KAIROS
# 05 NOVEMBRE 2016
L’EUROPA DEI MURI Per vivere vanno a morire! E’ ormai da qualche anno, da quando è iniziata la crisi dei rifugiati in Europa, che siamo sommersi da immagini e notizie sconvolgenti: l’infernale marcia di migliaia di profughi lungo la rotta dei Balcani; lo stillicidio di morti annegati nel Mediterraneo (uno su tutti, il naufragio di Lampedusa del 2013 con 366 vittime); quelli morti soffocati nelle stive dei barconi o nei rimorchi di camion, (penso ai 71 morti asfissiati nel cassone frigorifero di un camion abbandonato in Austria); quelli investiti in autostrada nel Nord della Francia per r a g g i u n g e re l ’ I n g h i l t e r r a ; q u e l l i m o r t i nell’attraversare il deserto del Sahara (giugno 2016: 34 migranti, di cui 20 bambini), morti di sete perché abbandonati dai “passeurs”, nel deserto del Niger, una delle principali rotte migratorie per raggiungere l’Italia.
La lista potrebbe continuare all’infinito ma horresco referens (“inorridisco a riferire”) e per pudore mi fermo qui.
Nei primi cinque mesi del 2016 sono morte 2500 persone nel tentativo di arrivare in Europa, di esse 2119 nella traversata Nord Africa- Italia (fonte: Alto Commissariato Onu per i rifugiati)
SALVATORE PUGLIESE Per vivere vanno a morire!
Por estos muertos, nuestros muertos / pido castigo (Pablo Neruda) Per questi morti, i nostri morti chiedo castigo.
Davanti a questi drammi solo raramente la compassione fa breccia nell’animo degli occidentali, come nel caso del piccolo siriano Aylan, trovato morto sul bagnasciuga di una spiaggia turca, che ha sciolto per un po’ anche i cuori più insensibili, molto spesso però si reagisce con indifferenza se non con fastidio. Se l’uomo comune si è già assuefatto a simili tragedie, e si autoassolve ritenendole ineluttabili, peggiori e gravide di conseguenze sono le reazioni degli uomini di governo dei paesi europei: questi, di fronte alla crisi umanitaria hanno pensato bene di sbarrare il passo ai migranti e ai profughi, chiudendo ogni via d’ingresso, presidiando le coste e innalzando muri e barriere di filo spinato lungo le frontiere. Non importa che questi disperati stiano scappando da guerre e da violenze (di cui i nostri leader politici europei sono criminosamente complici), o che fuggano dalla fame e dalle carestie, l’imperativo è proteggere i propri connazionali, spaventati ad hoc da
movimenti xenofobi, da quest’orda di miserabili che vogliono minare il loro benessere.
I nostri politici hanno la memoria corta in tema di emigrazione, in quanto fingono di non ricordare che fino a pochi decenni fa, anche noi (italiani, portoghesi, irlandesi, tedeschi, spagnoli, greci) siamo stati costretti ad emigrare perché eravamo nella stessa identica situazione, di perseguitati politici e di poveri diseredati senza terra né lavoro, e pur tra mille umiliazioni e sofferenze, siamo stati accolti e inseriti nel tessuto sociale ed economico di altri paesi. E così la democratica Europa militarizza i propri confini e nega i più elementari diritti umani, tra cui il diritto d’asilo sancito dalle varie costituzioni (in Italia vale l’articolo 10) e dalle convenzioni internazionali (Ginevra, Dublino I e II) sottoscritte da quasi tutti i paesi, e attua una “politica di accoglienza” fatta di respingimenti e di espulsioni, smantella i campi di accoglienza e affida il lavoro sporco di guardiano dei confini continentali orientali addirittura a Erdogan, il premier turco, l’aguzzino dei curdi e degli oppositori interni.
(Continua in ultima pagina)
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TERRA
La terra, la materia del suolo è tante cose. L’uomo ha imparato a usarla, soggiogarla, plasmarla, raffinarla, cuocerla e distruggerla. L’uomo sa usare la pietra, l’argilla, il fango; costruisce altari per blandire la morte, torri per accarezzare le nuvole, ponti per saziare la curiosità e vincere la natura, tombe per fingere di accettare i suoi limiti.
E l’uomo ha imparato prima di tutto a costruire muri. E tra ciò che l’uomo può fare con la pietra, con i mattoni non c’è nulla che offenda più di un muro. Un muro può essere degno se fa parte di qualcosa di più grande e più vero. Deve essere strumento di una qualche viva pulsione dell’uomo, parte di essa, strumento di
NINCO NANCO
unione. Così è il Muro del Pianto segno, simulacro, memoria e identità che richiama un tempio e la sua idea. Ma se il muro nasce per bastare a se stesso, se nasce per difendere, allora divide e offende.
Offende la volontà del Dio, e per ciò il suo destino è la distruzione, come le mura di Gerico, sbriciolate dall’urlo collettivo, dalla voce che irrompe dalle viscere di un popolo.
Offende il disegno degli dei e perciò è violato dall’arguzia dell’uomo come le mura di Troia beffate da Ulisse.
Le mura non riparano l’uomo dalla sua cecità, sono il lievito della miopia che semplicemente non consente di vedere la realtà. E così che si
Ecco cosa avvenne nella
sciolgono, implodono come il muro di Berlino, incalzato dal sincopato “Wir sind das Volk!” (siamo il popolo) che scandì un desiderio e una speranza, una frustata sulla faccia smorta di un tragico potere senza sogni.
Gli uomini costruiscono mura, plasmano blocchi, tagliano pietre dalla scorza della terra e le uniscono con la malta dell’ignoranza. Alzano mura di acqua o di filo spinato per non mischiarsi con la faccia dell’altro; una faccia magari nera, stanca ma coraggiosa.
Gli uomini chiudono quartieri tra mura di livore e pretendono di sigillarle con il lucchetto del loro pregiudizio.
