Illustrazione di copertina di Silvana Battistello.
Webzine – Anno 3, n° 5 Ottobre 2013
La gioia dell'incontro Con Con un un racconto racconto inedito inedito di di
Eduard Limonov
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n° 5 • Ottobre 2013
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Editoriale di Morgan Palmas
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Lando e Zora di Marco Giacosa
L e t t e r at u r a
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I (rin)tracciati, L’epica dei reietti: Il pianeta irritabile di Paolo Volponi di Alessandro Puglisi
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Il nostos mancato in Horcynus Orca di D'Arrigo di Michela Matani
20 27 30 34 40 45 48
Voglia di protagonismo, Stoppard vs. Tabucchi: una partita a tennis con le parole di Pierfrancesco Matarazzo Racconti contro la precarietà, Atari di Gianni Contarino Ben volria mon cavallier…: le trobairitz e l’altro volto della fin’amor di Sara Minervini La mia editor americana di Eduard Limonov Le guerre mondiali di H. G.Wells di Stefano Trucco L’ironia nella letteratura romena di Irina Turcanu Alle origini del Food writing di Rossella Di Bidino
L e t t e r at u r a
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per ragazzi
La nuova frontiera della Philosophy for Children di Enza A. Moscaritolo Mamma, mi leggi?, Classici? Per ragazzi? di Stefano Verziaggi
pag. 30
pag. 48
pag. 40
Linguistica
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Etimologia popolare e cambiamento linguistico, gli errori che fanno la storia di Michele Rainone
E d i to r i a
67
Lo yin-yang del self-publisher di Valentina Malcotti
A rt e
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La questione artistica e il ruolo pubblico di Lavinia Palmas
Contemporaneità
pag. 82 pag. 72
Sul Romanzo
79
Il Meridione irrisolto, Il Meridione isolato: Trenitalia taglia fuori il Sud di Valentina Ferri e Leonardo Palmisano
82
Il Brasile visto da un italiano di Marcello Sacco
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L’istruzione ci salverà dalla crisi economica: parola del Premio Nobel Amartya Sen di Enza A. Moscaritolo
90
La seduzione dell’ergonomia di Francesco Zingoni
n° 5 • Ottobre 2013
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Webzine – Anno 3, n° 5
Direttore Morgan Palmas Caporedattore Gerardo Perrotta Redattori Daniele Duso Leonardo Palmisano Alessandro Puglisi Stefano Verziaggi Art Director Daniele Vignato
Ottobre 2013
Hanno collaborato a questo numero Gianni Contarino, Rossella Di Bidino, Valentina Ferri, Marco Giacosa, Valentina Malcotti, Michela Matani, Pierfrancesco Matarazzo, Sara Minervini, Enza A. Moscaritolo, Lavinia Palmas, Leonardo Palmisano, Francesco Peri, Alessandro Puglisi, Michele Rainone, Marcello Sacco, Irina Turcanu, Stefano Verziaggi, Francesco Zingoni.
Si ringraziano Maria Elisa Avagnina, Alberto Riva e Maura Striano, per le interviste concesse. Carlo Scortegagna, Web master. Davide Corona, per la rappresentazione fotografica del quadro Pinocchio.
Illustratrice Silvana Battistello
Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it
Nella pagina a fianco:
Mostro molle in un paesaggio angelico, Salvador Dalì. 1977. Musei Vaticani, Città del Vaticano.
Note legali “Sul Romanzo – Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può, dunque, essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche, si invita a contattare la Redazione (webzine@sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.
Sul Romanzo
n° 5 • Ottobre 2013
L’editoriale di Morgan Palmas
La cultura, anche quando diventa strumento di polemica o di contrasto, rimane pur sempre luogo d’incontro, inteso come il mezzo attraverso il quale si può concretizzare quella ricerca di condivisione e di riflessione che appare, purtroppo, sempre più antiquata, in un sistema socio-comunicativo che della frammentazione e della rarefazione sembra aver fatto la propria nota caratteristica. La quantità delle interazioni dice davvero qualcosa della nostra capacità di socializzare? Il numero di “mi piaci” è sul serio indicativo della veridicità e sensatezza di quanto abbiamo asserito? Divisi tra Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram, YouTube, ecc., che cosa rimane dello spazio e del tempo necessari per ritrovare se stessi? La connessione sembra essere la nota distintiva della nuova umanità, non più la riflessione. Senza lavoro, anziché ritrovarci nell’otium della riflessione, ci disperdiamo in una miriade di pseudorelazioni che non ci rendono né migliori né meno soli. Se l’uomo resta animale politico, o se aspira a ridiventarlo, il primo passo è recuperare il vero senso della condivisione, che non può e non deve restare ancorato ai principi dei social network, padri di una comunicazione orientata verso reazioni condizionate, compassioni momentanee e partecipazioni talvolta disumanizzate, che simulano l’incontro, dove tutt’al più c’è uno sfiorarsi di digitazioni, una corsa alla petizione di pancia, che quasi mai risolve, ma semplicemente assolve la propria coscienza, autocompiacendola. È necessario, dunque, ripensare l’incontro, ristrutturarlo secondo parametri e strumenti nuovi
che non possono essere ignorati, ma non debbono diventare ponti di condizionamento emotivo e affettivo. Socializzare non è postare, dialogare non è commentare, incontrarsi non è solo creare un evento. È, ormai, anche questo, ma il riduzionismo post-tecnologico a cui sembriamo destinati ha incrementato le distanze proprio nel momento in cui ci ha dato strumenti che ci illudono di una vicinanza, che nasce e resta virtuale. Che sia necessaria una nuova “educazione morale”, come ritiene la professoressa Maura Striano, ordinario di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Napoli Federico II, che abbiamo intervistato in questo nuovo numero? Che sia indispensabile riporre al centro del dibattito il valore dell’istruzione e della formazione, come ha ribadito Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia, che abbiamo incontrato a Lucca? Ci sembra di poter rispondere positivamente a entrambe le provocazioni. L’incontro presuppone la comprensione, la quale, a sua volta, non può accadere senza conoscenza e senza morale, perché incontrarsi vuol dire aprirsi all’altro per ritornare a sé arricchiti dall’alterità. È per questo che l’incontro, come scelta di vita prima ancora che tecnica di comportamento, è foriero di gioia, di quella fresca sensazione di appagamento, che molto somiglia alla serenità, pur conservando i turbamenti figli della riflessione. E cosa se non la cultura, o meglio sarebbe dire le culture, può rappresentare più da vicino la gioia dell’incontro? Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it
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Lando e Zora
di Marco Giacosa
«Papà, cosa sono Lando e Zora?» Quando un figlio domanda qualcosa al padre, significa che Wikipedia non è aggiornata. Tuttavia no, il padre non conosce Lando e Zora, anche se li ha sentiti nominare e sa che cosa sono stati; è perplesso e non cede all’istinto di chiedere con fare indagatorio: «Chi ti ha parlato di Lando e Zora?». Il figlio ha dodici anni. All’inizio, c’è una partita di calcio. Quando ha dieci anni e ritorna a casa dall’esibizione di fine anno (sono ancora “pulcini”, il campo è piccolo, l’arbitro lo fa un genitore, non c’è un campionato vero e proprio), siede sul tappeto della sua stanza e si ritrova con il pisello duro. Lo tocca, lo solletica. Scopre che muovendo la pelle – come si chiama? Cos’è questa roba? – su e giù verso la punta, be’… va in bagno, si chiude. Siede sul water, allunga la schiena, incomincia il movimento deciso, stringe forte, su e giù. Esplode silenzioso nel primo orgasmo della sua vita. Non ha bene idea di cosa sia successo, è in estasi e c’è da immaginare la faccia con cui sua madre, pochi minuti dopo, lo ha ritrovato disteso sul tappeto. Il sorriso beato, lo sguardo da idiota. La prima sega. L’istinto alla sega successiva arrivava dalla visione di immagini di donne nude nel compimento di un atto sessuale. «Te le fai le seghe?», chiedevano a scuola i ragazzini gli uni agli altri, la maggior parte con il ghigno. Le donne nude nel compimento di un atto sessuale apparvero in un frigorifero. A quel tempo, uno zio aveva affittato un piccolo capannone nel cortile della sua cascina a un’officina meccanica e per i meccanici aveva costruito un cesso raffazzonato con i pezzi di scarto della costruzione di cessi precedenti suoi e dei famigliari prossimi. Ci aveva messo anche un frigorifero, nel bagno accanto al capannone, così che i meccanici ci tenessero le birre o la coca cola. E i giornali porno. «Zio, vado in bagno», diceva quando passava l’estate in cascina; solo che non ci usciva più, dacché aveva trovato, cercando un bicchiere di Estathè, il regno del suo dio.
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Sul Romanzo
«Le Ore», «Playboy»: giornali che costavano un mucchio di soldi (non se li sarebbe mai potuti permettere con la paghetta settimanale), pieni di foto di donne bellissime con le tette enormi e le gambe da modella, lo smalto sulle unghie e una serie di piselloni giganti infilati ovunque. Lo zio andava a chiamarlo: «Franco, ci sei? Sei lì?», e Franco taceva, poi diceva: «Sì, ci sono», a voce bassa, vergognato, aveva capito che lo zio aveva capito che lì dentro s’infilava per farsi le seghe. Chissà se anche lo zio si faceva le seghe con i giornaletti porno dei meccanici. Se davvero erano dei meccanici e non suoi. «No, non me le faccio le seghe», rispondeva ai compagni di classe, un po’ ingrugnito. Un mattino venne preso in mezzo a due grandi: un ragazzo di terza e una ragazza di seconda. Quella di seconda aveva già le tette, era bellissima e tutti dicevano se la facesse con quelli molto più grandi, anche di diciotto o vent’anni. Quel mattino dissero: «Vieni con noi?». Franco li seguì, prima della scuola, appena scesi dal bus, in una piccola via del centro, nascosti. Loro, i due grandi, si accesero una sigaretta. Franco li osservava, finché il ragazzo di terza tirò fuori dal portafogli un’immagine a colori. «Cos’è?», chiese. La ragazza sorrise. «Mmm…», bofonchiò Franco. «Un occhio?!», disse il grande scoppiando a ridere, trainando nella risata scomposta la ragazza con le tette. «Può…, può… essere», rispose sottovoce, schiacciato dalla presa in giro. «Tu non hai mai visto una figa!», e non era vero perché Franco la figa l’aveva già vista, soltanto non così, una fotografia ritagliata per accogliere un primissimo piano, un riquadro in cui i contorni erano le grandi labbra (lo sa, suo figlio, che cosa sono le grandi labbra? Forse anziché raccontargli questa storia dovrebbe parlargli di anatomia), in cui il nucleo dell’immagine era in effetti vagamente assimilabile alla forma dell’occhio – un occhio senza pupilla, dai colori roseorossastri.
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Quando passò ai “giovanissimi”, c’era il motorino e i genitori soltanto il sabato pomeriggio, e non sempre, per le partite. Gli allenamenti erano in uno sgangherato campetto di periferia, di quelli aperti a tutti; più tardi, sarebbero venuti l’associazione sportiva, le recinzioni e il custode, ma a quei tempi chiunque volesse poteva entrare nel campo e dare due calci al pallone. Entrare nel campo o anche soltanto negli spogliatoi. Qui, molti lasciavano i giornaletti dagli stessi titoli di quelli che i meccanici avevano trasferito dal frigorifero (lo zio aveva parlato? Si era lamentato per le seghe del nipote? O era stato lo zio stesso a levarli di mezzo, a depositarli altrove? Che la zia avesse beccato lo zio chiuso nel bagno dei meccanici?), e i ragazzini li trovavano. Quando ne trovavano uno, all’inizio c’era la gara a chi dovesse sfogliarlo per primo. Chi lo sfogliava per primo, tuttavia, andava incontro a due inconvenienti: avere tutti gli altri attorno che spingevano e lottavano per guardare per primi le donne nude in mezzo ai cazzi; ma soprattutto le pagine appiccicate l’una all’altra, e fin dall’inizio non ci voleva uno scienziato per capire perché fossero attaccate, e la cosa faceva un po’ schifo. Negli spogliatoi di quei campetti, quando si trovava un giornaletto porno era una festa.
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Per questo motivo, dopo parecchie settimane senza che nessuno dei grandi avesse abbandonato nello spogliatoio del campo di calcio alcun giornaletto porno, decisero di rubarne uno. Franco, Angelo e Silvano. La compagnia di quelli che abitavano gli stessi isolati, che si passavano a chiamare per fare corteo verso l’oratorio dove un pomeriggio la settimana c’era il catechismo. Studiarono il piano di battaglia, bersaglio il piccolo negozio tabacchi-edicola-cartoleria proprio accanto alla parrocchia, obiettivo un giornale porno. Il piano era questo: avrebbero atteso un momento in cui non ci fosse stato nessuno, poi Angelo avrebbe chiesto di vedere delle cartelline rosse portadocumenti, avrebbe fatto tirar fuori all’edicolante parecchia mercanzia per poi comperare niente; Franco, di un metro fuori dal negozio, avrebbe fatto il palo, avvertendo con il messaggio in codice «Don Luigi ci chiama» l’arrivo di altre persone; Silvano, il più sveglio, dall’angolo dietro la porta d’ingresso in cui erano parzialmente occultati, avrebbe furtivamente infilato nello zaino il primo giornalino gli fosse capitato a tiro. A missione ultimata nascosero il giornale nelle pedane di un cantiere lì accanto, andarono al catechismo, dopodiché ripresero il bottino e si trasferirono negli spogliatoi del campo da calcio. Era il loro giornaletto porno, loro e soltanto loro, se l’erano sudato, nessuno lottava per vedere, per immagazzinare quelle immagini da tirar fuori poco dopo nel bagno di casa. Era una festa. (Dovrebbe dirlo, a questo punto, Franco, che quel pomeriggio, poi, chiamò il padre in ufficio dicendo alla segretaria che era urgente, di disturbare il padre in riunione, per confessare la colpa vergognosa di avere non soltanto rubato, ma rubato un giornale porno?). Alla gita di quinta ginnasio, la classe andò a Milano. Dopo l’arte e i monumenti, gli insegnanti lasciarono liberi i ragazzi per il centro. Franco aveva due amici: Flavio era altissimo (a quindici anni era già oltre l’1 e 90) e aveva, primo tra tutti, un briciolo di barba; Michele passava, invece, del tutto inosservato. Adesso due lire nel portafogli c’erano, gli spogliatoi erano stati smantellati e al campo di calcio c’erano i lavori in corso per la ricostruzione di quel complesso sportivo di periferia (erano i fondi per Italia ‘90, si diceva, che consentivano ai centri minori di rifare gli impianti), per cui il giornale
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Sul Romanzo
decisero di comperarlo. Altro piano di battaglia: edicola sottoterra alla fermata della metro, Franco avrebbe distratto l’edicolante chiedendo indicazioni stradali (tanto più difficili e lunghe, tanto meglio); Michele, che passava inosservato, avrebbe scelto il titolo; Flavio, che dimostrava diciannove anni, avrebbe pagato. Qualcosa, però, stavolta andò storto. Franco chiese all’edicolante: «Mi scusi signora, per piazza del Duomo?» L’edicolante rispose: «Piazza del Duomo?! Qui è piazza del Duomo. Salite su», e indicò le scale. Fine. Durata del dialogo: otto secondi. A quel punto Michele non ebbe tempo e prese il primo giornale che gli capitò, lo passò a Flavio. La signora vide il giornale, guardò Flavio, chiese: «Li hai diciott’anni?». «Sì», rispose deciso. «Bene. Sono diciottomila lire». Flavio si girò verso Michele e lo fulminò, mise mano alle banconote e salutò, vedendo esaurita la scorta settimanale di soldi. Diciottomila lire, capirono, perché era un porno tedesco in lingua originale, in sostanza costava il triplo. Ci fu una litigata che l’incombenza di leggere il porno rese brevissima, i tre salirono e finirono in Duomo, negli ultimi banchi, isolati in mezzo ai turisti, a sfogliare le pagine. E più tardi a parco Sempione. Era una festa. «Allora papà, che cosa sono Lando e Zora?» Gli istanti in attesa, sguardo fisso nel vuoto, devono essere stati lunghissimi. Raccontarla tutta, questa storia, la storia di Franco e del primo porno, adesso? Il bambino ha dodici anni, forse è troppo presto. O no? Davvero può non aver mai navigato su YouPorn? Cede al chiedere indagatorio, più per prendere tempo che per reale convinzione. «A te chi ha parlato di Lando e Zora?» «All’allenamento, il custode. Dice che quando era giovane, trent’anni fa, i campi non erano così. C’erano spogliatoi di lamiera, aperti a tutti, e la gente ci lasciava Lando e Zora». È raro che un figlio chieda al padre di raccontare qualcosa che non si trova su Internet. È tentato di parlare, di raccontare. Che Zora è l’abbreviativo di Zora la Vampira, per dire, e altre cose così.
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Letteratura
La Vergine che legge (part.), Vittore Carpaccio, 1505-1510. National Gallery of Art, Londra (UK).
La liseuse (part.), Pierre-Auguste Renoir, 1874-1876. Musée d'Orsay, Parigi (FR).
Sul Romanzo
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I (rin)tracciati
L’epica dei reietti: Il pianeta irritabile di Paolo Volponi
Nella pagina a fianco – Quattro figure sotto la pioggia, Kees Van Dongen, 1902-1904. Sotto – Ritratto fotografico di Paolo Volponi.
di Alessandro Puglisi Esiste, nella storia recente della letteratura italiana, un momento in cui sono venute a confliggere e confrontarsi, in un groviglio terribile e miracoloso, numerose istanze concorrenti e complementari. Facciamo riferimento agli anni Settanta, in cui, già smaltita la sbornia iniziale da miracolo economico, si cominciava a fare i conti con i babyboomer ormai cresciuti, con compromessi a destra e a manca, responsabilità nazionale, sopravvivenza (oggi diremmo agibilità, forse). In questa temperie sono nati ed emersi, anche se a corrente alternata e con fortune diseguali, numerosi testi, di cui ci siamo in parte occupati in puntate precedenti di questa stessa rubrica. Un romanzo, targato 1978 e tra i più esemplificativi, pur appartenendo a un genere non naturalistico, o forse proprio grazie a questo, è Il pianeta irritabile di Paolo Volponi. Lo scrittore urbinate conosceva certo gli snodi dell’industria italiana e altrettanto la promozione culturale irrefrenabile e quasi tumultuosa che veniva propugnata da aziende come l’Olivetti. Non sarà inutile ricordare l'esperienza di uno scrittore e intellettuale come Ottiero Ottieri, con tutta probabilità insuperato cronista della "letteratura di lavoro" nel nostro Paese. Volponi, dunque, sarebbe stato, in teoria, uno scrittore dal difficile accesso a un genere come la fantascienza, tanto anti-naturalistico quanto crogiolo di invettive, apodittico per un verso, come problematico, introspettivo, speculativo per un altro. Del resto, testi come Memoriale, La macchina mondiale, Corporale, vagavano decisamente per altri lidi. 10
Sul Romanzo
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Letteratura
Il pianeta irritabile si apre, invece, con un incipit che non dona scampo e lascia pochi dubbi: «Piove a dirotto da sempre, senza interruzioni né rallentamenti». In un ambiente palesemente stravolto, subiamo un'improvvisa immersione in un mondo altro, oltre la fine, segnato, andato irrimediabilmente in macerie. Il primo sintomo di questa "eversione geografica", come potremmo chiamarla, è lo sfasamento tra il mondo sensibile e le sue caratteristiche, il modo con cui si presenta agli stralunati osservatori dei quali seguiremo le vicissitudini. In questo futuro, lontano ma forse neanche troppo, e in questo mondo, in cui da qualche parte si può godere della «visione dei ruderi affioranti della millenaria città del Vaticano», oppure di felci che hanno «tronchi dello spessore di una gamba», un quartetto improbabile, da circo (letteralmente), costituito da un nano, Zuppa, un babbuino, Epistola, un elefante, Roboamo, e un'oca, Plan Calcule, attraversa, scalcinato, intemperie imponderabili e improvvise insidie. Romanzo di viaggio, dunque, almeno in apparenza; in realtà, ben più profondo e mefistofelico requiem alla Terra. Giacché, in senso stretto, succede poco, ne Il pianeta irritabile, ma la materia narrata è densissima, quasi inestricabile a tratti, e si alternano avanzamenti rapidissimi, come sulle ali delle parole, ad infossamenti altrettanto straordinari. Il viaggio dei quattro indomiti è riportato per ellissi continue, per selezione e scarnificazione, attraverso episodi salienti in una "traversata" che, se da un lato ricorda la prima Cantica della Commedia dantesca, dall'altro è di continuo stemperata, annullata, virata in farsa mediante l'uso insistito, e quasi jazzistico, della rappresentazione grottesca. In quest'ambito, la centralità è assunta dal personaggio del nano macrocefalo, Zuppa, indimenticabile inetto che non sfigurerebbe in un'ideale galleria assieme, fianco a fianco, a Zeno Cosini, ai Sul Romanzo
vinti de I superflui di Dante Arfelli, al folle protagonista de La distruzione di Dante Virgili, finanche all’“eroe sconfitto” di Esterina di Libero Bigiaretti. Non è irriverente richiamare alla memoria le parole di Fabrizio De Andrè nel brano Un giudice, ispirato alla vicenda di Selah Lively, in cui il grande cantautore si chiede, ma ci chiede «Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura» e riferisce di una «ragazza irriverente» che vuole verificare se i nani davvero siano «i più forniti della virtù meno apparente». In particolare, grande consonanza fra la canzone di De Andrè e il nostro Zuppa sta nella maldicenza che parla dei nani come carogne perché hanno «il cuore troppo troppo vicino al buco del culo». Non appaia come irriverenza, se proprio al deretano ci rifacciamo per tratteggiare, o almeno provare a individuare le caratteristiche salienti del personaggio messo in campo, con straordinaria ironia, da Paolo Volponi. Si dice nel romanzo, infatti: «Il suo tronco era perfetto dal bacino in su, quello tornito e potente di un acrobata, ma poi quella forma s'interrompeva nel collo corto e sottile, che non reggeva il testone enorme, bozzato sulla nuca da altri crani a corona, grossi quasi quanto quello centrale». Un "piccolo" uomo dal destino lavorativo già scritto nella sua conformazione fisica; nel surreale circo di cui fa parte, ha avuto in ventura un ruolo molto poco retributivo, soprattutto in termini esistenziali: «aveva sempre dovuto raccogliere, toccandogli per natura anche la sorte di dovere guardarle da molto vicino, quelle merde: di diversa lettura, consistenza e fattura sull'arena del circo». Si potrebbe dire che tutta la vita di questo contro-eroe sia stata all'insegna delle secrezioni, dell'essudato, ma soprattutto degli escrementi; se pensiamo, per di più, alla particolarissima liaison del nano, in tempi andati, con n° 5 • Ottobre 2013
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una suora di un ospedale religioso in cui era stato ricoverato, una sorta di relazione clandestina che trova compimento grazie a una strategia peculiare, come ci racconta Volponi: «l'unico modo possibile fu quello di lasciare segni nel cesso». All'estremo opposto, in questa sbandata cosmogonia, è collocato il personaggio dell’imitatore del canto di tutti gli uccelli, «un tecnico che aveva lavorato in un grandioso centro elettronico, chiamato Parnasonic». Si noti, dapprima, la sorta di crasi tra la parola "Parnaso" e il notissimo marchio dell'elettronica di consumo. Trattasi di personaggio altamente poetico, una specie di essere umano pieno di speranza, nonostante gli schiaffi interminabili, e a metà strada fra un ascoltatore delle "vite degli altri" e il Lettore di sogni dello splendido La fine del mondo e il paese delle meraviglie di Haruki Murakami. In quest'ultimo caso, com'è ovvio, paragone ex post. La storia dell’imitatore riunisce numerosi suggestioni distopiche e rappresenta una delle tante piccole grandi vicende dentro la storia principale nel Pianeta irritabile, soprattutto se consideriamo che la stessa linea narrativa dominante non è altro che una tranche de vie. Bibliografia minima: Volponi P., Il pianeta irritabile, Torino, Einaudi, 1978. Pischedda B., La grande sera del mondo, Torino, Aragno, 2004.
A nostro modo di vedere, la dialettica, a distanza ma narrativamente piuttosto produttiva, tra nano e imitatore, e poi tra questi e il resto del gruppo, babbuino, elefante e oca, risulta il perno principale dell'impianto narrativo del romanzo, sorretto da una mirabile capacità retorica (sia inteso nell'accezione migliore del termine) e da una tanto sotterranea quanto incorreggibile vena satirica. Non è impropria, poi, l'operazione che compie Bruno Pischedda quando accosta Il pianeta irritabile alla Bibbia, dimostrando una particolare tensione vetero-testamentaria, oltre a una singolare “corrispondenza d’amorosi sensi” con l’Apocalisse. Forse, risiede proprio in questo snodo, in questa vanità della distruzione, l'orizzonte ultimo del romanzo di Volponi, sospeso tra politica e fantasia, fra corruzione dello spazio e ricordo del tempo. Una feroce (e tenerissima) invettiva contro un mondo, quello italiano, ma anche europeo tutto, e statunitense, degli anni di composizione del testo, anch'esso in bilico come tutti i personaggi, e avviato in qualche modo a un disfacimento silenzioso e non visibile a occhio nudo. Ci sia permesso, in linea con tutto quanto detto, di chiudere con un’ulteriore citazione, non particolarmente castigata, forse, ma quasi ferocemente incisiva, troviamo: «[...] lui doveva portar via continuamente la merda, gli sputi, il sudore, i rifiuti, gli stracci [...] soprattutto portar via merda e merda di cavalli, merda di asini, muli, cammelli, dromedari, zebre, elefanti, giraffe! merda di leoni, tigri, pantere, lupi, cani! merda di cani, cani, cani! di milioni di cani che cacavano subito tutti e tutt'insieme sotto la luce dei riflettori e davanti alla bacchetta dell'ammaestratore».
Ritratto fotografico di Paolo Volponi.
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Sul Romanzo
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Letteratura
Il nostos mancato in Horcynus Orca di D'Arrigo di Michela Matani Negli anni che vedono l’Italia uscire dal secondo conflitto mondiale e faticosamente intraprendere il suo percorso di crescita economica e di difficilissima stabilizzazione politica, negli stessi anni che vedono affermarsi progressivamente vari sperimentalismi letterari (vuoi sulla scia della linea lombardo-gaddiana, vuoi nati in seno al postmoderno, vuoi legati al Gruppo ‘63), fu in gestazione un’opera dai caratteri assolutamente originali e oggi pressoché unanimemente riconosciuta come un capolavoro. Un primo assaggio ne diede la rivista «Il Menabò»: nel 1960, pubblicò i primi due capitoli del romanzo – allora titolato I giorni della fera – quando già critici e letterati del calibro di Montale, Zavattini e Vittorini avevano segnalato il valore del progetto. Ne era autore lo scrittore messinese Stefano D’Arrigo. Dopo un accanito ed estenuante lavoro di revisione, l’opera sarebbe stata pubblicata nel 1975 col titolo definitivo Horcynus Orca. I lettori potevano finalmente sfogliare le oltre 1.200 pagine di un’epopea moderna redatta in una lingua altamente sperimentale che, in un panorama complessivamente teso allo scarto rispetto alla norma, spiccava per l’unicità della sua proposta. Credo, tuttavia, che pochi abbiano letto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. La lingua e la mole dell’opera sono stati potenti deterrenti. Pure, basterebbe arrendersi all’impatto certo inizialmente forte della prosa darrighiana e, dopo poche pagine, ci si troverebbe immersi in un mondo fantastico di prepotente personalità. Il romanzo è incentrato sulla figura del giovane ‘Ndrja Cambria, «nocchiero semplice della fu regia Marina»1, che torna da Napoli alla natia Cariddi dopo l’8 settembre del 1943. Il suo viaggio è ricco di incontri e riflessioni, svolti a episodi chiusi, come nei canoni del genere epico, e avrà come esito la morte. Il romanzo racconta, infatti, l’impossibilità del ritorno, di una positiva appartenenza a una comunità, quella comunità che era uno dei cardini dell’epopea classica, insieme alle tradizioni e ai valori di cui era portatrice. Viene, così, recuperato e contemporaneamente negato dall’interno il topos del nostos. Se l’uomo contemporaneo è un perenne esule e isolato, il riutilizzo della nobile tradizione epica ne sottolinea antifrasticamente la condizione, ed è al contempo àncora all’altrimenti disperante hölderliniana perdita dell’unità. Nello stesso temIn alto – Ritratto fotografico di Stefano D’Arrigo. A fianco – La copertina della prima edizione di Horcynus Orca. Sul Romanzo
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Webzine Sul Romanzo
Invito _ a __________ presentare ________ articoli ______ Numero 6/2013 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 6/2013. Gli articoli potranno essere incentrati sul seguente tema:
“Crisi” sembra essere la parola che meglio di tutte descrive il particolare momento storico in cui viviamo: crisi finanziaria, crisi economica, crisi dei valori e della politica, crisi della classe media, solo per citare alcuni degli ambiti che sembrano maggiormente colpiti, o sui quali i dibattiti pubblici si soffermano con più attenzione. Cosa può fare la cultura? Lungi dal volerla ridurre a mezzo di svago e distrazione, il suo compito primario potrebbe essere proprio quello di raccontare la crisi, indagandone le cause e descrivendone le conseguenze. I contributi proposti potranno analizzare varie forme di “racconto della crisi”, con riferimento a diversi ambiti culturali, dalla letteratura alla storia, dalla filosofia alla sociologia, passando attraverso il cinema, la musica, la fotografia, l’arte, ecc.. Gli articoli potranno, altresì, proporre l’analisi di modelli esemplificativi di racconto e rappresentazione della crisi (indipendentemente dal periodo storico di riferimento) o prendere in esame argomenti di portata più ampia, sempre inerenti al tema principale.
Per partecipare, è sufficiente attenersi alle seguenti indicazioni: Prima Fase Entro il 30/10/2013, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: –– essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come font Times New Roman 12; –– riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, luogo e data di nascita, codice fiscale e indirizzo e-mail; –– presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); –– essere inviata a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@ sulromanzo.it. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 10/11/2013, l’autore riceverà un’e-mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 30/11/2013. L’articolo dovrà essere: –– redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; –– in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– inedito; –– inviato all’indirizzo e-mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione della Proposta di Argomento. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail.
