Sul Romanzo - Anno 2 n. 1 - Gen 2012

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Immagine di copertina: Ai miei tempi , di Gianantonio Zanussi, melting pot su tela

Gennaio 2012

Webzine - Anno 2, n째1

Generazione meticcia

Inserto speciale tematico:


stimento nica di c cettare r quanto n il desid nostri le ne scusia ollaborazione e d ttori: un gruppo di energie, temp accade nel mon la sfida di prende e do re u o i m r a insegna o con i lettori, m orientamento. Qu edazionale quasi e risorse. E prop letterario. to a gest a d r lc a el tutto io le riso he erro ire meglio molto è dipeso da frainte re c’è stato, cos rinnovato ha impa rse umane le situaz ì ra ioni confl n merose s ittuali, da dimenti e incompr come qualche pr to a coor a nuova v ono le novità che om en un lato, e v con il bu sioni interne al g essa non a rivista, ste grafica, creat edrete concretizz rupp o n senso, da a ris a ll’altro, a o di la uovo spa olvendo, così, alcda Daniele Vignato rsi nei prossimi m ttravers , z re ancor io di comunicazio uni problemi tec Art Director di S esi; tre possiamo nic p u n impegno iù interessanti alc e tra letteratura i riscontrati dur l Romanzo, contr presentarle già da di chi op e u era al se ni dei nostri art arte è stato ina ante la pubblicaz ibuisce a rendere qu tura e all ico rviz ugu ion più a un insert scultura, fino a io della cultura li, attraverso rapp rato grazie alla c e dei numeri prec ll s e o uppano d speciale servirà a vignettistica e ia, in primo luogo resentazioni foto ollaborazione di a d g a r iversi pu a tis r ll , d a a d fi i promuo approf music n e: la lett vere una che delle loro pr eratura, c ti di vista, opinio ondire un argome a. sinergia t ni e appr nto cui p hiusa in iò che ha ra le vari o u e c n n c p s a r i ia e t a s m o i o altrove r o g r r e a d n di questo i d d ’a ded i t vorio, è in . naturale emi sociali, polit icare particolare ncora lon numero è dedicat c ici rile o me una c o t hiesa om e civili della cont vanza zi dovreb ani dalle comples alla Generazione ertosa e e be rappor s M triste co mpor tarsi con ità di Francia e G eticcia, la secon culture m e l’av d n modalit famigliari non am la realtà e contrib ran Bretagna, il ca a generazione di im alg à m u m che la no di approccio nuo amate alla tradiz ire a formare, in mino è ormai seg igrati, nella cons n io v m s e a bilità att tra webzine ci a , che, di necess ne più spiccata odo dialettico, il to. La letteratu ap iva m iuti a con it r tribuire, à, devono riverber ente italiana. For nuovo immaginario a na di que . nel nostr s a o piccolo rsi, fra i diversi a e è proprio il co c mato piac lle che a Milano s n p , agli imp ono abba evole, il t ortanti dib prodi, pure sulla ce sta ra ca di una m attiti vers mug mez ffico vivace sulle nza standard da p o i quali a za piena da diverse o s t t e r r a s d i e d e efi c se o per inc ore e, nel suo av he, con la sua sc sui marciapiedi e nire bella col su ontrare la anti e ind o cielo d ritta «Ne l’umore s i un grigio ietro tra ncontrati w York C orretto d Editor. la fi it lu a ll n y fi o a – n e g a S s iu d t t s or ra, il wat r a indossa er e l’arm and – 18 miles of ta dose di c re: un’inc a, a parte alcune b adio, ripa enuti ad antevole chiacchie ssa le ta ooks», fa c A nte varian uella sve ntonio Delfini o amicia di Lanvin rate telefoniche co nd ti d e tu al comple ita di campionario tt’al più di prove n plissettatura s scambi di mail pe r accord ) e, a cor nire diret ul davant to di noz i e ta i, ze di suo on padre e a amento, il suo ad mente dal guardar pantaloni in princ idee vagam co Pop S ipe di Ga ncora co o o ba di Phil rato fioc lle nservato w ip c h p e e t D t o a suo prof atch 1988, Perso v sotto na ftalina; a da collo – un po erio; una g umo artig l d’annata ’ i piedi, m a profon ocassini Brandon Fl dità non ianale ai fiori di o trafugati dalla R di vernice vada nasc enault de rigano. osta in s llo zio, s ner uperficie ciawebzine California blog, letteraria rpa Soe pagenzia ! B ( r H a a n k u i ereditat ery do go von H azza di c a dalla n ofmannst affè ame ve, malgrado i set h a l ricano e d t , con ch o e c m e t inuti di ). una iac stretta d chiere sufficient bottiglietta 33 cl. calcolato ritardo i ’era oltre mano, aveva già a emente frivole da di Sanpellegrino, è arrivato per pr im m d s vole e sc la voce filtrata da mirato le sue calz embrare innocue, opo avere rotto il o, con davanti un iolta dell l telefon a m a o e i risp ture Vionnet e il entre in realtà e ghiaccio con la E ’incontro er fulmin e ) d n a ; s t lli di cui nte, di tutti i dis dopo avere rotto tivi ruoli nella tr uo trench Max M trambi si studiav it corsi e le a a si legge n no t a il t r a a g t , hiaccio iva in c con la cin ei manuali tattiche tura i e le richie , dicevamo, Valer orso (perché di . tr io torta ven ste che g si era dil si rende conto attativa s igentemen d mbito lav ano del tutto co te prepar i aver fatt o al mom orativo. In realtà nsumate, Elvira, c a to, propr , o e io cambio d nto in cui le sue già da alcuni minu n una disinvoltura el tono d t o c i, r h ecchie s ci si st e rivela i voce, fa calare co ono state richia ava avvicinando c quanto sia avvezz on m tezza son me la luc a o e di uno ate all’ordine dall tattiche a moss a questo a formula spotlight he possa un argomento ch e concen t e, in meno al centro essere, d « A r r iv a ndo a noi»r eve esser del foglio della sce di quattr e n o a. abbastanz 3 del contratto, c messo al corren minuti, viene svis t h a e c e f e d r a e in a c lla f to e ili e Pdf estro lin guistico; già discusse e ar è stato inviato in accenda. Punto. P chiuso. Niente e g en ne in tenere co o v nto degli somma, un roma mentate: lo stile ia preliminare alla a penosa e onero ssuno e nzo scrit sa il risa semplice ingredient s u a posta e , l’andame to come rc i pop, co le t t r la quale o lo m n nica. t e o narrativ scrivereb si sono g ha molto o b e ià dell c trovati a re nella s r dire al te hiunque, anche la a stessa imp toria alc iflettuto, credend le vera signo f u ferire un ono. ra V a vita co ni richiami biogr osi scaltro e fu n una dim afici alla rbo e mo e se è su e v lt it n c mpre il r cesso realmente sione più intima; a dell’autrice: un o in linea con lo ischio di uno stra a breve p spirito d o sono s batte in d n e a iversi uo suscitare delle ge oltanto interpret o ménage col mar rentesi in politic i tempi. L’ a, con q mini, per azioni m ito della losie sp fino a q

Torniamo... Più forti che mai!

Una webzine ricca di novità.

Se sei vai dritto al punto.

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Editoriale di Morgan Palmas Vita standard di uno scribacchino provvisorio

Ghostwriting: un romanzo per Flavia Vento - Parte II di Giovanni Ragonesi Esordire

Scappare fortissimo di Stefano Moretti

di Sara Gamberini

L’italiano non è un’opinione I (rin)tracciati

Disinfestare la vita: Dante Virgili di Alessandro Puglisi

L’Angolo di Nonna Papera Inserto speciale

Generazione Meticcia

Alle pagine da 17 a 46

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Prospettiva fantasy

Un incontro con Luca Azzolini di Marcello Marinisi

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L’italiano non è un’opinione

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Danilo Rea suona De André

60 66 70 74

di Pasquale Attolico

Cantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano - Il senso del nonsense - IV parte di Annalisa Castronovo

Quando la trama è la malattia

di Marco Giacosa

Pensiero antico e identità europea

I Barbari presso i Greci di Adriana Pedicini Il piacere nelle parole

Le parole e i riti dell’erotismo

di Paola Paoletti


Direttore: Morgan Palmas Caporedattore: Gerardo Perrotta Redattori: Davide Ecatti, Sara Gamberini, Angelica Gherardi, Giovanni Turi, Stefano Verziaggi Impaginazione: Daniele Vignato Hanno collaborato a questo numero: Pasquale Attolico, Annalisa Castronovo, Alessia Colognesi, Sara Gamberini, Angelica Gherardi, Marco Giacosa, Marcello Marinisi, Pierfrancesco Matarazzo, Morgan Palmas, Paola Paoletti, Adriana Pedicini, Gerardo Perrotta, Alessandro Puglisi, Giovanni Ragonesi, Alberto Stigliano, Giovanni Turi, Stefano Verziaggi. Si ringraziano: Luca Azzolini e Cristina Zagaria, per le interviste concesse; Carlo Scortegagna, web master; Renato Costrini, Brian Dettmer, Cesare Fontana, Gianmaria Giannetti, Danilo Giovannelli, Agim Sulay e Gianantonio Zanussi, per le rappresentazioni fotografiche delle loro produzioni artistiche; Tania Balsarin, Zagat Buzz, Marion Cerrato, cosciansky, Emilius, Francesca Frakokot, Brenda Fernandez, Fondazione Lettera27, Holly, Massimiliano Giani, Aleks_Kuntz, Obi, Alessandra Oddi, RL Fantasy Design Studio e Daniele Tini, per le foto fornite in licenza Creative Commons. Sul Romanzo

People, Renato Costrini, 2007

Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it

Note legali: “Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche si invita a contattare la Redazione (webzine@ sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito. n° 1 • Gennaio 2012


L’editoriale

di Morgan Palmas

Vignetta - di Danilo Giovannelli

La webzine di Sul Romanzo torna online, dopo un anno di cambiamenti sostanziali e di necessari riassestamenti interni. La prolungata assenza è stata l’occasione per riflettere sul percorso da intraprendere, con il desiderio di lanciare uno sguardo verso le possibili evoluzioni della rivista. Abbiamo deciso di puntare sull’innovazione, di accettare la sfida di prendere una pausa dai nostri lettori per ripresentarci con una nuova sensibilità e un rafforzato interesse per quanto accade nel mondo letterario. Questo ha richiesto un enorme investimento di energie, tempo e risorse. E proprio le risorse umane rappresentano il primo elemento di novità che presentiamo ai nostri lettori: un gruppo redazionale quasi del tutto rinnovato ha imparato a coordinare le singole intenzioni in una strategia unica di collaborazione e di orientamento. Qualche errore c’è stato, così come qualche promessa non mantenuta di prossima pubblicazione: ce ne scusiamo con i lettori, ma molto è dipeso da fraintendimenti e incomprensioni interne al gruppo di lavoro, e siamo convinti che l’esperienza ci abbia insegnato a gestire meglio le situazioni conflittuali, da un lato, con il buon senso, dall’altro, attraverso una consapevolezza forse più matura. Numerose sono le novità che vedrete concretizzarsi nei prossimi mesi; tre possiamo presentarle già da questo numero. Una nuova veste grafica, creata da Daniele Vignato, Art Director di Sul Romanzo, contribuisce a rendere più agevoli la visualizzazione e il download della rivista, risolvendo, così, alcuni problemi tecnici riscontrati durante la pubblicazione dei numeri precedenti. Un nuovo spazio di comunicazione tra letteratura e arte è stato inaugurato grazie alla collaborazione di artisti emergenti che hanno contribuito a rendere ancor più interessanti alcuni dei nostri articoli, attraverso rappresentazioni fotografiche delle loro produzioni artistiche. Crediamo, infatti, Sul Romanzo

che l’impegno di chi opera al servizio della cultura sia, in primo luogo, di promuovere una sinergia tra le varie forme artistiche, dalla letteratura alla pittura e alla scultura, fino alla vignettistica e alla musica. Infine, un inserto speciale servirà ad approfondire un argomento cui pensiamo di dedicare particolare rilevanza, con una serie di articoli tematici che sviluppano diversi punti di vista, opinioni e approcci ai grandi temi sociali, politici e civili della contemporaneità. Un’idea ci ha spinto a tale decisione: la letteratura, chiusa in una torre d’avorio, è innaturale come una chiesa omertosa e triste come l’avaro ingrato che si rifiuta di condividere ciò che ha preso altrove. L’inserto di questo numero è dedicato alla Generazione Meticcia, la seconda generazione di immigrati, nella consapevolezza che per l’Italia, anche se siamo ancora lontani dalle complessità di Francia e Gran Bretagna, il cammino è ormai segnato. La letteratura non può rimanere sul balcone a guardare, anzi dovrebbe rapportarsi con la realtà e contribuire a formare, in modo dialettico, il nuovo immaginario collettivo ancora destrutturato, portatore di culture famigliari non amalgamate alla tradizione più spiccatamente italiana. Forse è proprio il concetto di tradizione che andrebbe riscritto con modalità di approccio nuove, che, di necessità, devono riverberarsi, fra i diversi approdi, pure sulla materia letteraria. Ci auguriamo che la nostra webzine ci aiuti a contribuire, nel nostro piccolo, agli importanti dibattiti verso i quali sentiamo il dovere di assumerci una responsabilità attiva. Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it n° 1 • Gennaio 2012

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Vita standard di uno scribacchino provvisorio

Ghostwriting: un romanzo per Flavia Vento Parte II

di Giovanni Ragonesi

La giornata è una di quelle che a Milano sono abbastanza standard da potersi definire bella col suo cielo di un grigio luminoso e con l’aria fresca ma tutto sommato piacevole, il traffico vivace sulle strade e sui marciapiedi e l’umore sorretto dalla giusta dose di caffeina che ancora scalda la ceramica bianca di una mug mezza piena che, con la sua scritta «New York City – Strand – 18 miles of books», fa mostra di sé sul tavolino. Valerio è in piedi da diverse ore e, nel suo avanti e indietro tra la finestra, il water e l’armadio, ripassa le tante varianti di discorso che si è mentalmente preparato per incontrare la Editor. Non si sono mai visti fino ad ora, a parte alcune chiacchierate telefoniche e scambi di mail per accordi e idee vagamente programmatiche. Ha già scelto cosa indossare: un’incantevole camicia di Lanvin con plissettatura sul davanti, pantaloni in principe di Galles che hanno tutta l’aria di essere appartenuti ad Antonio Delfini o tutt’al più di provenire direttamente dal guardaroba di Philippe Daverio; una giacca da giorno nera di Siviglia (15 euro a quella svendita di campionario) e, a coronamento, il suo adorato fiocchetto da collo – un po’ Brandon Flowers un po’ Charles Dickens –, scippato al completo di nozze di suo padre e ancora conservato sotto naftalina; ai piedi, mocassini di vernice nera, 5 euro a chiusura saldi da H&M. Accessori: un autentico Pop Swatch 1988, Persol d’annata trafugati dalla Renault dello zio, sciarpa Soprani ereditata dalla nonna e tre – rigorosamente – spruzzi del suo profumo artigianale ai fiori di origano.

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tattiche a mosse concentriche di cui Valerio non si è reso conto fino al momento in cui le sue orecchie sono state richiamate all’ordine dalla formula «Arrivando a noi» che Elvira, con un impercettibile ma netto cambio del tono di voce, fa calare come la luce di uno spotlight al centro della scena.

E che non si dica che la profondità non vada nascosta in superficie! (Hugo von Hofmannsthal docet).

Le note contrattuali sulla riservatezza sono un argomento che, in meno di quattro minuti, viene sviscerato e chiuso. Niente e nessuno e per motivo alcuno, fisico o metafisico che possa essere, deve essere messo al corrente della faccenda. Punto. Pena penosa e onerosa il risarcimento stabilito nella nota 2 a piè di pagina del foglio 3 del contratto, che in Pdf è stato inviato in via preliminare alla sua posta elettronica. Le notazioni, ovvie per il resto, sono abbastanza facili e già discusse e argomentate: lo stile semplice, l’andamento narrativo della stessa impronta, zero iperboli, zero subordinate, zero estro linguistico; insomma, un romanzo scritto come lo scriverebbe chiunque, anche la vera signora Vento. Sulla storia carta bianca, ma bisogna tenere conto degli ingredienti pop, come si sono già trovati a dire al telefono.

Al tavolino bianco della California Bakery dove, malgrado i sette minuti di calcolato ritardo, è arrivato per primo, con davanti una generosa e grassa fetta di cheescake, una tazza di caffè americano e una bottiglietta 33 cl. di Sanpellegrino, dopo avere rotto il ghiaccio con la Editor – che d’ora in avanti chiameremo Elvira –, con chiacchiere sufficientemente frivole da sembrare innocue, mentre in realtà entrambi si studiavano con attenzione (prima di averla a portata di stretta di mano, aveva già ammirato le sue calzature Vionnet e il suo trench Max Mara, con la cintura impeccabilmente annodata) per capire cosa c’era oltre la voce filtrata dal telefono e i rispettivi ruoli nella trattativa in corso (perché di trattativa si trattava, malgrado l’impostazione amichevole e sciolta dell’incontro); dopo avere rotto il ghiaccio, dicevamo, Valerio si rende conto di aver fatto tabula rasa, come un anticipo di Alzheimer fulminante, di tutti i discorsi e le tattiche e le richieste che si era diligentemente preparato, proprio come fosse un colloquio di lavoro di quelli di cui si legge nei manuali.

Valerio ha fatto la sua proposta, sulla quale ha molto riflettuto, credendosi scaltro e furbo e molto in linea con lo spirito dei tempi. L’idea prospettata è stata quella di sminuzzare nella storia alcuni richiami biografici alla vita dell’autrice: una breve parentesi in politica, con qualche incontro azzardato che la porterà a preferire una vita con una dimensione più intima; uno strano ménage col marito della sua più cara amica, ma tutto sfumato, nebuloso, non si capisce se è successo realmente o sono soltanto interpretazioni maligne… dopotutto una donna di successo (professione ginecologa, magari) corre sempre il rischio di suscitare delle gelosie spropositate, e, visto che oltre al successo ha in dotazione anche un certo fascino, ovviamente si imbatte in diversi uomini, per lo più sbagliati (anche qualcuno con le viti un po’ sganciate, che farà dello stalking la sua unica modalità relazionale), fino a quello giusto che le darà però un figlio mulatto generando una nuova serie di dilemmi e tensioni (tra Silvana Giacobini e Maria Venturi).

Prima che le rispettive fette di torta vengano del tutto consumate, Elvira, con una disinvoltura che rivela quanto sia avvezza a questo tipo di colazioni, porta il discorso sull’ambito lavorativo. In realtà, già da alcuni minuti, ci si stava avvicinando con

Elvira ha sorriso soddisfatta, sembra d’accordo e sembra apprezzare quella subdola sincronia d’intenti: per qualche attimo ha avuto il sospetto di avere a che fare con qualcuno armato di pretenziosità letterarie, ma qui si parla di libri (e nel suo emisfero

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destro questi si traducono in tabulati di fatturato annuo) ed è contenta di constatare che, su questo importante e imprescindibile presupposto, l’autore fantasma che le siede di fronte ha le idee chiare. Da qui a un mese e mezzo, Valerio le farà pervenire una prima stesura, il più possibile vicina a quella definitiva, di modo che il prodotto possa essere pronto ad andare in spiaggia sotto agli ombrelloni per l’estate prossima a venire. Con una sigaretta implorata e tanto attesa (queste tazzone di caffè americano non finiscono mai), gli accordi sembrano essere raggiunti e l’armonia dei presupposti lascia ben sperare in un happy ending contrattuale e monetario. Alla fine, sul tavolino rimangono due tazze vuote, due piattini con qualche briciola e le forchette lasciate di traverso, un posacenere con due mozziconi di sigaretta, di cui uno con tracce di Helena Rubinstein Wanted Rouge, e i venticinque euro di conto lasciati sotto lo scontrino. Elvira e Valerio, in piedi, poco distanti dalla scena, che, con una stretta di mano e un sorriso molto cordiale e soddisfatto, si congedano: quasi una natura morta tra Casorati e Weimar, con tracce di Hopper. Mentre muove i primi dieci passi in direzione di via Torino, Valerio sente le endorfine che gli im-

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plodono nelle vene, sente una strana forma di felicità soddisfatta e di eccitazione che gli sobbolle in petto. Quello è il suo primo lavoro da “scrittore”, il primo lavoro “ufficiale”. Non gli pare vero. Così come non gli pare vero non riuscire a gustarselo fino in fondo. Entra in quello che considera il tempio del vintage e per festeggiare spende 55 euro per un papillon di seta anni ’60, ma, quando esce e riprende il cammino verso casa, col passo reso doloroso dai mocassini che gli morsicano il retro del piede che già immagina segnato da una piccola piaga rossa, si sente infantile e sciocco. Nello spiegarsi ed esaurirsi di un paio di minuti, le endorfine, che prima gli affollavano il sangue, sembrano essersi estinte e la ricaptazione anomala di serotonina sembra aver preso il sopravvento su tutto e il disappunto è lo stesso che si vive quando, a conclusione di una performance sessuale molto promettente, questa si conclude con un’asintomatica eiaculazione precoce. Già se lo vede quel libro scritto da lui, purtroppo senza neppure una parentesi né l’uso scriteriato di trattini e puntini di sospensione, tutto sobrio e abbottonato nello stile, tutto plot e senza weltanschauung, come una soap opera. Il suo cervello lo visualizza sui banchi di una libreria e le sue mani n° 1 • Gennaio 2012


lo sfogliano per la prima volta (non gli è stata inviata nessuna copia omaggio). Ricorda le tante tazze di caffè e le notti passate a digitare con foga fino al comparire del primo sole. Quel libro è suo, suo malgrado, e suo malgrado ha un altro nome sul frontespizio. Si guarda intorno nella libreria affollata e si percepisce come un fantasma. Ritorna al presente, al suo passo ritmato dal suono delle scarpe che battono sulla strada. Continua a sentirsi infantile e stupido, all’ennesima potenza: il bicchiere riesce a vederlo sempre mezzo pieno, ma del cianuro che sta per bere, e riesce a vedersi sempre e solo come un “personaggio” della sua stessa vita. Molte cose le disconosce, troppe le ignora, ma, tra le cose che sa, le certezze – poche – di cui è depositario, c’è quella che lo vede già in serata intento a buttare giù l’incipit del romanzetto per Flavia Vento e sa già che, di pagina in paginetta, se ne lascerà prendere. Forse un giorno, magari non troppo lontano nel tempo, riuscirà a capire se questa accettazione della realtà per come si presenta è un crescere e un divenire prosaicamente adulti oppure solo arrendevolezza, indegna per un qualsiasi personaggio.