Quante mura conosciamo! La storia non è finita nel 1989, non è finita a Berlino. Anzi ha reagito. Oggi più di ieri, la soluzione ad ogni sfida umana è un muro, reale fisico, virtuale, psicologico. Troppo semplice. Più duro, più complicato, più sanguinoso è cercare di capire, conoscere “l’altro da se” senza respingerlo.
Scartavetro questi pensieri strofinandoli con le parole di un immenso figlio di una terra di libertà, Giordano Bruno. Chi può immaginare di affettare la realtà con un muro se non uomini che hanno abbandonato il dubbio e, servi della loro “verità”, vivono di chiusure; animali passivi che si fanno «guidare con la lanterna della fede, cattivando l’intelletto a colui che gli monta sopra et, a sua bella posta, l’addirizza e guida».
PAOLO PAGANO
“Primavera Repubblicana” Rileggiamo un po’ la storia di quando fu scritta la Costituzione Italiana.
Questa ripassatina è importante e necessaria perché in tanti oggi parlano di percorsi democratici ignorando completamente il senso e gli scopi della vera democrazia. Il comportamento dei padri costituenti che scrissero la costituzione fu esemplare e democratico. Nel rispetto della democrazia e del pluralismo politico costruirono pezzo dopo pezzo una struttura istituzionale che si rivelò come rappresentativa di tutte le componenti politiche e gli strati sociali del nostro paese. Ecco cosa avvenne nella “Primavera Repubblicana”:
“Si insedia a Montecitorio l’Assemblea Costituente. Con i suoi 556 deputati – eletti dal popolo il 2 giugno 1946 e rappresentativi di tutti i partiti, dal PCI ai monarchici – lavorerà per 18 mesi, con 375 sedute pubbliche, fino al 22 dicembre 1947, giorno dell’approvazione della Costituzione che verrà promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, il 27 dicembre. Entrerà in vigore l’1 gennaio 1948. Fermento e attesa si concentrano subito attorno all’operato dei “padri”. La novità è eccezionale: per la prima volta la legge fondamentale del Paese sarebbe stato il frutto di un lavoro collegiale, democratico, pienamente rappresentativo quindi di tutti gli strati della società. L’iter “fecondativo” è studiato al dettaglio, con
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benvenuto ed emozionante senso di responsabilità e futuro. Presidente dell’Assemblea viene eletto il socialista Giuseppe Saragat e come membri dell’Ufficio di Presidenza Umberto Terracini (che subentrerà a Saragat l’8 febbraio 1947) del Pci, Giovanni Conti del Pri, Giuseppe Micheli e Fausto Pecorari della DC. E questo da tutti auspicato clima collaborativo attraversa in effetti l’intero processo di elaborazione della Carta. Il 15 luglio 1946 è un passaggio operativamente decisivo: in questa data l’Assemblea – per lavorare in modo rapido e ordinato – istituisce al suo interno una Commissione per la Costituzione che, composta da 75 deputati (da qui il nome di “Commissione dei 75”) nominati dal Presidente Saragat ha il compito di stilare, articolo per articolo, il progetto legislativo complessivo da sottoporre poi al voto dell’intera Assemblea. La Commissione, insomma, può essere considerata come la vera e propria “madre” della Costituzione. A presiederla è Meuccio Ruini – del partito Democrazia del Lavoro – già ministro nel Governo Bonomi, presidente del C.I.R. (Comitato Interministeriale della Ricostruzione) e poi del Consiglio di Stato. Vice presidenti: Umberto Tupini, Gustavo Ghidini e Umberto Terracini. In seguito, poi, alla mozione d’ordine di Giuseppe Dossetti (DC) sul regolamento dei lavori, la Commissione stessa si suddivide in
tre sottocommissioni atte a trattare i diversi temi costituzionali, al fine di articolare ancora meglio i lavori. Vengono così suddivise: – La prima: Diritti e doveri dei cittadini. Presidente: Umberto Tupini. – La seconda: Organizzazione costituzionale dello Stato. Presidente: Umberto Terracini. – La terza: Lineamenti economici e sociali. Presidente: Gustavo Ghidini. Le sottocommissioni iniziano la loro attività il 26 luglio 1946. Il 29 novembre 1946 verrà inoltre istituito un ristretto Comitato di redazione (detto “dei 18”) con la funzione di raccogliere in un progetto organico i testi prodotti dalle Sottocommissioni. La Commissione dei 75 chiude il suo lavoro l’1 febbraio 1947 e un mese dopo, l’8 febbraio, l’Assemblea Costituente avvia la discussione della “bozza” di Costituzione. La conclusione di questa preziosa, intensa, scrupolosissima, operazione di lancio della riqualificazione civile e democratica della nazione si conclude il 22 dicembre 1947 quando la Costituzione della Repubblica italiana viene approvata, a scrutinio segreto, con 453 voti favorevoli e 62 contrari.”
Chi può dire di aver fatto meglio? Il pasticcio costituzionale renziano ha avuto lo stesso percorso democratico dei padri costituenti? Dove stiamo andando con queste modifiche alla costituzione? Verso la piena democrazia come ci indica la carta costituzionale o verso una società totalitaria e antidemocratica ?
ECCE FOEMINA!
#arteinmostra
“Fra l'infinità di cose mirabili in cui si manifesta la Natura nel nostro Sistema Solare, la più mirabile di tutte è l'essere umano di sesso femminile. E non solo perchè la Donna è "L'origine dell'Universo" come disse e dipinse il pittore Courbet, ma per altri miliardi di motivi che ancora non le vengono universalmente riconosciuti” Amedeo Curatoli
Amedeo Curatoli
La redazione di Kairos ha avuto il piacere di partecipare all’inaugurazione di “Ecce Foemina”, una mostra di disegni di Amedeo Curatoli - nudi femminili realizzati con tecniche miste - tenutasi al Maschio Angioino dal 21 al 31 ottobre 2016. Amedeo Curatoli disegna a Napoli, disegna a New York, esegue immaginando ma esegue anche guardando le posture di favolose modelle. La sua narrazione grafica è quasi sempre il corpo nudo della donna, con le sue forme, i suoi contenuti, le sue espressività. La traccia del suo modus operandi è sempre una linea curva che delimita i contorni e la silhouette della figura femminile.