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Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti gli articoli ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati in un numero successivo o nel sito internet del Blog www. sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità dell’argomento proposto, si riterranno inammissibili: –– proposte presentate dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– proposte e/o articoli che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– proposte e/o articoli che presentano un possibile conflitto di interessi; –– articoli che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– articoli già editi, indipendentemente dal canale di pubblicazione. Note finali L’invio dell’articolo non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro articoli e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro articolo e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons – Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione dell’articolo pubblicato, successivamente alla sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati eventualmente rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione degli articoli saranno utilizzati esclusivamente per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione di Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it
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po, l’operazione di D’Arrigo si propone, secondo modalità frequenti nel Novecento, la rivisitazione di un genere in modo distaccato, con quell’ironia e quella resa parodiata che dicono, esplicitamente, irriconciliabili due visioni del mondo. Il ritorno di ‘Ndrja è negato non solo dall’esito mortale del suo viaggio, ma anche, più profondamente, dal fatto di trovare cambiati sé e i suoi compaesani, perduta la condivisione di valori creduti eterni, venute meno le naturali prevedibilità e interpretabilità del proprio e dei loro atteggiamenti. Il gesto e la parola non sono più espressione diretta del pensiero, ma lo nascondono o lo mostrano deviato dall’originario. E l’orca – fantastico, mitico monstrum – iperbolicamente simboleggia i mutamenti avvenuti e i conseguenti pericoli in agguato. È significativo, a questo riguardo, che il ritorno di ‘Ndrja coincida con l’arrivo dell’orca sullo Stretto. ‘Ndrja, cioé, arriva con l’orca; è in parte l’orca. «Dovette essere come se per davvero si fosse scambiato di parte [...] ma con un altro se stesso, straniato da lui, da quello di prima, di prima della guerra, con lui marinaio, per esempio, con lui marinaio di quegli anni di guerra»2, si legge. L’orca anzi fa sì che ‘Ndrja prenda coscienza del mutamento catastrofico e innaturale avvenuto in lui e nella sua comunità, e che è necessario affrontare. Come è da affrontare il moltiplicarsi di impasse al ritorno per fatalità derivante da un colpa (o da un insieme di colpe, morali ed etiche, che coinvolgono la Sicilia dell’autore, ma non solo, dato che hanno portato a quella concentrazione di orrori che
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è stato il secondo conflitto mondiale da cui ‘Ndrja cerca invano di tornare). La negazione del nostos si articola, del resto, anche in una pluralità di motivi e scelte narrative. Primo tra tutti, l’impossibilità all’azione. L’immobilità della società italiana e siciliana rende inefficace ogni tentativo di soluzione-evoluzione così che l’epica moderna non è più racconto di vicende e gesta eroiche e memorabili, bensì delle avventure reali e psichiche di un soggetto destinato alla sconfitta. Il passaggio all’azione è transito verso la morte. Le prime due sezioni del romanzo si svolgono di notte, e «la notte è femmina e fa chiacchiere, il giorno è maschio e porta il fatto»3; la terza narra il tentativo di guarigione di ‘Ndrja, esiziale. Del resto, il ritorno del giovane cariddoto non si è, in realtà, mai verificato. In luogo del suo inserimento nella comunità, si narra l’arrivo dell’orca. Coincidenza e sostituzione significanti, se l’orca nel romanzo è simbolo della morte e della guerra. Per cui l’orca è sì antagonista dell’eroe, ma anche suo specchio e alter ego. Non si esce intoccati e incolpevoli dalla guerra, e delle proprie decisioni si deve pagare lo scotto. Persino il padre non riconosce o non vuole riconoscere ‘Ndrja, di cui è, in questo modo, negata l’identità di figlio, di appartenente alla cellula familiare. La colpa che Caitanello gli addebita è di essere Sotto – The shipwreck of the Minotaur, J. M. W. Turner, 1793. Museo Calouste Gulbenkian, Lisbona (P).
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partito per la guerra lasciandolo solo: la guerra non è più quella affrontata con orgoglio e coraggio dalla tradizione epica, ma una guerra sentita, oltreché come dannosa, come estranea alla vita comunitaria. Anche l’incontro con la fidanzata Marosa è posticipato volontariamente da ‘Ndrja. Un po’ di trama: il giovane riesce a sbarcare dalla Calabria in Sicilia grazie al misterioso aiuto di una “femminota”, Ciccina Circé (esplicito richiamo alla classica Circe), molle e liquida come il mare, inconoscibile come un essere di un altro mondo o un simbolo, sorta di traghettatrice acherontea (l’obolo è, in questo caso, l’amore), avvicinata a una figura materna. Sulla spiaggia dove ‘Ndrja e Ciccina Circé hanno appena consumato e la seconda sta preparandosi a varare, arriva donna Rosalia, madre di Marosa. È convinta di aver sentito delle voci di soldati morti che chiedono preghiere; voci di fantasmi. Il giovane è scambiato per un morto. Del resto, è come se venisse da un purgatorio, essendovi fortissime analogie di ambiente tra questo e il paesaggio e gli incontri calabresi. Marosa, nel frattempo, raggiunge la madre, e ‘Ndrja si nasconde. Come ha tradito suo padre, ha tradito Marosa. L’incontro con la ragazzza avverrà successivamente, ma sarà raccontato come ricordo dello stesso. Il ritorno si tinge dei colori dell’irrealtà o, comunque, del già avvenuto. Positivamente, nulla può più avvenire. Tutto è già accaduto (e la colpa non si cancella) o dovrà accadere (per ineluttabile conseguenza). 16
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E dovrà accadere che ‘Ndrja muoia. I miti dell’Ulisse omerico e di Enea (il protagonista di Horcynus Orca voleva rifondare la sua perduta, corrotta Cariddi) si fondono con quello dell’Ulisse dantesco. È impossibile opporsi alla fatale pedita dell’armonia originaria. ‘Ndrja tenta, infatti, di salvare la sua terra col progetto di comprare una palamitara per far riprendere ai cariddoti il loro misero ma dignitoso e tradizionale mestieruzzo di pescatori, ma fallisce. Per ottenere i soldi deve prestarsi a una regata organizzata tra una ciurma messinese, una inglese e una americana. È una regata figlia della guerra, a causa della quale l’integrità originaria è perduta. E quando, durante la prova (non si tratta ancora della regata; nemmeno questa accadrà, accadrà solo la morte), preso dal trasporto, incita i compagni a vogare («ma ‘Ndrja ancora faceva, fece: oooh... oh... poiché andare per lui doveva essere una felicità di quelle alle quali non si resiste perché è come se il cuore scoppiasse in petto e scoppierebbe, solo se si tentasse di soffocare quella ribellione, quei palpiti grossi di gran vita a precipizio»4), non si accorge di superare la linea prescritta (dagli alleati). «‘Ndrja fece per alzare gli occhi alla immensa, allarmante fiancata della portaerei, e fu come se porgesse volontariamente la fronte alla pallottola, che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre»5. Il finale ritrovamento del senso antico della propria vita coincide con la morte (vedi la n° 5 • Ottobre 2013
sintomatica ripresa del verbo “scoppiare”). A essere irraggiungibile non è più l’Ignoto, ma ciò che un tempo era noto; o si è in esilio o si muore. Senonché non è la fine. Tutto muta, nell’universo darrighiano, in un’instancabile dialettica vita-morte. La degradazione dei pescatori, incapaci di opporsi all’orca, ha il suo contrario nella vittoria delle “fere” sulla stessa. Fere che hanno «quella particolarità della coda, una specialità che solo la fera ha in comune con l’orcaferone, chissà per quale mistero, se poi non hanno nient’altro, nemmeno un pelo in comune, anzi è chiarissimo che più diversi di come sono, non si potrebbero immaginare: per non dire altro, basterebbe dire che quella è la Morte e questa, gran campiona vitaiola, il suo contrario»6. I cariddoti si sono trasformati, ma la fera, animale marino archetipo della forza vitale, resiste: «Era passata la guerra, la carneficina, il mare di sangue, quel grande roncisvalloso concentramento di fere oceaniche, l’orcaferone, Morte e fetore antico di carogna, ma le fere erano rimaste; le fere sole»7. E scoderanno l’orca, castrandola, impedendole di fecondare il mondo. Come in un omaggio malinconico a un tempo trascorso e a un’armonia perduta, il romanzo termina col proposito di seppellire ‘Ndrja (rito dovuto). A fianco – Naufragio della flotta di Enea, Agostino Tassi, 1627. Collezione privata. Sotto – Ulisse tra Scilla e Cariddi, Johann Heinrich Füssli, 17941796. Aarau, Aagauer Kunsthaus (DE).
I suoi compagni continuano a vogare per raggiungere Cariddi (solo per ‘Ndrja, l’eroe del romanzo, la linea non era superabile); e come in omaggio al mare-madre-vita, così si conclude: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare»8. La distanza dal passato è rimarcata anche dalla pervasività della metamorfosi, frutto di una percezione della realtà come sempre mutante, instabile, precaria. Così, all’interno di una dialettica di opposti, questi possono cambiare di segno o “prestare”, impensabilmente, qualità proprie a qualcosa di radicalmente diverso da sé. Un personaggio può acquistare tratti o qualità di qualcosa a lui estraneo o contrario. La problematica decifrazione del reale che ne deriva impone al protagonista (e al narratore che ne trascrive le vicende) un mutamento continuo della visione e dell’interpretazione delle cose. Di tutte le cose, anche attraverso la rivelazione di una metamorfosi in atto o avvenuta, viene, però, anche affermata la sostanziale unità; un’unità moderna tuttavia, ben lontana da quella classica. Di certo, esiste un filo che, palese o meno, collega tutto l’esistente. Appare, ad esempio, spesso in modo fulmineo, l’immagine minacciosa dei denti della fera, applicata alle situazioni e ai personaggi più disparati, a indicare il sempre possibile riemergere di un’aggressività, di un rancore, di un violento istinto di sopravvivenza (si tratta qui di un’immagine talmente pregnante da acquistare quasi i caratteri di un leitmotif). Dunque, immagini, parole, attributi si rifrangono come in un caleidoscopio su diversi elementi del romanzo, a rivelare epifanicamente la vera natura degli stessi o una loro modificazione e, insieme, la forte rete di relazioni a essi sottesa. La metamorfosi è indice di una visione del mondo come totalità in continuo divenire, ma anche segno neobarocco dell’inconoscibilità e dell’incessante trasformazione delle cose, cui è possibile avvicinarsi solo per le infinite approssimazioni raccontate dalla proliferante, rigogliosa prosa darrighiana. Horcynus Orca è un canto di nostalgia, nella consapevolezza di un presente tragicamente distante dal mondo mitico, in cui un nostos costruttivo e un’unità circolare erano ancora concepibili.
NOTE: 1 S. D'Arrigo, Horcynus Orca, Milano, Mondadori, 1994, p. 1. 2 Ivi, p. 1132. 3 Ivi, p. 721. 4 Ivi, p. 1256. 5 Ivi, p. 1257. 6 Ivi, p. 751. 7 Ivi, p. 810. 8 Ivi, p. 1258.
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Past to present
Il terzo appuntamento dell’anno è con Ferdinando Camon, che quarant’anni fa raccoglieva, ne Il mestiere di scrittore1, una serie di interviste, definite “conversazioni critiche” nel sottotitolo, con autori del calibro di Moravia, Pratolini, Bassani, Cassola, Pasolini, Volponi, Ottieri, Roversi, Calvino. Il volume presenta, attraverso le voci di alcuni dei più importanti scrittori del secolo scorso, i principali temi della narrativa italiana della seconda metà del Novecento, dal fascismo all’antifascismo, dalla letteratura industriale ai primi sintomi di “disfatta della ragione”. Nell’estratto che segue viene proposta una parte della conversazione con Ottiero Ottieri, pioniere di quella letteratura industriale. All’epoca della conversazione con Camon, siamo nel 1968, Ottieri ha 44 anni; ne sono passati già undici da Tempi stretti, suo secondo romanzo, tra i primi del filone “industriale”, al quale appartiene anche la sua opera più famosa, Donnarumma all’assalto, pubblicato due anni dopo, nel 1959. In entrambi riversa, con uno sguardo “umanistico” ma utilizzando sfaccettature differenti, la sua esperienza all’interno della Olivetti, dove già lavorano Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici e Franco Fortini. Riscoprire quell’esperienza, oggi, potrebbe far bene a un sistema del lavoro che pare aver subito una profonda involuzione e aver perso, in questo regresso, la sua identità, il suo valore aggiunto, la sua dimensione umana.
Pillole di giornalismo, frammenti di letteratura? Invitiamo, con questa rubrica, a riscoprire curiose testimonianze di ieri, libri ormai quasi dimenticati che ci consentono di fare un breve tour spazio-temporale in giro per il mondo e magari capire un po’ meglio la realtà che oggi viviamo.
a cura di Daniele Duso
Ottiero Ottieri2 Ottieri È nel ‘57 che presi a fare concorrenza alla sociologia ed alla economia politica, per reagire allo psicologismo della mia prima esperienza letteraria. Avevo scoperto Marx. La conseguenza fu che non vivevo affatto i problemi della forma e del linguaggio, se non in modo inconsapevole. Ne uscì Tempi stretti, libro sommamente industriale di tipo “naturalistico”. In parole povere, ero talmente preso, travolto, proiettato sui nuovi contenuti che affrontavo, sulla loro oggettività, che in quel libro, notevolmente volontaristico, il che cosa dire assumeva una prevalenza assoluta sul come dire [...]. Il risultato fu un libro per me faticosissimo, lavoratissimo, e scritto con i piedi. (In una seconda edizione ho provato a ripulirlo un poco.) Camon Questo carattere del libro non è forse del tutto imputabile all’argomento, perché in Donnarumma all’assalto i problemi di fabbrica han potuto esser conciliati con le esperienze di novità nel modo e nella tecnica espositivi, e nella scelta del centro di esposizione... Ottieri Di questo non mi rendo tanto conto: Donnarumma l’ho scritto come un diario; anche in esso si continuava ad esercitare la prevalenza del contenuto. In Donnarumma procedevo con spontaneità di gran lunga maggiore, però il libro non è
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altro che la messa in bella copia degli appunti che io venivo stendendo giorno per giorno, e quindi non c’è stato nessuno sforzo costruttivo. [...] Il mio sforzo è stato quello di andare nell’industria più industria possibile. lo sono stato un operaista. lo son venuto a Milano con una laurea in lettere, la mia prima destinazione doveva essere quindi la casa editrice (dove infatti sono stato), il giornale (dove anche sono stato), ma avevo sempre in me questa idea cocciuta, di entrare nell’industria-industria, non solo, ma addirittura di entrare nell’industria metalmeccanica considerandola (era questa un’opinione puerile?) l’industria più industria che ci fosse. I motivi di questo comportamento son diversi. Uno è ideologico: avendo letto Marx e vari autori marxisti, m’ero fatto un’idea che la leadership della situazione industriale era nella “grande serie”, orgia della divisione del lavoro, e la grande serie è tipica dell’industria metalmeccanica. Un altro motivo potrei dirlo antropologico-esplorativo: l’industria, dal di dentro, era il luogo per me più ignorato, e io ho sempre avuto la tendenza, anzi la necessità di stare in tensione esplorativa, Camon Ci dev’essere anche una ragione più profonda alla radice di questo suo comportamento. Fare la pubblicità significa avere accettato tutto: significa mettere le proprie capacità di tecnico della parola ad ornamento e a servizio dell’industria, mentre lei verso l’industria aveva un atteggiamento di osservazione e di critica. Ottieri Assolutamente sì. E poi mi piaceva scrivere ma per conto mio e non su ordinazione. Su ordinazione posso fare altri lavori, ma scrivere no. Almeno fino ad oggi… [...] Camon Nelle sue opere si avverte (non dovrebb’essere una ipotesi soggettiva, timorosa di smentita) un’attenzione sofferente (non quindi neutramente scientifica) ai lamenti e ai gesti con cui l’uomo si adatta a lasciarsi trasformare da lavoratore (di un mondo naturale) in operaio (di un mondo artificiale). Ma a questo punto il problema non riveste anche, e immediatamente, un carattere politico? E non potrebbe essere politica, in senso stretto, la sua soluzione? Non poteva essere insomma il Partito (come lei ha pur pensato) a portarla all’operaio, prima e meglio che le Human Relations? Ottieri È una domanda inevitabile, a cui non posso dare che una risposta soggettivistica e autobiografica: cioè, in un certo senso, mi difendo dall’accusa di aver accettato la via più comoda. Posso dire, anzitutto, che in particolare alla Olivetti di “Relazioni umane” veramente non si è mai parlato: il modo in cui noi abbiamo lavorato
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è stato nettamente distinto dal modo classico (irritante, paternalistico) delle altre industrie, dove le “Relazioni umane” hanno avuto proprio una configurazione banalmente americanistica. Da noi le cose si sono svolte diversamente perché a capo c’era uno che era un uomo di cultura. [...] Per quanto poi riguarda la via politica, io debbo affermare la mia non-idoneità caratteriologica a percorrerla: la politica m’interessa molto, ma è la “tecnica” politica che mi annoia e verso la quale non mi sento portato. I politici non mi interessano, che ci devo fare?
Pagina a fianco – Ritratto fotografico di Ferdinando Camon. Sopra – Ritratto fotografico di Ottiero Ottieri.
NOTE: 1 Garzanti, 1973. 2 Brano tratto dal capitolo “Ottiero Ottieri” (pagg. 146-).
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Voglia di protagonismo
Stoppard vs. Tabucchi: una partita a tennis con le parole di Pierfrancesco Matarazzo Immaginate un campo da tennis racchiuso nella sala di un antico palazzo. Immaginate una rete posticcia attaccata a due bastoni tremolanti. E poi immaginate due uomini, abbigliati come se fossero due giovani mandriani da spaghetti western scelti per recitare in un pomposo dramma elisabettiano. I due uomini si dispongono ai bordi opposti del campo, sono pronti a cominciare. Le bocche sono le loro racchette e le parole le loro palline. Per il quarto numero della nostra rubrica Voglia di Protagonismo entreremo a testa bassa e a mente aperta nel mondo del teatro e dei suoi protagonisti nascosti, perché piccoli, ignoti e spesso ignorati, dietro le cui parole possono germogliare dubbi così grandi da tessere un’intera vita o forse molte decine, quante possono essere le rappresentazioni di uno spettacolo che si basa sempre sullo stesso testo, ma mai davvero sulle medesime parole. Parleremo di teatro nel teatro e, quindi, di metateatro, parleremo di personaggi-attori e di attori-personaggi, permettendoci di attaccare i nostri occhi e le nostre emozioni alle iperboli verbali di Tom Stoppard e Antonio Tabucchi, passando per Pirandello, che molto ha fatto per gli splendidi protagonisti non protagonisti che Stoppard e Tabucchi hanno creato. Di parole preziose e scoppiettanti si nutrono i primi protagonisti non protagonisti di cui vorremmo parlarvi:
Sopra - Jeu de paume in Paris, France. XIX secolo. A destra: In alto - Ritratto fotografico di Tom Stoppard. In basso - Ritratto fotografico di Antonio Tabucchi. Nella pagina a fianco - Ritratto di Luigi Pirandello.
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Letteratura i due uomini per cui vi chiedevamo uno sforzo d’immaginazione all’inizio del nostro racconto. Li avevamo lasciati ai due bordi del campo pronti a giocare. Una partita di domande fra Rosencrantz e Guildenstern. Ve li ricordate? Due nomi insoliti dalle sonorità esotiche per l’italico palato. Due personaggi minori scappati dall’Amleto di Shakespeare, “amici” del tormentato principe di Danimarca, incaricati dal re Claudio (che ha ucciso il padre di Amleto e sposato sua madre Gertrude, per diventare re di Danimarca) di indagare sullo stato mentale del principe: finiranno uccisi in Inghilterra, dove erano stati mandati per far uccidere Amleto. L’uno assorbito e confuso nell’altro, tanto da non poter essere analizzati disgiuntamente1, poco delineati e sviscerati da Shakespeare che ne fa personaggi strumentali all’evoluzione della narrazione, meritano un unico e sbrigativo commiato da parte del bardo: «Rosencrantz e Guildenstern sono morti» (Atto V, scena II). Ed è proprio da questa rapida sentenza che Tom Stoppard (“britannicissimo” drammaturgo, nato, però, nell’ex Cecoslovacchia del 1937 con il nome di Tomáš Straussler) è partito per creare una delle pièce teatrali più famose e rappresentate del XX e anche del XXI secolo. Un testo che porta il metateatro pirandelliano e beckettiano a nuovi e rocamboleschi traguardi semantici. Nella mente di Stoppard, Ros e Guil (come vengono indicati Rosencrantz e Guildenstern dallo stesso Stoppard nel suo script) diventano osservatori di una storia (quella di Amleto) che da principale e assorbente diviene minore e spesso priva di senso ai loro occhi, impegnati a guardarsi dentro e a cercare di capire la ragione della loro permanenza in scena (senso che non troveranno). Occhi che osservano un primo livello di finzione scenica (la narrazione shakespeariana del crucciato principe danese) e un secondo livello di finzione scenica, quella messa in piedi dal Capocomico e dalla sua compagnia, chiamata da Amleto per far tradire suo zio Claudio davanti alla corte. Questa compagnia però, oltre a svolgere il proprio dovere per permettere al flusso narrativo elisabettiano di procedere, decide d’intrattenere il pubblico con riflessioni razionali sul senso della vita (che per loro, poi, non è che teatro). Ros e Guil si muovono spaesati fra questi vari pannelli Sul Romanzo
di gesta fasulle e sipari filosofici, cercando a volte di comprenderne il senso, per poi subito perdersi inevitabilmente nei meandri del linguaggio, vero protagonista di questa pièce, dove l’unica identità possibile in cui riconoscersi sembra essere quella delle parole, che Ros e Guil analizzano e sminuzzano per capire se, alla fine, dietro tutta questa scena vi sia almeno il dubbio di una sostanza cui aggrapparsi. A volte vi arrivano vicini, l’intuizione (spesso anacronistica e surreale) è dietro l’ultima sillaba, eppure si perde. Essi stessi scompaiono e confondono ragioni e ruoli (spesso in scena i due personaggi non sono del tutto certi su chi sia Guil e chi sia Ros). In questa confusione apparente, che ha come effetto magico e imprevisto la creazione di una serie di chiarissimi e saldi dubbi nella mente dello spettatore, sta il primo contatto fra la coppia di protagonisti non protagonisti di shakespeariana memoria e il protagonista non protagonista del testo teatrale di Antonio Tabucchi Il signor Pirandello è desiderato al telefono,
ambientato dall’autore in un ospedale psichiatrico portoghese nel 1935. Come accade nel testo di Stoppard (rappresentato per la prima volta al Fringe Festival di Edimburgo nel 1966), con il suo Capocomico e con gli stessi Ros e Guil (loro malgrado), anche in questa pièce abbiamo un personaggio-attore (cui Tabucchi decide di non dare un nome2), che deve interpretare per i malati dell’ospedale il poeta Fernando Pessoa, protagonista di un monologo dove la parola è regina di voli semantici e di trame nascoste. Come Ros e Guil, l’attore non protagonista di Tabucchi dovrà affrontare e superare vari livelli n° 5 • Ottobre 2013
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di finzione: quello del proprio abbigliamento e dei trucchi scenici palesi e penosi anche per un malato di mente; quello del coro, che sembrerà volerlo aiutare a concludere il testo che un qualcuno non ben definito gli ha fornito, ma che, in realtà, non farà che accelerare la sua corsa verso il fallimento della sua rappresentazione; ma soprattutto il livello di finzione sedimentato in se stesso che tutti, fin dall’inizio, percepiscono e ripudiano. E, allora, al nostro attore non resta che uscire dal suo canovaccio, entrando così davvero nel personaggio di Pessoa, immaginando cosa sarebbe successo se avesse potuto chiamare Pirandello al telefono e chiedere come si gira la chiave della pazzia che il drammaturgo siciliano ha mostrato al mondo. L’attore di Tabucchi diventa allora specchio di Ros e Guil (personaggi che rifiutano la loro parte nella storia di Amleto, alla ricerca di loro stessi), essendo costretto dal coro a entrare in una parte che sa essere fasulla perché più vicina a ciò che gli spettatori si aspettano da lui. Nel farlo riesce, comunque, ad avvicinarsi all’intuizione della verità, ma, come accade a Ros e Guil, dietro l’ultima sua sillaba si perde e divaga. Il pubblico, però, lo segue, proprio a questo punto non può più permettersi di perderlo, usa i suoi occhi, che sanno di non poter riuscire a seguire la conclusione scelta per lui dal mondo (la fine della sua interpretazione e, quindi, la morte del suo personaggio), eppure la seguono, eppure non si rassegnano. Come non si rassegnano Ros e Guil. La morte diventa tema
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fondamentale per entrambi i lavori. È la morte, su cui Ros e Guil si confrontano e si sfidano per comprendere quale sia la differenza fra quella “reale” e quella in scena. E quando il Capocomico la metterà in scena, Guildenstern non potrà tacere: «You die so many times; how can you expect to bilieve in your death?» , ossia «Sei morto così tante volte; come puoi aspettarti che [il pubblico, n.d.r.] creda nella tua morte?». Il Capocomico risponderà che il pubblico è condizionato a credere, perché se lo aspetta. Questo accadrà a Ros e Guil, moriranno alla fine solo perché il pubblico se lo aspetta, il pubblico già lo sa, conosce l’opera di Shakespeare da cui sono nati. E ciononostante Ros e Guil non si arrendono al necessario, non si arrendono all’ovvio: «Death is not anything… death is not… It’s the absence of presence, nothing more… the endless time of never coming back…». Ros e Guil sono personaggi morti, sono nati morti, eppure per loro è impensabile riconoscere questa verità. A Ros e Guil manca la motivazione alla morte e la motivazione è necessaria per ogni attore, ma Ros e Guil non sono attori, come quelli della compagnia del capocomico, loro sono veri o almeno vorrebbero esserlo. È forte qui il richiamo al tema di Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (Pirandello che Stoppard ha letto e trasposto in inglese in una personale rivisitazione dell’Enrico IV), con la divisione fra i personaggi finti ma reali e gli attori che li devono interpretare (reali, ma per questo fasulli). Divisione che ritroviamo anche nel testo di Tabucchi, dove l’inganno è l’attore, il primo a non credere nella sua interpretazione di Pessoa, eppure, trovandosi a pasticciare con i brandelli dei temi cari al poeta, agisce con tali disarmanti parole da rendere vero il suo personaggio, vivo a differenza dell’attore. E se il pubblico dei testi pirandelliani alla fine sceglierà sempre di credere ai personaggi sperduti e incapaci di esercitare il loro ruolo come vorrebbe il copione, così chi assisterà a Rosencrantz e Guildenstern sono morti sarà (fin dalla prima scena della moneta che viene lanciata in aria per 106 volte, ricadendo sempre con la stessa faccia) al fianco di Ros e Guil nel loro resistere a un nulla che sembra essere il loro destino fin dall’inizio e che pure lascia spazio a mille domande. Domande che si porrà anche l’attore di Tabucchi, sull’amore (la sua amata si chiama Ofelia come l’amore negato di Amleto), sulla pazzia e sull’esistenza, spostando il baricentro della mente dal personaggio all’attore, dall’attore al coro, dal coro al pubblico, per poi tornare silente di nuovo al personaggio cui crede forse ancora meno di quanto sia possibile fare con l’attore. E in questo vortice di sentenze e parodie delle stesse, è consapevole forse che «…vivere tante vite, le più possibili, perché la più nobile aspirazione è di non essere noi stessi, o meglio, è esserlo essendo altri, vivere in modo plurale, com’è plurale l’universo». La contaminazione ossessiva fra stati d’animo e punti di vista contrapposti, compressi nello stesso personaggio non personaggio, unisce entrambi i lavori. Sul Romanzo
Nella pagina a fianco: In alto - Ritratto fotografico di Tom Stoppard, con la locandina del film Rosencrantz & Guilderstern are dead, da lui diretto. In basso - Ritratto fotografico di Antonio Tabucchi, con la copertina de I dialoghi mancati, che contiene la pièce Il signor Pirandello è desiderato al telefono.
E se questa complessa e virtuosa costruzione si erge a paradigma per lo script di Stoppard, portandolo ad amplificare tale contaminazione anche nel sistema semantico del testo (affidandosi all’interlacing3, ossia all’intreccio di varie opere di autori dagli stili e delle epoche più diverse4), offrendoci una parodia (spesso affettuosa) di alcuni grandi autori che lo hanno influenzato (Beckett, Shaw, Wilde e naturalmente Shakespeare), la necessità di instabilità forzata è presente anche nel testo teatrale di Tabucchi, che gioca all’infinito sulle contraddizioni respirate e appena abbozzate dal suo non protagonista, riportandoci, così, al punto di partenza: un campo da tennis racchiuso nella sala di un antico palazzo. Noi possiamo essere i giocatori al posto di Ros e Guil, se abbiamo parole abbastanza svelte e dubbi saldi con cui provare a lanciare le nostre domande. Lo stesso Tabucchi ci ricorda che: «La possibilità di una lettura plurale, addirittura contraddittoria di noi stessi è plausibile, perché la vita è fatta così […]Cercare le contraddizioni significa uscire dal senso unico di una verità precostituita […] La funzione della letteratura è insinuare dei dubbi»5.
NOTE: 1 E sebbene nel volume dedicato a Tom Stoppard della collana Bloom’s Major Dramatists (edita e introdotta da Harold Bloom, Chelsea House Publishers, 2003), si ricordi che spesso Rosencrantz si comporti come se fosse il personaggio spalla di Guildenstern, la “mente”, essi sono completi solo insieme. 2 «[…] alto, vestito di scuro, papillon, occhialini rotondi, cappello e impermeabile. Porta sottobraccio un quadro che appoggia alla parete con la figura rivolta verso il muro.» compare il personaggio dell’attore da Il signor Pirandello è desiderato al telefono di Antonio Tabucchi, Feltrinelli, 2009, pag. 15. 3 Un’approfondita analisi dell’ossessione stoppardiana si può trovare nell’interessantissimo testo di Irene Ranzato, Tom Stoppard, contaminatore ossessivo, Aracne editrice, 2010. Uno dei pochi testi sul lavoro di Stoppard esistenti in lingua italiana. 4 Cfr. nota n. 2. 5 Marco Alloni, Una realtà parallela – Dialogo con Antonio Tabucchi, ADV publishing house, 2008.
