Sul Romanzo, Anno 2 n. 4, sett. 2012

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Immagine di copertina: FLEURS, di Franny Thiery.

Settembre 2012

Webzine - Anno 2, n째4


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Sul Romanzo

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Editoriale di MorganPalmas

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Strega comanda color: l’amaro letterario stregato dalle polemiche, di Gaia Conventi

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Antonio Tabucchi e il gioco del rovescio, di Marcello Sacco

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I (rin)tracciati Guido Morselli: quel tanto di analogo alla fine del mondo, di Alessandro Puglisi

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Luigi Baldacci. Il critico militante inattuale, di Domenico Calcaterra

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La Sicilia di Antonio Russello, di Sandro Pezzelle

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L’orgia dei giusti. Sergej Kalugin, poeta e musicista, di Francesco Peri

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Voglia di protagonismo Fuga verso il Jazz writing. Fitzgerald e Murakami a confronto, di Pierfrancesco Matarazzo

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La peste di Albert Camus: quando l’umanità risorge dalle proprie ceneri, di Davide Ecatti

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French Connection Prove tecniche di traduzione: esperimento con Arthur Rimbaud, di Angelica Gherardi

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Il nichilismo di Nietzsche secondo Martin Heidegger, di Maria Antonietta Pinna

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Impronte di vita Diversità, l’identità negata. Intervista a Giovanni Montanaro, di Alessia Colognesi

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Meridione d'inchiostro Le ceneri della società dei mass media. Intervista a Giancarlo Liviano D’Arcangelo, di Giovanni Turi

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«Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l’ho mai capito», di Carlotta Susca

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A cosa serve la letteratura? di Ludmilla C. De Paoli

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Letteratura come cura: i percorsi dell’animo nella libroterapia di Michele Rainone

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Direttore: Morgan Palmas Caporedattore: Gerardo Perrotta Redattori: Donatella Capone Davide Ecatti Giovanni Turi Stefano Verziaggi Art Director: Daniele Vignato

Hanno collaborato a questo numero:

Si ringraziano:

Domenico Calcaterra, Alessia Colognesi, Gaia Conventi, Ludmilla C. De Paoli, Davide Ecatti, Angelica Gherardi, Pierfrancesco Matarazzo, Morgan Palmas, Francesco Peri, Sandro Pezzelle, Maria Antonietta Pinna, Alessandro Puglisi, Michele Rainone, Marcello Sacco, Carlotta Susca, Giovanni Turi.

Carlo Scortegagna, Web master;

Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it

In alto: Enigmatica scrittura, Gianni Piva. Nella pagina a fianco: Paysage fantastique midi heroique, Salvador Dalì, 1943. Collezione privata.

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Andrea Briguglio, Luigi Fico, Roberto Garavello, Gianni Piva e Franny Thiery, per le rappresentazioni fotografiche delle loro produzioni artistiche; Donato Accogli, Brendon Burton, Antonio D’Emanuele, dueignazio, Lizzie Erwood, Enrico Marongiu, Giuseppe Moscato, Ondablv, Leonardo Pilara, Flavio Ronco, Rachel Sian, Giampaolo Squarcina e Tortuga767, per le foto fornite in licenza Creative Commons. Note legali: “Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche, si invita a contattare la Redazione (webzine@ sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.

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L’editoriale

di Morgan Palmas

Il quarto numero del 2012 conferma il nostro percorso alla ricerca di verità che non siano definitive e statiche, proponendoci e proponendovi uno spirito indagatore che aspiri alla prossimità dei territori culturali. Non ripareremo all’ombra di facili tradizioni dogmatiche dai nomi altisonanti. La tempra più dura si conquista con l’esercizio e ogni due mesi l’allenamento alla domanda si fa sempre più intenso per soddisfare le vostre curiosità.

studio e aggiornamento continui. Vorremmo costruire con voi lettori un rapporto franco e diretto che allontani l’allocutivo lei: siete i nostri giudici, senza di voi noi non esistiamo. A una schiettezza formale e istrionica preferiamo un vaffanculo sonoro e delicatamente più empatico. Perciò scriveteci, diteci che cosa non vi piace della Webzine, proponeteci idee, fatevi avanti. Le porte ci sono, costruiremo insieme le chiavi.

I mezzi di fortuna lanciano anime alla deriva o s’inventano dissoluzioni di senso nel postmodernismo; ma essi non sono utili alla comprensione. Ci interessa curare le parole e il percorso delle firme più note della Webzine, accostando penne esperte ad altre in formazione, che apportino nuovi guizzi dall’esterno: una fucina di idee che non attenda a concetti esaustivi, ma dischiuda la vertiginosa curiosità fresca e imberbe che spesso finisce sopraffatta dietro la moda del déjà vu. L’autorità solida e rassicurante è solo l’altra faccia di una società fintamente liquida. Noi crediamo che l’autorevolezza nella cultura debba rivelarsi nelle officine delle parole e non nei meeting fra manager culturali. Preferiamo chi porta folate intraprendenti con lo zaino in spalla ai triti spettacolini di un animatore da villaggio turistico. A qualcuno piace che lo zucchero si sciolga in bocca, noi ci costringiamo ai caffè amari, giacché quando si ricomincia a scrivere, si pensa soltanto a scrivere. Insomma quand’è che si vive? Che si tocca il fondo? Si è sempre distratti dal lavoro, giungendo alla morte senza accorgersene.

Le chiavi, appunto. Come costruirle? Noi stiamo provando qualche esperimento, sia nei contenuti che nella grafica della Webzine. Esperimenti che tengono desta la forza di innovare anche se magari i risultati non sono ancora esplosivi come ci auguriamo. Quanti furono i tentativi di Edison per inventare una lampadina? Egli non parlava mai di fallimenti, dichiarava invece con serenità di avere trovato centinaia di modi per non fare una lampadina. E senza presunzione vorremmo avere la spensieratezza di sentirci piccoli Edison con la nostra Webzine, alla ricerca della lampadina giusta. Il piacere di un’estetica interiore, di un criterio metodologico che, nel tempo, escluda i mezzi di fortuna a favore di un salto solido nel futuro. Una rassegnata cecità culturale è l’arrogante convinzione di essere sempre dalla parte dei giusti. Meglio insistere con i tentativi che saltare sui carri dei temporanei vincitori per trovare comode strade battute da altri padroni che trasformano in surrogati, quando non in copie.

Lungi da noi il purismo, ma le innovazioni siano basate su mezzi critici indipendenti e capaci, su Sul Romanzo

Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it n° 4 • Settembre 2012

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Strega comanda color: l'amaro letterario stregato dalle polemiche di Gaia Conventi

«Sono presentata da Enrico Ghezzi e Angelo Guglielmi, che in me credono, in Amorino. No so che cosa accadrà, ma che sia potente la presenza delle mie parole», scriveva Isabella Santacroce il 12 aprile; poi è stata esclusa dal Premio Strega 2012. Potrebbe nascerne una polemica o magari no, potrebbe persino nascerne un Festival dell’Inedito. Così almeno è capitato ad Antonio Scurati – secondo, nel 2009, con Il bambino che sognava la fine del mondo (Bompiani) –, che attendevamo alla Stazione Leopolda di Firenze quale presidente del Comitato dei Lettori del suddetto Festival. La rete, mai doma di scovare iniziative pubblicitarie nobilitate dal fare cultura, pare abbia premuto il tasto pause al progetto, facendo probabilmente un favore a Scurati. A lui, ma non a Tiziano Scarpa, vincitore di quell’edizione dello Strega. Il suo Stabat Mater (Einaudi, 2008) è stato accusato per ben due volte di plagio e il Web ha riportato la notizia con un piacere sadico. Dopo la strana somiglianza col racconto Lavinia fuggitiva di Anna Banti, è stata la volta dell’«elaborazione creativa non consentita» ai danni della poetessa albanese Anila Hanxhari – autrice dell’inedito Maria delle caramelle – che, nel 2008, ha chiesto un risarcimento danni a Einaudi. A quanto pare, «L’editore Mondadori chiese in visione ad Anila Hanxhari il testo integrale di Maria delle caramelle, mentre l’editore Einaudi rispose all’autrice via telefonica fornendole un indirizzo e-mail dove poter inviare il manoscritto». Così apprendo dal blog di Giuseppe Iannozzi, dove, tanto per toglierci una piccola curiosità, scoviamo anche il pdf che mette a confronto i due testi. L’inedito di Anila Hanxhari non fu pubblicato, mentre quello di Scarpa vinse lo Strega.

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Sempre a proposito dell’edizione 2009, un mese dopo la premiazione, Antonio Scurati così definiva Tiziano Scarpa: «il simbolo della categoria del marginale ‘fotti e chiagni’, di chi ha parlato per anni in nome degli esclusi e ha poi sfruttato l’emarginazione per trarne un beneficio personale». Tiziano Scarpa viene additato come «un buffone di corte» che «per anni ha sbeffeggiato il potere come i giullari delle corti medievali, salvo poi accorrere al tavolo di quello stesso potere». Ma Scurati ne ha anche per lo Strega e spiega che le «polemiche basse e volgari» di quell’edizione – come se gli anni precedenti fosse andata meglio – sono state per lui «un congedo definitivo, anche luttuoso, dal cadavere della società letteraria». (Fonte: Adnkronos). Tornando ai presunti casi di plagio, quello di Scarpa, per quanto ragguardevole, non è l’unico. Umberto Eco, dopo aver vinto lo Strega nel 1981 con Il nome della rosa (Bompiani), si ritrovò a doversi difendere dall’accusa di plagio di uno sconosciuto poeta cipriota. Il processo si aprì a Nicosia nel 1991, ma l’anno successivo il giudice decretò che le somiglianze tra i due lavori bisognava scovarle col binocolo. Eco fu assolto e Costas Socratous vide sfumare un risarcimento di due milioni di dollari per violazione dei diritti d’autore. Nel 1998, il vincitore Enzo Siciliano – I bei momenti (Mondadori, 1997) – fu querelato dal musicologo Piero Buscaroli che l’accusò d’aver copiato un suo saggio su Mozart. Buscaroli vi scovò ben cinquanta somiglianze, sempre che questo voglia dire qualcosa. Nel 2006, toccò a Caos Calmo di Sandro Veronesi (Bompiani, 2005), molto somigliante, pare, a Un anno nero per Miki di Josè Ovejero (tradotto da Bruno Arpaia, edito in Italia da Voland). Non bastasse questo, L’Osservatore Romano trovò in quel “caos” «voyeuristiche, squallide descrizioni di performance sessuali». Peggio è andata in occasione delle vittorie postume dello Strega: a confronto il facsimile letterario è un male da cui si guarisce. A quanto risulta dal regolamento, infatti, gli Amici della domenica possono presentare un libro soltanto previo consenso dell’autore (Fonte: Corriere.it). Nel 1959, l’accusa di dipartita anzi-premio si accanì su Il Gattopardo (Feltrinelli, 1958) di Tomasi di Lampedusa; nel 1986, toccò a Rinascimento Privato (Mondadori, 1986) di Maria Bellonci – padrona di casa del salotto letterario Amici della domenica, poi diventato Premio Strega – e, nel 1995, fu la volta di Passaggio in ombra (Feltrinelli, 1995) di Maria Teresa di Lascia.

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1 - Tiziano Scarpa. 2 - Umberto Eco. 3 - Enzo Siciliano. 4 - Sandro Veronesi. 5 - Maria Bellonci.

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Non va dimenticata nemmeno la polemica del 1952, quando il Santo Uffizio mise all’indice i libri di Moravia e l’autore, incerto se concorrere o meno – «indicava il suo libro favorito nel Visconte dimezzato di Italo Calvino» –, decise, infine, di sfidare la morale corrente e vinse (Fonte: Gadda.net.ac.uk). Così com’è doveroso spendere due parole sul ritiro sdegnato di Pasolini dal Premio del 1968 – partecipava con Teorema (Garzanti) –, con questa motivazione: «L’industria tende a fare del libro un prodotto di puro consumo: non ha bisogno di buoni scrittori». (Fonte: Pasolini.net). Per la cronaca, quell’anno vinse Alberto Bevilacqua con L’occhio del gatto (Rizzoli). Memorabile anche lo screzio che ha tenuto lontana Adelphi per parecchi anni dalla partecipazione allo Strega: era il 1989 quando vinse Giuseppe Pontiggia con La grande sera (Mondadori), spuntandola di un solo voto su Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi, 1988) di Roberto Calasso. A questo proposito, in un articolo apparso su Dagospia, Nunzia Penelope racconta che Anna Maria Rimoaldi – dal 1986 sino alla sua morte è stata l’organizzatrice del Premio Strega – aveva ammesso che, nel 1989, tifava per Calasso: «Un libro splendido. Ma lì si vide tutto il potere della Mondadori: usò le schede della Newton Compton per imporre la vittoria di Giuseppe Pontiggia. Con un libro molto brutto, tra l’altro, anche se era stato riscritto svariate volte». L’annosa questione dei “concorrenti/votanti” è stata riportata in auge nel 2011 da Simonetta Bartolini, rappresentante di Roma Capitale, uno degli sponsor del premio: «Avevo notato un’incongruenza nel sistema di voto, e cioè che uno scrittore candidato può trovarsi nella condizione di autovotarsi se è anche un Amico della domenica. E il suo voto può essere decisivo per la vittoria». Nel 2011, il vincitore del Premio Strega è stato Edoardo Nesi, con Storia della mia gente. Vera Gandi – su Linkiesta – commenta il romanzo in questi termini: «Nesi farebbe bene a rivalutare le virtù della punteggiatura, anziché cercare di emulare il compianto Foster Wallace», e bisogna ammettere che il libro non ha convinto tutti, ma questa è una costante dello Strega. Secondo Umberto Eco, il Premio Strega consente di far vendere almeno cinquantamila copie al romanzo vincitore – la Rimoaldi sosteneva fossero almeno duecentomila (Fonte: Dagospia) –, ma basteranno a lenire il fastidio delle critiche ad alzo zero? Del resto, ammettiamolo, il Premio nasce in maniera salottiera, non ci si deve stupire se poi ne seguono ciarle da dopolavoristi. E quest’anno? Per chi non avesse seguito la diretta Rai del 5 luglio scorso – non ve ne fate un cruccio, non vi siete persi niente – il vincitore dell’edizione 2012 è risultato Alessandro Piperno con Inseparabili (Mondadori), ma ovviamente il bello dello Strega comincia a premiazione avvenuta, quando l’amaro non è più il liquore omonimo, bensì il sapore dei commenti.

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Piperno la spunta al fotofinish per soli due voti su Emanuele Trevi e il suo Qualcosa di scritto (Ponte Alle Grazie). «E ci sarebbe stato da festeggiare davvero se avesse vinto ‘Qualcosa di scritto’, che la sorpresa sarebbe stata massima e definitiva, fino al punto da segnare simbolicamente la fine stessa dello Strega così come la storia lo ha tramandato, quasi mummificato, fino a oggi» commentava Dagospia due giorni dopo, aggiungendo che «La regola fondamentale dello Strega è stata confermata. Vince chi ha i voti. E il soggetto qui non è lo scrittore ma l’editore». Quindi, se proprio quella sera non avete guardato la televisione, vi basti sapere che «La Mondadori ha gestito il suo pacchetto di voti con la freddezza del giocatore di poker. Non si poteva far vedere che il meccanismo elettorale del premio, a dispetto dei proclami di novità e cambiamento, in realtà non ha modificato il sistema di potere editoriale». In quel momento di trionfo, e ancor prima dei commenti post-Strega, «Piperno più che per la gioia di aver vinto, si è scolato un quarto di bottiglia perché l’aspettava l’intervista a Marzullo», o così racconta Aldo Grasso. È di nuovo Aldo Grasso a regalarci un’istantanea dell’ultimo Strega: «Quest’anno poi è successo l’incredibile: gli sconfitti hanno reagito malissimo, con insulti e malignità, qualcuno ha dato sfogo alla propria frustrazione vomitando fiele contro Piperno, il vincitore». Tenetevi forte, partiamo alla scoperta dei rigurgiti stregati! Come riporta Il Corriere della Sera – l’articolo è di Paolo Fallai –, il primo a incassare la sconfitta con poca sportività è Luigi Spagnol, del gruppo Gems, che ha candidato Emanuele Trevi, secondo dietro Piperno e davanti a Gianrico Carofiglio (Il silenzio dell’onda, Rizzoli): «Qualcosa non funziona [...] se nelle ultime sei edizioni dello Strega per ben cinque volte alla fine ha vinto il candidato del gruppo Mondadori». Più colorito Vincenzo Ostuni – editor di Ponte Alle Grazie – che nella sua bacheca Facebook definisce il romanzo di Piperno «un libro profondamente mediocre, una copia di copia, un esempio prototipico di midcult residuale». Ma Ostuni non ha avuto complimenti nemmeno per Carofiglio, terzo dopo Trevi per sole cinque schede: «Ha rischiato di far troppo bene anche un libro letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino mestierante, senza un’idea, senza un’ombra di “responsabilità dello stile”, per dirla con Barthes». E forse è proprio vero che al terzo tocca fare la parte dell’incomodo. Difatti, Carofiglio non l’ha presa bene e ha deciso di chiedere i danni a Ostuni. Che Vincenzo Ostuni abbia o meno esagerato, che Gianrico Carofiglio abbia fatto altrettanto, interessante è l’opinione di Tommaso Labranca: «L’unico difetto di Ostuni non è il suo furore degno di una caballetta verdiana, ma il fatto di appartenere a quello stesso mondo editoriale che crea piccoli fenomeni e vive di fascette e premi rionali». Insomma, che si vinca o meno, l’importante è fare un bel sorriso. Ecco allora che Trevi – perdente, Sul Romanzo

ma con stile – commenta con pacatezza la sconfitta: «Quando si partecipa a una gara lo si fa per vincere. Non ce l’ho fatta, ed è normale che non sia felice» e anche lui, tanto dirlo non costa niente, s’impegna a cambiare le regole dello Strega perché «È necessario sottrarre potere agli editori per darlo ai giurati». Ovviamente Trevi si affretta ad aggiungere che avrebbe detto lo stesso anche in caso di vittoria. È arrivato il momento di dare la parola ai vincitori: Piperno, certo, ma soprattutto la Mondadori. Antonio Franchini, responsabile della narrativa, rassicura tutti, o così credo intendesse fare: «Sfido chiunque a dimostrare che da Mondadori, o dal sottoscritto, siano arrivate telefonate che ‘forzassero’ o ‘obbligassero’ i giurati. Al massimo si cerca di persuadere, di convincere del valore di un determinato libro. Lo ribadisco una volta per tutte: allo Strega sono i giurati a decidere liberamente per chi votare, i giurati non sono marionette degli editori». E Piperno? In un’intervista a caldo sottolinea che per lui non cambierà nulla e che, essendo uomo poco incline ai tour di propaganda, considera lo Strega «una promozione talmente gigantesca» che la vittoria gli consentirà di starsene tranquillamente in panciolle. Più accalorata la chiosa di Edoardo Nesi, allo Strega 2012 nei panni di capo della giuria, onore ed onere che spetta al vincitore uscente: «Io il Ninfeo l’ho visto davvero solo stasera» confessava candidamente. Insomma, un “Nesi per caso”, e questo spiegherebbe la camicia fuori dai calzoni e l’aria raffazzonata durante la diretta: mica gli avevano detto che al Ninfeo è gradito l’abito della domenica. Oltre agli amici.

6 - Maria Teresa di Lascia. 7 - Giuseppe Pontiggia. 8 - Alessandro Piperno. 9 - Edoardo Nesi.

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Antonio Tabucchi e il gioco del rovescio di Marcello Sacco Un capitoletto della seconda parte del primo romanzo di Antonio Tabucchi, Piazza d’Italia, si apre su un’immagine straniante, a metà fra il quadro surrealista e il cartoon: siamo in piena guerra e un paesino toscano viene messo a ferro e fuoco dalle SS, quando, a un tratto, le finestre degli edifici partono; letteralmente si staccano e, servendosi delle imposte come ali, spiccano il volo e si allontanano «come oche selvatiche» verso il mare. Il breve capitolo (praticamente un paragrafo) comincia così: «Dicono che all’alba di quel mattino partirono le finestre». In un romanzo che non disdegna il tono da narrazione orale, ma per offrirsi come credibile deponimento testimoniale di decenni di storia italiana, quel dicono giustifica la stravaganza della scena, attribuendola alla vox populi e non al narratore. Del paesino resta l’immagine realistica degli edifici sventrati dalle finestre divelte; così si salvano le capre della storia e i cavoli della leggenda (o viceversa). Piazza d’Italia fu scritto nel 1973 e pubblicato nel ‘75, anni in cui Tabucchi era già un giovane lusitanista, e quelle finestre volanti mi hanno sempre fatto pensare alla possibilità di leggere tutta la sua opera alla luce non solo delle ben note influenze portoghesi sul piano tematico, ma anche delle interferenze linguistiche in chiave di bilinguismo ludico, esplorativo, riflessivo. Persino in un romanzo così intriso di elementi regionali prima ancora che italiani (storia di tre generazioni di anarchici toscani) e apparentemente lontano dalle atmosfere di altri testi in cui l’elemento lusitano è evidente già nei livelli più superficiali di lettura, guardando in filigrana una frase come «partirono le finestre» si scorge un calco linguistico che in un altro scrittore verrebbe scartato come mera coincidenza, ma in Tabucchi rivela una sorta di ispirazione bilingue. Una traduzione portoghese molto fedele ai significanti, ma non del tutto infedele ai significati, suonerebbe più o meno così: partiram as janelas. In area iberica, però, “partir” si è mantenuto più vicino all’etimo latino del verbo “partio” (che significa “dividere”, da cui l’idea di separazione e, dunque, l’esito di “partire” in viaggio) ed è sfociato nel significato di “spaccare”, “rompere”, “fracassare”. Vale a dire che, in quella semplice frase, una lettura bilingue individua una situazione pensata realisticamente in portoghese (i nazisti spaccano le finestre del borgo), ma che in italiano cambia soggetto e... prende il volo.

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Sul Romanzo

1 - L'esperienza dell'essere, Roberto Garavello, 1992.

2 - Antonio Tabucchi.

