Kairos 2016 06

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KAIROS

# 06 dicembre 2016

All’interno Intervista a Mimmo Tuccillo Sindaco di Afragola

Non tutti possono ricevere i nostri auguri Con l’approssimarsi del Natale e del nuovo anno c’è la consuetudine di scambiarsi gli auguri come segno di amicizia, di pace e di amore.

All’ipocrita retorica del vogliamoci bene che il conformismo sociale impone in questi momenti, per invitarci ad essere più buoni e mansueti, il nostro pensiero deve andare a condanna di chi usa il potere per emarginare, sfruttare, opprimere, massacrare, assetare, affamare.

A chi viola i diritti umani e la dignità dei popoli. Il tentativo nostro è di dare voce ai turbamenti, alle amarezze, ai soprusi e alle ingiustizie che sono costretti a subire quotidianamente quanti, e sono molti, vivono una marginalità sociale, nel nostro come in ogni altro paese del mondo.

Non meritano perciò i nostri auguri i potenti del mondo, le multinazionali, le banche salvate dai risparmiatori incolpevoli.

I nostri auguri non vanno ai costruttori di muri. A chi rimesta le acque luride delle fogne per gridare all’invasione a fronte di un dimezzamento del numero di chi tenta di attraversare il mediterraneo mentre cresce il numero dei morti annegati.

No, i nostri auguri non vanno ai costruttori di armi, a chi le commissiona e fa piovere bombe su popolazioni inermi; a chi fa volare droni che planano, invisibili, su geografie già annichilite dall’avidità dei plutocrati.

Non andranno i nostri auguri a chi del profitto ne fa religione, devastando vite e pianeta. A chi, ancora, vuole vederci costretti a scegliere tra salute e lavoro. A chi ci vuole emigranti.

A chi ruba la pensione ai vecchi ed il futuro ai giovani. Agli officianti di austerità e debito.

Possono mai andare i nostri auguri ad Henry Kissinger sopravvissuto a Fidel? al neo-eletto presidente Trump o al despota

Erdogan? ai cacicchi nostrani mai orfani di un Giorgio? alla italica classe prenditoriale sempre con le mani nella pubblica cassa mentre grida ‘al ladro!’ a chi rivendica reddito? alla casta dell’anticasta che scientemente ignora che legalità e giustizia non sono sinonimi?

Sicuramente i nostri auguri non andranno agli ignavi.

Nel nome di Berta Cáceres, attivista honduregna, in lotta per la dignità e l’autodeterinazione del suo popolo, assassinata il 3 marzo, e di Abd Elsalam Ahmed Eldanf che ha trovato la morte, lo scorso settembre a Piacenza, ad un picchetto per la dignità ed i diritti del lavoro, i nostri auguri sinceri e fraterni vanno a tutti noi che non abbassiamo la testa.

In direzione ostinata e contraria.

LA REDAZIONE

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La Costituzione è tornata di moda Il paradosso di questi giorni: il Referendum che voleva cambiare e stravolgere la nostra Costituzione, l’ha fatta invece tornare, superbamente, di moda.

Molti sono stati costretti a rileggerla, altri a studiarla, qualcuno a conoscerla per la prima volta.

E tutti, in questo richiamo imposto, dai vecchi conoscitori atti a dispensare opinioni autorevoli ai giovani corteggiatori, se ne sono innamorati. E ancor più che difenderla, come hanno fatto con ampia maggioranza a dispetto di ogni previsione, l’hanno invocata come fosse una madre ritrovata e per troppo tempo abbandonata, accogliente, protettiva.

In questo tempo di crisi e paure, di perdita di riferimenti e coscienze di classe, la Costituzione è apparsa in tutta la sua autentica bellezza, più attuale che mai, viva e generosa, come quel genitore capace di infondere speranza, l’unico nel quale trovare risposte ai propri bisogni. Madre nella dolcezza, padre negli insegnamenti. Una illuminazione, all’improvviso.

E’ tutto lì il nostro destino, scritto in un passato che in un momento di grandiosa ispirazione, aveva tracciato la nostra strada futura, sulle macerie di un mondo che stava per autodistruggersi. Una via lunga tracciata nelle pieghe degli articoli, nello splendore degli aggettivi, nella perfezione dell’equilibrio tra senso di responsabilità e centralità dell’individuo e della sua dignità. Un’ode alla bellezza, un monumento alla vita, alla cosa pubblica, alla libertà.

La gente si è sentita investita di una responsabilità grande, e quando ha deciso da che parte stare ha sentito che la Costituzione fosse dalla loro parte, e da figli grati, hanno scelto, compreso il motivo per cui è da un quarto di secolo che subisce attentati. “Governabilità” è la parola d’ordine con cui, oggi come ieri – da Craxi a Berlusconi a Renzi – viene g i u s t i fi c a t a q u e s t a o p e r a z i o n e d i

“riforma”: che vuol dire onnipotenza della politica rispetto alla società, resa necessaria dalla sua impotenza e dalla sua subalternità ai poteri dei mercati. “Ce lo chiede l’Europa”, affermano i nuovi costituenti a proposito delle loro riforme. E’ vero: l’Europa e quindi i mercati ci chiedono l’involuzione autocratica delle nostre democrazie, necessaria perché i governi abdichino al loro ruolo e possano liberamente aggredire i diritti sociali e del lavoro dai quali dipendono la vita e la dignità dei cittadini.