Q u e l l a d e l d i s e g n o è l a p ro v a p i ù impegnativa per chi voglia definirsi pittore. E tuttavia nonostante l’epoca artistica di stravaganti magnifiche macchie di colore sulla tela, occorre precisare che sempre, prima del colore, c’è stato il disegno. Per essere veramente disegnatore occorre conoscere l’ornato, il geometrico, l’anatomia, la prospettiva, lo spazio della tela, le modalità della luce, le tonalità dei colori. Curatoli è tutto questo. Anzi c’è di più. Perché egli, alle categorie artistiche citate, aggiunge quello che spesso altri artisti trascurano: amare sì l’opera in sé in quanto prodotto della propria capacità estetica ma, allo stesso tempo amare la Natura, la Vita, l’Umanità, quella che è già e quella che diciamo essere futura.
Ovviamente non disdegna il colore. Anzi, lo riscatta nella conquista della esaltazione del corpo nudo della donna, come quando ad esempio, “tocca” con rossi vivaci o neri sfumati i capezzoli , le labbra, le ascelle , il pube, l’ombelico del corpo nudo della donna. Quasi mai il suo segno è aggrovigliato, al contrario nell’opera si osserva un estremo rigore di pulizia.
La sua massima concentrazione di facitore di linee di/segnate la raggiunge nell’incavo recondito della massa procreativa della Natura della donna, dove egli spazia con la grafite fino a dare più forme e contenuti alla sua stessa immaginazione.
Assestare sciabolate di matite sulla carta ed aspettare che la linea dominante esploda in tutta la sua volumetria, quella del corpo nudo della donna: Ecce foemina, appunto! Quella del Maestro Amedeo Curatoli.
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HOLDEN CAULFIELD
IPAZIA D.
PERDERSI TRA LA GENTE Durante i viaggi, anche brevi, in metropolitana, io mi perdo tra la gente.
In quel luogo non luogo, sospeso, di passaggio, crocevia di identità diverse, mi assale la vita, tanta, proiezione futura ed insieme già passata, come le immagini che scorrono dai finestrini: la luce in alternanza al buio dei tunnel, il rumore della corsa, il freno prepotente e scostumato, stridìo di ferro arrugginito e pericolo incombente, e poi lo sbuffo dell'ingranaggio a servizio delle porte automatiche che si aprono e si richiudono. Quasi un mostro dalle enormi fauci, con il suo lauto pasto di gente che vi entra, massa confusa, e vomito al contempo di altro ingombro di gente.
Eppure, ognuna di quelle identità, monadi solitarie, è una poesia, un mistero, una storia, un miracolo.
La vita, che vi alita intorno. Volti tra tanti, andature incespicanti su tacchi troppo alti o troppo consumati a dispetto di un vestito con pretese di eleganza. A volte l'arrendevolezza del sonno, sotto il bianco delle luci al neon.
La bellezza che può incantare, di un dettaglio, di un sogno. L'indifferenza fredda di coppie che non si riconoscono più. I baci rubati di chi non vede altri che l'amore. La disinvoltura di chi è capace di gestirsi tra la folla.
La scortesia che a volte è un modo di porsi, un'arroganza dello sguardo. La curiosità, travolgente, che riconosci nei bambini costretti però nella mano salda di una madre.
Le madri, sempre, comunque, anche quando sono sole, in metropolitana.
E poi le buste della spesa, carichi a volte troppo pesanti per braccia troppo fragili e cartelline degli ospedali, sotto braccia impaurite, venditori improvvisati e torte da asporto in mani tremolanti che chissà come arriveranno a destinazione. L’odore della scuola, caro, quello dell'ufficio, annoiato, che tenta di non lasciarsi invadere dai sudori altrui, misto a quello della pelle 24 ore. L'odore della cucina, acro e pungente su soprabiti violentati.
Gli sms, la musica, i libri, tanti, compagni privilegiati in questo tempo di attesa e di attese. C'è chi qui guarda dritto negli occhi e accenna un saluto, chi non guarda nessuno, neanche se stesso; chi si innamora di un volto, chi insegue un profumo, chi crede al destino, chi non pensa di farcela.
Ognuno di noi dura il tempo di un viaggio. Fermata più, fermata meno.
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UN MATRIMONIO DA INCUBO
Metti un’azienda tra le più detestate sulla faccia della terra, produttrice del RoundUp, contenente glifosato, ritenuto probabile cancerogeno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Che ha fatto e fa pressioni sui governi per evitare l’etichettatura dei prodotti OGM, che finanzia studi di comodo e sovvenziona ‘esperti’ per nascondere il fallimento delle propie sementi geneticamente modificate: nessun aumento significativo delle rese dei raccolti, resistenze agli erbicidi da parte delle infestanti, progressivo aumento del loro uso, impossibilità dei contadini nel sostenerne i costi, minaccie alla biodiversità. Strategie mistificatorie e negazioniste che hanno solide basi nella storia di quest’azienza già produttrice di policlorobifenili (PCB), vietati nel 1970. I PCB sono sostanze cancerogene e sono stati correlati a disturbi del sistema riproduttivo e di quello immunitario. Da molti documenti interni riservati, e poi pubblicizzati, l’azienda sapeva fin dall’inizio dei pericoli del PCB, ma decise di tenerli nascosti: "Non possiamo permetterci di perdere un solo dollaro di questo business".