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1 - Microfisica del Potere #01 di Aleks_Kuntz 2 - Bar Blanc - Lounge di Zagat Buzz 3 - Librería de Ávila di Brenda Fernandez n° 1 • Gennaio 2012

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Esordire

Scappare fortissimo di Stefano Moretti di Sara Gamberini

Certo è difficile dimenticare la propria esistenza, quello che si è visto e le persone che si sono incontrate, ma proprio per questo l’autore ha messo grande cura nell’allontanarsi dalla sua vita e dalla vita degli altri, nel fondere e confondere destini e creare, nel suo romanzo ubriaco, fatti che crescessero — nel bene e nel male — nell’occhio di chi li guarda. Questo perché all’autore piacciono gli eccessi, e fantastica in questo racconto di fare o che qualcuno faccia cose distanti dalla realtà e dalla verità. (Stefano Moretti, Scappare fortissimo, Avvertenze dell’autore)

«Se voglio riposarmi o isolarmi mi ritiro a casa mia, a Torino, in pieno centro, stacco la connessione internet, non rispondo al telefono, sto con i miei gatti. Non ho bisogno di andare lontano, una piccola distanza mi basta. Guardo le strade e i passanti dal quarto piano, i mattoni e le decorazioni del palazzo storico che ho di fronte, le finestre illuminate dei vicini dalla parte interna, spio i movimenti.» Stefano Moretti esordisce a 59 anni e il romanzo che scrive si misura con il tempo: inutile sottolineare che si tratta di un esordio tardivo, di uno sbocciare attempato. Una coincidenza, questa, a cui è bene non prestare troppa attenzione. All’autore piace che il dolore sia lieve, ama nascondere gli eventi determinanti con qualche sciocchezza, mescola i contrasti per attenuarne la contrapposizione. Giovanni Prati, la voce narrante, si chiude in casa per un intero fine settimana e ripercorre la sua vita. Lo si capisce bene che siamo di fronte a una svolta, che c’è un dolore di cui l’autore descrive perfino l’odore, eppure il lettore è costretto a continue virate, non può non sorridere appena dopo una tragedia né può gioire per più di qualche riga. Il romanzo è sfuggente, scritto molto bene, ironia, sarcasmo e disincanto dosati con grazia. Un ritmo potente accompagna la lettura somigliando a uno strano svolazzo svagato. Si rimane sulla soglia, né rifiutati né accolti, non si entra, non si sbatte la porta indignati, non si rimane sospesi. Giovanni riempie la sua vita di lavoro, ragazzi, viaggi, cene, danze, champagne. Ha paura della morte. La vecchiaia lo inorridisce: nessuna tenerezza, la bellezza scompare e al suo posto si avverte l’odore acido e stantio del cervello e del corpo, il puzzo dell’età. «[…] io ormai dovevo sorvegliarmi, stare attento a tutto. Le cose che avevo sempre fatto in modo automatico, come gli altri, parlando o pensando o dedicandomi ad altro, ora dovevano essere fatte con particolare concentrazione. […] La ciotola non doveva urtare un bicchiere, la tazzina non rovesciarsi mai, non dovevo inciampare

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nel gradino, non scivolare uscendo dalla doccia, non dimenticarmi la crema, non avere il fiatone anche dopo una corsetta, non sudare troppo, non sporcare la camicia o la tovaglia mentre mangiavo, non sgocciolarmi sui pantaloni pisciando, per disattenzione o per fretta.» Il perché Giovanni Prati si chiuda in casa lo si scopre quasi a romanzo finito; l’autore corre volentieri il rischio che le divagazioni sulla vita del protagonista, il suo amore per i corpi giovani e belli, la sua posizione professionale di rilievo, i suoi continui viaggi di lavoro tra Londra, Praga, Pechino, sfianchino il lettore di eccitazione e di malinconia. E, a un passo dal fallimento, dalla decadenza, dal vuoto d’amore, quando ci si attende morte, suicidio o pazzia, si svela il senso, dispettoso e seducente. Scappare fortissimo narra del rumore della vita fatta di discorsi a voce troppo alta, di certe canzoni eccitate, di ritmo maniacale e stonato, per fare i conti con la fine, con il senso, con l’amore che sfugge, con la bellezza che è l’altro. Giovanni si addormenta con i suoi gatti, ama Minna, la sua gatta sposa, la sola a conoscerlo, simbolo d’amore. Aspetta Manu di cui è innamorato da sempre, Manu che scappa, compare e scompare, un amante che gli somiglia molto, adorato perché assente. E quindi ama se stesso, si ama in eccesso; nella girandola di amori, umori e destinazioni finali il narcisismo respinge, allontana, crea una crepa, frana la storia. L’amore narciso annoia, esclude, innervosisce. E questa lunga parte centrale dove si scopa molto, si viaggia molto, si soffre molto, si conta molto, si scappa molto, un tantino sfianca, risulta stucchevole, un simbolo mancato. «Già, morire. Giocare, scherzare. Qui sta la forza. Poco per volta, ho capito che oltre al peccato originale (che a me, invece, è sempre parsa una grazia originale, un dono che ci vien dato all’inizio e si perde col tempo) ce n’è un altro, finale, questo sì grave, che ci pesa addosso con gli anni, a dispetto delle nostre intenzioni e della volontà. […] In fondo tutto non è che poca cosa...» Sul Romanzo

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L’italiano non è un’opinione

Davanti alle parole femminili che iniziano con una vocale, l’articolo singolare, sia esso determinativo o indeterminativo, si elide e la sua vocale viene sostituita da un apostrofo:

un’epoca

e non

una epoca

un’altra

e non

una altra

un’opinione

e non

una opinione

l’arteria

e non

la arteria

l’allegra

e non

la allegra

Eccheppoffarbacchi.

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«E poiché possedere delle qualità presuppone una certa soddisfazione di constatarle reali, è lecito prevedere come a uno cui manchi il senso della realtà anche nei confronti di se stesso, possa un bel giorno capitare di scoprire in sé l’uomo senza qualità.» (Rober Musil, L’uomo senza qualità)

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I (rin)tracciati

Disinfestare la vita: Dante Virgili di Alessandro Puglisi

1 - A line between freedom and detention, di Massimiliano Giani 2 - foto by Alina 3 - L’anziano. Scerne di Pineto (TE), di Daniele Tini

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Un percorso inconsapevole di riflessione sull’esistenza, attraverso le voci degli artisti: è questo ciò che, scorrendo gli articoli scritti fino ad ora per la webzine Sul Romanzo, mi sembra di aver tracciato. Aggirandomi circospetto tra i frutti dell’espressione letteraria, ho avuto la ventura, non ricordo neanche più come, di “imbattermi” in Dante Virgili e nel suo romanzo d’esordio, La distruzione (edito originariamente, nel 1970, da Mondadori, e nel 2003 da peQuod). Romanzo fortemente anomalo, del quale vale la pena tracciare sinteticamente la storia editoriale; vicenda travagliata e che, a tutt’oggi, non gli permette certo di collocarsi nella “vetrina” più in vista della letteratura italiana del Novecento. Correva l’anno 1968, quando arrivò a Mondadori sulla scrivania di Alcide Paolini, lo scritto di un bolognese, tale Dante Virgili, intitolato La distruzione. Il mittente non era l’autore, bensì Raffaele Crovi, che aveva scorto nel romanzo qualche elemento n° 1 • Gennaio 2012


d’interesse. Per evitare di impelagarci nei meandri del percorso tortuoso del testo da una scrivania all’altra, diremo che giunse addirittura a Vittorio Sereni, allora direttore editoriale, il quale rimase tiepido, salvo riformulare parzialmente il proprio giudizio sulla scorta di quello entusiastico di Giovanni Giudici, forse il più noto all’interno della nutrita serie di lettori per le cui mani passò l’opera. Giudici affermò di aver letto La distruzione tutto d’un fiato e questo contribuì in maniera decisiva alla pubblicazione, nel 1970. Altra storia è, tuttavia, quella che vede il romanzo di Virgili sostanzialmente misconosciuto fino al 2003, quando, come si diceva, la lungimirante peQuod di Ancona decide di ripubblicarlo, accludendo una prefazione di Bruno Pischedda, parte di un saggio più ampio incluso in La grande sera del mondo (Aragno, 2004) e una postfazione di Antonio Franchini, intitolata Che cosa perdiamo a non leggere “La distruzione”. Si noti che la stessa peQuod, nel 2008, ha pubblicato Metodo della sopravvivenza, il secondo romanzo di Virgili, a suo tempo rifiutato proprio da Mondadori. La vicenda narrata in La distruzione si svolge in un anno non meglio specificato ma, mettendo insieme alcuni “indizi testuali”, assumibile come il 1956. Mentre sui giornali si rincorrono le notizie dell’“atto di forza” di Nasser, la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez (di proprietà franco-britannica, si ricordi), il protagonista, ex interprete delle SS, uomo dal fascino ormai sfiorito, intimamente corrotto dal naturale trascorrere del tempo, si lascia vivere, costretto in un poco soddisfacente lavoro all’interno della redazione di un giornale; mentre l’uomo trascorre il tempo che gli resta da vivere («[...] fra poco anch’io me ne vado. Passato così. In una sequenza incoerente di fatti oscuri»), la voce narrante richiama senza sosta alla mente l’idea della propria morte, della propria inutilità, rievoca il sogno di un grande stato “gerSul Romanzo

manico”, vagheggia l’ascesa irresistibile del nazionalsocialismo e culla il sogno di un’esplosione totale e definitiva che ricorda la «catastrofe inaudita» di Svevo. D’altro canto, viene constatato un irreversibile “de-potenziamento” sessuale, accompagnato dal proliferare di una grande varietà di fantasie erotiche. Fin qui nulla di particolare, se non fosse che Virgili costruisce il suo scritto imbastendo una lingua estremamente composita, in cui vengono a confluire non solo l’italiano e il tedesco, ma anche rappresentazioni di pensieri, ricordi e azioni concatenate quasi senza soluzione di continuità, unite ad un estremo spirito citazionistico che lo fa spaziare da Shakespeare al Mein Kampf, da Spengler a Churchill, a Mann. La pagina di Virgili è franta, de-costruita, ma mantiene una sua comprensibilità di fondo; alternativamente avvicinato, da un lato, a Joyce per lo stream of consciousness, dall’altro, allo sperimentalismo futurista di Marinetti, lo scrittore bolognese sembra, invece, aver trovato, pur nell’“anonimato letterario”, un’interessante “terza via”, in cui l’azione e la scrittura si accartocciano su loro stesse, declinandosi in tensione e rappresentazione della strada intrapresa e attenuandosi, fino a rintanarsi nuovamente nel pensiero, nella fantasia, nel desiderio. Per ripartire proprio da questo, ma rimanere sostanzialmente nell’incapacità di agire, di incidere. La distruzione finisce, dunque, per raccontare la storia di un essere confinato in uno stato di inettitudine talmente pronunciato da fargli desiderare, piuttosto che di morire, di non essere mai nato. «Tutto si fa silenzio il giorno sempre più buio. Ma è un’alba nuova che segna la dissoluzione dell’umanità.»

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L’angolo di Nonna Papera

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Dall’alto della mia veneranda età, lasciatemi dire, signori miei, che il mondo sta andando allegramente a meretrici. L’altro giorno è venuta da me Giulia, otto anni, con la sua bella mantellina rossa e il suo panierino, a ritirare uno dei miei famosi apple pie per sua nonna. Nel mentre che le torte, posate sul bordo della finestra, si raffreddavano abbastanza da essere trasportate, le ho fornito un foglio e delle matite colorate e le ho detto «Disegnami la tua cameretta». Giulia è la figlia unica di agiati genitori. Nel suo disegno, ho distinto solo un letto e un enorme (ben più del letto) rettangolo, non si sa bene se appeso al muro o se posato su un invisibile piano d’appoggio. «Giulia, dimmi, cos’è questo rettangolo nero?» «È un televisore, nonna Papera»

e, secondo voi, di chi è la colpa? Lungi da me puntare la torta verso Il Grande Fratello o Maria de Filippi, ma vi sembra che i programmi che guardano i bambini siano, non dico edificanti, ma contenitori della benché minima cultura? L’altro giorno è passato Ciccio, undici anni, a comprare la mia composta di mirtilli, e mi ha detto: «Fa freddo oggi». «Sì, sembra di essere in un igloo» gli ho risposto io. «Un che?» «Un igloo» «Cos’è?» Gli ho tirato fuori un’enciclopedia («Un’enciclopedia? Cos’è?» (sic)) e gli ho fatto vedere un igloo. «Ah, è ghiaccio» «Sì, ma è una casa» «Ci vivono gli orsi?»

Un pedopsichiatra vi direbbe, probabilmente, che le misure dell’apparecchio rappresentato, molto più grande del letto, sottolineano l’importanza che esso ha per la pargoletta. Io, che sono solo una vecchietta, forse un po’ brontolona, ma saggia, dico: ohibò e perdindirindina! Ma coniglia di una maremma ladra, genitori del XXI secolo, ma li vogliamo proprio rimbambire questi bambini e farne degli adulti ignoranti e cerebrolesi? Ma vi risulta che Qui Quo e Qua, miei adorati nipotini, notoriamente svegli e inventivi, passino le loro giornate, e serate, e magari nottate, davanti alla televisione? No, no, no, signori miei, così non va, non può andare. Per sviluppare il suo linguaggio, la sua cultura e la sua fantasia, un bambino non deve avere un televisore in camera, ma una libreria. Una bella libreria con dentro dei libri di favole, di avventura, il Manuale delle giovani Marmotte e, perché no, qualche numero di Topolino, di preferenza di quelli di una volta, quando gli sceneggiatori ancora ci facevano parlare con una proprietà di linguaggio elevata. Il linguaggio e la cultura umani si impoveriscono,

Ah, signori miei, c’è ancora speranza per le nuove generazioni? Forse, ma se non hanno la TV in camera, dove possono guardare qualunque cosa, senza discernimento, e anche di notte. Sì, di notte, perché fateci caso, Boing, K2, Disney Channel… tutti trasmettono anche in notturna. Sapete cosa dovrebbero avere in camera i vostri figli, oltre ai libri? Una torcia a pile. In modo da poter leggere sotto le coperte dopo che gliele avete rimboccate, che avete dato loro il bacio della buonanotte e spento la luce. E di giorno, la televisione fategliela guardare in salotto, controllando cosa guardano (cartoni animati certo, figuriamoci se proprio io, nonna Papera, posso essere contraria ai cartoni, ma anche altre trasmissioni per bambini e, perché no, Geo & Geo, documentari sugli animali e sui mondi, favole, storie meravigliose…). Quanto a cosa fargli leggere, ve lo dirò la prossima volta, adesso devo infornare le torte.

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N. P.

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Ciò bif Za lo d Ve tur d’in bro 2; M My mig con rac iden tri le d che Ciò bif Za lo d Ve tur d’in bro 2; M My mig con rac iden tri le d che Ciò bif Za lo d - V cult ne d libr ne 2 di M dell


ò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione fronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina agaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? erso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato rale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridion nchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo o fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazi Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura d y�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura de grazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; Fre nnection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido ccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giu ntità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili risc - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione c della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciag e vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticci ò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione fronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina agaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? erso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato rale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridion nchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo o fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazi Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura d y�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura de grazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; Fre nnection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido ccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giu ntità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili risc - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione c della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciag e vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticci ò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione fronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina agaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io Inserto Inserto Speciale dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Speciale Mamma, mi leggi? Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato turale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Merid d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il t ro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generaz 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettur My�kin - Meticciato culturale: una- Anno generazione Gentili riscontri - Letteratura Webzine 2, n° bifronte; 1n°-1 •Gennaio 2012 Sul Romanzo Gennaio 2012 la migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura

Presenta

Generazione meticcia


Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”. “Naufragio dei migranti”, Leonardo Moriello, Scultura in terracotta trattata

(Dante, Inferno, Canto XXVI, vv. 127-142)


Ciò detto di Pierfrancesco Matarazzo

La giusta identitĂ

p.20

Meticciato culturale: una generazione bifronte

p.23

La lettura di MySkin di Gerardo Perrotta Gentili riscontri di Alberto Stigliano

Letteratura della migrazione

Meridione d’inchiostro di Giovanni Turi

Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura

French connection di Angelica Gherardi

Gerbido raccolto di Alessia Colognesi

Voglio una critica meticciata Generazione 2

Mamma, mi leggi? di Stefano Verziaggi

Verso la classe meticcia

p.28 p.30 p.36 p.40 p.42


Ciò detto

La giusta identità di Pierfrancesco Matarazzo

«Nella società liquida non esistono relazioni sociali ma solo contatti sociali che si attivano e si disattivano a seconda della convenienza.» «Più sono ridotti lo spazio e la distanza, maggiore è l’importanza che attribuisce loro la gente, più è svalutato lo spazio e meno protettiva è la distanza e più ossessivamente la gente traccia e sposta confini.» Zygmunt Bauman

Mentre osserviamo, sempre più preoccupati, le coste di Lampedusa, assediate da centinaia di persone in fuga, la nostra mente non può trattenersi dall’iniziare a sommare i possenti numeri, che cronisti eccitati si affrettano a comunicarci, alle centinaia, migliaia, milioni di stranieri che già “occupano” il nostro Paese: libici, algerini, egiziani, rumeni, filippini, ucraini, cinesi, latino-americani. Si risvegliano, allora, nel nostro sentire, ataviche paure, a cui già gli antichi Greci avevano dato un nome: barbaros. E, sebbene originariamente questo termine fosse usato per indicare tutti quei popoli che non parlavano greco (non migliori o peggiori, ma semplicemente diversi), si passò rapidamente dalla diffidenza alla paura per aver incontrato un altro essere umano, la cui vita è basata (o potrebbe essere basata) su un sistema di regole e valori differenti dal nostro. Qualcuno, che, con la sua sola presenza, fa nascere nei “non-barbari” il dubbio che possa esistere un’altra modalità di vivere, un’alternativa. Claude Lévi-Strauss ha suggerito che, in tutte le epoche, le nazioni hanno adottato due strategie per affrontare l’irritante problema degli stranieri: antropofagica e antropoemica. Con la prima, lo straniero veniva “mangiato”, assorbito, eliminando le sue pericolose diversità, tramite un’as-

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“classi di diversità” sempre più fitte, facendo nascere il mito dell’appartenenza ad una piuttosto che ad un’altra, come unico strumento di riconoscimento e d’identità. Zygmunt Bauman, importante filosofo, saggista e sociologo polacco, distingue, nei suoi numerosi scritti sul modernismo e post-modernismo, fra «società solida» e «società liquida». Quest’ultima, che, secondo il filosofo, stiamo vivendo, nasce dalla trasformazione degli uomini da «produttori di beni» a «consumatori di beni» che percorrono una vita liquida, sempre più frenetica, in cui si è costretti ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusi, portatori di una diversità chiaramente negativa, presupposto generatore della barbarie. Ecco allora che la possibilità di comprare diventa l’unica via per essere portatori di una giusta identità. Secondo Bauman, il progresso economico permette di fare una cosa in minor tempo e con minor fatica. Ciò porta a considerare superflui certi “vecchi” modi di produrre le cose e, di conseguenza, le persone che li adottano. Ma mentre prima questi “superflui diversi” potevano essere eliminati (per antropofagia, ma soprattutto per antropoemia), usando i Paesi poveri come una sorta di discarica del superfluo, negli ultimi anni anche i Paesi poveri hanno cominciato a produrre i loro “superflui”, quelli che gli anglosassoni definiscono underclass, ossia fuori da qualsiasi schema di classe sociale, i diversi per anto-

similazione culturale, di solito obbligata. Con la seconda strategia, più veloce e affascinante, gli stranieri venivano semplicemente espulsi, fatti emigrare forzatamente, interrompendo qualsiasi contatto fra i barbari e i “novelli ellenici”. Su quale delle due strategie sia stata o sarà la più efficace, vi sono molti dibattiti in atto nel mondo politico, che porteranno ad altrettante scelte “dolorose, ma necessarie” rivolte esclusivamente a difendere la sussistenza di coloro che si sentono invasi dai barbari di turno. Preservare i confini, tutelare la diversità: questo l’imperativo che tramandiamo. Ma cos’è esattamente questa “diversità”? Fredrik Barth, antropologo norvegese, sostiene che i confini che ci ostiniamo a tracciare non servono a preservare le differenze fra due popoli, ma, al contrario, sono proprio i confini, che moltiplichiamo e difendiamo, a far emergere improvvisamente le differenze. Una volta sollevato il muro, iniziamo, come segugi, privati per troppi anni della gioia della caccia, ad osservare chi è rimasto al di là di esso e cerchiamo, cerchiamo…. Qualunque differenza, che sicuramente troveremo, legittimerà il confine che abbiamo tracciato e ciò ci porterà a desiderarne un altro, più esclusivo e stringente. Avremo creato, allora, il presupposto per una divisione in Sul Romanzo

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1 - Immigration di Agim Sulay, vign etta, olio su tela 2 - Lo straniero di Agim Sulay, vign etta, tecnica tempera e matita su carta 3 e 4 - Foto dell’ installazione “M inimum Moment” di Nele Azevedo

nomasia, i superflui irrecuperabili. Questi “super diversi” sono talmente differenti da non poter essere reintegrati e, quindi, vanno immediatamente allontanati, isolati, per evitare che qualcuno dei non-superflui sia da loro influenzato (strategia antropoemica), arrivando a dubitare, a pensare che esista una diversa identità da quella del consumatore, una diversa forma di felicità che non provenga dall’istinto a comprare per appartenere. Ecco, allora, che, passeggiando per le strade delle nostre città, assediate ormai da milioni di barbari, il terrore ci assale e tentiamo con l’altra strategia, cerchiamo di assorbirli, di “mangiare” questi stranieri, perché il concetto di generazione meticcia proprio non ci convince; loro sono gli underclass di qualcun altro e, allora, perché non illuderli che sia possibile riacquistare una sana identità di consumatore proprio qui da noi? Perché non spingerli a desiderare ciò che noi stessi desideriamo, ciò per cui ci indebitiamo, per cui ci vendiamo, grazie al quale spendiamo? Il denaro diventa, quindi, l’unico sistema di eguaglianza universale, da tutti compreso ed accettato, perché prescinde dall’effettiva integrazione sociale e relazionale fra le persone. Viene alla mente il recente Ripartire, dopo Berlusconi. Colloquio con Eugenio Scalfari di Denise Pardo, pubblicato su L’Espresso nel Gennaio del 2011, in cui Scalfari presenta un sottile distinguo fra «libertà senza uguaglianza» ed «uguaglianza senza libertà». Nel primo caso, i liberi coincidono con i più forti, mentre i deboli restano subor-

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dinati: il primo status in cui si trova a vivere un “barbaro” all’arrivo nel nostro Paese. Nel secondo caso, forse ancora più insidioso, siamo tutti uguali, tutti consumatori agli ordini di qualcun altro. E allora “ellenici” e “barbari” italiani potranno, con le generazioni che seguiranno, partire insieme verso il discount dove trovare le “firme” a prezzi ragionevoli, comprare tutti la stessa marca di smart phone, sognare di partecipare al reality più visto, essere disposti a tutto, pur di apparire in televisione. Spariranno dentro un’unica grande identità: consumatori medi italiani, senza più altre distinzioni fra nordafricani e asiatici, fra cattolici e mussulmani, tutti insieme, finalmente uguali.

