, che anche in relazione all’art. 14 la deducibilità delle erogazioni corrisposte è subordinata all’osservanza di alcuni adempimenti ulteriori: * la corresponsione della liberalità in denaro deve avvenire con sistemi di pagamento tracciabili (bonifici bancari, assegni circolari, vaglia postali ecc.); * il soggetto beneficiario delle erogazioni è obbligato alla tenuta di “scritture contabili, complete e analitiche, rappresentative dei fatti di gestione” e deve provvedere alla “redazione, entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, di un apposito documento rappresentativo della situazione patrimoniale, economica e finanziaria”; si tratta, come riconosciuto dalla prassi ministeriale, di oneri “posti a carico del soggetto beneficiario delle erogazioni, il cui inadempimento si riflette però a carico del soggetto erogante delle liberalità, che perde il beneficio della deduzione fiscale”; ed è evidente che, da parte del soggetto erogante, potrà risultare difficoltoso verificare che le condizioni prescritte siano soddisfatte, e quindi la effettiva deducibilità della erogazione eseguita. 1.e. Norme di coordinamento tra l’art. 100, comma 2, lettere f, h, m del T.U.I.R. e l’art. 14 del D. L. 14 marzo 2005, n. 35, ai titolari di reddito d’impresa Le norme di coordinamento si riferiscono ai soggetti titolari di reddito di impresa; tali norme prevedono * che per l’erogante resta ferma la facoltà di applicare, in alternativa all’art. 14, le disposizioni di cui all’articolo 100, comma 2; * che, in relazione alle erogazioni eseguite ai sensi dell’art. 14 “la deducibilità di cui al medesimo comma non può cumularsi con ogni altra agevolazione fiscale prevista a titolo di deduzione o di detrazione di imposta da altre disposizioni di legge”; secondo l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, ciò implica che “se il soggetto erogante usufruisce delle deduzioni previste dal comma 1 del citato articolo 14 non potrà usufruire, per analoghe erogazioni effettuate a beneficio dei soggetti indicati nel predetto comma 1, di deduzioni o detrazioni fiscali previste da altre norme agevolative. Al riguardo, è bene precisare che la non cumulabilità prescinde dall’importo delle liberalità erogate. Ove, ad esempio, il contribuente eroghi (anche a più beneficiari) liberalità per un valore superiore al
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limite massimo consentito di 70.000,00 euro, non potrà avvalersi, in relazione alla parte eccedente tale limite, del beneficio della deduzione o detrazione, neppure ai sensi di altre disposizioni di legge. (…) Qualora il titolare di reddito d’impresa, in applicazione della richiamata disposizione, effettui liberalità a favore di soggetti indicati sia nel comma 1 dell’articolo 14 del d.l. n. 35 del 2005, sia nell’articolo 100, comma 2, del T.U.I.R., lo stesso ha la facoltà di applicare, in alternativa, l’una o l’altra disposizione nel rispetto delle relative condizioni. La lettura logico-sistematica delle due disposizioni in argomento induce a ritenere che la scelta effettuata debba rimanere ferma per tutto il periodo d’imposta”.
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1.f. L’art. 15 lettera h e l’art. 152 del T.U.I.R., applicabili ai “privati” e agli “enti non commerciali” non titolari di reddito d’impresa Nei confronti delle persone fisiche e degli enti non commerciali, non titolari di reddito di impresa, oltre alle disposizioni dell’art. 14 del D.L. 14/3/2005 n. 35, è prevista, rispettivamente all’art. 15 lettera h e all’art. 152 del T.U.I.R. (2, 3), la possibilità di beneficiare di una detrazione di imposta pari al 19% delle erogazioni, in denaro o in natura, effettuate, tra gli altri, a favore di associazioni e fondazioni legalmente riconosciute, senza scopo di lucro, che organizzano e realizzano attività culturali, realizzate in base ad apposita convenzione, per la manutenzione, la protezione o il restauro di beni di rilevante interesse culturale; le iniziative devono essere autorizzate dal ministero. Si tratta, sostanzialmente, di un’agevolazione corrispondente a quella prevista, per i titolari di reddito di impresa, dall’art. 100, comma 2, lett. f del T.U.I.R.
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d’imposta”, ampiamente adottato dal sistema tributario francese. Al riguardo si osservi che, sul piano della parità di trattamento dei contribuenti, lo strumento della “detrazione d’imposta” può dimostrarsi più equo rispetto a quello della “deduzione del reddito imponibile”; infatti, la deduzione delle erogazioni dal reddito imponibile comporta che, a parità di importo, l’entità della minore imposta dovuta dal benefattore (e, simmetricamente, l’entità del minor gettito fiscale) viene a dipendere dall’aliquota fiscale di ciascun contribuente (con una evidente disparità fra soggetti Ires e soggetti Irpef e, tra questi ultimi, tra soggetti con reddito complessivo diverso e quindi con diversa aliquota marginale; la “detrazione d’imposta”, invece, riducendo l’imposta e non l’imponibile, evita tale disallineamento; infatti, a parità di erogazione effettuata, la riduzione dell’imposta dovuta risulta in valore assoluto identica per tutti i contribuenti, a prescindere dalla aliquota fiscale di ciascuno. Il meccanismo di “deduzione dal reddito imponibile” comporta che lo stato, soggetto a cui fa carico la tutela del patrimonio culturale, concorre in misura disomogena (tramite il minor gettito fiscale) agli interventi di tutela attuati con utilizzo di erogazione liberale; a ciò corrisponde, per l’erogante, un disomogeneo costo netto della erogazione eseguita, come risulta esplicitato tramite il progetto sotto riportato. Contribuzione dello stato per una erogazione di euro 1.000 Soggetto IRES - (aliquota 27,5%) Soggetto IRPEF - (aliquota 23%+2%) Soggetto IRPEF - (aliquota 43%+2%) Deduzione art. 100 lett. f 250 275 450 Detrazione art. 15 lett. h 190
DISCIPLINA FISCALE DELLE EROGAZIONI
LIBERALI IN EUROPA: SPUNTI DI RIFLESSIONE.
3. IPOTESI
Da un sommario confronto con la normativa degli altri paesi europei emerge che, sul piano dei benefici fiscali conseguibili a fronte di erogazioni destinate al settore dei beni culturali, la normativa nazionale è complessivamente più favorevole. Negli altri ordinamenti non esistono infatti norme assimilabili all’art. 100, comma 2, lettere f ed m del T.U.I.R., ossia disposizioni che consentano alle imprese, con riferimento alle erogazioni eseguite per scopi culturali, la loro deducibilità integrale ed illimitata (sia in termini di valore assoluto, sia in termini di percentuale) dal reddito imponibile. Quanto precede non esclude che, in specifiche circostanze, le disposizioni previste da ordinamenti esteri possano risultare più vantaggiose; ciò in particolare laddove gli ordinamenti esteri prevedano meccanismi differenti da quello della “deduzione dal reddito imponibile” adottato dal legislatore italiano, quale, ad esempio, il meccanismo della “detrazione
TIVA FISCALE ITALIANA.
DI MIGLIORAMENTO DELLA NORMA-
Dalla panoramica sulle principali disposizioni fiscali in materia di erogazioni a sostegno dei beni culturali emerge, in via di estrema sintesi, che il legislatore italiano tende a collocarsi tra i seguenti poli: * il riconoscimento di benefici fiscali illimitati e quindi di entità potenziale molto elevata qualora l’erogante opti per norme che prevedono condizioni soggettive/ oggettive restrittive tali da rendere sostanzialmente certa la rilevanza e meritevolezza dell’iniziativa (comma 2, lettere f e m dell’art. 100 T.U.I.R.); * il riconoscimento di benefici fiscali limitati, in termini assoluti e/o percentuali, e quindi di entità potenziale molto contenuta, qualora l’erogante opti per norme che prevedono condizioni di applicazione “permissive”, tali da rendere l’agevolazione virtualmente accessibile ad una platea di soggetti molto ampia. Nella valutazione dei possibili interventi normativi diretti ad una maggiore attrattività delle norme esistenti
e ad un conseguente maggiore supporto economico alla tutela di beni culturali non si potrà in ogni caso abolire il nesso tra l’entità dei benefici e la severità delle condizioni di accesso agli stessi. Ciò detto, gli interventi per migliorare l’attuale normativa potrebbero risultare molto efficaci qualora, pur non riconoscendo maggiori benefici ai soggetti eroganti, ai benefattori, assicurassero agli stessi maggiore certezza in ordine ai benefici spettanti. Come si è avuto modo di riferire, l’accesso alle disposizioni agevolative e la deduzione delle erogazioni dal reddito imponibile dai benefattori è subordinato a condizioni che sfuggono al loro controllo; la rilevanza fiscale delle erogazioni liberali è infatti subordinata ad aspetti soggettivi dei beneficiari, nonché al rispetto di specifici adempimenti da parte degli stessi, cosicché per i benefattori può risultare talvolta difficoltoso, quando non addirittura impossibile, accertare se tali condizioni siano soddisfatte e quindi, in definitiva, accertare se l’erogazione che si intende effettuare sia effettivamente deducibile dal reddito imponibile. È il caso, per esempio: * dell’art. 14 del D. Lgs. n. 32/2005, laddove la deducibilità dell’erogazione eseguita è subordinata alla tenuta, da parte del beneficiario, di “scritture contabili, complete e analitiche”ed alla “redazione, entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, di un apposito documento rappresentativo della situazione patrimoniale, economica e finanziaria”, di modo che l’eventuale inadempimento a tali obblighi “si riflette a carico del soggetto erogatore delle liberalità, che perde il beneficio della deduzione fiscale”; * dell’art. 100, comma 2, lettera m del T.U.I.R., che subordina la deduzione integrale delle erogazioni corrisposte alla sussistenza di condizioni soggettive, in capo al beneficiario, che il benefattore potrebbe avere difficoltà a verificare (ad esempio, il conseguimento, almeno in uno degli ultimi cinque anni, di contributi statali alle istituzioni culturali ovvero di ausili finanziari direttamente previsti da disposizioni di legge statale o regionale). È quindi evidente che tali incertezze possono disincentivare i potenziali benefattori, al limite da indurli a non effettuare le erogazioni, così da penalizzare l’entità totale delle risorse per la salvaguardia del patrimonio culturale nazionale. Risultano pertanto opportuni interventi normativi atti a limitare, se non ad eliminare, la portata di tali aspetti problematici; al riguardo, stante anche l’irrilevanza dei costi di attuazione a carico dello stato, si può ipotizzare * l’istituzione, a cura dell’amministrazione finanziaria (con l’eventuale supporto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali) di un’“anagrafe dei beneficiari” ammessi ad usufruire delle principali disposizioni
agevolative in materia di beni culturali, consultabile da parte dei possibili benefattori; all’amministrazione finanziaria competerebbe l’onere, sulla base di appositi controlli, di verificare l’effettiva sussistenza dei requisiti di legge per essere iscritti a detta anagrafe (si tratterebbe, di fatto, di un meccanismo non dissimile rispetto a quello già attualmente in essere per i destinatari del cosiddetto “cinque per mille”); * il rilascio da parte dei potenziali beneficiari ai potenziali benefattori, su richiesta di questi ultimi, di una certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di legge, e ciò naturalmente - sotto la responsabilità del potenziale beneficiario, con conseguente irrogazione allo stesso di sanzioni a fronte di dichiarazioni non veritiere; - con effetto liberatorio per il potenziale benefattore, nel senso che, in presenza di certificazione, non potrebbe comunque essere disconosciuta la legittimità della deduzione, anche nel caso in cui il beneficiario risultasse privo dei requisiti dichiarati (salvi eventuali opportuni temperamenti di tale effetto liberatorio, che potrebbe ad esempio essere escluso nel caso di manifesta inesistenza dei requisiti etc.). Altri interventi normativi potrebbero essere indirizzati ad una maggiore equità; si tenga ad esempio presente il caso di un soggetto erogante con reddito imponibile negativo e di erogazioni deducibili dal reddito imponibile (ad esempio il limite del 10% dell’imponibile di cui all’art. 14 del D.L. 35/2005); in tale ipotesi, al soggetto erogante non spetta alcuna deduzione (esplicitamente in tal senso è l’orientamento ripetutamente espresso dall’Agenzia delle Entrate), con evidente violazione del principio di equità. Aggiungasi che l’attuale congiuntura economica negativa, rendendo più frequente la circostanza di cuisopra, potrebbe determinare un generalizzato effetto disincentivante per i potenziali benefattori, stante il fatto che gli stessi, a fronte di risultati economici negativi, non trarrebbero alcun beneficio dalla effettuazione di erogazioni a favore di iniziative nel settore artistico e culturale. Risulterebbe quindi auspicabile, al fine di evitare tale effetto disincentivante, un intervento normativo in base al quale, in presenza di un reddito imponibile negativo, le erogazioni liberali non dedotte per incapienza del reddito possano essere riportate ai periodi di imposta successivi (anche sull’esempio di quanto avviene in altri paesi come la Germania). In alternativa, qualora l’amministrazione finanziaria intendesse contenere l’impatto in termini di minor gettito erariale, sarebbe ipotizzabile il riconoscimento al soggetto erogante della facoltà di optare per la deduzione delle erogazioni in rate costanti su più esercizi, come già attualmente avviene per le spese di pubblicità; così facendo, il “danno” del soggetto erogante sarebbe limitato alle sole quote imputate a
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periodi di imposta non capienti, e non all’intero importo dell’erogazione effettuata. Inoltre, sempre nell’ottica di una maggiore equità, sarebbe auspicabile * per le erogazioni liberali generatrici di detrazioni d’imposta (persone fisiche ed enti non commerciali), la conversione della detrazione d’imposta in credito d’imposta, utilizzabile anche in anni successivi (pur escludendone il diritto al rimborso); * l’aumento dal 19% al 27% della percentuale di detrazione di cui all’art. 15 lettera h del T.U.I.R., così da allineare l’agevolazione spettante ai “privati” con quella spettante ai soggetti Ires. Lascia perplessi anche la previsione dell’art. 100, comma 2, lett. m, relativa al versamento da parte di tutti i beneficiari italiani del 37% delle eccedenze delle erogazioni ricevute rispetto al “tetto” stabilito a livello nazionale dai competenti ministeri; le conseguenze di tale fattispecie sono infatti problematiche, in considerazione del fatto che, al verificarsi della stessa, debbono destinare allo stato risorse che, al momento della comunicazione ministeriale, potrebbero già essere impegnate (quando non già materialmente spese) nell’ambito delle attività istituzionali; il tutto in funzione di una variabile completamente esogena e non prevedibile da parte degli enti beneficiari; tale variabile rappresenta infatti, con riferimento a tale norma, l’eccedenza percentuale delle erogazioni eseguite in tutta Italia rispetto al “tetto” stabilito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con il Ministero dell’Economia). Al riguardo si potrebbe quindi ipotizzare un intervento correttivo in base al quale l’eccedenza percentuale calcolata dallo stato sui consuntivi dell’anno X costituisca per i soggetti beneficiari la percentuale per il calcolo dell’eccedenza nell’anno X + 1; gli enti beneficiari sarebbero così posti in condizione di conoscere in via preventiva la eccedenza su cui conteggiare il 37% da versare allo stato. Occorre peraltro evidenziare che il legislatore, prima di varare gli ipotizzati interventi normativi, dovrà verificarne la compatibilità con la normativa comunitaria in materia di “aiuti di stato”, ed in particolare con il regolamento n. 1998/2006 (c.d. “de minimis”). Lavorando di fantasia, nella consapevolezza che il patrimonio storico, artistico e culturale italiano non ha rivali nel mondo, si potrebbe anche ipotizzare una normativa tributaria transnazionale, atta a stimolare le erogazioni liberali di mecenati stranieri; quindi, nel caso in cui un mecenate straniero (“impresa” o “persona fisica”), innamorato di una nostra opera d’arte,
effettuasse una erogazione liberale per il suo restauro, lo stato italiano potrebbe riconoscergli un credito d’imposta da utilizzare nel suo paese, regolando la materia nell’ambito delle convenzioni contro le doppie imposizioni. Iniziative di questo genere sono state realizzate negli Stati Uniti e sono previste da alcune convenzioni in Francia; d’altronde, se si vuole vincere la competizione mondiale sulla cultura, specialmente in tempo di crisi, bisogna avere il coraggio di innovare.
4. IPOTESI DI INTERVENTI NORMATIVI DI NATURA NON FISCALE. La destinazione di risorse private alla tutela del patrimonio storico, artistico e culturale è incentivabile attraverso interventi normativi anche di natura non tributaria. Nell’ambito di tali interventi potrebbe risultare efficacie una normativa atta a regolamentare l’affidamento in gestione a privati di beni culturali di proprietà pubblica; potrebbe trattarsi di “concessioni” a tempo determinato, anche se adeguatamente ampio; le “concessioni” potrebbero essere, a seconda dei casi, rilasciate a titolo gratuito o oneroso e gli eventuali profitti/perdite della gestione competerebbero al “concessionario”; sullo stesso dovrebbero ovviamente gravare specifici obblighi, tra cui: * garantire adeguati interventi di manutenzione, restauro, nonché la conservazione del bene oggetto di concessione, che rimarrebbe naturalmente di proprietà pubblica; * rispettare la destinazione del bene; * garantire la fruibilità del bene da parte della collettività (con obbligo, ad esempio, di applicare tariffe di particolare favore alle “fasce deboli” della popolazione, al fine di assicurare a tutti i cittadini il diritto di fruire del patrimonio culturale nazionale) NOTE 1 Si vedano, in particolare, i chiarimenti recati dalla Circolare congiunta dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, n. 107 del 31/12/2001. 2 Per il 2007, come indicato nella circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 104 del 21/05/2008, a fronte di un “tetto” pari a 139 milioni di euro circa, l’importo complessivo delle erogazioni effettivamente eseguite ai sensi della lettera m è stato pari a 32 milioni di euro circa; analogamente è avvenuto con riferimento alle annualità 2005 e 2006, in cui l’ammontare delle erogazioni si è attestato sul medesimo ordine di grandezza (30 milioni di euro circa). 3 Cfr. circolari n. 39/E del 2005 e n. 30/E del 2006.
Proposte e ipotesi di miglioramenti della legislazione nonché dei regolamenti attuativi
Enrico Bellezza, Consigliere del Ministro per i Beni e le Attività Culturali. Il compito oggi prioritario, in sede di ministero, è lavorare per l’innovazione legislativa e la semplificazione: la legge finanziaria 2008, varata dal ministro Padoa Schioppa, ha compiuto, infatti, una decurtazione degli stanziamenti per il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che sfiora il 50% delle risorse precedentemente trasferite. Né sono state previste, dalla legge finanziaria 2008, nuove agevolazioni fiscali per chi (privato e impresa) investe nei beni culturali. Stante questa difficile situazione, il problema oggi centrale è quello di semplificare e fare chiarezza nelle norme di incentivazione vigenti, la cui farraginosità ne scoraggia l’utilizzo da parte delle imprese. Anche da parte di imprese grandi o mediograndi, figuriamoci da parte delle PME. Semplificare e snellire significa, in parole semplici, consentire al cittadino o all’impresa di avere in anticipo la consapevolezza che, se elargisce, per esempio, 10 mila euro per quel certo restauro, può defiscalizzare per un importo chiaramente definito e facilmente calcolabile e che non avrà in seguito problema alcuno. Questa è la prima e prioritaria esigenza, se si vuole veramente facilitare l’apporto dei privati al patrimonio culturale. La seconda esigenza, a vantaggio di chi eroga , ma anche di chi riceve, è quella di realizzare anche in Italia qualcosa di analogo alla Charity Commission britannica, per cui le istituzioni culturali che intendono beneficiare di erogazioni liberali private devono prima accreditarsi, fornendo le richieste garanzie di trasparenza gestionale e di bilancio e accettando i relativi controlli, indicando specificamente a beneficio di quale programma o progetto intendono accreditare l’erogazione. Per cui il donante può avere la certezza che se l’erogazione è diretta ad un ente culturale accreditato, essa potrà godere delle previste agevolazioni fiscali. L’effetto della certificazione consiste, quindi, nell’attribuire una sorta di bollino blu agli enti culturali che si accreditano e, d’altro lato, nel dare sicurezza al donante. Tale sistema è apparentemente simile, ma in realtà agli antipodi di quello attuato dei ministri
Melandri e Rutelli: chi fossero gli enti beneficiari delle erogazioni private lo stabiliva, infatti, il Ministero. Semplificare, innovare e certificare è un compito che parte da lontano. Nel 1996 si tenne, proprio a Torino, al Lingotto, il primo Salone dei Beni Culturali. In quella sede si svolse una tavola rotonda (con la partecipazione di Cesare Romiti, quale rappresentante di Fiat e di Confindustria e Walter Veltroni, all’epoca Ministro dei Beni Culturali) in cui emerse con forza, forse per la prima volta, il concetto di promozione/valorizzazione del patrimonio. L’allora ministro disse (cito liberamente) “ il nostro stato non ce la fa più, il patrimonio è troppo ampio, abbiamo bisogno che gli industriali siano di sostegno, non limitandosi più a semplici sponsorizzazioni”. Rispose Romiti affermando che le imprese italiane erano pronte a contribuire, ma chiedevano regole chiare e certe. Ne seguì una stagione fertile, grazie anche all’impegno di Carlo Camerana, in cui un comitato paritetico di imprenditori privati e rappresentanti ministeriali elaborò un complesso di proposte normative che, in parte almeno, trovarono attuazione. Da allora, la strada percorsa è stata molta, ma quella ancora davanti a noi non è certo breve. Sono andato ad una funzione in Temple Street a Londra e mi è stata data una piccola busta che, in qualche modo, rinnova una tradizione antesignana del nostro 5 per mille e che risale a 500 anni fa: sulla busta sono scritte poche parole “sono una persona che paga le tasse nel Regno Unito e desidero che la chiesa reclami la tassa su ogni mia donazione”. Nella busta si possono inserire monete: la tassa reclamata sarà di 28 penny per ogni sterlina donata, cioè un trasferimento del 28% su quanto si dona alla chiesa. Forse anche in Italia il giorno in cui verificherà una situazione simile potrebbe non essere lontano. Sarebbe stata immaginabile la grande crescita degli Amici dei Musei nel nostro paese? Eppure è avvenuta. Perché non aprire ai privati veri le fondazioni che oggi gestiscono musei e teatri? Quando si elaborò, 12 anni fa, la proposta delle fondazioni di partecipazione, si immaginavano fondazioni popolari, con mi-
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gliaia di soci, privati che sentissero come proprio quel certo museo o teatro. Forse non siamo troppo lontani neppure da questo obiettivo e potrebbe essere proprio la fondazione di partecipazione a costituire l’evoluzione delle tante e molto meritevoli Associazioni degli Amici. La certificazione potrebbe favorire le fondazioni di partecipazione e fare chiarezza: le fondazioni che nascono negli anni recenti sono al 95% fondazioni di partecipazione, che, sulla base della legge vigente e risalente all’anno 2000, si iscrivono ad appositi Albi Regionali. Se venisse adottato un modello di certificazione nazionale di competenza dell’amministrazione centrale (per esempio, presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali), le fondazioni di partecipazione significative potrebbero godere dei benefici sopra descritti. E, al tempo stesso, potrebbero essere meglio conosciute e monitorate, a tutto vantaggio della chiarezza e della trasparenza. Certamente occorre riflettere di più anche in materia di turismo culturale, perché oggi esso è affidato a iniziative singole e artigianali, quando dovrebbe, invece, essere organizzato come sistema del turismo culturale, che potrebbe essere trainante per interi settori dell’economia. Ciò premesso la terminologia di erogazioni liberali appare terribilmente vecchia: meglio utilizzare mecenatismo, se con ciò si intende investimento di interesse generale in beni culturali, per significare che esso è una risorsa. Consulta nei suoi 20 anni di attività, con i restauri promossi ha creato ricchezza a Torino. Se ciò non fosse avvenuto, forse si citerebbe molto meno il sistema Torino come esemplare nella valorizzazione dei beni culturali. La prima criticità da eliminare va ricercata nella normativa fiscale e civilistica che rende difficile - ai soggetti che vogliono sostenere il patrimonio - l’individuazione delle modalità operative compatibili. Siamo in presenza di un insieme di norme complicate: una tabella sintetica, ricavata dalla Guida della Agenzia per le Entrate in materia di sconti fiscali per chi versa a favore della cultura, evidenzia che vi sono circa 30 norme diverse, contemplanti autorizzazioni, comunicazioni e altri adempimenti, a volte allucinanti. Dalla lettura della tabella nasce un senso di scoraggiamento, che è accresciuto da un confronto, ad esempio, con la Francia, che pure non ha fama di essere un Paese con una legislazione semplice. La seconda criticità, che deriva dalla precedente,
è l’incertezza sul regime fiscale. L’effetto, quasi disarmante per il potenziale investitore in cultura, è il timore - fondato - di essere oggetto di contestazione nel corso di una probabile verifica fiscale. Quando, forse a distanza di anni, la Guardia di Finanza, facendo il suo dovere, controllerà il beneficiario, si potrebbe accorgere che siamo stati da questo truffati, perché ha ottenuto dal donatore risorse per sostenere un progetto culturale mai realizzato. Avrà le sue conseguenze penali, ma al donatore verrà contestata la deduzione d’imposta, nonostante possa essere in buona fede. La verità è che il percorso per le deduzioni sul piano civilistico è ricco di presupposti, condizioni, profili sanzionatori anche gravi. Di fronte a tale situazione la parola d’ordine è, dunque, semplificare. Terza criticità: l’esigenza di semplificazione e di chiarezza non può però condurre ad un allargamento delle maglie del controllo. La scarsità di controlli è forse una delle principali ragioni della complessità delle norme. Più il legislatore è consapevole della pochezza dei controlli, più emana norme complicate, nella speranza - vana - di ridurre le scappatoie. La chiave di volta è immaginare l’investimento culturale come un investimento che sia controllato in termini di trasparenza, di certificazione delle finalità di chi riceve il contributo e di certezza dell’impiego dei fondi donati; e, infine, controllato in termini di sicurezza che nessuno contesterà al donatore imprecisioni, inesattezze o falsità nella documentazione del beneficiario cui si è elargito denaro. L’impresa o la persona fisica che dà un contributo, ha il diritto di pretendere che gli si contestino eventualmente i propri errori, non quelli degli altri, cosa che oggi gli accertatori non possono fare, in base alle norme vigenti. Si è dunque predisposta una bozza legislativa, con relativa relazione di accompagnamento, che il ministro ha approvato in via informale e che, in questa sede, viene esposta in anteprima. La norma proposta cerca di costruire la chiave di volta prima menzionata: l’affidabilità, nel senso della accountability, di chi riceve, perché il fisco si possa fidare di più, in quanto si introduce il controllo preventivo, che oggi non esiste (i controlli sono solo successivi). Controllo preventivo che non consisterà nella creazione di una ennesima authority, bensì di una Commissione di Certificazione degli Enti Culturali, composta di esperti in materia giuridica, fiscale e culturale, di
nomina del Ministro per i Beni Culturali, oltre ad un membro nominato dalla Agenzia per le Entrate. La Commissione, oltre ad elaborare ed adottare un regolamento del proprio operare, avrà il compito di analizzare la struttura, gli statuti, i bilanci e i documenti rilevanti delle associazioni legalmente riconosciute, delle fondazioni e degli altri enti culturali che facciano richiesta di certificazione. Altresì avrà il compito di formulare linee-guida e raccomandazioni. Sono sostanzialmente i compiti che da 325 anni svolge la Charity Commission in Gran Bretagna, riformata recentemente con il Charity Act del 2006. Ciò significa in primo luogo eliminare il concetto dell’art. 38 del 2000, norma - cui ho accennato all’inizio - indubbiamente agevolativa e forse unica in Europa, che risente però di una logica verticistica: l’elenco, stilato dal ministro dell’epoca, degli enti che possono essere beneficiari di donazioni assomiglia un po’ troppo alla lista degli amici del principe. Di contro, con l’attuale proposta, qualunque ente culturale deve avere il diritto di mandare le carte alla Commissione di Certificazione: la scelta sarà fatta con criteri oggettivi, cominciando ad esaminare il curriculum degli amministratori degli enti che si candidano, per conoscere quale sia la loro esperienza e competenza e quale professionalità possiedano in coerenza con gli scopi dell’ente. Saranno, quindi, esaminati gli statuti: per capire di quali controlli interni ed esterni sia dotato l’ente in questione e accertare la disponibilità dello stesso ad adottare una norma statutaria che obblighi a tenere un bilancio vero e proprio, completo di nota integrativa, redatto sul modello di quello delle società per azioni. Se le società per azioni, che corrono il rischio di impresa, sono tenute ad avere un bilancio rigoroso, controllato e certificato, perché ciò non dovrebbe avvenire anche per enti che talvolta raccolgono milioni di euro dalla buona fede dei cittadini ? Il che significa che gli enti che si candidano alla certificazione dovranno avere membri o soci iscritti al collegio dei revisori dei conti, che in proprio si assumeranno la responsabilità di attestare la veridicità dei bilanci. Quanto ai documenti rilevanti, essi dovranno essere tali da spiegare come l’ente si prefigga di raggiungere i suoi scopi e da che fonti ricavi le risorse necessarie; ciò per evitare che si candidino enti di comodo, che siano solo scatole
di evasione fiscale. Fanno notare alla Agenzia per le Entrate che su 30 mila Onlus che mancavano di controllo preventivo, quasi 20 mila siano state cancellate. Una parte di queste configurava tentativi di frode al fisco, una voragine di denaro che potrebbe essere molto meglio impiegata. La Commissione di Certificazione, una volta completata l’istruttoria, in caso di esito positivo rilascerà una certificazione di rispondenza agli indirizzi del Ministero e l’ente certificato sarà iscritto nel registro informatico: avremo così finalmente un’anagrafe degli enti culturali che oggi manca, dopo che nel 2000 si è persa l’occasione. Nel 2000, infatti, si è ricostruito, con il D.P.R. 231/2000, art. 38 il sistema di riconoscimento delle persone giuridiche private. Tuttavia, invece di ricorrere all’ottimo sistema di Unioncamere, nel quale sarebbe stato sufficiente disegnare una sezione speciale, dedicata alla persone giuridiche senza scopo di lucro (come esiste la sezione delle società agricole o delle società semplici) si è ritenuto preferibile sancire che: a) presso ogni Regione fosse dato riconoscimento alle persone giuridiche senza scopo di lucro, le cui finalità e operatività si esauriscono nell’ambito regionale; b) presso ogni Prefettura fosse dato riconoscimento a quelle che operano oltre i confini regionali. La conclusione è che se si vuole sapere quante siano le Charities in Inghilterra la risposta è immediata:192.321, perché esiste presso la Charity Commission l’archivio informatico. Mentre in Italia l’unica strada per ottenere analoga informazione sarebbe molto artigianale: mandare qualche bravo ricercatore presso 21 Regioni e 95 Province e Prefetture a sfogliare le carte, poiché non tutte le istituzioni menzionate dispongono di registri elettronici in materia di enti senza scopi lucrativi. Stante la situazione ora descritta, ne deriva che, attualmente, le informazioni che a volte vengono riportate dalla stampa sul numero complessivo di fondazioni o associazioni esistenti in Italia, sono del tutto approssimative, se non inattendibili. La certificazione rilasciata dalla costituenda Commissione avrà validità per il periodo d’imposta successivo a quello della richiesta e sarà compito della Commissione stabilire la cadenza periodica del rinnovo della certificazione stessa; un rinnovo periodico è infatti necessario per impedire che
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qualche ente si presenti, all’inizio, perfettamente in regola e, successivamente all’iscrizione, percorra rotte meno limpide. Infine, nella norma in preparazione è contemplata una ulteriore evoluzione dell’art. 38 del D.P.R. 231/2000: anche alle persone fisiche che doneranno a enti culturali certificati competerà la integrale e totale deduzione dal proprio reddito imponibile delle donazioni, esattamente come avviene per le imprese, colmando così il divario oggi esistente, per cui le aziende possono dedurre in modo significativo, i privati cittadini,invece, molto meno (19%). L’ultima tranquillità da offrire ai donatori, con l’ultimo comma della proposta di legge di cui stiamo parlando, è la seguente: la cancellazione di un ente dal registro informatico, ovvero la perdita dei requisiti di iscrizione, a seguito di controllo della Agenzia delle Entrate, non costituisce presupposto per recuperi di imposta a carico del contribuente che ha effettuato l’erogazione. Con tale norma il messaggio è chiaro: contribuenti, donate tranquilli. Dedicare particolare attenzione alla bozza di legge che si è ora cercato di illustrare, non deve far dimenticare che altre innovazioni, volute dal ministro Bondi, sono in cantiere. Innanzitutto la scelta di chiamare professionalità esterne che affianchino
i pur ottimi funzionari ministeriali. Ne è un esempio la scelta di Mario Resca. Il risanamento della Cirio e del Casinò di Campione, lo sviluppo di Mc Donald’s in Italia testimoniano la sua validità manageriale, che ora sarà finalizzata a organizzare meglio l’eccezionale patrimonio dei musei italiani, non certo a sovrapporsi ai loro attuali direttori. In secondo luogo sarà costituita una commissione per verificare l’applicabilità in Italia del “cinque per mille personalizzato” sul modello inglese. Si lavorerà con esperti di altri paesi europei, cercando anche di contribuire alla progettazione di un sistema fiscale europeo delle agevolazioni agli investimenti in beni culturali. Certamente si favorirà la stipula di convenzioni bilaterali sul modello di quelle che ha creato la Francia con 6 paesi, di cui beneficia soprattutto il Louvre, ma non solo il Louvre. L’Italia potrebbe guardare a convenzioni non solo con paesi dell’Unione europea, ma anche al Giappone, agli Usa, all’Argentina, dove sono molti gli amici dell’arte italiana o presente sul territorio italiano. Sarà quest’ultima un’opportunità di lavorare insieme al Ministero degli Esteri, dove si troverà certo magnifica collaborazione.
