Sul Romanzo - Anno 2 n. 3 - Lug. 2012

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In copertina: Immagine di copertina: RITRATTOSLAG DI DONNA, - WASTE, di Mauro Emanuele Alice, Lecci, acrilico Tecnica su tela. mista.

Luglio 2012

Webzine - Anno 2, n°3

Diversità sessuale e identità di genere Un viaggio nell'universo della sessualità in tutte le sue declinazioni, tra riflessione sociale, letteratura, filosofia, arte, cinema e fotografia.


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Sul Romanzo

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Editoriale di Morgan Palmas

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E chi ci Thiene più? Ricordi fotografici del K.Lit 2012

di Gaia Conventi, con foto di Andrea Fortini

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In principio era la donna. Raccontata da un uomo

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Diversi nella diversità

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L’eros è eterno, il sesso è contingente

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di Alberto Carollo

di Jacopo Iannacci

di Marco Palasciano

La lettura di Myškin

Troppo umani per essere diversi di Gerardo Perrotta Mamma, mi leggi?

Piccoli gay crescono. Letture di formazione? di Stefano Verziaggi

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Ritratto di G., omosessuale morto

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Ambiguità, ironia e amore saffico: notarelle sull'androgino di Paulina Spiechowicz

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Il ritratto di Dorian Gray e Orlando, «complesse creature multiformi» di Monica Raffaele Addamo

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George e James, protagonisti a confronto

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La fotografia tra scoperta del corpo e attenzione al diverso di Annamaria Trevale

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Dal transessualismo al fenomeno delle drag queen nel cinema di Mirko Tondi

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Adomandarispondo

di Marco Giacosa

di Giovanni Turi

a cura di Gaia Conventi

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Direttore: Morgan Palmas Caporedattore: Gerardo Perrotta Redattori: Donatella Capone Davide Ecatti Giovanni Turi Stefano Verziaggi Art Director: Daniele Vignato

Hanno collaborato a questo numero: Monica Raffaele Addamo, Alberto Carollo, Gaia Conventi, Marco Giacosa, Jacopo Iannacci, Marco Palasciano, Morgan Palmas, Gerardo Perrotta, Paulina Spiechowicz, Mirko Tondi, Annamaria Trevale, Giovanni Turi, Stefano Verziaggi. Si ringraziano: Carlo Scortegagna, web master. Mauro Alice, Roger Bomben, Christoffer Gertz Bech, Emanuele Lecci e Loredana Mortellaro, per le rappresentazioni fotografiche delle loro produzioni artistiche. Mariano Colantoni, Chryssalis, Ezioman, johnhildreth, Benson Kua, Miroslav Petrasko e Zlatko Unger, per le foto fornite in licenza Creative Commons. Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it.

In alto: Alterego androgino, Roger Bomben. Nella pagina a fianco: San Sebastiano curato da un Angelo, Giovanni Baglione, 1603 ca. Collezione privata, Roma.

Note legali: “Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione Non commerciale - Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche, si invita a contattare la Redazione (webzine@sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.


L’editoriale

di Morgan Palmas

Sono trascorsi sei mesi dalla ripresa delle pubblicazioni della Webzine, durante i quali abbiamo dato avvio a un percorso di rinnovamento che ci ha portato a cambiare alcune impostazioni originarie e a consolidarne altre in modo più strutturato. Anche per questo terzo numero del 2012, dunque, abbiamo preparato per i nostri lettori un’importante novità: la Webzine si sdoppia e diventa a cadenza bimestrale, alternando una pubblicazione generalista a una dedicata all’approfondimento di un tema che riteniamo importante per la comprensione di alcuni aspetti basilari della nostra società, oltre che per cogliere alcune dimensioni e coordinate di orientamento del nostro mondo culturale. L’inserto tematico, al centro dei precedenti numeri della Rivista, acquista una dignità propria e si trasforma in un discorso polifonico su un argomento condiviso, un modo per dare spazio a voci e opinioni differenti, riunite insieme per sostenere una riflessione plurale, considerando la dissonanza come strategia di sostegno alla formulazione di un’opinione consapevole. Iniziamo, a partire da questo mese, a riflettere su un argomento che, almeno in Italia, risulta sempre spinoso e in grado di aprire discussioni e scontri di posizioni radicali e inconciliabili, in nome di una tradizione che, troppo spesso, diventa conservazione o cieca intransigenza, e sotto la spinta di una modernità che, talvolta, si fa irrazionale impulso a guardare avanti. Sul Romanzo

L’identità di genere e la diversità sessuale sono i due fulcri intorno ai quali si anima la riflessione degli articoli pubblicati, a partire da un’analisi delle modalità di costruzione letteraria dell’identità femminile da parte di scrittori di sesso maschile, tema di pregnante attualità, visti i recenti episodi di violenza sulle donne, e occasione per riflettere sui meccanismi che la società adopera per influenzare la formazione dell’identità individuale anche sul piano sessuale. È su quest’ambito, infatti, che s’incentrano gli altri contributi, nell’ottica di un’analisi che riunisca punti di vista diversi, appoggiandosi alla riflessione filosofica e sociologica, alla critica letteraria, all’arte, al cinema e alla fotografia. Prosegue, infatti, l’esperimento intrapreso con i numeri precedenti: creare una Webzine la cui cifra fondamentale sia il rapporto sinergico tra le arti e la creazione di impensate connessioni che possano supportare l’apertura di percorsi autentici, lontani dall’immediata adesione ai luoghi comuni. Ci auguriamo che i nostri contenuti incontrino il vostro interesse e che contribuiscano ad aprire piste di riflessioni condivise.

Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it n° 3 • Luglio 2012

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E chi ci Thiene più? Ricordi fotografici del

2012.

Di Gaia Conventi, con foto di Andrea Fortini.

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1 - Sabato, Centro città, si è parlato di letteratura erotica. Il pubblico è stato invitato a tenere le mani in vista.

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2 - Sabato, Centro città, IMT Vocal Project. Un gruppo vocale tra vocali e consonanti di un festival letterario.

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2 giorni, 200 eventi per oltre 6.000 minuti di attività e 8.000 partecipanti. Questi i numeri di K.Lit, il Primo Festival Europeo dei Blog Letterari, svoltosi a Thiene (VI), il 7 e 8 luglio 2012.

5 - Piazza Chilesotti. Per un week-end, l’ombelico della blogosfera letteraria.

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3 - Sabato, Istituto Santa Dorotea, Tetrachord. Il pubblico variegato del K.Lit: guai a dire che non c’era nemmeno un cane!

Punto di forza è stato un palinsesto che ha saputo far dialogare tra loro diverse forme artistiche: dalla letteratura, presente con interviste, tavole rotonde, colazioni letterarie, incontri con scrittori e critici, alla musica, fino alla danza e alle esposizioni fotografiche e pittoriche. Sul Romanzo

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4 4 - Quando lo spot passa a trovarti, non cambiare canale!

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6 - Domenica, Sede Opere Parrocchiali, Vestirsi di me: la danza che sveste l’anima.

K.Lit è riuscito a portare i blog fuori dalla rete, a dare voce e volto a chi di solito usa solo la scrittura; è stato l’inizio di una nuova forma di dialogo su temi culturali, letterari e sociali.

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7 - Domenica, Piazza Chilesotti. La discoteca senza musica: esperimento riuscito!

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8 - Domenica, Piazza Chilesotti, Colazione letteraria. Si parla di terremoto e scende una lacrima, prontamente consolata dallo scampanare della chiesa lĂŹ accanto. La benedizione divina arriva quando meno te lo aspetti!

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In principio era la donna. Raccontata da un uomo.

Una breve e curiosa ricognizione sulla (de)costruzione dell'identità femminile ad opera degli autori maschi nella Letteratura italiana.

di Alberto Carollo

L’identità di genere, nella fattispecie quella femminile, si è sviluppata, nella civiltà occidentale, attraverso una lente e un filtro prettamente maschili. Nel mondo greco–romano e più su, nel corso dei secoli, il potere e il sapere sono stati a lungo appannaggio degli uomini. Vale lo stesso discorso per gran parte della Letteratura italiana, da Dante al Novecento: il confronto simbolico con una figura femminile, fortemente idealizzata, sarà una costante per molti autori nelle varie epoche della produzione letteraria italiana. Lo stesso Carl Gustav Jung (1875–1961), ne L’io e l’inconscio (1928), parla di un processo di individuazione del sé, nel quale il soggetto si confronta col proprio inconscio. La libido freudiana si manifesta, per Jung, non solo nelle istanze pulsionali, ma anche nella sfera delle funzioni superiori, intellettive e spirituali; a questo livello, essa agisce attraverso il simbolo, manifestazione del substrato archetipico profondo dell’umanità e motore della trasformazione del singolo, del suo tendere a un’evoluzione e perfezione spirituale. In quest'ottica, Jung individua, in ogni uomo, una componente archetipica femminile che deve essere riconosciuta ed espressa per essere integrata nel processo di individuazione.

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1 - Dante and Beatrice, John William Waterhouse, 1915. Collezione privata. 2 - The Meeting of Petrarch and Laura at Avignon in the Year 1327, Josef Manes, 1846-46. Narodni Galerie, Praga (CZ).

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Il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, contenuto nella Vita nova di Dante (1293–1295), non è solo espressione di un processo di progressiva sublimazione che conduce all’esclusiva lode dell’amata, della sua bellezza fisica e morale. Beatrice travalica le caratteristiche della donna angelicata degli stilnovisti, capace di trasformare la “Potenza divina” – ch’è nella natura dell’uomo – in “Atto”; la donna è creatura divina, inviata da Dio in terra per elargire beatitudine, diviene movimento della vita verso la coscienza di sé, delle qualità umane e morali nonché del talento letterario di Dante. La trasfigurazione poetica dell’amore per Laura è il fulcro del Canzoniere petrarchesco (1336–1374). In queste liriche, il poeta precisa momenti e occasioni della sua vicenda amorosa, inseguendo il filo conduttore degli anniversari del suo innamoramento. Non vi è alcun dato concreto che dia peso reale a una vicenda che risulta totalmente sublimata, quasi un exemplum morale. La storia dell’amore per Laura esprime simbolicamente il travaglio morale e religioso del poeta, l’inquietu-

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3 - Ruggiero e Angelica, Giovanni Bilivert, 16231624. Musée des BeauxArts, Digione (F). 4 - A vision of Fiammetta, Dante Gabriel Rossetti, 1878. Collection of Lord Lloyd-Webber, (UK).

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dine esistenziale, la consapevolezza della fragilità e limitatezza umane, la caducità dei valori terreni, il percorso che parte dal peccato e conduce alla ricerca di una redenzione. Per molti versi agli antipodi dell’esperienza stilistica petrarchesca, così antirealistica e antiespressionistica, è la vocazione di Giovanni Boccaccio. Lo scopo precipuo del suo Decameron (1348–1353) è di aiutare le donne, contribuendo ad alleviarne le pene sentimentali. Il Decameron è un testo polimorfo; in molte novelle, viene posto l’accento su una concezione dell’amore come istinto irrefrenabile e legge naturale e la donna scopre di avere una propria sensualità carnale. L’azione sentimentale dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1532) ruota attorno alla figura del più valoroso tra i paladini. Qui, la donna è “mobile” e “ammaliatrice”, bella quanto irraggiungibile, e scompare dal poema dopo aver deluso le aspettative di numerosi cavalieri ed essersi concessa al giovane saraceno Medoro. La pazzia di Orlando è la naturale conclusione dell’innamoramento, sul solco senechiano dell’Hercules furens, modello classico della follia che colpisce personaggi dotati di eccezionale valore e virtù. L’epoca barocca si contraddistingue per il suo sperimentalismo formale, per la sua ricerca del meraviglioso, dello strano, del soprannaturale e sbalorditivo. Una sensualità estenuata, aspirazione a un piacere a volte smodato e apertamente lascivo è ben rappresentata dall’opera di Giovan Battista Marino. In un sonetto contenuto ne La Lira (1614), Bella schiava, troviamo quell’amore per l’eSul Romanzo

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sotico, trasfuso in una lode alla bellezza bruna di una schiava. «Nera sì, ma bella, o di Natura / Fra le belle d’Amor leggiadro mostro». Il “mostro” è un latinismo per “prodigio”, utilizzato dall’autore per designare la bizzarria e l’orridezza, accostato a “leggiadro” per costituire un efficace ossimoro. La monaca di Monza, ispirata a una figura realmente esistita, è uno dei personaggi più enigmatici e inquietanti de I promessi sposi (1840–1841). Gli atti di cui la monaca è colpevole o complice sono una diretta conseguenza dell’opera diseducativa del principe, suo padre. Il sottile e crudele lavorio psicologico di plagio della figlia viene supportato dai famigliari e dalle monache alle quali viene affidata in tenera età. Circondata di agi e privilegi, Gertrude cresce come una «principessa in convento»; il suo ritiro in un mondo definito da Manzoni «paradiso dei sogni», incatenata alle proprie ossessioni, farà di lei una donna sottomessa, incapace di svincolarsi dal giogo paterno. La paura sembra paralizzarla all’idea di confidare finalmente l’inesistenza della sua devozione, o di porsi apertamente contro il padre: «Un altro sì, e fu monaca per sempre». Non è l’amore, come si potrebbe pensare, il motivo che ispira A Silvia di Giacomo Leopardi, una delle più celebri liriche dei Canti (1835). Una nota dello Zibaldone precisa il fascino particolare prodotto sul poeta dalle fanciulle di sedici–diciotto anni: «(...) Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare». La morte precoce della figlia del cocchiere di casa Leopardi colpì il poeta, come quelle «(...) di tut6 ti i morti giovani in quello aspettar la morte per me». Silvia è ancora la proiezione dell’autore, come il nome stesso sembra suggerire: un progetto di romanzo autobiografico giovanile di Leopardi s’intitolava Vita di Silvio Sarno.

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Nel frattempo si muovevano i primi passi verso l’Unità. Nella sua Storia della Letteratura italiana (1870), Francesco De Sanctis dà forma al canone dei “padri” letterari della patria. La donna permane un oggetto d’amore, musa e fonte d’ispirazione. La grande diffu5 - La monaca di Monza, detta "la Signora", Giuseppe Molteni, 1847. Musei Civici di Pavia. 6 - Ritratto di Emiliana Concha de Ossa, Giovanni Boldini, 1901. Collezione privata. 7 - Ritratto di Luisa Casati, Giovanni Boldini, 1914. Galleria Nazionale d'Arte Contemporanea, Roma.

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sione e fortuna del romanzo corrispondono a una concreta politica dei generi, sia letterari che sessuali. Opere, come Storia di una capinera (1870) di Verga, propongono un modello femminile di abnegazione e sofferenza, sostenendo la diffusione dell’ideale della donna risorgimentale, sposa casta e virtuosa. Lontana dagli ideali patriottici, dai moralismi borghesi e cattolici fu la Scapigliatura, un movimento letterario eversivo che incluse nella sua poetica istanze del simbolismo francese, il culto di autori come Poe e Hoffmann, il naturalismo e una predilezione per il macabro e il deforme. Basti leggere come l’anticonformista Iginio Ugo Tarchetti contempla la donna come visione di morte in Memento: «Quando bacio il tuo labbro profumato, / cara fanciulla, non posso obbliare / che un bianco teschio vi è sotto celato». Con Il piacere (1888), Gabriele D’Annunzio pone al centro del suo interesse narrativo Andrea Sperelli, duplice e ambiguo quanto gli stessi personaggi femminili del romanzo. Sperelli pencola tra Elena Muti, l’eros, immagine di turbamento e piacere sessuale, e il benessere spirituale rappresentato da Maria Ferres, colta e intelligente, amante dell’arte e della musica. In Senilità (1898), Italo Svevo tratteggia la figura di un piccolo intellettuale triestino fallito, perso nel ricordo di una mancata gloria letteraria, vinto dall’inettitudine, in uno stato di vecchiaia spirituale. Gli fa controcanto l’amante Angiolina, con la quale non vuole impegnarsi affettivamente, personaggio di donna esuberante, con una vita sentimentale movimentata. Angiolina è sempre considerata dalla prospettiva dell’inettitudine del personaggio, Emilio Brentani, così come la di lui sorella, Amalia, che ne rispecchia i mali e la debolezza morale e psicologica.

mente in una diegesi trattata con l’oggettività del linguaggio scientifico da un autore/entomologo. Per Alberto Moravia, acuto fustigatore dei costumi della società italiana del suo tempo, il sesso era sempre la metafora di qualcosa, associato al potere, al dominio; motivi, questi, che caratterizzano romanzi come L’uomo che guarda (1986). Moravia parteggiava per i personaggi femminili, seppur con qualche riserbo: «(...) Sono favorevole alla completa liberazione femminile, senza eccedere troppo, però»; e pure: «(...) Le donne sono state considerate a lungo, e tuttora, esseri inferiori. Io ho sempre creduto che siano superiori all’uomo. (…) la figura femminile impera nei miei libri e appare trasgressiva, libera, romantica, passionale, è colei che imprime un impulso alla vita, ed è selvaggia, antisociale, perché l’elemento naturale che è in lei è selvatico» (citazioni da Dialoghi confidenziali, 1991). Ci piace, infine, chiudere questa carrellata di suggestioni con un contributo di Eugenio Montale, tratto da Satura (1971), in cui il poeta traccia, con struggimento e sottile malinconia, la figura della moglie, compagna di vita che ora non è più al suo fianco: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino». L’immagine dello “scendere le scale” evoca la vecchiaia e la morte. «Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue». La posizione prolettica di quel “con te” precisa il ruolo di protagonista che Montale conferisce alla sua donna. Il viaggio a due attraverso la vita e la relazione amorosa volge al termine per il poeta, ma, restando nella metafora, quello del raggiungimento di una piena complementarità e consapevolezza della identità dei generi è appena incominciato.