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Meticciato culturale: una generazione bifronte

Prova del peccato o figlio del maligno, il meticcio paga il fio alla purezza della razza e all’idea di commistione come invasione, impoverimento e imbarbarimento. Le sedimentazioni semantiche si alimentano dell’immaginario dei colonizzatori occidentali stupratori delle donne indigene sotto l’influsso degli artifizi malefico-demoniaci della seduzione. Laddove c’è ricchezza, s’insinua un’attentatrice bastardaggine. Se la lingua non ha mai una valenza neutra ed è testimone del modo in cui le società si rapportano ai fenomeni che nominano, è necessaria un’innovazione semantica che sfrondi la parola “meticcio” da rimandi storici, pregiudizi sociali e tentativi di circoscrizione dell’umano al fattore genetico, che legge la storia del singolo in quella del popolo. L’establishment del politically correct ha già proposto un mutamento di connotazione: da meticcio a Sul Romanzo

La lettura di Myskin di Gerardo Perrotta

seconda generazione di immigrati. La pomposità dell’espressione riduce i soggetti ad eredi e lo status di immigrati ad un lascito in linea diretta, recuperando, mutatis mutandis, il vecchio adagio per cui le colpe dei padri ricadranno sui figli. La tara della discendenza prevale in una logica che identifica provenienza, origine e tradizione. Anziché rintracciare i germi di una nuova alterità, si ratifica la condanna: «immigrato sei e immigrato resterai». E se, invece, provassimo ad interpretare il meticciato su un piano diverso, non più ibridismo genetico, ma meticciato culturale? Non più commistione di razze, ma dimensione in cui l’unità tra provenienza, tradizione e origine è dissolta in funzione di una nuova identità, a partire da una riflessione sulle dinamiche in gioco nella generazione dei meticci? A mio avviso, si tratta di una generazione in bilico tra due culture, portatrice di una visione del mondo bifronte: uno sguardo rivolto alla tradizion° 1 • Gennaio 2012

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ne respirata nell’aria di casa e l’altro alla tradizione della società e del milieu in cui vivono, da cui sono influenzati e rispetto al quale l’integrazione è questione di sopravvivenza. Per chi è nato in Italia da genitori pakistani, tunisini, indiani, rumeni, polacchi o albanesi, qual è la tradizione? Quella acquisita naturalmente nel processo di crescita, andando a scuola o guardando la tv, o quella appresa dai genitori sul Paese d’origine? È in questa dimensione che si realizza una forma di dissonanza generazionale tra padri e figli in cui i «giovani (figli di immigrati, ndr) sono chiamati al difficile compito di elaborare e metabolizzare forme di conciliazione tra culture, valori e costumi spesso assai distanti tra loro» (Marco Demarie, La seconda generazione di immigrati, 2003). Il riconoscimento di un’esigenza di conciliazione presuppone l’esistenza di una discontinuità (il figlio dell’immigrato non è l’immigrato, ha aspettative sociali, culturali e personali non solo diverse, ma più conformi allo stile di vita del Paese in cui è vissuto) e richiama al disegno di un percorso di formazione in cui le dimensioni di alterità ed estraneità assumono connotati ambigui. Estraneo è il mondo esterno con il quale il giovane si relaziona quotidianamente all’esterno della famiglia per motivi di studio, lavoro, relazioni sociali ecc…, ma estraneo è anche l’insieme di valori respirati nel

nucleo familiare, in una casa che non è più riparo dallo spaesamento di fronte a situazioni esterne disorientanti. L’altro non è solo lo straniero, ma è anche colui che, tra le mura domestiche, risponde e si conforma a stili di vita e dinamiche di comportamento che l’ambiente sociale, spesso, non condivide né approva. È in gioco un nuovo concetto di identità non semplicemente multiculturale, che rimanderebbe a un melting pot di culture ridotte a merci di pari valore; si tratta, invece, di una identità di sintesi tra la tesi dell’origine geografica e l’antitesi dell’origine genealogica. Ma se la tradizione dell’ambiente sociale è già data, la sfida per l’evoluzione di una frattura critica in possibilità di crescita è uno sforzo di avvicinamento alla tradizione familiare in un viaggio insieme culturale ed ermeneutico, che ha trovato espressione narrativa nel recente Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza, 2007). Nel romanzo, costruito con la tecnica proustiana di una rievocazione che è insieme ricordo e ricostruzione senza mai essere nostalgia e mitizzazione, l’ebreo-americano Daniel ripercorre i due viaggi intrapresi per raccogliere una verità genealogica e riappropriarsene all’interno di un orizzonte nuovo. Il primo percorso, tutto in seno alla famiglia, intesa sia come ristretto nucleo familiare

La casa dell’emigrante di Agim Sulay, vignetta, tecnica a olio

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che come famiglia allargata della comunità ebraica, può essere riletto attraverso il ricorso ai quattro momenti del processo ermeneutico individuati da George Steiner (Dopo Babele, Garzanti, 1994): 1. Fiducia: la storia ha inizio con un atto di fiducia verso la famiglia e il nonno, nelle cui frasi sospese e nei cui silenzi Daniel intravede i segni di una verità; 2. Aggressione: riconosciuta ed ammessa la presenza di una verità alla base dei molteplici segni, Daniel inizia ad “aggredire”, ponendo domande al nonno, ai familiari e ai membri della comunità ebraica. Sono domande semplici che tentano di ricondurre i segni sparsi all’unità, ma che risultano un’“aggressione” dolorosa per quelli a cui è richiesto di rievocare quella verità nella sua interezza, anziché abbandonarsi al riaffiorare in piccoli segni; 3. Incarnazione: quella storia e quella verità, sebbene acquisite ancora sottoforma di segmenti singoli e frammentari, entrano nella carne di Daniel, diventano la sua verità nella stessa forma in cui l’esegeta fa sua carne il testo biblico. Si tratta, però, di una tradizione ancora ammantata della nebbia del passato, un corpo estraneo che si aggiunge all’oggi di Daniel come un peso non amalgamato; 4. Compensazione: è il momento in cui l’esigenza di ricostruzione della tradizione diventa istanza di formazione compensativa. Daniel riconosce, nella sua personalità, un vuoto che la tradizione americana da sola non può colmare; il suo viaggio non è più solo ricerca di una genealogia, ma è desiderio di un’identità di sintesi tra il suo essere cittadino americano e le sue origini ebraiche.

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Ed è proprio in questo processo di formazione che Daniel attraversa varie forme intermedie di identità che si rapportano in modo diverso all’alterità della tradizione. È dapprima Colombo lo Scopritore in cui convivono due personaggi: «quando il mestiere di navigatore non è più in gioco, la strategia finalistica ha il sopravvento nel suo sistema di interpretazione: questa non consiste più nel cercare la verità, ma nel trovare delle conferme a una verità cono-

sciuta in anticipo (o, come si dice, nello scambiare i propri desideri per la realtà)» (Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, 1992). Diventa, poi, Cortés il Conquistatore, che utilizza le informazioni ricavate dagli intervistati per influenzare, anche se inconsapevolmente, le risposte di quelli che seguiranno: «la parola – prima di essere riflesso fedele del mondo – è un mezzo per manipolare gli altri» (Tzvetan Todorov, Ibidem).

Piccolo Emigrante di Agim Sulay, Vignetta, Tecnica a Olio

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Come ogni ricercatore, scoperta e conquistata la verità, Daniel se ne innamora e con essa inizia ad amare tutti gli ebrei che incontra, sia quelli che si sono prestati alla ricostruzione di questa verità con segmenti parziali sia quelli che non la possiedono e vanno, pertanto, ricondotti a questa unità ricostruita ex post. Daniel diventa Las Casas: riconosce e rifiuta la violenza di Cortés o le aprioristiche interpretazioni di Colombo, ma anche l’amore non basta. Il nuovo atteggiamento pone la tradizione su un piano di inferiorità, di qualcosa che resta ancorato al passato e non trova alcun legame con il presente se non di tipo cronologico. Il suo è l’amore dell’archeologo che ha trovato i resti di Atlantide: ama la verità in sé, che aggiunge alla sua personalità senza elaborazione. È solo verso la fine del viaggio che Daniel giunge ad una identità di sintesi: si riconosce veramente come portatore di due istanze (quella genealogica e quella geografica) e consolida una sua identità biografica. Daniel è e si riconosce come ebreoamericano, la sua identità diviene un meticciato culturale, non un ibridismo genetico o sociale, ma la volontà consapevole di poter e dover cercare una propria visione del mondo, che non sia un acritico appiattimento sulla tradizione né una drammatica separazione per introiettare la modernità del luogo in cui vive. Mendelsohn ha rappresentato il dolore e la fatica di chi ricompone in unità due visioni del mondo attraverso uno sforzo di riappropriazione, rielaborazione e conciliazione. Comprendere le asperità di questo percorso è il primo passo per riconoscere alla generazione dei meticci l’identità di cittadini italiani portatori di una verità che può divenire strumento per arricchire la nostra identità, o almeno per acquisire la consapevolezza del suo radicamento in valori non negoziabili rispetto a proclami ideologici e in radici storiche non racchiudibili nelle interpretazioni totalizzanti di un partito politico o di una qualunque religione.

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1 - Il doppio segreto di René Magritte, 1927, olio su tela, 114x162 cm, Parigi, Musée national d’Art moderne, Centre Georges Pompidou 2 - Tab, 2005, di Brian Dettmer, Altered Set of Vintage Encyclopedias, 51”(h) x 10.25”(w) x 7.5”(d) - Image Courtesy of the Artist 3 - David Mendelsohn

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GENTILI RISCONTRI

Letteratura della migrazione? di Alberto Stigliano

1 - New Universal, by Brian Dettmer, 2007, Altered Book, 12” x 11” x 9”- Image Courtesy of the Artist and MiTO Gallery 2 - The Household Physicians, by Brian Dettmer, 2008, Altered Books, 10-1/2” x 8” x 12” - Image Courtesy of the Artist and Kinz + Tillou Fine Art 3 - World Books, by Brian Dettmer, 2009, Altered Books, 19” x 32” x 10” - - Image Courtesy of the Artist and Packer Schopf

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Sofia, di madre di origine vietnamita e padre romano, venuta al mondo pochi secondi dopo la mezzanotte dello scorso 1° gennaio, è stata una delle prime nate del 2012, in Italia. Un dato piccolo, ma significativo per spiegare un Paese che cambia, che si trasforma, che ha assimilato o sta assimilando i “migranti” di ieri per produrre vita nuova. Vita nuova, nuove forme culturali, nuova letteratura. In Pillole di letteratura migrante in Italia, articolo apparso il 12 maggio 2010 su Minima Et Moralia, il blog culturale di Minimum Fax, lo scrittore Tahar Lamri osserva: «Vent’anni fa, era il 1990, apparvero nelle librerie italiane tre libri sorprendenti: Mohamed Bouchane, Carla De Girolamo, Chiamatemi Alì, Leonardo editore, Salah Methnani, Mario Fortunato, Immigrato, Bompiani, Pap Khouma, Oreste Pivetta, Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano, Baldini Castoldi Dalai». Convenzionalmente, sono questi tre titoli a segnare l’inizio della cosiddetta letteratura italiana della migrazione. Tre titoli, sei autori: perché tutti i libri citati sono stati scritti a quattro mani; o meglio, sono stati scritti in italiano da chi in italiano aveva ascoltato per primo le storie in questione. «La nostra lingua», nota ancora Lamri, «fu quella finale, ma anche quella germinale, nella quale l’opera nacque, fu composta e s’indirizzò». Quei lavori erano caratterizzati da un linguaggio letterario di forte derivazione giornalistica: gli “scrittori delle migrazioni” non avevano grandissima padronanza della lingua, ma portavano storie potenti, nuove, con un fortissimo valore di “testimonianza”; quei racconti erano autobiografie di persone che parlavano del proprio viaggio, del proprio arrivo nel nostro Paese, dei primi incontri. Ecco spiegato il supporto offerto da giornalisti o da responsabili di associazioni che si occupavano di immigrati. «Il contenuto era molto centrato sull’esperienza personale e sul desiderio di farsi conoscere dalla società italiana non solo come categoria sociologica ma come persone in carne e ossa, con emozioni ed esperienze» ha scritto il giornalista congolese Jean-Léonard Touadi. n° 1 • Gennaio 2012


È Allunaggio di un immigrato innamorato del rumeno Mihai Mircea Butcovan - perché in quindici anni l’orizzonte di provenienza degli autori arriva a comprendere anche i Balcani e l’Europa dell’Est - a chiudere idealmente (e momentaneamente) la fase della testimonianza. Poi, per dirla con il critico Armando Gnisci, «i destini degli scrittori migranti e dei loro figli si dividono. Gli scrittori migranti sono quelli che hanno viaggiato, che hanno imparato la lingua italiana lungo e a partire dalla strada, poi hanno letto Manzoni e Calvino. Gli scrittori “creoli” sono quelli che Manzoni e Calvino li hanno letti a scuola mentre imparavano l’italiano, poi hanno scritto». Non sono solo i temi affrontati, dunque, ma è anche e soprattutto la lingua a segnare la cesura tra le prime e le seconde generazioni: da un lato, si amplia la materia; dall’altro, è l’italiano a dilatarsi, a venire manipolato e modificato affinché possa esprimere contenuti nati e maturati in altri contesti culturali. E oggi, che una delle prime neonate italiane a salutare il 2012 è proprio Sofia, di cosa parliamo quando parliamo di “letteratura migrante”? La formula si rivela più che mai controversa, soprattutto perché include senza distinzioni sia ex immigrati, ormai italiani da tempo, sia giovani autori che, burocrazia permettendo, stranieri non lo sono mai stati. Ecco perché una scrittrice come Igiaba Scego - classe 1974, il suo ultimo romanzo è intitolato significativamente La mia casa è dove sono, (Rizzoli, 2010) - ha proposto di superarla con quella di “letteratura del doppio sguardo” (italiano e somalo, nel suo caso). Non tutti, però, si dicono d’accordo, e anzi rimarcano il valore “altro” della loro produzione letteraria. È il caso della giovane Widad Tamimi, che, con il suo racconto Nel sedimento, nel 2010 si è aggiudicata il concorso di Fazi destinato per l’appunto alle seconde generazioni e vinto, quest’anno, da Claudiléia Lemes Dias, di nazionalità brasiliana. «È giusto distinguere la “nostra” letteratura da quella italiana tradizionale» ha raccontato Widad Tamimi a Nuovi Italiani, il blog del Corriere della Sera tenuto da Alessandra Sul Romanzo

Coppola e dedicato alle tematiche dell’immigrazione, «perché non ci si sente solo italiani. Sia che si scappi dal proprio Paese di origine, sia che lo si incontri nuovamente, sia che si voglia trovare una via d’integrazione, la lingua dei genitori è diversa. Apprezzando, ma anche criticando le due origini, c’è la possibilità di creare un contesto diverso, di sceglierlo e di proporlo». Al di là delle possibili etichette, stiamo parlando di un’esperienza relativamente recente e nuova per i lettori italiani. Quella di sentirsi quasi spiati da uno sguardo indiscreto; di poter conoscere aspetti della nostra società che spesso tendiamo volutamente a trascurare - e scoprire magari che il processo di integrazione è in una fase molto più avanzata di quello che sembrano suggerire i media; di percepire sensibilità e mondi diversi senza il filtro della traduzione; di leggere in un italiano rinnovato dal contributo di autori le cui storie personali vengono da lontano. Come nota anche Alessandra Coppola, insomma, «tutto quello che è successo già all’inglese, al francese… per noi è una novità: l’italofonia». Oggi, nessuno si sorprende nello scorgere nomi stranieri in ogni collana di narrativa italiana: basti pensare all’algerino Amara Lakhous (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, 2006; Divorzio all’islamica a viale Marconi, 2010; Un pirata piccolo piccolo, 2011 – tutti editi da E/O), all’iracheno Younis Tawfik (Nelle mani la luna, Ananke, 2001; Islam. Dai califfi all’integralismo, Ananke, 2004; Il profugo, Bompiani, 2006; La sposa ripudiata, Bompiani, 2011;), all’albanese Ornela Vorpsi (Il paese dove non si muore mai, Einaudi, 2005; Vetri rosa, Nottetempo, 2006; La mano che non mordi, Einaudi, 2007; Bevete cacao Van Houten!, Einaudi, 2010) e a Nicolai Lilin (Educazione siberiana, 2009; Caduta libera, 2010; Il respiro del buio, 2011 – tutti editi da Einaudi). L’ultimo bestseller “migrante” è Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, di Fabio Geda: un ritorno a un drammatico autobiografismo, quasi un richiamo alle origini del nostro “meticciato letterario”, che chiude il cerchio e rilancia la sfida. n° 1 • Gennaio 2012

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MERIDIONE D’INCHIOSTRO

Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura di Giovanni Turi

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Cristina Zagaria

Di professione è giornalista, ma, anche quando la sua scrittura diventa letteraria, continua a ispirarsi alla cronaca, a voler raccontare la realtà senza filtri né censure. Da anni, ormai, Cristina Zagaria lavora presso la sede campana de La Repubblica e vive a Napoli, città che ama profondamente nonostante le tante contraddizioni (o, forse, in virtù di queste). Nata in Emilia Romagna, ha trascorso la sua giovinezza in Puglia, tra Taranto e Bari, dove si è laureata in Lettere; gli studi specialistici la portano a Bologna e qui intraprende giovanissima la carriera giornalistica. Girerà ancora un po’ l’Italia (dalla redazione milanese a quelle di Roma e di Bari, sempre con La Repubblica), prima di stabilirsi all’ombra del Vesuvio. Nel 2006, l’esordio letterario con Miserere – Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello stato (Dario Flaccovio Editore): è la storia vera di Armida Miserere, vicedirettrice di carcere dall’età di ventotto anni, morta suicida a quarantasette. Non è solo una ricostruzione della sua esistenza pubblica e privata, ma anche un’indagine della vita nei penitenziari; tanti quelli in cui Armida presta servizio (Parma, Voghera, Pianosa e infine Sulmona), poche le persone che sapranno capirla ed esserle vicine dopo l’uccisione del suo compagno. La Zagaria intende la narrazione come una propaggine della cronaca, che non si consuma, però, in pochi istanti e in poche righe, che cerca di creare nessi senza dover necessariamente essere asettica. Sul Romanzo

Così, la sua seconda pubblicazione è un vero e proprio saggio, Processo all’università – Cronache dagli atenei italiani tra inefficienze e malcostume (Dedalo Editore, 2007), subito seguito dal romanzo-inchiesta L’osso di Dio (Dario Flaccovio Editore, 2007): anche qui, una protagonista femminile, Angela Donato, la mamma coraggio che, dopo la scomparsa del figlio, sfida la ‘ndrangheta; anche qui, testimonianze e documenti pubblici o inediti sostanziano la narrazione; anche qui, la Zagaria prende posizione solo nella scelta della prospettiva da cui ricostruire la realtà, mantenendo, per quanto possibile, uno sguardo imparziale. Dalla Calabria ci spostiamo in Campania, con il romanzo breve Perché no (Gruppo Perdisa Editore, 2009), anch’esso ispirato a una storia vera. Quattro ragazzi, una scacciacani, una donna che ha appena ritirato la pensione del padre e che fatalmente è stata la loro maestra: cosa può il suo sguardo, di rammarico più che di dolore, dinanzi a una rabbia che confina con la disperazione? Entrare nel “giro” è quel che conta, per farsi un nome, per non dover curvare la schiena alla fatica… «– Muoviti, vai a prendere la pistola. Mario ci può far entrare nel giro, quello dei più grandi. La rapina è solo una prova, per metterci in mostra, non lo capisci? Non ho argomenti. Non ho un motivo per dirgli – France’ sei ammattito. Io non lo faccio, perché… Perché? Non ce l’ho un perché». n° 1 • Gennaio 2012

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Segue, poi, Malanova (Sperling & Kupfer, 2010): un aberrante episodio di cronaca che la Zagaria ripercorre, con sobrietà e partecipazione, insieme ad Anna Maria Scarfò; la “malanova” di San Martino di Taurianova in Calabria: «Per il mio paese io sono la brutta notizia, la creatura maledetta, e come tutte le cattive notizie nessuno mi vuole vedere, accogliere, capire». Anna Maria è una bambina di tredici anni, quando diventa il trastullo erotico di quattro giovani del paese, a cui presto se ne aggiungeranno altri, e poi altri ancora: come può resistere sottomessa a tanta violenza? Per timore, ma anche perché le hanno sventrato l’anima e lei ha lasciato che lo facessero, per sopravvivere: «le parole le ricorda tutte. Ma ha cancellato le emozioni. Il terrore e il dolore della prima volta. L’angoscia, i dubbi, lo schifo e ancora la paura di tutte le altre volte. È diventata una creatura forte perché vuota. Ha scelto di vivere morendo. Ha scelto di aspettare la notte, senza capire ogni volta se è la fine di un giorno o di tutti». Finché la sofferenza e il rischio che anche sua sorella finisca in quest’incubo non sopravanzano l’ingenuità e la paura, il vuoto che la ottunde e la rassegnazione: si ribella e denuncia i suoi aguzzini. La Giustizia le crede e la protegge, ma la sentenza del paese è un’altra: la ragazza se l’è cercata, è una sciupafamiglie, ha infangato l’onore di una rispettabile cittadina (del suo non importa)… Quella di

San Martino di Taurianova è la seconda voce narrante, che si alterna, nei capitoletti in corsivo, a quella di Anna Maria, come un brusio di sottofondo, malevolo, ottuso, compatto. Nel 2011 ha partecipato alle antologie Meridione d’inchiostro. Racconti inediti si scrittori del Sud (Stilo Editrice), ispirata proprio a questa rubrica, e Non è un paese per donne. Racconti di straordinaria normalità (Mondadori), di cui è curatrice insieme a Carmen Pellegrino. Facciamo due chiacchiere con Cristina sulla sua produzione letteraria e sull’argomento dell’inserto tematico di questo numero della Webzine (La generazione meticcia). Spesso hai dato voce e dignità a personaggi femminili che hanno vissuto un dramma. Cosa ti attraeva di loro? Perché la società è spesso così insensibile al loro lamento? Le mie eroine sono donne forti e fragili, sono personaggi sempre sul confine, mai positivi, mai veramente negativi. E soprattutto sono sempre donne che reagiscono alla vita con coraggio, anche se questo significa rischio. È questa doppia anima che mi attira e che ogni volta mi porta a scegliere “la storia” da scrivere. Inoltre, scelgo sempre storie che non vengono raccontate dai giornali e dalle tv, o meglio, che finiscono in quelle che in gergo si chiamano “brevi di cronaca”, non perché la società è “insensibile al loro lamento”, ma spesso perché non sono abbastanza “eclatanti”. Ma credo che proprio nella normalità della vita, in storie uniche, ma non eclatanti, si possa davvero cercare il senso del nostro presente. Sul tuo blog (www.cristinazagaria.it), ci sono post anonimi in cui ottusamente si accusa Anna Maria Scarfò di essere una ragazza facile, come se a tredici anni si potesse essere responsabili della violenza altrui…. Quali difficoltà hai affrontato per raccontare questa storia? Molte difficoltà emotive. Non è facile scrivere di uno stupro. L’essere donna non aiuta, anzi. E non è facile capire cosa accade dopo nell’animo di una bimba che ha subito una violenza che è durata tre anni ed è diventata donna. Rispetto al paese? Ho trovato silenzio ed è quello che ho riportato, scrivendo Malanova.