Conclusioni
Alessandro Laterza, Presidente della Commissione Cultura di Confindustria Nel contesto della VII Settimana della Cultura promossa da Confindustria, il seminario organizzato da Consulta a Torino è uno dei 5 eventi che abbiamo classificato come i più importanti a livello nazionale. L’esperienza di Consulta a Torino è unica in Italia e forse non riproducibile, perché nasce da una capacità di interagire con le amministrazioni locali, che temo non sia frequente nel Paese e da una relazione tra le 29 Imprese che compongono Consulta, fondata sul desiderio di agire tutti insieme, come protagonisti di un grande progetto. Quale esponente di Confindustria che non si occupa soltanto di cultura, vorrei sottolineare l’intelligenza di aver attuato una programmazione strategica finalizzata a valorizzare internazionalmente la città di Torino da un punto di vista culturale, ben sapendo che, come città industriale, Torino ha da lungo tempo conquistato ampia fama nel mondo. Consulta sta dimostrando che non si assiste e non si vuole una riconversione da città industriale a città d’arte, ma al contrario si intende testimoniare che la Torino città di cultura si affianca alla Torino città industriale: un luogo di attrazione dove si vive bene, forse meglio di alcuni anni fa. Poiché le odierne riflessioni devono essere congruenti con il carattere di esplorazione operativa tipico di un workshop, affido a questo intervento alcune proposizioni concrete. Anche alla luce delle novità che sono state annunciate dal notaio Bellezza, propongo, in primo luogo, che il presidente di Consulta - che è membro della Commissione Cultura di Confindustria si faccia porta-parola di un riassunto dei nostri problemi ed opportunità in tema di agevolazioni fiscali alla cultura. Se possibile, si tratta anche di immaginare come il nostro sistema confindustriale si possa attivare per farsi interprete di una domanda di miglioramento di schemi e procedure fiscali per la cultura, che appare fondamentale. Penso alla creazione di una rete di “Club di Imprese per la Cultura” su scala nazionale e territoriale. E’ immaginabile che le aziende, semplicemente versando un contributo addizionale a Confindustria o meglio all’Associazione territoriale, possano
beneficiare dei vantaggi fiscali della deducibilità oggi disponibili e, al tempo stesso, costruire un’azione collettiva? E’ un aspetto delicato, che richiede di trovare soluzioni organizzative che consentano di intervenire anche in quei contesti in cui Confindustria associa non grandi imprese, bensì una platea di piccole aziende. Certamente contributi anche modesti potrebbero innescare un processo positivo, anche a prescindere dai numeri e dalle economie che si possono in tal modo realizzare. La seconda proposta si ricollega a quanto illustrato dalla rappresentante del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che ha stilato un sintetico prontuario di agevolazioni vigenti e di relative procedure per accedervi. Certamente va aggiornato e noi, come Confindustria, non dobbiamo soltanto chiedere che un prontuario aggiornato venga prodotto, ma possibilmente dobbiamo partecipare a questa attualizzazione, soprattutto al fine di poter divulgare attivamente questo lavoro. Non sarebbe certo impossibile organizzare, a nostra cura, una serie di incontri e di scambio di informazioni con gli Ordini dei Commercialisti, a livello non solo nazionale, ma soprattutto territoriale. Spiegare alle imprese e ai commercialisti le opportunità esistenti è fattibile; si riuscirebbe forse anche a superare la disinformazione - che spesso viene interpretata come scarsa sensibilità - delle aziende verso la cultura e a stimolare una collaborazione concreta. In terzo luogo si tratta di riflettere sul quadro comparatistico delle agevolazioni fiscali per gli investimenti in cultura nei paesi dell’Unione europea e non solo. L’autorevolezza di Consulta e dei relatori che hanno affrontato il tema rende di grande interesse ulteriori approfondimenti. In qualche modo li certifica. Abbiamo necessità di non rimanere sul piano dei principi, ma di formulare raccomandazioni concrete. Non credo che le imprese debbano genericamente dedicare attenzione e risorse ai beni culturali: devono avere di fronte a sé un progetto. Mecenatismo, nel Rinascimento, significava partecipazione viva al mondo della creazione artistica, sulla base di una
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committenza e di un progetto. L’apporto delle imprese ha i suoi limiti. Quando Consulta ha scelto di operare per i beni culturali di Torino, lo ha fatto per ragioni ideali e per un obiettivo politico (come si sarebbe detto un tempo): ridare bellezza a chiese e palazzi di Torino; ma anche per un obiettivo economico: una città in cui si vive meglio, diventa anche più attraente e produttiva nelle attività economiche. Non si tratta quindi di beneficenza. In altre parole, l’impresa si assume un compito perché ha obiettivi di comunicazione, di miglioramento della propria presenza in un territorio, di testimonianza del suo legame con un pezzo della storia del paese, perché il suo compito fondamentale è e resterà sempre produrre ricchezza, non sponsorizzare l’arte. È del tutto evidente che in nessun modo l’universo dell’impresa privata può, ne deve, sostituire la mano pubblica. Il nostro ruolo, come imprese, è integrare, arricchire, intervenire nella dimensione della valorizzazione, perché, soprattutto in quest’ultimo caso, esiste una dimensione economica. Se lo stato ha risorse limitate per l’arte e la cultura, 118
non sono infatti le imprese a poter svolgere un compito di supplenza; esse possono, invece, avere un ruolo molto importante nella valorizzazione. Emerge dal workshop un forte incoraggiamento ad una crescente attenzione per il tema della semplificazione. In qualunque ambito dell’attività delle imprese, la semplificazione legislativa è diventata un’esigenza molto sentita. Nel momento in cui si renderà più facile e amichevole l’approccio agli sgravi fiscali per investimenti in beni culturali, diventerà più agevole invitare il sistema delle imprese ad accrescere il proprio apporto e a rendersi protagoniste soprattutto nel tema della promozione/valorizzazione dei beni culturali. Compito di Confindustria sarà diffondere l’informazione, fare divulgazione, offrire chiarezza. E’ una battaglia di orgoglio: dobbiamo essere ben fieri di esportare bellezza e anche di accoglierne. Riconoscere nel patrimonio una cifra distintiva dell’essere Italiani, generare e riprodurre bellezza e cultura ed essere riconosciuti a livello mondiale come protagonisti in tale ambito è, infatti, motivo di orgoglio, ancor più in tempi di difficoltà, da affrontare con coraggio.
Proposte di miglioramento della normativa fiscale
Lucia Starola e Claudio Saracco Studio Saracco, Torino 1. Interventi di carattere amministrativo Da parte del Ministero Beni Culturali - Ministero dell’Economia e Finanza - Agenzia delle Entrate * chiarire la normativa vigente, illustrando in modo coordinato le varie disposizioni, in particolare aggiornare la “Guida alle agevolazioni fiscali”; * semplificare l’applicazione della normativa; * migliorare la comunicazione ai potenziali benefattori. Collegamento con gli Ordini professionali dei dottori commercialisti ed esperti contabili per migliorare la conoscenza della normativa e del trattamento fiscale riservato a benefattori/beneficiari. 2. Interventi di carattere legislativo diretti ad una maggiore attrattività delle norme esistenti e ad un conseguente maggiore supporto economico per la tutela dei beni culturali. 2.1.L’accesso alle disposizioni agevolative e la deduzione delle erogazioni dal reddito imponibile dei benefattori è spesso subordinato a condizioni che sfuggono al loro controllo. La rilevanza fiscale delle erogazioni liberali è infatti subordinata ad aspetti soggettivi dei beneficiari, nonché al rispetto di specifici adempimenti da parte degli stessi, cosicché per i benefattori può risultare talvolta difficoltoso, quando non addirittura impossibile, accertare se tali condizioni siano soddisfatte e quindi, in definitiva, accertare se l’erogazione sia effettivamente deducibile dal reddito imponibile. Risultano pertanto opportuni interventi normativi atti a limitare, se non ad eliminare, la portata di tali aspetti problematici; al riguardo si può ipotizzare: * l’istituzione, a cura dell’Amministrazione finanziaria (con l’eventuale supporto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali) di un’“anagrafe dei beneficiari”; all’Amministrazione finanziaria competerebbe l’onere, sulla base di appositi controlli, di verificare l’effettiva sussistenza dei requisiti di legge per essere iscritti a detta anagrafe (si tratterebbe, di
fatto, di un meccanismo non dissimile rispetto a quello già attualmente in essere per i destinatali del cosiddetto cinque per mille); * il rilascio da parte dei beneficiari ai benefattori, su richiesta di questi ultimi, di una certificazione attestante la loro iscrizione all’anagrafe di cui sopra e la sussistenza delle altre eventuali condizioni di legge; ciò naturalmente - sotto la responsabilità del potenziale beneficiario, con conseguente irrogazione allo stesso di sanzioni a fronte di dichiarazioni non veritiere; - con effetto liberatorio per il potenziale benefattore, nel senso che, in presenza di certificazione, non potrebbe comunque essere disconosciuta la legittimità della deduzione, anche nel caso in cui il beneficiario risultasse privo dei requisiti dichiarati (salvi eventuali opportuni temperamenti di tale effetto liberatorio, che potrebbe ad esempio essere escluso nel caso di manifesta inesistenza dei requisiti etc.). 2.2.Per i beneficiari può risultare problematico adempiere alla previsione di cui all’art 100, comma 2, lett. m, riferita al versamento da parte di tutti i beneficiari del 37% delle eccedenze delle erogazioni ricevute rispetto al tetto stabilito a livello nazionale dai competenti Ministeri. Infatti, al verificarsi della fattispecie, i beneficiari debbono destinare allo Stato risorse che, al momento della comunicazione ministeriale, potrebbero già essere impegnate (quando non già materialmente spese) nell’ambito delle attività istituzionali; il tutto in funzione di una variabile completamente esogena e non prevedibile da parte degli enti beneficiari. Al riguardo si può ipotizzare un intervento normativo in base al quale l’eccedenza percentuale calcolata dallo Stato sui consuntivi dell’anno X costituisca per i soggetti beneficiari la percentuale per il calcolo dell’eccedenza nell’anno X + 1; gli enti beneficiari sarebbero così posti in condizione di conoscere in via preventiva l’eccedenza su cui conteggiare il 37% da versare allo Stato.
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3. Interventi diretti ad una maggiore equità
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3.1.La congiuntura economica negativa, rendendo più frequente il caso di un soggetto erogante con reddito imponibile negativo, può vanificare la possibilità di dedurre l’erogazione dal reddito imponibile. Potrebbe così determinarsi un generalizzato effetto disincentivante per i potenziali benefattori, stante il fatto che gli stessi, a fronte di risultati economici negativi, non trarrebbero alcun benefìcio dalla effettuazione di erogazioni a favore di iniziative nel settore artistico e culturale. È quindi auspicabile, al fine di evitare tale effetto disincentivante, un intervento normativo in base al quale, in presenza di un reddito imponibile negativo, le erogazioni liberali non dedotte per incapienza del reddito possano essere riportate ai periodi di imposta successivi (anche sull’esempio di quanto avviene in altri paesi, come la Germania). In alternativa, qualora l’Amministrazione finanziaria intendesse contenere l’impatto in termini di minor gettito erariale, sarebbe ipotizzabile il riconoscimento al soggetto erogante della facoltà di optare per la deduzione delle erogazioni in rate costanti su più esercizi, come già attualmente avviene per le spese di pubblicità; così facendo, il danno del soggetto erogante sarebbe limitato alle sole quote imputate a periodi di imposta non capienti e non all’intero importo dell’erogazione effettuata. 3.2. Nell’ottica di una maggiore equità, sarebbe altresì auspicabile, con riferimento a persone fisiche ed enti non commerciali: * per le erogazioni liberali generatrici di detrazioni d’imposta, la conversione della detrazione d’imposta in credito d’imposta, utilizzabile anche in anni successivi (pur
escludendone il diritto al rimborso); * l’aumento dal 19% al 27% della percentuale di detrazione di cui all’art. 15 lettera h del T.U.I.R., così da allineare l’agevolazione spettante ai privati con quella spettante ai soggetti Ires. 4. Interventi in materia di imposte indirette Allo stato attuale l’Imposta sul Valore Aggiunto applicabile agli interventi di restauro e conservativi sui beni di interesse storico e culturale non gode di alcuna agevolazione. È infatti applicabile l’aliquota del 20% per quadri, tappeti, arazzi, etc. e l’aliquota agevolata al 10% in caso di interventi di restauro e risanamento conservativo sugli immobili, peraltro applicabile indipendentemente dalla natura dell’immobile, vale a dire sia esso considerato un bene culturale oppure no. Nella consapevolezza che l’applicazione dell’Iva è condizionata dal rispetto delle direttive comunitarie e che le stesse non prevedono attualmente la possibilità di applicare aliquote ridotte alle fattispecie in argomento, considerato l’interesse che i beni culturali rivestono nell’ambito dell’intera Comunità Europea, si suggerisce di valutare l’opportunità di instaurare le necessarie procedure per poter estendere l’applicazione dell’Iva agevolata. In tal senso risultano esistere intendimenti a livello ministeriale fin dal 2003. 5. Interventi diretti ad attrarre erogazioni di mecenati stranieri Nella consapevolezza che il patrimonio storico, artistico e culturale italiano non ha rivali nel mondo, le erogazioni liberali di mecenati stranieri potrebbero essere stimolate riconoscendo loro, nell’ambito delle convenzioni contro le doppie imposizioni, crediti d’imposta. Iniziative di questo genere sono state realizzate negli Stati Uniti e sono previste da alcune convenzioni in Francia.
CONTRIBUTI
Gli incentivi fiscali agli investimenti in cultura
Vincenzo Busa Direttore Centrale Normativa e Contenzioso, Agenzia delle Entrate
Il tema degli incentivi fiscali riservati dal legislatore agli investimenti destinati a promuovere, valorizzare e sostenere i beni e le attività culturali appare all’attualità di rilevante interesse, anche alla luce della scarsa disponibilità di risorse pubbliche da investire in questo settore attraverso l’erogazione di sussidi e sovvenzioni. Proprio per tale motivo si vanno sviluppando sempre più e sono viste con favore dal legislatore, forme di collaborazione tra il pubblico (Stato, Regioni, Comuni) e i privati (persone fisiche, enti non commerciali, imprese che ne traggono benefici anche in termini di immagine), volte a promuovere e a sostenere finanziariamente le attività culturali e, in particolare, il settore della tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali. Per sostenere questa crescente sinergia tra pubblico e privato, il legislatore fiscale italiano ha previsto una serie di disposizioni che agevolano, da un lato, gli investimenti da parte di coloro che direttamente operano nel campo dei beni e delle attività culturali, dall’altro, le erogazioni effettuate da terzi (persone fisiche o imprese) a favore delle iniziative ed attività di tipo culturale. L’argomento si presenta di non facile trattazione in quanto le disposizioni che disciplinano la materia sono numerose, piuttosto complesse e spesso di non facile interpretazione. Le disposizioni che fanno riferimento alla cultura, infatti, rinviano genericamente a tale nozione senza fornire ulteriori specificazioni ed appare, quindi, difficoltoso operare una delimitazione ai fini dell’individuazione delle attività meritevoli di essere ammesse ai benefici. Un’ulteriore problematica è rappresentata dalla individuazione puntuale dei soggetti ammessi ai benefici, posto che le norme in materia non sempre forniscono una definizione rigorosa degli enti titolati a ricevere le erogazioni di imprese e privati. Occorrerebbe, infatti, definire in via normativa le caratteristiche ed i requisiti degli enti che possono essere destinatari delle sovvenzioni al fine di verificarne la trasparenza nonché la meritevolezza degli scopi perseguiti, anche attraverso specifici controlli di audit interno e di valutazione esterna al
fine di verificare l’affidabilità di tali soggetti, che, nella sostanza, vengono a svolgere una funzione sociale in quanto supplenti dell’intervento pubblico. Anche se tali misure potrebbero apparire rigide e regolamentare il settore in modo eccessivamente stringente, in realtà sarebbero funzionali a renderlo maggiormente trasparente. Tale circostanza, infatti, non potrebbe che risolversi a favore degli enti che vi operano, incentivando le erogazioni da parte dei donatori (in questo modo maggiormente garantiti) nonché il favore della società civile. Un ulteriore campo di intervento del legislatore potrebbe essere quello volto a regolamentare più puntualmente fattispecie di recente acquisizione nel nostro ordinamento e già da anni in uso all’estero, quali quelli della sponsorizzazione c.d. sociale o culturale e del Cause Related Marketing. Quest’ultimo, in particolare, nasce da una partnership tra azienda e organizzazione no profit ed ha come scopo di promuovere un’immagine, un prodotto o un servizio abbinandolo ad una iniziativa di solidarietà sociale o ad un progetto di interesse collettivo, traendone vantaggio reciproco. Non si tratta qui di una erogazione liberale, ma di una vera e propria promozione del marchio aziendale. Per affrontare la materia in esame, che, come detto, appare di notevole complessità, appare utile suddividere la trattazione distinguendo tra agevolazioni riconosciute in capo a coloro che direttamente operano nel settore dei beni e delle attività culturali e agevolazioni destinate ai soggetti che sovvenzionano (con erogazioni, donazioni, etc…) coloro che svolgono le predette attività. 1. Benefici per coloro che operano “direttamente” nel settore dei beni e delle attività culturali 1.1. Attività culturali Ai sensi dell’articolo 148 del TUIR,Testo Unico delle Imposte sui Redditi, gli enti non commerciali di tipo associativo sono destinatari - in presenza delle condizioni espressamente indicate a tal fine dalla norma - di uno speciale regime tributario di favore relativamente alle attività rese all’interno della vita associativa. Per tali enti, infatti, è decom-
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mercializzata l’attività svolta nei confronti degli associati e partecipanti ove conforme alle finalità istituzionali; le quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo. Le associazioni che svolgono attività culturale possono altresì avvalersi dell’ulteriore agevolazione prevista dal comma 3 dell’art. 148, ovvero la decommercializzazione delle attività effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti e degli altri soggetti indicati dalla norma, ove svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, nonché delle cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati. I presupposti per la fruizione del predetto regime sono stati compiutamente illustrati dalla circolare n. 124 del 1998. Un trattamento del tutto analogo è previsto dall’articolo 4, comma 4, del DPR n. 633 del 1972 ai fini IVA. I soggetti attivi nel settore della promozione della cultura e dell’arte possono assumere altresì - sussistendone tutti i requisiti richiesti dalla legge - la qualifica di Onlus ai sensi del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460 e fruire del relativo regime; tale settore, infatti, risulta incluso al n. 9) - tra i settori di attività nei quali le Onlus devono operare. 1.2. Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale Nell’ambito dell’argomento in trattazione, un particolare rilievo è assunto dalle norme in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, il quale - ai sensi dell’articolo 2 del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. Il Codice detta la nozione di bene culturale e le specifiche disposizioni per la tutela degli stessi beni, nonché, tra l’altro, disposizioni in materia di verifica dell’interesse culturale, di procedimento per la dichiarazione dell’interesse medesimo in relazione ai singoli beni, di obblighi conservativi e dei relativi oneri. Si definiscono beni culturali, in particolare, le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11 del Codice, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge
o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. Sono previste le seguenti agevolazioni fiscali: Imposte sui redditi (IRPEF/IRES): le persone fisiche (ai sensi dell’art. 15, comma 1, lettera g), del TUIR) e gli enti non commerciali (ai sensi dell’art. 147 del TUIR, che rinvia espressamente all’art. 15) possono detrarre dall’imposta lorda il 19% delle spese complessive sostenute per la manutenzione, la protezione ed il restauro dei beni culturali e paesaggistici, nella misura rimasta effettivamente a carico, nonché delle spese obbligatorie per disposizione di legge o amministrativa e delle spese sostenute per interventi su iniziativa. Il diritto alla detrazione spetta ai “soggetti obbligati alla manutenzione, protezione o restauro” dei beni culturali, i quali ai sensi dell’articolo 30, comma 3, del decreto legislativo n. 42 del 2004, sono “i privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali”. Si precisa, inoltre, che la richiamata disposizione di cui alla lettera g) espressamente prevede che la necessità delle spese debba risultare da apposita certificazione della soprintendenza, previo accertamento della loro congruità; le imprese (ai sensi dell’art. 100, comma 2, lettera e), del TUIR), ove qualificabili come soggetti obbligati alla manutenzione, protezione e restauro dei beni culturali, possono fruire della deduzione integrale – nel periodo d’imposta in cui sono state sostenute (quindi secondo il principio di cassa) – delle relative spese, nella misura rimasta effettivamente a carico. Si tratta, in particolare, delle spese sostenute per la manutenzione, protezione e restauro degli immobili non strumentali, nonché delle spese obbligatorie per disposizione di legge o amministrativa e delle spese sostenute per interventi su iniziativa. Anche in questo caso, la necessità delle spese, quando non siano obbligatorie per legge, deve risultare da apposita certificazione rilasciata dalla competente soprintendenza previo accertamento della loro congruità effettuato d’intesa con il competente ufficio del territorio del Ministero delle finanze. Per i beni strumentali le spese sono deducibili secondo le ordinarie regole di determinazione del reddito d’impresa. Ex art. 5-bis del DPR 29 settembre 1973, n. 601, non concorrono alla formazione del reddito ai fini dell’IRPEF e dell’IRES i beni immobili adibiti a
musei, biblioteche, archivi, cineteche, emeroteche, aperte al pubblico, utilizzati senza ricavarne reddito. Imposte sui trasferimenti: relativamente ai trasferimenti aventi ad oggetto immobili storici trova applicazione l’aliquota agevolata del 3%, a condizione che vi sia la dichiarazione in atto degli estremi del vincolo. L’agevolazione decade se non viene documentata entro un biennio l’avvenuta sottoposizione al vincolo; se il bene viene alienato senza ottemperare agli obblighi di conservazione e protezione; se vi è un mutamento di destinazione non autorizzato; se vi è inosservanza degli obblighi a tutela del diritto di prelazione dello Stato. Non sono previste agevolazioni relativamente alle imposte ipotecaria e catastale. Imposta Comunale sugli Immobili: È prevista la determinazione agevolata della base imponibile. I soggetti attivi nel settore della tutela, promozione e valorizzazione delle cose d’interesse artistico e storico possono assumere altresì - sussistendo tutti i requisiti richiesti dalla legge - la qualifica di Onlus, ai sensi del decreto legislativo n. 460 del 1997 e fruire del relativo regime; tale settore, infatti, risulta incluso – al n. 7) – tra i settori di attività nei quali le Onlus devono operare. 2. Benefici per coloro che sovvenzionano il settore dei beni e delle attività culturali 2.1. Attività culturali Le persone fisiche (ai sensi dell’art. 15, comma 1, lettera i), del TUIR) e gli enti non commerciali (ai sensi dell’art. 147 del TUIR, che rinvia espressamente all’art. 15) possono detrarre dall’imposta lorda il 19% delle erogazioni liberali in denaro, per importo non superiore al 2 per cento del reddito complessivo dichiarato, a favore di enti o istituzioni pubbliche, fondazioni e associazioni legalmente riconosciute che, senza scopo di lucro, svolgono esclusivamente attività nello spettacolo, effettuate per la realizzazione di nuove strutture, per il restauro ed il potenziamento delle strutture esistenti, nonché per la produzione nei vari settori dello spettacolo. Ai sensi della successiva lettera i-bis) del medesimo articolo, le persone fisiche possono altresì detrarre il 19% delle erogazioni liberali in denaro, per un importo non superiore a 2.065,83 euro, a favore delle Onlus (e quindi anche di quelle che operano nel settore in esame).
