In copertina: Coupes, di Franny Thiery.
Webzine – Anno 3, n° 6 Dicembre 2013
Racconto della crisi
Aldo Cazzullo
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Editoriale di Morgan Palmas
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La crisi e le sue possibilità. Rappresentare per costruire il futuro di Emiliano Zappalà
L e t t e r at u r a
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Uno sguardo innamorato sul mondo. Giacomo Leopardi e la crisi del periodo 1819-1821 di Daniele Duso
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La lotta di Arno Schmidt col Leviatano di Michela Matani
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Crisi di valori e d'identità nei Ragazzi dello zoo di Berlino di Elena Spadiliero
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S p e c i a l e D o n D e L i ll o
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La grande recessione in America in due racconti di Don DeLillo. L’angelo Esmeralda e Falce e martello di Monica Raffaele Addamo L’uomo che cade: esibizionista cinico o coraggioso nuovo cronista dell’Età del terrore? di Beatrice Mantovani L’arte del piano B. Strategie (im)possibili per aggirare la crisi di Alberto Carollo
pag. 42
Cinema
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Garrone, Sorrentino, Mereu: visioni della crisi di Alessandro Puglisi
A rt e
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La crisi raccontata dall’arte di Lavinia Palmas
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L’autunno dei beni culturali di Vincenzo Neve
pag. 48
F oto g r a f i a
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Immagini di una crisi di Annamaria Trevale
E d i to r i a
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Sei pezzi facili sulla crisi dell’editoria (in Puglia) di Carlotta Susca
Società
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Il futuro torni a essere un’opportunità. Intervista ad Aldo Cazzullo di Daniele Duso
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La crisi culturale italiana: dati, analisi e riflessioni di Sara Durantini
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Crisi, città e reazione culturale in Italia di Leonardo Palmisano
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Racconto della crisi e crisi del racconto. Fra Portogallo e Italia di Marcello Sacco
pag. 77 pag. 60
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Webzine – Anno 3, n° 6
Direttore Morgan Palmas Caporedattore Gerardo Perrotta Redattori Daniele Duso Leonardo Palmisano Alessandro Puglisi
Dicembre 2013
Hanno collaborato a questo numero Monica Raffaele Addamo, Alberto Carollo, Sara Durantini, Daniele Duso, Beatrice Mantovani, Michela Matani, Vincenzo Neve, Lavinia Palmas, Leonardo Palmisano, Alessandro Puglisi, Elena Spadiliero, Carlotta Susca, Annamaria Trevale, Emiliano Zappalà.
Si ringraziano Aldo Cazzullo, per l’intervista concessa. Carlo Scortegagna, Web master. Kevint3141 e Cesare Marcassoli, per le foto in licenza Creative Commons.
Art Director Daniele Vignato Illustratrice Franny Thiery
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Leonid Osipovich Pasternak (1862-1945).
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Hour of creation,
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L’editoriale di Morgan Palmas
La parola crisi rimanda a una pluralità di situazioni e fenomeni che, nel tempo, hanno sedimentato sul termine significati diversi, oserei dire sensi differenti, volendo intendere con tale espressione la necessaria combinazione degli organi sensibili al fine di avere una percezione completa della crisi stessa. Per restare nell’ambito dei luoghi comuni, che, pur essendo banali per definizione, riescono ancora a offrire un barlume di verità, la crisi è sotto gli occhi di tutti, nei roghi dei rifiuti attraverso i quali bruciamo la parte peggiore di noi, convinti ingenuamente di liberarcene per sempre, ma è anche negli occhi arrabbiati di un ventenne costretto a lavorare in nero perché o così o niente e a sentire chi parla del lavoro sommerso come una delle peggiori piaghe italiane, quando, invece, senza di questo molti non avrebbero nemmeno un lavoro. S’impone, poi, ai nostri occhi dalle lenzuola bianche sulle spiagge di Lampedusa che rendono evidente, ormai, l’impotenza di un’Europa che è ancora un collage di Stati e interessi particolari per potersi porre come una potenza credibile nel suo insieme. La crisi rimbalza alle nostre orecchie nelle parole già sentite di una classe politica che continua a parlare un linguaggio vecchio per rispondere a problemi nuovi, segnale, questo, di un’incapacità professionale, oltre che di un’inattitudine al ricambio generazionale e intellettuale che rende i rampolli già vecchi anche a quarant’anni. Del resto, se si affida la formazione della nuova classe dirigente a quella che dovrebbe essere sostituita, il rischio dell’impoverimento genetico è dietro l’angolo. La crisi è nella puzza che emana dai bagni dei treni regionali, che sono solo il segno esteriore di una tendenza ad accumulare lo sporco fino a quando non ci esplode contro, come una qualunque bolla finanziaria, creata ad arte per un’errata idea di massimizzazione del profitto ai danni di
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un pubblico che poi interviene a salvare il privato spinto da un’idea parziale di salvaguardia della collettività. La crisi, a dirla tutta, è dentro di noi, dal momento che la falsa idea di una flessibilità che è solo una precarietà a vita sotto mentite spoglie ha comportato la perdita dell’equilibrio esistenziale nel senso più ampio del termine, perché coinvolge non solo l’aspetto economico, ma anche quello affettivo ed emozionale. Siamo arrabbiati, incattiviti verso chi dovrebbe adoperarsi per la soluzione ma temporeggia per incompetenza o malafede (anche se le due cose, a questo punto, non sono più separabili), indignati perché un’azienda inquina ma conserva il potere di ricattare un intero Paese perché tanto poi chiude e si rimane senza lavoro, dunque meglio un tumore a cinque, dieci, vent’anni che la fame subito. Come uscirne? Lungi dal voler dare risposte, che suonerebbero artefatte per ottenere un consenso massimalista che non ci interessa e non farebbe del bene a nessuno, abbiamo provato a indagare diverse strategie di reazione o di racconto della crisi, nella convinzione che la rappresentazione onesta e senza secondi fini sia già un primo passo verso la ripresa, quanto meno dell’etica, valore anch’esso in crisi e sul quale si gioca la partita di chi inventa una strada a suo uso e consumo. Di qui, l’interesse per Leopardi, che seppe trovare una via d’uscita dalla sua crisi personale grazie alla bellezza, che, di per sé, non è solo un fatto estetico, ma coinvolge anche morale ed etica. È per questo che crediamo con fermezza che l’unica strada percorribile sia la bellezza, quella armonica che dona respiro e fa accelerare il passo. Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it
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La crisi e le sue possibilità
Rappresentare per costruire il futuro
di Emiliano Zappalà
Spesso, la procedura migliore per affrontare un tema dal titolo complesso è quello di partire dall’etimologia delle parole che lo compongono. In questo caso, Rappresentare la Crisi. Stando alle ricostruzioni di Ottorino Pianigiani, il primo dei due lemmi proviene dal latino ed è un termine composto da re più praesens, ovvero «rendere presente agli occhi della mente cose o fatti». Il secondo vocabolo possiede, invece, maggiori sfaccettature: crisi è, infatti, un vocabolo di origine greca (krisis) e può significare «momento che separa una maniera d’essere o una serie di fenomeni da un’altra», oppure «subitaneo cangiamento in bene o in male», oppure ancora «stato anormale e pericoloso di un Paese agitato da guerre civili» e, infine, «sospensione della regolarità del movimento di scambio che costituisce il commercio». Si passa dunque, come non di rado accade, da alcune definizioni di carattere neutro, che denotano nella crisi il semplice momento di passaggio tra un prima e un dopo, a definizioni più marcate in senso negativo che individuano, invece, nella crisi, un’alterazione pericolosa o irregolare. “Rappresentare la crisi” significa dunque, letteralmente, porre di fonte (agli occhi della mente) questo stato di mutamento repentino. È chiaro che la maniera neutra o negativa con cui il termine crisi viene percepito risulterà determinante. In ogni caso, “crisi” rappresenta (il gioco di parole non è casuale) un momento di passaggio, una variazione improvvisa e da questo dipende l’aspetto destabilizzante. Essa rompe l’abitudine e la routine, spezza la progressione lineare e consueta degli eventi; ci costringe a un riallineamento, a un riassestamento, alla riformulazione del nostro pensiero. Rappresentare la crisi può significare, quindi, due cose: raccontare (mostrare) questo processo e le sue conseguenze in modo palese, oppure produrlo (ri-produrlo) in modo nascosto, forse addirittura inconscio. Da questa differenza prendiamo le mosse. Nelle due pagine – Il funambolo Nik Wallenda si esibisce al parco Canada's Wonderland, a Vaughan, Canada. Foto di kevint3141.
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Tornando, però, un attimo alla nostra distinzione tra accezione negativa e neutra del termine, da essa dipende il nostro approccio nei confronti dello stato di “crisi” e da essa dipende la nostra comprensione di esso. È un fatto culturale, oltre che storico. È chiaro pertanto che, in anni recenti, la parola “crisi” non può che rappresentare il più nefasto degli eventi. Essa ha monopolizzato in modo quasi aggressivo ogni nostro gesto, ha occupato la nostra mente, ha saturato l’immaginario collettivo. Nel primo decennio del XXI secolo, la parola non può che rappresentare lo stato di guerriglia urbana e civile, la lotta sociale, legata a motivazioni di origine economica. Ci hanno insegnato che il mercato è l’unica legge che governa le nostre vite e che, di conseguenza, una flessione improvvisa di quest’ultimo può deformarle quasi interamente. Non capiamo perché. E il motivo per cui non lo capiamo è che non esiste alcun perché, non c’è motivazione. La rappresentazione odierna della crisi ruota attorno allo stato di depauperamento monetario, ideologico, civile, lavorativo, totale. La crisi è l’incubo che tormenta le nostre notti. Ma è anche un momento difficile che richiede il nostro sacrificio per essere superato. Questo scenario è quello che in questa sede ci interessa meno. Troppo facilone, troppo superficiale, troppo brutale. E soprattutto, troppo inflazionato. In fondo, di crisi si parla energicamente ormai da oltre un secolo. O forse da molti secoli. Vale sempre la domanda “ma quand’è che l’umanità non è stata in crisi?”. La storia, il progresso stesso, anche senza voler scomodare l’impianto hegeliano dello spirito, non sono altro che un susseguirsi di stati di crisi, intesa prima di tutto in senso neutro e, quindi, come passaggio e cambiamento, come mutazione. Anche la vita umana non è altro che un susseguirsi di trasformazioni e crisi; fino all’ultimo transito, il più preoccupante perché ci proietta verso l’ignoto. La crisi non è, dunque, che un passaggio obbligato e inevitabile, uno stadio da smaltire, o più semplicemente da attraversare. Ciò che va fatto, in ogni momento di crisi, è coglierne la natura, osservare
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i frammenti, prenderne coscienza, farne esperienza, evitando di attribuirle un giudizio di valore. Anche il sistema feudale è passato attraverso una crisi, così come l’ancien regime, ma non possiamo certo considerarli fatti nefasti. Anche il comunismo ha vissuto una crisi, ma in Germania dell’Est, per esempio, sono davvero in pochi a rammaricarsene. L’elemento su cui sarebbe proficuo riflettere si nasconde dietro quell’aggettivo “subitaneo” che abbiamo trovato sul dizionario etimologico. Questo determina una differenza oggettiva e, quindi,
anche un problema per gli osservatori. La crisi della nostra società non ha certo preso le mosse dal crollo del mercato, causato dai titoli tossici e dai mutui sub-prime. Come abbiamo detto in precedenza, se ne parlava già da oltre un secolo. Crisi delle ideologie, crisi dei valori, crisi dell’identità nazionale, crisi internazionali, crisi dei rapporti diplomatici. E ora crisi dell’informazione, crisi ambientale, crisi culturale, crisi della letteratura. Non c’è un singolo settore della nostra vita che non sembri essere in decadenza. Da anni. Questo perché, mentre fino al XIX secolo i cambiamenti erano lenti e macchinosi e richiedevano anni e si spalmavano su parecchi decenni, dalla fine dell’Ottocento, e ancor più
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dall’inizio del Novecento, le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali hanno travolto l’umanità con una rapidità sconvolgente e, in alcuni casi, anche drammatica. Se la rivoluzione industriale ha impiegato cento anni per giungere a compimento e modificare la struttura delle società occidentali, la cosiddetta rivoluzione post-industriale ha richiesto meno della metà per diffondersi in quasi tutto il globo. Il nostro tempo è percepito così come un’epoca di crisi universale: troppo grandi gli sconvolgimenti, troppo violente le distruzioni, troppo profonde le mutazioni, troppo diffuse le informazioni. È il tempo del cittadino globale, il tempo della miseria unita al dominio della terra, il tempo in cui tutte le certezze, maturate per migliaia di anni, sembrano crollare e sfaldarsi al vento. La modernità portava con sé la fiducia estrema nel progresso nella scienza, la convinzione che i nuovi mezzi di produzione, insieme ai nuovi sistemi politici, ai mezzi di trasporto, agli sviluppi della tecnica, alle scoperte scientifiche e alla nascita dei mezzi d’informazione, stessero spingendo l’umanità verso il meglio. La modernità era considerata il periodo più importante della storia. Essere “recenti” (e quindi moderni) equivaleva ad essere migliori. Il genere umano era lanciato verso la perfezione. Ma già negli ultimi anni dell’Ottocento, prima dei totalitarismi e delle guerre mondiali, qualcuno avvertiva il peso di queste trasformazioni, qualcuno soffocava già di fronte alla deriva. I “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud illustravano gli scompensi che l’umanità trascinava con sé, i sintomi marci del progresso. La società viene, infine, descritta nel suo essere scissa dalla lotta animalesca per la sopraffazione, mentre l’uomo è dilaniato dalle sue “perversioni” repulse e la verità non esiste, è una semplice illusione, un ulteriore strumento di dominio. Numerosi artisti e pensatori rappresentarono questo stato di crisi universale, endemico e profondo. Ma lo fecero senza raccontare. Lo fecero producendo la crisi (o ri-producendola), sovvertendo lo spazio in cui essa agiva e da cui traeva linfa. Le avanguardie erano in prima li-
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nea per interiorizzare i processi di trasformazione, evitare l’assimilazione e creare un doppio codice di alterazione che distruggesse il meccanismo dell’abitudine. Rappresentare la crisi significava rompere con la razionalità comune, con la tradizione, con le conoscenze scontate, con la raffigurazione piatta; significava trovare nuovi rapporti di senso, spezzare i legami logici tra le cose, deformare la realtà. Questo fecero i surrealisti, gli astrattisti, i cubisti, gli espressionisti. Il modernismo ha riprodotto la crisi, ne ha fatti propri i meccanismi. Ha delineato, forse al meglio, la crisi del soggetto, lo sconvolgimento di fronte alla rivoluzione, alla trasformazione delle certezze. La crisi che viviamo al giorno d’oggi – e, ancora una volta, non mi riferisco alla flessione economica, che altro non è se non un evento fisiologico, frutto di comportamenti spregiudicati, cattive previsioni, politiche rischiose e pessime strategie di recupero – affonda le radici nel passato. Il Disagio della postmodernità e La solitudine del cittadino globale di Zygmunt Bauman mettono in luce il costante processo di spaesamento in atto nel nostro mondo. Una crisi di valori essenzialmente “occidentale” che per il principio benjaminiano, per cui la storia non è altro che il racconto dei vincitori, sembra aver – e di fatto ha – investito tutta l’umanità. Ma l’errore, a questo
punto, dovrebbe essere chiaro. Esso consiste nel dare al termine un’accezione totalmente negativa e rovinosa. Questo ci porta a considerare il nostro come il mondo della miseria senza fine, del relativismo apocalittico. Ci induce a individuare dei nemici e dei colpevoli, che spesso non sono altro che gli emarginati, proprio i vinti e gli sconfitti di Benjamin. Siamo tutti invitati a lanciarci, con spirito nefasto, al canto tragico per la crisi del welfare e poi per la crisi del liberismo, per la crisi della democrazia rappresentativa, la crisi della carta stampata, del sistema educativo, delle religioni. Movimenti di degrado senza apparente soluzione. Quelli che Carla Benedetti, in Disumane lettere, definisce “annunciatori di apocalisse” cercano di sprofondarci nel senso di vertigine senza soluzione. Coloro che, invece, si vantano di rifiutare ogni abbandono al destino “finale”, ma che invece cercano di evitarlo, hanno dato vita ad alcune teorie interessanti. Una delle più quotate, che ha trovato terreno fertile anche da noi, è quella del ritorno alla realtà come unico strumento per ritrovare la via, per recuperare i punti cardinali e assegnare una direzione al percorso. La stessa Benedetti fa riferimento al New Realism o al New Italian Epic. Quasi che il problema si nascondesse nella perdita di concretezza dell’uomo moderno. La crisi sta nell’essersi troppo allontanati dalla realtà e, quindi, recuperare quest’ultima è l’unica cura.
Nelle due pagine – Charlie Chaplin e Paulette Goddard nella scena finale di Tempi Moderni. 8
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A dire il vero, questa idea, che qui è stata senz’altro riassunta un po’ banalmente, non considera alcuni elementi fondamentali. La realtà, e quindi la riproduzione di essa o il ritorno ad essa e ai suoi criteri di inemendabilità e semplicità, non ha nessuna speranza di insegnarci qualcosa che non sappiamo già. La realtà è già contaminata essa stessa. Essa contiene la crisi al suo interno. Il percorso verso la perfezione intrapreso dalla modernità non si è interrotto per essere ripreso, come sostiene Habermas. Si è demolito da sé. Esso aveva come unico approdo il suo stesso suicidio. Rappresentare la crisi, oggi, richiede un salto e uno scarto creativo. Fondamentale è sapersi muovere sulla superficie, dare spazio alle contaminazioni, scivolare tra i frammenti della nostra epoca, ritornare alla torre di Babele, alla pluralità dei messaggi, evocare i vecchi valori per scomporli e decostruirli e poi trasformarli in valori nuovi, più vitali. È necessario comprendere che il progresso non è un mare calmo, di cui la crisi rappresenta un’increspatura. Il progresso è la tempesta, come sostiene Franco Rella nel suo Le parole e il silenzio. Passarvi in mezzo richiede coraggio e istinto. Rappresentare la crisi in funzione del suo superamento non significa recuperare i valori del passato, che sono
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esattamente quelli che ci hanno abbandonato, che si sono svelati deboli e inefficaci e ci hanno gettato nella miseria, ma produrne di nuovi. Questo è forse l’esito a cui tendeva Gianni Vattimo quando parlava di “pensiero debole”; il pensiero di chi si aggira nella storia con leggerezza (come il superuomo di Nietzsche), di chi sa muoversi al buio e all’occorrenza saltare. La realtà non va riprodotta nella speranza di ritrovare in essa la soluzione, va invece divisa e smembrata, deformata alla maniera dei modernisti, e ricomposta infine, proiettata verso il futuro. Rigenerata. Perché anche oggi, nel tempo della crisi universale, come sostiene Francis Fukuyama, il desiderio più vivo dell’uomo è rimasto quello di creare un mondo migliore di quello avuto in eredità. E portare la missione a compimento finché rimarrà l’ingegno e un minimo di rispetto per i nostri simili sarà pertanto sempre possibile. Alla fine qualcuno salterà fuori con una soluzione, qualcuno abbastanza folle da pensare le cose in maniera diversa, e ci scuserete per aver rubato la formula di Steve Jobs. E costui affascinerà il mondo. Fino alla prossima crisi. O alla prossima apocalisse.
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Racconti contro la precarietà Let
La dimensione lavorativa è mutata radicalmente negli ultimi dieci anni. Parole come precarietà, disoccupazione, inoccupazione, contratti a progetto, lavoro interinale, somministrazione, telelavoro, lavoro ripartito, apprendistato, contratto di solidarietà, formazione e lavoro, part-time, inserimento professionale, lavoro intermittente sono, ormai, entrate nel linguaggio comune quotidiano. Se è vero, per dirla con Hannah Arendt, che esiste un nesso imprescindibile tra l’attività lavorativa e la vita activa, al punto che la prima è la conditio sine qua non della seconda, risulta evidente che uno stravolgimento così radicale del mondo del lavoro non può che avere conseguenze ben peggiori della semplice precarizzazione. Togliere all’uomo e alla donna l’attività lavorativa (o renderla sempre meno certa) significa minare alla base le fondamenta che rendono possibile l’affermazione di una dimensione immaginifica e sociale della vita umana, laddove la prima dovrebbe consentire il superamento dei limiti dell’ambiente naturale attraverso l’operare e la seconda permette la concretizzazione dell’esistenza nell’azione, che ha sempre una valenza politica. La letteratura può e deve offrire spunti di riflessione in grado di raccontare tale cambiamento, riuscendo ad anticiparne le conseguenze nel medio e lungo termine.
È con questo spirito che la Webzine Sul Romanzo ha deciso di dare spazio a racconti che sappiano mettere in luce quanto è accaduto, sta accadendo e, soprattutto, potrebbe ancora accadere nella vita umana, a seguito della precarizzazione del mondo del lavoro.
Non saranno ammessi alla valutazione interviste, articoli, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Valutazione dei racconti La valutazione sarà condotta dalla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori dei racconti ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail. Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti i racconti ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati nel primo numero successivo utile o nel sito internet del blog www.sulromanzo.it.
Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità di quanto proposto, saranno considerati inammissibili i racconti: –– presentati dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– che presentano un possibile conflitto di interessi; –– che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– già editi. Note finali L’invio del racconto non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro racconti e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro racconto e cedono a Sul Romanzo il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons — Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione del racconto pubblicato, dopo la sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo, come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione dei racconti saranno utilizzati solo per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi.
I racconti potranno essere incentrati su un tema scelto dall’autore, purché in linea con l’orientamento generale della Rubrica. 10
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Per partecipare, è sufficiente inviare un Racconto che dovrà essere: –– inedito e in lingua italiana; –– redatto in formato Word (.doc) e con font Times New Roman 12; –– di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– corredato delle seguenti informazioni, riportate in alto a destra nel file: nome e cognome dell’autore, data e luogo di nascita, codice fiscale e indirizzo email; riferimento esplicito a “Rubrica Racconti contro la precarietà – Webzine Sul Romanzo”; –– inviato a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@sulromanzo.it indicando nell’oggetto Racconti contro la precarietà.
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La Redazione di Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it
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Uno sguardo innamorato sul mondo
Giacomo Leopardi e la crisi del periodo 1819-1821
di Daniele Duso «Statura piccola, capelli neri, sopracciglie nere, occhi cerulei, naso ordinario, bocca regolare, mento simile, carnagione pallida, professione Possidente». Con questa descrizione di sé, scritta il 31 luglio 1819, un Giacomo Leopardi poco più che maggiorenne si prepara a fuggire da Recanati. L’intento è quello di scappare da quel “natio borgo selvaggio” dove nessuno lo stima e dove, a maggior ragione, deve sottostare alle imposizioni di un padre padrone e di una madre bigotta ed eccessivamente protettiva. L’intenzione cerca l’occasione, e questa non tarda a venire. In una rapida corrispondenza con un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d’Ajano, Leopardi riesce a convincerlo di aver l’appoggio della famiglia per andarsene da casa, così che il conte gli procura il passaporto, allora necessario per andare dallo Stato Pontificio al Lombardo Veneto o a Milano, dove Leopardi voleva recarsi. Il sogno, tuttavia, s'infrange contro lo scoglio di una coincidenza: Monaldo, suo padre, scopre per caso il progetto del figlio maggiore, blocca il passaporto che l’amico gli aveva ormai procurato, e manda all’aria ogni progetto di fuga tenendo abilmente il figlio all’oscuro di tutto. Il fallimento di quel piano (per il quale Leopardi, nel suo “doloroso disegno” aveva pure già pronti degli strumenti di scasso per saccheggiare la cassettina in cui i genitori tenevano i risparmi di famiglia, come confessa in una lettera al fratello Carlo) fa sprofondare il giovane poeta in una cupa disperazione. È forse proprio il timore di non poter mai più fuggire da quel paesotto dove i più lo conoscevano come il gobbo de Leopardi che in quel periodo lo porta pure a meditare il suicidio. Ma come tutti sanno Giacomo Leopardi non morì quell’anno, soprattutto non morì suicida. Riuscì piuttosto a trovare una chiave che lo portò a risolvere la sua complessa crisi e lo rese uno dei pensatori più originali dell’Ottocento europeo e della storia del pensiero italiano. Bibliografia Sopra – Giacomo Leopardi, A. Ferrazzi, 1820. Recanati, Casa Leopardi (IT). Nella pagina a fianco – Ritratti di Monaldo Leopardi e Adelaide Antici Leopardi, e la casa della famiglia Leopardi a Recanati.