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Non so se una ricerca linguistica di questo tipo sul resto delle sue opere darebbe molti risultati simili, ma una frase così, con quel suo rovescio sorprendente, porta a un’altra spia linguistica attorno alla quale ruota un racconto fondamentale nella formazione di tutta un’estetica, autentico marchio di fabbrica dell’autore. In Tabucchi, sono, infatti, ricorrenti temi quali il rovescio, l’equivoco, il labile confine tra realtà e sogno, testimonianza e delirio. Il racconto in questione si intitola Il gioco del rovescio, come la raccolta omonima del ‘78. Il gioco consiste nel rovesciare le parole, per cui mariposa diventa asopiram, e, guarda caso, lo giocano anche i protagonisti di Piazza d’Italia. Sembra uno scherzo innocuo: l’insignificante capovolgimento di un significante che non intacca il significato, anzi, sprona a ricercarlo, ricostruirlo. Qui, però, fa parte dei ricordi d’infanzia di Maria do Carmo Meneses de Sequeira, donna di cui di sicuro (per dirla con un famoso titolo giornalistico a proposito del bandito Giuliano) sappiamo solo che è morta. L’io narrante la presenta come figlia di esuli portoghesi in Argentina che piangono ascoltando alla radio fados strazianti e notizie penose dal fronte della guerra civile spagnola. Rientra in patria sposa di un ufficiale, ma si trasforma in attivista segreta della resistenza alla dittatura, anello di collegamento con altri fuoriusciti di cui il narratore è un corriere italiano che a Lisbona consegna buste misteriose dopo aver pronunciato al telefono una parolina d’ordine che rimanda a fantomatiche traduzioni di Fernando Pessoa. Alla fine, l’incontro del protagonista con il marito, vedovo di fresco che lascia cadere alcune frasi sibilline, farà intendere che la storia lacrimevole dell’esilio era una bugia e Maria do Carmo faceva il doppio gioco, forma meno innocente di gioco del rovescio. Tutto il racconto è una piccola antologia sul tema del rovescio. Comincia con il narratore che, al Museo del Prado, sta guardando Las Meninas di Velásquez, celebre dipinto che mostra un pittore attorniato da una piccola corte di nani e meninas (il lusismo, di moda a quei tempi anche in Spagna, indica la principessa e le sue damigelle) mentre fa il ritratto alla coppia reale, che vediamo riflessa nello specchio in fondo alla sala: praticamente il rovescio di un quadro ufficiale. Poi, si prosegue con la donna che ricorda il suo infantile juego del revés in un patio bonairense e lo collega al grande poeta portoghese che serve da parola d’ordine per incontrare i corrieri clandestini dell’antifascismo a Lisbona. «Pessoa è un genio – dice la donna – perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell’immaginato, la sua poesia è un juego del revés». La Maria do Carmo di questo racconto, qualunque sia il rovescio politico in cui sta giocando, ha gli stessi crucci teorici del Tabucchi studioso di letteratura, il quale, nei saggi raccolti in Un baule pieno di gente, addita in Pessoa «il più sublime poeta del rovescio, dell’assenza e del negativo di tutto il Novecento».

3 - Fernando Pessoa.

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4 - Las Meniñas, Diego Velàzquez, 1656-57. Museo del Prado, Madrid (E).

Questo rovescio è uno stimolante ed estenuante gioco di decostruzione linguistica che Tabucchi individua in Pessoa come “ripudio della prevalenza”: «[…] il “negativo” di Pessoa consiste forse in questo: nel rifuggire il segno che si afferma, nel ripudiare la prevalenza. Perché egli ha capito che in ogni sì, anche nel più pieno e nel più rotondo, c’è un minuscolo no, un corpuscolo portatore di un segno contrario che gira in un’orbita oscura a creare proprio quel sì che prevale». Questo rifiuto della prevalenza semantica, del sì e del no “rotondi”, somiglia molto alla critica della metafisica della presenza di Derrida e dei decostruzionisti. Tabucchi scopre nell’amato Pessoa qualcosa che è insieme una grande opportunità intellettuale e un temibile scacco. Scopre che l’essenza del reale è un’assenza da cogliere solo rinunciandovi: «[...] il superbo peccato di intelligenza del poeta Pessoa: la perversione di abdicare al reale per possedere l’essenza del reale». Da qui l’inadeguatezza persino del nostro linguaggio più raffinato. Non aveva anche Michel Foucault aperto il suo Les mots et les choses con una descrizione del quadro di Velázquez per poi raccontare la storia del lento divorzio tra le parole e le cose? Dalla fine di una certa trasparenza delle lingue all’impossibilità di esprimersi con formule definitive, con “formula piena”, direbbe un tribunale. La questione non è da poco, se consideriamo quanto, per uno scrittore che non lesina indagini, testimonianze e (s)confessioni, cogliere l’essenza del reale significhi dare al manzoniano “sugo della storia” una solidità anche giuridica.

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Da quando la violenza epica della storia ha fatto posto alla violenza strisciante delle trame occulte, nell’Italia di Tabucchi questa storia si è tentato di scriverla anche nei tribunali. Nato nel 1943, Antonio Tabucchi appartiene alla prima generazione di intellettuali italiani cresciuti nel dopoguerra. Secondo Antonio Scurati (La letteratura dell’inesperienza, Bompiani 2006), la generazione immediatamente precedente, quella di chi, come Calvino e Fenoglio, fece la Resistenza, fu l’ultima a poter storicamente saldare lettura, scrittura ed esperienza. Con la diffusione dei mass media ci saremmo ritrovati un po’ tutti impantanati nel territorio anfibio del fictual, palude ibrida di fittizio e fattuale in cui la morte di Kennedy, la bomba di piazza Fontana e la leggenda del Graal si confondono in un miscuglio torbido, una mitopoiesi «che non dà luogo a una nuova mitologia ma a un delirio». Non so quanto la suggestiva ipotesi di Scurati sia anche vera. Forse, ogni generazione che soffre dell’impossibilità di questa “saldatura” individua un’epoca precedente in cui essa sarebbe stata possibile. Tabucchi sembra lavorare proprio su un simile tipo di ipotesi: esordisce narrando una storia italiana dal Risorgimento all’ultima guerra e, poi, va a cercarsi, in un racconto che potrebbe essere autobiografico, l’esperienza dell’antifascismo in un Portogallo attardato su posizioni fasciste fino all’ultimo quarto di sec. XX. È il suo fascismo, così come la guerra a bassa intensità dell’Italia repubblicana è la sua guerra, ma si scopre incapace n° 4 • Settembre 2012


di stabilire in quale rovescio sia caduto il suo agire politico. «Io so», diceva Pasolini a proposito dello stragismo. E so anche senza averne le prove. Frase di una “rotondità” ancora auspicabile, ma tutt’altro che facile. Nel ritratto doppio di Maria do Carmo, Tabucchi innesta le aporie pessoane e una piccola ossessione tematica presa da un racconto di Borges (Tema del traidor y del héroe), forse evocato nell’esilio argentino della donna e citato, molti anni e molti titoli dopo, in Tristano muore (2004). Borges d’annata di cui il quasi coetaneo Bertolucci si era servito in Strategia del ragno (1970) proprio per interrogarsi sulla figura del padre/partigiano, colui che tradisce la causa, ma accetta di morire in un certo modo per servire, da martire, la causa che voleva tradire (sembra il paradosso pessoano del poeta che finge di sentire ciò che sente veramente). L’ultimo regalo avvelenato di Maria do Carmo al suo amico è un bigliettino con su scritto reves, che, così senza accenti, come in un rebus, può significare “rovescio” (esiste sia in spagnolo sia in portoghese, sebbene il traduttore portoghese abbia optato, nel titolo, per il sinonimo con maggior frequenza d’uso: reverso), ma slitta nel francese “sogni”, parola che gli esegeti frettolosi amano brandire più per le connotazioni “poetiche” che per le sue implicazio-

ni paurose (si veda l’inquietante sogno di Freud in Sogni di sogni; ma cent’anni di psicoanalisi non sono serviti a cambiare la nostra visione canzonettistica del sogno e del sesso). Il protagonista, infatti, va a dormire, cercando un oracolo domestico come un eroe greco caduto in un hotel iberico all’ora della siesta. Sogna la donna nei panni del personaggio che, in fondo alla sala dipinta da Velázquez, sta per uscire dal quadro attraverso una porta aperta. «[...] quella figura era Maria do Carmo col suo vestito giallo, io le stavo dicendo: ho capito perché hai codesta espressione, perché tu vedi il rovescio del quadro, che cosa si vede da codesta parte? Dimmelo, aspetta che vengo anch’io, ora vengo a vedere. E mi incamminai verso quel punto. E in quel momento mi trovai in un altro sogno». Il corsivo è mio, perché “codesto” è un dimostrativo che neanche gli scrittori toscani usavano più negli anni ’70 del secolo scorso. È più probabile che Tabucchi pensasse in portoghese (dove codesto dimostrativo è vivo e vegeto) la parola che solo un certo italiano regionale o iperletterario ha conservato per ritagliare lo spazio dell’altro, che noi solitamente schiacciamo tra “questo” e “quello”. È una presa di distanze, ma crea lo spazio ibrido necessario a ogni possibile rovesciamento.

5 - Le due Frida, Frida Kahlo, 1939. Collection of the Museo de Arte Moderno, Mexico City (MEX). Sul Romanzo

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Elsa Morante Centenario della nascita

1912 - 2012

Ida non venne mai a conoscere la sorte del suo aggressore, del quale non seppe mai perfino il nome, e neanche cercò di saperlo. [...] Ma tuttavia, fino dalla notte stessa della sua avventura con lui, cominciò a paventarne il ritorno.

Dialoghi a distanza

A riguardarlo, d'un tratto una debolezza inebriante mi oscurò la vista. In quel momento, l'invio dell'orecchino mi si tradusse in tutti i suoi significati: d'addio, di confidenza; e di civetteria amara e meravigliosa!

(Elsa Morante, La storia, 1974)

(Elsa Morante, L’isola di Arturo, 1957)

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(La ragazza con l'orecchino di perla, Johannes Vermeer, 1665 c.a) Sul Romanzo

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( Maddalena Svenuta, Guido Cagnacci, 1663)


L

Atmosfere consonanti

a

mia sola consolazione, quando salivo a

coricarmi, era che la mamma venisse a darmi un bacio quando sarei stato a letto. Ma quel saluto durava così poco, lei scendeva così presto, che il momento in cui la sentivo salire, e l’attimo dopo in cui il fruscio leg-

C

gero del suo abito da giardino in mussola l’uscio si fu richiuso alle sue spalle,

azzurra dal quale pendevano piccoli nastri

mi raggomitolai nella coperta fin sul viso,

intrecciati di paglia, passava attraverso la

coprendomi gi orecchi coi pugni per non

porta nel corridoio, era per me un momen-

ome

udire il suo passo

to doloroso. An-

che s’allontanava,

nunciava

né i suoi movimen-

che l’avrebbe se-

ti di partenza nelle

guito, il momento

stanze, né l’ultimo

in cui mi avrebbe

rotolío della car-

lasciato, in cui sa-

rozza che correva

rebbe

la discesa. Resistei

Così arrivavo ad

in

augurarmi

quell’irrigidi-

quello

ridiscesa. che

mento di morte

quel saluto che

per un tempo in-

amavo tanto giun-

naturale. Quando

gesse il più tardi

mi scossi, e buttai

possibile affinché

via la coperta, il

divenisse più lun-

sole era già entrato nella mia camera, e la

go l’intervallo di tempo durante il quale la

casa era ripiombata nel silenzio.

mamma non era ancora venuta.

(Elsa Morante, L’isola di Arturo, 1957)

(Marcel Proust, Dalla parte di Swann, 1913)

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I (rin)tracciati

Guido Morselli: quel tanto di analogo alla fine del mondo di Alessandro Puglisi

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Un colpo in testa. Così, il 31 luglio 1973, Guido Morselli, classe 1912, mise fine alla sua esistenza. All’attivo, al momento della morte, zero romanzi pubblicati. La pistola che querela il termine della vita di Morselli è la stessa che il protagonista di Dissipatio H.G. tiene premuta contro la bocca, steso sul proprio letto, dopo aver tentato, senza avere avuto il coraggio di portare a termine il compito, di annegarsi.

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1 - Ritratto fotografico di Guido Morselli. 2 - Suicidio, Edouard Manet, 1877. Collezione Bührle, Zurigo (CH).

È insidioso tentare di “comprendere” Morselli tout court, tale e tanta varietà di accenti presenta la sua avventura narrativa: dal romanzo psicologico alla ucronia, dal trattatello moraleggiante all’invettiva. Si procederà, dunque, a una selezione che, metonimicamente valida, possa rendere conto della rappresentatività di due opere rispetto al corpus degli scritti di Morselli. Nel nostro caso, acquisiamo come paradigmatiche Dissipatio H.G. e Un dramma borghese. Quest’ultimo, affresco apparentemente realistico (per non dire naturalistico) e di certo appartenente a quella che, in maniera retrospettiva, è stata individuata come la “prima fase” della narrativa morselliana; il primo, invece, ultimo grido all’umanità, composto nei mesi precedenti l’addio al mondo. Un’analisi che possa voler dirsi anche solo lontanamente “comparata”, dunque, non potrà che risultare frammentaria, volare da uno all’altro testo, cogliere spunti da una parte e confortarli con l’altra; far specchiare i due testi, l’uno nell’altro. Non ce ne sarà fatta una colpa, perciò, se spazieremo in cerca di corrispondenze, di analogie, pur provando a scongiurare la pulsione aneddotica. In Dissipatio H.G., una lucida cronaca degli eventi si alterna alla forma diaristica: il tentato suicidio, la dissoluzione di tutta l’umanità, fatta eccezione per il protagonista. È così che la voce narrante ci spiega: «Cominciò con una malattia. Corporale, non mentale, vera, non immaginaria; cronicheggiante»1. Sembra il resoconto di una tragedia; il modulo espressivo si approssima a stabilire una sorta di cornice, nella quale l’autore narra, “puramente”, quello che gli è accaduto. Per la condizione di unico essere umano rimasto in vita sul globo, non ci sono vie d’uscita, a maggior ragione mediche. Il sopravvissuto pensa che la psicologia e la sociologia gli avrebbero scoperto (e qui il gusto dell’elencazione, quantunque non fine a se stessa, è una vera e propria epifania): Sul Romanzo

« turbe défaillances, disfunzioni scompensi, regressi atrofie, dissesti scadimenti, cedimenti crolli, tracolli sconnessioni, sfasamenti, scollamenti obnubilazioni, eclissi della reattività tempeste (neurotiche) défeuillaisons (affettive):»2 Rimanere “da solo”, nel senso più proprio del termine, innesca un automatismo di ri-configurazione della realtà: non si tratta più di berretti a sonagli, corde civili, serie e pazze. Semplicemente si è, o almeno si crede di essere. Mancando un termine di comparazione, un termine umano a cui protrarsi, l’insidia è quella della magnifica ambivalenza che Morselli fa esprimere così al suo personaggio: «Nessuno dispone di me, io dispongo di tutto»3. Siamo ad una completa anarchia, che va al di là del politico, del sociale. È un’anarchia esistenziale, totale, complessiva. In uno scenario del genere, può capitare, dunque, una scena che, nella sua spaventosa trasfigurazione dell’agreste ricorda lo splendido Bestie del non ancora pienamente (ri)valutato Federigo Tozzi: «Vado di là a prendere una bracciata di legna per la stufa e ci trovo una delle vacche di Giovanni. Animal bibliophagum: stava mangiandosi la mia Psicologia del Conscio»4.

1) Guido Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2010, p. 20. 2) Ivi, p. 68. 3) Ivi, p. 98. 4) Ivi, p. 39. n° 4 • Settembre 2012

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La “bibliofagia” è, in questo caso, da definirsi forse un riflesso dell’antropofagia del genere umano, perpetrata sul proprio stesso corpo. La vacca che rumina le pagine è, più ancora, un requiem al senso dell’umano; la sostanza di quel cupio dissolvi che Morselli reitera, quasi psicotico, nelle pagine di Dissipatio H.G.. Laddove il protagonista, individuo continuamente mosso dallo iato tra condizione passata e condizione attuale, lancia il suo silenzioso grido di disperazione, allora viene a prendere forma un nuovo umanesimo. È in questo frangente che torna utile citare il secondo romanzo coinvolto nella nostra analisi, Un dramma borghese: «Il miglior rimedio è tornare a dare importanza a me stesso, ai miei mali, al mio bisogno di riposare»5. Il contesto diegetico sembra del tutto diverso: un padre e una figlia, orfani del loro rapporto, trascorrono alcuni giorni chiusi in un hotel. Eppure, considerata la precedenza cronologica, questo romanzo sembra trattenere in sé già tutti i germi della vicenda dell’uomo di Dissipatio.

In questo senso perciò, considerato quanto sopra, ci sembra lecito azzardare un parallelismo tra i due romanzi, anche in virtù della statutaria solitudine dei protagonisti, l’uno perché esiliato con se stesso nella finitezza del mondo, l’altro vittima di un interdetto, di un tabù la cui infrazione significherebbe inevitabilmente la discesa in un mefistofelico gorgo. Morselli esprime la disfatta del Tempo: tempo personale e Tempo della Storia. In Dissipatio H.G., la dipartita (volatilizzazione?) degli esseri umani sancisce così un non-tempo in cui l’unica cosa certa è che il progresso demografico lineare è stato sconfitto. In Un dramma borghese, similarmente, la persistenza, si può proprio dire così, dei due pro-

Mimmina, la figlia, costituisce la misura del mondo. Le sue fattezze, che sembrano brutalmente uscite dall’infanzia, per rivelare d’un tratto smisuratamente la propensione all’accoppiamento, costituiscono il limite oltre il quale un padre è finanche intellettualmente interdetto a pensare di spingersi: la dialettica che si instaura tra i due, morbosa a tratti, è continuamente messa in pericolo dall’abiezione, dal trasporto tutto umano, troppo umano. Il narratore confida: «Sono stato sul punto di decidere che gesto e parte ostentata fossero materia adatta per uno sculaccione; ma mi sono fermato a tempo». Chiunque abbia familiarità con l’hardcore, non può non aver pensato allo spanking. La verità è che, se, in Dissipatio H.G., il contatto fisico come mezzo di comunicazione primigenio e istintuale è ormai stato abolito, per evidente mancanza di materia prima, in Un dramma borghese siamo al passo decisivo: qual è la radice di un sentimento insieme sociale e corporale, quale quello intercorrente tra padre e figlia? Per parte sua, il padre sembra ancorato a un’imperturbabile immanenza, fino alla sostanza chimico-fisica: «Dovrei esserne umiliato: è la mucosa del mio naso che sceglie e ama, è il mio tubo digerente che mi fa misurare gli uomini, le situazioni. […] Non è solo un prevalere della fisiologia sulle componenti psichiche: è il suo dominio senza contrasti»6.

5) Guido Morselli, Un dramma borghese, Adelphi, Milano 2006, p. 23. 6) Ivi, p. 46. 7) Ivi, p. 77. 8) Alessandro Puglisi, Disinfestare la vita: Dante Virgili, in Webzine Sul Romanzo, Anno 2, n° 1, Gennaio 2012, Pagg. 14-15.

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Bibliografia minima: Guido Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2010 (19771). Guido Morselli, Un dramma borghese, Adelphi, Milano 2006 (19781). Bruno Pischedda, La grande sera del mondo, Aragno, Torino 2004.

3 - Ceneri, Edvard Munch, 1894. Oslo National Gallery, Oslo (NO).

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tagonisti all’interno dello spazio chiuso e ristretto della loro camera d’albergo enumera i principi di un atipico Kammerspiel. Non è casuale questa introiezione del padre di un fatto apparentemente di nessuna importanza: «È fermo anche quello; dice che le è caduto, dev’essersi rotto. La coincidenza mi dà un improvviso disagio, acuto, insostenibile»7. Dei due romanzi, Dissipatio H.G. meglio si presta ad esprimere la disperata lotta di Morselli contro il “realismo”: forse non furono un caso, in questo contesto, le numerose lettere

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di rifiuto, la pubblicazione postuma, e non è un caso la rivalutazione degli ultimi anni. Lotta disperata in anni immediatamente successivi a quelli del Miracolo Italiano. In singolare continuità (a distanza) col Virgili de La distruzione8, il nostro realizza però un’apocalisse sostanzialmente diversa: eccesso contro rarefazione, frammentarietà contro organicità. Come in un cerchio che vuole chiudersi, riconducendoci al titolo di questa dissertazione, Morselli orchestra un romanzo del tutto sui generis, una sorta di mini-epopea on the road, al contrario però, dove non si viaggia verso la speranza, ma, appunto, si subisce “quel tanto di analogo alla fine del mondo”.

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Luigi Baldacci. Il critico militante inattuale di Domenico Calcaterra Luigi Baldacci, ritratto per la rivista Il Portolano (2002).

Trascorsi dieci anni dalla sua dipartita e in tempi di critici-scrittori rampanti a tutto campo, intellettualini da salotto e radical-chic arrabbiati che godono di uno spropositato credito sulle colonne dei principali supplementi culturali, non si può che rimpiangere la lezione di sobrietà e rigore, senza mai retrocedere d’un palmo rispetto a un esercizio responsabile del giudizio, che ha saputo offrire, tanto nell’accademia quanto e ancor più nella militanza, un indiscusso maestro come Luigi Baldacci. Quel Luigi Baldacci capace di dominare qualsiasi genere di discorso critico: dalla tradizionale monografia (si pensi a quella, davvero illuminante, dedicata al Tozzi moderno, 1993), all’ampio quadro di ricognizione storica (Lirici del Cinquecento, 1957; Poeti minori dell'Ottocento, 1958-63), dall’articolo breve (genere nel quale fu tra gli insuperabili e indiscussi maestri) agli studi che meglio rivelano il suo eclettismo, nei quali raccordare nessi disparati all’incrocio tra filosofia, arte, musica e letteratura, specie quando riflette, criticamente, sulle altre due sue passioni: il melodramma e la pittura (Libretti d’opera e altri saggi, 1974; La musica in italiano. Libretti d’opera dell’Ottocento, 1997; I quadri da vicino. Scritti sulle arti figurative, 2004). Ma che tipo di critico era Luigi Baldacci? Sin dal suo Letteratura e verità (1963), il critico aveva subito messo le carte in tavola circa il suo riferimento d’orizzonte, il terreno entro il quale giocare la partita interpretativa: la convinzione del rapporto, «strettamente necessario», tra letteratura e società; ineludibile legame che qualifica la «poesia» (leggi letteratura) come l’«indice di direzione» della realtà (cartina di tornasole dei mutamenti). Testimoniare, dunque: questo il compito ultimo dell’uomo di lettere; e testimoniare d’una verità perenne-