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Eventi
dall'Italia
Ciclo di spettacoli classici Continua fino a fine ottobre la 66ma rassegna di spettacoli al teatro Olimpico di Vicenza, il più antico teatro coperto del mondo, sui nuovi classici. Da segnalare Vita di Edoardo II d'Inghilterra, Eros e Thanatos e Birds, rilettura degli Uccelli di Aristofane. Vicenza – Fino al 31 ottobre 2013 I luoghi delle parole Le parole che (ci) cambiano - Festival della letteratura vuole ancora una volta, nella sua decima edizione, dimostrare quanto le parole degli autori, l'opera di artisti visuali, teatrali e musicali, possano essere un faro nella vita delle persone, soprattutto in un momento di grande crisi generale. Chivasso (TO) – Dal 17 al 27 ottobre 2013 Festival della Scienza Il Festival della Scienza è un punto di riferimento per la divulgazione della scienza, un’occasione di incontro per ricercatori, appassionati, scuole e famiglie, uno dei più grandi eventi di diffusione della cultura scientifica a livello internazionale, ma anche e soprattutto un appuntamento per tutti. Il tema di questa undicesima edizione sarà la Bellezza. Genova – Dal 23 ottobre al 3 novembre 2013 Enrico VII, Dante e Pisa. A settecento anni dalla morte dell'imperatore e dalla Monarchia Il convegno, organizzato dall'Università degli studi di Pisa, vede raccolti numerosi studiosi del panorama italiano, da Marco Santagata a Gian Maria Varanini, da Mirko Tavoni a Alberto Casadei, coniugando storia e letteratura. Pisa e San Miniato – Dal 24 al 26 ottobre 2013 Boccaccio editore e interprete di Dante All'interno del settecentenario della nascita di Giovanni Boccaccio, ecco un convegno di grande rilevanza sul piano filologico e critico: Boccaccio fu infatti, com'è noto, copista e interprete di Dante e contribuì all'esegesi della sua opera. Sarà ospite, tra gli altri, Manlio Pastore Stocchi. Roma – Dal 28 al 30 ottobre 2013 Letteratura e teatro Torna puntuale il ciclo di incontri dell'Università Cattolica di Brescia, che ha il merito di illustrare a docenti e studenti delle scuole, tramite una serie di conferenze, alcune delle opere della rassegna teatrale. Segnaliamo in particolare La metamorfosi di Kafka e Il tartufo di Molière. Brescia – Dal 31 ottobre 2013 Capolavori dell’archeologia: Recuperi, ritrovamenti, confronti Le mostre di archeologia in Italia sono ovviamente molte, ma questa merita una segnalazione particolare: a Castel Sant'Angelo vengono esposti gli oggetti archeologici recuperati dalle Forze dell'Ordine in tutto il territorio nazionale, per avvicinarsi
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non solo al fatto artistico, ma anche al continuo pericolo di saccheggio che il nostro territorio continua a vivere. Roma – Fino al 5 novembre 2013 Scrittorincittà Il Festival letterario Scrittorincittà si basa ogni anno su un tema che fa da filo conduttore: per il 2013 sarà “Terra, Terra”. Durante Scrittorincittà si alternano una serie di dibattiti a più voci e una corona di piccoli e grandi appuntamenti teatrali e musicali. Cuneo – Dal 14 al 17 novembre 2013 Pisa book festival Il Pisa book festival è pensato per l'editoria indipendente ed è costruito in stretta collaborazione con i partecipanti. In dieci anni è diventato l'appuntamento editoriale più importante della Toscana, con 160 case editrici presenti e oltre 200 eventi. La Germania è il Paese ospite d'onore dell'edizione 2013. Pisa – Dal 15 al 17 novembre 2013 Bookcity Milano Nei quattro giorni, di cui uno dedicato alle scuole, vengono promossi incontri, presentazioni, dialoghi, letture ad alta voce, mostre, spettacoli, seminari sulle nuove pratiche di lettura, a partire da libri antichi, nuovi e nuovissimi, dalle raccolte e biblioteche storiche pubbliche e private, dalle pratiche della lettura come evento individuale, ma anche collettivo. L’obiettivo è mettere al centro di una serie di eventi diffusi sul territorio urbano il libro, la lettura e i lettori. Milano – 21 al 24 novembre 2013 Città del libro La XIX rassegna nazionale degli autori e degli editori del Mediterraneo torna puntuale anche quest'anno e si pone quasi come un punto di arrivo: attorno al padiglione in cui sono riuniti autori ed editori ruotano eventi diurni e serali, oltre che presentazioni, laboratori, cerimonie di premiazione ed eventi musicali. Campi salentina (LE) – Dal 28 novembre al 1 dicembre 2013
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e dall'Europa BFI London Film Festival Cinquantasettesima edizione del festival cinematografico, non competitivo, fondato nel lontano 1956, e che negli anni si è conquistato un posto di assoluto rilievo nel panorama dei festival cinematografici europei. Numerose sono le sezioni in cui si articola, tra concorso e fuori concorso, e grande varietà nei film presentati, molti dei quali presentati e apprezzati alla Mostra di Venezia. Londra (UK) – Fino al 20 ottobre 2013 Glasgay! Festival Si terrà, come ogni anno, a Glasgow, la celebrazione della cultura GLBT. Nel 2013, in occasione del ventennale del Festival, avrà luogo un’edizione ancora più ricca di spettacoli teatrali, esibizioni musicali, proiezioni cinematografiche, dibattiti, conferenze, con uno spazio riservato alle arti visuali. Numerosissimi gli artisti in programma, per quella che è diventata ormai un’istituzione tra i festival europei di cultura GLBT. Glasgow (UK) – Fino al 9 novembre 2013 Stratford on Avon Music Festival La città che ha dato i natali a William Shakespeare ospita un festival musicale all’insegna della varietà, dalla musica classica al jazz, fino al folk. Gli ospiti in programma sono nomi di grande rilievo, dal pianista Freddy Kempf alla Midland Youth Jazz Orchestra, da Ella Rundle a Joo Yeon Sir. Stratford upon Avon (UK) – Fino al 20 ottobre 2013 Lumière 2013 – Grand Lyon Film Festival Rassegna cinematografica annuale organizzata dall’Institut Lumière, in collaborazione con teatri e luoghi di ritrovo culturale. Il programma è fitto e include la fruizione di numerose location. Oltre agli eventi principali, sono previsti una notte intera dedicata ai Monty Python, il conferimento del Lumière Award a Quentin Tarantino e numerose iniziative rivolte ai più piccoli. Lione (F) – Dal 14 al 20 ottobre 2013 Festival de la guitarra de Sevilla Quarta edizione del festival della chitarra, che nel giro di pochi anni è diventato un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di questo strumento oltre che, com’è ovvio, per i chitarristi amanti delle sfide. Al centro del Festival vi è una competizione, organizzata in eliminatorie, semifinali e finale. Non mancheranno, comunque, masterclass tenute da maestri di livello internazionale e conferenze a tema. Siviglia (ES) - Dal 15 al 19 ottobre 2013 Amsterdam Dance Event Uno tra i più importanti festival di musica elettronica al mondo, l’Amsterdam Dance Event mobilita Amsterdam per cinque giorni interi, con ben trecentocinquanta eventi in oltre settantacinque tra discoteche e luoghi culturali. Sono duecentomila le presenze annuali di quest’evento, che nel 2013 vede, nella sua line-up, nomi come Daniel Wilde, Cat
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Carpenters, Bomb Diggy, Jan van der Lugt, Elekfantz. Amsterdam (NL) – Dal 16 al 20 ottobre 2013 Guildford Book Festival Festival letterario che si svolge nel sud-est dell’Inghilterra e rimette al centro il piacere dell’incontro e del dibattito con l’autore. È prevista una sezione interamente dedicata ai bambini, oltre a uno Schools Programme, in cui gli scrittori visiteranno le scuole e dialogheranno con gli studenti. Guildford (UK) – Dal 17 al 27 ottobre 2013 Scottish International Storytelling Festival Festival interamente dedicato alla narrazione dal vivo, alle tradizioni orali e alla diversità culturale. Come ogni anno, sarà coinvolta l’intera città di Edimburgo, con storyteller e musicisti. Il programma prevede, tra gli altri eventi, spettacoli per adulti e bambini, letture, mostre, con all’orizzonte la tradizione della cultura gaelica ceilidh. Edimburgo (UK) – Dal 18 al 27 ottobre 2013 Daniel Owen Festival Festival letterario dedicato alla figura del romanziere gallese Daniel Owen, propone un programma fortemente incentrato sull’identità e sulla letteratura gallesi, spaziando dalle letture alle attività artistiche, dagli incontri alle esibizioni in musica. Una chicca è rappresentata dagli incontri dedicati al “territorio”. Mold (UK) – Dal 19 al 25 ottobre 2013 The Dylan Thomas Festival Nella cittadina di Swansea, con il Dylan Thomas Centre, centro per lo studio e per l’organizzazione di eventi intorno alla figura di Dylan Thomas, a fare da quartier generale, si svolgerà anche quest’anno il festival dedicato allo scrittore gallese scomparso nel 1953. Il programma prevede un mix di letture di prosa e poesia, rappresentazioni, musica e nel 2013 prepara la strada per i festeggiamenti dell’anno prossimo, in occasione del centenario dalla nascita di Thomas. Swansea (UK) – Dal 27 ottobre al 9 novembre 2013 Richmond upon Thames Literature Festival Festival letterario annuale, giunto alla sua ventunesima edizione, che ogni anno presenta un programma ricco di scrittori, ma anche di figure di spicco della politica, del teatro, della televisione. Tra i nomi in programma quest’anno: Roger McCough, Simon Hoggart, Andrew Marr, Michael Frayn. Richmond (UK) – Dal 1 al 30 novembre 2013 Aldeburgh Poetry Festival Festival di poesia che si tiene ogni anno ad Aldeburgh, una cittadina del Suffolk, e vanta un programma di tutto rispetto, organizzato su tre giornate. Numerosi gli appuntamenti con gli autori, le letture, i dibattiti. Non mancano, nel programma, alcune sessioni di “poetry quiz”, per gli irriducibili. Aldeburgh (UK) – Dal 8 al 10 novembre 2013
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Racconti contro la precarietà
La dimensione lavorativa è mutata radicalmente negli ultimi dieci anni. Parole come precarietà, disoccupazione, inoccupazione, contratti a progetto, lavoro interinale, somministrazione, telelavoro, lavoro ripartito, apprendistato, contratto di solidarietà, formazione e lavoro, part-time, inserimento professionale, lavoro intermittente sono, ormai, entrate nel linguaggio comune quotidiano. Se è vero, per dirla con Hannah Arendt, che esiste un nesso imprescindibile tra l’attività lavorativa e la vita activa, al punto che la prima è la conditio sine qua non della seconda, risulta evidente che uno stravolgimento così radicale del mondo del lavoro non può che avere conseguenze ben peggiori della semplice precarizzazione. Togliere all’uomo e alla donna l’attività lavorativa (o renderla sempre meno certa) significa minare alla base le fondamenta che rendono possibile l’affermazione di una dimensione immaginifica e sociale della vita umana, laddove la prima dovrebbe consentire il superamento dei limiti dell’ambiente naturale attraverso l’operare e la seconda permette la concretizzazione dell’esistenza nell’azione, che ha sempre una valenza politica. La letteratura può e deve offrire spunti di riflessione in grado di raccontare tale cambiamento, riuscendo ad anticiparne le conseguenze nel medio e lungo termine.
È con questo spirito che la Webzine Sul Romanzo ha deciso di dare spazio a racconti che sappiano mettere in luce quanto è accaduto, sta accadendo e, soprattutto, potrebbe ancora accadere nella vita umana, a seguito della precarizzazione del mondo del lavoro.
Per partecipare, è sufficiente inviare un Racconto che dovrà essere: –– inedito e in lingua italiana; –– redatto in formato Word (.doc) e con font Times New Roman 12; –– di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– corredato delle seguenti informazioni, riportate in alto a destra nel file: nome e cognome dell’autore, data e luogo di nascita, codice fiscale e indirizzo email; riferimento esplicito a “Rubrica Racconti contro la precarietà – Webzine Sul Romanzo”; –– inviato a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@sulromanzo.it indicando nell’oggetto Racconti contro la precarietà. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, articoli, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Valutazione dei racconti La valutazione sarà condotta dalla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori dei racconti ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail. Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti i racconti ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati nel primo numero successivo utile o nel sito internet del blog www.sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità di quanto proposto, saranno considerati inammissibili i racconti: –– presentati dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– che presentano un possibile conflitto di interessi; –– che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– già editi. Note finali L’invio del racconto non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro racconti e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro racconto e cedono a Sul Romanzo il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons — Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione del racconto pubblicato, dopo la sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo, come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione dei racconti saranno utilizzati solo per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi.
I racconti potranno essere incentrati su un tema scelto dall’autore, purché in linea con l’orientamento generale della Rubrica. 26
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arietà
Racconti conto la prec
Atari di Gianni Contarino
L
o sguardo scese dalla cima delle Alpi, sorvolò i tetti delle case e si posò sulla città, attratto da una stella, un punto di luce bianca, che colpì i miei occhi dalla strada. Appoggiato alla ringhiera del balcone con una sigaretta in mano, mi limitavo a guardare. A una finestra del palazzo di fronte vidi un’anziana su una sedia a rotelle, illuminata dalla luce lampeggiante della tivù, e accanto a lei un bambino biondo e paffuto, di non più di tre anni. La stella mi attirò di nuovo verso il basso, ma scoprii che era il parafango di una Ford blu, che rifletteva il sole. La portiera era aperta e ne uscirono due gambe, seguite da una gonna e da una massa di capelli ricci biondi. La portiera si richiuse e la donna andò verso il portone, dietro il quale sparì. Alla finestra c’era ancora il bambino. Aveva cominciato a correre attorno all’anziana. Sembrava cantasse, ma non lo sentivo perché sul balcone avevo la radiolina che mi massaggiava i pensieri con un pezzo dei Led Zeppelin. La signora sembrava dormire, il suo braccio penzolava dal bracciolo e veniva urtato dal bambino a ogni giro. «Stefano, dove sei?» sentii Sandra alle mie spalle. «Qui» risposi a voce bassa. «Stefano!» ripeté e sentii i suoi tacchi avvicinarsi, «perché non mi hai risposto?” «Esci?» chiesi voltandomi. «Vado a fare la spesa. Ti serve qualcosa?» «Solo che vai a fare la spesa.» «Fanculo. Guarda che anche a me piacerebbe che tu uscissi da qui qualche volta e mi lasciassi in pace. Manco ti avessero dato i domiciliari. Cazzo.» «Io? Lasciarti in pace? Non avevi che da chiederlo.» «Sì, sì. Vado. Ciao.»
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La finestra era stata chiusa. In quella accanto due braccia sistemavano lenzuola su un letto. Un ciuffo di capelli biondi affiorava da dietro il davanzale e saltellava e un altro, più su, oscillava, mentre le lenzuola coprivano il materasso. Sorrisi. Una delle due teste si girò, mostrandomi un paio di occhi sorridenti che rivelarono una bionda, bella come il sole, con una camicia bianca un po’ aperta. Spinse l’anziana sulla sedia a rotelle vicino al letto, l’afferrò, le fece appoggiare il braccio sulla spalla, la sollevò e l’aiutò a sdraiarsi sul letto. Avvicinò un trespolo con una flebo, collegò il tubo al braccio della donna, le diede un bacio sulla fronte e si voltò verso la finestra. Quattro occhi azzurri mi guardavano. Esitai un secondo, mi voltai a destra come a cercare chissà cosa sul balcone, ma il sole mi accecò. Per una frazione di secondo, vidi solo pallini verdi e blu, cercai di andare verso la radiolina, urtai il tavolo col posacenere, la raggiunsi e finsi di cambiare stazione. Aspettai qualche secondo e tornai ad appoggiarmi guardando il pavimento del balcone, poi alzai lo sguardo e vidi in quella camera solo l’anziana, sdraiata con gli occhi chiusi. Una campana batté le quattro del pomeriggio. Avevo perso il lavoro da due mesi, che avevo passato su quel balcone per almeno tre ore al giorno, fumando e guardando il mondo vivere. Finii la sigaretta e la gettai giù dal balcone, accompagnandola con gli occhi. Il bagagliaio della Ford era aperto. La bionda tirò fuori delle valigie e lo chiuse, poi con il bambino andò verso il portone. La radiolina cominciò a vomitare pubblicità, una dopo l’altra, così mi avvicinai e girai la manopola cercando pace, finché non incontrai Lou Reed. Tornai alla ringhiera e i due erano ancora là, davanti al portone. Sentii una sirena. Dal fondo della via, arrivò una Mercedes bianca inseguita da una volante. La macchina correva facendo lo slalom fra le altre, dal finestrino della volante s’agitava un braccio con la paletta. Ci fu uno sparo. La Mercedes sbandò, puntò in direzione di quei due, salì sul marciapiede e finì la sua corsa proprio sopra di loro. Il sangue mi si gelò. La gente accorse in strada, mentre due agenti scesero dalla volante. Una donna urlava, altre correvano. Sul cofano della Mercedes, macchie rosse e i resti dei due. Dalle portiere davanti pendevano braccia e mani con piccoli punti luccicanti. Per terra, le valigie. Arrivarono altre due volanti e bloccarono il tratto di strada. La gente si raccolse attorno e si spostò solo quando arrivarono quattro ambulanze. Luci blu dappertutto. Mezz’ora dopo, sull’asfalto, c’erano quattro teli, attorno ai quali s’ammassarono giornalisti, donne disperate, curiosi e un poliziotto appoggiato alla volante con una mano sulla bocca. Nemmeno per un attimo ero riuscito a staccare gli occhi da quella strada, come se fosse un videogio28
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co in cui piccole sagome si muovevano fra il bianco ora sporco della Mercedes e quello delle ambulanze inutili. Sentivo i commenti dei vicini, affacciati anche loro, e vedevo i flash dei giornalisti. Sulla Ford era appoggiata un donna giovane, con i capelli ricci biondi, abbracciata da una poliziotta. Si agitava, batteva i pugni sulla macchina e urlava contro il poliziotto appoggiato alla volante. Vedendola, mi tornò in mente la scena della flebo. Alzai gli occhi verso la finestra di fronte: la signora, sveglia, cercava di raggiungere con la mano tremolante il braccio a cui era attaccata la flebo. Un piccione spiccò il volo dal cornicione di quel palazzo e venne sulla ringhiera, come a dirmi qualcosa, fece qualche passo sul mancorrente, poi volò di nuovo verso quel palazzo e si appoggiò su quel davanzale, dirigendo il becco verso la donna che, con la mano, aveva ormai raggiunto la flebo e cercava di staccarla. Mi voltai e vidi il vicino, anziano, che mi guardava e, facendo cenno alla strada, scuoteva la testa. In quei giorni, lui e io eravamo stati uguali, anche se lui era un pensionato e io un disoccupato. Guardai le mie mani, ancora giovani, anche se segnate da anni in corsia, tra flebo e sorrisi ai pazienti, e ci vidi tutto quello che avevano ancora da fare. Sentii il sangue ricominciare a scorrere, quasi a bruciarmi le vene, e quel calore fare a botte con il freddo della ringhiera. Mi toccai il volto, la barba di dieci giorni e i capelli resi stopposi dalle troppe ore sul cuscino. Due mesi, due mesi di nulla, di me e di quei tetti, di bestemmie e sogni sepolti, di tempo rubato al destino e gettato nel cesso. Dovevo dire a qualcuno della flebo. Guardai giù quei teli, poi di nuovo su, i palazzi, i tetti e le Alpi, come a salutarli, rientrai in casa e camminando mi tolsi in fretta la tuta, quasi inciampando; misi un paio di pantaloni, una camicia, le scarpe, poi presi il pacchetto di sigarette e l’accendino e uscii di casa. Scesi le scale, non l’avevo mai fatto in quei due mesi. In strada, provai ad avvicinarmi alla Mercedes. «Dove va?» disse un poliziotto, «Qui non si può andare.» «C’è un parente di quei signori?» chiesi. «Lei chi è? Li conosce?» rispose tenendo il braccio disteso davanti a me. «No, ma lassù c’è una signora anziana con la flebo. La donna e il bambino prima erano da lei. C’è un loro parente qui?» «Quella signora è la sorella della bionda. Aspetti qui che vado a dirglielo.» Il poliziotto si avvicinò alla donna e alla poliziotta, disse qualcosa e m’indicò. Vidi la donna guardarmi, poi voltarsi verso il palazzo e guardare in su e coprirsi il volto. La poliziotta l’accompagnò verso il portone. La donna guardò quei teli e s’inginocchiò piangendo vicino a quello più piccolo. n° 5 • Ottobre 2013
Feci un cenno al poliziotto e dissi «Sono un infermiere, posso andare io se volete.» Quello fece cenno di no, poi tornò vicino alla volante, dal collega ancora con la mano sulla bocca. Lo vidi dargli una pacca sulla spalla e parlargli. La donna si alzò e, insieme alla poliziotta, si fece strada fra le lamiere della Mercedes, attraversò quel che restava del portone e sparì dentro il palazzo. Rimasi lì a guardare quei teli e mi accesi una sigaretta, mentre uomini in divisa facevano rilevamenti e le ricetrasmittenti raccontavano altre storie della città. Erano le quattro e mezza. Guardai il mio balcone: il piccione stava sulla ringhiera, aveva preso il mio posto. Mi toccava cercarmene un altro. Mi avvicinai al medico della Croce Rossa, appoggiato a un’ambulanza. Era un pugliese, l’avevo già visto mesi prima in qualche turno. Aveva negli occhi sangue e disperazione di altri, ma anche una luce, quella stessa che vedevo nello specchio quando lavoravo. Facemmo due chiacchiere e ci raccontammo storie simili. Mi diede un numero di telefono. Gli strinsi la mano, gettai la cicca in un tombino e guardai ancora una volta in su. Le nuvole, che avevano corteggiato il sole dalla mattina, stavano andando via. Diedi un ultimo sguardo a quei teli, poi guardai il poliziotto appoggiato alla volante, le persone che cominciavano ad andare via e mi confusi fra loro. Ero tornato nel mondo ed ero di nuovo nel videogioco.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…
Sei uno scrittore in cerca di pubblicazione?
Chiamiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi…
"Natale non è Natale senza regali", si lamentò Jo, sdraiata sulla coperta Avevo riletto i miei appunti, e non ne ero soddisfatto…
Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava sulle scaglie del mare appena increspato. Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva.
Agenzia letteraria
Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Norman Bates udì il rumore e ne rimase sconvolto. Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l'esercito di Francia. Mi sento sempre attratto dai posti Per saperne di più scrivi a dove sono vissuto, le case e i loro dintorni. - Attenzione! C'è un mutante, laggiù! servizieditoriali@sulromanzo.it
Valutazione Inediti e Rappresentanza
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Ben volria mon cavallier…
Le trobairitz e l’altro volto della fin’amor
di Sara Minervini
Sopra - Na Castelloza, da un canzoniere del XIII secolo conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia. Sotto - Ritratto di Maria de Ventadorn.
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In alcuni articoli apparsi sui «Cahier du Sud» agli inizi degli anni Quaranta, Simone Weil propose un ideale confronto tra la civiltà occitanica e la Grecia classica: «l’essence de l’inspiration occitanienne est identique à cela de l’inspiration grecque […]», volendo con questo evidenziare come la Linguadoca del 1200 presentasse caratteri, nel rapporto tra cultura e società, assimilabili a quelli della culla della civiltà occidentale1. La filosofa francese, in realtà, non si occupò particolarmente della lirica dei trovatori, se non nell’articolato quadro storico-politico-culturale da cui essa trasse ispirazione. Nondimeno, l’accostamento suggerito produce un’inferenza interessante sotto il profilo più strettamente letterario. Entrambe le civiltà, infatti, hanno presieduto alla nascita della lirica come genere: nella sua forma primigenia (quella greca), nella sua veste moderna (la lirica provenzale). Entrambe hanno preservato inalterate nel tempo la propria forza, vitalità, bellezza. Entrambe sono giunte ai giorni nostri in frammenti spesso tramandati per tradizione indiretta, frutto di una selezione stabilita a posteriori, enigmatica e complessa, una tradizione manoscritta, spuria o genuina, che ha salvaguardato per lo più modelli testuali maschili, ma che contemporaneamente non ha negato una sia pur sparuta presenza femminile. Una presenza femminile sempre sottomessa al dubbio e al vaglio dell’autenticità. E tuttavia, se è ormai impossibile dubitare che Saffo sia stata la più antica poetessa della storia della letteratura occidentale, per le trobairitz (non a caso spesso definite le Saffo di Provenza) il percorso verso un definitivo riconoscimento mostra ancora qualche difficoltà: la loro presenza, per quanto decisamente a margine del canone del trobadorismo2, non appare più tanto materia di discussione quanto oggetto di resistenza, di messa in questione dell’effettiva funzione svolta, del valore e soprattutto dell’attribuzione. Eppure alcuni dei loro testi sono firmati: Maria de Ventadorn, Na Castelloza, Beatriz de Romans, Azalais de Porcairagues, Lombarda, Tibors, e la più nota e celebrata tra tutte, la Comtesse de Dia. Fatto eccezionale, se si considera che la maggior parte delle scrittrici doveva nascondersi sotto pseudonimi maschili: l’atto, non più simbolico, della nominazione non basta da sé a sancire una volta per tutte il riconoscimento dell’identità, assicurando l’iscrizione di queste donne al cenacolo comune dei discepoli della fin’amor? Evidentemente no. n° 5 • Ottobre 2013
Letteratura
Il fatto che vidas e razos (i manoscritti che hanno tramandato storie e testi di trovatori e trovatrici) ricordino all’incirca una ventina di nomi di trobairitz non è sufficiente ad affermare con sicurezza alcunché, vista la loro riconosciuta scarsa attendibilità e considerata la loro propensione a enfatizzare il dato leggendario a scapito di quello biografico (e, almeno in questo senso, non c’è differenza di genere: Guglielmo di Poitiers fu davvero il primo trovatore?3). Il vero punto nodale è che il ruolo della donna nella società è un costituente antropologico della scrittura femminile. È, perciò, vitale stabilire il perimetro di tale ruolo nella società provenzale: fino a che punto è lecito aspettarsi che le donne potessero scrivere? Che fossero in grado di maneggiare con agio e consapevolezza i raffinati strumenti stilistici del trobar clus? Le leggi e i costumi in vigore nel Sud della Francia erano tra i più favorevoli alle donne, l’introduzione del codice teodosiano nel corso del VI secolo inseriva le figlie nell’asse ereditario paterno e, in taluni casi, un buon numero di feudi della Francia meridionale fu amministrato direttamente da donne. Questa posizione si rafforzò ulteriormente con la Prima Crociata e la chiamata alle armi dei signori4, né bisogna tralasciare l’elemento aggiuntivo dell’impatto culturale che la domna ebbe in seno alla società cortese: le vidas ce le presentano sempre come ensignadas, colte; nelle Cours d’Amour, esse erano lettrici, mecenati, arbitri delle qualità dei poemi cantati dai trovatori uomini, oltre che, naturalmente, destinatarie degli stessi5. Ma sono proprio i requisiti di sistema interni al codice letterario della lirica provenzale a limare anche le ultime obiezioni contro la capacità da parte della donna di prendere essa stessa la penna e poetare, ribaltando autonomamente il proprio statuto poetico da oggetto a soggetto: l’uso della lingua volgare (il provenzale è la prima “lingua della nutrice” ad essere scelta e praticata come lingua poetica dopo il latino); il tema prescelto, l’amor cortese intriso di piacere, ma anche di tristezza, dolore, timore, lontananza, separazione; infine, la stessa forma lirica, voce dell’“io”, che, sebbene sempre al confine tra soggettività e convenzionalità, esige che il vissuto entri vigorosamente nella poesia. E quale vissuto è più profondo e penetrante di quello delle donne? Nella tradizione manoscritta, il corpus testuale delle trovatrici sta al fianco di quello dei trovatori, autrici di canso, sirventes, tenso, coblas e partimen, i principali tipi di componimenti della lirica provenzale. È Sul Romanzo
Sopra - Ritratto fotografico di Simone Weil. Sotto - La Comtesse de Dia, da un canzoniere del XIII sec. conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia.