Metti poi una delle Big Pharma più odiate al mondo che fin dalle origini ha acquisito ‘meriti’ sul campo per guadagnarsi tale titolo. Produzione di gas letali durante la prima guerra mondiale. Finanziatrice della campagna elettorale di Hitler, costruttrice del campo di concentramento di Auschwitz (basta il nome vero?) da cui attingere manodopera, il lavoro degli schiavi, per un suo vicino impianto. Essa deteneva il brevetto per la produzione di Zyklon B, un velenoso pesticida a base di cianuro, utilizzato durante l'Olocausto per annientare più di 1.000.000 di persone. Forniva, inoltre, alle SS il metanolo per bruciare i cadaveri. E si potrebbe continuare con i molti casi di produzione e commercializzazione, finanche dopo che se ne acqusiva evidenza certa, di prodotti con
effetti collaterali a volte letali.
Immagina che queste due aziende mettano insieme le forze. Che possa nascere una società che controlla quasi 1/3 del mercato delle sementi del mondo e quasi 1/4 del mercato dei pesticidi.
Immagina… puoi! Così recitava un vecchio slogan pubblicitario e così avranno pensato gli ’strateghi’ di queste due multinazionali, portando gli uni ad una proposta di acquisizione e gli altri ad accettarla. Un matrimonio da incubo. Bayer1 e Monsanto, a loro appartengo i profili sopra proposti, colossi impuniti e corruttori,ci raccontano di progetti e programmi in ricerca e sviluppo (R&S) per nutrire il mondo sempre più sovrappopolato ed impattato dai cambiamenti climatici. La loro unione come sola possibilità di avere la forza per farlo.
Questa non è una buona notizia. Dominio degli OGM e correlati agenti chimici cancerogeni, attacco alla biodiversità, accaparramento di terre per le proprie coltivazioni industrializzate, ulteriore minaccia alla sopravvivenza dei piccoli agricoltori (specie nelle aree rurali del sud del mondo) ed al loro sostentamento. Nè sarebbero migliori gli impatti sui consumatori.
Questa non sarebbe la prima volta che Monsanto e Bayer uniscono le forze. Durante la guerra del Vietnam, sono state entrambe coinvolte nello sviluppo dell’Agent Orange (Napalm) un ‘defoliante’ che ancora fa strage, a distanza di tanti anni, in Vietnam e tra i reduci dell’esercito USA.
(1) Nel 1925 Bayer si fonde con BASF e Hoechst per formare il colosso IG Farben che rimane in essere fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1946, il Tribunale per i crimini di guerra di Norimberga dichiarò che senza la IG Farben la seconda guerra mondiale non sarebbe stata possibile.
PASSEGGIANDO CON SIMONE Quando ti ho incontrata la prima volta non avevo ancora diciotto anni. Erano tempi ribelli, tempi in cui la tua parola veniva riscoperta da un’altra generazione di donne, dopo quelle per le quali avevi scritto e con le quali avevi condiviso sogni e disperazione. Avevi disvelato ciò che in tempi successivi sarebbe stata definita la questione di genere ascoltando, guardando le donne, le mogli di intellettuali amici, ne avevi scoperto la mancanza di autonomia, certo non causata da incapacità, l’assenza della centralità dell’essere, la marginalità ed il relativismo delle loro vite. Perché, me ne sarei resa conto molto più tardi, tu non avevi patito la soggezione di genere, eri stata fortunata, nata in una famiglia di buona borghesia parigina, che non ti aveva mai realmente privata di nulla, neanche del tuo profondo sogno di indipendenza e di ricerca, di studio, di letteratura e di filosofia. Una fortuna, lo hai riconosciuto tu stessa, che è continuata nel corso della giovinezza, attraverso gli incontri giusti, il gruppo dei piccoli compagni alla Sorbona che ti affibbiarono il nomignolo di castoro per il tuo scavare, ammucchiare ramoscelli di conoscenza e costruire sapere organizzato. Il castoro, così ti avrebbe sempre chiamata J. P. Sartre, l’amore ed il pilastro di tutta la tua feconda esistenza.
Mi hai portato per mano nel mondo che era dentro di me, me lo hai svelato. Gli hai dato le parole che avrei scelto per conoscerlo ed incontrarlo.
Grazie a te quell’età così complessa che è la stagione della formazione umana è diventata ricchezza, fioritura di idee e di sogni.
Hai stimolato la curiosità, la voglia di conoscere, di approfondire ed anche la ribellione, l’anticonformismo autentico, quello che cancella la schizofrenia individuale e sociale.
Ho usato due tue parole, schizofrenia ed autenticità, che andrebbero rilette e ripensate. Parlavi di schizofrenia della borghesia, la tua classe di origine, che hai ripudiato integralmente, con tutta te stessa, quando hai capito fino in fondo i danni che causa all’umanità intera.
Ed avevi ragione perché solo la schizofrenia consente di chiudersi nella propria realtà e di non percepire con nessuno dei sensi, né con la mente, né con il cuore, l’orrore di cui si è causa. Proprio come gli schizofrenici, i potenti, e non solo loro, ahimè, alzano un muro ottuso di indifferenza e di mancanza di pietas; a differenza degli schizofrenici, essi non soffrono per la loro malattia e a nessuno viene in mente di renderli innocui.
L’autenticità era oggetto di studio di Jean Paul Sartre; insieme ne avete fatto uno strumento di ricerca di una vera umanità: io sono quello che sono, come mi vedi, le parole che ti dico sono quelle che voglio dirti, senza mediazioni strumentali. Sembra semplice, ma non lo era e non lo è ancor di più all’inizio del ventunesimo secolo, in questo continente imbevuto di mistificazioni.