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mente sfuggente, relativa in quanto “falsificabile”, soggetta a revisione, superamento. Uno storicismo in progresso, insomma, fortemente problematico, che, per certi «ricorsi romantici», potrebbe riaccostarsi a quel Giuseppe Antonio Borgese non per nulla rivalutato dal nostro (in netto anticipo rispetto al repêchage sciasciano) e incluso nella costellazione di profili de I critici italiani del Novecento (1969): la serie borgesiana de La vita e il libro (1910-1913) parve al nostro «uno dei fatti più positivi nell’arco della critica italiana». Già il solo tirare in ballo il concetto di “verità” basta per comprendere la sua radicale avversione per il colossale equivoco della letteratura ridotta a scienza e, di conseguenza, dell’accertamento critico destituito di valore e tutto basato sull’indiscriminato ricorso a un metodo, come quello sociologicostrutturalista, d’universale applicazione; quando il critico, dovendo essere, come voleva il Fortini di Verifica dei poteri (1965), «il diverso dallo specialista», dallo scienziato delle lettere, deve riuscire, sempre muovendo da una precisa occasione, a «parlare di tutto», potersi liberamente muovere nello specchio d’ininterrotta e reciproca rifrazione tra letteratura e vita. Quale, allora, il modo possibile di procedere se non il libero e istintivo disporsi, a seconda della materia affrontata, a un eclettismo di metodo, di volta in volta ricalibrato? La sola costante disposizione che lo contraddistinse, a dire il vero, fu l’inesausta volontà di misurare ogni fatto letterario sull’ordinata verticale della storia, sempre alla ricerca di primogeniture e gerarchici rapporti di valore tra autori e opere, continuamente da ridefinire; epperò, un guardare in prospettiva che non può mai prescindere dal preliminare e necessario corpo a corpo con i testi letten° 4 • Settembre 2012


rari («ogni testo impone un codice critico»), secondo un virtuoso intreccio di piani da cui ricavare il proprio personale discorso. Da simili premesse discende, per esempio, il suo ritratto di un plausibile Novecento italiano: ad indicare, quell’indeterminativo, il senso d’una personalissima lettura, peraltro mai da intendere come definitiva, e che riconosce nel primo venticinquennio del secolo la parte migliore, offrendo, così, un inquadramento secondo un «taglio avanguardistico»; convinto com’è, pienamente, della carica innovativa della nostra avanguardia al principio del secolo, prima del ritorno all’ordine. Un Novecento italiano, dunque, che Baldacci evita di appiattire facendo leva sui valori della contemporaneità (pur senza ignorarli), e che, secondo la linea prospettica adottata, diventa, nelle sue pagine militanti (come recita il titolo di uno dei suoi libri più luminosi), un Novecento passato remoto (2000). Per dirne una, si pensi a come sfrutta il primo Papini, quello laico per intenderci (da contrapporre a quello cattolico), per decifrare il funzionamento di taluni ingranaggi tipici dell’ideologia culturale primonovecentesca, o a come, in chiave di geografia e storia della letteratura italiana, nitidamente faccia risaltare lo specifico degli scrittori meridionali rispetto a quelli del Nord, nel denunciare le mistificazioni, le ipocrisie e le endemiche infezioni connesse alla nostra storia risorgimentale e, più in generale, al carattere degli Italiani; oppure, ancora, alla diminutio perpetrata nei confronti di autori ritenuti, da sempre, intoccabili, come Carlo Emilio Gadda e Italo Calvino, al primo preferendo il bistrattato ma ben più moderno Moravia, e riconducendo il secondo alla linea della lezione bontempelliana, nel solco, in sostanza, d’un attardato epigonismo. Giudizi si badi bene non sempre condivisibili, come nel caso di Calvino, per il quale proprio l’intreccio di piani, all’incrocio tra testi e contesti concretamente in gioco, riesce ad offrire una linea critica (come altrove si è cercato di dimostrare) per un corretto inquadramento specie del secondo tempo dell’opera del ligure, quello del connubio con la filosofia e la scienza, che aiuta a comprendere come le sue scelte, non siano, come voleva in sostanza Baldacci, da liquidare alla stregua di semplici «accoppiamenti giudiziosi». Il punto, però, non è questo, volendo qui più che altro ragionare sulla straordinaria coerenza e forza d’un modus operandi, di come le sue argoSul Romanzo

mentazioni, anche una sua stroncatura non condivisa (in questo caso), abbiano sempre il potere di stuzzicare, suggerire nuovi spiragli di riflessione. Non a caso evoca, in un suo articolo eloquentemente intitolato Inattualità della militanza? (con tanto di provocatorio punto di domanda), la responsabilità, per il critico militante, di una necessaria verifica dei valori odierni sulla scorta di quelli passati, ma non per soddisfare le urgenze di un mero conservatorismo critico, quanto piuttosto per rintracciare linee di continuità tra il passato e il presente. Così è anche per il suo libro testamentario, pubblicato postumo, Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani (2003), un gruppo di «saggi e pretesti italiani», accomunati dalla provocatoria idea di fondo che lascia cortocircuitare con la contemporaneità quel secolo tanto indagato e da Baldacci ritenuto l’ultimo a essere veramente stato «contemporaneo di sé stesso», al punto da continuare a essere, ancora oggi, il nostro secolo, perché ci consente di entrare in contatto con la poesia, la letteratura, la musica, l’arte, secondo un «rapporto di possibilità» che potremmo definire “epidermico”. Più degli obiettivi meriti acquisiti sul piano dei risultati e delle riscoperte – e, in tal senso, a volerli sottolineare, si avrebbe solo l’imbarazzo della scelta: dalle illuminanti letture di taluni autori del primo Novecento come Svevo, Tozzi, e Pirandello, alla messa a fuoco delle eversioni di Palazzeschi e Bontempelli; dal Borgese critico pienamente recuperato (soprattutto nel confronto con l’oltremodo celebrato Serra dell’Esame di coscienza d’un letterato), al Novecento di Savinio, Loria, Landolfi (la cui tragedia non gli ha consentito di «occuparsi d’altro che della loro biologia»), solo per stare ai primissimi nomi che sovvengono a chi scrive – oggi, Baldacci merita d’esser ricordato, oltre che per il suo modo di intendere in chiave antagonista il lavoro critico, per la necessaria e umile disposizione ad azzerare, dinnanzi all’oggetto studiato, di volta in volta, lo sguardo: quel ripartire dal dato essenziale e visibile, quasi fisico, grammaticale, biologico (per il suo rimandare ai «ritmi della vita») come fulcro irradiante d’ogni possibile discorso, che caratterizza quella straordinaria palestra di prove personali che sono i suoi scritti sull’arte, radunati postumi in I quadri da vicino. Scritti sulle arti figurative (2005), che sembra essere oggi, e forse in maniera ancor più sorprendente per lo studioso di lettere, il suo libro più carico d’insegnamenti. n° 4 • Settembre 2012

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La Sicilia di Antonio Russello

1 - Un'immagine di Antonio Russello. 2 - Il Grand Canyon?...no semplicemente Sicilia, di ondablv.

di Sandro Pezzelle

Il viaggio nella Sicilia di Antonio Russello parte da Favara, in provincia di Agrigento, dove lo scrittore nasce il 19 agosto 1921. «Una cittadina dell’agrigentino», quella di Favara, che – secondo la descrizione che ne dà Renato Candida nel saggio Questa Mafia, edito nel 1956 da Salvatore Sciascia editore – «conta circa 25 mila abitanti ed è un agglomerato che si può definire esplosivo, per il gran numero di omicidi che avvengono a seguito delle rivalità sorte tra le sue mafie, quella dei pampini e quella delle code piatte. La vita umana a Favara ha un valore assai relativo […] l’onorata società prospera […] la popolazione ha un bassissimo tenore di vita e scarse possibilità di lavoro. Solo il 28% della popolazione è attivo […] Ci sono, per 25 mila abitanti, circa 6 mila case; di queste, 1300 mancano di acqua potabile e latrine». Non è necessario aggiungere molto altro per capire i motivi che spingono il “viaggio” di Russello – dopo una “sosta” a Palermo dove consegue la laurea in Lettere Moderne – al di fuori della Sicilia, in quel Veneto che lo vede dedito all’amato insegnamento nel corso degli anni Sessanta e Settanta, dopo l’esperienza, durata tre anni, in una banca di Venezia. È proprio qui, nel “profondo” Nord – a Castelfranco Veneto, nella Marca Trevigiana –, che l’autore conclude il suo viaggio il 26 maggio del 2001.

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Comincia, invece, in un 11 luglio degli anni Cinquanta, al terzo giorno di scirocco, il viaggio nella Sicilia de La grande sete, il secondo romanzo di Russello, edito nel 1963 per l’editore Rebellato. Il libro racconta del trasferimento nell’isola del commissario Ernesto Righi e della sua bellissima moglie Maria Gloria, in seguito alla promozione di lui a commissario aggiunto della città di Agrigento. La natura dei luoghi che i coniugi stanno per raggiungere appare chiara fin dal loro arrivo, tanto essa è carica di elementi tragici e aggressivi, di angosce e paure pregresse. «C’era stato il lungo viaggio nel Sud, verso un paese sconosciuto, difficile quanto all’amministrazione della Giustizia, che era come andare in guerra. I giornali parlavano della pia-

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ga del banditismo, della mafia, dell’area depressa, della disoccupazione, del comunismo, della mancanza di progresso, della mancanza dell’acqua». Caratteristiche, quelle attribuite dall’autore alla Sicilia, che, anziché essere smentite nel corso della storia, si esasperano e insieme assimilano al tessuto narrativo, che le ingloba fino a permettere il tragico epilogo del commissario Righi per mano del killer Calogero Sardella. «La Sicilia, vedi? Che doveva finire con oggi. Invece me la sono portata tutta nel sangue, all’infinito». Saranno queste le ultime parole dell’uomo venuto dal Nord, che si è accanito senza risparmio contro una «maffia» che pare implacabile quanto la sete e nei confronti della quale Righi non è che «sangue straniero».

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3 - Paesaggio siciliano, di Giuseppe Moscato. 4 - Castello della Zisa - Palermo, di Leonardo Pilara. 5 - Through the olive trees... - Attraverso gli ulivi..., di Antonio D'Emanuele.

È la Sicilia ancestrale, siccitosa e pietrificata, a dominare come personaggio centrale su tutto il resto. Scandagliata fino alle sue radici e descritta come terra mitica, eterna e immutabile, essa pare agire con e sui protagonisti del racconto, dominando le loro azioni, condizionandone le vite. In Russello, si avverte un pianto dolente per l’eredità siciliana, al contempo unica e indecifrabile. Si tratta di una terra arida nelle crepe del suolo quanto nel deserto dei sentimenti, che sembrano appartenere soltanto al mondo di Maria Gloria, animata da fermenti e passioni che la condurranno fin da don Mimì Lo Bue, il ricco proprietario terriero che diverrà suo amante. Ne La grande sete, c’è pure una “sua” Sicilia, quella delle granite al limone che don Mimì sorseggia senza il cucchiaino, sdraiato a torso nudo in una stanza con due ventilatori accesi. C’è, però, anche la Sicilia che impiglia e stritola il bracciante ed il mulo, l’uomo e la bestia, in una continua lotta per la sopravvivenza che inevitabilmente li oppone, nel contendersi una goccia d’acqua o nel prolungare – a spese dell’altro – la propria agonia. Il caldo e l’afa, il vento di scirocco e la siccità, compaiono fin dall’attacco del libro, che dipinge con tinte espressioniste e perfettamente nitide una realtà in cui è difficile intravedere spiragli di miglioramento. Ogni minimo cambiamento, da queste parti, sembra un miraggio lontano quanto l’arrivo della pioggia, che pare soltanto un ricordo all’orizzonte. «Il vento di scirocco durava tre giorni. Dapprima erano stati i carrubi sull’alto costone

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ad accartocciare le foglie, a spaccare la corteccia, a dare quasi tra spacco e spacco lingue di fuoco. Ed il mare laggiù era lontano 18 chilometri. Poi più sotto, nel declivio, erano stati i mandorli a spaccare ed aprire i frutti legnosi; infine, nella depressione, gli ulivi a deflagrare piegare e arrotondare le foglie coriacee come valve che si chiudessero e a rattrappire l’argento in un tono scuro, violaceo. Ed il mare era lontano 18 chilometri». n° 4 • Settembre 2012


C’è spazio, infine, nella descrizione sempre esemplare di Russello, per un appunto polemico nei confronti della classe dirigente siciliana; una verità amara che sembra tracimare dall’universo del racconto, fino a lambire e, infine, raggiungere, i confini della contemporaneità dell’autore. «L’acqua che ci avete promesso coi vostri comizi, e che da monte Cammarata, bella limpida fresca, doveva venire a scorrerci sopra, promessa ce l’avete, ma dato mai. Sarebbe stato un acquedotto lungo da Cammarata, dal centro della Sicilia, fino alla sponda del mare, ad Agrigento! Sarebbe stato lungo 70 chilometri; liscio, bello, di cemento, e fortunate le pietre, la rena, l’erba che l’avrebbero avuto sopra, l’erba sulla quale avrebbe strisciato con la sua pelle fresca di serpente bianco. Invece». Invece, la Sicilia di Russello è anche la terra delle promesse non mantenute, delle passioni frustrate e represse, delle possibilità mai realizzate, del fervore ormai spento da un’immensa sete millenaria, che insieme accomuna ed uccide.

padre, il brigante Verdone. «Ci sono i campi di ulivi, mandorli, carrubi, nelle pagine di Russello, che però sono presto inghiottiti da quelli ricoperti dalle croci dei morti ammazzati dalla mafia e dalle forze dell’ordine. C’è il profumo intenso dei melograni, che spaccandosi sugli alberi “buttavano dalla faccia sangue e neve”, la fragranza del basilico e della menta, ma aleggia, soprattutto nella seconda parte del romanzo, il tanfo del sangue» (Salvatore Ferlita, Il mondo narrativo di Russello, in Antonio Russello, La luna si mangia i morti, Santi Quaranta Editore, Treviso, 2003).

Di un’altra Sicilia aveva raccontato Russello ne La luna si mangia i morti, il romanzo d’esordio edito da Mondadori – per la collana La Medusa degli Italiani, diretta da Vittorini – nel 1960. È, questa, una Sicilia da sogno, vista attraverso gli occhi di un giovane protagonista che la gira in lungo e in largo, alla continua ricerca di indizi che portino a suo

In questo romanzo, la Sicilia più importante è descritta nella premessa. Si tratta di una dichiarazione di poetica, che è soprattutto un atto d’amore nei confronti della terra che l’ha messo al mondo e verso la quale proverà, per tutta la vita, un intimo senso di fedeltà, una nostalgia pervicace, un radicamento profondo. L’esplorazione della Sicilia di Russello può, quindi, concludersi qui, con le parole stesse dell’autore; parole che non sono “manifesto”, ma voce che da troppo tempo attende di parlare. Più che a fermarsi a riflettere, esse sospingono a ripartire per un nuovo viaggio: «Questo libro è stato scritto nel 1953 in provincia di Padova e il paese a cui mi riferisco è Favara di Agrigento. […] Dico questo perché non credo che i manoscritti vengano trovati in una bottiglia, non credo cioè che una vicenda possa essere indifferentemente posta in un paese come in un altro. C’è una fedeltà al di fuori della quale se l’autore si mette, rischia di essere orfano, rischia che la sua terra gli diventi matrigna. Noi ci portiamo appresso non solo lembi di terra cielo e sangue di chi ci fece, ma anche il peso di una data, della quale bisogna che anche uno scrittore assuma la piena responsabilità. […] Ora io penso che si può essere fedeli a se stessi, solo quando l’ispirazione ci riporti sempre alla stessa terra, ci schiacci sempre sotto quell’urgere di terra e cielo e sangue i quali, come destino, perciostesso che continuamente premono, vogliono essere placati come spiriti cattivi, con l’evocarli». Sul Romanzo

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L’orgia dei giusti. Sergej Kalugin, poeta e musicista di Francesco Peri

Sono passati vent’anni dal crollo dell’URSS e trentadue dal Festival che, nel marzo del 1980, a Tbilisi, sanciva “ufficialmente” l’esistenza di una scena rock d’oltrecortina, eppure il frastagliato continente della canzone di lingua russa rimane ancora oggi, in Occidente, un territorio largamente inesplorato, o, nel caso migliore, un perturbante doppione dei suoni con cui siamo cresciuti. Le litanie crepuscolari dei Kino, la poesia per musica dei Ddt, lo scalcinato ska dei Leningrad e l’avanguardismo fusion degli Aukcyon – come i temuti film sloveni con sottotitoli in croato degli anni settanta – restano merce d’importazione per rari intenditori. A differenza del cinema, della letteratura e del petrolio siberiano, la musica è una parte del retaggio postsovietico che non è mai realmente venuta in contatto con il nostro mondo, sebbene l’underground degli ultimi decenni – per quanto elusivo, frammentario e non sempre facile da cartografare – riservi, talvolta, splendide sorprese. È il caso dell’opera e della parabola artistica del cantautore-poeta Sergej Kalugin (1967-) e del gruppo Orgija pravednikov, che da tredici anni lo accompagna sul palco. Di questa realtà del tutto sui generis, tanto inconfondibilmente russa quanto stilisticamente onnivora, proverò a tracciare in queste pagine un provvisorio ritratto.

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Tutto ha inizio da un’arcana perla nera, l’album solista Nigredo, che un giovane chitarrista moscovita, fresco di conservatorio, dà alle stampe nel 1994, in uno dei momenti più bui della storia russa recente. Il Paese è minacciato dal caos, ma, nonostante ciò, tra i solchi di quel disco sospeso in un limbo senza tempo, si respira la quiete di un monastero. Nessun precedente, nessuna circostanza esteriore poteva preparare il pubblico a un simile debutto, fatto di arrangiamenti scarni e severi, imperniati su un lavoro chitarristico a cavallo tra il flamenco, il repertorio romantico e suggestioni trobadoriche; a quella voce già inconfondibile, un baritono rotondo, sonoro ed espressivo, appena raddolcito dagli accenti ancora giovanili di un artista solo ventisettenne; a quel mondo poetico intessuto di simbologie desuete, sospeso tra delicatezza ed ermetismo, intriso di uno scurissimo pathos religioso. n° 4 • Settembre 2012


Cinque pezzi molto diversi tra loro, ma legati da intime corrispondenze, incorniciati da quattro sonetti recitati dallo stesso Kalugin, come a suggerire altrettante stazioni di un viaggio iniziatico verso una tormentosa redenzione. La nigredo richiamata nel titolo, lo stadio alchemico dell’“opera al nero”, va intesa allegoricamente come una “noche oscura del alma”, come quello stato di prostrazione, smarrimento e morte interiore che, nella tradizione ascetica, prelude al ritrovamento di una nuova autocoscienza. Nella lingua di Kalugin risuonano il tormento e gli slanci dei poeti cristiani medievali, dei mistici renani, di San Juan de la Cruz, rifusi in un russo elegante e ricercato che riesce a non sacrificare la prosodia e il nitore del verso a un occasionale gusto per gli arcaismi. Dante e Meister Eckhart sono tra gli autori più spesso evocati nelle interviste e il vocabolario dei sonetti è fortemente debitore di una lunga tradizione di poesia meditativa:

Sonet #1

Moj golos tich. Ja otyskal slova V pustych zracˇ kach polnocˇ nogo pokoja. Božestvenno pusta moja glava, I vne menja, bezmolvie pustoe. Skaži, ja prav, ved’ eta pustota I est’ nacˇ alo vernogo služen’ja, I budet svet, i budet napolnen’e, I vspychnet Roza na grudi Kresta? No net otveta […] Etc.

Sonetto primo

La mia voce è fioca. Ho cercato le parole Nelle pupille vuote della quieta mezzanotte. Divinamente vuota è la mia mente, E fuori di me il silenzio è vuoto. Dimmi che è vero, e che tutto questo vuoto È anche il principio di una milizia di fede, E verrà la luce, verrà la pienezza E divamperà una Rosa sul petto della Croce! Ma non giunge risposta […] Etc.

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Introdotto da questi versi, l’album si apre con una ballata, Rasskaz Korolja-Ondatry o rybnoj lovle v piatnicu [Il racconto di re Ondatra sulla pesca del venerdì], che narra del peccato e dell’espiazione di un mitico sovrano-animale, colpevole di aver immolato la vita del fratello al desiderio di vedere un certo pesce misterioso, che soltanto un’esca fatta con gli occhi del re degli uccelli poteva richiamare dagli abissi. È una sorta di leggenda esoterica, ricca di immagini bizzarre e perturbanti, lontanissima dal medievalismo solare del folk anni settanta e avvicinabile soltanto a certe cose dei Dead Can Dance, o al lavoro di gruppi come gli Ordo Equitum Solis. Il secondo pezzo, Tanec Kazanovy [La danza di Casanova], è una leziosa boîte à musique dove la chitarra dialoga con un pianoforte senza dinamica, suonato come un clavicembalo, in una sorta di barocco stilizzato che sfocia in un dolente Miserere. La mente corre agli Ataraxia de Il fantasma dell’opera e Concerto n. 6, ma, anche in questo caso, il paragone resta molto vago. La successiva Luna nad Karmelem [La luna sul monte Carmelo] è una rapsodia per voce e chitarra, un’assorta meditazione notturna intessuta di suggestioni mozarabiche e vocalizzi mediorientali, mentre Vozchoždenie cˇërnoj luny [L’alba di una luna nera] suona come un omaggio acustico al gothic rock anni ottanta. Il disco si conclude con Radost’ moja [Amore mio], una prima e ancora leggermente acerba versione di quello che sarà forse, in successive incarnazioni, il pezzo più intenso di Kalugin, in cui una voce piena di speranza guida l’anima di un moribondo nel suo estremo congedo dalla terra, prima di accompagnarla, in volo tra le sfere, nel «glaciale chiarore della morte». Lavoro tenebroso e affascinante, di un’eleganza e di una maturità conturbanti, Nigredo rappresenta un episodio autonomo nella discografia di Kalugin, di cui costituisce, in qualche modo, il denso nucleo generatore, una sorta di sintesi a priori. Qualche cosa di importante è successo dai tem-

1 e 3 - Due immagini di Sergej Kalugin. 2 - La copertina di Nigredo, (1994). Sul Romanzo

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pi di Moscou, un tape-album semiclandestino del 1989, che fotografava un poeta-musicista talentuoso ma imberbe, ancora fortemente legato alla tradizione cantautorale russa: Kalugin ha ormai trovato la sua vena, ha trovato la sua voce. Il suo primo tentativo di formare una band è solo parzialmente riuscito. Il gruppo Dikaja ochota [La caccia selvaggia], con cui Kalugin si esibisce nella seconda metà degli anni novanta, sembra scomparire dietro la figura di un bardo

trentunenne in camicia di lino bianco che ruba la scena con la sua persona, la sua chitarra, i suoi testi, il suo carisma. Nel gennaio del 1997, un noto presentatore televisivo lo invita a eseguire il suo repertorio in diretta e, da quel giorno, un pubblico scelto ma fedele inizia a seguire il suo periplo nei piccoli club moscoviti, tanto che, nel 1998, infortunatosi alla mano prima di un concerto, Kalugin può permettersi di pubblicare un lungo album-intervista (Neslo) al posto del live previsto.

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sarebbe ridicolo accostare gli OP alle espressioni più o meno pacchiane del cosiddetto “christian rock”. Più corretto sarebbe parlare, ancora una volta, di un mondo poetico in sé coerente improntato a un misticismo fortemente personale, tanto è vero che perfino il sottoscritto, ferocemente allergico all’odore dell’incenso, non ha tardato a riconciliarsi, dopo un primo shock anafilattico, all’immaginario sacro-profano di Kalugin e compagni.

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Nello stesso torno d’anni, il flautista e polistrumentista Jurij Ruslanov proponeva, con il gruppo Artel’, un’interessante miscela di fusion e classico prog-rock (Bezudarnye glasnye [Vocali non accentate], 1998; Musyka bez slov [Musica senza parole], 1998). Kalugin è un solista ingombrante in cerca di un gruppo all’altezza; gli Artel’ sono un ambizioso ensemble strumentale. Tutto, insomma, sembrava preludere al sodalizio che, a partire dal 1999, prenderà il nome di Orgija pravednikov [L’orgia dei giusti], OP per gli amici.

Il primo disco, Oglašennye izydite [Andate, catecumeni] (2001), è una miscela ancora instabile, ma ricca di promesse. La voce di Sergej, fattasi più virile e profonda, sovrasta un caleidoscopio musicale in perenne metamorfosi, dal funky alla romanza popolare, dalla miniatura strumentale alla marcetta, passando senza mediazioni per l’heavy metal. Sono il flauto e la chitarra classica a fungere da filo conduttore, consentendo al pluristilismo schizoide degli Artel’ di attingere una paradossale concordia discors nel segno dell’intimismo e alle liriche di Kalugin di espandersi in un quadro timbrico e formale molto più dilatato che in precedenza (vedi la nuova versione di Vozchoždenie cˇërnoj luny).