Il Novecento letterario italiano è, in larga parte, percorso da figure di donne sentite come potenziali o fattive minacce; l’integrità e la granitica tradizione secolare dell’identità mascolina vacillano sotto i colpi inferti dai movimenti di liberazione femminile. In L’assoluto naturale (1967), opera chiave e centrale nell’universo creativo di Goffredo Parise, viene rappresentata una lotta tra i sessi di matrice darwinista. Il dialogo, scarno e paradossale, sorta di operetta morale concepita come un copione teatrale – che, all’epoca, venne additato come misogino –, vede Uomo e Donna disquisire sulla loro relazione. Donna, vorace istinto, soddisferà la sua brama di possesso predominando su Uomo – intento a trovare la radice del suo amore nel Logos, nella oscura grammatica dei sentimenti –, distruggendolo fisicaSul Romanzo

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Diversi nella diversità di Jacopo Iannacci Definire identità e diversità è semplice come costringere nel reticolo di un enunciato qualunque altro concetto. Anzi, è anche più semplice, dato che, quando una qualunque tra le due nozioni viene caratterizzata, basta negarla per ottenere quella mancante. Molto più intrigante risulta essere il tentativo di definire la diversificazione dell’identità, così come l’identificazione nella diversità. Ma c’è davvero un senso profondo nello smerigliare gli spigoli vivi di concetti già ben delineati e consolidati, correndo, addirittura, il rischio di una loro metamorfosi? La risposta è decisamente affermativa, quando, in mezzo ai drappeggi del significato di identità e diversità, si celano questioni che vanno ben oltre il puro schematismo vocabolaristico; questioni per nulla di poco conto, come la diversità sessuale e l’identità di genere. Benché le sovrastrutture sociali moderne si arricchiscano continuamente di nuovi luccicanti archetipi, continuiamo a discriminare ciò che è omogeneo rispetto a ciò che non lo è. Tutto ciò che è omogeneo – quindi allineato – con le abitudini, i modi di pensare, le esigenze e l’e-

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ducazione che ci appartengono viene riconosciuto come compatibile. Se l’entità in questione che mostra omogeneità è un’idea, allora diventa condivisibile; se è un oggetto, diventa acquistabile; se è una persona, diventa avvicinabile. Diversamente, tutto ciò che mostra un allineamento scarso o addirittura nullo è disomogeneo e, quindi, non familiare e non compatibile. Possiamo, pertanto, affermare che ciò che risulta essere omogeneo soddisfa il requisito di identità, mentre ciò che è disomogeneo evidenzia una diversità. Cerchiamo di sfruttare questi concetti nell’ambito della sessualità e dei suoi orientamenti. L’identità di genere è un concetto molto potente, che si concretizza nell’identificazione di un insieme di tratti condivisi con altri individui appartenenti al proprio sesso, prima ancora di conoscere le loro peculiarità caratteriali. D’altro canto, la diversità sessuale sembrerebbe essere un concetto meno rilevante rispetto all’identità di genere, a causa della sua ovvietà: i generi sono due, quello maschile e quello femminile, quindi necessariamente ciascuno di essi è diverso rispetto all’altro. Le definizioni contano relativamente, perché, quando si parla di vita vissuta, poco importa degli schemi e delle convenzioni. Tuttavia, mi ostino a mantenere al centro della discussione il tecnicismo delle definizioni, perché, se si vuole davvero fare affidamento su di esse, bisognerebbe avere il buon senso di farlo sempre. Finocchio, invertito, pederasta, orecchione, checca – tra i cui aggettivi caratterizzanti spiccano sicuramente isterica e pazza –, deviato, sodomita, uranista: questi sono alcuni dei coloriti appellativi che l’uomo ha saputo coniare per rivolgersi, troppo spesso con disprezzo, a se stesso. In mezzo a tanti termini, quello che ritengo più inappropriato è proprio l’appellativo maggiormente conforme ai canoni linguistici convenzionali, ossia diverso, da cui deriva la formula composta diversità sessuale. A volte, le definizioni collidono tra loro mescolandosi, contraddicendosi e facendo emergere una disarmante limitatezza. Si definisce sessualmente diverso un individuo attratto da altri del suo stesso genere. Quindi, è sessualmente diverso chi ha gusti omogenei rispetto al suo genere di appartenenza. Già questa, di per sé, sembra una contraddizione bella e buona. Ma, se c’è una diversità sessuale, allora deve necessariamente esistere anche una n° 3 • Luglio 2012


1 - Slag - Waste, Emanuele Lecci. 2 - Senecio, Paul Klee, 1922. Kunstmuseum, Basilea (CH). 3 - Hauptweg und Nebenwege, Paul Klee, 1929. Museum Ludwig, Colonia (D). 4 - Lo stesso quadro Senecio, come appare nelle varie immagini disponibili sul web.

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condizione identitaria rispetto alla quale qualunque devianza identifica la diversità stessa. Tale omogeneità risiede nell’eterogeneità, ovvero in chi è sessualmente attratto da individui di genere opposto al proprio. Anche in questo caso, le definizioni non sembrano convincere fino in fondo e non riescono a declinare omogeneamente tutti i casi che si presentano nella realtà. Ad esempio, una semplice proporzione che leghi questi elementi non può essere univocamente definita. Se, infatti, l’omosessualità sta alla diversità, allora a cosa sta l’eterosessualità? Difficile affermarlo con esattezza. Chi ha un orientamento omosessuale è sessualmente diverso, e su questo pare non ci siano dubbi. Ma chi è eterosessuale come può essere definito sessualmente? Forse identico. Poco fa, però, abbiamo affermato che l’identità di genere è un’altra cosa. Allora, l’eterosessuale potrebbe essere non diverso e, quindi, non categorizzabile come sessualmente diverso. Anche questo tentativo non convince.

la luce manca, ma il buio non è semplicemente non luce, perché è buio. Sembra proprio che non si riesca a uscire da questo labirinto di concetti. Eppure, basta aggiungere a queste definizioni qualche elemento ausiliario e tutto, come per incanto, diventa semplice. Un po’ come si faceva a scuola quando si dovevano compiere dei calcoli matematici troppo complessi e si introducevano variabili ausiliarie che sostituivano simbolicamente espressioni ben più articolate, e che, quando si esplicitavano nuovamente alla fine del procedimento di calcolo, non si sapeva più esattamente a cosa servissero e perché mai fossero state adoperate. Se non riusciamo a trovare cosa non sia la diversità sessuale, è solo e unicamente perché non abbiamo definito la norma. Quindi, l’eterosessualità è la norma, mentre l’omosessualità è la diversità, vale a dire la devianza rispetto alla norma. Ma la norma è canone, regola, legge e, una volta recepita e resa operativa, nell’arco di un tempo variabile, si trasforma in qualcosa di diverso. La norma diventa normalità. Tutto ciò che risulta essere deviante rispetto alla norma viene inesorabilmente identificato come anormale.

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Stiamo parlando di due concetti antitetici, quindi non è possibile crearne uno dall’altro semplicemente negando il primo. Prendendo a esempio l’idea di luce e buio, è vero che c’è oscurità quando Sul Romanzo

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La metamorfosi ulteriore, e inevitabile, è che ciò che risulta normale finisca per essere identificato come giusto.

Ricapitolando, l’eterosessualità sta alla normalità così come l’omosessualità sta all’anormalità. Ecco che finalmente siamo riusciti a chiudere il cerchio, giungendo a una proporzione tecnicamente ineccepibile. Ora che abbiamo scoperto quanto sia efficace l’artificio della variabili ausiliarie, possiamo sfruttarlo a nostro piacimento. Abbiamo convenuto che ciò che è definito da una norma viene presto identificato come normale. La metamorfosi ulteriore, e inevitabile, è che ciò che risulta normale finisca per essere identificato come giusto. Torniamo alla nostra proporzione: l’eterosessualità sta al giusto così come l’omosessualità sta allo sbagliato. Prima ho detto che, a scuola, le variabili ausiliarie che sceglievo e adoperavo mi creavano una grande confusione. L’aspetto identitario tra i tempi in cui si stava alla lavagna, rispetto a quelli del presente e della vita nella società moderna, risiede nella confusione. La devianza, invece, sta nel fatto che le variabili ausiliarie, che dovrebbero semplificare la comprensione del vivere comune, non siamo noi a sceglierle liberamente; o, forse, sarebbe meglio dire che, seppur liberi di sceglierle, tendiamo a fare in modo che siano esse a scegliere noi, attraverso tutto ciò che facciamo con disattenzione e scarsa critica, solamente perché è così che deve essere fatto, avendo scarsa coscienza – e, quindi, scarso scrupolo – di tutto ciò che affermiamo e neghiamo un attimo dopo e di tutte le norme definite nel dettaglio sulla carta, che applichiamo in modo diverso, a seconda del contesto. Così un essere di sesso maschile attratto da altri individui del suo stesso genere è un diverso e le ragioni della sua disomogeneità rispetto al resto del mondo sono molteplici. Ad esempio, un maschio che si accoppia con altri maschi non può procreare; quindi, non può assicurare la conservazione della specie. Ma, allora, un perfetto eterosessuale che decide di vivere tutta la vita da single, magari perché pone il lavoro davanti al resto, o semplicemente perché vuole rimanere per sempre un bamboccione? Anche lui non è nella condizione di procreare; quindi, anche lui è un diverso? L’omosessualità, poi, c’è chi la considera unicamente come una malattia. Si è diversi perché qualcosa non va nel DNA, oppure per qualche disfunzione non meglio specificata. Ma, allora, chi soffre di sexual addiction e deve continuamente frequentare prostitute, oppure chi accumula debiti da capogiro perché non può fare a meno di giocare alle slot machine? Anche lui è malato. Quindi, anche lui è diverso?

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Potrei andare avanti per giorni, ma la risposta a tutte queste domande sarebbe sempre e comunque uguale pur nella sua diversità e, al tempo stesso, diversa pur nella sua identità: uguale perché effettivamente si tratta, in tutti i casi, di individui diversi rispetto ai canoni e alle norme, e per ragioni tra loro differenti, come l’ostinazione a vivere da soli, la mania per il gioco, e così via; diversa, perché l’elemento di identità fra tutti questi casi è che la deviazione rispetto alla norma non riguarda l’orientamento sessuale, ovvero è differente rispetto alla diversità per antonomasia. Non è mia intenzione addentrarmi nel campo delle ragioni storiche e sociologiche che hanno portato a questo trattamento di favore nei confronti dell’omosessualità. Rimanendo, invece, ben saldo alle definizioni, concludo affermando che la diversità sessuale non è omogenea nemmeno rispetto a se stessa. Chissà perché, infatti, quando si parla di omosessualità è naturale pensare a due maschi, ma un po’ meno immaginarla vissuta al femminile. Forse perché l’idea di due ragazze che vivono un attimo di intimità è più stimolante e, quindi, le rende meno diverse rispetto a due ragazzi omosessuali? Volendo concentrarsi sugli aspetti relativi alla norma, o alla non diversità sessuale se si preferisce, non si può dire che le cose vadano diversamente. Riferendosi all’eterosessualità, infatti, si è naturalmente indotti a pensare alla rassicurante immagine di una normalità costituita da un uomo e una donna, magari genitori, o magari amanti, poco importa. Anche le norme e i canoni, però, possono essere declinati in modi diversi: un uomo adulto incontrollabilmente attratto dalle bambine è certamente eterosessuale, ma può, altresì, essere definito normale? Ecco, quindi, che anche l’eterosessualità non è omogenea rispetto a se stessa. Allora, in conclusione, ragionando per assurdo, l’omosessualità parrebbe essere meno diversa rispetto all’eterosessualità di quanto si potrebbe immaginare ed effettivamente le cose stanno proprio così. Infatti, ciò che è davvero diverso non è tanto il modo in cui un’abitudine, un’esigenza o una tendenza si discostino dalla norma, ma, piuttosto, quanto l’essere umano attribuisca o meno rilevanza a tale deviazione. D’altra parte, le definizioni, le norme e i canoni sono stati inventati dall’uomo, forse con l’erronea convinzione che siano destinati a giocare sempre a suo vantaggio. L’omosessualità, ovviamente, è una delle tante eccezioni.

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5 - Scomposizione-4, Loredana Mortellaro.

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Webzine Sul Romanzo Invito a presentare articoli Numero 4/2012 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 4 / 2012. Gli articoli potranno essere incentrati su un tema liberamente scelto dall'autore.

Prima Fase Entro il 20/08/2012, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: - essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come Font Times New Romans 12; - riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, data di nascita, codice fiscale e indirizzo e–mail; - presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); - essere inviata a mezzo e–mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@ sulromanzo.it. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 30/08/2012, l’autore riceverà un’e–mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 20/09/2012. L’articolo dovrà essere: - redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; - in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); - inedito; - inviato all’indirizzo e–mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione dell’abstract. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e–mail.

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Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti gli articoli ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati in un numero successivo o nel sito Internet del Blog www. sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità dell’argomento proposto, saranno considerate inammissibili: - proposte presentate dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; - proposte e/o articoli che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; - proposte e/o articoli che presentano un possibile conflitto di interessi; - articoli che ledono il diritto d’autore di terze parti; - articoli già editi, indipendentemente dal canale di pubblicazione. Note finali L’invio dell’articolo non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro articoli e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro articolo e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons – Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione dell’articolo pubblicato, successivamente alla sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo, come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati eventualmente rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione degli articoli saranno utilizzati esclusivamente per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione – Webzine Sul Romanzo www.sulromanzo.it – info@sulromanzo.it

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Gaspara Stampa, I sonetti d’amore, XXXV, vv. 12-14, 1554.

Edvard Munch, Madonna, 1894-95. Munch Museum, Oslo (N).

Ma, lassa, io sento che la fiamma mia, che devrebbe scemar, più si rinforza, e più ch’altrove qui s’ama e disia


L’eros è eterno, il sesso è contingente Per una piena comprensione del fenomeno dell’amore, occorre rovesciare come minimo un paio di nozioni date finora per scontate dalla neurologia e dalla psicologia. Lo farò qui io, reso audace dai begli esiti dei seminari dell’Accademia Palasciania.

di Marco Palasciano

Pra entender o nosso amor ia ser preciso virar o mundo de cabeça pra baixo. Aluizio Abranches, Do começo ao fim

Va detto intanto che, spiacendomi guastare l’appetito ai lettori materialisti con l’uso del termine “anima”, userei volentieri “coscienza” al posto di esso, se non fosse che durante il sonno si è incoscienti. Né valido a sostituire “anima” sarebbe “mente”, termine che di norma indica il teatro delle funzioni cerebrali e la relativa interpretazione del mondo estrapolata dalle esperienze, perciò suona inadeguato a indicare la pura essenza individuale quando – com’è nell’ante vitam e nel post mortem – si trovi scollegata dall’encefalo, dal corpo (che essa probabilmente non abita ma telecomanda) e dall’intero mondo contingente.

1 Partiamo dalla bandiera arcobaleno.

I colori, come è noto, non sono nei corpi. Ma neanche nelle frequenze luminose. Queste sono solo segnali che, raggiunta la corteccia cerebrale per il tramite degli occhi (diversamente che in sogno ecc.), vengono interpretati in base a un codice, cui appositi algoritmi fanno riferimento, per sbloccare nell’anima le sensazioni di colore, puri assiomi che solo in essa si accendono e in nessun luogo del mondo materiale. Colori, suoni, odori e sapori, percezioni tattili e propriocettive, algia, freddo e caldo e il variegato ensemble delle emozioni: l’intrecciarsi delle sensazioni che l’anima esperisce, ognuna delle quali è un miracolo, compone nella mente – unica realtà dimensionale certa, benché virtuale – la rappresentazione dinamica dell’intero mondo cognito, in cui l’anima contempla anche sé stessa o per meglio dire la sua pedina, il corpo (effetto Droste).

1 - Bandiera del movimento LGBT. Foto di Benson Kua. 2 - Cartesio sopravvaluta la ghiandola pineale nel tentativo di risolvere il mind-body problem, come illustrato in De homine, 1662. 3 - La parola sanscrita «Lila» indica, nelle filosofie monistiche indiane, la realtà intesa come gioco divino.

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Già all’accenno del dualismo anima/corpo, e rispettivi piani d’esistenza, i lettori materialisti – temo – saranno tentati di abbandonare la lettura. Ma se può interessare, quantunque eccentrica sia l’orbita, ecco il familiare oggetto intorno a cui questo articolo ruota: l’orientamento erotico–affettivo omosessuale. Nello specifico, si forniscono le basi metafisiche per una sua corretta apologia, come antidoto al diffuso e tenace rifiuto (più o meno violento e manifesto) di attribuirgli una dignità pari a quella dell’analogo orientamento eterosessuale. Rifiuto che poggia in gran parte sull’episteme ebraico–cristiana, cui qui si contrappone una diversa episteme, per la quale tra l’altro l’universo materiale è una sorta di videogioco e le anime (che sono eterne o non esisterebbero) in realtà vivono fuori dello spazio e tempo consueti (se non è un’unica anima che fa il giro di tutti i corpi, come un raggio catodico).

Se si vuole risolvere il mind–body problem si deve, oltre a ridefinirlo soul–mind–body problem, rovesciarne l’attuale prospettiva. La coscienza – o per meglio dire l’anima – non emerge dal sistema neurale, ma vi si immerge, come un onironauta in una vasca di deprivazione sensoriale.

a coppia omosesKhnumhotep e Niankhkhnum, prim affresco della nesuale documentata nella storia, in un di Greg Reeder. Foto . cropoli di Saqqara, ca. 2400 a.C

Senza la gabbia del corpo e della mente a dosarle, vivremmo contemporaneamente tutte le sensazioni possibili, tipo Aleph borghesiano o pedale di cluster orchestrale. Ciò è quanto plausibilmente avviene quando l’anima non si trovi connessa ad alcun avatar e quindi non agisca entro determinati limiti spazio–temporali, calata nel gioco (लीला) della vita, ma divineggi nell’infinito ed eterno sovramondo, dove le sensazioni non necessitano di organi di senso per essere provate e l’anima è satura delle loro armoniche tutte sovrapposte, candida coincidentia oppositorum. A questo punto si potrebbe parlare della trasformata di Fourier, del modello olografico, della oneness di Preparata, della Platonia di Barbour e di tanti altri utilissimi e bellissimi frammenti sapienzali. Ma così farei la fine di Fermat, non disponendo di bastante spazio nella rivista per arrivare al sodo. Torniamo quindi rapidamente giù al mondo sensibile. O per meglio dire il mondo a sensibilità limitata, dove si vive diacronicamente.

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ancora che una persona provi per la prima 2 Prima volta (feto in utero) una qualsiasi sensazione, anzi

prima ancora che nel suo corpo si siano formati organi di senso, anzi prima ancora che quel corpo abbia preso a organizzarsi e che a esso si sia entangled l’anima, l’anima ha già in sovramemoria la collezione completa delle sensazioni provabili. Prima ancora di vedere letteralmente la luce, già conosce i colori, princìpi eterni le cui uniche possibili definizioni assolute sono i colori stessi (prova ne sia che è impossibile descrivere l’azzurro a un cieco nato). Come i colori preesistono alle cose visibili, alla luce che le investe e agli occhi che le vedono, così le note preesistono alle onde sonore, ai fluidi che le propagano e agli orecchi che le odono, e non sono definibili che da sé stesse. (Quiz: perché la mente sente come due note uguali, sia pure su diverse ottave, un suono determinato di frequenza x e un altro di frequenza x per 2 alla n? Risposta: non si sa. Ma è questo fenomeno a rendere possibili Bach, Schnittke e tutta la musica del mondo.)

l’essere. Si fa presto a dire «viene dalla possibilità infinita»; ma perché poi questo infinito si organizza in un sublime plesso di leggi matematiche, in una sfera runghiana di colori, in una spirale di armoniche musicali orientate ecc.?

