Sul Romanzo, Speciale Premio Campiello 2015

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premio campiello

Confindustria Veneto

campiello opera prima

Campiello Giovani


Ci prenderemo cura del tuo manoscritto fino alla pubblicazione.

Per saperne di pi첫 scrivi a: info@sulromanzo.it

Immagine di Eduardo Sch채fer

Valutazione inediti e rappresentanza


I n t e rv i s ta a Roberto Zuccato Presidente di Confindustria Veneto e della Fondazione Il Campiello

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P r e m i o C a m pi e l l o La pubblicazione raccoglie le interviste realizzate da Sul Romanzo ai finalisti del Premio Campiello 2015 nell’ambito dello speciale apparso sul nostro blog. Roberto Zuccato, Presidente di Confindustria Veneto e della Fondazione Il Campiello, ci racconta cosa rappresenta il Premio Campiello per la letteratura e la cultura italiane. Marco Balzano, Paolo Colagrande, Vittorio Giacopini, Carmen Pellegrino e Antonio Scurati ci raccontano i loro romanzi e ci parlano delle loro sensazioni in vista della serata finale del 12 settembre. Clelia Attanasio, Anja Boato, Eva Mascolino, Loreta Minutilli e Gabriele Terranova ci parlano dei loro racconti e della loro emozione nel trovarsi, per la prima volta, in una finale così importante. Personalità molto diverse tra loro ci accompagnano in un percorso variegato nella letteratura e nella scrittura.

Marco Balzano L'ultimo arrivato

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Paolo Colagrande, Senti le rane

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Vittorio Giacopini, La mappa

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Carmen Pellegrino, Cade la terra

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Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita

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C a m pi e l l o O p e r a P r i m a Enrico Ianniello, La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin

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C a m pi e l l o G i o va n i Clelia Attanasio, Fuoco

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Direttore Morgan Palmas info@sulromanzo.it Project Manager Gerardo Perrotta Art Director Daniele Vignato Redazione Alberto Carollo, Sara Minervini, Elena Spadiliero, Annamaria Trevale, Marcella Valbusa.

Anja Boato, Amélie fu

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Eva Mascolino, Je suis Charlie

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Loreta Minutilli, L'universo accanto

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Gabriele Terranova, Miseria

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Intervista a

Roberto Zuccato Presidente di Confindustria Veneto e della Fondazione Il Campiello

di Alberto Carollo Dott. Zuccato, cosa rappresenta il Premio Campiello per lei e come si lega alla sua storia privata, indipendentemente dal suo attuale ruolo di Presidente di Confindustria Veneto? Seguo da diversi anni il Campiello, in particolare da quando ero Presidente di Confindustria Vicenza. L’ho sempre sentito vicino al mio modo di pensare e di fare come imprenditore, infatti l’attenzione per la cultura è uno degli elementi vincenti della mia azienda. Confindustria Veneto e il Premio Campiello: perché l’imprenditoria veneta continua a scegliere di investire sulla letteratura? Crediamo che per essere competitivi e vincenti sui mercati, per avere una visione e trasmettere qualità ai prodotti, la cultura – che è nel DNA di un Paese straordinario come l’Italia – giochi un ruolo decisivo. Questo connubio permette inoltre alle imprese di restituire al nostro territorio quello che riceviamo in termini di sapere e patrimonio culturale. Questo l’impegno di Confindustria Veneto con il Campiello, che ormai si protrae da 53 anni. Il nostro premio è particolarmente significativo perché non solo premia il libro migliore scelto dai lettori, ma anche perché promuove la letteratura in tutta Italia. Con gli incontri itineranti dei finalisti del Campiello ogni anno siamo presenti in molte città, quest’anno 12, e stiamo registrando una grande risposta di pubblico. Queste piazze ci seguono sempre con entusiasmo – penso, ad esempio, a Catania, dove l’anno scorso al Palazzo della Cultura hanno partecipato 630 persone. Ci gratifica vedere come il Campiello, un premio trasparente, stia sempre più conquistando il cuore dei lettori e la sua credibilità cresca ogni anno.

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Speciale Premio Campiello 2015

Come accennava poco fa, questa è l’edizione n. 53 del Premio Campiello. Cosa vuol dire attraversare un cinquantennio di storia italiana? È un risultato importante. La pubblicazione che abbiamo realizzato in occasione dei 50 anni del premio è un libro splendido, dove si ripercorre la Storia dell’Italia. A ogni anno abbiamo dedicato 4 pagine, 2 che raccontano l’Italia dell’epoca e 2 che raccontano il Campiello di quell’edizione. È molto interessante leggere cosa succedeva nel Paese, come il Premio cambiava negli anni e come si modificava anche la nostra organizzazione. C’è stata infatti una grande evoluzione di Confindustria nello strutturare e presentare il Campiello. Ma è rimasta una matrice forte: Venezia. Il Premio ha le sue radici qui, tra Palazzo Ducale e il Teatro La Fenice. L’Avv. Valeri Manera, promotore del Premio, amava ripetere come uno dei punti di forza del Campiello derivasse dalla selezione affidata a una doppia giuria, quella tecnica per la definizione della cinquina finalista e quella popolare dei trecento lettori anonimi per la proclamazione del vincitore assoluto. Secondo lei, quali sono gli elementi che hanno consentito al Premio di veder crescere la sua importanza con il passare degli anni? È solo una questione di tradizione, oppure c’è anche altro? La forza di questo Premio sono la trasparenza e la sua non-condizionabilità. A differenza di altri premi le case editrici non possono intervenire. Abbiamo questa doppia giuria, come lei ha ricordato, la prima formata da 10 letterati più un Presidente che cercano, con una votazione trasparente – raccolta ogni anno a Palazzo del Bo di Padova –, di promuovere e selezionare, ognuno

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con le proprie simpatie, gusti e caratteristiche, il testo migliore, in una sequenza che porta poi alla selezione della cinquina. Devo dire che ho anche verificato la correttezza dei giurati: quest’anno mancano delle case editrici importanti e alcuni di loro scrivono proprio per queste case editrici, perciò è un altro bel segnale che rincuora e dimostra che prevale sempre il giudizio riguardo al valore del libro. Poi, nella fase successiva, i 300 lettori cambiano ogni anno, possono ricoprire questo ruolo una volta soltanto nella vita. Vengono selezionati su tutto il territorio nazionale in base alle diverse categorie sociali e professionali e i loro nomi rimangono segreti fino alla serata finale. Il giudizio dei lettori è insindacabile e anche noi scopriamo durante la serata finale chi è il vincitore. Il voto arriva al notaio in busta chiusa, il quale la apre proprio quella sera. L’emozione è forte. Come per tutti i Premi (non solo letterari), ogni edizione si accompagna sempre a nuove polemiche che possono riguardare presunti giochi editoriali o la scelta dei libri. Al di là di tutto questo, se dovesse fare un bilancio della storia del Premio Campiello, cosa segnalerebbe? Di importante in un Premio come il Campiello ci sono la crescita costante e la presenza sul territorio. La giuria dei letterati seleziona i 5 libri, poi il successo del Premio, anche durante il tour con i finalisti, dipende dalla qualità degli scrittori e delle opere. Avere una certa cinquina di autori fa sì che anche nelle città dove il Premio approda si crei una certa vivacità. Vediamo che ogni anno tutto questo esercita un diverso appeal; quello che mi dà più soddisfazione è vedere che di città in città gli scrittori vengono riconosciuti e apprezzati, così come il nostro Premio per la sua trasparenza. È un segnale forte e di gratitudine. Siamo tutti imprenditori impegnati con le nostre aziende e prestiamo con grande passione e gioia questo servizio al Campiello e a Confindustria Veneto. In tutti i discorsi ufficiali legati al Premio Campiello, lei insiste molto sul valore e sull’importanza della cultura. Quant’è importante, anche in un momento di crisi, continuare a puntare sulla propria formazione? Noi non possiamo più competere nel mondo con le quantità, come abbiamo fatto in passato, cioè esser stati fornitori di componentistica e di prodotti che non avessero contenuto innovativo. Oggi questi prodotti li fa qualcun altro. Perché il Veneto è ripartito prima di altri? Perché ha saputo ripensarsi. Ora i

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prodotti che intercettano la domanda più lontana, ma anche la più difficile, sono quei prodotti che hanno un valore aggiunto. Questo plusvalore deve essere ricercato anche nel fare impresa. E tutto deriva dalla cultura. Nel realizzare i miei prodotti discuto con gli architetti e i clienti delle varie parti del mondo, per fare emergere la cultura di provenienza, per far capire che un prodotto non nasce per caso, ma ha alle spalle una certa storia, bellezza. Dietro c’è quindi un disegno. Chi percepisce questo italian style poi ne rimane affascinato per tutta la vita. E per fornire un prodotto vincente dobbiamo soprattutto investire in persone di qualità e alte competenze. Quanto tempo riesce a ritagliare per la lettura, nonostante i suoi numerosi impegni? E cosa preferisce leggere? Ho già risposto a una domanda simile che mi ha posto «Il Corriere della Sera» lo scorso anno, ma non sono stato del tutto preciso. Io leggo tutti i giorni, per lavoro devo leggere tantissimo i quotidiani, qualche periodico, ma ho anche 5 libri sul mio comodino. Le mie giornate sono fitte di impegni, leggo quando posso, con grande passione. In qualche fine settimana riesco a immergermi nella lettura per 5-6 ore di continuo, sicuramente mi ci dedico durante l’estate. Ho una predilezione per la saggistica, per via del mio ruolo, e per quel che riguarda la narrativa mi rifugio nel Campiello. Ho già deciso quale libro di questa cinquina leggerò per primo.

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Marco Balzano,

L'ultimo arrivato

di Morgan Palmas L’ultimo arrivato (edito da Sellerio) tocca un aspetto che sembra essere stato rimosso dalla coscienza collettiva dell’Italia: le migrazioni dei bambini dal Meridione al Nord tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del Novecento. Quanto conta in questo romanzo la necessità della memoria, intesa sia sul piano del ricordo del singolo sia su quello più collettivo del fare i conti con la Storia? La memoria, in senso letterario, non può mai esaurirsi nel puro ricordo del singolo. Quello che può interessare al lettore è la connessione che in una storia si stabilisce tra memoria individuale e memoria collettiva. Per questo romanzo sono partito da un tema preciso, l’emigrazione infantile, e ho poi cercato di ricreare gli ambienti, la lingua e le dinamiche che scattano in un bambino che sbarca in una metropoli, che in questo caso è Milano, la città dove vivo e che conosco meglio. Su questo scenario storicamente attendibile e dallo sviluppo di un fenomeno storico certamente poco dibattuto ho provato a dare vita al personaggio di Ninetto, che però non è la sintesi né delle parole degli intervistati né, tanto meno, dell’individuo tipo che ha vissuto quell’esperienza. È un personaggio da romanzo, con i suoi limiti, i suoi pregiudizi e con un gusto tutto particolare per la parola. Le prime pagine del romanzo raccontano della vita di Ninetto (detto Pelleossa) in Sicilia. L’approccio e lo stile di questa parte del racconto hanno subito un po’ il fascino della letteratura verista, pensando ad esempio a Verga e alle sue novelle? Nel romanzo non c’è l’uso del discorso indiretto libero, né la voce arriva da una comunità giudicante

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come accade nel più noto Verga verista, che per altro è un autore che ho sempre amato e che rileggo spesso. Non c’è racconto in terza persona e anche l’uso del dialetto è ridotto all’osso: infatti solo cinque o sei parole sopravvivono nella lingua di Ninetto, che mescola cadenze del dialetto di origine con quella milanese (l’articolo davanti ai nomi propri, per esempio). Dunque, non c’è un’applicazione del canone verista. Se però per verismo intendiamo una narrazione che vuole presentare e discutere una realtà storica relativamente recente senza giudicarla dal punto di vista morale, allora un’influenza, per quanto sui generis, mi pare che ci possa essere. A quasi 60 anni, Ninetto si ritrova a vivere una nuova difficoltà, quella del rientro nel mondo del lavoro. Quanto ha inciso nella connotazione di questa parte del romanzo la situazione dei tanti over 50 che oggi, in pieno periodo di crisi, si ritrovano senza lavoro? Molto. Ninetto esce dal carcere a 57 anni e non ha più il suo posto di lavoro perché nel frattempo lo stabilimento di Arese dell’Alfa Romeo ha chiuso i battenti. Così prova a rimettersi in pista, ma ovviamente non è facile. E come potrebbe esserlo? Per giunta lui ha in tasca solo la terza media e un’unica esperienza professionale, quella di operaio in catena di montaggio. Rimettersi in gioco è oggettivamente difficile e il passare del tempo e la crisi, va da sé, non aiutano. Però è proprio da questo estenuante tentativo di ricominciare che Ninetto finirà per fare incontri interessanti: si imbatterà a chiedere lavoro a una pizzeria gestita da egiziani e ad aiutare due giovanissimi ragazzi cinesi che lavorano nel bar di fronte casa sua, in piena periferia di Milano. Sarà

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un modo per problematizzare, seppure in maniera assolutamente soggettiva e parziale, alcuni suoi pregiudizi sugli emigranti. Cosa può raccontare Ninetto a un ragazzino del 2015? Ho presentato questo libro in molte scuole e i ragazzi erano quasi sempre stupiti nell’apprendere che questi fatti e queste vite non appartengono a un passato remoto ma sono ancora una questione della storia recente. Meravigliati nel sapere che uomini come Ninetto sono ancora vivi e vegeti e dunque rappresentanti a pienissimo titolo del nostro presente. Credo che per loro sia stata una scoperta interessante. La velocità della comunicazione e della vita di oggi tendono a dare, ancora più a un adolescente, la falsa illusione che tutto ciò che è diverso da noi sia molto più lontano nel tempo di quanto lo sia effettivamente. In molte interviste, ha insistito sull’importanza della scuola nella formazione dei giovani. A questo proposito, spero ci perdonerà la domanda un po’ provocatoria: ritiene anche lei, come Paolo Crepet, che una buona dose di responsabilità nel caso Maurantonio sia da attribuire agli insegnanti? La domanda è in effetti provocatoria. Premetto che non conosco l’opinione di Crepet in merito e dunque non so perché attribuisca responsabilità agli insegnanti. Bisognerebbe conoscere bene i fatti per pronunciarsi su una questione così delicata, e io i fatti non li conosco con quella profondità. Ho solo osservato che molti di quelli che hanno parlato avrebbero potuto

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stare più zitti e molti di quelli che avrebbero dovuto parlare non lo hanno fatto. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015? Sono contento di fare questa tournée insieme agli altri finalisti in giro per l’Italia. Quando le parole portano persone mi sento sempre fortunato. L’atteggiamento è sereno – anche se non è la parola che meglio descrive il mio carattere – e senza complessi di inferiorità.

Marco Balzano Nato a Milano nel 1978, dove lavora come insegnante di liceo. Il suo esordio risale al 2007 con la raccolta di poesie Particolari in controsenso, con cui si è aggiudicato il Premio Gozzano. Nel 2008 si è aggiudicato il Premio Centro Nazionale di Studi Leopardiani con I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo, edito da Marsilio. Il figlio del figlio (Avagliano), vincitore del Premio Corrado Alvaro Opera prima nel 2012, segna il suo esordio nella narrativa. Con Sellerio, ha pubblicato anche Pronti a tutte le partenze.

