Sul Romanzo, Speciale Premio Strega 2014

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Premio Strega 2014

Edizione speciale

Webzine Sul Romanzo

LXVIII Premio

Interviste ai finalisti


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LXVIII Premio

La pubblicazione raccoglie le interviste realizzate da Sul Romanzo ai finalisti del Premio Strega 2014 nell’ambito dello speciale apparso sul nostro blog.

Giuseppe Catozzella, Antonella Cilento, Francesco Pecoraro, Francesco Piccolo e Antonio Scurati ci raccontano i loro romanzi e ci parlano delle loro sensazioni in vista della serata finale del 3 luglio.

Cinque personalitĂ molto diverse tra loro ci spiegano il loro punto di vista sulla letteratura e sulla scrittura. Cinque opere che offrono uno spaccato differente della nostra societĂ , della nostra storia e dei legami familiari.

Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura

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Antonella Cilento, Lisario o il piacere infinito delle donne

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Francesco Pecoraro,

La vita in tempo di pace

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Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti

Agenzia Letteraria, Lit-Blog & Webzine

Direttore Morgan Palmas info@sulromanzo.it Project Manager Gerardo Perrotta Art Director Daniele Vignato Redazione Irma Loredana Galgano Sara Minervini Enza A. Moscaritolo

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Antonio Scurati, Il padre infedele

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Giuseppe Catozzella,

Non dirmi che hai paura di Irma Loredana Galgano

Leggendo Non dirmi che hai paura (edito da Feltrinelli) erano tante le domande che mi balenavano in mente, ma appena ho terminato il libro, ho deciso che la prima cosa che le avrei chiesto era di parlarmi dei sentimenti e delle emozioni provate nel periodo di ricerca sul campo, di indagine e soprattutto di ascolto che sono state presumibilmente le fasi preliminari, propedeutiche e fondamentali della stesura del testo. Con le lacrime agli occhi e un nodo in gola le chiedo quindi di raccontarmi le sensazioni, le emozioni di quei giorni…

Giuseppe Catozzella - Nato a Milano nel 1976, collabora con «L’Espresso», «Sette» de «Il Corriere della Sera», «Granta» e «Lo Straniero». Esordisce, nel 2008, con il romanzo Espianti (Transeuropa, 2008); è autore dei racconti Il ciclo di vita del pesce (Rizzoli) e Fuego (Feltrinelli Zoom) e del romanzo Alveare (Rizzoli, 2011; Feltrinelli, 2014).

È stato un percorso molto profondo, molto coinvolgente che mi ha cambiato intimamente. Sia come autore sia proprio come essere umano, come uomo. È stato un processo lungo in quanto era necessario entrare in contatto con i familiari di Samia, con qualcuno che mi potesse affidare la storia, potente e al contempo delicata, di questa ragazza. Ci sono voluti tanti mesi, circa sette, per entrare in contatto con quella che poi è diventata la fonte principale, sua sorella Hodan, e l’aiuto di una mediatrice culturale, bravissima, che si chiama Zahra Omar, senza la quale non avrei potuto fare niente perché non parlo il somalo. L’incontro principale è stato proprio quello con Hodan ed è stato davvero molto intenso. All’inizio lei non aveva accettato di incontrarmi anche se io volevo raggiungerla a Helsinki, dove lei vive. Poi mi ha concesso una settimana di tempo, ma una volta arrivati ho capito che in realtà non aveva ancora deciso di affidarmi la storia perché quando abbiamo cominciato a parlare lei non riusciva a farlo… piangeva e la voce era continuamente rotta dai singhiozzi. In quel momento ho pensato di aver sbagliato tutto e che non fosse possibile raccontare la storia di Samia. Ho temuto che nessuno sarebbe mai riuscito a farlo. Perché

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loro, la famiglia, pur volendo gridarla al mondo non avevano i mezzi per poterlo fare e affidarla a qualcuno sembrava impossibile perché generava troppo dolore in chi le era stato vicino. Ho detto a Hodan che ce ne saremmo andati ma prima di farlo ho deciso di confidarle quale era il motivo per cui volevo raccontare la storia di sua sorella. Le ho detto di averlo deciso nel momento stesso in cui ne sono venuto a conoscenza, mentre mi trovavo in Africa, lungo il confine somalo, e subito mi sono sentito responsabile, da italiano, per la morte di questa giovane ragazza. Questa cosa ha fatto cambiare del tutto prospettiva a Hodan. Da quel momento in poi è cominciato tutto il percorso di affidamento di questa storia. Samia Yusuf Omar. Se fosse stata di nazionalità italiana probabilmente qualcuno già si sarebbe adoperato per far intestare a suo nome una via, una piazza, una rotonda… cosicché il suo ricordo sarebbe rimasto per sempre anche se poi tutto ciò che ne sarebbe rimasto, abbiamo avuto modo di constatarlo innumerevoli volte, è un’iniziale puntata seguita da un cognome. Samia invece meritava e merita ben altro e come lei tutti i bambini a cui vengono strappati i sogni in nome di leggi, regole e regolamenti che nulla hanno a che vedere con il bene dei popoli. «L’importanza della libertà è il potere dei sogni». Tanto più vero e bello quando questi sogni non includono il successo o il denaro. Che idea si è fatto dei danni prodotti dalle guerre ai sogni? Le guerre causano infiniti danni, infiniti problemi. Sono le principali responsabili della perdita del sogno. Tutti noi in verità viviamo “una guerra personale” da quando siamo nati. La questione del sogno speciale premio strega 2014