Ancora una volta per capire da che parte stare, la risposta l’abbiamo trovata nella Costituzione; l’abbiamo studiata e capita, colto le motivazioni per cui i padri fondatori non la volevano proprio, questa maledetta governabilità, concependo una carta che limitasse al possibile gli spazi di potere, e che questo fosse costretto ad operare il più possibile attraverso il compromesso, e non soltanto come conseguenza naturale a ciò che il ventennio fascista aveva provocato, ma soprattutto come reazione a quello che c'era oltre, dietro il fascismo; gli stessi occulti poteri che sono stati dietro, e oltre la politica della così detta prima repubblica, e alla politica contemporanea.

Per questo ci sono Camera e Senato; Regioni, Province, Comuni con poteri forti Ovvero: gli egoismi individuali, i nostri lati oscuri, e tutte quelle forze interiori ed esterne (la massoneria, la finanza, il vaticano) che sono ostacolo allo sviluppo delle coscienze, e che erano molto chiare ai padri fondatori che avevano appena vissuto i più grandi massacri della storia

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IPAZIA D.

dell'uomo: la prima e la seconda guerra mondiale.

Ecco, secondo me, l’aspetto più prodigioso dello spirito della Costituzione, il suo insegnamento che deve essere un faro per le lotte future è questo: la consapevolezza che non esisteva e non s a re b b e m a i e s i s t i t o u n d o m i n i o dell’umanità sul suo lato oscuro e che pertanto il potere va limitato il più possibile e costretto ad operare quindi attraverso il compromesso, secondo la regola che un compromesso tra due egoismi è comunque preferibile al prevalere assoluto di uno dei due, e che un compromesso tra tanti altri egoismi è sempre migliore del precedente. E questo compromesso continuo deve includere più referenti possibili.

Per questo ci sono Camera e Senato; Regioni, Province, Comuni con poteri forti: perche i padri fondatori volevano che tutti scendessero a patti con tutti, a costo di perdere tempo e denaro, a costo di mettere insieme richieste da voci più disparate e contraddittorie.

Ed hanno avuto ragione, ce lo dice la Storia. Aver alterato la struttura del sistema elettorale, introducendo leggi a sistema maggioritario sempre più spinte, ha provocato distorsioni che sono sotto gli occhi di tutti nonché un declino democratico in perenne accelerazione, i cui effetti nefasti li stanno pagando i cittadini. Ciò che stiamo vivendo è esattamente ciò che i padri fondatori immaginavano sarebbe potuto accadere, ed era per questo che Calamandrei esortava i giovani a capirla e a difenderla la costituzione. Per questo ci esortava ad essere migliori, perché avremmo potuto così creare compromessi sempre migliori. Diventare, nel nome e attraverso la Costituzione, cittadini e non sudditi.


Il paradigma etico della responsabilità Già nel 1916 una visione, di un certo effetto e di non poco devastante impatto prospettico, induceva Max Weber, mutuando il termine in parte da Stuart Mill, a parlare di politeismo dei valori.

Esso si declina eticamente sotto forma del dualismo tra etica dei principi o etica delle intenzioni e delle convinzioni ed etica della responsabilità.

A torto o a ragione, il primo tipo di etica è ascritto dal tedesco a principi assoluti il cui senso di assolutezza è legato all'essere indipendenti dalle conseguenze che dal loro esercizio scaturiranno.

Francamente, ma questa è una mia personalissima posizione, ritengo che qualunque di questi principi porti come germe in sé una forma di estremismo.

Diversa la situazione, secondo Weber, del paradigma etico della responsabilità che ha sempre presente, nel suo dispiegarsi, le conseguenze generate dal suo storico articolarsi.

“in un mondo che per tutto richiede una certificazione o una abilitazione, per l'unica cosa che realmente la richiederebbe, la genitura, non è prevista.” Comprensibile una prima immediata conseguenza di inerire il concetto di responsabilità, così ipostatizzato, alla sfera politica e giuridica anche se di q u e s t a n o n s i v u o l e s o t t o l i n e a re l'importanza in queste poche righe.

La sfera giuridica, infatti, enfatizza un aspetto della responsabilità, che se pur di chiara sua pertinenza, minimizza la portata che il valore in questione ha o dovrebbe avere per l'uomo svincolato da qualsivoglia cornice normativa o politica.

Interessante invece il contributo alla riflessione di Hans Jonas.

Egli afferma che l'essere di un ente, così come Heidegger vorrebbe definirlo, già ad iniziare dal suo semplice esistere, postula immediatamente ed evidentemente un dovere degli altri nei suoi confronti.

Sembrerebbe che il senso di responsabilità non debba darci tregua, dunque, eppure non è stato sempre così. Parlando, a titolo di esempio, del bambino egli include nel già esserci (nascita) un necessario non essere ancora in senso deontico.

Ciò obbliga i genitori ad avere attenzione estrema al percorso di questa

meravigliosa tensione tra il suo non essere ancora e il suo non poter più non essere.

Noi chiamiamo questo educazione.

Non sottolineamo però con altrettanta forza che essa debba essere esercitata secondo responsabilità.

Richiamando una arguta osservazione di Woody Allen: in un mondo che per tutto richiede una certificazione o una abilitazione, per l'unica cosa che realmente la richiederebbe, la genitura, non è prevista.