L’articolo 38 della legge 21 novembre 2000, n. 342 e il successivo decreto del Ministro per i Beni e le Attività Culturali dell’11 aprile 2001, hanno previsto incentivi fiscali in favore delle imprese che devolvono somme tese a realizzare iniziative d’interesse culturale. In particolare, le imprese possono operare - ai sensi dell’art. 100, comma 2, lettera m) del TUIR - la deduzione dal reddito delle erogazioni liberali in denaro effettuate a favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e di associazioni legalmente riconosciute, per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali e per la realizzazione di programmi culturali nei settori dei beni culturali e dello spettacolo. Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali individua con proprio decreto periodicamente i soggetti e le categorie di soggetti che possono beneficiare delle predette erogazioni liberali e determina, a valere sulla somma allo scopo indicata, le quote assegnate a ciascun ente o soggetto beneficiario. Le modalità applicative della predetta disciplina sono state esplicitate con Circolare congiunta dell’Agenzia delle Entrate (n. 107/E) e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (n. 141/01) del 31 dicembre 2001. Ai sensi della lettera g) del medesimo articolo, le imprese possono dedurre le erogazioni liberali in denaro, per un importo non superiore al 2% del reddito d’impresa dichiarato, a favore di enti o istituzioni pubbliche, fondazioni e associazioni legalmente riconosciute che senza scopo di lucro svolgono esclusivamente attività nello spettacolo, effettuate per la realizzazione di nuove strutture, per il restauro e il potenziamento delle strutture esistenti, nonché per la produzione nei vari settori dello spettacolo. Ai sensi della lettera h) del medesimo articolo, anche le imprese possono altresì dedurre le erogazioni liberali in denaro, per un importo non superiore a 2.065,83 euro, effettuate a favore delle Onlus (e quindi anche di quelle che operano nel settore in esame). 2.2. Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale ● Le persone fisiche (ai sensi dell’art. 15, comma 1, lettera h), del TUIR) e gli enti non commerciali (ai sensi dell’art. 147 del TUIR, che rinvia espressamente all’art. 15) possono detrarre dall’imposta lorda il 19% delle erogazioni liberali
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in denaro a favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di comitati organizzatori appositamente istituiti con decreto del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro, che svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico o che organizzano e realizzano attività culturali, effettuate in base ad apposita convenzione, per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro delle cose indicate nell’articolo 1 della legge 1 giugno 1939, n. 1089. Sono incluse le erogazioni effettuate per l’organizzazione in Italia e all’estero di mostre e di esposizioni di rilevante interesse scientificoculturale delle cose anzidette, e per gli studi e le ricerche eventualmente a tal fine necessari, nonché per ogni altra manifestazione di rilevante interesse scientifico-culturale anche ai fini didattico-promozionali, ivi compresi gli studi, le ricerche, la documentazione e la catalogazione, e le pubblicazioni relative ai beni culturali. Ai sensi della successiva lettera h-bis), le imprese possono detrarre il 19% del costo specifico o, in mancanza, del valore normale dei beni ceduti gratuitamente, in base ad apposita convenzione, ai soggetti e per le attività di cui alla sopra richiamata lettera h); Le imprese (ai sensi dell’art. 100, comma 2, lettera f) del TUIR) possono operare la deduzione dal reddito delle erogazioni liberali in denaro effettuate a favore di fondazioni e di associazioni legalmente riconosciute che senza scopo di lucro svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico, effettuate per l’acquisto, la manutenzione, la protezione ed il restauro delle cose indicate nell’art. 2 del D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 e nel D.P.R. 30 settembre 1963, n. 1409. 3. Articolo 14 del decreto legge n. 35 del 14 marzo 2005 L’articolo 14, comma 1, del decreto-legge 14
marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 ha introdotto una disposizione di rilevante importanza per il terzo settore, in quanto ha elevato notevolmente, rispetto a quanto previsto dal TUIR, il limite di deducibilità delle erogazioni liberali effettuate in favore di tali soggetti. In base alla predetta norma è possibile dedurre dal reddito complessivo del soggetto erogante (persona fisica o ente soggetto passivo IRES) le liberalità in denaro o in natura fino al limite del 10% del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui, effettuate, fra l’altro, in favore di Onlus nonché di fondazioni e associazioni riconosciute aventi per oggetto statutario la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004. I presupposti di carattere soggettivo e oggettivo per fruire dell’agevolazione in esame sono stati compiutamente illustrati dalla circolare n. 39 del 19 agosto 2005. 4. Sponsorizzazione e Cause Related Marketing In relazione alle sponsorizzazioni, l’Amministrazione finanziaria ha da tempo chiarito che le relative spese sono assimilabili a quelle di pubblicità (Ris. n. 204 del 17 giugno 1992) e quindi integralmente deducibili dal reddito, secondo le ordinarie regole. In relazione, invece, al fenomeno del Cause Related Marketing l’Amministrazione finanziaria ha chiarito (Ris. n. 137 dell’8 settembre 2000) che si tratta di una nuova tecnica pubblicitaria che consiste nella valorizzazione di un marchio o nel lanciare un prodotto destinando ricavi, ad esempio, al restauro di un’opera d’arte, al finanziamento di una struttura pubblica, ad iniziative di solidarietà sociale. Con la risoluzione 356 del 14 novembre 2002 è stato chiarito che le somme versate non sono assimilabili alle spese di sponsorizzazione, ma si tratta di vere e proprie spese inerenti e come tali integralmente deducibili.
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Presidente Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
La Fondazione da anni promuove il dialogo tra il mondo dell’impresa e il mondo della cultura, organizzando dibattiti con esponenti dei diversi settori: imprenditori, ministri e presidenti di associazioni di categoria. Nei diversi incontri, così come nel dibattito organizzato dalla Consulta di Torino il 18 novembre 2008, si è ulteriormente evidenziata la necessità di dotare l’Italia di una legislazione più favorevole dell’attuale per i privati che intendono sostenere, anche finanziariamente, le attività culturali. In un momento di crisi appare come un’importante prospettiva per poter continuare a far cultura nel nostro Paese. Il caso di Torino è emblematico: il Comune ha drasticamente ridotto la spesa e gli investimenti per la cultura, la Provincia e la Regione Piemonte sono in una situazione non molto dissimile. Le Fondazioni di origine bancaria che per anni hanno sostenuto le attività culturali, stanno anch’esse riducendo le loro erogazioni. Sul fronte delle sponsorizzazioni culturali il panorama non sembra migliore: le imprese sono sempre meno interessate a investire in cultura. In tale situazione se da una parte occorre che le istituzioni culturali facciano uno sforzo maggiore nel dare servizi alle imprese, progettando in collaborazione con loro anche le forme migliori per veicolare la loro immagine, dall’altra parte occorre una legislazione più semplice e favorevole dal punto di vista fiscale per dare nuovo slancio alle sponsorizzazioni ed al micro-mecenatismo privato. In particolare, in riferimento al dibattito in corso su fiscalità dei beni culturali e privati, è necessario semplificare le attuali leggi in merito alle erogazioni liberali a favore di enti culturali, rendendo più agevole per il contribuente la dichiarazione delle donazioni effettuate e di conseguenza i benefici ai quali si accede. Inoltre, le leggi attuali prevedono benefici fiscali diversi se a donare è un’impresa o una persona fisica, creando un’ incomprensibile disparità di trattamento. L’attuale meccanismo è così ambiguo da creare difficoltà alla stessa Agenzia delle Entrate ed è certo disorientante per un potenziale donatore.
E’ fondamentale chiarire quali soggetti possano ricevere donazioni; a questo proposito ritengo molto significativa la proposta del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali di creare una Anagrafe delle istituzioni ammesse a ricevere contributi o liberalità chiaramente detraibili per chi le eroga. La certificazione delle istituzioni ammesse a ricevere contributi dovrebbe dipendere dalla capacità di offrire precise garanzie di trasparenza sulle finalità statutarie, sugli organi di governance e organizzazione interna, sull’ attività svolta e ovviamente nella rendicontazione, anche attraverso il bilancio sociale certificato da primaria società. Sempre in tema di Anagrafe delle istituzioni ammesse a ricevere contributi auspico che si preveda anche una valutazione periodica dell’attività svolta da ogni ente ammesso, per evitare che ad una iniziale coerenza seguano programmi non adeguati. Auspico inoltre che tra le opere rientranti nella definizione di beni culturali rientrino anche quelle degli artisti contemporanei viventi, senza le numerose e difficili da interpretare attuali limitazioni. Per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto auspico che il nostro paese si allinei alle aliquote più favorevoli dei paesi europei. L’Iva al 20%, sulle opere d’arte acquistate dai musei italiani rende onerosa qualsiasi acquisizione, creando quindi una riduzione del nostro patrimonio culturale futuro (negli stati dell’Unione europea l’aliquota è ovunque minore, oscilla tra il 7 e il 10% ). Ritengo che le imprese non possano sostituire il ruolo dello stato e degli enti territoriali nella tutela e valorizzazione dei beni culturali, ma una maggiore collaborazione tra imprese e cultura, incentivata da una adeguata politica fiscale, potrebbe creare scenari nuovi e permettere al nostro paese sia di preservare il proprio patrimonio, sia di sostenere la giovane creatività.
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I SOCI CONSULTA 2009 ALLEANZA TORO ASSICURAZIONI ARMANDO TESTA BURGO GROUP BUZZI UNICEM CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI TORINO COMPAGNIA DI SAN PAOLO DELOITTE & TOUCHE ERSEL EXOR FERRERO FIAT FONDAZIONE CRT FONDIARIA-SAI GAROSCI G. CANALE & C. GRUPPO FERRERO-PRESIDER INTESA SANPAOLO ITALDESIGN - GIUGIARO ITALGAS LAVAZZA MARCO ANTONETTO FARMACEUTICI MARTINI & ROSSI M. MARSIAI & C. PIRELLI REALE MUTUA ASSICURAZIONI SKF TELECOM ITALIA UNIONE INDUSTRIALE DI TORINO VITTORIA ASSICURAZIONI
La sponsorizzazione dei Beni Culturali nuovo media per le imprese? Opportunità ed Esperienze. Saluto del Presidente di Consulta Lodovico Passerin d’Entrèves Saluto del Vice Presidente dell’Unione Industriale di Torino Rinaldo Ocleppo
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Intervento introduttivo Angelo Crespi Ministero Beni e Attività Culturali
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Opportunità giuridiche II contratto di sponsorizzazione. Controparti pubbliche e controparti private Riccardo Rossotto Studio Legale Rossotto & Partners, Torino
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Opportunità fiscale Claudio Saracco e Lucia Starola Dottori Commercialisti in Torino
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Opportunità di comunicazione Giovanna Maggioni Direttore Generale UPA Anna Martina Direttore Comunicazione e Promozione della Città di Torino Eugenio Bona Presidente e Amministratore Delegato Media Italia, Gruppo Armando Testa
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Esperienze Elena Vassilika Direttrice Museo Egizio di Torino Marco Magnifico Direttore Generale Culturale FAI
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II punto di vista delle imprese Alberto Mingardi Istituto Bruno Leoni Carlo Fornaro Direttore Relazioni Esterne e Istituzionali Telecom Italia Lucia Nardi Responsabile Progetti Culturali Eni Vittorio Meloni Direttore Centrale Relazioni Esterne Intesa Sanpaolo
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Conclusioni Alessandro Laterza Presidente della Commissione Cultura di Confindustria
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Lodovico Passerin d’Entrèves Presidente Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali di Torino
Un ringraziamento da parte delle aziende e degli enti soci di Consulta all’Unione Industriale che ci ospita ed un saluto a tutti i presenti, in particolare ai relatori e ad Angelo Crespi, consigliere del ministro Bondi. Il vice segretario della Banca Mondiale Katherine Sierra ha lanciato il 4 ottobre scorso un fondo aperto multidonatori destinato a progetti di valorizzazione del patrimonio culturale. Se è lecito paragonare le cose grandi alle cose piccole, si tratta di una Consulta a livello degli stati per sostenere progetti di recupero e restauro di beni che costituiscono patrimonio della cultura non solo di un singolo paese, ma dell’umanità. Consulta, come sapete, è nata oltre 20 anni fa. Ogni anno aziende ed enti destinano una somma per migliorare il patrimonio artistico di Torino. Alle attività di restauro e conservazione che negli anni ottanta hanno consentito interventi importanti sul patrimonio della città in stato di grave degrado, oggi si sono aggiunte la valorizzazione e la fruizione dei beni. Parallelamente, a fronte della contrazione dei fondi disponibili a livello pubblico e privato, si è dedicata attenzione ai fini di mantenere un flusso di risorse dalle imprese ai beni culturali, nella convinzione profonda che questo sia in primo luogo di interesse dell’impresa e del territorio nel quale opera. Così tre anni fa abbiamo avviato, in collaborazione con la Commissione Cultura di Confindustria, un percorso pluriennale di riflessione, iniziando dal finanziamento privato dei beni culturali, proseguendo con una analisi propositiva sugli aspetti fiscali e oggi dal mecenatismo ad un nuovo media classico, la sponsorizzazione del bene culturale. Il mecenatismo di un’impresa, meglio di un imprenditore e del suo vertice, è stato e credo continuerà ad essere importante (anche se il direttore del Museo d’Orsay ritiene che “il mecenatismo sia ridotto a zero”), ma i percorsi innovativi che il mondo dei musei e degli organi di tutela stanno avviando sono di grande interesse e richiedono
alle imprese di ripensare l’allocazione di parte - sia pur piccola - delle risorse oggi destinate ai media classici, domani al nuovo media sponsorizzazione culturale che presenta opportunità inedite e ritorni di sicuro interesse. Vorrei citare alcuni titoli di giornale che mi hanno fatto riflettere: Miracolo a Torino: un museo trasformato in una mostra. Anzi quattro. Anzi sette. Scoprire le opere d’arte con l’occhio virtuale. Cellulari offrono la “realtà aumentata” Manet e Van Gogh in tournée (lo stesso per il Museo Picasso) Big Mac per la Gioconda Nuovo negozio della Apple al Louvre Questi titoli suggestivi rappresentano un lavoro intenso che si sta svolgendo sotto i nostri occhi all’interno dei musei dove si supera il concetto di collezione permanente e mostra temporanea, dove si espone più per temi che per cronologia, dove si tende ad ampliare i servizi e a coinvolgere nuovi pubblici diversificando l’offerta sia dal punto di vista classico del marketing, sia delle location, sia dal punto di vista geografico. Un museo o un polo museale perseguono una missione che non può essere definita solo in astratto, ma riflette, a mio avviso, un radicamento sul territorio, sia geografico sia intellettuale. Questo sforzo non può non intercettare e interagire con le forze più vive e più creative del territorio. In questo certamente molte imprese saranno degli interlocutori naturali, in grado di saldare in modo innovativo passato, presente e futuro. Merita riflessione osservare che i ritorni dell’attività culturale non sono solo economici (il concetto di redditività del museo va sottoposto ad attenta analisi; in concreto non si può solo parlare di capacità di attrarre visitatori e vendere cataloghi), ma risiedono anche nell’economia progettuale, ossia dal prestigio crescente del progetto culturale espresso dalla leadership del museo che, al di là
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delle singole iniziative, è in grado di aumentare il peso dell’istituzione e quindi la capacità di interagire con il proprio territorio e di attrarre nuove risorse. Per altro verso, applicazioni del digitale alla cultura, guide tecnologiche, recupero e valorizzazione di beni culturali grazie all’informatica, alla multimedialità (ricordo ArtTube.nl progetto online di distribuzione di contenuti multimediali finanziato, prodotto e gestito dal Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam) e alla robotica, consentire ai visitatori di analizzare un dipinto guardando anche i segni segreti che l’artista ha nascosto, sistemi virtuali di restauro, sistemi computerizzati in grado di seguire il visitatore nei luoghi d’arte e interagire con lui… la tecnologia sta rivoluzionando il mondo dell’arte. Se a questo si aggiunge che in una recente ricerca promossa dall’UPA si è rilevato il cambiamento di aspettative del pubblico sul ruolo della pubblicità che deve essere in grado di promuovere stili di vita e di consumo più responsabili: l’azienda “deve trasferire valori importanti” … siamo veramente di fronte a una svolta. Nuova vitalità dei musei, progetti culturali forti, opportunità e interazioni con imprese innovative, rivoluzione tecnologica nel mondo dell’arte, contenuti valoriali nel mondo della pubblicità: questa evoluzione richiede un cambiamento profondo alle imprese, ai centri media e alle agenzie di pubblicità e il coraggio e la creatività per cogliere le occasioni che i beni culturali offrono per parlare in modo diverso, originale, esclusivo con i propri clienti. Due esempi Consulta. Polo Reale di Torino. Consulta ha avviato con la Direzione Regionale dei Beni Culturali del Piemonte un progetto con l’obiettivo di evidenziare costi e ricavi, lavorare in ottica cliente e individuare opportunità di sponsorizzazioni nel senso che ho cercato di descrivere, migliorando le logiche di autofinanziamento del Polo.
Piazzale Valdo Fusi. A seguito dell’iniziativa e della volontà di tanti cittadini riuniti nel Comitato Valdo Fusi, Consulta sta finanziando un progetto culturale di recupero di una delle aree più discusse del centro di Torino. Parallelamente, nuove forme di autonomia e di gestione per i musei devono consolidarsi, in quanto non è più immaginabile che il ricavato dei biglietti e gli affitti degli spazi a terzi dei musei italiani siano girati al Ministero dell’Economia e delle Finanze e il personale venga pagato direttamente dalle Finanze, mentre la gestione del museo viene finanziata con fondi governativi distribuiti al Ministero dei Beni Culturali. Non trascurabile è il coinvolgimento di business diretto per alcune imprese e le occasioni di occupazione particolarmente per i giovani. Vorrei concludere. Mario Cuomo, inaugurando un museo nel luogo nel quale approdavano gli emigranti negli USA disse “qui nel 1946 è arrivata mia madre. Alla domanda del funzionario – Quanti dollari ha signora? – Un dollaro e 25 centesimi – e con un dollaro e 25 centesimi vuole entrare negli USA, perché? – Mia madre rispose – Perché c’è mio marito che fa il manovale” Cuomo afferma di non aver mai perdonato sua madre perché avrebbe dovuto rispondere “Perché mio figlio diventerà il Governatore di New York”. Quando un sistema premia il coraggio, il merito e la capacità di lavoro significa che i valori fondanti sono gli stessi dell’impresa. Cultura in generale e cultura d’impresa si compenetrano e, naturalmente, questo si estende all’arte, ai cittadini e alla conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico che costituisce l’identità di quel territorio. Ciò avviene indipendentemente dalla congiuntura economica ed ha ricadute eccezionalmente favorevoli per l’area interessata, per le persone e per le imprese. Non dimentichiamo che il Museum of Modern Art di New York fu fondato nel 1929!
Rinaldo Ocleppo Vice Presidente Unione Industriale di Torino
Sono molto lieto di introdurre questa giornata di lavori sul tema delle sponsorizzazioni, promossa dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, porgendo a tutti voi il saluto ed il benvenuto dell’Unione Industriale. Ringrazio il Presidente della Consulta, Lodovico Passerin d’Entrèves e i numerosi studiosi ed esperti che prenderanno oggi la parola. Un saluto particolare va al Presidente della Commissione Cultura di Confindustria, Alessandro Laterza. Questa iniziativa si inscrive, infatti, nella VIII settimana della Cultura d’Impresa di Confindustria, ed intende proporre una riflessione sulle opportunità offerte dalla legislazione italiana in materia di investimenti in beni culturali, nonché sulle positive ricadute, in termini d’immagine, per il mondo delle imprese. È questo un ambito che vanta numerose testimonianze di successo, anche sul nostro territorio. Si tratta, al momento, di interventi significativi, che tuttavia consentirebbero ulteriori importanti margini di crescita, qualora il sistema - soprattutto nei suoi risvolti giuridico-fiscali - risultasse più premiante, un sistema, cioè in grado di valorizzare appieno le capacità, e le risorse, delle imprese interessate ad investire in cultura, sostenendo il proprio territorio. Torino presenta un importante esempio di questa sensibilità, declinata in modo concreto, ed eccellente, attraverso la nostra Consulta. La Consulta, è noto, ha una lunga storia di interventi di recupero e di restauri di opere d’arte e di edifici storici, nella nostra città, monumenti che, diversamente, non avrebbero ritrovato la forma e lo splendore originario e nemmeno la possibilità di essere fruibili dagli appassionati ed dai cittadini, preziosi tesori della storia sabauda, e nazionale, quali la Reggia di Venaria, il Teatro Carignano, la Villa della Regina e Palazzo Reale, per citarne solo alcuni, tra i più significativi. Quella della Consulta è un’esperienza unica in Italia: un gruppo di aziende, di mecenati, che si impegnano economicamente per realizzare interventi di recupero e restauro di beni artistici e culturali nel nostro territorio. Un modello vincente - credo di poterlo dire con orgoglio - nonchè un esempio, al quale hanno infatti
attinto, in questi anni, altre analoghe iniziative. La Consulta si appresta a continuare su questa strada, anche in futuro, confermando il suo impegno sia sul fronte cittadino - con la riqualificazione di Piazzale Valdo Fusi, ed una curiosa esposizione della storica Produzione Lenci, in programma a Palazzo Madama - sia sul recupero delle residenze sabaude, con gli interventi attualmente in corso a Stupinigi, sui medaglioni della Genealogia Sabauda ed alla Galleria Sabauda e con una mostra sui dipinti fiamminghi. Torino, malgrado le ristrettezze finanziarie, ha scommesso sulla cultura e sui diversi aspetti che essa racchiude. Una sfida vincente, che ha permesso di valorizzare la città agli occhi dei turisti e anche dei suoi stessi cittadini, che l’hanno riscoperta ed hanno imparato - finalmente - a viverla. Come imprenditore del mondo dei servizi e dell’Information Communication Technology conosco bene il valore, e l’importanza, di tutto ciò che è intangibile. Esso, oggi, rappresenta un asset strategico sul quale puntare, una vera priorità. Investire in progetti di promozione, affiancando il proprio brand ad iniziative di vasto respiro - quali quelle avviate sul nostro territorio - comporta significativi ritorni d’immagine per le aziende, poiché, oggi più che mai, è importante, accanto al saper fare, il saper comunicare. E se si aggiungono le opportunità offerte dalla legislazione soprattutto fiscale - che saranno oggetto d’approfondimento nel corso dell’odierna giornata di studi - ebbene, credo l’interesse da parte delle aziende ad intervenire in sponsorizzazioni culturali, possa trovare ulteriori motivi, anche di convenienza economica. Oggi raccoglieremo, fra l’altro, le testimonianze di alcuni responsabili di importanti musei: un altro modo per fare della cultura un’attività imprenditoriale di successo. L’Unione Industriale continuerà ad affiancare alla sua mission più tradizionale l’impegno in ambito culturale, perché questa è senza dubbio una delle direttrici dello sviluppo delle moderne realtà metropolitane. E noi crediamo che Torino debba e possa essere - a pieno titolo - una bella città, moderna ed accogliente.