Grazie a te ho capito perché la parola originalità mi ha sempre dato fastidio: è un’impostura, diventa conformismo; questo è impossibile per l’autenticità ed è l’autenticità a
ANTIOPE
*Simone De Beauvoir – scrittrice e filosofa – nata a Parigi il 09 Gennaio 1908, deceduta nella stessa città il 14 Aprile 1986 è stata una delle figure intellettuali europee più affascinanti del Novecento. Autrice di “Il Secondo Sesso” edito da Gallimard nel 1949 ed uscito in Italia nel 1961 edizioni Il Saggiatore, primo saggio organico sulla condizione femminile analizzata partendo dalla filosofia esistenzialista, di cui è stata una rappresentante insieme a Jean Paul Sartre, il suo compagno di vita. Tra i romanzi “L’invitata”, “Il sangue degli altri”, “Una morte dolcissima”, “La cerimonia degli addii”, segnaliamo “I mandarini”, vincitore del premio Goncourt nel 1954, a giudizio di tanti e anche nostro il suo più riuscito. Di fondamentale importanza, per l’affresco di un periodo di tempo che va dalla fine degli anni Venti, passando per la Seconda Guerra mondiale, all’inizio degli anni Sessanta, è l’autobiografia in quattro volumi “Memorie di una ragazza perbene”, “L’età forte”, “La forza delle cose”, “A conti fatti”.
“Una donna libera è l’assoluto contrario di una donna leggera” risultare indigeribile alla schizofrenia sociale. Ti rifugiavi in Italia quando l’aria parigina ti diventava irrespirabile, come durante la violenta repressione della popolazione algerina da parte del governo francese; non riuscivi a capacitarti del fatto che il bel mondo della tua capitale si commuovesse davanti ad una rappresentazione del diario di Anna Frank mentre sosteneva il proprio governo che usava gli stessi metodi con i bambini, le donne, gli anziani algerini: la schizofrenia, appunto. Che imperversa, ora, materializzandosi in muri disseminati in tutta Europa rendendo visibile il rifiuto dell’alterità: l’altro da sé, vissuto come un pericolo alla propria meschina esistenza e
non nella ricchezza, nella freschezza che porta in questo vecchio e logoro continente. A differenza di te non ho dove rifugiarmi, Simone, perché questo piccolo pianeta è intrappolato in una schizofrenia totalizzante. Rivivo i viaggi che ho fatto con te, eri una viaggiatrice accanita. Prima a piedi, scalando, camminando, poi in bicicletta, da sola o costringendo Jean Paul e gli amici a ritmi massacranti, perché il mondo va afferrato, visto, preso, ammirato, amato. Perché il tempo è poco. È sacro. La sola sacralità che riconoscevi. Riuscivi a penetrare con lo sguardo e con i passi l’essenza dei luoghi. L’ho capito quando hai descritto Napoli, come se l’avessi nel sangue. Quando hai scelto Roma per le tue vacanze estive, malgrado la calura intollerabile degli agosti capitolini. Quando, nonostante l’ammirazione per la sua bellezza, hai affermato che Venezia era una città morta.
Ho camminato, con te, Simone, nelle strade di Parigi, negli anni trenta del secolo breve, di maggio, con gli ippocastani in fiore; ho respirato quell’aria con i tuoi polmoni e con la tua inesauribile voglia di vivere. A dispetto di te stessa, non sei riuscita ad andartene, amica mia.
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QUESTO PAESE VA ‘NZERTATO’ (INNESTATO) Brutti, sporchi e cattivi. Vecchi, malati, depressi, morti dentro. Senza prospettive per il futuro. Un paese che da tempo ha virato verso l’eutanasia collettiva. Un paese senza bambini, dove le morti sovrastano di gran lunga le nascite. Un paese che ha rinunciato al suo futuro, senza più speranza di costruzione di un tessuto sociale che tenga dentro e raccolga storie ed esperienze. Impera il si salvi chi può e chi ha mezzi. Il quadro è desolante, troppe mura e cittadelle fortificate si stanno ergendo in difesa del nulla. Un paese che si aggrappa a disvalori e si contorce su se stesso, è fermo, senza luce, in questo lungo tunnel.
Un paese dove i cittadini non si accorgono che stanno tagliando loro diritti, la democrazia e il welfare state. Stanno smantellando la sanità, la scuola pubblica, il sistema pensionistico. Tutto sarà privatizzato, tutto sarà legato a una logica di profitto e guadagno. Tutto sarà più precario: il presente e il futuro. Eppure, invece di contrastare queste politiche neoliberiste, il Patto di Stabilità, il pareggio di bilancio dettato e imposto dalla Bce e dal FMI, gli accordi
sottoscritti dai vari governi negli ultimi anni come quello di Maastricht, di Lisbona, di Dublino, che peggiorano le condizioni di vita dell’intero continente, i cittadini italiani ed europei rivolgono la propria rabbia, frustrazione, mobilitazione contro gli immigrati, i profughi, i rifugiati che fuggono da guerre, carestie, siccità, persecuzioni politiche e religiose. La crisi genera mostri ed alimenta la “Bestia” che ancora si aggira per l’Europa, facendo dimenticare le razzie commesse dai propri paesi colonialisti fino al recente passato. Devastazioni e destabilizzazioni geo-politiche che continuano attraverso l’ostinata “esportazione della democrazia occidentale”, per appropriarsi e gestire le ricchezze di quei paesi, in primis il petrolio, al fine di soddisfare le esigenze consumistiche dei luoghi ricchi del mondo. Questo paese, questo continente, questa millenaria civiltà si sta consumando lentamente, come una candela . Un clima da fine impero si aggira per l’Europa ed è inutile costruire mura, la deriva è inarrestabile.