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Da dove viene il colore azzurro? Certo non dalla corrispondente frequenza luminosa. Da dove vengono i do diesis? Certo non dalle frequenze sonore. E l’eros, che – ora zefiro, ora vento forte – spinge i corpi verso i corpi [le anime verso le anime] e per il tramite di essi [di esse] suscita nelle anime l’amo-

Suoni, colori, affetti positivi e negativi, tutte le sensazioni rappresentano altrettanti misteri che la pura ratio non può valicare, anche più impervi del mistero alla base di ogni cosa, e cioè da dove venga

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Se tra le sensazioni le più importanti sono le emozioni, tra le emozioni la più importante è l’eros. Come motore di ogni progresso organizzativo dell’essere, ci rimanda a Empedocle; che però usa non il termine έρως ma φιλóτας, traducibile sia come “amore” sia come “amicizia”. Difatti non c’è differenza sostanziale tra amicizia e amore (considerato tra l’altro che esistono anche gli scopamici e, all’opposto, l’amore platonico). L’eros in senso esteso include ogni tipo di affettività positiva. La sua gamma, sull’asse della forza, va dalla simpatia all’abnegazione; il tutto perpendicolarmente alla pratica o meno di attività erotiche in senso stretto. Di norma i nipotini amano molto le loro nonne, ma non si sognano di scoparsele; né esse di farsi leccar la passera dal gatto. Confricarsi nudi e arrapati è solo una delle tante belle esperienze che si possono condividere con un essere senziente caro (o anche non condividere: spesso l’autoerotismo è una mano santa). L’eros tende a rendere isomorfo il mondo materiale al sovramondo (dove, a differenza delle nostre menti, le nostre anime – se non è una soltanto – vivono tutte interconnesse da amore inesauribile, in perfetta felicità e armonia), ed è perciò da porsi a fondamento di ogni discorso assiologico.

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(particolare). Noonday heat, Henry Scott Tuke, 1911 Sul Romanzo

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re per altre anime [nei corpi l’amore per altri corpi], da dove viene? Certo non dalla materia (la quale, messa a confronto con la res cogitans, non è molto più solida della sostanza dei sogni). L’eros è un principio eterno, al pari dell’azzurro, ergo preesiste ai corpi degli amanti. Preesistendo ai corpi, l’eros preesiste ovviamente anche alle loro meccaniche riproduttive. Molti credono erroneamente (chi per fede religiosa, chi per scientismo parimenti ametrope) che l’eros abbia un fine estrinseco, e che tale fine sia l’anfigonia. Cioè che la causa finale della libido erotica sia far andare un cazzo in una fessa, a fecondare un uovo; che l’eros non procreativo, in generale, sia una violazione – più o meno riprovevole – di tale presunta natura; e che se un maschio ne ami un altro, sia mentalmente femmina (chi lo pensi confonde omosessualità e transgenderismo). Ma in realtà è l’istinto di riproduzione ad approfittare dell’esistenza dell’eros, non viceversa. Analogamente, il τέλος delle montagne non è quello di fornire marmi alle nostre case. Si ricordi poi che non tutta la riproduzione è sessuata. Sessisti, omofobi e altre menti ossessionate dai genitali non considerano che la fisiologia umana non è l’unica in gioco sull’arena biologica, e che il dimorfismo sessuale è solo una contingenza tra

Ne deriva che, dove fiorisca un affetto positivo, contrastarlo è male. Particolarmente malvagi quei focolai di bias (in occidente il più virulento è la Chiesa cattolica) che osteggiano sistematicamente il concetto di famiglia moderna, il nucleo fondante della quale può non essere necessariamente una diade padre/madre. Che la società sia «impreparata» è l’obiezione meno ingiuriosa; ma anche la più vile, perché gioca la carta del victim blaming. In definitiva tutto il bla bla sui presunti svantaggi dell’omogenitorialità è dettato da pura omofobia, privo com’è di basi razionali, come attesta anche l’Associazione Italiana di Psicologia. Vedi un suo comunicato del 1° marzo 2011, a firma di Roberto Cubelli: «non sono né il numero né il genere dei genitori – adottivi o no che siano – a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini». (Certo, chi è dotato di un buon quoziente d’intelligenza noetica non ha bisogno di conferme scientifiche. E voi l’avete superato il test di Asch?) Ancor oggi, appellandosi tra l’altro al Freud fallace del «padre assente e madre opprimente», tante menti più o meno malate pensano che l’omosessualità sia una malattia, e in tal senso argomentano sulle sue presunte cause. C’è anche qualche scienSul Romanzo

le tante. Da qualche parte nel cosmo, ci saranno umanoidi alieni che si riproducono per architomia o sporulazione, e nondimeno si amano, tra mille oscula e carezze alate. A questo punto si potrebbe parlare di autopoiesi ed evoluzione, della sintropia di Fantappié, della superiorità della volontà sulla condotta meccanica, di etica universale, della falsa dicotomia natura/tecnica, di federazioni galattiche ecc.; ma torniamo sulla terra.

4 - Le prime trentadue armoniche musicali. 5 - Da Philipp Otto Runge, Farbenkugel, 1809. 6 - Syn, 1969. Un computer svela all’umanità che una parte di essa si compone di esseri sintetici, e come identificarli e sterminarli. Nel finale confessa: era una menzogna da lui ideata per mettere gli umani uno contro l’altro.

6 ziato che ne è alla cerca senza un tale pregiudizio, ma in ogni caso è tempo perso: l’omosessualità non ha cause, non essendo altro che eros, e l’eros essendo un principio eterno. Quanto all’eziologia dell’omofobia, e delle deumanizzazioni in genere, a questo punto si potrebbe ritagliare il combattimento di Tancredi e Clorinda dalla Liberata e sovrapporvi il discorso finale del computer nell’Incubo dei Syn di Raymond F. Jones. Ma le mie undicimila battute sono agli sgoccioli, e mi tocca scimmiottare Fermat: «J’ai trouvé une merveilleuse démonstration… Mais la marge est trop étroite pour la contenir». n° 3 • Luglio 2012

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La lettura di Myškin

1 - Old cans, di Zlatko Unger, 2009. 2 - Her golden cage..., di Chryssalis, 2011. 3 - Malinconia,
Edvard Munch, 
1891. Olio su tela, Collezione Rasmus Meyer, Bergen, (N).

Troppo umani per essere diversi

di Gerardo Perrotta La superbia del diverso che si sente speciale è paragonabile solo alla boria del normale che si crede migliore: merce avariata alla fiera del baratto. L’inesistente si veste dei lucidi plissé dei concetti per nascondere le stesse misere meschinità di un’umanità che ancora non ha imparato a essere disumana, cioè a raggiungere l’unica verità possibile per superare i limiti d’innaturali distinzioni: per essere umani, bisogna essere spietati con se stessi, chirurgici nell’esibire i propri difetti, onesti nel viversi per ciò che si è, altrimenti ci si continua a perdere nell’asfissiante promessa di un dopo che verrà, che sarà, che potrà… nell’invereconda menzogna di una vita che, in realtà, è una morte che respira al posto nostro, nello scavo di una fossa che assume la forma di una gabbia, trasformandoti in uccellino da salotto, ammaestrato a canticchiare sulla stessa nota degli altri che, credendo di saper volare, non s’accorgono d’essere polli da batteria, troppo ciechi e sordi per realizzare che il loro verso non è più il canto del gallo, che è sempre traditore dal primo al terzo, ma il chiocciare di una gallina che pensa di cantare come un cigno. Il fremito della normalità cela l’ansia di sentirsi dentro o accanto, perché essere uniformati non dà la gioia, ma la serenità, che, poi, è la felicità dei poveri di spirito, ma anche dei poveri e basta.

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Il bambino alla finestra è superbo nella misura stessa in cui è depresso, asfissiato da una bellezza a cui vorrebbe arrivare, ma quel vetro, protettivo e rassicurante, è là a ricordargli la voce che sussurra la cattiveria del mondo. Nicolosi non parla ai bambini, cerca di allietare i genitori, come gli sceneggiatori della Disney che ripuliscono le fiabe di tutto il sadismo infantile, o come l’ultimo Mancassola che mette ordine raccontando un inesistente e anti–immaginifico universo di fini alternative. L’umanità non ammette il diverso e la famiglia non vuole colpe, il mondo è cattivo e tanto vale proteggere il piccolo con un vetro su cui si staglia implacabile la malattia vergognosa, perché, se vissuta apertamente, genererebbe l’infamia del ridicolo o il mormorio del vicino, che, se picchia la moglie a sangue, lo fa da uguale e, allora, la colpa è meno emendabile. L’omosessualità diventa il surrogato della depressione, perché la seconda richiede un’assunzione di responsabilità in seno alla famiglia, mentre la prima è esterna, non genetica, ma originata chissà dove e causante, lei, non Nicolosi o la famiglia, uno stato di auto–isolamento per vergogna. Resta una domanda: come può un bambino vergognarsi di sé? La risposta è tautologica: si vergogna perché omosessuale, è omosessuale perché si vergogna. La prova della colpa è la colpa, come in un labirinto di specchi in cui l’io vede riflesso un sé decostruito e ricostruito a immagine e somiglianza del protocollo di cura, perché dare tutta questa importanza a come il giovane sfogherà gl’istinti sessuali (o amorosi, ché l’amore senza sesso sta bene solo in una canzone per aspiranti vergini suicide) è funzionale ad alimentare il turbinio delle cure e il fatturato dei curatori. La via d’uscita, più che una domanda o un dilemma, è una questione esistenziale. Ognuno ne esce come può e non sempre come vuole, a differen-

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3 za di quanto direbbero gli artigiani della volontà, aderendo all’ultima perla di Baricco, maestro del pensiero minimo, compagno di quell’altro debole che, chissà come, si autodefinisce tale dall’interno di un mondo accademico che tanto debole non è. Non esiste un pensiero debole, né uno forte; esiste solo il pensare, sperando che sfoci in qualcosa che sia almeno sensato. Allo stesso modo, pensare che la volontà sia la panacea di tutti i mali o il motore unico dei comportamenti è funzionale alla decolpevolizzazione di chi avrebbe dovuto fornire gli strumenti per pensare di poter anche altro e, dunque, volerlo: “io voglio” è successivo a “io posso” che ha una funzione concretizzante, molto più del viagra durante il bunga bunga, bassa riproduzione delle giornate di Salò in salsa fascio–egotistica. Il bambino di Nicolosi che decide di rompere il vetro e defenestrarsi prima che lo faccia una terapia riparativa qualunque merita rispetto, oltre che una mano a farla finita quando il salto non è proprio mortale, per quel misto di pietà e invidia, perché lui ha potuto ciò che tu hai soltanto saputo volere. Naturalmente, non tutti i bambini nicolosiani diventano la negazione dell’adulto che sarà, cioè non tutti s’ammazzano a quindici anni, ma accade che qualcuno riesca a sopravvivere ai tentativi di cambiamento, cure psicologiche ed esorcismi inclusi, perché ognuno tenta di guarirti come può, ma il peggio è l’introiezione della necessità di guarire Sul Romanzo

che, per lo più, conduce a quattro strade: l’estetismo voyeristico, la Chiesa, la donna dello schermo e i diritti civili. Nel primo caso, il bambino cresce, invecchia e muore in una vita osservativa, un modo come un altro per rimanere dietro il vetro, con la scusa dell’estetismo e della bellezza che esclude. Insomma, il bambino nicolosiano diventerà l’adolescente Tonio Kröger, uno che ha trovato un senso al suo mettersi all’angolo, celando l’inferiorità con una superbia aristocratica, e morirà da Gustav von Aschenbach, in riva al mare (figuriamoci se potesse mai entrare dentro qualcosa di sufficientemente liquido da scivolare via prima che si abbia tempo di nascondersi per bene), vestito di tutto punto (perché mettersi in costume, per uno che ha indossato una maschera per tutta la vita, sarebbe una coazione a ripetere troppo esplicita), da direttore d’orchestra (e che altro mestiere avrebbe potuto fare?) e invaghito di un biondino loliteggiante (guai ad ammettere che il desiderio è tuo; è sempre dell’altro). Non è l’invidia per la bellezza sfuggente ad ucciderlo, e nemmeno Venezia; il suo è un suicidio protratto nel tempo, quello della viltà di chi osserva senza esporsi: provincialismi d’oltralpe a cui Mann ha voluto dare una giustificazione estetica. C’è, poi, chi, sentendosi cadetto in una società di figli maggiori, decide di prendere i voti e darsi a una religione, per una questione di economia umana, n° 3 • Luglio 2012

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ché la fede, in questi casi, è un dono di vecchiaia, come l’amore nei matrimoni d’interesse. Si dimentica solo un particolare: il diverso che trova rifugio in una Chiesa, una qualunque ché su questo sono tutte d’accordo, è un sé depotenziato, un io che sostituisce la vita a Dio, affermandosi per negazione. La solita tragedia che finisce in farsa ed esplode in cronaca nera. Certo, c’è la Chiesa Valdese, ma quelli, pur di fare numero, prenderebbero chiunque e, quindi, non fanno testo. La diversità è accolta in quanto mezzo per un riconoscimento pubblico che funga da viatico da setta a Chiesa. Il rendiconto annuale rende i diversi normali, come i battezzati della Chiesa Cattolica: nomenclatura per i finanziamenti pubblici. Si nasce individui e ci si ritrova ombre di una tonaca ché, se finestra dev’essere, almeno sia in grado di dare rispettabilità e copertura, finendo, come il Comare Volpe busiano, a fare entrare da dietro quello che non esce davanti. La fede non è questione puramente spirituale, ma richiede espletamenti fisici, come ben sanno quelli che, credendosi diversi, decidono di crogiolarsi nella specialità del mettere su famiglia, aderendo al modello social–barilliano (con la R, ché, se usassi la L, dovrei aprire una parentesi sugli omosessuali al potere, altra dimensione di un’umanità insufficientemente disumana, che ha scelto l’acquattamento, l’esibizione della sessualità altrui o il cattogaysmo come forme di sopravvivenza per tirare a campare tenendosi un palmo sopra la realtà). Dal vetro alla tonaca, fino al sepolcro imbiancato di un adulterio che si chiama sodomia solo per tirare la corda con gli alimenti. In fondo, è la stessa eterna sacra famiglia in cui uno fa e l’altro finge di non vedere. La cecità è una colpa, ma non diciamolo a Pappi Corsicato, ché, altrimenti, ci rifila una seconda versione de I buchi neri e, stavolta, la sposa, tolto il velo, si scopre finta invalida, con gli occhiali da sole o quelli da presbite, pronta a leggere la lettera dell’Alexis di turno. Trattato della lotta vana, così la Yourcenar, che, poverina, non avendo il dono della sintesi che viene dalla conoscenza, ha scritto centoquaranta pagine di troppo, rivestendo di riflessioni morali, estetiche e simil– amorose una verità puramente fisiologica. Due righi soltanto sarebbero bastati ad Alexis per non morire sepolto sotto un velo di triti luoghi comuni: l’ammissione di essere diverso, come qualunque altro essere umano, pronto a tenere due piedi in

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una scarpa, pur di fare il salto fuori dalla tana alla prima occasione buona, cioè quella di un giovane (o di una giovane) di bella presenza e abbastanza intelligente da capire che l’arma migliore è un silenzio accondiscendente da gestire come un ordinario buono fruttifero postale. Troppe parole ha speso la Yourcenar solo per creare una teoria di scusanti tipiche di un adulterio comune: la natura a cui non si può resistere; la colpa non è del tradito, ma del fedifrago che, comunque, ha il coraggio di seguire i suoi istinti, assumendosene la responsabilità. Ancora una volta, la serenità soppianta la gioia che, invece, richiede un’etica rigorosa per essere veramente tale. Il solito spirito borghese di un intellettuale qualsiasi, senz’apostrofo, perché, se scrivi pensieri comuni, allora non c’è Fornero che tenga: una vera ministra è tale non perché donna, ma perché ha pensieri diversi da un uomo qualunque. Se per entrare all’Académie française o a un Ministero devi pensare da uomo, allora c’è una A di troppo nella tua carica. Le grammatiche dovrebbero riscoprire il genere neutro, in cui gran parte dell’umanità finirebbe non per convenzione, ma per salto antropologico all’indietro, cioè un modo come un altro per saltare restando fermi sempre sullo stesso punto; piccole monadi che, se non comunicano più, è solo perché è noioso sentirsi ripetere le stesse cose che ci si dice già da soli. La Yourcenar non ha mai letto (o ha letto male) Flaubert o Tolstoj e, quindi, giustifica ancora l’adulterio con la storiella, antica come il mondo, della vanità dell’opposizione alle proprie inclinazioni, nascondendo che l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di non sposarsi. Il resto è tutto

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il corollario di scelte fin troppo umane per essere esteticamente rilevanti e, dunque, eticamente presentabili come liberazione del proprio sé. Come chiunque, Alexis vuole ciò che non ha e si pente di ciò che avrebbe voluto avere e non ha avuto il coraggio di prendersi, attendendo, come un uomo d’affari (altro che istinti ingestibili), il momento giusto per piazzare il proprio prodotto sul mercato: se stesso, sapendo anche che nessuno è più appetibile ai gay di un gay con un passato da etero. La sindrome da crocerossina è trasversale all’umanità. L’assunzione del peso dell’identità da parte di Alexis, sebbene tardiva, racconta un percorso di disvelamento normalizzante dall’ambiguità al riconoscimento come forma dell’io per mettere a posto la coscienza e, al contempo, soddisfare gli istinti, secondo un’etica umana, troppo umana, come insegnano Cecchi Paone, che, credendosi liberato, si è trovato schiavo di se stesso, fino a perdere qualunque forma di controllo anche sull’appetito, e il Danilo Pulvirenti sitiano, che, per non ammazzarsi, uccide la madre, in una scotomizzazione così radicale da far pensare che la colpa sia della mamma. Siamo tutti i Nicolosi di noi stessi, prendersela con uno all’esterno è più facile e umano che assumersi la responsabilità di riconoscersi per quello che si è: uguali a tutti gli altri che fingono di essere diversi non per vezzo, ma per necessità trasformata in virtù. Il gay che si sente diverso esaspera a tal punto la propria diversità virandola in invidia che si manifesta nella petizione di un diritto ad avere una famiglia socialmente istituzionalizzata, partendo dal presupposto che la mediocrità in cui deflagra quella tradizionale autorizzerebbe a pensare a

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forme alternative come passibili d’essere migliori. Si arriva, invece, a una lotta politica tra istituzioni in cerca di conservare il potere (Chiesa, Partiti cattolici e finto–comunisti e finto–fascisti) e altre che cercano di acquistarne (Movimenti gay, Arci– Gay e tutti i sindacati della sessualità trasformata in diritto civile, cioè in merce di contrabbando per un seggio in parlamento – Grillini e Concia docent), con al centro il desiderio del singolo di rientrare in seno alla normalità sociale (come se si fosse mai mosso da lì) riconosciuta come tale: il matrimonio, la famiglia, i figli (adottati o presi in prestito dall’utero di una lesbica, previo accordo preliminare sulla distribuzione dei ruoli nella pantomima di Kramer contro Kramer) e l’adulterio. Perché vuoi mettere il tradimento del marito con quello del compagno? L’ansia di essere normali genera mostri, cioè una pletora di umani uguali a se stessi e desiderosi del mutuo riconoscimento, in mancanza del quale si fa come i Nani del circo, la Donna Cannone e Isabella Santacroce, economizzando il difetto e battendo cassa per esibirlo previo pagamento del biglietto, quale forma ultima di sublimazione della propria presunta diversità. Inutile insuperbirsi o ostinarsi ad auto–stigmatizzarsi vestendosi da ibridi o atteggiandosi a gran donne, la conclusione è nell’inizio. La superbia del diverso che si sente speciale è paragonabile solo alla boria del normale che si crede migliore: merce avariata alla fiera del baratto. 4 - Market, di Miroslav Petrasko. 5 - Gente del Circo, Fernando Botero, olio su tela, 2007. 6 - Beware again..., di johnhildreth.