personale sta propri lì: nel riuscire a vincere o meno la propria guerra personale. Le guerre che vorrebbero che la paura avesse il sopravvento, che ci spingono a seguire delle strade conosciute, che ci vorrebbero costringere a non seguire la nostra via, il nostro sogno, la nostra indole personale. È chiaro che per chi nasce in un Paese in guerra, con la guerra vera, è tutto molto più complicato. Dopo l’uscita e la diffusione del libro stanno succedendo dei piccoli miracoli: il Comune di Milano ha deciso di intitolare una pista di atletica a Samia Yusuf Omar e abbiamo fatto una cerimonia di inaugurazione con 650 ragazzi che gareggiavano in varie discipline in ricordo di Samia. Un comune in Provincia di Messina ha deciso di intitolare un intero centro sportivo a Samia Yusuf Omar… qualcosa si sta muovendo anche a quel livello lì. Ma la cosa più bella di tutte… qualche giorno fa mi ha contattato l’ONU di stanza in Somalia perché hanno letto il libro, conosciuto la storia di Samia, e hanno deciso che tutti gli anni il 19 di agosto, che è una ricorrenza per i rifugiati, a partire da quest’anno, indiranno una gara di 5 km all’interno del recinto dell’aeroporto dell’ONU a Mogadiscio, non possono fuori perché c’è la guerra, perché c’è Al-Shabaab, tutto in onore di Samia Yusuf Omar. In qualche modo il libro è riuscito a riportare Samia da vincitrice a casa sua. Quest’anno ci saremo io, che volerò con l’aereo dell’ONU, che sarò ospite dell’ONU, e Hodan, la sorella di Samia, con i figli. Partiremo insieme e tra l’altro sarà la prima volta che Hodan potrà riabbracciare la madre e ritornare in Somalia dopo il viaggio. È una cosa incredibile… eccezionale. È presunzione e opinione diffusa nella cultura occidentale la superiorità e la supremazia delle nostre conoscenze. Leggendo il suo libro però si ha ancora una volta conferma del fatto che molti di noi occidentali SUL

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Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura

dovrebbero recarsi in Africa come anche in altri posti dove sono sopravvissuti i popoli autoctoni non per insegnare qualcosa bensì per imparare, per apprendere il potere reale dei doni che la vita ci offre e che non hanno nulla a che vedere con il potere o con il denaro. Samia insieme ai suoi genitori ci regala una grande lezione di vita e di coraggio… È verissimo. A me piace molto viaggiare e dai viaggi cerco una sola cosa: un arricchimento personale, cercare di scoprire delle cose di me che non conoscevo attraverso la conoscenza di altre popolazioni. E l’Africa non è terra da conquista, non è terra per prenderci il petrolio, per prenderci i diamanti o il coltan, l’Africa per me è essenzialmente una terra in cui imparo chi sono. Sarebbe meraviglioso se questa fosse l’impostazione generale, purtroppo il mondo ha scordato molto tempo fa l’idea assestandosi su standard molto più materialistici che portano l’uomo a compiere azioni malvagissime, con il rischio di una fine tragica dell’umanità. «La gara era un evento, a me sembrava che fosse un giorno addirittura più importante del primo luglio, la data della liberazione dai coloni italiani, la nostra festa nazionale». Noi italiani siamo sbarcati da conquistatori in Somalia. È storia. E quand’anche lo si voglia circoscrivere come un fatto accaduto in passato è successo, eppure i Somali, tranne forse rare eccezioni, non provano rancore e come i loro fratelli africani vedono il nostro Paese e l’Europa intera con un luogo dove poter coltivare i loro sogni, che nella gran parte dei casi coincidono con il donare ai propri figli un futuro dignitoso, un’istruzione adeguata e la possibilità di 6

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vivere senza respirare l’aria delle granate. Se avessero la possibilità di fare tutto ciò nel loro Paese non si sognerebbero minimamente di partire e lasciarlo. Come trova l’atteggiamento dei governi e della popolazione in merito agli sbarchi dei clandestini di cui invece tanto si parla? Li trovo assolutamente inadeguati e poco lungimiranti, poco comprensivi rispetto a quello che accade e che è accaduto in passato nel mondo. Noi esseri umani siamo sempre migrati, ci siamo sempre spostati. È la natura stessa che ci ha sempre spinto verso una condizione migliore, altrimenti non ci saremmo mai evoluti. È un fenomeno quello degli spostamenti che non si può fermare. Alzare barriere, alzare muri non serve a niente. Un uomo troverà sempre il modo per forare un muro o per scavalcarlo. Quello che bisognerebbe fare, a mio avviso, è intraprendere delle serie e responsabili decisioni politiche di “accoglimento” di questi ragazzi e queste ragazze che sono costretti a scappare dai loro Paesi… proprio mentre parliamo, proprio in questo momento, alla stazione Termini, sono passati davanti ai miei occhi due ragazzi presumibilmente dell'Africa centrale. È assurdo tanto più perché questa cosa è unidirezionale. Chi viene dalla parte ricca del mondo ha piena facoltà di spostarsi mentre a chi appartiene alla povera viene impedito di farlo. Lo trovo di un’ingiustizia talmente evidente… «A nessuno al mondo, per la breve durata di una vita, doveva essere consentito passare per quell’inferno». Eppure Samia cede e alla fine lascia che si formi una crepa nella corazza della determinazione che l’aveva portata fino a Pechino. Pensava di riuscire a resistere a tutto ma non è riuscita a superare il tradimento di Alì. speciale premio strega 2014