La responsabilità genitoriale, quindi, deve essere tale da considerare le cose non sub specie aeternitatis, tipiche dei valori che Weber ascrive ai principi assoluti, ma sub specie temporis, potendo per un solo attimo di distrazione perdere tutto.

Da qui nasce la convinzione che matura in Jonas il famoso principio di responsabilità che amo riportare per intero, citando:

"La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando apprensione nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere". Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell'essere, se io non mi prendo cura di lui?

Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità.

"Quanto più lontano nel futuro, quanto più distante dalle proprie gioie e dai propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto più la chiarezza dell'immaginazione e la sensibilità emotiva debbano essere mobilitate a quello scopo".

Sembrerebbe che il senso di responsabilità non debba darci tregua, dunque, eppure non è stato sempre così.

I nostri padri greci e latini poco conoscevano il senso di responsabilità così come lo profiliamo noi e liquidavano tutto con un generico ed omnicomprensivo mos maiorum.

Il primo sentore dell'importanza che la responsabilità riveste come valore interpersonale, che per noi è ormai più un sentimento che un concetto, compare nel secolo dei lumi quando i suoi ideologi, ben consapevoli dell'importanza del nuovo assetto sociale, che di lì in poi avrebbe avuto protagonismo, affiancano all'uomo (homme) il cittadino (citoyen).

Il cittadino, diversamente dall'uomo, assume su di sé un senso più alto del suo stare in società crescendo con ciò il suo senso di responsabilità.

Il peso di responsabilità coevo alla nuova figura ha ancora un senso ingenuo e

EDUARDO SQUILLANTE

richiede impegno più che attenzione nel suo esercizio.

Il compito è arduo, come sostiene Axel Honneth nel suo stupendo affresco saggistico con cui stigmatizza la favolosa quanto dolorosa parabola esistenziale del socialismo, in quanto è di non facile fattività far convivere gli opposti termini di libertà e fratellanza in un clima di perfetta uguaglianza.

Non seguiremo questa traccia che a parte i connotati ideologici, che pur sono di spessore, ci indurrebbe ad una deriva politica necessaria, pur sottolineandone la

Siamo ormai arrivati all'età della piena maturità e una nuova sfida aspetta di essere affrontata: l'era della tecnica e il conseguente nichilismo che la contraddistingue. poderosa portanza.

Il senso di responsabilità è dunque ancora ingenuo, una sorta di adolescenza in cui tutto è grande ma nulla è ambiguo.

Nietzsche, Marx, Freud spalancano le porte della piena maturità al senso di responsabilità affidandole il compito di fugare l'idea di sospetto che la loro analisi del mondo ha fatto partorire.

Con loro nulla è ciò che sembra e tutto va disvelato responsabilmente.

Siamo ormai arrivati all'età della piena maturità e una nuova sfida aspetta di essere affrontata: l'era della tecnica e il conseguente nichilismo che la contraddistingue.

In essa tutto scorre ad una velocità iperbolica e ciò che è vero oggi potrebbe non esserlo domani, la reciprocità tra mezzi e fini è completamente stravolta e con essa anche il significato di vero e falso.

Una nuova ondata di pensatori reinterpreta la responsabilità e ad onor del vero grande rilievo ha il contributo di pensatrici come Roberta De Monticelli, Adriana Cavarero, Franca D'Agostino.

Tanto ancora andrebbe detto e tanto si è taciuto ma io ho lanciato la pietra nello stagno e sarei felice di aver prodotto uno sciame di cerchi ognuno dei quali foriero di infinite e gradevoli discussioni.

Come dice il sommo poeta teorizzando dei concetti e dei termini:

littera gesta docet , quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia ossia il senso letterale ti spiega il fatto, quello allegorico ciò che devi credere, il senso morale ciò che devi fare, il senso anagogico dove devi mirare. La responsabilità come termine e come concetto li abita tutti.

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Incontro con il Sindaco di Afragola Abbiamo incontrato il sindaco della città di Afragola, l’on. Domenico Tuccillo, per una intervista al nostro giornale che andasse a scoprire non il politico, ben conosciuto in città per i suoi molteplici incarichi anche nazionali, ma l’uomo; la sua formazione culturale, i suoi principi ispiratori, i suoi studi, le sue letture, il suo rapporto con la città natìa. Abbiamo voluto questo ‘taglio’ perché crediamo che sia fondamentale conoscere le persone che ricoprono ruoli istituzionali dal punto di vista umano soprattutto in tempi in cui la faglia tra cittadini ed Istituzioni si allarga sempre più. Siamo solo spiacenti che non ci sia stato il tempo per porre altre domande, inerenti alla visione del futuro del territorio cittadino, dal punto di vista urbanistico, sociale ed economico che ci stavano particolarmente a cuore. Ringraziamo l’onorevole Domenico Tuccillo per il tempo che ha voluto e potuto dedicarci.

D. Lei è nato ad Afragola e ci ha vissuto da piccolo. Cosa della sua città natale, come era allora, porta dentro di sé? R. La mia era una famiglia in vista ad Afragola e mio padre, che aveva un ruolo sociale molto forte, non si sottraeva mai alle sollecitazioni dei suoi compaesani nei cui riguardi manifestava sempre la disponibilità e l’affetto che si riserva alle persone di famiglia. Questa dimensione di una vita quotidiana non vissuta nel chiuso del proprio nucleo familiare ma a contatto costante con la comunità circostante, con la porta di casa sempre aperta al sopraggiungere di qualche visitatore, è una cosa che mi sono portato dentro come un ricordo indelebile e come un valore da coltivare.