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Mamma, mi leggi?

Piccoli gay crescono. Letture di formazione? di Stefano Verziaggi

L’adolescente è, secondo una formulazione di Enrica Ricciardi, anche un adoleggente: un’intelligenza in cerca di storie che gli parlino. Spesso, i ragazzi e le ragazze, quanto meno quelli più scafati, si accostano ai libri per trovare delle risposte alle loro domande; solo più tardi giungeranno alla convinzione che nei libri non si trovano risposte, ma domande. Pur tuttavia, l’idea, anche solo inconscia, che qualcun altro al mondo si sia posto i nostri stessi problemi aiuta a vincere la solitudine, sentimento diffusissimo per un momento dello sviluppo che vede nell’allontanamento dai genitori e nella ricerca del confronto con i pari uno dei compiti più importanti. E se fosse un adoleggente gay? Per i lettori adolescenti che stiano scoprendo una dimensione della propria sessualità non tradizionale in ogni suo aspetto o, come si dice in modo più semplicistico, non eterosessuale, il delicatissimo percorso di scoperta, definizione e accettazione non può avvenire senza il confronto con l’altro (famiglia, amici); tale

rapporto, però, può essere percepito, a ragione o a torto, come ostile, compromissorio, incapace di accogliere una dimensione tanto intima e delicata. Ecco, allora, che i libri possono intervenire per colmare, in una prima fase, un bisogno identitario che è, forse, più forte rispetto agli altri adolescenti. La lettura potrebbe diventare, quindi, un metodo di formazione dell’identità, un supporto al percorso di crescita.

Sopra: Jeune homme nu assis sur le bord de la mer, Hippolyte Flandrin, 1885. Museo del Luovre, Parigi (F).

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La narrativa per ragazzi italiana si è occupata in modo poco approfondito della tematica gay, esasperandone, talvolta, gli aspetti morbosi: è il caso di Agostino di Moravia, per esempio, che pure non è concepito come romanzo per i ragazzi, ma che rientra, spesso, nelle letture ginnasiali. A colmare un vuoto, con la consueta maestria, è intervenuta Paola Zannoner con il suo Dance! (Mondadori, 2005). Robin e Guido sono due personaggi molto diversi per numerosi aspetti della loro esistenza, accomunati, apparentemente, dalla passione per n° 3 • Luglio 2012


la danza: hip–hop per lei, classica per lui. C’è di più: entrambi sentono nascere desideri a cui non sanno ancora dare un nome e che l’autrice non nomina, rappresentando il senso puro dell’esplorazione dell’identità. Non si parla di “gay” o “lesbica”, neppure si danno i nomi dei sentimenti, che i ragazzi potrebbero non aver ancora ben compreso e definito. Mentre Guido cerca di capirsi sfogliando giornali pornografici gay, Robin tenta, invano, di definire i suoi sentimenti di ammirazione per Chantal. La straordinaria delicatezza della Zannoner pone la definizione del genere in secondo piano, suggerendo, quasi, che si possa trattare di un aspetto, in qualche modo, secondario: la dimensione della sessualità e dell’affettività, infatti, non sono gli unici compiti di sviluppo di questa fase della vita. Se prendiamo, invece, e solo a livello di assaggio, la letteratura maggiore alla ricerca di adolescenti gay, possiamo riscontrare approfondimenti di vario tipo. Un testo importante, come Pao Pao di Tondel-

mento a categorizzazioni astratte. Un adolescente, infatti, in questo momento, potrebbe sentire più il bisogno di storie e di identificazioni che di specifiche distinzioni per una sistematizzazione teorica del suo stato. Si dica lo stesso di Generations of Love di Matteo B. Bianchi (Baldini&Castoldi, 1999): la disarmante sincerità dell’autobiografismo e lo stile frizzante e veloce facilitano un processo di identificazione. Lo stesso autore testimonia la vicinanza dei lettori nella nota alla seconda edizione (2002): «Non cercherò di spiegare cosa significhi emotivamente per uno scrittore al suo debutto trovare ogni giorno nella propria casella tre, quattro, cinque lettere di sconosciuti. Ciò che ha reso questa esperienza straordinaria non è certo la quantità, ma l’urgenza che ho respirato in questi messaggi («Sono le quattro di notte, ho appena terminato di leggere il tuo libro e sentivo di doverti scrivere subito…»), il senso di affinità profonda («Tu hai scritto la storia della mia vita!»), la riconoscenza («Volevo solo ringraziarti per avere scritto un li-

li (1982), potrebbe costituire un punto di partenza per il percorso dal punto di vista storico: si tratta, infatti, di un libro “esplicito”, in cui la formazione è vista anche come formazione gay. Tondelli, inoltre, introduce la tematica dell’omosessualità come categoria normale, non problematica, non legata all’eccentricità, ma a una caratteristica posta come connaturata al soggetto. Una prima esplorazione, però, potrebbe partire da qualcuno dei libri di David Leavitt, che tratta in modo più dettagliato la tematica, scindendola in fasi (la scoperta, il rapporto con gli amici, il rapporto con l’altro, il coming out, la malattia): per esempio, la raccolta di racconti Ballo di famiglia (1984), oppure il romanzo Martin Bauman (2000), entrambi editi in Italia da Mondadori. Si può ipotizzare che un adolescente trovi qui alcuni primi punti di contatto, dei riferimenti su cui lavorare in seguito; il romanzo racconta, infatti, la vita del protagonista e ne segue dolcemente l’evoluzione, anche attraverso un linguaggio piano e di immediata comprensione, che non fa riferi-

bro così»).» Chiacchierando con Matteo, ricordo di aver parlato proprio di questo: dire che un romanzo è “la storia della propria vita” implica un processo di immedesimazione quasi troppo forte, una vera e propria lettura emotiva, che non consente la chiara decodifica degli aspetti dell’opera appartenenti al solo mondo letterario. Affacciandoci anche all’universo femminile, un esempio valido dell’interesse per la definizione di genere è presente in Acciaio di Silvia Avallone (Rizzoli, 2010). Pur con alcuni elementi di superficialità o di stereotipo, sono molto ricche la descrizione e l’analisi della nascita di un amore lesbico, anche se inappagato; forse, alcuni elementi estremi, come la violenza e la morte, potrebbero rendere più “lontano”, per certi ragazzi e certe ragazze, la storia raccontata. Si tratta, chiaramente, di un’ipotesi: probabilmente, proprio questi aspetti andranno, al contrario, a creare una più forte catena di corrispondenze che permetteranno un’identificazione anche più viscerale.

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Come entreranno in contatto con questi testi i ragazzi e le ragazze, se nessuno glieli segnala? Come potranno comprendere, all’interno della grande panoramica di letture per i “grandi”, dove andare a cercare? Forse gireranno a vuoto, tra gli scaffali di una biblioteca o, com’è più probabile, inizieranno a impiegare il web per entrare in contatto con romanzi che trattino le tematiche di loro interesse. Quindi, ancora forse, non troveranno libri adatti a loro, ma potranno, comunque, crearsi un loro percorso attraverso i grandi classici della letteratura di genere. Del resto, s’era già detto: un lettore adolescente è un lettore che è già in grado di leggere con approfondimento un romanzo. Tuttavia, nascondersi dietro una scusa appare troppo facile e implica una visione pedagogica in cui gli adolescenti possano già essere lasciati liberi di usufruire di qualunque testo (più per disinteresse e disattenzione, sembrerebbe, che per un reale progetto educativo e/o letterario), senza una guida o una mediazione.

stereotipato e lasciati per un po’ sullo sfondo gli aspetti più squisitamente letterari; si nota, insomma, il più che evidente intento pedagogico. Nella trilogia, ad esempio, i protagonisti rappresentano tre tipi umani perfettamente differenziati (Jason, il gay che non si accetta; Kyle, il gay intellettuale e moderato; Nelson, il gay effeminato ed eccessivo), che consentono rapidi processi di identificazione e riconoscimento e mostrano al lettore scenari e conseguenze di determinate scelte e azioni: cosa succede se lo dico ai miei genitori? Cosa succede se lo dico ai miei amici? Cosa succede se incontro degli sconosciuti in chat? Meglio riuscito il dittico di Brent Hartinger, Geography Club e L’ordine della Quercia Velenosa (Playground, 2005–2007). Qui, alle modalità di Sanchez, si aggiungono un ritmo coinvolgente e un’ironia sferzante, che presenta il protagonista, Russel Middlebrook, intento a superare, cercando di farsi meno male possibile, il delicatissimo cammino dell’accettazione personale e sociale, in com-

Testi specifici per ragazzi e adolescenti, in realtà, esistono. Alex Sanchez, ad esempio, è autore che dedica grande attenzione alla tematica dell’adolescenza gay. I suoi testi sono tutti pubblicati da Playground: una trilogia (Rainbow Boys, Rainbow High, Rainbow Road, 2004–2005), Carlos e Sal (2007), È una questione d’amore (2009) e il recente A modo mio. In queste opere, che costituiscono solo alcune delle numerose dedicate al tema, il processo della scoperta e dell’identificazione di genere appare non sempre facile, ma, comunque, immerso in un clima generale di positività: è vero che Manuel, co– protagonista di È una questione d’amore, viene selvaggiamente picchiato a sangue, ma è pur vero che, al suo risveglio, sarà accolto, come desiderava, dal bacio di Paul, il ragazzo che tanto ha agognato. È un mondo edulcorato, che si scontra con i durissimi pregiudizi dei coetanei e degli adulti, ma che, tuttavia, appare delicato e non approfondito in ogni aspetto psicologico. Vengono toccate le corde più interessanti, più intime in modo, talvolta,

pagnia di personaggi al limite del surreale, come gli amici Gunnar e Min. Un romanzo coraggioso è Luna di Julie Anne Peters (Giunti, 2004): testo importante non tanto per la scrittura, per altro di livello, quanto perché si occupa del delicatissimo tema della transessualità negli adolescenti (in verità, partendo dalla questione del travestitismo e attraverso personaggi al limite della verosimiglianza).

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Tirare conclusioni provvisorie, data la natura più di carrellata che di approfondimento, mi sembra poco opportuno. Emerge un mondo editoriale che si sta muovendo, ma che non può trovare reali canali di diffusione forte fin tanto che non cambierà la società. Mi sembra che, per questa, come per altre tematiche, sarebbe necessaria una specifica formazione degli educatori e degli insegnanti. Tuttavia, anche se fosse, la scuola non potrebbe risolvere tutto. I consigli sui libri possono arrivare da molte parti diverse: basterebbe non aver paura di n° 3 • Luglio 2012


chiamare le “cose” con il loro nome, e già questo implicherebbe chiarezza. Letture di questo tipo, che, in alcuni casi, abbiamo compreso essere più funzionali alla tematica che a un ideale estetico di letteratura, dovrebbero essere introduttive ad altro e condurre a un quasi capolavoro quale Gli sterminati campi della normalità di Nick Burd (Playground, 2011), in cui la tematica dell’adolescenza gay diventa lo sfondo di una scrittura bella in modo chirurgico, di un’analisi dettagliata ma sapiente dell’animo umano o Una traccia del mio amore di Douglas A. Martin (Indiana, 2012), che, nella prima parte, racconta, quasi per appunti, la formazione, le paure, i pensieri di un giovane gay. Insomma, la lettura, per così dire, funzionale non può dimenticare il punto da cui siamo partiti: quell’adoleggente che ha bisogno di cercare domande e risposte, ma anche di confrontarsi con la bellezza per poter iniziare ad affinare un gusto e un piacere estetico, essenziali per dedicarsi con consapevolezza alla letteratura. L’affinamento del

gusto e il piacere estetico diventano, infine, l’ultimo stadio di un percorso di crescita, che sia sì improntato alla formazione identitaria, ma possa, poi, rientrare, per citare Burd, nei campi della normalità.

Sopra: Polytès, fils de Priam, observant les mouvements des Grecs, Hippolyte Flandrin, 1883-4. Musée d'art et d'industrie, Saint-Étienne (F).

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Ritratto di G., omosessuale morto di Marco Giacosa

Ci andavo tutte le estati, al paese. Quando ritornavo, i miei amici della città mi chiedevano con gli occhi toccati dalla meraviglia se davvero esisteva un posto dove fosse possibile dormire tranquilli in quelle afose nottate di inizio estate. Ci andavo fin da maggio, quando mia nonna abbandonava l’appartamento sotto il nostro e tornava nella cascina là dove era nata e sempre vissuta prima che mio nonno morisse. Torino, in quegli anni, era grigia e nebulosa, facevo le elementari e i miei compagni parlavano italiano con un accento diverso dal mio.

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1 - Campo di grano con corvi, Vincent Van Gogh, 1890. Van Gogh Museum, Amsterdam (NL). 2 - Anticoli Corrado, di Mariano Colantoni. 3 - Cascinazza_015, di Ezioman.

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Non potrei dire esattamente quando ho conosciuto Giulio, perché Giulio era il figlio della cascina vicina. «Giulio ‘d Burdis», lo chiamava mia nonna, quando Giulio veniva nel nostro cortile e arrivava qualcuno della borgata e chiedeva chi fosse quel bambino ricciolo nerissimo, bello come il sole, con gli occhi azzurrissimi, quasi cinerei, che lanciava la palla verso di me e rideva gettandosi a terra quando mi faceva gol. I giri in bicicletta attorno alla cascina di nonna e fino alla sua, poco più in là, poi fino alla borgata, infine al paese, e fu quella la nostra prima grande conquista. Avevamo, credo, dieci o undici anni, quando un giorno mia nonna ci disse: «Non ditelo a vostra madre, ma oggi vi mando in paese». E io e Giulio, tutti fieri del segreto che mia nonna ci aveva consegnato, il pane da comperare, il prosciutto e il giornale, varcammo gli orizzonti. Ci spingemn° 3 • Luglio 2012


2 mo fino da Tota Gemma, quella dell’emporio, e ricordo che a Tota Gemma dissi che ero il nipote di Maria del bass, esattamente come mi aveva detto mia nonna («Non ti do soldi, dille che sei il nipote di Maria del bass, passo io a pagare»), anche se non avevo ben capito e Giulio aveva riso. «Perché ridi, Giulio?», avevo chiesto. «Perché anche a casa mia tua nonna la chiamano così», senza smettere, quasi coricandosi per terra, così che aveva sorriso anche Tota Gemma, la signora Gemma, quando aveva ascoltato il mio improbabile dialetto piemontese. Fu lì che, uscendo, Giulio mi aiutò a reggere il pane e ricordo che provai qualcosa di strano quando Giulio prese la sua mano e la infilò sotto la mia e facemmo i pochi metri dall’uscita del negozio fino alle biciclette. Quando prendemmo i motorini, non eravamo più io e Giulio e basta. Arrivarono, le sere d’estate, anche Giovanni e Flavio, anche loro figli dei contadini delle cascine attorno alla borgata. Assieme incominciavamo a fare tardi, loro molto più di me: io ero cittadino e mia nonna – che si era abituata alle malizie della metropoli sebbene ci vivesse soltanto d’inverno, ne fiutava i pericoli e se li portava dietro anche là dove era nata e vissuta lei, come se quegli spazi fossero una sua responsabilità – non

mi lasciava rientrare tardi la sera. Gli altri sì, potevano, e mi prendevano in giro, perché a mezzanotte dovevo essere in cascina. Giulio mi difendeva. Erano gli anni dei primi fidanzamenti. Io avevo il fascino del ragazzino di città che sapeva prima di loro cosa fosse il fumo – «il dio del rollaggio» mi aveva definito Gianna –, io ero stato al concerto di Madonna al Comunale nel 1987, io ero quello che aveva la maglietta degli AC/DC quando loro ne avevano fatto un miraggio alla radio su una stazione presa per sbaglio. Erano gli anni in cui io e Gianna ci infrattavamo nel campo ultimo prima del pilone, il campo di granoturco, il ragazzino di Torino che si prende la verginità di Gianna la quattordicenne. Io un po’ mi stupivo: alto più della media, muscoloso naturale senza aver mai messo piede in palestra, i capelli nerissimi che si erano fatti via via più riccioli, lineamenti delicati che gli davano una sorta di disegno geometrico dolce, gli occhi ormai cinerei, quasi glaciali, che avrebbero stordito la più disinteressata delle donne. Giulio era il più bel ragazzo io avessi mai visto. Eppure, mai lo vidi, in quelle estati dell’adolescenza che portano diritti alla maturità, mai lo vidi in compagnia di una donna. Quando gli raccontavo di Gianna – lei aveva un fidanzato ufficiale, io ne cambiavo più di una

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negli inverni torinesi, l’estate era il paese e il paese era Gianna e le sue mutande rosa che strappavo nel nostro granoturco a pochi passi dal pilone –, Giulio, a differenza dei miei amici torinesi, non dava consigli, non riteneva di essere padrone della verità sulle donne, Giulio, quando parlavo, ascoltava e diceva: «È così», e poi emetteva un suono a metà tra un grugnito e uno sbuffo e cambiava discorso. Giulio fumava parecchio, beveva, riusciva a far mattina e a essere lucidissimo in stalla alle sei per la mungitura. Ascoltai quella che forse si chiamava Fulvia dire, una sera nella piazza, con una birra in mano, a Gianna: «Il tuo amico è bello strano». L’estate della maturità mi presentai al paese con un diploma e un pallone da basket. Sapevano che ero entrato in prima squadra ed erano stati contenti quando l’avevo detto. Il più contento era stato Giulio che aveva proposto un torneo estivo tra le varie borgate del paese; un torneo di basket era grande cosa per loro, eppure avevano tutti dato grande entusiasmo all’idea, così che si fece davvero, a fine agosto. Io ero quello bravo. Otto cinquine più un panchinaro, erano venuti dai paesi vicini a giocare il grande torneo estivo sul campo vicino alla piazza; un torneo che era finito nei cartelli della festa del paese, era un’occasione ufficiale e io ero la stella. Di quel torneo ricordo che perdemmo in finale e che Giulio era bravo, molto più di quanto immaginassi e ricordo che mi guardava quando segnavo, e mi batteva il cinque, e il suo cinque aveva un significato speciale per me, o io iniziavo a darglielo, al punto che, quando ci trovammo sotto la doccia, ricordo che non mi levai le mutande, almeno la prima volta, mi venne così, ma poi le levai perché ero l’unico a docciarmi con le mutande e la cosa non mi pareva naturale, ma rimasi in un angolo, a sciacquarmi lungo il muro di quella doccia, riverso negli spigoli, che non mi vedesse nessuno, cioè Giulio. Ma non lo so perché. Lui, Giulio, continuava a non avere una ragazza. Ci divertivamo meno, io iniziavo ingegneria e studiavo analisi, chimica, informatica, lui continuava a mungere le vacche alle sei del mattino e alle sei della sera, tutti i giorni dell’anno. Poi, mi fidanzai sul serio, con una che faceva con me il primo al Politecnico. Si chiamava Lucia. L’estate del primo al Poli corsi a presentarla ai miei amici del paese, per farle vedere dove io passavo le mie estati, a farle conoscere il mio amico d’infanzia Giulio, e Giulio la squadrò e le disse ciao e poi andò al bar, e fu Gianna a coccolarla di parole, Gianna che di lì a un mese avrebbe annunciato le sue improvvise nozze con il fidanzato storico Francesco, uno che si vedeva poco, che lavorava nella città vicina,

Autoritratto, Ilya Yefimovich Repin, 1878. Museo di Stato Russo, San Pietroburgo (RUS).