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A sinistra - Azalais de Porcairagues, da un canzoniere del XIII sec. conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia.
proprio l’incognita sulla loro attribuzione, quando giunti in forma anonima, a suscitare e alimentare il dubbio sulle virtù e il merito delle trobairitz, concedendo loro di aver scritto sì, ma ponendole sempre su un piano e a un livello secondario, se non recessivo, rispetto alla controparte maschile, alla quale si ascrive, invece, l’autorialità di tutta la produzione non identificata con certezza, anche quando questa presenta affinità tipicamente femminili. Viene, in altri termini, ammesso il caso di un uomo che canta come se fosse una donna (ad esempio, nei tenso e partimen, forme dialogate che prevedono una sorta di canto e controcanto tra un uomo e una donna), ma si resiste all’idea di un'eredità storico-letteraria femminile6. Ma come cantavano le trobairitz provenzali? Lo schema domna-amic resta immutato, tuttavia la donna cambia di ruolo: da adorata diventa adoratrice, da altera Signora si fa umile quémandeuse; diviene prejador, chiede mercé all’amato e cionondimeno continua ad esercitare il proprio potere sull’amante (amic). Il sovvertimento del codice trobadoresco porta, dunque, a un'integrazione non passiva, come si potrebbe pensare, ma piena e attiva. Nella fin’amor, i trovatori si asserviscono completamente alla domna; le trobairitz, invece, non si sottomettono mai: scelgono i loro pretendenti tra i cavalieri dotati dei più alti valori, non si accontentano, l’uomo prescelto deve essere specchio della loro stessa superiorità e nobiltà di rango. Sono loro a intraprendere il corteggiamento e a stabilirne i criteri: contravvenendo al comandamento del celar, l’occultamento del nome dell’amato sotto un senhal, le trobairitz manifestano e difendono il proprio diritto a rendere pubblico il loro amore, stimando la reputazione derivante dall’amare e dalla nobiltà dell’amante (invariabilmente noble et valereux) di gran lunga dominante. Ancora più significativa è l’aura di erotismo soffusa. In Ab jòi et ab Joven m’apais, la Comtesse de Dia7 non esita a confessare il proprio desiderio: «Celui 32
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dont je désire le plus qui’il me possède»[Colui dal quale più desidero essere posseduta]. Qui l’io lirico non mostra turbamento alcuno nel palesare il proprio desiderio di essere posseduta dall’amante (in Estat ai en grèu cossirièr, si spingerà anche oltre: «Je voudrais bien tenir un soir mon chevalier nu dans mes bras, et qu’il se tînt pour comblé si seulement je lui servais de coussin» [Come vorrei il mio cavaliere tenere fra le braccia una sera nudo, e che gli bastasse che solo gli facessi da cuscino]), dispiegando, anche attraverso un linguaggio esplicito, una connotazione sessuale forte, contro la morale di corte. Ancora una volta, il cavaliere gioca un ruolo passivo: è lei che gli offre il suo amore ribadendo di essere la parte attiva della coppia. Si potrebbe, quindi, ipotizzare che, nei suoi poemi, la Comtesse de Dia voglia rompere con le regole della fin’amor. Invece, il tema è sempre quello della quête d’amour, solo declinato tutto al femminile: l’amore svela un nuovo volto, più erotico e diretto, disgiunto dalla rarefazione dell’amor cortese. L’amore delle donne non indugia ed esprime tutte le sue sfumature psicologiche e sentimentali, nonché le sue strategie: rabbia, struggimento, negazione, solitudine, ma anche passione, fin-joi, dolcezza, erodendo dall’interno le convenzioni del genere. È l’immagine autorivelante di un paesaggio interiore proteiforme, complesso, sfaccettato, caleidoscopico come solo l’animo di una donna sa essere. Prove, non solo indizi, di una genetica testuale, oltre che biografica, inderogabilmente femminile. La ricezione delle trobairitz è cambiata attraverso i secoli. Cancellata dal sangue della crociata contro gli albigesi, la Linguadoca che tanto aveva ispirato le riflessioni di Simone Weil, terra di sole e di canzoni ora annessa al regno di Francia, aveva visto i suoi ultimi superstiti disperdersi tra la Spagna e l’Italia Settentrionale, accompagnando la fioritura della poesia d’amore in volgare. Il Dolce Stil Novo rappresenterebbe, secondo alcuni8, l’ultimo barbaglio di quella straordinaria stagione poetica e Dante l’ultimo dei trovatori9. Che ne è stato, invece, delle trobairitz? Eccezioni apparentemente relegate all’oblio, se non del tutto ignorate o costrette alla sudditanza intellettuale rispetto all’ampio consenso riservato da critici e storiografi alla comprovata influenza del trobadorismo maschile, la verità è che il credito da n° 5 • Ottobre 2013
esse maturato nei confronti della successiva lirica moderna è più sensibile di quanto non si sia soliti riconoscere. L’ultima trobairitz sarebbe la Laura di Petrarca10, e non solo metaforicamente: nel dialogo col poeta presente nel Triumphus Mortis, lei cita un verso ottonario – «di più non osa il nostro amor» –, non appartenente al repertorio petrarchesco, ma spesso presente nella lirica provenzale11. Materialmente l’eredità delle trovatrici confluirà nelle discendenti rinascimentali di Laura, col fiorire delle petrarchiste del Cinquecento, riscopertesi, forse non d’incanto, soggetto e non più oggetto, voci autentiche e non archetipiche, donne vere e non solo allegorie poetiche12. Note: 1 F. Veltri, La città perduta: Simone Weil e l’universo di Linguadoca, Rubettino, 2002, pag.32. 2 Vd. La nascita delle letterature romanze in Storia della Letteratura Italiana Vol. 1, Dalle Origini a Dante, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, 1995, pag. 194. 3 U. Mölk, La lirica dei trovatori, Il Mulino, 1986, pag. 23. 4 H. Fedorkov / S. Pfeifer, Les Trobairitz: Essai, GRIN (GER) 2008, pag. 5. 5 A. Burl, Courts of Love, Castles of Hate: Troubadours & Trobairitz in Southern France 1071-1321, History Press (UK), 2008, pagg. 2-16. 6 H. Fedorkov / S. Pfeifer, Les Trobairitz: Essai, op. cit., pag. 10. 7 Tutti i testi riportati sono tratti da: H. Fedorkov / S. Pfeifer, Les Trobairitz: Essai, GRIN, 2008, pagg. 20-30. 8 É l’opinione, ad esempio, di A. Burl in Courts of Love, Castles of Hate: Troubadours & Trobairitz in Southern France 1071-1321, (op. cit.), che, infatti, fa coincidere la fine della lirica provenzale con la data della morte dell’Alighieri, 14 settembre 1321. 9 A. Burl, Courts of Love, Castles of Hate: Troubadours & Trobairitz in Southern France 1071-1321, op. cit., pag. 6. 10 Nella nota al verso 150 in: F. Petrarca, Triumphi, Mursia, 1988, si accenna «all’emblematicità del verso […] che potrebbe deporre in favore di una Sul Romanzo
sua coniazione come pura sigla simbolica del presente discorso di Laura in forma di allusivo senhal metadiscorsivo», pag. 273. 11 U. Mölk, La lirica dei trovatori, op. cit., pag. 45. 12 Cfr. in proposito: V. Cox, Attraverso lo specchio: le petrarchiste del Cinquecento e l’eredità di Laura, in Petrarca, Canoni, Esemplarità, a cura di V. Finucci, Bulzoni Editore, 2006, pagg. 117-149.
Bibliografia Burl A., Courts of Love, Castles of Hate: Troubadours & Trobairitz in Southern France 1071-1321, History Press (UK), 2008. Cox V., “Attraverso lo specchio: le petrarchiste del Cinquecento e l’eredità di Laura”, in Finucci V. (a cura di) Petrarca, Canoni, Esemplarità, Bulzoni Editore, 2006. Fedorkov H. / Pfeifer S., Les Trobairitz: Essai, GRIN (GER) 2008. Malato E., a cura di, Storia della Letteratura Italiana Vol. 1, Dalle Origini a Dante, Salerno Editrice, 1995. Mölk U., La lirica dei trovatori, Il Mulino, 1986. Petrarca F., Triumphi, Mursia, 1988. Veltri F., La città perduta: Simone Weil e l’universo di Linguadoca, Rubettino, 2002. n° 5 • Ottobre 2013
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La mia editor americana di Eduard Limonov Traduzione di Francesco Peri Il racconto è tratto dalla raccolta di prose brevi Amerikanskie kanikuly (Vacanze americane, 1999). Il malcapitato manoscritto di cui si parla nel testo è la prima stesura di Istorija ego slugi (Storia del suo servitore, 1981), la seconda opera autobiografica di Limonov, dopo il folgorante debutto francese Il poeta russo preferisce i grandi negri (1979). F.P.
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I redattori che fanno l’editing dei libri sono strane creature. «Questo passaggio non è davvero niente male, ma bisogna tagliarlo». «Perché bisogna tagliarlo se non è niente male?», voglio sapere io. «Perché la digressione prende quasi due terzi del capitolo.», risponde lei: «Fa saltare la struttura». «E se trovassi il modo di riconciliarlo con la struttura?», azzardo. «Impossibile», mi fa: «In questo episodio lei sposta l’azione in California, mentre il resto del libro è ambientato a New York». «Mi faccia capire, adesso il mio povero protagonista non può neanche andare a farsi una vacation da qualche parte?». Lei non mi risponde neppure. Vorrà dire che proprio non si può. «Nel suo manoscritto ci sono troppe scene di sesso». «Ma il protagonista è un maniaco sessuale!». «Sì, sì, va bene, ma è più che sufficiente se lo fa andare a letto con due o tre ragazze. Così sono troppe, lei si ripete, il protagonista si ripete». «Abbia pazienza, ma se lo faccio andare a letto con due o tre ragazze in tutto il libro che maniaco sessuale è?» «I discorsi politici vanno tagliati. Il protagonista ragiona come un bambino delle elementari». «Può darsi», concedo io, «però scusi, ha delle idee radicali, e poi è uno psicopatico anarcoide». «Niente da fare, dice un sacco di castronerie». «Saranno anche castronerie, ma lo lasci parlare, no? È un maniaco sessuale e un avventuriero, mica un ministro delle Finanze con gli occhiali di tartaruga». «Niente da fare, i discorsi politici vanno tagliati». «Ok, facciamo come dice lei, tagliamo i discorsi politici». «Questa parte è noiosa, via tutto». «Perché noiosa?», domando io. «Il protagonista si prende gioco della pro-
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tagonista: lei fa progetti per un futuro insieme, lui annuisce con la testa e intanto tra sé e sé risponde in modo completamente diverso. È un bastardo, ma un bastardo simpatico. Vive alle spalle della protagonista. A me sembra divertente…». «Neanche per sogno. È di una noia mortale». «Sarà…», penso io. Mi riprendo il manoscritto con le annotazioni della editor e torno a casa. A leggere. *** Il protagonista fa una gita in Virginia per conoscere i genitori di lei. Nel margine c’è un’annotazione della editor: «In questo sviluppo ci sono molte cose buone, ma è meglio eliminarlo. Accorciare la scena del viaggio?» Perché «è meglio eliminarlo» se «ci sono molte cose buone»?. Di nuovo la storia della quarantena? Vietato lasciare New York? E come si fa ad accorciare la scena del viaggio? Raccontandola con un telegramma? Due telegrammi? In stenografia? «L’arco della protagonista femminile è una pizza clamorosa. Tutte queste informazioni a casaccio su di lei, che barba. Non saprei davvero che cosa proporle, tagliare tutto non è possibile, e una controparte femminile, in sé, ci vuole. Questa qui, però, fa sbadigliare il lettore dall’inizio alla fine. Farebbe meglio a sforbiciare senza pietà le parti che hanno a che fare con lei». «Anche il protagonista ha a che fare con lei», osservo stizzito: «Diamo una sforbiciata anche a lui?».
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E poi, volendo guardare, siamo tutti noiosi: i personaggi, gli scrittori. Mangiamo, lavoriamo, trombiamo, andiamo a passeggio… Niente di granché interessante, no? Che cosa pretende questa qui? Che cosa dovremmo inventarci per farla divertire? A un certo punto il protagonista dice: «Avevo cercato più volte di convincerla a scopare con me». A margine, scarabocchiato in fretta e furia, c’è un appunto della editor: «Informazione del tutto superflua». «Ma ci mancherebbe!», mi inalbero in cuor mio: «Era l’unica cosa che meritava di essere detta». Il protagonista ha trovato lavoro come cuoco in un ristorante. Che cosa ne pensa la mia editor? «Tagliare questo episodio. Peccato, però!». Ormai l’autore ci ha fatto il callo: ogni tanto bisogna tagliare questa o quella parte, anche se è un peccato. A poco a poco inizia a intravedere l’ideale letterario della sua editor: le piacciono i personaggi che si muovono il meno possibile. Se solo potessero fare a meno di uscire di casa! Nel libro, a un certo punto, compare un personaggio secondario in sedia a rotelle, Anthony. L’autore si domanda se non sia il caso di venire incontro alla sua editor e fare di lui il protagonista. Anthony non è il tipo da prendere l’aereo per la California o l’autobus per la Virginia. Nessun ristorante lo assumerebbe come cuoco. E poi quale miglior pretesto per sbarazzarsi della protagonista femminile, una sana e vogliosa ragazzotta americana? Una così non saprebbe proprio che farsene di Anthony, paralizzato dal collo in giù. Non ci potrebbe neppure giocare a carte. La editor è fissata con il domicilio fisico del protagonista, roba da non crederci. A pagina 163, mentre passeggia all’angolo tra la sesta avenue e la nona strada, il protagonista viene fermato da alcuni membri di una comune sessuale interessati a reclutarlo. «Le nostre ragazze l’hanno notata», spiega uno di loro, un giovanotto con la barba. Il sogno sta per avversarsi… Ma la nostra editor,
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sempre vigile, ha già preso per la manica il protagonista e lo strattona via. L’appunto a margine è totalmente assurdo: «È ora di tornare a casa!». Ma vaffanculo, va! Adesso il protagonista non può neanche andare a passeggio. Puoi scordarti la comune sessuale, dietro front, sciò, ti sei già divertito anche troppo. Razza di stronza, si è piantata lì all’angolo e spara cazzate. Una delle pochissime note in cui la editor suggerisce di ampliare invece di tagliare è in una pagina in cui il protagonista si precipita al bar. «Aggiungere allusioni a varie disavventure», prescrive l’appunto a margine. Ma perché mai!? Uno non può andare al bar perché ha voglia di bere qualcosa? Così, per il piacere di farlo? Chiedo scusa, in realtà c’è un altro punto in cui la editor mi propone di aggiungere roba invece di tagliare: il breve episodio in cui i due protagonisti incontrano il fratello di lei, Michael, musicista e tossicomane. La nota a margine è molto interessante: «Troppo breve. Aggiungere informazioni specifiche sulle droghe che usa». «E adesso che le prende?», mi dico io, «Forse è una tossica anche lei e vuole fare la conoscenza del fratello Michael?». Forse, un dettaglio sfizioso nella descrizione con cui lo presento nel libro ha attirato la sua attenzione: «Capelli scuri, corti, sfumati sulle tempie. T-shirt nera e soprabito di cuoio portato direttamente sulla maglietta. L’ultima moda del teppista. Sulla guancia ha due o tre tagli fatti con il rasoio. Non è un bell’uomo, ma ha un fascino severo, virile». Sta a vedere che la editor ha gusti sadomaso? No, non è il tipo. A pagina 180 ha eliminato senza pietà Sarah, una
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ragazza ebrea calva che porta una parrucca. Maledizione, perché proprio Sarah? A me sembrava tanto carina… Insieme a Sarah spariscono anche tutti i suoi amici, tra cui il sadico Raphael, una creatura magnifica, l’ornamento del mio romanzo. «Far sparire tutta questa gente!», ha decretato senza il minimo rimpianto. «E ti pareva... Fascista che non sei altro!», ho borbottato tra me e me. Un po’ alla volta il protagonista del libro finisce per ritrovarsi solo. Io lo avevo immaginato e descritto come un fallito dal carattere socievole, ma a forza di impicciarsi la editor lo ha trasformato in un misantropo senza amici. Non va mai da nessuna parte, non esce di casa, non vede nessuno. Per lui, il sesso è la cosa più importante del mondo, eppure la editor ha stabilito che può scopare sì e no due volte all’anno. «Una domestica non diventerà mai una signora», sospira qualcuno a pagina 220 del mio manoscritto. La frase è sottolineata, non cancellata, e a margine si legge un’esclamazione perplessa della editor, ferita nel suo orgoglio femminile: «Suona strano. Ha poco senso per un lettore americano. Quello che conta è volerlo davvero, no?». Quanto siamo diversi, io e la mia editor, sospiro sconsolato. Dal punto di vista di uno come me, che ragiona da russo, col cazzo che una può diventare una signora se vive nel mondo di una domestica, se in quel mondo c’è nata, da qualche parte in South Dakota. Se ha le mani, le gambe e il culo da domestica… Le dita, le unghie da domestica… Signore non si diventa, si nasce, nell’agio e nella quiete, rifletto con una punta di affettuosa compassione per la mia editor, che queste cose non le sa. È il concetto alla base dell’intero romanzo: il protagonista cerca in tutti i modi di fare di una domestica una vera signora, con scarsi risultati… La domestica ce la mette tutta, ma non c’è niente da fare: si può sognare quanto si vuole, ma è inutile. Le americane sono convinte che tutto sia possibile, credono
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che basti sposare il proprietario di una fabbrica di calze, biancheria intima o ketchup per diventare una signora. Gli Stati Uniti sono un Paese giovane, sono vivaci e pieni di energia. Io per me non ci credo. Chi me lo fa fare? Non sono buono neppure di uscire a fare jogging la mattina per cercare di campare più a lungo. Bevo, sono un alcolizzato. Quest’altra poi è addirittura un crimine! Tra le tante pagine cassate a sangue freddo c’è anche la luce dei miei occhi, il mio orgoglio: la scena in cui il protagonista incontra «la ragazza in pelliccia di cincillà», il sogno di qualunque uomo. La incontra su un enorme campo da golf inondato di sole, in riva all’oceano, dove è in corso un salone automobilistico. Quel mostro della mia editor non si è neppure degnata di scrivere: «Niente male, ma bisogna tagliare» o «Molto interessante, ma purtroppo non si può tenere». No! Ha liquidato il tutto senza neppure battere ciglio. Ha depennato senza la minima compassione le accorate lamentazioni del mio protagonista: «Crede che sia stato facile, per un amante della bellezza, vivere in un albergo come il Diplomat, dove la cosa meno brutta erano le facce dei papponi, che almeno erano sane? Crede che sia stato facile, per un uomo che aspira alla bellezza, scoparsi Rena, la ballerina romena con la faccia da scimmia?». Non le è neppure venuto in mente di risparmiare il mio inno alla bellezza, di lasciarlo dov’era. A lei interessa la struttura, e il protagonista ha avuto la pessima idea di enunciare il suo credo in California, dopo aver abbandonato
il posto di combattimento a New York senza aver chiesto il permesso alla editor. Sono tutte parole pronunciate in California, e quindi sono tabù. Vietato andare e venire dalla California. Il protagonista non può assentarsi neppure per guadagnare qualche soldo nel Nord dello Stato di New York. Quando il mio personaggio, per sua sventura, diventa sterratore lo fa perché non ha altra scelta, non trova lavoro, il Paese è in crisi economica, ma l’indomita editor-sentinella tira una riga sul suo soggiorno a centocinquanta chilometri da New York e riaccompagna il fuggiasco nella Nuova Babilonia. «Ricominciare da qui», intima in tono severo a pagina 228. A pagina 232, un complimento inatteso. «Bella chiusa!», osserva la mia editor a proposito del seguente passaggio: «Mi svegliai nel mio letto, nell’appartamento dell’83ma strada. Sulla mia spalla, abbracciato a me, dormiva Lëška. Proprio così, signori miei, l’uomo che sognava di farsi la stangona brasiliana era finito a letto con un robusto omosessuale dai capelli bianchi». Secondo me, non c’è niente di bello in questa chiusa. È triste. È un finale del cavolo. Ma forse la editor odia gli uomini e gode in cuor suo quando passano dei brutti momenti.
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A pagina 283, in corrispondenza di un passo che dice «infilò il cazzo nella sua fessura, che iniziava a farsi appiccicosa», c’è una freccia che rimanda a un perentorio richiamo all’ordine con tanto di punti esclamativi, incuneato nello spazio vuoto tra due righe: «Sfoltire! Troppi fatti!». A pagina 284, «non c’è alcun bisogno di questo Stanislav!». «Possibile che non serva mai nessuno? Le fanno tanto schifo i miei personaggi?», medito scuotendo tristemente il capo. A pagina 326, il protagonista chiacchiera con una prostituta in un bordello. È una parodia di una famosissima scena di Delitto e castigo, ma la editor la liquida su due piedi con un laconico «Tagliare!». «Orribile!», «C’è da uscire di testa!», «Non muore nessuno se leviamo questa pagina!», «Nel nostro ambiente c’è un proverbio che dice ‘Se volete trasmettere un messaggio rivolgetevi a uno sportello della Western Union’. Lo tenga a mente!». Quest’ultima osservazione si riferisce a una scena in cui il protagonista discute del problema del controllo delle nascite con un intellettuale danese e intanto gli torna in mente che deve scoparsi la padrona di casa polacca.
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La scena conclusiva, il culmine dell’intero libro, è un tentato omicidio lasciato a metà. La editor è convinta che mi sia dilungato troppo. La cosa dell’omicidio, in sé, non le dispiace. Il fatto è che non le interessano le motivazioni psicologiche, le ha cassate tutte, una per una. Il suo approccio al problema è tipicamente americano: vuoi fare fuori una persona? Ammazzala, ma non stare a cambiare idea. Sento che disprezza il mio eroe, un buono a nulla che alla fine sceglie perfino di non sparare. Leggendo quel profluvio di osservazioni scarabocchiate nei margini e tra le righe della scena dell’omicidio, inizio a dubitare anch’io del mio protagonista. «Stai a vedere che sotto sotto non è un vero uomo», medito tristemente. «Meno parole e più ritmo!», osserva giudiziosa e implacabile la mia editor accanto a una freccia a matita che punta sulla frase: «Le mie dita si chiusero lentamente sul grilletto». «Per loro è una cosa normale», rifletto timidamente, «da loro il tiro al presidente è uno sport nazionale. Sono dei professionisti, loro». «Io sono solo un povero europeo pieno di scrupoli», mi dico sconsolato, «non c’è neanche partita!». E lei, la editor americana, che cosa avrà apprezzato del mio libro? Scorrendo ancora una volta il mio povero manoscritto martoriato trovo un solo complimento con tre punti esclamativi. È l’unico passo che le abbia davvero detto qualcosa. Lo trascrivo qui di seguito. La scena è ambientata in una cucina. «Seduti in cucina in posizioni diverse facemmo commenti sui pantaloni in sintetico della marchesa, concludendo che gli Inglesi sono tutti dei gran provinciali, anche i nobili».
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Le guerre mondiali di H. G. Wells di Stefano Trucco
Sopra - Ritratto fotografico di Herbert George Wells. A sinistra - Un mezzo da combattimento marziano si scontra con la nave da guerra Thunder Child; illustrazione di Henrique Alvim Correa per il romanzo La guerra dei mondi, 1906.
La forza della fantascienza è anche la sua maggiore debolezza: l’occuparsi dell’Uomo e dei suoi destini, della Terra e non di un luogo particolare, la condanna a essere globale sempre e comunque. La reputazione di Herbert George Wells (18661956) riposa oggi su un piccolo numero di romanzi usciti intorno al 1900 e che fondano la moderna fantascienza. La guerra dei mondi, La macchina del tempo, L’isola del dottor Moreau, L’uomo invisibile e I primi uomini sulla luna raccontano, con i modi della narrativa tardo-vittoriana, le storie di base che poi saranno rielaborate nel secolo successivo dagli scrittori del genere. Il resto della vasta produzione di Wells è largamente dimenticato, malgrado egli sia stato, fra le due guerre, probabilmente il più noto e influente “public intellectual” del mondo anglosassone, un uomo le cui opinioni sulla politica, la religione, la scienza e il futuro erano consi40
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derate degne di nota e richieste da tutti i giornali del mondo. I romanzi realistici come Kipps, Tono Bungay e The history of Mr. Polly; la vasta produzione saggistica, giornalistica e polemica su tutti i temi del giorno; la sua storia del mondo – The Outline of History – che fu uno dei maggiori best seller fra le due guerre, tanto da essere citato da Sidney Greenstreet nel Falcone Maltese: tutto dimenticato, benché quei vecchi volumi solidamente rilegati popolino silenziosamente i negozi di libri usati in tutto l’ex impero britannico e negli Stati Uniti. Dimenticato, purtroppo, è anche il resto della sua produzione fantascientifica, che pure contiene parecchie gemme. Per esempio, The Sleeper Awakes (pubblicato nel 1899 e poi, in una nuova versione, nel 1910), dove un uomo cade in catalessi e si risveglia, duecento anni dopo, padrone di mezzo mondo grazie alla magia dell’interesse composto. n° 5 • Ottobre 2013
Letteratura
L’azione, violenta e stupendamente pessimista, si sviluppa in una distopica Londra futura, interamente coperta e chiusa, tagliata fuori dalla natura, una megalopoli spietata che ispirò Fritz Lang e Thea von Harbou per Metropolis. Purtroppo, la fantascienza ha una data di scadenza e non può evitare il confronto sempre perdente con come le cose sono andate veramente e siamo in pochi, credo, ad appassionarci alle vecchie profezie sbagliate che non sono riuscite a diventare metafore, come riuscì a Orwell con 1984. In fondo, i testi di Wells che sono sopravvissuti sono proprio quelli meno caratterizzati dal punto di vista predittivo e critico, meno legati al proprio tempo, quelli che più facilmente possono essere astratti dal loro specifico e riutilizzati per altri scopi. Inoltre, Wells soffre per lo stile realistico e dettagliato, così diverso dagli stilemi della fantascienza Sul Romanzo
come essa si stabilì negli Usa a partire dagli anni Venti. Wells si considerò sempre uno scrittore senza aggettivi, non uno scrittore di genere. La storia della fantascienza “non di genere” è ricca di sorprese e di autori inaspettati: oltre a Orwell e Aldous Huxley, i due più noti, scrissero “storie del futuro” autori diversi e inaspettati come Jack London e Anatole France, Franz Werfel e Evelyn Waugh, Mario Soldati e Paolo Volponi e tanti altri, visti con sospetto dai custodi della purezza di genere come intrusi e incompetenti. Se è vero che spesso i tentativi di questi scrittori mainstream si rivelano inferiori alle migliori produzioni di genere, casi come quello di Orwell e, appunto, di Wells dimostrano quanto perda la fantascienza a chiudersi nel suo ghetto dorato, anche se la situazione oggi sta cambiando radicalmente. Un altro problema per Wells sono i suoi pregiudizi personali e storin° 5 • Ottobre 2013
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ci, diversi dai nostri: lo scienziato de La macchina del tempo non ha dubbi sulla direzione da prendere con la sua invenzione: il futuro. I praticanti di oggi sono molto più interessati ad esplorare il passato per cambiare il presente e a perdersi nella creazione e soluzione di stucchevoli paradossi temporali… Inoltre, certe idee di Wells – lo scientismo, l’ateismo, l’eugenetica, la necessità di uno stato mondiale – risultano oggi sospette, come pure, per altri versi, il suo intransigente pacifismo che fa da sfondo a tre romanzi scritti fra il 1908 ed il 1933: The War in the Air, The World Set Free e The Shape of Things to Come. In effetti, si tratta dello stesso romanzo riscritto ogni volta un po’ peggio, un chiaro esempio di fama crescente e lento declino artistico. La trama è presto detta: le strutture politiche ed economiche non riescono a gestire il progresso scientifico; si arriva a una devastante guerra mondiale combattuta con armi avanzatissime; la civiltà crolla; dalle ceneri del vecchio mondo sorge un nuovo, moderno Stato Mondiale (che Wells aveva descritto in dettaglio in uno dei suoi libri meno leggibili, A Modern Utopia del 1905). Lessi La guerra nell’aria in un’edizione tascabile Garzanti degli anni Sessanta con in copertina un disegno di Crepax e ne avevo uno splendido ricordo, sostanzialmente confermato da una recente rilettura. In questo romanzo del 1908, le armi avveniristiche che distruggono la civiltà sono immense flotte di dirigibili, assistiti da piccole macchine volanti, tipo alianti, che bombardano le Al centro - Una litografia giapponese del 1915, in cui si immagina una battaglia fra forze inglesi e tedesche. Nella pagina a fianco Copertina del «Time» dedicata a Herbert George Wells.