D. L’identità di una comunità è fatta di conoscenza dei tempi e dei luoghi in cui essa cresce. Quali sono i tempi che, a suo parere, ne hanno maggiormente caratterizzato lo sviluppo? Quali sono i luoghi o le espressioni artistiche che predilige della nostra città? R. Penso che gli anni tra il ’70 e ’80 siano

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quelli che maggiormente hanno segnato uno spartiacque nella nostra comunità. Negli anni ’60, quando ero ragazzino appunto, la struttura sociale e familiare della città era ancora molto tradizionale, direi patriarcale. E’ con gli anni ’80 che Afragola inizia a trasformarsi, anche urbanisticamente. A distanza di tempo possiamo dire che, al netto dell’insediamento pesante delle Salicelle, i processi di cementificazione selvaggia sono stati contenuti abbastanza bene, anche se un’espansione ordinata della città non fu adeguatamente programmata, dando vita al fenomeno devastante dell’abusivismo. Oggi il nostro compito è di riordinare l’esistente. Valorizzando le nostre eccellenze. Penso al patrimonio delle chiese, o ai palazzi d’epoca, che non mancano, a partire dal bellissimo palazzo municipale, o alle corti disseminate nel nostro centro storico.

D. Lei ha una formazione umanistica: quali sono gli autori che hanno maggiormente segnato la sua formazione dal punto di vista letterario? Chi sono gli scrittori che oggi predilige? R. Il primo autore che ho letto ed amato è

stato Pavese, all’età di 14 anni. Poi, attraverso una bella traduzione dei “Les Fleurs du mal”, scoprii la poesia, che lessi appassionatamente; Montale in testa. Iscrittomi alla facoltà di Giurisprudenza, per seguire la vocazione di famiglia, lasciai dopo un anno per passare a Lettere. Lì maturai, presso la cattedra di “Storia della critica letteraria” diretta da Gabriele Catalano, la passione per il romanzo e l’analisi stilistica dei testi. Autori come Spitzer, Barthes o Bachtin hanno costituito il mio nutrimento in quegli anni. Poi, sotto la direzione di Catalano, un gruppo di noi fu scelto per lavorare ad un’analisi e ad un volume (che fu pubblicato pochi giorni prima della morte del professore) delle “strutture del romanzo italiano da Verga a Eco”. A me toccò di interessarmi di Fogazzaro e di quel grandissimo scrittore, allora ancora poco conosciuto, che è Federigo Tozzi: un Kafka in versione senese. Mi si aprì un mondo che mi introdusse alla grande narrativa europea. Tra questi autori quelli che più ho amato sono stati di certo Marcel Proust e Thomas Mann. Tra gli scrittori attuali trovo che Javier Marias sia quello maggiormente degno di nota.


D. Che cosa ha fatto nascere in Lei la passione politica? Quali autori la hanno maggiormente influenzata? R. La politica ha sempre lambito la mia vita. Anche quando mi dedicavo alla letteratura, fuori della mia stanza c’era la mia famiglia, l’attività e le relazioni sociali di mio padre, le visite abituali a casa di personaggi importanti, le lunghe discussioni: in una parola la politica. Ma anche la mia formazione ad un certo punto ha subito uno scatto in avanti, c o m p l i c e l ’ a b b a n d o n o d e l l a v o ro universitario e l’inizio dell’attività di giornalista, presso il “Roma”. Senza tralasciare la letteratura iniziai ad interessarmi sempre più di storia, di filosofia e di politica. Sicuramente la lettura delle opere di Croce mi stimolò in questa direzione, segnando il distacco da una adesione giovanile e sentimentale al c o m u n i s m o s u s c i t a t a in me dall’ammirazione per la personalità eccezionale di Enrico Berliguer. Croce, Bobbio, Sturzo sono gli autori italiani che mi hanno maggiormente influenzato dal punto di vista politico. Dal punto di vista filosofico Leopardi e Severino sono i pensatori che ho prediletto per la radicalità della loro riflessione. Ma sulla mia scrivania resta sempre in primo piano il capolavoro insuperato, il più grande di tutti: quel “Principe” di Machiavelli che, se letto attentamente e senza banali semplificazioni, rappresenta un manuale insuperabile di conoscenza dell’animo umano, di passione politica e di corretto agire di un uomo di Stato

D. Lei ha partecipato all’inaugurazione della nostra mostra fotografica “Il passato davanti a noi”. Che impressione ne ha riportato? Qualcuno ha detto che le immagini erano troppo “forti”, perché ritraevano l’abbandono, l’incuria e il degrado del nostro centro storico. R. La bellezza delle immagini, delle rappresentazioni degli oggetti, non dipende mai dai contenuti delle stesse. L’idea che l’arte da apprezzare sia quella che ritrae cose “belle”, quella che non viola mai il perimetro del decoro borghese, è un’idea retriva. La forza dell’arte è invece propria quella di trasfigurare il mondo tanto più quanto ci appare nella sua versione più cruda o anche più abietta. Quando Zola, e dopo di lui, con ancora maggiore grandezza, il nostro Verga, misero in scena il mondo dei sobborghi parigini o del minuscolo villaggio di Acitrezza destarono scandalo. Ma poi si capì che i veri artisti erano loro. E così pure per gli impressionisti, nel campo della pittura. O per i neorealisti nel

campo del cinema. Pensiamo per questi ultimi ad un capolavoro indiscusso come “Ladri di biciclette” di De Sica. Che fece dire ad Andreotti che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Ho trovato la rassegna fotografica sul centro storico rigorosa ed intensa nella rappresentazione di spaccati di vita o nella rivelazione di angoli di città colti nella loro spietata nudità e crudezza.