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Paolo Colagrande,

Senti le rane

di Gerardo Perrotta Una delle caratteristiche peculiari di Senti le rane (edito da Nottetempo) è la presenza di ampie digressioni, quasi ruscelli che vanno ad alimentare il letto del racconto principale. Fino a quale misura è possibile sostenere che la struttura del romanzo è stata pensata proprio per rappresentare la vita con il suo fluire solo apparentemente lineare? Non c’è un progetto nella struttura del romanzo, credo che sia sempre la storia a suggerire ritmi, cadenze, voci, ma anche pause e parentesi, deviazioni e inciampi, e a segnare una strada. Scrivere oggi in forma narrativa è quasi impossibile, se si vuol fare a ogni costo un romanzo di taglio ed espressione diciamo tradizionali, con una voce che costruisce una trama, episodio su episodio, in sequenza coerente, senza mai spostare l’attenzione dai personaggi e dalla scena. Il mondo è ormai già tutto visto e conosciuto, esplorato nel particolare, misurato al millimetro, i narratori hanno già visitato tutti i possibili panorami, da un polo all’altro, nature benigne e nature maligne, mamme matrigne e babbi padroni; c’è un nome e una metafora per ogni gradazione di colore, odore, sapore e sentimento; forse c’è già un nome e un cognome per ogni faccia; le figure retoriche sono tutte certificate in semilavorati perfetti, e anche le parole sono in esaurimento. Il mondo, perché sia reso ancora visibile fuori dagli schemi dall’abitudine – e quindi perché sia meritevole di una storia –, deve essere lasciato muovere per conto suo, senza narratori fuori campo a guidarlo e descriverlo, ma magari con una voce più tattile, soggettiva e stonata, un cantastorie irregolare che si presenta e si mischia nelle cose che racconta e che proprio per questo vale la pena di ascoltare, con tutti i suoi difetti. Non voglio essere dogmatico ma credo che nella pura fisicità, storta e dispersiva, del mondo e di chi ci abita, ci sia molta poesia. La storia di Zuckermann può essere raccontata solo così. Le divagazioni diventano un punto naturale di

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stabilità: declinazioni del carattere o della mentalità di chi parla, e al tempo stesso pezzi avulsi che fanno capire meglio di chi e di che cosa si sta parlando. «Il corpo umano, già in fase statica, è un impasto di sproporzioni e disarmonie. In fase dinamica poi, salvando qualche meccanismo secondario, il corpo umano è confuso: come se qualcosa dentro di lui continuasse a muoversi e protestare». Questa citazione, posta quasi all’inizio del libro, può essere considerata paradigmatica dell’intera vicenda narrata? Direi di sì, anche se non c’è nessun intento didattico. Che il corpo umano sia un impianto viziato sia in fase statica che in fase dinamica è un dato evidente e scientificamente certo, e possiamo dire che questo difetto di fabbrica sia anche il più sicuro punto di appoggio, di applicazione (quello della famosa leva di Archimede), che sostituisce quello più fragile del modello vitruviano, dove l’uomo è in stima di perfezione e, per giunta, misura di tutto ciò che gli sta intorno. Eliminando una volta per tutte l’uomo vitruviano dalle nostre categorie e dai nostri programmi, ritroviamo l’energia dell’uomo normale, interessantissimo perché di energia ne ha poca, e si presta bene alle sue piccole storie. I personaggi di Senti le rane si muovono nella loro personale e insostituibile mediocrità: possono anche cadere nella tentazione di voler essere eroi ma non reggono il compito, perché è il loro corpo che si ribella e protesta. Il racconto ha inizio con l’uscita di scena di Zuckermann, di cui Gerasim e Sogliani racconteranno la storia in sua assenza. Un modo per rinunciare alla presenza di un vero protagonista?

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Una rinuncia che non mi costa niente: considero il protagonista un prodotto di sintesi, un malinteso letterario, distante da quel mondo fisico che dicevo prima. Zuckermann vorrebbe essere protagonista, perché nasce con l’investitura di santo, che in qualche modo recepisce e interiorizza, ma non ce la fa: la stessa stima di santo non è credibile per definizione, infatti si sbugiarda presto. E comunque ci sono sempre Gerasim e Sogliani a tenere il volo rasoterra. La strofa del canto ebraico, liberamente tradotta e messa in esergo, credo indichi la giusta unità di calcolo, che toglie autorità a qualunque aspirante protagonista: «Ma piantala di compatirti / gli dice il contadino / te l’han detto che sei un capro? / ce le hai le ali per volare / libero e sfacciato come una rondine?». La tesi di partenza della chiacchierata tra Gerasim e Sogliani è «che il male dorme nascosto negli esseri umani normali o anche virtuosi»: un ammonimento al lettore a guardare dentro di sé prima di esprimere un qualsiasi giudizio su Zuckermann? È più una presa d’atto. Non c’è intento didattico. La conclusione che anticipa le premesse, seguendo un metodo cartesiano rovesciato, che a Gerasim e Sogliani riesce naturale. Che il male riposi anche negli animi eletti è ormai un dato d’esperienza, prima ancora che un dilemma sociologico. Poi chi ascolta, e legge la storia, è libero di giudicare Zuckermann come vuole: il giudicare liberamente, anche con una certa dose di arbitrio, rientra nel fair play del tavolo da trattoria, che non mette limiti deontologici al contraddittorio. C’è posto anche per moralismi radicali, purché espressi con sincerità: del resto Zuckermann è un prete che cade in tentazione subito, alla prima prova. Quindi deve aspettarselo. Nel romanzo si parla spesso di malinconia. Cos’è la malinconia per Paolo Colagrande? Una condizione di base: la pagina (o la tela o la quinta) da riempire con tutto quello che si può e che si trova. Dove la pagina resta bianca riaffiora la malinconia. Per questo non bisognerebbe mai lasciare spazi vuoti. Nel romanzo, Gerasim cita a modo suo i monaci anacoreti che, timorosi della loro condizione umana fisiologicamente incline alle tentazioni, si ritirano dal mondo, per vivere in verginale grazia di dio. Ma fuori dal mondo non trovano la grazia di dio, trovano la pagina bianca, che nel lessico cristiano diventa accidia, vuoto corruttore, quindi peccato mortale, più mortale delle tentazioni da cui si scappa. La malinconia è anche quel margine confuso e disgregato in cui l’antilope e lo gnu (cito sempre Gerasim) avvertono la presenza del giaguaro, in agguato da un punto che la

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paura non vede; ed è proprio in quello spazio incolore, stretto e rapidissimo, che il giaguaro intercetta lo spaesamento della preda, le salta addosso e la sbrana. Una cosa del genere, fuori dalle metafore sgangherate dei narratori, succede a Zuckermann. E gli potrebbero far compagnia milioni di persone, quindi non parlo solo per me. Cosa sia veramente la malinconia, dove sia di preciso, perché ci sia e come si alimenti, non si sa. Ma è sempre nei paraggi. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015? Credo che mi troverò a farmi questa domanda la vigilia, o la sera stessa, con il rimpianto di non averci pensato prima e di non essermi preparato. Tra poco però comincia un tour bellissimo: mi preparo a quello, cioè preparo le valigie. Sempre all’ultimo giorno e in ritardo, lo so già.

Paolo Colagrande Nato a Piacenza nel 1960, ha esordito nel 2007 con Fìdeg, edita da Alet, aggiudicandosi il Premio Campiello Opera Prima. L’anno successivo, ha pubblicato Kammerspiel, sempre per Alet, mentre nel 2010 dà alle stampe Dioblù per Rizzoli. Suoi racconti sono apparsi sulla rivista «Linus».

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Vittorio Giacopini,

La mappa

di Sara Minervini e Gerardo Perrotta Così vicine eppure così lontane: ecco come si rivelano la Storia e la geografia ne La mappa di Vittorio Giacopini, tra i cinque finalisti del Premio Campiello 2015. E rivelandosi si dissolvono, smascherando l’inganno che ciascuna perpetua nei confronti dell’altra e del mondo. Tutto è percezione, il vissuto è uno stato, un’occasione, un pretesto strettamente influenzato da un fitto sistema di variabili psicologiche, materiali, sociali, individuali, all’interno delle quali la Storia scritta e la geografia descritta (o descrittiva) ricoprono un ruolo marginale, come la realtà e la finzione all’interno di un romanzo ché sovrapponendosi si elidono e tutto è consegnato all’interpretazione del singolo lettore. Ed ecco che ciò che per definizione dovrebbe essere universale e plurale si riduce all’esplorazione dell’oggetto, sempre e comunque parziale, da parte del soggetto-uomo. Non a caso, Serge Victor, il protagonista di questo romanzo, è un cartografo al seguito di Napoleone, lo stesso Napoleone che voleva ridisegnare i confini dell’Europa mentre Serge vuole tracciare, delineare, riprodurre attraverso un disegno peculiare, quale quello cartografico, la forma di quella nuova realtà. Entrambi falliscono: è dunque la realtà a fallire? Quella realtà che l’illuminismo aveva pensato di assoggettare attraverso il trionfo della ragione? A queste e ad altre domande ha risposto l’autore nell'intervista. Qual è il vero protagonista de La mappa (edito da il Saggiatore)? L’illuminista Serge Victor, la storia priva di disegno razionale, Napoleone, il sogno di concretizzare l’ordine perfetto disegnato nella mappa? La domanda è giustissima, e sorprendente. Ma è vero: fuori da uno schema romanzesco lineare, ne La mappa ho cercato di lavorare su un intreccio di piani e di ordini di questioni, e di passioni. In questo libro, ma credo in tutta la mia narrativa, la parola chiave è “attorno”. Ciò

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che sta attorno ai singoli, l’interdipendenza delle vicende individuali, il rapporto tra individuo e società, tra individuo e paesaggio, e il gioco di specchi tra illusioni, idee, motivazioni, lo scarto tra ciò che si programma e ciò che succede. Così, Serge è protagonista nei termini in cui è attraversato dal mondo, e dalla storia. Il libro si può leggere su diversi livelli ma senz’altro un piano essenziale è quello del progressivo fallire della visione illuministica e cartografica di Serge, di questo suo sogno di dare ordine alle cose del mondo, all’orizzonte. Una visione – la sua – che la storia si incarica di smentire. D’altra parte è anche vero che la storia-Napoleone, l’histoire-bataille, o insomma quell’idea tutta hegeliana di una storia razionale, con un senso, un piano, una direzione, fallisce lei stessa. Nel romanzo, e – credo – nella realtà. Così la vicenda di Serge è anche una controstoria, o una sotto-storia. Forse potremmo dire che il vero protagonista del romanzo è quello che un grande saggista come Nicola Chiaromonte, parlando di Tolstoj, ha definito “il paradosso della storia”. Ma La mappa è un romanzo e in quanto tale vive di ambiguità, inganni, abbagli, di una certa dose di impostura, e – naturalmente – di sorprese, imprevisti, colpi di scena. Alla figura di Serge sembra contrapporsi quella dell’amata Zoraide, Maga e artista di strada, zingara in continuo movimento. L’eterno rapporto tra l’ordine e il caos, tra la ragione e l’irrazionale? Il tema del passaggio da un ordine, da una spiegazione del mondo a un altro ordine (o disordine) e a un’altra, o meglio, ad altre spiegazioni, è fondamentale. Ma non è questione di contrapposizione tra razionale e irrazionale. Serge, Zoraide, l’emaciato poeta, il pretesco Saliceti, i fratelli Korbes e, suvvia, lo stesso Napoleone, hanno il discutibile privilegio di vivere su un crinale del tempo, e in un passaggio. Anche storicamente siamo in quel

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luogo dei tempi che vede il razionalismo illuminista cedere campo alle ombre, alle passioni, alle speranze e alle fole e alle fiabe del romanticismo. Zoraide – oltre a essere oggetto del desiderio, e donna amata – è per Serge l’incidente, il felice incidente che per primo non tanto contraddice quanto relativizza il suo rigoroso sistema di pensiero. Lui, abituato a guardare tutto come “se si fosse per aria”, è invischiato, radicato, in altri strati di sogno e di pensiero. Ma anche qui, quel che conta è il contesto, quanto sta attorno. Nell’amore tra Serge e la Maga c’è la passione ma anche una fissità da minuetto settecentesco. La loro “passione” la tratto con ironia, per così dire. Saranno altri i soggetti che poi faranno deflagrare il sistema di pensiero cartografico di Serge. La violenza della Storia, la politica, Napoleone, e l’altra ragione incarnata dai fratelli Korbes (ovvia caricatura dei Grimm). Ma non è irrazionale: è un’altra ragione. Siamo, lo ripeto, in piena dialettica dell’illuminismo. E i Korbes confutano la freddezza illuministica di Serge tanto quanto la hybris politica e storica di Napoleone. Tutto è fiaba, dicono, anche la storia è fiaba, tutto – ogni cosa che accade – è una “filastrocca di bugie”. Naturalmente, come pensa Serge, “sono pazzi”. Ma pazzi… a metà. D’altronde la narrativa ha questo vantaggio: può molto onestamente riconoscere legittimità sia alle percezioni ordinarie che alle allucinazioni. È il suo bello.

istanti impossibili... Insomma, La mappa più che un romanzo storico vuole essere un requiem per il romanzo storico perché il suo tema più forte sono i diversi codici di fallimento di varie forme di razionalità (storica, cartografica, politica, persino poetica, volendo).

Secondo alcuni critici, con La mappa lei avrebbe sancito la sconfitta del romanzo storico nella sua impossibilità a raccontare il reale. È d’accordo con questa posizione? E in quale misura?

Colpisce molto lo stile, con un linguaggio ricercato e raffinato, per il quale ha dichiarato di essersi ispirato ai quattro volumi del Dizionario di Tommaseo, sebbene questo sia successivo alla vicenda narrata. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a questa scelta linguistica e a supportarla tramite un anacronismo?

