Sul Romanzo, Anno 3 n. 2, apr. 2013

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Illustrazione: Woods Moods di Franny Thiery.

Webzine - Anno 3, n°2 Aprile 2013

La difficoltà dell’inizio. Il coraggio del primo passo


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Sul Romanzo

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Editoriale di Morgan Palmas

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Analisi di una fine; un nuovo inizio possibile di Emiliano Zappalà

pag. 6

L e t t e r at u r a

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Storia di un «atto di fede»: Italiano lingua di tutti, lingua di nessuno di Michele Rainone

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Lo chiamavano “cretinetti”. Il difficile esordio di Dino Buzzati di Daniele Duso

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I primi, difficili esordi letterari di Pier Paolo Pasolini di Elena Spadiliero

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Gli esordi di Balzac di Stefano Trucco

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Stephen Dedalus: martire cristiano e figura mitologica come paradigma dell’esordio dell’artista di Beatrice Mantovani

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Women and fiction: le difficoltà dell’inizio secondo Virginia Woolf di Monica Raffaele Addamo

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1974... anzi, ‘47: gli inizi difficili di José Saramago di Marcello Sacco

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Scrittori senza superpoteri di Carlotta Susca

pag. 20

pag. 30

pag. 40

Inedito di José Saramago a pag. 45 E d i to r i a

pag. 64

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Montale e i nuovi “poeti”, da Stefano Benni a Flavia Vento di Maria Antonietta Pinna

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Spazzature narrative contro nuovi realismi. Quanto hanno stufato gli esordi dei Vip di Leonardo Palmisano

A rt e

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La pesantezza del primo tratto di Lucrezia Modugno

Musica

70 pag. 70

Gravi difficoltà. I Dire Straits e le ristrettezze degli esordi di Alberto Carollo

F oto g r a f i a

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La riproduzione del reale: una lunga storia di Annamaria Trevale

C i n em a

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pag. 82 Sul Romanzo

Costruendo il sogno americano di Mirko Tondi

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Webzine - Anno 3, n°2

Direttore Morgan Palmas Caporedattore Gerardo Perrotta Redattori Daniele Duso Marta Malengo Leonardo Palmisano Alessandro Puglisi Stefano Verziaggi

Aprile 2013

Hanno collaborato a questo numero Monica Raffaele Addamo, Alberto Carollo, Daniele Duso, Beatrice Mantovani, Lucrezia Modugno, Morgan Palmas, Leonardo Palmisano, Maria Antonietta Pinna, Michele Rainone, Marcello Sacco, Elena Spadiliero, Carlotta Susca, Mirko Tondi, Annamaria Trevale, Stefano Trucco, Emiliano Zappalà. Si ringraziano Carlo Scortegagna, Web master; Sacha Garcia, per la rappresentazione fotografica del quadro Romanticismo industriale N. 1.

Art Director Daniele Vignato Illustratrice Franny Thiery

Nella pagina a fianco: Romanticismo industriale N. 1, Sacha Garcia. www.sachagarcia.it

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Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it

Note legali “Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può, dunque, essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche, si invita a contattare la Redazione (webzine@sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.

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L’editoriale di Morgan Palmas

L’inizio è tema complesso, anche per un editoriale, perché di inizi parleremo in questo nuovo numero della Webzine. Torniamo indietro nel tempo, nel 1928. Un ragazzo appena ventenne, dopo quasi tre anni di lavoro, aveva in mano il suo primo romanzo e decise di recarsi a Milano per portare il manoscritto alla casa editrice Alpes (chiuse i battenti poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale), cercando di parlare con Cesare Giardini, un intellettuale poliglotta dell’epoca ed editor in carica. Il buon giovine, convinto che la risposta gli sarebbe giunta da lì a poco, reputò opportuno alloggiare in un hotel, attendendo, solo che dopo circa un mese capì che i tempi non erano come li immaginava. Ritornò a Roma e, in capo a pochi mesi, giunse finalmente la risposta di Giardini, era positiva, voleva pubblicare Gli indifferenti. Il caso di Moravia, un inizio di carriera complicato o quantomeno curioso, non è l’unico. Nel gennaio del 1889, un altro giovane scrisse l’ultima cartella del suo primo romanzo (aveva scritto la prima il 26 luglio 1888), era un periodo terribile per la sua famiglia, quasi sul precipizio del disastro. Non solo. I primi contatti con Emilio Treves, prestigioso editore dell’epoca, iniziarono nel 1885 per le sue novelle, grazie all’intermediazione di Matilde Serao, sua amica, e non furono affatto felici. Nel settembre del 1888, nel pieno dell’attività creativa, egli scriveva all’amante una lettera: «Venire a Torino sarebbe come interrompere e rinunziare per quest’anno al compimento del mio romanzo […] La mia colpa è di non esser riuscito ancora a terminare l’opera. Ma l’arte è lunga e penosa; e la volontà non basta. Perdonami». Gli inizi di una carriera artistica oggi, a differenza d’un tempo, sono raccontati dai protagonisti per vantarsi di qualche aneddoto, oppure taciuti con discrezione perché il più delle volte mostrerebbero

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debolezza o arroganza: la prima opera per taluni prende le sembianze di un figlio eccellente in ogni azione. Viviamo nell’epoca dell’ostentazione di sicurezza, guai a mostrare un passo falso, guai a confondere le acque di un fiume costruito con strategia di marketing che punta sulle persone decisioniste e di successo. Un tempo non ci si vergognava neanche per recarsi ai pubblici vespasiani, ai giorni nostri ci si vergogna, invece, di molto meno, anche di un inizio zoppicante nel mondo dell’arte. Forse, abbiamo perso un legame con la realtà che nella comunicazione va in ogni caso trasformato o una diffusa credenza ci impone di essere prudenti, mai dire che vi è stato un errore, quasi l’errore fosse un’erbaccia da estirpare. Ma i richiami del mercato e della società contemporanea andrebbero forse rivalutati sotto una luce interpretativa nuova, chiedendo a se stessi di individuare con la precisione di un microscopio il confine fra la realtà e le apparenze. Magari meno di successo, meno ambizioso, meno esplosivo, eppure di sicuro più consono alla riscoperta, sì, riscoperta della necessità, della vera necessità, quando si produce arte. Là fuori sfrecciano nei prati artistici mostruosi convogli ferroviari carichi di illusioni e speranze, una fredda determinazione a rubare le carrube dai musetti dei cavalli editoriali, inquinando la comunicazione fra autori e lettori. Gli inizi di carriera acuiscono i difetti degli artisti, in quanto esseri umani, per questo motivo abbiamo voluto indagare un fenomeno che ai più sfugge, ma che trova in sé il valore di un carattere, quel carattere che poi i lettori intuiranno e che, in alcuni casi, condizionerà la vendita di un’opera. Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it

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Analisi di una fine; un nuovo inizio possibile «In my beginnig is my end In my end is my beginning»

di Emiliano Zappalà

Thomas Eliot, Quattro quartetti

Proprio nei giorni in cui lavoriamo alla stesura di questo pezzo, l’Italia attraversa una fase delicata e importante. Due avvenimenti scuotono l’opinione pubblica, le contrattazioni di governo, a seguito di elezioni incerte e dall’esito ancora non definito e l’organizzazione del conclave. In entrambi i casi, le circostanze sono piuttosto peculiari; da un lato, per la presenza di un movimento di recente formazione, che ha fatto irruzione nella vita politica, dall’altro, per le inaspettate, e quasi uniche nella storia, dimissioni del Pontefice. In realtà, tali cose dovrebbero interessarci poco, dato che non ci spetta, in questa occasione, il compito di fare alcuna analisi sull’attualità. Ma il caso vuole che l’argomento di cui stiamo trattando è la difficoltà di un inizio. Per la precisione la difficoltà di un nuovo in inizio. E allora questo riferimento, per quanto veloce, ci offre la possibilità di sottolineare quanto il tema dell’inizio non sia solo di livello teorico e filosofico, ma ci riguardi da vicino, quanto esso sia attuale e socialmente rilevante. Perché ciò che ci proponiamo di dimostrare è se e in che modo la nostra epoca sembra attraversare trasformazioni, inevitabili e determinanti per il futuro. Per riuscire in questo scopo occorre attraversare prima alcune tappe, tracciare un quadro preciso e maturare alcune riflessioni, anche di natura più filosofica.