D. Negli anni ’60 e ’70 Afragola aveva 4 sale cinematografiche. La popolazione usava, il sabato o la domenica, andare a vedere uno spettacolo o un film. Non crede che l’assenza di questi luoghi di incontro sia una delle cause di imbarbarimento della nostra società? R. Lei ha perfettamente ragione. Le nostre città, secondo una formulazione usata dal filosofo Marc Augè, rischiano a volte di trasformarsi in “non-luoghi”. Sono rimasto impressionato alcune settimane fa, quando, cercando un cinema nel centro di una città come Firenze, mi hanno detto che ce ne era solo uno. Questa è stata la ragione per la quale ad Afragola abbiamo voluto tenere in vita il Gelsomino. Anzi, lo a b b i a m o r i q u a l i fi c a t o , g r a z i e a d

un’operazione di sinergia pubblico-privato che è stata tanto criticata ma che ritengo invece costituisca un esempio eccellente di come si deve cercare oggi di agire da parte di una amministrazione per salvaguardare alcuni servizi e alcuni spazi che altrimenti finirebbero per sparire.

D. Casa pensa di fare a sostegno del recupero della coesione sociale basata sulla valorizzazione delle culture presenti ed agenti sul territorio? R. Penso di sostenere e incoraggiare tutte le attività e le iniziative che possono dare un contributo in tal senso. Lei ha dovuto fare di recente una esposizione di una bella mostra fotografica in un bar cittadino, proprio per mancanza di spazi idonei. L’anno prossimo potrà avere a disposizione il centro Lumo (con una sala che vorrei adattare anche a platea teatrale) e probabilmente anche il bellissimo sottotetto del palazzo municipale che apriremo proprio agli eventi culturali di Afragola. Se portiamo già in porto questi obiettivi non mi sembra poca cosa.

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Carne

NINCO NANCO

NULLA

DIENNE

Dal bancone di un bar, una giovane ragazza straniera racconta ciò che vede…

Senti l’odore del ferro arroventato, della muffa di scarponi fradici, della carne morta da mettere al riparo sotto una pietra prima che si converta in nutrimento per la terra a cui è stata sacrificata. Non lo senti, lo immagini quest’odore. Ma si può immaginare un odore?

C’è un lungo serpente di luoghi che più di settanta anni fa divise questo paese in due. Non tanto lontano da qui, in alcuni punti dista meno di cento chilometri. Lungo questa lentissima strada dell’orrore, la linea Gustav, si combatté atrocemente. Lì, tra Esperia, Cassino, e via via più su fino all’Adriatico la guerra andò oltre il rosario infinito di bombe piovute dal cielo che squarciavano case modeste, spezzando vite comuni, inermi. Lì fu lotta tra uomini, dolore, massacro e morte trovata nello scontro tra armati che abbruttì soldati e popolazione civile. Quando attraversi questi luoghi lo vedi nei cimiteri di lapidi bianche sdraiati qua e là sulla mappa di quello che fu un fronte. Cimitero polacco, inglese, tedesco, italiano, francese. Qui sono sepolti i figli di tutti i continenti, europei ma anche indiani, maori neo zelandesi, c a n a d e s i , a f r i c a n i . A Ve n a f r o , percorrendo la statale che va ad est, ti imbatti nel luogo più profondamente intriso da questo meticciato della guerra e della morte, il cimitero francese. Le tombe sono croci attorno ad una cappella, lapidi rivolte alla Mecca attorno

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ad un minareto, stelle di David e solari sepolcri di antiche culture che si avvinghiano al mito. 6000 tombe in poche centinaia di metri quadrati. I centotrentamila francesi in quella battaglia erano per lo più coloniali, berberi, maghrebini, senegalesi, uomini del deserto, delle montagne dell’Atlante o dell’Africa nera portati a combattere e morire in una terra sconosciuta per una patria che non era la loro. Erano guidati da un generale francese nato ad Ippona, la città di Agostino.Vinsero e si abbandonarono allo scempio dei corpi di donne di bambini di uomini, delle anime e delle cose che trovavano sulla loro strada; lasciarono dietro di loro la s o ff e r e n z a fi s i c a e m o r a l e d e l l e popolazioni civili per una razzia forse più che tollerata dai loro ufficiali francesi, memori del “tradimento dei patti” che il regime fascista aveva commesso attaccando anni prima la Francia. La guerra è questo, tradimento, sofferenza, vendetta, distruzione, coraggio e vigliaccheria. La storia studia fatti, cerca prove, azzarda spiegazioni ma la sostanza rimane la stessa: gli uomini si trascinano nei gorghi della violenza a tal punto da perdere il contatto con le proprie ragioni ed i propri principi in una sfida che non ha vincitori. Lascia geometriche distese di pietre bianche a ricordo dei morti e spiritati intrecci di dolore e sofferenza nelle vite dei sopravvissuti.