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Sul Romanzo
città dall’alto. Il romanzo segue le vicende di Bert Smallways, un tipico giovane inglese degli anni Venti, limitato e mediocre, ma pieno di entusiasmo per il progresso scientifico. Dopo una serie di vicende farsesche, Bert finisce sulla flotta aerea imperiale tedesca diretta a bombardare New York. Il primo vero bombardamento aereo militare (italiano, purtroppo) sarebbe avvenuto solo tre anni dopo, ma la descrizione della distruzione di New York è estremamente efficace, come pure quella della pura e semplice possibilità di volare, un’esperienza rarissima per quei tempi e che, forse, lo stesso Wells non aveva ancora provato. Il romanzo si pone proprio su questo crinale, fra il sogno del volo reso possibile dalla tecnologia e la realtà della morte provocata da quella stessa tecnologia. I tedeschi, guidati dall’erede al trono, il Kronprinz Karl Albert, un superuomo nietzschiano ispirato in parte al Kaiser Guglielmo (parlando di nomi dimenticati, Guglielmo II era probabilmente l’uomo più famoso dei primi due decenni del XX secolo: oggi è solo un paio di baffi a punta molto elaborati…), tentano di sottomettere gli Stati Uniti, scoprendo che una flotta aerea non è per niente adatta allo scopo. In Europa, sono attaccati da tutte le altre potenze, poi tutti i combattenti sono attaccati a loro volta dalle immense flotte dell’alleanza asiatica di Cina e Giappone (il pericolo giallo, n° 5 • Ottobre 2013
Comandante X**) riesce minimante a predire, per difetto di immaginazione, gli orrori della guerra di trincea fra il 1914 ed il 1918; Wells, se non altro, sbaglia per eccesso. Riassumendo, i romanzi di guerra prima del 1914 sottovalutano la guerra moderna, mentre quelli scritti fra le due guerre, su cui torneremo, sbagliano perché la sopravvalutano. Come dimostra The World Set Free, pubblicato pochi mesi prima dell’attentato di Sarajevo. Gli allineamenti politici del romanzo non sono diversi da quelli della Grande Guerra: inglesi, francesi e slavi contro tedeschi. Però si combatte con le bombe atomiche e l’anno è il 1953. Si tratta del primo romanzo su una guerra nucleare (Wells scientificamente era sempre molto aggiornato), se si esclude un bizzarro spettacolo al circo-teatro Hippodrome di New York nel 1908, Battle of the Skies, su una futura guerra fra Stati Uniti d’America e Stati Uniti d’Europa in cui grandi aeronavi distruggono le città con “cannoni al radio”. Tornando a Wells, le sue bombe atomiche sono diverse da quelle che vennero lanciate su Hiroshima e Nagasaki: si tratta di lunghe serie di esplosioni radioattive che durano decenni, così che le città diventano immensi e durevoli incendi. Comunque, grazie anche al collasso del sistema economico mondiale e al diffondersi globale della guerra (i giapponesi bombardano San Francisco, per esempio), la civiltà non manca di crollare. Non del tutto, però: grazie agli sforzi di un francese idealista, Leblanc, viene convocata una conferenza internazionale a Brissago, sul lago Maggiore, che diventa rapidamente il nuovo governo mondiale. altro tema caldo del tempo). Gli asiatici sembrano sul punto di trionfare, ma anch’essi sono sopraffatti dal caos, la cui causa principale, più ancora della guerra, è il crollo del sistema creditizio internazionale e conseguentemente dell’intera economia, che getta il mondo nella miseria. I governi crollano, ma la guerra continua disperata e caotica perché nessuno ha il potere di fermarla finché non si esaurisce da sé. Bert Smallway, che ha finito per uccidere Karl Albert, tornerà a casa: un uomo cambiato, in un’Inghilterra regredita alla barbarie fra le macerie del progresso tecnologico. La storia di Bert è narrata da un anonimo storico del futuro che, a un certo punto, ci rivela en passant di vivere in uno stato mondiale pacifico e progredito. I capitoli storici si alternano efficacemente alla storia dell’odioso piccolo protagonista (pochi sono i romanzi in cui l’autore prova una simile antipatia per il suo protagonista). Il limite del romanzo è, banalmente, il fatto che non riusciamo a credere alle flotte di dirigibili, per quanto affascinanti e steampunk ci possano sembrare oggi. Il genere della “guerra futura” era in piena fioritura negli anni precedenti al 1914, con centinaia di testi che, letti oggi, sono decisamente imbarazzanti nella loro cecità: nessuno di questi autori inglesi, francesi, americani, tedeschi o italiani (per esempio l’anonima La guerra d’Europa 1921-23, romanzo delle nazioni del Sul Romanzo
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La minaccia del Re dei Balcani, un cattivo da operetta, provoca qualche problema, presto risolto uccidendolo: per il resto, il governo mondiale opera consensualmente, più con la persuasione che con la violenza. L’ultimo capitolo, un secolo dopo, segue gli ultimi giorni di vita di un funzionario russo, Karenin, in un sanatorio sull’Himalaya e serve a descrivere le bellezze del nuovo ordine mondiale. Il romanzo è ovviamente molto inferiore a The War in the Air. Non c’è un personaggio centrale e quelli che ci sono non hanno molto peso. L’azione è frammentaria e i capitoli storici e polemici predominano sulla storia. Vi sono alcune belle scene: la descrizione della Londra del 1953 prima dello scoppio della guerra, stravolta dalla nuova energia atomica che sta rivoluzionando l’economia e la società, è affascinante (le auto atomiche a due ruote sono così veloci da aver reso impossibile il traffico pedonale così che i palazzi sono collegati da migliaia di ponti e passerelle che le danno un aspetto veneziano), come pure la distruzione di Parigi, vista attraverso gli occhi di una dattilografa del quartier generale alleato innamorata del comandante in capo, il maresciallo Dubois. Ma nel complesso la parte saggistica è debordante e caotica. Quando, nel 1933, Wells scrive The Shape of Things to Come, è al culmine della sua fama mondiale e al fondo del suo talento di scrittore. Il romanzo è decisamente scritto come un libro di storia futura, con occasionali inserti narrativi. È, inoltre, una vera propria storia fantapolitica: l’azione, dopo un centinaio di pagine di prologo storico sui problemi del mondo dopo la Prima Guerra Mondiale, inizia proprio nel 1933 e i protagonisti sono Hitler, Mussolini, Stalin, Roosevelt e altre figure politiche del tempo. E qui cominciano i problemi seri: nel 1933, Wells, come molti altri fra cui il suo amico fabiano G. B. Shaw, è profondamente deluso dalla democrazia e dal capitalismo in crisi. Ammira i dittatori. Non le loro ideologie, non abbastanza scientifiche, ma i loro metodi: preferisce Stalin, certo, ma non condanna né Hitler né Mussolini. La guerra scoppia nel 1940 fra Germania e Polonia a causa di Danzica: questo ha permesso a certi entusiasti di proclamare l’esattezza della profezia di Wells, ma fu un caso, dato che tutto il resto è sbagliato e di molto (di solito la guerra scoppiava per la Manciuria, come in Il Presidente è scomparso di Rex Stout, il creatore di Nero Wolfe, pubblicato lo stesso anno). La guerra è combattuta con i gas e la Germania ci mette sei mesi a sconfiggere la Polonia, subendo essa stessa gravi danni. Intanto, l’Italia ha attaccato la Jugoslavia, gli Stati Uniti il Giappone, altre nazioni sono coinvolte un po’ alla volta e l’economia collassa provocando nuovamente il crollo della civiltà. Fra l’altro, proprio in quel 1933, il Nobel per la Pace viene assegnato al deputato e scrittore inglese Norman Angell per il libro La grande illusione (1910), in cui dimostrava che la guerra era impossibile in quanto sarebbe stata rovinosa per tutti: il sistema economico mondiale era ormai globalizzato e interconnesso a un punto tale che un conflitto mon44
Sul Romanzo
diale l’avrebbe fatto crollare. Questo libro, oltre a fornire a Jean Renoir il titolo del suo film pacifista del 1937, fornì a Wells un meccanismo narrativo a cui si sarebbe mantenuto rigidamente fedele nei decenni. Da notare, inoltre, come la predizione dell’uso dei gas nella prossima guerra mondiale fosse comune negli anni Trenta (vengono usati anche nel Brave New World di Aldous Huxley) e fu anch’essa smentita dai fatti: fra il 1939 e il 1945 si usò di tutto, compresa la bomba atomica, ma non i gas. Fra le poche pagine gradevoli del romanzo vi sono le frammentarie descrizioni del mondo dopo il crollo, regredito a uno stato agricolo e pastorale, negli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, però, sorge un nuovo potere, basato sulla scienza e l’aviazione (altro topos tipico della narrativa futuristica di quegli anni) e con base a Bassora, in Iraq, allora parte dell’Impero Britannico. Il mondo viene unificato a forza di gas e i metodi di Stalin e Hitler vengono messi al servizio dell’ideologia “giusta”. Per esempio, quando il governo mondiale decide di risolvere il “problema” della religione provvede a distruggere dall’alto Roma, la Mecca e altri luoghi sacri senza preoccuparsi troppo del consenso. Insomma, una lettura decisamente poco gradevole. Nel 1936, da questo vagamente imbarazzante romanzo venne tratto un film molto migliore, uno dei classici della fantascienza cinematografica, Things to Come, con Raymond Massey e Ralph Richardson. Tale era ancora la fama dell’autore che negli Usa venne presentato col titolo H. G. Wells’ Things to Come. Nel decennio successivo, durante una guerra molto diversa da quella che aveva previsto, la reputazione di Wells cominciò a declinare, come pure la sua fiducia nei destini del genere umano, ora che anche i metodi dei dittatori s’erano dimostrati inefficaci. Il suo ultimo libro, prima della morte nel 1946, fu un saggio assolutamente pessimista intitolato The Mind at the End of Its Tether, la mente allo stremo.
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Letteratura «Montesquieu dice che gli Sciti cavavano gli occhi ai loro schiavi perché fossero meno distratti quando lavoravano; così fa anche l’Inquisizione, e quasi tutti sono ciechi nei Paesi in cui regna questo mostro». Sono le parole di Voltaire, nel Dizionario filosofico, mentre definisce Lettere, uomini di lettere o letterati. Non c’è più l’Inquisizione, nel nostro mondo moderno, è vero. Almeno non quella palese, ecclesiastica. L'hanno seguita altre forme di censura del pensiero e della libertà, imponendo uno stereotipo da replicare ad infinitum. Ancor più evidente questo fatto è nei Paesi dell’ex blocco comunista, dove tutti leggevano la stessa letteratura e tutti, vestiti da pionieri, imparavano sin da bambini a pseudo-amare gli ideali di patria che non appartenevano loro. Tant’è che, una volta caduto il regime, l’unica cosa a sopravvivere è stato il disinteresse quasi totale nei confronti di quello che avrebbe dovuto essere il vero ideale di nazione. Il nazionalismo, se e quando si manifesta, nasce come la lucidità filosofica: a una considerevole distanza dall’oggetto. Se è vero che il passato non può essere cancellato, allora forse è da tenere presente quando si analizza la letteratura di un popolo. Questo potrebbe rivelarsi la spiegazione per la grande quantità di nostalgie e ribellioni comuniste che caratterizzano la letteratura dell’Est Europa, in special modo quella romena. Una caratteristica dalla quale difficilmente ci si allontana anche nel momento in cui la patria diventa oggetto di ricordo, di nostalgia a sua volta, perché lasciata per seguire la propria fortuna.
L’ironia nella letteratura romena di Irina Turcanu
Voltaire parlava, in generale, dello spirito umano che diventa letterato e che soffre per colpa dei potenti che lo schiacciano, perché la massa non ha bisogno degli intellettuali, essa è più comoda se priva di tormenti interiori. L’asserzione calza bene anche alla Romania (e un po’ a tutti i Paesi, dove, quando vi sono tagli economici, la prima a venir meno è – stranamente – la cultura), ma nel caso di specie occorre guardare più in profondità, nell’animo tradizionale romeno, perché un’affermazione generica e generalizzante rischia di rimanere sterile. A sinistra - Il Pensatore di Hamangia. 52004500 a.C. Muzeul de Istorie Nationala si Arheologie. Constanta (RO). Sullo sfondo - La Casa del Popolo di Bucarest. Foto di Samuel Bregolin. Sul Romanzo
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Dumitru Bortun, laureato in Filosofia, è docente presso l’Università di Comunicazione e Relazioni Pubbliche di Bucarest. Numerose sono le sue ricerche e pubblicazioni in ambito sociale e politico.
Costantin Radulescu-Motru (1868 – 1957) è stato un politico romeno e docente universitario di filosofia a Bucarest. Fu il fondatore degli Annali di psicologia e Studi filosofici. I suoi studi hanno avuto spesso come soggetto la psicologia del popolo romeno.
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Si chiamava Constantin Radulescu-Motru e, nel 1937, rifletteva sui modi di dire romeni, divenuti stile di vita nazionale. E notava, prima di tutto, quello secondo il quale la testa china non viene mai recisa dalla spada: un invito all’umiltà estrema, pur di non creare reazioni. In tempi più recenti, il sociologo Dumitru Bortun rifletteva, a sua volta, sulle inclinazioni romene e affermava che i romeni non possiedono «nessuna strategia di sviluppo sociale, un progetto di società. Noi, romeni, saremmo nati pure poeti, ma di certo non siamo nati manager; noi non pensiamo in modo strategico. […] siamo intelligenti, analitici e saggi, ma solo dopo aver sbattuto la testa contro il muro. Non sappiamo evitare il muro, giocando di anticipo». E con queste premesse, è chiaro che la capacità di reazione, anche culturale e letteraria, è ai minimi livelli. A ciò si aggiunge un altro elemento, esaltato come presenza nella letteratura romena, autoctona e migrante: il dramma. La letteratura tradizionale, popolare, anonima o classica della Romania ha il sapore del dramma, della tragedia, della sofferenza. Le manca l’ironia. I canti sono accompagnati dal bucium, bucinum lo chiamavano i latini, e la melodia è quella di jale, derivante dallo slavo zali, ossia con amarezza. E in tutto quel dolore umano, di due pastori che vogliono ucciderne un terzo, avvisato del perfido piano da una delle pecore del suo gregge, di Manole che mura la moglie affinché il monastero da erigere non crolli più, non vi è spazio per prenderla alla leggera, con un sorriso. In un mondo dove gli altri
esseri umani sono cattivi, invidiosi e pronti a tutto, e dove serve il sacrificio estremo per ottenere risultati, non si può ridere. Si entra in contatto con questa visione della vita sin dalla scuola, dove già alle medie s’imparano a memoria brani interi di poesie della tradizione romena, ma anche le critiche letterarie fatte dagli esperti, senza grande libertà di replica personale. Alle superiori, invece, come si legge in un’edizione del 1992 di un libro di testo, si fa sul serio e si apprendono nozioni di teoria della letteratura e la classifica dei generi letterari, primi tra tutti quello epico e quello drammatico. Muniti di questi strumenti per la comprensione, si passano in rassegna, negli anni successivi, gli albori della letteratura per giungere poi ai contemporanei. Con costante assenza d’ironia. Ma in mezzo a tutti, l’unico forse a salvare con dignità l’anima dei romeni è Mihai Eminescu: ribelle, tagliente e acuto giornalista. Certo, in Romania è sopravvissuto quasi esclusivamente come poeta e, sempre quasi esclusivamente, per i versi d’amore amaro. Splendidi, ma anche essi, spesso, al profumo del dramma.
Viorel Boldis, nato a Oradea, in Romania, vive in Italia da quasi due decenni. Qui ha pubblicato Il fazzoletto bianco, Da solo nella fossa comune, Rap… sodie migranti, 150 grammi d’amore.
Ingrid Beatrice Coman, nata in Romania, si trasferisce giovanissima in Italia, poi a Malta, dove risiede attualmente. Pubblica in italiano Tè al Samovar. Voci dal gulag sovietico, Per chi crescono le rose, La città dei tulipani, Non spegnete la luce (Racconti), Il villaggio senza madri. A sua firma sono le traduzioni di Lisoanca e In assenza del padre.
Sul Romanzo
Su un simile terreno fertile, i drammi comunisti e post-comunisti hanno germogliato donando frutti succosi e abbondanti. Ovviamente, senza ironia, anche questa volta. È impensabile ridere del dramma delle file per il latte, alle quattro del mattino con il gelo nelle ossa, ed è oltraggioso ironizzare sull’assenza di libertà di pensiero che terrorizzava il popolo.
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Mihai Eminescu (1850 – 1889) e Ion Luca Caragiale (1852 – 1912) sono stati rispettivamente il maggiore poeta romeno, nonché pubblicista, e uno dei più importanti drammaturghi e scrittori romeni.
Verrebbe da chiedersi, tuttavia, se veramente non si possa ridere, anche perché tra i suoi tanti detti coloriti, la Romania ne possiede uno ottimo da innalzare a livello di imperativo: haz de necaz, ridere dei guai. E l’anima della letteratura ha offerto questo dono a uno scrittore che aveva colto il segreto per poter ridere, con intelligente ironia, dei problemi. È passato un secolo da allora, e I. L. Caragiale pare non abbia lasciato eredi; nessun altro ha più compreso che serve spostare il punto di vista, per poter diminuire il dramma e nutrire di linfa ironica la letteratura. Perché, l’ironia, l’auto-ironia, è l’essenza del cambiamento, della reazione, della lucidità. Se in patria la scia del comunismo attanaglia l’animo di alcuni scrittori (per fortuna ci sono le eccezioni!), lo sradicamento e la distanza dalla propria patria rendono malinconici gli autori italofoni, per lo meno quelli di origine romena. E tutti, quasi indistintamente, ne parlano nei loro romanzi, poesie, novelle. Se non per sempre, almeno agli esordi. Il mito dell’esule, però, non è un elemento inventato dalla letteratura migrante contemporanea; il mondo letterario italiano ottocentesco, anteriore all’Unità, frequentava assiduamente il tema dell’esilio. Foscolo, Giordani, Guerrazzi, Ruffini, De Sanctis, per fare alcuni esempi. La vicenda dell’esule divenne punto centrale di molti scritti, pregni dell’amara percezione della sconfitta politica, il rimpianto per un luogo amato e abbandonato, il senso della separazione da un patrimonio di senMihai Mircea Butcovan, nato a Oradea, in Romania, attualmente vive in Italia dove ha pubblicato i volumi Allunaggio di un immigrato innamorato e Borgo Farfalla.
Sul Romanzo
timenti e abitudini, il dolore della solitudine, l’esortazione a continuare la lotta, il desiderio che il proprio dramma si traduca in un fecondo esempio morale, ecc. A onor del vero, era anche un’epoca in cui gli intellettuali fungevano da modello, si sentivano incaricati dell’arduo compito di mostrare la via agli altri… Con il Novecento, l’impeto si è placato. Nel nuovo secolo, è scomparso del tutto. Il mito dell’esule nella letteratura migrante romena è contemporaneo, da questo punto di vista, e non ha nulla da insegnare, nulla che esorti alla lotta, alla ribellione, all’ideale comune, al nazionalismo. È un mito intimista, di memoire, di un prima e un dopo, di nostalgie, di ricerca interiore, di sguardi estranei su terre straniere, di incolmabili lontananze. Di dramma. È un mito che, difatti, ha piantato le radici nella patria di origine ed è annaffiato da piogge mediterranee, per questo guarda con tensione verso le lande deserte del territorio straniero, estraneo, altro. Servirebbe la sintesi, l’incontro del prima e del dopo in un fresco ed effervescente mentre, ma l’operazione risulta difficile, benché non impossibile. I lavori, per qualcuno, sono in corso. E tra le voci italiane con un certo accento romeno le più apprezzate sono quella del poeta Viorel Boldis, degli scrittori Ingrid B. Coman, Mihai Mircea Butcovan. E le loro voci, benché figlie di una terra che tende al dramma, riescono a scostarsi, lievemente, dalla passione per l’argomento nazionale. Boldis sa essere anche pungente, acuto, critico nei suoi versi, specie quando parla dei suoi due Paesi, uno amante, l’altro moglie. E, in nuce, l’ironia germoglia tra le sue parole, senza, però, essere ancora sbocciata del tutto. Coman, dal suo canto, ha sorpreso con il suo esordio, completamente diverso dal filone seguito dai narratori italofoni – rimembrare le bellezze delle proprie terre – e ha puntato sul romanzo storico. Certo, senza venature ironiche perché il tema richiedeva sobrietà: le voci dal gulag sovietico. Con Butcovan, invece, si ha un primo assaggio di ironia. Ricalca il tipico tema dello scrittore migrante, ma lo ripulisce dal dramma e lo tinge di situazioni che suscitano ilarità.
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Alle origini del Food writing di Rossella Di Bidino
Lo chiamano Food writing. Sapori, colori, incontri si mescolano fino a trasformarsi in narrazione. Il cibo diventa l’argomento della scrittura. E molteplici diventano i generi letterari attorno a cui ci si muove. Non ci si ferma al classico libro di cucina, in cui gli ingredienti vengono elencati e le azioni da compiere specificate passo per passo in maniera asettica. Questo è quello che si vuole evitare. La noia viene bandita con l’obiettivo di rendere il cibo un’esperienza sensoriale ed emotiva condivisibile. Così il food writing può diventare saggio, articolo giornalistico, biografia, ricerca storica e persino racconto. Il racconto può essere romantico, storico e, a volte, pure giallo. Il food writing è quasi un genere di scrittura senza genere letterario predefinito.
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Sul Romanzo
Il food writer si sforza di dare dignità al più comune dei bisogni umani e degli oggetti quotidiani. Dato che oggigiorno il cibo, per chi ce l’ha, è diventato un’ossessione a cui vengono dedicati programmi televisivi e blog, si potrebbe anche pensare che il food writing sia nato da poco. Ma esso, invece, affonda le radici nell’Ottocento. Probabilmente il primo libro scritto da un food writer è stato La fisiologia del gusto. Nel 1825, il gastronomo francese Jean-Anthelme Brillat-Savarin trascrisse le sue meditazioni sui piaceri e la civiltà della tavola. Poco tempo dopo Alexandre Dumas, nel 1835, nel suo Grande Dizionario di Cucina mescola memorie di viaggio con ben 3.000 ricette. Si tratta, però, ancora di esperimenti isolati.
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Letteratura
Quando sia nato veramente il food writing è questione dibattuta. Due figure svettano nell’Olimpo del food writing moderno: M. F. K. Fisher ed Elizabeth David. Donne, viaggiatrici e scrittrici. Entrambe con un forte legame con la Francia e l’Italia. Una statunitense e l’altra inglese. «Perché scrivi del cibo, del mangiare e del bere? Perché non scrivi della lotta per il potere e per la sicurezza o dell’amore, come tutti gli altri?» Era questo che i lettori chiedevano a Mary Frances Kennedy, poi M. F. K. Fisher. La sua riconosciuta capacità nello scrivere quasi motivava, ai loro occhi, la necessità che lei si dedicasse a temi ritenuti più seri. Lei, però, è piuttosto perentoria in The Gastronomical Me, dove dichiara in apertura: «La risposta più semplice sarebbe che, come tutti gli altri esseri umani, sono affamata. Ma c’è molto di più di questo. Ritengo che i nostri tre bisogni primari, cibo, sicurezza e amore, sono così legati e intrecciati tra loro, che non possiamo pensare ad uno senza considerare anche gli altri. Così succede che quando scrivo di fame, io scriva in realtà anche dell’amore e del bisogno di sicurezza». Per «la miglior prosatrice d’America», secondo W. H. Auden, e per «la nostra poetessa degli appetiti», per John Updike, il food writing è in grado di raccontare quasi l’intera esistenza umana. M. F. K. racconta talmente bene cibo e uomo che i critici non esitano ad affermare che lei scrive di cibo così come altri scrivono d’amore, solo decisamente meglio. Sul Romanzo
Quasi a dimostrare questo carattere omnicomprensivo del cibo nei confronti della vita, in Serve it Forth (1937), M. F. K. Fisher narra nel capitolo Due fratelli, nello spazio di una sola facciata e poco più, di Giacobbe ed Esaù. Comincia raccontando come Giacobbe vendette una minestra di lenticchie ad Esaù, il quale era talmente affamato che cedette il suo diritto di primogenitura per una ciotola di quella minestra. La madre di Giacobbe, Rebecca, «era come molte delle donne… una brava cuoca ed insegnante di cucina… Lei insegnò al suo caro figlio ad essere il padre di tutti (o quasi tutti) i ristoratori. L’altro suo figlio (Esaù, n.d.r.) non lo capì mai del tutto o almeno non tanto quanto sapeva farlo il padre Isacco. Isacco e Esaù erano capaci di passare un giorno intero a caccia di un cervo, per poi semplicemente cucinarlo e stare seduti accanto al fuoco a parlare di esso. Loro potrebbero essere stati i primi gastronomi». Come se la stessa Bibbia potesse contenere una sintesi del rapporto dell’uomo col cibo. Sopra - Ritratto fotografico di M. F. K. Fisher. Nella pagina a fianco: In alto - Il frontespizio di Physiologie du gout, di Jean-Anthelme Brillat-Savarin. In basso - L'ortolano o Ortaggi in una ciotola (Natura morta reversibile), Giuseppe Arcimboldo. Museo Civico "Ala Ponzone", Cremona (IT). n° 5 • Ottobre 2013
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In How to Cook a Wolf (1942), invece, affronta il tema della fame. Al momento dell’uscita del libro imperversava il razionamento imposto dalla guerra. C’era la necessità, quindi, di creare dei pasti praticamente dal nulla. Così, prima insegna How to catch the wolf [Come catturare un lupo] e poi non si imbarazza nello spiegare How to boil water [Come bollire l'acqua]. Bollire l’acqua sembra essere la più banale delle cose, eppure M. F. K. Fisher parte dal quesito: «Quando l’acqua bolle? Quando in sostanza l’acqua è acqua?» e lo lega a «una figura quasi apocrifa della mia giovinezza, la quale non sapeva neppure far bollire l’acqua. Era una ragazza del Sud che andò a scuola con mia madre in Virginia. “Oh” mia madre ripeteva… “oh, non sapeva neppure far bollire l’acqua… prima di sposarsi”». M. F. K. Fisher, invece, riesce a scorgere le differenze necessarie tra il bollire l’acqua ed il bollire l’acqua con qualcosa. Così che consommé cinese, zuppa parigina alle cipolle, minestrone all’italiana, crema di patate, gazpacho sono le ricette che in questo curioso capitolo riescono a trovar spazio. In The Gastronomical Me (1943), affina le sue capacità narrative e riesce a raccontarsi mescolando i bisogni essenziali della vita. Infatti, di uno dei personaggi dice che: «Amava cucinare nello stesso modo in cui le altre persone amavano pregare o ballare o combattere». Riesce anche a cogliere gli eccessi nel rapporto col cibo come in quel domestico del Nord della Borgogna… «che era fanatico del cibo come una donna medioevale impossessata dal diavolo». Oppure si allontana del tutto dalla tavola fino ad arrivare a sintetizzare le varie esperienze della vita: «Adesso che sono vecchia abbastanza so che queste cose succedono o almeno sono capace di affrontare le ramificazioni e le complessità della solitudine». In The Gastronomical Me si conferma la sua abilità e volontà di parlare di cibo per parlare d’altro. 50
Sul Romanzo
Sopra - Ritratto fotografico di Elizabeth David, con la copertina di An Alphabet for Gourmets. Nella pagina a fianco - Ritratto fotografico di Laurie Colwin.
In An Alphabet for Gourmets (1949), crea un intero alfabeto attorno al cibo cominciando dalla A if for dining Alone. Mentre nella Biografia sentimentale dell’ostrica (Consider the oyster del 1941) riesce a raccontare della «vita spaventosa, ma palpitante» e dell’«esistenza terribile e al contempo eccitante» di quel mollusco che è un «cibo del tutto insufficiente per il lavoratore, ma… perfetto per il sedentario come cena prima di una bella dormita». Lo stile di M. F. K. è piuttosto evocativo, fin dalla scelta dei titoli, pur nella sua capacità di sintesi. Il cibo è l’argomento principale della narrazione, ma viene legato alle vicissitudini della vita. Mentre Elizabeth David, l’altra dea del food writing, pur utilizzando l’espediente del ricordo, si sforza di raccontare la storia dei cibi. In entrambe, però, il ricorso ai sensi è sfruttato per dare spessore alla narrazione. Elizabeth David parla di cookery writing e lo descrive nella sua forma migliore come «coraggioso, cortese, adulto» e lo fa in calce a una ricetta di pane col formaggio: «coraggioso, cortese, adulto. È creativo nel vero senso di questa abusata parola. È creativo perché invita il lettore a usare il suo senso critico e le sue facoltà inventive. Invita il lettore a uscire per scoprire, per formare il proprio giudizio, per osservare le cose da sé, invece di accontentarsi passivamente, come uno schiavo, di quanto affermano i libri». n° 5 • Ottobre 2013
Raccontando dello chef Pomiane, riesce a svelare un altro aspetto importante del comunicare: «Il suo approccio non ortodosso si estendeva... persino alla scelta delle parole con cui tentava di riportare in vita un’antica ricetta». L’accurata scelta delle parole, spesso, è il vero lavoro del food writer. Con lo stesso spirito critico sintetizza i propri articoli come «una formula che si richiama alla commedia musicale inglese. Le ricette erano le giravolte, le canzoni e le danze, mentre l’introduzione diventava i dialoghi parlati necessari affinché la frivola trama potesse svolgersi». In questa commedia rivisitata non mancavano neppure le cattive esperienze perché, come giustamente scrive, «un cattivo pranzo è sempre costoso». Elizabeth David dedica particolare attenzione alla ricerca sul cibo. Così, per un piatto a base di more di gelso e di mandorle non si limita a riportare la ricetta, ma si sforza di darle un appiglio storico. Ne descrive la somiglianza col sapore de morone, pubblicato per la prima volta nell’Epulario, trattato del 1516. Racconta al lettore come, sebbene l’autore sia Giovanni Rosselli, esso raccoglie anche l’opera del Maestro Martino da Como. Con lo stesso pignolo atteggiamento riesce ad arricchire la breve recensione di un libro di cucina marocchino, apparsa su «The Sunday Times» (1955), con il semplice accenno al pane di locusta «una delicatezza disponibile solo quando fanno capolino ogni nove anni. Potrebbe essere necessario cominciare a pensarci ora, dato che le locuste sono attese per il prossimo anno».
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Allo stesso modo ricostruisce la vera quiche lorraine, seppure non resista ad osservare che «gli abitanti della regione della Loira vi diranno che questa non è la vera quiche lorraine, la cui storia risale al Seicento se non prima». È, quindi, una narrazione dettagliata, verificata sul piano storico e sociologico, eppure ironica. Così, sempre in French Provincial Cooking (1960), afferma che: «Come tutti sanno, c’è una sola infallibile ricetta per l’omelette perfetta: la propria». Ugualmente, in Summer Cooking (1955), trattiene l’entusiasmo del lettore nel preparare il tavolo da buffet. Infatti, «l’obiettivo desiderato non deve essere quello del cibo talmente tormentato da assumere forme irreali» per attirare l’attenzione. Dopotutto si sta preparando un pasto «non decorando l’aula consigliare del paese». Il mondo del food writing non si ferma a M. F. K. Fisher ed Elizabeth David. Merita di essere citata Laurie Colwin, autrice di dieci libri di narrativa, tra cui Home Cooking (1988) e More Home Cooking (1993), che hanno riscosso notevole successo. Lo stile di More Home Cooking è più schietto, moderno. Il tono è colloquiale, quasi quello di un’amica che ti racconta la sua giornata. L’introduzione fa subito capire in che mondo vuole portarti: Il pranzo in famiglia nella vita reale. Non c’è ricetta la cui fonte non venga svelata. L’obiettivo è trasmettere «quel senso di piacere e delizia dato dalla generosità della tavola».
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Un discorso quasi a parte merita Edna Lewis, autrice di vari libri di ricette sulla cucina degli Stati del Sud degli USA. The Taste of Country Cooking (1976) è un libro di memorie e di ricette scritto dalla figlia di uno schiavo del Sud. Ma il food writing non è un mondo di sole donne. Figure non di secondo piano sono Joseph Wechsberg e A. J. Liebling, che come M. F. K. scrissero anche per «The New Yorker». Ma la lista dei e delle food writer è dopotutto ben lunga. Se M. F. K. Fisher riusciva a raccontare il mondo tramite il cibo ed Elizabeth David era in grado di svelarne origini e usi, le storie ancora da raccontare sono infinite, sia sul cibo che sui food writer.
Sopra - Ritratto fotografico di Edna Lewis. A sinistra - Autunno, Giuseppe Arcimboldo, 1573. Museo del Louvre, Parigi (F).
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Bambini che studiano, Armando Spadini, 1918. Banca d’Italia, Roma (IT).
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La nuova frontiera della Philosophy For Children
Intervista alla prof.ssa Maura Striano
di Enza Moscaritolo
A sinistra - Ritratto fotografico di Maura Striano.
In basso - Giochi di bimbi, Pieter Bruegel il vecchio, 1559-60. Kunsthistorisches Museum, Vienna (A).
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Può la filosofia migliorare la qualità della vita? E se venisse applicata all’educazione di bambini e ragazzi, quali effetti potrebbe sortire? Ne abbiamo parlato con Maura Striano, ordinario di Pedagogia generale e sociale alla Federico II di Napoli, e di Pedagogia della marginalità e della devianza, una delle più importanti studiose italiane di Dewey (tra le altre cose la Striano è membro della John Dewey Society) e di Lipman, il padre della Philosophy For Children e del relativo curricolo educativo. Detto semplicemente, si tratta di un curricolo rivolto a bambini-ragazzi, dalle scuole materne alle scuole medie, finalizzato a sviluppare e a rafforzare competenze e abilità di pensiero riflessivo e critico attraverso un percorso di educazione al pensiero filosofico.