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Binni W., La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1988. Biral B., La posizione storica di Giacomo Leopardi, Torino, Einaudi, 1974.
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La ricerca di un radicale cambiamento della sua vita si era fatta strada, in quei mesi, accompagnata da tanti timori, dubbi e angosce. Soprattutto, Leopardi non si fidava della sua costituzione fisica, molto gracile; già in passato gli aveva dato problemi. Anzi, proprio nel marzo di quel 1819 fu colpito da una misteriosa infezione agli occhi che gli impedì a lungo di leggere e di studiare. «Domandi notizia dei miei studi – scrive all’amico Giordani il 4 giugno 1819 –, ma sono due mesi ch’io non istudio, né leggo più niente, per malattia d’occhi, e la mia vita si consuma sedendo colle braccia in croce, o passeggiando per le stanze». Qualche settimana dopo la condizione addirittura peggiora, e nella lettera del 26 luglio allo stesso Giordani racconta che «io vo’ scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a una a una». Appare chiaro come quest’evento abbia contribuito ad aumentare le insicurezze e le angosce di un giovane fino ad allora vissuto sempre tra le mura domestiche. Già il raggiungimento della maggiore età, poi, aveva fatto sorgere in lui cattivi pensieri attorno alla chiusura di uno degli stadi più sereni della sua vita. La prima giovinezza, con la sua spensieratezza, la sua ingenuità e un’inconsapevole felicità, non sarebbe più ritornata se non nei ricordi; e rimane, questo, quasi una cicatrice dell’anima, un segno che ne determinerà pure il marchio poetico. Tale era, invece, la disperazio-
ne di quel periodo da renderlo disposto a tutto: «voglio piuttosto essere infelice che piccolo – scrive nella lettera rivolta al padre poco prima della fallita fuga –, e soffrire piuttosto che annoiarmi».
Bosco U., Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Roma, Bonacci, 1980.
Damiani R., All’apparir del vero, Milano, Mondadori, 2002.
Citati P., La luce della notte, Milano, Mondadori, 1996.
Frattini A., Studi leopardiani, Pisa, Nistri-Lischi, 1956.
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Molto probabilmente è di questo periodo la lirica Lo spavento notturno, nella quale le speranze di una partenza-rinascita andate in frantumi vengono espresse dal poeta con l’immagine della luna che precipita dal cielo: «... infin che venne / A dar di colpo in mezzo al prato […] Anzi a quel modo / La luna, come ho detto, in mezzo al prato / Si spegneva, annerando, a poco a poco; / E ne fumavan l’erbe intorno intorno». Muore la luna, già protagonista di molte sue liriche, e muore tutto ciò che rappresenta: un concetto che basta per capire la cifra del momento. Tuttavia, proprio questa lirica già svela, almeno in parte, la chiave individuata da Leopardi per uscire dalla crisi: «Allor mirando in ciel, vidi rimaso / Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia», quasi a dire che, comunque, qualcosa rimane, che non vi è una scomparsa totale. Ed è probabilmente in questo barlume, in questa nicchia, che il poeta riesce ad aggrapparsi, in una pur piccola speranza, alimentata dal fatto che «questa luna in ciel [...] da nessuno / cader fu vista mai se non in sogno». Ciò che sparisce rimane, per Leopardi; non se ne va del tutto. Quasi
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che il poeta volesse tenere il segno, l’orma, il ricordo che salva la parte buona di ogni cosa. Altro concetto che diviene tra i principali dell’autore recanatese. È anche così, pensando, un po’ narcisisticamente, a salvare anche la parte buona di sé, che Leopardi supera la crisi. Passano pochi mesi, infatti, e in un’altra lettera all’amico Giordani, Leopardi dimostra già uno stato d’animo totalmente diverso, intento com’è ad assaporare «caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo». Recupera la vista, recupera il valore dei suoni del mondo che finiranno a comporre, di lì a poco, una delle sue liriche più famose, La sera del dì di festa. Soprattutto, Leopardi si convince sempre più che «il vero coraggio non consiste nelle manifestazioni esteriori o nel cercare volontariamente i pericoli ma nella piena consapevolezza del rischio e nel ri-
Gioanola E., Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book, 1995. Leopardi G., Operette morali, Milano, Rizzoli, 1994. Leopardi G., Pensieri, Milano, Rizzoli, 1988.
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manere – ciò nonostante – in perfetta calma interiore». La frustrazione del giovane Leopardi si sublima così in una “coraggiosa” accettazione della propria dolorosa esistenza e nella convinzione che occorre viverla appieno, sperimentando e godendo del mondo. E sarà un altro dei suoi dilemmi, questa consapevolezza: causa di tutti i mali, ma unica chiave per raggiungere la felicità vera. Leopardi emerge dalla sua crisi, con le vesti dell’uomo tragico, capace di assumersi le proprie responsabilità in qualsiasi frangente della vita. Spiega bene il Sapegno che «alle radici di questa conversione è un allargamento di orizzonti, che si spiega soltanto con l’approfondimento e la presa di coscienza di una dolorosa esperienza esistenziale e si determina attraverso il contatto e l’attrito con alcuni testi fondamentali della nuova cultura romantica europea». Mentre si riprende dalla malattia agli occhi, l’autore comincia a sentir germinare in sé anche un’altra crisi, parallela a quella fisica, ma tutta interiore. Ispirato da pensatori come Montesquieu, dal clima illuminista che si respira da qualche tempo in Europa, e stimolato da una sempre più marcata avversità nei confronti degli insegnamenti ricevuti in famiglia, comincia a guardare in modo sempre più critico la religione cristiana cattolica. Arriva a scrivere nel suo Zibaldone che «gli effetti ch’egli [il cristianesimo, n.d.r.] Leopardi G., Zibaldone, Milano, Mondadori, 1996. Marcon L., La crisi della ragione moderna in Giacomo Leopardi, Milano, Ed. di Sofia, 2009. Marzot G., Storia del riso leopardiano, MessinaFirenze, D’Anna, 1966.
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produsse, entusiasmo, fanatismo, sacrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione», e che la religione cristiana fu una «forza non solamente effimera, ma nociva» non stimolando, bensì contrastando il miglioramento della vita, la cura del proprio corpo, come invece facevano le religioni antiche. Combattuto interiormente forse da un’inconscia volontà di salvare un “credo” che pur in passato gli aveva dato sollievo, Leopardi tenta di trovare un compromesso, un motivo per il quale la religione cattolica potesse resistere sotto i colpi della ragione, sotto i colpi delle parole di Montesquieu. Se prima di leggere il grande pensatore francese viveva nell’accettazione indiscussa dell’immortalità dell’anima, della verità del cristianesimo e dell’esistenza di legami e corrispondenze tra l’ordine soprannaturale e l’ordine naturale, che esiste con il solo fine di raggiungere la perfezione voluta da Dio, dopo Montesquieu Leopardi scopre che il nostro mondo è solo uno degli infiniti mondi possibili, che Dio avrebbe potuto crearlo con infinite altre forme. Leopardi arriva a dichiarare che «io considero dunque Iddio, non come il migliore di tutti gli esseri possibili, giacché non si dà migliore né peggiore assoluto, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili». È così che, salvando Dio e, in parte, la religione cattolica, Leopardi esce anche da questa crisi profondamente cambiato. Dalla crisi che ha fatto crescere l’uomo tragico nasce anche il Leopardi filosofo. Ma c’è un terzo aspetto importante che gli si pone davanti nello stesso periodo. In quegli anni, vien meno, infatti, in lui, anche la fiducia nell’uomo, nella specie umana e nella società nel suo complesso. Egli, che ha a lungo creduto nel valore dell’umanità e dell’unione, della fratellanza, nel gennaio del 1820 scrive che «l’eroismo è sparito dal mondo, e invece v’è entrato l’universale egoismo». Certo, è un pessimismo che, anche questo, si dissolve col tempo, quando Leopardi, facendo esperienza del mondo lontano dal suo piccolo borgo natale, solo pochi anni dopo scopre che «amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara», ma in quel frangente tutto sembra grigio e negativo, meritevole di essere demolito, scomposto nei più minimi fattori per individuare quelli che possono restare a galla. Se ancora, alla fine del 1821, Leopardi tiene viva
Sapegno N., Leopardi. Lezioni e saggi, Torino, Aragno, 2007.
in sé l’idea di natura buona e benevolente, di lì a poco anche questa verrà meno. Come ricorda il Biral, «negli anni della sua solitudine recanatese [Leopardi] corrode e distrugge tre millenarie idee fondamentali nella storia dell’umanità: Dio provvidente, natura buona, società civile necessaria agli uomini. [...] Alla fine, proprio nel tramonto della vita, pur confermando nella Ginestra l’eterna ostilità della natura, duro limite invalicabile, tornerà a credere in una possibile società umana la quale, se redenta dai vecchi secolari errori, potrà creare quei valori necessari per una vita consapevole e virile». Così, non morendo mai del tutto la curiosità e l’attrazione per il mondo, Leopardi si scopre uomo nuovo. E come la ginestra, quella pianta dai “cespi solitari” da lui fatta poesia, che nasce dalle “ceneri infeconde” dello “Sterminator Vesevo” e “di selve odorate/Queste campagne dispogliate” adorna, così il Leopardi rinasce dalle ceneri della terribile crisi del periodo 1819-21, riconsiderando tutto il meglio di sé e sviluppando una filosofia così profonda e un’arte poetica così dolce da consolare il mondo. Quel mondo al quale egli sempre fu sensualmente legato e che, in fin dei conti, non ha mai smesso di amare.
In alto – Statua di Giacomo Leopardi, a Recanati.
Tilgher A., La filosofia di Leopardi, Roma, Religio, 1940.
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«La testa vibra come un bordo tumescente di campana – ohi –. Devo gonfiare e torcere la bocca. – Ohi! –.»
La lotta di Arno Schmidt col Leviatano
Sono le prime parole del Leviatano o Il migliore dei mondi, racconto d’esordio del tedesco Arno Schmidt (1914-1979). E forse con la testa che pulsava, mentre la bocca si contorceva disgustata in un ghigno di disprezzo e amarezza, coi lineamenti tirati dallo sforzo di una scrittura tesissima tra rigoroso controllo razionale ed espressionismo urlato, l’autore si immerse, fin quasi al naufragio, nel racconto della drammatica crisi del suo presente. Fu una crisi privata e una crisi storica, culturale e antropologica, esplosa con l’avvento del Terzo Reich e le sue conseguenze di lunga durata; una crisi individuale e universale inscritta nella prosa sofferta, dilaniata, aggressiva e contundente del Leviatano.
di Michela Matani
Sopra – Ritratto fotografico di Arno Schmidt. Nella pagina a fianco: In alto – Ritratto di Adolf Hitler. In basso – Leviatano, particolare dell'affresco del Giudizio Universale, Giacomo Rossignolo (1524-1604). Madonna dei Boschi, Boves (CN), Italia. 16
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editoria arte fotografia cinema società Letteratura Uscito in Germania nel 1949, finalmente oggi, nel 2013, la Mimesis ne pubblica, all’interno della collana “Il Quadrifoglio tedesco”, la prima edizione corredata da testo a fronte, con premessa e commenti puntuali del curatore e traduttore Dario Borso, docente di Storia della Filosofia all’Università di Milano. Per chi scrive, questo è un piccolo-grande evento per la cultura e l’editoria italiane. Lo scomodissimo Arno Schmidt, unanimemente riconosciuto tra i maggiori scrittori tedeschi della seconda metà del ‘900, ha faticato a essere ben accolto in un’Italia soggetta, a partire dal secondo dopoguerra, alla dittatura culturale di un’intellighenzia di sinistra egemonizzata dalle case Feltrinelli e Einaudi. Ma di queste vicende – non sorprendenti, anzi piuttosto scontate e nondimeno imbarazzanti – preferisco parlare più avanti. Ciò che conta è che, a oltre sessant’anni dalla sua pubblicazione in Germania e a venti dall’edizione curata per Linea d’ombra da Maria Teresa Mandalari (1991), il Leviatano torna a essere accessibile – e in un’edizione arricchita dal testo in lingua originale oltre che da utilissimi strumenti esegetici – non solo a una ristrettissima cerchia di lettori, ma a un pubblico più ampio, che può finalmente incontrare la prima opera tedesca in cui si parli dei campi di concentramento e, soprattutto, l’originalissima scrittura di Arno Schmidt, che colpì già i lettori contemporanei più consapevoli. Apriamo, quindi, il sottile volume che, in forma diaristica, racconta quanto accadde a un soldato dell’esercito del Terzo Reich tra le 14,16 del 14 febbraio 1945 e le 8,20 del 16 febbraio dello stesso anno. Il soldato sta scappando verso Ovest insieme a un bizzarro e variegato coacervo di altri tedeschi in fuga da una Germania ormai invasa dalle truppe russe e dagli alleati che bombardano a tappeto città come Berlino e Dresda. Quest’ultima, tra le più importanti capitali culturali europee, fu distrutta tra il 13 e il 14 febbraio 1945. Il coltissimo Schmidt non scelse certo a caso le coordinate temporali del suo Leviatano. La prima pagina del racconto reca luogo e data, non seguite tuttavia da un frammento del diario, bensì dalla breve lettera di un tipico soldato americano, dal nome tipico di Jonny (scritto non correttamente, come non sorprende, data la spregiudicata acredine di Schmidt, e se Jonny viene a rappresentare il militare americano medio, di cultura e coscienza civile anche meno che media, facile a diventare cieco e docile suddito di un Potere di cui non discute i mezzi e i fini). Il messaggio è del 20 maggio 1945, a catastrofe avvenuta. È piuttosto felice, Jonny, mentre scrive alla moglie Betty e a i figli. Ormai Berlino è in mano ai russi e agli alleati, e Jonny spera di tornare presto a casa. Il Leviatano si apre, dunque, con una dichiarazione di “crisi finale”: alla sconfitta della Germania seguiranno giorni duri per i tedeschi che dovettero militare tra le file dell’esercito nazista, come è il caso del narratore e di Schmidt. Poi inizia il diario, costituito da frammenti redatti da un soldato in fuga su un treno a incessante Sul Romanzo
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rischio di bombardamento. Sono con lui, tra gli altri, militari grezzi e ostinati seguaci del Führer, i cui occhi «luccicavano come vetri di manicomi in fiamme»; semplice gente di campagna; un pastore protestante; un impiegato delle poste curioso delle teorie filosofico-matematiche del redattore del diario (ricco di richiami che presuppongono una cultura vasta e profonda). Ma c’è anche una bambina che, morente, accompagna i fuggitivi per la maggior parte del tragitto. E c’è Anna Wolf. Il colto, razionalista, infuriato e pungente diarista di un viaggio che non condurrà ad alcuna salvezza incontra la donna che aveva desiderato, fanciulla, ai tempi della scuola. Anna è cambiata, ma ora è l’unica a porgli domande sulle sue teorie apparentemente astruse senza alcuna ansia di controbattere e confutare. È l’unica capace di ricondurlo, attraverso il ricordo dell’infatuazione giovanile, alla «beata servitù» dell’amore; forse, meglio, dell’attrazione profonda e della consonanza intima, capace di aprire spiragli di vita, passione e pensiero in grado di fluire nuovamente in un’anima esulcerata e lacerata, con la naturalezza e la forza che si prova quando si ritorna in contatto con se stessi. Trasfigurazione letteraria di una giovane di cui Arno Schmidt realmente si invaghì (moltissimi, nel Leviatano, i riferimenti a esperienze reali dell’autore, che nel racconto ha sicuramente elaborato la sua drammatica esperienza bellica), Anna appare come una «lucente quiete». L’Anna adulta è cambiata, ma l’Anna sognata dal protagonista «meditava e cercava di capire», col suo «silenzio accarezzante». «Il suo viso era chiaro dei miei occhi». Anna è la luce che persiste nel cantuccio d’anima rimasto puro e vivo nel soldato traumatizzato e sconvolto dalla catastrofe a cui ha condotto il dominio del Leviatano. Nella mitologia ebraica, il Leviatano è un mostro marino assimilabile a un immenso drago assetato di sangue, apparso il quinto giorno della creazione e personificazione di Satana. Ci si ricorda allora di Giobbe, e poi di Hobbes che identificava il suo Leviatano (1651) con lo Stato. Sulla loro scia, Schmidt sostiene che, in questo che è «il migliore dei mondi», il Male è il Potere e, nella realtà dominata dall’arendtiana «banalità del male» cui ha contribuito l’ipertrofica burocratizzazione dei regimi totalitari, l’umanità vi si assoggetta. «Obbedienza 18
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cieca pare che porti sempre uniforme nera», scrive il soldato/Schmidt. Allora, «per valutare l’essenza del suddetto demone, dobbiamo guardarci fuori e dentro di noi. Noi stessi appunto facciamo parte di lui: che Satana sarà mai Egli dunque? E trovare il mondo bello e ben congegnato può solo il signor von Leibniz», convinto assertore che quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili. Quest’ultima aggiunta è, ovviamente, espunta dal razionalista Schmidt. Che fare dunque per opporsi al Leviatano? Giobbe scriveva: «Mettigli le mani addosso, ti ricorderai del combattimento e non ci riproverai». Schmidt afferma la sua sfiducia nella «possibilità di contrapporre la volontà individuale all’enorme volontà generale del Leviatano, la qual cosa [...], considerando la differenza tra le grandezze, sembra per ora totalmente impossibile, almeno sul “piano umano” degli esseri dotati d’intelletto». Drasticamente pessimistica la conclusione: «Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse; chi dice il contrario, mente!». Ma esiste la scrittura, necessaria a urlare l’orrore e a non soccombervi, e insieme funzionale a una presa di coscienza. Ecco allora Schmidt sgranare lo sguardo sul suo tempo e sulla presenza del demone intorno e dentro l’uomo. Lo scrittore tedesco non solo è il primo a parlare, nel Leviatano, dei campi di concentramento. Sarà anche il primo a scrivere un romanzo duramente critico nei confronti delle due Germanie (Il cuore di pietra, pubblicato in versione censurata nel 1956, non censurata nel 1967). Schmidt si àncora alla lucidità dell’argomentazione filosoficomatematica, che non potrà distruggere il mostro ma forse impedire che se ne venga invasi. Ed eccolo accampare un’ideologica anarchica. Eccolo soprattutto urlare contro il Potere attraverso la sua prosa dura e tesa, sempre sotto sforzo, all’espressione di sé e alla resistenza. Tu, Potere, distruggi il mondo. Io, scrittore, insisto a raccontartelo, il mondo, pur quasi senza forze e fiato, pur ansimando e arrancando, afferrando i lacerti rimasti intelligibili di quell’universo che vuoi annientare dopo averlo assimilato a te. Leggere il Leviatano non è una passeggiata. Ma è un viaggio da farsi per chiunque voglia sentire un’anima tendersi e contorcersi nell’urlo. Plurilinguismo e pluristilismo sono tra i caratteri portanti di un discorso originalissimo, animato da un idioletto n° 6 • Dicembre 2013
ipercolto di assoluta efficacia emotiva prima che estetica. La sintassi è frammentata. Nella disgregazione e nel disorientamento dell’anima individuale di fronte al caos aberrante prodotto dal dominio del Leviatano, il soldato coglie i frammenti duri di una realtà irriconducibile alla razionalità, afferra percezioni che fissa prima che siano inghiottiti da un’annichilente follia. Si artiglia alla realtà sensibile, oltre che alla speculazione matematico-filosofica. La punteggiatura è sconvolta. L’uso del punto e virgola, la nominalizzazione, l’assenza di articoli, la duplicazione (ossessiva e razionale), le discontinuità e le ellissi, le incoerenze verbali, l’uso delle parentesi e dei trattini, per citare solo alcuni tratti tipici, sono il segno della difficoltà ad articolare coerentemente ciò che appare esploso all’uomo che, impotente, è colpito e ferito dalle schegge di un mondo impazzito. Arno Schmidt si muove tra una razionalità coraggiosamente ostinata e l’accettazione della deflagrazione del tutto, tra la volontà di essere presente raccontando la sua percezione soggettiva di un Potere demoniaco e l’accettazione della frammentazione oggettiva e traumatizzante operata dal Leviatano. Come si legge nella Premessa al Leviatano, il sergente artigliere Schmidt fu catturato dagli inglesi nell’aprile del 1945 e internato in un campo di prigionia. Liberato alla fine dell’anno, si ricongiungerà alla moglie Alice, con la quale lavorerà come interprete in una scuola di polizia ausiliaria. Proprio qui comincerà a pensare a un racconto di guerra, che scriverà sui fogli di un formulario inglese per telegrammi. Seguiranno anni difficili per lo scrittore, che viaggerà in tandem con la moglie e vivrà in tenda nei boschi. È descritto come poverissimo e goffo nei suoi abiti raffazzonati e con occhiali di tartaruga che ingigantivano i suoi occhi dallo sguardo acuto, tormentato e agguerrito.
Un’esistenza difficile in vita come in morte, quella di Schmidt. Di certo in Italia. È dunque ora di riprendere il discorso lasciato in sospeso. Lo ritengo un necessario memento, ma che rimanga in calce. Vergognosamente, il Leviatano non fu pubblicato perché indigesto all’ottimismo social-comunista imperante. L’edizione tedesca originale del testo era corredata da due racconti storici. Cesare Cases, ai tempi al soldo di Einaudi, decise di dare alle stampe i due racconti di ambientazione greco-romana insieme al Cosma (altro racconto storico) del 1955. Nel 1965, comparirà Alessandro o della verità. Il Leviatano, “non organico” e potenziale sobillatore di riflessioni “non organiche”, venne espulso dalla categoria dei pubblicabili. Gli sarà concesso spazio solo in una miserrima (e controllata/depurata) traduzione nel 1966 sulla rivista «Il Menabò». Oggi, la casa editrice Mimesis pone fine a una lacuna che è culturale quanto più non potrebbe. Null’altro da aggiungere, al riguardo. Il Leviatano termina con la frase: «Ecco sventolo via il quaderno: volate, brandelli!». Qualcuno, quei brandelli, li ha raccolti e ne ha riconosciuto il potente tesoro. Di là dal valore culturale e letterario, il Leviatano è la testimonianza di uno scrittore tragicamente dilaniato, ostinato, decisamente politically incorrect, teso nel disumano sforzo di raccontare una realtà che brucia e divora. Come brucia la prosa di Arno Schmidt, che inviterei a “sentire” prima che a comprendere. Nel 1952, l’autore del resto scrisse che da lui non si potevano «pretendere dame pesche e rose, ma solo ghiande e vegetali in polvere – acqua ne ha abbastanza comunque ogni lettore». Nella pagina a fianco – Distruzione di Leviatano, Gustave Doré, 1865.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…
Sei uno scrittore in cerca di pubblicazione?
Chiamiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi…
"Natale non è Natale senza regali", si lamentò Jo, sdraiata sulla coperta Avevo riletto i miei appunti, e non ne ero soddisfatto…
Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava sulle scaglie del mare appena increspato. Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva.
Agenzia letteraria
Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Norman Bates udì il rumore e ne rimase sconvolto. Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l'esercito di Francia. Mi sento sempre attratto dai posti Per saperne di più scrivi a dove sono vissuto, le case e i loro dintorni. - Attenzione! C'è un mutante, laggiù! servizieditoriali@sulromanzo.it
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Crisi di valori e d'identità nei Ragazzi dello zoo di Berlino di Elena Spadiliero È degli anni Settanta quella che venne definita la “generazione dell’eroina”, giovanissimi che, in breve tempo, passarono dalle prime esperienze con l’hascisc alla condizione di “bucomani”. Il fenomeno fu piuttosto complesso, e, se attecchì soprattutto nei ragazzi tra i tredici e sedici anni, il motivo è da ricercare in una crisi identitaria e di valori che, progressivamente, spinse molti di loro lungo la strada di non-ritorno. La storia di Christiane F., al secolo Christiane Vera Felscherinow, è nota: sono trascorsi quasi quarant’anni da quando, nel luglio 1977, fu arrestata e processata per prostituzione e detenzione di sostanze stupefacenti. La sua testimonianza, raccolta nel 1978 dai giornalisti Kai Hermann e Horst Rieck, costituì il materiale per uno dei documenti-verità più crudi sulla dipendenza dalla droga, Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, edito da Rizzoli, nel 1981, con la traduzione di Roberta Tatafiore (in tedesco Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, edito nel 1978, con quel “kinder” che forse, più della traduzione italiana, sottolineava la giovane età dei tossici: infatti, “kinder”, in tedesco, significa “bambini”, mentre per “ragazzi” sarebbe più corretto il termine “jungen”).