In Italia vivo solo da tre anni, ed è già più di un anno che lavoro come barista. Nel mio paese, in Polonia, ho studiato alla scuola militare, per avviarmi a ben altra professione. Ma anche se questo attuale lavoro non ha niente in comune con le mie esperienze, me ne sono innamorata, perché mi mette in contatto quotidianamente con le persone e mi fa conoscere la vita, la mentalità, ed una cultura diversa dalla mia. Dal bar, ho modo di conoscere i cittadini, e spesso anche un pizzico della loro vita.

Un sabato mattina, un cliente mi ha fatto una domanda un poco strana, che mi ha messa in difficoltà: “Uscendo dal bar cosa vedi”? Nulla! è stato il pensiero istintivo.

Allora mi sono soffermata a pensare, a riflettere, perché il bar è una finestra privilegiata sulla città, sulla piazza ed ho modo di osservare, guardare, vedere, sentire tante cose. Ho iniziato dunque a scrivere, e quel ‘nulla’ man mano è diventato qualcosa d’altro, prima di tutto una infinita tristezza sui volti delle persone prese dai quotidiani problemi della vita. Il lunedì, la questione della raccolta dell’immondizia che non va bene, il martedì, ascolto discorsi sull’installazione del nuovo albero di Natale, il mercoledì, il parcheggio insufficiente, il giovedì, i troppi stranieri che si fermano alla fermata del bus, il venerdì, l’invidia che prende il sopravvento. Il sabato la discussione sulla politica. La domenica, invece, la confusione degli incontri per concludere la settimana. Quello che mi arriva sono lamentele, continue. La gente che incontro è sempre pronta a criticare, senza affrontare i problemi in modo serio.

Ripensando a quella domanda, a quel sabato mattina, poi, mi sono concentrata di più, nel cercare di vedere altre cose, oltre a quelle su descritte. Ciò che mi balza agli occhi è la mancanza di ‘femminilità’, non la vedo in giro. Di sera, in modo particolare, il sabato e la domenica, vedo passare della ragazze, anche molto giovani, svestite, anche con il freddo a 2 gradi, con trucco forte e vistoso, tacco e gonna che non gli permette neanche di sedersi, che sciamano avanti e indietro. E poi uomini (che grande parola!), che fischiano e suonano il clacson dalle auto, facendo apprezzamenti pesanti e volgari.

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MATTEO SQUILLANTE

La sinistra-fenice che rinasce dalle sue ceneri A ritmo incessante, una raffica di colpi si abbatte sulla politica e sulle coscienze dei popoli europei (e del mondo). Una nuova avanguardia di stile futurista che pretende rinnovamento continuo ed estremizzazione si diffonde. Forse per contagio, forse per paura, forse per emulazione, forse per necessità la storia sta esprimendo un verdetto. Il responso è quello dell’estremismo, dell’irrazionalità, degli slogan urlati a gran voce sugli schermi che accompagnano dal risveglio alla notte la vita dell’uomo post-moderno. Il riscontro, la Presa della Bastiglia che ne legittimi la tendenza, è presente nei parlamenti (come maggioranza o opposizione) di tutte le società civili. Nel 2010 tocca all’Ungheria con Orban e alla Polonia dei fratelli Kaczynski, nel 2014 la Turchia di Erdogan, nel 2016 il terrore angloamericano May-Trump e il golpe istituzionale Brasiliano. Il 2017 sarà decisivo per la sfida Le Pen-Fillon all’Eliseo. I major del giornalismo trattano la vicenda in maniera pressapochista, ponendo come alternativa le carte ancora vincenti dei defunti partiti della ‘third way’ (si veda l’esultanza mediatica per la vittoria di Van der Bellen su Hofer).

In realtà lo spettro che si aggira per l’Europa è un altro. Non ha (ancora) sede nei parlamenti, nelle televisioni, soprattutto non si aggira nelle sedi dei partiti. Inizia nei contesti locali, nelle stanze affittate da universitari, ai tavolini di un bar, in stanzette di fortuna nei circoli ricreativi. Quelle idee che nascono su fogli macchiati di caffè, inspessiti dall’umido dei circoli e che portano fieri l’odore dei fumogeni delle manifestazioni a cui hanno partecipato. Lo spettro che si aggira per l’Europa non è più il comunismo, ma sono i movimenti antigovernativi, i movimenti

NULLA Continua da pagina 6 Queste scene mi hanno fatto ricordare le frasi lette da un romanzo di Charles Bukowski: “Sono stanco di vedere facce femminili ritoccate, tette trasbordanti dalle scollature in concorrenza, culi in mostra, tacchi, trucchi fetish e gesti hard da donnacce, ormai non più distinguibili da quelle del mestiere. Voglio vedere donne con la loro femminilità nei loro gesti morbidi e gentili, nei sorrisi, aggraziate nelle movenze seducenti, ma accennate dalle parole dolci allo stesso tempo. Dai pensieri originali e nuovi. Vorrei vedere donne indipendenti non succubi dell’uomo, a cui immolano la propria