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La professione di giornalista sembra inscindibile dalla tua vocazione letteraria. Quali i limiti e i vantaggi di questo connubio? Esiste ancora il giornalismo d’inchiesta oppure ormai l’approfondimento è diventato compito degli scrittori? Dico subito no a un luogo comune: «il giornalismo di inchiesta è morto». No, non è vero. Il giornalismo è cambiato. C’è una presenza invadente del giornalismo televisivo. Ci sono nuovi e diversi limiti, ma i giornalisti vogliono ancora capire, vedere, scoprire. I miei libri sono romanzi, in tutto e per tutto, ma romanzi che nascono dalla cronaca. Ed è vero che le due professioni sono inscindibili, ma una dà forza e spazio all’altra. L’unico limite di questo modo di scrivere è la realtà, non devi mai forzarla, piegarla, stravolgerla, ma è anche il vero pregio, perché nelle mie ricerche ho trovato verità così “incredibili”, che nessuno scrittore sarebbe riuscito a inventare a tavolino. Cosa rende la Campania e la Calabria, ma un po’ tutto il Meridione, così permeabili alla criminalità organizzata e la gente così rassegnata a subirla? Quando parliamo di criminalità organizzata, bisognerebbe dire che anche il Nord Italia non ne è immune. E ne sono la prova le recentissime inchieste della Procura di Milano sulla ‘ndrangheta. Ma ci sono decine di inchieste anche nelle procure dell’Emilia Romagna. Per quanto riguarda la “gente”, più che di rassegnazione parlerei di modelli culturali: a volte l’omertà, l’accondiscendenza, il cercare la protezione in quello che è l’antistato (di fronte a una latitanza – vera o presunta – dello Stato) sono parte della cultura e della quotidianità del Meridione. Ed è per questo, come direbbe il procuratore aggiunto della Dda di Reggio, Nicola Gratteri: «È così difficile estirpare la malapianta». Questo numero di Sul Romanzo si soffermerà sull’apporto che le nuove generazioni di immigrati possono e stanno offrendo alla mentalità e alla cultura italiana. Secondo te, inizia finalmente a prevalere la comprensione sull’ostilità? Hai una storia sull’immigrazione da raccontarci? Io vivo a Napoli, città tollerante e accogliente. I “bassi” di Forcella, della Sanità o di alcune zone

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1 - La copertina di Malanova, di Cristina Zagaria 2 - Napoli, il centro direzionale e il Vesuvio in attesa di esplodere, di cosciansky. 3 - Voltapagina, Blog di Cristina Zagaria 4 - Puglia, il vivere minerale degli anziani nell’entroterra, di Emilius. n° 1 • Gennaio 2012

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dei Quartieri Spagnoli sono ormai colonizzati da extracomunitari, che vivono e convivono con i napoletani. A Napoli spesso i lavori più umili sono fatti gomito a gomito da napoletani ed extracomunitari. Però trovo difficilissimo fare un discorso generale e assoluto su “comprensione e ostilità”. La situazione è ancora molto fluida. Un cambiamento è sicuramente iniziato, ma è ancora ricco di contraddizioni, anche se all’interno del Mezzogiorno la Campania è la regione che accoglie la quota più consistente di immigrati, circa la metà di tutti gli stranieri presenti nel Sud Italia. La stima complessiva degli stranieri presenti in Campania oltrepassa le 100.000 unità, con più di 150 nazionalità rappresentate. Nel Napoletano gli stranieri si aggirano intorno alle 45.000 unità, pari a circa il 2% del totale della popolazione residente. Questa presenza così consistente, ovviamente, è sintomo e segnale di un processo di integrazione. Una storia? Quella di Faith, che ho incontrato a Castelvolturno. Faith solleva con le dita la parrucca e mostra il capo rasato: «Vedi? Ho i capelli rapati a zero. Ho dimenticato cosa significa essere donna. L´ho dimenticato, quando sono arrivata in Italia, dieci anni fa. Perché non c´è il tempo, non ci sono i soldi. Perché non c´è niente e non ho niente». Sistema di nuovo la parrucca, un fitto caschetto nero, e spiega: «I capelli li ho rasati a zero, perché è più

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igienico e perché non mi posso permettere un parrucchiere. Non ho neanche i soldi per comprare lo shampoo. Così basta mettere la testa sotto l´acqua e via. Come le bestie». Parla la piccola donna africana, alta un metro e sessanta. Parla e ti guarda negli occhi. Il suo nome vuol dire “fede”. Faith, 37 anni, nigeriana, senza permesso di soggiorno, mamma di due bimbi (che ha lasciato in Africa), la fede non la vuole perdere. «È l´unica cosa che mi resta: la speranza nel futuro. È per questo che mi alzo ogni mattina e vado a lavorare». È una kalifoo, termine con il quale gli immigrati vengono etichettati in Libia durante il loro soggiorno di transito verso l’Italia, una “schiava alla giornata”. Faith l’ho conosciuta l’8 ottobre 2010, mentre manifestava alla rotonda di Baia Verde, a Castel Volturno, a pochi passi dalla sartoria della strage del 18 settembre di poco più di tre anni fa (in cui morirono sei immigrati nordafricani). «Vengo qui tutte le mattine, alle cinque, e aspetto fino a mezzogiorno. Se va bene, lavoro. Se no, torno a casa. Chi aspetto? Chiunque abbia bisogno di una lavoratrice. Cosa faccio? Sono sarta, ma faccio anche la donna delle pulizie, lavoro nei campi, nelle aziende artigiane. Per un periodo ho lavorato in una fabbrica di scarpe». Faith guadagna 150 euro al mese. «Pago 120 euro la stanza dove dormo. Ma non riesco a pagare tutti i mesi e allora il proprietario mi minaccia e arriva la polizia e ogni volta

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è... it´s a war... è una guerra». E Faith combatte. «Mi pagano 20 euro per una giornata di lavoro, otto, dieci ore. Lo so che è una miseria, ma o accetto o niente. E allora meglio 20 euro di niente. E quando faccio le pulizie guardo le creme, i profumi delle signore, guardo le loro scarpe e i cappotti e penso a quando potrò tornare una donna anche io. Io non mi vesto, mi copro. Non scelgo i mie abiti, li trovo. Non mi trucco, non mi prendo cura della mia pelle, delle unghie. Parlo di cose futili? Sì, parlo di cose futili. Oggi sì. Perché oggi sono in sciopero. Oggi protesto. Oggi vorrei pensare a me stessa come a una donna». Faith sorride, stringe forte il suo cartello: «Oggi non lavoro per meno di 50 euro». Proprio in questa piazzetta, tre anni fa durante un concerto per le vittime di Castel Volturno, morì Miriam Makeba, mamma Africa. La manifestazione in cui ho conosciuto Faith è stata la prima in Italia: il primo sciopero dei Kalifoo. Una manifestazione contro il lavoro nero, la clandestinità, le nuove schiavitù. Mille e cinquecento lavoratori hanno occupato le kalifoo-round, le “rotonde degli schiavi”: per un giorno il mercato delle braccia in Campania si è fermato. La comprensione vincerà sull’ostilità quando le tante Faith, anche in Italia, potranno lavorare, sentendosi donne e non solo kalifoo.

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5 - Da Independencia, Assoc. Nigeriana, 2009-1003, Marta Molas, di Imagen en Acción 6 - Scugnizzi, di Francesca Frakokot

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FRENCH CONNECTION

Voglio una critica meticciata di Angelica Gherardi

Esistono due tipi di meticciaggio culturale. Il primo è frutto dell’immigrazione, con uno scambio che avviene per osmosi tra le due parti e che in genere, almeno parzialmente, va nei due sensi, con l’immigrato che lascia qualcosa all’ospite e quest’ultimo che lascia qualcosa all’immigrato. Ciò avviene in tutti i tipi di cultura, sia essa culinaria, filosofico-religiosa, letteraria, musicale. Questo tipo di meticciaggio è particolarmente evidente in Francia, dove l’immigrazione proveniente dalle ex colonie africane e nordafricane ha ormai una storia lunghissima, così come quella di italiani, spagnoli e portoghesi. Gli immigrati europei si sono talmente ben integrati che di loro oramai si vede solo il nome, la cui pronuncia è francesizzata (Linò Venturà, Isabelle Alonzò), se non l’hanno cambiato per ragioni di marketing (Ivo Livi diventato Yves Montand, Michel Colucci conosciuto come Coluche). Gli immigrati africani e nordafricani, anche se di seconda o terza generazione, si fondono meno nella massa per evidenti caratteristiche fisiche, dando luogo a una forma di razzismo che viene definita “délit de faciès”, ossia, potremmo dire, delitto di connotati. Così come in America la polizia tende ad arrestare, per semplici controlli, gli uomini di colore al volante di una bella macchina, o a considerare che, se un furto è stato commesso in un negozio, ci sono più probabilità che sia stato un nero a commetterlo, allo stesso modo in Francia per “délit de faciès” vengono fermati, per controllo di identità, mentre semplicemente

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camminano per strada, molti più francesi di origine magrebina che gallica. Ciò nonostante, molti di loro si sono fatti strada nel mondo culturale francese. Uno dei conduttori più popolari e amati della televisione, Nagui, è di origine egiziana; il giornalista che presenta il telegiornale della prima rete, Harry Roselmack, è di colore; diversi esponenti della nuova generazione di comici sono di origine magrebina, come Gad Elmaleh, Kad Merad (dal 2006, Cavaliere delle Arti e Lettere), Jamel Debbouze, Elie Semoun e molti altri. Ma anche il mondo della letteratura è pervaso di scrittori di origini nordafricane, primo fra tutti Tahar Ben Jelloun, la più giovane Saphia Azzedine… e non mi dilungo sui rapper. Vi è, poi, un meticciaggio dovuto alla globalizzazione. Se mangiamo Mc Donald’s e yogurt greci, non ci perdiamo un episodio di Dexter o Law & Order, beviamo vini francesi, guardiamo (sic) format televisivi esteri come Il Grande Fratello o Ok, il prezzo è giusto!, o ci vestiamo da Zara, non è perché abbiamo assorbito un’immigrazione americana, greca, francese o spagnola. Purtroppo, la globalizzazione non ci porta per forza a prendere il meglio delle altre culture, anzi, spesso ne prendiamo il peggio, e a volte, come nel caso di alcuni format, riusciamo addirittura a peggiorare questo peggio in salsa nostrana. Eppure, c’è, all’estero, in materia culturale, molto meglio di quello che abbiamo da noi e io sogno che il meticciaggio della nostra televisione avvenga assorSul Romanzo

bendo il meglio di quella francese. Se è vero che l’erba voglio cresce solo nel giardino del re, allora la Francia è decisamente tuttora una monarchia, perché lì c’è tutto quello che voglio a livello culturale e che non ho in Italia. Voglio la critica libera e obiettiva. Voglio trasmissioni televisive che mi diano informazioni e pareri su quello che succede culturalmente nel Paese. Voglio che qualcuno mi parli di un libro senza inneggiare al decolleté della sua autrice. Voglio qualcuno che abbia il coraggio di dire ad un autore, pubblicamente e davanti a milioni di telespettatori «Questo libro è scritto coi piedi, per favore cambi mestiere, le sue sono braccia levate all’agricoltura» o «Non m’interessa che il suo film abbia totalizzato un milione di spettatori, stiamo parlando di un milione di spettatori ignoranti e il suo film fa c…». E tutto questo, magari, senza avere in retroscena culi coperti da solo filo interdentale che si muovono al ritmo di non si sa bene cosa. Ecco cosa voglio. Ma noi non viviamo in una monarchia, bensì in un’oligarchia, sia politica che televisiva, all’interno della quale viene deciso da pochi cosa e come deve essere presentato alla nostra attenzione. Vige, peraltro, nel nostro Paese, la regola non scritta, e probabilmente dovuta ai nostri geni deviati, del politically correct n° 1 • Gennaio 2012

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– o forse solo del marketing – televisivo che vuole che, se un personaggio viene a presentare una sua opera, non è d’uopo dirgli in faccia che questa è scadente o addirittura penosa. Il format che mi piacerebbe tanto veder riproposto in Italia è quello francese di On n’est pas couché, trasmissione che va in onda tutti i sabato sera dalle 22.50 circa alle 2 o 2.30 del mattino, con altissimo share e senza la minima interruzione pubblicitaria, su France 2 (rete ammiraglia del servizio pubblico d’oltralpe). On n’est pas couché, oltre a battute deliranti, è una tavola rotonda (per la verità triangolare), che vede ospiti, volta per volta, un politico e diversi esponenti del mondo culturale, attori, registi, scrittori, cantanti. Tutti gli ospiti, a turno, vengono prima intervistati dal presentatore Laurent Ruquier, e, poi, “torchiati” dai due critici, Eric Zemmour, scrittore e giornalista politico di Le Figaro, palesemente reazionario, e Eric Naulleau, scrittore, giornalista e critico letterario, uomo piuttosto di sinistra, i quali prima della trasmissione hanno visto i film, letto i libri e ascoltato i CD degli ospiti del giorno. Nella nuova stagione, Zemmour e Naulleau sono stati sostituiti da due donne, Natacha Polony e Audrey Pulvar, con le stesse caratteristiche dei loro predeces-

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sori. Gli ospiti sanno che saranno giudicati, ma rari sono quelli che rinunciano ad un invito nella trasmissione, malgrado il rischio di stroncatura da parte dei due critici, per niente teneri, ma sempre obiettivi e che basano i loro commenti sui fatti. Può succedere che un’opera non piaccia per gusti personali ma venga ritenuta comunque di valore, succede che piaccia moltissimo e ne vengano spiegate le ragioni, succede che faccia pena e venga violentemente stroncata, sia per i contenuti, sia per la forma, ed il giudizio è sempre sostenuto da riferimenti, esempi, brani… Ho visto alcuni autori essere totalmente distrutti (a ragione) dai critici, per aver avuto il coraggio di pubblicare cose impubblicabili; altri, invece, essere complimentati. Così come i due critici non sono sempre d’accordo tra loro, neanche lo spettatore è o deve per forza esserlo con loro. Ma di certo veder stroncato un libro scritto coi piedi da persone che approfittano di una pregressa qualsivoglia notorietà per improvvisarsi romanzieri è uno spettacolo assai rincuorante, come lo è la critica, positiva o negativa che sia, delle opere anche di scrittori affermati o di cantanti che vendono milioni di dischi. La rete, e youtube in particolare, è piena di filmati tratti da On n’est pas couché con vari scontri avvenuti tra i due critici e i loro ospiti e, in particolare, di scontri violenti. Malgrado l’imbarazzo della scelta, ne propongo uno che mi sembra esemplare perché avviene nella pacatezza, ma contiene un insieme di critiche che andrebbero riferite a molti scrittori anche nostrani e vede, come protagonista, un’autrice che è amica e collega del presentatore, a conferma di come non ci siano scelte di campo. Nel faccia a faccia tra Annie Lemoine e i due Eric, nella precedente stagione (http://www.youtube.com/ watch?v=E2rHe4u3s-4&feature=related), ci sono, fin dall’inizio, delle frasi esemplari: «L’ho letto, ma è

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stata una sofferenza inaudita» o «Lei non scrive semplice, scrive semplicistico, ma è normale, perché lei pensa semplicistico» o ancora «È un monumento ai luoghi comuni» dette da Eric Zemmour, seppur con delle derive maschiliste su cosa leggono le donne, e «Leggo dalla cartella stampa che lei scrive testi minimalisti, in realtà sono minimalisti nel senso che le hanno rubato tutto, lo stile, la trama e il vocabolario; no francamente Annie, non è possibile, è un libro che non è possibile, siamo al di qua della letteratura, siamo nell’indigenza totale» di un Eric Naulleau che, peraltro, giustifica a ragione il suo ruolo, dicendo che non è violenza la sua, che la violenza fatta agli autori è quella dei critici che dicono ad un autore «Il suo libro è formidabile» senza averne letto una pagina. E Zemmour conclude «Quello che trovo desolante è la sua risposta, segno dell’epoca: si crede sempre che sia una questione di sensibilità, ma non è questo, non è perché non abbiamo la stessa sensibilità; quando la ascolto penso a Flaubert che passava circa una settimana su un aggettivo e mi dico il poveretto era un povero coglione in realtà, perché quando si vede cosa è pubblicato oggi, be’ io ve lo scrivo in due ore». A chiudere il cerchio del meticciaggio, anche la registrazione tratta da un’altra puntata di On n’est pas coach (http://www.youtube.com/watch?v=i9NKIIm7Tr k&feature=related), con ospite Disiz La Peste, francese di seconda generazione, origine magrebina, autore di un libro, nonché rapper. Disiz lamenta il fatto di essere l’ultimo intervistato della serata, come lo sono sempre “quelli come lui”, intendendo i francesi non di origine - e non ha tutti i torti, se non si tiene conto di attori e umoristi famosi - prova che, anche in televisione, ci possa essere una forma di “délit de faciès” e che nessun Paese è perfetto.

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GERBIDO RACCOLTO

Generazione 2 di Alessia Colognesi

Alla prima lezione dei miei corsi d’italiano coi ragazzi stranieri che studiano nelle scuole della provincia di Mantova, dove mi occupo dei progetti di alfabetizzazione per l’intercultura, prima di tutto mi presento facendo parlare il mio alter ego:

1 - around the world [ + 4 inside ] di Alessandra Oddi 2 - 347 impossibilità nell’universo bianco di Gianmaria Giannetti 3 - Radici, di ELSE Edizioni - Fondazione Lettera27

«Ciao a tutti! Mi chiamo Mirelle Stephanie, vengo dalla Costa d’Avorio. Sono in Italia da un anno. Per me è stato molto difficile separarmi dai miei amici, dalle mie abitudini e soprattutto dai miei nonni. Qualche volta ho pianto e avrei voluto tornare a casa per rivedere la mia famiglia e il mio Paese. Ora le cose sono cambiate e ormai ho incominciato a vivere una seconda vita in Italia. Stephanie» Di solito, dopo questa strana presentazione, i ragazzi iniziano a guardarmi meglio e, subito dopo, il più curioso ha la sua domanda: «Ma tu non sei italiana, Profe?» «Da dove pensi che venga?», gli rispondo, aprendo la cartina del mondo sulla cattedra. «Non lo so!» La maggior parte dei miei studenti stranieri, davanti alla mia cartina da borsetta, s’illumina e ognuno, di qualsiasi età, origine, sesso, anche se non sa dire una parola d’italiano, si avvicina alla mappa, dimentica la domanda che mi aveva fatto precedentemente e, per prima cosa, cerca di ritrovare il suo continente, poi la sua nazione e, infine, la sua città. Quando ha circoscritto dettagliatamente il luogo dov’è nato, lo fa vedere agli altri e, con una fierezza che non mi capita molto spesso di vedere negli occhi di una persona, dichiara che è africano, indiano, albanese, cinese, rumeno, bengalese… È a partire dal proprio luogo, dal posto dov’è nato o semplicemente dalle storie che gli hanno raccontato i grandi, che ciascuno di loro inizia a cerca-

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re sulla carta un altro luogo, quello dove si trova o dove vorrebbe essere e inizia a percorrere sulla mappa il suo viaggio. In questi anni, a scuola, ho visto Stephanie negli occhi di moltissimi ragazzi e non importava se erano nati in Italia e il viaggio era stato soltanto dei loro genitori. Il viaggio, nella maggior parte dei casi, lo portavano con sé dipinto sulla pelle, ce l’avevano negli occhi, era impresso in un sorriso o dentro l’inflessione delle parole. Il viaggio era l’essenza di ciò che erano e si fondeva al “qui e ora” davanti ai miei occhi. Il viaggio di migrazione, che ha portato in Italia molte persone di origine straniera, è una delle possibili voci del verbo viaggiare con due diverse declinazioni d’identità, “partire” e “arrivare”, che esprimono differenti modi di essere nel viaggio. Appartenere a una generazione 2 significa essere diversi dai propri genitori, diventando una nuova versione della propria famiglia e delle tradizioni che appartengono alle nostre radici. Molti ragazzi italiani sono figli di seconda generazione, nati in un posto diverso dai propri genitori e impegnati a crescere in bilico tra ciò che gli richiede “l’essere italiani” e ciò che sono veramente. Da qualche anno, la generazione 2 dell’Italia di oggi parla di sé con la scrittura del proprio cammino. Pecore Nere è una raccolta di racconti illuminanti, a cura di Flavia Capitani e Emanuele Coen, per dare voce alla quotidianità dei ragazzi nati in Italia da genitori stranieri: storie di vita vissuta da due diversi punti di vista e narrate con leggerezza e un acuto spirito di osservazione da scrittori stranieri che hanno imparato a parlare l’italiano con la vita e poi l’hanno scritto, per lasciare un segno di sé e del loro modo di essere italiani. Una scrittura che è insieme la testimonianza di una partenza e il segno distintivo di un arrivare in un luogo lontano dalle proprie radici.

chiamavano terrona per il colore della sua pelle, ma al peperoncino Laila preferisce il curry…Se ha nostalgia di casa infila il naso in un barattolo di spezie, mentre ai vestiti tradizionali ha dovuto rinunciare appena arrivata in Italia. Perfettamente mimetizzata oggi, Laila parla un perfetto italiano, scrive italiano e ha sposato un italiano.» Churry al pollo è una storia speziata, a tratti pungente, che racconta coi fatti cosa significa appartenere alla generazione 2. Laila Wadia, si specchia in queste pagine grazie a un doppio travestimento. All’inizio, è una sedicenne, parla bene l’italiano e si mimetizza perfettamente tra i compagni di un liceo dell’Italia del nord. Poche righe più avanti, è una mamma e un papà indiani. I protagonisti parlano di viaggio in modo del tutto originale. Mamma e Papà rappresentano il “partire” del viaggio e la necessità di stare aggrappati alle proprie tradizioni per restare e resistere alle contraddizioni di un mondo troppo diverso da loro. Anandita è la generazione 2 e l’“arrivare”, una declinazione del verbo viaggiare che si impara con l’esperienza, esprimendo passato e presente giorno per giorno nel proprio modo di essere qui e ora. «A volte vorrei essere orfana. È una cosa terribile da dire, lo so. Non sono un’ingrata, forse mi sono espressa male. Voglio un bene da matti ai miei, lo giuro. È solo che vorrei che fossero…diversi. Normali, cioè. Come i genitori di tutti gli altri ragazzi della mia classe. Ho sedici anni e vivo a Milano, diamine. Non posso non andare in discoteca, non posso non farmi il piercing, non posso non avere un ragazzo. I miei sono dei Flintstones indiani.» Intorno a noi c’è silenzio. Un incredibile silenzio. «Profe ma chi sono i Flintstones?»