Mettiamola più semplicemente: La mappa è un romanzo sul tema – e sui paradossi – della Storia; non è, e non vuole essere, un romanzo storico. La grande storia universale che Serge si trova prima a vivere con entusiasmo e poi a subire nel corso del romanzo finisce per essere destrutturata, rivela le sue ambiguità, le infinite doppiezze, i suoi chiaroscuri e non a caso, verso la fine, io mi impegno a far saltare le apparenze: la vicenda napoleonica diventa un “gioco dell’oca”, la grande battaglia di Waterloo è solo la messa in scena di un “Panorama”, la storia naturale – coi sui tempi fermi e lenti, immemorabili – mette in secondo piano i trattati, gli accordi, le guerre, le battaglie. Ma insomma, non si tratta di “impossibilità a raccontare il reale del romanzo storico”; la questione è che ogni romanzo deve affrontare la storia, e questo sia che parli di oggi sia che parli di ieri o dell’altro ieri. Il romanziere – per usare una formula – è una sorta di “storico degli atti mancati”: racconta quanto è accaduto ma anche, e soprattutto, illumina quegli istanti in cui la storia, la vita associata, le nostre vite, avrebbero potuto prendere una strada diversa e non l’hanno presa. E, come diceva Benjamin: «l’istante è tutto», anche se parliamo di

Lo stile, la lingua, restano la questione delle questioni. Più uno inventa più uno ha la responsabilità di usare e creare un linguaggio che in sé sia in grado di dare una forma diversa al mondo. A quello vero come a quello soltanto sognato, o immaginato. In altri libri che ho scritto – un paio di cose sul jazz, per dire – questo tipo di lavoro stilistico era affidato sostanzialmente al ritmo della prosa, ai tempi, alla musicalità. In questo caso si trattava di trovare una lingua che costruisse distanza, che imponesse “estraniamento” ma evitando, evitando a tutti i costi il “manierismo”. In qualche modo il mio compito era immaginare una vicenda e provare a dirla con una voce che sabotasse sistematicamente il linguaggio che mi veniva naturale. Ma questo senza nessun mimetismo verso una fantomatica lingua dell’epoca. Ovvio, nel libro ci sono passi dove, per esempio, l’emaciato poeta parla con la voce di Foscolo (e Zoraide con quella di Leopardi) ma il “gioco linguistico” da imbastire era più complesso e lo scarto temporale tra l’epoca dei fatti e il più tardo Dizionario di Tommaseo poteva servire. D’altra parte, del resto, nel libro tutto la terminologia tecnica legata alla cartografia è invece precedente, perché era una terminologia

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già codificata, già definita. La Lingua della Mappa (e un po’ tutto in questo libro) nasce da un intreccio di piani, e di livelli. Ma è così che, credo, si debba lavorare. Mettiamola così: perché dovrei infliggere storie inventate da me alla gente? Penso che la legittimità di uno scrittore che spaccia le sue personali fantasie sia creata dalla sua capacità di creare una “lingua”. Insomma, lo stile è tutto e non da un punto di vista estetico. Fosse solo estetica, sarebbe, temo, manierismo. Questo tema della lingua lo sento in modo esasperato adesso che sto scrivendo una storia tutta al presente. L’idea è raccontare Roma tra gli anni Settanta e il presente: il rischio di scadere nelle memorie preconfezioniate, nel wikipedismo, nel linguaggio giornalistico è enorme. Così, paradossalmente, il massimo di sforzo e invenzione linguistica devono essere messi in campo proprio quando si parla dell’oggi. Il passato crea distanza anche grazie al diaframma del tempo. Il presente è un campo minato che va “detto” con un’altra lingua. È faticoso e anche molto divertente. Cerco di scrivere un romanzo su Roma e sulla scrivania ho manuali di ornitologia, ritagli del Messaggero, dell’Unità, la Divina Commedia, l’Ulisse di Joyce, Gadda, i risultati delle corse dei cani al Cinodromo negli anni Ottanta, il Manuale di Unabomber, un dizionario di romanesco e naturalmente – ancora – il Tommaseo! La letteratura è una diavoleria. In occasione dell’uscita dell’altro suo romanzo, Nello specchio di Cagliostro, lei ha affermato che «gli scrittori di professione mi fanno pena: devono andare in giro, presentare, promuoversi su Twitter», riferendosi forse al fatto che la professione dello scrittore oggi sembra appiattita su unico fine: vendere. Ma è ancora possibile, data l’attuale configurazione del mercato editoriale, scrivere senza preoccuparsi anche di vendere? No, figuriamoci. Era una battuta e vendere o non vendere non c’entra nulla. Data la situazione del mercato editoriale, anzi, credo proprio che una certa editoria debba provare a vendere di più. La sopravvivenza di un’editoria davvero indipendente è fondamentale per il nostro ecosistema mentale e, anzi, la cinquina del Campiello è straordinaria in questo senso, è davvero un segnale importante. In quell’intervista non mi riferivo al fine, in sé neutro, di vendere, quanto a un certo “spettacolarizzarsi” della figura dello scrittore. Non sarà un caso se ormai scrivono cantanti, personaggi tv, eccetera eccetera. Io credo che il compito di uno scrittore sia inventare mondi, dire mondi, contestare mondi. Questo, non altro. Anni fa ho scritto un romanzo sullo scrittore-fantasma per eccellenza, B. Traven: milioni di copie vendute e perfetto anonimato… un mix che secondo me ha parecchio da dire, ancora oggi (e più che alla Ferrante penso a un

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personaggio straordinario come il Von Archimboldi di Bolaño: ecco, il nodo è cercare nell’anonimato il segreto della scrittura). Poi, forse di pena per gli scrittori di professione si può anche parlare, ma in un altro senso. Se vivi solo di quel che scrivi sei costretto a tenere ritmi produttivi magari innaturali, o – peggio – a trasformarti in “opinionista” sui giornali. L’opinionismo degli scrittori-grilli-parlanti è uno dei mali di questo tempo, di questo clima, di questa cultura. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015? Mah? E cosa posso dirle? Mi preparo, non mi preparo. Bè, insomma, faccio le cose che faccio sempre. Ci sarà da andare un po’ in giro e spero sia un’esperienza divertente. E in ogni caso, io adoro Venezia, già il solo fatto di “doverci” andare mi mette una grande e un po’ etilica allegria. Poi, andrà come andrà. Per me, per il Saggiatore, credo che già questa cinquina sia importante. La casa editrice ha iniziato un progetto sulla narrativa italiana da poco tempo ma con grande lucidità (e, aggiungo, intransigenza): riuscire a entrare nella finale di un grande premio, e di un premio “serio” in cui i giochi delle superpotenze editoriali a quanto pare non contano granché, è un ottimo segno. Mi sembra un riconoscimento non tanto a me e al mio romanzo ma al lavoro di chi sta pensando la narrativa al Saggiatore: Giuseppe Genna, Andrea Gentile, Ferruccio Parazzoli, Luca Formenton ma insomma… tutti. La letteratura è un fatto individuale solo durante il tempo in cui uno se ne sta lì al tavolino a scrivere, da solo come un fesso. Poi, se il libro vede la luce, diventa un gioco di squadra e l’autore a quel punto conta relativamente. Conta chi ci ha lavorato su, chi continuano a lavorarci, e – ovvio – contano i lettori, pochi o tanti che siano.

Vittorio Giacopini Nato a Roma, ha pubblicato Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer (Mondadori, 2008), Il ladro di suoni (Fandango, 2010), L’arte dell’inganno (Fandango, 2011), Non ho bisogno di stare tranquillo (Elèuthera, 2012) e Nello specchio di Cagliostro (il Saggiatore, 2013). Collabora con varie riviste, tra cui «Lo straniero» e l’inserto domenicale del «Sole 24 Ore». Conduce Pagina3 su Radio3 Rai.

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«Il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie. Così era ai tempi di Omero e così è ancora oggi. È un mestiere antico come il mondo, che risponde ad una necessità degli esseri umani, ad un loro bisogno fondamentale: quello di raccontarsi. Finché ci saranno nel mondo due persone, ci sarà chi racconta una storia e ci sarà chi ascolta una storia. Quante cose si fanno, o si sono fatte, che non si sarebbero mai fatte se non ci fosse stata la possibilità di raccontarle! Senza la memoria del passato che è all'origine di ogni racconto, il nostro percorso di civiltà sarebbe ancora fermo da qualche parte nella notte dei tempi. Le grandi conquiste e le grandi imprese di ogni genere non avrebbero avuto lo stimolo per compiersi, e anche gli atti di eroismo sarebbero stati rari, e sarebbero stati scambiati per follia…». Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, Interlinea 2010.

Vassalli, Sebastiano

e Il Fondazion io m re P re vincito

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Carmen Pellegrino,

Cade la terra

di Elena Spadiliero

Cade la terra (edito da Giunti) deve il suo titolo ad Autunno di Rainer Maria Rilke, in particolare a «lungo le notti, la terra, pesante, cade, dagli astri, nella solitudine. Tutti. Cadiamo». In che modo “tutti cadiamo”? Come ha rappresentato la caduta nella sua opera? Più che la caduta mi interessava raccontare la predisposizione di certe cose a cadere, come frutti dagli alberi, il movimento verso il basso, verso la terra. E poi la mano, quella mano che con infinita dolcezza sembra sorreggere tutto questo cadere. Ho in mente una litografia di Escher che mostra una mano enorme che tiene nel palmo un borgo abbandonato (che è poi Pentedattilo, in Calabria). Il romanzo non è solo la narrazione del disfarsi di Alento, ma anche il racconto di ciò che, nonostante tutto, sopravvive. Il suo può essere considerato un romanzo della speranza? È un romanzo sulla possibilità: la possibilità di vedere una risorsa nella sottrazione e nella perdita, nelle cose ritenute inutili, in quelle che restano indietro. Chiedere ai muri di parlare, di raccontare le vite e le morti che li hanno attraversati, e così trarre pietà dalle pietre forse è già una speranza. Alento è un luogo di fantasia, ma richiama Roscigno Vecchia nel Cilento. Come mai ha scelto di ispirarsi proprio a Roscigno Vecchia, tra tutti i luoghi abbandonati che lei di certo conosce e a cui poteva fare riferimento?

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Roscigno Vecchia è uno dei primi borghi abbandonati che ho visitato, vicinissimo al paese dove sono nata. È particolarmente suggestivo: la metodica pazienza dell’abbandono ha creato inserti di colore intenso, di terra solo un poco smossa. E poi la sua luce, una luce scoppiata, in disfazione anch’essa, sembra acquietare tutte le cose, che ormai si muovono di vita propria. Lei è una “abbandonologa” e ha definito «una sorta di premura» quella che prova per i ruderi. Può descriverci qual è lo stato d’animo che sente nel trovarsi per la prima volta in un borgo abbandonato? Ogni volta mi colpisce la meraviglia delle povere cose, che non attendono nulla e non attestano che se stesse. Stanno lì, tutte sciupate, rotte, talvolta pericolanti. Sono sopravvissute alle guerre, alle peggiori furie della natura, ai terremoti, alle frane. E resistono, come fanno gli scampati. Così, mi avvicino ai ruderi, li sfioro e provo una specie di gioia, anche tattile: se quelle case resistono, se ce la fanno e tante volte ce la fanno, posso farcela anch’io. Com’è nata la vocazione per tutto ciò che è antico, decadente, dimenticato? È stata casuale o conseguente a qualche episodio particolare? Probabilmente l’esser nata in un buco remoto dell’osso del Sud, in condizioni davvero modeste, e l’aver visto con quanta ostinazione certi destini sono confinati nella desolazione, nell’irrilevanza più totale, ha condizionato le mie attitudini. Ma è solo un’ipotesi.

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Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015? Con serenità e spirito d’avventura! Ho trovato degli amici negli altri finalisti, insieme ci lasciamo condurre nel giro per l’Italia organizzato dal Campiello. Succede anche di divertirsi senza pensare alla serata conclusiva. Inoltre il mio è un libro d’esordio, sono già contenta di esser entrata in cinquina. Chi poteva immaginarlo.

Carmen Pellegrino Nata a Napoli nel 1977, è autrice di saggi, come ‘68 napoletano. Lotte studentesche e conflitti sociali tra conservatorismo e utopie (Angelica, 2008), Le ore della mia giornata, pubblicato nell’antologia Qui si chiama fatica: storie, racconti e reportage dal mondo del lavoro Qui si chiama fatica: storie, racconti e reportage dal mondo del lavoro (L’Ancora del Mediterraneo, 2010). Ha curato, insieme a Cristina Zagaria, Non è un paese per donne: racconti di straordinaria normalità (Mondadori, 2011). Cade la terra è il suo primo romanzo.

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Antonio Scurati,

Il tempo migliore della nostra vita di Morgan Palmas Il tempo migliore della nostra vita (edito da Bompiani) ha un inizio molto particolare: «Leone Ginzburg dice no l’otto gennaio del millenovecentotrentaquattro». È lecito pensare a questa scelta come alla volontà di ribadire che la narrazione può partire anche da una frattura, una cesura, rispetto al sentiero principale lungo il quale sembra muoversi la Storia? Insomma, un “no” che sancisce, in realtà, l’apertura a nuove possibilità, altrimenti impensabili?

che, nella stragrande maggioranza dei casi, se ci fossimo trovati al loro posto noi probabilmente – probabilità statistica – saremmo stati tra quelli che piegarono la testa. La grandezza d’animo è rara, in ogni epoca. Tutto il resto è vita. Il comprenderlo non ci esime né dall’ammirazione per chi è capace di quella grandezza né dal biasimo per chi cade nella meschinità, come fece buona parte dell’accademia italiana sotto – è proprio il caso di dirlo – il fascismo.

Sì, qualcosa del genere. Sono tra coloro i quali ritengono che noi si viva imprigionati in un “presente assoluto”, orfani della possibilità di ascrivere le nostre singole esistenze a un orizzonte storico. Comincio a narrare la vita straordinaria di Leone Ginzburg dal momento in cui, giovanissimo, rassegna le dimissioni dall’università rifiutandosi di giurare fedeltà al fascismo perché credo che la forza per un atto del genere possa averla trovata soltanto in un sentimento largo del tempo, entrando in risonanza con un passato di cui voleva custodire l’eredità ma anche, e soprattutto, con un futuro, magari remoto, e ancora increato. Altrimenti sarebbe stato impossibile per lui dire apertamente “no” al Fascismo perché in quel momento del 1934 all’orizzonte del presente sembrava non esserci altro che il Fascismo.

Al no di Leone Ginzburg, sempre nelle prime pagine del libro, fa da contraltare una frase di Mussolini («L’antifascismo è finito. I suoi conati sono individuali e sempre più sporadici»). Possiamo considerare il suo libro come il tentativo di esprimere la forza di quei conati, mostrando come più che un rantolo di morte si trattasse, in realtà, del grido di un nuovo inizio?

Lei ha parole molto dure per quanti, a differenza di Leone Ginzburg, dissero sì, giurando fedeltà «al Re, ai suoi reali successori e al Regime Fascista». Una condanna senza se e senza ma? A condannarli non sono io ma la storia. Ciò detto, il mio libro è scritto interamente nella consapevolezza

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Quando Benito Mussolini pronuncia quella frase, ha fattualmente ragione. L’antifascismo militante è stato quasi del tutto sgominato e il fascismo è trionfante. C’è un vastissimo antifascismo che si potrebbe definire “antropologico”: milioni d’italiani che “resistono” con dignità all’oppressione della dittatura nel significato basilare di “mantenersi in vita”, non certo di opporsi apertamente ma è privo di consapevolezza ideologica e di sostanza politica. Ma il fatto di poter leggere un nuovo inizio in quei rari, superstiti atti di antifascismo militante è possibile per noi solo a posteriori. In quel momento, mentre Ginzburg dice “no”, l’esito del processo storico non è affatto predeterminato. La storia è sempre la lotta per la storia.