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editoria arte fotografia cinema società Letteratura Nella pagina a fianco – Natja Brunckhorst, in una scena del film Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, in cui interpreta il ruolo di Christiane F., e la copertina della prima edizione italiana di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Sotto – Ritratto fotografico di Christiane Vera Felscherinow, da giovane.
Sembra quasi un paradosso, ma il boom industriale tedesco del dopoguerra – e il conseguente accresciuto benessere economico – ebbe un peso determinante nel dilagare della droga tra gli adolescenti residenti nei centri urbani. In Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, l’attenzione è rivolta al quartiere dormitorio di Gropiusstadt, in cui vivevano allora circa 45mila persone: le vittime dell’eroina furono per lo più figli di operai, preoccupati di dare alla prole quanto era a loro mancato in passato e, per questo, disposti a duri ritmi di lavoro, che lasciavano ben poco spazio alla vita domestica. I ragazzi si ritrovarono ad affrontare in quasi totale solitudine il delicato passaggio all’età adulta: ciò comportò conflitti a scuola e con le famiglie, con la successiva ricerca di un gruppo esterno a cui appartenere. La struttura stessa di un quartiere come Gropiusstadt incentivava l’ingresso precoce in contesti poco raccomandabili: era, infatti, una sorta di «città satellite», costruita «sulla redditività del capitale», e perciò strutturata in modo da rispondere alle esigenze di uno stile improntato allo sviluppo industriale, più che alla qualità della vita. Gli affitti e i costi sempre più elevati spinsero alla necessità di un doppio reddito e a un’affannosa corsa verso l’ingannevole felicità che il denaro sembrava garantire. Se negli anni precedenti al libro la classe operaia cercava rifugio nell’alcool, negli anni Settanta la stessa funzione era svolta dalle sostanze stupefacenti, fossero esse “leggere” o “pesanti”: come sottolineato da Jurgen Quandt, segretario del Centro Evangelico Haus der Mitte, la struttura in cui iniziò la rapida ascesa di Christiane nella tossicodipendenza, ormai era considerato fuori dal comune non tanto il fatto che in molti facessero uso di droghe, ma che in tanti, pur avendo i medesimi problemi quotidiani, non ne facessero uso. Alla crisi sociale e famigliare si aggiunse un sentimento di smarrimento e inquietudine. A causa dell’età e della mancanza d’esperienza, i ragazzi non erano ancora in grado di comprendere le loro reali aspirazioni e, senza una guida fidata che ne forgiasse la personalità e il carattere, furono indotti a pensare che una pettinatura e un abbigliamento alla moda fossero fondamentali per attivare un processo di identificazione all'interno di un gruppo. Per il bucomane adolescente era molto difficile rinunciare a questi segni di riconoscimento, gli unici in grado di collocarlo in una comunità ben Sul Romanzo
definita: tale esempio nel libro viene fornito dal personaggio di Babsi, passata tristemente alla storia per essere stata la più giovane morta d’eroina in Germania. Nel libro è narrato che, durante il tragitto verso una struttura di recupero, per l’ennesimo tentativo di disintossicazione, Babsi fosse molto tranquilla, ma che, una volta giunta a destinazione, la prospettiva di doversi tagliare i capelli la spinse a rifiutare con decisione un aiuto. Inutili furono i tentativi di trattenerla, poiché la sua scarsa fiducia nella terapia avrebbe potuto essere deleteria anche per gli altri pazienti: quarantaquattro giorni dopo, Babsi fu ritrovata morta, per overdose di eroina. n° 6 • Dicembre 2013
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Nella pagina a fianco: Sopra – Christiane Vera Felscherinow, da giovane e in una foto recente. Sotto – Scena tratta dal film Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. A sinistra– Locandina di Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino.
metaforicamente paragonati ad animali in gabbia, intrappolati nella droga, ma anche nello stile di vita a essa connesso. Non è un caso se le statistiche dimostrarono che la percentuale di tossicodipendenti di sesso femminile crebbe proporzionalmente di più rispetto alla percentuale maschile, proprio perché per le ragazze fu possibile continuare a incrementare il vizio tramite la prostituzione.
Il racconto evidenzia che la nuova classe di drogati si differenziava in modo significativo dai fumatori di hascisc o dai consumatori di acidi degli anni Sessanta: se nella cultura hippie la droga era un mezzo per «allargare la coscienza», spingendo alla ricerca di nuovi orizzonti al di fuori di se stessi, in seguito la droga costituì un sistema per «escludere la coscienza», ovvero ricercare, in una fase critica e delicata della propria vita, un modo efficace – sebbene pericoloso – per eludere costantemente la realtà («Questo modello di comportamento è comune oggi anche nel consumo dell’alcool e delle droghe leggere. I giovani minacciati dalla tossicodipendenza non possono più essere suddivisi in consumatori d’alcool, “fumati” e “bucomani”. I confini sono incerti e gli scopi nel consumo della sostanza stupefacente sono identici»). A distanza di tanti anni da Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, sappiamo che l’epilogo narrato non è stato definitivo. Infatti, Christiane è ricaduta più volte nel tunnel della droga: nel 2007, sostenne in un’intervista di essere in cura con il metadone, nel tentativo di eliminare per sempre la sua dipendenza dall’eroina. Allora dichiarò di fare uso di droghe leggere e di psicofarmaci: le sue condizioni di salute non erano buone, a causa di una grave forma di epatite. Nel frattempo, aveva avuto un figlio e si era trasferita con lui e un nuovo compagno in Olanda: ciononostante, ad Amsterdam fu nuovamente preda dell’alcool e dell’eroina. Una volta tornata in Germania, il figlio le venne sottratto e affidato a una casa famiglia. Pare che il tempo, salvo brevi intervalli, si fosse fermato a quel 1977, quando fu arrestata e implicata nelle indagini che videro imputato Heinz W., accusato di frequentare giovani prostitute, tra cui la stessa Christiane e Babsi. La visione del mondo che la ragazza offrì nel suo racconto era strettamente legata al titolo del libro: i ragazzi vennero 22
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Christiane cominciò a consumare hascisc a dodici anni e a iniettarsi eroina a quattordici. Quando ne aveva sei, si trasferì con la famiglia dalla campagna a Berlino, prima nel quartiere di Kreuzberg (nella Berlino ovest, a ridosso del muro) e poi in periferia, a Gropiusstadt. Il clima famigliare non era dei migliori: i genitori erano per la maggior parte del tempo assenti e in continua lite in presenza delle figlie. Ben presto, Christiane tentò di trovare una sua dimensione fuori dalle mura di casa: diventò fondamentale possedere dei jeans attillati, degli stivali col tacco e pettinarsi i capelli con la riga in mezzo. Nella sua scuola conobbe Kessi, che la introdusse nella Haus der Mitte, una sorta di circolo per i giovani della chiesa evangelica. È lì che Christiane iniziò a fumare hascisc. Ben poco fecero i volontari della struttura («[...] venivano dall’università, dal movimento studentesco e lì fumare l’hascisc era stata una cosa assolutamente normale. Questi tizi dicevano solo che non dovevamo esagerare, che non dovevamo usare il fumo come mezzo d’evasione e cose del genere. Soprattutto ci dicevano che non dovevamo passare alle droghe pesanti») e, rapidamente, la ragazza passò dall’hascisc agli acidi. L’iniziale atteggiamento di timore di Christiane nei confronti della droga fu superato dalla volontà di entrare nel gruppo. L’hascisc diventò una cosa necessaria («Christiane, ora tu fai parte del gruppo»), ma, soprattutto, cominciò a insinuarsi nella protagonista l’ingannevole convinzione che la sua dipendenza fosse meno dannosa di quella degli altri («Diversamente dagli etilici, che nel club si portavano appresso i loro casini ed erano aggressivi, quelli del nostro gruppo potevano chiudere totalmente con il resto della loro vita. Nella serata libera si buttavano nelle loro cose eccitanti, fumavano, ascoltavano musica bella ed era la pace più totale»). Quello che Christiane ancora non sapeva era che, da lì a qualche mese, per lei sarebbe cominciata la caduta senza fondo nel baratro dell’eroina. Non immaginava nemmeno che sarebbe entrata a fare parte del gruppo del Sound e che quella nuova compagnia si sarebbe sfasciata con il dilagare dell’en° 6 • Dicembre 2013
roina nella discoteca, una droga allora ancora poco conosciuta, che aveva mietuto vittime, fino a quel momento, prevalentemente negli Stati Uniti. Una droga che, prima o poi, buona parte dei ragazzi del Sound finiranno per provare. Christiane lancia uno sguardo alla sua caduta nell’abisso e, nel frattempo, ci presenta pure quelle di Stella, Babsi, Detlef, Atze, Axel e tutti gli amici (se di questo si può parlare: non esistono vere amicizie per i tossicodipendenti) a cui il destino ha riservato sorti più o meno tragiche. Babsi, Atze e Axel morirono di overdose; Stella sopravvisse, ma morì nel 2005, dopo una vita segnata dall’alcool e dalla cocaina. Solo a Detlef le cose sembrano essere andate meglio, dopo la disintossicazione nel 1980: tuttavia, questo non gli impedì di affermare, durante un’intervista nel 1995, che «essere una volta drogato significa, in fondo, esserlo per sempre», confessando di avere spesso degli incubi relativi al suo passato con le droghe.
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Il libro e l’omonimo film di Uli Edel, del 1981, hanno di certo contribuito a una riflessione più attenta sulla “generazione dell’eroina”: non è sbagliato dire che, nei casi presentati, la crisi culturale provocata dalla nuova società dei consumi, che indirettamente esigeva un’omologazione fisica e comportamentale degli individui, sia stata la causa principale della caduta nella tossicodipendenza dei protagonisti. A ciò si aggiunse la mancanza di una base affettiva e famigliare solida, di modelli di comportamento capaci di trasmettere principi sani e di canali in cui i ragazzi potessero far confluire le loro energie, trasformandole in progetti costruttivi. Quello della droga è un processo a stadi, da un primo dove è ancora possibile, con un deciso sforzo di volontà, salvarsi, a un ultimo, dove l’uscita dal tunnel è sempre più improbabile e dove la crisi, da sociale, culturale e identitaria, diventa esistenziale, patologica e pressoché irrisolvibile.
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Invito _ a __________ presentare ________ articoli ______ Numero 1/2014 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 1/2014. Gli articoli potranno essere incentrati su un tema liberamente scelto dall'autore.
Per partecipare, è sufficiente attenersi alle seguenti indicazioni: Prima Fase Entro il 15/01/2014, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: –– essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come font Times New Roman 12; –– riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, luogo e data di nascita, codice fiscale e indirizzo e-mail; –– presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); –– essere inviata a mezzo e-mail al seguente indirizzo: webzine@sulromanzo.it, indicando in oggetto “Proposta Argomento – Webzine n. 1/2014”. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 30/01/2014, l’autore riceverà un’e-mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 01/03/2014. L’articolo dovrà essere: –– redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; –– in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– inedito; –– inviato all’indirizzo e-mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione dell'abstract. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail.
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Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti gli articoli ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati in un numero successivo o nel sito internet del Blog www. sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità dell’argomento proposto, si riterranno inammissibili: –– proposte presentate dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– proposte e/o articoli che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– proposte e/o articoli che presentano un possibile conflitto di interessi; –– articoli che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– articoli già editi, indipendentemente dal canale di pubblicazione. Note finali L’invio dell’articolo non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro articoli e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro articolo e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons – Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione dell’articolo pubblicato, successivamente alla sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati eventualmente rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione degli articoli saranno utilizzati esclusivamente per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione di Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it
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“E così arrivammo alla fine di un altro stupido e lurido anno.” (Don DeLillo, Americana, traduzione di Marco Pensante, ilSaggiatore)
Con gli scarti della gente si potrebbe costruire una nazione. (Don DeLillo, Cosmopolis, traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi)
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La grande recessione in America in due racconti di Don DeLillo
L’angelo Esmeralda e Falce e martello
di Monica Raffaele Addamo
Lo scrittore americano Don DeLillo è considerato una sorta di profeta della crisi. Quasi come Suor Alma Edgar, personaggio che ricorre nelle sue storie, sembra in grado di intuire cose terribili non ancora successe. Così i suoi romanzi anticipano crisi finanziarie planetarie (Cosmopolis, 20031), o la minaccia onnipresente del terrorismo (Mao II, 19912). Oppure chiariscono il passato recente, spiegando la Guerra Fredda e la sua scia di scorie, o «le esalazioni del libero mercato»3 che soffocano un mondo ipertecnologizzato, in balia dell’imperativo al consumo (Underworld, 19974). Raccontando la storia del suo Paese, DeLillo ne rintraccia l’underside, tutto quanto è a fondamento della grandezza degli Stati Uniti e, nello stesso tempo, la contraddice. DeLillo è autore soprattutto di romanzi, che ricompongono come in un mosaico la storia americana degli ultimi sessant’anni, dal dopoguerra al primo decennio del XXI secolo. Come si è detto, sono romanzi che insistono sui temi della violenza – dalla Guerra Fredda al terrorismo, alla violenza del capitalismo – e dell’influenza massiccia dei media e della tecnologia sulla vita degli Americani. Due short story, pubblicate di recente in Italia, raccontano l’America della grande recessione esplosa nel 2008 e l’America della crisi permanente, della povertà e del degrado nel Bronx. Si tratta rispettivamente di Falce e Martello (Hammer and Sickle, 2010) e L’angelo Esmeralda (The Angel Esmeralda, 1994). Entrambe appartengono alla prima raccolta di racconti di DeLillo, The Angel Esmeralda5 (2011), che riunisce storie scritte nell’arco di trent’anni; storie strane e belle in cui si scorgono spunti e motivi ripresi e sviluppati nei romanzi. Al centro della raccolta è L’angelo Esmeralda, scritto nel 1994 e confluito, tre anni dopo, nell’epilo26
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go di Underworld, poderoso romanzo che, in oltre ottocento pagine, percorre a ritroso quarant’anni di storia americana, in un ricco intreccio di fatti, personaggi, linguaggi diversi. La spazzatura, tema dominante in Underworld, invade anche il racconto, i cui personaggi vivono circondati dai rifiuti e sopravvivono grazie a essi. Ne L’angelo Esmeralda, il Bronx del 1994, ben prima dello scoppio della crisi del 2008, offre un panorama sconfortante. Centro del quartiere sembra essere la cosiddetta «Riserva, abbreviazione di riserva naturale»6, un’immensa discarica di immondizia e detriti che lambisce negozi sbarrati, fabbriche in disuso e i caseggiati poverissimi del South Bronx. È territorio di caccia di mute di cani, bambini affamati e giovani graffitari con l’ambizione di diventare imprenditori vendendo alla Cina o alla Corea del Nord metallo di recupero perché ne facciano navi o bombe. Anche un gruppo sparuto di monaci e suore si aggira per questo paesaggio lunare. La giovane, combattiva suor Gracie e la vecchia suor Edgar lavorano con i frati e la banda di writers capitanata da Ismael Muňoz per dare una mano ai poveri del quartiere. Le suore aiutano i graffitari a localizzare le macchine abbandonate e, in cambio, ricevono aiuto per comprare e distribuire cibo a famiglie di vecchi o di soli bambini, a sieropositivi, a gente che non si aspetta più nemmeno di essere aiutata. È una piccola comunità con la sua economia elementare e un modo speciale di piangere i bambini del quartiere uccisi dalle malattie o dai maltrattamenti. Sono ancora i writers, gli artisti del South Bronx, a occuparsi della loro gente: ricordano ogni bambino con il graffito di un angelo, dipinto sfidando la morte sul muro altissimo di un casermone occupato. «Sotto ogni angelo c’erano il nome n° 6 • Dicembre 2013
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e l’età del bambino scritti all’interno di nuvole da fumetto, a volte anche con la causa della morte, […] TBC, AIDS, pestaggi, sparatorie da macchine in corsa, malattie del sangue, morbillo, incuria e abbandono alla nascita: abbandonato in un cassonetto, dimenticato in auto, lasciato dentro un sacchetto della spazzatura alla vigilia di Natale»7. Quando Esmeralda, una bambina di dodici anni che vive da sola nella Riserva, viene violentata e buttata giù da un tetto, alla gente del quartiere, però, un graffito non basta più. Già da viva, Esmeralda era una sorta di spirito del luogo, una bambina che aveva qualcosa di magico, «una grazia che la guidava e la sosteneva». Poiché sapeva badare a se stessa e correva come una pazza, sfuggendo alle suore che volevano prendersi cura di lei, nel graffito che la celebra da morta è raffigurata con un bel paio di Nike Air Jordan, «le scarpe giuste per correre»8. Ma poi, dato che «i poveri hanno bisogno di visioni»9, accade un miracolo di sincretismo, tra fede e desolazione industriale. Per gli abitanti del quartiere, la bambina morta diventa una santa che appare in trasparenza su un enorme cartellone pubblicitario di succo d’arancia, illuminato dal treno della sera. Ogni sera, la gente si accalca a guardarla su uno spartitraffico. E suor Edgar, la vecchia suora tormentata dal dubbio che crede di potere agire solo lì, nel Bronx, che si sente a suo agio solo tra le catastrofi, a combattere «i topi e la peste»10 sa di potere credere a questo miracolo. Perché «i santi e gli angeli appaiono forse ai presidenti di banche?»11 Ne L’angelo Esmeralda, la crisi è raccontata in modo spietato, ma i rimedi che le si oppongono rendono il racconto meno crudo: l’arte, l’ironia, la solidarietà dei poveri con i poveri e una fede che avvicina, che fa sentire Suor Edgar tutt’uno con la folla. Sul Romanzo
Sopra – Ritratto fotografico di Don De Lillo. Sotto – L'angelo ferito, Hugo Simberg, 1903. Ateneum, Helsinki (SF).
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I presidenti di banche e altri maghi della finanza sono, invece, i protagonisti di Falce e martello, scritto nel 2010, a ridosso della crisi finanziaria del 2008. La crisi qui è raccontata dal punto di vista di chi ha contribuito a scatenarla. Un gruppo di «evasori, […] insider trader, spergiuri»12 è rinchiuso non in una vera e propria prigione, ma in un «campo», in regime di custodia attenuata. Sembra quasi un ospizio, un circolo ricreativo per anziani. Lì sono privati della possibilità di lavorare, di utilizzare le loro «appendici» ed «estensioni»: i laptop, i touch screen, le piattaforme mobili con «l’ansia tecnologica che è la normale conseguenza di questi aggeggi»13. Possono, però, uscire ogni tanto, e passano il tempo chiacchierando tra loro, guardando partite di calcetto e appassionandosi a un notiziario economico trasmesso alla televisione. Il notiziario, incentrato sulla crisi finanziaria in corso, è letto da due bambine di dieci e dodici anni, che sono le figlie del detenuto dal cui punto di vista la storia è raccontata, Jerold Bradway.
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Autrice dei testi è la moglie dello stesso Bradway, Sarah. Probabilmente la donna si serve del bizzarro notiziario letto dalle figlie per punire il marito degli errori finanziari che lo hanno portato in prigione. Le bambine leggono di crolli in borse e default di Paesi interi recitando con brio una sfilza di nomi allitteranti: Dubai, Abu Dhabi, indice Dax, HangSeng, Hong Kong. Sono i nomi delle città in crisi, degli indici finanziari, ma, recitati in uno scambio serrato di battute tra le due bambine, suonano come degli scioglilingua senza senso. A un certo punto, nelle cantilene delle bambine, i nomi di Lenin e Mao, Zhou e Che Guevara sostituiscono quelli delle borse e degli indici di borsa. Tutti quei nomi suonano come slogan intercambiabili, privi di significato, e sentendoli ripetere, i maghi della finanza in prigione cominciano ad agitare il pugno. Finiti fuori gioco, banchieri internazionali e «moschettieri dell’hedge fund»14 sono ridotti a guardare le notizie finanziarie in Tv, senza poter più
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intervenire per influenzarle. Sono due bambine a tenerli informati perché le cifre di denaro che si accumulano, che si perdono, non hanno più valore, sono comprensibili solo come gioco, parole in libertà. Un detenuto, Norman Bloch, si accorge di sentirsi più libero nel campo, libero dall’avidità, dall’obbligo di accumulare. La vita in custodia attenuata non è tanto più insensata di quella che si faceva prima, fuori di prigione ma prigionieri delle proprie ricchezze, dei quadri preziosi alle pareti, delle cifre del proprio patrimonio, di tutte le proprie appendici. Nell’opera di DeLillo, l’imbarbarimento causato da un capitalismo violento, i cui eccessi ricadono sui più poveri, è una preoccupazione costante. Le due storie raccontano la crisi dalla prospettiva di chi la causa e di chi la subisce. L’arte, l’inventiva, la lingua, la comunicazione tra la gente sono tutto quello che all’imbarbarimento si può opporre.
Note: 1 Traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi, 2003. 2 Traduzione di Delfina Vezzoli, Leonardo, 1992; Einaudi, 2003. 3 Don DeLillo, L’angelo Esmeralda, traduzione di Federica Aceto, Einaudi, 2013, pag. 79. 4 Traduzione di Delfina Vezzoli, Einaudi, 1999. 5 The Angel Esmeralda esce negli Stati Uniti edito da Scribner e in Gran Bretagna nel 2011. 6 Don DeLillo, L’angelo Esmeralda, op. cit., pag. 77.
7 Ivi, pag. 78. 8 Ivi, pag. 94. 9 Ivi, pag. 97. 10 Ibidem. 11 Ivi, pag. 97. 12 Ivi, pag. 153. 13 Ivi, pag. 161. 14 Ivi, pag. 168
Nella pagina a fianco – Hammer & Sickle Set, Andy Warhol, 1976.
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L’uomo che cade: esibizionista cinico o coraggioso nuovo cronista dell’Età del terrore? di Beatrice Mantovani «Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità. […] Correvano e cadevano, alcuni, confusi e sgraziati, fra i detriti che scendevano tutt’intorno, e qualcuno cercava rifugio sotto le automobili. Nell’aria c’era ancora il boato, il tuono ritorto del crollo. Il mondo era questo, adesso. Fumo e cenere rotolavano per le strade e svoltavano angoli, esplodevano dagli angoli, sismiche ondate di fumo cariche di fogli di carta per ufficio in formati standard dai bordi taglienti, che planavano, guizzavano in avanti, oggetti soprannaturali nel sudario del mattino». Questo l’incipit del libro L’uomo che cade, dell’autore italo-americano Don DeLillo – edito da Einaudi nel 2008, con la traduzione di Matteo Colombo –, che parla del crollo delle Torri Gemelle di martedì 11 settembre 2001, per opera di diciannove affiliati all’organizzazione terroristica di matrice fondamentalista islamica al-Qā’ida, in cui persero la vita migliaia di civili. Ben quattro aerei si scagliarono nel cuore finanziario e politico degli Stati Uniti d’America. A partire da quella data, l’11 settembre è divenuto sinonimo, antonomasia oserei dire, di terrorismo e di crisi e, di conseguenza, di vulnerabilità dell’America e dell’Occidente tutto. Di tramonto dell’Occidente aveva già parlato Oswald Spengler negli anni Venti del Novecento, intendendo il crepuscolo culturale che stava vivendo l’Europa in quel tempo. Durante il secondo conflitto mondiale, l’America aveva soccorso e liberato l’Europa, nonostante l’attacco di Pearl Harbor da parte dei Giapponesi nel 1941: questo era stato l’unico attacco diretto che avessero ricevuto gli Stati Uniti fino all’inizio del terzo millennio. Le Torri implodono e crollano su se stesse. Riescono a salvarsi solo in pochi, quelli che lavorano ai piani bassi. Tra questi vi è Keith Neudecker, protagonista del libro, che, valigetta in mano, esce dalla Torre nord in fiamme, cosparso di polvere, ferito a una mano e ricoperto di schegge di vetro. Sopra di lui fluttuava una camicia, che «agitava le braccia come nulla in questa vita». Quelli che lavorano ai piani alti, invece, non trovano via di fuga e si gettano nel vuoto, macchioline scure che piombano verso la distruzione. Keith si fa accompagnare a casa della ex moglie Lianne, dalla quale ha divorziato quasi due anni prima. Il tetto coniugale come porto sicuro e riparo da quella catastrofe di cui è stato, allo stesso tempo, protagonista e superstite. 30
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Letteratura don de lillo scrittore della crisi Una strada di New York, subito dopo il crollo delle Torri Gemelle. Foto di Cesare Marcassoli.