MURI La storia dell’umanità è segnata dal costruire ed abbattere muri. Da sempre. Anzi no, da quando si è fermata in luoghi accoglienti e ne ha fatto dimora, casa. Poi ha iniziato ad accumulare beni, eccedenze e a quel punto ha sentito il bisogno di proteggerli ed ha iniziato l’innalzamento delle cinta murarie. Datano all’età pre-sumerica, nelle vallate della fertile Mesopotamia, le prime città fortificate. Da dieci, undicimila anni (risalgono al IX-VIII millennio a.c. le mura della prima costruzione di Gerico) non facciamo altro che chiuderci ed essere scassinati. Ne abbiamo costruiti di colossali, la grande muraglia cinese è lì, il vallo di Adriano delimita ancora il confine tra l’Inghilterra e la Scozia.
Il nove novembre dell’anno di grazia 1989 il vecchio continente si liberò da un muro costruito subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e gioì, perché alla fine, si sa, l’uomo non vuole barriere, anche se si intestardisce a farle. Tutta l’Europa festeggiò l’evento, simbolicamente cadeva l’ultimo pezzo della cortina di ferro. La Germania, finalmente, dopo quasi mezzo secolo, ritrovava la sua capitale e la sua unità territoriale. Uno che non fece salti di gioia fu un arguto, anziano uomo politico italiano, tal Giulio Andreotti, che stigmatizzò l’evento affermando di voler così bene alla Germania, da preferire di averne due. Risultò strana, all’epoca, la raffinata battuta del vecchio democristiano. Con il senno di poi, di cui notoriamente son piene le fosse, ci si rende conto che aveva intuito bene quello che sarebbe poi accaduto.
Dalla fine della guerra a quel fatidico anno l’Europa occidentale aveva costruito lo stato sociale più avanzato del mondo pungolata dall’esistenza, oltre cortina, del modello economico dell’impero sovietico. I suoi popoli vivevano in una democrazia ancora sostanziale
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MELQUIEDES
A colpi di badile ci stiamo scavando una fossa collettiva. Questa millenaria civiltà ci sommerge, ci travolge, ci copre di una coltre di cenere come dopo l’eruzione di un vulcano, i detriti ci stanno appesantendo, non siamo più capaci di creare forza e saperi. Quali novità sociali, culturali, artistiche, intellettive possono venire da questo vecchio mondo in decomposizione? Gli studi di settore parlano chiaro e sono impietosi: per arginarne la deriva e la lenta agonia, questo paese, questo continente hanno bisogno d’innesti, di linfa nuova, fresca, non contaminata da stratificazioni culturali, economiche e sociali; devono aprirsi e non chiudersi in se stessi.L’intero continente ha bisogno di essere attraversato, fecondato da altre genti e culture come di acqua ha bisogno il terreno arido dopo un lungo periodo di siccità. C’è bisogno di semi nuovi e forti, non manipolati, se si vuole avere un buon raccolto, per mettere fine a questa arida stagione delle coscienze e dei cuori. E’ in discussione il nostro futuro.
ANTIOPE, HOLDEN CAULFIELD e gli Stati erano tutti Stati sovrani. I sindacati facevano ancora il proprio lavoro, i partiti comunisti nel sud Europa e le socialdemocrazie nordiche erano forti e chi lavorava godeva di una grossa fetta dei frutti della propria fatica.
La caduta del Muro di Berlino, e la conseguente fine dell'Unione Sovietica, furono presentate come l'alba di una nuova era di pace, democrazia e sviluppo economico. La ‘ fi n e d e l l a s t o r i a ’ , i l p u n t o d i a r r i v o dell'evoluzione ideologica dell'umanità: la democrazia liberale. Si ritornava agli albori di inizio novecento, senza ironia purtroppo. La destabilizzazione dei Balcani (l’ex Jugoslavia, per internderci) segna il nuovo corso. Che sa di antico!
Pace, democrazia, sviluppo economico. Da quel novembre del 1989 mai parole furono più pronunciate. Mai più fraintese, vilipese, svuotate di senso. La democrazia si è
cominciata ad esportarla con le bombe, la pace la si è fraintesa con il finanziare qualsiasi gruppo o fazione tornasse utile agli interessi occidentali e per quanto riguarda lo sviluppo economico, non crediamo si debba dire molto; tutti paghiamo il prezzo della ristrutturazione capitalista che trova il suo apice nella crisi finanziaria del 2008.
Sgomberando il campo da ogni possibile equivoco, sottolineiamo che non siamo nostalgici del ‘socialismo reale’, non, almeno, delle sue derive oligarchiche e securitarie. Di quel ‘contro-imperialismo’ che trovava la sua r a g i o n d ’ e s s e re i n u n ’ a n e s t e t i z z a n t e ‘coesistena pacifica’.
La realtà scaturita dal crollo di quel muro ci ha proiettato nel sitema detto della postdemocrazia: un sistema elitario che svuota dal di dentro ogni diritto di partecipazione popolare alle scelte che determinano la propria vita ed il proprio futuro.
MISERIE RICCHE E RICCHE POVERTÀ
Irma è giovane e bella, sorridente. Lavora tutto il giorno come phonista, a ritmi sostenuti in un negozio di parrucchiere da 5 euro a piega, e che a dispetto dei prezzi bassi fornisce un livello di buona qualità, compreso uno shampoo lento con massaggio. Irma ha un tocco magico, ed è la più richiesta tra le “ragazze” (si chiamano così da queste parti) del negozio, in quanto svolge il suo lavoro con professionalità e competenza. Mi colpisce di lei l’autorevolezza e la serietà con le quali si muove; del resto, dice, il suo sogno, sin da bambina, è sempre stato quello di fare la parrucchiera.
La medesima serietà, la riscontro in Salvatore, il “ragazzo” (anche se vi lavora da quasi 20 anni) di una autocarrozzeria locale. In silenzio, osserva e valuta i danni delle auto, spesso risolve il problema immediatamente e senza pretendere soldi in cambio. “Un lavoro da nulla, vale solo un caffè”, dice. Quando lo vedo lavorare, ho sempre la sensazione di aver a che fare con un fine specialista , un esperto del settore. Uno che pensa, che sa quel che fa, che opera. E mi fido.