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Una parte del giuramento prevedeva l’impegno per i professori di «adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista». Il lavoro di Leone Ginzburg in ambito culturale (inclusa la fondazione di Einaudi) può essere letto come il perpetuarsi del suo no a quell’obiettivo del fascismo? Certo. Per uomini come Leone Ginzburg l’antifascismo è innanzitutto il frutto di una sensibilità culturale, finanche di un gusto estetico. Culturale, morale e politica sono una cosa sola. Ma Ginzburg è una figura radiosa proprio perché questa integrità è rara. A noi piace pensare socraticamente che la cultura, il sapere, la conoscenza rendano anche uomini migliori nel senso di uomini più giusti, perfino più buoni. Eppure non è così. A testimoniarlo ci sono migliaia di casi di grandi artisti, scrittori o intellettuali che furono uomini orribili. Ginzburg, però, è uno di quei rari casi che alimenta in noi l’idea di una acculturazione come civilizzazione. La speranza che fare buoni libri possa significare anche fare buoni uomini, contribuire a una “buona vita”. Il suo racconto di Leone Ginzburg colpisce perché profila una figura eroica senza azioni eroiche («senza clangori romantici»), ma con atti perpetuati nella propria quotidianità, con rigore morale e intellettuale. E questo traspare anche dalle scelte stilistiche da lei adottate, orientate alla “misura”, senza mai cadere nella facile epicizzazione. Un modo per raccontare la Resistenza colta nella sua quotidianità, “liberandola” da quel senso di eroismo di cui solitamente è ammantata e che finisce con il renderla più distante?

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La Resistenza è distante da noi. La separa da noi una distanza di valore, non solo temporale, una distanza incolmabile. La grandezza epica appartiene solo al passato, come insegnava Bachtin. Io inseguo l’epica nei miei romanzi fin dai miei esordi ma lo faccio nella consapevolezza che l’epica è negata al tempo presente, che l’epopea è desiderabile solo a condizione di non farne parte. Anche per questo ho scelto di narrare la vita, le opere e le “gesta” di un eroe della Resistenza civile, di un uomo che non abbandonò mai la sua “postazione di combattimento” ma senza mai imbracciare un’arma in tutta la sua vita. Da un lato la famiglia Ginzburg, dall’altro quella dei suoi nonni materni e paterni, e anche in questo caso non si raccontano atti immediatamente percepibili come eroici. Perché la volontà di raccontare l’aspetto più ordinario della Resistenza? I miei nonni non furono per niente eroici, in nessun senso e in nessun modo. La loro storia è quella di persone comuni, dignitosi, probi, votati alla sopravvivenza propria e dei propri cari, al lavoro onesto e ben fatto, in un’epoca terribile, dediti agli affetti domestici e alla cura dei figli sotto le bombe ma null’altro. Mi sono permesso e ho trovato sensato narrare le loro vite accanto a quella di Leone Ginzburg perché ai miei occhi in lui il “padre della Patria” è sempre apparso inscindibile dal padre di famiglia. Le grandi virtù di cui Ginzburg fu capace furono solo sue e di pochi altri, ma sul terreno delle “piccole virtù” del quotidiano credo s’incontri con milioni di altri, tra i quali figurano anche i miei nonni. Favorire letterariamente questo “incontro” mi sembra un modo per ricongiungere “grande” Storia e piccole storie e anche un modo di

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rendere giustizia “poetica” alla verità di quelle esistenze tanto distanti raccontando il loro unico punto di contatto. Il tempo migliore della nostra vita è un’espressione di Natalia Ginzburg, che la userà subito dopo la morte di Leone, per indicare gli anni del confino in Abruzzo. Quanto prevale la consapevolezza della dignità di una vita non piegata? Riprendo nel titolo quell’espressione di Natalia Ginzburg, allargandola a un ipotetico “noi”, per far percepire la differenza abissale tra la condizione di chi visse e patì quell’epoca tragica e la nostra, cui è toccato la sorte di vivere in un’epoca privilegiata sotto moltissimi aspetti ma che ha smarrito il senso della storia. E non mi riferisco qui alla semplice conoscenza della storia ma a quel sentimento del tempo che ci consente di percepirci come parte di un racconto più grande del nostro mero e particolare presente, di una vita che viene da lontano e che, attraversandoci per un istante, ci lascia indietro e va lontano. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015?

Antonio Scurati Nato a Napoli nel 1969, è ricercatore e docente nell’ambito del Laboratorio di Scrittura Creativa e del Laboratorio di Oralità e Retorica presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. Ha esordito nel 2002 con Il rumore sordo della battaglia (Bompiani) e, nel 2005, ha vinto il Premio Campiello con Il sopravvissuto. Ha inoltre pubblicato Il bambino che sognava la fine del mondo (2009) e La seconda mezzanotte (2011) e Il padre infedele (2013), editi da Bompiani.

Medito sui dieci anni che sono trascorsi da quando salii sul quel palco nel 2005. Mi chiedo se sia poi riuscito a combinare qualcosa di buono…

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ÂŤFrancamente aveva pensato a un maschio, un altro figlio maschio a cui imporre un bel nome forte e contadino come aveva fatto per Severo e Olmo. E invece adesso si ritrovava con una femmina in mezzo ai piedi e un nome da scegliere proprio mentre il diretto stava arrivando in stazioneÂť.

Ugo Riccarelli, L’amore graffia il mondo, Mondadori. Premio Campiello, 2013.


Enrico Iannello,

La vita prodigiosa di Isidoro Siflottin di Annamaria Trevale La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin (Feltrinelli), felice e originale esordio narrativo dell’attore Enrico Ianniello di cui abbiamo pubblicato la recensione qualche tempo fa, si è aggiudicato il Premio Campiello Opera Prima 2015. Sul Romanzo ha fatto qualche domanda all’autore, che verrà premiato a Venezia nel corso della serata finale del 12 settembre, durante la quale emergerà dalla rosa dei cinque finalisti il nome del vincitore del Supercampiello. Lei è in prima istanza un attore, ha studiato recitazione e lavora da anni fra cinema, teatro e televisione. Qual è il ruolo della scrittura nella sua vita? Le è sempre piaciuto scrivere, oppure ha avvertito l’esigenza di farlo solo in tempi recenti? Ho sempre scritto per il teatro, adattato testi e soprattutto, negli ultimi anni, ho tradotto dal catalano drammi di autori poi andati in scena con successo in Italia. Quindi la frequentazione con la scrittura è di vecchia data e deriva anche da una particolare attenzione posta nella lettura, nell’esegesi, nella destrutturazione e nell’interpretazione dei testi teatrali insieme a registi come Toni Servillo, Leo de Berardinis o Andrea Renzi. Chi o cosa le ha fatto pensare a un protagonista che si esprime fischiettando? Isidoro e la sua particolare abilità mi sono venuti in mente cercando una dote non speciale su cui fondare una peculiarità; doveva essere una dote comune, un regalo che fosse stato fatto biologicamente a tutti, indistintamente: quello cioè di avere uno strumento

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musicale nel corpo, uno strumento che non ha bisogno di tecniche particolari per essere suonato, di diteggiature complesse o di esercizi di respirazione articolati e faticosi. Uno strumento regalatoci alla nascita, per usare il quale bisogna solo appuntire le labbra e iniziare a soffiare; piano piano, dopo qualche giorno, nasce una vibrazione che si può trasformare in musica, e grazie alla quale possiamo fischiare Celentano, Poulenc, Sergio Bruni o Mozart. Però Isidoro non si esprime fischiettando, bensì fischiando! Ci corre la stessa differenza che c’è tra il canticchiamento e il canto, chiarita nella quarta di copertina, o tra lo scherzo e il suo parente serio, il gioco. La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin ha il ritmo di una favola, ma riesce a integrare perfettamente i toni della commedia a quelli della tragedia. Raccontare il terremoto dell’Irpinia era un’esigenza personale, un modo per esorcizzare i suoi ricordi? Non particolarmente. Io ho vissuto il terremoto ma senza accenti tragici, nella mia famiglia c’è stata solo un po’ di paura e nient’altro, una fuga a capofitto giù per le scale buie e basta, senza perdite di nessun tipo. Però la rivoluzione fischiata che prende corpo, il sogno di un’umanità felice e leggera che trova la propria libertà in una cosa così semplice e a portata di mano come il fischio, aveva bisogno di essere spezzata da un evento potente, sovrumano, tragico, per rimanere così dolcemente lontana, desiderabile, quasi possibile. Il suo nome, già noto al grande pubblico grazie al mestiere di attore, può aver favorito inizialmente la diffusione del romanzo, ma questo non sareb-

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be certo bastato per arrivare al Premio Campiello Opera Prima. Si era immaginato un successo del genere? Assolutamente no! Proprio perché sono un attore, devo pagare lo scotto della diffidenza iniziale: “eccone un altro che vuole capitalizzare la notorietà con un romanzetto sul babbo morto”. Io invece volevo mettermi alla prova con una narrazione sincera e profonda, semplice e non pretenziosa, senza abbassare l’asticella dei temi. Il premio Campiello – e la Selezione Premio Berto e Premio Bancarella – mi permettono di parlare ora con un certo agio di questa sfida e di credere, ma poco poco, di averla forse vinta. Soprattutto, posso vantarmi per tutta la vita di aver vinto un premio così importante! Sdoganamento culturale definitivamente avvenuto! Nel suo futuro prevede, accanto alla carriera cinematografica e teatrale, una parallela carriera letteraria, oppure ci penserà un po’ prima di impegnarsi nella scrittura di un secondo romanzo? “Scrivere fa schifo”, mi ricordo di aver letto questa frase, una volta, detta da un grandissimo scrittore, ma non dico chi per paura di sbagliare. Scrivere è faticoso, richiede naturalmente dedizione assoluta, comunicazione profonda con sé stessi e con la visione che si ha del mondo, e questa è la parte più difficile. Il teatro ti aiuta un po’ con le maschere, soprattutto all’inizio, puoi giocare con la parte di te che metti a disposizione, mentre il romanzo no, è più crudele: l’inautenticità salta agli occhi immediatamente. Ho molta voglia di scrivere ancora, aspetto di avere il tempo e il coraggio necessari per riprovarci. Comunque, spalle al muro: sì, scriverò ancora.

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Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015? Lavorando come un pazzo! Sto girando una serie per la televisione, e il sabato e la domenica corro dappertutto per presentare il romanzo. Ma sto anche montando il mio primo film, che uscirà in autunno, quando debutterò con un nuovo spettacolo in teatro. È un periodo piuttosto intenso. La nota positiva, però, è questa: la costumista mi aiuterà a cercare il vestito per la serata alla Fenice.

Enrico Ianniello Nato nel 1970, è al suo esordio come scrittore. Attore noto al grande pubblico per la partecipazione alla serie TV di Raiuno Un passo dal cielo, lo ricordiamo tra gli interpreti di Habemus Papam e Mia madre di Nanni Moretti. Per il teatro, ha tradotto in italiano la commedia Il Metodo Gronholm dell’autore catalano Jordi Galcerán, portandola in scena insieme a Nicoletta Braschi e Maurizio Donadoni.

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Clelia Attanasio,

Fuoco

di Elena Spadiliero Clelia Attanasio è uno dei cinque finalisti del Premio Campiello Giovani 2015, insieme ad Anja Boato, Eva Mascolino, Loreta Minutilli e Gabriele Terranova. Vent’anni, campana, Attanasio si è presentata al Campiello con un racconto intitolato Fuoco, incentrato proprio su un incendio dalle misteriose origini, che sta distruggendo il mondo. Ma com’era il mondo prima del Fuoco? Il compito di raccontare il passato e custodire la memoria è affidato a una donna immersa nei ricordi, la quale, proprio per questo motivo, nutre una visione negativa del presente. Accanto a lei una bambina, che, al contrario, non avendo sperimentato l’esistenza prima del Fuoco, riesce a cogliere il bello di ciò che la circonda. Clelia, ci hai raccontato che la scrittura è uno strumento utile soprattutto a te stessa, al di là del riconoscimento pubblico che ne può derivare. In che modo lo scrivere ti fa stare bene? Quali emozioni ti suscita? Scrivo sin da quando ho imparato a farlo. Non è semplicemente qualcosa che mi fa stare bene, non è uno sfogo. Sono una persona molto estroversa, non ho mai avuto problemi a rapportarmi con gli altri e a dire ciò che penso. Ma scrivere trasmette la parte più profonda di me. Anche se non scrivo di cose personali (non ne sento la minima esigenza), ciò che narro porta con sé una parte molto intima del mio vissuto, delle mie idee, della mia sensibilità. Scrivere non mi fa stare bene: è un’esigenza. Hai iniziato scrivendo poesie e sei passata, successivamente, ai racconti. Scrivi ancora poesie? Come mai questo cambio di genere?

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Ho iniziato a scrivere poesie da adolescente, quando ancora non mi conoscevo abbastanza per razionalizzare le mie emozioni e i miei sentimenti. Non avevo idee organiche su ciò che avrei voluto trasmettere e ciò che provavo io stessa. Scrivevo senza sapere di scrivere davvero, in maniera “innocente”. Le poesie sono, secondo la mia opinione, l’espressione più immediata e innocente della scrittura. Esprimono i sentimenti e le emozioni in maniera nuda e cruda. Crescendo, ho acquisito una visione diversa di me stessa e del mondo, e ho capito che avrei voluto raccontare storie, persone. Purtroppo, non riesco a farlo con la poesia. Qualche poesia la scrivo ancora, ma non mi soddisfano tanto quanto i miei racconti. In Fuoco ci sono queste protagoniste, la donna ancorata al passato e la bambina proiettata al futuro. Due visioni opposte dell’esistenza, in forte contrasto. C’è qualcosa di Clelia Attanasio in uno dei personaggi? O sei un po’ entrambi? È inevitabile che, scrivendo, qualcosa di me si trascini in ognuno dei personaggi, nonostante la storia non parli di me e nonostante non ci sia nulla dei miei vissuti personali in ciò che racconto. Amo entrambi i personaggi, per motivi diversi, ma sento di essere più vicina sul piano emotivo alla donna protagonista: è in una fase di transizione, paradossalmente molto di più rispetto alla bambina che ha al suo fianco. Io ho appena vent’anni e sono nel pieno della fase di transizione della vita. Per cui, anche se questa donna è molto più grande di me, sento che ho molto in comune con lei: entrambe stiamo crescendo, modificando

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ESTRATTO Fuoco di Clelia Attanasio Giorno 4403. In questi anni di cenere e nebbia, ricordare è necessario. Sono scomparse le strade, le case, i palazzi. Sono bruciati gli ospedali e le macchine sono scoppiate all’improvviso. Gli alberi sono diventati rossi e le montagne hanno cominciato a sanguinare. Questo è accaduto anni ed anni fa. Ma son bruciati anche i calendari, e con essi i giorni e i mesi sono diventati tutti uguali come una macchia di inchiostro. Oggi l’unico scandire del tempo è la noia. Gli anni corrono così frenetici che non si identificano e i giorni scorrono tanto lenti che muoiono con noi. Abbiamo perso tutto. Il giorno in cui tutto bruciò io ero lì per ammirare. Avevo diciassette anni e non avevo ancora imparato, non avevo ancora letto, non avevo ancora visto abbastanza. I miei genitori stavano cenando e io guardavo la televisione stesa sul divano di casa quando un caldo asfissiante cominciò a farci sudare. Era il quindici di novembre. Aprimmo le finestre, accendemmo i condizionatori e preparammo pezze bagnate per asciugarci il sudore dalla fronte. Il caldo non cessava, non sembrava neanche più provenire dall’esterno, sembrava essere parte integrante della realtà da sempre e per sempre. Un caldo persistente e appiccicoso che lasciava uscire dalla mente tutto il resto. Faceva dimenticare le altre necessità e richiamava l’attenzione solo su di sé. Mio padre cominciò a chiedersi se fossero i nostri corpi ad avere caldo, indipendentemente dalla temperatura esterna. Se fosse un problema nostro, disse, potremmo avere la febbre. Così cominciammo a misurarci la temperatura ma era tutto normalissimo. Papà cominciò a camminare avanti e indietro per la casa, agitato. Sudava e ricordo ancora la faccia rossa e la maglietta sudata.