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Sul Romanzo

La citazione di Elliot in apertura sottolinea da subito il legame quasi uterino che unisce inizio e fine. Non esiste un inizio in assoluto, se non in casi remoti e sconosciuti. Un inizio segna il passo successivo alla fine di qualcosa. L'inizio è sempre un dopo, che poggia sulle rovine. Un inizio muove dal silenzio e il silenzio non è mai totale. L’Apocalisse stessa, il momento forse più importante all’interno della tradizione cristiana, non è altro il momento estremo che precede l’inizio di una nuova dimensione. Allora, prima di parlare di quali cambiamenti potrebbero entrare in atto nella nostra epoca e di quali trasformazioni si profilano nell’immediato orizzonte, sarebbe bene accennare alle cose che vengono indicate come concluse; capire su quali rovine è possibile un nuovo inizio. Il secolo scorso e la prima parte del nostro sono stati caratterizzati dal ricorrente uso dell’idea di Fine. Si è parlato di fine della storia, fine del romanzo, fine della modernità, morte dell’arte, fine dell’ideologia, fine dei tempi, morte dell’autore, fine dei valori, della metafisica, dell’umanesimo, della critica, del concetto di verità. Per non parlare delle teorie sulle catastrofi ambientali o il riferimento all’attuale crisi finanziaria. Tutta la filosofia postmoderna degli ultimi decenni è impegnata a descrivere questa situazione di stallo, questo procedere sul limite, sulla soglia tra un mondo che non è più ed uno che deve invece cominciare; tra il vecchio inefficace e il nuovo sconosciuto. Il tanto criticato postmoderno mette in mostra esattamente questa impasse, provocata anche dalla velocità delle trasformazioni dell’ultima fase storica, fa luce sul cortocircuito che nasce quando la volontà di gettarsi alle spalle l’ostacolo si scontra con l’impossibilità teorica e materiale di pensare l’ostacolo stesso come superabile. Il pensiero sembra essere costretto a correre in circolo, senza sosta, a rimanere leggero (e quindi debole) e privo di zavorre, per non soccombere allo sforzo dell’attesa. Il nuovo è ritenuto impossibile come categoria; è inteso come mito e falsa credenza. Perché se inizio e fine sono collegati, ogni inizio è già condannato a finire, ogni nascita contiene già i germi della sua stessa morte. Non ci sono nuovi inizi possibili, ma solo e soltanto lo stesso, perenne inizio. Oggi, molti intellettuali sembrano in grado n° 2 • Aprile 2013


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di risolvere il blocco; Romano Luperini sostiene la necessità di tornare a un pensiero forte, che tenga saldamente il passo e si faccia strada nella nebbia; Maurizio Ferraris, nel saggio Manifesto del nuovo realismo, tenta di recuperare il senso e il valore della realtà, la sua inemendabilità, per recuperare alcune certezze. Facciamo, allora, un rapido viaggio attraverso alcune di queste idee di fine, procedendo per grandi categorie e scusandoci per le brutali semplificazioni, legate a esigenze di spazio. Il primo concetto che tocchiamo è quello di fine di un certo modo di intendere la politica e la società. Slavoj Žižek ha parlato spesso, nei suoi ultimi saggi, della fine delle ideologie, dei concetti di destra e sinistra e di un certo modo di orientare le scelte e le decisioni politiche. Non esistono più, come notava già Franco Fortini, classi sociali nettamente distinte; la borghesia non esiste più e tutto dentro la società capitalistica si confonde, tutto assume lo stesso valore. Possiamo definire questa condizione postpolitica e postdemocratica, e vedere in questo tipo di società una disastrosa crisi della rappresentanza che porta, all’interno di sistemi democratici, al quasi totale scollamento tra eletti ed elettori, allontanando le decisioni politiche e le redini sociali dai cittadini, separando il mondo di chi fa le scelte dal mondo di chi quelle scelte deve subirle. I moti di protesta

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degli Indignados e di Occupy Wall Street mirano proprio a ricreare coscienza di questa usurpazione per provare a rimettere in sesto la situazione. Essi propongono modelli di democrazia partecipata e partecipativa (a cui rozzamente si rifà anche il nostro Movimento Cinque Stelle) che ripuliscano il sistema delle sue parti cancerogene e deformate. Il secondo concetto è quello di «Fine della storia». Il saggio di Francis Fukuyama è ormai divenuto celeberrimo. La storia, secondo lo storico e politologo americano, è finita come disciplina perché non è più possibile trovare in essa un modello valido per tutti i popoli di tutti i tempi; è possibile solo una serie di descrizioni ridotte e circoscritte. La storia non può darci risposte perché noi non abbiamo le domande giuste. Essa è da intendersi conclusa soprattutto se proviamo ad analizzarla come processo temporale lineare. Nietzsche aveva già messo in luce la fallacia di questo concetto. Negli anni successivi, gli orrori delle guerre e il cataclisma nucleare, la barbarie dei totalitarismi indussero a rifiutare l’idea della storia come continuo procedere verso il meglio. Fukuyama sta un po’ a metà tra questi punti di vista. Egli ritiene che la storia abbia avuto il suo ultimo salto in avanti nella seconda metà del Novecento, quando si è giunti alla definitiva affermazione, nella maggior parte del mondo, di regimi di democrazia liberale. Oltre questo modello politico non può esserci nulla. Solo un improbabile ritorno al passato. Concetto più sfuggente è, invece, quello di fine della filosofia. Il bisogno di essere brevi ci impedisce il dovuto approfondimento. Diremo solo che la fine della filosofia è legata alla fine del principio

1 - Ritratto fotografico di Romano Luperini. 2 - Thomas Stearns Eliot. 3 - Slavoj Žižek. 4 - Francis Fukuyama. Sul Romanzo

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Non ci sono nuovi inizi possibili, ma solo e soltanto lo stesso, perenne inizio 5 di verità e a quello dell’ontologia e della metafisica come discipline fondative, sancita da Heidegger e Nietzsche. La filosofia, per come la intende Richard Rorty, non può far altro che ripercorrere la propria storia per recuperare insegnamenti utili per la costruzione di un mondo più armonioso e solidale. Il ciclo della filosofia va rivisitato, ci suggerisce Gianni Vattimo, con leggerezza, con passo delicato, senza lasciarsi affaticare dal peso dei giudizi e delle certezze precostituite. Ultimo concetto, quello della fine dell’arte, così per come l’abbiamo sempre intesa. L’impossibilità dell’avanguardia di cui parlano Benjamin e oggi Bauman, la ricerca del silenzio, della tela bianca, dell’incomunicabilità. La tendenza al romanzo impossibile, alla storia inenarrabile, ai personaggi inesistenti, ai punti di sospensione, al vuoto, hanno segnato fortemente gli ultimi anni. Zygmut Bauman, ne Il disagio della postmodernità, indica come unica possibilità rimasta all’arte quella di far emergere il nulla, di porre il fruitore di fronte alla possibilità pura, di schiudere le porte del senso, senza indicare una via preferenziale per rintracciarlo. L’arte oggi, secondo questa linea critica, non è più grado, nelle sue forme tradizionali perlomeno, di incidere a fondo sulla realtà. Perché non è in grado di distinguersi da quest’ultima. Realtà e finzione sono fuse in un unico corpo. A questi pochi e brevi accenni dobbiamo aggiungere le problematiche ambientalistiche, legate al sovrappopolamento della terra, al riscaldamento