Il termine “orgia” non ha, qui, alcuna connotazione erotica, ma va inteso – spiega lo stesso Kalugin – in senso etimologico, come “adunanza” o “congregazione”. Il gruppo non ha mai fatto mistero della sua ispirazione religiosa, ma se, da un lato, sarebbe miope ridurre le tematiche di Nigredo al massiccio rifiorire della spiritualità ortodossa che investe la Russia nei tardi anni ottanta, dall’altro,

È, però, con Dveri! Dveri! [Porte! Porte!] (2005) che gli OP attaccano in forze, aprendo le danze con i nove minuti di rock sinfonico di Rex, sul testo latino della messa da requiem, e rincarando la dose con i quasi venti minuti di Prisutstvie [Presenza], una suite maestosa e delicata sul tema dell’apocalisse. Al tempo stesso, tuttavia, si dichiara anche una vena grottesca e scanzonata. In Adel’ [Adele],

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buffa parodia di un improbabile idillio alpestre, lo yodel si mescola a un growl di matrice death metal e i 6/8 del Ländler sono messi a contrasto con i 4/4 della batteria rock in un bizzarro polimetro. Eto ne žizn’ [Non è vita, questa] ironizza sulle frustrazioni di una giovane moglie. Abraxas è un piccolo delirio metal-jazz. Nel corso dell’album, però, la poesia di Kalugin tocca due vette ineguagliate: da Vozvrašcˇenie v Neapol’ [Ritorno a Napoli], rarefatta ballata semiacustica in tempo di siciliano, spira una malinconia misteriosamente solenne, e in Nicˇego net prekrasnee smerti! [Non c’è nulla di più splendido della morte!], la classica Radost’ moja viene riproposta in un nuovo arrangiamento dall’intensità addirittura dolorosa.

un lato, su una lunga tradizione, mentre, dall’altro, può contare su un pubblico di nicchia esigente e preparato. Poeta inseparabile dal cantautore, chitarrista completo al servizio della propria poesia, Sergej Kalugin lavora imperterrito a un’opera con la quale non abbiamo ancora iniziato a fare i conti, ma della quale è difficile non percepire, come una radiazione, l’originale ed enigmatica grandezza.

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Con Uchodjašee solnce [Sole al tramonto] (2007), gli OP trovano una nuova fisionomia. La produzione si fa più cristallina, il suono più pieno e massiccio, le tastiere e gli strumenti ad arco si fanno strada nell’ordito strumentale. La voce di Kalugin, carica di pathos, è più teatrale che mai nell’epica Das Boot (molto liberamente ispirata all’omonimo film di Wolfgang Petersen), eppure sa trovare accenti radiofonici nel rock leggero di Armageddon FM. Con Sicilijskij vinograd [Uva siciliana] ritroviamo un altro classico, una sorta di tarantella, ma, ancora una volta, sottoposto a un processo di espansione e destrutturazione formale, sostenuto da una strumentazione ricca e differenziata. Dlja tech, kto vidit sni (vol. 1) [Per coloro che sognano (vol. 1)] (2010) è il provvisorio capolavoro di un ensemble in continua crescita. Zigzagando tra classici kaluginiani e pezzi inediti, gli OP inanellano dieci tracce ancora più maestose e sofisticate che in passato. Dall’estasi panteistica di Gimn [Inno] alla delicatissima Beloe na belom [Bianco su bianco], omaggio al pittore Valentin Massov; dall’eroismo mistico e guerriero di Put’ vo l’dach [Sentiero tra i ghiacci] alla nostalgia per l’infanzia di Po tonkomu l’du [Sul ghiaccio sottile], passando per l’omaggio a Salinger di Catcher in the Rye e per un inno ai kamikaze giapponesi. Le sei corde di Kalugin, musicista di solida impostazione classica, battagliano con la chitarra elettrica di Aleksej Burkov, che si divide tra ritmiche potenti e un impiego quasi materico dei registri acuti, sullo sfondo delle orchestrazioni sontuose di Ruslanov e di una sezione ritmica d’assalto. Progressive rock è una definizione che va stretta, soprattutto se si pensa all’attuale sclerosi del genere. “Rock postmoderno” potrebbe fungere da alternativa, a patto di intendere l’aggettivo nel senso di compositori “colti” come Alfred Schnittke e Sofija Gubajdulina, dove il pluristilismo esasperato è, innanzitutto, una risorsa espressiva. È musica di un Paese dove la frattura tra “alto” e “basso” è meno inveterata che da noi e dove il concetto tipicamente slavo di “poesia cantata” riposa, da Sul Romanzo

7 4 e 6 - Due immagini degli Orgija pravednikov. 5 - Le copertine di Dveri! Dveri! (2005), e Uchodjašee solnce (2007). 7 - La copertina di Dlja tech, kto vidit sni (vol. 1) (2010).

Sito ufficiale: www.orgia.ru

Discografia selettiva: Orgija pravednikov 2012 Šitrok [Shit-rock], Mini-cd. 2010 10 let OP [10 anni di OP], Dvd 2010 Dlja tech, kto vidit sni (vol. 1) [Per coloro che sognano (vol. 1)], Cd 2007 Uchodjašee solnce [Sole al tramonto], Cd. 2005 Dveri! Dveri! [Porte! Porte!], Cd. 2004 Karablik [La barchetta], Mini-cd live. 2001 Oglašennye izydite [Andate, catecumeni], Cd. Sergej Kalugin 2006 Rosarium. Venok sonetov [Rosarium. Corona di sonetti], Cd (con A. Burkov) 1998 Neslo, Cd-intervista 1994 Nigredo, Cd 1989 Moscou, Cassetta n° 4 • Settembre 2012

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Tradurre poesia è di per sé un azzardo, ma in presenza di testi per musica gli ostacoli si fanno addirittura proibitivi. Nel passaggio vengono meno gli elementi di ritmo, colore e prosodia legati al canto e alla dizione, e con la metrica e il timbro si perde anche un livello di pregnanza formale connesso alla morfologia della lingua. Ho tentato di conservare dove possibile il tessuto di assonanze e allitterazioni che, prima ancora della rima, struttura dall’interno il verso di Kalugin, e di suggerire il gioco tra lingua standard e lessico arcaizzante che lo caratterizza. Le versioni italiane proposte, in ogni caso, vanno intese soprattutto come un ausilio all’ascolto. Per lo stesso motivo il testo russo viene fornito in traslitterazione. F. P.

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Il racconto di re Ondatra1 sulla pesca del Rasskaz Korolja-Ondatry o rybnoj venerdì (prime strofe) lovle v piatnicu 8 - Gli Orgija pravednikov. Ho sognato un cielo dalle iridescenze d’acciaio Ja videl nebo v stal’nich perelivach 9 - Jurij Ruslanov e Sergej E rocce in una luce limacciosa I kamni na ilistom dne 2 dalla polpa trepidante Mentre le frecce degli alburni Kalugin. I strely ukleek, č’ja plot’ toropliva, Scintillavano tra le onde della riva. 10 - Ancora Sergej Kalugin. Sverkali v pribrežnoj volne. E poi ho visto il mare, e spumeggianti criniere I eščë bylo more, i pennye grivy Sulle creste di marosi mugghianti, Na grebnjach revuščich valov. E una croce muschiosa, avvinghiata da un’edera I krest obomšelyj, v ob’’jatjach ivy, Le cui radici mi nutrivano di sangue. Č’i korni darili mne krov. Nei Paesi oltre il mare, tra gli uomini alati, A v stranach za morem, gde ljudi krylaty, Viveva e regnava mio fratello, Žil brat moj, on byl korolëm E guardando le fregate3 volteggiare nel cielo I gljadja, kak kružatsja v nebe fregaty, Mi ricordai di lui, e lo piansi. Ja pomnil i plakal o nëm. Fratello mio dal volto d’uccello, Brat moj, s likom pticy, Fratello dalle dita di vergine, Brat s perstami devy, 9 Fratello mio! Brat moj! Fratello mio, in sogno vedo il mare, Brat, mne more snitsja, Odo i canti delle onde scure, ̌ Cërnych voln napevy, Fratello mio! Brat moj. Un triste mattino un anziano mi parlò V nedobroe utro uznal ja ot starca Del Pesce dalle scaglie stregate. O Rybe, čej žir – koldovstvo, E per il Sangue giurai – orrendo giuramento – I Kljatvoju Krovi ja strašno pokljalsja Di gustare della sua sostanza. Otvedat’ eë estestvo. E l’anziano, simile a un olmo centenario, A strarec, podobnyj stoletnemu vjazu, Picchiettò sulla pagina di pergamena: Udaril v pergament stranic – “L’esca per quel pesce si fabbrica con gli occhi – “Naživa dlja ryby tvoritsja iz glaza – Con gli occhi del Sovrano degli Uccelli”. Iz glaza Vlastitelja Ptic”. Fratello mio, il tuo manto è nero Brat moj, plašč tvoj čërnyj Fratello mio, la tua figura è bianca Brat moj, stan tvoj belyj Fratello mio, il mio manto è bianco Brat moj, plašč moj belyj Fratello mio, la mia figura è nera, Brat moj, stan moj čërnyj Fratello mio! Brat moj! Fratello mio, la tua croce è inscritta in un cerchio Brat moj, krest tvoj v kruge Fratello, nel mio cerchio è inscritta una croce, Brat, krug moj ob’’jal krest Fratello mio, la mia croce è inscritta in un cerchio, Brat moj, krest moj v kruge 1 L’ondatra zybethicus, unica specie del Fratello, nel tuo cerchio è inscritta una croce, Brat, krug tvoj ob’’al krest genus ondatra, è un roditore comuFratello mio! Brat moj! nemente detto “topo muschiato”. […] 2 Piccoli pesci della famiglia dei […] ciprinidi. © Sergej Kalugin 3 Uccelli dell’ordine dei pelecani-

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Das Boot Das Boot 1. 1. Non affliggerti, amico mio, siamo caduti in guerra. Ne pečal’sja, moj drug, my pogibli. Forse non è servito a nulla rifiutarsi di piegare il capo Byt’ možet naprasno otkazavšis’ mel’čit’ E di mercanteggiare con il Vuoto. I igrat’ s Pustotoj v “čto-pročëm”. Eppure io ricordo la cima di un colle, No ja pomnju veršinu cholma, Nella mano un rametto di ciliegio, Vetku višni v ruke, E tra i raggi del sole al tramonto, I v lučach zachodjaščego solnca – L’ombra di una fragile sagoma umana con la spada in pugno. Ten’ ot chrupkoj figurki s mečom: Siamo caduti, amico mio. My pogibli moj drug. Te lo giuro, è stato meraviglioso! Ja kljanus’, eto bylo prekrasno! 2. 2. Pour ce destin de chevalier Pour ce destin de chevalier Honneur, fidelité. Honneur, fidelité. Nous sommes fiers d’appartenir Nous sommes fiers d’appartenir A ceux qui vont mourir. A ceux qui vont mourir. 3. 3. […] […] Ma per coloro che nasceranno No dlja tech, kto pridët In un mondo avvolto dalle tenebre V mir, ochvačennyj mgloju, La nostra storia servirà da chiave. Naša povest’ poslužit ključom. Perché l’antico Sole, Ibo drevnee Solnce – Il sole degli eroi, Solnce geroev, Ci ha sfiorati con un ultimo suo raggio. Nas kosnulos’ proščal’nym lučom. Non affliggerti, amico mio, Ne pečal’sja, moj drug, Io e te siamo stati fortunati: My sčastlivcy s toboju: Perfino nella bolgia di anni senza senso V samom pekle bessmyslennych let. Il sole degli eroi, Navsegda uchodjašee Prima di tramontare per sempre, Solnce geroev Ha rischiarato la nostra tarda aurora. Ozarilo naš pozdnij rassvet. E come testimonianza verace I svidetel’stvom istinnym Nel nome dello Spirito e del Figlio V Duche i v Syne, Abbiamo lasciato ai posteri la storia My ostavili povest’ o tom, Di un sommergibile Kak podvodnaja lodka Colato a picco in un vuoto senza fondo V beskrajnej pustyne Sotto il fuoco incrociato dei siluri. Otbivalas’ torpednym ognëm. […] […] © Sergej Kalugin

10 Vozvraščenie v Neapol’ Minuli gody, sbylisja proročestva Vnov’ ja na volny gljažu s koroblja. Drug moj! Otnyne moë odinočestvo Už ne razdelit tebja ot menja. V more brosajutsja čajki provornye, Pesni rusalok letjat k oblakam, Serdce moë, navsegda nepokornoe, Dnes’ prodvigaetsja k otčim bregam. Mramorna deva v sviatom postojanstve Sledit, kak nevidimyj prazdnym glazam Belyj korablik iz dal’nego stranstvija K domu skol’zit po lazurnym stezjam Ticho skol’zit po lazurnym stezjam. Mreži rastorgnuty, snjaty preščenija, V brežnych utësach vzdychaet priboj, Pomniš’ li ty o moëm vozvraščenii, Znaeš’ li ty, čto ja rjadom s toboj? V strannych širotach za groznym ekvatorom Krest odinokij vzyvaet k zvezdam. Večnoe solnce gorit nad Neapolem, Večnoe nebo smeëtsja volnam. © Sergej Kalugin

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Ritorno a Napoli Sono passati gli anni, si sono compiuti gli oracoli Di nuovo contemplo le onde dalla prora di una barca. Amico mio! D’ora innanzi la mia solitudine Non mi terrà mai più lontano da te. Sul mare piroettano svelti gabbiani I canti delle sirene si innalzano alle stelle Oggi il mio cuore, per sempre indomato, È proteso verso i lidi della terra dei padri. Una vergine di marmo dalla santa costanza Osserva, invisibile ad occhi indolenti. Una barchetta bianca, salpata da terre lontane, Scivola verso casa per sentieri azzurri Scivola quieta per sentieri azzurri… Le reti sono squarciate, gli interdetti sollevati, La risacca sospira tra gli scogli della costa, Ricordi, non è vero, che sarei ritornato? Sai o non sai che io sono accanto a te? A strane latitudini, oltre il terribile equatore, Una croce solitaria invoca le stelle. Un sole senza tempo brilla su Napoli, Un cielo senza tempo sorride alle onde.

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Webzine Sul Romanzo Invito _ a __________ presentare ________ articoli ______ Numero 5/2012 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 5/2012. Gli articoli potranno sviluppare un tema che risponda al seguente argomento:

Integrazione, indipendenza, servilismo, orgogliosa ricerca di libertà, estremo sacrificio in nome della libera espressione del proprio pensiero. Nel corso dei secoli, l’intellettuale, scrittore, poeta, pensatore, filosofo, scienziato ha dovuto scegliere come porsi di fronte al sovrano, al governo, al potere. È un rapporto complesso e sofferto che vede, da entrambe le parti, esempi di lungimiranza come di crudeltà. Le circostanze sono le più varie. Eppure l’uomo di potere e l’intellettuale hanno avuto spesso bisogno l’uno dell’altro. Il regnante ha, talvolta, compreso il valore della cultura; l’intellettuale, in molti casi, ha capito quanta importanza un governo illuminato può avere per il proprio lavoro. Un rapporto in cui si alternano strumentalizzazione e mecenatismo, in cui s’intrecciano temi economici, morali, religiosi, scientifici, politici. Un articolo che voglia affrontare questo tema potrà, in linea di massima, concentrarsi su un caso o trattare più situazioni e confrontarle traendone riflessioni attualissime.

Intellettuali e potere

Per partecipare, è sufficiente attenersi alle seguenti indicazioni: Prima Fase Entro il 20/10/2012, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: –– essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come Font Times New Romans 12; –– riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, data di nascita, codice fiscale e indirizzo e-mail; –– presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); –– essere inviata a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@ sulromanzo.it. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 30/10/2012, l’autore riceverà un’e-mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 20/11/2012. L’articolo dovrà essere: –– redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; –– in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– inedito; –– inviato all’indirizzo e-mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione dell’abstract. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail.

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Emilio Salgari

Dialoghi a distanza Un fracasso spaventevole scoppia a bordo del vascello di linea, mentre lampi di fuoco illuminano la notte. I sette pezzi di tribordo ed i due cannoni da caccia della coperta hanno vomitato contro la nave corsara i loro proiettili. Le palle fischiano tra i filibustieri, attraverso vele, recidono corde, si sprofondano nella carena o sfondano le murate, ma non arrestano lo slancio della Folgore.

150° della nascita 1862 - 2012

Emilio Salgari, Il Corsaro Nero, Ed. Donath, Torino, 1898. L'Abordage, terza versione de Combat de la Confiance, commandée par Robert Surcouf, et du Kent, Ambroise-Louis Garneray, 1850. Castello di St. Malo, (F)

Atmosfere consonanti All’indomani qualche ora dopo che il sole era sorto, Sandokan usciva dalla capanna, pronto a compiere l’ardita impresa. Era abbigliato da guerra: aveva calzato lunghi stivali di pelle rossa, il suo colore favorito, aveva indossata una splendida casacca di velluto pure rosso, adorna di ricami e di frange e larghi calzoni di seta azzurra. Ad armacollo portava una ricca carabina indiana rabescata e dal lungo tiro: alla cintura una pesante scimitarra dall’impugnatura di oro massiccio e di dietro un kriss, quel pugnale dalla lama serpeggiante e avvelenata, tanto caro alle popolazioni della Malesia.

Illustrazione al Canto I della Divina Commedia, William Blake.

(Emilio Salgari, Le tigri di Mompracen, 1900)

La foresta si rizzava dinanzi a loro, tenebrosa come un’immensa caverna. Tronchi d’ogni forma e dimensione si slanciavano in alto, sostenenti foglie smisurate, le quali impedivano assolutamente di scorgere la volta stellata.

Sorge, e del letto su la sponda assiso Una molle s’avvolge alla persona Tunica intatta, immacolata; gittasi Il regal manto indosso; il piè costringe Ne’ bei calzari; il brando aspro e lucente D’argentee borchie all’omero sospende, L’invïolato avito scettro impugna, Ed alle navi degli Achei cammina.

Emilio Salgari, Il Corsaro Nero, Ed. Donath, Torino, 1898

(Omero, Iliade, Libro II, VV. 59-66, Trad. di Vincenzo Monti) Sul Romanzo

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Voglia di protagonismo

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Fuga verso il Jazz writing. Fitzgerald e Murakami a confronto di Pierfrancesco Matarazzo Quante volte vi è sembrato, nel bel mezzo della lettura di libro, di essere preda di un déjà vu, anzi di un déjà lu? Il protagonista che state pedinando si è fermato a compiere un’azione che vi ha richiamato alla mente un suo predecessore, descritto con maggiore limpidezza, sarcasmo, coraggio o semplicemente maggiore padronanza semantico-sintattica? Bene, se vi siete imbattuti in questa incresciosa sensazione, siete lettori dotati di una memoria selettivo-giudicante-affettiva; ossia, siete in grado di scegliere cosa ricordare delle vostre letture, selezionando le scene e i protagonisti che vi hanno costretto a un giudizio, a causa del quale avete deciso se concedere a questi “caratteri” una piccola parte della vostra memoria, della vostra gratitudine e, in alcuni rari e luminosi casi, del vostro affetto. Da quel momento in poi, ogni nuovo personaggio in cui vi sarete imbattuti

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1 si sarà dovuto conquistare la sua ribalta attraverso uno spietato confronto con uno dei vostri personaggi preferiti e, solo dopo essere sopravvissuto a tale esame, avrà potuto ambire al ruolo di protagonista (almeno per voi). Questa rubrica nasce per parlare proprio di questo processo selettivo e dei personaggi-protagonisti che potrebbero superare il vostro esame o almeno tentare di confrontarsi con alcune delle vostre prove; protagonisti in cui immedesimarvi o da cui fuggire per tutta la durata della storia in cui starete entrando, ingombranti, poliedrici, goffi, carismatici, sui quali il narratore avrà costruito la sua storia; ogni altro personaggio, azione, sequenza sarà stata scritta per permettere al protagonista di arrivare alla fine della “sua” storia, della “vostra” storia, se il narratore sarà stato così abile da farvene sentire parte integrante.

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Per il primo numero di questa rubrica, propongo un confronto fra due protagonisti, che, forse, non lo sono fino in fondo, poiché entrambi sembrano subire l’azione più che generarla. Entrambi saranno protagonisti di eventi cruenti, che cambieranno la loro vita e quella dei personaggi con cui entreranno in contatto, eppure in tutte le loro scelte o la loro assenza, sembreranno in continua attesa di un risolutore esterno, che non giungerà mai. Parliamo di Jay Gatsby (all’anagrafe dei protagonisti solo James Gatz) e di Kafka (all’anagrafe dei protagonisti Tamura), personaggi principali di due romanzi che hanno portato alla ribalta i loro creatori, rispettivamente Francis Scott Fitzgerald con Il grande Gatsby (prima edizione 1925) e Haruki Murakami con Kafka sulla spiaggia (prima edizione 2002). Per entrambi i protagonisti, il nome proprio non è sufficiente, va cambiato o, nel caso di Kafka, addirittura annullato, tanto che non scopriremo mai il suo vero nome nel corso del romanzo, ma solo il cognome (Tamura, appunto). La scelta di Fitzgerlad e Murakami di creare, per i loro personaggi, un nome formale a cui sostituirne uno sostanziale, che rappresenti al meglio non la vera personalità del protagonista, ma quella che lui sente come la più vicina al suo essere, quasi mostra di volerci suggerire la presenza permanente di uno scontro fra la forza del protagonista e quella del suo creatore, che sembra non credere alle decisioni che il suo personaggio si propone di mettere in atto. Questa lotta si impone come la chiave di lettura di due opere apparentemente molto diverse (Il grande Gatsby ambientato negli anni Venti in uno scenario da upper class newyorkese degno di un film di Woody Allen rispetto alla fuga di un ragazzino dal passato oscuro in un Giappone contemporaneo e borghese nel libro di Murakami) che possiedono, invece, la stessa sottotraccia, lo stesso unico desiderio piantato nelle azioni dei loro protagonisti: la fuga.

5 Fugge James Gatz da una famiglia contadina incapace di dargli quel dorato futuro a cui tende, quella diversità con cui potersi staccare definitivamente dalle sue ingombranti e pesanti radici contadine, tanto da inventarsi a diciassette anni un nome nuovo, un modo di essere nuovo, una parvenza di solarità e sicurezza a cui sarebbe stato fedele fino alla fine. Lo dichiara lo stesso Fitzgerald: «Fatemi dire una cosa su quelli molto ricchi. Sono diversi da voi e me»1. Diverso. È così che si vorrebbe sentire James, per questo diventerà Jay e per questo noi lo seguiremo attraverso le parole del suo presunto amico Nick verso un epilogo facilmente intuibile, incastonato in una storia banale. La storia, però, non è importante: è Gatsby che interessa al lettore; anche se rimanesse fermo a contemplare la piscina inutilizza1) Prefazione di Sara Antonelli, in Francis Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby, Minimum fax, 2011.

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1 - Uomo libri, di Luigi Fico. 2 - Jazz, di Andrea Briguglio. 3 - Reading, di Rachel Sian. 4 - Francis Scott Fitzgerald. 5 - Murakami Aruki. Sul Romanzo

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ta della sua grande casa, senza dire nulla, sarebbe ancora il protagonista, perché il lettore saprà esattamente come si sente. È toccato anche a lui (magari non in vestaglia di seta né ascoltando Duke Ellington) desiderare così tanto la diversità da non potersi più muovere, da sentirsi affogare, diversità che Fitzgerald sperimenta per noi, contorcendola in Gatsby, mostrandone tutti i pericoli e l’inevitabile fallimento. Cionondimeno, la ricerca di Gatsby, il suo ideale di donna, status sociale e vita, ci fa seguire ogni goccia di sudore che non viene descritta da Fitzgerald, eppure c’è. Fugge anche Tamura, il quindicenne protagonista del romanzo di Murakami che ha deciso di cancellare il suo nome di battesimo e sostituirlo con Kafka, fugge da un padre che non sente suo e che forse ha ucciso, fugge alla ricerca di una madre e di una sorella che non lo hanno voluto tenere con loro e che forse troverà, fugge per staccarsi da tutto e sentirsi finalmente diverso per i motivi giusti e non per quelli impostigli. Per farlo, si rifugia in un mondo onirico e ideale a cui si aggrappa, di cui ha bisogno, un incubo diverso dal suo e solo per questo migliore. Murakami sembra rammentarci in ogni passo compiuto dal suo protagonista che «la parte più profonda e intima dello scrivere un romanzo è connessa con l’andare e tornare da un altro mondo»2. Come in un sogno, Kafka Tamura porta con sé il lettore davanti a bivi interiori che hanno il solo scopo di fargli scoprire la sua diversità.