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Lianne porta il marito in ospedale: le ferite sono lievi, gli vengono asportate le schegge di vetro dal viso e gli viene medicata la mano. Gli dicono che potrebbe avere addosso delle schegge organiche, resti, cioè, di sostanze umane schizzate nell’aria a causa dell’impatto degli aerei sui grattacieli. L'espressione schegge organiche è terribile, gli ronza nelle orecchie: l’afasia è lo schermo evidente dello shock subito. La valigetta che Keith stringeva e che riporta a casa non è sua, appartiene a Florence, sopravvissuta anche lei all’attentato. Tra i due nasce una relazione, anche sessuale, retta sul trauma che entrambi hanno vissuto. Come naufraghi sull’isola dei comuni ricordi, Keith e Florence si vedono e parlano ripetutamente del crollo delle Torri, delle persone accalcate che premevano l’una sull’altra per uscire dall’edificio, dei cumuli di polvere attaccati ai vestiti, delle giacche che usavano come turbanti per ripararsi dai calcinacci che piovevano sulla testa. È soprattutto Florence a parlare, ad atomizzare i ricordi e le sensazioni che anche Keith ha vissuto, ma che restano inespresse, sebbene rivissute con pathos durante le chiacchierate con la donna. Keith, terminata la storia con Florence, cerca di ricucire il suo matrimonio in crisi, prendendosi cura del figlio Justin e trovando la maniera adatta per fargli capire la portata di quanto successo quel maledetto 11 settembre. Justin, infatti, assieme ai
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suoi amichetti, si chiude in camera e scruta il cielo con un binocolo per avvistare gli aeroplani. Osama Bin Laden viene “infantilizzato”, nonché americanizzato in Bill Lawton: questo il nome usato dal bambino per indicare il terrorista numero uno di al-Qā’ida. DeLillo non ha scritto soltanto un romanzo sull’11 settembre, ma anche e soprattutto sull’uomo post-moderno, sul crollo di un sistema di valori, schemi e convenzioni, le cui fondamenta hanno ceduto ben prima che le Torri venissero colpite. L’autore si fa bardo e scienziato della crisi che la potenza americana sta attraversando: i terroristi «infliggono un colpo al dominio di questo paese. Ecco l’obiettivo che raggiungono, dimostrare che una grande potenza è vulnerabile. Una potenza che interferisce, che occupa». Le Torri Gemelle, progettate e costruite tra gli anni Sessanta e Settanta, da fantasia di ricchezza sono divenute fantasia di distruzione. «L’America sta perdendo la sua centralità. Sta diventando il centro della sua stessa merda. È l’unico centro che occupa». La letteratura abbandona la fiction, lo sva-
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go e il trastullo, analizza il reale, lo viviseziona e, talvolta, lo predice con gli strumenti della chiaroveggenza che è gravida di futuro. L’uomo che cade che dà il titolo al libro è David Janiak, un artista performativo che, senza preavviso, appariva in vari punti della città – Central Park, Carnegie Hall, Queensboro Bridge –, appeso a questa o quella struttura, sempre a testa in giù, con indosso giacca e pantaloni, una cravatta e scarpe eleganti. «Intendeva riflettere la postura di un uomo in particolare che era stato fotografato mentre cadeva dalla Torre nord nel World Trade Center, a testa in giù, con le braccia tese lungo i fianchi, un ginocchio sollevato, un uomo immortalato in caduta libera sullo sfondo incombente dei pannelli verticali della Torre?». È sempre Lianne ad assistere alle perfomance dell’uomo che cade, in un misto di sgomento e vertigine, incredula e indignata. Come l’appeso nel gioco dei tarocchi, Janiak metteva in scena l’umana disperazione, l’ultimo respiro fugace di un corpo; questa terribile franchezza racchiudeva il terrore collettivo dell’impatto degli aeroplani sulle Torri. La crisi del matrimonio di Keith e Lianne si inscrive nella crisi più grande dell’11 settembre. A variare è solo l’atteggiamento del singolo dinanzi al baratro della caduta. Lianne continuerà a fare l’editor per una casa editrice e a tenere corsi di scrittura creativa per persone malate di Alzheimer, per aiutarle a trattenere i ricordi. Si recherà sempre più spesso in chiesa, trovando una parvenza di pace interiore. Il suo destino sarà di crescere da sola il figlio, mentre Keith passerà da un casinò all’altro, giocando accanitamente a poker e anestetizzando le sue emozioni, messe a così dura prova da quel terribile attentato. Il crollo delle Torri diventa il terminus post quem non è più possibile pensare all’America come a una nazione inviolabile, attaccata dalla jihad nel suo cuore pulsante. L’11 settembre diventa l’emblema del terrorismo internazionale, che mina la sicurezza di ogni singolo Paese e, pertanto, di ogni singolo individuo che lo abita. «Mai distruggeremo una nazione il cui destino non fosse già segnato», andava ripetendo Mohamed Atta, che comandava i diciannove dirottatori che hanno fatto schiantare gli aerei sulle Torri. Perennemente in simbiosi con la bretella della sua borsa, Lianne agiterà sempre la mano in cerca di un taxi da prendere, ostinata nel non volersi muovere in metropolitana, per la paura di esplosioni. L’11 settembre e la sua eredità: la costante paura di saltare in aria, di andare in centro, di evitare luoghi affollati, di prendere l’aereo. E soprattutto la constatazione che New York, la città cosmocentrica per eccellenza, non è più il centro del mondo. «– Che cosa ci riserva il futuro? Tu non te lo chiedi? Non dico il mese prossimo. Gli anni a venire. – Non ci riserva niente. Non c’è. Il futuro era questo». Sul Romanzo
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Eventi
dall'Italia
Segni del potere. Oggetti di lusso nell’Appennino lucano di età arcaica La mostra propone i risultati di importanti scoperte effettuate alla Torre di Satriano dalla Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università della Basilicata. Il rinvenimento di una dimora principesca databile al VI sec. a.C. ha permesso di puntare l’attenzione su tutta una serie di oggetti simbolo di potere, prestigio, status elevato, ora inseriti in un percorso museale che racconta il “lusso mediterraneo”.. Potenza – Fino al 31 dicembre 2013 Generazioni di Donne Mostra che si sviluppa attorno alla presenza femminile nelle carte d’archivio, seguendo un percorso storico di estrema difficoltà, soprattutto per il gran numero di atti esaminati, e tuttavia di centrale importanza, per le acquisizioni storiche, sociali, politiche in relazione alla figura della donna nel corso del tempo. Reggio di Calabria – Fino al 31 dicembre 2013 Umbria Jazz Winter Una delle manifestazioni jazzistiche più note nel nostro Paese, che propone anche quest’anno un cartellone di tutto rispetto, con l’utilizzo di numerose location, tra cui il Museo Emilio Greco, il Palazzo del Popolo e il Palazzo dei Sette. Fra gli ospiti in programma: Paolo Fresu con Uri Caine, Fabrizio Bosso, Stefano Mincone, Melissa Aldana, Allan Harris. Orvieto – Dal 28 dicembre 2013 al 1 gennaio 2014 Robert Capa in Italia 1943-1944 La mostra, curata da Beatrix Lengyel, propone una selezione di 78 immagini del celebre foto-reporter di origini ungheresi, per raccontare la Seconda Guerra Mondiale in Italia, dal luglio del ‘43 al febbraio del ‘44, attraverso volti di civili e militari, strade, macerie, in uno dei più grandi esempi di documentarismo di sempre. Roma – Fino al 6 gennaio 2014 Il mestiere delle armi e della diplomazia: Alessandro ed Elisabetta Farnese nelle collezioni del Real Palazzo di Caserta Mostra che intende celebrare le figure di Alessandro ed Elisabetta Farnese attraverso l’esposizione di una serie di dipinti di Ilario Giacinto Mercanti, detto Spolverini, in gran parte all’interno della collezione ereditata da Carlo di Borbone all’acquisizione del Ducato di Parma e Piacenza. Caserta – Fino al 6 gennaio 2014 Trieste Film Festival Evento cinematografico internazionale, che pone da sempre particolare attenzione alle produzioni dell’Europa centroorientale. Numerose le sezioni: oltre a quelle riservate a lungometraggi, cortometraggi, documentari in concorso, anche, fra le altre, Wall of Sound, dedicata ai film a tematica musi-
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cale, e When East Meets West, riservata alla creazione di un “ponte” tra le produzioni dell’Ovest Europa e quelle dell’Est. Trieste – Dal 17 al 22 gennaio 2014 Sottocchio Corto Festival Prima edizione di un concorso indirizzato ai giovani registi, con lo scopo di favorire, attraverso la richiesta di presentazione di un cortometraggio, la ricerca e sperimentazione cinematografiche, e promuovere le potenzialità artistiche insite nel linguaggio dei nuovi media. Napoli – Dal 20 al 23 gennaio 2014 X Convegno Nazionale AISV – “Aspetti prosodici e testuali del raccontare: dalla letteratura orale al parlato dei media” Il tema dell’appuntamento di quest’anno con l’Associazione Italiana di Scienze della Voce è rappresentato dagli aspetti prosodici e testuali del racconto: verranno indagate, attraverso numerosi interventi, tanto discipline come linguistica testuale e fonodidattica, quanto tematiche come il parlato mediatico, quello narrativo, e la lingua della letteratura popolare. Torino – Dal 22 al 24 gennaio 2014 Veni, Vidi, Verdi. La donna è mobile Nell’ambito del cartellone di eventi per il bicentenario della nascita di Verdi, la mostra, a ingresso libero, realizzata dall’architetto e scenografo Peter Bottazzi, propone una rilettura del pensiero artistico verdiano, attraverso diverse installazioni visivo-sonore site specific. Milano – Fino al 26 gennaio 2014 Prigionie (in)visibili, il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo Attraverso fotografie, installazioni e interviste, l’esposizione, a ingresso libero, si propone di identificare gli elementi fondamentali, tra i molti, della drammaturgia beckettiana, con particolare riguardo alla condizione di costrizione fisica e mentale. Roma – Fino al 26 gennaio 2014
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e dall'Europa Bloemenboek, het florilegium van Franciscus de Geest Esposizione dedicata allo splendido florilegio del pittore barocco Franciscus de Geest, Hortus amoenissimus, conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma e che, soprattutto nel corso degli ultimi anni, ha dato vita a una lunga serie di studi e considerazioni sulla sua appartenenza. Leeuwarden (NL) – Fino al 31 dicembre 2013 MACCHIAIOLI. Impressionist realism in Italy È la prima mostra, in Spagna, dedicata ai Macchiaioli. Raccoglie circa cento opere provenienti dalle più prestigiose collezioni italiane; per citarne solo alcune: Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Fondazione Musei Civici di Venezia, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Tra gli artisti in esposizione: Fattori, Borrani, Zandomeneghi, Signorini, Abbati. Madrid (E) – Fino al 5 gennaio 2014 La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1600 Già ospitata al Palazzo Strozzi di Firenze, tra il marzo e l’agosto del 2013, la mostra si propone di illustrare la genesi del Rinascimento fiorentino. Suddivisa in dieci sezioni, propone un percorso che va dal Due-Trecento, con artisti come Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo, Giotto, per arrivare a una descrizione dettagliata degli anni tra il 1400 e il 1460, per mezzo di temi significativi, tra cui “la pittura scolpita”, il mecenatismo, la prospettiva. Parigi (F) – Fino al 6 gennaio 2013 L’Ottocento tra poesia rurale e realtà urbana Mostra che ripercorre i cambiamenti avvenuti in un’epoca dalle molte facce e dalle tante contraddizioni. Il percorso viene battuto attraverso una novantina di opere di artisti lombardi e ticinesi, con l’intento di esemplificare le trasformazioni della pittura di paesaggio tra il 1830 e il 1915. Tra gli artisti in esposizione: Giovanni Migliara, Giuseppe Canella, Carlo Bossoli. Rancate Mendrisio (CH) – Fino al 12 gennaio 2014 Tromsø International Film Festival Torna, con una nuova edizione, il più importante festival cinematografico norvegese. Sono ospitate moltissime produzioni internazionali, e particolare attenzione è riservata al mondo scandinavo. Una buona parte delle proiezioni si svolge all’aperto, creando un’atmosfera ancora più suggestiva, grazie alle notti polari. Nel 2013, ha contato oltre 50.000 presenze. Tromsø (N) – Dal 13 al 19 gennaio 2014 I personaggi di Carrà 1921-1964 Mostra curata da Elena Pontiggia e Simone Soldini, in collaborazione con Chiara Gatti e Luca Carrà, e che rappresenta la prima grande retrospettiva sull’opera di Carrà, allestita in
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un museo svizzero. Il paesaggio, in particolare, fu per Carrà fonte continua di sperimentazione, e lo dimostrano opere come Pino sul mare (1921), L’attesa (1926), I nuotatori (1932), I contadini della Versilia (1938). Mendrisio (CH) – Fino al 19 gennaio 2014 Festival International de Programmes Audiovisuels Evento di portata internazionale dedicato, nello specifico, alla promozione di produzioni audiovisive destinate alla televisione. Tutti i generi sono interessati, dalla fiction alle serie tv, dai documentari agli spettacoli. Allo stesso tempo, si tratta di una piattaforma per i professionisti del settore, con ben sei giorni di incontri fra esperti, studenti e professionisti. Biarritz (F) – Dal 21 al 26 gennaio 2014 Solothurn Film Festival Fondato nel lontano 1966, questo festival è il più antico dedicato alla cinematografia elvetica. Pur con una vocazione ormai internazionale, il festival dedica ampio spazio alle produzioni nazionali, provenienti da ogni cantone. Arricchiscono la rassegna incontri, focus, dibattiti e retrospettive. Soletta (CH) – Dal 23 al 30 gennaio 2014 Etrusques. Un Hymne à la Vie Esposizione, curata da Anna Maria Moretti Sgubini e Francesca Boitani, dedicata al popolo etrusco, che, ancora prima di Roma, ebbe un ruolo tra le più grandi civiltà del Mediterraneo. La mostra intende evocare proprio gli aspetti più quotidiani di questo popolo, attraverso numerose opere, soprattutto oggetti e pezzi d’architettura, provenienti dalle più prestigiose istituzioni italiane ed europee. Parigi (F) – Fino al 9 febbraio 2014 Il Mondo di Leonardo Mostra-evento dedicata al genio rinascimentale, attraverso le sue visioni e i suoi progetti. Propone numerosi modelli fisici, dalla Balestra al Grande Nibbio, dal Leone Meccanico alla Barca a Pedali, esperienze interattive multimediali e codici interattivi, in un allestimento che mira a una fruizione di grande spettacolarità. Swansea (UK) – Dal 27 ottobre al 9 novembre 2013 Richmond upon Thames Literature Festival Festival letterario annuale, giunto alla sua ventunesima edizione, che ogni anno presenta un programma ricco di scrittori, ma anche di figure di spicco della politica, del teatro, della televisione. Tra i nomi in programma quest’anno: Roger McCough, Simon Hoggart, Andrew Marr, Michael Frayn. San Marino (RSM) – Fino al 16 marzo 2014
Eventi dall'Italia e dall'Europa è cura di Alessandro Puglisi.
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L’arte del piano B
Strategie (im)possibili per aggirare la crisi
di Alberto Carollo Volontà e determinazione. Non solo ed esclusivamente uno stimolo culturale, una riflessione ponderata, bensì uno scarto, uno smottamento sul piano delle certezze stivate per “tempi di vacche magre”; un guizzo improvviso che ti riporta in pista, pronto a giocarti un’altra manche, a lanciarti in una volata se intravedi che ci siano le possibilità di sfangarla. Queste le caratteristiche fondamentali per spiazzare tutti e dare la stura al tuo piano B. E in un sol colpo di spugna cambiare estetica, stile di vita e lessico. Ne sanno qualcosa Veronica Bernacchioni, 39 anni, e Andrea Barghi, 58. «È stato quasi
come nascere una seconda volta», dice Veronica riguardo al trasferirsi in Svezia, a Puottaurre, nel Norrbotten. Andrea è un fotografo naturalista, affermato sia in Italia che all’estero. Ha collaborato con riviste di cultura e natura come «Oasis», «Airone» e «I viaggi di Repubblica». «[…] abbiamo deciso di trasferirci qui, circondati dalle foreste, le montagne e gli animali», raccontano i due italiani che, qualche anno fa, vivevano in Toscana, vicino all’isola di Montecristo. In Svezia, hanno trovato la libertà di esprimere se stessi, in seno all’ultima area wilderness incontaminata, in una casa rossa con le finestre bianche, con l’aurora boreale nel cielo e cumuli
Sopra – Articolo dedicato a Veronica Bernacchioni e Andrea Barghi, pubblicato sul numero di NSD del 22/02/2012. A sinistra – Copertina di The wild forests of Norrbotten – the northernmost wilderness bound of Europe. 36
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editoria arte fotografia cinema società Letteratura di neve alta. Ecco, basterebbe un’istantanea come questa, un’immagine archetipica e fortemente suggestiva, per farci venir voglia di cambiare aria. Il loro piano B si concretizza in un progetto dalle tante sfaccettature, e l’ultima di queste è un librone di 288 pagine stampate su carta da 200 grammi (qualcosa che non si può leggere a letto!): The wild forests of Norrbotten – the northernmost wilderness bound of Europe, in un’edizione fuori commercio. L’obiettivo è quello di mostrare l’imponente foresta, per foto e didascalie, un omaggio semplice e diretto alla natura svedese, vista attraverso gli occhi di due europei che l’hanno scelta come loro casa. In Italia, invece, i tuoi colleghi di ufficio parlano della “crisi” che dilaga. Accendi la televisione e si parla di “crisi”, declinata in varie salse: economica, politica, sociale, culturale, dei valori. Sul web e nei giornali la parola che riecheggia è “crisi”. In Italia non c’è lavoro; la classe media è in caduta libera, gli istituti di ricerca non trovano sovvenzioni. Ci vogliono alternative. Ci vuole un piano B. Ma cosa vuol dire averne uno ed essere uomini e donne del piano B? Vuol dire concepire alternative esistenziali, come Andrea e Veronica, o come Pablito, un personaggio del pamphlet di Gianfranco Franchi, L’arte del piano B (Piano B Edizioni, 2012): «Ti sembrava davvero impossibile che da un giorno all’altro avrebbe avuto il fegato di cambiare vita in quel modo». E il tutto per un’infatuazione letteraria, un romanzo di Mikael Niemi, Populärmusik från Vittula (Musica rock da Vittula) che racconta cosa significhi crescere in un territorio svedese mezzo desertico, tra persone orgogliose di rimarcare i propri problemi d’identità. L’essere nessuno, l’essere più niente ma, nello stesso tempo, non sentire la mancanza di nulla. Nel romanzo Guru per caso (Zero91, 2013) di Alessandro Zaltron e Demetrio Battaglia, il protagonista Guido Ghiri, impiegato di quart’ordine in una ditta di elettrodomestici, diviene suo malgrado un uomo del piano B quando la società che gli sta attorno si rivela concorde ad attribuirgli “speciali poteri sensitivi”, in seguito ad un fortuito quanto “prodigioso” salvataggio. Guido inizia a convincer-
si del suo carisma e delle sue possibilità e si licenzia per intraprendere una rocambolesca carriera di guru-guaritore. Ma forse non bisogna poi spingersi tanto de lonh, come gli esempi paradigmatici e senza dubbio singolari che ho più sopra addotto. Chi scrive ha lasciato in tutta umiltà un impiego più che sicuro in Sanità, dopo un ventennio di dignitoso servizio, per rimettersi in gioco e re-inventarsi un ruolo professionale (costruendo ex-novo un servizio domiciliare rivolto a una popolazione di pazienti in dialisi peritoneale come trattamento sostitutivo per l’insufficienza renale cronica). «Ma chi te lo fare?», chiosavano i colleghi. Lasciare una certezza, per quanto problematica e complicata a più livelli (carichi di lavoro, turni impossibili, ferie e festività che saltano) per l’incerto, con esiti dubbi e non esenti da rischi. Con una famiglia da sostentare. Per un contratto a progetto, poi? E se dopo due anni non ti confermano? Se non raggiungi gli obiettivi? Interrogativi più che pertinenti e legittimi. Ma l’uomo del piano B è un uomo per il quale “chi non risica non rosica” e, pur con l’appoggio di una struttura di eccellenza per quanto attiene alla formazione, protocolli e procedure operative; pur con qualche carta da giocare per pararsi le spalle
A destra – Ritratto fotografico di Gianfranco Franchi, con il suo L'arte del piano B. Sul Romanzo
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e coprirsi nel caso qualcosa andasse storto, accetta la sfida e vive due anni incomparabili di benessere olistico senza precedenti. Ora il contratto a progetto è terminato, gli obiettivi sono raggiunti e consolidati e si attendono conferme da enti e privati, nella ferma convinzione che se riavvolgessimo il nastro opteremmo esattamente per le scelte di due anni fa. Temerarietà e pervicacia degli Uomini del piano B; uomini come Devis Bonanni, che ancora ventenne si licenzia dall’impiego come tecnico informatico e si trasferisce in una casetta prefabbricata riscaldata da una stufa a legna per dedicarsi a tempo pieno a quella che battezza “vita frugale”: grazie a un piccolo orto, senza aver mai visto prima una pianta di pomodoro, coltivando patate e cereali, Devis ritrova un contatto più immediato con la
Natura e realizza una prima, rudimentale forma di autosufficienza alimentare, accompagnata da uno stile di vita semplice ed ecosostenibile. La sua testimonianza è raccolta in Pecoranera (Marsilio, 2012). Devis è cresciuto a Raveo, un grappolo di case e qualche centinaio di abitanti nel cuore delle montagne carniche; ha letto gli anarchici e trovato ispirazione in Henry David Thoreau, autore di Walden, ovvero La vita nei boschi. È rimasto folgorato dall’esperienza dell’ecovillaggio-comune di Bagnaia che ha pensato di ricreare nella sua terra. Pecoranera, il suo appezzamento, è un punto di riferimento, luogo fisico e spazio mentale. La casa di legno e la spianata coltivata (l’orto, la serra, il frutteto) sono aperti a tutti coloro che vogliono andarci nelle settimane di ospitalità, per calarsi in quella dimensione di auto-sostentamento a basso impatto ecologico. Non sa bene, Devis, se troverà la forza di convertire il progetto in un’azienda agraria ora che l’esperienza dell’ecovillaggio può dirsi conclusa (non è portato per la burocrazia, dice): di certo, non potrà fare a meno di coltivare il suo orto, qualunque sia il suo
Sopra – I ritratti fotografici di Demetrio Battaglia e Alessandro Zaltron, autori di Guru per caso. A sinistra – Ritratto fotografico di Michael Zadoorian, con la copertina di Second Hand. 38
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A destra – Ritratto fotografico di Devis Bonanni, e la copertina di Pecoranera.