climatico, allo scioglimento dei ghiacciai. Il mancato e costantemente disatteso adeguamento ai parametri di Kyoto per quanto riguarda l’emissione di gas serra, la crescita imponente di alcuni Paesi che, superato il loro stato di arretratezza e diventati motori sviluppo, ci obbligano a pensare la catastrofe naturale e l’estinzione umana come un fenomeno non più immaginifico e irrealizzabile, ma come una prospettiva altamente rischiosa. L’Earth Overshoot Day, cioè il giorno dell’anno in cui l’umanità consuma le risorse che la terra produce, giunge ogni anno più presto. Rivedere le nostre politiche ambientali, trovare forme alternative di energia, sensibilizzarci al rispetto della natura non sono più forme di buoncostume, ma mezzi necessari per la nostra sopravvivenza. L’Apocalisse potrebbe essere meno remota e lontana di quanto non immaginiamo. Per questo Carla Benedetti, nel saggio Disumane lettere, ipotizza un nuovo modello di umanesimo, oltre che una rivoluzione del sistema economico-capitalista, che possa far fronte, con spirito rigenerato, alla condizione di degrado che si apre di fronte all’umanità. Alla fine di questo lungo anche se riassuntivo elenco di crolli, elementi di rottura, aspetti finali e conclusivi sembriamo indirizzati verso l’idea, e non solo in Occidente, di un cambiamento radicale, di un sostanziale cambio di rotta. Slavoj Žižek, in un saggio del 2010 Vivere alla fine dei tempi, parla di quattro cavalieri dell’apocalisse; la crisi ecologica,

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5 - Richard Rorty. 6 - Gianni Vattimo.

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7 - Zigmut Bauman. 8 - Carla Benedetti.

7 le conseguenze della rivoluzione biogenetica, gli squilibri interni al sistema stesso e la crescita esplosiva delle divisioni ed esclusioni sociali. Di fronte a questi pericoli imminenti, l’umanità è chiamata a produrre lo sforzo di ripensare se stessa, di riscoprirsi e darsi soluzioni nuove. Dagli assetti politicoeconomici alle strategie ambientalistico-consumistiche. Sulle rovine del passato è possibile porre le basi di un nuovo inizio. Non esistono soluzioni evidenti, valori preconfezionati, ma solo linee tratteggiate, percorsi sfumati. Per fare degli esempi possiamo accennare alle contemporanee teorie sulla decrescita economica e in generale sul principio di una revisione complessiva del sistema capitalistico (da cui forse non c’è davvero un via d’uscita indolore), con regole più precise e una maggiore efficacia degli Organismi internazionali. Oppure possiamo fare riferimento alle teorie sulla democrazia partecipativa, del citizen journalism, il cui intento primario è quello di restituire alla gente una consapevolezza del mondo e un impatto sociale. Sono pochi spunti ma possono lasciarci pensare, che l’idea che in futuro, proprio nel periodo a cavallo tra i due millenni, e quindi negli anni dello sviluppo informatico ed elettronico, venga intravisto un nuovo momento di svolta storica, il momento di passaggio in cui superare lo stallo postmoderno, il blocco tra ciò che non è più. Ma se a chi verrà dopo spetteranno l’analisi e la valutazione, spetta invece a noi l’onere di dare un sen-

so a questo passaggio. Spetta a noi il compito di rendere quest’ipotetica transizione significativa in senso positivo, di scacciare l’incubo di una guerra nucleare o di una guerra tra popoli. La strada proposta da alcuni è di recuperare dal passato quella proposta da altri è di cercare ex novo il futuro. In ogni caso, non possiamo sottrarci a questo inizio storico. A questo nuovo, non ultimo, inizio. Ci troviamo, in ultima analisi, nella fase iniziale di una profonda trasformazione antropologica, non sappiamo se condurrà all’“ultimo uomo” di Fukuyama, ma sicuramente verso una nuova specie di uomo versione 2.0, iperconnesso, digitalizzato, informatizzato, dalla memoria totale, globalizzato, dotato di una nuova struttura cognitiva, che anche i neurobiologi iniziano a prendere in considerazione. Il compito che ci spetta è quello di picchettare questa transizione transnazionale e transculturale con una nuova considerazione per la democrazia e la libera informazione, la solidarietà pura e globale (che esuli da qualunque elemento razziale, culturale e religioso, sufficiente a se stessa), l’ecosostenibità e il rispetto per il pianeta, l’arte come forma di evasione dalla monotonia, dalla routine, come strumento di riflessione esistenziale, uno sviluppo economico tollerabile, controllato da organismi internazionali forti e funzionali. Probabilmente noi non vedremo i risultati immediati, ma i nostri accorgimenti saranno determinanti ed essenziali per le generazioni future. Faranno la differenza tra un futuro prospero e l’estinzione.

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Spetta a noi il compito di rendere quest’ipotetica transizione significativa in senso positivo Sul Romanzo

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Letteratura, ma non solo. La Webzine

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A fianco: Tavoletta sumera a caratteri cuneiformi, circa 2600 a.C. Museo del Louvre, Parigi (F). Sullo sfondo: La biblioteca del Trinity College, Dublino (IRL). Sul Romanzo

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Gli inizi della

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Storia di un «atto di fede»: Italiano lingua di tutti, lingua di nessuno di Michele Rainone La storia della lingua italiana è storia di un atto di fede. La nascita di un idioma è un fatto naturale, ma i sentieri che il nostro ha dovuto attraversare per imporsi sono stati impervi. Ragioni di carattere storico, socio-politico e letterario hanno rappresentato dei veri e propri ostacoli alla nascita di una lingua comune ed è per questo che le difficoltà dell’inizio, del nostro inizio, non sono affatto paragonabili a quelle di altri Paesi: la presenza di una corte unitaria, quella parigina, ha assicurato l’affermazione dell’idioma francese; la traduzione della Bibbia è stata vitale per la diffusione di quello tedesco; in Italia, invece, una spinta accentratrice è sempre mancata (per quanto il ruolo di Firenze, ma non solo, sia stato significativo) fino all’Unità. Quest’atto di fede risale al Trecento e ha come protagonista Dante Alighieri, cui Bruno Migliorini dedica una trattazione autonoma nella sua Storia della lingua italiana: il volgare – quello illustre, l’idioma di cui va alla ricerca nel De Vulgari Eloquentia – era stato utilizzato soltanto dalla Scuola Siciliana; non aveva, insomma, una grande tradizione letteraria alle spalle e il confronto con la lingua latina non poteva sussistere: fu proprio questo uno dei motivi per i quali la prima generazione di umanisti rifiutò le proposte della Corona Fiorentina.

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Nella pagina accanto: Torre di Babele (part.), Abel Grimmer, 1604. Dante, Luca Signorelli, part. affresco della cappella di San Brizio, Duomo, Orvieto. 1 - Ritratto di Leonardo Bruni. 2 - Ritratto di Francesco Petrarca.