Sì, è stato proprio questo che l’ha fatta vacillare. Un colpo inferto in maniera troppo intima. Un colpo troppo profondo che ha bucato ogni tipo di resistenza, ha aperto una voragine… in quel momento della sua vita Samia ha capito, ha ammesso per la prima volta che il suo Paese le aveva tolto più di quanto le avesse dato. Ha deciso di chiudere i conti col suo Paese. Il suo libro ha un compito importantissimo che non è solo quello di far conoscere la storia di Samia e della sua famiglia ma anche quello di portare avanti il sogno di suo padre di vederla guidare «la liberazione delle donne somale dalla schiavitù in cui gli uomini le hanno poste».

Sono tranquillo. Nel senso che sono davvero felicissimo di avere vinto il Premio Strega Giovani, il premio più importante d’Italia ma conferito da una Giuria Popolare e forse dalla più bella delle giurie perché composta dai giovani, 40 scuole in tutta Italia, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Hanno scelto Non dirmi che hai paura a grandissima maggioranza. Sono felicissimo di questo. È chiaro che sarei felice di vincerlo, vorrebbe dire una cosa importante… un libro di letteratura civile che vince il Premio più importante in Italia… vorrebbe dire tanto, sarebbe bellissimo… però, insomma cerco di viverla in maniera tranquilla.

Samia sarebbe stata completamente differente se suo padre fosse stato diverso. Samia e Hodan devono tantissimo al fatto che Yusuf fosse un “rivoluzionario”, non nel senso che è andato a ingrossare le fila dei miliziani, ma rivoluzionario nel senso che ha deciso di insegnare ai figli l’importanza della libertà intellettuale. È stato fondamentale suo padre nel suo sviluppo. Anche la madre ma lei, come spesso accade nelle culture e nelle tradizioni di stampo più arcaico, ha giocato un ruolo più passivo ma egualmente determinante. Mentre gli uomini prendono le decisioni in maniera attiva, o almeno così pare, poi in realtà alle spalle di tutto ci sono sempre le donne. Anche la madre di Samia ha giocato il suo ruolo determinante con il suo silenzio, con il suo appoggio, e dopo la morte del padre il suo ruolo diviene fondamentale. È la guida della famiglia, il suo punto fermo. Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014? speciale premio strega 2014

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Antonella Cilento,

Lisario, o il piacere infinito delle donne di Morgan Palmas

Lisario, o il piacere infinito delle donne, edito da Mondadori, pone al centro due protagoniste: la Napoli seicentesca e barocca, che funge da scenario della vicenda, e Lisario Morales, che disobbedisce alla volontà maschile degli adulti addormentandosi in una dimensione di finto abbandono. Possiamo dire che in Lisario vengono riproposte alcune caratteristiche tipiche di Napoli? È un interessante accostamento quello fra la bella addormentata e il bosco in cui si addormenta… Napoli è da sempre, dai tempi di Andreuccio da Perugia fino a La Capria, metafora vivente della foresta, del luogo oscuro, fascinoso ma pericoloso, in cui l’ingenuo si perde. E che la città sia una bella addormentata in senso letterale, cioè che viva in un tempo sospeso, è stato notato da molti scrittori, penso a Domenico Rea e al suo Diario napoletano dove indicava un orologio pubblico fermo perché rotto come manifestazione del tempo bloccato della città, un tempo eterno, che riesce a essere esatto almeno una volta al giorno, quando si fa effettivamente l’ora in cui sono bloccate le lancette. Però, penso a Lisario soprattutto come a una prigioniera che tenta e poi riesce nell’evasione: libera nel corpo nonostante handicap e servaggi, libera nella mente, perché sa leggere e scrivere, benché muta nel fisico, ironica in un mondo di seri e rigidi poteri, Lisario forse incarna uno degli aspetti Antonella Cilento – Nata a Napoli nel 1970, ha esordito nel 2000 con Il cielo capovolto (Avagliano), ma, nel 1997, era già stata segnalata al Premio Calvino per il romanzo Ora d’aria. Nel 2002, ha pubblicato Una lunga notte (Guanda) che gli è valso il Premio Fiesole 2002. Tra gli ultimi libri pubbli-

cati: Asino chi legge (Guanda, 2010) e La paura della lince (Rogiosi, 2012). Intensa la sua attività come docente di scrittura creativa, ha fondato Lalineascritta, una delle più antiche scuole di scrittura creativa in Italia.