futuro. E non riuscirà a privarsi di internet, dove aggiorna periodicamente un blog. Quello di Devis, se vogliamo, è un invito a ritornare (ancorché meno radicale della sua proposta) a un’essenzialità nello stile di vita e di espressione. Come accade per Richard, il protagonista di Second Hand (Marcos y Marcos, 2008) di Michael Zadoorian, un giovane di Detroit che va a caccia di cianfrusaglie, di oggetti di seconda mano che nessuno vuole più. Zadoorian descrive in modo originale, ironico ma profondo, l’universo degli junker, di coloro che hanno un’ossessione per le carabattole e il ciarpame. La mattina Richard la passa in giro per le case di gente defunta o ricoverata all’ospizio, o in garage da sgomberare. Trascorre, invece, il pomeriggio nel suo negozio, a cogliere la saggezza e le suggestioni che gli oggetti appartenuti ad altre persone gli comunicano. L’idea del “riuso” nella società dell’ipertecnologico che diviene subito obsoleto, degli oggetti vincolati alla mutevolezza del trend, fa amare a Richard gli oggetti e le suppellettili che hanno una storia alle spalle, che emanano vibrazioni, che hanno qualcosa da raccontare attraverso i frammenti di vita di coloro che li hanno utilizzati. Quando la madre di Richard muore e lascia ai figli l’incombenza di sgomberare la casa, il giovane scoprirà aspetti inediti della vita dei genitori, come la passione di suo padre per la fotografia. Tutto ciò lo farà riflettere su come fossero i genitori prima della sua nascita, come vivessero, e in prospettiva gli permetterà di acquisire una conoscenza più ampia delle sue dinamiche affettive. La vita nel piano B può restituirci il benessere perduto; nel piano B possiamo scoprire una nuova spiritualità, una diversa gerarchia dei consumi, o seguire l’esempio di autentici eroi come Ivan, il pagatore di bollette, colui che tutti vorremmo incontrare sulla soglia di casa: rispettoso del bene comune e dotato di un profondo senso della giustizia, Ivan accorre in aiuto delle famiglie più bisognose offrendosi Sul Romanzo
di pagare le loro bollette, le loro multe e le loro tasse. Leggendo di questo personaggio (sempre in Franchi, vedi op. citata più sopra), il cui nome sembra una strana crasi tra “Iva” e “Iban”, mi sono soffermato a riflettere su come possa incarnare un’immagine in assoluta controtendenza rispetto al modello italico più deteriore: individualismo, particolarismo e nepotismo. Il lato superomistico della sua impresa è l’umiltà, la discrezione. «È il mio lavoro», si schermisce a chi lo vuole toccare per capire se è vero, e abbracciarlo. Ivan non è un uomo politico o un militante di partito, non è un corruttore o un angelo. È uno che ha deciso di dare il buon esempio; non ti promette milioni di posti di lavoro come certi governi; semplicemente ti indica la via; è umanissimo nella sua estetica e costituisce un limpido esempio di rigore, dedizione e professionalità. Per gli uomini del piano B Ivan è un totem. Forse questo mio piccolo e improvvisato catalogo di pianobisti ha un andamento randomizzato, ma il principio unificatore di tante strategie poste in essere dagli uomini del Piano B è senza dubbio l’avere impressa a fuoco nel loro DNA la massima di Appio Claudio Cieco: Faber est suae quisque fortunae. Per incarnarci in uomini (e donne, ovviamente) del piano B dobbiamo smetterla coi piagnistei e l’irresolutezza. Nel piano B cantiamo con Franco Battiato: «rimettiamoci la maglia / i tempi stanno per cambiare». Non lasciamoci avvilire dal reiterato mantra della “crisi”. Voliamo alti, gettiamo le zavorre fuori bordo, pensiamo in grande. Citando ancora Franchi: «Il più famoso piano B, il più spettacolare, diciamolo, è stato l’Arca di Noè. […] se devi farti un’idea di cosa sia un piano B, non dimenticare che la trovata dell’Arca, quando nessuno pensava al diluvio, è qualcosa che si avvicina davvero molto a essere l’esempio perfetto». n° 6 • Dicembre 2013
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Garrone, Sorrentino, Mereu: visioni della crisi
In questa pagina – Le locandine di Reality, Bellas mariposas e La grande bellezza. Nella pagina a fianco: In alto – Ritratto fotografico di Salvatore Mereu, regista di Bellas mariposas. Al centro – Sara Podda e Maya Mulas in una scena di Bellas mariposas, e il ritratto fotografico di Matteo Garrone, regista di Reality. In basso – Ritratto fotografico di Paolo Sorrentino, regista di La grande bellezza.
di Alessandro Puglisi
La buona cinematografia dovrebbe essere capace, anzi dovrebbe sentire il dovere, potremmo azzardare, di “rappresentare la realtà”. Si badi bene: non stiamo perseguendo né un'apologia del cinéma vérité né, tanto meno, stigmatizzando il cinema di genere. Il punto è, invece, che ogni grande film che tale si possa definire, sia esso ascrivibile al realismo o al surrealismo, che si presenti narrativo o contemplativo, di produzione occidentale oppure orientale, di genere o meno, riesce a fermare un momento del tempo esteriore, naturale, e farsi riconoscere come prodotto di quel tempo, di quel momento. È fuor di dubbio che si stia vivendo, nel nostro Paese, un momento storico (in realtà, una particella di quello che potrebbe essere un intervallo di tempo sensibile, a livello di “storia” narrata) di grande “crisi”: compressione economica, arrivo a coagulazione di contraddizioni decennali, contrapposizioni insanabili a livello politico e sociale, flessione del senso di responsabilità, decadenza morale ed etica, prima che culturale. E così, se è vero, come è vero, quanto si diceva poc'anzi a proposito delle buone pellicole cinematografiche, è anche pacifi-
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co, d'altro canto, e forse purtroppo, che il regno delle “immagini in movimento” non sfugge con facilità alla seduzione di raccontare il tempo presente, facendosi anzi irretire con voluttà. E con risultati che, francamente e a nostro profondo scorno, spesso, negli ultimi anni, si sono attestati in territori molto discutibili, che sono quelli della commedia qualunquista (ben lontana dalla dialettica stringente e dalle critiche, tanto ironiche quanto feroci, della commedia italiana “storica” o anche del buon Fantozzi, per intenderci), del drammone post-sessantottino, del pastiche pseudo-slapstick o, forse peggio ancora che negli altri casi, del “checcozalonismo” irriverente in apparenza, ma in fin dei conti profondamente riconducibile a innocua satira. Tenute presenti, dunque, la voluttà del cinema italiano più recente nella rappresentazione, spesso oleografica, o agiografica, della contemporaneità, e certe angoscianti derive di semplificazione, viene allora quasi da sé un confronto fra tre produzioni recentissime, degli ultimi due anni, che poco sembrano avere in comune, ma che, allo stesso tempo, tanto sono passibili di accomunamento. Reality
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editoria arte fotografia società Letteratura cinema (Matteo Garrone, 2012), Bellas mariposas (Salvatore Mereu, 2012), La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013) rappresentano tre esempi, quasi paradigmatici, di bel cinema. Reality è, al pari de La grande bellezza, un racconto dell'apparenza: tuttavia, Luciano (Aniello Arena), il protagonista dell'opera di Garrone, è uno che vorrebbe diventare “visibile”, attraverso la partecipazione al Grande Fratello, mentre il più anziano e disilluso scrittore Jep Gambardella (Toni Servillo), protagonista del lungometraggio di Sorrentino e, nel film, autore di un fantomatico romanzo intitolato L’apparato umano, la visibilità l'ha conosciuta, se n'è innamorato quasi morbosamente e non è
riuscito più a staccarsene. L'uno e l'altro hanno un problema nella dialettica tra ciò che sono, o sentono di essere, nel loro intimo, e ciò che vogliono, o devono, mettere in campo per essere riconosciuti e legittimati come diversi. Luciano e Jep, entrambi compresi nel loro tentativo di ascensione, anche se in punti diversi della “scalata”, hanno un modo profondamente diverso di portare sulle spalle la loro croce: il primo, sorridente sotto un legno pesantissimo, propositivo, colmo dei suoi continui slanci vitalistici, genuino; l'altro, invece, annoiato, apodittico, aforimastico, ferocemente deduttivo nei suoi voli di memoria e di amore. Quali i temi trattati, dunque? L'inconsistenza della propria immagine, la sua costruzione, per procura, e sostanzialmente ad opera di altri a noi estranei ed esterni, l'insostenibile leggerezza dell'essere, se vogliamo, la pervasività della riproducibilità tecnica. Sul Romanzo
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E non sarà un caso, in questo senso, che entrambe le pellicole cominciano con una festa, sfarzosa, pacchiana, pseudo-elegante, in realtà talmente kitsch, in entrambi casi, da sfociare nel grottesco ed essere sublimata. E la festa, in fondo, con il suo carico ingente di sovversione carnevalesca e carnascialesca, è sia in Garrone che in Sorrentino, la migliore immagine del vuoto pneumatico che viene eretto a dogma, e nel mondo della “videocracy”, e in quello, stanco, annoiato, autoreferenziale, da Uroboro, dell'editoria, in cui il Gambardella sguazza pur tenendosene, con attenzione estrema e rigore quasi ascetico, alla larga. Questo complesso di temi viene sceneggiato, però, in maniera quasi diametralmente opposta: l'incedere di Reality è quasi tumultuoso, carnale, verace come il dialetto napoletano, mentre La grande bellezza si nutre di lunghe e sistematiche chiacchierate, piacevolmente infruttuose, e scorci di astrazione e invenzione poetica. Le stesse caratteristiche, queste ultime, che informano Bellas mariposas. In questo caso, protagonisti e ambiente sono molto diversi: rispettivamente, due ragazzine (poco più che bambine, a dire il vero), Cate e Luna, e la periferia di Cagliari. Il lungometraggio di Mereu, liberamente tratto dal racconto omonimo di Sergio Atzeni, è la storia di un pezzo di vita da stoici reietti. Nello specifico, se è vero che, e qui prendiamo a prestito l'efficacissimo titolo di un romanzo di Simona Vinci, se è vero dunque che “dei bambini non si sa niente”, di Cate, all'inizio del film, sappiamo pochissimo. È lei stessa a “spiegarsi”, con una narratività straordinaria, un po' vivendo la pro-
pria storia mentre la racconta, un po' rendendola nota a noi, spesso con lo sguardo in camera (sguardo della giovanissima, ma già bravissima, Sara Podda) e facendoci immergere in un universo alternativo, in cui il mondo esterno continua a esistere, purtroppo, ma le cose davvero importanti sono altre e segnatamente la cosa più importante di tutte è vivere il proprio essere una ragazzina. Le “belle farfalle” ci conquistano alla loro causa, un po' con la bellezza del loro essere minute di corporatura, e un po', forse ancora di più, con la straordinaria musicalità del campidanese, quasi una colonna sonora a un'opera che potrebbe vivere, pressoché in autonomia, di sole immagini. Di queste immagini, che si accostano e sovrappongono, riusciamo a seguire la giustezza dell'accostamento, la temerarietà nell'affrontare, sia dal punto di vista del linguaggio, che da quello della rappresentazione più generale, un mondo in cui la realtà e l'astrazione, i pensieri, i desideri, e le possibilità concrete hanno, per fortuna, il medesimo valore. Ed è proprio la tecnica a fare la differenza nei tre casi che abbiamo preso in esame: una tecnica registica e una fotografia luminose, sfavillanti, grandiose nel senso più proprio del termine. Garrone disegna il quartiere di Luciano come un presepe sgangherato, fatto
Immagine grande – Toni Servillo in una scena di La grande bellezza. Nella pagina a fianco – Aniello Arena in una scena di Reality.
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di volti e mestieri, gli uni e gli altri duri e scostanti, ma pronti ad aprirsi, a liberarsi e volare. Sorrentino, da sempre criticato da detrattori tanto impavidi quanto poco accorti, ci sembra, per le sue capacità tecniche, illumini una Roma solenne e sonnolenta, tanto alla luce quanto al buio, in cui si aggirano, oltre a un Servillo che non sarà forse mai più in un tale stato di grazia (e ce ne vuole, per un attore come lui), altri personaggi equivoci e tenerissimi: nel ricchissimo “coro”, scrittori squattrinati, ricche signore ancora piacenti, spogliarelliste pronte a diventare principesse, artisti concettuali, bambini prodigio. Mereu, dal canto suo, gioca sull'alternanza tra gli angusti spazi degli alloggi popolari, ingombri di esseri umani e cose, e le estensioni della campagna, dei tetti, delle piazze deserte. In tutti e tre i casi, ogni possibile piano e campo è utilizzato, e tutti con una sconcertante funzionalità alla narrazione. Vediamo gli occhi e le pieghe del viso di Luciano, le rughe di Jep Gambardella, lo sguardo profondo, intatto, pulito, di Cate, e (ci) riflettiamo. La vera “crisi” non è, poi, in quei tentativi posticci, artificiosi, manieristici quando non macchiettistici, di rappresentare presunti Zeitgeist pre-berlusconiani. La vera crisi è nei corpi, e di corpi parlano questi tre esempi di ottimo cinema. Parlano della nuova, e più strisciante e sotterranea e disonesta, pornografia, dell'accanita ricerca della camera (“dammi la uno!” come avrebbe detto Funari); alla fine dei conti, la crisi è il particolare nell'universale, è negli occhi, indagatori e indagati, di Luciano, Jep, Cate, che, fissandoci, ci seducono e ci costringono a riguardarli, non visti.
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Nessuno ha mai considerato il primo di gennaio con indifferenza. È ciò da cui ognuno data il proprio tempo, e su cui conta ciò che rimane. È la natività del nostro comune Adamo.
L'invenzione della vita, René Magritte, 1928. Collezione privata.
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Charles Lamb, Saggi di Elia, 1823.
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La crisi raccontata dall’arte di Lavinia Palmas Crisi, quante volte abbiamo utilizzato questo termine negli ultimi anni. Ha colpito ogni settore: dalla scuola al lavoro, dall’economia all’agricoltura. Ebbene sì, il Bel Paese è stato contagiato da questo virus anche nel settore che più lo rappresenta al mondo: l’arte. Siti archeologici che si sgretolano, musei costretti a “vendere” le proprie opere d’arte, tagli del personale: tutto oramai sembra non avere futuro. Da un’analisi della Commissione Europea pubblicata nel mese di novembre 2013, i dati sono disarmanti. Solo il 30% degli intervistati ha visitato un museo o una galleria nell’ultimo anno. I motivi? Per il 35% mancanza di interesse, per il 31% mancanza di tempo, per l’8% scelte limitate o scarsa qualità delle attività proposte nella propria città, per il 15% l’elevato costo, per il 2% scarsa informazione e il restante 9% non ha saputo offrire una spiegazione. Eppure, riprendendo una dichiarazione dello scrittore-giornalista Stefano Benni, riportata in Margherita dolcevita del 2005: «L’arte è scappare dalla normalità che ti vuole mangiare», un antidoto per superare i momenti di tristezza, un momento di svago per gli occhi e per la mente. E se, come dichiarò Guy de Maupassant, «Un’opera d’arte è superiore soltanto se è, nello stesso tempo, un simbolo e l’espressione esatta di una realtà», noteremo come gli artisti ci raccontino nelle opere pittoriche ogni aspetto della storia, attraverso un quadro che funge da lente di ingrandimento, capace di mettere in scena particolari che a volte sfuggono o sui quali di rado riflettiamo. Proviamo, dunque, a immergerci nell’arte del passato: ci accorgeremo che la crisi che oggi conosciamo, in realtà, nei secoli passati, era già presente in tutte le sue manifestazioni e scopriremo, inoltre, che gli artisti ci hanno lasciato alcune immagini di fronte alle quali potremo affermare come tutto sia “un eterno ritorno all’uguale”. Cominciamo da lui, Michelangelo Buonarroti. Dimostrò sin dalla più tenera età una forte sensibilità artistica, sebbene ostacolata dal padre, il quale, da buon patrizio, avrebbe voluto per il figlio una carriera militare o ecclesiastica. L’8 maggio del 1508, il pittore toscano accettò l’incarico offertogli da papa Giulio II di dipingere la Cappella Sistina con il Giudizio Universale. Per Michelangelo, al tempo sessantenne, la commissione non fu per nulla semplice, tanto da innescare un’aspra diatriba con il suo collaboratore Sebastiano 48
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del Piombo. Questi, infatti, aveva preparato per l’impresa una “incrostatura” sulla quale dipingere a olio, che, suo malgrado, non piacque al maestro che giudicava il colore a olio «da donna e da persone agiate e infingarde». A causa di tali disguidi, si rifiutò dapprima di continuare i lavori, ripresi solo dopo alcuni mesi e con l’accortezza di lavorare da solo, senza aiuti. Il grande affresco della Cappella Sistina rappresenta l’umanità nel suo stato di degrado. Cristo imperioso tenta di placare le anime: gli eletti che vanno in Paradiso, mentre i dannati scendono nelle scure viscere dell’Inferno. Caos, instabilità, disagio: gli uomini non hanno più il solido appoggio dato dalla Cristianità, che, proprio in quel momento, cominciava a vacillare. n° 6 • Dicembre 2013
Letteratura editoria cinema fotografia società arte Dopo quasi sei lunghi anni, in cui il pittore lavorò “appeso” a quel soffitto, i cardinali lo accusarono di oscenità per quelle figure di nudi che tanto scandalizzavano la Chiesa. A dimostrazione del fatto che la libertà di espressione al tempo era limitata (e che potremmo affermare incerta anche per alcuni ambiti della nostra vita) il cardinale Carafa propose la distruzione dell’opera, considerata un insulto alla divinità. Dopo un lungo dibattito, alcuni padri ecclesiastici moderati riuscirono a trovare una soluzione di compromesso: coprire le parti nude, compito che fu affidato a un allievo di Michelangelo, Daniele da Volterra, il cui arduo lavoro gli comportò l’epiteto di “Braghettone”. Un crisi, dunque, che coinvolse il piano spirituale dell’uomo, la sua intima relazione con tutto ciò che non era verificabile scientificamente. L’uomo deve sperimentare da solo, non più trarre lezioni di virtù da miti o divinità antiche. Comprende, così, che la vita è una tragedia, incerta come suggerisce la rappresentazione di Diana e Atteone di Tiziano Vecellio. Non più rimandi mitologici, non più richiami alle narrazioni ovidiane: l’uomo si trova a dover lottare con la propria esistenza, deve “cacciare” per sopravvivere. Giunge, per questo, a guerreggiare con i suoi simili pur di far prevalere i suoi diritti.
Sopra – Giudizio Universale (particolare), Michelangelo Buonarroti, 1537–1541. Cappella Sistina, Città del Vaticano (SCV). A destra – Diana e Atteone, Tiziano, 155-1559. National Gallery, Edimburgo (GB). A pagina 50 – Conseguenze della guerra, Pieter Paul Rubens, 1637-1638. Galleria Palatina, Firenze (I). Sul Romanzo
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Quali, però, le Conseguenze della guerra? Ce lo dimostra colui che sembra esser stato etichettato come ambasciatore di pace durante la Guerra dei Trent’anni: Pieter Paul Rubens, autore dell’opera citata. Ogni elemento è travolto dall’incedere di Marte, dio della guerra, che con i piedi calpesta un libro e dei fogli quasi a simboleggiare la distruzione di ogni forma di espressione culturale. Stessa sorte tocca alle Arti, personificazioni della musica e dell’architettura collocate in basso a destra del dipinto, che giacciono abbattute, illuminate da luci tenebrose descritte dalla “furia del pennello”, come Rubens amava definire la sua maniera. La crisi non solo coinvolge l’uomo, ma tutti i suoi preziosi interessi come l’arte, la musica, la letteratura. Un uomo che non è più in grado di proteggerli di fronte all’avanzare della furia degli imprevisti della vita. E come non accorgersi che il dipinto in questione potrebbe ricollegarsi la realtà che stiamo vivendo nel XXI secolo. Tuttavia, dopo la tempesta delle atrocità della guerra, sopraggiunge un senso di calma che, seppur apparente, riporta l’uomo a riflettere sulle sue umili origini. La crisi d’identità pare esser superata, o almeno messa da parte, per dar spazio alla quiete di un ipotetico “siglo de oro” che accompagnò l’arte spagnola del Seicento. Le mani di Diego Velázquez conducono l’uomo in una dimensione concreta, per assaporare i momenti semplici della vita.
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Si sofferma su un mendicante Acquaiolo di Siviglia, che porge un bicchiere d’acqua a un bambino assetato. Tra i due gli sguardi non si incrociano, ma i loro gesti suggeriscono la volontà di ritrovare un punto di incontro tra due generazioni che sembrano essersi allontanate. L’anziano, seppur di umili vesti, viene colto in tutta la sua nobiltà d’animo nell’offrire al giovane un semplice bicchiere d’acqua. Un gesto d’insegnamento forse verso quel giovane, il quale accetta dalle mani di un pover’uomo ciò di cui ha bisogno, senza pregiudizi. Due generazioni a confronto, dunque, che nella crisi trovano un punto d’incontro grazie a gesti di estrema umanità. Dai complessi rapporti tra anziani e nuove generazioni, presenti anche ai nostri giorni, si passa alla vicende di coppia. Se si pensa che nel Bel Paese le separazioni sono nettamente in aumento, attuale risulta La mattina (conosciuto anche con il titolo di Poco tempo dopo) di William Hogarth. Già nel 1736, si possono osservare i primi attimi di vita coniugale tra neo sposini: il marito, appena rientrato da una notte brava, siede accanto al camino, mentre la moglie si stira i capelli con un sorriso che cela perfidia, rimembrando le ore passate la notte precedente non sola, come rivelano le carte dei conti in mano al maggiordomo che lascia la scena con aria di chi conosce la verità. Marito e moglie che celano ognuno a modo loro i rispettivi tradimenti.
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E chissà se avranno dormito sonni tranquilli i due convolati a nozze o se avranno trascorso ore in preda a quello stesso Incubo che sconvolse la notte della donna ritratta da Johann Heinrich Füssli. Pare che l’Epidemia del nuovo Millennio sia l’insonnia. Come si legge da una ricerca apparsa su blitzquotidiano.it nel settembre 2013, uno dei motivi potrebbe essere legato alla crisi. Anche Morfeo, dunque, è toccato da questo male che porta gli Italiani ad assumere una grande quantità di sonniferi.
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Colto dalla disperazione, l’uomo si ferma a riflettere sull’esistenza, a interrogare il suo io più nascosto. Quell'uomo scruta l’orizzonte sopra una roccia di fronte a un mare in tempesta. Di spalle quell’uomo avvolto da un soprabito verde scuro sembra il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Oltre la nebbia che mitiga per un istante la realtà, le acque agitate portano le grida di disperazione di altri uomini giunti sopra una Zattera della Medusa descritta, con grande cura per i dettagli, da Théodore Géricault. Un evento che diventa scandalo internazionale e che porta l’opinione pubblica a schierarsi contro la monarchia francese di Luigi XVIII. Una tragedia che non può non ricordare le tristi vicende del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 che condusse l’Italia al centro di numerose polemiche. Una crisi che coinvolge i governi e la politica da loro adottata che si ripercuote sui cittadini, i quali vorrebbero poter protestare contro ogni ingiustizia, come i protagonisti de La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix. Borghesi, proletari, bambini, tutte le classi sociali contro la dottrina reazionaria di Carlo X. Di fronte a questi sconvolgimenti, l’uomo si ritrova a combattere una guerra contro ogni aspetto della sua esistenza e forse l’unica cosa di cui ha bisogno
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è un ritorno alle origini, alle sue umili condizioni, per riappropriarsi della sua individualità. Vagando lungo le strade della vita si immerge a contemplare i paesaggi e da una parte vede le Spigolatrici descritte minuziosamente da Jean-Francois Millet, vedove o orfane perché a queste era riservato tale lavoro. Un realismo che descrive la vita dei campi, il duro lavoro dei contadini. Dall’altra parte della strada, Gli Spaccapietre di Gustave Courbet, intenti a eseguire un duro lavoro. Scene di vita quotidiana si presentano agli occhi di quest’uomo che in preda a una crisi esistenziale decide di inoltrarsi nelle aperte campagne per trovare rifugio. La notte comincia a giungere e l’uomo si affretta a rientrare nel paese da cui è partito. Il suo sguardo è attirato dal chiarore proveniente dalle finestre di alcune case da cui si possono scorgere le Stiratrici (di Edgar Degas) oramai affaticate e i Mangiatori di patate (di Vincent Van Gogh) attorno a un tavolo, intenti a degustare i prodotti del loro raccolto. La crisi economica della società si percepisce in ogni singola realtà e ognuno cerca di affrontarla nel miglior modo possibile. Tuttavia, qualcuno si lascia sopraffare da temporanee soluzioni, magari di fronte a una tazza di Assenzio, come ci suggerisce Edgar Degas, oppure incontrandosi al bar con amici accompagnati da una bottiglia di vino e improvvisandosi almeno per un paio d’ore Giocatori di carte, come ci ricorda Paul Cézanne. Ma al risveglio, quell’uomo, che tanto sognava di conquistare un momento di serenità in una notte
brava, si convince che per superare la crisi c’è bisogno di azioni concrete. Si propone, così, di sfilare assieme ai protagonisti de Il quarto stato per dimostrare come i lavoratori debbano mettere in risalto pacificamente i loro diritti, «sottolineare le grandi conquiste che i veri lavoratori vanno facendo tuttoodì nel mondo attuale» come dichiarava G. Pellizza da Volpedo. Se, come affermava Pablo Picasso, «L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità», a volte è necessario rimboccarsi le maniche e terminare il tutto pensando che questa Italia, governata da politici le cui promesse per un futuro migliore spesso non vengono mantenute, ha solo bisogno di un po’ più di L.O.V.E. (Cattelan docet). A pagina 51, dall'alto – Acquaiolo di Siviglia, Diego Velázquez, 1620. Victoria and Albert Museum, Londra (GB). Incubo, Johann Heinrich Füssli, 1790-1791. Goethe Museum, Frankfurt am Main (D). La mattina, William Hogarth, 1736. A pagina 52, dall'alto – Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818. Hamburger Kunsthalle, Amburgo (D). La zattera della Medusa, Théodore Géricault, 1819. Museo del Louvre, Parigi (F). A pagina 53, dall'alto – La libertà che guida il popolo, Eugène Delacroix, 1830. Louvre-Lens, Lens (F). Le spigolatrici, Jean-François Millet, 1857. Musée d'Orsay, Parigi (F). Nella pagina a fianco – L'assenzio, Edgar Degas, 18751876. Musée d'Orsay, Parigi (F). Sotto – Il Quarto Stato, Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1901. Museo del Novecento, Milano (I).