7 6 - Robert Redford in una scena del film Il grande Gatsby (1974), regia di Jack Clayton. 7 - Murakami Aruki. 8 - Francis Scott Fitzgerald.

Non c’è passato, non c’è futuro nei due protagonisti e nei loro narratori, solo presente. Presente in cui non si può fare a meno di concentrarsi sul proprio obiettivo di affrancamento. Se il pensiero corre ad un altro protagonista (Holden Caulfield de Il giovane Holden) che fugge e che cerca una strada diversa dalla gabbia sociale in cui si è trovato a far finta di crescere (Il Grande Gatsby è citato direttamente da Salinger e lo stesso Salinger è stato

oggetto di interesse fortissimo, quasi maniacale, da parte di Murakami che si è impegnato anche nell’ardua traduzione in giapponese), non si può non fare caso a un altro elemento che sovrappone i due protagonisti: il ritmo.

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Haruki Murakami ha sempre avuto una passione profonda per la musica (è stato musicista e ha gestito un locale di musica jazz) che, in molti dei suoi libri, non solo è citata, ma è usata come metafora precisa di uno stato d’animo. Pensate al dialogo sull’imperfezione della perfezione di Kafka Tamura con Oshima, il custode della biblioteca in cui il protagonista trova riparo durante la sua fuga, riferendosi alle sonate di Schubert: «E imparo che un certo tipo di perfezione è raggiungibile solo attraverso un’infinita accumulazione di imperfezioni. Io lo trovo incoraggiante»3, oppure alla sensazione di spaventosa continuità che Kafka Tamura prova nel suo esilio sulle montagne, quando sembra aver realizzato per un attimo il suo ideale di solitudine da cui rinascere con un nuovo se stesso fra le mani: «Steso sul letto con le cuffie ascolto Prince – ascolta Little Red Corvette – Mi concentro su questa musica così stranamente priva di pause […] La musica scompare come se fosse stata inghiottita dalle sabbie mobili. Mi tolgo le cuffie e ascolto il n° 4 • Settembre 2012


silenzio. Il silenzio è una cosa che si ascolta. Lo scopro per la prima volta»4. Lo stesso Murakami ci dice che «le frasi hanno bisogno di avere ritmo. È qualcosa che ho imparato dal jazz. Nel jazz, un grande ritmo è ciò che rende possibile grandi improvvisazioni sonore. Ma per mantenere un grande ritmo non deve esserci un eccesso di peso […] Tu devi tagliare il grasso in eccesso»5. È questo che fa il protagonista di Murakami: taglia il grasso in eccesso delle nostre emozioni, costringendoci, spesso, ad arrivare in fondo ai nostri malumori. Quando si parla di jazz, si sta parlando inevitabilmente de Il Grande Gatsby, che, pur non prestando la stessa attenzione di Murakami a specifici brani, vive in un costante ritmo sincopato, jazz naturalmente (siamo, d’altronde, nel pieno dell’esplosione di band come quella di Fletcher Henderson, del “bianco” Paul Whiteman e del giovane e superbo Duke Ellington), tanto che molte delle carrellate che Fitzgerald ci regala sembrano solo una lavorazione continua, in attesa che il ritmo cambi per mostrarci cosa sta facendo Jay Gatsby. Saliremo sulla sua splendida macchina color crema, illudendoci che sarà un viaggio breve e dalla meta conosciuta. Ci affideremo al suo ritmo, cullati dal calore dei sedili verdi, appena riscaldati da una giornata di maggio e dalle giuste coppie di aggettivi a massaggiarci la testa, dalle sublimi carrellate di emozioni e cappelli, degni dei migliori schizzi di Boldini, dalla certezza che con Jay Gatsby saremo sempre al sicuro, perché nessuno oserà mai fermare la sua storia. Sarà allora che il narratore cambierà marcia, di scatto, senza preavviso, costringendo il

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lettore a reggersi con forza, rischiando di graffiare con le unghie i sedili di pelle verde e con essi le proprie idee sui pensieri del nostro protagonista. «Tom fece uno squillo al portiere e lo spedì a comprare certi panini, a quel che pareva assai rinomati […] Avevo voglia di uscire e fare una passeggiata verso il parco […] ogni mio tentativo di andarmene finiva per impigliarsi in una discussione molto accesa e mi ritrovavo costretto alla sedia. […] Mi trovavo dentro e fuori al contempo, incantato e disgustato dall’inesauribile varietà della vita.” […] Tom Buchanan e la signora Wilson si ritrovarono in piedi a discutere sul diritto della signora Wilson di fare il nome di Daisy. «Daisy! Daisy! Daisy» gridò la signora Wilson. «Lo dico quando e quanto mi pare! Daysy! Dai…» Con un movimento agile e veloce della mano aperta, Tom Buchanan le ruppe il naso»6. Tutto accade in una manciata di righe. Il ritmo, morbido, a tratti malinconico, si trasforma in un colpo violento, che ci destabilizza e ci assorbe, costringendoci a sperare nella comparsa del nostro protagonista, a cui siamo legati; noi, però, senza possibilità di fuga.

2) Jay Rubin, Haruki Murakami and the music of words, Vintage Books, Random House, Londra, 2005. 3) Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia, Giulio Einaudi editore, 2008. 4) Ibidem. 5) Jay Rubin, Ibidem. 6) Francis Scott Fitzgerald, Ibidem, pagg. 76-78.

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La peste di Albert Camus: quando l'umanità risorge dalle proprie ceneri di Davide Ecatti

Subito dopo la pubblicazione, nel 1947, La peste di Albert Camus conobbe un grande successo di critica e pubblico. La coralità del romanzo e la profondità con cui le relazioni umane vengono analizzate e rappresentate colpirono il grande pubblico. La critica considerò quest’opera come una specie di punto d’arrivo in cui la riflessione filosofica ed esistenziale del grande scrittore francese trovava l’occasione perfetta per misurarsi con le passioni, i dubbi, le sofferenze, le angosce di un’umanità costretta a confrontarsi con la morte in una città isolata dal mondo a causa di una terribile epidemia. Albert Camus aveva riconosciuto in se stesso, già a diciassette anni, la volontà di diventare scrittore e l’aveva coltivata combattendo con le difficoltà di una condizione di povertà, aggravata anche dalla morte del padre in guerra nel 1914. Già i saggi riuniti ne L’envers et l’endroit, nel 1937, esprimono una riflessione di ordine morale e filosofico. La vita quotidiana viene analizzata in un continuo confronto con una lotta per la conquista della propria identità rispetto alla fredda indifferenza del mondo, il cui unico dono di certezza sembra essere la morte. Il tema dell’assurdità e dell’estraneità del mistero della vita rispetto al mondo permea tutta l’opera di Camus. Nel romanzo La mort heureuse, pubblicato postumo nel 1971, la concezione e l’esecuzione di un omici1 - Albert Camus.

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dio si rivelano di un’immediatezza tragica, come se l’oscurità del significato dell’esistenza potesse concedere all’uomo ogni libertà, tanto da rendere facile ogni crudeltà o delitto; eppure non siamo ancora al postulato della totale estraneità dell’individuo rispetto all’universo. Ne La mort heureuse, il delitto è ancora parzialmente legato a un movente la cui logica, per quanto condannabile, non getta l’assassino in un’indifferenza assoluta rispetto al male e al bene: i soldi sembrano riservare almeno l’illusione di una parvenza di significato. Il delitto diventerà, invece, pura espressione di estraneità e indifferenza nel romanzo L’étranger (1942) in cui l’omicidio è senza movente e appare come pura ribellione a un significato esistenziale impossibile. La problematica dell’estraneità del mondo è ben presente anche nel romanzo La Chute (1956) in cui il protagonista riconosce la falsità della propria esistenza, ma è così intriso di egocentrismo da non riuscire a trovare l’umiltà di combattere e lottare per conquistare un significato. Nel saggio Le Mythe de Sisyphe (1942) e nell’opera teatrale Caligula (1944), la problematica dell’assurdo trova piena e totalizzante espressione. Spesso le tre opere L’étranger, Le Mythe de Sisyphe e Caligula sono associate in una sorta di trilogia dell’assurdo. Nelle loro pagine molti hanno visto una riproposizione di una formula sinistra e angosciante tradizionalmente attribuita

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a Fëdor Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: se Dio non esiste allora tutto è permesso. Va, però, ricordato che Slavoj Žižek ha notato come tale frase non sia presente nel romanzo del grande scrittore russo, mentre sia rintracciabile, per la prima volta, ne L’essere e il nulla di Jean Paul Sartre. Perché questa digressione su queste parole così famose? Non c’è alcuna volontà di effettuare una ricostruzione filologica, ma è molto significativo che sia proprio con Jean Paul Sartre e Les Temps modernes che Albert Camus entrerà in contrasto, dopo un lungo sodalizio, quando assume una posizione di lotta contro l’indifferenza e l’estraneità dell’universo. Nel grande saggio L’Homme révolté (1951) si assiste a un passaggio della riflessione di Camus dalla filosofia alla storia, dalla constatazione dell’assurdo all’impegno per combattere l’assurdo e costruire un significato. Ne La Peste (1947), troviamo il pieno compimento di questo fondamentale sviluppo. Probabilmente, non si tratta nemmeno di uno sviluppo, ma di una radice già presente nella riflessione camusiana e che attendeva di trovare piena maturazione. Il ciclo della rivolta e di conseguenza La peste non possono essere dissociati dall’impegno politico dello scrittore francese. I suoi articoli su Alger Républicain e Le Soir Républicain tra l’ottobre del 1938 e il gennaio del 1940, in particolare l’importante reportage intitolato Misère de la Kabylie,

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mostrano che le sue parole vogliono essere delle modalità d’azione. La sua entrata nella resistenza, le Lettres à un ami allemand e gli editoriali di Combat, di cui Camus sarà redattore fino al 1947, testimoniano un’evidente presa di coscienza della storia e della lotta per cambiare il suo corso, in nome della giustizia, della libertà, della democrazia e del rispetto per la dignità dell’uomo. Ecco, dunque, il contesto in cui La Peste trova la sua genesi. Già nel settembre del 1939 Camus scrive nei suoi Carnets: «La guerra è scoppiata. Dov’è la guerra? Dall’istante in cui la guerra “è”, ogni considerazione che non la prenda in esame è falsa. Ecco perché, per quanto ignobile sia questa guerra, non è permesso sentirsene al di fuori». Forse Camus pensò di riprendere queste parole per il romanzo stesso come testimonia una pagina manoscritta in cui la parola peste sostituisce la parola guerra. Dun-

che nella loro salute: è un tragedia a tutti gli effetti anche nella sua struttura classica in cinque parti. Il linguaggio assume un ruolo fondamentale. L’alternanza tra narrazione e dialogo non corrisponde solo all'esigenza di evitare la monotonia, ma anche a un progressivo tentativo di dire qualcosa che solo con il procedere degli eventi può trovare piena espressione. All’inizio, le autorità si rifiutano di chiamare la malattia con il suo nome, quasi che una verità non affermata possa risultare meno grave. Il non detto trova piena cittadinanza nei diversi divieti. Le relazioni telefoniche non sono più permesse, le lettere non possono più essere consegnate, le comunicazioni verso l’esterno sono strettamente controllate. È la trasposizione esatta delle limitazioni imposte dall’occupazione tedesca che Camus conobbe molto bene. Ma i sentimenti, le passioni, gli amori, spinti sull’orlo della fine,

que, non è permesso sentirsi estranei alla peste, è necessario lottare per sconfiggerla. Ogni altra azione sarà priva di verità, almeno di una verità storica, morale, sociale, a meno che non ci si voglia rifugiare nella speculazione di una filosofia lontana dalla realtà. Nel romanzo sulla tragedia di Orano, siamo a tutti gli effetti nella storia, non certo per i fatti narrati in quanto tali o per i personaggi considerati nella loro individualità, ma per l’atteggiamento morale dello scrittore dinanzi alle sofferenze umane e alla necessità dichiarata di rispondere con l’impegno. È una storia collettiva che si rivela fin dalle prime parole. Espressioni come «l’avis general», «notre petite ville», «on ne peut plus vivre», «on y meurt», «on s’y ennuie», testimoniano un punto di vista complessivo che si rafforza con l’avvicinarsi della morte ai personaggi, insidiati nella loro singolarità, prima ancora

si ribellano a un linguaggio che sentono sempre più vuoto e incapace di donare loro espressione. Avvengono fenomeni strani: quei coniugi che erano in crisi trovano all’interno della città assediata nuovi urgenti motivi per ritrovare quell’amore che non sapevano riconoscere e ogni occasione per comunicare oltre il convenzionale codice quotidiano acquista all’improvviso un valore inestimabile. La storia, condotta per mano dalla tragedia sull’orlo della catastrofe, ritrova il proprio significato umano. La questione del rapporto tra linguaggio e verità è posta con chiarezza fin dall’inizio. Il giovane giornalista Rambert domanda al dottor Rieux se può scrivere tutta la verità poiché egli non ammette limitazioni nelle sue cronache. Ritroviamo qui lo stesso atteggiamento del giornalista Albert Camus nei suoi articoli su Combat o nel reportage Misère de la Kabylie. Il medico lascia intendere che il potere

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della parole è troppo grande e una cronaca fedele, per quanto sincera, può essere pericolosa per la drammaticità delle situazioni che sarebbe obbligata a raccontare. Già nel Caligula l’autore aveva fatto sperimentare la potenza mortale delle parole ai suoi personaggi. Ne La peste, la problematica assume un carattere più generale. Più volte i discorsi delle autorità appaiono come la riproduzione dello stesso concetto del tutto insufficiente a rappresentare la gravità della situazione. È facile avvertire un’efficace ironia e una denuncia verso quei comunicati che servono il potere, ma non la verità. D’altra parte, i giornali sono spesso oggetto dell’ironia del dottor Rieux. Grazie agli appunti di uno dei personaggi, Jean Tarrou, il lettore conosce con precisione alcuni articoli del Courrier de l’épidémie. Il giornale è presentato con una satira pungente che probabilmente vuol colpire l’atteggiamento servile

I due si allontanano mentre una sirena annuncia la distribuzione del pasto con due vetture elettriche. L’amministratore dell’impianto si avvicina orgoglioso e afferma che tutto è scientifico, mentre Tarrou commenta che bisognerebbe aiutare quel povero giudice e poi aggiunge: «ma come aiutare un giudice?». Il romanzo accoglie diversi registri del linguaggio per contestare una certa convenzionalità vuota. La peste conduce il lettore in una riflessione sull’atto dello scrivere che l’autore non separa mai dall’elaborazione dell’opera stessa. Costituisce, in questo senso, una testimonianza importante del valore che questo atto può avere. Esempi significativi di questa scrittura elaborata di continuo sono il passaggio, durante la narrazione, dalla terza persona plurale alla prima plurale e la prima sequenza della seconda parte già pubblicata nel 1943 in una

della stampa durante l’occupazione, atteggiamento di cui Camus fu diretto testimone e contro il quale si batté con coraggio. Ma non è solo questo il linguaggio che non aiuta la popolazione. La prima predica di padre Paneloux è presentata come una parodia del linguaggio religioso e dei suoi peggiori cliché. Le immagini terrificanti che il sacerdote evoca non fanno che aumentare l’angoscia della popolazione senza costituire una valida guida spirituale. Anche vari riti sociali spesso allontanano dalla verità interiore dell’uomo. Un episodio è rappresentativo: due personaggi, Tarrou e Rambert, si recano a trovare un giudice seduto sugli spalti di uno stadio dove i malati sono riuniti per le cure. Il giudice, con fatalismo, domanda informazioni sulla morte di suo figlio. Tarrou lo rincuora come può, rassicurandolo che il figlio non ha sofferto.

raccolta di Combat, Domaine Français con il titolo Les exilés dans la peste. L’autore dimostrava una certa confidenza con il potere delle parole e il testo diventava partecipazione a una battaglia collettiva. «Da questo momento in poi si può dire che la peste fu cosa nostra, di tutti».

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2 - La Peste d'Asdod (part.), Nicolas Poussin, 1630-1631. Museo del Louvre, Parigi (F). 3 - Un ritratto di Albert Camus, dal web. n° 4 • Settembre 2012

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French Connection

Prove tecniche di traduzione: esperimento con Arthur Rimbaud di Angelica Gherardi

Arthur Rimbaud non avrebbe sfigurato nel precedente numero della Webzine sulla diversità sessuale e l’identità di genere, lui che tanto clamore e scandalo suscitò per la sua burrascosa relazione con Paul Verlaine. Ma il senso della mia odierna breve riflessione, prendendo spunto da quella che è forse in assoluto l’unica poesia che amo e che conosco a memoria, Ma Bohême, di Rimbaud appunto, è questo: si possono, e ha senso, tradurre le poesie? Cosa può cogliere davvero un lettore straniero di una poesia tradotta nella propria lingua? A parte per i bilingue o per gli eruditi, una poesia di Emily Dickinson o di Charles Baudelaire, o un sonetto di Shakespeare, danno al lettore italiano le stesse sensazioni che danno al lettore anglofono o francofono? E le traduzioni tendono a rispettare

Traduzione italiana dal sito sull’autore Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; E anche il mio cappotto diventava ideale; Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele; Oh! quanti amori splendidi ho sognato! I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio. Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo Rime. La mia locanda era sull’Orsa Maggiore. - Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru. Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore; Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre, Come lire tiravo gli elastici Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

1 - Arthur Rimbaud, ritratto da Étienne Carjat, 1871. 2 - Jeune garçon au gilet rouge, Paul Cézanne, 1888-89. Sullo sfondo - Un paio di scarpe, Vincent Willem van Gogh, 1886.

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più la metrica, la musicalità, o il senso? Non so dare una risposta a queste domande, ma so che Ma Bohème come tradotta in italiano non mi trasmette ciò che mi trasmette in versione originale e che, peraltro, io non l’avrei tradotta allo stesso modo. In realtà, ho trovato numerose traduzioni un po’ diverse tra loro: le opere di Rimbaud non sono più protette da diritti d’autore e qualsiasi casa editrice può pubblicarle, facendole tradurre da un traduttore di sua scelta. Nessuna di queste traduzioni, però, mi sembra giusta, anche perché, date le domande che mi sono posta, temo che non ci possa essere una traduzione perfetta. Per la mia analisi ho scelto di prendere quella trovata sul sito http://www.arthurrimbaud.it, perché mi è sembrato il più attendibile e possiede una buona bibliografia.

Versione originale

Mia traduzione

Je m’en allais, les poings dans mes poches crevées ; Mon paletot aussi devenait idéal : J’allais sous le ciel, Muse ! et j’étais ton féal ; Oh ! là ! là ! que d’amours splendides j’ai rêvées !

I pugni nelle tasche rotte me ne andavo; Anche il mio paltò era diventato un ideale; Andavo sotto al cielo, Musa! Ed ero il tuo amico fedele; Oh! Quanti amori splendidi ho sognato!

Mon unique culotte avait un large trou. – Petit-Poucet rêveur, j’égrenais dans ma course Des rimes. Mon auberge était à la Grande-Ourse. – Mes étoiles au ciel avaient un doux frou-frou.

I miei unici calzoni avevano un largo buco. – Pollicino sognante, snocciolavo nella mia corsa Delle rime. Il mio riparo era all’Orsa Maggiore, – Le mie stelle, in cielo, avevano un dolce fruscio.

Et je les écoutais, assis au bord des routes, Ces bons soirs de septembre où je sentais des gouttes De rosée à mon front, comme un vin de vigueur ;

E io le ascoltavo, seduto a bordo strada Quelle belle sere di Settembre in cui sentivo le gocce Di rugiada sulla mia fronte, come un vino rinvigorente.

Où, rimant au milieu des ombres fantastiques, Comme des lyres, je tirais les élastiques De mes souliers blessés, un pied près de mon cœur !

Quando (1), rimando in mezzo a ombre fantastiche, Come fossero state lire, tiravo gli elastici Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore.

Nelle due traduzioni mancano le rime e nessuna delle due riesce a restituire l’anima dell’originale, ma credo la mia sia più fedele al testo e al senso di esso, oltre a non esservi errori. Ad esempio, (1) où, con l’accento, in francese significa dove, mentre ou, senz’accento, significa o, oppure. La prima traduzione non tiene conto di quest’accento, mentre io ho cercato di restituire il senso del dove con quando. Féal, in letteratura (cfr. il Larousse Francese) sta per amico fedele, e non c’è dubbio che “ero il tuo amico fedele” abbia più senso di “ero il tuo fedele”. “Sgranavo rime”, traduzione letterale,

in italiano non ha significato: le parole, e quindi le rime, si possono snocciolare, non sgranare. Alcune parole usate nella prima traduzione, quali “sfondate” o “squarcio”, mi risultano ben poco poetiche e rendono meno il senso originale. E cos’è “un vino di vigore”? O un “fru-fru”? E così via. Ma tutto ciò rende la mia traduzione “buona” abbastanza? Ne dubito. La risposta alla fine che do alle mie domande iniziali è la seguente: la poesia non si può tradurre, va gustata in lingua originale o non va somministrata.

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Il nichilismo di Nietzsche secondo Martin Heidegger di Maria Antonietta Pinna

1 Nietzsche definiva il nichilismo «un ospite inquietante» che ormai è impossibile mettere fuori dalla porta. Il filosofo della destrutturazione totale dei sistemi comprese appieno l’ineludibilità di un movimento storico attraverso il quale il soprasensibile strumentalizzato perde potere e senso, se sottoposto alla critica luce della ragione. La parola nichilismo venne usata per la prima volta da Friedrich Heinrich Jacobi in una lettera a Fichte, nell’autunno del 1799: «In verità, mio caro Fichte, non deve infastidirmi se lei, o chicchessia, vuole chiamare chimerismo quello che io contrappongo all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di nichilismo…». Il termine si diffuse più tardi ad opera di Turgenev, per denominare la concezione secondo la quale soltanto l’ente percepito dai sensi è reale. Quindi, si negano l’autorità, la tradizione e la religione fondata su dati sovrasensibili che non è possibile esperire di persona. Il dio cristiano perde, dunque, il suo potere sull’ente e muore. Può anche darsi che qualcuno creda ancora a questo Dio e lo ritenga “reale”, “efficace” e “determinante”. «Ciò assomiglia a quel processo per cui la parvenza luminosa di una stella spenta da millenni continua a rilucere, ma rimane una mera parvenza». La morte di Dio avvia, in realtà, l’inizio di un’epoca nuova. «Le scene del teatro del mondo possono anche rimanere per qualche tempo quelle vecchie, ma il dramma che si sta recitando è già un altro». L’annientamento dello status quo dominante e accettato per convenzione non si profila come perdita e mancanza, ma piuttosto è indice di liberazione catartica. Cadono i fini dell’ente, il velo si squarcia mettendo a nudo una distruzione attiva, una trasvalutazione di tutti i valori assoluti e accettati.