noglobal, i movimenti antifascisti, i movimenti per la casa, per le libertà, per i b e n i co muni , i var i ‘Po de mos ’, i movimenti marxisti. La vera novità non è la loro presenza in sé, bensì la loro nuova tenacia politica, e soprattutto il loro coraggio di abbandonare gli slogan pronunciati da chi indossava l’eskimo quarant’anni fa. La sfida vinta è stata quella di entrare nella modernità ed essere rappresentati da uomini e donne che si sono istituzionalizzati senza snaturarsi. Molti dei loro esponenti sono stati consacrati a capo delle amministrazioni locali. Non si parla di amministrazioni provinciali ed ininfluenti, come il nostrano modello emiliano fu negli anni 70, ma di grandi realtà. Si parla di Madrid, Napoli, Barcellona, Danzica, Atene. Città fondamentali nel panorama europeo che si trovano ad affrontare e a gestire il rilancio delle economie, molte delle quali mediterranee e disastrate, del turismo, del welfare e del well-being dei cittadini, immigrazione, lavoro ed opposizione del governo centrale.

E’ il caso di Ada Colau classe ’74 (quello italiano non è l’unico ‘giovane favoloso’ della politica) un passato da attivista nel movimento No Global, nel movimento anti sfratto e vittime di usura, con un fascicolo aperto presso il governo catalano per sovversività. Ad oggi sindaca di Barcellona in prima linea per i diritti degli abitanti delle periferie e sul piede di guerra contro l’industria sfruttatrice del turismo. In ambito castigliano, dove la tradizione politica e partitica è più radicata, al vertice dell’amministrazione madrilena c’è un’altra donna: Manuela Carmena. Passata sotto la durezza del franchismo è sempre stata in prima linea, sia da magistrato che da politica per i

diritti dei detenuti del regime e per i perseguitati politici.

Discorso a parte per l’aria nostrana, che sia per vissuto storico, sia per connotazione culturale, si configura sempre come “più nero nel viso, più rosso d’amor”. La nostra Italia che affianca amministrazioni politiche centriste o di marcata destra ad altre che lottano a fianco di associazioni popolari e non di lobby d’interesse. Citando posizioni nette e marcate, ad esempio sull’immigrazione, di sindaci come Giusi Nicolini di Lampedusa o il vulcanico Luigi de Magistris di Napoli, entrambi fautori di politiche di integrazione sociale e di superamento della barriera (oggi quanto mai inutile) delle nazionalità.

Non è veramente facile destreggiarsi nell’epoca della “post-truthpolitics” in cui ciò che viene urlato e ciò che è ritenuto da molti diviene fatto certo ed il confine tra onestà e disonestà non esiste se il fine è il presunto bene comune. Non è neanche facile riuscire a governare in maniera democratica e tradizionale se l’opinione pubblica è pervasa dai social network e dalla propaganda. Ad ogni modo, nessun processo storico muore senza portarne alla ribalta un altro. La sinistra europea sta mano a mano risorgendo dal sangue della generazione passata che per essa ha lottato. Risorge in maniera anomala, diversa, silenziosa, come la sua natura le impone. Risorge frammentaria e senza parole d’ordine unitarie. La speranza per una deviazione equa e razionale della società civile è in chi contesta quella attuale in maniera più o meno dura. Non esistono più grandi dirigenze alle quali riferirsi bensì, citando Brecht, “Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua”

dignità femmine dai colori di ghiaccio fuso, compagne e amiche dell’uomo, libere, sincere. Vere!!

Ecco, questa citazione racchiude il mio pensiero ed è il mio punto di vista. Abbiamo lasciato guidare la nostra vita dagli uomini, non abbiamo più il coraggio di vivere da sole, ci facciamo usare, dimenticando che gli uomini ci vogliono come loro immaginano: volgari, finte, facili e silenziose. Invece, dovremmo imparare ad essere come un libro, da scoprire una pagina alla volta, con calma, facendoci semplicemente leggere. Da tempo abbiamo messo da parte il rispetto per noi stesse, di conseguenza non ci facciamo rispettare dagli uomini.

Gli uomini, quelli veri, desiderano una donna vera.

7


L’uomo delle bolle Carlo camminava distratto mentre strusciava spalle e braccia nel flusso di persone che scorreva, anarchico, tra le bancarelle del mercato. Nervoso a causa dell’ennesimo cliente mancato, pensava al modo di risollevare la sua azienda.

Osservava vecchiume buttato, magari per ripulire abitazioni dopo la dipartita della vecchia inquilina, spacciati per oggetti di antiquariato. Caffettiere, pentole, servizi spaiati di bicchieri di cristallo, bottiglie di vino, che del vino avevano ormai solo il nome importante su un etichetta impolverata. Imbevibili, probabilmente, inutilizzabili anche come aceto.

Eppure, pensò, se fosse stato buono avrebbe potuto valere molto. Ma cos’è che dà valore alle cose? Qual è la differenza tra vecchio e antico?

Certo, disse a se stesso, se quel vino fosse buono io lo capirei, dovrei però aprirlo e assaggiarlo. Ma a quel punto, buono o non buono, il vino non avrebbe più valore.

Eppure ci sono vini che costano tanto, tantissimo; per non parlare dei quadri, pensò vedendone uno. Poggiato sul banco di un rigattiere, ebbe l’impressione che la donna ritratta in esso lo osservasse con scherno. Aveva visto donne brutte, ma nessun soggetto, per quanto brutto, poteva giustificare un simile scempio: veramente ‘na schifezza!