Irma e Salvatore hanno l’arte tra le mani, sono eccellenze non riconosciute dal mercato. Le loro vite e quelle dei loro figli hanno il prezzo che a loro viene dato, quello di un caffè. Non so se abbiano consapevolezza che potrebbero pretendere di più, che sono in qualche modo sfruttati dalla società, dal “padrone”, dai clienti. Forse sì, ne sono consapevoli, ma nonostante tutto continuano a fare il lavoro al meglio, con serietà. Rispondono prima di tutto a se stessi. Portano avanti il paese.
Anche Caprotti, il patron di Esselunga recentemente scomparso, è stato un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al lavoro, con impegno e dedizione. Come Irma e Salvatore, come molti dei suoi dipendenti. La differenza però è evidente, e sta nel valore altissimo, in termini monetari che questa società, ha riconosciuto alla sua “arte”. Il testamento di
Caprotti è illuminante, affascinante, degno della migliore letteratura dell’ottocento per pathos dovuto a beghe familiari, stile “I Buddenbrook”, viste le spartizioni sulle quali ci illumina e della quantità e valori dei beni lasciati in eredità. Miliardi di euro, vigneti, case di caccia, tenute, castelli, titoli, intere biblioteche, Renoir, oli di Manet, Bentley e fucili da caccia: l’elenco del patrimonio è così lungo da far pensare alla favolosa lista di possedimenti del Marchese di Carabàs, ma senza l’astuta fanfaronata del gatto con gli stivali!
Caprotti, come Agnelli, Merloni, Ferrero, Pirelli e lo stesso Berlusconi, era un uomo ricchissimo. La storia italiana è anche fatta di grandi famiglie imprenditoriali ed è ricca di diatribe sfociate all’interno dei nuclei familiari (spesso allargati) che girano intorno alla figura dell’imprenditore. Turbolenze familiari post mortem, degne delle peggiori “Dinasty” che spesso hanno messo a rischio la sopravvivenza stessa dell’impero industriale, per l’incapacità degli eredi, considerato che solo un’azienda familiare su sei arriva alla terza generazione.
I dati ci dicono che in Italia da metà degli anni ‘80, la disuguaglianza economica è cresciuta del 33%. Al punto che oggi l’1% delle persone più ricche detiene più di quanto posseduto dal 60% della popolazione (36,6 milioni di persone); mentre dal 2008 ad oggi, gli italiani che versano in povertà assoluta sono quasi raddoppiati fino ad arrivare a oltre 6 milioni, rappresentando quasi il 10% dell’intera popolazione.
Ora, al di là di ogni mia convinzione sui limiti e le pecche del sistema capitalistico, senza volerne fare un proclama politico delle idee della sinistra più genuina, l’osservazione della realtà, elementare ed immediata, mi porta alla considerazione che concentrare ricchezze miliardarie nelle mani di un solo uomo, per quanto capace e meritevole, è semplicemente
IPAZIA D.
immorale e sbagliato. Immorale perché evidenzia che a fronte di tanti che non possono mangiare, c’è chi può mangiare 100 volte al giorno. Sbagliato perché nessun uomo può mangiare, pur volendo, 100 volte al giorno. Ovvero, in parole povere, c’è un limite umano anche in questo, e la ricchezza, oltre un certo valore è contro natura, sfacciata, pacchiana, ingiustificata, inutile. E non è questione di invidia quanto di decenza ed umanità, perché la ricchezza spropositata infrange il principio di equità sociale universalmente riconosciuta in una società che pretende di definirsi civile ed è inevitabilmente il frutto di una sottrazione illegittima di risorse.
Ed è tutto fuorché bella, finanche per i Paperoni di turno, costretti in un processo di disumanizzazione individuale, schiavi di una disponibilità che, paradossalmente, non è a disposizione, e di alterazione dei rapporti con la realtà ed i propri simili.
Insomma, il concetto stesso di ricchezza incorpora un senso di forte, quasi parossistico, divario tra le persone, a cui non c'è, né può esserci una giustificazione razionale.
Accade che questi ragionamenti siano etichettati come di sinistra, quella buonista e visionaria, per cui vale l’invettiva «Voi odiate i ricchi, voi volete l’uguaglianza nella povertà!». Invece no, non c’è odio per i ricchi, ma per il disagio sociale, dunque la necessità di veder promosse politiche tese a garantire un salario minimo dignitoso, a ridurre il divario tra le retribuzioni di uomini e donne, ad assicurare reti di protezione sociale e accesso a salute e istruzione gratuite, a servizi essenziali per rompere il ciclo della povertà tra le generazioni.
Perché il progresso sociale non può che essere collettivo, condiviso, mai individuale; e perché ridurre le disuguaglianze deve diventare un impegno morale.
Per tutte le Irma e i Salvatore che portano avanti questo paese di miserie ricche, e ricche povertà.
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L’EUROPA DEI MURI (Continua dalla prima) Non abbiamo avuto neppure il tempo di gioire per l’abbattimento del muro di Berlino, 9 novembre 1989, il muro della vergogna simbolo della divisione tra l’Est comunista e l’Ovest capitalista, ingenuamente illusi che una nuova era di giustizia e cooperazione tra i popoli potesse avere inizio, che alla prima seria ondata migratoria l’Europa ha pensato bene di innalzare degli odiosissimi muri, più spessi e alti dei precedenti, più minacciosi e sicuri, muri traboccanti di odio e disprezzo. Muri di pietra, di calcestruzzo, muri metallici, in doppia e tripla fila, muri sofisticati, ipertecnologici. A quando quelli con filo elettrico da 10000 volts? La grande muraglia d’Europa gradualmente si completa e non s’avvede che imprigiona se stessa. A bloccare la rotta balcanica è stata per prima la Grecia nel 2011 con un fossato lungo 120 km, largo 30 metri e profondo 7, seguita dalla Bulgaria nel 2013 che ai confini con la Turchia ha eretto una barriera di reti metalliche e filo spinato lunga 160 chilometri, poi è stata la volta dell’Ungheria di Orban che ha fatto costruire una barriera lunga 175 km ai confini con la Serbia presidiata da 10 mila agenti, dopo aver già sigillato le frontiere con la Croazia e la Slovenia. Poi la Macedonia, l’Austria al Brennero.