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Angelo Crespi Ministero per i Beni e le Attività Culturali Suggerisco di invitare il ministro Tremonti l’anno prossimo, perché il vero problema da dibattere in materia di defiscalizzazione è come convincere Tremonti dell’utilità delle defiscalizzazioni stesse e della reale possibilità per un museo o per un’istituzione culturale di utilizzare i propri introiti per se stesso. Questo sarebbe un modo per incentivare una schiera di direttori, penso soprattutto ai nostri musei più importanti, studiosi di eccezionale professionalità, riconosciuta in tutto il mondo, che tuttavia spesso non dispongono dei mezzi necessari e si può dire, perdono il loro ‘entusiasmo professionale’. Il meccanismo è noto: un museo organizza una mostra temporanea importante, di successo e poi si trova nella condizione di non poter disporre del ricavato di quella mostra! Vi porto i saluti del ministro e non sostituirò Mario Resca, perché non mi permetto di entrare in questioni tecniche, nonostante abbia seguito il percorso sin dall’inizio, sia del nostro nuovo direttore per la valorizzazione, sia del ministro Bondi. Dopo un anno di lavoro del nostro ufficio legislativo, è stata portata a compimento questa riforma che noi crediamo non solo importante, ma essenziale per modificare il rapporto tra l’Italia e il proprio patrimonio culturale. Questa nostra riforma si è sublimata nella creazione di una nuova direzione trasversale, la Direzione per la Valorizzazione dei Beni Culturali delle Biblioteche e del Patrimonio archeologico, che opererà in stretta commistione con la Direzione delle Belle Arti a cui è predisposta la tutela del nostro patrimonio, la Direzione per l’Archeologia e le altre direzioni. Alla base del lavoro del dottor Resca è l’intento di modificare il rapporto tra pubblico e privato. In questo momento la sua attività più importante è quella di definire i bandi di gara per i servizi aggiuntivi. Per la prima volta abbiamo affidato a due società, soprattutto a Boston Consulting, un benchmark con tutti i musei più importanti del mondo, da cui trarre le pratiche migliori da importare in Italia, circa la possibilità del privato di intervenire su un bene pubblico. Al momento non sono in grado di anticipare nulla, ma questi studi sono già stati portati all’attenzione del
nostro direttore e forniranno le indicazioni di base per disegnare le future gare per i servizi aggiuntivi. Più in generale ci terrei a sottolineare l’idea guida del nostro ministero e cioè che nei beni culturali risiede, prima ancora che un prezioso giacimento a volte sconosciuto, anche una leva economica importante per il nostro paese. Risiede nei beni culturali la nostra identità di nazione. Festeggeremo nel 2011, partendo soprattutto da Torino, i 150 anni dell’Unità d’Italia e come sapete anche dai dibattiti che si susseguono sui giornali e tra gli storici, uno dei nodi centrali della storia, della storiografia e anche della politica italiana è l’identità del nostro paese. Sono profondamente convinto che una parte dell’identità nazionale che noi riconosciamo, sia contenuta nei beni culturali e nella lingua innanzitutto. Lo diceva benissimo Elias Canetti: “La nostra patria è una lingua”, per cui tutti noi quando siamo all’estero ci ritroviamo in una nostra patria quando sentiamo qualcuno parlare come noi, la grande lingua della nostra tradizione culturale da Dante in poi. Il secondo motivo di orgoglio nazionale è quello del nostro immenso patrimonio culturale. Ci terrei a sottolineare anche l’importanza di due parole chiave: patrimonio e bene, un’eredità che ci viene in via diretta dai nostri padri e che noi dobbiamo considerare effettivamente un bene, quindi non un onere. Gran parte della nostra identità e del nostro orgoglio di essere italiani risiede proprio nella grande stagione che ci sta alle spalle e che riconosce l’Italia come la culla della civiltà. Sono persuaso che, al di là della possibilità per un’azienda di avere un ritorno economico, o di immagine, o di comunicazione dal proprio rapporto con i beni culturali, ci sia una sorta di responsabilità sociale dell’impresa stessa nel riconoscere nei beni culturali il luogo dove risiede l’identità di noi italiani. Quindi io credo che tutte le aziende debbano fare propria la responsabilità ad investire non solo nel sociale, ma anche nell’identità del proprio territorio e quindi latamente del proprio paese. Detto questo, quando siamo arrivati al ministero con il ministro Bondi, ci siamo accorti che l’Italia godeva di grande stima internazionale per la capa-
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cità di tutela del proprio patrimonio. Nonostante quello che si dice, l’Italia è riuscita a conservare molta parte del proprio patrimonio, buona parte nonostante sia un patrimonio immenso, difficile da tutelare soprattutto per motivi economici. L’Italia ha avuto delle buone leggi, che risalgono agli inizi ‘900, ha avuto delle buone leggi anche sotto il periodo fascista, ha avuto buone leggi dopo e sotto queste buone leggi si è educata una nomenclatura ministeriale, nel senso migliore del termine, che ci è riconosciuta in tutto il mondo. Noi abbiamo i migliori sovrintendenti, i migliori archeologi, squadre di archeologi che lavorano in tutto il mondo, un’eccellenza incredibile, il made in Italy anche nella tutela dei beni culturali. Quando c’è da tutelare un bene, anche all’estero, vengono chiamati spesso i nostri conservatori e i nostri restauratori. Il nostro Ufficio Centrale del Restauro, l’Opificio delle Pietre Dure a Firenze, è sicuramente il migliore al mondo. Quello che mancava era un’educazione anche alla valorizzazione che, si badi bene, non coincide con la parola mercificazione. Una delle prime critiche che ci è stata mossa è stata quella di avviare l’ennesimo tentativo di mercificare il patrimonio culturale italiano. Devo aggiungere, senza note polemiche, che in quel periodo fu fonte di discussione un’affermazione dell’ex ministro Rutelli, riportata dall’agenzia Ansa, che sosteneva che il patrimonio culturale non può mai essere in nessun caso considerato una risorsa economica. Tale affermazione, incredibile se si pensa che viene da un ministro dei beni culturali, mostra la distanza che separa due diverse idee di bene culturale; nel caso di Rutelli una sorta di onere, che noi abbiamo in qualche modo ereditato e dobbiamo sforzarci di mantenere; dall’altra invece la nostra idea di bene culturale come valore, che può produrre altro valore, non necessariamente un riscontro economico, anche se si ammetterà che qualsiasi tipo di valore può essere misurato in termini economici. Intendo dunque ribadire che l’idea di valorizzazione non ha nulla a che vedere con la mercificazione. Ho avuto la possibilità con il ministro, con il dottor Elkann, che purtroppo oggi non ha potuto essere qui, ed anche con il dottor Resca, di visitare in questo primo anno di lavoro, molti musei in tutto il mondo e di cercare di capire cosa si stava facendo all’estero per valorizzare il patri-
monio culturale di una nazione. Siamo stati negli stati Uniti, in Francia, abbiamo studiato le novità che ci sono all’estero, i tentativi del Louvre, siamo andati ad Atlanta a vedere il museo, che ha fatto un accordo quinquennale con il Louvre. Abbiamo cercato di capire come si potesse valorizzare il nostro patrimonio senza mercificarlo, perché non si tratta di vendere opere o fare prestiti di lungo termine all’estero senza nessun ritorno. Si tratta di capire che la nostra identità nazionale risiede in quel bene, capire che il bene, in caso di un’internazionalizzazione intelligente, può essere uno strumento, un veicolo di riconoscibilità del nostro paese, quello che comunemente si definisce il made in Italy, che il bene culturale può essere di supporto anche ai nostri imprenditori che vanno all’estero, quasi un biglietto da visita dalle molteplici ricadute positive, di cui essere orgogliosi. Assodato ciò, si è pensato che la cosa migliore fosse creare una Direzione per la Valorizzazione, al cui capo mettere una persona che non veniva dai Beni Culturali, ma che si era dimostrata molto capace nell’organizzazione, come il dottor Resca. Questo perché si era evidenziata una mancanza dal punto di vista gestionale. Nel nostro paese disponiamo di una incredibile rete di musei e collezioni - in parte musei di stato, in parte musei civici, regionali e privati - il cui contenuto è patrimonio di tutti noi, della collettività. Tale patrimonio se gestito bene produce senso, cultura e valore, se gestito male non produce nulla. Quindi pensare che in Italia ci sono più di 4.000 musei, 2.500 aree archeologiche, centinaia di biblioteche e fondi che costituiscono circa il 6070% del patrimonio culturale di tutto il mondo, ci ha indotto e condotto a credere che fosse possibile rilanciarlo, semplicemente attraverso un’organizzazione diversa, che prevedesse, a fianco delle grandi professionalità che già abbiamo, nuove competenze come quelle del marketing, le competenze economiche e di gestione d’impresa, nuove strategie ed innovativi mezzi di comunicazione. Quando si dice marketing nell’impresa ci si riferisce ad un plus, un valore. Abbiamo voluto pensare la possibilità che il museo possa essere comunicato diversamente, che si possano usare strumenti tecnologici che già esistono e che sono usati all’estero, ma che noi ancora non usiamo, che i servizi aggiuntivi possano introdurre all’interno del
museo il virtuale, il digitale e nuove tecnologie di comunicazione. È ovvio che tutto questo non basterebbe, se non fosse supportato da un’azione legislativa mirata, che credo sia il focus del convegno. Quando l’economia cresce, l’imprenditore ha interesse, anche per semplice mecenatismo, ad investire in cultura, perché la cultura produce comunicazione, produce visibilità sociale, produce gratificazione. Molti imprenditori investono nello sport; molti, con una diversa sensibilità, investono nei beni culturali. In un’epoca di crisi, l’investimento in cultura diventa talvolta un lusso che non ci si può concedere. L’investimento nel sociale è un investimento che proprio per una dimensione di senso di responsabilità dell’impresa c’è sempre, o comunque è l’ultimo ad essere tagliato. Con la cultura, con l’immagine e con la comunicazione il discorso è diverso e spesso questi ambiti sono oggetto di tagli, indipendentemente dall’utilità e dal ritorno che assicurano. Quindi, soprattutto in periodi di crisi come quello che stiamo attraversando, è giusto che per gli imprenditori ci siano leve fiscali, come ad esempio la defiscalizzazione dell’investimento in beni culturali, migliori di quelle che ci sono oggi. Noi abbiamo tentato; è una battaglia che stiamo portando avanti, per ora con pochi risultati dal punto di vista della comunicazione, ma in cui noi crediamo fortemente. Per esempio abbiamo tentato di modificare il sistema di contribuzione nel cinema, passare cioè da una contribuzione diretta, cioè da fondi diretti a fondi indiretti. Immaginate quanto è difficile cambiare un sistema ideologico: un regista, abituato a ricevere dal governo di turno, quale colore esso abbia, dei fondi diretti cioè dei fondi per produrre il proprio film, cerchi invece investimenti, che poi verranno defiscalizzati. È una mentalità completamente diversa; innanzitutto crea libertà. Finalmente il regista non sarà più costretto a fare la fila davanti al governo di turno, di destra o di sinistra che sia, inginocchiandosi per chiedere un finanziamento. L’investitore, sia che operi nella filiera del cinema, sia extra filiera, avrà tutto l’interesse a che il prodotto funzioni e generi un guadagno. Possiamo dunque affermare che il finanziamento diretto produce dei non-capolavori che spesso non vengono visti in sala, mentre la defiscalizzazione potrebbe produrre, se entra a regime, dei film che almeno arrivano
in sala, perché l’investitore, che ha avuto defiscalizzato l’investimento, cerca un ricavo dal proprio investimento, quindi opera affinché il film esca bene e abbia una buona distribuzione. Nonostante i tagli al bilancio operati dal ministro Tremonti, il Ministero dei Beni Culturali ha mantenuto il 100% del proprio budget, al di là del fatto tragico che è stato il terremoto in Abruzzo, che ci ha imposto di convogliare in quel determinato settore e in quella determinata regione numerosi nostri fondi. Va sottolineato che accadono anche fatti curiosi: il nostro ministero rimanda ogni anno una parte del proprio budget in economia per incapacità di spesa. Quindi è difficile chiedere a Tremonti più finanziamenti, quando ogni anno mandiamo 100-200 milioni di euro in economia, che non riusciamo a spendere! Abbiamo delle direzioni fortemente erogatorie, come il cinema, e delle direzioni, come le Sovrintendenze alle Belle Arti e all’Archeologia, che sono meno erogatorie. Queste ultime, è bene specificarlo, non erogano semplicemente dei contributi, ma producono progetti, li seguono, li portano a termine. Molto spesso è complicato arrivare a finanziare entro l’anno il progetto approvato. Il denaro non speso che va in economia, inibisce future richieste di finanziamento. È evidente la necessità non solo di reperire fondi, ma di metterli a reddito nel senso migliore, cioè di gestire al meglio i costi dei beni culturali. Oggi è doveroso formulare leggi che prevedano adeguata defiscalizzazione e quindi facilitino l’ingresso di sponsor privati; d’altra parte si deve andare, sempre dal punto di vista legislativo, verso nuove forme di gestione del patrimonio culturale, come le fondazioni. Qui a Torino abbiamo il Museo Egizio, esempio ottimo di fondazioni che hanno chiaramente una capacità di organizzazione e di programmazione più snella rispetto alla burocrazia dello stato, spesso obsoleta nel confronto con le leggi del mercato. Quindi la nostra linea è questa: da una parte incentivare l’ingresso dei privati e delle aziende, dall’altra trovare modi di gestione comuni, che prevedano che la tutela rimanga in capo allo stato, mentre la gestione del bene possa essere fatta attraverso realtà private o locali, quindi con l’intervento delle province, delle regioni, delle amministrazioni locali, dei cittadini stessi e delle imprese. Come dimostra la Consulta, o come dimostrano molte volte le associazioni dei
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cittadini, se il bene è riconosciuto come un bene identitario, come un valore comune e condiviso, tutti i cittadini hanno la consapevolezza che è giusto trattarlo con cura e rispetto. È ovvio che un progressivo federalismo nella gestione ci sarà, fermo restando che la tutela generale rimarrà in capo allo stato, come previsto anche dal codice dei Beni Culturali disegnato dal ministro Urbani. Quindi nessun timore che possa essere svenduto il patrimonio artistico italiano, o che questo progressivo federalismo possa diminuire il controllo dello Stato. La delega della gestione avverrà a vari livelli e questa è una necessità improrogabile. Ora concludo, nella speranza di essere stato il più chiaro possibile. Un’ultima precisazione: non sempre l’idea delle fondazioni è positiva e ne abbiamo un esempio eclatante nelle fondazioni lirico-sinfoniche. È sempre meglio vedere se gli strumenti funzionano man mano che li si utilizza. Si pensava che coinvolgendo i privati la situazione economica degli enti lirici potesse migliorare. La cosa non è avvenuta. Le fondazioni lirico-sinfoniche dalla loro fondazione nel ’96, in tredici anni hanno accumulato 300 milioni di euro di passivo, nonostante tutti gli anni metà del flusso del Fondo Unico per lo Spettacolo fosse dedicato alle fondazioni. Ogni anno lo stato ha dato mediamente 300/400 miliardi o 200 milioni, a seconda se la moneta in corso fosse la lira o l’euro. Insieme allo stato, hanno contribuito alla sopravvivenza delle fondazioni lirico-sinfoniche, le regioni e le province di appartenenza. Eclatante è l’esempio della Scala, ovviamente un’eccellenza nel panorama mondiale, che drena risorse dalla Regione e da privati e ciò nonostante, presenta un passivo altissimo, la più bassa produttività d’Europa e il più alto costo del lavoro. In Italia abbiamo tredici teatri riconosciuti dallo stato, la Francia ha due teatri nazionali, la Spagna uno. Ogni nostra piccola città, anche piccola oggi, è stata una capitale di ieri; quindi abbiamo Parma, Cagliari, Reggio, capitali del passato, quindi città importanti per
tradizione, ma adesso impossibilitate a sostenere i costi e le esigenze di un teatro lirico. Questi 13 teatri hanno 6.000 dipendenti. L’idea che la lirica così non possa essere sostenuta è un dato di fatto; davanti ai conti, a risorse sempre minori da destinare, non c’è alternativa: o si cambia il sistema o si arriverà ad una diminuzione dei teatri nazionali. In un periodo come questo di contrazione economica, va detto seriamente, non è possibile chiedere più denaro allo stato per i beni culturali, quando si è di fronte alle esigenze degli ammortizzatori sociali, della scuola, della sanità. Politicamente è un gioco al massacro, che indebolisce il ministero. Mi auguro veramente che ci sia un’inversione di tendenza, perché noi abbiamo un grande e lo ripeto, inespresso, patrimonio alle spalle, che se fosse valorizzato in modo giusto renderebbe molto in termini di immagine, di supporto alle imprese e anche di turismo. L’unico turismo che resiste in Italia è quello dei beni culturali perché è chiaramente un bene non delocalizzabile, non può essere copiato; se si vuol venire in Italia a godere del nostro paesaggio, ammirare le nostre colline, a vedere come perfettamente si intreccia il paesaggio con l’opera d’arte, non si può che venire nel nostro paese. Quindi il fatto che il bene culturale sia valorizzato permetterà di far crescere quella parte residua di PIL che è quello che ci proviene dal turismo, che attualmente è bassissimo. Siamo al 5° posto e siamo stati superati dalla Spagna. La situazione è difficile, ma non si può più prescindere dal patrimonio né dalle aziende, dal loro sforzo ad investire con sapienza, con intelligenza e con quella capacità che hanno gli imprenditori di rischiare ora, per un utile presupposto nel futuro prossimo. Serve un impegno corale per un successo condiviso. Seguendo le linee guida del nostro ministero, posso garantire la più fattiva collaborazione alle aziende e ai privati decisi a collaborare con noi al mantenimento e alla valorizzazione della nostra identità nazionale.
Opportunità giuridiche. Il contratto di sponsorizzazione. Controparti pubbliche e controparti private.
Riccardo Rossotto Studio Legale Rossotto & Partners, Torino
Vorrei portare un contributo a questo dibattito particolare, perché la qualità delle persone intorno a questo tavolo e in sala, sia dal punto di vista degli sponsor sia dal punto di vista degli sponsees, è talmente alta e sofisticata che, secondo me, questa è un’opportunità per aprire un cantiere rilevante per fare quell’innovazione di metodi di comunicazione, cui accennavano gli interventi introduttivi. Concordiamo sul fatto che quello del nostro paese è un patrimonio straordinario, unico, non delocalizzabile. Dobbiamo impegnarci a trovare soluzioni per valorizzarlo, contestualizzandolo tuttavia in una realtà economica e culturale italiana non banale e dalla quale bisogna partire. Abbiamo di fronte uno scenario in cui lo stato e ci è stato confermato oggi, ridurrà per necessità di bilancio il suo intervento in una serie di aree che toccano sicuramente anche la cultura e la valorizzazione del patrimonio. Quindi abbiamo sicuramente uno scenario in cui o i privati subentrano o questo patrimonio andrà a poco a poco a ridursi e tra l’altro a perdere di valore. Dunque il bisogno esiste. Il nostro presidente Lodovico Passerin d’Entrèves è una sintesi rarissima in Italia di un grande big spender in pubblicità che è ora a capo di un’iniziativa tendenzialmente mirata a favorire il cosiddetto protezionismo del patrimonio artistico e culturale. Non ce ne sono molti esempi di questo genere, non a caso è oggi il promotore di questo dibattito. Esistono ancora nella nostra cultura due indirizzi di pensiero che fino adesso hanno fatto da tappo all’incontro fra i big spender della comunicazione e i bisognosi, cioè i titolari detentori del bene artistico culturale, che deve essere in qualche modo mantenuto, sovvenzionato per valorizzarsi ma anche a volte soltanto per sopravvivere di manutenzione ordinaria e straordinaria. I due indirizzi di pensiero fanno fatica a parlarsi. Da un lato la diffidenza verso la commercializzazione di un bene culturale e artistico è un pregiudizio che blocca a volte il dibattito, ma soprattutto blocca l’operatività. Dall’altro lato c’è tutto il mondo degli investitori pubblicitari, che non ha tanto un pregiudizio sull’investire direttamente o consigliare di investire in questo genere di
media, cerca tuttavia conforto, se non garanzie, sul fatto che quel bene, quell’evento, quel monumento, quel museo sia effettivamente un media alternativo, complementare, ulteriore rispetto ai media tradizionali, noti, semplicissimi e continuamente consigliati che sono la televisione, la radio, l’affissione o i grandi eventi. Questo è il punto. Siamo di fronte ad un problema culturale, che è anche un problema linguistico e diventa un problema organizzativo. Lo dico per la banale esperienza di chi vede questo tema da un’angolatura legale, ma che poi conosce gli operatori del sistema. Oggi non c’è più l’alibi fiscale, esiste una norma che dice che tutto l’investimento in sponsorizzazioni è deducibile fiscalmente. Esiste sempre la pretesa o la speranza che lo stato faccia di più ma lo stato, l’abbiamo sentito dai suoi diretti rappresentanti, fa quello che può ed è già grazia che tenga la titolarità dei beni e dia le gestioni al privato, che si presume dovrebbe essere più efficiente. Cerchiamo dunque di andare al netto degli alibi, in quel contesto dove due culture fanno fatica a parlarsi. Adesso vi provocherò con alcuni punti che spero aiutino il confronto e il dibattito. Quando parliamo di sponsorizzazioni, parliamo del valore aziendale più caro, più esclusivo, più gelosamente custodito da parte dell’imprenditore che è il marchio aziendale. Allora, o ci convinciamo noi sponsees, noi bisognosi di sponsorizzazioni che quando ci rivolgiamo a un candidato sponsor dobbiamo rispettare questa sua attenzione straordinaria al marchio, oppure non andiamo da nessuna parte, perché soltanto il dubbio che la sponsorizzazione non crei avviamento, non aumenti la gratitudine della gente o crei anche soltanto un rischio di badwill o di disavviamento, fa sì che l’imprenditore chiuda la discussione, ancora prima di aprirla su come e quanto fare la sponsorizzazione. Partiamo quindi da quello che è l’intangibile, il marchio che i comunicatori in senso agiuridico chiamano la marca, che è l’insieme di tutte le iniziative di comunicazione per valorizzare il marchio. Quest’ultimo costituisce il vero valore nelle transazioni tra imprese e questo è un fatto
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nuovo, culturale, qualcosa che è cambiato. Fino a vent’anni fa per valutare un’azienda si guardavano i capannoni, i macchinari, le attrezzature; oggi la valutazione è definita dal valore del marchio, che è la quota di mercato, che è la reputazione, che è la conoscenza. Stiamo parlando dunque, dell’asse più importante per l’imprenditore, che deve essere tenuto in altissima considerazione. L’imprenditore deve conoscere l’esatto perimetro del rischio dell’utilizzazione del suo marchio. Riveste dunque fondamentale importanza la contrattualizzazione. Il contratto di sponsorizzazione non può essere un contratto standard, poiché è la fotografia di un equilibrio di rapporti tra le parti, lo sponsor e lo sponsee, che di volta in volta mutano a seconda di quello che è l’oggetto della sponsorizzazione. Credo che nessuno dei presenti, ma nessuno degli imprenditori italiani, metta in discussione il fatto che il patrimonio artistico italiano ha un valore unico, unico nel mondo, per quantità e per qualità e credo che nessuno contesti che l’imprenditore abbia sì una responsabilità sociale, ma cerchi un ritorno economico ai suoi investimenti. È indispensabile coniugare la strategia con il conto economico. Desidero a questo proposito suggerire alcuni spunti di riflessione: a. il valore del marchio deve essere protetto e quindi bisogna pretendere che nel contratto questa protezione ci sia e venga riconosciuta; b. poiché il contratto disciplina i diritti e i doveri delle parti, deve essere chiarita, se non quantificata, la possibilità di creare un maggior valore in termini di notorietà, di visibilità e di consolidamento della reputazione dell’azienda sponsor, che deve avere una qualche forma di controllo sull’attività che sostiene e che lo sponsee porta avanti; c. il compenso in un contratto di sponsorizzazione non è soltanto una somma fissa che viene pagata in una o più rate, ma deve essere articolato secondo una realtà operativa, che deve spaccare il corrispettivo in una parte fissa e in una parte variabile, quantificabile in base ai risultati raggiunti, al fine di stimolare lo sponsee a responsabilizzarsi e a valorizzare al massimo l’oggetto della sponsorizzazione. Per risultati si intende banalmente quello che i pubblicitari da anni sui media tradizionali chiedono: il piano comunicazione, i costi contatto, la visibilità mediatica, il pubblico prospettico atteso, il tipo di audience. In altre parole, lo sponsor non può ottenere garan-
zie di risultato, poiché la sponsorizzazione tecnicamente riguarda un’obbligazione di mezzo non di risultato; deve tuttavia pretendere la massima diligenza e la massima professionalità nel perseguire l’obiettivo concordato come ragionevolmente raggiungibile. Lancio ora una provocazione ai pubblicitari. Inventate l’Audicultura o l’Audimuseo, creativamente un mezzo per misurare gli eventi in termini di audience, perché questo sarà sicuramente un valore aggiunto, che potrà essere speso per andare a convincere gli inserzionisti a non scegliere sempre televisione, radio o mezzi tradizionali, ma ad orientarsi verso uno specifico evento, un museo, un bene culturale. Allo sponsor devono essere rese disponibili tutte le informazioni su ciò che ha deciso di sostenere: chi gestisce il team di lavoro, il programma di utilizzo e dove in quel programma, nel corso dell’anno, possono essere inserite iniziative aziendali o quanto di quel marchio, di quel nome, di quella fotografia, di tutti i diritti relativi all’evento possono essere utilizzati in una eventuale comunicazione aziendale. Devono poi essere fornite adeguate garanzie, che in caso di eventi negativi, lesivi per la reputazione aziendale, lo sponsor sia libero di recedere dal contratto. Che cosa deve fare lo sponsee per rendersi interessante ed appetibile? Deve mettere in atto una strategia di promozione del suo progetto, presentarlo al tipo adeguato di sponsor, culturalmente vicino, merceologicamente gestibile, comunicazionalmente valorizzabile, non solo per passione dell’imprenditore, ma principalmente per esigenze di posizionamento della marca. Devono essere presentate richieste economiche chiare e realistiche, per non squalificare l’evento o deprofessionalizzare l’eventuale soluzione del problema. Meglio disporre di un tariffario dell’evento, perché in questo modo il main sponsor avrà un certo valore, poi gli sponsor di cartello ne avranno altri, le sofisticazioni del marketing avranno mille altre soluzioni, ma siccome è banalmente un media, deve disporre di un listino prezzi, come se fosse un media tradizionale. Il contratto di sponsorizzazione è banalmente un contratto di denaro contro diritto d’uso di un certo evento. Sono persuaso che se vogliamo fare quell’innovazione comunicazionale, di cui ci parlavano il presidente e il dottor Crespi, dobbiamo professionalizzare il settore, professionalizzando gli attori coinvolti e gli strumenti in uso.