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L’autunno dei beni culturali di Vincenzo Neve Marzo 2013: Marino Massimo De Caro, ex direttore della Biblioteca dei Girolamini a Napoli, viene condannato a sette anni per aver trafugato centinaia di volumi da quella che era una delle più antiche e prestigiose biblioteche italiane. Aprile 2003: Mushin Hasan, direttore dell’Iraq Museum di Baghdad, si regge il capo, seduto su un’antica stele tra sacchi di sabbia e reperti in frantumi provenienti dal museo saccheggiato e devastato. A duemilasettecento chilometri di distanza un uguale sprezzo della cultura e di una memoria storica, storie solo apparentemente diverse, ma in realtà accomunate da un significato comune. Sono alcune delle vicende raccontate con dovizia di particolari e piglio polemico in due saggi di recente pubblicazione: Le pietre e il popolo di Tomaso Montanari (minimum fax) e Tesori rubati di Paolo Brusasco (Bruno Mondadori). Due icastici titoli con due sottotitoli ancora più chiari: Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane e Il saccheggio del patrimonio artistico nel Medio Oriente. Se accomuniamo i due testi è perché in tutti e due i casi si tratta di una documentata denuncia, scritta da due accademici – Montanari insegna Storia dell’arte alla Federico II di Napoli, Brusasco è docente di Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente Antico all’Università di Genova –, in cui l’acribia dello studioso si accompagna all’afflato civile di chi ancora crede nel valore della cultura e
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si batte perché si ponga un argine al declino. Entrambi si muovono lungo il filo di un ragionamento che ha al centro il nesso tra patrimonio culturale e cittadinanza, tra popolo e identità culturale. Non a caso faro costante di Montanari è quell’articolo 9 della Costituzione, con padri nobili come Concetto Marchesi e Aldo Moro, che esplicitamente tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, e lungi dall’essere una vuota petizione di principio «è uno straordinario strumento per costruire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e attuare l’unità nazionale»1, o almeno dovrebbe esserlo: se esistesse davvero la possibilità di un governo tecnico al fine di valorizzare le reali competenze, Tomaso Montanari sarebbe il Ministro della Cultura ideale. Nel pamphlet meritoriamente pubblicato da minimum fax, che prende il titolo da un verso di Fortini, Montanari ci conduce in un grand tour che allo stupore incantato dinanzi alle meraviglie italiane che era di Stendhal o Goethe sostituisce l’orrore dinanzi a un panorama di rovine e disastri, mai disperato però, anzi con una rabbia che reclama giustizia e invoca non un astratto cambio di marcia nella gestione del patrimonio storico e artistico, ma, pur nella rapidità dei ritratti, prospetta alternative percorribili, se solo se ne avesse la volontà politica. Scorrono, così, le vicende dell’Opera Metropolitana di Siena e il progetto di privatizzazione della pina-
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A sinistra – Iraq Museum, Baghdad. In basso – Biblioteca dei Girolamini, Napoli.
coteca di Brera, l’idea di organizzare uno slalom di sci al Circo Massimo e l’inquietante storia della biblioteca dei Girolamini, i lavori al Fondaco dei Tedeschi e all’Hotel Santa Chiara a Venezia e il progetto della torre Pierre Cardin a Marghera, l’Aquila che non esiste più, gli Uffizi noleggiati da Madonna e la raccolta di firme per il prestito della Gioconda, la vicenda del Crocifisso di Michelangelo2 e la volontà di costruire la facciata di san Lorenzo secondo il progetto di Michelangelo, la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo a Palazzo Vecchio. E parallelamente i nomi e cognomi dei responsabili del disastro, che l’autore non manca di indicare con nettezza, da Lorenzo Ornaghi «l’ombra ministro» a Giovanna Melandri «baby pensionata di lusso» a Pietro Folena «produttore di mostre», e sopra tutti Matteo Renzi, che «vede davvero la storia attraverso la lente di format come Voyager» e per il quale la cultura si riduce a «emozione», a una «bellezza fuori dal tempo e dalla storia». Non è un problema di salvaguardia del “bello” o di nobile dedizione ad alti principi, è una questione squisitamente politica, di civismo nel suo significato più alto: «l’industria delle mostre (meglio: dei Grandi Eventi) e le campagne mediatiche su singoli capolavori (spesso inesistenti) attaccano, esplicitamente e frontalmente, la conoscenza, la filologia, la storia, e inneggiano invece alle “emozioni”: non si rivolgono a un cittadino adulto, ma a uno spettatore,
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o meglio a un cliente-bambino». L’autore non era neanche pregiudizialmente contrario al sindaco fiorentino, addirittura nel 2011 era intervenuto alla convention renziana alla Leopolda, è invece nettamente contrario alla riduzione delle città d’arte a luna park, a un Paese in cui «il valore civico dei monumenti è stato negato a favore della loro rendita economica, e cioè del loro potenziale turistico». Il bersaglio polemico è, infatti, quella concezione, già craxiana, del patrimonio artistico come “petrolio d’Italia”3, quella «insopportabile retorica delle cosiddette “città d’arte” italiane [che] nasconde lo stadio avanzato di una metamorfosi fatale» per cui «come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici: da traduzione visiva del bene comune a rappresentazione della prepotenza e del disprezzo delle regole». A difendere, invece, un’idea diversa di cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica, altri personaggi, dal contadino anarchico mugellano, che la domenica portava la figlia non a messa ma agli Uffizi e glieli mostrava come sacri, ai due bibliotecari precari della Girolamini Maria Rosaria e Piergianni Berardi che avevano tentato di salvare i preziosi volumi e combattuto il criminale direttore, fino a essere insigniti da Napolitano del titolo di Cavaliere, dalla funzionaria dell’Opificio delle Pietre Dure Cecilia Frosinini a Francesco Caglioti e altri accademici
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(tra cui lo stesso Montanari) che avevano tentato con appelli e richieste al ministro Ornaghi di far rimuovere dall’incarico De Caro. Il problema messo in evidenza perfettamente da Montanari è quello del rapporto con le opere d’arte e con la storia dell’arte in generale, che in Italia meriterebbe un’attenzione speciale, anziché essere la materia scolastica negletta che è. E «abbandonare la vecchia concezione della natura semplicemente materiale ed estetica del bene in favore di un’idea che ne rivaluti l’intrinseca importanza per l’identità di singoli individui, popoli e minoranze, e il rispetto dei diritti umani di cui questi godono» è quello che invita a fare anche Brusasco nel suo appassionato testo, che ci sposta solo geograficamente in un paesaggio in cui l’attacco ai beni culturali è più cruento per il contesto guerreggiato in cui avviene, ma che pone le stesse problematiche già viste nei disastri italiani. Quello che ci racconta è la trasformazione delle primavere arabe in «un autunno dei beni culturali», la devastazione di Aleppo e della Siria, dov’è in corso una violenta guerra in cui entrambe le parti in conflitto hanno trasformato un inestimabile parco storico-archeologico in teatro di scontro, o dell’Iraq Museum di Baghdad, di cui viene ripercorsa dettagliatamente la storia. Un tempio della civiltà, là dove la civiltà è nata, che rappresentava lo stretto legame tra un popolo e un’identità culturale. Non a caso viene attaccato e distrutto, «un fatto scientemente mirato a favorire caos e antiche divisioni etnico-confessionali a ché l’Iraq, distrutto nella sua unità culturale, potesse rinascere come regime fantoccio modellato dagli interessi americani», essendo evidente che le diverse identità etnicoconfessionali si radicano sul territorio attraverso la presenza di determinati simboli culturali, che sradicati dal loro contesto originario magari ritroviamo in vendita sul web ad opera di tombaroli 2.0. Il Bello non può in nessun caso essere ridotto a mera retorica, slegato dal suo valore civico, tantomeno essere un lusso piuttosto che un diritto, a qualsiasi latitudine. Altro che banche, il patrimonio artistico e culturale, quello si, è too big to fail e in fondo, come recita quella splendida poesia su Vermeer di Wisława Szymborska, citata da Montanari,
finché quella donna del Rijksmuseum nel silenzio dipinto e in raccoglimento giorno dopo giorno versa il latte dalla brocca nella scodella, il Mondo non merita la fine del mondo.
NOTE:
1 Su questo si vedano i saggi, tra cui uno dello stesso Montanari, in Leone-Maddalena-Montanari-Settis, Costituzione incompiuta. Arte. Paesaggio, ambiente, Einaudi, 2013. 2 A questa specifica vicenda Montanari dedicò un altro efficacissimo pamphlet, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi, 2011. 3 Per una critica di questo tipo di retorica e una proposta alternativa, si veda C. Caliandro-P.L. Sacco, Italia reloaded. Ripartire con la cultura, ilMulino, 2011. Sopra – La lattaia (part.), Johannes Vermeer, 1660 circa. Rijksmuseum, Amsterdam (NL).
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Immagini di una crisi
La crisi economica, sviluppatasi in particolare dopo i terremoti finanziari di Wall Street del 2008 e che interessa ormai da anni, sia pure a vari livelli, buona parte del mondo occidentale, viene, spesso, accostata a quella che devastò l’America a partire da un altro, celeberrimo crollo di Wall Street, quello del 1929.
di Annamaria Trevale
All’epoca, l’economia statunitense impiegò quasi un decennio per risollevarsi completamente, ritrovando piena efficienza e vitalità solo alla vigilia del secondo conflitto mondiale: fu, infatti, soprattutto lo sforzo bellico a riportare a pieno regime l’industria, dopo i lunghi anni di decadenza passati alla storia come Grande Depressione. Di pesanti crisi economiche ce ne sono state tante nella storia, anche recente, dovute sia a politiche errate, sia a eventi naturali. Ci sono i frequenti e lunghissimi periodi di siccità, che periodicamente sconvolgono la fragile economia dei Paesi africani, oppure la Grande Carestia che provocò circa quaranta milioni di morti in Cina nel periodo 1958-1961. Ma perché, nell’immaginario collettivo, la definizione di “crisi economica” viene comunemente as-
A sinistra – California, Dorothea Lange, 1936. Nelle due pagine – Joe's Auto Graveyard, Pennsylvania. Walker Evans, 1935.
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editoria arte cinema società Letteratura fotografia sociata, in prima battuta, al periodo della Grande Depressione americana? La risposta è semplice: perché di quegli anni esiste, oltre alle testimonianze letterarie di molti scrittori, come ad esempio John Steinbeck (soprattutto Uomini e topi, 1937 e Furore, 1939), una ricchissima documentazione fotografica, e cinematografica (il film tratto da Furore e diretto da John Ford nel 1940), che ha permesso di conoscere l’atmosfera e gli avvenimenti di quel periodo. Di altre fasi critiche della storia recente, che potrebbero essere considerate ugualmente importanti, sono rimaste ben poche tracce, spesso per espressa volontà dei poteri dominanti. A distanza di più di cinquant’anni non sappiamo granché di quanto avvenne esattamente in Cina durante la Grande Carestia, a causa del silenzio imposto dalla dittatura per minimizzare le colpe di una dissennata politica economica da parte del regime di Mao. Ancora oggi, in Cina, quel periodo viene eufemisticamente ricordato come I tre anni di Disastri Naturali, sorvolando sul fatto che il governo maoista fu del tutto incapace di varare dei provvedimenti che potessero alleviare, almeno in parte, i danni provocati dalla siccità, compiendo anzi, in alcuni casi, delle scelte destinate ad aggravare ulteriormente la
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situazione, come, ad esempio, l’attribuzione arbitraria di particolari coltivazioni a zone agricole del tutto inadatte a sostenerle. Se, invece, possediamo una documentazione così esauriente degli anni della Grande Depressione, lo dobbiamo a una scelta precisa del governo americano, intenzionato a utilizzare ogni mezzo possibile per combattere la crisi, ma soprattutto per nulla orientato a minimizzarne gli effetti. Il presidente Franklin Delano Roosevelt, eletto nel 1932, varò immediatamente un gigantesco programma economico, il New Deal, con lo scopo di risollevare le sorti del Paese messo in ginocchio dalla crisi. Se la grande industria rischiava di fermarsi completamente, l’agricoltura era in condizioni ancora più drammatiche, perché, negli anni dal 1932 al 1936, le vaste campagne del Middle West erano state colpite da una siccità senza precedenti, che aveva trasformato in una Dust Bowl [catino di polvere] le sterminate campagne nella parte centrale del Paese. Privati dei raccolti, centinaia di migliaia di agricoltori si erano ritrovati all’improvviso senza nessuna risorsa: perdevano rapidamente la casa e le terre e finivano per spostarsi alla ricerca di lavoro occasionale come braccianti, in una mastodontica migra-
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Questa sezione storica, ribattezzata nel 1937 Farm Security Administration (FSA), spedì nelle grandi regioni agricole degli Stati Uniti quarantaquattro fotografi, già famosi o che lo sarebbero presto diventati, che, nell’arco di sette, anni produssero circa centottantamila fotografie, le quali rappresentano il primo grande archivio classificato come fotografia documentaria, genere stilistico destinato ad avere un enorme sviluppo nei decenni successivi.
Figlio di contadini nella Dust Bowl area, Arthur Rothstein.
zione interna che vedeva intere famiglie in viaggio per mesi, in condizioni di estrema miseria e senza alcuna reale possibilità di migliorare la propria situazione economica. Il Ministero dell’Agricoltura si rese conto che, per intervenire efficacemente in aiuto dei contadini, occorreva, prima di tutto, avere una documentazione precisa della loro vita e dei loro problemi e, a questo scopo, decise d’istituire la Resettlement Administration, un’agenzia destinata a studiare nuove politiche agricole. Nel 1935, il suo Direttore, Rexford Guy Tugwell, già consigliere economico di Roosevelt, affidò a Roy Stryker, a sua volta economista e sociologo, nonché fotografo, il compito di creare una sezione storica, che fornisse le fotografie necessarie a illustrare e promuovere il lavoro dell’organizzazione.
Negli Stati Uniti, esisteva già una tradizione di fotografia sociale, perché già alla fine dell’Ottocento erano apparse immagini che rappresentavano i quartieri più poveri delle grandi città e le miserande condizioni di vita degli operai impiegati nelle fabbriche. Fino all’esperimento di Tugwell e Stryker, però, il mondo contadino era stato trascurato, in favore appunto di quello urbano e industriale, anche se all’epoca comprendeva ancora il 22% della popolazione statunitense, sparsa nella miriade di fattorie e minuscoli villaggi che la Grande Depressione stava facendo scomparire. Dalla sede di Washington, Stryker dirigeva gli spostamenti dei fotografi, che riforniva di apparecchiature, pellicole e lampadine lampo, e a cui assegnava delle precise istruzioni. Il loro compito consisteva essenzialmente nel seguire il lavoro sul campo degli agenti della FSA, impegnati ad avviare le varie iniziative di rilancio economico a favore della piccole aziende agricole. Erano previste, tra l’altro, lezioni per migliorare le tecniche di coltivazione e rendere più produttiva la terra, mentre alle donne venivano forniti consigli per l’economia domestica e l’allevamento dei bambini. Inizialmente, perciò, le immagini scattate dalla maggior parte dei fotografi documentarono le spaventose condizioni di vita in cui erano stati ridotti gli agricoltori, le strade affollate di migranti e i precari accampamenti che sorgevano ai margini delle grandi arterie che collegavano uno stato all’altro. Carl Mydans, Walker Evans, Russel Lee, John Vachon, Arthur Rothstein, Ben Shahn, Gordon Parks e Dorothea Lange erano i più impegnati in questa impresa, ma pur muovendosi nell’ambito del programma stilato da Stryker erano in grado di conferire un tocco molto personale al loro lavoro. Evans e Shahn, ad esempio, influenzati dal socialismo, si spingevano anche a documentare i cortei di protesta e le repressioni della polizia, oltre a inquadrare le periferie delle città affollate di contadini che fuggivano dalla miseria delle campagne, finendo con l’arenarsi in quella urbana, dal momento che la crisi sembrava non risparmiare nessun segmento della popolazione.
Ritratto fotografico di Dorothea Lange, Erskine Caldwell. 62
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Walker Evans diede alla FSA un contributo fondamentale se non per quantità, almeno per qualità delle immagini, perché il suo stile era destinato a influenzare quello di molti altri colleghi coinvolti n° 6 • Dicembre 2013
nel progetto. Più interessato alle architetture, alle vecchie fattorie abbandonate, ai paesi persi nella campagna, ha tramandato alle generazioni successive le immagini di un’America rurale ormai del tutto scomparsa. A differenza di Evans, Dorothea Lange venne attratta assai raramente dal paesaggio, inquadrando nel suo obiettivo soprattutto le persone. Diventò subito la cronista più appassionata delle traversie dei migranti, ed è forse quella che ha scattato il maggior numero di fotografie divenute col tempo veri simboli della Grande Depressione: ritratti di uomini e donne stremati dalle fatiche e dalle privazioni, sui cui volti è difficile leggere segni di speranza nel futuro, bambini sporchi e malvestiti, anziani rassegnati. Arthur Rothstein, per alcuni anni responsabile della grande camera oscura di Washington, dove si sviluppavano tutti i rullini spediti alla sede centrale dai fotografi in missione, scelse di documentare le condizioni ancora più disagiate dei contadini di colore del Sud, discendenti degli schiavi liberati e doppiamente vittime: non solo della crisi economica, ma anche della segregazione razziale. Negli anni successivi, Rothstein sarebbe diventato il più celebre fotogiornalista degli Stati Uniti. Alcuni critici obiettarono che questi fotografi avevano una concezione della fotografia documentaria essenzialmente pessimista, perché tendevano a ritrarre solo gli aspetti più negativi della società, tanto che Stryker dovette spesso richiamarli all’ordine e ricordare che il loro lavoro primario doveva consistere nel valorizzare i progetti positivi della FSA, per cercare di infondere un nuovo ottimismo nel Paese. Dopo il 1937, comparvero anche le immagini relative ai nuovi insediamenti creati grazie al sostegno dell’agenzia: il programma economico ideato da Tugwell per aiutare gli agricoltori si proponeva, infatti, di trovare un posto stabile per le famiglie migranti, radunandole in piccole comunità dove lavorare la terra concessa in affitto, anche se questo, talvolta, si risolveva in spostamenti effettuati con scarso criterio.
Contadini nella tempesta di sabbia, Oklahoma. Arthur Rothstein, 1936.
rose organizzazioni civili che affiancavano l’esercito sul territorio americano. Lo sterminato archivio fotografico della FSA che Stryker, dopo lo scioglimento dell’agenzia, donò alla Biblioteca del Congresso di Washington, anche per evitare che andasse disperso, rappresenta, ancora oggi, un ineguagliabile esempio di analisi sociologica condotta sul campo. Per la prima volta, un governo nazionale aveva cercato di monitorare una crisi economica, utilizzando uno strumento per l’epoca avanzato come la fotografia e anticipando quanto nei decenni successivi sarebbe stato svolto soprattutto dalle inchieste giornalistiche televisive: in definitiva, a Washington ci si era preoccupati di analizzare a fondo e documentare in modo adeguato una situazione critica anziché minimizzarla, o addirittura fingere platealmente d’ignorarla.
Il progetto, in definitiva, non piacque né al Congresso, che lo giudicò troppo socialista, né alla maggioranza degli agricoltori, che ambivano a diventare proprietari della terra che coltivavano, piuttosto che a lavorare secondo un sistema collettivizzato. Negli anni seguenti, perciò, la FSA si trasformò più che altro in un ente finanziatore di mutui governativi, che permettessero l’acquisto di case e terreni ai contadini che riuscivano a trovare una nuova sistemazione. L’esperienza dei fotografi, però, non si esaurì, perché dal 1943 la FSA trasmigrò in gran parte nell’Office of War Information (OWI), incaricato di documentare sia le attività industriali finalizzate alla produzione bellica, sia l’impegno delle numeSul Romanzo
Discendenti di schiavi in una piantagione, Arthur Rothstein, 1937.
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Sei pezzi facili sulla crisi dell’editoria (in Puglia)
cite ura tà cite Gli autori ura cietà grafia cite ura cietà grafia ciarte ura ciegraoria era-
di Carlotta Susca
Gli editori
Il punto iniziale della filiera editoriale, la figura investita del compito di comunicare delle verità raggiunte attraverso la riflessione, lo studio. Delle persone particolarmente sensibili, forse. Sicuramente in grado, più di altre, di cristallizzare sulla pagina il condensato di una scena di vita significativa, di riassumere il senso di un'esistenza esemplare. Altruisti. Non un insieme di piccoli coltivatori di orticelli sterili, dediti alla masturbazione intellettuale o all’osservazione ombelicale, non-lettori incapaci di comprendere cosa possa essere vagamente interessante per gli altri, vanitosi appagati del proprio nome stampato – non troppo piccolo, per carità – sulla copertina di un libro anche graficamente brutto, impaginato male, non corretto (non letto, perfino, neanche da chi lo pubblica).
Sul Romanzo
Intermediari con un ruolo fondamentale, gli editori mettono in piedi un’impresa nota per la sua natura ambigua (culturale e commerciale). Lo fanno per passione, perché hanno un progetto, un’idea attorno cui aggregare dei contenuti. Amano cercare talenti, aiutarli socraticamente a estrapolare dal loro testo un libro: la pars destruens, in cui favoriscono l’eliminazione delle trovate facili e scontate, la richiesta al lettore di uno sforzo di volontà per andare oltre il primo capitolo; la pars construens, in cui si fanno – il loro staff per loro, la schiera di editor ben pagati e preparati di cui dispongono – ostetrici del libro che nasce, ed eliminano i personaggi superflui, inseriscono interlocutori dove il monologo di un personaggio sarebbe ingiustificato dal punto di vista diegetico, anticipano la scena clou per creare attesa, dispongono il testo in base a una sapiente alternanza di suspance e distensione, dosano le parti dense e quelle scorrevoli. Chiariscono allo scrittore quale sia il fulcro del testo. Oppure commissionano un lavoro, contattano scrittori che invitano a riflettere su un’idea, su un taglio interpretativo sulla realtà. Confezionano il libro con cura, riflettendo sulla migliore giustapposizione di titolo e sottotitolo, sul rapporto fra questi e l’immagine di copertina. Investono nella comunicazione che consenta al pubblico di venire a conoscenza dell’esistenza del testo. Non sono appagati della pubblicazione avvenuta, delle copie cedute interamente all’autore, di tre righi in più su un catalogo magari sciatto.
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Le librerie Imprese parimenti anfibie, devono contemperare la vastità e profondità del catalogo con una selezione di qualità. Con librai competenti e personale interessato ci riescono senza difficoltà: sanno consigliare il lettore, dialogare con lui, suggerirgli letture interessanti sulla base degli acquisti effettuati. Sanno anche sconsigliare un testo già pronto per essere pagato, perché se un ragazzino d’estate compra la Divina Commedia su suggerimento dell’insegnante di scuola media, forse è il caso di indicargli Il giovane Holden, o Harry Potter, o anche Il signore degli anelli, se la mole non è un deterrente. Le librerie organizzano eventi sforzandosi di non proporre la classica presentazione frontale con cinque relatori in un’ora, di cui metà di prolissi e pomposi ringraziamenti. Impresa commerciale, quella libraria è anche culturale, e non è più vero che ci sia bisogno di ricordare al pubblico la natura economica di un’azienda che pur si occupi di libri. Ora l’ha capito bene, il pubblico. È tempo di recuperare l’altra informazione, e di ricordare che pur sempre si veicola cultura.