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effervescenti e vulcanici della città, ma è dalla città e dal carcere del castello paterno e poi maritale che tenta di fuggire inseguendo l’amore e se stessa. Dunque, Lisario e Napoli sono due metafore che convivono, se vogliamo. Il desiderio, quasi ossessivo, di Avicente di giungere alla scoperta del “divino segreto” delle donne, del loro piacere infinito, richiama, per certi versi, la tradizione alchemica napoletana. Basti ricordare, ad esempio, le decorazioni della Farmacia degli Incurabili di Napoli, che rimandano a simbologie femminili (la sirena Partenope, l’allegoria dell’utero virginale nella controspezieria e l’utero sezionato della grande sala). Quali aspetti di questa tradizione rivivono nel suo romanzo? L’ossessione per il corpo delle donne e la loro capacità riproduttiva è molto antica, risale senz’altro ai tempi del matriarcato, alle civiltà pre-cretesi quando gli uomini, felicemente utili al matriarcato, scoprirono che non era solo una magia femminile concepire, ma un atto condiviso. La sirena, ad esempio, è un simbolo pagano e contadino riassorbito dal cristianesimo che indica proprio il gesto del parto, le due code come due gambe aperte, infatti ce n’è una sulla testa di Lisario quando lei partorisce nella campagna di Pitigliano. La tradizione alchemica napoletana – e non solo napoletana – raccoglie sapienze e informazioni antichissime e le traduce nella scienza che nasce proprio negli anni in cui il romanzo è ambientato. I due aspetti convivono e nel romanzo si manifestano spesso, attraverso il voyeurismo e la cialtroneria di Avicente, nel personaggio del notomista tedesco, Tode, nel Lazzaretto o Ospedale della Pace, nella figura dissezionata dell’androgino Bella Mbriana. speciale premio strega 2014

Uovo, utero e sirena – ma qui il discorso sarebbe lunghissimo – sono figure greche della città, che hanno per altro a che fare con i temi virgiliani, così ben esplorati dal maestro Roberto De Simone… Lisario, o il piacere infinito delle donne è stato spesso accostato ai quadri di Micco Spadaro, in particolare alle sue folle, insieme tragiche e festanti. Quanto di questa Napoli seicentesca sopravvive ancora oggi? I quadri di Spadaro sono un grande esempio di rivoluzione pittorica in cui non giganteggiano più i ricchi e i potenti o le figure mitologiche o sacre ma il popolo minuto e tutti sono all’altezza di tutti, piccoli e accomunati dal disastro (spesso) della Storia: sono parte integrante di questo romanzo come di un mio precedente libro, Una lunga notte, uscito ormai quattordici anni fa, con cui Lisario compone un ideale dittico. Spadaro ritrae le folle, la peste, le eruzioni, la rivolta di Masaniello: in uno di questi quadri è la testa di Peppe Carafa, potente e malfattore, portata su una picca dai rivoltosi. Molta di questa Napoli violenta e disperata, ma anche veramente umana, è viva, nonostante la globalizzazione, peccato vederla all’opera solo allo stadio, ormai, mangiata e comprata com’è dai poteri forti e delinquenziali… Ma è una Napoli di cui avere sempre timore e sospetto, spesso è sanfedista e mangia cotti i rivoluzionari, come scoprirono a loro spese i protagonisti illuminati e illuministi della rivoluzione del 1799… Questa visceralità, in senso ampio, della città è spesso la sua forza e il suo ostacolo più grande. Lisario legge di nascosto Cervantes e, sempre in segreto, scrive lettere alla Madonna. Il sacro e il profano in una dimensione tipicamente napoletana? SUL

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Antonella Cilento, Lisario, o il piacere infinito delle donne

Lisario legge di nascosto le Novelle esemplari di Cervantes, e non a caso, poiché le Novelas sono l’esempio forse più moderno della scrittura dell’inventore del romanzo come oggi noi lo concepiamo: realistiche, avventurose, erotiche e disincantate, solitarie e internazionali, raccolgono storie intercontinentali (per la prima volta, storie che narrano delle colonie oltre oceaniche), storie di camorra (la prima rappresentazione storica del fenomeno), storie di donne abusate, sfruttate e vendute che tentano il riscatto. Quando Lisario legge del mondo scoprendo Cervantes non può che scrivere alla Madonna (e non a Dio o a un santo, dei molti che popolavano l’immaginario secentesco), innanzitutto perché è donna, come lei, e come lei capisce più cose di quante ne capiscano gli uomini, e poi perché, in fondo, sta scrivendo a se stessa, si sta auto-sostenendo nella difficile arte sperimentale del vivere… Certo, però, sacro e profano hanno una loro speciale e sincretica versione in Napoli da sempre e questo romanzo ne è ovviamente intriso: Avicente che sogna i Teatini, Sant’Ignazio e Suor Orsola Benincasa in versione, come è stato detto, Muppett Show, ad esempio…

diversa dall’attuale. Certo, pensavo a Suor Orsola, esposta dopo la morte per settimane intatta, e a Eluana Englaro, insieme, quando descrivevo Lisario addormentata ed esposta dal marito come esperimento scientifico. Chi vuole, troverà legami con l’oggi, come sempre. Esattamente come un romanzo storico non smette d’essere proiezione di chi scrive qui ed oggi. Ha detto bene dopo la Cinquina Domenico Starnone che I Promessi Sposi sono un romanzo sul 1825 e non sul Seicento… Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014? Riposando. Che altro c’è da fare?