Oggi, in classe, siamo in sei, cinque, più uno. Anch’io sono seduta in mezzo a loro, nel mio banco, in una piccola aula lontana dal resto della scuola. Hanno tredici anni e i loro genitori sono nati in Bangladesh, in India, in Pakistan. Non so molto di loro tranne i loro nomi e che sanno esprimersi abbastanza bene in italiano per capire quasi tutto di quello che gli ho insegnato nelle nostre mattine. Distribuisco le fotocopie: Churry al pollo. Leggono all’unisono e poi come in coro ridono. «Cos’è Profe? Una ricetta?» Non rispondo inizio a leggere: «Laila Wadia è una scrittrice di origine indiana. Quando è arrivata in Italia sapeva solo tre parole: Mascalzone, Farabutto, Birbante, le parole con cui una turista romana che aveva incontrato in India chiamava il suo cane. Appena arrivata a Trieste la Sul Romanzo

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MAMMA MI LEGGI?

Verso la classe meticcia di Stefano Verziaggi

Ci dobbiamo abituare all’idea, forse da tutti non gradita, ma comunque reale, che la nostra diventerà presto una società meticcia. «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri» non di Lucia, ma di Monica Lazzaretto (Figli di ultima generazione e nuove provocazioni degli studenti: la risposta educativa della comunità scolastica, Padova, 2 settembre 2010). Parole che aprono scenari non del tutto attesi e che lasciano poco spazio all’immaginazione: una società che sarà meticcia soprattutto e sempre più negli anni a venire, con l’inserimento degli immigrati di seconda o terza generazione. Non è una faccenda di interpretazione: gli italiani fanno pochi figli. Troppo pochi. La “razza italiana” è, di per sé, destinata all’estinzione in un tempo breve, se non fosse per la presenza degli immigrati. Loro i figli li fanno, eccome; se vogliamo sopravvivere, la strada è quella dell’incontro con l’altro da noi. Chiaro che qui il dato biologico interessa solo come spunto per analizzare cultura e letteratura. Immersi, come siamo, nell’idea postmoderna del già stato detto, “meticciarsi” significa impastare stimoli culturali diversi; rileggere pezzi della nostra storia con elementi di altre; provare ad adoperare strumenti nuovi per l’analisi. Non è un caso, anche se è una vergogna intellettuale, che al momento alcuni tra i migliori studi su Dante siano statunitensi; il testo della Divina Commedia viene fatto risuonare applicando concetti che prima non erano stati pensati (producendo ovviamente, in alcuni casi, solenni boiate).

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bambini che non hanno niente, però non imparano, quelli in crisi, quelli che fanno fatica, quelli che non hanno voglia, quelli che potrebbero ma non vogliono, quelli con i genitori separati, quelli con un solo genitore, quelli con i genitori apprensivi, si può forse comprendere che fare lezione e insegnare a leggere e scrivere non è poi un compito semplice. Non che, negli anni successivi di scolarizzazione, la situazione cambi, anzi. Concentrandoci solo sugli “stranieri”, quando si cominciano a ottenere i primi progressi ecco i nuovi arrivi: e la questione diventa sempre più complessa. I livelli di apprendimento si diversificano a tal punto che sarebbe necessario avere un rapporto uno ad uno. Questo il quadro. Non è questo lo spazio però per cercare soluzioni (soluzioni?), quanto, invece, per chiederci: come affronta la scuola e la narrativa tutto questo? I libri sono d’aiuto? Come sempre, sì. I libri possono almeno parlarne, e già fanno un primo passo.

Il mondo dei ragazzi, in età scolare soprattutto, è nell’occhio del ciclone. Scorrere con un dito il registro di una classe risulta quanto mai esaustivo, più delle statistiche: quanti di quei nomi siamo in grado di pronunciare in modo corretto? In mezzo ai rarissimi Giovanni e Giuseppe, ai comuni Giulia e Matteo, agli scemanti Jessica e Kevin, si fanno posto le Chayme, gli Jiin, gli Youssef. Nuovi accostamenti fonici diventano protagonisti tra le righe del registro, negli elenchi, sui cartelloni. I banchi si riempiono di colori e odori che prima non si immaginavano. La convivenza non è facile. Troppo buonista e scontato dire che l’intercultura porta ricchezza. Questa diversità produce, innanzitutto, paura, problemi, confusione. Su venticinque bambini che frequentano il primo anno della scuola primaria, più o meno un terzo è straniero (i numeri e le percentuali cambiano in modo imprevisto da Nord a Sud, da città in città, dal centro alla periferia). La composizione di questo terzo è quanto mai variegata: asiatici, africani, europei. Pochi parlano italiano, o lo parlano male, o lo parlano in modo sbagliato. Alcuni non capiscono completamente persino la loro lingua. In quella classe può esserci anche un bambino adottato, e forse un bambino diversamente abile. E non dimentichiamo che il 20%, della classe, cioè cinque di quei bambini, è in media affetto da DSA di vario tipo e varia gravità (dislessia, discalculia, disortografia, disprassia), oppure è iperattivo. Se aggiungiamo anche quei Sul Romanzo

Per capirci meglio, ripeschiamo dalla libreria un testo di venti anni fa, Il libro dei viaggi di G. Zanin (ill. di Tony Wolf, Milano, Dami Editore 1988), che faceva parte della collana Tante domande, tante risposte. Lo scopo era quello di far conoscere a bambini e ragazzi alcuni stati e zone del mondo. Uno sguardo all’Europa e all’Africa rende l’idea di quali fossero gli orizzonti di necessità dell’epoca: Scandinavia, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Italia, Grecia, URSS (C.S.I., nell’edizione del 1993 ), Nord Africa e Sud dell’Africa. Nel 1988, anno di edizione, si cominciava a respirare l’aria del Trattato di Maastricht (1992) e, quindi, era l’Europa occidentale a farla da padrona: dei Paesi dell’Est neppure l’ombra e l’intera Africa viene riassunta in quattro pagine. L’esigenza, qui, non è propriamente di conoscere, ma di conoscere per viaggiare, di conoscere ciò che merita di essere conosciuto, ciò che, in qualche modo, è abbastanza simile a noi. L’altro non è ancora qui.

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apre alla pluralità degli sguardi; sto pensando al meraviglioso libro di Antonio Ferrara, Come i pini di Ramallah (Firenze, Fatatrac 2003 ). David è israeliano, Mohammed è palestinese: «Due popoli sulla stessa terra in fondo sono come due fratelli in una stessa cameretta. Ci staranno un po’ più stretti di un figlio unico, si sa […]. Forse in quella cameretta ci sarà posto per un solo armadio. Forse. Allora i due fratelli cercheranno di mettere i loro vestiti ben distinti quelli di uno da quelli dell’altro…» (Ivi, pag. 60). L’educazione alla diversità può passare attraverso il riconoscimento delle altrui diversità e integrazioni; integrazioni in questo caso difficili e complesse, perché dominate da dinamiche che non sono alla portata di cambiamento dei ragazzi. Eppure queste diversità che si incontrano e si intrecciano potrebbero dire molto; potrebbero essere l’altra faccia di Viki, interessante ma lontano per i ragazzi. L’arrivo ideale dovrebbe essere la declinazione di una nuova identità che non includa i particolarismi; una declinazione pura, priva di aggettivi, come Io sono tu sei di Giusi Quareghi (Firenze, Giunti Editore 2007), che, fin nel titolo, propone l’essenza stessa del testo: «Amicizia è che io scrivo di te e che tu scrivi di me». Beatrice ed Aziza, tanto diverse per aspetto, storia e provenienza, devo-

E se andiamo oggi in libreria, cosa possiamo trovare? Per i ragazzi e le ragazze potrebbe essere interessante provare a entrare in un punto di vista altro; provare a contestualizzare alcune frasi relative agli stranieri immigrati che sentono dire a casa, magari dai genitori o in tv, ma che non hanno la possibilità di verificare. Nel 2003, uscì un libro che, a suo modo, rappresentò un caso: Viki che voleva andare a scuola di F. Gatti (Milano, Rizzoli 2003). Viki è un bambino albanese che racconta la fuga dall’Albania, l’arrivo in Italia e il difficile adattamento nel nuovo mondo. I suoi occhi curiosi partono dall’incanto iniziale, dominato dalla figura del Piccolo Principe, per giungere alla disillusione della vera nuova realtà italiana; ma Viki sembra non mollare, anche nei momenti di difficoltà. È disincantato, certo, ma non smette di combattere per raggiungere i suoi obiettivi. Si tratta di dare voce a chi una voce, di solito, non ce l’ha; di ascoltare il punto di vista dell’altro, con una scrittura a volte zuccherosa (stucchevole la sovrabbondanza di vocativi), ma fluida e adatta per i ragazzi della scuola secondaria. Sarebbe, tuttavia, importante non fermarsi qui e provare a creare un dialogo. Inutile appiattirsi su un certo buonismo che vede, come si diceva, tutti gli stranieri forieri di ricchezza culturale e di apertura; si tratta di un cliché tanto più pericoloso quanto più non coincide con la realtà che i ragazzi vivono a scuola. Potrebbe essere interessante integrare questa lettura con una che sposta i confini geografici, ma

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no conoscersi l’una l’altra per svolgere il compito che la bibliotecaria ha assegnato loro, cioè scrivere ciascuna la biografia dell’altra; le loro diversità si costruiscono in parallelo e mettono a nudo quanto le tiene lontano. Non si nascondono, ma cercano un punto d’incontro, anche se talvolta difficile e forzato; mostrano quanto di uguale ci possa essere: «[Aziza] si mise a piangere. Scriveva la storia di Beatrice e pensava alla propria. È che le storie a volte si incrociano» (Ivi, p. 70). Storie che si incrociano, identità che si declinano in forme nuove: a questo dovrebbe aspirare la creazione di una nuova classe meticcia. Non per bontà o per esercizio intellettuale, ma per sopravvivere. Pensandola così, forse, dobbiamo ammettere che i ruoli si stanno per invertire.

1 - P1090444 di Tania Balsarin, settembre 2008, tela cm 50x70 2 - Floating Bubbles di Cesare Fontana, acrilico su tela, cm 100 x 100 Sul Romanzo

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detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione onte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina aria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io t co. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? so la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato cu le: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione hiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo li fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazio Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della azione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; Frenc ection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido olto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giust tità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili risco Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civ ella scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggi vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione onte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina aria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io t co. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? so la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato cu le: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione hiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo li fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazio Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della azione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; Frenc ection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido olto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giust tità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili risco Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civ ella scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggi vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato culturale: una generazione onte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridione d’inchiostro - Cristina aria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo libro fa schifo? E io t co. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazione 2; Mamma, mi leggi? erso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura di My�kin - Meticciato urale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura della migrazione; Meridio ’inchiostro - Cristina Zagaria, la vocazione civile della scrittura; French connection - Il tuo o fa schifo? E io te lo dico. O il meticciaggio che vorrei; Gerbido raccolto - Generazio ; Mamma, mi leggi? - Verso la classe meticcia; Ciò detto - La giusta identità; La lettura My�kin - Meticciato culturale: una generazione bifronte; Gentili riscontri - Letteratura

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Prospettiva Fantasy

Un incontro con Luca Azzolini di Marcello Marinisi

Proseguiamo la nostra riflessione sulla letteratura fantasy italiana, cercando di individuarne i tratti distintivi, le caratteristiche peculiari, tutti quegli aspetti, insomma, che ne definiscono l’identità. Il confronto diretto con gli autori italiani del genere fantasy, ci sta permettendo di gettare luce su un filone narrativo che vive un fermento continuo, ma che, nel nostro Paese, stenta a decollare, sempre relegato in un angolo. Pare esista la convinzione, tra i lettori italiani, che gli autori nostrani non siano in grado di scrivere buona letteratura fantasy e che il genere debba essere esclusivo appannaggio di autori stranieri (per lo più inglesi o americani), limitando, in questo modo, le possibilità di crescita degli autori e dell’intero mercato che sembra essere molto immaturo, timoroso di sperimentare novità anche azzardate, ma che potrebbero risultare interessanti.

1 - Luca Azzolini e il libro Il fuoco della fenice

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In questo numero, abbiamo deciso di coinvolgere lo scrittore Luca Azzolini, autore de Il fuoco della Fenice (La Corte Editore, 2009) e, insieme a Francesco Falconi, di Evelyn Starr – Il Diario delle Due Lune (Piemme Edizioni, 2011), curatore dell’antologia urban-fantasy Sanctuary (Asengard Editore, 2010), responsabile della collana fantasy Pegaso della casa editrice Reverdito. n° 1 • Gennaio 2012


Luca, stiamo cercando di definire l’identità del genere fantasy in Italia. Un compito forse ambizioso, ma ritengo che dal confronto possa nascere qualcosa di buono. Negli incontri precedenti sono emerse posizioni molto definite circa il rapporto con l’estero e gli autori classici (se così possiamo definirli) della letteratura fantasy. Credi che noi italiani abbiamo perso un po’ il contatto con le nostre tradizioni culturali, con i nostri miti e le nostre leggende? Scrivere tanto per rifarsi a una tradizione, a un gusto o a una cultura – straniera o italiana che sia – solitamente (per mia esperienza e gusto) porta a poco, se non addirittura a nulla. Non credo sia questione di riappropriarci delle nostre tradizioni o di rifarci forzatamente a quelle anglosassoni, o scandinave, o magari cinesi o giapponesi (che, anche se non sembra, hanno una loro corrente anche da noi). L’autore, a mio avviso, o chi si lancia nella stesura di un testo, non deve porsi limiti e deve sentirsi libero di dire e di esprimere una sua interiorità, che solitamente non è né anglosassone, né italiana, né giapponese o altro. Pensare, perché italiani, di doverci rifare solo alle nostre tradizioni è limitante. Altrettanto limitante è tentare di inserirsi in un solco, quello anglosassone (o un altro a scelta), solo perché è “un classico”, perché è di moda, o perché si pensa sia la scelta giusta per arrivare in libreria. In soldoni, l’identità del genere fantasy in Italia, per come la vedo io, dovrebbe avere più volti e più voci: tanti quanti sono i volti e le voci degli autori là fuori. La tua posizione è interessante e ampiamente condivisibile. L’identità, sia essa personale o culturale, di un individuo o di un popolo, è, per sua stessa natura, multidimensionale. Ci sono aspetti che vivono in armonia tra loro e altri che collimano e tutto si miscela in una mistura che rende ognuno di noi unico, così come unici dovrebbero essere i prodotti della nostra fantasia. A ben guardare, gli individui non sono sottoposti tutti agli stessi stimoli, bensì si nutrono di percezioni che sono del tutto personali e che variano moltissimo. Anche il modo in cui interpretiamo uno stesso messaggio può variare sostanzialmente da persona a persona (basta pensare al modello stimolointerpetazione-risposta, tanto caro a una certa riflessione socio-comunicativa). Allo Sul Romanzo

stesso modo, dovrebbe (e uso il condizionale) variare il prodotto della nostra creatività. Ma è sempre così? Oppure il rischio di imbattersi in cose già scritte, in storie rimasticate, è sempre in agguato? La letteratura fantasy italiana e gli autori che si cimentano in questo genere (giovani e meno giovani), oggi, sono abbastanza maturi da potere camminare sulle proprie gambe, così come sarebbe auspicabile? Dovrebbe, dici bene. Ma, troppo spesso, si tende a considerare gli esponenti della letteratura fantasy italiana come “un’unica realtà pensante”, e non è così. Quello che ho cercato di far trapelare nella risposta precedente è che ogni autore ha un suo bagaglio personale e va visto in quell’ottica. Certo, non sono moltissimi gli autori nostrani che sono riusciti a ritagliarsi uno spazio originale e a crearsi una loro identità ben definita (con un loro pubblico e stile). Eppure ci sono. E non si pensi che questa sia una tendenza solo nostrana, perché non accade solo da noi, in Italia, ma succede anche sul mercato anglosassone, o altrove. L’originalità pura, nuda e cruda, è rara. Devo fare l’esempio di tutti i cloni nati sull’onda della Meyer? Non credo! Trovo che molti, in Italia, soprattutto gli autori davvero giovanissimi e alle prime armi, siano troppo legati a una visione classica del genere, visione che ha già detto tutto; oppure a percorsi che si rifanno soltanto alle loro letture di base (poche, troppo poche!) e, alla fine, ci si riduce, volendolo o meno, davvero a un’imitazione di qualcos’altro. Marion Zimmer Bradley diceva che «l’imitazione è la forma più sincera di adulazione», nel senso che siamo portati a imitare ciò che amiamo e, se non possediamo ancora una certa professionalità – un certo mestiere –, è abbastanza naturale voler emozionare gli altri partendo da ciò che ha emozionato noi per primi. Non è un male, ma lo diventa se non si esce da quel solco e si persevera nell’imitazione. Poi, come in tutte le cose, chi ha davvero qualcosa da dire emerge sugli altri, e in Italia ne abbiamo diversi esempi. Non esiste un corpo unico, dici bene. Per certi versi, è positivo, perché ognuno di noi è alla ricerca della sua Voce e questa può nascere solo attraverso una riflessione su noi stessi e un confronto serrato con gli autori che ognuno di noi adula/imita (consciamente o inconsciamente). Io stesso – e penso anche tu – potrei fare almeno una mezza dozzina di nomi, dimenticandone molti n° 1 • Gennaio 2012

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altri. Tuttavia, è anche vero che rimanere isolati nel proprio cantuccio e «coltivare il proprio giardino» può portare a una certa aridità intellettuale e stilistica. Forse ci sono poco dialogo, poco confronto, troppe invidie e piccole gelosie che indeboliscono quello che potrebbe essere, invece, un clima di fermento creativo. Occasioni di confronto aperto, come questa che stiamo vivendo io e te, forse sono poche o troppo dispersive. Sfondi una porta aperta. Già in un mio articolo, apparso su FantasyMagazine nel 2008, L’orticello del Fantasy Italiano, toccavo questi temi. In Italia, manca ancora quel sottobosco di attività – antologie, riviste ad ampio respiro (e largamente lette e diffuse), associazioni, ecc... – che permettano il crearsi di una situazione paragonabile ad altre realtà, come quella anglosassone, con premi importanti, ben gestiti da associazioni che tutelano il piccolo come il grande autore. Certo, bisogna dire che l’esplodere del fantastico è avvenuto molto tardi. Se negli Stati Uniti già negli anni ’50 e ’60 c’erano fanzine e associazioni, premi e riviste amatoriali e/o professionali, qui da noi abbiamo dovuto attendere prima i timidi passi dei decenni ’80 e ’90, e, solo dal 2000 in poi, un sempre più convinto fiorire di identità (autori, riviste, editori, ecc.). Per quanto riguarda le invidie, i commenti caustici e tutto il resto, personalmente me ne curo poco. Non credo (anzi, ne sono sicuro) che sia un fenomeno solo italiano. Personalmente, seguo una mia strada, sperimento vie, testo idee, come feci con Sanctuary, tanto per farti un esempio concreto. Un’antologia-romanzo che è nata sulla spinta di quell’articolo a cui accennavo, per affiancare i nomi più noti del panorama fantasy nostrano a quello degli esordienti che, con impegno, passione e tenacia, ce la mettono tutta per emergere. Sanctuary ha rappresentato un esperimento interessante che ha coinvolto molti autori noti e meno noti, come te, Francesco Dimitri, Francesco Falconi, Fabiana Redivo, Egle Rizzo e ha visto, altresì, la partecipazione di Paolo Barbieri, che di cover è un vero maestro. Un progetto che ha avuto un buon riscontro e che, forse, ha rappresentato un vero punto di svolta (sperando