Gli “operatori culturali” Una truppa. Gli operatori culturali sono i disinteressati fanti della cultura, gli instancabili strumenti di diffusione del libro. Organizzano fiere e festival, maratone, manifestazioni, match, book crossing. Sanno optare per la qualità, e chiamare il nome “grosso” quando il suo libro è interessante, e solo in quel caso. Oppure sanno accostare al “grosso” il “piccolo” che merita attenzione, in modo da bilanciare qualità e necessaria apertura al pubblico. Sanno dare una tematica alle loro rassegne, e mantenerla con coerenza. Sanno rendere la forma della presentazione funzionale al suo contenuto. Sanno guadagnarsi la fiducia del pubblico, che può contare su un livello costante di qualità. Sanno costruire sul territorio, fra un festival e l’altro, le necessarie infrastrutture culturali per seminare in maniera duratura interesse e favorire la crescita. Sanno immaginare e attuare un percorso che sappia utilizzare i finanziamenti pubblici nel modo migliore, che non li sprechi per una tre-giorni semivuota autocelebrativa, che non li butti per dare notorietà a chi la ha già, che non ritenga risolto in un’estate il compito di Fare Cultura.
Il bibliotecario, Giuseppe Arcimboldo, 1570 c.a. Skokloster Castle, Håbo (S). 66
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Quindi?
Il pubblico Un insieme di persone con sviluppato senso civico, gente aggiornata, informata, costantemente interessata ai dibattiti letterari. Individui che sanno discernere un libro da un insieme di fogli con dell’inchiostro sopra, che abbiano dei gusti e che coltivino un interesse per un settore: l’hard boiled, la saggistica storica, la poesia contemporanea. Gente che segue un percorso di crescita e sviluppo, che sappia collocare i vari tipi di libri in un'immaginaria biblioteca delle preferenze, che intervenga alle manifestazioni per accrescere la propria visione del mondo, e che sappia criticare e sanzionare le iniziative inutili e male organizzate. Persone curiose, che siano disposte a farsi convincere all’acquisto di un libro perché l’autore ha detto cose interessanti. Che non occupano la sedia di un evento perché non avevano nulla di meglio da fare, perché sono paghe dell’ascolto di altra gente che parla, e nel frattempo sperano che il dibattito si faccia acceso, e degeneri magari in rissa, perché così avviene nella televisione che guardano e che piace loro.
Sul Romanzo
Mettiamo di trovarci in una regione italiana famosa per un particolare tipo di pasta fatta a mano (e abbinata a un particolare tipo di verdura, utilizzato perlopiù nella sua parte apicale), una regione la cui zona meridionale adesso goda anche di una certa fama per via di spiagge molto belle e di una certa danza che prende il nome da un certo insetto. Insomma, siamo in questa regione. Qui ci sono editori e librerie e autori e persone molto valide, persone che quotidianamente operano in campo culturale per scelta, con sacrificio e con grandissima professionalità e abnegazione. Ci sono persone che considerano la letteratura la propria ragione di vita, e altre per cui è comunque molto importante, persone che scrivono, pubblicano, leggono e organizzano eventi perché considerano imprescindibile l’impegno con i libri e con la cultura. Ma c’è anche tanto dilettantismo, e appartenenza al settore per casualità o per opportunismo. Operatori in tutti i campi della filiera privi di un’idea, che si occupano di libri per moda, che non sanno operare scelte, che non ne hanno gli strumenti. E le nuove generazioni che si affacciano al mondo dell’editoria e che sperano di lavorare in questo settore – di mettere al suo servizio studi, professionalità, attitudini, capacità – si ritrovano ad avere a che fare con un segmento saturo e in cui è difficile scindere ciò che merita di essere portato avanti da ciò che deve essere lasciato nell’oblio che merita. L’abitudine a considerare quello culturale un hobby è radicata in maniera profonda, e la convinzione che i libri non possano dare lavoro è difficile da estirpare: per questo, chi potrebbe investire in formazione, innovazione tecnologica, internazionalizzazione preferisce spesso portare avanti pratiche consolidate per tutto il tempo in cui sarà ancora consentito. In Puglia si attende con grande trepidazione l’approvazione definitiva della Legge sul libro e sulla lettura, e la speranza degli operatori del settore è che questo possa portare a una gestione più mirata di fondi e di interventi pubblici. Le esperienze più che positive di Apulia Film Commission e di Puglia Sound (a cui le altre regioni guardano con grande interesse) non hanno ancora un degno corrispettivo in campo letterario, e solo pratiche lungimiranti potranno portare qualche risultato. La considerazione dell’editoria regionale dovrà contemperare la collocazione geografica degli operatori del settore con la necessaria apertura nazionale e internazionale, nella convinzione che l’editoria ‘pugliese’ non debba essere tale per tematiche e livellamento qualitativo, ma solo per la collocazione fisica e legale nel territorio regionale. Il prodotto librario non deve e non può essere DOP né DOC, non deve fare di ulivi e paesaggio il suo segno identitario né deve essere protetto in quanto pugliese, ma usufruire di buone pratiche politiche che consentano la valorizzazione delle tanto discusse eccellenze (ma che siano tali!).
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Sul Romanzo
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Il futuro torni a essere un’opportunità
Intervista ad Aldo Cazzullo
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di Daniele Duso
Parla del passato ma per rilanciare il futuro, il nuovo libro di Aldo Cazzullo. Con Basta piangere! Storia di un’Italia che non si lamentava, edito da Mondadori, l’editorialista del «Corriere della Sera» si rivolge ai giovani d’oggi, ma anche alla sua generazione, strizzando l’occhio a quelli che hanno qualche anno in più, che forse attratti dall’amarcord, nelle presentazioni pubbliche di Basta piangere!, da quel che si legge sui giornali, sono sempre i più numerosi.
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Incontriamo Aldo Cazzullo a margine di una delle presentazioni pubbliche del libro, nella sala Buzzati della Fondazione RCS a Milano, e con lui facciamo una rapida chiacchierata su alcuni dei temi affrontati nel suo ultimo libro. Siamo curiosi di capire come nasce questo libro. Da quali osservazioni, da quale esigenza? Insomma, perché, oggi Cazzullo se ne viene fuori gridando “Basta piangere”? Il libro nasce da una considerazione: vedo che i nostri ragazzi, oggi, sono sfiduciati, credono che il futuro coincida con il destino e che non ci possiamo fare niente. Non è così, il futuro dipende soprattutto da noi. Quindi io non vorrei che i ragazzi pensassero di essere nati in un Paese sbagliato, voglio che sappiano che sono nati in un Paese straordinario. Certo, l’Italia ha dei vizi antichi da estirpare, e degli scandali anche più recenti da denunciare. E poi c’è il fatto che l’ascensore sociale non funziona più: Michele Ferrero era figlio di un pasticcere, Leonardo Del Vecchio è cresciuto in un orfanatrofio. Oggi storie come la loro sarebbero impossibili. Si tende a ereditare dal padre non soltanto il nome e i beni, ma anche lo status e il mestiere. E non va bene che i migliori dei nostri figli vadano a cercare lavoro all’estero. Il che in sé non è un male: è giusto fare un’esperienza e imparare le lingue, però l’Italia deve creare le condizioni per cui questi giovani ritornino. Il che non accade, per cui regaliamo talenti ed esperienze che abbiamo formato a nostre spese agli altri Paesi.
Sul Romanzo
Ritratto fotografico di Aldo Cazzullo.
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Copertina di Basta piangere! (particolare).
Eppure non si può negare che oggi le difficoltà siano molte, tra burocrazia, tassazione soffocante, mancanza di opportunità... Sia chiaro, non voglio negare le difficoltà. L’Italia fa pochi figli, siamo il Paese al mondo che fa meno figli, e questo solo dovrebbe essere al centro di qualsiasi agenda politica, e poi li tratta pure male. Li viziamo troppo, finché sono ragazzi, e non li prepariamo a incontrare le difficoltà che incontreranno, che sono molte. Non si trova lavoro, non si riesce a comprare una casa, è difficile metter su famiglia. Però, i nostri ragazzi devono essere consapevoli che l’Italia non è un Paese sfigato in cui nascere, ma è un Paese straordinario. Un Paese che, in tutto il resto del mondo, è considerato la patria delle cose buone e delle cose belle. Ogni volta che vado in giro per il mondo e dico che sono italiano, mi sorridono, sgranano gli occhi. Incontro persone che vorrebbero vivere come noi, mangiare come noi, bere i nostri vini. E questa domanda di Italia è molto spesso soddisfatta da prodotti “italian sounding”, che suonano italiano, ma non lo sono. Solo di falso parmigiano e falsa mozzarella c’è un giro di sessanta miliardi di euro l’anno. Pensa a quanta Iva e a quanta Imu che ci sono lì dentro. Per tacere moda, mobili, design e altro. E poi non vorrei che i nostri ragazzi pensassero che le generazioni precedenti hanno trovato tutto fatto. Le generazioni precedenti hanno superato prove molto più drammatiche di quelle di 70
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oggi. Hanno fatto sacrifici che oggi noi neanche riusciamo a immaginare, hanno combattuto guerre mondiali e guerre civili. Hanno ricostruito un Paese distrutto, materialmente e moralmente. Hanno perso la vita con malattie che ora noi curiamo con tre pastiglie di antibiotico. In ogni famiglia c’è una storia di persone morte per la Spagnola. Il mio bisnonno, padre di mia nonna, è morto a 26 anni per otite. La mia bisnonna Tilde sposò un uomo che non aveva mai visto, perché nelle campagne piemontesi povere i matrimoni si combinavano. C’era lo sponsale che sapeva che dall’altra parte del fiume c’era una famiglia che aveva un po’ di terra e dove c’era un ragazzo ancora da sposare. Non potevo lamentarmi per le mie pene d’amore. Lorenzo, il padre di mio padre, andò in guerra, fu fatto prigioniero, e vide i suoi compagni di prigionia morire di fame e di tifo. Non potevo lamentarmi con lui per il morbillo e gli orecchioni, che adesso i miei figli quasi non sanno cosa siano. Nonno Aldo, di cui porto il nome, a 12 anni andò a fare il garzone, cioè lo schiavo, in casa d’altri. Per fortuna era una brava persona, si chiamava Amilcare Fenoglio, era il macellaio di Alba ed era il padre di Beppe Fenoglio, lo scrittore. Solo che il nonno abitava a 15 chilometri da Alba e non aveva i soldi per la bicicletta e neanche per il biglietto della corriera, per cui si faceva 15 chilometri a piedi. Si capisce che non potevo lamentarmi con lui perché non mi compravano il motorino. n° 6 • Dicembre 2013
Tuttavia, lei dice, «Non ho nostalgia del tempo perduto – cito dall’incipit di Basta piangere! –. Non era meglio allora. È meglio adesso». Ma sì, perché la fortuna di quella generazione era di avere un legame solido. Noi abitavamo con i nonni, e allora i nonni non erano quei simpatici vecchietti che compaiono ogni tanto portando regali, come accade adesso. Vivevamo con loro, non abbiamo provato a fare la guerra, ma sapevamo che le guerre c’erano state. Non abbiamo ricordi diretti del boom, ma ne abbiamo assorbito l’energia. I nostri primi ricordi sono abbastanza negativi. Io mi ricordo Monaco ‘72, l’attacco dei Fedayyin palestinesi agli atleti israeliani alle Olimpiadi, mi ricordo la guerra del Kippur del ‘73. Allora non ce ne accorgemmo, ma ora sappiamo che quando la terza armata egiziana fu accerchiata da Sharon sul Sinai i sovietici minacciarono l’intervento nucleare, e gli americani riuscirono a convincere gli israeliani a cedere. Ma nel ‘73, undici anni dopo la crisi di Cuba, il mondo andò molto vicino a una guerra nucleare. Si aveva paura dell’atomica, si costruivano rifugi antiatomici sotto le case. Io ricordo gli anni dell’austerity, lo shock petrolifero, le domeniche a piedi. I programmi televisivi che finivano alle 10 di sera. Il terrorismo rosso, il terrorismo nero, i sequestri di persona. L’Italia dei primi anni Settanta era Paese molto peggiore di quello di adesso. Era un Paese più violento, più inquinato (c’erano acciaierie in riva al mare, cimi-
niere in città, reparti di verniciatura, fonderie...). Era un Paese più maschilista: in certi ambienti si dava per scontato che le donne dovessero stare a casa, ma non solo: i femminicidi non è che non esistessero, non facevano notizia. La mia generazione è stata la prima in cui le ragazze hanno voluto e preteso di lavorare fuori. Quindi è un’Italia di cui non è giusto avere nostalgia. Unica differenza è che allora il futuro non era un problema, ma un’opportunità, mentre adesso il futuro è diventato un problema. La crisi italiana, lei scrive, è germinata molto prima del 2008. Addirittura nel 1992, quando con il trattato di Maastricht è stato imposto un sacrificio a un Paese che non era pronto a sostenerlo. È uno dei motivi per cui facciamo fatica a rialzarci. Con Maastricht abbiamo perso i due pilastri viziosi del nostro sistema di sviluppo: una moneta debole, la liretta, che attirava i turisti con la valuta forte e facilitava le aziende che esportavano, e una spesa pubblica generosa, che serviva ai partiti di governo per comprare il consenso, ma ridistribuiva anche un po’ della ricchezza prodotta nelle aree ricche in quelle meno ricche. Oggi, invece, abbiamo una moneta troppo forte per il nostro sistema. Di fatto abbiamo adottato la moneta dei tedeschi, per questo dobbiamo ripensare il nostro modello di sviluppo, investendo in manifattura, turismo, cultura e bellezza. I mangiatori di patate, Vincent Van Gogh, 1885. Van Gogh Museum, Amsterdam (NL).
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Ritratto fotografico di Aldo Cazzullo.
Ma così come io riconosco nei tratti dei miei figli i tratti dei nonni e bisnonni che ho conosciuto, allo stesso modo io penso che quella grande energia, quella fiducia in se stessi e nel loro Paese, non può essere andata dispersa. Il nostro compito è di ritrovare questo fuoco dentro di noi e di risvegliarlo dentro i nostri figli. Ecco, il libro si rivolge in particolare ai nostri figli. Basta piangere è una frase d’amore, è la frase che mia mamma mi diceva quando mi vedeva triste e sfiduciato. Siccome oggi anche i nostri figli sono tristi e sfiduciati, mi sento di dir loro Basta piangere. Ma il libro è anche un grido di richiamo verso la mia generazione. Quella che si è formata con gli anni Ottanta, negli anni del reflusso. Quel “torna a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta”, non era soltanto il fortunato slogan delle Tv di Berlusconi, era lo spirito del tempo. Finivano gli anni delle politica di strada e di piazza, che hanno causato anche un sacco di disastri, ma sono stati gli ultimi momenti in cui i giovani hanno pensato che si potesse essere felici soltanto tutti insieme, e cominciavano gli anni della ritirata, della febbre del sabato sera, di Grease, del Tempo delle Mele, del Campionato mondiale del 1982. Una stagione in cui i giovani di allora hanno cominciato a pensare che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto. Anche quella si è rivelata un’illusione. A noi è sempre mancata molto la dimensione collettiva del vivere. Non siamo una generazione 72
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digitale. Non avevamo il telefonino, il computer, i social network, però abbiamo avuto una formazione rigorosa, abbiamo letto i classici (Pinocchio, Cuore, Salgari) e abbiamo anche noi dei simboli che ci identificano come generazione. Ecco, a proposito di generazione digitale, effettivamente viviamo in un Paese che i nostri nonni, ma probabilmente anche i nostri genitori, neppure sognavano. Tuttavia, fino a qualche generazione fa, c’era più senso della famiglia, senso della comunità. Lei propone di recuperare il “noi”, la dimensione collettiva, ma in questo come vede le nuove forme di comunicazione, in particolare i social network? Sono più un ostacolo all’incontro diretto o piuttosto una nuova potenzialità? I social network sono una grande opportunità. Io mi ricordo quando tornavo dalle prime vacanzestudio in Inghilterra, pieno di indirizzi di amici su tanti fogli a quadretti tremolanti che avrei perduto. Adesso i miei figli tramite il computer si scrivono con coetanei cinesi e brasiliani conosciuti a Londra. Ricordo, invece, i miei amici che si costruivano dei trabiccoli con cui cercavano di entrare in contatto con cuori solitari, con camionisti, disabili… e nella cameretta c’era una mappa del mondo sulla quale si piantavano delle bandierine sui Paesi con i quali si era creato un contatto. Adesso, n° 6 • Dicembre 2013
invece, scopriamo che non è mai stato così facile viaggiare, comunicare, conoscere gente nuova… e, quindi, i social network sono sicuramente una grande opportunità. Ecco, l’unico nostro vantaggio, semmai, era che giocavamo per strada, avevamo sempre le ginocchia sbucciate, e non stavamo sempre curvi su questi giochini elettronici che personalmente detesto. C’è un altro aspetto poco considerato. La rete, soprattutto in quest’epoca di crisi, tende a essere usata come una sorta di piazza elettronica dove tutti parlano, molti gridano, qualcuno insulta e minaccia, e nessuno ascolta. E la rabbia popolare incontrollata accende un falò che brucia tutto, le caste e le eccellenze, i baroni e chi ce l’ha fatta da sé. Invece, non siamo tutti uguali, non siamo tutti quanti ladri, corrotti e servi. Sarebbe giusto riuscire a distinguere. Un grosso problema: la rete che si somma a superficialità e ignoranza Sì, ricordo mio nonno che girava sempre con un dizionario, lui faceva il macellaio, gli serviva poco, ma aveva paura di sbagliare le parole, perché l’ignoranza era una vergogna. Adesso, invece, vedo che l’ignoranza viene quasi rivendicata. Ricorderò sempre una lettera a «Repubblica», di quest’estate, poco dopo la Maturità, nella quale una ragazza si diceva indignata perché uno dei temi era su Claudio Magris, che lei non sapeva chi fosse. Che una ragazza di 19 anni, che
viene da 13 anni di scuola, non abbia mai sentito nominare Magris sinceramente è cosa che mi preoccupa. E mi preoccupa ancor di più il fatto che lei rivendicasse di non conoscere Magris, perché è grave: bisogna essere curiosi del mondo, devi essere aperto alle cose che non sai, anche perché in tanti mestieri alla fine le persone emergono proprio per le cose che sanno. Quale potrebbe essere, allora, il consiglio migliore da dare ai giovani d’oggi? I giovani devono farsi avanti, devono lottare, devono andare a fare esperienza all’estero, e magari tornare in Italia con un sapere nuovo. Certo, come Paese dobbiamo pensare a un nuovo modello di sviluppo, dobbiamo investire nell’agro-industria e valorizzare quello che è lo stile che ci contraddistingue nel mondo. I giovani, dal canto loro, devono capire che troveranno sicuramente occupazione laddove conta la tecnica e probabilmente dove tornerà di nuovo necessario l’uso delle mani, nella manifattura, nell’artigianato che hanno reso l’Italia famosa nel mondo.
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La crisi culturale italiana: dati, analisi e riflessioni di Sara Durantini Negli ultimi tempi, la cultura viene vista come qualcosa di cui è possibile (per alcuni anche auspicabile) fare a meno, dal momento che, sembrerebbe, sono altri i bisogni di cui necessita il nostro Paese. Ebbene, questo parere, piuttosto diffuso tra l’opinione pubblica, alimentato da una disinformazione e da una certa approssimazione giornalistica, rischia di allontanare dalla realtà della situazione. Per chiarire le idee si potrebbe partire dal rapporto 2013 di Federculture che a luglio di quest’anno, nella sala della Protomoteca in Campidoglio, ha presentato i dati relativi al 2012 riguardanti il settore culturale, alzando i toni e dichiarando lo stato d’allarme. Il 2012 ha registrato, infatti, un -4,4% sulla spesa per la cultura. A questo si associano i dati sulla ricezione culturale negativi in ogni settore, con un calo significativo per quel che concerne i teatri (-8,2%), musei e mostre (-5,7%), concerti (-8,7%) e cinema (-8,2%). Gli stessi investimenti registrano dati negativi: nel 2012, i Comuni italiani hanno tagliato dell’11% le loro disponibilità, mentre i privati del 9,6%. In generale, il calo dal 2008 è del 42%. La situazione esposta dal rapporto 2013 di Federculture risulta ancora più grave se si prende in esame il tasso di disoccupazione che, stando ai dati Istat relativi al periodo di agosto 2013, è aumentato dell’1,4% rispetto a luglio 2013 e del 14,5% su base annua. A questi dati dobbiamo affiancare quelli che riguardano le persone in cerca di lavoro tra i 15 e i 24 anni che rappresentano l’11,1% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 40,1%, in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 5,5 punti nel confronto tendenziale. Il tasso di disoccupazione può essere interpretabile come una conferma del fenomeno di dis-interpretazione tra individuo e società, tratto saliente della modernità avanzata (cit. Federico Chicchi, Derive A sinistra – Un'immagine dei recenti crolli alla Casa del Moralista di Pompei.
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sociali precarizzazione del lavoro, crisi del legame sociale ed egemonia culturale del rischio, Franco Angeli, 2001, pag. 122). Se è vero, come infatti emerge dagli studi di sociologia e diritto dell’economia, che il Novecento era il secolo rappresentativo della Società del lavoro all’interno della quale il valore di una persona era direttamente proporzionale al ruolo che rivestiva nell’attività produttiva, è pur vero che quello che molti filosofi contemporanei definiscono come periodo post-modernista ha visto l’inaugurazione di nuove dinamiche sociali in seguito all’utilizzo di macchinari che hanno semplificato (e in molti casi sostituito) il lavoro dell’uomo. Va da sé che il lavoro pretende uno sforzo in più da parte dell’uomo contemporaneo, ovvero coinvolge l’immaginazione, la creatività, la socialità, la motivazione. Per questo Chicchi parla di dis-interpretazione tra individuo e società, richiamando l’attenzione su ciò che sta producendo il modello post-fordista, cioè la precarizzazione e la totale inadeguatezza dei modelli lavorativi che, al contrario, funzionavano laddove era necessario un rapporto di subordinazione del dipendente nei confronti dell’azienda o del titolare stesso. Oggi, i confini sono meno netti e risentono di quella fluidità e flessibilità proprie di una società da reinventare (Federico Chicchi, Lavoro e vita sociale: le dense ambivalenze della società flessibile). La disoccupazione viene affrontata in modo differente sulla base delle disponibilità economiche, sociali e culturali degli individui di volta in volta coinvolti. Questo porta a differenti forme di povertà e a ciò che Federico Chicchi, nel suo saggio, definisce le fasce deboli emergenti. A fronte di questo spaccato di realtà culturale italiana abbiamo settori dove l’offerta supera di gran lunga la domanda. Rifacendoci sempre ai dati Istat, a partire dall’anno 2010 si registra un incremento dei libri pubblicati e una certa molteplicità di generi offerti dalle case editrici (queste ultime, tuttavia, in calo rispetto a quelle dell’anno precedente). È interessante anche vedere le statistiche relative all’andamento della lettura già in età scolastica e all’influenza geografica.