Opportunità fiscale
Claudio Saracco e Lucia Starola Studio Saracco, Torino 1. Premessa Sulle pagine del Corriere della Sera si è svolto quest’estate un simpatico dibattito in merito al rapporto tra cultura e politica, innestato da un editoriale di Ernesto Galli della Loggia, il quale stigmatizzava la mancanza di un Ministero della Cultura come centro di idee e di progetti, capace di “portare la vita di oggi nelle reliquie di ieri”. Bene, l’odierno convegno intende andare nella direzione auspicata da Galli della Loggia; in questa sede, infatti, il mondo della cultura, delle imprese, degli operatori del diritto vuole contribuire a “portare le reliquie di ieri nella vita di oggi”. L’esigenza di salvaguardare il patrimonio storico, artistico e culturale ha indotto da sempre lo stato a stimolare interventi da parte sia dei privati sia, soprattutto, delle imprese, mediante agevolazioni di carattere tributario a chi destina risorse alla tutela e valorizzazione di tale patrimonio. Per i privati la forma di intervento è esclusivamente il mecenatismo, mentre le imprese possono anche optare per la sponsorizzazione. Il mecenatismo si realizza attraverso erogazioni liberali, normalmente in denaro, a favore, di solito, di un ente non commerciale che le destina alle finalità previste dalle specifiche norme agevolative. Sul mecenatismo ci siamo intrattenuti, anche per l’aspetto fiscale, nel workshop dello scorso anno. 2. La sponsorizzazione L’evoluzione del mercato e la crisi economica inducono le imprese a perseguire sempre più la promozione della loro immagine, del marchio, del prodotto, mediante il ricorso a strumenti anche sofisticati; la sponsorizzazione è uno di questi. Che cos’é la sponsorizzazione? Un breve excursus sull’origine del termine può aiutare a inquadrare meglio tale istituto ed il suo trattamento fiscale. Oggi usiamo i termini sponsor e sponsee considerandoli termini di derivazione anglosassone. In realtà sponsor è parola latina che significa garante, padrino, in collegamento con la radice del verbo latino spondere che significa promettere, garantire,
obbligarsi. La sponsio era una promessa verbale solenne e formale, costitutiva di una obbligazione. Nel formalismo tipico dell’antico diritto romano l’obbligazione scaturiva dalla pronuncia della parola stabilita: sponsio. Più tardi, nella lingua anglosassone, i padrini nel battesimo vennero chiamati sponsor, perché promettono di seguire la crescita del fanciullo in caso di perdita dei genitori. Nel linguaggio contemporaneo lo sponsor è un soggetto, (normalmente un’impresa) che, tramite erogazioni, protegge, patrocina un’attività culturale, una squadra di calcio etc.; ma non si tratta di un’erogazione a fini liberali, come nel caso del mecenate, bensì di un’erogazione che scaturisce da un sinallagma, dove il soggetto ricevente consente lo sfruttamento a fini pubblicitari di un proprio bene, sfruttamento pubblicitario che l’erogante indirizza alla propria immagine ovvero ad un prodotto. Per indicare la direzione in cui ci si sta muovendo, un esempio viene dai programmi per il restauro del Colosseo: i giapponesi sembrano interessati a sborsare migliaia di dollari per il lavoro di restauro a fronte del diritto allo sfruttamento delle immagini di tale monumento. Sul piano economico-aziendalistico, la sponsorizzazione è uno strumento pubblicitario. Comporta infatti la diffusione di messaggi promozionali, relativi ad un prodotto o ad un marchio, collegati ad un personaggio o ad un evento, il cui rilievo, di prestigio o di popolarità, determina l’efficacia della promozione commerciale. Sul piano giuridico, la sponsorizzazione è un contratto atipico, a titolo oneroso, per mezzo del quale un soggetto (lo sponsor) si impegna ad assicurare un beneficio, in denaro o in natura, alla controparte (lo sponsee), la quale si impegna, nei confronti del primo, a promuoverne l’immagine, un marchio, un prodotto, attraverso una iniziativa, un evento o una manifestazione. L’intento promozionale è la causa del contratto di sponsorizzazione, così come caratterizza qualsiasi spesa di pubblicità. Ricondurre la sponsorizzazione nell’ambito della pubblicità discende dalla nozione giuridica di questa, desu-
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mibile in via indiretta anche dalle disposizioni di cui all’art. 2598 c.c. Anche secondo la giurisprudenza civile le spese di sponsorizzazione costitui1 scono una specie del genere spese di pubblicità con la quale si lancia un messaggio ad un uditorio indeterminato. Il rapporto di sponsorizzazione presuppone dunque un contratto, anche verbale, la cui esistenza può essere provata anche per fatto concludente. È tuttavia opportuna la forma scritta, al fine di definire con compiutezza il contenuto di prestazioni e controprestazioni, ovvero i diritti e gli obblighi delle parti, in assenza dei quali viene meno il sinallagma. La differenza rispetto alle erogazioni liberali è netta. Lo sponsorizzato (sponsee) è obbligato, in base ad un contratto, a indicare e, quindi, a pubblicizzare. L’impresa sponsor, mentre, invece, il soggetto destinatario dell’erogazione liberale non assume obblighi di sorta. Anzi, di regola, la normativa fiscale vieta che l’impresa mecenate possa sfruttare a livello di comunicazione le proprie erogazioni, pena la perdita del beneficio fiscale. La sponsorizzazione dei beni culturali ha trovato esplicito riconoscimento legislativo nel “Codice 2 dei beni culturali e del paesaggio” che definisce la sponsorizzazione all’art. 120: “È sponsorizzazione di beni culturali ogni contri3 buto, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l’attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante. Possono essere oggetto di sponsorizzazione iniziative del ministero, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali nonché di altri soggetti pubblici o di persone giuridiche private senza fine di lucro, ovvero iniziative di soggetti privati su beni culturali di loro proprietà. La verifica della compatibilità di dette iniziative con le esigenze della tutela è effettuata dal ministero in conformità alle disposizioni del presente codice. La promozione di cui al comma 1 avviene attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilire con il contratto di sponsorizzazione.”
L’istituto della sponsorizzazione, nel quale la promozione del prodotto e la promozione dell’immagine sono accomunate in un’unica definizione, è dunque ormai recepito dal nostro ordinamento giuridico. La definizione vale, quantomeno con riferimento ai beni culturali, ad ogni effetto e quindi 4 anche sul piano del diritto tributario . 3. Aspetti fiscali della sponsorizzazione Sotto il profilo tributario un contratto di sponsorizzazione rileva sia per lo sponsor, sia per lo sponsee e, per entrambi, con riferimento sia alle imposte sul reddito, sia all’imposta sul valore aggiunto. 3.1. Imposte sul reddito Ai fini delle imposte sul reddito: 5 -lo sponsor sostiene un costo di esercizio che, se soddisfa i requisiti di inerenza e competenza, è deducibile nella determinazione del reddito d’impresa (a scelta del contribuente, nell’esercizio in cui è stato sostenuto o in quote costanti nell’esercizio 6 stesso e nei quattro successivi ); -lo sponsee riceve il corrispettivo (in denaro e in natura) del servizio prestato e tale corrispettivo costituisce un componente positivo del suo reddito imponibile. 3.1.1. Imposte sul reddito dello sponsor Se il contratto di sponsorizzazione é redatto con chiara indicazione delle obbligazioni reciproche si evita che l’erogazione possa essere riportata al concetto di gratuità, insito nelle spese di rappresentanza, per le quali è previsto un limite percentuale di deducibilità; si evita altresì che il costo di sponsorizzazione possa essere riportato ad una erogazione liberale, della quale non avrebbe i requisiti formali per essere deducibile dal reddito d’impresa: trattasi di cautele importanti. L’amministrazione finanziaria aveva affermato, fin dal 1974, che gli oneri derivanti dalla sponsorizzazione dovevano ritenersi, “in linea di massima”, spese pubblicitarie a condizione che avessero “come scopo unico, quello di reclamizzare il prodotto commerciale per incrementarne i ricavi” e sempreché vi facesse riscontro “una somma di obblighi contrattuali, anche in fatto osservati, a carico delle società percipienti”; aggiungeva inoltre che, in caso contrario, tali spese “non avrebbero potuto essere considerate diversamente da mere elar7 gizioni a titolo di liberalità” . Con l’introduzione
della disciplina specifica delle spese di rappresen8 tanza (deducibilità limitata con criteri forfetari) 9 si sviluppò un orientamento (cfr. Se.C.I.T. e Comitato consultivo per l’applicazione delle norme 10 antielusive ) secondo il quale, quando la “sponsorizzazione ha come finalità la valorizzazione dell’immagine dell’impresa, e non del prodotto, le relative spese non dovrebbero essere considerate di pubblicità”, mancando una connessione diretta 11 tra la spesa ed il conseguimento del ricavo . La tesi del Se.C.I.T. portava ad una conclusione assurda: per le imprese che, per loro natura, possono pubblicizzare esclusivamente la propria immagine i costi pubblicitari sarebbero sempre stati 12 riconducibili a spese di rappresentanza ! È quindi importante mettere in rilievo la diversa natura del rapporto giuridico alla base dell’erogazione; infatti: - le spese di rappresentanza presuppongono un contratto a favore di terzi, dove il terzo è beneficiario dell’accordo stipulato dall’impresa con il soggetto incaricato di effettuare la prestazione, soggetto che può essere di volta in volta un alber13 gatore, un ristoratore, un’agenzia di viaggi ; - la sponsorizzazione è regolata da un contratto nell’ambito del quale i rapporti si esauriscono tra le parti contraenti. Tali concetti sono da sempre richiamati dall’Ammi14 nistrazione Finanziaria nelle proprie risoluzioni . Con riferimento alle spese di sponsorizzazione 15 l’Amministrazione Finanziaria , già nel 2000, allontanandosi dalla tesi del Se.C.I.T., affermava che la classificazione di tali spese fra quelle di pubblicità o fra quelle di rappresentanza (a seconda che vengano sostenute per l’offerta di un prodotto o per dare al pubblico un’immagine positiva dell’impresa), conservava una propria validità solo tendenziale, in quanto sempre più la pubblicità stessa si incentra sull’impresa più che sul prodotto in quanto tale. E, in ogni caso, il fine è incrementare, direttamente o indirettamente, i ricavi e l’attività propria. In effetti, nella moderna economia assistiamo quotidianamente ad un continuo mutamento nelle tecniche di volta in volta utilizzate dalle apposite organizzazioni di marketing, per cui le campagne pubblicitarie sono sempre più rivolte non tanto a reclamizzare il prodotto come tale, quanto a far sì che l’impresa venga percepita come un elemento
indispensabile allo sviluppo della comunità socio politica in cui è inserita. La pubblicità legata unicamente al prodotto ha perso i connotati tipici che l’avevano da sempre caratterizzata, nel senso cioè di dover essere razionale e convincere che un prodotto è buono e conveniente. Nuovo modo di concepire una pubblicità del “sociale”, piuttosto che una pubblicità del “prodotto”, può essere ravvisato in quello che nella terminologia anglosassone viene definito cause related marketing (crm). Termine con il quale si intende una nuova tecnica pubblicitaria (rivolta ai consumatori-cittadini più che ai consumatori-clienti) che consiste nel valorizzare un marchio o nel lanciare un prodotto destinando risorse predeterminate o percentuali di ricavi, al restauro di un’opera d’arte o al finanziamento di una struttura pubblica o ancora nell’abbinare il proprio marchio a un’iniziativa di solidarietà sociale o ad 16 un progetto di interesse collettivo . La giurisprudenza ha, nel tempo, espresso opinio17 ni altalenanti . Come abbiamo visto, l’assimilazione delle spese di sponsorizzazione alle spese di rappresentanza renderebbe molto più oneroso il ricorso alla sponsorizzazione come strumento di comunicazione pubblicitaria. La classificazione delle spese di sponsorizzazione tra le spese di pubblicità discende, in effetti, da due ordini di ragioni. In primo luogo perché il costo attiene ad un contratto che prevede prestazioni reciproche; in secondo luogo perché destinataria dell’utilità (del quadro restaurato, dell’affresco conservato o tutelato, dell’evento culturale) è una generalità di soggetti, non individuabile preventivamente (non è infatti possibile determinare i soggetti che ammireranno l’opera d’arte restaurata o parteciperanno alla manifestazione culturale). Infine, dopo l’emanazione del Codice dei beni culturali, alla luce del citato art. 120, si può affermare con certezza che la sponsorizzazione di un intervento di restauro, di conservazione o di valorizzazione di un bene artistico o comunque di un evento culturale, comporta sempre un onere che rientra nella categoria delle spese di pubblicità, indipendentemente dal fatto che l’obiettivo dell’impresa sia quello di promuovere il prodotto ovvero il marchio o l’immagine. Non esistendo, infatti, una norma fiscale speciale che regolamenti le spese di sponsorizzazione, non
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vi è motivo per disattendere la definizione onnicomprensiva dell’articolo 120 del Codice dei beni culturali. Viceversa, quando manchi il contratto di sponsorizzazione ed i terzi beneficiari di una manifestazione siano previamente individuati, occorre verificare in concreto se si possa parlare di sponsorizzazione o se si rientri nella categoria delle spese di rappresentanza. Infatti, in tal caso l’evento presenta una connotazione di gratuità (non c’è l’assunzione di obblighi di fare o di dare da parte di chi riceve l’erogazione). Ad analoga conclusione si può pervenire qualora sussista notevole squilibrio tra le prestazioni dello sponsee e dello sponsor, tale da escludere la configurabilità di un rapporto sinallagmatico. Si giustifica pertanto, in tali casi, il regime di deducibilità limitata, proprio delle spese di rappresentanza. 3.1.2. Imposte sul reddito dello sponsee Il trattamento fiscale del soggetto sponsorizzato dipende dalla sua qualificazione tributaria. Se lo sponsee è un’impresa o un ente commerciale, il corrispettivo conseguito costituisce un componente positivo del reddito d’impresa, ai fini dell’Ires e dell’Irap. Se lo sponsee è un “ente non commerciale”, occorre distinguere: - se la sponsorizzazione è abituale, la stessa configura esercizio di “attività commerciale” ed i relativi proventi costituiscono componenti positivi del reddito d’impresa; correlativamente i costi soste18 nuti per eseguire la prestazione sono deducibili ; - se la sponsorizzazione è occasionale (ovvero si concretizza in un’operazione commerciale isolata), i relativi proventi, al netto dei costi, costituiscono “redditi diversi” (titolo I capo VII TUIR), imponibili in capo all’ente. Con riferimento agli “enti non commerciali”, si tenga presente che la qualifica di “ente non commerciale” viene meno qualora l’attività commerciale sia prevalente (ricavi maggiori del 50%) per un intero periodo d’imposta, risultando così attratti all’attività commerciale anche i ricavi da attività istituzionale; pertanto, stante la natura commerciale dei ricavi da sponsorizzazione, gli stessi concorrono a tale verifica di prevalenza. È utile altresì ricordare che quando il soggetto spon19 sorizzato sia lo Stato o un ente pubblico non si ricade nelle suddette previsioni, essendo prevista un’esclusione di carattere soggettivo che prescin-
de dalle attività concretamente esercitate. 3.2. Imposta sul valore aggiunto Quanto all’imposta sul valore aggiunto, il corrispettivo è sempre imponibile Iva con obbligo di emissione della fattura: - sia quando il soggetto sponsorizzato riveste la qualifica di impresa o di ente commerciale; - sia quando il soggetto sponsorizzato è un ente non commerciale, per il quale sono imponibili Iva esclusivamente i ricavi da cessioni di beni e da prestazioni di servizi svolte nell’esercizio di attività commerciali o agricole; ciò in quanto, per presunzione assoluta, hanno natura commerciale i 20 ricavi da prestazioni pubblicitarie ; le prestazioni 21 pubblicitarie sono quindi da assoggettare ad Iva con detraibilità di quella relativa ai costi sostenuti per l’attività di sponsorizzazione. 4. Le spese di rappresentanza Per sgombrare il campo da ogni dubbio sulla integrale deducibilità delle spese di sponsorizzazione quali spese di pubblicità, giova richiamare la 22 Legge Finanziaria per il 2008 che ha modificato, con decorrenza dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, le disposizioni in merito alla deducibilità delle spese di rappresentanza. Il secondo comma dell’art. 108 del TUIR recita ora: “Le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, del volume dei ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa e dell’attività internazionale dell’impresa. Sono comunque deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a euro 50.” Il D.M. 19.11.2008 ha delineato i requisiti di inerenza e di congruità ed ha fissato limiti di deducibilità delle spese di rappresentanza, parametrandole ad una percentuale dell’ammontare dei ricavi e dei 23 proventi della gestione caratteristica . Rileva, in particolare, ai fini che qui interessano, l’essere stato previsto che, agli effetti dell’applicazione dell’art. 108 TUIR si considerano inerenti, sempreché effettivamente sostenute e documentate, le spese per erogazioni a titolo gratuito di beni e servizi,
effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni e il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefìci economici per l’impresa, ovvero sia coerente con pratiche commerciali di settore. Ne consegue che l’inerenza è collegata alle finalità promozionali o di pubbliche relazioni, e che la caratteristica primaria delle spese di rappresentanza è la gratuità della spesa. La nuova normativa in tema di spese di rappresentanza definisce, quindi, un perimetro all’interno del quale esistono limiti alla deducibilità. Tutto quanto è spesa promozionale, con caratteristiche che la pongono fuori da quel perimetro, ovvero non è gratuita, è sicuramente da considerarsi spesa di pubblicità e come tale deducibile integralmente. Anche alla luce della nuova normativa fiscale in tema di spese di rappresentanza, non ha quindi più alcuna ragion d’essere l’impostazione del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusione: le spese di sponsorizzazione, non essendo gratuite, in quanto derivano da un rapporto sinallagmatico, non possono essere considerate spese di rappresentanza, anche se promuovono l’immagine, bensì devono essere considerate spese di pubblicità e sono pertanto integralmente deducibili tra i costi dell’impresa che le sostiene, indipendentemente da qualsiasi parametro limitativo. 5. Conclusioni Ho esordito richiamando l’origine latina del termine sponsor; in realtà lo sponsor dell’epoca romana
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non aveva il ruolo che attualmente gli attribuiamo: era infatti lo Stato a farsi carico dei giochi e delle feste. Figura speculare al moderno sponsor la troviamo invece in Atene; nella Grecia antica il corego era colui che finanziava l’allestimento degli spettacoli teatrali in occasione delle feste liturgiche. Solitamente si trattava di un cittadino facoltoso, designato dal magistrato, a cui competeva l’organizzazione della celebrazione; il corego garantiva un versamento alla polis, versamento che ne accresceva la popolarità. Nel 335 a.c., per commemorare la vittoria della squadra teatrale finanziata dal corego Lisicrate, fu eretto ad Atene un piccolo monumento a struttura circolare ornato da colonne corinzie che si innalzava su un podio quadrato. In quei tempi, si creava ricchezza con la cultura e viceversa. Il nostro paese deve riuscire a fare altrettanto; si tratta di un percorso virtuoso: lo sponsor finanzia il restauro, pubblicizza l’azienda o i suoi prodotti utilizzando l’immagine del bene culturale, che viene in tal modo esso stesso pubblicizzato, fatto conoscere ad una massa di possibili fruitori, accrescendo in tal modo possibilità di lavoro e di creazione di ricchezza, anche con il turismo. Sembra l’uovo di Colombo, si deve riuscire ad innescare il meccanismo. Se ne parla da vent’anni almeno, ma forse per lungo tempo ostacoli di carattere culturale e fiscale ne hanno limitato la diffusione. Ora spetta agli esperti in pubblicità, comunicazione e marketing il compito di verificare la possibilità di sfruttare in modo efficace un bene o una manifestazione culturale.
Corte di Cassazione sentenze n. 5086 del 21 maggio 1998 e n. 9880 dell’11 ottobre 1997 D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, così come modificato da ultimo con il D.Lgs. 26 marzo 2008 n. 62. Nella stesura anteriore al D.Lgs. 26 marzo 2008 n. 62, la mancanza della parola “anche” aveva fatto ritenere ad alcuni commentatori che l’art. 120 si riferisse esclusivamente a sponsorizzazioni tecniche o in natura. L’attuale stesura comprende sicuramente anche i contributi in denaro. Così R. Lunelli, Fisco e beni culturali, in il Fisco n. 27/2006, pag. 4017 e segg. Vedasi A. Giovanardi, I contratti di sponsorizzazione, in Diritto e Pratica Tributaria – I – 1994: “Il trattamento tributario dei costi gravanti sull’impresa sponsor non è espressamente disciplinato. Questo fatto non dovrebbe creare alcun problema perché, dato che la sponsorizzazione è una forma alternativa di pubblicità, i costi sostenuti per essa non potrebbero che ricondursi alle spese di pubblicità e propaganda, di cui al secondo comma dell’art. 74 (ora art. 108 T.U.I.R.), approvato con D,P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.” Art. 108 TUIR: Il termine “sostenuto” non fa riferimento ad un criterio di cassa, bensì ad un concetto di competenza, ovvero di correlazione costi/ricavi. All’epoca, non esisteva ancora una disciplina specifica per le spese di rappresentanza.
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In proposito, R. Lupi, I diversi motivi di diffidenza del fisco per la sponsorizzazione e la rappresentanza, in Rassegna Tributaria 5/2002 p. 1569 “La limitazione alla deducibilità, prevista dall’art. 74, non presuppone una “inerenza parziale” della singola spesa, ma le difficoltà del Fisco ad accertare la destinazione della singola spesa, che potrebbe essere in concreto inerente al cento per cento, ovvero sostenuta per soli fini privati: si conferma così la ragione del forfait di un terzo, sul complesso delle spese. Ed è per questa logica forfetaria che l’applicazione della deducibilità limitata è sostenibile anche quando è dimostrato che la singola spesa di rappresentanza è una di quelle di cui nessuna impresa potrebbe fare a meno”. Delibera Se.C.I.T. del 22 gennaio 1993, n. 7. Parere del Comitato Consultivo del 24 febbraio 2004, n. 1. Da ultimo vedi anche Cassazione, sentenza n. 9567 del 23 aprile 2007 (relativa ad una rettifica del reddito imponibile dell’anno 1990). Ancora, R. Lupi, op. citata “Dietro le nebulose distinzioni operate a suo tempo dai Superispettori si intravede peraltro una diversa preoccupazione, consistente nella idoneità di sponsorizzazioni “di comodo” a coprire fenomeni di evasione fiscale. Mentre infatti la pubblicità viene canalizzata su grandi imprese editoriali o comunque su soggetti sicuramente commerciali, come le agenzie pubblicitarie, le sponsorizzazioni avvenivano spesso direttamente nei confronti di associazioni non titolari di reddito d’impresa, o di comitati occasionali, in relazione ai quali era legittimo il sospetto dell’emissione di ricevute per somme eccedenti quelle realmente percepite.” In tal senso F. Dezzani, Le sponsorizzazioni nel mirino del SE.C.I.T., in Il fisco, n. 33, 1993, 8512: “La tesi del SE.C.I.T. non è applicabile alla realtà di marketing delle imprese, le quali adottano come segno distintivo del prodotto sia la ragione sociale della società che un marchio di fantasia. Ad esempio Fiat, Alfa Romeo e Lancia sono stati simultaneamente marchio di prodotto e denominazione sociale dell’impresa, come pure San Pellegrino che è marca di acqua minerale e ragione sociale dell’impresa che imbottiglia la stessa acqua minerale. Se questa è la situazione del mercato, non ha significato pratico sostenere che le spese di pubblicità hanno come oggetto il prodotto (bene o servizio), mentre le spese di rappresentanza riguardano la ditta (l’immagine o i segni distintivi dell’imprenditore: nome, ragione sociale, sigla o altro). Sovente la ditta e il marchio del prodotto coincidono, Ma anche quando la ditta e il marchio del prodotto hanno un diverso segno distintivo, la diffusione del segno distintivo della ditta agevola consistentemente la vendita del prodotto o dei servizi. Ad esempio la pubblicità “Rinascente” o “Standa” non riguarda un prodotto, ma il segno distintivo della società, la cui funzione è quella di richiamare i clienti ad effettuare gli acquisti nei punti vendita gestiti da dette catene distributive. Nel caso in oggetto, sarebbe privo di significato commerciale fare pubblicità al prodotti, che sono fabbricati da terzi, mentre ha una funzione economica fare pubblicità alla denominazione della catena distributiva, che coincide con la ragione sociale dell’impresa.” Vedasi A. Giovanardi, op. cit. Risoluzione Dir. Gen. Imp. Dir 05.11.1974, n. 2/1016 e Min. Fin. 17.06.1992 n. 9/2004. Risoluzione n. 137 dell’8 settembre 2000. Si veda anche Risoluzione n. 356/E del 14 novembre 2002. Anche nella Circ. n. 21/E del 22 aprile 2003, a proposito delle erogazioni a favore di società sportive dilettantistiche, non superiori all’importo di 200.000 euro, considerate spese di pubblicità per il soggetto erogante si precisa che “ i corrispettivi erogati devono essere destinati alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante.” Si veda da ultimo, in senso negativo, Cassazione sezione V Civile, sentenza n. 22790 del 28 ottobre 2009. Il tutto viene gestito con una “contabilità separata” (art. 144, comma 2 TUIR) rispetto a quella “complessiva” dell’ente non commerciale, in modo da distinguere il settore “istituzionale” e quello “commerciale”. Vedasi l’art. 74, comma 1, TUIR il quale recita “Gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i comuni, i consorzi tra enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demanio collettivo, le comunità montane, le province e le regioni non sono soggetti all’imposta.” Art. 4, comma 5 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ove si precisa “ancorché esercitate da enti pubblici”. Sulla assoggettabilità ad Iva delle attività di sponsorizzazione effettuate da un ente pubblico vedasi laRisoluzione Ministeriale n. 88/E dell’11 luglio 2005. Vedasi in proposito la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 11 luglio 2005 n. 88/E. Legge 24 dicembre 2007 n. 244. Le spese deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento sono commisurate all’ammontare dei ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa allo stesso periodo in misura pari: a) All1,3% dei ricavi e altri proventi fino a euro 10 milioni; b) allo 0,5% dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 10 milioni e fino a 50 milioni; c) allo 0,1 % dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 50 milioni.