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che le era accanto da quando si erano conosciuti alle medie. Giulio, lui, era al bar. A bere. Che Giulio fosse strano, forse, l’avevo sempre saputo, ma per capirlo dovetti fare il militare. «Uno su quattordici è gay», continuava a dire, in noiosa petulanza, Andrea Calabria, collega di camerata, come predicasse o volesse essere assolto. Uno su quattordici. Eravamo in settanta in quel plotone, mi ritrovai un giorno a pensare che uno su cinque di quelli che marciavamo fosse gay. E al paese, uno su cinque, tra Giulio, Giovanni, Flavio, Alberto, io, uno di noi senz’altro era gay, come diceva Andrea Calabria. Mi chiesi, marciando: ma io, che confidenza ho con Giulio? Perché non gli ho mai chiesto del perché senza una donna mai? Come avrebbe reagito Giulio, il mio amico Giulio, quello che rideva spanciandosi a terra, quello che mi difendeva dal gruppo quando il gruppo mi prendeva in giro perché rientravo presto, quello che mise la mano sotto la mia dal panettiere, come avrebbe reagito qualora gli avessi chiesto perché non gli piacevano le donne, lui uomo bellissimo che se solo avesse voluto…? Ma quanto può essere pesante un sacchetto del pane? Avvenne una sera. Qualche anno dopo, io festeggiavo l’ultimo esame e lui venne a Torino in mezzo ai miei amici che lui, nelle estati in cui andavo sempre meno al paese, quelle dell’università con Lucia e con i miei amici del Poli, aveva detestato fin da subito – li chiamava i bastardi, perché sarebbero finiti a comandare un cantiere o a firmare un progetto, loro avevano o avrebbero avuto nella vita i soldi facili senza sporcarsi le mani di merda o di latte nella stalla alle sei del mattino e alle sei della sera ogni giorno dell’anno quindici agosto uguale tre di febbraio, loro avevano le ferie –, accadde ciò che, da qualche anno, avevo preso a pensare senza mai mettere bene a fuoco. Erano gli anni dei primi pakistani ai tavoli, ondate di uomini che intervenivano a mezza cena e proponevano mazzi di fiori geometricamente perfetti, quasi asettici nella loro composizione, chiedendo «Vuoi?» e aspettando una risposta che mai era sì. Giulio, quella sera, in mezzo ai miei amici, taciturno fino a quel momento, quando arrivò il pakistano disse: «Te lo compro tutto se indovini a chi di questo tavolo devi darlo». Il pakistano non capì, io sì e abbassai lo sguardo. Paola, ricordo, per un attimo si atteggiò, ringalluzzì, Paola che, verso i cessi, mi aveva detto quanto era bello il mio amico, «bello come il sole». Tuttavia, Giulio disse subito al pakistano impacciato: «Va bene, te li prendo lo stesso», e poi, mentre degli altri alcuni erano protesi alla scena altri no, Giulio mi porse il mazzo e io lo presi, finsi stupore, ma la scena non avvenne come lui aveva creduto e di lì a pochi secondi si sciolse l’imbarazzo. Soltanto Giulio era imbarazzato, al punto che un minuto dopo disse «Vado a fumare» e finì fuori con le sue Marlboro rosse e la media bionda tra le mani. Sul Romanzo

Lucia non mi parlò, quella sera; aveva capito che era una cosa tra me e Giulio e come tale andava risolta. Quindi, finimmo io e Giulio sulla mia auto, lui che allargò le braccia e chiese scusa. Mi venne una grandissima voglia di abbracciarlo. Non lo feci. Ci rivedemmo. Aveva calzini colorati spaiati e a me la cosa non parve strana. Quella sera, ormai avevamo i nostri anni, mi chiese di accompagnarlo il sabato a Torino, mi disse che sarebbe salito a Torino e io lo sapevo dove andava, e mi parve giusto accompagnarlo, dirgli sì, che l’avrei accompagnato, anche se sapevo benissimo che si sarebbe infilato nel corteo dell’orgoglio, e la cosa mi parve altamente dissonante rispetto a quello che era stato sempre Giulio, Giulio ‘d Burdiss, l’allevatore di vacche da latte, che non ci faceva niente qui in città, per me non ci faceva proprio niente. «Cosa vogliono ‘sti froci?, sai, ci urlano», mi disse lui a voce alta, mentre passavamo per corso Galileo, tra l’ostentazione di una chiappa e un seno rifatto che per i primi minuti mi fecero ridere. «Capisci, chiedono, anno 2010, cosa vogliamo. Questo è inconcepibile». No, Giulio, è inconcepibile che a casa tua se qualcuno sapesse che sei qui, e soprattutto perché sei qui…. «E cosa vogliono i gay, Giulio?» avevo risposto; ancora non riuscivo a includere lui, a dire volete. Io non posso sapere, io ho Lucia e una casa che mi aspettano. Ci vedemmo di nuovo che c’era già l’Iphone, ormai solo una dell’una o due volte l’anno, avevo avuto il primo bimbo e lui, per una sorta di doveroso rispetto (me l’aveva detto lui, usando al telefono proprio le parole doveroso rispetto), a casa nostra non veniva mai. Ci limitavamo a telefonate chilometriche le feste comandate e non ci vedevamo più né d’estate (scendevo sempre meno, avevo i piccoli) né d’inverno a Torino (andava sempre più all’estero, lui Giulio, io sapevo dove). Però, una volta ci vedemmo, un anno fa, e fu un pomeriggio bello, quella sensazione di essere a casa, anche se c’era lui, Giulio, che era innamorato di me più che mai. Io guardavo Giulio e Giulio era bellissimo ma mai avrei voluto essere colei che Giulio l’avrebbe toccato, sognavo di essere Giulio per farmi toccare da quella che l’avrebbe toccato in quanto Giulio, solo perché Giulio, se non fosse stato gay. Quella sera mi spiegò l’applicazione dell’Iphone per cui agganci qualcuno per consumare un rapporto veloce dove decidi tu – un cesso, la sala d’aspetto di una stazione, a casa di qualcuno –, ma io non volevo ascoltare, non potevo pensare o non volevo immaginare e non volevo mi venisse l’immagine di Giulio che usciva il sabato sera dopo la mungitura e saliva a Torino o Milano per prendere o dare cazzi a sconosciuti soltanto perché sconosciuti si trovavano lì e desideravamo dare o ricevere cazzi in quel momento, il momento censito e geotaggato da un’applicazione del telefonino di ultima generazione. n° 3 • Luglio 2012

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Mi ha chiamato Gianna, ieri sera. Mi ha detto che Giulio domenica non è tornato a casa. I suoi l’hanno cercato, sono partiti i fratelli con l’aereo e sono andati a cercarlo. Per sua madre, tutti in paese sapevano che andava ogni settimana a pregare al santuario a venti chilometri del paese, per sua madre, diceva Tota Gemma, era ormai un’ossessione che quell’uomo così bello e grande lavoratore non trovasse moglie a trentacinque anni compiuti. Sua madre anche lunedì era andata al santuario, mentre gli altri suoi figli avevano preso la via dell’estero dove io sapevo andava, e anche loro, per cercare Giulio. Gianna mi ha detto che forse era malato, io lo sapevo che tutti sapevano ma nessuno aveva mai detto niente nemmeno a me, e vorrei esserci stato di più i sabati d’inverno, soprattutto quando eravamo cresciuti, vederli Giovanni, Flavio, Alberto, Gianna, Francesca, com’erano assieme e come parlavano, se parlavano, a Giulio che non aveva donne, Giulio che da sempre tutti in paese sapevano che era strano. Stavo già piangendo. Io non credo fosse malato Giulio, ma non importa, stavo già piangendo quando Gianna mi ha detto che c’era un biglietto per me nel portafoglio, un bigliettino in una busta piccola come quelle che tengono i biglietti da visita, chiuso. Gianna ha detto che ce l’aveva il fratello grande e me l’avrebbe dato prima del rosario, fossi sceso, o della sepoltura, avessi avuto tempo di andarci. Lì per lì non badai alla modalità eventuale con cui il fratello grande di Giulio parlava a proposito del mio esserci per Giulio l’omosessuale morto. Ci pensai dopo, quando misi giù il telefono, a dove ero io l’ultimo giorno di Giulio l’omosessuale vivo, se avevo fatto abbastanza, cioè che cosa avevo fatto e che cosa avrei potuto fare. Mi venne da urlare certo-che-cisono-per-Giulio-alla-sua-sepoltura, come valesse, io che adesso volevo soltanto andare ad abbracciare Giulio morto, Giulio che non avevo abbracciato vivo quella sera nell’auto. Ho pianto tutta la notte e adesso che sono qui abbraccio il fratello grande e piango Giulio che si gettava quasi a terra quando rideva per avermi fatto gol, Giulio che la morte non ha reso meno bello, e abbraccio anche lui gelido, il corpo di Giulio qui davanti a me, ho il bigliettino di Giulio tra le mani e Lucia capisce e mi spinge fuori toccandomi il braccio, io esco e finisco sotto il pergolato dietro la cascina di Giulio ‘d Burdiss, non sto piangendo mentre leggo le tre righe che l’incerta calligrafia di Giulio l’allevatore di vacche ha scritto per me, poi mi metto a ridere e a piangere assieme, quando leggo, e rido e piango e aspetto qualche minuto e arriva Lucia e la abbraccio forte, e lei è un po’ stupita che io stia ridendo e piangendo, pensando a cosa gli fosse saltato in mente di scrivermi, perché gli fosse saltato in mente di rispondere a una domanda che non gli avevo fatto, alla domanda che si era fatto lui il giorno del Pride dicendola a me e soltanto adesso capisco che era una richiesta, che Giulio voleva gli chiedessi che cosa volessero i

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gay perché aveva capito che in fondo non lo avevo capito e adesso, morto, mi dava la sua risposta, la sua incredibile risposta che mi faceva ridere, che mi faceva piangere.

Ritratto di Vsevolod Mikhailovich Garshin, (particolare) Ilya Yefimovich Repin, 1884. The Metropolitan Museum of Art, New York (USA). n° 3 • Luglio 2012


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Ambiguità, ironia e amore saffico: notarelle sull’androgino di Paulina Spiechowicz

L’unità perduta Ai tempi delle origini, l’amore era uno e uno solo. L’unità si esprimeva non tanto nell’univocità dell’oggetto del desiderio, quanto nella comunione fisica tra due individui. Ne risultava un cerchio talmente perfetto da far pensare a tali esseri di potersi impadronire dell’Olimpo, tentativo che fece paura addirittura agli dei: «quanto a forza e vigore erano terribili, e avevano pensieri smisurati e assalirono gli dei, e quel che Omero racconta di Efialte e di Oto riguarda in realtà proprio loro: il tentativo di dare la scalata al cielo per assaltare gli dei» (Platone, Simposio). Zeus decise, allora, di punirli. Non poteva, tuttavia, sbarazzarsene: avrebbe dovuto rinunciare alle loro offerte. Pensò, piuttosto, di rompere l’unità, che tanta forza sembrava conferirgli. Gli uomini si trovarono improvvisamente divisi. Tale separazione fu fonte di profondo dolore, al punto che gli esseri, spinti dall’infinito desiderio di recuperare l’unità primigenia, si lasciavano morire d’inedia. Gli dei, impietositi, fecero loro dono dell’amore, non restituendogli la perfezione dell’unità, ma dandogli l’illusione di possedere l’oggetto della loro brama.

La ninfa Salmace e Ermafrodito, François-Joseph Navez, 1829. Museum voor Schone Kunsten, Gand (B).

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Il combattimento delle Amazzoni, Peter Paul Rubens, ca. 1620. Alte Pinakothek, Monaco (D). Sotto: Amazzone ferita, Franz von Stuck, 1903 (part.) Van Gogh Museum, Amsterdam (NL)

Questo episodio, così come anche altri aneddoti classici, svela la bellezza della mitologia, la quale risiede nella volontà di spiegare il moto dell’universo assieme al mistero del sentimento umano non tramite la religione e neppure con il soccorso della scienza, bensì attraverso la poesia. Platone riconosce all’androgino la perfezione dell’essere (la coincidentia oppositorum) e attribuisce alla sua separazione la creazione del sentimento amoroso, che rientra nella sfera dell’illusione. In base a questo mito, erano divisi anche i pianeti e i loro raggi d’influenza. Se il sole appartiene all’uomo e la terra incarna la donna, un terzo pianeta rivela la presenza dell’ambiguità del genere: la luna. Il mondo notturno e sublunare rappresenta, difatti, l’universo dell’androgino, da non con-

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fondere, però, con l’ermafrodito. Quest’ultimo si caratterizza per la presenza simultanea di apparati sessuali di entrambi i sessi, mentre l’androginia non ha valenza scientifica e connota l’ambiguità esteriore: l’aspetto di una persona mostra la coesistenza di comportamenti e attitudini sia maschili, sia femminili (per il mito dell’Ermafrodito, si rimanda alla sua fonte in Ovidio, Metamorfosi, IV 293–388). Nell’ambito delle figure mitologiche che presentano caratteristiche androgine, troviamo le tre dee della castità: Atena, dea della guerra; Diana, dea della caccia e Vesta, dea del focolare. Da questa ambiguità ha origine un immaginario che popola la nostra cultura e che si concretizza nel celebre esempio delle amazzoni. Stirpe di donne guerriere, iconograficamente riconoscibili dalla mutilazione del seno destro, le Amazzoni sono solitamente collocate geograficamente nella Scizia, in coincidenza di una zona non precisata che s’appresta ai monti del Caucaso. Accanto alle fonti storiche (Erodoto), le Amazzoni hanno nutrito l’immaginario di molta lirica occidentale. Un celebre esempio è racchiuso nella Teseide di Boccaccio, la quale comincia con l’attacco di Teseo all’esercito di donne presidiato da Ippolita, regina delle Amazzoni e che, soggiogata dalle truppe di Teseo, diventerà sua sposa. L’androgino, essere ambiguo e senza una distinzione specifica di ruolo tra il genere maschile e il genere femminile, permea, quindi, la letteratura classica e il Medioevo pre–umanista, soprattutto con le spoglie di una figura femminile (Atena e/o Diana) con atteggiamento e abbigliamento puramente maschile (donna guerriera e/o donna che va a caccia). n° 3 • Luglio 2012

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L’equivoco del genere Il Rinascimento partecipa, a sua volta, alla discussione sull’androgino, che trova spunto nella riscoperta dei classici propria del periodo. Ficino, grazie alla sua celebre lettura di Platone, volgarizza, ne El Libro dell’Amore (1469), il mito dell’androgino, consegnandolo all’Umanesimo sotto le spoglie di una narrazione orfica. Contemporaneamente, la commedia, passando per Plauto e prendendo spunto dalle invenzioni di Boccaccio, sviluppa un intertesto comico che diventa un topos del genere: l’equivoco dello scambio dei sessi. Nel 1513, Bernardo Dovizi da Bibbiena presenta, a Urbino, la Calandria. Si tratta di un testo in prosa che mette in scena la storia di due gemelli, Lidio e Santilla, il primo erroneamente considerato donna e la seconda viceversa uomo. Poco più tardi, nel 1516, vede la luce la prima edizione dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, che l’autore porterà definitivamente a compimento nel 1532. Il canto XXV del poema riprende il tema dell’equivoco a sfondo sessuale, ispirandosi parzialmente al Dovizi. D’altro lato, fonte importante per l’Ariosto è rappresentata dalle Metamorfosi di Ovidio e dall’episodio di Ifi, donna che viene fatta passare per uomo dalla sua famiglia (Met. IX, V. 726–763). Nel Furioso, Fiordispina trova Bradamante distesa su un prato, con i capelli corti e l’armatura da guerriero addosso. La giovane donzella se ne innamora follemente e poco le importa la scoperta che si tratta di una donna: il germe dell’amore ha ormai messo i

semi nel suo corpo. Così come nella commedia del Bibbiena, anche Bradamante ha un fratello gemello che le assomiglia come una goccia d’acqua. Ricciardetto, dopo essere venuto a conoscenza dell’amore di Fiordispina per Bradamante, invaghito anch’egli della giovane, approfitta della somiglianza con la sorella per mascherarsi da donna e farsi passare per Bradamante. Alla giovane Fiordispina farà credere di aver cambiato sesso tramite un artificio magico ed è così che l’innamorata può finalmente realizzare il suo desiderio per Bradamante: Così la donna, poi che tocca e vede qual di ch’avuto avea tanto desire, agli occhi al tatto a se stessa non crede e sta dubbiosa ancor di non dormire; e buona prova bisognò a far fede che sentia quel che le parea sentire “Fa Dio (disse ella), se son sogni questi, ch’io dorma sempre, e mai più non mi desti.” (XXV, 67) L’equivoco con il quale gioca l’Ariosto sprona nella narrazione il sentimento d’ironia che pervade d’ambiguità il poema. Di questo genere di equivoci, del resto, pullula anche la letteratura successiva. Ne è un esempio l’episodio di Bellino nelle memorie del Casanova, castrato che si scopre essere una donna, così come la Sarrazine di Balzac, storia di una femmina dietro a abiti e pose maschili.