punti fondamentali del nostro carattere e delle nostre idee e stiamo finalmente conoscendo noi stesse, dopo anni spesi a conoscere gli altri. Anche la bambina certamente ha qualcosa di me: un’innata curiosità, che ha la capacità di rendere le cose che si guardano con occhi carichi di meraviglia e stupore. Hai citato tra i tuoi autori preferiti Dostoevskij, Ágota Kristóf, José Saramago e i tragediografi greci. La loro influenza ispira in qualche modo la tua scrittura? Assolutamente. Leggere è fondamentale per imparare a scrivere. Forse scrivere è una dote innata, ma di

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sicuro leggere ti aiuta a rendere ciò che si scrive più tuo, anche se può sembrare paradossale. Leggere mi insegna a capire ciò che voglio scrivere. Dostoevskij è certo l’autore che più mi ha ispirato per il suo modo di scrivere e di caratterizzare i personaggi. La Kristóf, invece, ha scritto il libro che più amo in assoluto: Trilogia della città di K. È un libro che mi ha formata, stilisticamente parlando. José Saramago, invece, è proprio tutto ciò che io non sarò mai: scrive con moltissime virgole e pochi punti, è complesso ed elegante allo stesso tempo. Ed è per la sua estrema diversità dal mio modo di scrivere che amo leggerlo e amo le sue storie. Infine, i tragediografi greci mi hanno fatto capire il tipo di storie che avrei voluto, un giorno, scrivere: volevo, e voglio tutt’ora, parlare delle persone. I greci sono i primi in assoluto che hanno preso in considerazione l’uomo nella sua interezza e maestosità e fragilità. Tra le altre tue passioni hai citato anche il cinema e la musica. Pensi che tutti questi interessi possano trovare, un giorno, spazio in qualche tuo racconto? In qualche modo già lo fanno, anche se in maniera ovviamente indiretta. Tutta la musica che ascolto e i film che guardo condizionano il mio stile, le trame che scelgo. Non scrivo mai nulla senza musica in sottofondo, mi ispira e mi aiuta nella concentrazione. L’arte in generale è ciò che mi aiuta a scrivere meglio e con più passione, che mi ispira e mi dà una visione più ampia del mondo. L’arte è il prodotto dell’uomo per eccellenza, secondo me: quindi, senza essa, probabilmente non riuscirei a scrivere nulla, visto che amo scrivere delle persone e delle loro vite. Progetti per il futuro? C’è un sogno letterario nel cassetto dopo il Campiello? Il mio sogno più grande sarebbe poter pubblicare un libro, o una raccolta dei miei racconti. Sarebbe il coronamento di tanti anni di impegno, di tanti tentativi e tanta passione. Per ora, mi concentro sui miei studi di Filosofia. Studiare Filosofia è qualcosa che riempie la mia vita di felicità e piacere e alimenta tantissimo la mia passione per la scrittura; per questo il mio progetto futuro è di laurearmi, conseguire il Dottorato di Ricerca e lavorare sodo per intraprendere la carriera universitaria. Se dovessi riuscire nel realizzare questi due “sogni” potrei ritenermi felice.

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Anja Boato,

Amélie fu

di Marcella Valbusa Come la lettura degli incipit ha annunciato i cinque racconti finalisti al Premio Campiello Giovani 2015, così la candidatura può rappresentare l’inizio di un percorso che trasforma un talento in erba in una futura professione. Anja Boato ha raggiunto questa tappa: diciannove anni, frequenta l’ultimo anno del liceo classico Tito Livio di Padova, che l’ha incoraggiata e seguita in quest’avventura fino allo spettacolo di selezione della cinquina finalista. Il racconto inviato da Anja al concorso, intitolato Amélie fu, cattura l’attenzione perché si inserisce in un dibattito culturale e sociale di delicata attualità, la costruzione dell’identità sessuale. L’autrice allarga la prospettiva mostrando la complessa maturazione di due personaggi grazie alla loro amicizia. Molti dei racconti selezionati al Premio Campiello Giovani 2015 hanno sviluppato temi impegnati, ma la forza di questa storia deriva dal calare una questione imbarazzante, potenzialmente scabrosa, nelle dinamiche quotidiane dei rapporti umani. Nel processo di crescita non c’è solo la scoperta del sesso, ma anche la capacità di gestire la propria emotività, scossa dall’alternanza di momenti di esaltazione e di depressione: Anja riesce a sublimare il proprio vissuto nella scrittura, conferendo onestà e realismo al racconto. La giovane narratrice trasforma spesso l’esperienza personale in spunto letterario: a tredici anni, Anja ha vinto il suo primo concorso nazionale con la recensione del suo libro preferito, La compagnia dei Celestini di Stefano Benni. Da allora, la passione di Anja ha ottenuto numerosi riconoscimenti, a livello di critica e di lettori: ha pubblicato i suoi racconti in un portale web e un suo componimento è stata incluso in un’antologia di scrittori professionisti.

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Facciamoci però raccontare da Anja stessa il suo amore per le parole, partendo dal cuore dell’occasione che ce l’ha fatta conoscere: l’argomento del brano presentato al Premio Campiello Giovani 2015. Inserirsi nel campo degli studi di genere può essere rischioso, in bilico tra approssimazione e volgarità: ti sei documentata prima di scriverne? Hai trovato ispirazione in qualche lettura? Penso ad esempio all’intenso romanzo di Julie Anne Peters, Luna, che ho associato al tuo racconto soprattutto per il ruolo evanescente degli adulti. In effetti l’ispirazione per il mio racconto mi è giunta da una lettura molto particolare. Si tratta del graphic novel di Chloé Cruchaudet Poco raccomandabile, edito da Coconino Press nel 2013. Quest’opera adatta la storia vera di Paul Grappe, disertore durante la prima guerra mondiale, che decide di travestirsi da donna per sfuggire alla cattura. La Cruchaudet descrive, in modo crudo ma efficace, la trasformazione sessuale di questo protagonista, inizialmente solo esteriore, poi sempre più intima. Tuttavia il graphic novel è servito solo a farmi profilare l’immagine dell’uomo protagonista del mio racconto, mentre la storia che ho creato è nell’insieme nata di getto, prendendo forma nel corso della scrittura. Non ho metabolizzato subito la “pericolosità” del tema che stavo trattando e quindi che avrei potuto eccedere nella descrizione di entrambe le metamorfosi — quella sessuale di Amélie e quella bipolare di Monique. Credo di essere riuscita a mantenere un equilibrio perché fondamentalmente simpatizzo per entrambi i personaggi, provo per loro un profondo rispetto. Per quanto riguarda il romanzo della Peters, non lo conosco, ma confesso che a questo punto sono curiosa di leggerlo.

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Cosa significa per una ragazza poco più che maggiorenne occuparsi e scrivere di questioni così complesse, come, appunto, le due metamorfosi al centro del racconto? Le metamorfosi sono caratteristiche della giovane età, non solo degli adolescenti, ma anche di chi cerca ancora di definire il proprio ruolo nel mondo. Ho immaginato che Amélie avesse scoperto la propria sessualità quando ancora un ragazzo, con tutti i turbamenti dell’età, ma solo a distanza di anni ha accettato positivamente di sentirsi donna. Monique, per contro, è ancora adolescente quando affronta questa metamorfosi, e non è abbastanza forte da superare, come altre coetanee, la sua fragilità psichica ed emotiva, nonostante l’appoggio di Amélie. Sono sempre stata affascinata dalle personalità complesse e metamorfiche; fortunatamente ho avuto occasione di conoscere molte persone differenti nella mia vita, alcune con personalità borderline simili a quella di Monique, altre con vari orientamenti sessuali. Non trovo quindi che sia strano cercare di immergermi nel loro mondo e spero di essere riuscita a comprenderne le emozioni, nonostante abbia solo diciannove anni. Il tuo stile di scrittura è spontaneo, diretto, ma nasconde un lavoro profondo di ricerca espressiva: credi che la tua tecnica risenta di un gusto cinematografico, nella predilezione per dialoghi e azioni piuttosto che per le descrizioni? Hai mai pensato di adattare l’incisività che trasmetti nella forma breve del racconto a un’opera più corposa, a un romanzo? Ho sempre pensato che un eccesso di descrizioni, soprattutto quelle d’ambiente, rappresentino una sorta

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di dittatura da parte dell’autore, visto che costringono il lettore a prospettive molto limitate. Viceversa, proprio come accade con la narrazione cinematografica, trovo più interessante fornire quegli elementi che servano da guida per contestualizzare i personaggi, ma lascino allo stesso tempo al lettore un margine di libertà per aggiungere le proprie interpretazioni. Inoltre, se non sono ben equilibrate, in molti casi le descrizioni rischiano di rallentare il flusso degli eventi. In particolare in questo caso, credo che sarebbero state d’ostacolo nelle transizioni tra piani narrativi, poiché quelli che apparentemente sono luoghi che appartengono al presente e a un passato vissuto in flashback, nel mio racconto diventano di fatto una molteplicità di presenti. Per quanto riguarda la possibilità di dedicarmi a un’opera più corposa rispetto a un racconto, confesso che fino a questo momento credevo di dover lavorare ancora molto perfino sulla mia narrazione breve, ma questo riconoscimento – cioè essere entrata a far parte della cinquina finalista del Premio Campiello Giovani – mi ha regalato un’enorme dose di fiducia in me stessa. Effettivamente a questo punto vorrei davvero provare a cimentarmi nella stesura di un romanzo e molte idee cominciano già a prendere forma nella mia mente. Speriamo che una di queste abbia fortuna. Hai pubblicato i tuoi racconti online, decidendo di metterti in gioco e affrontare il giudizio dei lettori: qual è il tuo rapporto con il mondo virtuale? Come gestisci i tuoi lavori, sia nella creazione che nella diffusione? Ogni volta che scrivo un racconto parto dal presupposto che questo debba essere letto, quindi non posso

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ESTRATTO Amélie fu di Anja Boato (incipit) – No, meglio “Amélie”, qui preferiamo usare solo nomi francesi. – Cosa? Dio. E io che pensavo veniste veramente dalla Francia. – Questo perché voi uomini sapete essere così deliziosamente ingenui! In centrale di polizia Amélie c’è stata già quattro volte e non capisce ancora bene perché. Atti osceni in luogo pubblico, dicono loro - non c’è nulla di osceno nell’essere se stessi, dice lei. Questa volta però le cose sono diverse. Peggiori. E lei non c’entra. La sala adibita agli interrogatori è sempre stata spoglia, ma mai così luminosa, una luce che rovina il trucco. Amélie sa che non conviene lamentarsi, però protesta ugualmente; mal che vada passerà il resto della sua vita in prigione ed è una cosa che tanto sarebbe successa comunque. L’agente Righetti, perfido quanto la prima volta che si sono incontrati, le punta una lampada in faccia. – Così va meglio, troietta? – chiede. Lui lo fa perché la odia. No, è solo paura. – Finiscila. – lo riprende il suo compagno. Per

prescindere dalla valutazione di quale tipo di risposta il lettore darà. È una sfida importante, ma anche molto stimolante: in un certo senso, quando progetto una storia cerco di modellarla a misura di un ipotetico pubblico. A volte mi rendo conto che ciò che ho scritto non può incontrare i gusti di nessuna tipologia di pubblico, e in questi casi continuo comunque il lavoro, sapendo che sarà solo mio. In tal senso, le piattaforme virtuali come quella su cui scrivo, o in generale internet, offrono una gamma infinita di potenziali pubblici. Qualora decidessi di cambiare genere, so che quasi sempre troverei dei lettori appassionati e disposti a seguire le mie sperimentazioni. È un rapporto di dare-avere più o meno infinito: a mia volta trovo tantissimi spunti dalla lettura di quanto gli altri scrivono. Spesso addirittura si creano delle complicità con altri utenti condividendo i racconti o pubblicizzandoli reciprocamente. Anche grazie a questi percorsi ciascuno di noi mette a punto uno stile sempre più maturo. Partecipi spesso a concorsi letterari: cosa ti spinge a farlo? Il desiderio di confrontarti con una giuria

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quanto silenzioso, Amélie sente lo stesso. E sorride. – Grazie agente Miller. – dice allora. – Ma non deve preoccuparsi, io e il suo amico siamo vecchie conoscenze, abbiamo il nostro codice d’amore. Dario Righetti è ora troppo imbarazzato per rispondere; potrebbe insultarla, ma non gli escono le parole di bocca. Amélie ne è soddisfatta, Miller anche di più. – Non siamo qui per parlare di questo, comunque. – dice allora. Ne avrebbe parlato lui dopo, e con tutti gli altri colleghi. – Siamo qui perché lei è sospettata dell’omicidio di Monica De Bianchi. – Invece sbaglia, agente. – sospira lei, chiudendo gli occhi. – Il suo nome era Monique, Monique e basta. – Credevo fosse solo un nome d’arte. – Il nome di una persona è il nome con cui vive. – Oh, certo. – risponde Righetti, feroce e vendicativo. – Comoda scusa per un frocio come te! Ma se pensi che ti seppelliremo con quel nome da checca, o che qualcuno dimenticherà mai chi sei veramente, allora preparati a una bella delusione, Sandro spaccameloinculo Sconde! – Agente Righetti! – Miller si sconvolge, ma ad Amélie certi insulti non toccano più. È paura – non odio, solo paura. Ipocrisia. – Non si preoccupi. – tenta di dire. – Anche questo è amore.

di esperti, lo spirito di competizione, la speranza di trovare la tua strada nell’editoria? In particolare, cosa rappresenta il Campiello Giovani rispetto ad altri premi? A prescindere da un'eventuale vittoria, cosa vorresti conservare di questa esperienza? Partecipo ai concorsi letterari in realtà per tutti e tre i motivi: è importante che ciò che scrivo possa essere valutato da esperti, sono sicuramente animata da uno spirito di competizione e – inutile dirlo – sarebbe un sogno poter trovare una mia strada nell’editoria. A questo aggiungerei che i concorsi offrono anche uno stimolo per la scrittura stessa. Rispetto ad altri premi, il Campiello Giovani rappresenta per me la tappa più importante a cui potessi ambire, visto che si tratta del concorso letterario più prestigioso dedicato ai giovani autori in Italia, anche in termini di visibilità mediatica. Far parte della cinquina finalista è per me un’esperienza ineguagliabile, anche perché sono molto riservata e timida, ma per la prima volta ho presentato me stessa oltre che la mia scrittura. Non credevo che ne sarei stata capace, invece si è rivelata un’emozione grandissima. Credo che questo ricordo non mi abbandonerà mai, a prescindere dal risultato finale.