Per curiosità si avvicinò al mercante e, indicando il quadro, ne chiese il prezzo. Il rigattiere lo guardò, meglio dire lo squadrò e poi, con tono indifferente, rispose: «Mille euri.»

Mille euro! I suoi pensieri svanirono in una spontanea risata. Il venditore assunse un espressione offesa «Guarda che questo è un grande investimento.»

«Ma che investimento?» rispose senza smettere di ridere. «Questo quadro è un obbrobrio.»

«Che c'entra.» Stizzito il rigattiere iniziò a sfogliare velocemente un album pieno di fotografie di quadri famosi, trovata quella che stava cercando, la sfilò e gliela passò. «Questo ti sembra bello?»

Carlo guardò con attenzione e dondolando la testa rispose:

«Onestamente devo ammettere che fa schifo, quasi più brutto dell'altro.»

«Questo è il ritratto di Dora Mar di Picasso, sai quanto vale?»

«No! »

«Neanche io a dire il vero, ma più di quanto io e te potremmo mai guadagnare in tutta la vita.»

«Va beh! Ma perché è un Picasso.»

«Certo. Ma che ne sai che anche questo non diventi una specie di Picasso? »

«Ma chi è ‘sto tizio?» si avvicinò e dopo un po’ scorse una firma strana ma leggibile: «Nunsong Nisciun, ma che? E’ pure cinese? »

«Guarda questo: lo conoscevo di persona, era veramente un pazzo. »

«Era? »

«Eh si, si è buttato da un palazzo di otto piani il mese scorso. »

«Suicidato dopo che ha visto il suo quadro?»

«No, si credeva un angelo. »

«Scemo forte! »

«Abbastanza. Questo è il suo unico quadro.»

«E ci credo! » esclamò l'uomo scuotendo la testa mentre osservava il quadro.

«Mille euri è un affare.» disse con poca convinzione il rigattiere.

Un’ idea iniziò a farsi strada nella testa dell’imprenditore e la cifra non lo fece più ridere.

«Mille euro sono troppi», disse, «non voglio spendere tutti questi soldi. »

Gli occhi del mercante si illuminarono: Oh Dio! pensò, glielo rifilo davvero a questo, 'sto sgorbio.

«Quanto vuoi spendere? »

«Non più di cento. »

«Cinquecento»

«Duecento»

«Tre e cinquanta»

«Due e cinquanta, ma mi fai una fattura maggiorata. »

«Cosa?»

«Mi fai una fattura di mille euro, ovviamente l' iva in più la metto io.»

Il rigattiere fece un rapido conto e si rese c o n t o c h e a l l a fi n e g l i s a r e b b e convenuto, a fine mese spesso era costretto a fare fatture finte pur di far quadrare i conti, e poi si liberava finalmente di quell'inguardabile quadro.

«Ok».

Carlo con un sorriso idiota sfilò via dal mercato col quadro sottobraccio, appena in ufficio lo appese, mise la fattura tra le note spese di investimento della sua società che si ritrovò con qualche

KAISER SOUZE

centinaia di euro in meno nelle casse, soldi che avrebbe dovuto comunque dare all'erario, e un migliaio di euro in più come patrimonio. Chiamò poi un paio di suoi amici che, come lui, avevano delle piccole imprese ed espose loro una semplice idea.

ll mese dopo Carlo vendette il quadro alla società di uno dei due per mille e cinquecento euro sulla carta; questi, poco dopo, lo rivendette alla società dell’altro amico, per, sempre sulla carta, duemila euro. Nel giro di pochi mesi il bruttissimo quadro ritornò al nostro uomo che lo ricomprò, sulla carta, per tremila euro.

Non li aveva davvero quei soldi ma si fece fare un piccolo prestito dalla banca che, vedendo la crescita del valore del quadro, lo considerò un ottimo bene di investimento, e si sentì più che garantita dal quadro stesso.

Il gioco continuò, il debito crebbe ma, tanto, non era un problema, perché, contemporaneamente, cresceva anche il patrimonio garante.

Il quadro cominciò a valere troppo e venne quindi diviso in tante quote, in tante azioni, che continuarono a salire solo perché conveniva a tutti che salissero. Vennero acquistati altri quadri, case, negozi, gli amici divennero quattro poi cinque e poi le banche stesse. Le azioni divennero strumenti finanziari sempre più fantasiosi, future, subprime. Il quadro acquistato da Carlo venne acquistato da una banca con i soldi dei risparmiatori, valeva milioni di euro ma il valore sarebbe cresciuto e avrebbe permesso agli azionisti della banca di incassare la differenza.

Conviene comprare perché il prezzo sale, e il prezzo sale perché conviene comprare.

Quando la bolla speculativa scoppiò, Carlo e i suoi amici erano diventati tra gli imprenditori più ricchi al mondo, osannati e rispettati dalla gente a cui avevano rubato.

Lo Stato aveva bisogno di quei soldi, per permettere al PIL di continuare a crescere, per permettere all’economia di ripartire, per permettere il lavoro. Glieli chiese e lui glieli prestò ottenendo in cambio il potere.

KAIROS web rivista periodica di cultura numero 06 dicembre 2016 In attesa di registrazione Tribunale di Napoli Direttore Responsabile: Gabriele Gesso Editore Paolo Sibilio. Stampato in proprio contatti: info@kairos-web.it WEB: www.kairos-web.it Facebook. Kairos-web

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