Dante era convinto – lo scriveva nel Convivio – che il nuovo idioma fosse destinato a diventare un «sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce». Secondo il Trecentista, dunque, il volgare era in grado non solo arrivare nelle case di tutti – il Convivio è un’opera tendenzialmente divulgativa –, ma anche di sostituire la lingua garante dell’immortalità letteraria: il latino. L’Alighieri non ha ripensamenti: con la Commedia, i percorsi linguistici teorizzati nel De Vulgari Eloquentia cambiano, ma è proprio dal plurilinguismo del poema in volgare – comunque ricco di latinismi e apporti linguistici di altri dialetti – che si evince la grandiosità della sua operazione. In un clima di grande incertezza e forti polemiche, infatti, Dante scommette sul nuovo idioma: la Commedia, summa dei saperi del tempo, è il ritratto di personaggi, paesaggi, credenze e culture, stati d’animo, situazioni e moti dell’animo che solo una lingua dal potenziale infinito avrebbe potuto descrivere. A opera compiuta, il poeta non solo termina l’itinerarium mentis in Deum, e contempla «l’amor che move il sole e l’altre stelle», ma dimostra anche ai detrattori che il suo azzardo non era stato un capriccio: rifiuta l’invito di Giovanni Del Virgilio, a contatto con i preumanisti padovani, di scrivere una tragedia in latino, convinto del suo atto di fede verso il volgare e che il poema lo avrebbe riportato a Firenze.

L’Alberti era convinto che, in quanto appartenente a tutti i parlanti come loro lingua madre, ed essendo frutto della corruzione di quest’ultima a opera dei Barbari, il volgare avrebbe dovuto seguire una strada sicura, tracciata dal latino e dai dotti: l’atteggiamento non è quello degli umanisti, anche se di questi ha bisogno. La sua prosa è ricca di latinismi – a livello sintattico, lessicale e fonetico –, proprio perché ha un progetto preciso e opera concretamente per realizzarlo: è stato lui l’autore della prima grammatica italiana, la Grammatichetta vaticana, che, però, non fu data alle stampe, ed è stato sem-

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L’Umanesimo guarda Dante con diffidenza: ne apprezza il talento, ma ne condanna le scelte. Nel Dialogus ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo Bruni, ad esempio, Niccolò Niccoli dichiara che l’Alighieri non era un letterato e che sarebbe dovuto finire tra i lanaioli e i fornai: classe sociale che rappresenta una realtà linguistica ben precisa. È evidente, insomma, lo scollamento fra i letterati – che, sulla scia della lezione del Petrarca, continuavano ad avere come modelli Virgilio, Cicerone, Seneca e i grandi classici in generale – e il popolo, che, invece, prediligeva l’uso di un idioma che sarebbe stato condannato per buona parte del secolo, almeno fino a quando non sarebbe stata recepita la lezione di Leon Battista Alberti. Con lui, è tempo di iniziare di nuovo: il De vulgari eloquentia era andato perduto – venne riscoperto soltanto nel Cinquecento, quando Giovan Giorgio Trissino lo diede alle stampe in traduzione italiana – ed era indispensabile un altro punto di riferimento. Il fiorentino necessitava, insomma, di ulteriori scommesse e l’Umanesimo volgare le colse a pieno. Sul Romanzo

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al 60-70% del totale, fatta eccezione per città come Roma, Torino e Pavia, dove la Chiesa e le università, legate al latino da storia e tradizione, impediscono l’affermazione del fiorentino.

3 3 - Ritratto di Leon Battista Alberti, Masaccio, 1423-1425. Isabella Stewart Gardner Museum, Boston (USA). 4 - Ritratto di Giovanni Boccaccio, Raffaello Sanzio Morghen, 1822. 5 - Ritratto del cardinale Pietro Bembo, Tiziano Vecellio, 15451546. Museo di Belle Arti, Budapest (HU).

Ma affinché il volgare si potesse affermare con forza, era necessaria un’azione che ne regolamentasse le strutture e gli desse stabilità: era lingua di tutti, ma avrebbe mai potuto prendere il posto del latino, rozzo e mutevole com’era? L’azione di Pietro Bembo, autore delle Prose della volgar lingua, è stata fondamentale in questo senso: le spinte a favore del volgare erano tante e diverse, tutte influenzate dai grandi modelli trecenteschi – la Commedia, i Rerum Vulgarium Fragmenta e il Decameron –; serviva, però, l’intervento di qualcuno che portasse a compimento il processo e lo ufficializzasse. Era il 1525 e Bembo scriveva che, solo se avesse preso a modello il volgare alto e si fosse tenuta lontano dagli usi del popolo, la nuova lingua avrebbe potuto vincere la sfida degli inizi; il teorico, insomma, era convinto che andassero imitati i grandi, ma non Dante, che a volte era stato realistico e plebeo (anche nel Paradiso), bensì il Petrarca del Canzoniere e il

pre lui l’organizzatore del Certame coronario del 1441, una gara poetica in cui i concorrenti avrebbero dovuto dimostrare maestria nell’uso del volgare, che si concluse nel peggiore dei modi: la giuria, composta da soli umanisti, non assegnò il premio e fece fallire de facto l’iniziativa; una vibrante Protesta – attribuibile all’intellettuale – fu inviata ai responsabili, sdegnati dal fatto che il volgare fosse stato paragonato al latino. Ma dai tempi della Scuola Siciliana erano passati due secoli e non poche parti dell’Italia sembravano pronte ad accogliere la lezione di chi aveva rischiato: Lorenzo il Magnifico puntò sul fiorentino per far sì che la sua corte potesse imporsi culturalmente sulle altre; le Tre Corone Fiorentine erano penetrate variamente nell’area settentrionale (a Milano e Venezia, per esempio); la piena maturità che il volgare raggiunse nel Cinquecento, insomma, fu anticipata da momenti e protagonisti che, nel Quattrocento, seppero andare oltre gli allori promessi dalla lingua latina.

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Il Cinquecento, poi, è segnato dalle opere in volgare di massimi scrittori, quali Ariosto, Tasso, Aretino, Machiavelli e Guicciardini, ma non solo: è il secolo dell’affermazione del volgare in ambiti prima dominati dalla lingua latina. Si assiste, infatti, a una progressiva corrosione del potere del vecchio grande idioma nella pubblica amministrazione e nella giustizia, dove, però, il volgare viene usato in poche occasioni (per esempio, nei processi). Bruno Migliorini scrive che, se la nuova lingua trovò spazio nelle arti applicative, nella letteratura e nella storiografia, il latino conservò la sua forza nella medicina, nella filosofia e nella matematica (saperi caratterizzati da un’indiscutibile componente teorica). Anche la produzione editoriale è sorprendente: soprattutto nella seconda metà del secolo, i libri in volgare sono pari

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sfida – quella della lingua comune – e l’impresa sembrava impossibile: l’Italiano era non soltanto elitario, in quanto posseduto dagli intellettuali, almeno a livello alto, ma anche scritto; la gente del popolo usava solo il proprio dialetto. Lo stesso Manzoni dovette “sciacquare i panni in Arno”, recandosi a Firenze nel 1827, affinché i suoi Promessi Sposi potessero aver successo in tutta la Penisola. Le difficoltà di questo nuovo inizio nascono, dunque, proprio dalla forte “letterarietà” delle origini: Renzo e Lucia non erano intellettuali e avevano bisogno di parlare, non di scrivere. L’idioma da diffondere era il fiorentino, certo: ma in che modo? Manzoni propone l’imposizione della lingua di Firenze in tutte le parti d’Italia, scatenando la forte reazione di Graziadio Isaia Ascoli nel Proemio del 1882: la lingua di tutti sarebbe dovuta nascere non dall’“alto”, ma come necessità di tutta una nazione.