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Letteratura per ragazzi
Negli ultimi anni, sta trovando una certa diffusione il curricolo della Philosophy For Children. Potrebbe offrirci una definizione? Il mio percorso di ricerca è orientato essenzialmente nella direzione della pedagogia sociale e della devianza per sostenere gli studenti che sono in condizioni di difficoltà, di disagio e di marginalità, rispetto alla loro crescita. Porto avanti lo studio della Philosophy For Children dal 1996 e ho scelto come territorio privilegiato dove realizzare questo percorso educativo il quartiere di Scampia, un territorio particolarmente difficile e che richiede interventi specifici che stiamo portando avanti da anni con i bambini, con le insegnanti e, da qualche tempo, anche con i genitori. Qual è l’età migliore dalla quale iniziare questo particolare percorso educativo per avere risultati concreti ed efficaci? Si parte dai cinque anni in su. Abbiamo materiali didattici proprio per quella fascia di età, perché è da quel momento che il bambino inizia a sviluppare competenze linguistiche e cognitive che gli consentono di entrare in maniera più efficace nel percorso educativo. Quali sono gli errori che principalmente commettono gli adulti quando si interfacciano con bambini di quell’età? Si passa da un eccessivo spontaneismo a una altrettanto eccessiva imposizione di regole: ciò che ci muove, invece, cui si ispira tutta la pedagogia che studio e approfondisco, è un focus sui centri di interesse dei bambini e sulle loro esperienze. Ai bambini bisogna dare un ruolo attivo e partecipativo all’interno del contesto nel quale si muovono. Se noi focalizziamo i loro interessi, ci inseriamo in una prospettiva di continuità: ad esempio, proviamo a portare nella scuola le esperienze che hanno acquisito al di fuori della scuola, riorganizzandole e ristrutturandole, tenendo i bambini sempre attivi e partecipi in questo processo. Tutto ciò porta risultati e rende efficace la nostra azione. L’intenSul Romanzo
zionalità educativa, impostata sullo spontaneismo o su un modello esclusivamente normativo, non è certamente efficace. Il focus deve essere sul bambino e sulla sua capacità di crescere. Il modello che seguite a Scampia è stato riprodotto anche in altre parti d’Italia? Ci sono due centri che in Italia lavorano per la promozione e lo sviluppo di questo progetto: il primo è a Roma, quello al quale io stessa faccio riferimento, ed è il Centro di Ricerca per l’Indagine Filosofica, il secondo è a Padova, fa riferimento all’ateneo, e si chiama Centro di Ricerca Educativa del Pensiero. Sono entrambi riconosciuti a livello internazionale e realizzano progetti di sensibilizzazione sulla Philosophy For Children su tutto il territorio nazionale. Dunque, oggi, con la Philosophy For Children avviene una riscoperta della filosofia, da un punto di vista pedagogico? Il nostro obiettivo è promuovere il cosiddetto “pensiero complesso”, ossia rafforzare capacità di giudizio e di argomentazione, in un contesto come quello degli adulti, che può rivelarsi piuttosto difficile per un bambino. Noi, attraverso questo approccio, lavoriamo su una dimensione creativa del pensiero e sulla capacità di immaginare un mondo diverso, scenari diversi, creando nuove ipotesi e nuove idee. Un altro versante, per noi molto importante, è il pensiero “caring”, ovvero quel pensiero che è capace di attribuire valore agli altri, che sostiene l’ascolto, che sostiene la valorizzazione delle differenze e del pensiero dell’altro. In buona sostanza, un pensiero che valorizzi un impegno etico all’interno di un preciso contesto di riferimento: ha senso, però, se si costruisce fin da piccoli. I bambini, spesso, non si rendono conto, o non sono messi nelle condizioni di rendersi conto, delle conseguenze delle loro azioni, che possono essere molto pesanti, a lungo termine. Comprendere che le parole e le attenzioni fanno la differenza, e che possono avere delle implicazioni è importante. n° 5 • Ottobre 2013
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Quali sono i valori di riferimento della Philosophy For Children? E ancora, quali sono i punti di riferimento pedagogici di oggi, rispetto a quando avete iniziato venti anni fa? Io denoto essenzialmente un’assenza di valori e una grossa confusione. Dal punto di vista pedagogico, penso che l’emergenza sia essenzialmente legata all’assenza di un’educazione morale: infatti, sto portando avanti dei progetti di educazione morale, con un focus sulla dimensione filosofica, portando la nostra esperienza, sia individuale che collettiva. “Educazione morale” significa educazione alla ricerca etica, cioè all’impegno di ricerca di senso e di significato all’interno dei contesti sociali. “Educazione morale” non significa acquisire delle norme, ma imparare a costruire il proprio punto di vista, a esplorare le possibili prospettive, cogliendo la più adatta. “Educazione morale” è fornire ai bambini quegli strumenti adatti per costruirsi un giudizio morale.
Si sente spesso dire che i bambini di oggi sono molto più intelligenti di quelli di qualche generazione fa. Secondo la sua esperienza, questo è solo un luogo comune o davvero le menti delle nuove generazioni hanno una marcia in più? Bisogna innanzitutto capire che cosa s’intende per bambini più “intelligenti”. Sicuramente tutti i bambini sono intuitivi e riescono a familiarizzare con gli elementi della loro esperienza quotidiana, come oggi possono essere tutti i nuovi device. Io, per questo, non parlerei di maggiore intelligenza, ma di diverse opportunità che sono offerte dai nuovi contesti e dai nuovi scenari e che i bambini riescono a utilizzare e a sfruttare per raggiungere degli obiettivi. Un bambino può essere molto capace di smanettare al pc, ma incapace di sviluppare un giudizio critico, di giustificare il proprio giudizio critico di fronte alla realtà. Io parlerei oggi di bambini con maggiori abilità, piuttosto che di maggiore intelligenza che è una capacità riflessiva. L’infanzia è l’età dei grandi interrogativi. Secondo lei, è giusto dire sempre la verità ai bambini? Anche per questa domanda bisogna interrogarsi prima sul concetto di verità che, come lei sa bene, dal punto di vista filosofico, è un problema molto complesso. Credo che sia necessario che i bambini siano implicati in un processo di ricerca della verità, che è un processo progressivo e un ideale regolativo piuttosto che una vera e propria realtà a cui aderire. Dire sempre la verità? E chi la possiede? La mia è una prospettiva pragmatista: noi crediamo vero ciò che ha un’asseribilità garantita all’interno del contesto culturale di riferimento.
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Pedagogisti, insegnanti e adulti in generale sono spesso in difficoltà a rivoluzionare i propri approcci pedagogici e a mettersi in discussione: come valuta la loro posizione nei confronti della Philosophy For Children? Per fortuna, l’approccio è positivo. Affinché un insegnante diventi un buon facilitatore, nell’ambito del programma della Philosophy For Children, è necessario che si metta in discussione, che diventi capace di sospendere il proprio giudizio per poi recepire il punto di vista e le prospettive di tutti. Sul piano educativo, il facilitatore mette in crisi alcune delle certezze educative e metodologiche dell’insegnante: il suo compito è far emergere il
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punto di vista altrui, farlo maturare e sviluppare, e poi sparire, perdere il proprio ruolo e, in un certo senso, l’autorità. Dunque, è necessario un grosso lavoro su di sé, ma, quando il facilitatore ci riesce, il risultato può essere davvero entusiasmante e gratificante.
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Mamma, mi leggi?
Classici? Per ragazzi? di Stefano Verziaggi
Interrogarsi sul concetto di classico in letteratura può sembrare ozioso e pure un po’ trito, perché già troppo è stato detto. Tuttavia, se si sposta la questione sulla letteratura per l’infanzia e per l’adolescenza, il problema si apre a un terreno abbastanza inaspettato. M’è sembrato di dover prendermi qualche tempo di riflessione prima di impostare un discorso sul tema; e, forse, la soluzione si poteva trovare andando a sbirciare, ancora una volta, tra le righe di Calvino, che, infatti, non mi ha deluso. La letteratura per l’infanzia e per l’adolescenza dovrebbe rispondere, in linea generale, alle stesse regole della letteratura maggiore, quando si tratta di analisi o di teoria. Si dovrebbe, quindi, prendere un qualsiasi strumento e applicarlo senza remore anche ai testi per i più piccoli, per ottenere discreti se non buoni risultati. Se, ad esempio, voglio analizzare il sistema dei personaggi di un libro, oppure la concezione dello spazio o del tempo, non fa differenza se l’opera in questione sia I promessi sposi di Manzoni o Le streghe di Roald Dahl: pur sempre romanzi sono, rispondono a regole di funzionamento del testo narrativo e si prestano in ugual maniera all’analisi desiderata. Continuando a riflettere, m’è sembrato, però, che il concetto di “classico” si muovesse su un terreno più scivoloso, o forse sarebbe meglio definirlo “accidentato”. Questo perché, a ben pensarci, l’idea di classico affonda le sue radici, in letteratura, nelle origini stesse della parola scritta; e dialoga, poi, con la riflessione umanistica prima e cinquecentesca poi sulla classicità e sul modo di intenderla; e ritorna ancora a modificarsi durante il Romanticismo, e poi nel Novecento, e poi nel Postmoderno... e quante tappe ho saltato! La storia della letteratura è una storia lunga quasi tre millenni, se si prende in considerazione solo lo spirito occidentale. Tutto ciò non vale per la letteratura per l’infanzia (e tantomeno per la teen-literature), che compare in 58
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modo consapevole nel panorama delle lettere solo a metà dell’Ottocento, potendo contare, quindi, su una storia tutt’al più bicentenaria. Un confronto impari, dunque. Un confronto poco equo, che mi ha indotto a pensare di non poter usare gli strumenti consueti per tracciare la tanto agognata definizione di classico che stiamo cercando. Come dicevo, Calvino mi è venuto in aiuto per cercare di dare ordine alla materia su cui stavo riflettendo, e lo ha fatto in modo inaspettato. Perché leggere i classici1 è senza dubbio il suo saggio più famoso all’interno del libro cui dà il titolo, raccolta postuma a cura della moglie Esther; in esso, il romanziere cerca di fornire, con una serie di avvicinamenti per approssimazione, una definizione di classico, che in realtà si compone di una serie di definizioni che funzionano anche sommandole tra loro, poiché prendono in considerazione aspetti diversi della questione. La mia definizione preferita è la numero 6: «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»2. Rileggendo il saggio, però, con mia grande sorpresa (si sa che la mente coglie solo quelle cose cui è davvero interessata in quel momento) ho riscontrato che Calvino sembra già dimostrare una particolare attenzione ai ragazzi, forse non nei termini rigorosi che andavo cercando, ma, in ogni caso, con spunti interessanti. Il primo viene sin dall’incipit, quando l’autore porta una prima definizione di classico: «I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo...” e mai “Sto leggendo...”»3. Si allaccia qui, inaspettata come un dono, la prima considerazione al mondo dei ragazzi, ossia che la definizione “non vale per la gioventù”, un’età in cui i ragazzi sono al loro “primo incontro” con i grandi testi. Certo, Calvino si riferisce ai classici per adulti, alla Commedia, tanto per dire; ed è evidente che sarebbe già sbalorditivo se un ragazzo di quindici anni stesse leggendo per la prima volta il n° 5 • Ottobre 2013
Letteratura per ragazzi poema dantesco. Eppure, una prima pista è stata aperta, ossia la conferma che non si possono adoperare per i ragazzi i criteri che siamo soliti usare per gli adulti. Non è questo l’unico segnale. Nel saggio, l’autore mostra di porre una grande attenzione nel distinguere tra la lettura dei ragazzi e quella degli adulti, tanto da indurlo a dire che «ci dovrebbe essere un tempo della vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù»4. Le letture dei ragazzi, infatti, «possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita»5. Sembrerebbe un punto di vista quasi negativo, che esalta in qualche modo la lettura matura dell’opera, di certo più consapevole e profonda; in realtà, Calvino aveva premesso che «la gioventù comunica alla lettura come a ogni esperienza un particolare sapore e una particolare importanza»6, dimostrando, quindi, che la lettura dei ragazzi è diversa, non peggiore da quella adulta. Ricapitolando, i punti
fermi erano ormai chiari, quasi che Calvino avesse voluto lasciare sottotraccia, nel suo testo, gli indizi per una riflessione sulla lettura dei ragazzi: è importante che l’ottica adulta sia sganciata da quella dei ragazzi e che si impieghino criteri specifici. Perché, poi, in fin dei conti, un’idea epidermica di classico per l’infanzia c’è, e corrisponde ai grandi libri per ragazzi che hanno popolato soprattutto il tardo Ottocento, da Pinocchio a Cuore, da Ventimila leghe sotto i mari a Piccole donne. Un universo di storie e personaggi che hanno fatto sognare generazioni di ragazzi e ragazze; ma che, e qui sta lo snodo, fanno tuttora sognare? Cioè, si tratta di libri ancora vitali, che hanno ancora qualcosa da dire alle nostre generazioni e a quelle che stanno arrivando? Il dubbio, ancora per un’ultima volta, me lo insinua sempre Calvino, quando cita tra i gruppi con passioni specifiche «gli appassionati di Dickens in Italia» che sono «una ristretta élite di persone che quando s’incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro cono-
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A sinistra - Pinocchio, Davide Corona, 2009. Olio su tela, 30x30cm. In basso - Ritratto fotografico di Iosif Brodskij.
scenza»7. Per quelle persone, potremmo chiosare, Dickens è senza dubbio stato un grande classico dell’infanzia e dell’adolescenza, un autore di libri che hanno comunicato loro decine di mondi e contribuito alla formazione di quegli adulti che, oggi, si trovano a parlare evocando la loro infanzia. Sembra, dunque, che il classico per ragazzi sia innanzitutto quel libro che contribuisce alla ricchezza interiore, che contribuisce alla formazione dell’individuo nell’aspetto soprattutto mentale e dell’educazione sentimentale. L’esperienza che il libro offre non è di certo empirica, ma pertiene all’ambito della coscienza, se è questo il termine che vogliamo usare; e sarà senza ombra di dubbio integrato dall’esperienza pratica della vita quotidiana. Un equilibrio tra le due componenti, non sbilanciate tra loro, contribuisce a uno sviluppo armonico della persona e della personalità. Classico, inoltre, è quel testo che viene identificato come lettura piacevole, perché divertente o emotivamente ricca, e che si presta, quindi, a una rilettura. Più scendiamo con la fascia d’età, infatti, più è comune che il piccolo lettore voglia rileggere il libro, che possiede anche la dimensione del gioco e dell’oggetto da manipolare (aspetto del tutto evidente nei libri gioco per l’infanzia, quelli di stoffa che possono essere messi in bocca, toccati, lanciati, portati nel bagnetto, ecc.). Se quanto abbiamo detto è vero, allora dobbiamo accettare che, forse, anche i classici cambiano. Se storicamente è ineccepibile affermare che Pattini d’argento ha segnato la formazione di alcune ge60
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nerazioni e ha costituito un punto di riferimento inequivocabile, ora si deve accettare che sia un libro che ha meno presa e successo di altri; che i classici, insomma, stanno cambiando, perché cambiano i lettori. Esistono testi che travalicano la loro epoca, come ad esempio Le avventure di Pinocchio, anche se spesso si tratta di opere con cui il primo incontro avviene per altri canali, come ad esempio, nel caso citato, il film Disney, che con il Pinocchio originale ha poco in comune. Quindi, dopo aver creato un insieme di testi che mantiene la propria forza perché risponde alla definizione 6 di Calvino (libri che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire, cioè libri che comunicano alle generazioni messaggi sempre nuovi, che possono essere riletti in momenti diversi perché la loro grandezza sta nella loro capacità di essere reinterpretati a prescindere dall’epoca in cui vengono letti), possiamo forse accettare che il mondo dei classici dei libri per ragazzi sia più mutevole. Oggi ci possiamo sbilanciare e pensare che Roald Dahl o Jerry Spinelli entrino di diritto nell’insieme dei grandi libri per ragazzi, ma probabilmente domani non sarà così; e Brodskij (non più Calvino) concluderebbe osservando che «quelli che chiamiamo i classici devono la loro reputazione ai posteri, non già ai lettori contemporanei. Ciò non significa che la posterità sia l’espressione quantitativa del loro valore: significa solo che essa procura, sia pure retroattivamente e con qualche fatica, un più ampio pubblico di lettori, quello al quale avevano diritto fin dall’inizio»8. n° 5 • Ottobre 2013
NOTE: 1 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1995 (prima edizione 1991). 2 Ivi, p. 7. 3 Ivi, p. 5. 4 Ivi, p. 7. 5 Ivi, p. 6. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Iosif Brodskij, Dolore e ragione, Milano, Adelphi, 1999, p. 34.
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Linguistica
Drantler. ssure, Edward dinand de Sau Schizzo di Fer
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Etimologia popolare e cambiamento linguistico, gli errori che fanno la storia di Michele Rainone Se fosse vissuto dopo la sconfitta di Pirro, un vecchio abitante di MALEVENTUM avrebbe fatto fatica a riconoscersi in una qualche città dell’impero romano: era nata BENEVENTUM, oggi Benevento, e del suo centro non vi era più traccia. Prima del Medioevo, nessuno avrebbe pensato al mare piatto e all’assenza di vento, se qualcuno avesse parlato di “bonaccia”: esisteva “malaccia”, ma aveva tutt’altro significato. In futuro, chissà, lo sposo potrebbe varcare la “sogliola” di casa con la sposa in braccio, senza per questo trovarsi in un appartamento invaso dall’acqua: immersa nel lento fluire della storia, insomma, la lingua cambia. Anche in maniera molto bizzarra. Il nome MALEVENTUM non piaceva ai Romani, soprattutto dopo la battaglia che, nel 275 a. C., portò alla sconfitta del re dell’Epiro: l’avverbio “male” non era adatto a quelle fortunate circostanze e fu immediatamente sostituito con “bene”, ma l’interpretazione era sbagliata: la parte iniziale della parola, la cui storia non è certa, non aveva nulla a che vedere, infatti, con eventi negativi. La stessa sorte è toccata a “malaccia”, che ha dovuto cedere il posto a “bonaccia”: i Latini lo presero in prestito dal greco malakía e Cesare utilizzava il termine MALACIA per indicare, metaforicamente, la “bonaccia di mare”; nel Medioevo, però, l’inizio del lessema proprio non richiamava i concetti di “tranquillità” e “placidezza”: fu così che bon- fu sostituito a mal- e un’altra paretimologia vide la luce. E che dire dei due sposi? “Soglia” è foneticamente confondibile con “sogliola”, quindi un’associazione del genere non risulta affatto impossibile (d’altra parte, se è pure attestato “acqua di stirata” in luogo di “acqua distillata”, non è difficile pervenire alla conclusione che la casistica sia davvero ampia). Il linguaggio funziona sempre per associazione: alla realtà osservata – o meglio: all’idea che abbiamo di essa – corrisponde come minimo un segno, che le viene attribuito in modo arbitrario; se questo non fosse vero, allora utilizzeremmo le stesse parole per indicare gli stessi concetti in tutte le parti del mondo, ma così non accade: in inglese il nostro “cane” è dog; in francese è chien; in tedesco, hund; nelle oltre seimila lingue naturali, insomma, sarà presente un significante diverso. Più che “arbitraria”, però, quest’associazione andrebbe classificata come “opaca”, quindi non “trasparente”. In diversi casi, infatti, trovare una Sul Romanzo
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motivazione è possibile, e non parliamo solo dei fonosimbolismi, attraverso i quali i parlanti riproducono la realtà circostante (si pensi al tic tac dell’orologio o al chicchirichì del gallo). Sappiamo, per esempio, che i nostri “occhiali” si chiamano così per via dell’“occhio”, ma che in Francia lunettes “piccole lune” dipende dalla forma delle lenti; nella lingua inglese, glasses è associato al materiale. È come se nel segno linguistico, insomma, fosse richiamato un tratto che, secondo la comunità, è saliente per la descrizione del referente in questione, ed è questo, perciò, che rende ogni società diversa da tutte le altre, assieme a tutti gli altri meccanismi con cui i singoli gruppi definiscono la realtà, dopo averla organizzata cognitivamente. Tale tratto è arbitrario – ma tacitamente condiviso da tutta la comunità di parlanti – e l’associazione, opaca; a questa arbitrarietà assoluta, però, il linguista Ferdinand De Saussure affiancava l’arbitrarietà relativa tipica delle onomatopee e, aggiungiamo noi, di MALEVENTUM/BENEVENTUM, bonaccia/malaccia, soglia/sogliola e così via; anche in tali casi, infatti, le associazioni sono ben giustificate: «Questo tipo di meccanismi […] – spiega Marina Benedetti in L’etimologia fra tipologia e storia in M. Mancini (a cura di), Il cambiamento linguistico, Roma, Carocci, 2003 – evidenzia una generale tendenza dei parlanti a superare l’arbitrarietà del segno linguistico (o meglio a trasformarla in “arbitrarietà relativa”, […]) e l’esigenza di individuare – attraverso il riconoscimento del presunto “valore descrittivo” di un segno – le ragioni di una certa denominazione». Si chiama “etimologia popolare”, “paretimologia” o “etimologia secondaria”: le definizioni sono molte e, per quanto si focalizzino su aspetti diversi (qualcuno parla persino di “etimologia dello spirito”), non escludono il procedimento di fondo: l’associazione errata di un segno a un concetto, sicuramente dovuta alla scarsa dimestichezza con le parole in questione; è scontato, infatti, che la poca padronanza della lingua scritta e parlata – soprattutto in ambito lessicale – muova in questo senso: 1. Un parlante che conosce poche parole difficilmente è in grado di motivarle in modo corretto: attrezzandosi come meglio può – e facendo leva, cioè, su meccanismi propri di associazione – è portato a sbagliare con molta più facilità; 64
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2. Chi non ha familiarità con la forma scritta della parola in questione, inoltre, compie associazioni sbagliate in misura decisamente maggiore rispetto a chi ha buona padronanza della scrittura. Anche Varrone la circoscriveva all’infimus populus, ma l’etimologia popolare non appartiene solo ai meno colti: la parola “popolo” non deve indurre in errore, perché esistono pure diversi casi di paretimologie dotte; si pensi al nome del monte Gran Paradiso, italianizzazione dell’antico nome Grand Parei, che significa “Grande Parete”, ma che è stato tradotto in tutt’altro modo per assonanza. Alla base delle interpretazioni sbagliate (e per questo interessanti) vi è senz’altro il principio di economia, secondo il quale la comunicazione linguistica presuppone sempre la legge del minimo sforzo per il massimo risultato: «[…] Il parlante (indipendentemente dal grado di istruzione) – scrive sempre Marina Benedetti – compie continuamente operazioni metalinguistiche sul materiale lessicale della propria lingua, operazioni che lo portano a interpretare (più o meno consapevolmente) un segno con riferimento ad altri segni, avvertiti in qualche modo come più semplici o basilari». Tale principio, combinato ad altri fattori, può persino portare a cambiamenti di tipo formale e semantico: da un’associazione sbagliata nascono, insomma, parole nuove e non per forza bizzarre, che entrano a far parte non solo dell’inventario lessicale delle lingue ufficiali, ma anche di quello dei dialetti. La Benedetti richiama, per esempio, la parola VAGABUNDUS, sottolineando che l’elemento /b/ viene sostituito da /m/, a seguito di un’associazione paraetimologica (quindi non corretta) con la parola “mondo”: è così che sono nati termini come lo spagnolo vagamundo e, in alcuni dialetti italiani, lessemi come “vagamondo”, con esiti diversi a seconda degli idiomi, ovviamente. Si tratta di un palese cambiamento di natura formale, che può essere esemplificato pure con un caso più recente: pensiamo alla parola “ominisessuali”, alla cui diffusione avrà senz’altro contribuito anche l’amata-odiata canzone I uomini sessuali del comico Checco Zalone: qui si nota chiaramenSul Romanzo
te come il morfema omo- di “omosessuale” non sia stato interpretato in modo regolare, ma come sinonimo di “uomo”, ragion per cui il plurale – di una parola che il parlante, evidentemente, percepisce come composta – non poteva che essere “ominisessuali” o “uominisessuali”. La parola è considerata sbagliata – e forse lo sarà anche in futuro –, ma, quando si parla di cambiamento linguistico, soprattutto rispetto al lessico, è difficile prendere posizioni nette e la maggior parte delle porte va lasciata aperta. Il mutamento può avvenire anche in ambito semantico: partiamo sempre dal latino, questa volta dal verbo PAUSARE, che significa “fermarsi”, “riposarsi”; ebbene, in italiano l’esito “posare” (frutto della chiusura del dittongo AU) ha un significato diverso da quello originario, probabilmente influenzato – l’interpretazione si deve al glottologo Vittore Pisani – dai continuatori di POSUI e POSITUS: queste parole, insomma, avranno indotto il parlante a interpretare la parola “posare” in modo differente da quello atteso, anche se sussiste comunque una certa somiglianza di fondo (e non solo in italiano, se pensiamo al francese poser e agli altri esiti). Ancora una volta, insomma, è la deviazione della norma – nella fattispecie, un’interpretazione sbagliata – a dimostrare che qualsiasi sistema linguistico non va inteso come un coacervo di regole slegate dalla storia e indipendente dalla comunità di cui è stato ed è mezzo d’espressione, ma come frutto dell’esperienza di un gruppo di parlanti nel mondo. E da questo un’indagine etimologica, e qualsiasi altro studio sulla lingua, non può prescindere. n° 5 • Ottobre 2013
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Editoria
Marca tipografica di Gabriele Giolito de Ferrari ("GGF"), 1552, raffigurante una fenice che rinasce dalle fiamme con il motto Semper eadem (latino: "Sempre la stessa").
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Lo yin-yang del self-publisher di Valentina Malcotti Della serie con Instagram siamo tutti fotografi, con i blog tutti giornalisti e con il self-publishing tutti scrittori! Il dibattito sull’autorialità nell’era digitale trova nello “scrittore” che si autopubblica il suo vaso di Pandora.
Sono in molti a puntare il dito contro il rito abbreviato del self-publishing: si dribbla la selezione delle case editrici, molto severa nel caso degli esordienti; si salta a piè pari la correzione delle bozze e il libro deve solo essere stampato o liberato nell’etere come e-book. Invece di sparare a zero, vale forse la pena appellarsi a un po’ di saggezza orientale e chiedersi se, per il self-publisher, possa valere il principio del tao: nel romantico yang dell’autore indie c’è sempre un po’ di autoreferenzialità yin, così come nel vanitoso self-made writer è racchiuso anche un ammirevole progetto imprenditoriale. In Italia, il fenomeno è ancora agli inizi, ma l’AIE (Associazione Italiana Editori) ne ha colto la portata, dedicando al self-publishing il focus dell’Editech 2013. Dai dati aggiornati a giugno 2013 risulta che, nel nostro Paese, gli e-book autopubblicati sono almeno 3.500 e rappresentano il 5% circa degli e-book in commercio in Italia (le autopubblicazioni cartacee sono 35.800, ovvero il 4% dei libri stampati). Sul Romanzo
Già si evidenzia una prima tendenza: il self-publisher ha capito che è meglio puntare sul formato digitale, più facile e immediato da promuovere e meno oneroso. In Italia, infatti, dal 2011, i libri autopubblicati in e-book sono cresciuti del 94%, contro il 29% del self-publishing cartaceo, che, tuttavia, può contare anche sulla modalità print-ondemand, ovvero la stampa sul momento della singola copia acquistata, con buona pace dello spreco di carta e bypassando i costi di magazzino. Nell’identikit del self-publisher di successo può forse mancare il talento, ma non un’attitudine all’autopromozione. Non basta scrivere un libro, bisogna anche saperlo vendere. A emergere dal mare del self-publishing non sarà necessariamente l’autore più “bravo”, ma quello più devoto al Dio marketing. Sono indubbie, ad esempio, le doti di self-branding di Fabrizio Boaretto, il quale è riuscito a vendere 12mila copie del suo romanzo autoprodotto. L’aun° 5 • Ottobre 2013
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tore novarese ha iniziato con una stampa di 500 copie e, con l’autopromozione sul territorio, ha convinto migliaia di lettori. A fronte di un’unica vendita online però i numeri sono sospetti… Eppure dei travolgenti successi anglosassoni ci sono prove certe. Numeri possibili anche grazie alla vastità di pubblico che legge in lingua inglese e a una diffusione dell’alfabetizzazione digitale che in Italia è lontana.
Negli Stati Uniti e in Germania, Amazon ha già fatto un passo oltre, offrendo, tramite la società acquisita Audible.com, l’autopubblicazione in versione audiolibro: un’opzione che dovrebbe presto essere disponibile anche in Italia.
Prendiamo il tormentone dell’estate scorsa: la trilogia soft porn di E. L. James. Il primo dei tre libri, Cinquanta sfumature di grigio, ha ormai venduto più di 70 milioni di copie. Ben oltre 1 milione sono ebook: cifre che hanno dato alla scrittrice inglese la tessera del ristretto Kindle Million Club, riservato ad autori che hanno superato il milione di copie digitali vendute su Amazon.
Ma c’è anche una buona scelta di piattaforme nostrane per il self-publishing. Oltre la metà degli e-book autopubblicati in commercio in Italia sono “editi” da Narcissus.me, la piattaforma di autopubblicazione della Simplicissimus Book Farm. Dal nome, la strizzata d’occhio al narcisismo del vanity publishing non è sottile, ma non si tratta comunque di editoria a pagamento (EAP), che prevede, invece, un contributo da parte dell’autore per l’acquisto di un certo numero di copie.
A farle compagnia nel cerchio degli eletti, fra nomi quali Steig Larrson e J. K. Rowling, altri due autori americani venuti dal self-publishing: l’assicuratore giallista John Locke e la venticinquenne Amanda Hocking, con i suoi romanzi vampireschi in stile Twilight. Ad accomunarli tutti è la piattaforma scelta per l’autopubblicazione: la Kindle Direct Publishing (KDP). Pubblicando con KDP, il proprio e-book viene inserito direttamente nel Kindle Store. Il servizio è disponibile in Italia dal dicembre 2011 e prevede la distribuzione della propria opera anche negli store esteri. È comune trovare almeno una ventina di opere autopubblicate nelle cicliche classifi-
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che dei libri digitali più venduti da Amazon.