Opportunità di comunicazione
Giovanna Maggioni Direttore Generale UPA-Utenti Pubblicità Associati, Milano
Ci sono stati tantissimi spunti interessanti nelle precedenti relazioni, anche se non siamo certamente di fronte ad un tema nuovo per le aziende. In questo senso concordo con quanto è stato detto prima sul concetto di innovazione, dove innovazione non rimanda in questo caso a nuovi mezzi, ma ad un modo diverso di utilizzare gli strumenti già a disposizione di chi investe in pubblicità. Da sempre sosteniamo che la comunicazione in senso lato - la pubblicità classica, la sponsorizzazione, le relazioni pubbliche - sono un investimento e non una spesa per le aziende. In Upa ci stiamo occupando della sponsorizzazione culturale dal 1985, anno in cui abbiamo svolto la prima ricerca in materia. I problemi principali, allora molto sentiti , riguardavano l’aspetto fiscale, perché all’epoca la normativa non risultava chiara e alle aziende poteva persino non tornare ‘utilÈ fare investimenti in quel campo. Se andiamo a trattare la sponsorizzazione culturale come un investimento in comunicazione, appare chiaro che la si deve considerare uno strumento che l’azienda ha per comunicare con il proprio consumatore, in un determinato modo e con meccanismi un po’ più complessi di quelli che sono tipici della pubblicità classica. Proprio perché più complessa, e per rispondere ad una provocazione, credo che sia molto difficile far nascere un’Audicultura o qualcosa di simile proprio perché qui abbiamo due fenomeni base che differenziano la sponsorizzazione culturale o la sponsorizzazione di beni culturali. Il primo è innanzitutto che mentre nella pubblicità classica esiste una ripetizione di certe azioni - può cambiare il messaggio pubblicitario ma resta stabile il modo di pianificarlo, il modo di definire quanti contatti otterrò, quanti GRP, tutte funzioni che ormai sono entrate nell’uso comune delle aziende - nel caso della sponsorizzazione la misurazione di un ritorno o addirittura l’aspettativa di una prevalutazione (quando devo definire che tipo di sponsorizzazione è congeniale con il mio bene, con il mio marchio,
con il mio prodotto) è sicuramente molto più complessa, è molto più complicata. Sicuramente si parte da un legame di sinergia, ma la quantificazione della sponsorizzazione e la sua misurazione hanno bisogno di una cultura di base diversa, non una semplice equazione numerica come siamo abituati negli altri mezzi. Quindi criteri standard ripetibili, soprattutto nel tempo, sono abbastanza difficili; ogni azienda ha una sua realtà nel momento in cui si appresta a sponsorizzare così come ogni soggetto - bene culturale o comunque bene da tutelare - ne ha altre. Le esperienze di altri o del passato spesso non trovano riscontro nell’attuale o nella realtà aziendale di altri. Sarà comunque molto interessante nella seconda parte del workshop sentire dalle aziende che utilizzano fortemente la sponsorizzazione culturale, che tipo di esperienze e risultati hanno ottenuto. Saranno delle case history sicuramente interessanti. Nel caso della sponsorizzazione culturale vorrei sottolineare che l’azienda fa un’assunzione di responsabilità da un lato nei confronti del cittadino, del consumatore e dall’altra mette sul tappeto la propria credibilità e la propria reputazione nello sponsorizzare l’evento o il bene culturale. Rossotto ci ha parlato delle problematiche relative al contratto di sponsorship culturale. Quello della contrattualistica è uno dei temi più intriganti nella comunicazione. Nel caso della sponsorizzazione e rispetto ai mezzi classici, che sono più standardizzabili e quindi più riconducibili entro binari ben precisi, è impresa ardua. Qui entra in gioco il concetto di ‘reputazione aziendale’ che va fortemente tutelato, per scongiurare il rischio di vedere danneggiato il valore del marchio dell’azienda. La parte contrattualistica deve diventare un elemento perfettamente integrato, con tutte le sue caratteristiche, nel marketing dell’azienda, proprio per le complessità di gestione tipiche di questi tipi di rapporti. Abbiamo condotto la prima ricerca dicevamo nel 1985, dalla quale risultavano valori bassi della
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sponsorizzazione come forma di mecenatismo, bassi, ma più alti di quelli, per esempio, che abbiamo successivamente riscontrato quando abbiamo ripetuto la stessa ricerca nel 2000. Proprio in quest’ultimo anno, quando alcuni aspetti più problematici, per esempio quello fiscale, erano già stati in parte superati, è chiaramente emerso l’utilizzo della sponsorizzazione da parte delle aziende, proprio come fattore di investimento. Alcuni dati: nel 2000 le aziende che hanno considerato l’investimento in sponsorizzazione come mecenatismo erano lo 0,5%, mentre nel 1985 questa voce si aggirava intorno al 7-8%. Dunque, in quindici anni c’è stato un discreto spostamento. Il 30% delle aziende considerava la sponsorizzazione culturale una pubblicità istituzionale, il 25% una comunicazione legata ai fenomeni distributivi, cioè con obiettivo di ritorno immediato di vendita, il 20% pubblicità di prodotto, il 12% relazioni pubbliche, in particolare con il territorio (altro tema interessante quello del valore della sponsorizzazione di un bene legandolo al territorio, e penso ai casi delle società di utility, quali l’energia, che tra l’altro hanno le più alte percentuali di investimento in quest’area); solo il 12% lo considerava invece nell’area, comunque interessante, del marketing sociale, quindi di rapporto sociale con il cittadino consumatore. Tali passaggi sono stati epocali per questa forma di comunicazione e sono convinta che se oggi facessimo un’altra ricerca, troveremmo dei valori ancora diversi. Giustamente prima qualcuno ricordava il ruolo di Internet nella sponsorizzazione solo come nuovo mezzo a sé. Credo invece che possa dare un grande
contributo all’azienda - creando un legame tra il bene che può essere conosciuto e il consumatore - e al bene culturale, attraverso un forte rapporto di comunicazione su Internet, dove l’azienda può legare il suo marchio sul territorio al prodotto, avere una maggior copertura di consumatore attraverso integrazioni con internet, dove si apre la possibilità per l’azienda di essere non solo riconosciuta, ma addirittura linkata al proprio sito e quindi a tutta una serie di costruzioni successive. Tutto ciò costituisce un ulteriore elemento di cui tener conto in una stesura di contrattualistica. Chiudo dicendo che uno dei punti sui quali molte aziende si sono trovate in difficoltà - anche perché l’investimento in comunicazione sotto forma di sponsorizzazione è sicuramente un progetto a medio lungo termine - è lo scontrarsi tra la burocrazia dello Stato, le regole di chi detiene le leve dei beni culturali e la dinamicità tipica dell’azienda, in continua evoluzione, continuo bisogno di marketing. Forse dalla crisi che si sta attraversando e dalla conseguente contrazione dei budget, può risultare un’opportunità, una migliorata e più efficiente capacità di marketing da parte dello stato nel rapporto con le aziende potenziali sostenitrici. Stato ed aziende devono dialogare e trovare un accordo per obiettivi comuni e con reciproca soddisfazione, laddove il sostegno e la valorizzazione di beni culturali, irrimediabilmente troppo onerosi nel loro complesso per una gestione unitaria da parte dello stato, possono diventare ambito biglietto da visita aziendale, prodigo di proficue e considerevoli ricadute.
Opportunità di comunicazione
Anna Martina Direttore Comunicazione e Promozione Città di Torino
Oggi mi annovero nella categoria dei ‘bisognosi’, ma ci sono stati tempi in cui ‘abitavo’ la categoria degli sponsor, in un’azienda di cui ho ancora un ricordo eccezionale, come tanti torinesi, il Gruppo Finanziario Tessile. Nel 1985 questa azienda scelse come linguaggio di comunicazione d’impresa, come linguaggio per costruire la sua reputazione, il linguaggio dell’arte contemporanea. Il tema del rapporto impresa e cultura, impresa e risorsa/evento culturale mi appassiona da tantissimo tempo e quindi ringrazio Lodovico Passerin d’Entrèves di aver organizzato questa giornata e ringrazio i relatori che mi hanno preceduto per gli stimoli alla riflessione. Ho trovato molto interessante l’intervento di Riccardo Rossotto, perché il tema del contratto obbliga noi, ‘bisognosi’, a rapportarci ad altre realtà e a altri linguaggi - soprattutto in un momento di tagli - e a crescere e far crescere la nostra cultura della richiesta e soprattutto la nostra cultura della relazione con le imprese. Concordo con la dottoressa Maggioni nel dire che il contratto di sponsorizzazione, come peraltro affermava anche Rossotto, non è un contratto standard, ma nasce da una relazione che si sviluppa da un confronto. Prima bisogna innamorarsi di un’idea, di un progetto, poi si può arrivare a stilare il contratto di matrimonio. Sul versante culturale bisogna innamorarsi di un’idea, di un progetto, bisogna entrare in una relazione particolare che nasce da un nuovo linguaggio condiviso. Nella vasta categoria dei bisognosi, sono soltanto il braccio destro dell’assessore Alfieri e devo ammettere che, tutti i giorni, l’assessore, la sottoscritta e i più stretti collaboratori occupiamo credo l’85% del nostro tempo a riflettere su come fare prima e su cercare poi le relazioni. Quello delle relazioni con le aziende potenziali finanziatrici è diventato un tema molto importante e quindi noi siamo qui anche e proprio per imparare a relazionarci con le imprese. Sicuramente la cultura ha rappresentato
per Torino una grande risorsa strategica. L’aver investito nella cultura ha reso la città più aperta e innovatrice, maggiormente in grado di affrontare le spinte dei cambiamenti: una metropoli europea riconosciuta anche all’estero,citata sulle maggiori testate per gli eventi che vi si organizzano e per il proprio patrimonio artistico di pregio. Si è creato un forte valore aggiunto per tutti, per chi lavora nelle imprese, per chi lavora in qualsiasi settore, non solo per chi opera nel settore dei beni culturali. Questo è un investimento che anche i politici oggi ci riconoscono, che è servito come volano per intraprendere una diversificazione economica, che non è solo nel turismo, ma ha favorito il fiorire di nuove iniziative imprenditoriali, legate anche al mondo giovanile. Noi avevamo commissionato una ricerca 1997-1998, curata dal Censis, su come compariva Torino sulle più importanti testate mondiali. La ricerca diede poi il risultato - che peraltro ci aspettavamo - che la città veniva citata essenzialmente in relazione alla Fiat - chiaramente di questo siamo orgogliosi - alla famiglia Agnelli e alla Juventus. Oggi la situazione è notevolmente cambiata e i motivi di soddisfazione sono sotto gli occhi di tutti. L’Assessorato alla Cultura del Comune ha sottomano un portfolio strepitoso di eventi, manifestazioni, mostre, musei, monumenti, rassegne musicali, dalla musica colta alla musica extra colta. Proprio in queste settimane è in corso il Torino Film Festival, su cui per esempio Intesa Sanpaolo è molto impegnata. Fra pochi giorni si inaugura un’altra importante rassegna cinematografica e cioè Sotto 18, dedicata ai giovani registi, provenienti da tutta Italia, che non hanno ancora raggiunto la maggiore età. Questo solo per citarvi le ultime due iniziative. Si sono appena concluse alcune importanti iniziative come Contemporary Art, Artissima e Luci d’Artista. Stiamo per affrontare, ve lo racconterò fra poco, un programma che spero vi coinvolgerà tutti visto che unanimemente sosteniamo che la cultura è un prestigioso canale di comunicazione per le aziende.
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Si tratta dei festeggiamenti e delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia che prevederanno numerosi eventi culturali. Desidero a questo punto raccontare un case history, breve ma significativo, del nostro rapporto di collaborazione con le Ferrovie dello Stato, un partner eccezionale. Le Ferrovie dello Stato non hanno a disposizione un budget, ma hanno un settore marketing assai efficiente. La Città di Torino ha proposta un’iniziativa come Luci d’Artista, rinomata ormai in tutto il mondo, un unicum, costituendo il più grande museo a cielo aperto del mondo, per un periodo temporalmente definito, che vede collocate le opere di artisti internazionali nelle vie cittadine. Tuttavia si tratta di un evento difficile da codificare, un evento culturale complesso da trattare in un contratto di sponsorship. Le Ferrovie a loro volta sono un veicolo di comunicazione interessante perché hanno le stazioni, luoghi con schermi atti a comunicare dei messaggi, hanno il treno, un altro eccellente mezzo di…comunicazione! Quindi abbiamo fatto con loro un accordo molto interessante, un contratto che ha regolato nei minimi termini la relazione tra Ferrovie dello Stato e Comune di Torino per Luci d’Artista. Desidero ora che vediate lo spot pubblicitario, brevissimo, soli trenta secondi, che abbiamo realizzato insieme e che sta girando nelle stazioni di Milano (dove gira anche nei cinema), Bologna, Genova, Venezia, Firenze e Roma. Un esempio interessante di ‘economia del baratto’. Tutto questo do ut des è contrattualizzato e quantificato, non vi tedio con i dettagli, con reciproca soddisfazione. L’Assessorato alla Cultura della
Città, se si ha la pazienza e la voglia di frequentarlo e si prova il desiderio avviare una relazione, può offrire eventi ormai di caratura molto elevata, come MiTo, fino a rassegne di nicchia. Non offriamo alle aziende soltanto la possibilità, già di per sé gratificante, di legare il proprio nome o marchio ad un evento, ma siamo disponibili a studiare un rapporto personalizzato che, con il dialogo, ci consenta di rispondere a tutte le esigenze di un potenziale ‘mecenate’. Voglio chiudere presentando un altro breve filmato, dura due minuti, un affresco di quello che sarà il grande appuntamento del 2011, Esperienza Italia. Questo è il nome che abbiamo dato alle manifestazioni che si terranno a Torino; sono eventi culturali di ampio respiro, che abbracciano tanti tipi di cultura diversa, di valore assolutamente nazionale ed interesse internazionale. Le manifestazioni di Torino sono state riconosciute come il punto focale delle celebrazioni per i 150 anni, anche perché nessun’altra città ha messo in piedi, né lo farà, un programma così ampio, approfondito e di lunga durata. È un programma che tocca argomenti diversi e che parla dell’Italia, non solo agli Italiani ma, come sostiene il comitato organizzatore, agli Italici, che sono circa 150 milioni, che vivono in tutto il mondo e che noi vorremmo invitare a Torino. A dire il vero, 150 milioni di persone sono troppe per la nostra capacità ricettiva! Ci accontenteremo di qualche milione, 5 o 6 sarebbero ideali! Grazie per la vostra attenzione e, nell’attesa di incontrarvi per ragionare insieme sulle sue opportunità, vi lascio alla visione di questa breve carrellata su Esperienza Italia.
Opportunità di comunicazione
Eugenio Bona Presidente e Amministratore Delegato Media Italia, Gruppo Armando Testa
Conosco Riccardo Rossotto da un sacco di tempo, lui ha fatto il giornalista sportivo quand’era un ragazzino poi è diventato un giurista; quando diventerà grande farà il pubblicitario perché praticamente ha detto in sintesi molte delle cose che volevo dire io. Dunque, facciamo un po’ di chiarezza su quanto si investe in pubblicità. Utilizzerò un’indagine “Il futuro della sponsorizzazione”, un’indagine fatta da un istituto che si chiama Stage Up in collaborazione con l’istituto di ricerca Ipsos; è molto interessante, credo che sia, come confermava Dino Berardi che è stato uno degli intervistati, sostanzialmente la ricerca più accreditata che c’è sul mercato delle sponsorizzazioni, a parte le ricerche che ha fatto l’UPA, naturalmente in Italia. Per quanto riguarda le dimensioni del mercato si è arrivati a 1,8 miliardi di euro investiti in sponsorizzazione con un trend costante di aumento. Il 2009 è l’anno di crisi, quindi si assiste ad un calo intorno all’8%. Tanto per fare un paragone con quello che si investe in pubblicità, quindi sui mezzi classici di cui la dottoressa Maggioni ha parlato diffusamente, anche qui i dati non convergono mai, comunque si può dire che nel 2008 il mercato della pubblicità valeva circa 8,5 miliardi di euro. Quindi, tanto per dare la dimensione del mercato, in sponsorizzazioni si investe circa un 20% rispetto a quello che si investe in pubblicità. In compenso il mercato della pubblicità nel 2009 cala di più. Le sponsorizzazioni caleranno di un 8%, mentre si prevede che il mercato della pubblicità dovrebbe calare intorno al 15%. È stato un inizio d’anno terribile e poi si sta recuperando un po’ nel secondo semestre. Un altro dato sul mercato invece delle sponsorizzazioni: vedete come lo sport sostanzialmente copra circa più del 60% del totale degli investimenti però si è assestato, è solido quindi vedete che non c’è una grande differenza tra un anno e l’altro, mentre invece i settori più piccoli sia della cultura e dello spettacolo, che delle attività sociali e solidarietà hanno una dinamica
leggermente superiore. Vediamo dopo aver inquadrato un attimo il mercato sul piano degli investimenti parliamo del target cioè chi sono le persone che si interessano di queste cose e a cui alla fine le aziende si rivolgono. Questa è una tavola sinottica - lavoriamo normalmente utilizzando l’indagine di Eurisko - e ci serve per segmentare i target, per pianificare al meglio. Qui vedete una tavola a matrice: sulla sinistra ci sono le varie attività in cui il mercato delle sponsorizzazioni si può definire, cioè le persone che vanno a teatro sono circa 4.7 milioni di adulti, questa indagine è molto fresca perché il periodo di interviste è fra il novembre 2008 e il maggio 2009 quindi è molto, molto aggiornata e viene aggiornata di continuo. Poi quelli che frequentano le conferenze sono 5.7 milioni, i musei e le mostre 5.3 milioni, monumenti e chiese 8.8 milioni, festival culturali 2 milioni, week end in una città d’arte italiana 3.5 milioni, concerti di musica classica 1.1 milione. In totale, ovviamente c’è molta sovrapposizione fra le varie attività, in totale sono 16 milioni di italiani cioè il 33% circa della popolazione. Tutti questi quadratini bianchi azzurri e blu sono gli indici di affinità cioè l’indice di affinità indica il rapporto fra la penetrazione sul singolo segmento per esempio l’età dei 14-24 sul totale della popolazione cioè un indice di 200 per esempio significa una penetrazione doppia rispetto alla popolazione; più elevata è l’affinità, cioè più è scuro il blu, più l’evento è attrattivo per un determinato segmento di target. Tra l’altro mi riallaccio a un intervento precedente che parlava dell’attrattività delle vacanze culturali per dirvi che sempre da Eurisko viene un dato molto interessante: gli Italiani che dichiarano “preferisco le vacanze culturali” sono 22 milioni quasi di individui, cioè il 44% dei 49 milioni di adulti in Italia. Un dato veramente in sviluppo, dal quale desumiamo che la cultura attrae. Vedete come un terzo degli italiani partecipa regolarmente agli eventi culturali. Sono adulti di età giovane, vedete quanti blu ci sono nel-
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le classi 14-24, 25-34 fino ai 54 anni e di reddito elevato cioè il reddito è una segmentazione ancora più significativa dell’età quindi reddito medio alto e soprattutto alto. È un segmento appetibile, ma che talvolta è difficile da raggiungere con le strategie tradizionali, che reggono le scelte di pianificazione dei media classici. Vediamo un’altra mappa in cui abbiamo identificato e abbiamo cercato di sintetizzare tutti questi quadratini bianchi e blu definendo, vedete in rosso, un target di adulti 14-54 anni quindi le classi centrali, con un reddito elevato. Sono circa 3 milioni di persone. Allora, se consideriamo questo target come quello più affine e più ricettivo alle sponsorizzazioni culturali, cominciamo a vedere come questo target è esposto ai singoli mezzi: sull’asse delle ordinate risulta che tutti guardano la televisione, che quindi ha quasi il 100% di penetrazione; sull’asse delle ascisse c’è l’affinità; la televisione appare assolutamente indifferente, perché è vista dappertutto senza particolari problemi, mentre Internet, il cinema e anche la TV satellitare hanno una spiccata affinità su questo target, che è quello che a noi interessa di più. Poi c’è l’affissione, i periodici, i quotidiani, le radio commerciali eccetera. Dove si posizioneranno gli eventi culturali? Abbiamo fatto uno studio proprio sull’Eurisko - forse per me è la prima volta che confesso di fare uno studio del genere - ed ecco il dato che viene fuori: gli eventi culturali sono in una posizione estremamente interessante per questo tipo di target. È una buona penetrazione, addirittura un 50% e un’affinità di 150. Viene quasi da dire: “Caspita però è un media, è veramente un media” come diceva la dottoressa Maggioni. Ciò premesso, vediamo come viene utilizzata attualmente la sponsorizzazione. Finora le imprese che hanno adottato le sponsorizzazioni nei beni culturali perlomeno in Italia, l’hanno fatto in larga parte in maniera tattica, in maniera occasionale. Ci sono sempre le eccezioni, probabilmente in sala dopo il mio intervento ci saranno proprio queste eccezioni. Invece è necessario che la sponsorizzazione sia considerata un elemento costitutivo del mix di mezzi che si usano per comunicare. Praticamente questa tavola è una dimostrazione del fatto che c’è un cambiamento, che è necessario e che è in atto: cioè da un magnifico lusso per pochi imprenditori illuminati, i famosi mecenati, la sponsorizzazione
deve diventare, e in parte sta già diventando, un asset strategico per l’impresa. Da strumento in grado di produrre un effimero ritorno di immagine, deve diventare una vera e propria risorsa competitiva in grado di costruire un’identità forte e riconoscibile, di qualificare le relazioni all’interno e all’esterno dell’impresa e di produrre benefici per il territorio e la collettività. Un altro modo di considerare il problema è analizzare il ruolo del consumatore. Oggi il consumatore in tutte le dinamiche di comunicazione è diventato il centro, il fulcro per le imprese, per le agenzie, per tutti quanti. Al centro di tutto c’è il consumatore, che è in forte evoluzione. Non sta fermo e sempre di più si sta evolvendo al passo con le nuove tecnologie, Internet, le piattaforme sociali e anche con una diffusa sensibilità alle problematiche legate all’ambiente da un lato, e alla responsabilità sociale dall’altro, responsabilità sociale che il consumatore tende poi ad attribuire ovviamente a chi dispone di grandi risorse, agli stati, i governi, ma anche le aziende di diverse dimensioni, grandi aziende e piccole. Ciascuno può localizzare le proprie iniziative anche in relazione per esempio al territorio dove sta, lo abbiamo sentito anche prima, cioè, ci si attende responsabilità sia nei confronti di chi è socialmente svantaggiato, ma anche nei confronti del territorio. Quindi bisogna trovare innanzitutto dei nuovi modi di relazionarsi con il proprio target di consumatori. I target dei consumatori si stanno differenziando molto, come pure i mass media e la televisione stessa. Avete vissuto tutti il fenomeno della TV digitale dove improvvisamente si vedono 230 canali, perlomeno a Torino perché in Valle d’Aosta se ne vedono solo 6, però c’è tutta una grande massa di novità che stanno arrivando poi c’è Internet, ci sono tantissime diversificazioni e forme di comunicazione nuove. Da questo punto di vista è un mondo molto interessante quello che stiamo vivendo adesso e quindi ognuno si ritaglia il proprio palinsesto, ognuno di noi lo fa in base alle proprie attenzioni, in base alle proprie preferenze. Il fatto di entrare in relazione con un consumatore che si sta differenziando è fondamentale. Abbiamo visto che questi famosi 2.9/3 milioni di persone sono molto sensibili, per esempio, alle sponsorizzazioni culturali e quindi c’è già terreno sufficiente per cercare di fare del-
le cose ad hoc, mirate. Un altro fenomeno per cui la sponsorizzazione serve è la reputazione, è stato detto prima, cioè la capacità di trasferire valori positivi e tangibili sull’azienda e sul brand che, in senso generale come diceva Rossotto, è il patrimonio fondamentale dell’azienda, anche dal punto di vista economico. Ultima cosa, la sponsorizzazione soprattutto quando si inserisce in un evento, può avere una grandissima visibilità mediatica quindi capacità di attrarre l’attenzione, sfruttando anche il ritorno redazionale dell’evento. Per concludere un concetto estremamente importante, già sottolineato dalla dottoressa Maggioni : fra l’azienda sponsor e l’iniziativa sponsorizzata, tra lo sponsor e lo sponsee ci deve essere un’estrema coerenza. Ho individuato tale coerenza in tre aree, innanzitutto una coerenza di immagine, di valori. La sponsorizzazione, l’evento, il soggetto sponsorizzato deve essere coerente con i valori che l’azienda vuole trasmettere perché giustamente l’azienda deve avere dei ritorni. Una seconda coerenza è quella di target. Si pensi, a titolo di esempio, a Tim e a tutto quello che fa con il calcio, si è impadronita del calcio: un’azione estremamente coerente perché il suo target è un mondo di giovani, quindi di sportivi dinamici. La terza più che coerenza è la sintesi di quello che si dovrebbe fare: si deve perseguire una fortissima integrazione e sinergia con la campagna di comunicazione sui mezzi classici, perché è rarissimo che ci possano essere azioni di sponsorizzazione non correlate ad una campagna di comunicazione, che serve a duplicare e a maggiorare l’efficacia della sponsorizzazione stessa. L’ultima tavola prima di passare a qualche esempio estero, sempre dalla stessa ricerca. Si tratta di una specie di schema, una sorta di evoluzione storica di sviluppo di modelli che stanno diventando sempre più complessi. Da un lato c’è la sponsorizzazione che presenta un basso rischio - la formula più comune, tradizionale e conosciuta, con un basso tasso di coinvolgimento dello sponsor, proprio perché non sempre c’è la partecipazione diretta fra sponsor e sponsorizzato - dall’altro ci sono i contro, principalmente che il soggetto culturale non parla dell’azienda e si presenta la necessità di un piano di comunicazione ad hoc per creare il collegamento che nella sponsorizzazione in sé non è evidente. Soprattutto all’estero ormai in taluni
casi, ve ne illustro due, c’è una vera definizione di partnership, cioè una relazione stabile e reciproca tra l’impresa e il soggetto culturale. Quindi i pro sono la massima valorizzazione delle relazioni con massima disponibilità e creatività da entrambi i soggetti, contro c’è la difficoltà, l’abbiamo visto ultimamente, a dialogare con le istituzioni culturali italiane, cioè, un fatto di cultura, un fatto di mentalità. E poi c’è un modello tipicamente italiano in particolare e all’inizio ne parlava Lodovico Passerin d’Entrèves, cioè le collezioni aziendali, i musei, gli archivi di impresa. Qui è l’azienda fine a se stessa che è l’ideatore, il finanziatore e l’esecutore materiale. Quindi i pro sono che c’è un’integrazione massima con le strategie aziendali, uno stretto legame tra il brand o l’azienda e il progetto, però il contro è il rischio più elevato. Se qualcosa va storto viene attribuito immediatamente all’azienda e ci può essere anche un outsourcing di competenza nel senso che magari all’interno dell’azienda non c’è nessuno delegato o cresciuto o addestrato per queste cose e quindi bisogna andare a cercare risorse dall’esterno. Adesso mostrerò degli esempi di annunci stampa tutti esteri, così non entriamo in competizione con l’Italia. Il primo è un annuncio di Target, che è una catena tipo Standa che offre, gratis in questo caso, l’entrata il giovedì sera all’Art Institute of Chicago. Poi The Newyorker, che è una testata americana di cultura, che organizza in questo caso il proprio festival e ha come co-sponsor Westin, una catena di hotel e di resort, e Banana Republic, una catena di abbigliamento. Ci sono poi due esempi di aziende petrolifere: la British Petroleum, che sponsorizza in un caso balletti e nell’altro opera e la Petro Brass con un’iniziativa continuativa per incentivare la fruizione e la comprensione dell’arte. Poi ci sono due esempi bellissimi, soprattutto il primo mi piace tantissimo ed è di una Cassa di Risparmio tedesca che è impegnata nello scoprire e nell’aiutare talenti musicali. C’è un ragazzino che chiede: “Chi è la mia star preferita?” “Ma io naturalmente”. Quest’azienda si lega a questo mondo, posizionandosi in una maniera molto precisa. L’altro esempio è di nuovo una cosa che si può ricollegare al concetto di partnership anche se meno particolare, meno brillante: la HSBC, che è una banca che ogni anno aiuta giovani fotografi. In conclusione, vi faccio vedere uno
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spot della TEXACO, la quale aiuta a sviluppare il senso dell’arte nei bambini. Concludo rubando una citazione a questa famosa indagine. John Fitzgerald Kennedy diceva che la parola crisi in cinese è composta da due crittogrammi: uno vuol dire pericolo e l’altro significa opportunità. Proprio perché le sponsorizzazioni
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hanno una visibilità a medio e lungo termine - non sono immediate come una campagna pubblicitaria, che dura magari solo due settimane - oggi, che è un momento di crisi, si possono comprare a un prezzo basso, perché questa è la legge del mercato: se uno investe adesso, può avere dei vantaggi nell’armadietto futuro.
per
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Sponsorship culturale: un’opportunità di comunicazione. 157
Lo sponsoring: Le dimensioni del mercato. Le dimensioni del mercato
Mio EUR
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1.735 1.671
1.651
1.640
1.627 1.585
Il mercato dello sponsoring è stato in costante crescita fino al 2008. Nel 2008 sono stati spesi 1.795 milioni di Euro in sponsorizzazioni – al netto degli investimenti a supporto (media, promozione).
- 4% 2002
2003
+ 2.6% + 2.7% 2004
2005
+ 3.8% + 2.1% + 1.5% 2006
2007
2008
-8.6% Previsione 2009 2009
Per il 2009 si prevede una caduta: si ritornerà ai valori del 2004.
In Italia il rapporto tra investimenti nei media classici e sponsorizzazione si attesta attorno al livello 1:5. 2
Gli investimenti nei diversi comparti. 2007
2008 Mio EUR
Sport
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Cultura e spettacolo
404
389
+3.8%
258
254
+1.3%
1.133
1.128
+0.4%
Utilità sociale e solidarietà
Le sponsorizzazioni di eventi culturali e di utilità sociale rappresentano la voce minore, ma dotata di maggiore dinamicità.
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Mappa di Sinottica – profilo sociodemografico.
Eventi Culturali: un target di elevato profilo. Indice di affinità Partecipazione nei 3 mesi
Un terzo degli Italiani partecipa regolarmente ad eventi culturali. Sono adulti di età giovane e centrale, di reddito elevato: un segmento appetibile ma talvolta difficile da raggiungere con strategie tradizionali. 4
Fonte Eurisko Sinottica 09 B, Base Adulti >14; entità Mio 49,1.
Mappa di Sinottica – Esposizione ai mezzi. Gli Eventi Culturali: elevata penetrazione e affinità. Target Adulti 14 – 54 anni, reddito elevato 2,9 mio
Eventi Culturali
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Fonte Eurisko Sinottica 09 B, Base Adulti >14; entità Mio 49,1.