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Martin Heidegger, in un corso tenuto all’Università di Friburgo, nel secondo trimestre del 1940, si chiedeva che cosa ha a che fare il nichilismo europeo, ossia occidentale, con i valori e la loro svalutazione. Il rapporto tra dinamica destrutturante e valori non poteva non essere indagato. Il termine nichilismo contiene la parola latina nihil, niente, che indica una non presenza, un non-essere giustificato in senso ontologico e non assiologico. Il niente che non pretende di essere compreso è semplicemente la negazione incondizionata e totale di tutto ciò che è. Nietzsche non cerca di sprofondare nella meccanica del niente per comprenderla in tutta la sua logica non essenza. Egli non è capace di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin da subito soltanto in base al pensiero del valore che è ente determinato. La domanda sul niente, se mai sia possibile cercare o anche solo trovare il niente, non è importante per Nietzsche; egli non la prende sul serio, lasciandola inesplicata: «si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale». In pratica, o il niente è nullo oppure dev’essere un ente, autaut. Dal momento che il niente non può essere un ente, rimane a rigor di logica soltanto l’altra possibilità: il niente è assolutamente nullo. La risposta non è, però, così semplice. C’è, infatti, anche la n° 4 • Settembre 2012


possibilità che il niente non sia ente, ma nemmeno qualcosa di nullo. Non ci sono soluzioni, dunque. Il niente non ha la necessità di essere capito e il nichilismo sarebbe il non pensare all’essenza del niente. Nietzsche, evitando di tediarsi con l’indagine sul niente, lo collega direttamente al concetto di valore, costruendolo come sua negazione necessaria per la storia della metafisica, nocciolo della filosofia occidentale. Si avverte un potente “vuoto di senso”, lo “spreco delle forze”, il “tormento dell’invano”, la lucida consapevolezza che nei valori costituiti si nasconda un’assenza, un vuoto illogico, il nulla puro e crudo senza scopo: la sensazione di essersi per tanto tempo ingannati circa la verità contenuta nello stabilito è forte. Allora, si cerca di pensare non in termini di scopo, ma di unità. L’uomo avverte l’esigenza di dipendere da un tutto a lui superiore. Il bene universale presuppone l’abbandonarsi del singolo: una sorta di sistematizzazione, di ordine che ci fa stare tranquilli, per cui l’unità dipende da forze superiori universali; peccato che queste forze non ci siano, sono nate dal parto fantasmatico dell’uomo. Egli, per poter credere nel proprio valore, ha avuto bisogno della totalità infinita. Si tratta di un’esigenza naturale e fallace. A questo punto, se il divenire non deve raggiungere niente, se sotto questo divenire una grande unità o totalità sistematizzata e sicura da cui l’uomo può dipendere non c’è, si potrebbe costruire un mondo nuovo come unico mondo vero. Anche in questo caso, tuttavia, il mondo scaturirebbe da meri bisogni psicologici; da qui nasce l’incredulità per un mondo metafisico: «dalla postulazione di un mondo vero come mondo di ciò che è in sé, che permane, al di sopra del mondo falso come mondo del mutamento e della parvenza, scaturisce una terza forma di nichilismo, quando l’uomo si accorge che Sul Romanzo

3 1 - Brush drawing of German philospher Martin Heidegger, Herbert Wetterauer, 2010. 2 - Friedrich Nietzsche, Edvard Munch, 1906, Munch-museet, Oslo, (N). 3 - Illustrazione da The Doubtful Guest, Edward Gorey, 1957. 4 - Studente nichilista, Ilya Yefimovich Repin, 1883. State Russian Museum, San Pietroburgo (RUS).

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questo mondo vero, il trascendente e l’aldilà, è fabbricato soltanto in base a bisogni psicologici». Dunque, non si può interpretare l’esistenza sulla base concettuale di scopo, unità o verità. Nella molteplicità degli avvenimenti non c’è uno scopo o una unità che informi tutto di sé. Lo scopo, ossia ciò da cui tutto deve dipendere, diventa caduco. L’unità come onnidominante unione, ordinamento e articolazione di tutto in relazione a uno, viene svelata nel suo non-essere. L’esistenza non è basata su un principio di verità, ma nel suo contrario. Le categorie scopo, unità e verità su cui si è costruita l’impalcatura dei valori condivisi vengono estratte dall’edificio dei valori stessi e messe a nudo impietosamente come dimostrazione di assenza dei valori cosmologici. Naturalmente il cosmo non cade, è soltanto liberato dalla valutazione mediante i valori: una catarsi, una nuova visione che guarda l’agonizzante Dio crollare con l’assolutezza. “L’uomo buono”, “modesto”, “diligente”, “benevolo”, “moderato” è lo “schiavo ideale”. La sua morale è l’origine dei valori supremi a cui si sottomette senza sapere niente. Trattasi di un “iperbolico ingenuo” che accetta scopo, unità, totalità e verità come se gli cadessero dall’alto. L’ingenuo sa solo che deve inchinarsi, sottomettersi, non indaga l’origine dei valori, non sa che provengono dalla volontà di potenza. L’uomo rimane prigioniero dell’ingenuità fino a che non assume la consapevolezza di essere il senso e la misura dei valori 5 - Rebell, Georg Baselitz, 1965. Tate Modern, Londra (UK).

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da lui condizionati e trascinati dal nichilismo dal cielo sulla terra nuda. L’ingenuità è difetto di volontà di potenza perché non sa che la conoscenza per mezzo dell’uomo e a sua immagine è l’unico modo per capire il mondo. Il difetto dell’ingenuità non è l’antropomorfizzazione dell’oggetto, bensì il fatto che tale processo di antropomorfizzazione non sia consapevole. Il passaggio da una condizione di miserabile schiavitù all’atto di potenza è la vittoria della ragione, il dominio dell’oltreuomo. Egli supera la condizione umana quale si è avuta finora, sceglie volontà, consapevolezza e cogito di matrice Cartesiana e Protagorea. Il percorso che porta all’estrazione di scopo, unità ed essere dall’edificio dei valori fino alla svalutazione, in nome dell’uomo e per l’uomo che pensa, offre una destrutturazione attiva. Il pensiero diventa capace di superare il dogma. Il nichilismo ha collocato i valori sul tavolo d’acciaio e li ha sottoposti ad autopsia. Il risultato di questa indagine è l’abbattimento di ogni certezza, la lucida e forte capacità di sfuggire alle imposizioni dall’alto. Gli ultramondi disegnati dalla religione dei padri sprofondano nell’abiezione del non-sense. Le promesse di paradiso ed inferno si svalutano di fronte al sillogismo della libera mente pensante. Le verità certe per tradizione marciscono di fronte al corpo nudo del tempo aperto dalla chirurgia del filosofo. I sistemi cadono, rimane soltanto la pura volontà di potenza. --Le citazioni sono tratte da Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi.

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Impronte di vita

Diversità, l'identità negata. Intervista a Giovanni Montanaro di Alessia Colognesi

1 - Giovanni Montanaro. 2 - Autoritratto con orecchio bendato, Vincent van Gogh, 1889. Courtauld Gallery, Londra (UK).

Perché hai deciso di scrivere della diversità? Lavoro nel sociale e leggo romanzi per passione. La vita è pratica comune e osservazione stupita della diversità che, nel tempo, ho imparato a leggere. Le mie storie sono ovunque e raccontarle è una necessità, quando si stagliano come impronte di vita davanti a me. È successo così anche per Tutti i colori del mondo (Feltrinelli, 2012): nella lunga e intima lettera di uno dei romanzi ammessi alla cinquina del Premio Campiello 2012 si nascondeva la diversità. Di questo ho voluto parlare con Giovanni Montanaro, un giovane e promettente autore italiano che, partendo da una ricerca storica, ha saputo scandagliare l’animo umano grazie alla levità della sua scrittura.

Non si decide mai cosa scrivere. Le storie capitano. Non c’è dubbio, però, che, se c’è un filo conduttore tra le cose che ho scritto nella mia vita, è che in ogni romanzo c’è sempre la necessità di liberare qualcuno, qualcosa. Sono personaggi che lottano per ritrovare se stessi. È nella ricerca dell’identità che, in fondo, sta la radice della diversità. Perché ognuno di noi è diverso. Perché ogni cosa ha un suo colore. Cos’è per te la diversità e perché hai deciso di scriverne documentandoti sulla vita di van Gogh e costruendo le radici del tuo romanzo a partire da un luogo realmente esistito Gheel e dalla figura carismatica di van Gogh? Quando è arrivato van Gogh, quando è arrivata Gheel, ho capito che di questo, questa volta, dovevo narrare. Di quel confine che ognuno di noi crea tra ciò che è normale e ciò non gli sembra normale, tra ciò che siamo e ciò che non siamo noi. Quel confine che abbiamo tutti, e che Teresa Senzasogni, il personaggio che più amo, spalanca in tutti noi, io credo, tramite il suo destino e la sua voce. Dire che la diversità è la base di ciò che è creato è una banalità, ma forse è meno banale ribadire ogni giorno che questo è un bene, è una cosa buona.

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Nel tuo romanzo, tra i protagonisti si instaura una relazione senza parole a cui Teresa, protagonista femminile e unica voce narrante, decide di dar voce in un flusso di coscienza che si esprime in una lunghissima lettera. Perché hai usato la forma di scrittura così intima? Grazie alla mia fidanzata che, lette le prime bozze scritte in terza persona, mi ha detto che questa storia doveva essere narrata in prima. Che doveva dirla Teresa, perché altrimenti non sarebbe stata la storia che doveva essere. E allora l’ho fatto, e mi è venuto spontaneo, bello; essere Teresa, diventare una ragazza di quindici anni che vive nel 1880 belga, che incontra un vagabondo che non è nessuno eppure è Vincent van Gogh. E poi ho capito, dopo, che non poteva essere altrimenti; van Gogh parlava poco e scriveva moltissimo. L’unico modo per entrare in relazione con lui era scrivergli una lettera, come anche lui faceva. Oltre che, ovviamente, cercare nelle sue tele. Nei suoi quadri. «Avete cominciato ad andare su e giù con la matita, e non c’era nessuna parola che potesse riempire il foglio in quel modo, che potesse seguire quelle linee, non ci sono frasi che si scrivono così grandi, e poi di nuovo vi si è acceso lo sguardo, quello

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del giorno prima, oltre il vetro della finestra, quello che mi piaceva davvero […] E allora ho capito. E penso sempre che sì, quello è stato il giorno in cui, senza saperlo, ho cominciato a innamorarmi di voi.» Leggendo Tutti i colori del mondo si scopre lentamente l’identità di van Gogh che si esprime nei colori dei suoi dipinti, colore che inizia ad usare solo a 27 anni mentre prima disegnava solo a matita. Cos’è il colore per van Gogh e perché il tuo libro s’intitola Tutti i colori del mondo? Questo è il dato che non ricordavo e che, studiando van Gogh, mi ha sorpreso. Uno dei più grandi pittori della storia dell’umanità fino a ventisette anni ha fatto tutt’altro, non ha messo un colore sulla tela. È una cosa quasi unica; è capitato a Gaugin, poi non mi viene in mente nessuno. Ma quel che accade a van Gogh è, secondo me, più profondo: nei colori ha capito che doveva esprimersi attraverso il mondo, doveva ritrarsi nelle sedie, nei carciofi, nelle barche. I colori sono stati la via possibile per spalancare la sua differenza. Per far deflagrare di speranza il suo destino terribile, cupo. Il titolo non l’ho scelto io (sono una frana nei titoli), ma era esattamente quello che volevo dire. I colori di van Gogh, le diversità di Teresa, le sfumature della follia. Sì, ho cercato di raccontarli tutti, i colori. Sul Romanzo

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Prima di scrivere il tuo nuovo romanzo ti sei documentato molto? Quanto conta per Giovanni Montanaro, avvocato e romanziere, l’attinenza col mondo reale e con la società che rappresenta? Moltissimo. Ho atteso anni, prima di scriverlo. Ho passato notti tribolate, perché non trovavo la storia. Ho continuato a studiare, a cercare, a scavare. E poi finalmente è arrivata, la storia come la dovevo raccontare. Il mio rapporto con ciò che scrivo è, contemporaneamente, ossessivo e distaccato. Vivo la vita reale, tengo fede agli impegni che prendo e al lavoro che svolgo, ma al tempo stesso uno spazio di me è sempre continuamente ossessivamente alla ricerca della storia, del libro. C’è proprio una parte di me che è cava, e soffre quando è vuota. Non ne parliamo di quando si svuota. 3 - Testa di donna, Vincent van Gogh, 1883. Kröller Müller Museum, Otterlo (NL).

Volevo dare voce a lui, a Vincent. E così l’ho cercato, ho cercato l’uomo, arruffato, aggressivo, malinconico. Ho capito che nelle lettere non sempre è sincero, lo è solamente nei quadri. Ma capita anche a noi. Tutti abbiamo uno spazio dove siamo noi stessi, e basta. E in fondo nessuno, anche chi ci sta vicinissimo, lo conosce davvero. Il paradosso di van Gogh e degli artisti è che questo spazio è la sua arte, la cosa più “pubblica” che ha è in fondo anche quella più intima. «Nel paese dei matti […] Fanno male, le parole. Certe volte sono così esatte che diventano lame, lame che tagliano, che fanno sanguinare, che si conficcano nella carne. […] Pazzo. C’è sempre qualcuno che lo dice, prima che uno cominci a dirselo da solo». Da bambino, van Gogh colleziona coleotteri e li lega insieme, la vita è una strada sempre in salita e in questa vita terribile van Gogh venderà solo un quadro e otterrà un’unica recensione intitolata gli “isolati”. In quel titolo c’è la sua solitudine, quale sentimento ti ha accompagnato nella stesura di questo libro e quale emozione hai deciso di imprimere nelle pagine di Tutti i colori del mondo? Nello studio, nel momento prima della scrittura, mi hanno accompagnato la paura, il senso di un vuoto da riempire, ma anche il dubbio di non essere in grado, di stare sbagliando storia, di non essere onesto con me stesso. Dentro la scrittura, una grande assorbente sensazione di esserci, di essere lì, di essere Teresa, di avere visto un giovane di ventisette anni che si chiama Vincent e puzza un po’, di finire dentro i corridoi bianco-arancio di Saint-Rémy. Il momento della scrittura è assoluto come un silenzio tra i monti. Ma io poi cerco le persone che mi stanno intorno, le faccio leggere. Ognuna di loro lascia qualcosa. Ci sono io, ma ci sono anche tanti altri, dentro ogni frase, parola, descrizione. Come anche dice Teresa a van Gogh, non esiste il giallo ma esiste la cerata di Vincent, non esiste il bianco, ma il colore della camicia del fratello Theo, e via così.

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In un’intervista hai dichiarato che di van Gogh si sa molto perché lui ha scritto molto, lettere alla famiglia, al fratello e alla sorella dove descrive il mondo e ciò che gli accade, ma non esprime mai sé stesso tranne che nei suoi quadri. Com’è nata in te l’idea di dar voce ai suoi quadri con un romanzo?

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Quale costernazione regnava nell'animo mio in quell'orribile pomeriggio! Avevo il cervello in tumulto e la rivolta nel cuore. Ma in quale oscurità, in quale densa ignoranza veniva combattuta la mia battaglia mentale! Non sapevo rispondere alla domanda che senza posa mi ponevo: perché dovevo soffrire così? Ora, a distanza di – non voglio dire quanti anni – lo capisco e chiaramente. (Charlotte Brontë, Jane Eyre, 1847) Sul Romanzo

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Meridione d'inchiostro

Le ceneri della società dei mass media Intervista a Giancarlo Liviano D'Arcangelo

di Giovanni Turi

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1 - Giancarlo Liviano D'Arcangelo. 2 - Mike Bongiorno.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo è redattore di Nuovi Argomenti e, dal dicembre scorso, cura, sul sito internet de L’Unità, il blog Due per due = cinque, che si occupa prevalentemente di mezzi d’informazione e temi sociopolitici. Ha esordito nel 2007 con Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod), che già rivelava il suo interesse precipuo per l’universo dei mass media e per la sua influenza sulle dinamiche comportamentali, non mancando i riferimenti alla realtà stantia della provincia pugliese, in cui D’Arcangelo ha trascorso la giovinezza. Il romanzo ruota intorno alla provocazione di un reality show per aspiranti suicidi, il Golden Death, a cui partecipa un giovane italiano, Alex: l’unico concorrente la cui brama di morte non ha apparenti motivazioni (tra gli altri contendenti, vi sono un malato di AIDS e un condannato a morte); ovviamente, spetta al pubblico decretare con il televoto il vincitore, che potrà togliersi la vita in diretta. È evidente come la spettacolarizzazione della morte cui si allude appartenga più alla nostra quotidianità che non all’universo dell’improbabile e che D’Arcangelo si sia limitato a esplorarne le estreme conseguenze e a ribaltare, con il suo stile colto ed espressivo, i canoni del linguaggio televisivo, immediato e superficiale: quasi che la letteratura offra ancora la possibilità di un’analisi critica cui i cittadini-spettatori si stanno disabituando. È ancora indirettamente la morte, attraverso il trafugamento di una celebre salma, il fulcro della sua ultima pubblicazione, Le ceneri di Mike (Fandango, 2011); D’Arcangelo si è recato ad Arona subito dopo la sparizione del corpo di Mike Bongiorno,

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avendo intuito l’opportunità di poter analizzare l’Italia odierna a partire da una figura chiave del recente passato e dalla sua capacità di destare interesse anche dall’oltretomba, a conferma del sentire comune per cui l’apparizione televisiva conferisca una sorta di immortalità. L’autore nota come giovani e anziani non mostrino nessun imbarazzo dinanzi alle telecamere dei cronisti e sappiano esprimere tronfi le considerazioni opportune e generiche che ci si aspetta da loro: «Pensavo che la smania d’apparire in video fosse una peculiarità delle generazioni successive alla mia, cresciute con il credo dell’apparire, dell’esibizione del sé fino alla nudità assoluta, fisica e interiore […]. E invece anche gli anziani si difendono. È evidente che in pieno terzo millennio, […] dai tempi in cui proprio Mike Bongiorno, con Arrivi e partenze nel 1954, celebrò la nascita delle trasmissioni televisive, chiunque ha ormai interiorizzato il protocollo basico di come si fa a entrare e uscire dall’immensa iconosfera dell’attualità». Arona diventa l’occasione per osservare da vicino la provincia italiana, popolata da gente attenta prevalentemente ai propri interessi e incurante di quanto non la riguardi direttamente, se non per il breve estinguersi della scintilla emotiva che il sistema mediatico si compiace di innescare. Non vengono risparmiate nemmeno le nuove generazioni la cui progettualità si limita al da farsi per accrescere il proprio conto in banca. Le ceneri di Mike non è, dunque, solo un reportage, né un semplice saggio, anche perché spesso la narrazione prende il sopravvento e una figura intravin° 4 • Settembre 2012


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Come nascono il tuo interesse per i mass media e quello letterario? Vi sono ancora differenze sostanziali tra questi due settori dell’“industria” culturale o si stanno omologando? sta per strada può diventare lo spunto per la storia di un’esistenza verosimile, scandita dalle mutazioni del palinsesto televisivo e dall’immutabilità della bonomia del conduttore italoamericano. Il tutto è reso organico da una scrittura acuta e limpida, che dosa egregiamente l’ironia e rifugge da ogni autocompiacimento, la stessa che all’uscita di Andai, dentro la notte illuminata aveva fatto scommettere molti su D’Arcangelo come giovane promessa della narrativa italiana. Eppure il romanzo della maturità è ancora nel cassetto…

Il mio interesse per i mass media e l’esigenza conseguente d’innestare il loro “discorso” nell’opera letteraria nascono da una consapevolezza profonda. I mass media, al di là del loro impatto manifesto sulla vita degli individui, che è sotto gli occhi di tutti ed è stato oggetto di studi profondi e di straordinaria importanza, come l’opera di Baudrillard, di Walter Lippmann e come qualche bella intuizione di Eco, oggi sono così radicati nel tessuto profondo dell’esistenza dell’uomo occidentale che non devono più essere intesi solo come un macro-fenomeno, ma vanno considerati come una nuova categoria della psiche, come i principali fondamenti dell’architettura mentale di ognuno di noi e come origine della maggior parte delle nostre credenze sulla realtà; cioè, sono tra i principali artefici di quanto di più stabile e difficilmente modificabile esista nella vita psichica di ogni individuo. Ecco perché, a mio parere, oggi, uno scrittore che ambisce a raccontare qualcosa di significativo sui tempi in cui vive, non può in nessun modo evitare di confrontarsi con i media. Quanto l’immaginario collettivo influenza la programmazione televisiva e viceversa? Purtroppo, credo che un’enorme fetta dell’immaginario collettivo sia influenzata dalla televisione. Bisogna, però, spiegare più nel dettaglio questo fenomeno. L’influenza della televisione non si manifesta secondo uno schema elementare di fenomeni causa-effetto, come, ad esempio, il suggerimento di comprare un prodotto e il conseguente acquisto,

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3 - The Human Condition [a tribute to René Magritte] di Flavio Ronco. 4 - Un'altra immagine di Giancarlo Liviano D'Arcangelo. 5 - Il pranzo è servito... di Tortuga767.

Come modello letterario hai spesso citato Don DeLillo, come riferimento ideologico Pier Paolo Pasolini: in che modo ti hanno influenzato questi due autori?

oppure l’enunciazione di un’idea e la conseguente accettazione della stessa da parte dello spettatore, più o meno provveduto che sia. Non funziona così. I mezzi di comunicazione di massa si limitano a fornire, in modo praticamente ininterrotto, un’idea di mondo che contiene in sé infinite contraddizioni e una sorprendente varietà di suggestioni, di posizioni politiche, di tipologie di desiderio, così come un enorme numero d’identità precostituite cui aderire. Nel profondo, nell’essenza del messaggio che sfugge alla percezione critica di primo livello per far leva direttamente sulle abitudini, sulla necessità d’integrazione dell’individuo nella società in cui vive e, soprattutto, sul narcisismo innato in ogni essere umano, offre una visione monolitica della realtà, mirata a confermare irriducibilmente lo status quo, ovvero un mondo brutale fondato sulla violenza del mercato, su un grado inconcepibile di sfruttamento, sulla concentrazione di potere economico e risorse nelle mani di pochissimi. Pochi sanno quanto sfruttamento, quanta violenza può assieparsi dietro la costruzione di un giocattolo, ed è proprio in questa mancanza di consapevolezza collettiva sui fenomeni della modernità che va ricercato il ruolo principale dei media, che è quello di depistare.