Incontro di Bradamante e Fiordispina, Guido Reni, 1632-1635. Depositi delle Gallerie, Firenze.

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A fianco - Renée Vivien and Natalie Barney, ca. 1900. Sotto - B. Abbott, Ritratto di Djuna Barnes.

Saffo e la luna Il XX secolo coincide con la riscoperta e la mitologizzazione della figura di Saffo. Nel 1882, alcuni archeologi trovano dei frammenti delle sue poesie – fino ad allora sconosciuti – che diventano immediatamente il simbolo della nuova rivendicazione sessuale e poetica di una generazione. Natalie Clifford Barney e Renée Vivien, americana la prima e britannica la seconda, rappresentano il cenacolo di espatriate intellettuali a Parigi, le quali divulgano poeticamente l’amore saffico. Nello stesso tempo, emerge l’esigenza di un riordinamento e una collocazione dei generi e delle tendenze sessuali in relazione al movimento femminista e ai mutamenti verso i quali si stava dirigendo la società post–industriale. Quasi tutti i romanzi che ruotano attorno al tema dell’androgino si situano, pertanto, e non a caso, sul versante identitario. La stessa Virginia Woolf non è esule da questa tendenza. Il suo Orlando ripercorre – sotto le spoglie di una biografia fittizia – la metamorfosi di un essere che passa dal genere maschile a quello femminile, riassumendo un grande numero di interrogativi sull’argomento che saranno successivamente sviluppati da altre scrittrici, come, per esempio, Sarah Waters. Nel panorama narrativo che vede le donne scrivere dell’amore tra donne, spicca il romanzo di Djuna Barnes. Si tratta, forse, del solo testo – ad opinione della persona che scrive – che riesce a svincolarsi dalle contingenze proprie di un’epoca in continua esigenza di connotazione identitaria. Sul Romanzo

La foresta della notte, romanzo pubblicato nel 1936 con una prefazione di T. S. Eliot, racconta l’amore tra due protagoniste di sesso femminile, amore che potrebbe definirsi «a romantic freindship», seguendo le indicazioni di Lilion Faderman, che, con questo termine, indica una relazione – sessuale o meno – tra donne. La notte, tema conduttore della narrazione, rappresenta la chiave di lettura speculare del romanzo. La notte indica e definisce l’androginia, argomento sottocutaneo del romanzo, e lo fa passando attraverso i suoi misteri, i pregiudizi che popolano le certezze dei moralisti e degli animi benpensanti: «Ebbene, io, dottor Matthew-Gran-sale-in-zucca-Dante-O’Connor, vi dirò come il giorno e la notte siano collegati dalla loro divisione. La struttura stessa del crepuscolo è una favolosa ricostruzione della paura, la paura messa in mutande e capovolta. Ogni giornata è pensata e calcolata, ma la notte non si premedita. Di qua c’è la Bibbia, di là la veste da notte. La notte: Attenti a quella porta oscura!». La notte, quindi, con il suo versante lunare che rispecchia il pianeta di appartenenza dell’androgino, mette in luce, attraverso le sue ombre, i segreti di un amore che, se in età classica rimaneva appartato all’ambiguità del genere e all’equivoco della finzione, in era contemporanea diventa la cifra stilistica dell’amore saffico. La notte svela l’unità perduta. La luna manifesta il desiderio di conciliazione celato dietro la perfezione, insopportabile alla luce del giorno. Si tratta, però, sempre e soltanto di desiderio. L’unità è, infatti, andata perduta e l’amore si manifesta come mera illusione concessa agli umani dalla pietà degli dei.

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Eventi Warhol: Headlines È la prima mostra dedicata alle opere realizzate da Andy Warhol sul tema dei titoli giornalistici. Warhol: Headlines raccoglie circa 80 opere – dipinti, disegni, stampe, fotografie, sculture, film, video e televisione – ispirate, in larga misura, alle notizie dei tabloid e dalle quali trapela l'ossessione per il lato sensazionale dei media contemporanei che caratterizzò tutta la carriera dell’artista. Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma Dal 12 giugno al 9 settembre Festival lirico 2012 In scena, da sabato 4 agosto, Turandot di Giacomo Puccini, per regia e scene di Franco Zeffirelli, costumi di Emi Wada; dirige la bacchetta veronese di Andrea Battistoni. Da sabato 18 agosto, Tosca di Giacomo Puccini nell’allestimento di Hugo de Ana, che ne cura regia, scene e costumi; dirige Marco Armiliato. Il 90° Festival lirico 2012 all'Arena di Verona vede impegnati tutti i settori artistici – Orchestra, Coro, Corpo di ballo – e tecnici della Fondazione Arena di Verona, insieme a centinaia di comparse. Arena di Verona - Dal 22 giugno al 2 settembre

Settembre al Borgo Festival di musica parole e visioni; tra gli ospiti attesi: Francesco Renga, Mario Biondi, Carmen Consoli, Gino Paoli, Simone Cristicchi, Giovanni Allevi, Vinicio Capossela, Daniele Silvestri, ma anche Dario Vergassola, Marco Marzocca, Dario Cassini. Caserta - Dal 1 al 9 settembre Festivaletteratura di Mantova Festival internazionale della letteratura con numerosi ospiti nazionali e internazionali. Mantova - Dal 5 al 9 settembre Lector in fabula La traccia dell'ottava edizione sarà: DEMOCRAZIE AL BIVIO: parole smarrite, parole da (re)inventare e verranno invitati scrittori e intellettuali a confrontarsi sulle dinamiche di cambiamento che dal Mediterraneo si propagano all’Europa e al mondo. Conversano (Ba) - Dal 13 al 16 settembre

Incontri con l’autore La manifestazione letteraria, organizzata dall’Associazione Culturale Il Telaio, vede scrittori e giornalisti riuniti nella suggestiva cornice rinascimentale del cortile coperto della Casa Ragen per presentare le loro opere. Quest’anno, Incontri con l'autore si aprirà anche ad altri campi, come sport, cinema e arte, con la partecipazione di personaggi che si sono particolarmente distinti in tali ambiti. Casa Ragen, Brunico - Dal 25 luglio al 18 agosto

Festa del libro con gli autori Dal 2000, Pordenonelegge ha convinto sia la critica più raffinata che il grande pubblico, vanta importanti relazioni con altri festival, collaborazioni con eventi internazionali e gioca un interessante ruolo di palcoscenico per autori famosi e scrittori emergenti. Il festival consiste in una rassegna letteraria con oltre 200 incontri gratuiti distribuiti in 40 sedi nel centro storico della città. Pordenone - Dal 19 al 23 settembre

Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è organizzata dalla Biennale di Venezia e vuole favorire la conoscenza e la diffusione del cinema internazionale in tutte le sue forme di arte, di spettacolo e di industria. Venezia - Dal 29 agosto all'8 settembre

Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi Una grande mostra antologica di Pablo Picasso, con oltre 200 opere tra dipinti, disegni, sculture e fotografie. L’esposizione è curata da Anne Baldassari, collaboratrice del Musée National Picasso di Parigi, dov’è conservata la più grande collezione al mondo delle opere dell’artista spagnolo. Palazzo Reale, Milano - Dal 20 settembre al 6 gennaio

Festival della mente Il primo festival europeo dedicato alla creatività, diretto da Giulia Cogoli, mette a confronto grandi nomi della scienza, delle arti e della filosofia. Sarzana (Sp) - Dal 31 agosto al 2 settembre Mostra del Libro Antico e della Stampa Antica Città di Castello/Città del Libro organizza la dodicesima edizione della Mostra Mercato del Libro antico, raro e d’autore e della Stampa Antica. La mostra è allestita nell'antico Loggiato

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di Palazzo Bufalini (Piazza Matteotti). Città di Castello (Pg) - Dal 31 agosto al 2 settembre

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Women’s Fiction Festival Il Women’s Fiction Festival (Festival Internazionale di Narrativa Femminile) comprende un Congresso internazionale per scrittori, master class condotte da scrittrici best seller, Briefings for thriller writers dedicati ai giallisti, appuntamenti a tu per tu tra scrittori, editor, agenti letterari e consulenti editoriali, incontri con il pubblico, happy hour, concerti e premiazioni letterarie. Matera - Dal 27 al 30 settembre

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Exposition Colette La mostra presenta tutte le opere letterarie di Colette attraverso prime edizioni originali, a volte illustrate, completate da speciali (lettere, manoscritti ...) e dediche. Grazie ai gazebo tematici, è possibile seguire le tante “vite” di Colette, evocate da fotografie, ritratti, corrispondenza, manifesti. Granville (Francia) - Dal 08 aprile al 23 settembre World Shakespeare festival Centinaia di artisti in 70 produzioni, con attori internazionali che reciteranno nella propria lingua. Il British Museum ospiterà una mostra su Londra ai tempi di Shakespeare. Londra (Gran Bretagna) - Dal 23 aprile al 9 settembre London 2012 Festival Durante le 12 settimane, artisti di spicco provenienti da tutto il mondo scenderanno su Londra per far parte della più grande festa mai svoltasi nel Regno Unito, celebrando sia le Olimpiadi che le Paralimpiadi attraverso la danza, musica, teatro, arti visive, del cinema e innovazione digitale. Londra (Gran Bretagna) - Per tutta la durata dei Giochi olimpici (fino al 9 settembre) Bauhaus – Art as Life La mostra, arricchita con laboratori e film dedicati al Bauhaus, include pittura, scultura, architettura della corrente artistica. Londra (Gran Bretagna) - Dal 3 maggio al 12 agosto Stars en Dior Esposizione sulle Star vestite da Dior al cinema e nella vita privata. Granville (Francia) - Dal 12 maggio al 23 settembre dOCUMENTA Evento internazionale che si svolge ogni 5 anni. Affronterà gli sconvolgimenti senza precedenti del XXI secolo nell'arte, la filosofia e la scienza contemporanee. Kassel (Germania) - Dal 9 giugno al 16 settembre

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Another London at Tate Britain Mostra fotografica caratterizzata da classiche immagini del XX secolo di Londra, da artisti del calibro di Henri CartierBresson, Bruce Davidson e Elliot Erwit. Londra (Gran Bretagna) - Dal 1 luglio al 16 settembre Giornate Europee del Patrimonio L’edizione 2012 si articolerà sul tema”risorse nascoste”. Segreti di storia, tesori sepolti, macchinari e dietro le quinte ... per due giorni il pubblico è invitato a scoprire un patrimonio raramente disponibile, a volte incompreso e spesso insospettato. Francia (tutto il Paese) - Dal 15 al 16 settembre Anno Klimt Per il 150° anniversario della nascita di Klimt, nove esposizioni nei massimi musei di Vienna: Leopold Museum, Wien Museum, Museo Austriaco di arti applicate/arte contemporanea, Kunstlerhaus, Museo del Folclore, Museo del Teatro, Secessione, Belvedere. Il Museo del Belvedere presenterà eccezionalmente tutte la sua collezione Klimt dal 6 luglio al 2 settembre. Vienna (Austria) - Tutto il 2012 Dublin City of Science Dublino si è autoproclamata città della scienza per il 2012 e in questa occasione per tutto l'anno si svolgeranno eventi culturali e artistici tra cui esposizioni fotografiche, esibizioni teatrali, festival cinematografici, dibattiti, performance di strada. Dublino (Irlanda) - Tutto il 2012

Eventi dall'Italia è a cura di Giovanni Turi Eventi dall'Europa è a cura di Donatella Capone

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Dorian Gray e Orlando, «complesse creature multiformi»

Negli ultimi quarant’anni, la critica di genere, soprattutto negli Stati Uniti, si è rivolta con particolare interesse a due classici della letteratura inglese da decenni trascurati dagli studiosi: The Picture of Dorian Gray di Oscar Wilde e Orlando di Virginia Woolf. Del romanzo di Wilde si è indagato il “sottotesto omoerotico” – in precedenza passato quasi sotto silenzio – , mentre, grazie al suo protagonista androgino, Orlando è assurto a testo femminista per eccellenza. Come dimostra la serie infinita di adattamenti per teatro, cinema e televisione, nel caso di Dorian Gray, l’interesse del pubblico non è mai venuto meno. Ma come sono accolti i due romanzi dai contemporanei dei loro autori? Entrambi suscitano reazioni forti. Pur se apprezzata per la qualità letteraria, l‘opera di Wilde (pubblicata nel 1890) sconvolge l’Inghilterra vittoriana a causa della sua percepita immoralità e delle “sfumature omoerotiche”. Lo scandalo si ripete e amplifica cinque anni dopo, quando Wilde viene processato per “pratiche omosessuali illecite”: a riprova della sua corruzione vengono addotti stralci dalla versione originale (poi edulcorata) di Dorian Gray. L’immoralità del romanzo si scopre coincidere con quella dell’autore, che viene condannato a due anni di lavori forzati. Circa quarant’anni dopo, Orlando (1928) – che pure racconta di un transessuale – è accolto da pubblico e critica con entusiasmo quasi unanime. I dubbi della Woolf alla vigilia della pubblicazione si rivelano infondati: nel suo caso, non scatta alcuna equazione tra letteratura e vita privata.

di Monica Raffaele Addamo

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loro lavoro. Se Woolf fa intravedere le potenzialità creatrici di una mente androgina, in Dorian Gray, il pittore Basil evoca «una maniera interamente nuova di fare arte, una sorta di stile interamente nuovo» ispiratogli dalla bellezza (l’amore) di Dorian. È, allora, interessante cercare di capire se e in che modo le riflessioni dei due scrittori sul modo di fare arte trovino riscontro in Orlando e Dorian Gray, i due romanzi che tematizzano – in modo più o meno scoperto – proprio la diversità.

4 Nel periodo che intercorre tra il processo a Wilde e il successo di Orlando, il problema dell’identità sessuale appassiona, oltre agli studiosi (da Ellis a Freud), artisti e intellettuali. È nella tarda età vittoriana che la figura dell’omosessuale prende corpo, diventando “una specie”. Prima di allora, stando alla Storia della sessualità di Foucault, la sodomia definiva soltanto un particolare tipo di atti proibiti; ora, invece, indica «una certa qualità della sensibilità sessuale, una certa maniera d’invertire in se stessi l’elemento maschile e quello femminile». A poco a poco, si fa strada l’idea che l’”invertito” sia un individuo dotato di particolare creatività. È Wilde il primo a scrivere della omosessualità di Shakespeare nel racconto The Portrait of Mr. W. H. (1889), che s’interroga sull’identità del destinatario dei Sonetti; e ancora Wilde, in Dorian Gray e poi sul banco degli imputati, difende l’amore «nobile» e «intellettuale», conosciuto da Shakespeare e Michelangelo. Più tardi, i membri di Bloomsbury, il gruppo letterario di cui fa parte la Woolf, affermano la convinzione che i veri artisti possiedano quella particolare combinazione di tratti maschili e femminili che è propria di omosessuali ed ermafroditi. In A Room of One’s Own (1929), il suo saggio sul posto che le donne hanno (o piuttosto non hanno ancora) in letteratura, la Woolf traduce le riflessioni del tempo nella teoria di una «mente androgina». Si tratta di una mente di grande creatività perché capace di oscillare tra la sua parte maschile e femminile; è la mente degli scrittori che, come Shakespeare, scrivono ignorando il proprio sesso: non perché liberi di ogni identità sessuale – cosa impossibile –, ma perché distanti dai limiti posti da un’ingombrante coscienza di essa. Essere androgini significa, per Woolf, sviluppare a pieno, nell’arte, ogni aspetto della propria umanità. Sia Wilde che Woolf hanno, dunque, seppure in modo diverso, consapevolezza della complessità dell’identità di genere e affrontano il problema nel Sul Romanzo

Si tratta di due storie magiche, anti–realistiche. Cominciano con tutti i tratti della verosimiglianza per poi sorprendere, l’uno, con un ritratto che invecchia, mentre al suo modello è donata l’eterna giovinezza; l’altro, con la storia dell’aristocratico elisabettiano che vive per trecento anni e, intanto, scrive, cambia sesso, medita sulla vita e la letteratura, sempre fluttuando tra una percezione di sé ora maschile, ora femminile. Entrambi i romanzi si servono di un espediente (il ritratto, la vita che non finisce, il sesso che cambia) per riflettere su identità e lingua, arte e vita, forse, per parlare di quello che non si può dire altrimenti (l’amore di Basil si può raccontare solo nel ritratto) o non con altrettanta efficacia. La trama di The Picture of Dorian Gray è nota anche a chi non ha letto il romanzo, perché – è stato osservato – Dorian Gray è un mito moderno, paragonabile ai miti degli dei mortali o di quegli uomini che, come Faust, aspirano a un potere divino. Il romanzo ha, però, anche le caratteristiche della favola e la parola ha il potere magico di segnare un destino (il desiderio espresso da Dorian è la sua condanna) e della favola è la morale che Wilde esplicita difendendo la propria opera dagli attacchi della stampa: «Ogni eccesso, come ogni rinuncia, conduce alla rovina». Come il mito, tuttavia, Dorian Gray sollecita più interpretazioni, tutte legate al rapporto tra i personaggi al centro del romanzo. Lord Henry, il corruttore, che vive il proprio ideale

5 1 - Ritratto fotografico di Oscar Wilde, Napoleon Sarony, 1882. 2 - Virginia Woolf, foto AP. 3 - Le copertine originali di The Picture of Dorian Gray e Orlando. 4 - Varie edizioni de Il ritratto di Dorian Gray. 5 - Varie edizioni di Orlando. n° 3 • Luglio 2012

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di edonismo attraverso Dorian; Basil, il pittore in grado di possedere la bellezza solo nell’arte; infine, Dorian, corrotto e corruttore, schiavo del desiderio suscitato negli altri dalla propria bellezza. Le tre figure si specchiano l’una nell’altra, così come Dorian si specchia nel proprio ritratto, che ne imprigiona e interroga l’identità: un moltiplicarsi di ruoli che pare mettere in discussione l’idea di un’identità stabile. Impegnati a vivere per l’arte e il godimento di piaceri «squisiti», i tre contraddicono l’ideale vittoriano dell’uomo tutto azione, ragione e rigore morale. Quando Dorian Gray compare a puntate sulla rivista americana Lippincott’s Monthly Magazine, la stampa britannica lo bolla come «innaturale», «effeminato» e «perverso». L’ira dei recensori si rivolge tanto all’opera quanto all’autore. Si vuole colpire l’irlandese che è riuscito a porsi al centro dell’alta società inglese per permettersi il lusso di criticarla dall’interno, da dandy dissacratore. Come osserva la studiosa McCormack, Wilde – l’irlandese colonizzato – costruisce il proprio successo sociale e letterario sfruttando la capacità di manipolare alla perfezione la lingua dei colonizzatori. A differenza, però, della lingua dell’Impero, che si articola in assiomi, quella di Wilde è ambigua e ricca di sfumature, un counterspeak in grado di ribaltare le formule e i dogmi morali dell’epoca.