Sul Romanzo
Oltre al servizio tradizionale di print-on-demand e vendita on-line del proprio e-book, youcanprint. it offre, a pagamento, i servizi tradizionali di una casa editrice: dalla correzione delle bozze e la creazione della copertina alla promozione del libro. A questo punto, allora, perché non affidarsi a un agente letterario di professione, che non solo si occupi di rendere l’opera “pubblicabile” nello stile, ma anche di trovare la casa editrice “giusta” (rigorosamente non EAP) a cui mandarla? Ilmiolibro.it, del Gruppo Editoriale L’Espresso, è stato uno dei primi servizi di autopubblicazione
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ed è prevalentemente incentrato sul cartaceo (tanto da farlo assomigliare a un self-printing), seppur l’opera possa anche usufruire della vetrina online di Feltrinelli.it. MEEtale è uno dei casi più interessanti degli ultimi anni: consente di pubblicare gratuitamente le proprie opere come ePub e metterle in libera lettura sul loro sito (che somiglia più a un social network per esordienti) oppure in download a pagamento. Anche Googlebooks offre un servizio simile. La maggior parte delle piattaforme attribuisce gratuitamente un ISBN e prevede la sottoscrizione di un contratto i cui si regolano i diritti dell’opera e la percentuale di royalty. E qui si apre la parentesi felice del self-publishing, che permette margini di guadagno per l’autore nettamente superiori a quelli dell’editoria tradizionale: da tre a cinque volte. Con il KDP, ad esempio, a seconda del prezzo di listino scelto per il proprio e-book si riceveranno il 35% (per prezzi compresi fra 0,86 e 173,91 euro) o il 70% delle royalty (per prezzi compresi fra 2,60 e 9,70 euro). Le percentuali sono simili anche per le altre piattaforme. Il self-publishing digitale, poi, gode di tutti i vantaggi dell’editoria digitale in genere, ovvero l’eliminazione del problema dell’invenduto e delle relative spese di magazzino. Anche le strategie di marketing sono più flessibili. L’e-book in sé mette a disposizione strumenti innovativi per promuoverne l’acquisto, come la possibilità di fornire campioni gratuiti in lettura al potenziale acquirente. In questa era di digital disrupt che scenario si apre, o si chiude, per le case editrici “vecchio stampo”? Oggi che il self-publishing, a detta del fondatore di Narcissus.me, Antonio Tombolini, in un’intervista
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ad Affaritaliani, è «l’editore collettivo più grande d’Italia, più importante dello stesso gruppo Mondadori»? Secondo Roberto Calasso, totem di Adelphi, «il Novecento è stato il secolo degli editori»; viene da chiedersi se l’attuale sarà quello degli autori, se marcherà l’indipendenza dai tradizionali soggetti di mediazione culturale. Certo è che alla libertà data dal digitale adattarsi è d’obbligo, se si vuole restare in barca. Significa vivere il proprio tempo. E, infatti, sono molte le case editrici che non hanno esitato a buttarsi nell’e-book e che tentano di costruire un rapporto più complesso con il lettore tramite i social network. Così come alcuni grandi quotidiani non hanno ignorato il citizen journalism, cercando di accoglierlo in appositi blog, invitando allo scambio in tempo reale, a inviare foto e recensioni. Detto questo, alcune riserve sono sacrosante. E la prima è che spesso l’anarchia trionfa a discapito della qualità e l’improvvisazione non è sempre geniale. La grammatica e i refusi di certe opere faida-te in circolazione sono inaccettabili. È indubbio che il meccanismo editoriale tradizionale escluda autori meritevoli, ma è pur vero che rappresenta un filtro ai tanti diari impazziti, improbabili gialli e paranoie fantascientifiche che trovano sfogo con il self-publishing. Le case editrici non sono certo infallibili, e a volte seguono business che vanno ben al di là dell’amore per la letteratura, ma sono, agli occhi di molti lettori, un sigillo di garanzia. La lettura che ne fa Umberto Eco, seppur non riferendosi direttamente al self-publishing, accosta l’autopubblicazione all’idea di una vetrina per farsi notare dagli editori. In risposta alla richiesta di uno scrittore che voleva inviargli un manoscritto, il filosofo bolognese riflette sul fatto che «di solito, è meglio cercare i futuri campioni in palestra». «La vita letteraria – continua Eco – almeno dai tempi
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A sinistra - Ritratto fotografico di Aldo Palazzeschi, con la copertina di Riflessi, raccolta di poesie pubblicata sotto lo pseudonimo editoriale di Cesare Blanc.
nuovi», spiega uno dei fondatori di MEEtale, Fabio Biccari, intervistato da Milano Finanza. Per gli editori scettici questo potrebbe essere un nuovo bacino su cui scommettere, con autori già parzialmente valutati dal pubblico e meno rischi imprenditoriali.
di Catullo sino a oggi, è fatta di gruppi, di persone anche giovanissime che s’incontrano e si scambiano i loro lavori, poi li pubblicano su una piccola rivista, poi su una più nota, e passano, per così dire, una prima selezione da parte dei loro pari. Ed è lì che l’editore va a cercare le personalità interessanti». Cosa c’è di più peer to peer del self-publishing? Interi forum e social network in cui leggere, scaricare e commentare le opere di altri e ricevere feedback sulle proprie. Il concetto del self-publishing come “vivaio” per gli editori tradizionali sta prendendo piede, nell’ottica di un’occasione per le case editrici di fare scouting. «Stiamo creando una struttura in cui anche le case editrici medio-piccole possano trovare talenti
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Neppure gli scrittori affermati rinunciano completamente al selfpublishing, che, in realtà, ha radici più antiche di quel che si pensa… Prima di entrare con successo nel tradizionale canale letterario, Aldo Palazzeschi fece pubblicare dal suo gatto diversi libri di poesia e prosa; nel senso che usò uno pseudonimo sia come autore (il suo vero cognome era Giurlani), sia come editore: inventò la casa editrice immaginaria Cesare Blanc, che in realtà era il nome del suo gatto. All’inizio della loro carriera si autopubblicarono anche Moravia, Carrol, Proust e molti altri autori pre-digitali. Oggi lo ha fatto anche Stephen King, mentre altri suoi colleghi illustri utilizzano il self-publishing per pubblicare la loro back list o ripubblicare i libri andati fuori stampa. Luci e ombre, insomma. Ma se un libro non lo vogliamo giudicare dalla copertina, né dall’editore, sono le vendite che contano? I best-seller sono sempre un’eccezione. E questo vale anche per i libri “tradizionali”. Al momento, gli autori che si arricchiscono con il self-publishing sono una percentuale esigua. La maggior parte dei libri autopubblicati forse non li leggerà mai nessuno. Ed è un peccato; checché se ne dica, si scrive sempre per essere letti.
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Arte
Il pittore realista, Thomas Couture, 1865.
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L’arte tra pubblico e privato
Intervista a Maria Elisa Avagnina, Direttrice dei Musei Civici di Vicenza
di Lavinia Palmas
Esiste sicuramente una questione “artistica” nel nostro Paese; questione che non riguarda solo l’affermazione di nuovi artisti e le misure a sostegno della promozione del loro talento, ma anche la fruizione e la gestione delle risorse. È con l’intento di indagare questi ambiti che abbiamo deciso di dare spazio e voce a chi della gestione del patrimonio artistico italiano ha fatto la mission di una vita, con una serie di interviste ad addetti ai lavori, partendo, in questo numero, dalla dott.ssa Maria Elisa Avagnina, che nella sua lunga carriera al servizio dell’arte italiana è stata Direttrice della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Veneto e dei Musei Civici di Vicenza. Autrice e co-autrice di numerose pubblicazioni, tra cui ricordiamo Tiepolo: le ville vicentine (ed. Mondadori Electa, 1997), Il Teatro Olimpico (ed. Marsilio, 2005), Bellini a Vicenza. Il Battesimo di Cristo in Santa corona (ed. Biblos, 2007), Cinque secoli di volti. Una società e la sua immagine nei capolavori di Palazzo Chiericati (ed. Marsilio, 2012), la sua è stata un’intera carriera spesa al servizio della gestione del patrimonio artistico veneto e vicentino.
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Dal 1997 ad oggi, ha ricoperto il ruolo di Direttrice dei Musei Civici di Vicenza. Ci può raccontare i momenti più significativi della sua attività? È una domanda importante in una prospettiva prossima di lasciare il lavoro. Sono stati anni di grande lavoro, con momenti di luce e momenti di ombra. La bellezza del lavoro che si fa tra queste mura è stato un valore e un ideale a cui riferirsi. I Musei Civici comprendono non solo la Pinacoteca Chiericati, ma anche il Museo del Risorgimento e della Resistenza, il Museo Naturalistico e Archeologico, il Teatro Olimpico che è un museo della scultura italiana o “museo manierista del Cinquecento”, come lo definiva Licisco Magagnato, uno tra i principali ispiratori della creazione del Ministero per i Beni Culturali. La direzione dei musei è un “giocattolo” eccezionale, ma molto impegnativo. Il patrimonio di partenza è enorme: ho iniziato ad averlo tra le mani in un momento in cui era necessario introdurre delle innovazioni. Mi spiego meglio. Per esempio, i Musei Civici di Vicenza nel 1997, quando sono arrivata qui, avevano una chiusura con un orario spezzato, non c’era uno shop, ma un piccolo punto vendita nel Teatro Olimpico. Non erano messi in rete, ognuno aveva il proprio biglietto. Tutto ciò faceva sì che i visitatori privilegiassero in modo esclusivo il Teatro Olimpico, molto conosciuto anche da turisti stranieri di area anglosassone e tedesca. I tour operator li accompagnavano fino a lì, venivano dal lago di Garda, da Abano Terme ed era la gita della mezza giornata. Era, quindi, necessario reimpostare la situazione per cercare di valorizzare tutto. Qui in Pinacoteca, il patrimonio è stupendo. Lo storico dell’arte Edoardo Arslan, nel 1993, diceva
che forse questa è la più bella Pinacoteca dell’entroterra veneto per la bellezza dell’ala palladiana. Abbiamo, quindi, inserito l’orario continuato, messo in rete i Musei Civici, una biglietteria centralizzata all’Olimpico, con un prezzo del biglietto che era certamente di favore, ma con cui il visitatore era incentivato a venire dall’altra parte della strada e visitare la Pinacoteca. Attraverso questa revisione del potere gestionale siamo riusciti a valorizzare le raccolte del patrimonio. Effettivamente si è registrato un notevole incremento di visite. Tutti quelli che acquistano il biglietto si riversano qui. È vero che, negli ultimi tempi, siamo stati parzialmente chiusi, quindi posso capire il disagio, ma ci ripromettiamo di recuperare al meglio nel primissimo autunno, con la riapertura dell’ala ottocentesca e novecentesca del museo di Palazzo Chiericati. A regime credo che sarà certamente una scoperta eccezionale, un recupero per cui Vicenza potrà andare assolutamente fiera, un’opera che opportunamente promossa potrà avere un grande ritorno. Contiamo molto anche sulla mostra Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento, che sarà ospitata in Basilica dal febbraio 2014. Insieme al curatore, Marco Goldin, faremo un intenso lavoro di promozione dell’evento. Come giudica il ruolo pubblico nella gestione del patrimonio artistico in Italia? È un discorso che è necessariamente un po’ generale. Trovo ci siano delle punte di eccellenza. Io vengo dalle Soprintendenze, quindi dal pubblico per eccellenza. A volte, ci sono dei grandi limiti gestionali dati dalla scarsità dei finanziamenti o dalle difficoltà pratiche che ci sono a gestire un patrimonio così grande. Credo che generalizzare diventi un po’ banale, bisognerebbe vedere caso per caso. In questo settore, io amministro un budget che è poco più che familiare, possiamo dire come di una famiglia medio-borghese. Il bilancio si discosta nettamente dalle aspettative, dai progetti. Quello che si fa diventa un miracolo. Anche nell’ente
Nella pagina a fianco: Sopra - Ritratto fotografico di Maria Elisa Avagnina. Sotto - Palazzo Chiericati, sede della Pinacoteca Civica di Vicenza. In questa pagina: un'immagine della mostra Cinque secoli di volti, conclusasi a maggio. Sul Romanzo
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In questa pagina - Il Teatro Olimpico. Nella pagina a fianco - La Basilica Palladiana, entrambi opera di Andrea Palladio.
locale esistono fortissime disparità: le amministrazioni, ed è anche logico, durante i loro mandati, privilegiano un settore piuttosto che un altro. La cultura non è un settore su cui si è finora largamente investito. A Vicenza, però, lo sta diventando ora con la nuova amministrazione, la quale, sia nella campagna elettorale sia in alcuni gesti incentrati al momento sulla Basilica Palladiana, ha dato segno di voler considerare la cultura un elemento importante e anche un fattore economico fondamentale. Pensa che delegare al privato possa servire a superare alcune criticità? Si possono delegare alcune funzioni, si possono utilizzare e convogliare le generosità del privato. Io credo, però, che la gestione debba continuare a restare in mano all’amministrazione di un ente pubblico e che quest’ultimo debba sforzarsi di mettere in atto una campagna utile come sta facendo qui a Vicenza il nuovo Assessore alla crescita Jacopo Bulgarini d’Elci: attivare le forze per drenare le risorse economiche provenienti da vari settori della società. Se poi ci sono alcune attività da delegare meglio: il nostro servizio di biglietteria, per esempio, è stato sempre esternalizzato attraverso convenzione. Credo, tuttavia, che il cuore debba restare a carico dei proprietari di questi beni. Il nostro lavoro è molto particolare. Non so come sarà in futuro, ma il direttore dei musei, per esempio, fino a oggi viene reperito con un concorso specifico, non è un dirigente come gli altri. Lei mi ricordava che sono qui dal 1997: ho fatto un concorso per direttore dei musei, mentre si poteva fare un generico concorso per dirigente comunale per accedervi. Questo per dire che forse delegare all’esterno ben venga per alcuni aspetti, ma non per le funzioni principali. L’ultima mostra aperta al pubblico dal 3 ottobre 2012 al 16 maggio 2013, Cinque secoli di volti. Una società e la sua immagine 74
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nei capolavori di Palazzo Chiericati, ha registrato un enorme successo di pubblico: più di 55mila visitatori. Le richieste di visita hanno portato alla sua proroga fino al 18 agosto, data in cui la Pinacoteca chiuderà completamente per consentire gli ultimi lavori in vista dell’apertura dell’intera ala palladiana, prevista per fine settembre. Quali sono stati gli elementi chiave di tale successo? La mostra ha inaugurato anche il recupero dei seminterrati, i quali hanno sempre un fascino particolare. Devo dire che il merito è anche di chi ha fatto il progetto di restauro, di ottima qualità: ha creato attraverso la luce, elemento molto importante per la percezione, per la capacità di suggestionare, la giusta ambientazione. I numeri dei visitatori sono stati alti. Da sottolineare il loro entusiasmo percepito nelle frasi che hanno lasciato scritte nel guestbook che abbiamo messo a disposizione. Sono state apprezzate l’idea di recupero dei seminterrati e l’idea del ritratto che, si sa, ha sempre un fascino particolare. Le opere esposte sono tutte nostre, non ci sono celebri capolavori, come, invece, è avvenuto nell’ultima grande mostra, Raffaello verso Picasso, allestita in Basilica Palladiana, che ha raccolto molte opere provenienti da vari musei del mondo. Noi abbiamo semplicemente mostrato le nostre opere. Non abbiamo messo le didascalie perché volevamo spingere al massimo questo colloquio diretto tra lo spettatore e l’opera. Le didascalie sono n° 5 • Ottobre 2013
state fornite su un libretto a parte. Mi sono accorta che molti avrebbero preferito essere rassicurati con un’etichetta accanto, ma si sa che è solo questione di abitudine. Noi siamo un museo civico e dobbiamo raccontare la storia della città. Stiamo lavorando molto sulla comunicazione. La riapertura della Basilica Palladiana ha portato molti turisti in città. Si è conclusa il 20 gennaio 2013 la mostra Raffaello verso Picasso curata da Marco Goldin, registrando 225mila visitatori. In primavera, arriverà un’ulteriore mostra. Qual è il futuro della Basilica, secondo lei? Crede che una sua apertura per 365 giorni l’anno risulterebbe di maggior efficacia? Se ci fosse l’Assessore Bulgarini direbbe: «Assolutamente sì». Lui usa questa bella espressione: «La Basilica dovrebbe essere liberamente aperta. È come una verticalizzazione della piazza». I dirigenti attualmente disponibili non sono sufficienti per tenerla aperta. Ci vorrebbe più personale, che ovviamente ha un costo. Una novità è stata, per esempio, quella di introdurre la possibilità di dare in concessione ai privati gli spazi della Basilica per eventi. Penso che sarebbe interessante una sua valorizzazione perché è il cuore della città. Durante questi mesi, sarà aperta per motivi diversi: per mostre, per esposizioni. Quando ci sarà la mostra di Marco Goldin, a febbraio 2014, la Sul Romanzo
Basilica sarà blindata anche per il fatto che giungeranno opere prese in prestito da musei stranieri. Quindi, sarà sottratta alla visita libera come monumento. Ci sono vari aspetti non facili da gestire insieme. Se non 365 giorni perché, ricordiamo, il lunedì è turno di chiusura, diciamo che nella prospettiva dell’amministrazione si cercherà di tenerla accessibile nel modo più agevole possibile per i turisti. Devo anche dire che, quando l’abbiamo tenuta aperta tre mesi ininterrottamente con grandi flussi, alcuni cittadini ci hanno lasciato scritto: «Ma perché non fare pagare almeno un euro?» per il fatto che era visitabile gratuitamente. Io sono tra quelli che sostengono che le cose che hanno un valore debbano dimostrarlo in modo tangibile. A volte, vengono quasi inconsciamente deprezzate. Il recupero della Basilica con la mostra di Goldin ha fatto finalmente capire ai politici l’importanza del patrimonio. Io non sono stata in grado di farlo capire a sufficienza. La passione c’è stata certamente, ci sono stati risultati, ma è stato difficile far capire l’importanza di questo aspetto. In alcuni casi, basta che qualcuno arrivi e lo faccia vedere, come ha fatto Marco Goldin, il quale alla base ha una struttura organizzativa che noi qui al museo purtroppo non abbiamo. “Linea d’ombra”, l’Associazione a cui fa capo Goldin, ha potuto beneficiare di fondi che noi ce li sogniamo. La mostra Cinque secoli di volti, di cui si parlava in precedenza, è stata dettata dalla volontà di interagire. Noi siamo i padroni di casa come museo, che danno il benvenuto ai grandi capolavori. Abbiamo lucidato la nostra argenteria. Sono contenta del nostro esito perché la nostra iniziativa si è integrata bene. Aprendo i seminterrati, il piano nobile, le sale dedicate ai vicentino Giuseppe Roi, i depositi che abbiamo sistemato, sì, sarà un passo importante. E termino dicendo questo: Vicenza è una città privilegiata perché ha un pregresso di cultura imporn° 5 • Ottobre 2013
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tante, ha un patrimonio notevole, è una città ricca di storia, di eccellenze, ma è una città che non riesce molto a fare squadra. Questa è una cosa di cui ha sofferto il museo: non è stato abbastanza amato dalla città per poter avere anche quella forza contrattuale. Forse avremmo fatto più strada. Ma io ho una speranza: spero che i lavori successivi possano avere una base di partenza con cui poter superare alcune difficoltà. Per avere dei risultati bisogna volere e amare intensamente le cose. La Basilica l’ha voluta il sindaco in un modo eccezionale. Io non sono stata sufficiente qui, avrei voluto fare di più. I figli che crescono bene sono quelli che sono molto amati. Secondo le statistiche di Museum Analytics, il sito che monitora oltre 3mila musei nel mondo in base al numero di visitatori reali, amici Facebook e follower Twitter, l’Italia si posizionerebbe all’ottantacinquesimo posto nella comunità del 2.0. Ritiene che i social media possano essere vantaggiosi per i beni culturali? Grazie di questa domanda. Io, devo dire, sono una donna di un’altra generazione, non uso i social network, non fanno parte, ahimè, della mia cultura. Però, ne capisco l’importanza. Noi abbiamo ottenuto la possibilità di accedervi. È una cosa recente l’attivazione del profilo dei musei civici su Facebook, Pinterest, Twitter. Prima esisteva qualche vincolo coi vertici del Comune. Ora abbiamo una ragazza, Chiara Signorini, giunta attraverso una borsa di studio della Fondazione Giuseppe Roi di Vicenza che sostiene le spese della sua permanenza al museo, come in precedenza era accaduto con il professore di Storia dell’Arte ora presso l’Università di Bergamo, Giovanni Carlo Federico Villa, il quale ha fatto i suoi primi passi proprio qui, quando abbiamo curato i cataloghi scientifici della Pinacoteca.
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La Fondazione è sempre vicina al museo e ci ha concesso di avere questa ragazza molto generosa del suo tempo. La sua funzione è quella di tenere attivati i canali in rete. È un grosso impegno, non avevamo personale in tal senso. Abbiamo dei follower, tra i quali il Ministro dei Beni Culturali Massimo Bray che abbiamo invitato all’inaugurazione della prossima mostra. Ne Il Museo immaginato del critico d’arte Philippe Daverio (Rizzoli, 2012), viene descritto un ipotetico museo suddiviso in stanze, all’interno delle quali vengono collocate appropriate opere d’arte. Chiediamo a lei: quale o quali opere d’arte non potrebbero fare a meno di esser presenti nel suo “museo immaginato”? È una domanda difficile. Sarebbe come chiedermi: «Cosa ti porteresti sulla luna?». Un’opera per me straordinaria è La fanciulla di Anzio ai Musei Capitolini. Una scultura ellenistica che mi suscita grandi emozioni. Quella fanciulla mi suscita l’idea dell’attesa, del lontano, il fremito della giovinezza. Se io dovessi riflettere, però, entrerebbe in merito la mia deformazione professionale e quella che è l’etica di questo mio lavoro: sceglierei delle opere che potrebbero piacere e comunicare dei valori a tutti. Forse un’opera a cui sono particolarmente legata è un affresco. L’ho scoperto a Palazzo Finco, a Bassano del Grappa (Vi): un affresco di epoca federi-
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ciana, che considero un affascinante regalo fattomi da Federico II, in occasione dell'ottavo centenario dalla nascita, nel 1994. Raffigura un imperatore con una rosa e una donna con in mano un falcone. Ho realizzato per questo un contributo Un inedito affresco di soggetto cortese a Bassano del Grappa, in Federico II. Immagine e potere, a cura di M. S. Calò Mariani-R. Cassano. Una curiosità: lei, da bambina, sognava di dirigere un museo? Io ho una fortissima attrazione per la bellezza, ovunque essa sia. Anche nel volto di una persona, nello sguardo, in un particolare abbigliamento. Il senso dell’estetica, dell’accostamento dei colori: questo, sì, fa parte di me sin dall’infanzia. È una cosa innata su cui poi ho maturato le mie scelte universitarie, frequentando la Facoltà di Lettere, con indirizzo storico-artistico. L’idea della conservazione è un’ altra mia caratteristica. Un po’ un istinto al femminile. Mi dà una grande soddisfazione vedere qualcosa che ritorna alla luce. Infatti, durante la mia attività nella Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Veneto, mi occupavo del Gabinetto di Restauro. Poi, è venuta l’idea di una casa a cui dedicare delle cure. Quindi, sì, se vogliamo, l’idea di mettere a posto, l’idea dell’ordine, della conservazione era già presente in me. Purtroppo, non ho avuto molto tempo per la produzione scientifica. Mi propongo di farlo, di riprendere tanti argomenti. Finora abbiamo realizzato il catalogo della collezione del museo in tre volumi dal 2003 al 2005 Pinacoteca Civica di Vicenza (edito da Silvana Editore), in cui sono inserite opere dal XIV al XVIII secolo, con schede di indagini non distruttive sulle opere d’arte.
Nel 2007, abbiamo pubblicato Gabinetto Disegni e Stampe dei Musei Civici di Vicenza - I disegni di Andrea Palladio (edito da Silvana Editore), per giungere al 2012 con Pinacoteca Civica di Vicenza - Lascito Giuseppe Roi (edito da Marsilio), catalogo relativo alle opere appartenenti al marchese vicentino Giuseppe Roi. *** Un ringraziamento particolare vogliamo porgere alla dott.ssa Maria Elisa Avagnina per averci accompagnato gentilmente nella visita speciale alle sale dedicate al marchese vicentino Giuseppe Roi, che riapriranno in autunno, non appena termineranno i lavori di restauro del palazzo. Un allestimento che lascia senza fiato, in un’ambientazione curata nei minimi dettagli, come forse avrebbe voluto il marchese: un’esposizione di tutte le sue opere, non solo costituita da importanti dipinti, ma arricchita da libri e fotografie dell’epoca che rievocano i momenti della sua vita. Collocata nel sottotetto della Pinacoteca a ricreare un contesto intimo, l’esposizione è permanente. Vi si trovano opere di Pisanello, Maffei, che lui adorava, Canaletto, Tiepolo, Boldini, Manet, Morandi, Picasso e molti altri. L’intento, come ci ha spiegato la Direttrice, è stato quello di ricreare la casa del marchese, restaurando tutte le cornici, sistemando la pavimentazione. «Ci auguriamo molto che lui possa esserne fiero e soddisfatto».
In questa pagina - Un'altra immagine della mostra Cinque secoli di volti. Nella pagina a fianco - Ritratto di Ascanio Chiericati, Alessandro Milesi, 1910. Esposto durante la mostra. Sul Romanzo
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Il Meridione irrisolto
Il Meridione isolato: Trenitalia taglia fuori il Sud
di Valentina Ferri e Leonardo Palmisano
Il Sud vittima di retorica? Quando si parla di Sud, soprattutto nei dibattiti pubblici, difficile che gli attori politici escano dal campo della retorica più bassa: «Il Sud ha avuto troppo», «Al Sud non si pagano le tasse», «I Meridionali non vogliono lavorare, sono tutti disabili». Queste asserzioni si fondano su una vulgata leghista che ha attecchito anche presso altre compagini politiche, sdoganando l’idea di un Meridione parassitario che fortunatamente Viesti, Cassano ed altri provano da tempo a rimuovere dall’immaginario comune italiano. Si tratta di opinioni particolari che sono diventate opinioni di senso comune, sulle quali si sono costruite, nel tempo, politiche incisive, a tutto svantaggio del decollo economico e sociale del Meridione d’Italia. Cionondimeno, è anche vero che porzioni delle amministrazioni pubbliche meridionali e non pochi parlamentari del Sud hanno dato prova di essere artefici di un parassitismo volgare e indecente, perfino mafioso (numerose sono le amministrazioni comunali sciolte e commissariate per infiltrazione criminale). Dunque, al di
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là delle retoriche, la verità sta non tanto nell’eccesso di risorse concesse al Meridione, semmai nello scarso interesse dei politici verso il conseguimento di obiettivi di onestà e rilancio economico di questa importante porzione d’Italia. Le isole meridionali di Trenitalia Uno dei settori nei quali il Sud è stato particolarmente escluso da interventi di rilancio è quello delle infrastrutture e dei trasporti. Ci fermiamo sul sistema dei treni, del trasporto su rotaia, perché esso dovrebbe portare con sé una serie di possibili vantaggi per un Sud che vuole ripensarsi nella prospettiva di aprirsi a un’economia sostenibile, meno aggressiva, rispettosa del territorio, dell’aria, ecc. Partiamo da alcuni dati di fatto: negli orari di Trenitalia risulta che le tratte di collegamento dirette tra capoluoghi meridionali (tratte Sud-Sud) sono raramente superiori a 4, mentre le tratte Nord-Nord o Centro-Nord tra capoluoghi arrivano a superare le 60 soluzioni dirette possibili! Uno scandalo aggravato dall’isolamento di due città importanti come Bari e Palermo, centrali nel congiungimento del Sud-Est e del Sud-Ovest con le parti centrali del Sud. Tutto ciò a conferma di un’assenza di prospettiva trasportistica di integrazione tra centri meridionali, e a vantaggio di una visione parcellizzata, frammentata e isolata dei diversi Sud esistenti. Si smentisce una qualunque idea uniforme ed integrata del Meridione. Mettendoci, dunque, nei panni di un turista che voglia raggiungere agevolmente la Lucania dalla Sicilia per poi spostarsi in Puglia, Trenitalia lo vincola a un viaggio della speranza che suona come la sonora bocciatura di un’idea di incrocio tra territori meridionali e domanda turistica potenziale. La conclusione che se ne trae è che non c’è soltanto la Sicilia come isola in senso stretto, ma la Calabria, la Lucania e la Puglia – la Campania molto meno – sono da considerarsi altrettante isole territoriali nel grande sistema nazionale di Trenitalia. 80
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Centro-Sud e Nord-Sud: l’isolamento continuo Ma il peggio deve ancora venire. Infatti, se prendiamo in esame le soluzioni Trenitalia su tratte più a lunga percorrenza, scopriamo, per esempio, che nella fascia oraria notturna (22.00-06.00) scompare tutto il Sud salvo Bari, che si congiunge con Trento e Torino: parliamo di 101/342 tratte senza alcuna soluzione di viaggio offerta al Meridione. Se poi scendiamo nel dettaglio delle tratte con soluzioni più agevoli per i passeggeri nel raggiungimento dei differenti capoluoghi nazionali, troviamo che il Sud è tenuto fuori dalle lunghe percorrenze rispetto alla disponibilità di viaggio con i cosiddetti Frecciarossa e Frecciargento (treni ad alta velocità): in questo caso, non ci sono arrivi previsti per il Meridione ad eccezione di Napoli. Quest’ultima presenta 24 soluzioni dirette in Frecciarossa che permettono uno snello collegamento con la capitale sia all’andata, sia al ritorno. Rispetto, infine, alle soluzioni meglio distribuite nell’intera giornata con diverse possibilità di cambio, il Sud non rientra per niente. Il quadro esposto, che è frutto di una precisa cluster analysis costruita sui programmi orari di Trenitalia, ci porta a fare delle riflessioni più generali sulla condizione meridionale. Emerge chiaramente che il Sud è ancora n° 5 • Ottobre 2013
tutto dentro i due paradigmi (della dipendenza e del ritardo) individuati da Franco Cassano in Tre modi di vedere il Sud (Laterza). Il mix di questi due paradigmi risulta quanto mai evidente, dal momento che siamo in una fase di abbandono, di colpevole isolamento, di allontanamento del Meridione dal resto d’Italia da parte della più importante
agenzia di trasporto nazionale. Questo dato non porta a traguardare il terzo paradigma di Cassano, quello dell’autonomia, che prevedrebbe per il Sud una ricetta di indipendenza della crescita e dello sviluppo in una sostanziale autonomia produttiva ed in un’interdipendenza tra le diverse parti del Paese. A questo dobbiamo aggiungere quanto sostenuto dai più recenti rapporti della Banca d’Italia (2011 e 2012): le vocazioni del Sud sono fiaccate da una fortissima debolezza infrastrutturale. Siamo in una situazione che non motiva gli investimenti, che demotiva le imprese meridionali ed extra-meridionali e che non può essere sostituita da altre forme di trasporto (quello su gomma) poiché a più alto impatto ambientale. In definitiva, un isolamento di questo tipo produce criticità nel sistema sia per quanto riguarda il soddisfacimen-
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A sinistra – Un ETR 600, più noto come Frecciargento. Sotto – Una tipica automotrice diesel, usata da decenni per i convogli locali.
to della domanda nazionale di trasporto – non va mai dimenticato che il Sud è terra di emigrazione e quindi di ritorno in alcuni momenti dell’anno – sia per la domanda estera – turistica, imprenditoriale, ecc. – di trasporti. In breve, è come se venisse imposto un ritmo decelerato oltre il tollerabile, in un funesto dispendio di tempo. Più treni per uno sviluppo integrato Mentre legittimamente si discute di TAV al Nord, c’è un pezzo del Paese che va connesso con il resto d’Italia. Non ci sono scusanti o alibi che possano legittimare questo scientifico taglio nel trasporto, questa eliminazione dalle tratte, questa clausura territoriale ed economica. Di più, nelle aree geografiche che vogliono sostenere un percorso di crescita rispettoso dell’ambiente – come la Puglia, per esempio – è opportuno salvaguardare il territorio come elemento centrale dell’identità e del benessere locale e nazionale. Ma come avviare un processo simile senza investimenti nei trasporti su rotaia? Come si può pensare di riqualificare Taranto, senza intensificare il trasporto via treno per ridurre quello su gomma in un territorio dalle fortissime potenzialità turistiche? È necessario, allora, uscire dalla retorica della politica per intensificare un processo di integrazione tra tutti i territori italiani, magari individuando livelli di soluzione essenziali nelle tratte per il raggiungimento di tutti i capoluoghi, senza esclusioni che hanno il sapore antico e un po’ razzista della segregazione. Si tratta di spendere denaro? Anche, ma soprattutto si tratta di cercare finalmente una via per lo sviluppo integrato del Paese.