Il Cambiamento Da “magnifico lusso” per pochi imprenditori illuminati …
Da strumento in grado di produrre effimero ritorno d’immagine …
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… ad asset strategico per l’impresa
… a vera e propria risorsa competitiva in grado di costruire un’identità forte e riconoscibile, di qualificare le relazioni all’interno e all’esterno dell’impresa, di produrre benefici per il territorio e la collettività.
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Il valore della sponsorizzazione culturale per l’impresa RELAZIONALITA’. In crescita l’interesse per gli strumenti one-to-one, quali i progetti sociali e gli eventi di culturali sul territorio.
CONSUMATORE
REPUTATION Capacità di trasferire valori positivi ed intangibili sul Brand, in un contesto di maggiore attenzione dei consumatori alla responsabilità sociale di Impresa.
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VISIBILITÀ MEDIATICA Capacità di attrarre l’attenzione in maniera integrata, sfruttando anche il ritorno redazionale sull’evento.
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Coerenza d’immagine e di valori
Integrazione e sinergia con la campagna di comunicazione sui mezzi classici
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Fattori Critici di Successo
Coerenza di target
I modelli di Sponsorizzazione Culturale Evoluzione storica e sviluppo di modelli complessi. Sponsorizzazione Formula più comune, tradizionale e conosciuta. • Basso tasso di coinvolgimento dello sponsor. •PROS •Basso rischio •CONS •il soggetto culturale non parla dell’azienda •Necessità di un piano di comunicazione ad hoc
Partnership Modello di tipo Anglosassone: relazione stabile e reciproca tra impresa e soggetto culturale. •PROS •Massima valorizzazione della relazione, con massima disponibilità e creatività da entrambi i soggetti. •CONS •Difficoltà a dialogare con le istituzioni culturali Italiane (diversi linguaggi, tempi, vincoli).
Produzione di progetti Modello tipicamente Italiano, in particolare le Collezioni aziendali, i Musei e gli Archivi d’Impresa. L’azienda è ideatore, finanziatore e anche esecutore materiale. •PROS •Integrazione con le strategie aziendali. •Stretto legame tra Brand/azienda e progetto. •CONS •Rischio più elevato. •Outsourcing di competenze. .
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Esperienze
Elena Vassilika Direttrice Museo Egizio di Torino
Parlerò a braccio, poiché non era previsto un mio intervento. Come sapete il Museo Egizio è il primo museo statale in Italia ad essere privatizzato. Il passaggio non è stato affatto facile e ritengo che essere straniera abbia aggiunto difficoltà, perché ha reso più difficile fare accettare i cambiamenti su una realtà italiana consolidata e molto nota. Per me era la seconda esperienza di questo genere dopo aver gestito in Germania una privatizzazione analoga, la trasformazione di un museo statale in società per azioni. In queste situazioni, i problemi sono sempre gli stessi: mancanza di fondi, riorganizzazione di personale scarsamente motivato, burocrazia, ecc. Sono arrivata a Torino poco prima delle Olimpiadi e ho individuato alcuni problemi molto evidenti: per provare a risolverli, mi sono messa al posto dei visitatori, per comprendere cosa si aspettano e cosa desiderano quando decidono di visitare un museo come il nostro. La risposta era semplice: naturalmente i capolavori sono al centro delle aspettative, ma anche basilari servizi al pubblico come le sedute per una sosta durante il percorso, le toilettes, un fasciatoio per neonati, ecc. Nel nostro museo abbiamo quattro servizi igienici e in alcuni giorni 10.000 visitatori… questo è un problema banale dal punto di vista culturale, ma è un problema reale per il pubblico! Prima delle Olimpiadi, per esempio, mancavano le pedane per l’accesso dei disabili, il sito web, un’attività di pulizia adeguata, punti di sosta. Il cortile, anziché essere uno spazio fruibile dal pubblico, era un parcheggio riservato al personale del museo. Riuscire a cambiare questa mentalità è stato il risultato di una grande battaglia: è stato necessario far capire che tutto lo staff è al museo per servire il pubblico, non viceversa. L’altro grande problema è stato l’accessibilità: non solamente l’accesso fisico, ma anche intellettuale alle collezioni, le modalità di fruizione del patrimonio custodito dal museo. Si è trattato di pensare all’accessibilità a tutti i livelli: bambini, ragazzi, anziani e studiosi,
anche con abilità differenti. Questo è stato tradotto in nuove didascalie bi-lingue (fino a quel momento inesistenti), informazioni generali di orientamento e buona qualità dei servizi museali. Purtroppo attualmente non abbiamo uno spazio espositivo per mostre temporanee, inoltre, l’attuale contratto di servizio prevede (come per tutti i musei statali) la gratuità di ingresso sotto i 18 anni e gli over 65. Il risultato è che più del 50% dei nostri visitatori non paga. Era quindi necessario sviluppare anche un’attività remunerativa che rispondesse alle richieste del pubblico: così è stata ripensata e sviluppata una nuova offerta didattica, molto ampia e articolata. In questo modo è diventato possibile guadagnare senza aumentare il prezzo d’ingresso e rispettando il contratto di servizio. Nuove proposte e nuove regole hanno arginato il problema dell’attività didattica abusiva, che determinava anche un significativo danno economico. Abbiamo un buon prodotto, diamo un servizio didattico che funziona molto bene: oggi vantiamo 80 gruppi di scolaresche al giorno e abbiamo raggiunto più di 500 mila visitatori all’anno. Il primo anno tutti sostenevano che i buoni risultati dipendessero dalle Olimpiadi. Il secondo anno che avremmo goduto ancora dell’effetto olimpico…Tuttavia abbiamo mantenuto la cifra e per il terzo anno consecutivo siamo in crescita, mentre tanti musei in altre città hanno perso visitatori. Il nostro core-business sono le scolaresche e questo tipo di visitatori, fortunatamente, non conosce crisi. Provo a toccare tutti i punti trattati dai relatori che mi hanno preceduta. Io gestisco il budget e questo mi motiva a trovare modi sempre nuovi di raggiungere i nostri obiettivi. Una percentuale del budget è destinata al marketing del museo. Il budget adesso è di 2.8 milioni di euro, e non è molto differente da quando il museo dipendeva dalla Soprintendenza; allora era di 2.5 milioni euro. Abbiamo organizzato una mostra in Giappone e naturalmente non avrei fatto questo lavoro senza una motivazione molto forte per la fondazione.
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Gli sponsor di questa mostra sono realtà giapponesi con altissimo impatto mediatico: hanno fatto una grande promozione al Museo Egizio e alla Città di Torino. Ho avuto un’esperienza analoga in Germania, a Hildesheim: nessuno sa dov’è naturalmente, ma i giapponesi hanno fatto vedere in televisione a 20 milioni di persone questa città e adesso si vedono turisti giapponesi a Hildesheim, a 30 km a sud di Hannover. Non desidero che i risultati del mio lavoro siano misurati solo dal numero di visitatori, perché sono convinta che il mio lavoro abbia un altro spessore. Tuttavia i numeri aggiungono credibilità. Nel 2008 abbiamo avuto una crescita dell’attività didattica del 136%. Abbiamo sviluppato un prodotto molto serio ed anche alcuni eventi teatrali per i bambini di sei anni. Questo mi ha portato anche le critiche di alcuni egittologi, ma chissà cosa sarebbe successo se avessi fatto ciò che fanno in altri paesi, ad esempio al British Museum o al Metropolitan Museum, dove sono organizzati eventi in cui i bambini si fermano a dormire nelle sale dove sono conservate le mummie! Al bookshop, l’anno scorso, con una nuova offerta di prodotti, abbiamo avuto una crescita degli incassi del 143%. Per ciò che riguarda le sponsorizzazioni, abbiamo fatto e stiamo portando avanti dei tentativi e dei contatti, ovviamente non nella misura in cui agiscono i musei americani. Altri musei – come ad esempio il Louvre – hanno staff di 80 persone dedicate solo al development e al fund raising per il museo. Ho lavorato al Brooklyn Museum per tre anni, 10 anni al Fitzwilliam Museum di Cambridge, in Inghilterra e cinque anni in Germania; prima di arrivare a Torino quattro anni fa, a Hildesheim cambiavamo il Development Officer ogni tre anni per consentire un turnover adeguato allo stress!. È sempre molto
problematico trovare sponsorizzazioni: ricordo il mio primo successo al Fitzwilliam Museum: trovai 250 mila sterline da un unico finanziatore, ma poiché il costo dell’intervento che volevo fare era 275 mila sterline, l’Università disse: “Non puoi accettare i 250 mila perché non troviamo noi gli altri soldi mancanti”. Anche se non ero io a ricoprire il ruolo di development officer, dovetti quindi trovare le altre 25 mila, per poter accettare le prime 250 mila. Nel mio lavoro uso come punto di partenza le linee guida di ICOM (International Council of Museums) e anche la Museum Association che è un riferimento per i musei americani e inglesi: questi problemi vengono affrontati da tanti anni. Naturalmente deve esserci un vantaggio fiscale per i privati che decidono di sostenere una istituzione culturale. Noi stiamo valutando una possibile American Friends per il Museo Egizio, perché ci sono richieste di persone che desiderano godere di visite riservate e sono disposte a pagare per questo privilegio, che tuttavia in Italia non è incentivato. Secondo la mia esperienza, un contratto di sponsorship non deve coprire voci del budget ordinario, ma deve essere finalizzato ad uno spazio nuovo, alla realizzazione di una nuova sala o di una mostra. Noi abbiamo accolto nel Museo Egizio un gruppo di soci sostenitori - Gli Scarabei - che pagano ciascuno una quota di 500 euro all’anno e il loro statuto prevede che il denaro raccolto venga destinato ad attività di restauro, creando una specie di casa di cura per i reperti. È stato definito e implementato un programma di interventi di conservazione e restauro su moltissimi reperti e gli interventi che realizziamo sono di grande valore per il futuro del nostro Museo Egizio.
Esperienze
Marco Magnifico Vice Presidente Esecutivo FAI - Fondo Ambiente Italiano
In questa sala mi sembra che tutti la pensiamo allo stesso modo: siamo tutti convinti che la sponsorizzazione culturale sia una realtà, sicuramente positiva, percepita da tutti come efficiente e vera. Vorrei fare due riflessioni, dalle quali alla fine trarremo una conclusione. La prima riflessione che porto alla vostra attenzione è che il Fai senza l’aiuto e il sostegno delle imprese in questi primi trent’anni di vita, semplicemente non esisterebbe. La Fondazione oggi possiede e gestisce 43 beni, di cui 5 in sola gestione e 38 di proprietà; di questi 38, 17 sono quelli di maggior rilievo, poiché i 38 comprendono anche un’edicola per i giornali neogotica a Mantova, una bottega di barbiere di 15 mq art decò stupenda a Genova e altre proprietà, diciamo, ‘minori’. Fra quelli in gestione, per esempio, annoveriamo la titanica Villa Gregoriana di Tivoli; titanica perché è un lavoro mostruoso mantenerla e appartiene allo Stato. In questi trent’anni, il Fai ha investito 56 milioni di euro nei restauri di questi 43 beni. È una cifra che appare enorme; tuttavia se si pensa che il restauro del solo forte di Bard è costato 58 milioni di euro, la cifra di 56 per 43 beni appare financo modesta. Va detto che il Forte di Bard era in condizioni rovinose e la Regione Valle d’Aosta ha fatto un lavoro meraviglioso, però noi da privati ci siamo sempre considerati dei veri poveri e cerchiamo di centellinare le risorse di cui disponiamo, con un’attenzione tipica dei veri poveri. Del budget di 56 milioni, circa 5/7 milioni sono stati dati dallo Stato e dagli enti pubblici, 16 circa sono stati attinti dal patrimonio della fondazione, patrimonio che abbiamo drenato, ma che continuiamo ad integrare con eredità e donazioni, che per fortuna continuano ad arrivare e vanno a patrimonio; i 30/35 restanti milioni di euro sono stati elargiti da imprese e fondazioni bancarie. Circa il 63% di quello che abbiamo speso viene dalle imprese; quindi il Fai non ci sarebbe se non ci fossero le imprese! Questo per ciò che riguarda i restauri; poi vi sono tutte le attività che la Fondazione porta avanti, attività più
propriamente culturali, di notorietà e di diffusione della cultura. Anche queste naturalmente vivono ed esistono perché esistono le imprese che le sostengono. Penso alle grandi iniziative nazionali come la Giornata Fai di Primavera, che da sempre è finanziata da Wind, a I luoghi del cuore, un sondaggio - il cui partner storico è Intesa Sanpaolo - per cui noi chiediamo ogni due anni agli italiani qual è il luogo che non si vorrebbe mai vedere distrutto. Solitamente ci scrivono 200.000 persone e sono stati salvati numerosi di questi luoghi del cuore. Altra iniziativa è Allariscossa che abbiamo inventato l’anno scorso con Telecom. Si tratta di un grande evento di due giorni, una specie di caccia al tesoro che dura una notte e due giorni, dedicata soprattutto ai giovani, che l’anno scorso a Milano ha avuto un successo stupefacente e che quest’anno porteremo anche a Perugia e a Palermo, per far scoprire ai giovani che può essere molto divertente conoscere il proprio patrimonio artistico e culturale. Poi, tra le importanti iniziative Fai, ci sono i grandi concerti, che abbiamo sempre organizzato per raccogliere fondi, con la collaborazione di Eni, Enel e Pirelli. Tutte queste attività - lo ripeto - non ci sarebbero se non ci fossero le imprese. Le imprese sono dunque fondamentali, ma fondamentali sono anche i privati perché ovviamente il Fai non esisterebbe se non ci fossero i nostri 85 mila iscritti, 85 mila x 39 euro fa una certa cifra e dai privati ci vengono in più le donazioni, le eredità e i legati; quindi, se non ci fossero i privati, certamente noi non ci saremmo oppure saremmo molto più piccoli e forse non avrebbe senso che ci fossimo. E poi naturalmente c’è il sostegno degli enti pubblici, anche se devo dire che il Fai è nato per porsi di fianco, per dare una mano all’ente pubblico non per chiedergli aiuto. Naturalmente ogni sostegno è il benvenuto. Spesso mi si chiede: “Quanto vi dà all’anno istituzionalmente lo stato?” Su 13 milioni di euro, lo stato ce ne dà 150 mila l’anno, quindi una cifra contenuta. L’equilibrio
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dunque fra sostegno delle imprese, sostegno dei privati e contributo degli enti pubblici è il segreto di Pulcinella di questa nostra attività, ciò che ci consente di avanzare, spesso di arrancare, ma comunque di fare quello che il nostro statuto ci chiede. Questa condivisione - e forse questa è una prima conclusione a cui desidero arrivare - questo mix imprese/privati/enti pubblici è il meccanismo che può realizzare e sostenere un’iniziativa culturale. Vi porto un altro esempio, proprio per essere precisi. Abbiamo restaurato e aperto al pubblico l’anno scorso a Milano, Villa Necchi Campiglio, una casa straordinaria, il cui restauro è costato in tutto 8 milioni di euro. 6.5 milioni sono stati raccolti e circa 1.5 milione lo ha messo il Fai. Dei 6.5 raccolti, le imprese - Telecom, Rcs, Fondazione Cariplo e Giorgio Armani – ne hanno dati 2; gli enti pubblici il 20%, così suddiviso: Regione 500 mila euro, Provincia 300 mila e Gioco del Lotto, quindi lo Stato, 500 mila. Arcus, una società mista Ministero dei Trasporti e Ministero dei Beni Culturali, ha messo due milioni di euro, quindi il 34%. Poi i privati il 16%, 1.1 milione , 800 mila euro di adozione di persone che hanno idealmente comperato una stanza e poi donazioni varie, grosse e piccole e in più sponsorizzazioni tecniche; chi fa cucine ha regalato le cucine, Rubelli ha regalato le stoffe, Disano ha regalato le luci, eccetera. Considerando Arcus una società, ecco ancora il 60% delle imprese, il 16% i privati e il 20% gli enti pubblici. Qui propongo una seconda riflessione, che nasce da un fatto culturale. Il nostro paese ha alle spalle due millenni di dominazione culturale della chiesa e questo ha fatto sì che negli italiani ci sia la percezione che si faccia del bene quando ci si occupa del sociale, soprattutto quando si fanno dei gesti di liberalità indirizzati agli indigenti, ai malati, agli oppressi. Niente di più vero, sarebbe criminale chi osasse negarlo. Il fatto è che questo atteggiamento naturalmente si è riverberato un pochino anche sulle aziende, dove la solidarietà viene individuata soprattutto nel settore sociale. Il che va benissimo. Si dovrebbe tuttavia a
mio parere fare nostra la mentalità del mondo anglosassone, che culturalmente contempla nella solidarietà sociale anche la gestione, la conoscenza e il mantenimento del patrimonio culturale, così importante identitariamente per una nazione. Il lavoro che si è fatto insieme - bisognosi come noi, imprese e privati - è moltissimo e sarà ancora più facile quando in Italia sarà maturata socialmente e nel singolo individuo, la netta percezione che sostenere il patrimonio culturale e paesaggistico della nazione sia un obbligo sociale per ogni italiano. Ci sarà allora una diversa e maggiore attenzione, un più grande desiderio delle aziende e dei cittadini di collaborare alla conservazione e alla valorizzazione della cultura. Vorrei leggervi, per chiudere, una descrizione del nostro paese, data dal National Geographic nel 1955, presentando un numero monografico sull’Italia: “Young nation in an old land, known to the ancients as Italia, centuries before a country bore the name, Italy stands as a cornerstone of Western history. Julius Caesar, Charlemagne, and Napoleon ruled here; Constantine the Great found divine inspiration in Roma (in realtà è un errore perchè l’editto di Costantino fu emesso a Milano, nuova capitale dell’impero di occidente) and spread Christianity throughout his empire. In Italy Michelangelo and Leonardo created, Verdi composed, and St. Francis of Assisi prayed. Rich in natural beauty, gilded with sunshine, and epitome of la dolce vita - the sweet life, as seen in Caravaggio’s late 16thcentury portrait of Bacchus, god of wine - Italy attracted pillagers and princes from beyond the Alps; for centuries they carve up the peninsula and its islands like booty. Unified since 1870, and now one of the most prosperous countries, Italy still cherishes the sweet life, while revealing in a past to storied that 18th-century British statesman Edmund Burke called it native land to us all”. La patria natale di noi tutti, ecco, è così che viene vista l’Italia all’estero, purtroppo non è così che viene vissuta da una grandissima parte di noi italiani.
Il punto di vista delle imprese
Alberto Mingardi Direttore Generale Istituto Bruno Leoni, Milano
Ringrazio molto Lodovico Passerin d’Entrèves e la Consulta per questo bell’invito. Ascoltando l’intervento di Marco Magnifico, pensavo come sia straordinariamente cambiato, e in meglio, il dibattito su questi temi in Italia oggi. Infatti abbiamo avuto un intervento composto in buona parte da cifre, da numeri di donazioni e di iniziative, cosa impensabile fino a pochi anni fa, quando, chi si occupava di cultura, tutto doveva menzionare, fuorché le fonti del suo sostentamento e non sia mai addirittura il peso, i numeri delle fonti specifiche, rispetto a quel finanziamento. La struttura delle elargizioni caritatevoli, delle donazioni e del finanziamento privato alla produzione o alla valorizzazione di determinati beni quali la cultura e altri beni pubblici più o meno canonici, in Italia è molto diversa che altrove. Per rimanere nell’ambito degli aneddoti che venivano messi sul piatto poco fa, ricordo l’esperienza di un amico, esponente in una primaria istituzione culturale americana, che raccontava come un giorno gli fosse arrivata sul tavolo, passata dalla sua segretaria, una lettera di posta normale, imbucata da Seattle, completamente sdrucita,
rovinata ai margini, neanche assicurata. Apertala, vi trovò un assegno di 1 milione di dollari firmato Bill Gates. Una scena assolutamente improbabile nel nostro paese e non solo per la cifra! Nel contesto dei privati che in vario modo sostengono la cultura, le imprese in Italia sono fondamentali e rivestono un ruolo particolarmente visibile, soprattutto in una fase come questa di transizione, in cui man mano si va verso un crescente finanziamento privato delle iniziative culturali. I benefici del finanziamento privato, anche a livello dinamico rispetto all’efficacia poi dei risultati, sono stati già evidenziati negli interventi precedenti. Adesso in questa tavola rotonda abbiamo la fortuna di avere tre rappresentanti di primarie imprese italiane che ci esporranno il loro punto di vista, nonché la loro esperienza. Comincerei subito da Lucia Nardi, Direttore delle Iniziative Culturali dell’Eni, pregandola di stare all’interno dei 10/12 minuti. Mi scuso perché ho un ruolo terribile: quello di costringere le persone, che hanno qualcosa di interessante da dire, a parlare poco.
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Il punto di vista delle imprese
Carlo Fornaro Direttore Relazioni Esterne Gruppo Telecom Italia
Preferirei, per cercare di dare un contributo alla discussione, rispondere alla domanda che è il titolo di questo convegno e cioè se la sponsorizzazione dei Beni Culturali è un nuovo media per le imprese. Se si toglie la parola ‘sponsorizzazionÈ la risposta è senz’altro sì, cioè i beni culturali sono un media per le imprese, forse non nuovo. L’elemento di novità è proprio ciò che riguarda la parola ‘sponsorizzazione’, perché su quella invece non ci intendiamo. Userò i miei dieci minuti non per raccontarvi ciò che Telecom Italia sta facendo, che peraltro, se funziona, dovrebbe essere visibile, ma per dirvi che le sponsorizzazioni sono un mezzo probabilmente molto abusato, certamente antico, ma certamente efficace in un’area che, almeno nella mia attuale visione professionale, è quella commerciale. È stata citata prima dal collega dello Studio Testa la sponsorizzazione di Tim nel calcio. Una classica sponsorizzazione, evidentemente di tipo commerciale, sulla quale stiamo operando complicate trasformazioni. I contratti per quel tipo di impianto di sponsorizzazione sono molto complessi, vanno dalle reti televisive, alla lega calcio, fino alla squadra, quindi qualsiasi modifica è particolarmente difficile, visti i tanti attori coinvolti, ma stiamo trasformando, meglio, stiamo cercando di trasformare, con un po’ di fatica, lo stadio in un media. Qualcuno forse l’avrà notato, non c’è più scritto solo Tim al lato della porta, ma c’è scritto ‘Tim per Due’ o l’offerta commerciale in pubblicità in quel momento e via di seguito. Quella è una sponsorizzazione che ha tutta la sua dignità commerciale e che ovviamente lavora per l’obiettivo principale di tutte le aziende, che è quello di fare utili. La reputazione, un elemento importante che trasmette l’obiettivo principale delle aziende, probabilmente oggi ha delle caratteristiche completamente nuove, che spesso anche noi comunicatori, noi addetti ai lavori, tendiamo a trascurare. Vi faccio un piccolo esempio. È stato citato dalla signora Maggioni il magico nome di Internet. Non ne ho sentito molto parlare in questo convegno. internet non è più una tecnologia, internet è un sistema sociale, un sistema con cui le persone si raccordano, con cui scambiano quasi tutto, che ha
‘disintermediato’ una serie di soggetti alla cui opera siamo stati abituati, primi fra tutti probabilmente alcuni giornalisti minori. La discussione sull’informazione a pagamento o non pagamento sulla rete è nota e non la riporto, ma certamente internet ha cambiato il modo di formare la reputazione di un soggetto. Se si va su Google o uno qualsiasi dei motori di ricerca e si cita il nome di un politico inquisito, vengono fuori cinquanta pagine dove si dice che questo signore è un ladro assassino, ha rubato soldi, ha fatto qualsiasi nefandezza; poi forse si comincia ad accennare che quel signore è stato ministro, ha fatto il leader sindacale, ha fatto anche delle cose positive e degne di nota. La reputazione sul web è un elemento che le aziende devono considerare con molta attenzione, in maniera completamente diversa dal passato. Un’altra delle caratteristiche che internet ha cambiato è quella della posizione del soggetto che comunica, rispetto alla massa. Non c’è più il classico schema di comunicazione al quale siamo abituati. I ‘nati digitali’, cioè quelli che oggi hanno circa 20 anni, che non hanno mai visto un mondo senza internet, ma che ovviamente sono i cittadini di domani, formano i loro convincimenti e le loro opinioni attraverso conversazioni sul web, nelle quali tutti i soggetti sono assolutamente di pari dignità, anche se parla il capo dello Stato, il leader di una grande azienda, piuttosto che un blogger qualsiasi. Per darvi, a titolo di esempio, una cifra sola che può fornire qualche indicazione sul fenomeno, il blog di un ragazzo che si chiama Gianluca Neri - alzi la mano chi lo conosce - e che si chiama Macchia Nera, ha 350.000 visitatori all’anno. Per capire quanto questo fenomeno sia in questo momento dirompente, poniamoci la domanda di quanto venda un settimanale nel nostro paese e tiriamo le dovute conclusioni. Prima conclusione: non possiamo più pensare di costruire o rafforzare la reputazione di un’impresa semplicemente mettendo un logo in qualità di sponsor accanto ad attività culturali di pregio. Seconda conclusione: darei qualche indicazione dal punto di vista dell’impresa a chi fa attività, aggrega attività, produce contenuti culturali o li restaura e li mette in mostra. Non presentatevi
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con il catalogo! Molto spesso arrivano dei signori, anche di grandissima levatura culturale o persone che gestiscono beni o eventi culturali, vengono in azienda da noi addetti ai lavori e ci dicono: “facciamo questo, questo, questo, cosa vi interessa?” Per definizione ‘niente’! Sono convinto che sarebbe un grande passaggio culturale nelle nostre piccole politiche di comunicazione, ricevere proposte di collaborazione da soggetti che hanno guardato e analizzato le nostre attività e desunte le nostre politiche di comunicazione. Professionisti che conoscono il mercato, sanno come un’azienda si relaziona ai propri clienti/cittadini e cosa ha senso proporle, secondo semplici regole di marketing. Analizzare la tipicità del soggetto impresa al quale si va ad offrire una partnership, è senz’altro centrale nella possibilità di successo del progetto che si può costruire insieme. In ambito di eventi culturali, talvolta le imprese tendono, come ha illustrato il collega dello Studio Testa nella terza delle categorie che ha mostrato, a produrre eventi propri - scelta che può essere pericolosa - di valore immensamente più alto della sponsorizzazione e progressivamente anche della partnership. Per concludere questa piccola carrellata di esempi che serve a dare il senso di cosa possa essere oggi una sponsorizzazione, torno su internet. Si stanno verificando situazioni di grande discontinuità che continueranno a cambiare fortemente anche i paradigmi della comunicazione d’impresa. L’altro giorno chiacchieravo di queste cose con un amico, uno dei pochi ex ragazzi che ha fatto molti soldi prima della bolla nel 2001, quando qualsiasi cosa ‘punto com’ andava in borsa e guadagnava; poi come sappiamo è crollato tutto. Questi è uno che invece ha fatto le cose seriamente, avendo capito molto bene il senso di internet. Mi raccontava che si è iscritto a un sito, di cui non ricordo esattamente il nome, che si occupa di Death Watching. Gli ho chiesto a cosa gli servisse e mi ha risposto che, automaticamente, quando morirà partirà una mail informativa a tutti i conoscenti. A questo punto gli chiedo come il sito possa sapere, che nel frattempo malauguratamente lui sia deceduto. Semplicemente: il sistema ogni mese invia una mail alla quale bisogna rispondere che si è ancora vivi, cosa che si può, e deve, fare da ogni parte del mondo, visto che ormai si è sempre attaccati ad un computer. E se non lo si fa, la mail dell’annuncio parte… Inoltre mi raccontava che tra 20, 22 anni il Dna
potrà essere messo in rete e questo porterà in rete l’intera ricostruzione individuale della persona, ovviamente senza la coscienza, anche quando la persona non ci sarà più. L’integrazione uomo/macchina, materia di studio all’università, sta postulando che tra meno di dieci anni, lo sport sostanzialmente non esisterà più, perché tra la maglietta che indossa l’atleta e le gambe al carbonio di Pistorius non ci sarà più differenza, cioè ci saranno integrazioni tali tra i materiali con cui si fa sport e la persona stessa, che renderanno di fatto lo sport una cosa diversa. Forse sto cambiando il paradigma della nostra chiacchierata, ma credo nelle cose che sto dicendo e spero di azzeccare qualche linea strategica nel lavoro che faccio. Per dare un’indicazione e chiudere tornando al tema del giorno, direi che siamo tutti stati abituati a parlare di brand identity o di valori del brand, per cui se si mette il proprio marchio accanto a, per esempio, Michelangelo, sicuramente la ricaduta per l’azienda è positiva. Oggi ci si muove su un terreno completamente diverso. Stiamo passando, secondo me anche abbastanza velocemente, dall’identità, i valori, l’aspirazione e quindi la proposizione di tutto ciò in un marchio, in un segno distintivo, ad un concetto molto semplice - che è stato fra l’altro raccontato anche in letteratura - che si chiama story telling. Le aziende diventano sempre più non un’emittente alta di un messaggio definito che incontra il target, che peraltro non esiste più secondo i teorici di internet, ma sono paragonabili a semplici persone, sedute ad un tavolo ideale comune, che devono raccontare come gli altri la loro storia. Lo story telling aziendale può passare senza dubbio dall’utilizzo dei beni culturali, che sono un patrimonio, per questo paese, non sfruttato al meglio e certamente non con l’ormai antico sistema della sponsorizzazione. Chiudo dicendo che manifesto pubblicamente un piccolo dispiacere per non vedere qui i rappresentanti del ministero che, dopo averci raccontato che sono molto aperti a proposte e collaborazioni con le aziende, non sono più presenti e non so se avranno il tempo di leggere gli atti di questo workshop. Siccome è la quarta volta di seguito che mi capita di andare a un convegno, parlare di cose che hanno attinenza con quel ministero e vederne il rappresentante parlare, alzarsi e andarsene, desidero sottolinearlo e spero che, con molta amicizia, venga riportato ai nostri governanti.