La storia di Lisario appare quanto mai attuale, soprattutto alla luce di alcuni violenti casi di cronaca degli ultimi tempi. Cosa può dire a una donna contemporanea la figura di Lisario? Cosa può ispirare? Le donne muoiono, per citare un titolo oggi dimenticato di Anna Banti: muoiono da sempre e sempre più spesso sono oggetto della furia maschile, dell’incomprensione, della violenza del potere. C’è uno spaventoso maschilismo di ritorno, specie nel nostro Paese, una follia collettiva. Lisario parla alle donne che subiscono violenze familiari e violenze pubbliche, alle ragazze che, come è capitato alla mia generazione, credevano e credono di essere al sicuro mentre la nostra rivoluzione non è finita, è appena cominciata. Ogni lettrice troverà, volendo, una parte del suo femminile, anche se il tempo di Lisario è trascorso e con esso una storia 10

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Cominciarono, nell'inverno e nella primavera 1944, a radunarsi amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati, gente di ogni partito unita nella partecipazione di un tema doloroso nel presente e incerto nel futuro. Poi, dopo il 4 giugno, finito l'incubo, gli amici continuarono a venire: è proprio un tentativo di ritrovarsi uniti per far fronte alla disperazione e alla dispersione. Prendiamo tutti coraggio da questo sentirci insieme. Spero che sarà per ognuno un vivido affettuoso ricordo. Maria Bellonci

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Francesco Pecoraro,

La vita in tempo di pace di Sara Minervini

La vita in tempo di pace, edito da Ponte alle Grazie, si presenta come un testo denso, complesso, ricco di stratificazioni filosofiche, psicologiche, a tratti fortemente allegorico, almeno agli occhi del lettore. Ma quanto combacia questa visione con l’intenzione dello scrittore?

Francesco Pecoraro - Nato a Roma nel 1945, ha esordito nel 2007 con i racconti Dove credi di andare (Mondadori), vincitori del Premio Napoli e del Premio Berto. Ha pubblicato, nel 2008, Questa e altre preistorie (Le Lettere) e, nel 2012, la silloge poetica Primordio vertebrale (Ponte Sisto).

Naturalmente ho avuto bisogno di una base, ho lavorato, ho studiato, anzi ri-studiato molti documenti del ‘68, cercando di reimmergermi in quel clima ed è stato molto salutare, anche interessante per me, perché erano molti anni che non ci pensavo in maniera tangibile. Ma in termini tecnici, la documentazione non è servita molto perché da un certo momento in poi la scrittura è andata avanti sul filo della memoria. Per quanto riguarda la questione della struttura, non c’è nel libro un’intenzione metaforica; se ci sono delle cose, delle situazioni, dei luoghi che possono essere letti in termini metaforici, questo viene fatto a posteriori dal lettore; non c’è, in partenza, la volontà da parte dell’autore di costruire un sottotesto come non c’è un disegno stilistico esplicito. Il lavoro è andato avanti con la costruzione di materiali dei quali, in un primo momento, non sapevo bene che fare, pezzi di edificio che sono a terra e non sai precisamente che funzione abbiano. Poi, cominci a capire che questi pezzi di edificio possono essere montati in un certo modo, e contemporaneamente che ne mancano altri, snodi, elementi, passaggi fondamentali, e quindi ti metti lì e li costruisci, poi li assembli, e alla fine viene fuori un’architettura che sembra omogenea (anche se alcune persone hanno capito benissimo che non lo è), rispetto alla quale poi si lavora di organizzazione, di messa insieme delle parti. Non c’è altro, non c’era l’intenzione di costruire delle metafore – che peraltro odio – né altre intenzioni di alcun genere.

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Ho letto una sequenza quasi incontrollata di aggettivi per definire il suo romanzo, cupo è forse quello che ricorre più frequentemente, ma anche terminale, furioso, esistenziale… Nella recensione che ho scritto per Sul Romanzo, l’ho definito loico, ma altrove ho letto laico. Partendo sempre dal presupposto che le definizioni sono spesso ambigue e restrittive, qual è la definizione che ne dà l’autore? Mentre scrivevo, nei quattro anni della sua elaborazione, gli amici mi chiedevano che tipo di libro fosse, di che trattava. Rispondevo che era una svuotata di sacco. Che cosa significa? Significa che dopo aver scritto un libro di racconti, un libro di riflessioni saggistiche, un libro di poesie, mi era rimasta nascosta, da qualche parte nella testa, una quantità di materiale narrativo che non sapevo come tirare fuori e porre in forma. Quindi ho cominciato a vuotare questo sacco piano piano, a costruire, a verificare la possibilità di una forma per renderlo leggibile. Però se mi si chiede una definizione, l’unica definizione che posso dare è questa: è una vuotata di sacco. Chi è Ivo Bradani e qual è il suo rapporto con la società e la «vita in tempo di pace»? Ivo Brandani ha vissuto tutta la vita in una condizione di non guerra, nel senso che lo Stato non gli ha mai chiesto di andare a combattere, come è successo a quasi tutte le generazioni precedenti, ma gli ha consentito di starsene tranquillo a casa sua e di vivere la propria esistenza. Questa esistenza, tuttavia, si è svolta in un tempo di guerra ufficiosa molto più spietata, una competizione molto difficile da sostenere, che per essere affrontata richiede una certa attrezzatura, ed è esattamente la cosa che Ivo Brandani non possiede. Per tutta la vita Ivo ha la sensazione di non conoscersi, la convinzione che la mancanza di un’esperienza estrema come può essere la guerra – l’agire della modalità vita/morte che è tipico della guerra – gli abbia sottratto una parte della conoscenza di sé. Non sa come si comporterebbe in certe situazioni, e invece vorrebbe saperlo, perché nei momenti in cui gli è accaduto di mettersi alla prova, come, per esempio, durante la contestazione del ‘68, è fuggito, si è comportato vilmente, e questa cosa gli brucia. L’idea di Ivo è che questo tempo di pace ci ha dato senz’altro tantissime cose: siamo protetti, abbiamo da mangiare, abbiamo di che curarci, ma di contro c’è la necessità di doverci difendere da aggressioni continue e striscianti, più o meno violente, questa sorta di oblio prodotto dal galleggiare per tutta la vita in uno stato di pace. Inoltre l’accelerazione del progresso tecnologico diventa progressivamente più forte ed è anch’essa una cosa che rende difficile il vivere, sia nei rapporti con gli altri, che con gli oggetti e le macchine. speciale premio strega 2014