6 Boccaccio delle cornici (nei dialoghi del Decamerone, infatti, troppa era stata la vicinanza al parlato). «[…] La lingua delle scritture, Giuliano – così Bembo fa parlare suo fratello Carlo nel primo libro delle Prose – non dee a quella del popolo accostarsi, se non in quanto accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza […]. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente […]: con ciò sia cosa che ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo». Bembo proponeva Petrarca e Boccaccio, lontani da qualsiasi tratto popolare(ggiante): quelli che avrebbero potuto garantire al volgare un viaggio nel tempo fino ai posteri. È un classicismo indiscutibile, il suo, che scatenò forti polemiche tra i contemporanei nella prima Questione della Lingua – si pensi a Machiavelli, che continuò a scrivere secondo i propri usi e non accettò mai la lezione arcaizzante delle Tre Corone –; alcuni, però, fecero tesoro degli insegnamenti del terzo libro delle Prose, che proponeva una vera e propria grammatica in forma dialogica: Ariosto, per esempio, rivide il suo Orlando Furioso nel 1532, senza perdere mai di vista l’ideale bembiano.

«[…] Si deve ancora chiedere – scriveva Ascoli – perché veramente sieno all’Italia mancate le condizioni che altrove condussero alla unità intellettuale onde si attinse la unità di favella; […] rimane sempre, che la differenza dipenda da questo doppio inciampo della civiltà italiana: la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma». Dante aveva vinto, ma i sentieri restavano impervi: l’Italiano, lingua di tutti, nei fatti era ancora lingua di nessuno e solo molto tempo dopo il 1861 l’unità venne davvero: il nuovo popolo possedeva finalmente la sua vecchia lingua.

Il binomio letteratura-lingua influenzerà notevolmente le sorti dell’Italiano: nell’Ottocento, infatti, venne il tempo di una nuova 6 - Ritratto di Dante Alighieri, Cristofano dell'Altissimo, 1552-1568. Galleria degli Uffizi, Firenze. 7 - Ritratto di Alessandro Manzoni, Francesco Hayez, 1841. Pinacoteca di Brera. Sul Romanzo

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Lo chiamavano “Cretinetti”. Il difficile esordio di Dino Buzzati di Daniele Duso

Sullo sfondo: Mont Sainte-Victoire, Paul Cézanne, 1904-1906. Kunsthaus, Zürich (CH). Sotto: Ritratto fotografico di Dino Buzzati.

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«Nessuno si ricorda quando fu costruita la casa dei guardiaboschi del paese di San Nicola, nella Valle delle Grave, detta anche la Casa dei Marden. Da quel punto partivano cinque sentieri che si addentravano nella foresta. Il primo scendeva giù per la valle verso San Nicola e a poco a poco diventava una vera strada. Gli altri quattro salivano fra i tronchi, sempre più incerti e sottili, fino a che non rimaneva più che il bosco, con gli alberi secchi rovesciati per terra e tutte le sue vecchissime cose. E sopra, a Nord, c’erano le bianche ghiaie che fasciano le montagne».

Così inizia Bàrnabo delle montagne, opera prima di Dino Buzzati (Belluno, 1906 – Milano, 1972). Pubblicato nel 1933, quando lo scrittore era al Corriere della sera da ormai cinque anni, Bàrnabo già presenta molti di quelli che saranno i temi principali e lo stile delle opere successive di Buzzati: atmosfera fiabesca, ambientazione montana, dove gli spiriti della natura sono vivi, presenti e attivi; l’uomo vive in una realtà ambigua, nella quale l’anormalità presente non è affatto un problema, semmai una complessità positiva, un valore aggiunto; l’attesa, il tempo che scorre, tra paure, ambizioni e sconfitte, verso un indefinito futuro, angosciante pensiero che accompagnerà quest’autore per tutta la vita. Già dall’anno precedente all’uscita della sua prima fatica Dino Buzzati aveva iniziato a pubblicare racconti. Scriveva per il settimanale Il Popolo della Lombardia col quale aveva cominciato a collaborare dal 1931 come autore di note teatrali e racconti, ma soprattutto come illustratore. Ciò, tuttavia, non gli ha assicurato il successo, tutt’altro. Ma d’altronde, forse, non era con quest’opera che Buzzati sperava di ottenere la fama. Ancora troppo acerbo e insicuro, pur ricordando che Bàrnabo delle montagne «fu veramente un grosso lavoro», qualche anno dopo lo stesso auSul Romanzo

tore ricordò in un’intervista che questo «è l’unico libro che ho scritto pensando che non sarebbe mai stato pubblicato». Il romanzo di Bàrnabo, o meglio sarebbe dire il racconto lungo, venne, invece, pubblicato. Il “realismo fiabesco” di Buzzati, spesso accostato a quel “realismo magico” di un Bontempelli allora già maturo, piacque molto a Ciro Poggiali, capocronista del giovane scrittore al Corriere della sera. Fu questo collega (anche se qui le fonti discordano, alcuni parlano del collega Orio Vergani) a darsi molto da fare per aiutare il Buzzati a trovare un editore. Fu raggiunto un accordo con Treves, storica casa editrice, una delle maggiori in quegli anni, e il libro uscì. L’esordio non fu di grande successo: quasi ignorato dalla critica e dai colleghi dei quotidiani, il libro venne venduto in poche copie. C’è da dire che neanche il momento storico era dalla sua parte, poco propenso a recepire le “favole” dello scrittore bellunese in un periodo in cui la gente, semmai, cercava concretezza: in quegli anni, l’Italia assisteva, e in buona parte accoglieva, il consolidarsi del Fascismo al potere, mentre, nel resto del mondo, si accumulava tutta una serie di eventi che avrebbero portato, di lì a qualche anno, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. n° 2 • Aprile 2013

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Così, anche l’opera successiva di Buzzati esce con un destino già scritto. Di due anni posteriore a Bàrnabo delle montagne, la favola de Il segreto di Bosco Vecchio passa quasi inosservata, meteora nel panorama editoriale italiano dell’epoca. Ci mette del suo, però, anche l’autore, dal carattere schivo e riservato, sembra far di tutto per non farsi notare, in campo letterario come in ambito lavorativo, dove Buzzati, come ebbe a dire il suo illustre collega Indro Montanelli, «portava l’ordine, lo scrupolo, lo zelo, la puntualità dell’ufficiale di picchetto, ma sempre con una cert’aria di noncuranza. Dove lo mettevano stava, fosse pure di guardia al bidone». Ci mise anni, Dino Buzzati, per essere riconosciuto quale il grande cronista che era. Egli stesso, quando entrò al Corriere, scrisse a un amico di temere «un fiasco fenomenale», e per tutta la vita si considerò nient’altro che un cronista mediocre. Eppure, come ricorda il giornalista Michele Brambilla, «proprio i servizi che Buzzati scrisse da inviato quand’era già famoso romanziere restano tra le pagine di cronaca più belle nella storia del giornalismo italiano». Com’è capitato nella storia a molti geni, anche Buzzati fu a lungo incompreso, dagli altri, «al Corriere, i primi anni – ricorda ancora Brambilla –, lo chiamavano “cretinetti”», ma anche da se stesso. Chissà se, per Buzzati, quel senso tormentato dell’attesa che provano tutti i principali personaggi delle sue opere derivasse da quel suo personale tormento, aspettando un riconoscimento professionale e letterario che tardava ad arrivare.