Il punto di vista delle imprese
Lucia Nardi Responsabile Progetti Culturali Eni
Ringrazio la Consulta per questa opportunità sempre gradita. C’è sempre molta concretezza in questi incontri; eravamo usciti da quello dello scorso anno con idee molto più chiare sulla fiscalità. Quest’anno mi sembra siano state dette cose estremamente interessanti, che contestualizzano molto bene il tema delle sponsorizzazioni. Anzi, se mi muovessi con un mouse su un documento word tagliando i pezzi dei vari interventi che mi hanno preceduto, posso affermare che siamo ormai a un focus molto concreto sul tema del workshop. Quindi, dato anche l’elevato livello dell’uditorio, accenno soltanto al fatto che le sponsorizzazioni sono molto cambiate, che il mecenatismo è un atteggiamento che abbiamo alle spalle e che come imprese ci comportiamo adesso in maniera completamente differente, rispetto a quello che facevamo anche soltanto qualche anno fa. Ricordo come Alessandro Laterza aveva chiuso il nostro incontro lo scorso anno, quando eravamo in mezzo, o ancora all’inizio, di una grave crisi economica, ed eravamo lì ad aspettare di vederne gli effetti sui nostri investimenti in cultura. Tali effetti, anche per una grande impresa come Eni, un’impresa che fa degli utili e che ha possibilità di investire in cultura, si sono fatti sentire. Allora Alessandro Laterza era d’accordo nel dire che probabilmente la chiave giusta era selezionare correttamente, fare dell’investimento in cultura qualcosa di strategico, selezionare gli interventi in maniera da farne davvero un media. Oggi siamo qui, a distanza di un anno, a riprendere il tema esattamente da dove l’avevamo lasciato, senza approfondirlo, lo scorso anno. Poiché è mia intenzione contenere il mio intervento nei dieci, dodici minuti che mi sono concessi e desidero dare del valore aggiunto, vi racconterò come Eni interpreta il suo ruolo in termini di sponsorizzazioni e in beni culturali, per spiegarvi qual è la nostra filosofia. Ovviamente ci sono vari livelli di investimento in sponsorizzazione culturale e vari motivi per
cui si fanno tali sponsorizzazioni. Il primo è stato sviscerato questa mattina ed ha a che fare con la ‘reputazione’. Questo è un tema particolarmente importante, a cui tutte le aziende sono molto attente. In questo non siamo diversi dagli altri e in questo non essere diversi, Eni si muove cercando sempre di presentarsi come main sponsor quindi andando ad individuare degli interventi in cui sia l’unico riferimento di sponsorizzazione. Questa è sicuramente una nostra linea guida quando facciamo le scelte di investimento. A titolo di esempio cito la partnership siglata con il Louvre per tre anni: è stato raggiunto un accordo per cui Eni garantisce una serie di interventi, fra i quali anche dei restauri, in cambio il Louvre dà la possibilità di esporre alcune sue opere in Italia. Un caso per tutti è il San Giovanni Battista di Leonardo, che dal 26 novembre al 27 di dicembre sarà esposto a Milano, dove torna dal 1939, a Palazzo Marino, nella sala degli Alessi. È un evento importante, in cui Eni darà la possibilità a tutti di vedere quest’opera straordinaria in maniera assolutamente gratuita, con l’assistenza di guide specializzate, con i tempi che ogni utente vorrà ritagliarsi. Consideriamo la partnership con un ente museale come il Louvre di eccezionale importanza per la reputazione della nostra azienda. L’altro tema, già citato questa mattina e che desidero ricordare perché costituisce una delle nostre metodologie di azione, è l’attenzione ai territori in cui Eni è presente. È per noi da sempre molto significativo fare investimenti in cultura nei luoghi dove ci siano i nostri impianti produttivi, quindi su un nostro territorio di riferimento, che può essere Venezia, o Gela, o Ferrara, o Mantova, o Milano, o Roma, o uno degli altri siti, anche all’estero. La conoscenza e la diffusione del marchio è un altro elemento trainante, già trattato questa mattina. È un po’ curioso parlare di ‘marchio’ per Eni, che ha con la sua rete di distribuzione una presenza praticamente capillare su tutto il
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territorio nazionale. Il nostro marchio è conosciuto e non ha probabilmente alcun bisogno di essere ricordato al pubblico. Tuttavia quest’anno avendo cambiato marchio - credo che ve ne siate accorti - si è presentata la necessità di ribadire il fatto che ci presentiamo sempre con il cane a sei zampe, ma in una maniera un po’ diversa. Su questo tema abbiamo fatto un investimento ad hoc, andando a sostenere una mostra sulla storia del nostro marchio a Rovereto. Rovereto-Casa De’ Pero è un’area su cui noi siamo da sempre sponsor, con grande attenzione agli investimenti, proprio per rafforzare l’identità culturale del territorio. Vi faccio un esempio per tutti: in Libia abbiamo fatto una serie di iniziative proprio per far conoscere anche ai libici il grande patrimonio artistico di cui sono proprietari. Attraverso pubblicazioni e organizzando mostre Eni, che si muove in 70 paesi del mondo, fa molta attenzione a riportare sui territori, in cui magari fa produzione, ricerca e perforazione, qualche cosa che i territori poi sappiano in qualche modo riconoscere. Per finire questa carrellata sulle logiche, chi mi ha preceduto ha anche parlato ed è un grande piacere sentirlo, di archivi industriali. Questo è un altro bene culturale importante, dal quale io stessa professionalmente provengo. Vedo in sala la Soprintendente archivistica per il Piemonte. Neanche questo investimento è banale. Un’impresa che investe nel proprio archivio, dà la possibilità ai ricercatori, a tutto il mondo della ricerca, di avere a disposizione e di avere accesso a strumenti di approfondimento unici ed importanti. Eni, caso forse raro nel suo genere, anche su questo ha fatto degli investimenti molto significativi. Oggi siamo
probabilmente uno degli archivi privati più attivi, con 10 addetti. Altro spunto di riflessione suggerito dagli interventi che mi hanno preceduta è quello della necessità che una grande azienda affianchi lo Stato nell’avvicinare i cittadini all’arte. Questa è una responsabilità che Eni sente molto profondamente, come si desume dalle iniziative succitate. Desidero aggiungere il caso di Calvello, un paesino di 3.000 anime in Basilicata, dove facciamo produzione ormai da diversi anni e dove abbiamo organizzato una serie di eventi per avvicinare la scuola ai temi dell’energia. Noi crediamo che raccontare e far conoscere l’energia in un territorio che l’energia la produce, sia un valore straordinario non solo per Eni, ma per i territori stessi, che sono aree di produzione e di estrazione. Ancora per quanto riguarda il rafforzamento dell’identità sui territori, a Gela ci sarà un grande evento in cui Eni riporta sul grande schermo un film su Gela dei primi anni ’60, il cui testo è di Leonardo Sciascia. L’opera racconta cos’era Gela a quell’epoca, quali erano le aspettative e qual era la situazione di questo paese, che stava per conoscere una grande e per certi versi inaspettata, esplosione di crescita. Per concludere, desidero ribadire il concetto che Eni ha eliminato la parola sponsorizzazione dal proprio vocabolario. Eni sostiene e sviluppa iniziative nell’ambito della cultura, anche in collaborazione con enti pubblici e privati. Siamo transitati dal concetto di sponsorship al concetto di partnership e questa è la chiave di lettura di tutti i nostri interventi in cultura.
Il punto di vista delle imprese
Vittorio Meloni Direttore Centrale Relazioni Esterne Intesa Sanpaolo
Non oso sfidare Carlo Fornaro sui terreni avveniristici su cui lui si è incamminato nel suo intervento (non ho del resto le competenze per farlo), quindi tornerò più prosaicamente al tema della sponsorizzazione, che ci vede protagonisti da molto tempo, prima che nascesse Intesa Sanpaolo. Le due banche ricche di storia, che hanno dato vita al nuovo Gruppo e le banche che al loro interno facevano parte di questa lunga tradizione nel settore del credito, avevano una presenza già piuttosto rilevante nell’area definita “sponsorizzazioni culturali”, naturalmente in contesti ben diversi da quelli di oggi e in uno scenario complessivo anch’esso molto differente. Credo che si debba fare una riflessione strategica sul tema “A che serve sponsorizzare?” e sull’altro “Chi lo fa?”. Le profonde trasformazioni che hanno interessato il nostro Paese negli ultimi 15-20 anni hanno drasticamente ridotto il numero delle aziende che dispongono di una propria capacità di intervento nella comunicazione. Insieme a Fornaro, quindi Telecom Italia, alla collega dell’Eni e ad altri pochi gruppi importanti del paese, siamo coloro che ricevono la maggior parte delle richieste di sostegno, a vario titolo, di iniziative culturali, perché non ci sono altri grandi protagonisti in Italia. Il mondo delle grandi imprese italiane si è ridotto a meno di dieci entità in grado di essere attive su questo fronte. Forse siamo di fronte ad un problema ampio e generale, che andrebbe trattato come politica del paese. In questo senso la mancanza dell’intervento pubblico - e i riferimenti al riguardo mi sono parsi piuttosto confusi - è particolarmente grave. Indispensabile ed urgente risulta oggi stimolare l’accesso a questo tipo di attività da parte del mondo, fortunatamente ancora molto forte, delle nostre medie imprese, che ancora non conoscono adeguatamente questo strumento di comunicazione o semplicemente non hanno dimestichezza con esso o non hanno sufficiente competenza per utilizzarlo. L’universo delle medie imprese, realtà solida e competitiva, non
riceve gli opportuni stimoli a considerare quello delle sponsorizzazioni culturali come un canale probabilmente più vantaggioso e congeniale della pubblicità commerciale per comunicare con il proprio pubblico di riferimento. Come portare questo genere di imprese, che spesso costituiscono l’eccellenza nei settori in cui operano, anche nel campo della comunicazione orientata a supporto delle attività culturali, sarebbe un interessante tema di riflessione. Quanto a Intesa Sanpaolo, non voglio fare l’elenco delle nostre attività. In questi anni il lavoro importante da noi svolto ha avuto lo scopo aggiuntivo di valorizzare un’integrazione bancaria nuova, importante e che ha segnato un cambiamento nella presenza degli operatori finanziari in Italia. Mentre questo succedeva, peraltro, iniziava una crisi complicata e difficile, che trasformava la percezione del mondo bancario da quella di un potere grande e forte a quella di una realtà più fragile, addirittura protagonista o in qualche caso causa, della crisi. In questa fase di trasformazione, noi abbiamo cercato di interpretare il nostro ruolo valorizzando ciò che già facevamo e cercando nuovi filoni attraverso i quali dare valore al nostro brand. Su questo punto dissento da quanto sosteneva Fornaro; credo infatti che in questa attività ci sia un grande spazio da utilizzare e che probabilmente - anche se questo vale forse più per una banca che per un’ impresa industriale - la valorizzazione del brand sia uno degli scopi principali delle iniziative a supporto, o di sponsorizzazione, delle attività culturali. Numerosissime sono le aree in cui noi ci muoviamo: praticamente non ve n’è una che ci veda assenti, perché una grande banca, con una storia così antica, ha inevitabilmente delle radici molto profonde nei territori in cui è presente e una lunga tradizione di rapporto con essi e con le entità culturali con cui è entrata di volta in volta in contatto. Questo è il quadro cui ci si deve riferire quando si considera l’attività di Intesa Sanpaolo per la cultura e i beni culturali.
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È mia convinzione che forse dovremmo tutti cambiare la nostra concezione di bene culturale, da quella di bene culturale classico (l’opera d’arte alla quale ci dedichiamo, che restauriamo, che proteggiamo, che valorizziamo) a quella di “ambiente”. Noi di Intesa Sanpaolo - lo ricordava Magnifico - siamo sponsor e partner del Fai da sempre, perché riteniamo che l’ambiente, inteso non semplicemente come risorsa, ma come paesaggio in cui ci muoviamo, il mondo in cui viviamo, abbia un valore grande almeno quanto quello di un’opera d’arte. Perdere una collina, perdere la vista di un paesaggio, perdere la bellezza di una costa è come perdere Giotto, è come essere privati di un bene della stessa importanza; dovrebbe provocare la stessa intensa reazione che noi proviamo istintivamente di fronte a un pazzo che sfregia un’opera d’arte. Troppo spesso invece continuiamo ad ignorare il fatto che il paesaggio vada tutelato e protetto, se desideriamo conservarlo e preservarne le bellezze ed i vantaggi anche per i nostri figli. Intesa Sanpaolo si muove, come tutte le grandi aziende, secondo due direttrici: da una parte esaminiamo e studiamo il valore e le finalità di iniziative che ci vengono proposte; e dall’altra, noi stessi ne ideiamo, o cerchiamo di stimolare entità culturali importanti a condividere con noi i progetti che riteniamo rilevanti e in grado di valorizzare il contributo di chi li sostiene e li lancia. C’è un programma, in particolare, che ha una lunga tradizione e che qui voglio solo ricordare perché la persona che se ne è occupata fino a poco tempo fa è improvvisamente è scomparsa. Fatima Terzo è stata a lungo la curatrice e l’interprete di Restituzioni, un programma che è un vero esempio di mecenatismo, più che una sponsorizzazione: privati ed enti pubblici possono infatti chiedere a Intesa Sanpaolo di restaurare opere d’arte in loro possesso per poi riceverle indietro (da qui il nome Restituzioni) dopo che queste opere sono state per un certo periodo esposte al pubblico. Questa iniziativa non ha nulla a che vedere con la sponsorizzazione in senso classico, perché da qui non nasce un’operazione di comunicazione ad alto impatto, ma è sicuramente una bella tradizione di un’azienda bancaria, che forse tanti altri potrebbero imitare, proprio perché il patrimonio italiano è fatto, sì, di grandissime opere famose nel mondo, ma an-
che di uno sterminato numero di opere minori, di grandissimo pregio, sconosciute o abbandonate in qualche cantina privata o pubblica. Ad oggi sono ormai più di 600 le opere restaurate in oltre 12 anni di attività. Non voglio dilungarmi, ma anche noi abbiamo, come altre grandi aziende (lo ricordava ad esempio la collega dell’Eni), un grande archivio che contiene la storia del paese, degli uomini che l’hanno fatto, tra una guerra e l’altra e che hanno finanziato e costruito le grandi imprese italiane. Concluderei semplicemente accennando ad alcune iniziative, che hanno segnato l’attività più recente, mentre vi lascio un elenco più ampio per eventuale consultazione. Una è MiTo, che ci sta particolarmente a cuore perché è un’iniziativa congiunta di Milano e di Torino: anzi, nasce da una costola di Torino per estendersi poi su Milano, facendo sì che un evento importante, ma locale, diventasse, con Milano e grazie alla grande tradizione torinese, un evento internazionale. MiTo ha ormai tre anni e si colloca già fra le prime cinque grandi rassegne internazionali di musica: è bastato spezzare simbolicamente la barriera che divide due città che sono così vicine e che oggi grazie all’alta velocità forse lo diventeranno ancora di più, per realizzare un evento culturale di grandissima portata. Tra l’altro mi ha molto colpito che proprio qui il professor Profumo lanciasse l’idea, grazie alla nuova legislazione che verrà approvata su proposta del ministro Gelmini, di fare la stessa operazione con i due Politecnici. Si creerebbe un nucleo di competenze unico a livello continentale e noi, naturalmente se richiesti, saremo lieti di essere coinvolti in questa operazione. Una seconda iniziativa cui mi piace accennare è I Luoghi del cuore. Di essa vi ha già parlato Magnifico; per noi si tratta di qualcosa di più di una semplice iniziativa culturale o di mecenatismo, perché è qualcosa che non ha praticamente eguali nel mondo. Non siamo, beninteso, gli unici a sostenerla, come ricordava lo stesso Magnifico, ma ce ne sentiamo in qualche modo comproprietari e condividiamo con il Fai un successo che è riflesso nel nome stesso del programma. La terza iniziativa, che vede in questo caso Intesa Sanpaolo unico protagonista, si chiama “perFiducia”. Si tratta di un progetto cinematografico sul
quale abbiamo incentrato la nostra comunicazione quest’anno, affidando a tre maestri del cinema italiano, Olmi, Sorrentino e Salvatores, tre storie molto coinvolgenti, centrate sulla fiducia e sul riscatto, da cui emerge un’Italia che non smette di credere nel proprio futuro. Su queste storie è stata poi sviluppata un’operazione di comunicazione per amplificarne al massimo la visibilità. Abbiamo avuto dei risultati veramente straordinari in termini di gradimento e di capacità di coinvolgere, nell’intento di dare al paese un segnale di fiducia e di consapevolezza delle proprie possibilità. Questo del cinema è diventato un mezzo che abbiamo scoperto un po’ per caso, ragionando su come comunicare oggi, in tempi di crisi acuta, e su come mantenere il contatto con l’opinione pubblica in tempi difficili come questi. È nato così un filone desti-
nato a continuare. Tra poche settimane presenteremo a Roma “perFiducia 2”. Questa volta avremo i discepoli prediletti dei Maestri della prima serie. E credo proprio che metteremo mano anche a una terza edizione di questa singolare esperienza che si basa sulla cultura: in questo caso non la cultura classica né quella pittorica, non il patrimonio artistico di cui il nostro paese è ricco, ma la capacità di produrre storie nuove. In questo essa ha a che vedere con lo story telling di cui parlava Fornaro, una forma innovativa di comunicazione all’incrocio tra la comunicazione istituzionale e la promozione culturale, che incarna la capacità di entrare in contatto con gli altri non parlando di sé, ma parlando di qualcosa che tutti abbiamo in comune: l’emozione, i sentimenti, le aspettative sul futuro.
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Conclusioni
Alessandro Laterza Presidente della Commissione Cultura di Confindustria
È un piacere poter dedicare i sei minuti che mi concedo, alle considerazioni conclusive, anche perché immagino che siate prossimi non solo ad una caduta di attenzione, ma ad un crollo fisico dovuto alle tante ore di lavoro e alla stanchezza. L’incontro di oggi è un punto importante del calendario nazionale dell’ottava Settimana della Cultura d’Impresa. È una settimana dedicata al tema della creatività di impresa e cultura dello sviluppo e mi pare che la discussione di oggi abbia dato un valido contributo in merito. Desidero innanzitutto ringraziare l’Unione Industriale di Torino per l’ospitalità e per l’accoglienza che ci accorda ogni anno. Quello di quest’anno è il terzo appuntamento che dedichiamo a questo argomento, che abbiamo abbondantemente sviscerato e discusso. Agli amici dell’Unione rivolgo ora un affettuoso rimprovero. Vedo in programma una bellissima iniziativa, che si inaugura domani, sul design brand e territorio, che avrei inserito par pari nel calendario della Settimana della Cultura. Tuttavia siamo nell’ambito dell’understatement sabaudo, per cui si dà vita a bellissime iniziative ma, attenzione, che non se ne parli troppo e che non si dia troppo rilievo a ciò che si sta facendo! Questa è una vecchia querelle che ho con Lodovico Passerin d’Entrèves. Ringrazio ovviamente moltissimo la Consulta di Torino per il lavoro svolto nel tempo, in questi venti anni di attività, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti e che non ha pari altrove. Non so dire se mai si riuscirà a replicare un’esperienza di questo tipo in altre aree del nostro paese. Siamo certamente al cospetto di una prova di eccellenza, di un modello da portare costantemente ad esempio della filosofia del fare. L’elenco di interventi che sono stati in qualche maniera portati a termine in questi anni dalla Consulta è impressionante; l’anno scorso siamo andati a visitare la Villa della Regina, che è un complesso assolutamente affascinante per il visitatore, rimasto tuttavia sconosciuto per molto tempo alla città e ora di nuovo fruibile in tutta la sua bellezza.
La Consulta pratica le regole del fare. Da questo punto di vista mi voglio impegnare con il suo Presidente, che è anche un amico, in un intenso sforzo di comunicazione, poiché è troppo importante il lavoro che fa la Consulta. Mi piacerebbe dunque che, sempre facendo i conti con l’understatement sabaudo, si riuscisse, come dire, a dare conto anche al di fuori della cerchia muraria di Torino di questo esempio, molto efficiente, di collaborazione con le amministrazioni e le soprintendenze. La Consulta non è solo un esempio di efficace mecenatismo, ma lo è altresì della capacità di sviluppare straordinarie collaborazioni e sinergie. Tuttavia la Consulta è anche un luogo in cui si pensa e questo elemento mi sembra altrettanto importante. In questo terzo appuntamento sul tema delle sponsorizzazioni e del mecenatismo, sono stati fatti passi in avanti abbastanza significativi. Abbiamo capito, credo in maniera definitiva che, fermo restando alcune complessità delle discipline sulle erogazioni liberali, si debba puntare sul meccanismo della sponsorizzazione e sulla sua definizione da un punto di vista fiscale. La questione è come far sì che i consulenti, i commercialisti, gli imprenditori e ovviamente poi i nostri interlocutori pubblici, quindi il Ministero dell’Economia e Finanze e l’Agenzia delle Entrate, recepiscano questo tipo di offerta, generosa, che viene dai privati e che testimonia un impegno per la valorizzazione del proprio Paese. Il passo decisivo che si deve fare è andare a compilare quel piccolo vademecum, condiviso con le autorità competenti, che già lo scorso anno pensavamo di redigere, d’intesa con il Ministero dei Beni Culturali, per diffondere semplicemente l’informazione in materia, presso le medie e piccole aziende. Siamo infatti ben d’accordo che le grandi aziende italiane meno di dieci - si muovono perfettamente in questa materia; il punto è invece come trasferire queste conoscenze, anche basilari, queste informazioni elementari, a una massa di aziende che si orientano in questo campo con più difficoltà. Tali nozioni
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vanno parimenti trasferite ai professionisti che con le aziende collaborano, perché l’esaustività con cui ci è stata esposta oggi pomeriggio la materia dall’avvocato Rossotto e dalla dottoressa Starola non è detto che trovi, come dire, pari certezza presso tanti altri loro colleghi. Questo è il nostro primo obiettivo. Quindi, ancora una volta attraverso il contributo della Consulta, la Commissione Cultura di Confindustria, che sta dietro a tutte queste attività, dovrebbe ritornare al fare, nello specifico, a produrre uno strumento operativo di utilità per le aziende. Per quanto riguarda la discussione di oggi pomeriggio e mi avvicino alla conclusione, mi pare che siano emersi elementi effettivamente molto significativi, volti a focalizzare meglio quelle che sono le molteplici possibilità e forme che può avere un intervento nei beni o nelle attività culturali da parte delle aziende. Mi è parso di particolare interesse l’intervento di Bona e precisamente le quattro slides che ha presentato, perché tracciano una geografia, danno delle indicazioni sulle quali è interessante riflettere. È molto importante che anche chi governa la pubblicità delle aziende, specie delle medie e delle piccole, entri in questa sensibilità e capisca che il mecenatismo tipo Consulta è un’opportunità e che come tale va presentata e gestita. È emerso dai diversi interventi come non abbiano più senso il mecenatismo o la sponsorizzazione generici. Deve essere definito un obiettivo, che onestamente non ho alcuna difficoltà a riconoscere come obiettivo di brand, particolarmente essenziale per le medie aziende, che non hanno la stessa riconoscibilità di marca che hanno le grandi. Questo è un terreno sul quale si può costruire bene, anche su scala locale, foriero di sicuri sviluppi, specie per quanto concerne le relazioni con il territorio, cioè le
attività più classicamente legate alle responsabilità sociali di impresa. Eccezionalmente vantaggiosa può risultare per le aziende l’eventualità di legare l’investimento in beni o attività culturali a una promozione commerciale. È uno di quei casi in cui direi abbastanza serenamente che il fine giustifica i mezzi, fatto salvo il rispetto per le caratteristiche e le peculiarità dell’oggetto artistico o culturale. Le possibilità e le opportunità risultano molteplici, ma deve essere fatto questo passo in avanti e definito questo, diciamo libretto, né rosso né verde né bianco, questo vademecum della Consulta, certificato dai competenti organismi ministeriali, per agevolare e promuovere un’attività di informazione e di divulgazione. Il nostro impegno deve essere massimo e costante, nonostante il periodo di difficoltà, nonostante talvolta ci si senta scoraggiati. Non dobbiamo demordere, dobbiamo tenere il punto e sostenere le attività in cultura, perché questo fa bene non solo alle imprese, ma a tutto il paese, evitando, naturalmente, di confondere i ruoli. Grazie ancora a tutti. Torno sempre con un immenso piacere a Torino, che è una città che amo particolarmente. Mi auguro che ci aggiorneremo l’anno prossimo, con il nostro vademecum alla mano e qualche elemento di discussione in più. Come ulteriore spunto di riflessione voglio lasciarvi quello del rapporto e della discussione, ovviamente non in senso polemico, con le fondazioni bancarie. Queste sono effettivamente un soggetto a sé, che ha altri compiti, altre finalità rispetto alle aziende, ovviamente un soggetto importante nei discorsi che sono stati fatti in questa sede, un soggetto con il quale è essenziale trovare spazi di contiguità e possibile collaborazione.