Ricorre spesso, nel testo, la locuzione/comparazione “come loro”. Innanzitutto, chi sono “loro”? E che cosa significa essere o non voler essere “come loro”? È la forma mentis che Ivo si è fatto nel ‘67/68, quando la sua generazione incominciò a opporsi in maniera aperta alla democrazia autoritaria che c’era allora, con l’idea di non aderire ai modelli dei padri e di costruire una società diversa. Naturalmente la maggior parte dei suoi coetanei aveva comunque aderito ai modelli dominanti, avevano scelto di stare sull’altro versante, erano già parte del sistema. Mentre Ivo, proprio perché ha partecipato al movimento e vissuto la contestazione, crede, si illude di poter essere diverso, di poter vivere un’esistenza discorde, e di mantenere una sua presunta integrità. Cosa resterà, a sua personale opinione, della letteratura «del tempo di pace»? Io ho una formazione da architetto. Quando progettavo un edificio sapevo esattamente che cosa stavo facendo, sapevo esattamente dove, dal punto di vista stilistico, un mio progetto si sarebbe collocato, cioè che tipo di risposte dava alla disciplina in quel particolare momento, perché ero in costante aggiornamento. Ma non ho una formazione letteraria altrettanto accurata, la letteratura non la conosco in maniera sistematica, ma piuttosto come lettore. Non tocca dunque a me stabilire cosa resterà della letteratura di questi anni, è una questione che lascio a chi fa questo tipo di lavoro, ai critici e agli storiografi di formazione e mestiere. Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014? Aspetterò di vedere come non ho vinto, in quale posizione di non-vittoria sarò collocato dalla giuria. SUL

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Francesco Piccolo,

Il desiderio di essere come tutti di Enza A. Moscaritolo

La genesi di Il desiderio di essere come tutti, edito da Einaudi, è partita dall’esigenza di raccontare la sua storia o è stata sollecitata dall’approssimarsi del trentesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer, per il quale sentiva di dover dare una testimonianza? Il discorso dell’anniversario è stato quasi del tutto casuale, anche perché ho iniziato a scrivere materialmente questo libro cinque anni fa, raccogliendo dati e appunti che ho scritto nel corso degli anni. Questo è un libro che ho dentro da un po’. Ero del tutto inconsapevole della coincidenza dell’anniversario e solo quando è uscito a ottobre ho realizzato che si sarebbe avvicinato questo appuntamento così importante. Solo gli articoli si possono scrivere in concomitanza degli anniversari, ben più difficile per un romanzo sul quale si lavora per anni. Posso dire che una delle grandi spinte a questo romanzo è stata l’idea di voler raccontare Berlinguer, l’importanza di Berlinguer nella mia vita e l’importanza del suo funerale nella mia vita e così come la mia mancata presenza. Dal punto di vista oggettivo, può sembrare qualcosa di assolutamente trascurabile, ma dal punto di vista soggettivo è qualcosa di epocale. Ognuno di noi deve fare i conti con alcune scelte nella vita che sembrano piccole e casuali, ma che poi ti condizionano per sempre perché sono simboli di passaggio nella formazione di una persona.

Francesco Piccolo – Nato a Caserta nel 1964, è uno dei più importanti sceneggiatori italiani. Ha collaborato con Paolo Virzì (My name is Tanino, La prima cosa bella, Capitale umano), Nanni Moretti (Il caimano), Silvio Soldini (Agata e la tempesta, Giorni e nuvole) e Antonello Grimaldi (Caos calmo). Ha esordito nel 1990 con Pensiero inverso: racconti (Ripostes). Tra le sue più recenti pubblicazioni: La separazione del maschio (2008) e Momenti di trascurabile felicità (2010), entrambi editi da Einaudi.