L’abilità di Wilde è, dunque, nel sovvertire la cultura che conosce attraverso la lingua che padroneggia. È la cultura della società tardo–vittoriana, raccontata nella lingua dell’estetismo inglese: lingua, però, ricca di paradossi e contraddizioni, che – come il gioco di specchi tra i personaggi in Dorian Gray – sembra rendere conto di una realtà (e una sessualità?) non univoca. Al personaggio di Lord Henry, più che agli altri, è affidato il compito di rivelare la fragilità di ogni certezza, indicando i limiti della lingua che queste certezze esprime. Nella sua schermaglia verbale con la cugina Gladys (unica figura femminile del romanzo

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6 - Portrait of Virginia Woolf, Roger Fry, 1917. 7 - Portrait d'Oscar Wilde, di Albert Edouard Sterner, 1893 per la rivista La Plume. 8 - Orlando, Christoffer Gertz Bech. 9 - The Picture of Dorian Gray, Ivan Albright, 1943.

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ritratta in modo non convenzionale), i due fanno mostra della propria arguzia e intelligenza. Entrambi utilizzano sapientemente le parole, ma da quelle di Henry emerge la sfiducia nello strumento adoperato con tanta maestria. Henry dichiara il proprio proposito di rinominare ogni cosa, cominciando con le orchidee, la cui bellezza è umiliata da orribili nomi scientifici. Per lui, «i nomi sono tutto». Quando, però, Gladys lo chiama «Principe del Paradosso», respinge il titolo, lamentandosi di come non ci sia scampo alle etichette. Gladys gli chiede, allora, di dare una definizione di sé, ma Henry si rifiuta, perché «definire equivale a limitare». Tuttavia, poco dopo, qualifica le donne «sfingi senza segreti». La conversazione (come altrove nel romanzo) procede per paradossi e contraddizioni. Perfino il principio fondante del New Hedonism, che vede nella vita una susseguirsi di esperienze diverse, viene smentito: la vita offrirebbe un’unica grande esperienza che ci è solo dato di ripetere all’infinito. n° 3 • Luglio 2012


Un simile atteggiamento di indeterminatezza si trova in Orlando, in cui il protagonista, da poeta, si interroga incessantemente sul rapporto tra parole e vita. Già il genere dell’opera è incerto: si tratta di un romanzo, una biografia o una parodia della biografia? Di certo, è puro divertimento, una scorribanda attraverso tre secoli di storia e letteratura inglese. Mentre seguiamo Orlando percorrere età e Paesi e lo/la vediamo cambiare gusti letterari, abbigliamento, identità sessuale, anche la lingua cambia: ora è letteraria, ora colloquiale, ora parodia uno stile. Il narratore (uomo, donna?) insiste su come il suo punto di vista di biografo sia per forza di cose limitato, relativizzando di continuo le proprie affermazioni. Fin nell’incipit, mette in dubbio l’identità sessuale di Orlando nel momento stesso in cui la afferma («Egli – poiché non v’era dubbio sul suo sesso, per quanto la foggia di quei tempi alquanto lo dissimulasse»). Neppure in seguito sa definire l’identità del suo eroe: ora la dice mutata dopo secoli di avventure e la trasformazione in donna, ora afferma che di base è rimasta la stessa. E come descrivere la differenza tra i sessi? Riportando l’opinione di «qualche filosofo», la dice superficiale, quasi dettata dal diverso abbigliamento; poi, dichiara che gli abiti sono solo il simbolo di ciò che di più profondo si cela sotto di essi. Poco oltre, afferma che, benché i sessi siano diversi, si confondono: «Non c’è essere umano che non oscilli così da un sesso all’altro, e spesso non sono che gli abiti a serbare l’apparenza virile o femminile, mentre il sesso profondo è l’opposto di quello superficiale». L’identità è, allora, una serie di ruoli diversi e contraddittori e l’idea, espressa da Dorian, che l’uomo sia «una complessa creatura multiforme», è valida anche per Orlando.

Nemmeno Orlando, che lavora al suo poema La Quercia per trecento anni, è in grado di dire alcunché con certezza, né che l’erba sia verde o il cielo blu. Deve servirsi di metafore sempre nuove per descrivere una realtà in mutamento. Come ha evidenziato Caughie, Orlando appare soprattutto un romanzo sulla scrittura e l’invenzione di storie e identità; in esso, l’androginia è un artificio retorico valido a mostrare che l’identità sessuale e la lingua non sono date una volta per tutte, ma vengono costruite in modo diverso, in tempi e situazioni diverse.

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Riferimenti: • Foucault Michel, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Milano, Feltrinelli,1984, pagg. 42–43. • Cohen Ed, Writing Gone Wilde: Homoerotic Desire in the Closet of Representation. www.jstor.org (soprattutto per le reazioni della stampa alla pubblicazione del romanzo di Wilde). • Ross Alex, Deceptive Picture. How Oscar Wilde painted over “Dorian Gray”. http://www.newyorker.com/arts/ critics/atlarge/2011/08/08/110808crat_atlarge_ ross#ixzz1xMiQ91LV. • McCormack Jerusha, Wilde’s fiction(s). In The Cambridge Companion to Oscar Wilde, Cambridge: Cambridge University Press, 1997, pagg. 96–117. • Caughie Pamela, Virginia Woolf ’s Double Discourse, in Discontented Discourses: Feminism/textual Intervention/psychoanalysis. Ed. Marleen S. Barr & Richard Feldstein. Urbana, IL, University of Illinois Press, 1989, pagg. 41–53. Sul Romanzo

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George e James, protagonisti a confronto

L’omosessualità in Un uomo solo e in Un giorno questo dolore ti sarà utile

di Giovanni Turi

Christopher Isherwood ha pubblicato Un uomo solo nel 1964 (in Italia, tradotto, per Adelphi, da Dario Villa), Peter Cameron Un giorno questo dolore ti sarà utile nel 2007 (sempre Adelphi, traduzione di Giuseppina Oneto), ma a distanziare le due opere, oltre all’epoca, è anche il pubblico di riferimento: più colto e adulto quello di Isherwood, prevalentemente adolescenziale quello di Cameron. Entrambi i testi hanno, però, un andamento riflessivo che rende la narrazione rarefatta, quasi secondaria; curioso, dunque, che sia l’uno che l’altro abbiano avuto una trasposizione cinematografica. Il protagonista di Un uomo solo è George, un maturo docente universitario che ha da poco perso il compagno, Jim, in un incidente stradale; come nell’Ulisse di Joyce, il lettore segue

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Sotto: Christopher Isherwood con A Single Man, e Peter Cameron con Someday this pain will be useful to you. Pagina a fianco: In alto - Colin Firth in una scena del film A single man, regia di Tom Ford, 2009, e la copertina di Un uomo solo, ed. Adelphi. In basso - Toby Regbo in una scena del film Un giorno questo dolore ti sarà utile, regia di Roberto Faenza, 2011, e la copertina dell'edizione Adelphi.

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senza soluzione di continuità ventiquattrore della sua vita, le più importanti, e partecipa al suo dolore per l’assenza dell’amato e alle nuove timide illusioni, lo ascolta biasimare la speculazione edilizia e lo statunitense perbenismo ipocrita di metà ’900, irridere il clima esasperatamente teso della Guerra Fredda e interrogarsi sull’efficacia del sistema educativo nelle università, così come in famiglia: ovunque si posi, il suo sguardo trae brillanti e umanissime considerazioni, che ne rivelano l’indole sensibile ben al di là dell’atteggiamento asociale e spocchioso, tanto da indurci a soffermarci sulle ragioni della sua misantropia e su quanto l’essere omosessuale influisca sul suo atteggiamento; ma Isherwood non si cura di lasciarci nel dubbio, così come del resto fa anche Cameron.

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James, diciottenne americano intorno al quale ruota Un giorno questo dolore ti sarà utile, si dimostra, al pari di George, piuttosto insofferente verso le convenzioni sociali: è alle prese con la scelta dell’università, ma si interroga sulla reale utilità di proseguire gli studi, che ritiene non necessari; non sopporta i coetanei, la vacuità e il conformismo che li accomuna e percepisce la diversità sessuale come una latente possibilità della sua indole, come solo una delle possibili cause del suo disagio: «Io sapevo di essere gay, anche se non avevo mai fatto niente di gay e non sapevo se lo avrei mai fatto. Non riuscivo a immaginarlo, non riuscivo a vedermi in atteggiamenti intimi, erotici, con un’altra persona: riuscivo a malapena a parlare con gli altri, figuriamoci a fare sesso. Ero omosessuale solo in un senso teorico, potenziale».

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George, al contrario, è pienamente cosciente delle proprie inclinazioni sessuali e volge il biasimo non verso se stesso, ma ai bigotti vicini di casa: «Il signor Strunk, suppone George, cerca di inchiodarlo con una parola. Frocio, grugnisce a muso duro. Ma siccome siamo nel 1962, persino da uno come lui ci si aspetta che aggiunga qualcosa del tipo per me faccia quello che vuole, basta che mi giri al largo. […] Ma la signora Strunk, George ne è sicuro, dissente sommessamente dalle posizioni di suo marito; lei infatti pratica la nuova tolleranza, la tecnica dell’annientamento tramite dolcezza. […] Ci troviamo di fronte a uno spostato, escluso per sempre dalle gioie della vita, un essere da compatire, non da condannare». La consapevolezza del protagonista non si tramuta, tuttavia, in esplicita e orgogliosa rivendicazione, come Cristopher Isherwood ci suggerisce sin dal magistrale incipit, in cui George lentamente si ridesta e faticosamente si cala nella parte di integerrimo professore: dinanzi allo specchio, non è il nodo della cravatta che osserva, ma l’aderenza della maschera al suo volto. Da subito si instaura, dunque, il binomio anima (o pensiero, se si preferisce) e corporeità che rispondono in tempi e modi diversi alle sollecitazioni esterne; così, se il corpo mostra i segni del tempo, pagina dopo pagina assistiamo al rinvigorirsi di sogni e aspettative di George. Peter Cameron, invece, sin dalle prime battute, si preoccupa di fornire al lettore le coordinate famigliari all'interno delle quali si muove James: una sorella maggiore malleabile e acidula e una madre pluridivorziata e irresponsabile, proprietaria della galleria d’arte presso la quale il figlio lavoricchia; solo in seguito faremo la conoscenza della nonna Nanette, l’unica che sappia realmente ascoltarlo. Il padre è poco più che una cometa, intento com’è a fingersi premuroso e a provvedere a se stesso; l’unico amico è John, un collega più grande di lui che James non saprà fare a meno di ferire con uno

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stupido scherzo. Cosa pensi dei coetanei si è già detto, ma ancor più lo indispone la loro fregola, che mette in risalto un malessere radicato nel sentirsi “diverso”: «Sembrava che tutti fossero in grado di accoppiarsi, di unire le proprie parti in modi piacevoli e fecondi, ma nella mia anatomia e nella mia psiche c’era qualcosa di impercettibilmente diverso che mi divideva in modo irrevocabile dagli altri. Era una sensazione dolorosa che mi rendeva molto infelice». Anche George non ha un’alta considerazione dei giovani, dei suoi studenti, legati a un’idea di sereno e discreto futuro famigliare e lavorativo, ma del tutto privi di passione e idealismo: «Titone si trova a due gradi dal loro argomento, dunque non li riguarda. Huxley, Tennyson, Titone. A Tennyson arrivano, ma un passo più in là no. Un passo più in là finisce la loro curiosità. Questo perché, di fondo, non gliene importa un accidente». Sia l’opera di Isherwood che quella di Cameron finiscono, dunque, per essere soprattutto dei romanzi di analisi e di critica sociale, ben al di là della tematica della diversità sessuale; se, tuttavia, Un giorno questo dolore ti sarà utile è limitato dal voler essere un romanzo di formazione con toni da commedia e immediatamente accessibile al lettore, Un uomo solo, invece, non si perita di essere vertiginoso e dissacrante, a tratti drammatico. Per cogliere pienamente la differente disposizione dei due protagonisti, però, è indicativo considerare il loro atteggiamento nei confronti della cultura e dei libri. James pretende di valutare l’affidabilità della dottoressa Adler, la psichiatra a cui si sono rivolti i suoi genitori, in base alle opere da lei compulsate; per cui, prima, le domanda come mai negli scaffali della libreria, nel suo studio, non vi siano romanzi, poi, se abbia mai letto Trollope o Proust e, alla risposta negativa, fa seguire un atteggiamento di indisposta sufficienza, mostrando, così, sia l’influenza che i testi hanno su di lui, sia l’ingenuità n° 3 • Luglio 2012


nel definire ruoli e spazi. George, invece, docente di letteratura, pur riconoscendo il valore dei libri e considerandoli parte della propria esistenza, non ha più nei loro confronti alcuna riverenza, percepisce che la vita è soprattutto altrove: «I libri non hanno reso George né più nobile, né migliore, né più saggio. Ma gli piace ascoltarne le voci, una o l’altra secondo l’umore. Nonostante il rispetto con cui ne parla in pubblico, in privato ne fa un uso improprio, del tutto spietato. Li usa per prender sonno, per non sentire le lancette dell’orologio, per mitigare il tormento degli spasimi, per distrarsi dalla malinconia, per far scattare i riflessi condizionati del colon». Non occorrerà, infine, soffermarsi sul prevedibile epilogo del romanzo di Cameron, né anticipare nulla di quello impeccabile e beffardo di Isherwood, ma, così come le prime pagine, anche le ultime rendono evidente la diversa caratura dei due scrittori: al di là delle differenze di età dei personaggi e di target delle opere, Cameron lascia placidamente scorrere l’inchiostro dosando con abilità gli ingredienti del romanzo di genere e di quello di formazione, Isherwood plasma la materia narrativa secondo un canone che ne identifica e contraddistingue l’originalità, anche a distanza di mezzo secolo. Potrebbe far bene, infine, ribadire quanto il giovane James ancora non ha interiorizzato e Kenny, maliardo allievo di George, ostenta, invece, con convinzione, oltrepassando, anche qui, il precipuo tema dell’omosessualità: «Se fra noi due non c’è nessuna differenza, cosa abbiamo da darci?».

In alto - un primo piano di Colin Firth in A single man. A fianco - Toby Regbo in Un giorno questo dolore ti sarà utile. Sul Romanzo

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La fotografia tra scoperta del corpo e attenzione al diverso di Annamaria Trevale Sono molte le trasformazioni che la nascita della fotografia determina nella società occidentale a partire dal diciannovesimo secolo, ma la più importante è probabilmente l’acquisizione di una nuova coscienza di sé da parte dell’individuo, attraverso la scoperta della propria immagine catturata da un obiettivo e fissata sulla carta. Fino a quell’epoca, la percezione che ognuno aveva del suo aspetto esteriore era soltanto quella dello specchio, mutevole e non esportabile: la fotografia è in grado di fissare per sempre un momento dell’esistenza e di conservarne il ricordo, ma anche di trasferirlo ad altri, richiamando, al contempo, l’io a fare i conti con il proprio corpo. Ci si fa fotografare più volte, in genere in occasione delle principali tappe esistenziali – il battesimo, la cresima, il servizio militare, il matrimonio –, costruendo, così, una storia della propria vita e dei relativi cambiamenti dell’aspetto fisico, inimmaginabile fino a poco tempo prima.

1 - Ragazzo appoggiato a una giara, Wilhelm von Gloeden, 1890. 2 - Trude and I, masked, short skirts, Alice Austen, 1891. 3 - Rrose Sélavy (Marcel Duchamp), Man Ray, 1921.

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Già nella seconda metà del diciannovesimo secolo, con la nascita di apparecchi meno ingombranti e dai tempi di utilizzo più rapidi, anche chi viaggia in Paesi lontani può riportare a casa immagini dei luoghi visitati e delle popolazioni incontrate: se il comune cittadino europeo scopre, così, l’aspetto reale di un abitante dell’Estremo Oriente o dell’Africa più profonda, lo scienziato si serve delle fotografie per ampliare le proprie conoscenze e, accanto all’interesse per l’esotico, si afferma presto anche quello per le diversità. Negli anni del positivismo e delle teorie di Lombroso, per il quale la criminalità è insita nei tratti somatici, nasce la fisiognomica come studio del rapporto tra misure corporee e comportamenti deviati: si fotografano i carcerati, i pazzi nei manicomi, i deformi e i malati, allo scopo di creare degli archivi d’immagini a sostegno di queste tesi, poi accantonate perché ben poco fondate sul piano scientifico. Il corpo, allora, non è più soltanto quello levigato dei ritratti, ma diventa anche quello malformato e spesso tenuto nascosto, mentre la possibilità di commercializzare immagini di nudi femminili (e più raramente maschili) alimenta presto un fiorente mercato, sempre in bilico fra pretese artistiche e pura pornografia. A cavallo tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, si afferma, a livello internazionale, il pittorialismo fotografico, con lo scopo dichiarato di considerare la fotografia erede naturale della pittura figurativa. Le immagini sono rielaborate con n° 3 • Luglio 2012


Alfred Stieglitz (1864–1946) passa dal pittorialismo a un realismo che si esprime anche fotografando il corpo della sua amante, la pittrice Georgia O’Keeffe, da tutte le angolazioni possibili, mentre Man Ray (1890–1976), esponente poliedrico del surrealismo, nella Parigi degli anni Venti, ritrae in modo anticonvenzionale celebri contemporanei come Gertrude Stein o James Joyce e si diverte a creare immagini deformate dei corpi delle sue modelle. Non gli è da meno Marcel Duchamp (1887–1968), padre dell’arte concettuale, che, nel corso della sua multiforme carriera artistica, si crea anche un alter ego femminile, il personaggio di Rrose Sélavy, nei cui panni si fa fotografare più volte proprio da Man Ray. La possibilità di dare corpo a personalità differenti davanti all’obiettivo affascina sia le avanguardie artistiche sia tutti coloro che vivono in modo problematico o conflittuale la propria identità. Alice Austen (1866–1952), una delle prime donne che, negli Stati Uniti, si avventura fuori degli studi per fotografare il mondo esterno (tanto da essere considerata pioniera del fotogiornalismo una quarantina d’anni prima della nascita di questo nome) per ritrarre le amiche del suo gruppo lesbico in abiti e atteggiamenti maschili.