«[…] è che tutti vivono così – scrive già in Bàrnabo delle montagne – come se da un’ora all’altra dovesse arrivare qualcuno; non l’assalto di un nemico, ma qualcuno, sconosciuto; non si può dire chi. Si guarda intanto verso le alte cime; esse sono grigie e sopra passano nubi dello stesso colore sempre uguali, sempre uguali». Par quasi che, per Buzzati, sia il paesaggio stesso a partecipare a quest’attesa, che è il vero protagonista della scena e si fa quasi sentimento dalle tinte leopardiane, potente da riempire una vita intera e darle senso. Ché poi, infatti, quando l’attesa finisce, ciò che accade, ciò che succede, si rivela fatuo, frivolo, quasi inutile. Dice ancora Buzzati: «Probabilmente tutto è nato nella redazione del “Corriere della sera”. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no…». Potrebbero essere le stesse parole del capitano Giovanni Drogo, il protagonista del romanzo più famoso di Buzzati, il suo più grande successo, quello che gli diede la meritata fama. Nel 1939, Buzzati, in partenza per l’Etiopia, affidò a Leo Longanesi il manoscritto di un romanzo. L’aveva intitolato La Fortezza. A Longanesi bastò poco per capire che aveva fra le mani un capolavoro, un romanzo destinato a un rapido e immediato successo, ma anche a rimanere quale pietra miliare della letteratura italiana. «È destinato a durare, sup-

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…

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"Natale non è Natale senza regali", si lamentò Jo, sdraiata sulla coperta Avevo riletto i miei appunti, e non ne ero soddisfatto…

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pongo, più dell’Eni – disse un entusiasta Oreste Del Buono –, è uno dei pochi capolavori italiani, facciamo: una delle poche cose italiane riuscite, di questo secolo». Così venne accolto Il deserto dei Tartari, che uscì il 25 aprile del 1940, come primo volume della Collezione “Il sofa delle muse” della Rizzoli, diretta da Leo Longanesi. La prima stampa andò esaurita rapidamente, elogiata, tra gli altri, anche dal famoso critico letterario Piero Pancrazi. Di lì a poco, uscì una seconda edizione, a sancire il successo travolgente de Il deserto dei Tartari, con il quale Buzzati, a 36 anni, e a otto anni da Bàrnabo delle montagne, esce per sempre dall’anonimato e viene riconosciuto come uno dei più grandi autori italiani del Novecento. Una grandezza confermata in seguito dalla pubblicazione di raccolte di racconti, opere teatrali, favole per bambini e, diciotto anni dopo il Deserto, con il premio Strega assegnato ai suoi Sessanta racconti.

«Ci sono individui che maturano tardi, molto avanti con gli anni – disse di sé in un’intervista parlando della scoperta, tardiva dell’amore –. Io debbo essere uno di quelli. Molte cose non le capisco ancora, altre le ho capite quando non mi serviva più di capirle». Parole che sintetizzano perfettamente il lavoro di una vita e la fisionomia di un artista eclettico (Buzzati è stato anche un pregevole pittore) che si è sempre contraddistinto per la pacatezza, l’eleganza e l’autoironia con le quali affrontava l’avanzare, inesorabile, del tempo.

Ritratto fotografico di Dino Buzzati.

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I primi, difficili esordi letterari di Pier Paolo Pasolini

Dalle Poesie a Casarsa a Ragazzi di vita e Le ceneri di Gramsci: tra impegno politico e omosessualità

di Elena Spadiliero

1 Pier Paolo Pasolini nacque come poeta e proseguì come narratore e cineasta. Come sottolineato da Roberto Carnero nel suo Morire per le idee (Bompiani, 2010), chiunque si accosti all’opera di Pasolini deve fare i conti con una produzione vasta ed eterogenea, che investe più esperienze, in più campi d’azione culturale. L’esordio artistico di Pasolini non fu dei più facili, per due ragioni, che costituirono paradossalmente anche i fulcri attorno ai quali si sviluppò la sua produzione: da una parte, l’omosessualità, contro la quale Pasolini tentò una prima, debole resistenza, ma che finirà per costargli, in seguito ai fatti di Ramuscello nel 1949, una denuncia per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, con la conseguente accusa di omosessualità, l’espulsione dal PCI e la “fuga” a Roma nel gennaio 1950; dall’altra, l’impegno politico, una contrastata militanza a Sinistra, che il titolo del bel libro di Borgna e Baldoni, Una lunga incomprensione. Pasolini fra Destra e Sinistra (Vallecchi, 2010), riesce a esprimere appieno, viste le posizioni non sempre favorevoli del PCI nei confronti del poeta e della sua opera.

1 - Ritratto fotografico di Pier Paolo Pasolini. 2 - Arthur Rimbaud, fotografato da Étienne Carjat, 1872. 3 - Ritratto fotografico di Pier Paolo Pasolini.

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Il leitmotiv politico è riscontrabile già, nel 1942, nelle Poesie a Casarsa, che Pasolini fece uscire a sue spese presso la libreria antiquaria Mario Landi a Bologna (le Poesie saranno, in seguito, raccolte ne La meglio gioventù (1954), titolo che richiama un triste canto degli alpini, «la mejo zoventù la va soto tera» (riproposto in Salò), insieme a quasi quindici anni di produzione in friulano, dal 1940 al 1953; i componimenti dal 1943 al 1949, in italiano, saranno raccolti, nel 1958, ne L’usignolo della Chiesa Cattolica). La pubblicazione permise a Pasolini di costruirsi una prima, seppur limitata, cerchia di estimatori, di cui faceva parte anche il critico Gianfranco Contini il quale, un paio di settimane dopo l’uscita del volumetto, contattò Pasolini perché intenzionato a recensire le poesie sulla rivista Primato. Tuttavia, questo fu anche il primo caso di censura di cui Pasolini fu vittima. La recensione di Poesie a Casarsa non sarà pubblicata su Primato, bensì su Il Corriere del Ticino, in Svizzera: questo perché il fascismo «non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi locali, e degli idiomi di ostinati imbelli»1. Se, all’inizio, l’antifascismo, in Pasolini, era nato solo sul piano culturale, la censura della sua opera contribuirà a trasformare questo n° 2 • Aprile 2013


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sentimento in una presa di posizione sul piano ideologico. Nelle Poesie, inoltre, è possibile (tra molte altre) individuare la fondamentale influenza del poeta francese Rimbaud: quando, nel 1937, Pasolini era ancora uno studente di liceo, un supplente, Antonio Rinaldi, lesse in classe Le bateau ivre che contribuirà a far nascere nel futuro intellettuale la percezione di una coscienza politica alla base di buona parte del suo lavoro. L’influenza di Rimbaud non si esaurisce sul piano politico, ma prosegue su quello privato: auto-definirsi «sotto il segno di Rimbaud» significò, per Pasolini, collocarsi in un microcosmo di diversità, vissuta in modo problematico, eppure inevitabile – da portare avanti con chiarezza («di una chiarezza senza mezzi termini, feroce»2) –, dal poeta de Le ceneri. Per Rimbaud, il poeta deve conoscere la sua anima, giungendo all’ignoto attraverso la «sregolatezza di tutti i sensi»: difficile non leggere in queste parole anticipazioni della psicanalisi freudiana, dove l’inconscio rappresenta il punto verso il quale tende Rimbaud, tramite la sua vita e poesia. Anche in Pasolini la psicanalisi gioca un ruolo importante, almeno per quanto riguarda il complesso di Edipo, già presente nel romanzo breve Atti impuri Sul Romanzo

(«il ragazzo rappresentava ancora per lui quanto di più caro e amato ci fosse al mondo dopo sua madre»3). Se ne Il sogno di una cosa (da una citazione di Karl Marx, «Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa») Pasolini contribuì a far irrompere nella scena dell’ancestrale campagna friulana la questione della coscienza di classe, fu ne Le ceneri di Gramsci del 1957 che il poeta evidenziò l’importanza della responsabilità politica. Nel poemetto che intitolava l’opera, Pasolini si trovava di fronte alla tomba di Gramsci presso il cimitero acattolico a Testaccio: da una parte, il poeta mostrava di aderire all’ideologia del PCI, che voleva il proletariato detentore di quella coscienza di classe che gli avrebbe permesso un’evoluzione civile; ma, dall’altra, Pasolini temeva che tale emancipazione significasse anche la perdita della genuinità («Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te»), caratteristica di quel sottoproletariato che egli amava, al di là di ogni ideologia («Attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, n° 2 • Aprile 2013