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Eva Mascolino,

Je suis Charlie

di Sara Minervini Eva Luna Grazia all’anagrafe, al secolo Eva Mascolino, è tra i finalisti dell’edizione 2015 del Premio Campiello Giovani con il racconto Je suis Charlie. Un nome evocativo e niente affatto casuale, debitore all’Evaluna di Isabel Allende (nomen omen?). Non occasionale è anche la trama del suo racconto: all’indomani dell’attacco terroristico ai danni della redazione del giornale satirico «Charlie Hebdo» a Parigi (durante il quale sono morte dodici persone, incluso il fondatore, Stéphane Charbonnier, e altre undici sono rimaste ferite), molti hanno usato l’affermazione «Je suis Charlie» come attestazione di solidarietà non solo nei confronti delle vittime ma soprattutto verso la libertà di stampa, opinione ed espressione, bersagli morali dell’attentato. Jean-Ive Le Léap, invece, è una vittima collaterale. Il protagonista scelto dalla giovane catanese per la sua storia è uno dei vignettisti di «Charlie Hebdo», assente al momento dell’irruzione dei miliziani dell’ISIS per via di una forma acuta di crisi di identità che lo ha portato a trasferirsi temporaneamente a Lentini insieme al suo gatto Lechat. Alla ricerca di una nuova dimensione di vita, rientra nella capitale francese giusto in tempo per comprendere che la sua precaria crisi interiore l’ha salvato dal novero dei caduti, pur essendo lui uno dei principali responsabili delle vignette al centro della furia repressiva degli estremisti. Il senso di colpa è una pena da scontare con il suicidio, un atto volontario che, tuttavia, diviene il centro di un’esasperata arena mediatica che raggiungerà l’apice con uno speciale televisivo a cui il pubblico potrà partecipare esprimendosi, però, solo su insindacabile giudizio della redazione di France 2 «come da buon manuale della libertà di pensiero e di parola contrario al fanatismo». Eva, «un maldestro ossimoro con i capelli ricci, perennemente innamorata di tutto ciò che è Buono e Bello», studia lingue all’Università, è caporedattrice per una testata giornalistica free press, scrive racconti che

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vorrebbe pubblicare e poesie che preferisce proteggere dalla folla. Approfondiamo ora la sua conoscenza. Non riesco a esimermi dall’iniziare con una domanda un po’ provocatoria, Eva, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente subito dopo aver letto il titolo del tuo racconto, Je suis Charlie. In che misura, se misura c’è stata, l’ispirazione si è lasciata influenzare dall’idea che l’attentato alla redazione del giornale satirico «Charlie Hebdo» potesse rappresentare quel collegamento con la cronaca e l’attualità, quella prospettiva sociale più “elevata” per impressionare la giuria del Campiello Giovani? Non la trovo una domanda provocatoria, anzi, è una curiosità legittima. È il terzo anno di seguito che partecipo al Campiello Giovani e negli altri due casi – come credo di aver fatto anche in questo – mi sono lasciata trasportare solo da sensazioni, esperienze e opinioni legate al periodo durante il quale ho scritto i racconti. Il primo anno, per esempio, il protagonista era un erotomane, guarda caso subito dopo la stabilizzazione della relazione di coppia per me tuttora più importante della vita, che per anni avevo considerato destinata a esistere solo nella mia mente: quando ho percepito di aver superato quello stadio, ne ho suggellato il mio allontanamento con carta e penna. Il secondo anno, mi sono dedicata a una torbida storia familiare, di genitori incapaci di fare il bene dei figli pur volendolo, perché il tipo di letture a cui mi ero dedicata per molti mesi – da Luigi Pirandello ad Amélie Nothomb, da Carlos Ruiz Zafón a Haruki Murakami – mi aveva messa di fronte a continui relativismi, a errori irreparabili, a tentativi di rapportarsi agli altri in maniera talvolta meravigliosa e talvolta disastrosa.

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Quest’anno, avevo essenzialmente scritto dell’impossibilità di convivere in maniera equilibrata con la bellezza. La “cornice” di «Charlie Hebdo» è arrivata dopo e si è intrecciata alla storia originaria di Jean-Ive Le Léap solo per una serie di eventi casuali. La mia idea, infatti, era di dedicarmi alla visione di Parigi come metropoli che ammalia e che fa smarrire il senso di sé, proprio come avrebbe fatto una sirena nell’antica mitologia greca. Per mesi, però, ho scritto stralci di questo racconto senza riuscire a dargli un senso compiuto, un titolo, un finale (e, quindi, uno scopo) ben precisi. Poi, nel momento in cui è avvenuto l’attentato a «Charlie Hebdo», ho collegato l’episodio alla mia idea in maniera istintiva. I giorni successivi all’avvenimento sono stati di grande indignazione e dibattito, sia in ambito universitario che “casalingo”. Da un lato ero molto toccata dall’accaduto, anche per via dei legami con il giornalismo che vivo sulla mia pelle, dall’altro ho trovato l’attenzione dei mass-media e dell’opinione pubblica decisamente esagerata e parziale, se consideriamo che contemporaneamente (e non solo) stavano avvenendo massacri ben peggiori in altre parti del mondo, meno nel mirino solo perché sfortunatamente non appartenenti alla “civilissima Europa” o alle grandi potenze economiche mondiali. Questo genere di “scala di valori” mi disgusta, la trovo un dis-valore dis-umano. Così, con le viscere, ho febbrilmente ampliato e completato Je suis Charlie nell’arco di un weekend. Dare un significato di alto spessore sociale e collettivo alla storia di un singolo personaggio voleva dire far riflettere sui fatti e turbare eventuali lettori tanto quanto lo ero stata io, a mia volta singolo individuo di una comunità più grande. Il lunedì successivo, ho controllato la scadenza del bando del Campiello Giovani, scoprendo che mi restavano ancora tre giorni per rivedere il racconto a mente lucida, stamparlo e spedirlo, se lo avessi desiderato. È stata, perciò, una vera corsa contro il tempo, durante la quale non ho avuto materialmente l’occasione di ragionare sull’impressione intenzionale che avrei voluto fare alla giuria. Ho preso in considerazione solo l’effetto che l’esecuzione dei giornalisti del settimanale aveva sortito su di me e doveva aver sortito anche sugli altri, sebbene ciascuno fosse pervenuto a conclusioni e pareri diversi in proposito. Mi dicevo: «Sto avendo per il rotto della cuffia una chance per esprimere la mia opinione su un evento al momento per tutti imprescindibile in un contesto letterario di grande rilevanza. Sono stata fortuna a farcela», ma nient’altro. Sapere che è stata una mia reale convinzione di denuncia e un serio caso di contrasti fra menti e popoli ad aver impressionato la giuria non può che farmi sentire onorata. Il tuo racconto ha un intreccio, a mio parere, molto cinematografico, all’incrocio tra il cinema della perdita dell’identità (c’è qualcosa di truffautiano

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nella caratterizzazione del protagonista, Jean-Ive Le Léap) e quello post moderno, da un lato una certa dimensione intimistica, di perdita e ricerca del sé e dall’altro il ciclone mediatico che trasforma la persona in personaggio, il gesto e la responsabilità individuale in immagine collettiva soggetta a giudizi e pregiudizi per lo più spericolati. Prima di entrare nel dettaglio di quest’ultimo aspetto, volevo chiederti se sei d’accordo con chi sostiene che scrittura contemporanea sia fin troppo influenzata dalla sintassi dei mezzi di comunicazione di massa, nel senso di una contaminazione in negativo che sta depauperando la letteratura, sempre più media e sempre meno arte. Devo ammettere di non avere ancora avuto il piacere di conoscere Truffaut approfonditamente, anche se dopo questa comparazione me ne è venuta molta voglia! In effetti, sì, Je suis Charlie sta proprio a metà fra la rappresentazione narrativa tradizionale e cinematografica, e quella post-moderna. Tuttavia, è il primo tentativo di questo tipo in cui mi cimento – e lo dico per rispondere in maniera completa alla domanda. Da parte mia, infatti, mi trovo d’accordo con chi sostiene che in linea generale la letteratura contemporanea sia spesso influenzata dalla sintassi dei mass-media. Quando è nato, il giornalismo “assorbiva” il più possibile lessico e canoni della letteratura, già esistente da tempo immemorabile e con una struttura solida e apprezzata dal proprio pubblico; ora che la letteratura appare a molti “passata di moda” (assurdo il solo pensiero, ma tant’è), ecco che accade il contrario. Lo trovo poco sensato, in linea di principio. Per me la letteratura è extra-ordinaria proprio perché chi la pratica può giocare con qualunque uso linguistico capace di rappresentare la sua personalità, nei limiti di correttezza e comprensibilità della forma: lasciare che i mass-media la influenzino significa limitarne le potenzialità, cercando quasi con la forza di catturare l’attenzione di quei lettori abituati a leggere più testate giornalistiche che poesie del Novecento tedesco o romanzi dell’Ottocento russo. C’è, quindi, effettivamente chi strumentalizza le tecniche mediatiche – che nel loro ambito sono giustificate e hanno un senso – a fini spesso non tanto letterari, quanto legati a strategie di marketing editoriale e agli incassi che derivano da un eventuale successo. Non penso si possa parlare, in casi simili, di Arte. Anche parlare di Giornalismo sarebbe offensivo nei confronti del giornalismo autentico: di inchiesta, impegnato e convinto delle proprie posizioni. Così, nell’occuparmi di Je suis Charlie, ho volutamente usato un linguaggio contaminato al massimo, servendomi di una vicenda scritta addirittura in forma di saggio breve/lungo articolo, affinché la provocazione al 100% fosse contro le pubblicazioni ispirate da puri

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fini di guadagno, anche e soprattutto dal punto di vista stilistico. Se si esclude questa eccezione, che aveva una finalità ben precisa e critica, mi traggo fuori dalla mischia e preferisco scrivere a modo mio quando mi occupo di narrativa e in modo più freddo e regolamentato quando mi occupo di informazione. E dunque la domanda obbligatoria: qual è il tuo rapporto con i nuovi mezzi di comunicazione? Credi che siano più un mezzo o un fine per la libertà d’espressione? E, soprattutto, cosa significa libertà d’espressione, inclusa la satira, per una ragazza di appena vent’anni? Giusto per chiarire: io non credo che la sintassi dei mezzi di comunicazione di massa abbia in sé poteri contaminatori in negativo. Ogni testo ha un proprio linguaggio specifico, con delle funzioni linguistiche sue proprie, funzionali a raggiungere uno scopo al momento della fruizione del testo stesso. È giusto che i mass-media utilizzino un determinato registro, che io trovo adatto alla trasmissione di informazioni. La letteratura, però, è «un altro paio di maniche», per citare Manzoni. Si tratta di un macro-genere a parte, che ha sì dei punti di contatto con la scrittura mediatica, ma solo a tratti e in misura ridotta. Per questo motivo, di solito, non mi piace “mischiare” i due domini. La letteratura ha la fortuna di essere aperta a qualsiasi stile ed espediente, in quanto la sua funzione linguistica è prevalentemente poetica: non ha l’intento di informare o di commentare un avvenimento, propone una tematica “solo” con l’intento di dilettare insegnando qualcosa (delectare et docere, sostenevano gli antichi Romani). Perciò, la letteratura può permettersi di essere lirica, sconnessa, provocatoria, immaginifica, prolissa, singhiozzante, utopistica e qualunque altra cosa voglia essere. La sua bellezza – come quella di qualsiasi altra espressione artistica – risiede nella libertà di farne l’uso che si preferisce, in base a gusti personali, inclinazioni, ispirazione, umore e altre infinite variabili combinatorie. Personalmente, quindi, ecco perché mantengo separati letteratura e giornalismo. Ciò non significa che io non abbia un buon rapporto con i mass-media, anzi. Trovo che siano uno strumento imprescindibile per mettere in pratica la libertà di espressione individuale, al riguardo la Francia illuminista ci ha insegnato davvero moltissimo. Questo spiega come mai già da tre anni io scriva per una testata free press nata nella mia città, Catania, da sempre apartitica e gestita unicamente da miei coetanei. Il nostro motto è «l’informazione dal tuo punto di vista», dove il “tuo” impersonale è riferito tanto ai lettori quanto a ciascuno di noi redattori: la voglia che abbiamo è quella di parlare senza veli di ogni argomento, essendone critici o sostenitori non sulla base della posizione della maggioranza, ma dei nostri valori e punti di vista.

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ESTRATTO Je suis Charlie di Eva Mascolino (incipit) Per i primi trentaquattro anni della propria vita, Jean-Ive Le Léap era stato un vignettista, nel vero senso della parola: quando qualche fumettista era a corto di vignette o quando c’era bisogno di ricorrere a una grafia particolare per firmare, lui ci metteva del proprio. L’opinione pubblica francese ha di recente dovuto riconoscere di non aver saputo della sua carriera da vignettista, finché egli non è diventato oggetto di una frenetica cronaca nazionale. Sebbene scrives-

Il mondo del giornalismo (non corrotto, propagandistico o censurato) mi piace perché è l’input più efficace e a nostra portata per instaurare un dialogo ragionato, equilibrato e sincero su argomenti che ci riguardano ogni giorno, nessuno escluso. Non è sicuramente il fine della libertà di espressione – il fine è la libertà stessa di avere una propria espressione –, però ne è un mezzo straordinario. Proprio la varietà di opinioni, infatti, e il desiderio di confrontarsi per arricchirsi a vicenda stanno alla base di un miglioramento socio-politico e culturale continuo. Un mondo che funzioni non può fondarsi su una sola convinzione: deve per sua natura accettare la diversità, ascoltarla e permetterle di avere una voce. Tuttavia per me, allo stesso tempo, libertà di espressione deve sempre significare anche profondo rispetto. Ho spesso l’impressione che si confonda il diritto di dire ciò che si vuole con il diritto di dire ciò che volutamente offende il proprio interlocutore: questa non è più libertà, è inaccettabile mancanza di umanità. Essere taglienti, crudi o volgari priva ogni confronto di fini costruttivi e lo trasforma in una cieca e mediocre lite. Beethoven sosteneva di non conoscere nessun altro segno di superiorità nell’uomo che quello di essere gentile e io condivido la sua idea. Alla luce di questo, ho con la satira un rapporto ambiguo: amo il sorriso che suscita quando dissacra con ironia intelligente determinate circostanze, perché si tratta di una contestazione a tutti gli effetti, acuta e originale. Non sono d’accordo, però, con la satira estrema, che offende e beffeggia l’oggetto del proprio attacco senza far riflettere, per il puro gusto di formulare giudizi di valore indisponenti e sterili. Per dirla citando degli esempi concreti, ammiro la libertà di espressione della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore o delle novelle del Decameron, ma trovo sia una mancanza di considerazione della libertà altrui la satira della rivista italiana «Il Male» o di quella inglese «Jesus and Mo». Da persona laica e

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se per Charlie Hebdo, settimanale satirico piuttosto quotato, Jean-Ive Le Léap non era infatti nato con la vocazione per il giornalismo a nessun livello, come ha meticolosamente fatto notare Douglas Anderson in un saggio pubblicato quest’anno sull’ormai celeberrimo cittadino dell’hexagone, dal significativo titolo L’ossessione per la bellezza. Il saggio, com’è noto, non è incentrato sulla sua attività di redattore, eppure l’autore ha dedicato un lungo capitolo della propria opera a spiegare in che modo la frustrazione lavorativa di Le Léap sia da ricollegarsi alla singolare vicenda che l’ha ormai reso famoso in tutto il mondo. La ragione è presto detta: se quella all’interno della redazione

fosse stata un’attività per Le Léap più stimolante, quest’ultimo non avrebbe probabilmente avuto il tempo materiale per elaborare malesseri di alcun tipo. Nel caso specifico, la patologia di Jean-Ive Le Léap, nato sotto il segno dei pesci nella cittadina di Besançon (Francia Contea), era di un tipo ben preciso. Di un tipo quasi anomalo, anzi. Quasi unico. E si era manifestata per la prima volta il 27 marzo del 2013, come ha fedelmente ricostruito per la prima volta lo scrittore e psichiatra Mathieu Adagio a pagina 11 del proprio La verità sul caso Le Léap, i cui riferimenti sono stati dichiarati i più fedeli all’autobiografica del Nostro…

per ora agnostica, non apprezzo in ogni caso battute così pesanti su questioni religiose, personaggi pubblici e faccende diplomatiche, così come non le apprezzerei in nessun altro campo. A tutto c’è un limite, in considerazione del diritto di non essere diffamati.