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che non rimanga un caso isolato). Questo mi porta a rivolgermi anche al Luca Azzolini responsabile di una collana fantasy per Reverdito. Ci sono realtà emergenti nel mercato editoriale che hanno deciso di specializzarsi nel genere fantastico e fantasy e che hanno investito e investono molto sugli esordienti, poi ci sono i colossi del mercato che, in un certo senso, monopolizzano gli scaffali delle grandi librerie, soprattutto con titoli e autori stranieri, occupandosi davvero poco (salvo alcuni nomi noti) degli autori italiani. Il fatto che, nel nostro Paese, il fantastico sia arrivato tardi non può certo rappresentare un alibi: è il caso di darsi una mossa. Forse, è anche per questo che Sanctuary ha incontrato il favore del pubblico: ha dimostrato che la letteratura fantasy italiana esiste, è viva e si batte per trovare spazio e visibilità e soprattutto lettori che vogliano scommettere su di essa. La portata di Sanctuary si è vista fin dalla primissima ora. Era appena stato fatto l’annuncio del progetto (che sarebbe arrivato in stampa mesi e mesi dopo, quasi 1 anno dopo) e già in rete c’erano commenti di ogni tipo, molti davvero entusiastici e altri, beh, meno (al limite dell’attacco immotivato e personale). No, non ha lasciato indifferenti e proprio questo ha ripagato di tutta la fatica (e delle oltre 2.500.000 battute di esordienti che mi sono letto per pescare i racconti migliori). Si è trattato di un progetto particolare, forse difficilmente gestibile per un grande editore, visti i tanti autori, le tempistiche, i contatti da tenere, ecc... Le dinamiche che muovono i grandi gruppi editoriali sono diverse da quelle che può sostenere, con maggiore tranquillità (relativa, eh), un medio o piccolo editore. Che non ci sia la scoperta di nuovi talenti non è esatto, ciò che cambia è il livello di investimenti che si devono sostenere per mantenerli e farli crescere. Un grande editore investe di più su un esordio (per tirature, pubblicità e tutto l’occorrente), ma può perderci molto di più. Per quello si percepiscono gli esordi come inferiori rispetto alle piccole e medie case editrici, senza contare che un grande editore gestisce un “parco autori” molto vasto, che richiede costanti ristampe, versioni economiche, edizione cartonate e un catalogo ampio da accudire nel tempo. Detto questo, i tan° 1 • Gennaio 2012


lenti del fantastico nostrano là fuori ci sono, non tutti arrivano al momento giusto, sul tavolo giusto, mentre si cerca qualcosa in particolare e non tutti hanno la giusta professionalità per vedersi pubblicati. Questo insieme di cose può giocare più o meno a sfavore in una pubblicazione. Poi, i casi sono talmente tanti e talmente vari che non si possono sondare tutti. I talenti ci sono, è vero, basta andare a sbirciare con attenzione i cataloghi di medi e piccoli editori che costituiscono il sottobosco dell’editoria di “settore”. Il fantastico e la fantasy sono generi che hanno ancora molto da dire e consentono un ventaglio di temi e trame pressoché illimitato, nonché profondità di lettura variabili a seconda dell’impegno che si vuole profondere nella fruizione del testo. Possiamo avere tre piani di lettura, quello letterale, quello metaforico e quello allegorico-simbolico e non sempre questi livelli sono facilmente individuabili, soprattutto quando si pensa a questi generi come a “semplice” letteratura d’evasione, romanzi di second’ordine o, peggio, spazzatura. Forse, noi autori stessi (sia affermati che esordienti) dovremmo iniziare a lavorare di più per ridare dignità a un genere che in Italia (e a quanto pare soltanto qui) viene trattato a pesci in faccia. Dovrebbero moltiplicarsi le conferenze, i dibattiti, la divulgazione nelle scuole e nelle università, le ricerche, le occasioni di confronto tra gli “addetti ai lavori” e con il pubblico, insomma. Bisognerebbe mettere in moto un meccanismo che, nel medio e nel lungo periodo, possa permettere di guardare al genere con occhi nuovi. Oggi, il fantasy è un genere meticcio, che si appoggia anche ad archetipi tipici dell’horror, del noir, del thriller, del poliziesco, del giallo, del romanzo rosa, ecc..., e, in un’epoca caratterizzata da quella che i più hanno definito «logica postmoderna», questa è una naturale conseguenza dei tempi: il sincretismo che si fonde con l’eclettismo, il “sincreclettismo”. È questo il paradigma dominante nel cinema, nella Sul Romanzo

pittura, nell’arte in generale e, conseguentemente, anche nella letteratura. Quali sono, a tuo avviso, i percorsi evolutivi entro cui la fantasy si sta muovendo, oggi, e quale ruolo potranno avere gli autori italiani all’interno di questo scenario globalizzato che non accenna ancora a calarsi in una dimensione glocale? Ci stiamo muovendo sicuramente verso una sempre più ampia compenetrazione dei generi, un po’ per scelta degli autori, un po’ per esigenza delle case editrici, così che un libro sia appetibile per più lettori. In Italia, come dicevamo, non esiste una vera e propria corrente (nel senso di autori che si dedicano solo a un genere, target, ecc.), anzi, abbiamo molti esempi di autori nostrani che si spostano con piacere da un genere a un altro, da un pubblico all’altro. Si tende a dare maggior importanza alle vicende interiori dei personaggi, al loro sentire e a personalità più comuni rispetto al passato. Se prima c’erano quasi sempre (una costante per certi versi) i prescelti, gli eroi, la compagnia avventurosa e, in sintesi, le persone straordinarie in circostanze altrettanto straordinarie, ora qualcosa è cambiato. La persona comune trova un nuovo spazio e ruolo, calato sempre nello straordinario e nel complesso, ma che ci mette davanti a mille domande nuove e affascinanti. I generi sono un gusto personale, alcuni vanno e vengono come le mode, ma questa tendenza si sta facendo sentire. Il peso dell’introspezione all’interno della narrazione assume un valore sempre più preponderante. Ci si imbatte spesso in lunghe pause di riflessione dei personaggi, pagine e pagine di elucubrazioni. Questo, però, in alcuni casi, porta l’autore a perdere di vista un aspetto che, nella fantasy – e non solo –, ha sempre rivestito un’importanza notevole: il contesto. Parlo di tutto quel bagaglio di dettagli – impliciti ed espliciti – che contribuiscono alla creazione di un mondo, dalla genesi all’apocalisse, dall’alfa all’omega. Non c’è il rischio di perdere di vista alcuni degli aspetti peculiari del genere? Non sto criticando la sperimentazione e il melting-pot letterario, attenzione, mi domando soltanto se non ci sia il rischio che n° 1 • Gennaio 2012

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mani inesperte plasmino creature imperfette. La sperimentazione dovrebbe essere un punto d’arrivo, forse, non un punto di partenza. Credo che per sperimentare bisogna essere davvero padroni di molti strumenti di base che, spesso, s’ignorano, a volte per superficialità, altre per eccessivo dilettantismo e scarsa attenzione per i dettagli, lì dove invece si annidano i diavoletti dispettosi (come scrive anche George Martin). Poi, c’è la questione degli “eroi” o, meglio, degli “anti-eroi” o dei “post-eroi” e qui ritorna in campo la logica postmoderna in tutte le sue declinazioni. L’eroe immarcescibile non è più contemplato nell’universo letterario contemporaneo. È pur vero, tuttavia, che è relativamente facile riuscire a dare un “volto umano” a un personaggio ordinario; forse, è più complesso essere in grado di rendere ordinario un individuo straordinario o che, almeno in potenza, lo è; oppure riuscire a fare simpatizzare il lettore per l’antagonista. Sei d’accordo? Prima di ogni altra cosa, un autore, secondo me, deve tenere ben presente cosa vuole dire e come lo vuole dire. Tutto il resto viene dopo, molto dopo. E questo non significa che prediligo chi parla solo di personaggi, ma tutt’altro. Faccio un esempio. Personalmente amo alla follia Martin e il lavoro che sta facendo con Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, mentre non ho mai apprezzato molto Tolkien (insomma, non sono uno di quelli che se lo è riletto 12 volte, tanto per intenderci).

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Eppure, tutti e due danno grande importanza non solo ai personaggi e alle loro dinamiche, ma anche al contesto in cui si muovono. Quindi? Quindi, credo non esista un modo univoco nell’intendere il genere. Esiste solo il modo in cui lo percepisce l’autore e, di conseguenza, il lettore. E solo quello deve contare. I canoni del fantasy esistono se vogliamo che esistano, ma, rubo una frase di Marion Zimmer Bradley (autrice di riferimento, per me): «Se fosse limitato, il fantasy non sarebbe più fantasy». Ha ragione. È un genere che evolve e che deve evolvere in continuazione. Ha radici importanti, ma con quelle non ci si deve ancorare al terreno e basta: devono essere anche una spinta propulsiva verso l’alto (e l’altro). Insomma, non esiste una via giusta o una miscela giusta. Ciò che è giusto per me, può non esserlo per qualcun altro. Va bene così, è il bello di questo genere che nasce come narrativa d’intrattenimento. Lo ripeto: intrattenimento (ma non per questo va interpretato il fantastico come letteratura di serie B). E questo credo sia l’unico vero canone da rispettare. Non stiamo scrivendo un saggio. Non stiamo elaborando un trattato di antropologia. Il ritmo di una storia è importante, così come la presa che ha sul lettore. Poi, senza dubbio, sperimentare o spingersi oltre non è alla portata di tutti (o non è desiderio di tutti), ma sono troppe le varianti in gioco. Non si deve partire per forza da un romanzo alla Tolkien per poi approdare, dopo anni di gavetta, a un volume alla Miéville, o alla Gaiman, o alla Rowling. Un esordiente può sentirsi più o meno legato a un

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autore e, quindi, a un genere, da lì prendendo le mosse per gusto personale. Quanto ai personaggi, per finire, hanno tutti un loro spessore e il rischio che si corre sempre, in un caso o nell’altro, è di renderli o troppo comuni o troppo banali: cioè poco veri. Ma non c’è una via facile. Se penso ai personaggi di King nella sua ultima raccolta di racconti, Notte Buia, Niente Stelle – una casalinga dei giorni nostri, un agricoltore nel Nebraska del 1922, o una scrittrice di gialli, ecc... – e a come li ha resi, con i loro dubbi e paure, beh, non posso che ammirarne l’autenticità, così come ammiro i re e le regine di Martin, o i Comyn dei Sette Dominii di Darkover della Zimmer Bradley.

2 - Fantasy Forest di RL Fantasy Design Studio

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L’italiano non è un’opinione

Le parole maschili che iniziano con “pn” , o con “gn”, vogliono l’articolo lo, gli.

Gli pneumatici

e non

i pneumatici

Lo pneumotorace

e non

il pneumotorace

Gli gnocchi

e non

i gnocchi

Lo gnomo

e non

il gnomo

Eccheppoffarbacchi.

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Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore, e il mormorio dei vecchi inaciditi consideriamolo un soldo bucato. I giorni che muoiono possono tornare, ma se questa nostra breve luce muore noi dormiremo un’unica notte senza fine. Dammi mille baci e ancora cento, dammene altri mille e ancora cento, sempre, sempre mille e ancora cento. E quando alla fine saranno migliaia per scordare tutto ne imbroglieremo il conto, perché nessuno possa stringere in malie un numero di baci così grande.

(Catullo, Carme V, trad. di Mario Ramous) Sul Romanzo

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Danilo Rea suona De André

«Kon ovla so mutavia? «Chi sarà a raccontare? Kon ovla? Chi sarà? Ovla kon ascovi. Sarà chi rimane. Me gava palan ladi, Io seguirò questo migrare, me gava seguirò palan bura ot croiuti»

questa corrente di ali».

Fabrizio De André,

Khorakhanè

di Pasquale Attolico

1 - Danielo Rea al pianoforte, e il cd “A tribute to Fabrizio De André” 2 - Fabrizio De André

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Dodici anni non bastano. Probabilmente, non ne basteranno cento o mille per comprendere la grandezza dell’uomo che ci ha lasciati nel gennaio del 1999, il cui ricordo, ancora oggi, ci coglie impreparati, incapaci di reagire, come avviene a chi viene risvegliato senza preavviso nel cuore della notte o al pugile che, atterrato da un sonoro KO e dimentico delle urla che si levano attorno a lui, riesce solo a fissare il soffitto, continuando ad interrogarsi sulla provenienza di tutti quei pugni e, soprattutto, sul perché facessero così tanto male. Ma noi non siamo qui per commemorare Fabrizio De André, il nostro Faber, perché, quand’anche fossimo capaci di aprire scrigni gelosamente serrati, temeremmo di annoiare con il racconto delle tante emozioni provate, ad esempio, al primo ascolto –come all’ultimo del resto – de La buona novella o di Creuza de ma o di Anime salve, capolavori assoluti che si innalzano quali novelle colonne d’Ercole nel mare della musica, a delimitare il prima e il dopo la loro pubblicazione. Anzi, a pensarci bene, ogni nuovo capitolo del libro musicale creato da colui che noi consideriamo annoverabile tra i Grandi Autori – non solo del Novecento, ma di tutti i tempi – appare irrinunciabile, assolutamente imprescindibile per la formazione culturale di più di una generazione, prova ne siano le decine e decine di tentativi di imitazione – per lo più salpati all’indomani dell’allontanamento del Maestro, della sua decisione di intraprendere altro viaggio – che possono dirsi secondi per presenze solo ai soggetti che affollano l’orrenda babele, soprattutto televisiva, organizzata (o, meglio, disorganizzata) per dare libero sfogo a quanti, più o meno appropriatamente, hanno trovato qualcosa da dire, ricordare, citare, così determinando un vergognoso circo mediatico, in cui abbiamo potuto ritrovare di tutto, sino a giungere all’assurdo di dover ascoltare le lamentele di coloro che erano troppo ricercati in contrapposizione a quanti, al contrario, non sono mai stati nemmeno interpellati, nonostante n° 1 • Gennaio 2012


ritenessero di averne titolo; varia umanità a cui, purtroppo, abbiamo fatto l’abitudine. Ma quando dalle parole si passa ai fatti e si decide di rendere omaggio in modo convincente al mondo musicale di Fabrizio, allora l’impresa si fa titanica, quasi impossibile, a giudicare dalle tante, troppe volte, che abbiamo dovuto ascoltare quel repertorio di immane bellezza, la cui riproposizione può apparire semplice solo agli sprovveduti, essere omaggiato – più spesso oltraggiato – da cover band in preda a delirio da protagonismo, che hanno il loro palcoscenico ideale nelle feste di paesana piazza, sospeso in quell’imperfetto limbo musicale cui le perle del Faber non appartengono e che crediamo fermamente e sinceramente non meritino. Comunque sia, una volta deciso di volersi preparare all’improba tenzone, occorre operare una scelta di campo: o si cerca di essere il più possibile rispettosi dei dettami consegnatici dal Maestro a sua imperitura memoria – e qui non possiamo che piacevolmente ricordare le meritorie operazioni della Premiata Forneria Marconi o dell’“erede” Cristiano – oppure si decide di affrontarne il repertorio, stravolgendolo secondo la propria natura, la propria sensibilità ed il proprio stile. Esempio tra i migliori, se non il migliore, di quelli resi da coloro che si sono indirizzati verso quest’ultima via è, senza tema di smentita, il Tributo al Genio genovese che il Maestro Danilo Rea da anni porta in giro per il mondo. Straordinaria performance per piano solo cui abbiamo avuto la fortuna di assistere più volte nel recente passato e che, finalmente, è stata immortalata nel cd, a lungo in vetta alle classifiche mondiali, A tribute to Fabrizio De André, registrato allo Schloss Elmau per le Sul Romanzo

belle menti della Act. Quest’opera è apparsa subito uno dei momenti più elevati della sua produzione discografica anche a quanti lo seguono da anni in quella costante evoluzione artistica che lo ha portato a diplomarsi in studi classici presso il Conservatorio di Santa Cecilia in Roma, esperienza cui tornerà con la registrazione del sublime Lirico in cui affrontava, da par suo, opere di Puccini, Saint-Saëns, Mascagni, Bizet, Verdi e Bernstein, e ad intraprendere, a soli diciotto anni nel 1975, il suo viaggio nel mondo del jazz con il Trio di Roma (con Enzo Pietropaoli al basso e Roberto Gatto alla batteria), poi proseguito con compagni di viaggio del calibro di Giovanni Tommaso, Pietro Tonolo, Chet Baker, Lee Konitz, Bob Berg, Michael Brecker, John Scofield, Joe Lovano, Toots Thielemans, Aldo Romano, Gato Barbieri. Non disdegnava poi sortite nel pop per mettere le sue innate doti espressive al servizio della migliore produzione di Claudio Baglioni, Fiorella Mannoia, Pino Daniele e della divina Mina, che ancora oggi non intende lasciarlo abdicare dal ruolo di suo pianista prediletto. Anzi, forse la definitiva decisione di affrontare il repertorio del Faber si deve proprio alla Signora Mazzini, che volle fosse Rea a suonare il pianoforte nell’epica versione discografica registrata a due voci de La canzone di Marinella; sebbene non fossero riusciti ad incontrarsi nemmeno in quel frangente, Danilo non perse occasione per inserire in ogni sua esperienza musicale, tra cui occorre ricordare quella a capo dei Doctor 3, molteplici rielaborazioni del songbook deandriano, sino a giungere al n° 1 • Gennaio 2012

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progetto di un concerto dedicato esclusivamente al Faber, presentato al pubblico solo dopo aver ricevuto il beneplacito di Dori Ghezzi, che tanto si è battuta ed ancora si batte perché il ricordo del suo compagno di vita non sia offeso. Quando si apre il sipario su uno di questi particolarissimi appuntamenti, sappiamo bene che l’artista seduto al pianoforte, quell’assoluto dominatore delle sette note e degli ottantotto tasti bianchi e neri da cui riesce a trarre suoni di rara – se non inedita – bellezza, ebbene quell’uomo, nonostante i nostri occhi ce lo confermino, non può essere considerato solo su quel palco, perché la serata è illuminata da una luce differente, una voce guida che affiora e che, lungi dall’essere stanca ed affaticata, oppure dall’apparire ormai distante e dimenticata, si leva come fiamma inesauribile. Dei tanti e più che evidenti punti di contatto tra i due artisti, ci piace sottolinearne uno sopra tutti: come fu per ogni pa-

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rola di Faber, così in Rea si ha la sensazione – ma forse è bene dire la certezza – che ogni nota sia assolutamente perfetta nella collocazione donatale e che, per quanto si possa cercare, non vi sia alcuna possibilità di migliorarla. E l’operazione di Danilo ha anche, tra i suoi molteplici punti di forza, la più che meritoria qualità di rendere finalmente giustizia alla musica di De Andrè, troppo spesso tralasciata in virtù della – giustissima – attenzione dedicata ai testi; le melodie create da Fabrizio si prendono una definitiva rivincita su ascoltatori distratti e detrattori, grazie alle sapienti mani di Danilo che non si concedono alcuna sosta nella visibilmente erculea fatica di tentare di far sentire e comprendere tutte le note, aprendole, dilatandole sino al limite, spalancandone ogni singola fessura per lasciar entrare qualsivoglia piccolo, devastante raggio di sole, sottolineando anche i silenzi pur di far percepire tutta la musica nascosta sul pentagramma e, ancor più, nell’animo dell’artista. In tal modo le splendide Bocca di rosa, Il pescatore, La ballata dell’amore cieco, Valzer per un amore, Ave Maria e, naturalmente, la già citata Marinella, diventano solo un pre-testo, un prologo, un’introduzione, una sollecitazione, un segnale che Rea riceve dall’esterno, decodifica ed amplifica, con un gusto che davvero pochi altri sanno avere. Ecco perché, probabilmente, l’incontro tra questi due giganti doveva necessariamente avvenire, in nome della loro sconfinata sensibilità, qualità che appartiene solo ad una rarissima genia di Artisti di cui tanto Fabrizio quanto Danilo sono parte integrante, avendo aderito ad un mondo “altro”, in cui l’arte è indissolubilmente legata alla vita stessa, tanto da tracciarne i percorsi ed il passo. Rea, come pochi altri, riesce a far “vedere la musica” di De Andrè, a farci riflettere sui suoi significati più intimi e remoti, ma, anche e soprattutto, a farci comprendere come tali meravigliose melodie siano ancora irresistibilmente vive e possano ancora essere – come Gesualdo Bufalino amava dire - massaggi serafici sulle cicatrici dell’anima.