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non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza»). Fu questo scarto tra i rigidi dogmi del partito e la loro attuazione sul piano concreto a suscitare i tormentati dubbi di Pasolini, che, in più di un’occasione, si pose in aperto contrasto con le posizioni del PCI, rispondendo a una necessità che sarà imperante nel corso di tutta la sua vita: smuovere le coscienze, spingerle a una riflessione, auto-analisi e auto-critica, anche, e soprattutto, rispetto a dei concetti considerati immutabili che, al contrario, dovevano essere contestualizzati e, perché no, rivisti. Tuttavia, ad attirare su Pasolini la maggior parte delle critiche, oltre che numerosi procedimenti giudiziari, fu la posizione nei confronti del tema dell’omosessualità, particolarmente caro al poeta, poiché intimo e personale. Un primo, quasi timido, approccio all’argomento avvenne grazie ai romanzi brevi Atti impuri e Amado mio, scritti subito dopo la guerra, traendo spunto dagli appunti nei Quaderni rossi, riflessioni legate al periodo friulano. Se Atti impuri costituisce una sorta di «un’autobiografia in via di trasformarsi in vero e proprio romanzo» (citando Attilio Bertolucci), in Amado mio Pasolini riservò all’omosessualità un tono più leggero: il protagonista Desiderio corteggia Iasìs in mille modi e, quando ormai sembra essere intenzionato a lasciar perdere, Iasìs si concede, durante una proiezione cinematografica all’aperto, mentre Rita Hayworth

canta Amado mio in Gilda. In seguito allo scandalo del 1949, l’omosessualità verrà trattata con toni molto meno positivi, a partire dai romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) fino alla successiva produzione cinematografica, da Teorema (1968) a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), in cui il sesso è concepito come uno strumento di possesso e dominio. Partendo dal presupposto che tutta l’opera di Pasolini fu oggetto di critiche, non solo finché il poeta fu in vita, ma pure post mortem (ricordiamo solo le dichiarazioni di Edoardo Sanguineti, che accusò Pasolini di aver creato un «lungo progetto di confusione tra arte e vita», e Alberto Asor Rosa, che si scagliò contro il corsaro in un articolo apparso nel 1985 su La Repubblica, Pasolini e i suoi delfini), vogliamo concentrarci per un momento sulle diatribe nate intorno ai primi due romanzi romani di Pasolini, Ragazzi di vita e Una vita violenta. All’uscita di Ragazzi di vita è la stessa Presidenza del Consiglio (probabilmente su segnalazione del Ministro degli Interni Ferdinando Tromboni) a segnalare alla magistratura il carattere pornografico dello scritto. Nonostante fosse piaciuto a pubblico e critica, i primi a scagliarsi contro il romanzo furono proprio gli esponenti della stampa comunista (basti pensare all’intervento di Giovanni Berlin-

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guer su L’Unità). Fecero discutere l’argomento e il linguaggio utilizzato da Riccetto e compagni, un gergo della borgata romana, che Pasolini rielaborò grazie alla consulenza dell’amico Sergio Citti. Apprezzamenti arrivarono da Gadda (a sua volta sperimentatore linguistico nel Pasticciaccio), Alberto Moravia, Attilio Bertolucci e Giuseppe Ungaretti, che, in occasione del processo contro Ragazzi di vita, inviò una lettera, sostenendo il valore della prosa narrativa del romanzo, oltre che il merito di Pasolini di aver rappresentato i suoi protagonisti in modo reale (sarebbe stato «un offendere la verità, farli passare come cicisbei»). Stesse polemiche per Una vita violenta, con Calvino che, al contrario, ne fu entusiasta, tanto da dire che «tutte (o quasi) le cose che io voglio che ci siano in un libro, ci sono». Le posizioni spesso polemiche di Pasolini su molti degli avvenimenti del suo tempo furono sancite da una serie di articoli apparsi su alcune testate che, nel 1975, furono raccolti negli Scritti corsari: accanto a pezzi su fatti legati alle trasformazioni della società italiana4, o quelli di natura strettamente politica5, Pasolini espose ulteriormente la sua idea rispetto all’omosessualità6 e di come essa veniva percepita e trattata dalla mentalità del tempo. In aperto contrasto con le ideologie dominanti, Pasolini indicò nel consumismo una nuova forma di totalitarismo permissivo, che esaltava la coppia eterosessuale escludendo tutto ciò che era diverso,

considerato tabù («si può continuare a parlare dei “diversi” con la stessa brutalità dei tempi clerico – fascisti: solo che, ahimè, tale brutalità è aumentata in ragione dell’aumento della permissività riguardante il coito normale […] A compensare la presenza di una certa élite di persone tolleranti, ci sono in Italia cinquanta milioni di persone intolleranti pronte al linciaggio»7). Pasolini è senza dubbio uno dei personaggi più controversi e significativi del Novecento italiano: una sorta di “veggente”, soprattutto per le sue riflessioni di natura politica, che ebbero il loro culmine nell’incompiuto Petrolio. La prematura scomparsa all’Idroscalo di Ostia è probabilmente la conseguenza di un impegno civile vissuto fino alle estreme conseguenze, al contrario di quanto asserito sul Borghese del 9 novembre 1975, che etichettò il decesso come la «lurida morte» di un «frocio»8, a cui s’accompagnarono le lapidarie parole di Mario Tedeschi «[...] bastasse essere pederasti per avere diritto ad un posto nella storia delle lettere, buona parte della classe dirigente potrebbe vantare il diritto all’Accademia». 4 - Ritratto fotografico di Pier Paolo Pasolini. 5 - Scena tratta da Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975. 6 - Massimo Girotti in una scena di Teorema, 1968.

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NOTE: 1 2 3 4

Album Pasolini, pag. 153. Lettera a Silvana Mauri. Roberto Carnero, Morire per le idee, Bompiani, 2010, p. 21. Il discorso dei capelli, 7 gennaio 1973, pubblicato sul Corriere della Sera come Contro i capelli lunghi. 5 Il romanzo delle stragi, 14 novembre 1974, pubblicato sul Corriere della Sera come Che cos'è questo golpe? 6 Il carcere e la fraternità dell’amore omosessuale, pubblicato su Cuore, oltre che la riflessione sul saggio di Daniel e Baudry Gli omosessuali.

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7 Ivi, pag. 26. 8 Baldoni – Borgna, Una lunga incomprensione. Pasolini fra Destra e Sinistra, Vallecchi, 2010, p. 246.

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Gli esordi di Balzac

di Stefano Trucco

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«Il grande successo del giorno: Rigolboche, per via della fotografia in cui mostra le gambe in tutte le posizioni… Ecco fin dove una tirannia deprime il pubblico». L’età dell’oro è sempre stata prima, si sa, e un tempo si pubblicavano solo capolavori, non come oggi che si pubblica di tutto, anche i libri di barzellette di Totti (un esempio molto popolare fra quanti deplorano il triste stato della nostra editoria). Ma nessuno l’aveva detto ai fratelli Goncourt che, nel 1860, Napoleone III regnante, lamentavano il successo delle “memorie” della ballerina di can-can Rigolboche, scritte, in realtà, da un giornalista alla moda. Del resto, i giornali toglievano spazio alla letteratura seria e persino il loro amico Flaubert, che ammiravano sinceramente (per quanto gli invidiosi e rancorosi Goncourt riuscissero ad ammirare qualcuno), s’era abbassato a farsi pubblicità. Declino, come al solito. Oggi, la letteratura francese dell’Ottocento può sembrarci una delle vette della creatività umana, ma, per chi la viveva sul campo, era una lotta senza quartiere per emergere e tutti i mezzi erano leciti per ottenere “visibilità”. I Goncourt, però, scrivevano dopo la metà del secolo, quando la giungla era stata in parte disboscata e addomesticata. Pochi decenni prima, ai suoi esordi, Honoré de Balzac aveva dovuto farsi strada col machete in un ambiente ancor più selvaggio. Vediamo cosa il suo esempio può dire agli esordienti di oggi, se le strade percorse per giungere al successo sono ancora aperte o quanto siano mutate.