Allo stesso modo, ma per altri motivi, adoro la scrittura narrativa: in questo caso scrivo per de-scrivere immagini. Alcune le sento, altre le creo, altre arrivano e stanno ad abitare un po’ dentro di me. E io me ne circondo, le coccolo tutte e mi ci affeziono, collezionandole finché non trovo il canale giusto per raccontarle. È indescrivibile il piacere che provo nel momento in cui una nuova idea affiora tra una nebbia di pensieri, o quello in cui scelgo le parole adatte per iniziare una nuova breve vita attraverso una pagina tutta da riempire. È un attimo solenne e dolcissimo, in cui mille alternative sgomitano per essere le predilette, fra tutti i possibili svolgimenti di una determinata vicenda: è l’attimo in cui si accendono le giuste lampadine fra le strade di enormi città interiori. Quanto alla traduzione, ritengo sia un’arte generalmente sottovalutata. Studiando cinque lingue e letterature straniere all’università dopo essermi cimentata con latino e greco al liceo, sto capendo da vicino che tradurre non significa affidarsi a un dizionario parola per parola. Per capire un testo, sia da lettori che da traduttori, bisogna prima conoscere il mondo che c’è dietro: storico, psicologico e linguistico. Quando lo si è capito fino al midollo, bisogna poi trovare un metodo semplice e funzionale perché lo possa capire anche ogni altro lettore appartenente a un altro mondo. Ecco che, allora, la traduzione diventa ri-scrittura, ri-invenzione ai massimi gradi di creatività individuale e contemporaneamente fedeltà al messaggio di partenza. Una sfida straordinaria, insomma, e delicata tanto quanto un’operazione chirurgica: ogni termine è un microcosmo da sfiorare con devozione, da modificare nella maniera più indolore possibile e da svelare nella sua luce migliore a chi nell’idioma originario non lo conosce. Giulia Carcasi sostiene che «scrivere è qualcosa di intimo, più intimo del sesso, quello si fa uno incastrato all’altro, si fa senza studiare il corpo che si ha di fronte, dentro. Scrivere è spogliarsi di fronte a qualcuno, lasciarsi guardare così, nudi e in piedi, pieni di difetti

Da grande sogni di essere giornalista e scrittrice, nonché traduttrice delle mie stesse opere. Quando alla tua età facevo affermazioni simili, benché non perfettamente identiche, mi rimproveravano di non avere le idee chiare, anche se si trattava, e ancora nel tuo caso si tratta, di vertici di un medesimo poligono settoriale. Oggi invece è la regola, è la società, e soprattutto il mercato del lavoro, a richiedere competenze plurime e, se possibile, flessibili. Tu che ne pensi? Credo si sia ormai percepito che non sono una persona facilmente influenzabile. Non faccio, penso, dico o amo quello che rientra nella norma solo perché gli altri sono soliti farlo. Nel caso specifico, questo mio desiderio non ha a che fare con le regole del mercato del lavoro, a cui spero, invece, di non dovermi mai piegare rinnegando la mia natura o le mie passioni. È vero, in effetti, che i mestieri di giornalista, traduttrice e scrittrice costituiscono i vertici di un medesimo poligono – nel mio caso, triangolo – settoriale, ma solo perché in simili attività sta per me il piacere più intenso in assoluto. Adoro il giornalismo per lo spazio che dà di commentare con forza e personalità tutti i meccanismi in cui siamo coinvolti nel momento attuale. In tal senso, sento di voler scrivere quando scrivere è vietato, quando quella con l’inchiostro diventa una lotta per la sopravvivenza contro ogni forma di ingiustizia. Adoro, poi, la scrittura poetica perché mi permette di esorcizzare da dietro le quinte ogni tipo di paura, emozione o situazione difficile da gestire: devo inventare per non ingannarmi, complicare tutto in versi per essere poi capace di sbrogliare la matassa e venirne a capo.

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di carne». Ecco, io vorrei lasciarmi guardare così, ho iniziato a farlo su un quadernetto a righe che ho intitolato Parole sul mondo quando avevo cinque anni e la mia famiglia mi ha sempre incoraggiata moltissimo a proseguire, con stimoli e fiducia. Per cui, conciliare queste tre facce della scrittura significherebbe realizzare un vero e proprio sogno: sento di avere le idee chiarissime al riguardo. Peraltro, se non si può negare che il mercato del lavoro attuale valorizzi le conoscenze plurime, è altrettanto vero che prima lo ha fatto la tendenza alla cultura enciclopedica tipica del Medioevo: nei primi secoli dopo l’anno Mille era la prassi studiare ogni disciplina approfonditamente, senza specializzarsi più in medicina che in architettura. Non a caso, Dante Alighieri conosceva tanto la fisica aristotelica quanto la retorica classica – e così via. Flessibilità è sinonimo di apertura mentale: che poi torni utile durante un colloquio di lavoro è ottimo, ma secondo me non è questo lo scopo primario per cui la si dovrebbe acquisire. Quando andavo a scuola, io stessa ambivo a conoscere tutto, senza tralasciare niente, neanche una volta iscrittami all’università: per anni ho suonato il pianoforte da autodidatta, ho seguito un corso di scacchi, ho aderito a competizioni di matematica e a iniziative sulla ricerca contro il cancro, ho partecipato a campionati di pallavolo e atletica leggera, ho conseguito la Patente Europea per il computer… Imparare è per me quanto di più stimolante ed entusiasmante ci sia, detesto il fatto di avere un percorso di studi e un’esistenza “limitati” e limitanti, non tanto perché il mercato del lavoro vorrebbe il contrario, quanto perché non riesco a concepire una disciplina che sia meno valida o interessante di altre. Averne già selezionate tre per una teorica carriera ideale, quindi, è per me un enorme traguardo. Sarà difficile riuscirci senza raccomandazioni, pubblicazioni a pagamento e altre scorciatoie simili, lo dico con amarezza, tuttavia non per questo scenderò a compromessi o getterò la spugna. Sei «autoironica», parli per «autodefinizioni» o «per citazioni di intellettuali che ammiri». Perciò, per terminare questa chiacchierata, ti chiedo di descriverti in ognuno di questi tre modi, con autoironia, con un’autodefinizione e per il tramite di una citazione… Domanda tanto bella quanto complicata! Essere autoironica a comando, in particolare, è difficilissimo. Comunque, provo a fare del mio meglio. Quando rientro da un esame universitario, otto volte su dieci lo faccio con un 30 e lode. Però, a discapito dei miei vent’anni e delle soddisfazioni che ho in ambiti culturali e teorici, sono di una imbranataggine totale: zero senso pratico. Ancora adesso non credo di saper allacciarmi le scarpe come fanno tutti, per esempio. E poi rovescio in continuazione qualcosa quando cucino. Ogni volta che guido ho incontri ravvicinati del terzo tipo con i motorini che mi sorpassano e non sono ca-

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pace di maneggiare le monete senza che qualcuna cada per terra. Certe volte la mia mamma mi osserva e mi chiede: «Com’è possibile che ancora non ti sia fatta mettere sotto da un autobus?». «Perché resto sempre dallo stesso lato del marciapiede, visto che non so attraversare la strada» le rispondo, tra il serio e il faceto. Eppure, ecco, chiamo in mio aiuto un’autocitazione per parlare di me anche da un’altra prospettiva: «Al di là delle mie imperfezioni e di tutto quel che non va o non soddisfa, che è fastidioso, sciocco, inutile, dannoso, infantile o quant’altro, al di là di questo, dico, io sono felice di essere come sono. Sono felice di non essere attratta dalla gente influente piuttosto che da quella meno appariscente, magari insicura, ma con un sorriso vero addosso, di quelli che non si possono comprare e che ci si deve guadagnare col sudore della fronte e con il tempo. Sono felice di volermi tagliare le unghie per fare castelli di sabbia con i bambini senza spezzarmele, piuttosto che lasciarle lunghe e farle scivolare sulla schiena di qualcuno la notte di Ferragosto, giusto per eccitarlo, giusto per sapere che sono io a farlo eccitare. Sono felice di essere un po’ goffa e impacciata, piuttosto che provocante e magari volgare, e sono felice di non essere capace di mentire o di tradire la fiducia altrui. Sono felice delle poesie che leggo e di quello che mi rende di buonumore: le passeggiate invernali in riva al mare, i cieli estivi al tramonto, i segreti stupidi e le grandi confidenze, il linguaggio cifrato con cui comunico con mio fratello, le scampagnate in mezzo al verde, la musica strumentale ascoltata sotto le coperte a notte fonda, le riflessioni pseudo-filosofiche tra me e me appena alzata, la pioggia che cade quando sono a casa e la pioggia che cade quando sono fuori, mi inzuppo e ci rido su, le preghiere recitate da mio nonno e le nostre partite a carte, i gatti che scappano se ci si avvicina troppo senza tatto, il momento in cui metto piede per la prima volta in un Paese straniero, le librerie antiche del centro storico, i film comici in bianco e nero, i colori dei fiori fra l’asfalto, le torte di compleanno, le lettere scritte a mano, i cartoni animati a lieto fine, le città d’arte e le partite di pallavolo giocate a maggio, quando si suda e si hanno il fiato corto e i capelli scompigliati. Io sono questa. E mi piace scrivere ritornelli di canzoni sulla sabbia, fare il solletico alla persona che amo, guardare le stelle, andare in bici senza mani anche a costo di sbucciarmi ancora le ginocchia. Sono felice di essere così, il resto non importa. Ho una vita intera per imparare a farlo come si deve». E, a proposito di vita, concludo con una citazione di uno fra i miei scrittori preferiti: «Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio. Ce la farò, vero? Vero che ce la farò?» (Oceano mare, Alessandro Baricco).

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Loreta Minutilli,

L'universo accanto

di Elena Spadiliero Pugliese, classe 1995 e studentessa universitaria di Fisica, Loreta è stata selezionata al Campiello con L’universo accanto: ambientato in un futuro imprecisato, al centro del racconto c’è l’iRec, un particolarissimo strumento che permette di registrare e valutare la vita di un individuo e, sulla base di precisi calcoli, di orientarne le scelte. Tre sono i protagonisti dello scritto, impegnati nella ricerca di quelle emozioni che l’ipertecnologico iRec sembra aver cancellato. Abbiamo fatto una chiacchierata con Loreta e le abbiamo posto alcune domande. Ecco cosa ci ha risposto. Loreta, sappiamo che partecipi con un certo entusiasmo al Campiello poiché, in passato, ha decretato la vittoria di autori che hai detto di ammirare molto. A chi ti riferisci nello specifico? Cosa di questi autori ti affascina? Tra i vincitori del Premio Campiello che ammiro c’è sicuramente Antonio Tabucchi, di cui apprezzo lo stile insieme criptico e accattivante, che riesce a colmare il lettore pur tratteggiando le vicende delle sue opere con pochi essenziali elementi. Ho inoltre letto con piacere alcune opere di Ermanno Rea e ho apprezzato il suo stile coinvolgente; altri autori, come Dacia Maraini e Gesualdo Bufalino, figurano sulla mia lista delle prossime letture e mi affascinano parecchio. Per te scrivere è «passione, necessità, ambizione» e so che il Campiello è una sfida, un modo per metterti alla prova, ma anche una sorta di primo passo per poter, un giorno, entrare a far parte del mondo della scrittura. Come si combina questa tua aspirazione professionale con i tuoi studi universitari in

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Fisica? Se in futuro dovessi scegliere tra un lavoro nel tuo ambito di studi e la scrittura a tempo pieno, sceglieresti quest’ultima? Sono una persona curiosa per natura, e punto ad avere un futuro che mi veda impegnata su più fronti: non sopporterei di fare sempre la stessa cosa, ogni giorno. Per questo cerco di assecondare tutte le mie passioni, e di sicuro in futuro farò in modo di non trovarmi mai nella situazione di dover scegliere tra due cose per me tanto essenziali come la comprensione dell’universo e la comprensione di me stessa. Cercherei in ogni caso di portare sempre avanti entrambi i progetti, a costo di scrivere di notte: essere sottoposta a tanto lavoro sarebbe stimolante e mi stimolerebbe a svolgerlo al meglio, per dimostrare a me stessa che ne sono in grado. L’universo accanto è il racconto con cui ti sei presentata al Campiello. Come è nata l’ispirazione per questa storia? Ogni volta che scrivo, la storia mi si è formata pian piano in testa a partire da un’immagine, una frase, una combinazione di idee. All’inizio è solo un abbozzo, poi un piccolo evento mi permette di aggiungere un tassello al quadro: capisco che è la storia giusta da scrivere quando praticamente ogni cosa che vedo o faccio mi sembra una fonte d’ispirazione, diventa una vera e propria ossessione. Anche per L’universo accanto è stato così: avevo messo insieme alcuni appunti durante diverse lezioni di fisica (sì, di solito i miei quaderni contengono per metà formule e per metà abbozzi di racconti) e li ho poi rielaborati nel corso di un’intensa e allucinata dome-

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ESTRATTO L’universo accanto di Loreta Minutilli (incipit)

nica pomeriggio: in realtà quando ho iniziato a scrivere conoscevo solo l’inizio della storia, che si è poi sviluppata quasi da sé. Tra i tuoi modelli letterari hai citato Virginia Woolf e Gabriel Garcia Márquez. Quali sono le caratteristiche della loro scrittura che ti appassionano di più e, nella loro produzione letteraria, quali titoli sono, in una tua personale classifica, al primo posto? Di Virginia Woolf adoro la voce decisa e la prosa complicata e avvolgente; il modo in cui riesce a rappresentare ogni sfaccettatura dell’animo umano tramite semplici oggetti e descrizioni. D’altra parte, ammiro il realismo magico di Garcia Márquez e la forza con cui riesce a gestire storie complesse e miriadi di personaggi: penso che l’ideale sarebbe riuscire a combinare le caratteristiche essenziali dei loro stili. Sarà banale, e so che lui non sarebbe stato d’accordo con me, ma ritengo che il capolavoro di Garcia Márquez, e probabilmente il mio libro preferito, sia Cent’anni di solitudine. Per il momento, invece, la mia opera preferita di Virginia Woolf è La signora Dalloway, ma ho ancora molto da leggere della sua produzione e questo giudizio potrebbe cambiare. Hai detto di amare i viaggi e di voler imparare da autodidatta più lingue straniere, in particolare quelle scandinave. Da appassionata di cinema e cultura danese mi ha molto incuriosito questa tua dichiarazione: come mai questa preferenza per l’area scandinava? Mi sembra un luogo magico e fiabesco in cui tutto può succedere, e in cui la storia si mischia alla leggenda. Non sono mai stata in quei posti, quindi mi rendo conto che il mio giudizio potrebbe essere influenzato dai luoghi comuni, ma ho la sensazione che la vita lì scorra con un ritmo più lento, influenzata anche dalla diversa scansione luce/buio, e che quindi sia terreno fertile per l’introspezione, per l’analisi interiore e per la creatività. In particolare mi affascina la Finlandia. Quale è stato il tuo ultimo viaggio e quale sarà il prossimo? C’è qualche Paese straniero in particolare in cui ti piacerebbe ambientare un tuo racconto?