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Il suo romanzo è un continuo andirivieni tra la dimensione soggettiva e quella collettiva sociale, in un’epoca in cui quest’ultima aveva ancora un ruolo molto importante. Secondo lei, oggi prevale la ricerca di un mero spirito di emulazione o una soggettività sempre più spinta? Ogni periodo storico ha i suoi miti e i suoi modelli, la sua mitologia e il suo modo di stare al mondo. In fondo il libro punta a eliminare quell’idea per cui in passato fosse tutto migliore. Quello che abbiamo oggi sembra poco, ma in verità anche allora quello che avevamo ci sembrava poco. È sempre a speciale premio strega 2014


posteriori che le cose si comprendono meglio. Sono convinto che uno scrittore che voglia occuparsi della società di oggi ha a disposizione tutto il materiale possibile, tanto quanto poteva averne un suo collega venti o trenta anni fa. Quale consapevolezza ha maturato all’età di dieci anni mentre vedeva la partita di calcio dei mondiali Germania Ovest contro Germania Est? Anche quello è un passaggio importante per la sua storia personale, così come viene raccontato nel libro… La voglia di ribellarsi allo schema che ci era imposto. Il modello prevedeva che le persone che erano dalla parte nostra erano quelle giuste, quelle ci assomigliavano. Questo ragazzino, mentre assiste a una partita di calcio, nutre un’innata simpatia per le persone diverse, lontane, povere, deboli, fragili. In fondo, se ci pensiamo, è l’idea semplificatoria fondante alla base del comunismo, cui successivamente ho realizzato di aderire sin da quel momento. Ma quell’episodio ha rappresentato la prima significativa testimonianza in quella direzione. Il suo romanzo è una testimonianza preziosa per chi non ha vissuto gli anni SettantaOttanta e così può ricostruire un pezzo della storia d’Italia degli ultimi decenni. Che riscontro ha percepito andando in giro per l’Italia durante le presentazioni, soprattutto nei più giovani? È stato bello vedere i ragazzi che hanno scoperto alcuni momenti della storia recente dell’Italia attraverso una storia soggettiva. La cosa che ho percepito più spesso, con piacere naturalmente, è scoprire che i giovani, dopo aver letto il libro, hanno avviato un confronto con i genitori, un dialogo sui fatti e sugli eventi dell’epoca. Dunque, una sorta di coronamento e di naturale prosecuzione del concetto di etica della responsabilità che ricorre spesso nel romanzo… In fondo, sì certo, si riallaccia a quel tema, ma anche al desiderio profondo di voler avere a che fare proprio con tutti, anche con quelle persone che non conosci o che non riconosci come quelle che hanno vissuto la tua generazione. Una delle caratteristiche del suo romanzo è una leggerezza, non fine a se stessa, piuttosto una levità. Come è riuscito a mantenerla nello stile e nella narrazione, pur parlando della sua storia personale? A prescindere da quello che sarà il risultato tra qualche giorno, questo libro ha come punto di partenza un tesoro che è la vita. E non capita spesso nella vita di uno scrittore di poter scrivere un libro di questo speciale premio strega 2014

genere. Io non ho studiato ex novo una materia che non conoscevo per trasferirla nel romanzo. Ho attinto a qualcosa che conoscevo bene e che, certo, ho dovuto rielaborare, approfondire, mettere a confronto, ma la base di partenza c’era ed era ottimale. Per questo lo amo molto e mi piacerebbe ancora scrivere questo libro, in altri modi e con altri temi. Una levità che il lettore percepisce per via di un’identificazione? Sì certo, ma non solo con la mia vita, anche con la politica. Che cosa c’è di attuale ancora oggi nel messaggio di Berlinguer? Quello che ho scritto nel libro e quello che penso è che si continua a dare risalto ai suoi pensieri, ad alcune profezie importantissime, come la questione morale, mentre si mette da parte il riformismo e il compromesso storico che forse stiamo vivendo proprio in questa fase nel nostro Paese. Si tratta dell’ultima strategia politica importante in Italia, dopo non ce ne sono state più, che ha portato ad un’idea di riformismo che fino ad allora il partito comunista non aveva e che invece Berlinguer provava a perseguire con tutte le forze per andare al governo e provare a cambiare il Paese. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Strega 2014? Sapevo che la casa editrice aveva intenzione di candidare il mio libro, e quando mi è stata confermata, sono stato contento. Per fortuna non è una partita di calcio che dobbiamo giocare. Abbiamo già giocato la nostra partita tutti e cinque quando abbiamo scritto il libro. Ora tocca agli altri giudicarli, vagliarli. Per quanto riguarda me, non mi preparo in maniera particolare. SUL

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Antonio Scurati,

Il padre infedele di Morgan Palmas

Il padre infedele, edito da Bompiani, pone al centro della narrazione un trittico familiare: il padre, la madre e la figlia. Ancora oggi, la famiglia può rappresentare il nucleo tematico per narrazioni della contemporaneità? Mai come oggi, direi. Proprio perché viviamo un passaggio storico nel quale la famiglia tradizionale si va definitivamente dissolvendo e si rende necessario sperimentare, su di un piano dove non c’è che l’uomo, nuove forme, inaudite, di famiglia, la letteratura è chiamata a partecipare a questo esperimento umano. Il mio romanzo esplora, però, in particolare la nuova condizione di paternità come nuova condizione umana. Gestazione, parto, nutrizione, vestizione, dormizione dei figli sono, credo per la prima volta, narrati da un punto di vista integralmente ed esclusivamente maschile che non finge l’immedesimazione in un personaggio femminile come faceva in passato lo scrittore maschio quando voleva affrontare questi temi. Non esiste tradizione letteraria per questo tipo di racconto perché non esiste storia sociale. Anche nel passato recente la società confinava queste esperienze alla condizione femminile e dunque le narrava da un punto di vista femminile.