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Il Brasile visto da un italiano
Intervista ad Alberto Riva
di Marcello Sacco Alberto Riva ha vissuto diversi anni in Brasile, Paese che continua a frequentare come giornalista e scrittore, collaborando, fra l’altro, con il Venerdì di «Repubblica» e «Linkiesta», o semplicemente affidando le sue note varie di cultura e attualità (non solo brasiliana) al blog L’Osservatore Carioca. Nel 2008, ha pubblicato un lungo reportage su Rio de Janeiro (Seguire i pappagalli fino alla fine, Il Saggiatore); nel 2011, è uscito Sete (Mondadori), romanzo la cui azione attraversa il Brasile in lungo e in largo. Sul Romanzo ha parlato un po’ del suo lavoro in un articolo dedicato a Oscar Niemeyr, pubblicato qui. Quanto c’è di giornalistico e quanto di fittizio nella trama di un romanzo che si snoda all’interno della guerra per quello che è già stato ribattezzato il “petrolio” del futuro, cioè l’acqua? Sete attinge dalla cronaca, sia brasiliana che internazionale, e si muove poi su una trama completamente di fantasia. Di tutti i personaggi presenti nel romanzo, l’unico che ha un nome e cognome reali è Don Cappio, il vescovo francescano di una diocesi della valle del Rio São Francisco che ha realmente fatto lo sciopero della fame contro il progetto di drenare acqua dal fiume per ridistribuirla nei territori del semi-arido brasiliano. Progetto non sbagliato nei principi, ma oscenamente svolto
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nella pratica, per altro mai portato a termine, con sprechi e disagi inenarrabili per le popolazioni. Mi sembrava, e credo lo sia realmente, una figura emblematica: un singolo uomo che si carica sulle spalle una questione che attinge interessi enormi, decisioni che vengono prese molto distanti da lì. Mi interessa questo tipo di meccanismo. Che poi è il meccanismo del capitalismo finanziario internazionale, il cui obiettivo è unicamente il profitto. Spesso si tratta di una tragedia i cui personaggi non si conoscono nemmeno tra loro, ma l’azione di uno (mettiamo svoltasi a Ginevra) ha effetti sulla vita dell’altro (che supponiamo si consumi in un villaggio sperduto in Sud America). Estrapolo dal libro un paio di frasi che sono certamente il frutto di una conoscenza giornalistica, o comunque di un’esperienza diretta della realtà brasiliana: «Stando alle royalty generate dalla produzione di elettricità della diga, il comune avrebbe dovuto rappresentare una eccezione di ricchezza in quella landa desolata nell’entroterra baiano»... oppure: «Il Brasile è uno dei paesi dove l’educazione dei figli è tra le più care al mondo». Cosa c’è dietro quest’onda positiva dell’economia brasiliana, che nell’Europa in fase di im-
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poverimento viene spesso additata come esempio di successo? La crescita economica brasiliana, che ha impressionato gli economisti e i giornalisti in questi anni, è dovuta al forte aumento della domanda interna e, in parte, alle esportazioni di materie prime innanzitutto alimentari (carne, soia, latte, arance, mais e risorse del sottosuolo: in una parola, la terra). La politica di inclusione sociale promossa dai due governi Lula (2002-2006 e 2006-2010) e, in parte, dall’attuale amministrazione Rousseff ha traghettato nei consumi circa 30 milioni di Brasiliani che prima non esistevano in quanto consumatori: li ha resi cittadini (fornendo, spesso per la prima volta, i documenti e il libretto di lavoro, un conto in banca e una carta di credito), trasformandoli, però, prima di tutto in nuovi clienti. In Brasile, il voto è obbligatorio e, dunque, ha forte efficacia il meccanismo del voto di scambio: le classi povere urbane sono manipolate come serbatoi elettorali in cambio di regalie sotto forma di programmi sociali. Il meccanismo è stato esteso in questi anni alle campagne, che in Brasile sono vastissime. Recentemente, con le proteste di piazza dello scorso giugno in occasione della Confederation Cup, si è visto come questo modello sia ora entrato in crisi, a causa del costo della vita sempre più alto e di un servizio pubblico deprecabile: educazione, sanità, trasporti, giustizia
e sicurezza sono in Brasile ancora largamente al di sotto della decenza. Se si vuole avere un servizio di buon livello bisogna rivolgersi al privato che, protetto da lobby fortissime in parlamento e al governo, gode di ampio spazio di manovra ed è capace di condizionare e indirizzare il mercato. Sia in Seguire i papagalli... sia in Sete si trovano riferimenti espliciti al problema della mobilità in megalopoli come Rio o San Paolo. A me non piace l’aggettivo “profetico” appioppato agli scrittori, però diciamo che il lettore poteva già trovarci degli indizi in anticipo rispetto alle recenti rivolte scoppiate a proposito dei biglietti dei trasporti pubblici, una motivazione a prima vista banale, che avrebbe causato una reazione sproporzionata. Che peso ha la mobilità sulla qualità della vita del brasiliano medio? Non è un caso che la rivolta abbia avuto come scintilla il costo del biglietto dell’autobus: i brasiliani ormai pagano tutto a rate con la carta di credito, dunque hanno perso la percezione di quanto siano cari certi prodotti anche basilari: mi riferisco in primis alla spesa alimentare, al vestiario, ecc. I prezzi non sono esposti nelle vetrine nel loro valore intero, ma già nella ripartizione in rate. Esempio: In alto, da sinistra a destra – Ritratti fotografici di Alberto Riva, Luis Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff. Nella pagina a fianco – Ritratto fotografico di Don Cappio. In questa pagina - Un'immagine della protesta brasiliana
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In questa pagina – Immagini delle proteste brasiliane.
un paio di scarpe da tennis costa a prima vista 27 Reais, ma se si guarda bene il cartellino esposto si vedrà sempre, appena sotto: X6. Cioè, moltiplicato sei volte. Quello è il prezzo intero. Ma quando la cassiera passerà la carta di credito applicherà automaticamente la rateizzazione. È una forma mentis ormai penetrata nel consumatore. Nulla si compra a prezzo intero. E si pagheranno interessi. Il biglietto del bus, invece, si paga tutto intero ed è carissimo: in media 2 Reais e mezzo o 3. Come se da noi costasse 2 euro e mezzo o 3. Gli abbonamenti non esistono. È un popolo che in maggioranza non possiede l’automobile e deve compiere spostamenti enormi in città vastissime per lavorare. Su questo costo fisso non frazionabile l’indignazione ha trovato una base d’appoggio che ha sorpreso anche gli stessi governanti. I Brasiliani, in questo che sembra un motivo marginale, hanno improvvisamente sentito tutto il peso del sopruso e hanno reagito. Qual è, invece, un esempio brasiliano davvero positivo che ti piacerebbe che l’Europa imitasse? Cito spesso il caso dei Sesc, il Servizio sociale del Commercio: si tratta di centri di produzione culturale sparsi in tutte le grandi città brasiliane e che sono finanziati da una tassa, minima, che qualsiasi commerciante deve pagare allo Stato: è una legge del 1946. Con un minimo contributo sullo stipendio che il commerciante paga ai suoi dipendenti, i
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Sesc producono cultura, cioè teatri, cinema, centri sportivi, mense popolari, doposcuola, e molto altro, in spazi grandi, spesso belli architettonicamente, che accendono la vita culturale e sociale dei quartieri e, quando la città è piccola, della stessa città. È un modello che metterebbe definitivamente, anche da noi, la parola fine alla questione che la cultura non genera profitto; è tutto il contrario. Chi produce profitto si autotassa in modo praticamente impercettibile e finanzia centri di produzione di altro profitto e di altro lavoro. I Sesc sono sempre pieni di pubblico con spettacoli e attività di vario genere e di alto livello. Lo stesso modello esiste per l’industria (si chiamano Sesi). Inoltre, un meccanismo di agevolazione fiscale molto concreto e vantaggioso fa in modo che tutte le banche, per fare solo un esempio, includano nei loro edifici centri culturali multidisciplinari che portano il loro nome e fanno ormai parte del paesaggio mentale dei Brasiliani. È normale, per un brasiliano, andare a vedere uno spettacolo di Dario Fo o di Harold Pinter nel Centro Cultural Banco do Brasil o nell’Itaù Cultural. Sono modelli di sviluppo che andrebbero conosciuti dai nostri amministratori pubblici, così la smetterebbero di dire che non ci sono i soldi per la cultura. Errore: i soldi ci sono, ma loro li cercano nei posti sbagliati. Di un tuo personaggio si dice: «Arrivati gli anni Novanta, lui il Brasile non l’aveva più capito». Vale anche per l’autore? C’è
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un momento in cui hai smesso di capire il Brasile? Citando Melampus di Ennio Flaiano, potrei dire quello che dice Giorgio Fabro di New York all’inizio del romanzo: lui l’America l’aveva capita subito, la prima ora, ma adesso non ci capiva più nulla (cito a memoria). Ed è vero. Poi però, dopo un po’, capisci di nuovo, forse non tutto, ma l’essenziale sì. Capisci qualcosa di diverso. Capisci che si tratta di un Paese molto complesso e che pretende molta pazienza, molto amore e anche una certa dose di fortuna. Mettendo da parte l’attualità e venendo alla letteratura “pura” (ammesso e non concesso che esista), il nome della protagonista, Sarah Clarice, rimanda quasi per riflesso condizionato a Clarice Lispector, figura tutelare di tanti letterati brasiliani. Ma la tua è una scrittura molto diversa dagli sperimentalismi di una Lispector e ti dichiari, anche nelle cose che pubblichi sul blog o sui giornali italiani, un ammiratore di scrittori che non disdegnano le risorse della letteratura popolare (per esempio, citi spesso Graham Greene). Non ti domando chi siano gli scrittori che ti piace leggere – saranno sicuramente tanti e diversissimi tra loro –, ma quelli a cui pensi più spesso mentre scrivi. Credo che tu ti riferisca alla letteratura di intrattenimento che, quando è fatta bene, io considero
letteratura tout-court. Dunque, penso ovviamente a Graham Greene, come penso anche a Carlo Cassola e a Ignazio Silone, e nelle stesso tempo penso (cioè leggo e rileggo) John Le Carré, Frederick Forsyth, a loro modo dei classici, così come Henning Mankell che trovo sia uno scrittore di enorme talento nell’unire una forza di intrattenimento molto persuasiva a una capacità di usare la storia contemporanea e il mondo come scenari: vedi lo splendido thriller Il Cinese o il giallo più classico Il ritorno del maestro di danza. In questi scrittori, la cronaca geopolitica talvolta serve da spunto, da dettaglio di uno scenario più ampio, da sfondo, sul quale far agitare le proprie storie. Un meccanismo affascinante. Jean-Claude Izzo è stato, in questo senso, un maestro della nostra epoca. Al quale aggiungo il Giancarlo De Cataldo di Romanzo Criminale e il Massimo Carlotto di Arrivederci amore ciao, entrambi, a mio parere, tra i maggiori romanzi italiani degli ultimi anni. Questo mese, la letteratura brasiliana è stata tema della Fiera del Libro di Francoforte. Dicci un autore o un libro che consiglieresti assolutamente a un editore italiano non troppo distratto. Il ciclo O continente di Erico Verissimo, scrittore contemporaneo di Jorge Amado. Immenso scrittore completamente sconosciuto in Italia. Nello specifico, i romanzi Ana Terra e Um certo capitão Rodrigo. Sublimi.
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L’istruzione ci salverà dalla crisi economica
Parola del Premio Nobel Amartya Sen
di Enza Moscaritolo
Diritto di cittadinanza, diritto all’istruzione, uguaglianza. La ricetta per la ripresa economica e per superare la crisi mondiale degli ultimi anni annovera questi ingredienti fondamentali, almeno secondo Amartya Sen, economista indiano, Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Al suo arrivo a Lucca, ospite di Fondazione Campus (che organizza da 10 anni corsi di laurea in turismo in collaborazione con FLAFR, Fondazione lucchese per l’alta formazione e la ricerca, e le Università di Pavia, Pisa e della Svizzera Italiana di Lugano) e del Comune di Lucca, Sen ha poche e lapidarie parole da rivolgere al pubblico nell’incontro intitolato Citizenship and Higher Education: an Alliance for Social Progress. L’incontro pubblico (l’unico in Italia previsto per quest’anno) è stato realizzato con la partecipazione dell’Associazione Industriali di Lucca e della Fondazione Piaggio, e voluto anche dall’amministrazione Tambellini, all’interno del percorso di incontri dedicati alla partecipazione. Nel corso della sua carriera, Sen si è ampiamente occupato di fame e povertà, e di politiche pubbliche orientate a combatterle: ha sostenuto con dati empirici, analizzando alcuni grandi carestie che hanno colpito Cina e India, che la fame non dipende dalla scarsa quantità di cibo, ma dalla sua gestione e dai prezzi. Questo suo studio è divenuto, a metà del secolo corso, il nuovo standard per la
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realizzazione di interventi in questi ambiti. Quando parla, affascina l’assemblea: non fa uso di paroloni o di tecnicismi da cattedratico spocchioso. Niente “spread”, “austerity”, nessun ricorso alla vituperata “spending review” e compagnia cantante sparati dai telegiornali, a volte senza spiegarne a fondo il significato. «Io penso che siano diverse le cose che le nazioni possono fare – dichiara con semplicità –. Su di loro incombe una responsabilità sociale. L’Italia, in particolare, a mio avviso, non può non tenere conto del proprio passato, dalla Rivoluzione Industriale alla Seconda Guerra Mondiale, fino a quello che oggi chiamiamo Welfare State, lo Stato Sociale. La politica di austerità praticata da voi in Italia, come in Grecia, in Spagna, in Portogallo e in molte altre nazioni come la vostra, necessita, per essere concretamente realizzata, di riforme istituzionali, a partire dalle pensioni: l’austerità da sola comporta soltanto una caduta precipitosa verso il basso, e sta facendo più male che altro. Non serve a nulla limitarsi a “tagliare”». Diverso il discorso sui BRICS, ovvero le cinque nuove potenze economiche emergenti racchiuse nell’acronimo, ovvero Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Sen le definisce economie vivaci, certamente, ma molto fragili, in mano ad un élite di pochi ricchi. Sulle quali, dunque, non serve interrogarsi a lungo. Almeno per il momento.
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Sono le questioni etiche a premere principalmente nella relazione di Sen. Autore di una corposa bibliografia, il premio Nobel ha sempre puntato l’accento sui nodi di natura etica che riguardano l’economia di mercato, riflessioni di ampio respiro, a cavallo tra la filosofia, l’economia, il diritto e la finanza. Del resto, ne La ricchezza della ragione. Denaro, valori, identità (Il Mulino, 2011), Sen scrive che «È solo con la ragione che possiamo individuare, nel mondo globalizzato, il modo giusto e più rispettoso per entrare in contatto con gli altri popoli, altre culture, altre istanze sociali». Il suo è, infatti, un approccio sostanzialista ai diritti e alle libertà: è il rivoluzionario approccio delle capacità. Per l’economista indiano, non è sufficiente che siano riconosciuti dei diritti, ma è necessario che le persone abbiano la capacità di esercitarli. Ne è un esempio il suffragio universale: diventa un diritto “vuoto”, se i cittadini non sanno leggere e scrivere, o non conoscono il meccanismo elettorale e politico. Da qui l’importanza chiave dell’istruzione come contributo al benessere e allo sviluppo umano delle persone.
«Il ruolo dell’educazione primaria nel processo di sviluppo sociale e di progresso del Paese del Sol Levante – prosegue Sen, autore di molte opere e opinionista per testate come «The Guardian» e
«Il legame tra l’istruzione e il progresso umano è ampio e profondo – ha dichiarato durante il suo intervento –. Già Adam Smith sosteneva l’importanza di fornire adeguate attrezzature scolastiche per perseguire in maniera lungimirante obiettivi di economia di mercato. Si possono ottenere enor-
1 La citazione di Amartya Sen è tratta dal suo intervento Attualità di Adam Smith, tenuto nel 2010 durante il IX Festival Internazionale delle Letterature a Roma e riportata da Sergio Caruso nel suo libro Homo oeconomicus, paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, 2012.
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mi benefici per l’umanità se si persegue l’utilizzo delle risorse statali per il sostegno all’istruzione. Guardiamo al Giappone, per esempio: è oggi una potenza economica, il primo a intraprendere uno sviluppo moderno in Asia». Già, Smith. In una nota conferenza di appena tre anni fa, Sen aveva puntualizzato che «L’immagine di uno Smith profondamente conservatore intemerato araldo delle virtù del mercato e banditore politico di elementari formulette, insomma lo Smith-icona della nuova religione del mercato è una creazione storica dell’Ottocento, realizzata attraverso un’errata analisi dell’opera smithiana. […] Al contrario, lo stesso Smith si spinge persino ad affermare che, se la “prudenza” è “fra le virtù quella principalmente utile all’individuo”, “l’umanità, la giustizia, la generosità e il senso civico sono le qualità più utili agli altri”»1.
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Tutte le immagini ritraggono l’intervento di Amartya Sen a Fondazione Campus Lucca. Foto di Luigi Casentini.
«New York Times», docente alla Harvard University, settimo nella classifica dei 100 intellettuali più influenti al mondo, secondo il sondaggio annuale della rivista «Prospect» e del «Financial Times» – è stato determinante: del resto, la capacità di leggere, scrivere e contare ha effetti potenti sulla nostra qualità della vita, poiché influenza le libertà che abbiamo per capire il mondo, per condurre una vita consapevole, per comunicare con gli altri, e più in generale per essere davvero in contatto con ciò che sta succedendo. In una società, in particolare nel mondo moderno, dove tanto dipende dalle parole scritte, essere analfabeta significa essere imprigionati. Inoltre, le opportunità economiche e prospettive di lavoro dipendono in gran parte dai nostri risultati scolastici e dalle competenze coltivate: dunque in un periodo di crisi profonda come questo l’istruzione è un’ancora cui aggrapparsi per trovare nuove chance». Amartya Sen è diventato famoso per aver sottolineato la necessità di misurare la ricchezza dei popoli, oltre che con l’uso del PIL (Prodotto Interno Lordo), anche con quello di sviluppo umano che comprende la distribuzione delle ricchezze sani-
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tarie, l’accesso all’educazione, le politiche pubbliche, la qualità dell’ambiente. Da quest’intuizione nacquero centinaia di studi e di teorie politiche. Uno dei primi a coglierne l’enorme portata e a farla propria fu Robert Kennedy. In questo senso, in Italia poche settimane fa, è stato presentato il primo rapporto sul BES (Benessere equo e sostenibile), redatto da Cnel e Istat. Nel corso del suo lungo intervento, non poteva non accennare all’India, suo Paese natale. «L’India ha tratto un enorme vantaggio economico grazie a una forzalavoro ampiamente e altamente qualificata, in particolare nel settore dell’Information Technology e nella produzione farmaceutica – precisa – non mancano le lacune, ovviamente. Tra queste l’incoraggiamento a nuove ricerche e l’espansione della base di istruzione. Ritengo, dunque, che, rispetto al tema dell’istruzione, si debba avere un atteggiamento più inclusivo per il benessere e il progresso dell’umanità. L’Italia è stata in prima linea, in questo senso, nel corso dell’ultimo millennio. È a Bologna che si trova l’università più antica esistente al mondo, creata nel 1088. Parigi ha seguito tre anni dopo, nel 1091. Padova non era molto indietro. Altre cittadelle di istruzione superiore emer-
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sero altrove più lentamente, tra cui l’Università di Oxford nel 1167 e l’Università di Cambridge nel 1209. Oggi, pertanto, la sfida maggiore per il nostro mondo globalizzato è quella di dare adeguata importanza alla formazione, sia per l’istruzione primaria che per l’istruzione superiore».
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La seduzione dell’ergonomia di Francesco Zingoni
Sean Young, in una scena di Blade runner. 90
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Può una macchina elettronica sedurre un essere umano? Se la macchina in questione avesse il fascino di Rachael/Sean Young, la replicante di cui si innamora l’agente Deckard/Harrison Ford in Blade Runner, personalmente risponderei di sì. Uno scenario da fantascienza alla Philip K. Dick, appunto. Che però in questi anni ha visto gettate le sue basi, nell’opera di un solo uomo: Steve Jobs, il santo della prima era digitale, il patrono dell’ergonomia. Avevo buttato giù questi appunti all’indomani della sua morte e dell’immediata beatificazione vox populi. A distanza di due anni, mi sembrano ancora più attuali, direi quasi urgenti. Premetto che non sono mai stato un fan della Apple e non ne ho mai sopportato la filosofia chiusa, premetto anche che sto (scomodamente) scrivendo questo testo su un iPad. Cosa c’è dietro la venerazione per il guru della mela morsicata? Sicuramente il geniale capitano d’impresa, il comunicatore carismatico. Ma c’è anche qualcosa che trascende l’uomo, che ce lo fa identificare con la sua stessa creatura, perché nella commozione per la sua morte c’è stato un po’ dell’isterismo che serpeggiava nelle code per il lancio dell’ultimo iPhone o nei pellegrinaggi iniziatici agli Apple Store. Quindi, la domanda potrebbe diventare: cosa c’è dietro il successo della Apple? In prima battuta, la chiave sembra nel design dei prodotti, nel loro essere cool, nell’immediatezza di utilizzo, nell’affidabilità, nella qualità indiscutibilmente superiore, per non tacere della compo-
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nente psicologica del sentirsi parte di una (ex) élite di utenti-adepti. Tutto vero, ma questi sono solo i sintomi. Per arrivare al cuore del fenomeno, bisogna leggerlo attraverso un solo concetto, che in sé racchiude tutta la rivoluzione della Mela: l’ergonomia. Prima di Steve Jobs, l’ergonomia era il tentativo di minimizzare la frustrazione provata dall’utente. Con lui, l’ergonomia diventa il piacere intrinseco che si prova nell’uso di un oggetto elettronico, la seduzione (psicologica e talvolta addirittura fisica) che questo può esercitare su masse di utenti potenzialmente enormi. Steve Jobs ha creato i primi prodotti elettronici di consumo che provocano piacere e benessere nel semplice contatto tra uomo e macchina. E questo non è stato un imprevisto effetto collaterale, ma il cavallo di Troia perseguito per tutta la vita. Trasformare il prodotto elettronico in qualcosa che non si usa primariamente per necessità, ma per il puro piacere di farlo. Per l’infantile meraviglia di essere coinvolti in qualcosa che un giorno trascenderà la nostra capacità di comprensione e di controllo. Quest’uomo ha così irreversibilmente mutato l’orizzonte del progresso tecnologico, traghettandolo dal paradigma dell’utile a quello del piacere. Ha imposto l’ergonomia come direzione lungo cui d’ora in poi correrà, a rotta di collo, l’evoluzione umana e tecnologica (ma ha senso ormai distinguerle?). Cosa comporterà l’aver adottato l’ergonomia come nuova freccia evolutiva? L’incontro tra uomo e macchina sarà sempre più diretto e istintivo, stimolato dal principio per cui la macchina dovrà
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A destra - Ritratto fotografico di Richard Stallman. Nella pagina a fianco - Ritratto fotografico di Steve Jobs. Sotto - Una nota immagine reperibile su internet.
non solo soddisfare, ma surclassare le aspettative dell’utente, sorprenderle oltre ogni previsione. Si instaurerà un esplosivo circolo (tecnologicamente) virtuoso, dove la soddisfazione di nuovi bisogni indotti alzerà sempre più l’asticella della curiosità e della voglia di farsi sorprendere. Ci appassioneremo sempre più al confronto tra un’intelligenza organica, auto-cosciente e senziente, e una artificiale, che non lo è ancora. In un orizzonte temporale ampio, questo significherà dotare le macchine di un’intelligenza sempre più raffinata. Abdicare, in quanto esseri umani, al lento processo di evoluzione biologica, in favore dell’evoluzione tecnologica delle nostre creature. Già nel 1855, Samuel Butler scriveva: «Cosa succederà se la tecnologia continuerà a evolversi più rapidamente del regno animale? Ci sostituirà nella supremazia del pianeta? Così come il regno vegetale si è lentamente sviluppato dal minerale, e a sua volta il regno animale è succeduto a quello vegetale, allo stesso modo in questi ultimi tempi un regno completamente nuovo è sorto, del quale abbiamo visto finora solo ciò che un giorno sarà considerato il prototipo antidiluviano di una nuova razza. Stiamo affidando alle macchine, giorno dopo giorno, sempre più potere, e fornendo loro, attraverso i più disparati e ingegnosi meccanismi, quelle capacità di auto-regolazione e autonomia che costituirà per loro ciò che l’intelletto è stato per il genere umano». Butler fu il primo a teorizzare quella che oggi è nota come la Singolarità Tecnologica. L’istante in cui doneremo autocoscienza e volontà alle macchine, le creeremo a nostra immagine e somiglianza. Il punto di non ritorno, oltre il quale l’evoluzione tecnologica surclasserà la capacità di comprensione e previsione degli uomini stessi. Irving John Good, matematico e statistico che fu anche consulente di Stanley Kubrick per 2001 Odissea nello spazio, scrisse nel 1965: «Definiamo “ultraintelligente” una macchina che può sorpassare tutte le attività intellettuali di qualsiasi uomo, per quanto abile. Dato che progettare queste macchine sarebbe una di queste attività intellettuali, una macchina ultraintelligente potrebbe progettare macchine sempre migliori. Quindi ci sarebbe un’esplosione di intelligenza, e l’uomo sarebbe lasciato molto indietro. Quindi, la prima macchina ultraintelligente sarà l’ultima invenzione che l’uomo avrà la necessità di fare». È ovvio che la Singolarità non potrebbe mai essere raggiunta, se l’uomo vedesse le macchine solo 92
Sul Romanzo
Think different! n° 5 • Ottobre 2013
come strumenti funzionali ai suoi bisogni. Ma l’approccio di seduzione ergonomica, introdotto da Steve Jobs su scala planetaria, ci fa capire che l’uomo inconsciamente desidera dalle macchine qualcosa di molto più complesso e oscuro. Roba da fantascienza. Ma per gli scettici c’è un altro pericolo da considerare, molto più concreto e immediato. Già oggi, ergonomia significa accettare (o tenersi nascoste, più o meno consapevolmente) alcune realtà eticamente molto pericolose. Rientrano in questo ambito tutte le novità tecnologiche che si insinuano in modo pervasivo nella nostra vita: GPS, riconoscimento facciale, autoschedatura sulle reti sociali, ecc. Ne fa parte anche il modello chiuso di Apple: in nome di una user experience perfetta, Apple ha creato una sorta di stato di polizia soft, impermeabile a influenze esterne, dove tutto funziona come deve e nessuno può uscire dai binari prestabiliti. Un modello opposto a quello del software libero (meno perfettibile perché meno controllato), che il mercato ha già decretato come vincente. D’altronde, l’umanità ha spesso rinunciato a una scomoda libertà in favore di una comoda servitù, di una prigione cool, per dirla come Stallman, fondatore della Free Software Foundation, che vedeva in Steve Jobs l’anticristo e che ha praticamente salutato la sua morte come quella di un dittatore sanguinario. A distanza di due anni, per par condicio, bisogna dire che anche Google, inizialmente più vicina alle posizioni di Stallman, ha virato verso la filosofia Apple. Senza adottare un sistema chiuso, ma barattando la privacy degli utenti con un sistema di “previsione dei bisogni” che sta diventando sempre più inquietante. Non ci sarebbe nulla di male, di per sé, nell’approccio ergonomico. È come per l’omologazione, che non è intrinsecamente sbagliata, anzi, è una tendenza naturale dell’uomo. Il male semmai sta nell’autoinganno, indotto dal marketing, di omologarsi credendo così di affermare la propria unicità. La Apple ha costruito sul think different buona parte del suo impero. Risultato? Ora ci sono nel mondo miliardi di persone che usano lo stesso iPhone, sentendosi per questo speciali: magia del marketing. Il cambiamento in atto forse è irreversibile e inevitabile. A me, ogni tanto, il dubbio torna, quando mi capita di scaricare una app – che mi soddisferà, stupirà, anticiperà persino le mie esigenze: in cambio sto dando solo 99 cents, o forse anche un pezzetto della mia “vecchia” umanità? Sul Romanzo
n° 5 • Ottobre 2013
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Improvvisamente la donna disse: «Mi lasci stare», si scostò dall’uomo inarcando la schiena.
Goffredo Parise, Sillabari, 1984. Trittico dell'Annunciazione, Lorenzo Monaco, 1410-1415. Galleria dell'Academia, Firenze (IT).
Webzine – Anno 3, n° 5 – Ottobre 2013
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