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Ah, quel tempo della giovinezza di Leda Swan in cui la vita si stendeva davanti ai suoi scintillanti occhi bruni come un enorme campo di papaveri inesplorato e il vastissimo e insondabile insieme delle infinite possibilità stava ben stretto tra le sue piccole dita bianche! Che speranze, che sogni, che tragiche esplosioni di eventi e sussulti popolavano allora la sua esistenza! Non è tuttavia questa la pur gloriosa storia che narrerò in queste pagine, nonostante tale scelta sorprenda oltre ogni dire la signora Swan, l’opinione pubblica e non da ultimo lo scrivente stesso – vale a dire, me medesimo, Edmund Alaine, scrittautore pluripremiato come mio padre prima di me e suo padre prima di lui. Sono stupito non meno del resto del mondo per il modo in cui mi rapportai alla signora Swan nel corso della nostra collaborazione, dal primo giorno che entrai nella sua labirintica casa sul tetto del mondo fino al giovedì sera in cui una sequenza di note antiche e chiare a lungo tempo dimenticate mi condusse alla fine di quella storia. La prima volta che la vidi era immersa nella poltrona di mussola al centro della suo salotto bianco, in tinta con la pesante chioma che le troneggiava sul capo. Se ne stava avvolta in una nivea vestaglia con gli occhi socchiusi; la pelle cascante del viso che riposava sulle sue guance.

Il mio ultimo viaggio in senso proprio è stato a Cracovia, l’anno scorso: si è trattato di un’occasione molto particolare perché ho viaggiato fin lì in pullman, lungo un percorso durato ben 27 ore, con un’associazione che si propone di stimolare l’interesse dei giovani nel proprio futuro ponendoli di fronte ai drammi del loro passato, come i campi di sterminio. È stata un’esperienza profonda e intensa e spero che il mio prossimo viaggio possa esserlo altrettanto: non ho nulla in programma, per il momento, ma mi piacerebbe esplorare per bene Roma, città che finora ho purtroppo solo sfiorato. Di solito l’idea di ambientare un racconto in un paese straniero mi rende ansiosa: conoscendomi, infatti, so che passerei ore e ore a documentarmi su ogni particolare della vita nel paese in questione, timorosa di inserire particolari inesatti. Per questo di solito i miei racconti sono ambientati ‘dappertutto e da nessuna parte’; sicuramente però prima o poi coglierò la sfida e ambienterò un racconto in Finlandia, forse, in Islanda o nell’area boema.

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Gebriele Terranova,

Miseria

di Elena Spadiliero Nato in Germania nel ‘94 da genitori immigrati, Terranova ha vissuto all’estero per tutta l’infanzia, compiendo poi gli studi in Italia. Al Campiello si è presentato con un racconto intitolato Miseria, con protagonista una famiglia siciliana. L’importanza della scrittura, la Sicilia e il dialetto siciliano sono alcuni degli argomenti di cui abbiamo chiacchierato con l’autore e su cui gli abbiamo posto qualche domanda. Gabriele, hai descritto il Campiello come un’occasione per metterti alla prova, in quanto hai detto che scrivere è un po’ «parte del tuo essere» e che la tua massima aspirazione sarebbe quella di poterti definire, in futuro, uno scrittore. Quale potrebbe essere, secondo te, il massimo riconoscimento per uno scrittore professionista? C’è qualche specifica casa editrice che vorresti, un giorno, pubblicasse un tuo libro? Mah... Credo che la massima aspirazione di qualunque scrittore sia quella di essere letto e apprezzato. Poi va be’, il mio grande sogno proibito è quello di finire sui manuali di letteratura. Così saprei di essere veramente riuscito nell’impresa di diventare uno Scrittore. Certo, è anche vero che la maggior parte degli autori finisce sui libri scolastici molto dopo la morte e che quindi potrei non vedere mai realizzato questo sogno. Significa che morirò nella speranza di aver scritto qualcosa di interessante. Riguardo la casa editrice, non credo di averne una preferita. Quello che conta è il contenuto del libro, non la forma, sebbene non posso negare che anche l’occhio vuole la sua parte. Quello che spero è di riuscire a incontrare un editore serio, che s’interessi al mio lavoro e che non mi usi per le sue speculazioni,

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nella speranza di torchiare quanti più soldi possibili da chicchessia. Poi davvero non m’importa se la casa editrice in questione sia piccola, grande, del Nord, del Sud o straniera. Una particolarità del tuo racconto è l’importanza assegnata al dialetto siciliano. Trovo che sia un aspetto interessante, anche perché il dialetto è una parte fondamentale dell’identità linguistica e culturale delle singole regioni. Pensi di utilizzare ancora il siciliano nella tua scrittura? Magari in modo anche più “massiccio”, dal momento che qui hai tentato di mantenere ancora una certa leggibilità per un veneto, ad esempio... Credo che utilizzare il dialetto in modo più “massiccio” di quanto abbia fatto in questo racconto non sia davvero possibile. L’idea alla base del racconto e la prima stesura erano interamente in dialetto. Anzi, per meglio dire, in “idioletto”, dal momento che non sono dialettofono. In seguito ho portato avanti un lavoro di calco, cioè ho cercato di “italianizzare” il racconto mantenendo quanto più dialetto possibile. Lo si può vedere nella sintassi, che è rimasta quella siciliana, o nella scelta di alcuni termini come “travaglio” invece di “lavoro”. I dialoghi per altro li ho lasciati in dialetto. Quindi davvero credo non sia possibile infilarci più dialetto di così. Quando un racconto, o un frammento o una poesia mi chiedono di essere scritti, chiedono di essere scritti con il loro linguaggio. Io, in qualità di scrittore, posso solo adeguarmi alla loro volontà, e per ora non hanno “bussato” alla mia penna altri racconti in dialetto. Credo quindi che almeno per ora sfrutterò la lingua che so maneggiare meglio: l’italiano. Forse il dialetto

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ESTRATTO Miseria di Gabriele Terranova (incipit) Vi conto una storia. Una storia di quella Sicilia vecchia che vive ancora. Vi conto quella storia dei carusi che travagliavano la terra e di quelli che travagliavano sotto la terra, perché per questi carusi la terra era l’unica cosa che portava qualche cosa da mangiare. Vi conto questa storia perché è anche la mia storia, che in mezzo a questi carusi c’ero pure io. ! Dovete sapere che vengo da una famiglia di poveri disgraziati che neanche il Signore li volle aiutare. Mio papà lavorava in campagna per don ‘Tano, che

rientrerà per vie traverse. In fondo, anche se non lo parlo, è una componente della mia identità. C’è chi ha paragonato lo stile di Miseria a quello di Verga. Il racconto è stato definito “duro”, espressione che hai detto di non gradire troppo. Che aggettivo useresti per descriverlo? E, tornando a Verga, hai affermato di non essere particolarmente d’accordo con il parallelismo tra Miseria e le sue novelle, ma di ammirare comunque molto l’opera di questo autore. Quali suoi titoli preferisci? C’è qualche altro scrittore (o romanzo) che per te è stato fonte d’ispirazione o che, comunque, apprezzi? Credo che l’espressione più adatta al mio racconto sia “realistico”, nonostante forse ci siano degli elementi inspiegabili, come la profezia della maga. Credo che anche se il racconto è ambientato nell’immediato dopoguerra per molti versi sia ancora attuale, nella solidarietà tra le varie famiglie per esempio. Io ci vedo molto della Sicilia che conosco di persona. Forse un altro aggettivo potrebbe essere “inquieto”, non saprei. Certo, nel racconto si susseguono più disgrazie, alle quali non si riesce a dare un motivo. Ma la vita è così, alle disgrazie non c’è un perché, c’è solo la forza per superarle e andare avanti. Parlando di temi violenti non è possibile utilizzare costrutti eufemistici ed edulcorati – a meno di non voler fare dell’ironia; quella però sarebbe cattiveria. Di Verga chiaramente preferisco le novelle, in particolare quelle di Vita dei campi e Cavalleria rusticana. Poi devo dire di apprezzare molto Pirandello, in particolare Quaderni di Serafino Gubbio operatore, che quasi nessuno conosce ed è un peccato, perché anti-

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cipa molte delle questioni poste dal progresso e dallo scientismo. Infine un romanzo che mi è rimasto nel cuore è L’eleganza del riccio, di Muriel Burbery. C’è una citazione di questo libro che è stato come uno switch, un momento con un prima e un dopo nella mia vita e mi ha permesso di capire tante, troppe cose di me e del mio posto nel mondo. Dice: «Ho capito che soffrivo perché non potevo far del bene a nessuno attorno a me. [...] Io vedo i loro sintomi, ma non sono capace di curarli, e così sono malata anch’io quanto loro, ma non lo vedo». Hai definito la Sicilia una terra «bellissima, potente ma sola e martoriata». Perché sola e martoriata? I giovani siciliani che contributo concreto potrebbero dare al miglioramento di questa situazione? Non mi si fraintenda. La Sicilia è una terra che ha moltissimo da offrire, che offre già moltissimo ma che si batte per offrire ancora di più. Il fatto è che molto spesso, parlando con le persone che mi stanno intorno, mi sembra che l’impressione generale sia quella che la nostra terra sia stata abbandonata. Certo, decenni di cattiva gestione politica non si possono cancellare con un colpo di spugna e l’arretratezza strutturale è ancora un dato di fatto. Ciò nondimeno l’impressione generale è quella che non ci sia vero interesse verso la nostra terra. Faccio un esempio banalissimo. Un paio di mesi fa circa è crollato un viadotto della A19 (Palermo-Catania). Con l’autostrada ci s’impiegavano in media due ore di macchina per andare da un capoluogo all’altro. Col treno ce ne vogliono più di 4. Trenitalia ha aspettato il crollo del viadotto per attivare i “minuetto”, in

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era vecchio, ma la testa gli ragionava ancora giusta, e lo sapeva che cosa doveva fare per fare andare le cose come diceva lui. Ogni giorno mio papà si alzava alle quattro di mattina, si sciacquava la faccia, si metteva un paio di pantaloni vecchi e una camicia tutta strappata, poi si metteva i scarponi, ci dava un bacio a mia mamma, poi passava nella mia stanza e baciava anche a me e a mio fratello che aveva tre annuzzi. Noialtri alle quattro e mezza dormivamo tutti e perciò non lo potevamo sentire, però ogni giorno prima di uscire di casa mio papà ci guardava e ci diceva sempre “Signuri v’haju a renniri grazj ppi sta famiglia, sulu datimi a forza di camparla ‘n mizzu a ‘sta miseria”. Poi usciva di casa e andava a travagliare nei terreni vicino le Schette. Tornava la sera con lo scuro, stan-

co come un cane, però quando entrava dentro ci salutava sempre con i denti di fuori, anche se denti ne aveva pochi e niente di tondo mischino, e a mio fratello lo pigliava sempre in braccia e ci faceva girare la stanza. Poi lo posava perché non ce la faceva a tenerlo assai in braccia che era stanco di travaglio. Perciò si sedeva a mangiare. Con mia mamma si sciarriava sempre perché lei prima di mangiare voleva che si faceva la croce, ma tra la fame e la stanchezza, erano di più le volte che se la scordava che quelle che ci pensava. Appena finiva di mangiare quel pezzo di pane duro con quel poco di tumazzo, ci baciava a tutti e si andava a coricare nel letto, che dalla stanchezza non teneva neanche all’in piedi, povero cristiano…

grado di collegare le due città in due ore. A questo va aggiunto che le realtà già presenti sul territorio non sono conosciute. Per citarne due: a Catania opera la ST Microelectronics che produce componentistica smartphone per aziende come Apple e Samsung e che nei periodi di picco produttivo arriva a impiegare fino a 3500 dipendenti; nel paesino da cui provengo, Riesi, esiste una piccola azienda di nove impiegati: quest’azienda ha prodotto molte componenti per il CERN di Ginevra e continua a produrre componenti meccaniche di altissima precisione per aziende di tutto il mondo. Io credo che il compito dei giovani che vogliono riscattare la nostra isola è innanzitutto quello di informarsi, aggiornarsi e conoscere la realtà e poi quello di non farsi “riempire le orecchie” dai soliti paroloni dei politicanti di qualsivoglia colore, ma di farsi una propria coerente idea e contribuire attivamente alla vita politica. È difficile, c’è disillusione, c’é cinismo, ma restando fermi a lamentarsi non cambia nulla.

in Inghilterra, poi un anno in Germania, poi uno in Repubblica Ceca, chissà. Di certo non ho voglia di stabilirmi tanto presto. Altre passioni oltre la scrittura? Ma io per la verità non definirei la scrittura come una passione. Una passione è qualcosa che ti fa sentire meglio quando la fai. La scrittura per me, al contrario, è qualcosa che ti fa sentire male se non la fai. È più una funzione vitale. Senza credo che andrei incontro a un lento ma inarrestabile deperimento. In questo senso un altro bisogno è la musica, mia croce e delizia. Dico questo perché purtroppo non so cantare né suonare alcuno strumento; e ogni volta che m’infilo gli auricolari mi sento come se stessi parassitando senza dare alla musica nulla in cambio. Cerco di compensare in parte con la scrittura, ma non sempre mi riesce... Tolto questo credo che una mia passione potrebbe essere il cioccolato. Nero, amaro e fondente.

Tu che hai vissuto una parte della tua vita all’estero, non hai mai avuto la tentazione di tornarci e cercare “fortuna” via dall’Italia? Anche non in Germania, naturalmente... Be’, io spero costantemente di uscire fuori dall’Italia e farmi una vita all’estero. Ho scelto il corso di Lingue per questo. Questo non vuol dire che voglio cercare fortuna fuori dall’Italia. Io spero intimamente che la mia fortuna venga dalla mia terra. Però ho bisogno di viaggiare, di conoscere culture e modi di pensare nuovi, di allargare la mia visione. Ho bisogno di completarmi e un passaggio imprescindibile è proprio quello di viaggiare. Magari lavorerò un anno

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«La vendetta è la prima soluzione che ci viene in mente. È ovvio e naturale: la legge del taglione, no? Occhio per occhio, dente per dente. Ma non funziona».

Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice, Sellerio. Premio Campiello, 2014.


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