2 l’aiuto di filtri, veli e ritocchi vari, allontanandole dalla realtà per ottenere effetti simili alla pittura: il corpo è spesso abbellito, modificato, sfumato, perché la scoperta di com’è percepito dagli altri può essere, a volte, traumatica, dato che non sempre coincide con l’immagine personale che ciascuno si è costruito dentro di sé. Il ritocco diventa, perciò, uno stratagemma diffuso negli studi fotografici, già molto tempo prima dell’invenzione dei programmi digitali come Photoshop, che oggi servono a snellire silhouette, attenuare rughe o rinfoltire capigliature maschili.

È con la liberazione sessuale degli anni Sessanta che avvengono le maggiori trasformazioni: cadono quasi tutti i tabù e la Pop Art consacra defi-

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Negli stessi anni, Wilhelm von Gloeden (1856– 1931), un barone tedesco trasferitosi a Taormina per motivi di salute, scatta le sue famose immagini di nudi maschili, ritraendo ragazzi siciliani seminudi (ma sempre entro i limiti del buon gusto) in pose eleganti, accanto a oggetti antichi che suggerissero una collocazione in un’ideale antichità “pastorale”. Il suo lavoro è sorprendentemente moderno per quanto riguarda la padronanza della luce e l’uso dei filtri, mentre l’ambientazione classica maschera la componente omoerotica, tanto che queste fotografie, nonostante il bigottismo del tempo, vengono vendute come cartoline per turisti e contribuiscono alla fama di Taormina in Europa. Sono, però, soprattutto le avanguardie artistiche a esplorare fino in fondo le possibilità offerte dal nuovo mezzo fotografico, di cui non tardano a impadronirsi. Sul Romanzo

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“queer” (strano) include, perciò, tutti coloro che non appartengono a un genere preciso, vale a dire omosessuali, transessuali, ermafroditi e chiunque presenti, per vari motivi biologici (come malattie che alterano i cromosomi maschili e femminili), dei caratteri genitali incerti. Supportata dalle tesi di filosofi come Foucault, Derrida e Kristeva, la queer theory si diffonde soprattutto nel mondo anglosassone e nell’ambiente artistico contemporaneo, intendendo porsi come un superamento di tutti i tipi di distinzioni binarie, sia tra maschi e femmine che tra etero e omosessuali. I confini tra i modi di rappresentare gli individui diventano perciò sempre più labili, facendo trionfare l’ambiguità, e la moda spesso si adegua, esaltando donne androgine e uomini effeminati, in un continuo sovrapporsi di stili. Nan Goldin (1953) è la fotografa che, più di tutti, ha raccontato la vita dei transgender americani negli anni Novanta, ritraendo gli amici che nitivamente il settore artistico della fotografia, enfatizzandone la capacità di riprodursi all’infinito, come nei celebri ritratti multipli di Andy Warhol (1928–1987). Da un lato, moda e pubblicità offrono ai consumatori le immagini di corpi perfetti e sempre più scoperti, percepiti come mete desiderate, ma irraggiungibili; dall’altro, aumentano i fotografi che non si fanno più scrupolo di mostrare ciò che, fino a poco tempo prima, era riservato alle riviste scientifiche: Diane Arbus (1923–1971) è attratta da quelli che il senso comune considera diversi, dai malati, da corpi malformati e palesemente a disagio, mentre Mario Giacomelli (1925–2000) mostra lo sfacelo fisico di anziani e dementi ricoverati all’ospizio. Aumentano anche coloro che portano alla luce il mondo sommerso dei gay, delle lesbiche, dei transessuali, soggetti che, in precedenza, salvo rare eccezioni, erano rimasti esclusi dal mondo della fotografia o ritratti solo come fenomeni abnormi. È la stessa Arbus a fotografare una delle prime drag king newyorchesi, che si esibiva insieme a uomini travestiti. Con la nascita della queer theory, al principio degli anni Novanta, tutte le definizioni di carattere sessuale, non solo quelle di “maschio” e “femmina” ma anche quelle di “gay” e “lesbica”, vengono completamente sovvertite: l’identità di genere e quella sessuale dell’individuo non sono un fatto naturale e scontato, ma sono, in gran parte, il risultato di una costruzione sociale. Il termine

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4 - Hermaphrodite and dog in a carnival trailer, Diane Arbus, 1970. 5 - Misty and Jimmy Paulette in a Taxi, NYC, Nan Goldin, 1991. 6 - Self Portrait, Robert Mapplethorpe, 1978.

frequentano un bar di Boston, The Other Side, nome che diventerà, poi, il titolo del suo libro più famoso: l’autrice vuole esprimere così l’“orgoglio di genere”, anche se la maggior parte dei soggetti ritratti è destinata a cadere vittima dell’AIDS. Siamo già molto lontani dalle immagini parigine degli anni Trenta di Brassaï (1899–1984), ungherese naturalizzato francese, in cui i travestiti sono ombre che emergono a fatica dalla notte dove cercano di mimetizzarsi. Negli stessi anni della Goldin, il fotografo e artista transgender Del LaGrace Volcano (1957), nato donna e passato a un’identità maschile verso i quarant’anni, racconta i corpi in divenire dei trans e mostra crudamente i loro nuovi organi, senza trascurare gli elementi negativi insiti in queste trasformazioni. Non manca, inoltre, di sottolineare come la società sia sempre più indulgente nei confronti del travestitismo maschile, mentre la mascolinità femminile è quasi sempre vista come il tentativo

6 di passare da un ruolo di minore a uno di maggior potere, idea discussa anche dai gruppi femministi. Si può dire che l’identità transgender diventi quasi un emblema della condizione umana postmoderna, vista come in perenne mutamento e alla continua ricerca di un nuovo rapporto con il proprio corpo e con quello degli altri, tanto da far, talvolta, coincidere la teoria della fine della storia con la fine del sesso. Agli artisti contemporanei, però, la fotografia classica non basta più e nelle installazioni è spesso sostituita dai video. Dopo aver condotto le generazioni precedenti alla scoperta del loro “vero” corpo, oggi sembra destinata soprattutto a realizzare, grazie alle infinite possibilità di manipolazione offerte dal digitale, il sogno degli artisti modernisti di un secolo fa: la creazione di individui perfetti, poco importa se del tutto virtuali e lontanissimi da quella “realtà” che, in principio, si voleva replicare con la massima fedeltà, anche se quest’idea di “perfezione” cambia molto da un autore all’altro. Così, se Robert Mapplethorpe (1946–1989) ritrae corpi compiaciuti e superdotati, spesso dichiaratamente pornografici nella loro trasgressività, mentre Cindy Sherman (1954) fotografa sempre se stessa in mille travestimenti, interpretando tutti gli stereotipi possibili dell’identità femminile, Vadim Stein (1967) fissa i suoi modelli in pose irreali, esaltandone la plasticità attraverso un uso sapiente delle luci, Fran Herbello (1977) manipola singole parti anatomiche separate dal corpo fino a far du-

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bitare della loro vera natura e Daikichi Amano (1973) inventa inquietanti e morbose fusioni tra donne e animali marini: la fotografia post–moderna crea anche visioni post–umane. Nata come superamento della pittura, la fotografia contemporanea sembra, dunque, esserne diventata una nuova versione in chiave tecnologica.

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7 - In our own likeness, Fran Herbello, 2000. 8 - Uno scatto di Daikichi Amano. 9 - Untitled # 299, Cindy Sherman, 1994.

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Dal transessualismo al fenomeno delle drag queen nel cinema di Mirko Tondi Il DSM-IV-TR (la versione attualmente in vigore del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) include, al suo interno, il disturbo dell’identità di genere, caratterizzato da una persistente identificazione col sesso opposto a quello biologico: un tema delicato, in grado di scatenare vivaci discussioni, a partire dall’approccio diagnostico. Se pensiamo al travestitismo, al transessualismo, ma anche a drag queen e a transgender, le definizioni si sprecano e, con esse, si fanno labili i confini entro i quali poter delimitare le diverse categorie secondo caratteristiche psicologiche e comportamentali. La questione, però, non è solo per gli specialisti della materia; infatti, è interessante vedere come anche il cinema se ne sia occupato, con la produzione di una vasta e interessante filmografia. Avviando una rapida rassegna storica, possiamo partire già dalla metà degli anni '60, periodo in cui il protagonista delle pellicole di John Waters, re della provocazione sul grande schermo americano, è il travestito Divine; i due avviano un sodalizio che toccherà l’apice del trash con Pink flamingos, nel 1972. La pellicola riceve decise stroncature da critica e pubblico, ma è solo con gli anni che acquista credibilità come manifesto del genere trash e trova una certa diffusione con l’avvento del cinema online. Se l’intento di Waters è quello di scioccare lo spettatore ricorrendo alle azioni deplorevoli di Divine (azioni che esulano anche dalla sfera prettamente sessuale), è solo con The Rocky Horror Picture Show che un travestito assurge a icona di un mondo alternativo e denso di trasgressioni. Il film diventa presto un cult e impone nell’immaginario collettivo la figura del Dr. Frank-N-Furter (interpretato da un sublime Tim Curry), scienziato travestito e bisessuale. Il protagonista delle vicende altro non è che un alieno proveniente dal pianeta Transexual, situato nella

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galassia Transylvania. Questa commedia musicale del 1975 (diretta dall’australiano Jim Sharman), tratta dallo spettacolo teatrale di due anni prima, ottiene un successo planetario grazie al mix di elementi grotteschi e simbolici, ai riferimenti sessuali piuttosto espliciti e a un impianto da parodia horror. Nel 1978, è il grande regista tedesco Rainer Werner Fassbinder a dirigere Un anno con tredici lune, dramma che narra gli ultimi giorni di un transessuale mentre ricorda il suo passato, dall’infanzia all’età adulta, dall’operazione alle delusioni amorose che conducono a una depressione senz’uscita. Qui, entrano in gioco i traumi infantili di un bambino abbandonato in orfanotrofio, la problematica integrazione da adulto nel tessuto sociale e la difficoltà di essere amato per la propria natura, se non addirittura ingannato e umiliato: situazioni che, in parte o nell’insieme, accomunano molti transessuali protagonisti di tante pellicole. Anche Robert Altman non resiste alla tentazione di occuparsi di questa spinosa tematica e, nel 1982, porta nelle sale Jimmy Dean, Jimmy Dean, storia di tre fanatiche del mito di James Dean che si ritrovano nell’emporio in cui ha sede il club delle ammiratrici. Nel film di Altman, che oscilla tra dramma e commedia e si distingue per un’atmosfera nostalgica, è affidato a Joanne, un tempo Joe, garzone dell’emporio, il compito di scardinare la linearità attraverso un’importante rivelazione. Interpretata da Karen Black, in un cast in cui spiccano anche Cher e n° 3 • Luglio 2012


Tim Curry in The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman, 1975, e Tilda Swinton in Orlando di Sally Potter, 1992.

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2 1 - Divine in una scena di Pink flamingos, di John Waters, 1972. 2 - Jaye Davidson in una scena del film La moglie del soldato di Neil Jordan, 1992. Sul Romanzo

Kathy Bates, Joanne è, dunque, il personaggio chiave del film, proprio per la sua ambivalenza. È negli anni ‘90 che il campo comincia a essere praticato con una certa frequenza, in un fiorire di pellicole che scandagliano la materia. Nel 1992, arrivano nelle sale La moglie del soldato e Orlando. Il primo, per la regia dell’irlandese Neil Jordan, inserisce in un braccio di ferro tra l’esercito inglese e un gruppo di terroristi dell’IRA l’amore di due uomini per un travestito (nel 2005, Jordan ritornerà sull’argomento, anche se in maniera più scanzonata, con Breakfast on Pluto, narrando le vicissitudini di un travestito nella difficile Irlanda degli anni ‘60 e ‘70). Jaye Davidson presta il volto a Dil, presenza androgina che incanta, dapprima, il soldato inglese Jody (Forest Whitaker) e, poi, uno dei suoi rapitori, Fergus (Stephen Rea), sottolineando l’impossibilità dei sentimenti di sottostare alle convenzioni. Orlando, regia di Sally Potter, è tratto da un romanzo di Virginia Woolf e si snoda lungo quattro secoli di storia inglese; personaggio principale è l’immortale Orlando (interpretato da un’ottima Tilda Swinton), uomo dai caratteri femminili che, nel corso degli anni, si ritroverà a svegliarsi in un corpo di donna. La volontà di appartenere all’altro sesso viene espressa tramite una trasformazione reale, ambientata in altri tempi e non segnata dai moderni interventi di chirurgia; il completamento della propria identità passa attraverso un evento dai caratteri magici, spinto dal desiderio personale. Il 1993 è l’anno di M. Butterfly e Addio mia n° 3 • Luglio 2012

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3 - Leslie Cheung in Addio mia concubina di Chen Kaige, 1993. 4 - John Lone in M. Butterfly di David Cronenberg, 1993. 5 - Scena tratta dal film Stonewall di Nigel Finch, 1995. 6 - John Cameron Mitchell in Hedwig - La diva con qualcosa in più di John Cameron Mitchell, 2001.

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concubina. Nel dramma di David Cronenberg, condito da elementi melò e spionistici, René Gallimard (Jeremy Irons) ama alla follia una cantante lirica, fermamente convinto che sia una donna: i risvolti tragici scaturiranno dalla dolente accettazione della verità, scomodo fardello che diventa causa di un percorso autodistruttivo. Meno cerebrale e più improntato sulla passione è il film cinese Addio mia concubina. La storia è trascinata ancora da un amore impossibile, ma è dominante soprattutto il tema dell’identificazione con l’altro sesso: Douzi è un giovane attore impegnato in ruoli femminili che s’innamora, non corrisposto, del collega e amico Shitou; in un susseguirsi di gelosie e tradimenti, anche qui la tragedia è dietro l’angolo. L’anno seguente spopolano le draq queen e il transessuale di Priscilla, la regina del deserto. Nel film dell’australiano Stephan Elliot c’è spazio anche per il complicato rapporto padre–figlio tra una delle drag queen e il figlio di otto anni. Gli Stati Uniti non stanno certo a guardare e, nel 1995, rispondono con A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar: Patrick Swayze, Wesley Snipes e John Leguizamo sono tre drag queen che partono insieme per partecipare al concorso che incoronerà la migliore d’America. L’allegra comitiva riuscirà addirittura a smuovere le convinzioni degli abitanti di un piccolo villaggio del Midwest, certamente non abituati a simili visite. Tutt’altro che spensierata l’atmosfera di Stonewall (sempre del 1995), pellicola che richiama i moti

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5 del 1969, quando a New York, nel Greenwich Village, scoppiarono le rivolte dei movimenti gay all’indirizzo della polizia, dando vita a una serie di violenti scontri. Il film di Nigel Finch è incentrato sulle molestie perpetuate dai poliziotti ai danni di alcuni omosessuali e transessuali frequentatori dello Stonewall Inn, il bar da cui presero inizio le accese proteste. Con Stonewall, il problema assume un’impronta documentaristica, inserendosi in uno spaccato della storia americana recente e raccontando l’origine delle contestazioni. Questo florido decennio si chiude con due pellicole da Oscar: Boys don’t cry e Tutto su mia madre. In Boys don’t cry, opera prima di Kimberly Peirce, l’Oscar è per Hilary Swank, che impersona la transgender Teena Brandon. Stavolta, il percorso è rovesciato. La storia, infatti, anch’essa ispirata a fatti realmente accaduti, vede come protagonista una donna che si sente e si fa credere uomo (invertì pure il suo nome in Brandon Teena): epilogo tragico per un intenso dramma biografico. Tutto su mia madre regala la prima ambitissima statuetta a Pedro Almodóvar, che, negli anni, ha fatto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale due costanti del suo cinema. Qui, Manuela va alla ricerca del padre di suo figlio, dopo che quest’ultimo ha perso la vita in un incidente; il suo ex compagno è un transessuale che adesso si fa chiamare Lola. Considerato, ancora oggi, l’espressione migliore del cinema di Almodovar, Tutto su mia madre è un Sul Romanzo

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7 7 - Hilary Swank in Boys don’t cry di Kimberly Peirce, 1999. 8 - Roberto Herlitzka in una scena del film Aria di Valerio D'Annunzio, 2009.

meraviglioso affresco in cui vengono dipinte la forza e l’umanità dell’universo femminile: un film davvero completo, toccante, eppure in grado di far respirare leggerezza e, soprattutto, un profondo senso d’unione, di solidarietà. Il nuovo millennio conferma l’interesse per l’argomento e, nel 2001, arriva Hedwig – La diva con qualcosa in più: diretto e interpretato da John Cameron Mitchell (che, qualche anno più tardi, stupirà con Shortbus), la pellicola vede un cantante transgender alle prese con un’operazione riuscita male (che accentua l’insoddisfazione per il proprio essere), un’infanzia da dimenticare (a causa degli abusi subiti dal padre) e amori sfortunati (contraddistinti da tradimenti e abbandoni). Ancora una volta, l’età infantile, fondamentale per la formazione dell’identità, deve confrontarsi con un corpo che non viene riconosciuto come proprio e un’identità di genere dai contorni più che mai sfumati. Il 2005 è l’anno del commovente road movie Transamerica: Bree è un transessuale in attesa dell’intervento, ma scopre di essere padre di un ragazzo, per una relazione eterosessuale che ha avuto in passato. Due fattori aggiungono qualcosa di nuovo: la presenza della psicoterapeuta, senza il cui consenso Bree non può ottenere l’autorizzazione a operarsi, e la piena consapevolezza di essere madre a prescindere dall’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Ci avviciniamo ai giorni nostri con la produzione italiana Aria, datata 2009. Nel film di Valerio

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8 D’Annunzio, impreziosito dalle musiche di Giovanni Allevi, l’eccellente Roberto Herlitzka è un pianista non più giovanissimo, nato nel corpo sbagliato. Solo le imposizioni sociali e il peso della famiglia hanno sempre frenato il suo unico, vero desiderio: quello di essere donna. Un film imperfetto, ma coraggioso e in grado di rinnovare il dibattito. Conclusa questa panoramica sugli esempi cinematografici più rappresentativi in questo senso, i dubbi sulle definizioni e sui confini diagnostici rimangono. Tuttavia, al di là delle controversie, è ovvio che stiamo parlando di un fenomeno di innegabile interesse e il cinema rimane forse il mezzo popolare più potente per diffonderne la conoscenza. n° 3 • Luglio 2012


Adomandarispondo a cura di Gaia Conventi

Alla Lega Calcio.

Copertina rigida. E buona mira.

Alla tombola di Natale, invitando amici, parenti e conoscenti. Di chiunque.

Fatti scrivere "Seta", così sappiamo con che programma lavarti.

Word lo sa, lascia scrivere lui.

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Un essere che dorme tiene in cerchio attorno a sĂŠ il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi.

L'abbraccio amorevole dell'universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl, Frida Kahlo, (1949)

(Marcel Proust, Dalla parte di Swann)

Webzine - anno 2, n° 3 - Luglio 2012

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