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L’offerta crescente riguarda anche le fondazioni culturali: creatività, ingegno e voglia di fare sembrano essere gli ingredienti alla base di una start up culturale vincente. Nascono, quindi, realtà come Culturability «uno spazio in cui la cultura genera innovazione e occupazione con progetti sostenibili a forte impatto sociale promossi dai giovani. Un posto in cui lo stretto legame tra cultura, creatività e sviluppo si riafferma a partire dalla nascita di nuove imprese. Per promuovere la creazione e sostenere queste start up, la Fondazione Unipolis lancia il bando ‘Culturability, fare insieme in cooperativa’: 300.000 euro e una rete di partner per un percorso di accompagnamento alla costituzione delle imprese», oppure le iniziative di Startup come DeRev («piattaforma per ottenere finanziamenti, partecipazione, visibilità, feedback e proposte grazie all’unione e alla collaborazione di persone appassionate, competenti, interessate, che supportano il tuo progetto o condividono la tua causa per trasformarla in una Rivoluzione») che ha da poco mappato le piattaforme italiane per il crowdfunding attualmente attive in Italia. È a questo punto che la politica dovrebbe dimostrare la sua forza aiutando la crescita della domanda (ristabilendo, quindi, l’equilibrio tra domanda e offerta) e investendo sulla formazione. Il sistema scolastico e universitario ha il compito di preparare le generazioni future. Laboratori, dibattiti, approfondimenti (attraverso l’intervento di specialisti dei vari settori), gite e soprattutto stage e percorsi veramente formativi che siano in grado di accompagnare lo studente (seguendo l’esempio delle università americane) nel mondo del lavoro e introdurlo in modo efficace e competente. Fare leva sulle competenze e sulle abilità. Il nostro Paese, soprattutto in questo momento storicosociale, ha bisogno di gente preparata e che sappia fare; solo facendo leva sulle competenze reali si potranno formare delle generazioni che siano in grado di affrontare i problemi con idee convincenti e di parlare e confrontarsi facendo appello alla ragione.
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Il ministro della Cultura, Massimo Bray, ha dichiarato, in occasione del convegno Investire in conoscenza, cambiare il futuro organizzato dalla Fondazione Con il Sud e dal Forum del libro, che uno degli aspetti preoccupanti «è questo flusso continuo di nostri ragazzi che sono costretti ad andare fuori per costruire il loro futuro. Dobbiamo investire per migliorare sempre di più quelle che sono le nostre università, il sistema scolastico». Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha, invece, illustrato la situazione partendo dai dati Eurostat secondo i quali «studiare conviene perché rende più probabile trovare un lavoro: nel 2011 in media nell’Ue lavorava l’86% dei laureati contro il 77% dei diplomati. In Italia, tuttavia, studiare conviene meno: per i laureati tra i 25-39 anni, la probabilità di essere occupati era pari a quella dei diplomati (73%) e superiore di soli 13 punti percentuali a quella di chi aveva conseguito la licenza media». La cultura, quindi, è la risposta alla crisi, ma serve cooperazione, impegno politico, leggi, manovre e anche tecnologia. A questo proposito il Commissario Ue, Neelie Kroes, intervenendo al II Italian Digital Agenda Annual Forum, promosso da Confindustria Digitale, ha caldamente invitato l’Italia a «prendere sul serio la questione della connettività» (attualmente la copertura delle reti a banda ultra larga raggiunge solo il 14% delle abitazioni, un dato che ci pone all’ultimo posto in Europa). Neelie Kroes ha, inoltre, dichiarato che «Internet crea 5 posti di lavoro ogni 2 persi. Dieci punti percentuali in più di banda larga porterebbero ad un aumento della crescita tra l’1 e l’1,5%” e “che presto il 90% dei lavori richiederanno competenze digitali». Insomma, la crescita della digital
economy sembra essere uno degli obiettivi fondamentali per uscire da questa situazione di stallo. Dello stesso parere sembra essere il rettore dell’Università Bocconi di Milano, Andrea Sironi, che, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, ha parlato delle riforme che il nostro Paese deve affrontare necessariamente: «una riforma del mercato del lavoro che ne accresca il grado di flessibilità, una riforma del sistema fiscale che ne riduca le distorsioni spostando il carico dal lavoro ai patrimoni, una riforma della giustizia civile che ne migliori il grado di efficienza riducendone i tempi, una riforma della pubblica amministrazione che ne potenzi l’efficacia» e del comportamento del sistema universitario: «operare come agenti per lo sviluppo e la mobilità sociale; stimolare l’innovazione e la crescita; preparare la futura classe dirigente; essere polo di attrazione di capitale umano e fare da ponte con il mondo del lavoro». E questo è un discorso che coinvolge tutte le classi sociali, sul quale ognuno di noi deve fare uno sforzo in più per capire che non è solo il “fare” a migliorare le cose, ma anche lo studio, la riflessione, l’ascolto e la condivisione. E per questo ci vuole tempo, investimento e volontà.
In alto, da sinistra – Il Ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray; il Commissario Europeo Neelie Kroes; il Rettore dell'Università Bocconi di Milano, Andrea Sironi.
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Crisi, città e reazione culturale in Italia di Leonardo Palmisano
La città nella crisi mondiale In sociologia urbana, attingendo a un vasto e misto patrimonio letterario, scoviamo elementi che traendo ispirazione dall’antropologia, dalla demografia e dall’economia si sintetizzano per indirizzare le analisi delle città verso la ricerca su problemi complessi. La crisi, quella attuale, la più dura degli ultimi decenni, è un fenomeno prevalentemente urbano dal momento che più della metà della popolazione mondiale vive in città. Gli effetti reali della crisi sulle città sono almeno tre: un aumento dei flussi migratori mondiali dalle città verso le città; una trasformazione progressiva e accelerata delle economie industriali in economie di servizi e di servizi culturali metropolitani; la nascita di nuove forme di comunità urbana che, un tempo, avremmo chiamato sottoculture. Sui flussi metropolitani si è soffermata Saskia Sassen, nel suo Global cities (Le città globali, traduzione di C. Palmieri, Utet, 1997), nel quale definisce il mondo come una rete complicata e inestricabile, attraversata da persone, informazioni e conflitti. Questa concentrazione della popolazione nelle città non soltanto allarga gli spazi metropolitani, ma li fluidifica rendendo fluide le relazioni sociali, come ci ha più volte suggerito Bauman nella sua sterminata produzione sulla società liquida. Una liquidità che Augé riesce a tradurre nella disfatta di una generazione francese nel suo brevissimo Diario di un senza fissa dimora (Cortina editore), ambientato a Parigi, la metropoli europea per eccellenza. Tutto, dunque, ricade nella costruzione di flussi. Tutti noi cittadini viviamo la crisi come protagonisti di una contrazione dei flussi di denaro, di un aumento della conflittualità che vede proprio le città come teatro delle esplosioni, delle resistenze e di una qualche forma di resilienza artistica. Non tutte le città, certo, e non in tutti i Paesi. Il caso italiano merita una trattazione a sé, perché forse laboratorio più lento ma non per questo meno interessante. Sopra, dall'alto – Saskia Sassen, Zygmunt Bauman e Marc Augé.
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Il realismo, le città in rivolta e l’Italia provinciale Non v’è dubbio che tra la città come luogo del racconto delle crisi e il realismo come dispositivo narrativo esista una relazione stretta, quasi viscerale e, se vogliamo, materna. L’Italia, luogo della produzione cinematografica neorealistica, ha partorito, nei suoi momenti di più alta vocazione civile e morale (ma di più forte crisi politica e militare), opere d’arte che nel realismo – anche allegorico come la Commedia di Dante – hanno trovato il canale, la dimensione, la forma più adatta. Il Bel Paese è nazione di città, di conurbazioni più o meno larghe, di giustapposizioni di quartieri, di aggregazioni di rioni e di aree vaste. Questa stratificazione urbanistica, che trova una spiegazione politica e culturale nel film Le mani sulla città di Francesco Rosi, ha condotto il Paese a dimenticare il suo rapporto con la campagna, la montagna e il mare. Rare, infatti, le perle letterarie dedicate nel secondo Novecento a questi tre luoghi extra-urbani (mi torna subito alla memoria l’opera di Rigoni Stern, chissà perché), tante, troppe, invece, le città raccontate senza vena realistica, con un certo snobismo da scenografi, non da scrittori (qui mi tornano in mente, invece, le opere di certa letteratura giovanilistica e sentimentale da cui sono stati tratti film come quelli di Muccino). Le città, dunque, a ben vedere, sono state oggetto del racconto nazionale: un oggetto oscuro, largo, impenetrabile, ma anche raccolto nella sua dimensione sociale. Grazie al cinema neorealistico, per esempio, Roma da stupida capitale fascista diventa capitale del Paese martoriato dalla guerra, sentina del disorientamento sottoproletario, utero dell’avvenire italiano, incubatrice di una nuova morale. Questo avviene tutte le volte che una crisi appare sulla ribalta della Storia. Guarda caso questa crisi, quella che stiamo vivendo con un’apprensione che ancora nessuno ha realisticamente raccontato, viene dall’urbanistica, passa nella finanza e si traduce in effetti reali devastanti, la cui portata è ancora tutta da valu-
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tare. Dunque, la crisi globale parte dalle città (da un luogo reale), sale nell’iperuranio della finanza e scende nuovamente nelle città, determinando processi di disgregazione e aggregazione sociali inediti, rivolte (Grecia, Egitto, Turchia, Usa) e rivoluzioni (Tunisia), che alcuni reportage (come il famoso Dégage! scritto da Mohamed Zran) riescono a raccontare. A vedere queste opere si è catapultati nelle realtà delle città teatro delle reazioni alla crisi. Spariscono le rivolte contadine, le occupazioni delle terre dell’epopea di Di Vittorio, per lasciare il posto alla guerriglia metropolitana, all’occupazione delle piazze (Tahrir, Bourguiba, Syntagma, Taksim) nell’evocazione costante di altre rivolte di piazza (Tien An Men su tutte), di altri movimenti metropolitani (come quello che abbatté il muro di Berlino). Il racconto della città si sposta dalla narrativa e dal cinema alla raccolta di documenti (come l’interessante lavoro autoprodotto dagli Occupy Wall Street), all’ammasso di opinioni nella dinamica velocissima della crisi. In tutto questo l’Italia resta ripiegata sul suo plateale quanto insulso autocompiacimento, sprofondata nella sua Grande bellezza (come ci ha mostrato Sorrentino nell’omonimo film), ammorbata dall’assenza di sussulti collettivi, coccolata da racconti tutti domestici, familiari o ritorti al passato (come nell’ultimo film di Luchetti, Anni felici). Manca il realismo, l’utopia del realismo, proprio mentre le nostre città piombano nella desolazione, nella perdita di senso, nell’aggravarsi dell’insicurezza percepita e della miseria materiale. Le città sposano la crisi, ma il racconto non sposa la città in crisi, salvo nei pochi casi di scuola, dove, però, si raccontano microsocietà mafiose (Gomorra di Garrone tratto dall’omonimo docu-romanzo di Saviano, L’intervallo di Di Costanzo). Questo vuoto di proposta narrativa discende dal vuoto di analisi micro, di inchieste: dall’assenza di un’attenzione nazionale alla raccolta di storie della crisi.
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Sotto, dall'alto – Mohamed Zran e Christian Caliandro.
Eppur si muove La società italiana urbana si sta modificando tuttavia e molto velocemente, ma non sembra essere fenomeno interessante per la stampa e l’editoria. Si preferisce promuovere altro, costruire finzioni surreali o di genere che non riescono manco a stare sul mercato come dovrebbero. E il lettore, che stupido non è, se ne accorge e va via, respinto dal sistema culturale dominante. Lo stesso avviene per le esposizioni d’arte, dove nel “nuovo” non si trova più stimolo allo scandaglio urbano, ma si importa il lavoro straniero, lo stile metropolitano straniero (emblematica la mostra romana di qualche mese fa dedicata all’arte contemporanea newyorkese) e lo si fa proprio. Questi sono i sintomi della decadenza irrefrenabile di città senza ambizioni, prese dal vortice autocentrato del proprio ombelico storico. Alcune risposte, però, ci sono, e vengono prima dalla critica, dopo dal racconto. Ecco, quindi, Christian Caliandro che nel suo ultimo illuminante saggio sulla cultura (Italia Revolution, Bompiani, 2013) intercala il racconto con medaglioni dedicati a L’Aquila, città terremotata e icona di un futuro orbo del passato. Lo stesso per il lavoro di Siti sul realismo, nel quale apprendiamo la difficile quanto utile impresa di fare realismo. Infine, nel penultimo numero di «AlfaBeta2», dove uno speciale dedicato a Taranto (che vede anche un nostro contributo intitolato Dal tramonto all’alba, dalla fabbrica alla città) prova a tracciare un discorso neo-realistico sulla prima e l’ultima città fordista del Sud. Non c’è ancora un sistema, ma la critica al sistema sta muovendo i primi passi nella giusta direzione, e non è un caso che, se si fa eccezione anagrafica per Siti, la proposta neo-realistica venga da pezzi di una generazione urbanizzata che ha abiurato l’autocompiacimento a vantaggio della ragione. Quel che sta avvenendo è un ritorno alla presa d’atto – prima nel cinema, poi nella critica, verrà sempre più nella narrativa – di quel che siamo: un Paese di città dove ciascun pezzo di società conserva almeno un racconto per l’avvenire.
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Racconto della crisi e crisi del racconto. Fra Portogallo e Italia di Marcello Sacco Forse anche alle nazioni si applica la catalogazione – imperfetta, ma tutto sommato comoda – per generi letterari: ce ne sono alcune decisamente poetiche, altre prevalentemente narrative, altre saggistiche. L’italiano che veniva a vivere in Portogallo, almeno fino a qualche anno fa, capiva subito di aver lasciato una nazione saggistica in cambio di una più incline a poesia e racconto. Da noi, per esempio, i palinsesti televisivi erano (e sono) pieni di dibattiti, anche fra scalmanati (le nazioni saggistiche non sono necessariamente sagge). Si litiga continuamente sulla politica, in Italia, e lo sappiamo; ma si discute anche la storia di ieri e dell’altroieri, terreno su cui, spesso, sia il cinema sia tanta editoria si addentrano con opere che saranno pure narrative, ma con taglio da inchiesta storico-giornalistica. In Portogallo, la cultura “bassa”, televisiva, era (e, in parte, lo è ancora) piena di telenovelas importate dal Brasile o di produzione autoctona; la cultura “alta”, quella del cinema tra i più impopolari, ma amato dai cinefili di tutto il mondo, vantava film come quelli di Manoel de Oliveira, spesso ispirati a romanzi trasposti sullo schermo attraverso lunghe inquadrature immobili e voci off che leggono quei libri quasi per intero (è il caso di Amore di perdizione, tratto da un romanzo ottocentesco di Camilo Castelo Branco, o Il giorno della disperazione, cronaca degli ultimi giorni di vita proprio di quel prolifico romanziere, che si apre con il falso movimento di un lunghissimo pianosequenza lirico su una ruota di carrozza).
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Venendo alla letteratura, almeno dai tempi di Moravia e Pasolini i romanzieri e/o poeti italiani raramente rinunciano alla possibilità di intervenire sull’attualità, da “corsari”, sui giornali o in Tv; né rinunciano a quello che un narratore come Gianni Celati definiva il “delirio di consapevolezza”, che nel nostro caso si manifesta con una parallela attività saggistica, spesso altrettanto popolare e capace di contaminare la scrittura narrativa stessa. Credo che certi casi letterari italiani degli ultimi decenni – da Calvino a Saviano, passando per Tabucchi e Baricco – pur nelle loro macroscopiche differenze rendano comunque l’idea di ciò che voglio dire. In Portogallo, al contrario (e la distinzone è per ora meramente di forma, non di merito), sui giornali è ancora in voga l’elzeviro o il pezzo narrativo “puro”, magari diaristico, autobiografico, sempre in prosa levigata e con personaggi reali, ritratti nell’intimità, o fittizi, da ritrovare nei libri pubblicati più tardi da quegli stessi autori. Ricordano un po’ quei “poeti in tempo di prosa” di cui parlava Almeida Garrett (1799-1854), scrittore guerrigliero che praticò tutti i generi alla moda nel suo tempo, ma ha lasciato la sua più viva testimonianza in un libro atipico come Viaggi nella mia terra, che oggi, forse, andrebbe imitato di meno e metabolizzato meglio. Un’eccezione notevole, fino a pochi anni fa, era Saramago. Veniva dal giornalismo e fino all’ultimo ha coltivato il gusto per la polemica, anche (lui, ultraottantenne) da blogger. Tuttavia, nelle sue opere letterarie, l’impronta dichiaratamente saggistica di un romanzo come Manuale di pittura e calligrafia, pur restando, si attenuerà negli anni. Questo lungo preambolo, prima di parlare del racconto della crisi in Portogallo, per dire che, a voler tentare una previsione non facile, una delle cose che la recente crisi portoghese (non solo economica) potrebbe trasformare radicalmente è proprio l’equilibrio all’interno di questo spazio (non solo letterario) appena descrit-
to. Il dibattito della crisi, insomma, non va confuso con la crisi del dibattito. Anzi, credo di poter dire, senza esagerare, che in Portogallo non si discuteva tanto da decenni. Per la prima volta, in televisione come al bar, il gran parlare di crisi, anche solo come gesto scaramantico, sembra aver persino soppiantato le chiacchiere sul calcio (almeno fino al prossimo mondiale o al prossimo “scudetto” al Benfica, che trasforma gli umori della capitale e irrora il resto del Paese attraverso vasi sanguigni ultimamente un po’ malconci anch’essi). Se in Italia il “reality”, da intendersi alla lettera (sebbene la “lettera” del “reale” sia assai discutibile) e non come teatrino dell’uomo della strada barricato in casa e accerchiato dalle telecamere del Grande fratello, aveva fatto irruzione in Tv sulla Rai 3 diretta da un saggista come Angelo Guglielmi – il quale, attraverso l’audiovisivo, provava a decostruire la narrativa tradizionale, continuando così, con altri mezzi, l’opera di demolizione avviata dalle neoavanguardie letterarie in cui aveva militato negli anni Sessanta –, in Portogallo quest’irruzione avviene quando, in prima serata, le televisioni sospendono la normale programmazione per trasmettere la conferenza stampa in cui ministra e sottosegretari delle Finanze presentano la nuova legge di bilancio per il 2014. È un’irruzione dall’alto, come un golpe di palazzo. Ma seguono discussioni fino a tarda notte, valido intrattenimento alternativo alla telenovela da noite. E per la prima volta anche nella storia del dibattito politico portoghese, che ai tempi della Rivoluzione dei garofani non era certamente blando (divenne proverbiale un faccia a faccia tra il socialista Soares e il comunista Cunhal, in cui si parlava di modelli di sviluppo e di governo, ideologie e giuste distanze fra USA e URSS), la lingua stessa oggi risulta profondamente cambiata. Si parla di spread, rating, swap, troika, bailout, IVA, aliquote, percentuali progressive, rimborsi in “duodecimi”, scadenze sugli interessi, scadenze sul ritorno ai mercati principali e secondari del debito, riscadenzamenti... Scadenza e decadenza generalizzata del tutto. Questa “neolingua” entra con una violenza inedita nei palinsesti televisivi, stravolgendo, per esempio, i telegiornali, che in Portogallo sono di una durata improponibile per qualunque altra televisione nazionale: contenitori di un’ora e più, che fino a poco tempo fa erano appunto “romanzeschi”, o meglio bozzettistici, alternando le notizie dal mondo con narrazioni locali ora dalla capitale di un piccolo Stato sempre un po’ dimenticato, ora dalla provincia più remota, dove i paesini si spopolavano già ben prima della crisi conclamata e un vecchietto poteva assurgere agli onori della cronaca per aver riparato il tetto sfondato di una masseria centenaria.
A sinistra – Torre di Belém, Lisbona (P). Sul Romanzo
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Con opinioni varie e più o meno condivisibili, ovviamente, questi esperti della neolingua e delle scienze economico-sociali, dagli schermi televisivi e dalle pagine dei giornali approdano in libreria. Ambiscono a raccontare un Paese diverso o forse a raccontare diversamente il Paese di sempre. Ecco allora che l’affermato commentatore televisivo pubblica Il mio programma di governo; il giovane giornalista stampa un libro sulla “casta” portoghese: I privilegiati; l’economista euroscettico ci spiega Perché dobbiamo uscire dall’Euro; il presidente di un’associazione civica per la trasparenza scrive e si chiede: Dalla corruzione alla crisi. Che fare?; mentre un altro giornalista gli fa eco con un’altra domanda: E ora?; e un noto opinionista conclude: Basta! Come a dire che anche gli scaffali delle librerie, con le loro copertine e titoli, raccontano e inscenano un dibattito a distanza che non conosce confini. E i romanzieri professionisti? Quelli che, pur giovani, sono già avanti nell’opera di edificazione di un articolato e personale universo poeticonarrativo verranno forse colti di sorpresa da una nazione che, all’improvviso, sembra esigere nuovi strumenti di lettura e di racconto. Probabilmente, in futuro, qualcosa cambierà. Qualcuno ci sta già provando. David Machado, giovane autore con laurea in economia, sembra fare il verso proprio al linguaggio degli economisti con il suo titolo più recente, Tasso medio di felicità; mentre un “portoghese d’America” come Richard Zimler abbandona gli scenari consueti dei suoi gialli storici per calare il plot di The Night Watchman nel Portogallo losco e corrotto del XXI secolo. Intanto, segnali di una contaminazione fra giornalismo e narrativa potrebbero rintracciarsi in autori che si dividono fra i due mestieri, ma li considerano ancora troppo spesso come lavoro e dopolavoro. L’ipotesi va rimandata a un’analisi più lenta.
citore nel 2011, e con Gabriela Ruivo Trindade, nel 2013, entrambi autori spinti verso gli ozi letterari (narrano le cronache) dal licenziamento e dalla disoccupazione. E questo è quanto riguarda gli autori più o meno giovani. Ma i giovanissimi? La generazione degli intellettuali di domani? Tempo fa ho seguito una troupe di giornalisti e operatori italiani che a Lisbona realizzava un reportage per un ciclo di documentari dal titolo: A different crisis. Durante le riprese di una manifestazione sindacale di professori, uno degli autori del documentario, Christian Elia, mi ha domandato: «E gli studenti? Non ne vedo». Tempo dopo, ho scoperto che aveva detto pressappoco la stessa cosa Jean-Paul Sartre, nel suo viaggio in Portogallo del ‘75, all’apice della rivoluzione. Gli studenti erano assenti o apatici. Anche nei mesi scorsi, mentre il governo annunciava in Tv l’ennesima finanziaria da macelleria sociale e i giornali riportavano il calo drammatico di iscrizioni all’università, per mancanza di soldi o di fiducia delle famiglie portoghesi, gli studenti più appariscenti erano ancora una volta quelli che – le facce variopinte, le gole incravattate e i corpi avvolti in spessi mantelli neri, come piombati da un altro secolo nella calda estate che si ostinava a non ritirarsi nemmeno a ottobre avanzato – aprivano l’Anno Accademico con i soliti rituali del “nonnismo” universitario tradizionale: scherzi, prove di forza o di fedeltà al gruppo e poi giochi, canti corali e birra nelle piazze fino a tarda notte. Forse solo una certa idea di “poesia” (“...che si fugge tuttavia...”) da opporre ostinatamente alla dura prosa dei tempi che corrono.
Naturalmente il grande scrittore non ha bisogno di stare incollato all’attualità; la letteratura ha bisogno di volare più alto. Ma se poi si va troppo in su e non si ha vista d’aquila, si rischia di restare a digiuno. I libri di Saramago col tempo si aprirono a una narratività più distesa in cui l’approccio diretto alla contemporaneità era mediato dalla trasposizione storica, come in Memoriale del convento, o da surreali metafore kafkiane, come in Cecità. Una lezione sempre stimolante, ma oggi ampiamente disattesa. Il rischio opposto è che la crisi diventi un best-seller, buono per insidiare il parabiblismo alla Dan Brown. Intanto, già invade l’ambito del paratesto, quando un premio letterario come il prestigioso Leya (100mila euro destinati a un romanzo inedito sottoposto anonimamente a una giuria di nomi famosi) diventa occasione per narrare, al di là dei contenuti del libro premiato, una storia di crisi a lieto fine. È avvenuto di recente con João Ricardo Pedro, vin-
A destra – Palácio Nacional de Mafra. Mafra (P). 82
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Mia cara figlia, noi non siam nati per quella che con vista miope consideriamo la nostra piccola, personale felicità, perché non siamo esseri staccati, indipendenti e autonomi, ma anelli di una catena [...] La tua vita, a mio parere, è già chiaramente e nettamente tracciata da parecchie settimane, e non saresti mia figlia, non saresti nipote di tuo nonno che riposa in Dio, non saresti addirittura un degno membro della nostra famiglia se pensassi sul serio, tu sola, di seguire con caparbietà e sventatezza una tua strada irregolare e arbitraria.
Thomas Mann, I Buddenbrook: decadenza di una famiglia, 1901. Saturno che divora suo figlio, Pieter Paul Rubens, 1636-1638. Museo del Prado, Madrid (E).
Webzine – Anno 3, n° 6 – Dicembre 2013
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