Don DeLillo è uno dei pochissimi scrittori contemporanei cui è riuscita l’impresa, soprattutto in Underworld e Rumore Bianco, di costruire universi amplissimi, realmente infiniti, in assoluta mimesis con l’immaginario dilatato dell’uomo moderno. Nei suoi romanzi più riusciti c’è tutto. Ci sono la dimensione universale e quella strettamente individuale, c’è la capacità di scavare in verticale nei recessi dell’animo umano e il tentativo di manovrarlo in un mondo immenso, dove la quantità d’informazioni a disposizione di ognuno è pressoché infinita. Il suo progetto letterario, in cui lo stile e la forma sono assolutamente fusi e strumentali all’oggetto estetico e allo sviluppo dei contenuti profondi, non poteva che trasformarsi in un modello cui aspirare. Per quello che riguarda Pasolini, invece, in me, sin dalle prime letture di saggi e riflessioni pasoliniane, è nato un amore profondo per il metodo, per la pressoché unica volontà, innata in Pasolini e sconosciuta in tutto il panorama degli intellettuali italiani dell’ultimo secolo, di sfuggire a ogni tentazione di cristallizzazione del proprio pensiero critico, o dell’immagine pubblica che un intellettuale come lui poteva costruirsi. Chi sostiene il contrario non l’ha mai letto nel profondo e ripete la vox populi roboticamente. Per Pasolini, l’analisi critica della realtà era una perenne rielaborazione di elementi, di confronti, di messa in

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crisi delle speculazioni precedenti e a lui si devono le più importanti razionalizzazioni dei fenomeni sociologici italiani dai tempi del fascismo. È incredibile che a scuola Pasolini si affronti pochissimo, e sempre falsificandone i punti determinanti. Poco dopo l’esordio avevi anticipato di star lavorando a un’opera sul potere e sulle sue diramazioni. Cosa ne è stato di quel progetto? Dopo l’attenzione critica ricevuta da Andai, dentro la notte illuminata, hai avuto richieste o sollecitazioni da parte delle major editoriali? Il potere in tutte le sue manifestazioni è il vero focus profondo del mio lavoro letterario. Andai, dentro la notte illuminata e Le ceneri di Mike sono libri che affrontano la tematica del potere per come è declinata attraverso l’influsso dei media sull’immaginario, ma l’opera che ho in mente è solo all’inizio. Ho lavorato molti anni a un grosso romanzo, a una saga familiare attraverso cui ho provato a raccontare l’infinito potere che il denaro esercita sulle nostre vite, un romanzo per cui sto aspettando delle condizioni editoriali favorevoli affinché sia valorizzato per quanto ritengo che meriti. Nel frattempo, posso anticipare che sto lavorando a un altro romanzo che affronta la tematica del potere dalla prospettiva del sesso e dei sentimenti amorosi tra uomo e donna e a un altro reportage narrativo che uscirà prossimamente per il Saggiatore che ha come nucleo fondamentale il racconto dei grossi siti industriali italiani dismessi e del loro impatto Sul Romanzo

sui luoghi limitrofi, sulla società e sulla storia italiana. Un libro che sento moltissimo. Come spieghi il successo di tanti narratori pugliesi nell’ultimo decennio e chi di loro, secondo te, lascerà un’impronta duratura? Io credo che i bravi scrittori non siano miracoli che avvengono così, per pura manifestazione del caos. Sono lampi di vitalità che necessitano di condizioni favorevoli per formarsi e fiorire. La Puglia, probabilmente, è una Regione che, pur esalando miasmi di devastante degrado dell’umanesimo, ha conservato, nel paesaggio, nel rivelarsi della natura e nel tessuto sociale profondo, delle oasi di vivacità e un terreno piuttosto fertile per chi, come gli scrittori che valgono qualcosa, ha voglia di moltiplicare all’infinito i modi attraverso cui è possibile raccontare la realtà, per salvaguardare l’esigenza umana di confrontarsi con visioni del mondo poliformi, allo scopo di arricchire se stessi e la complessità della vita. Non so chi sarà in grado di lasciare un’impronta duratura, ma so che in letteratura alla prova del tempo resiste solo chi rifugge il luogo comune e la convenzionalità per affidarsi allo stile, all’autenticità e alla devozione profonda alla verità e alla complessità dell’animo umano, trasformando, attraverso lo stile, gli oggetti fisici, gli accadimenti, le vicende di cui si è testimoni, in suggestioni metafisiche. Tra cinquant’anni, spero che molti autori pugliesi abbiano realizzato questa impresa e, soprattutto, mi auguro di essere tra quelli.

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Eventi Festival Internazionale di Musica Contemporanea Si intitola +EXTREME- il 56° Festival Internazionale di Musica Contemporanea, diretto dal compositore Ivan Fedele, si occuperà di minimalismi e massimalismi musicali del nostro tempo. Venezia - Dal 6 al 13 ottobre 50 Giorni di Cinema Internazionale La VI edizione della 50 Giorni di Cinema Internazionale a Firenze si terrà quest'anno a Odeon Firenze dal 25 Ottobre al 14 Dicembre. È la rassegna di festival più lunga al mondo; nasce nel 2007 per dare vita a una vera e propria stagione autunnale di cinema di qualità che costituisce la prima proposta culturale della “casa del cinema” di Firenze. Firenze - Dal 25 ottobre al 14 dicembre Milano Book Fair La Fiera Internazionale del Libro a Milano Linate, presso il Parco Esposizioni Novegro, vuole essere un punto di riferimento per l’iniziativa editoriale italiana e straniera. Il Paese ospite sarà l’Argentina. La direttrice di questa prima edizione è Jacqueline Miu. Milano - Dal 26 al 29 ottobre Premio Chiara Manifestazione finale e premiazione del vincitore del Premio Chiara 2012. I finalisti sono: Niccolò Ammaniti con Il momento è delicato (Einaudi Stile Libero), Pino Cacucci con Nessuno può portarti un fiore (Feltrinelli) e Sandro Veronesi con Baci Scagliati Altrove (Fandango Libri). Varese - 28 ottobre Umbrialibri Lo stato degli italiani è il tema scelto per l’edizione 2012 di Umbrialibri: lo stato come condizione e lo stato come istituzione. Umbrialibri 2012 vuole offrire un’occasione per discutere, attraverso libri e incontri tematici, su molte domande e alcune ipotesi di risposte sulla relazione tra sedimentazioni storiche e istanze creative e innovatrici, che sono e diventano letteratura di una nazione. Terni e Perugia - Dal 2 al 11 novembre Da Fattori al Novecento Una vasta e preziosa collezione è in mostra a Villa Bardini con oltre 100 dipinti di autori celebri fra cui Fattori, Telemaco Signorini, Giuseppe Abbati, Eugenio Cecconi, Vito D'Ancona, Oscar Ghiglia, Ulvi Liegi, Llewelyn Lloyd. Firenze - Fino al 4 novembre Più libri più liberi Più libri più liberi, la Fiera nazionale della piccola e media editoria, nasce con l’obiettivo di offrire a piccole e medie case editrici uno spazio per portare agli onori della ribalta la propria produ-

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zione, spesso “oscurata” da quella delle case editrici più forti. Roma - Dal 6 novembre al 9 dicembre Scrittori in città Più di cento autori presentano i loro ultimi lavori offrendo la propria interpretazione del tema conduttore dell'edizione. Una serie di dibattiti, tutti a più voci, per far si che gli incontri siano un'occasione di confronto e crescita, per chi ascolta e per chi interviene. Cuneo - Dal 15 al 19 novembre Bologna Jazz Festival Organizzato dall’Associazione Bologna in Musica e diretto da Massimo Mutti e Francesco Bettini, il Bologna Jazz Festival ospiterà artisti e band come Brad Mehldau, Chick Corea, Jim Hall Trio, John McLaughlin & The 4th Dimension. Bologna - Dal 15 al 25 novembre Città del Libro 2012 La Rassegna Nazionale degli Autori e degli Editori nasce nel 1995 per volere dell’Amministrazione comunale di Campi Salentina che individua nella cultura «il veicolo di riscatto del territorio». Dal 2002, a organizzare la rassegna è la Fondazione Città del Libro onlus. Campi Salentina (LE) - Dal 20 al 25 novembre Pisa Book Festival Il Pisa Book Festival, Fiera dell’editoria indipendente, giunge quest’anno alla decima edizione offrendo ai visitatori più di 300 eventi distribuiti su una superficie di oltre 5000 mq. Paese ospite d’onore sarà l’Olanda, con i suoi autori ed editori. Pisa - Dal 23 al 25 novembre Torinodanza L'edizione 2012 del Festival Torinodanza investigherà le dimensioni meno conosciute e più giovani della danza, con un focus dedicato a giovani spettatori e giovani interpreti. Una programmazione che permetterà di scoprire nuove generazioni e nuove geografie della creazione, senza dimenticare i grandi maestri, come Philippe Decouflé che ha inaugurato il Festival. Torino - Fino al 24 novembre Romaeuropa Festival Europa, Asia, America, Africa, Oceania si incontrano a Roma in una partitura spettacolare fatta di danza, teatro, musica, cinema, incontri con gli artisti, arti visive e sfide tecnologiche. I suoni e le espressioni artistiche dei cinque continenti diventano il piacere dello spettacolo, per un’esperienza estetica che attraversa l’autunno della capitale per oltre due mesi, dal 26 settembre al 25 novembre 2012. Torino - Fino al 25 novembre

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a p o r u E ' l l a d e Liber Barcellona – Salone internazionale del libro La più grande fiera del libro del Paese e una delle più grandi in castigliano, con la presenza di oltre 300 espositori tra case editrici, librerie, distributori. Quest’anno il Paraguay sarà il protagonista e l’invitato d’onore. Enfasi anche sull’editoria digitale. Barcellona (Spagna) - Dal 3 al 5 ottobre

Concerti dell’Orchestra Sinfonica Danubio Melodie composte da compositori ungheresi o stranieri ma che abbiano avuto un forte legame con l’Ungheria all’interno del Palazzo neobarocco Duna Palota nel centro della capitale. Budapest (Ungheria) - Fino al 31 ottobre, tutti i sabati, ogni anno

Poésie en Ville Letture, di poesie brevi o anche di testi lunghi un’intera pagina, concerti, ateliers, incontri, all’interno della Bibliothèque de la Cité per la terza edizione di questo evento. Ginevra (Svizzera) - Dal 5 al 7 ottobre

Nuit Blanche 2012 Tutta la notte per scoprire la città sotto un altro aspetto. Scoperte insolite e culturali in luoghi ancora inesplorati, nel quadro di un evento, giunto alla sua nona edizione, al contempo artistico e popolare. Bruxelles (Belgio) - notte tra il 6 e il 7 novembre

Exposition Sophie Testa - Fêtes à Marseille L'arte di Sophie Testa si ispira alle collezioni di arte antica esposte nei musei di tutto il mondo. Tra il 2004 e il 2011, ha realizzato più di cento disegni sulle maschere primitive. Marsiglia (Francia) - Dal 6 al 26 ottobre) Fable du paysage flamand, Bosch, Brueghel, Bles, Bril Dipinti dei paesaggi fiamminghi del XVI secolo, quando i pittori locali inventano un nuovo modo di dipingere, tra realtà e immaginario. Opere dei maestri più conosciuti ma anche di qualche pittore minore, non meno interessante. Lilla (Francia) - Dal 6 ottobre al 14 gennaio Jesus Christ Superstar Il famoso musical di Andrew Lloyd Webber con testi di Tim Rice, creato nel 1970, in tournée. Un classico della commedia musicale che racconta in veste rock l’ultima settimana di Gesù. Dublino (Irlanda) - 12 e 13 ottobre Edvard Munch: The Modern Eye Con una selezione di dipinti, fotografie e filmati, l’esposizione dimostra come l’artista norvegese Edvard Munch fosse ispirato dai cambiamenti che lo circondavano, soffermandosi unicamente sulla produzione artistica del XX secolo. Londra (Regno Unito) - Fino al 14 ottobre Mostra Cartier Tra le esposizioni di gioielli più importanti del mondo, con oltre 400 pezzi del famoso gioielliere francese, compresi quelli appartenuti a personaggi quali Elisabeth Taylor, Grace Kelly o Coco Chanel. Madrid (Spagna) - Dal 23 ottobre al 15 febbraio

Sul Romanzo

Ballade Mostra delle opere di Gwendoline Pieters, donna del Nord che dipinge il Sud. Visione femminile di paesaggi quasi sempre dipinti dagli uomini. Alla ricerca di quei momenti magici quando la luce sublima la realtà, ci fa tuffare nel suo universo colorato e ci invita alla calma in un universo voluttuoso. Cassis (Francia) - Fino al 15 novembre René Seyssaud - L'ivresse de la couleur à Marseille Grande retrospettiva dell’artista marsigliese René Seyssaud (1867-1952), pittore di paesaggi, lavori nei campi, nature morte e marine. Il suo lavoro è a metà tra il “fauvisme” e l’impressionismo. Sono presentate più di 80 opere. Marsiglia (Francia) - Fino al 18 novembre Par les rues de Lyon Jean-François Dalle-Rive propone in 51 foto in bianco e nero un montaggio di istanti, visi, scene e luoghi presi in libertà camminando a Lione tra il 1979 e il 2011. La parte contemporanea dell’esposizione è accompagnata da una composizione elettroacustica di Emeric Priolon intitolata Urbaphonie nella quale i suoni della città si fanno musica.. Lione (Francia) - Fino al 29 dicembre Babel La prima esposizione esclusivamente contemporanea sul tema universale della torre di Babele. Presenta un centinaio di opere di 40 artisti che illustrano le molteplici facce del mito biblico nell’arte contemporanea. Lilla (Francia) - Fino al 7 gennaio

Eventi dall'Italia è a cura di Giovanni Turi Eventi dall'Europa è a cura di Donatella Capone

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«Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l’ho mai capito» di Carlotta Susca

1. So cosa hai fatto la scorsa estate, ovvero è morto il Postmoderno, viva il Nuovo Realismo

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È successo ad agosto 2011. In molti commenti e articoli successivi, si è sottolineata la stranezza della scelta del periodo: ombrelloni, libri da spiaggia, italicissima siesta mensile estiva e sospensione di ogni attività e sui giornali si comincia a parlare di Morte del Postmoderno. L’8 agosto, Maurizio Ferraris intitola un suo articolo Il ritorno al pensiero forte (La Repubblica), questo l’incipit: «Uno spettro si aggira per l’Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare “New Realism”». La questione è prevalentemente filosofica: - ontologia vs epistemologia: il reale è inemendabile, c’è uno “zoccolo duro di realtà” che prescinde dalla conoscenza che se ne può avere. Non è vero che «Non esistono fatti, solo interpretazioni», i fatti esistono eccome; - critica: il Realismo incorpora la critica, mentre all’irrealismo «è connaturata l’acquiescenza»; - ritorno all’Illuminismo e, quindi, accettazione della realtà, perché, se ci si affida alle interpretazioni, il rischio è che la ragione vincente sia quella del più forte.

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Questa la proposta di Ferraris, in controtendenza rispetto al pensiero debole di Vattimo. L’argomento è stato rilanciato agli inizi di settembre, allorché si è cominciato a parlare della mostra al Victorian and Albert Museum di Londra Postmoderno – stile e sovversione 1970-1990: Edward Docx, sempre dalle pagine de La Repubblica, sembra tirare un sospiro di sollievo: «Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno [...]. Un momento... vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l’ho mai capito. Come è possibile che sia finito?». In questo caso, l’appiglio teorico era artistico, non filosofico: la mostra, infatti, recensita sull'inserto domenicalede Il Sole 24 Ore a ottobre, era composta da «duecento opere tra architettura, musica e design». n° 4 • Settembre 2012


1 - Postmodernism – style e subversion 1970-1990 (V&A Museum, Londra), manifesto dell'esposizione. 2 - Edward Docx. 3 - Maurizio Ferraris. 4 - Dollar Sign, Andy Warhol , 1981. Collezione privata. 5 - Umberto Eco.

2. Ma perché ce ne stiamo occupando, vi chiederete? Fosse una questione meramente teorica, probabilmente sarebbe stato lecito, per chi si interessa prevalentemente di letteratura, leggere distrattamente le notizie e passare oltre e anche gli appassionati di letteratura comunemente definita “postmoderna” avrebbero liquidato la questione come filosofica e, quindi, lontana dai propri interessi; sarebbero tornati alle proprie letture ignorando il dibattito. Sin da subito, però, nel calderone postmoderno che si tenta di rovesciare sul pavimento, la letteratura è stata tirata in ballo. Già Edward Docx, rallegrandosi della sua morte, concede al Postmoderno di essere «scherzoso, intelligente, divertente, affascinante» e prosegue dando delle coordinate: «Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande». Ma non si parlava di arte figurativa, architettura, musica, riguardo alla mostra a Londra, e di filosofia, nel caso di Ferraris? Perché dare per scontata la fine di una corrente prima ancora che il dibattito fosse avviato e liquidare in toto ogni propaggine postmoderna? Quando Ferraris ha dato alle stampe il volume Manifesto del nuovo realismo (Editori Laterza, 2012), ho ritrovato il dibattito filosofico e un unico, non sviluppato, riferimento letterario, a significare che tutto il discorso riguarda anche la narrativa: «[...] il romanziere americano Kurt Vonnegut che negli anni Sessanta aveva mescolato humor nero e fantascienza». Per fortuna, nel suo intervento su Alfabeta 2, Umberto Eco distingue i vari ambiti, indicando la nascita del termine “postmodernismo” in campo architettonico, in cui costituisce «un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale». C’è, quindi, la narrativa («l’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario»): ci si è resi conto che, nel rapporto con il passato, la distruzione avrebbe portato al silenzio, mentre la rivisitazione – ironica, appunto – offriva numerosi spunti. Eco passa, poi, al postmodernismo filosofico, notando delle analogie con i campi architettonico e letteraSul Romanzo

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5 rio, ma evidenziando anche che queste analogie «non sembrano avere alcuna connessione diretta con la questione del realismo, perché si può essere polimorfi e disincantati, rinunciare ai grandi racconti per coltivare saperi locali, senza per questo mettere in dubbio un rapporto quasi vetero-realistico con le cose di cui si parla». n° 4 • Settembre 2012

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3. E se il Nuovo Realismo si imponesse anche in letteratura? Il mio cruccio non è se i filosofi attesteranno che l’ontologia prevale sull’epistemologia, ma se in letteratura ci sarà un ritorno al Realismo, e, soprattutto, in che modo potrà mai essere applicato questo principio alle nuove narrazioni. Insomma, sono convinta che il Postmoderno letterario sia mutato e che abbia preso strade interessanti. Sono parimenti convinta che l’obiettivo polemico dei detrattori della corrente – in letteratura – non sia altro che Avant Pop, il che sarebbe molto diverso. L’A-P ha prodotto opere ironiche e fini a se stesse. Mio cugino, il mio gastroenterologo di Mark Leyner ne è un esempio, mentre ironia, decostruzione della storia, abbandono della linearità narrativa, uso del paratesto e molte altre strategie narrative ascrivibili al Postmoderno letterario sono state

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messe al servizio del contenuto: un contenuto reale, che ci parla di ciò che abbiamo intorno, raccontandolo in maniera traslata. Se il ritorno al Realismo dovesse significare narratore onnisciente e utilizzo narrativo del Triangolo di Freitag (esposizione iniziale dell’argomento, introduzione di un elemento di conflitto, climax e risoluzione del conflitto), la letteratura perderebbe la sua battaglia contro qualsiasi altro mezzo in grado di raccontare storie. Pensateci, pensate a come sono cambiati i telefilm e i film in poco tempo. Non capita di trovare lentissimo il ritmo di uno spettacolo che solo pochi anni fa vi sembrava avvincente? Siamo fruitori di televisione e lettori, non possiamo ignorare il cambiamento di attenzione e la ripetitività degli schemi narrativi di base a cui siamo sottoposti. Non se ne faccia lo spunto per un discorso da O tempora, o mores: la letteratura è cambiata e non si può tornare indietro. Ce lo dice in maniera cristallina Wallace, in Come diventare se stessi di David Lipsky (Minimum fax, 2011), parlando dei romanzi dell’Ottocento: «Sì, ma oggi la vita è del tutto diversa da come era allora. La tua vita assomiglia anche solo approssimativamente a una narrazione lineare? [...] A me sembra che la vita sia simile a una luce stroboscopica, e che mi bombardi di input. E gran parte del mio lavoro consiste nell’imporre a tutto questo un certo ordine, trovarci un senso. Mentre il mondo in cui... forse sono molto ingenuo, ma mi immagino Lev [Tolstoj] che si alza al mattino, si infila un paio di scarponi fatti in casa [...] Si siede nella sua stanza silenziosa [...] e... nella più profonda tranquillità, comincia a ricordare delle emozioni. E non so come la vedi tu, ma per quanto mi riguarda... quel tipo di letteratura mi piace leggerla, ma non mi sembra per niente vera. La leggo per trovare sollievo da ciò che è vero. La leggo per trovare sollievo dal fatto che, per dire, oggi ho ricevuto cinquecentomila informazioni distinte, delle quali forse venticinque sono importanti. E come faccio a distinguere quali? Mi spiego?» Il compito dello scrittore è quello di selezionare le informazioni, ché il mimetismo totale è impossibile. Continuo fermamente a credere che sia molto n° 4 • Settembre 2012


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6 - Postmodernism – style e subversion 1970-1990 (V&A Museum, Londra), un'immagine dell'esposizione. 7 - Mark Leyner, ritratto da David Shankbone. 8 - No. 5, Jackson Pollock, 1948. Collezione privata. 9 - David Foster Wallace.

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più realistico un narratore metaletterario, perché include se stesso nella realtà che descrive, perché sa di non potersi escludere dal mondo che crea, perché i lettori non credono più a una storia scrittasi da sola. Cosa vorrebbe dire un ritorno al Realismo? E quale occhio narrativo pretenderà di essere oggettivo su alcunché? Se di realtà si scrive, se di realtà si legge, il mondo letterario sconfina in quello reale, in cui qualcuno sta scrivendo, qualcuno formatta il testo e altri lo correggono e lo pubblicano: possiamo escludere tutto questo dalla realtà descritta in un libro? Non ho una posizione incontrovertibile, ma credo che il dibattito letterario sul Postmoderno non sia stato ancora aperto, e che, quindi, sia ben lontano dal poter essere chiuso. Occorrerà capire se si parla di forma o di contenuto, di stile o di genere. Servirebbe delineare legami e derivazioni, collegare Barth, Coover, Barthelme, Wallace; riprendere Sul Romanzo

Dick e Ballard, considerare la Egan e mappare tutto, sezionare e ricomporre. Partire da Aristotele, se necessario (senza intromettersi nella Filosofia), rileggere Orazio e Auerbach e continuare a pensare che la letteratura serve a comunicare qualcosa, a parlarci della realtà, ma a farlo in maniera piacevole e attraente, perché altrimenti si rischia di continuare a scendere lungo la pericolosa china che stiamo percorrendo, quella di chi dice che ha la casa piena di libri per dare una buona impressione, quella che fa dell’intellettuale un radical chic e non una persona che non potrebbe vivere senza leggere bei libri, non libri purchessia. Ripensiamo, infine, a Wallace, classificato come autore postmoderno da liquidare insieme a tutta la corrente, che ha, invece, chiaramente spiegato a cosa serva il realismo in letteratura: un tempo doveva renderci familiare ciò che ci era estraneo; oggi, invece, con ogni informazione a portata di polpastrello, la letteratura deve renderci strano ciò che ci è familiare, perché possiamo riconoscere, nel racconto distorto della realtà, gli elementi che la caratterizzano e capire meglio ciò che quotidianamente vediamo troppo da vicino per poterlo mettere a fuoco. Per questo fine, gli stilemi postmoderni sono un ottimo strumento al servizio della letteratura. n° 4 • Settembre 2012

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A cosa serve la letteratura? di Ludmilla C. De Paoli

La letteratura serve a porre le giuste domande. Non è certo, però, che dia risposte. Meglio cosi! Perché è precisamente questo che la distingue dall’ideologia. La letteratura, infatti, propone una visione della vita: mai lasciare spegnere dentro di noi le domande. Il continuo interrogarsi, il dubbio e mille tracce che si intersecano e si scontrano: ecco tutto ciò rappresenta la base della grande letteratura. A cosa serve la letteratura? A vivere meglio, a evadere, a sostituire la noia con il desiderio e ben altre ragioni più o meno soggettive (che forse tutti voi non mancherete di aggiungere a questa lunga lista), ma per me bisogna soffermarsi su questo punto decisivo in particolare: la letteratura serve a comprendere. Il ritorno del Medioevo nella letteratura francese ne è una prova eclatante. Perché i romanzieri si sono impossessati di questo lungo e sconosciuto periodo della storia? Senza dubbio perché se gli storici ci insegnano ciò che

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dobbiamo sapere su un’epoca, nessuno meglio dei romanzieri può farci capire quello che pensava l’uomo o la donna del Medioevo. In effetti, per sapere avremo sempre bisogno dei medievalisti, ma per capire avremo bisogno imperativamente dei romanzieri. Il successo di pubblico e di critica di Carole Martinez (Du Domaine de Murmures, Prix Goncourt des Lycéens), di Eric-Emmanuel Schmitt (La Femme au miroir) o di Jean-Christophe Rufin (Le Grand Cœur) sembra dover molto a questa differenza fondamentale. Tutti e tre, infatti, sono incentrati su periodi sconosciuti, ne rispettano il contesto socio-politico al punto che i migliori specialisti si meravigliano di non trovare alcun errore, ma riescono ad apportare quel piccolo quid che manca in un qualsiasi saggio storico: la comprensione, dall’interno, delle forze che muovono un individuo, il suo abisso, la sua solitudine, le sue fratture. n° 4 • Settembre 2012


C’è stato un tempo in cui il Medioevo serviva come sfondo a bellissime e lunghissime serie romanzesche e romantiche ispirate alle leggende del ciclo dei Cavalieri della Tavola Rotonda e di Re Artù o a thriller interessanti, di cui Umberto Eco ha lanciato la moda con Il nome della rosa. È ora arrivato il momento di riflettere sul ruolo delle donne nel Medioevo, durante il quale hanno ottenuto la loro libertà facendo la scelta, paradossale, di rinchiudersi vive (Du Domaine des Murmures), coltivare un misticismo dell’amore (La Femme au miroir), o concedersi a un re (Le Grand Cœur). Il periodo medievale riunisce scritti di forme molto diverse: la chanson de geste che racconta le gesta di cavalieri e la cui anonima Chanson de Roland, composta nel secolo XI, rimane per sempre l’elemento di maggiore rappresentatività; la letteratura cortese, attraverso la quale menestrelli e trovatori cantavano l’amore e di cui Tristano e Isotta e il Roman de la Rose sono i più noti; la favola medievale, con Rutebeuf e Francois Villon; i racconti delle Crociate, il mistero religioso, o ancora il ciclo del Cavalieri della Tavola Rotonda del XII secolo, con Chrétien de Troyes, considerato il primo romanziere della letteratura francese.