Genova, Sant’Ilario, Creuza de Ma Sul Romanzo

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Cantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano Il senso del nonsense Parte IV di Annalisa Castronovo

Superati gli anni Settanta, alle porte di un decennio ancora tutto da farsi, Rino Gaetano collabora, insieme a tanti altri artisti italiani, come Lucio Dalla, Nino Buonocore, Ivan Cattaneo, Maria Monti, Giovanni Tommaso, Jenny Sorrenti e Anna Oxa (con la quale ha inciso una cover mai editata de Il leone e la gallina di Mogol e Lucio Battisti), al concept album dei Perigeo Special, Alice – ispirato all’opera letteraria di Lewis Carroll –, prendendo parte alla realizzazione dell’omonima canzone, nonché come interprete di Al bar dello sport e di Confusione gran confusione. Nello stesso anno, il 1980, viene pubblicato E io ci sto, LP che, dopo gli ultimi lavori dell’artista, appare più irruento degli altri; così, in un’intervista a Ciao 2001, il cantautore ha spiegato: «Non c’è nulla di pensato nella svolta musicale, è un rifiuto che ho naturalmente. Il rifiuto per tutto ciò che si sta facendo nel campo della musica leggera. Quando ho scritto Mio fratello è figlio unico, andava di moda gente come Nicola di Bari. Quando ho inciso il disco più leggero che ho mai fatto, Nuntereggae più, c’erano Guccini, De Gregori… erano tutti impegnati. Adesso c’è un ritorno al cosiddetto disimpegno e io ho voluto tornare a parlare». Tutto l’album si pone in questo contesto, già a partire dall’intro dell’omonima traccia, che anticipa la ben più nota Eye of the Tiger dei Survivor che sarebbe uscita, però, solo due anni più tardi per divenire la colonna sonora del film Rocky III. La canzone di Rino Gaetano esprime la riflessione di un uomo al bivio tra saggezza e incoscienza, tra la giovinezza e l’età adulta – aveva una trentina d’anni, un po’ come il Dante che si trovava «Nel mezzo del cammin di nostra vita» (Divina Commedia, Inferno I, 1) –, in un viaggio per il quale l’artista vorrebbe inventare un nuovo percorso, che porti a uno stile di vita in contrasto col suo tempo («Mi alzo al mattino con una nuova illusione / Prendo il 109 per la Rivoluzione»), in contrasto con il cosiddetto American way of life megalomane e distante dalla genuinità di chi non cerca la feli-

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cità in inutili scalate, bensì nella società, lontano, quindi, da chi – come lui – cerca «una bandiera diversa, senza sangue, sempre tersa» per la quale lottare, seppure da solo, accettando («E io ci sto») le condizioni di un mondo che, sebbene non sia perfetto, gli risulta bello, come bella risulta, infatti, la sua stessa vita per epoca storica («la mia età»), per contesto storico-culturale e geografico («il mio Paese», il “Bel Paese”, appunto), la difesa dei suoi ideali («la mia guerra») e le persone di cui si circonda («la mia donna»). In Ti ti ti ti c’è la conferma del sentimento che Rino Gaetano sente di condividere con coloro che provano rabbia per la falsità, l’ipocrisia e l’arrivismo che caratterizzano politici e «servi di partito che ti chiedono il voto, un voto pulito. / Partono tutti incendiari e fieri, / Ma quando arrivano sono tutti pompieri». E aggiunge: «A te che ascolti il mio disco forse sorridendo / Giuro che la stessa rabbia sto vivendo. / Stiamo sulla stessa barca io e te». Palese la dedica al suo pubblico che, come altri, troppe volte è stato deluso da coloro che prima promettono di “fare fuoco e fiamme” e, poi, invece sono i primi a “gettare – come si suol dire – acqua sul fuoco”, mantenendo, in tal modo, lo status quo. Questa è solo una delle possibili interpretazioni; un’altra potrebbe vedere, nel contrasto tra sorriso e rabbia, una citazione dell’antitesi che in Fahrenheit 451 (romanzo di fantascienza scritto da Ray Bradbury e sviluppato a partire dal racconto breve The Fireman, cioè Il pompiere, del 1951) vede, da un lato, la felicità della famiglia di Clarisse e, dall’altro, l’ira del protagonista, Guy Montag, per un sistema sbagliato che, attraverso l’uso di “pompieri”, insieme alla cultura e alla conoscenza, ha dato alle fiamme anche la vena allegra e spensierata della vita; in tal caso, i versi del cantautore, «A te che ascolti il mio disco forse sorridendo / Giuro che la stessa rabbia sto vivendo», assumono un significato forse ancora più amaro. Ping pong (la traccia successiva), d’altro canto, seSul Romanzo

condo me, rappresenta una metafora della vita, coi suoi botta e risposta e i suoi dritti e rovesci: dai “servizi” giornalistici troppo esosi, fino all’espediente dello sport che accomuna sacro e profano (la passione per il nuoto di Karol Wojtyla, il cui “stile libero” fa a gara con quello della campionessa Novella Calligaris), dall’attivismo di Mario Capanna alla cultura filosofico-letteraria dello stesso, dal mondo che ci circonda («Il sole, il mare e il vento è ping pong») al rapporto con gli altri e con se stessi («L’amore in un momento e poi amarsi, amarsi dentro»). Insomma, «Tutto è ping pong». La metafora, tagliente e vagamente sarcastica, rimanda evidentemente a quella che, sul nascere degli anni Settanta, fu definita Diplomazia del Ping Pong. Tale espressione, infatti, designa quegli affari esteri che portarono la Cina a cercare una distensione politica, a cominciare dalle relazioni con gli USA, sfruttando un gesto di sincera cortesia e reciproca apertura avvenuto – senza secondi fini – fra il cinese Zhuang Zedong e l’americano Glenn Cowan, allevati in patria come nemici storici, ma cresciuti con una passione comune, lo sport, grazie al quale si incontrarono al 31º Campionato Mondiale di Tennis Tavolo. Nel ’71, infatti, un ragazzo con gli occhi a mandorla, che aveva sempre sentito dire «Abbasso l’imperialismo americano!», decise – nonostante tutto – di offrire un passaggio a un rivale “dipinto” a stelle e strisce, perché vide quest’ultimo in difficoltà; poi i due, che neanche parlavano la stessa lingua, si scambiarono souvenir e le povere cose che avevano con sé; fu così che nel 1972 Richard Nixon poté essere accolto in un territorio sul quale prima non avrebbe potuto n° 1 • Gennaio 2012

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certamente mettere piede. Tra gli esseri umani, c’è chi agisce pensando solo do ut des e chi, invece, fa e farà – in ogni caso – ciò che è giusto fare. Giustizia e verità non hanno niente a che vedere con bandiere, simboli, slogan, gagliardetti, padri e padroni che fanno presto ad abbindolare e accecare chi non trova il coraggio necessario per essere se stesso e comportarsi sulla base di ciò che, invece, ha il potere di scegliere. Nella quarta traccia, Michele ‘o pazzo è pazzo davvero credo, invece, che Rino Gaetano si immedesimi in uno dei personaggi de I Borboni di Napoli di Alexandre Dumas (1802-1870), il quale scriveva «[…] fra tutte le ingratitudini che seguono la liberazione di un paese e fra tutti i torbidi popolari che accompagnano una rivoluzione, eravi un uomo la cui devozione alla libertà smentivasi ed elevavasi all’altezza della saggezza. Quest’uomo era Michele il pazzo. […] Ebbene! di tutti gli oratori, Michele il pazzo era il solo che calmasse il popolo, perché era il solo che il popolo capiva» (Libro III, capitolo V, corsivo mio) e che confidava in un futuro di eguaglianza e libertà. Proprio come il Michele col medesimo epiteto, alter ego del cantautore, il quale «Crede in un mondo più giusto e più vero: / Michele ‘o pazzo è pazzo davvero. / State sereni, tutto cambierà domani […] Venite, venite, è ritornato Michele».

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Quelle del nostro Michele sono le stesse istanze vissute da coloro che abitano quella terra Metà Africa metà Europa che, anche e soprattutto in senso figurato, si trova a metà tra i due continenti: quel Sud tanto caro a Rino Gaetano e, per estensione, tutto il Paese di cui fa parte. Da un lato, il calore e la sabbia, ma anche la sofferenza di chi è stato costretto a lasciare casa propria per fare lo schiavo («Africa, il sole, le dune è Africa / Lontana, ma legata all’America») o l’emigrante e, dall’altro lato, le usanze e i riti avvolti nel mistero e nei silenzi che, nel passaggio dal sacro al profano, divengono inganni, omertà e decadimento morale («I riti tribali di stregoni cardinali, / Di ministri triviali è Africa»), in quel contesto intriso di conflitti e sparatorie che fanno da contraltare alla gioia, all’esoticità e alle acque cristalline analogamente condivise con il continente nero e che lasciano sul suolo italiano altrettanto spazio per la serietà e l’impegno delle lotte sindacali e per i diritti civili tipicamente europei, sebbene “segnati” dalla persecuzione nazista («Per chi c’è e chi è disperso, Europa / […] Ma nella storia c’è ancora una svastica»); diritti che, purtroppo, necessitano di essere riaffermati attraverso una ventata di aria nuova che spazzi via delitti e tragedie (quale quella consumatasi sopra il cielo di Ustica il 27 giugno del 1980: «Un ricordo preciso, qualcuno è stato ucciso, / Nel cielo, nel mare dell’Africa») e che porti finalmente giustizia e verità. Nella sesta traccia, Jet-set, Rino Gaetano irride – stavolta e significativamente senza veli –quell’élite, ricca e mai sazia di fama, oggetto dagli anni Cinquanta delle attenzioni dei paparazzi; infatti, il cantautore nomina Gil Cagné, Elsa Martinelli, Marina Lante e gli altri personaggi illustri che gravitavano in quello stesso ambiente. Jet set è il termine coniato dal reporter Igor Cassini per riferirsi proprio a quei personaggi disposti persino a grandi spostamenti in jet, per l’appunto, finalizzati anche solo a una brevissima permanenza in località chic e ben in vista o volti a presenziare a qualche party. Le tre persone citate da Rino Gaetano sono: il visagista delle dive per antonomasia, Gil Cagné, creatore fra l’altro del Jackie O, locale aperto come omaggio a Jacqueline Kennedy Onassis e al cui tavolo blu sedevano ospiti internazionali; Elsa Tia, in arte Elsa Martinelli, attrice cinematografica a partire dagli anni ’50 e Marina Elide Punturieri – sposa prima di Alessandro Lante della Rovere e poi (solo dal 1982) di Carlo Ripa di Meana –, stilista, scrittrice e personaggio televisivo noto per il carattere esuberante. Tutti e tre accomunati sotto il verso «Quando incede è una gazzella e sotto il sole non si spella», possibile rimando sia alle note automobili dei carabinieri, simbolo degli anni de La Dolce Vita felliniana, sia alla “pelle”, per ciascuno importante nel costruire la propria immagine – rispettivamente – di truccatore, di attrice e di animalista n° 1 • Gennaio 2012


(famose le campagne in cui la terza posava nuda contro l’uso delle pellicce). Con Sombrero, invece, il citazionismo tanto caro a Rino Gaetano si riaccende nella consueta maniera dei rimandi appena accennati, come già nell’incipit della canzone: «Esta es la historia verdadera de Sombrero, / Caballero de la pampa, / Amigo del pueblo, amigo de Dios. / Andale manito, hermano, con coraje y corazón!». Esordio che, con ogni probabilità, fa riferimento a El sombrero de tres picos, romanzo scritto nel 1875 da Pedro Antonio de Alarcón. Il sottotitolo dell’opera realista, infatti, pare confermare il mio sospetto: «Historia verdadera de un sucedido que anda en romances, escrita ahora tal y como pasó» (corsivo mio). Nella canzone, Rino Gaetano parla di un certo Pedro Felipe: questi è un personaggio, il cui primo nome coincide proprio con quello dell’autore spagnolo, mentre il secondo potrebbe, invece, riferirsi al compositore Felipe Pedrell i Sabaté, maestro di Manuel de Falla, al quale si deve il balletto del 1919 dedicato proprio a El sombrero de tres picos, cioè Il cappello a tre punte, con scenografie di Pablo Picasso. Anche la storia di Alarcón è, come canta Gaetano, «una storia di sangue, una storia d’amore», ma il nostro Sombrero a cavallo assomiglia di più a un giustiziere à la Zorro con tanto di mantello nero che, come l’artista romano d’adozione, con le sue canzoni «anche se lui non c’è più / ha lasciato al Paese un po’ del suo cuore». L’LP si chiude con il tono nostalgico dell’omaggio agli anni Sessanta e Settanta costituito dal brano La donna mia/Scusa Mary, nome con cui l’artista pare voler cantare, fra le righe, una protagonista di quell’età storica, la marijuana, alla quale credo che si rivolga subito con un elogio («Femminile, profumata, elegante, dolce, bella e generosa. / Estroversa, un po’ truccata, ottimista, intelligente e misteriosa. / La donna mia») in un modo che riSul Romanzo

corda vagamente poeti vari, tra i quali gli stilnovisti e il Giacomo Leopardi de La sera del dì di festa cui si stringeva il cuore «a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia», ben prima che Gaetano scrivesse: «Mentre il tempo passava sulla nostra età / Mentre mille canzoni finivano già / Mentre il sole d’autunno pigro si svegliava / Fra me e te un mattino qualcosa nasceva / C’era aria di festa e fra i colori anche il blu / Forse c’era dell’altro, ma c’eri anche tu» (corsivo mio; blu potrebbe rimandare alla varietà Blueberry di Cannabis indica). La dedica, comunque, pare del tutto indipendente da vicende personali, così come l’intero testo, che è assolutamente descrittivo di uno spaccato di storia, di un clima ottimista, votato al Peace & Love, alla pace e all’amore che valgono all’autore una giustificazione da dare alla sua Mary dei tempi andati: «Scusa Mary, scusa Mary / Ma eravamo innamorati più che mai / C’era il dopoguerra e c’era anche il boom» (divertente l’antitesi creata col suono onomatopeico, che sta anche per boom economico). E procede nello sciorinare fatti e protagonisti di quell’epoca: Praga (la cosiddetta “Primavera di Praga” che, dal 5 gennaio al 20 agosto del 1968, portò una ventata di riforme liberali in Cecoslovacchia), la CIA (la Central Intelligence Agency, agenzia di spionaggio statunitense molto attiva durante la cosiddetta guerra fredda), la NATO (acronimo per North Atlantic Treaty Organization, l’organizzazione per la difesa del blocco occidentale, fondamentale all’epoca e creata anch’essa dopo la Seconda Guerra Mondiale, in seguito alla stipula del Patto Atlantico), il Vietnam (teatro della nota e contestata guerra combattuta dal 1960 al 1975, evento che segnò la prima vera sconfitta bellica statunitense e che fu fortemente sentito dall’opinione pubblica mondiale), «un negro di nome Martin» (Martin Luther King Jr., attivista e Premio Nobel per la Pace, assassinato nel 1968), il Sessantotto (movimento di contestazione, sviluppatosi intorno a quell’anno, che coinvolse studenti, operai e n° 1 • Gennaio 2012

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minoranze etniche per ottenere riforme politiche e sociali), le barricate (tipiche azioni di protesta praticate durante il “Maggio francese” dello stesso anno), «l’autunno […] più caldo dell’estate» (l’“autunno caldo” del 1969, durante il quale si accesero le lotte sindacali che portarono allo Statuto dei Lavoratori), «i Beatles [che] si sciolgono dopo Let it be» (nel 1970 viene pubblicato l’ultimo album registrato dall’intera band di Liverpool, un mese dopo il ritiro di Paul McCartney, autore dell’omonima canzone dedicata alla sua defunta madre, Mary Mohin), Papadopulos (Georgios Papadopulos, artefice del colpo di Stato in Grecia nel 1967 e che rimase al potere fino al 1974), l’austerità (il periodo di austerity volto a risparmiare risorse energetiche, conseguito allo choc petrolifero del 1973), «Louis Armstrong e Neruda [che] non ci sono più» (la leggenda del jazz morì nel 1971; anno in cui, invece, il poeta cileno, in arte Pablo Neruda, veniva insignito del Nobel per la Letteratura, due anni prima della propria dipartita), «la forestale [che] tenta il golpe alla RAI» (riferimento al colpo di Stato, detto golpe dei forestali, orchestrato da Junio Valerio Borghese e da questi annullato la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970; esso prevedeva anche l’occupazione degli studi RAI), «un concerto all’isola di Wight» (l’Isle of Wight Festival 1970, evento musicale dall’enorme carica ideale, che segnò la fine di un’era e al quale presero parte 600.000 persone e un palco d’eccezione con Jimi Hendrix, The Doors, The Who, Miles Davis, Joan Baez e moltissimi altri). A fine decennio Rino Gaetano sapeva bene che il tempo dell’evasione impegnata e degli ideali di pace e amore che avevano mosso tanta gente si era ormai spento e che presto quegli stessi ideali sarebbero stati traditi, perciò – secondo me – saluta così: «Scusa Mary, scusa Mary / Ma che fortuna innamorarsi come noi». Questo disco invita così, a più riprese, a riflessioni obbligate circa la vacuità delle apparenze, delle ipocrisie, della superficie, di ciò che sta intorno e all’esterno, piuttosto che dentro di noi. Pelli e

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pellicole senza spessore di ciò la cui identità e il cui significato deve emanare dall’interno ed essere compreso da chi sa vedere al di là di se stesso e di tutto ciò che appare come ostacolo alla comprensione dell’altro e di chi sembra diverso. Nel 1979 e nel 1980 l’artista aveva registrato, rispettivamente, Solo con io e Le beatitudini, brani che sarebbero rimasti inediti fino al 1988. Entrambi nel pieno rispetto del suo stile irriverente, come mostra il sarcasmo del secondo, che dà per beati ricchi, potenti e prepotenti vari, probabilmente non solo in quanto felici, ma soprattutto perché con tale termine si intendono i cristiani che – si suppone – nell’aldilà si troveranno al cospetto di Dio; essi, forse solo allora, saranno davvero giudicati e ritengo che per questo il cantautore concluda: «Beati i critici e gli esegeti di questa mia canzone». In seguito a una tournée con Riccardo Cocciante e i New Perigeo, venne pubblicato il Q Disc Q Concert contenente dei pezzi live, di cui il nostro aveva scritto Aida (cantata da Co cci an te) e interpretava A mano a mano (dell’altro solista), mentre entrambi intonavano con Giovanni Tommaso (autore e cantante di Aschilimero) il brano Ancora insieme, scritto a sei mani. Sempre nel 1981, a Pisa, il poliedrico artista nato a Crotone vestì i panni della volpe nella terza edizione dello spettacolo teatrale diretto da Carmelo Bene e tratto da Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, il romanzo scritto nel 1881 da Carlo Collodi. All’alba del 2 giugno 1981, Rino Gaetano – poco tempo dopo essere uscito illeso da un incidente stradale di cui era rimasto vittima insieme all’amico Bruno Franceschelli, in cui la sua Volvo 343 era andata distrutta –, a bordo di un’auto identica alla precedente, si scontra con un camion FIAT 650D; soccorso immediatamente, viene condotto

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infruttuosamente in vari ospedali della Capitale (il Policlinico universitario Agostino Gemelli, il San Filippo Neri, il San Giovanni, il C.T.O. alla Garbatella e il San Camillo), nessuno dei quali è pronto ad accoglierlo; così si spegne per le gravi ferite il corpo dell’appena trentenne Rino Gaetano, che pochi giorni dopo avrebbe dovuto sposare Amelia Conte (conosciuta nel 1975). Uno degli inediti dell’artista, La ballata di Renzo, composta agli inizi della sua carriera, risulta profetico della circostanza appena descritta: Renzo muore dopo essere stato investito da un’auto e, rifiutato dagli ospedali San Camillo, San Giovanni e Policlinico, non troverà posto neanche al cimitero (ironia della sorte: la salma di Rino Gaetano venne posta a Mentana fino al 17 ottobre prima di essere trasferita al Verano di Roma). Rino Gaetano, forse – e a volte a buon gioco – troppo colto per i suoi coetanei (e non) o forse troppo spesso volutamente incompreso, ha dato l’impressione di esprimersi in codice; codice sì, ma il codice letterario e il codice dell’attualità o – semplicemente – il codice della cultura. Una cosa è certa, Rino Gaetano fu un cantastorie in grado di leggere nel passato, nel presente e nel futuro un’unica grande storia, da cui trarre una sola lezione: l’amore.

1 - Rino Gaetano - Street Art in Verona, Italy di Marion Cerrato 2 - RINO GAETANO 1981_2006 di Obi

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Quando la trama è La Malattia di Marco Giacosa

Ho davanti quattro libri, tre non li ho letti. Prima considerazione (se vogliamo chiamiamola: premessa numero uno), accademica: e vissero felici e contenti non è una storia. Il primo libro si intitola: Tango. La vita è bella anche con il cancro, di Maurizio D. Levi, casa editrice Araba Fenice (2005). Non letto, deceduto. Seconda considerazione (premessa numero due), quasi accademica: tu non interessi a nessuno. Il secondo libro si intitola: Un Anno Insieme a Julia, l’autrice si firma Julia Set, è un libro prodotto da Ilcestodiciliege (associazione onlus per le donne operate al seno). Non letto, in vita. Terza considerazione (premessa numero tre), accademica: c’era una volta qualcuno cui successe qualcosa. Il terzo libro è: Corrado Sannucci, A parte il cancro tutto bene, Mondadori. Non letto, deceduto. Quarta considerazione (questione), marzulliana: la vita è un romanzo o i romanzi aiutano a vivere meglio? Il quarto libro è Come una funambola, scritto e autoprodotto, tramite ilmiolibro.it, da Giorgia Biasini. Letto, in vita. I libri li ho ordinati secondo l’epoca di acquisto. Ero a Cuneo, in una libreria, aspettavo che mia madre finisse la chemio, vagavo per i portici di quella piccola città e finivo per passare ore nella libreria di piazza Europa. Cerchiamo quello che ci riflette, quello che vogliamo capire o condividere.

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Ascoltiamo le storie degli altri per ritrovare un po’ di noi stessi. Così comprai il libro di Levi. Qualche tempo dopo la morte di mia madre, una sera finii sul blog di una malata di cancro, Giorgia. Ci passai la notte, leggevo – là e allora – la storia di quella donna che parlava della sua malattia. Su un blog, che non è un libro. Lessi tutto. Copia incolla salva, stampai quel blog, lo rilegai: era un libro. Non era un romanzo. Attraverso i collegamenti arrivai al blog di Julia; lei sì, ci aveva pensato e aveva fatto rilegare – a scopo benefico – i suoi post in quella produzione per ilcestodiciliege. È un libro, ma non è un romanzo: è la trascrizione del blog. Corrado Sannucci era un volto abbastanza noto del giornalismo italiano. Si ammala, ne scrive. Lui che, nel 1999, aveva scritto, per Limina, Lotta continua. Gli uomini dopo, raccontando anche della sua diretta esperienza in Lotta Continua, esce per Mondadori dieci anni dopo, parlando di nuovo di sé, di come la vita, anziché “era andata”, gli “stava andando adesso”, del suo cancro del sangue. Maurizio era giornalista in una piccola radio di provincia, Corrado scriveva per La Repubblica, Julia fa tutt’altro e anche Giorgia non è giornalista né scrive di professione. Essi raccontano. Quando apparvero i primi blog generalisti, molti autori di blog si sentivano in dovere di specificare sotto il titolo: «Questo blog racconta soltanto episodi successi veramente», oppure: «Le storie scritte qui sono vere al 100%». Come se le storie inventate non avessero valore, oppure come se non si sentissero in grado di inventare storie. Chi legge un libro che parla del cancro dell’autore dà per scontato che i fatti narrati siano veri. Nessuno si sognerebbe di scrivere un romanzo con l’io narrante malato di cancro, con il nome del protagonista narrante identico al nome dell’autore del libro, nessuno fa autofiction raccontando la storia del proprio tumore. Almeno nella percezione del lettore, l’autore non vive felice e contento, anzi ha una malattia, che narrativamente è La Malattia, quella dotata del maggior carico di tensione narrativa. Un giorno stai bene, poi stai male, arriva la diagnosi, la cura sempre disastrosa – chirurgia, chemioterapia, il climax: se muori il finale è chiuso, se guarisci il finale è aperto. Guarire associato a cancro sembra un ossimoro: tecnicamente, dopo molti anni, ritorni al punto zero, alle stesse probabilità di ammalarti di un tuo coetaneo che mai ha avuto quella malattia. Sul Romanzo

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Tu non interessi a nessuno, ma se hai un cancro, La Malattia, le cose cambiano. Allora incominci a interessare, perché il finale non è scritto. Per celebrare il senso di scampata tragedia che ogni volta accompagna la curiosità morbosa rivolta ai drammi altrui, chi si ammala di cancro diventa a un tratto interessante. La storia è in sé. «Sono arrivati i risultati completi dell’esame istologico», scrive Giorgia Biasini alla data del 6 dicembre 2009 nel suo romanzo che ha la forma del diario. Un giorno a uno succede qualcosa, c’era una volta un equilibrio che è stato spezzato. Siamo all’essenza, all’ontologia dell’interesse, allo sviluppo intrinseco del senso di curiosità.