Attualmente è in piena costruzione il muro tra Francia e Gran Bretagna, là dove c’era la famigerata “giungla” di Calais, con i soldi inglesi, ma in pieno territorio francese, il Vallo di Adriano del terzo millennio (quello antico del II secolo, divideva la Britannia dalla Scozia, costituiva il limes più settentrionale dell’impero romano) ha la stessa funzione di frenare l’arrivo dei nuovi barbari provenienti questa volta da Sud. Per la sua contemplazione estetica (o per un raffinamento di malignità?) il muro avrà dipinto da un lato dei fiori.
Sulla costa africana, in Marocco, nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, negli anni Novanta, sono state costruite tre barriere parallele di differente altezza la cui sommità è ribaltabile, cioè dotata di un marchingegno che fa cadere chi tenta di attaccarvisi. La barriera è dotata di potentissimi riflettori e strumenti per la visione notturna. Costo dell’operazione 30 milioni di euro, pagati in parte dall’Unione Europea.
A proteggere invece il lato sguarnito, quello marittimo, prospiciente l’Italia e la Grecia, ci sta già pensando il Mediterraneo, il mare Mostrum che tutto inghiotte.I muri non fermano le
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SALVATORE PUGLIESE ondate migratorie, ma le deviano verso altre direttrici procurando pericoli maggiori. Come negli Stati Uniti, tra Tijuana e San Diego, ai confini col Messico, in cui la barriera d’acciaio u l t r a - t e c n o l o g i c a ( t e l e c a m e re a infrarossi, sismografi che rilevano il movimento dei corpi umani, torri di osservazione, ecc.) e super sorvegliata da veicoli ed elicotteri armati, ha spostato l’immigrazione clandestina verso zone più pericolose come il deserto dell’Arizona dove ogni giorno decine di messicani rischiano la morte per disidratazione o per annegamento nel Rio Grande del Norte. Fu fatta costruire da Clinton marito.
Bienvenida a Tijuana, bienvenida mi amor, bienvenida la suerte, bienvenida la muerte (Manu Chao). I muri servono a placare momentaneamente le proteste dei gruppi più reazionari, aggraveranno i problemi del traffico di esseri umani, ma sia chiaro, i muri non servono a niente:
Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale, o se preferite “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso“. (U. Eco, Cinque scritti morali, 1997).
Muri invalicabili come abbiamo visto (ma non per il leggendario popolo dei Sao del Ciad, estinti nel IX secolo, così alti che i loro archi erano fatti con i tronchi delle palme e così voraci che mangiavano ippopotami come polli), muri di pietra, di legno, di terra, muri epici come quelli di Troia o di Cnosso, ciclopici come quelli di Babilonia, (lunghi 15 km, spessi 8 metri e alti 100, un tempo facevano parte dell’elenco delle sette meraviglie del mondo antico), cinici come quello di Wall Street, che distribuisce miseria e ricchezze al mondo intero, sacri come il Muro del Pianto a Gerusalemme, il pianto per gli antichi torti subìti e il pianto di pentimento, si vorrebbe credere, per torti restituiti ingiustamente ad altri.
La costruzione del muro di Palestina, in Cisgiordania, è stata condannata con due risoluzioni dell’ONU nel 2003 e nel 2004 e dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. Il muro è lungo 730
km e alto 8 metri, circondato da fossati tra i 60 e i 100 metri, ha torri di controllo ogni trecento metri. Ingloba assieme alle colonie israeliane la quasi totalità dei pozzi, è equipaggiato di barriere elettroniche.
Il Vaticano ha preteso da Israele che chiese e monasteri fossero inglobati nella parte israeliana.
Terminiamo qui questa sinistra rassegna dei muri del Novecento (ci sarebbero quello di Gorizia, fatto costruire da Tito nel 1947 e rimasto su fino al 2004, quello di Belfast, di Cipro, della Corea, dell’Ucraina), a noi interessa cogliere la sua portata simbolica ed evidenziare che nell’immaginario collettivo il muro richiama un concetto di esclusione, di separazione, c’è “un al di qua” e “un al di là”, un “dentro” e un “fuori” a cui è negata ogni possibilità di interagire. Il muro presuppone un “universo contro”, la presenza di un nemico, di un avversario da cui proteggersi.
E perciò in quello spazio libero che intercorre tra noi e loro, su quella linea immaginaria chiamata “confine” deve perentoriamente materializzarsi un impedimento, una demarcazione, un muro. Nella terra di nessuno, nella No man’s land, ci resteranno loro, i profughi, i migranti, soli e disperati, increduli e sfiduciati, marceranno silenziosi e a testa bassa lungo questa muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. (E.Montale). I muri resteranno su tracotanti e beffardi a ricordarci le nostre colpe e la nostra ignavia, fino a quando vinceremo la nostra inerzia e, come per le mura di Gerico, li abbatteremo con le nostre trombe e col nostro grido di guerra.
There’s a battle outside / and it is ragin. / It’ll soon shake your windows / and rattle your walls / for the times they are a-changin. (“The times they are achangin” Bob Dylan).
C’è una battaglia fuori e sta infuriando. Presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri perché i tempi stanno cambiando.
KAIROS web La parola che si sposa con il Tempo rivista periodica di cultura
numero 05 novembre 2016
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