Le Grand Cœur, pubblicato in primavera, è una biografia romanzata di Jacques Cœur, il tesoriere di Carlo VII. Chi è Jacques, narratore enigmatico, pronto a dire la sua età (56 anni), ma non il suo nome, che si nasconde in un’isola greca per sfuggire ai suoi inseguitori, senza specificare quali? A poco a poco, il nostro uomo si rivela e si tuffa nel suo passato «come in un’acqua chiara e calda», rivelando un destino straordinario che lo ha reso «l’uomo più ricco dell’Occidente» e un alleato prezioso di Carlo VII per porre fine alla guerra dei Cent’anni. Dalle sue funzioni di tesoriere del re fino al suo amore appassionato per Agnes Sorel, di vent’anni più giovane di lui, Messer Cœur evoca in dettaglio la sua vita stimolante, eccitante, tormentata. Il romanziere sa come fare per invogliare il lettore, servendogli, al contempo, una fetta di storia della Francia tanto gustosa quanto tumultuosa.

Queste forme letterarie e linguaggi di espressione rivelano un mondo fatto di dimensioni paradossali: un periodo contemporaneamente buio e fiorito, come lo sono tutti i periodi di transizione. Il Medioevo rimane un’epoca altamente fantasmatique, testimoniata anche dall’attrazione immediata per i romanzi ambientati in quest’epoca storica. La stranezza dei costumi, il lato oscuro e misterioso sono sicuramente archetipi che catturano l’immaginario. Questo è il motivo per il quale gli studenti delle scuole superiori hanno assegnato, nel mese di novembre 2011, il Premio Goncourt al romanzo Du Domaine de Murmures di Carole Martinez: un fatto sorprendente se non si considera che la maggioranza degli studenti era rimasta affascinata e sorpresa dalla sorte di Esclarmonde, una ragazza del XII secolo che decide di vivere reclusa piuttosto che sposare un uomo che non desiderava. Jean-Christophe Rufin, invece, si cala nella pelle di Jacques Cœur, una figura di spicco del Medioevo, nato intorno al 1400 a Bourges e morto nel 1456 nell’isola greca di Chios. Rufin, nato nel 1952 a Bourges, ha studiato Medicina e Scienze Politiche. Medico in vari ospedali per oltre venti anni, si dedica parallelamente a numerose ONG (Médecins sans Frontiers, Azione contro la fame, ecc.) e fa carriera nella diplomazia. Ambasciatore di Francia in Senegal dal 2007 al 2010, eletto all’Accademia di Francia nel 2008, ha scritto numerosi saggi e romanzi, tra cui Rouge Brasile, Prix Goncourt nel 2001, l’Abiyssin o ancora Katiba. Sul Romanzo

Per l’ex ambasciatore di Francia in Senegal, divenuto Accademico di Francia, tutto è cominciato dal palazzo che Jacques Coeur fece costruire a Bourges, proprio nella zona dove è nato lo scrittore. Consapevole di essere nato e aver trascorso i suoi «primi dieci anni in una città di provincia profondamente segnata dal Medioevo», ricorda «un’infanzia medievale, attraverso strade poco illuminate, case di legno, strade lastricate». Ruffin riesce a tratteggiare con Jacques Cœur un personaggio simbolo di un’epoca di transizione. Sullo sfondo - Wall of books, di benuski; e Blank Open Book, di DonkeyHotey. Sopra - Casa di Jacques Cœur a Bourges (1443), da Smith, Roger T., F.R.I.B.A.: “Architecture: Gothic and Renaissance” (1896), disponibile QUI. n° 4 • Settembre 2012

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Ma la letteratura non può servire solo ad affascinare, ma deve anche animare una coscienza civica, come nel caso di Stéphane Hessel e il Dalai Lama, riuniti in un unico libro: Déclarons la paix! Pour un progrès de l’esprit. L’autore di Indignez-vous!, manifesto breve pubblicato nel mese di ottobre 2010, diventato un fenomeno sociale con circa 4 milioni di copie vendute in tutto il mondo, di cui quasi 2,5 milioni in Francia, e una quarantina di traduzioni, associa, da quel momento in poi, il suo nome a diverse pubblicazioni: Stéphane Hessel e Gilles Vanderpooten (Engagez-vous!, Dawn), Stéphane Hessel e Aung San Suu Kyi, (Résistances Pour une Birmanie libre, Don Chisciotte), Stéphane Hessel e Edgar Morin (Le chemin de l’espérance, Fayard). Nella primavera del 2012, la marea ricomincia con Stéphane Hessel e Elias Sanbar (Le Rescapé et l’Exilé. Israël-Palestine, une exigence de justice, Don Chisciotte), Stéphane Hessel e Albert Jacquard (Exigez ! Un désarmement nucléaire total, stock). Stéphane Hessel e Dalai Lama con il Déclarons la paix! Pour un progrès de l’esprit ! Appena pubblicato con la sua storica casa editrice Indigène, con una prima tiratura di 100.000 copie e per il quale gli editori, Sylvie Crossman e Jean-Pierre Barou, hanno usato la stessa strategia adottata per Indignez-vous!: brevità del libro e il prezzo basso, un soggetto forte in grado di colpire tutte le menti già indignate per lo stato del pianeta e i suoi occupanti.

Spesso intorno a una storia si crea una rete di relazioni collegata alla storia stessa, che però scopre altre direzioni. È il caso proprio di Indignez-vous! che ha generato una comunità di Indignati, comunità che si è riconosciuta in quei valori, ha sentito il bisogno di quella denuncia e chiede addirittura al libro un percorso ulteriore. Penso che sia un potere che solo la letteratura, oggi, possa avere. Non è un caso che la voce civica più forte che abbiamo avuto negli ultimi anni in Italia, ma anche in Europa, sia quella di uno scrittore e non quella di un politico. Penso, in particolare a Saviano con Gomorra.

2 Ci si chiedeva all’inizio a cosa serve la letteratura. Non ci si chiede mai a che genere appartengano i grandi capolavori, i libri fondamentali che abbiamo letto. Lo scrittore dovrebbe occuparsi più di scrivere libri fondamentali che libri di genere; un aspetto, quest’ultimo, che dovrebbe essere secondario rispetto all’esigenza di scrivere libri importanti.

1 Si tratta di uno scambio che ha avuto luogo tra Hessel e il Dalai Lama nel dicembre 2011, a margine del Forum sui diritti umani che si svolgeva nel sud est asiatico. I due uomini s’interrogano sui valori mutevoli che caratterizzano il nostro mondo dopo l’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948. E, oltre le parole, si pone la questione dell’importanza attribuita al denaro rispetto a quella accordata allo spirito nella società contemporanea. La letteratura, insomma, offre una visione della vita: non lasciare mai che le domande si spengano in noi. A volte incontrarsi nei libri è un atto politico, perchè i libri generano un processo di riconocimento.

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Io credo che in Italia siamo attraversati da una mania provinciale di “promozione propria” che genera dei postulati falsi. Per esempio, da una parte si dice che se un libro vende molto sia di poco valore, il che è vero in alcuni casi e falsissimo in altri: potrei fare esempi dell’una e dell’altra situazione. Mi rendo conto che noi veniamo fuori da una società letteraria e editoriale in cui era vero esattamente il contrario, cioè in cui era vero che lo scrittore per essere Scrittore con la S maiuscola, non doveva incontrare il favore del pubblico, anzi, meno era letto e più era scrittore. Questa sua assenza, questo suo essere a parte, elitario, lo rendevano più scrittore, per certi aspetti. Io credo che il mestiere dello scrittore sia quello di scommettere sul fatto di rimanere. Gli scrittori veri ragionano in funzione di un per sempre, perché sono presuntuosi e vogliono sopravvivere, vogliono restare. Se non sono abbastanza presuntuosi e, al contempo, se non sono abbastanza umili da ascoltare il mondo che li circonda, non sono veri scrittori. n° 4 • Settembre 2012


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Quello che si racconta, quello che si decide di raccontare, è un dato fondamentale del raccontare stesso. Uno scrittore decide di essere uno scrittore quando decide di raccontare e non è deciso dal racconto. Quando uno scrittore è e resta (anche) un lettore, capisce che nella scrittura stupire non è importante, stupire in senso tecnico intendo. Perché lo stupore risiede altrove. Lo stupore è quel rapporto con il lettore per cui, raccontando la stessa storia, continui in ogni caso a sorprendere il tuo lettore. È scrivere cose universali partendo dal proprio specifico, dal proprio particolare. Questo è, io credo, il compito sociale degli scrittori, quello cioé di avere le parole per dire le cose. E le due, tre, quattro storie che sono divenute grandi capolavori, alla fine, a ben vedere, sono il riproporsi di quell’unica grande storia che noi occidentali ci siamo accordati di raccontarci. La letteratura è, in fondo, questo continuo ribadire. Sciascia diceva (della letteratura) «è come un genitore che ha a che fare con un bambino che vuole sentire sempre ostinatamente la stessa storia nello stesso modo». Questa risacca è la letteratura, questa ostinazione costante. Per cui, da sempre, noi ci raccontiamo di A e B che vogliono sposarsi ma non ci riescono, di C che vuole tornare a casa e non ce la fa, e non c’è niente di soprendente, ma tutto sorprende perché, per esempio, Anna Karenina e Madame Bovary non sono la stessa cosa. Qual è la sorpresa di questa storia ordinaria di donne che non amano la loro condizione? Entrambe tradiscono, entrambe si uccidono. In maniera diversa, per motivi diversi, però la sopresa di Tolstoj è che Anna Karenina disattende la perfezione. Lei è assolutamente perfetta, ha un marito perfetto, ha un figlio perfetto, vive in una casa perfetta, appartiene a una casta perfetta, è bellissima, è elegante, è ricca: ha tutto… ma, comunque, disattende il suo codice, si immerge in una situazione che la porterà sotto un treno. Madame Bovary è una scioccherella, è una scioccherella imponente voglio dire, ma, come tutti i personaggi apparentemente scioccherelli, diventa potentissima nella storia della letteratura. Queste due donne sono assolutamente uguali, ma poi in definitiva distantissime. La letteratura è così. Che differenza c’è fra I Promessi Sposi e Giulietta e Romeo di fatto? C’è una consonanza di fondo dentro le loro differenze. Questo è il segreto della letteratura.

1 - Stéphane Hessel e il Dalai Lama. 2 - Roberto Saviano. 3 - Un'antica edizione di Romeo and Juliet, e le prime edizioni di Madame Bovary, I Promessi Sposi, Anna Karenina. 4 - Scrittura notturna, di dueignazio. Sul Romanzo

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Letteratura come cura: i percorsi dell'animo nella libroterapia di Michele Rainone

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2 1 - Libertà, di Donato Accogli. 2 - E dalle pagine si librò uno stormo di pensieri, di Enrico Marongiu. 3 - Keep calm and read a book, di dierrevi, ispirata a Keep calm and read a book, di Robert Burdock. 3 - Climbing di Lizzie Erwood.

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«Rifiutiamo la letteratura – così, nel 1938, Carlo Bo esordiva in Letteratura come vita – come illustrazione di consuetudine e di costumi comuni, aggiogati al tempo, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza. […] È chiaro come non possa esistere […] un’opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt’e due, e in egual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi». Nel saggio è presupposta l’esistenza di un filo conduttore che consente al lettore di leggere se stesso tra le righe. Tale filo, sottile ma indistruttibile, immerso nel tempo e nello spazio, ma così forte da oltrepassarli, è stato garante dell’esistenza stessa della letteratura nel corso dei millenni, di un punto di contatto che trae linfa vitale da esperienza condivisa e condivisibile: il lettore riesce a trovare se stesso in ricordi, situazioni, avvenimenti, in stati d’animo talvolta appena accennati, ma comunque percepiti, in un mondo parallelo che – scrive Graziella Pagliano, sociologa della letteratura – «secondo logiche proprie, situa persone ed eventi, eguali o diversi dai nostri, e simula azioni e conseguenze ai vari livelli, anche a livello linguistico», cit. da P. Bertini Malgarini e U. Vignuzzi, La dialettalità nel “giallo all’italiana”: naturalismo o espressionismo?, in G. Ruffino e M. D’Agostino (a cura di). Questa sorta di contatto osmotico trova, secondo Carlo Bo, il suo sostegno nel riferimento alla vita stessa; la sola in grado di fungere da terreno comune tra mondi diversi ma non troppo: l’esistenza di chi, con la sua penna, crea attesa – lo scrittore –, e quella di chi – il lettore –, pur subendo l’esistenza ricreata dallo scrittore, continua ad attendere un punto di contatto. «La letteratura – scrive Bo – è una condizione, non una professione. […] È la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita […]. Quando si parla di letteratura come vita, non si chiede che un lavoro continuo e il più possibile assoluto di noi in noi stessi, una coscienza interpretata quotidianamente nel gioco delle nostre aspirazioni, dei sentimenti e delle sensazioni».

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Solo su una tale forza può poggiare l’assunto secondo il quale la letteratura è in grado di fungere da supporto a un percorso di terapia. Già Aristotele, nella Poetica, facendo riferimento non soltanto alla tragedia, ma anche ai canti orgiastici, riconosceva alla letteratura un tale potere di guarigione e liberazione: «[…] È necessario perciò che siano sottoposti a tale azione coloro che vanno soggetti alla pietà, al timore e in generale alle passioni, in modo conveniente a ciascuno, sicché in tutti si generi una catarsi e un alleggerimento piacevole». Ne erano convinti anche i Romani e fino ai giorni nostri l’idea che la lettura abbia effetti benefici non è svanita: in Europa, le biblioteche sono divenute vitali per gli ospedali psichiatrici nel XVIII secolo; negli USA, cent’anni dopo; nel 1920, un bibliotecario dell’ospedale per veterani di Tuskegee-Alabama, S.P. Delaney, propone l’utilizzo dei libri per alleviare le pene dei reduci di guerra; diciassette anni dopo, nel 1937, il dottor W. Menninger ritiene indispensabile l’inserimento di un modulo sulla libroterapia in un manuale di psichiatria. A questo proposito, l’Università Metropolitana di Santiago del Cile ha condotto un esperimento, sottoponendo Juanita, vittima di violenza sessuale all’età di nove anni, ad un percorso guidato di letture scelte dai ricercatori per condurla al recupero del suo benessere psico-fisico. La ragazza ha seguito diciotto sedute di libroterapia, durante le quali sono stati proposti testi che richiedevano un progressivo impegno nella lettura: nel corso delle prime sette lesse Little Bear’s Happy Face/Sad (First Book about Feelings) di Lynn Offerman; nell’ottava, Mi primera enciclopedia de Educación Sesual; tra la successiva e la penultima, Caperucita Roja; nell’ultima, Mi cuerpo es mio di Lory Freeman. La terapia si è rivelata vincente: Juanita, oggi, è una ragazza nuova, segnata dagli incubi dell’infanzia, ma più forte di prima. Il filo conduttore, che ha permesso l’identificazione necessaria all’instaurarsi del percorso di cura, nasce da una proposta alternativa, concreta e studiata, capace di indicare un percorso di riconquista del proprio sé.

Sul Romanzo

Sostenuta da medici, scrittori, psicologi e non solo, negli anni Cinquanta, la libroterapia è stata protagonista indiscussa di una svolta: la nascita dei libri di auto-aiuto si è rivelata vitale per il trattamento dell’alcolismo; la fortuna del metodo è stata così forte che, dagli anni Sessanta a oggi, non pochi testi sono stati proposti per superare la tossicodipendenza, la depressione post-lutto, fobie, disagi socio-esistenziali e non solo. «Negli ultimi decenni – scrive il dottor F. P. Pizzileo, membro dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – la libroterapia si è andata lentamente consolidando sulla base della […] consapevolezza che intorno ad un libro […] ruotino dinamiche in grado di mettere in moto vissuti di integrazione e di crescita di sé, sia dalla parte del lettore che dello scrittore, e che dunque non sia più sufficiente confinare la fruizione di un libro nell’ambito di una dimensione puramente evasiva e intellettuale». Nulla vieta, però, che il filo conduttore nasca nella prima dimensione; di sicuro, non in tutti i generi, come il giallo o il poliziesco, anche se sembra che Camilleri e Montalbano aiutino gli ansiosi. Va da sé, inoltre, che eliminare la dimensione intellettuale non significa mettere da parte testi che potrebbero richiedere una maggiore concentrazione nella fase di lettura o un’impostazione critica più rigorosa e attenta: lo sperimentalismo del Novecento, ad esempio, è così segnato dalla presenza di casi eclatanti di esorcizzazione del dolore, quando non sono frutto di nevrosi e malattie dello spirito, che non annoverarli tra le possibili scelte risulterebbe inspiegabile. Nel romanzo La cognizione del dolore, l’intreccio nasce dalle difficili vicende familiari di Carlo Emilio Gadda,

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5 che ricerca di continuo le cause della sua sofferenza scrivendo, e, solo prendendo in considerazione il rapporto con la madre e l’ombra di un fratello che non c’è più, se ne afferra a pieno tutto il senso. Gadda non rappresenta sicuramente un prototipo ideale di supporto alla cura e proposta alternativa; il suo romanzo, però, nel terreno comune della disperazione, permette al lettore di condividere un dramma. La nevrosi degli inetti di Italo Svevo – scandagliata nella trilogia Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno – è uno tra gli elementi precipui del ritratto dell’uomo contemporaneo, che, sconfitto dalla realtà, richiama, seppur accentuandone alcuni tratti, le maschere pirandelliane; proprio nell’ultimo romanzo della trilogia, l’uomo, la società, il mondo intero sono descritti come «marci alle radici» e una cura, la psico-analisi nella fattispecie del caso, non esiste.

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Sul Romanzo

5 - La lettrice / the reader di Giampaolo Squarcina. 6 - Thoughts of Flight, di Brendon Burton.

«La vita attuale è inquinata alle radici.», così l’autore introduce la fine del percorso interiore che La coscienza di Zeno rappresenta, rispetto ai drammatici avvenimenti della Prima Guerra Mondiale. «Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo […]. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie ed ammalati. […] Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».

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Il nesso tra vita e mondo parallelo è, dunque, evidente: le movenze letterarie e leggiadre dei fogli non fungono da riparo dalle onde burrascose dell’esistenza; al contrario, la rappresentano e quasi fanno compagnia, sottraggono dolore pagina dopo pagina, qualche volta lo acuiscono, ma quasi sempre lo alleviano, perché qualcuno, anche nel paesino più sperduto del mondo, ha provato e ha vissuto ciò che io ho provato e vissuto. Distrutte le barriere spazio-temporali, questo sottilissimo filo conduttore ha legato due mondi, due vite, nella vita (che è terreno comune per eccellenza). Non solo il dolore, per quanto permetta di specchiarsi, interrogarsi e scoprirsi – di leggersi, appunto – nelle pagine di qualcun altro, può fungere, comunque, da terreno comune. L’inquietudine di Madame Bovary, personaggio che permette a Gustave Flaubert di attaccare lo stile di vita, i vizi e le vanità della borghesia francese del XIX secolo, potrebbe attirare l’attenzione di donne tormentate e desiderose di evasione e rivincita sociale; Lettera al padre di Franz Kafka si rivelerebbe senz’altro utile e interessante per gli adolescenti che non hanno mai provato a comunicare con il proprio genitore: «Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di aver paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente. […] E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto».

«Lo scopo generale dell’intervento educativo – a scrivere è sempre Pizzileo – è la riduzione delle prepotenze e la promozione di un migliore clima di classe, da perseguire attraverso la lettura di libri adatti». Un anatroccolo tutto da ridere – prosegue il dottore – si adatta bene, con la sua semplice fabula, al problema: i bambini dovranno fare proprio lo spirito che ha permesso all’anatroccolo di non soccombere dinanzi agli insulti e al bimbo a rischio bullismo – attraverso una calibrata attività di gruppo – sarà trasmesso un chiaro messaggio di anti-violenza, fino ad arrivare alla creazione di «un decalogo sul perché le mani non devono essere usate per schermire e aggredire». Non solo cura dell’animo, quindi, ma anche intervento sociale e recupero. Letteratura come vita, a fronte di esperienze così concrete, non è più solo il nome del saggio di un critico letterario che non c’è più, ma il presupposto dell’indomabile esigenza dell’uomo di cercare un filo conduttore, trovarlo, ristrutturare se stesso e, solo alla fine, possedersi davvero.

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Le vie della letteratura sono inesauribili, dunque. «Ecco la terapia più terapia di tutte: curarsi con i libri – le parole sono della psicoterapeuta R. Mininno – Ce ne sono un’infinità, non scadono mai, e puoi decidere tu tempi e dosaggi. Per qualsiasi disturbo, carenza o bisogno, i libri curano, nutrono, confortano». È il biblioterapeuta a consigliare il “supporto”, a seconda della storia; l’esperienza cambia, infatti, e con essa anche il terreno che lega i due mondi. L’agnoterapia, incentrata sul disagio esistenziale della terza e della quarta età, per esempio, avrà contenuti diversi dalla lettura consigliata ai bambini a rischio bullismo nelle scuole; in quest’ultimo caso, il bimbo non trova – o meglio, potrebbe non trovare – nel libro terreno comune ed esperienza condivisa, ma una strada da seguire – come nel caso di Juanita –, quando gli adulti, per motivi diversi, non sono riusciti a tracciarla.

Sul Romanzo

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iva, faceva finta.

Ma Emma non dorm

La femme de Claude (L’adultera), Francesco Mosso, 1877 circa.

(Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1856).

Webzine - anno 2, n° 4 - Settembre 2012

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