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Noi non siamo soli, cerchiamo nelle storie degli altri un pezzo di noi. «Stavolta a Pisa mi accompagna Sten, c’è di nuovo un macchinario rotto ma io ho la precedenza». Quella che alcuni testi chiamano domanda drammaturgica principale, quella che è sintetizzabile nel ce la faranno i nostri eroi a…, ciò che prima di ogni altra cosa di solito differenzia un romanzo che funziona da uno che non funziona, la fornisce il cancro in sé: Guarirà? Non guarirà? E di nuovo, ontologicamente, la lotta al cancro – il lessico di cui siamo sommersi, notare: lotta, battaglia, guerra, sfida, dove c’è dolore, dove c’è possibilità di morte i termini sono quelli del linguaggio bellico, il dolore è “interessante”, la contentezza no – è fatta di ostacoli più o meno grossi e di soddisfazioni più o meno temporanee o parziali. Un macchinario rotto è un problema, un problema va risolto, se e come viene risolto è ciò che interessa il lettore, ciò che inchioda il lettore alla pagina. Un libro sul cancro potenzialmente è un libro che finisce con il suo autore. Il tempo T che separa la morte dell’autore – in non autofiction, per definizione, o per percezione di massima del lettore – dalla pubblicazione del libro è di fatto ciò che delimita la fetta del mondo raccontato: se lo scrittore ha 50 anni, scrive il libro del suo cancro a 50 anni e muore a 100, il libro sul cancro sarà – nell’ambito della sua opera letteraria – il racconto di una porzione quantitativamente piccola della sua vita – chiaramente non giudicabile qualitativamente, come episodio scatenante di una certa emotività. Se lo scrittore pubblica a 50 anni un libro sul proprio cancro – un libro non postumo – e muore di quella malattia a 53, la morte “reale” dello scrittore viene inevitabilmente a fare parte del romanzo, prolungando, quindi, un finale che va oltre il finale – inevitabilmente aperto – del libro al momento della sua conclusione cartacea. C’è una sorta di “sovra-narrazione” che racchiude “la vita vera” - cioè racconto non autofiction, la n° 1 • Gennaio 2012


malattia occorsa, “la narrazione” – cioè il romanzo del cancro, e “la meta-narrazione” – cioè l’accadimento finale, la morte o la guarigione dell’autore del romanzo. Il malato di cancro che racconta di sé diventa opera d’arte in vita, la sua storia diventa un’installazione permanente che finirà con la sua vita, sia questa fine dipendente dalla malattia che ha dato origine alla narrazione, sia che no. Non a caso due dei quattro libri partono dal blog, non a caso partono dal blog i due dei quattro libri che ho davanti e scritti da non professionisti della scrittura o del giornalismo. I blog che non hanno bisogno di scrivere che tutti i fatti narrati sono veri. Una vita è di per sé un romanzo? Sì, se la sai raccontare. Tutte le vite sono interessanti, a saperle raccontare. Il cancro in vita è una trama – che funziona – ricevuta in dono dallo scrittore. Che ne farebbe a meno. Un romanzo aiuta a vivere meglio? Sì, certo. I libri di Julia Set e Giorgia non nascono come romanzi, nascono come scritture autoreferenziali, le autrici parlano di blogterapia, la scrittura e la condivisione come elemento terapeutico pratico, reale, un qualcosa capace di curare lo spirito, di produrre benessere. Un romanzo aiuta a vivere meglio chi lo scrive e chi lo legge. Per il passaggio al romanzo Giorgia ha lavorato sulle pagine, ha sviluppato i dialoghi, ha dettato i tempi della storia, ha reso personaggi le persone, ha creato qualcosa che “funziona” ed è scritto bene. Maurizio e Corrado non ci sono più, Julia e Giorgia stanno bene e continuano a scrivere la loro storia, la storia che non finisce, qui: www.juliaset. splinder.com, www.ilmiokarma.wordpress.com.

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1 - Libraries of Health, di Brian Dettmer, 2008, Altered Books, 10-3/4” x 10-1/4” x 8-1/2” - Image Courtesy of the Artist and Toomey Tourell Fine Art 2 - Hell Angel, di Brian Dettmer, 2007, Altered Book, 14” x 10-1/4” x 2-1/4” - Image Courtesy of the Artist and Toomey Tourell Fine Art 3 - Raphael, di Brian Dettmer, 2008, Altered Book, 15” x 11-1/2” x 2-1/2” - Image Courtesy of the Artist and Kinz + Tillou Fine Art n° 1 • Gennaio 2012

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Pensiero antico e identità europea

I Barbari presso i Greci di Adriana Pedicini

Quando la coscienza greca giunge alla sua pienezza, l’elemento “non greco” era denominato barbaro, senza voler indicare con tale appellativo caratteristiche quali ferocia o perfidia, divenute in seguito insite nel concetto/pregiudizio stesso di barbaro. La differenza era solo una differenza di civiltà. «Greco è l’uomo capace di intendere ragione, mentre il barbaro non si può che costringere con la forza».(Strabone, IX 2, 2). «I barbari valutano tutto in base al prezzo e credono che tutto si possa comperare».(Plutarco, Arist., 10). Tale limite era già stato individuato all’interno della popolazione greca, tra quelle genti prive di vita cittadina (agorà, libera ginnastica, partecipazione agli agoni, fisionomia individuale) che continuavano la loro vita di predoni. Tuttavia, si credeva che

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anche l’elemento greco si fosse formato dal barbarico, come attraverso un’evoluzione e che anche per i Greci l’antico modo di vivere fosse il brigantaggio. «Ci sono molte prove che l’antico modo di vivere degli Elleni doveva essere simile a quello dei barbari.» (Tucidide, I, 5). Il concetto di barbaro non fu dettato dall’avversione greca per gli altri popoli, dato che questa era reciproca: i singoli popoli guardavano con sospetto e con disprezzo gli altrui usi e costumi e apparivano, perciò, barbari gli uni agli altri. Gli Egiziani ritenevano tutti i Greci impuri perché mangiavano carne di bue, e tra i Greci gli Euritani erano ritenuti barbari perché mangiavano carne cruda e parlavano un linguaggio incomprensibile benché greco, e così gli Epiroti, benché presso di loro si trovasse l’Ellade più antica, i Macedoni e così via.

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Probabilmente, dunque, il termine barbaro voleva solo significare straniero, cioè estraneo, lontano dal proprio modus vivendi. La differenza, dunque, anche tra popoli decisamente greci non era di sangue, ma di civiltà. All’esterno, invece, i Greci si rapportavano con due popoli barbari, secondo un celebre passo di Aristotele: dal lato europeo, i popoli del Nord, liberi e valorosi, ma incapaci di pensiero, di arte, di forma politica e di governo; dall’altro, gli Asiatici, popoli di pensiero e di cultura, ma senza coraggio e perciò asserviti (Aristotele, Polit., VII, 6). I primi, soprattutto il grande e bellicoso popolo degli Sciti, lo conosciamo dal IV libro di Erodoto, nel quale sono delineati i costumi di questi e di altri popoli semibarbari. Gli Sciti erano bellicosi e impetuosi, portatori di un grande senso di orgoglio e di una potente vita-

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lità. Avevano tutti un’unica comune volontà, come gli animali, che vivono in collettività: in ogni loro agire, anche nei costumi e nella religione, si mantenevano ad un solo identico livello, se necessario anche con la forza. La nazione, appena avesse cessato di agire e sentire in perfetta uguaglianza, sarebbe diventata debole forse fino a scomparire. Anche sotto altri aspetti si rivela in questi barbari l’uniformità di agire; mentre presso i Greci lo sviluppo dell’individuo si esplicava attraverso varie esperienze di vita, a questi popoli mancava il senso agonistico: le loro esibizioni ludiche erano espressioni collettive della forza del popolo, oppure si cimentavano in vere e proprie battaglie. Mentre la nazione greca cominciava a vivere e a trasformarsi rapidamente, qui ogni secolo sembrava uguale all’altro, poiché per i barbari la missione suprema era la guerra che, forse, nella maggior parte dei casi, veniva condotta senza alcuno scopo e solo per istinto interiore. Alla guerra era collegato il particolare sentimento monarchico di questi popoli; solo in guerra, infatti, essi ammiravano ed amavano veramente il loro Re, come immagine vivente della nazione attiva; e i Re

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barbari, da parte loro, ne avevano un vivissimo sentimento. Il Re Tereo di Tracia usava dire che in pace e in ozio non si sentiva diverso da uno stalliere (Plutarco, Regum Apophthegm.), ma anche in pace un vincolo fortissimo e magico legava il Re al suo popolo e viceversa. I Re degli Sciti si ammalavano quando uno del loro popolo giurava falsamente il giuramento supremo – per il focolare del Re. Erodoto ci rivela il costume di mettere a morte i servi, anzi spesso interi grandi seguiti, che accompagnassero il Re morto nel mondo dell’aldilà (Erodoto, IV 71). Tuttavia è da notare che barbarie atroci, così come noi le intendiamo, non se ne attribuiscono agli Sciti e ai barbari in generale. L’altra popolazione da cui i Greci si distinguevano era rappresentata dagli Asiatici, popoli di alta e più antica civiltà. La differenza, in questo caso, stava nel fatto che, mentre il Greco è sviluppato come individuo, l’Asiatico è tenuto soggetto, non dal senso collettivo della razza, ma artificiosamente dall’ordinamento delle caste e dall’assoluto dispotismo. Leggendo Erodoto, apprendiamo lo stato d’animo di schiavi esasperati, capaci di assurde maldicenze contro i potenti (Erodoto, II, 121 passim). Il popolo barbarico più vicino era quello dei Lidi, peraltro molto incline ad adattarsi alla mentalità e alla religione greca. Invece, l’impero persiano suscitava preoccupazioni e ostilità per il fatto che aveva già assoggettato numerosi popoli e che, tranne Ciro il Vecchio e Dario, non produceva più sovrani di vero valore, ma solo dissoluti sultani. Ben presto, però, la potenza persiana cominciò a mostrare segni di debolezza: la sua sicurezza dipendeva sempre più dai mercenari greci. Il contrasto tra Greci e Barbari si era spostato dall’Impero persiano a quello macedone, mentre già splendeva l’astro di Alessandro.

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1, 2 - Mappe dell’antica Lidia e della Scitia 3 - Guerrieri sciti. Oreficeria del sec. IV a.C. 4 - Tereo davanti alla testa del figlio, Peter Paul Rubens, 1636-1638, olio su tavola, 195x267 cm 5 - Donna scita accudisce alle bestie. Illustrazione da oreficeria del sec. IV a.C.

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Il piacere nelle parole

Le parole e i riti dell’erotismo di Paola Paoletti

«Così nella notte una specie di suono leggero arrivò alle sue orecchie. Allora ella, in quella grande solitudine, fu presa dal terrore per la sua verginità, cominciò a tremare di paura e fu travolta da un senso d’orrore: era spaventata dall’ignoto più che da qualsiasi altro male.» In questo modo, Apuleio di Madaura narra l’incontro tra Psiche, una fanciulla mortale e il dio Amore. In quel momento, per Psiche è già avvenuto il distacco dall’ambiente materno, ma non è ancora introdotta nella nuova sfera di vita: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta non è ancora compiuto. Questa favola, scritta nel primo secolo dopo Cristo, ha catturato nelle epoche successive le menti di numerosi filosofi e artisti. È stata quasi unanimemente interpretata come l’avventura simbolica dell’anima verso la conoscenza magico-religiosa. Pur essendo d’accordo con questa interpretazione, propongo un livello di lettura “antropologico” per rintracciare, in questa e in altre storie erotiche, le fasi del rito arcaico di iniziazione. Ne Le Metamorfosi, Apuleio narra le avventure di Lucio, un giovane, che, trasformato in asino a causa della sua curiosità, ritorna uomo con l’aiuto della dea Iside. A metà del romanzo, una vecchia racconta ad una fanciulla, rapita da alcuni banditi, la favola di Amore e Psiche. Invero, anche Psiche, come Lucio, spinta dalla curiosità, si trova ad affrontare una serie di peripezie per essere salvata in ultimo dal dio Amore stesso. Questa favola erotica stimola la conoscenza attraverso l’immaginazione. L’avventura mitologica narrata con garbo, l’accostamento di parole dai suoni armoniosi, la sintassi abilmente dosata, sono gli ingredienti che danno alla mente del lettore la possibilità di specchiarsi. Amore e Psiche è un trucco poetico per narrare il “rito della pubertà”, l’ammissione dell’adolescente nella comunità degli adulti.

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1 - Psiche di W. A. Bouguereau (1892) 2 - Lucio riprende la forma umana di Bartolomeo de’ Bartoli, miniatura (1345) 3 - Psyché et l’Amour endormi di Peter Paul Rubens, olio su tavola (circa 1636)

Nelle società cosiddette primitive, ma in certo qual modo anche nelle altre, questi riti stabiliscono l’identità e la cesura tra l’infanzia e l’età adulta; sono il luogo di passaggio tra i due fondamentali periodi della vita. Solitamente il rito viene diviso in tre fasi: a) il distacco dell’iniziato dall’ambiente materno; b) la vita fuori dal proprio sistema sociale; c) la spinta verso la nuova sfera di vita. «Raggiunsero la rupe stabilita, su un’alta montagna, sulla cui sommità venne deposta la fanciulla. Tutti se ne andarono lasciando vicino a lei le fiaccole nuziali, con cui prima avevano rischiarato la strada e che poi avevano spento con le loro lacrime. Si accinsero a ritornare a casa con il capo chino». In uno scenario naturale e montano, avviene, per Psiche, il distacco dai suoi genitori. Attraverso gli elementi della natura, ella acquisisce una prima consapevolezza del suo nuovo viaggio. Sul Romanzo

Nella seconda fase, i riti di iniziazione presentano prove da superare, che richiedono conoscenze ed abilità, coraggio e autocontrollo. Psiche, più avanti nel racconto, prima della separazione da Amore, sarà sottoposta a una serie di prove e commetterà alcuni errori causati principalmente dall’inesperienza, ma comincerà a costruire, allo stesso tempo, la sua personalità. «Così l’ingenua Psiche, per colpa sua, s’innamorò del dio Amore. E, sentendo crescere con forza dentro di sé il desiderio per il dio del desiderio, si piegò su di lui con le labbra dischiuse e cominciò a baciarlo e baciarlo ancora con baci lascivi, senza alcun freno. Temeva solo che si svegliasse». Psiche comincia ad essere consapevole del suo desiderio sessuale. Non più indotto da un dovere, ma da un desiderio suo proprio. Come è noto, il dio Amore, una volta che si sente scoperto, fugge e abbandona Psiche. Ella arriva al n° 1 • Gennaio 2012

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punto più basso della sua storia. Tenta il suicidio annegandosi e, quando le acque del fiume la salvano, diventa silenziosa. E tacerà anche durante l’incontro con il dio Pan. Psiche riflette. Qui si entra nella terza fase: è questo il passaggio di emancipazione dal fanciullo all’adulto. Dopo il silenzio, Psiche decide spontaneamente di farsi giustizia e, in quell’istante, ricomincerà la risalita del suo cammino psicologico. Sarà questa la strada che la porterà verso una soluzione positiva delle sue vicissitudini. Per dirlo in termini moderni diverrà un’adulta auto-realizzata. I romanzi autobiografici come quelli dello scrittore marocchino Abdellah Taïa sono lontani da Amore e Psiche quanto il mito lo è dalla vita reale, ma, quando si narra di un adolescente che diviene adulto maturando consapevolezza dei propri interessi culturali, della propria sessualità e del suo orientamento, le fasi del rito d’iniziazione sono fortemente evidenti. Ne L’esercito della salvezza, Abdellah Taïa miscela i diversi momenti della sua vita e lascia che si rincorrano, creando l’immagine della sua personalità. Gli episodi della sua infanzia, le pagine del suo diario personale, i momenti della sua storia d’amore con Jean e il suo arrivo in Europa sono come tessere di un puzzle che lo scrittore mette, tessera dopo tessera, in mano al lettore, che, alla fine del romanzo, avrà una figura intera: la personalità di Abdellah adulto, che, però, si scomporrà di nuovo, per formare un altro puzzle, con cui gettarsi nel futuro e affrontarlo. Quella stessa curiosità che muove Psiche spinge l’adolescente Abdellah ad entrare nel mondo, per certi versi proibito, del fratello maggiore Abdelkébir. È spinto da qualcosa di fisico che ancora non ha preso i suoi connotati. Anche ne L’esercito della salvezza, il primo distacco dalla famiglia avviene con un viaggio: la vacanza a Tangeri. L’ambiente nuovo dà luogo a riflessioni che lo accompagneranno in una sempre maggiore conoscenza del proprio io. È qui, in quest’occa-

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sione, che l’adolescente Abdellah sente il desiderio di acquistare un quaderno per comporre un diario intimo. Matura la consapevolezza del suo desiderio sessuale, diviene cosciente del suo amore per il fratello Abdelkébir. Ma c’è un momento ancora più somigliante a quello in cui Psiche viene lasciata sola sulla rupe, mentre gli altri tornano a casa. Anche Abdellah viene lasciato solo sulla spiaggia assolata, mentre Abdelkébir parte per un paese vicino e Mustafa, il fratello più piccolo, va a giocare con gli altri bambini. Abdellah percepisce il vuoto dell’incertezza e si chiede quale parte recitare. Ma la vita gli riserva una sorpresa, qualcosa di nuovo da sperimentare per crescere. Fa l’incontro con un uomo con cui scopre la sessualità: «Al cinema, con Salim. E la cosa peggiore è che mi è piaciuto, essere circondato dalle braccia forti di quell’uomo di 40 anni che aveva un buon profumo e mi parlava nell’orecchio in francese cercando nel frattempo di farsi strada verso il mio sesso, le mie natiche. Mi sono dato a lui. Non mi ha fatto soffrire. Sì, mi piace. Mio Dio! Mi sento male.» Spesso il silenzio, la natura, l’arte possono preparare all’illuminazione, che non è altro che un passo in avanti e profondo verso la consapevolezza di se stessi. Abdellah è in un parco a Ginevra e si avvicina ad una fontana per bere, si sofferma a contemplare le sue qualità plastiche, ma in quel momento intuisce qualcosa di sé: «La mia vita cambiava. Sarei diventato un altro, qualcuno che ancora non conoscevo … il futuro … che per me era iniziato all’esercito della salvezza sembrava di colpo così ricco vicino a quella fontana». Quell’avventura ginevrina, che lo ha visto abbandonato all’aeroporto con pochi soldi, l’ha visto cercare riparo e incontrare l’esercito della salvezza da cui ha ottenuto alloggio, è la seconda fase del rito di iniziazione, cioè il trovarsi fuori dal proprio sistema sociale. Si conclude per Abdellah con una nuova consapevolezza e determinazione nei confronti del futuro. La seconda fase dei riti di iniziazione, come abbiamo visto anche per Psiche, comporta prove interiori da superare. Per Abdellah, una grande prova è l’essere scambiato per un oggetto sessuale a pagamento. Accade in Europa e avviene, in modo violento, anche a Marrakech. «Circolando in quel mondo nuovo al fianco di Jean apparivo agli occhi degli altri come il suo oggetto sesn° 1 • Gennaio 2012


4 - “L’esercito della salvezza” di Abdellah Taia 5 - Psiche abbandonata (Particolare) di Augustin Pajou (1790) 6 - Psyche’s Parents Abandon Her On The Summit Of The Mountain di Maurice Denis, Olio su tela (1909), Collezione privata

suale … Non piansi. Le lacrime non sarebbero servite a darmi sollievo. Non capivo. Ma prendevo coscienza di quella mia nuova identità che mi era estranea». La spinta verso una nuova sfera di vita nasce, per Abdellah come per Psiche, in seguito a un dolore profondo e a una separazione necessaria; nasce dallo sconcerto nel vedere crollare i propri sogni adolescenziali. Abdellah aveva immaginato l’Europa come la fine delle sue battaglie interiori e, invece, comprende che dovrà annaspare nel buio, che dovrà prendere in fretta decisioni vitali, scegliere il campo in cui stare, allontanarsi dalle persone amate, smettere di piangere e gestire i propri attacchi di panico. Dovrà, lui più di Psiche, imparare di nuovo ad amare: «Costruirmi nel dubbio. Avanzare da solo. Essere felice da solo. Mettere in discussione pian piano il mio modo di considerare la cultura araba, le tradizioni marocchine e dell’islam. Perdermi completamente per meglio ritrovarmi». In Amore e Psiche, come ne L’esercito della salvezza, l’amore e l’erotismo costituiscono un filo rosso che segue tutte le vicende. È l’emblema di quella forza vitale che ciascuno di noi possiede e che tende sempre ad espandersi e a rinascere, superando tutte le fasi d’iniziazione, non solo quelle adolescenziali.

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Galatea de las esferas, Salvador Dalì, 1952, olio su tela, Dalí Theatre and Museum, Figueres, Spagna

«Ma per Teodora è troppo tardi. La mano brandisce l’ago argentato della bilancia impugnato per la goccia nera. Teodora ha slanciato il braccio in alto, sente che il sogno se la porta via e lei sfibrerà in aria, e se lo volge contro e... ehehe!.... .»

(Aldo Busi, La delfina bizantina) Webzine - anno 2, n° 1 - Gennaio 2012

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