Antonio Scurati – Nato a Napoli nel 1969, è ricercatore e docente nell'ambito del Laboratorio di Scrittura Creativa e del Laboratorio di Oralità e Retorica presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. Ha esordito nel 2002 con Il rumore sordo della battaglia (Bompiani) e, nel 2005, ha vinto il Premio Campiello con Il sopravvissuto. Ha inoltre pubblicato Il bambino che sognava la fine del mondo e La seconda mezzanotte, editi entrambi da Bompiani, rispettivamente nel 2009 e nel 2011.

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Mi permetta un gioco un po’ azzardato: nella mitologia classica, Glauco è figlio di Poseidone, dio del mare e dei terremoti, detentore quindi di un senso di libertà molto forte e di un potere che può sconvolgere l’ordine costituito, e di una delle Naiadi, protettrici delle acque dolci e con facoltà guaritrici e profetiche. Si può ricorrere al principio del “nomen omen” nel caso di Glauco, protagonista de Il padre infedele? speciale premio strega 2014


Il suo è un azzardo molto raffinato sul quale rifletterò. Il principio dello “omen nomen” vale anche nel mio caso ma il mio Glauco è l’eroe omerico che assalta il muro degli achei e al quale Sarpedonte rivolge le parole più memorabili e remote di tutta l’Iliade (per l’orecchio contemporaneo, s’intende). È il mio eroe omerico preferito e con questa scelta volevo sottolineare il paradosso per cui il divenire padre, ciò che fino alla generazione dei nostri padri era considerato il passaggio più naturale verso la condizione adulta, è oggi divenuto per noi, padri rari, tardivi, quasi un atto eroico. Ridicolo no? Uno dei principi che anima il Johannes de Il diario di un seduttore di Kierkegaard è «bisogna sempre studiare, prepararsi, tutto dev’essere predisposto», una continua attenzione verso se stessi per essere pronti al controllo sulle situazioni. In alcuni passaggi delle riflessioni/analisi di Glauco Revelli mi sembra potrebbe emergere una propensione in questa direzione. Ha scelto la forma diaristica perché maggiormente in grado di proporre al lettore questa focalizzazione su di sé? Lei cita un libro a me molto caro. Il padre infedele potrebbe essere in effetti definito “il diario di un padre seduttore”, un maschio adulto che vive nella maniera più radicale la scissione tra condizione paterna e maschile, tra uomo virile responsabile e maschio animale inseminatore. In un primo momento avevo pensato di intitolarlo Confessioni di un padre infedele. Ma al centro del libro non c’è la focalizzazione su di sé. C’è, all’opposto, la narrazione dell’unico “evento” che nelle nostre vite egotistiche si dimostra in grado di proiettarci fuori di noi stessi, di strapparci al culto decadente del sé: la nascita di un figlio, se quella nascita fa nascere in noi il padre (non è sufficiente, ovviamente, la paternità biologica per questo). La vita di Revelli oscilla come un pendolo tra la dimensione del piacere, rappresentata dal suo cedere (nel mondo onirico?) alle pulsioni erotiche, e quella della responsabilità, rappresentata dalla paternità e dal rapporto con la figlia. Si può ravvisare un riferimento a Schopenhauer? speciale premio strega 2014

La linea Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, con i loro eredi novecenteschi, è stata centrale nella mia formazione filosofica. Ma noi viviamo un dissidio tragico tra eros e pietas paterna ancora più radicale di quello annunciato da quei grandi pensatori ottocenteschi perché il Novecento ha spostato l’intera posta della sua residua metafisica dall’eros al sesso. Dalla cosiddetta “rivoluzione sessuale” in poi abbiamo coltivato attese spropositate, quasi palingenetiche, nei confronti del sesso quale possibile fonte di rivelazione di un senso della vita. Oggi viviamo nella grande delusione suscitata da quella grande illusione. Il mio romanzo si sforza di narrare anche questo. Prima accennavo al tema del senso della responsabilità che nel romanzo è soprattutto di natura pedagogica, legata al rapporto padre-figlia. Ritiene che sia un valore da recuperare o una dimensione critica dell’esistenza umana con cui necessariamente bisogna fare i conti? Buona parte della mia intera produzione letteraria ruota attorno al tema della pedagogia. È forse il più grande rimosso della attuale cultura occidentale. Siamo forse la prima generazione dopo secoli e millenni che sembra aver rinunciato all’educazione dei fanciulli (e delle fanciulle) quale scopo primario della società da affrontarsi collettivamente, attraverso una grande impresa culturale condivisa. Rimangono, nella famiglia come nella scuola, singoli individui che si battono solitariamente su questo fronte perduto. Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014? Ho portato in tintoria una vecchia camicia bianca che da anni prendeva polvere nel cassetto. SUL

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