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1 - Una copertina di Memoires du Rogolboche. A fianco - Honoré de Balzac, élève à Vendôme., Maxime Dastugue d'après Louis Boulanger. Sopra - Napoleone valica il San Bernardino, Jacques-Louis David, 1800. Malmayson. Parigi (F).

Nulla distingue Balzac dagli scrittori d’oggi quanto lo spirito con cui affrontò la carriera letteraria: «Quel che Napoleone cominciò con la spada, io conquisterò con la penna». Oggi, nessuno scrittore, giovane o affermato, oserebbe dire in pubblico che si considera un genio, ma anche per gli standard dell’Ottocento Balzac esagerava. La parola d’ordine per gli scrittori d’oggi è definirsi “artigiani” o “narratori di storie intorno al fuoco”; insomma, essere molto, molto umili, almeno in pubblico. Un’altra cosa che oggi non s’usa più è quella di crearsi un sistema filosofico personale. Negli anni di apprendistato, Balzac lesse voracemente e disordinatamente fino a mettere in piedi una filosofia basata sul potere della Volontà di rifare il mondo, andando anche oltre la natura, il tema che poi tornerà in mille incarnazioni nella Commedia Umana. Una volontà sovrumana sarebbe stata utile al giovane scrittore che voleva conquistare Parigi. Esistono forse altri obiettivi degni di un uomo ambizioso che conquistare Parigi, l’unica città veramente importante al mondo? Tanto ambizioso che il suo primo prodotto letterario finito fu un Cromwell, una tragedia in versi, cioè il genere nobile per eccellenza, in Francia. Balzac non era minimamente portato al verso e la sua competenza drammatica era, a quel punto della sua carriera, molto modesta. Ma lo finì lo stesso, mentre faceva finta di studiare e di fare l’apprendista da un avvocato. Un giorno, pensava, quel suo dramma sarebbe stata la Bibbia degli statisti di tutta Europa, oltre a lanciare lui stesso nell’arena politica. Non fu così, per qualche motivo. Balzac, per fortuna, si convinse presto che il suo futuro era nel romanzo (pur senza rinunciare al giornalismo, al teatro e a tutto il resto…). Qui, le sue scelte non furono molto diverse da quelle che potrebbe fare un esordiente d’oggi: si buttò sui generi di moda al momento e con grandi aspettative di ricchezza e successo. «Quest’anno spero di guadagnare i ventimila franchi da cui deve iniziare la mia fortuna», scrisse alla sorella. Inoltre, sarebbe presto diventato «l’uomo alla moda, lo scrittore più fecondo, più amabile, e le signore mi ameranno». Come dire: Balzac, oggi, scriverebbe di poliziotti disillusi a caccia di serial killer, di Vangeli perduti che potrebbero rivoluzionare la storia del Cristianesimo, di vampiri carini e castamente innamorati o dei problemi sentimentali e sessuali di giovani precari, o magari direttamente fan fiction online con i personaggi di qualche serie televisiva americana.

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La Parigi post-Napoleonica degli anni Venti era in preda a un raro ma violento attacco di anglomania. Le mode venivano da Londra, nel vestire come nella letteratura. Il romanzo francese del Settecento era stato un genere elegante anche nella volgarità e aristocratico anche nella ribellione; un genere che dopo i suoi capolavori, dalla Principessa di Cleves alle Relazioni Pericolose, s’era fossilizzato. L’influenza inglese lo aprì e trasformò. Il genere più di moda era il romanzo storico alla Walter Scott, castamente romantico e favolosamente dettagliato. È difficile per noi renderci conto dell’enorme influenza che Scott, oggi relativamente poco letto, esercitò sulla letteratura europea dell’Ottocento. Quello storico era anche il genere nuovo più rispettabile, almeno paragonato ai romanzi gotici e dell’orrore come quelli di Matthew Gregory Lewis, autore del Monaco (Balzac attribuì a Lewis uno suoi romanzi giovanili). C’era un buon mercato per avventure esotiche, sia nell’Oriente di Lord Beckford che nelle foreste americane di Fenimore Cooper. Inoltre, era potente il mito di Lord Byron e dell’eroe bello e dannato. Anche l’incesto, possibilmente casuale, andava forte, magari decorato con un po’ di filosofia. Sténie, Falthurne, Corino sono i primi eroi balzacchiani, ma si trascinano per qualche decina di pagine e svaniscono nel nulla. L’evento decisivo è l’incontro con Auguste Le Poitevin, un avventuriero letterario che sprecò il suo talento nel giornalismo scandalistico e vide ascendere al successo e alla gloria molti scrittori che aveva lanciato. Balzac ne trarrà il personaggio di Étienne Lousteau nelle Illusioni Perdute, l’uomo che, per primo, corrompe l’eroe bello ma debole, Lucien de Rubempré, rivelandogli la verità sul mondo delle lettere. Le Illusioni

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Perdute offre un ritratto devastante dell’editoria del tempo, spesso per bocca dello stesso Lousteau, che denuncia il marcio del suo mondo, ma non può più abbandonarlo, quel tipo di personaggio che fa il male ma ne soffre. «La vita letteraria ha i suoi retroscena. Il successo usurpato o meritato, ecco quello che vuole la platea; i mezzi, sempre ignobili, le comparse imbellettate, la claque, i servi di scena, ecco quel che si cela fra le quinte. Voi siete ancora in platea. Siete ancora in tempo, rinunciate prima di mettere il piede sul primo gradino del trono disputato da tante ambizioni e non disonoratevi come faccio io per vivere!” (Una lacrima comparve negli occhi di Étienne Lousteau)». A dominare sono i librai più che gli editori, e i loro obiettivi sono puramente commerciali, senza il benché minimo tentativo di “politica culturale” o “linea editoriale”. Si pubblica solo quel che vende. Il mercato è ristretto alle classi colte parigine e provinciali. Le uniche forme di pubblicità sono i giornali e i salotti, in cui bisogna sapersi muovere. Lo scrittore dev’essere, dice Balzac, un “courtier littéraire”, capace più di parlare che di scrivere per vendere i suoi volumi a quanti potevano fare la sua fortuna. I critici dei giornali si dividono fra quelli semplicemente in vendita e quelli legati a un partito: i giornali, come i salotti, possono essere di diversa qualità e importanza, ma sono tutti, dal primo all’ultimo, monarchici o liberali, destra o sinistra, e bisogna scegliere. Del resto, quando finalmente riusciranno a imporsi dei veri critici, non venali né partigiani, come Sainte-Beuve, non esiteranno a tentare di governare loro il mondo letterario. Altrimenti, si faceva come Balzac: ci si scriveva da soli le recensioni positive sotto falso nome. A quei tempi, lo scrittore che non voleva legarsi a un partito politico doveva occuparsi da sé del successo della sua opera, collaborando attivamente con librai, editori, giornalisti e salotti e spendendosi in prima n° 2 • Aprile 2013


Nella pagina a fianco - Illustrazioni tratte da Illusions perdues. In basso - Honoré de Balzac, in un dagherrotipo del 1842.

persona (a meno naturalmente che non fosse un gentiluomo con reddito indipendente): uno stato di cose che sta tornando ai giorni nostri, dopo decenni in cui il grosso del lavoro pubblicitario era a carico degli editori. I primi romanzi pubblicati da Balzac furono, quindi, collaborazioni con Le Poitevin che uscivano sotto pseudonimo. Lord R’hoone (omaggio alla moda inglese e scottiana) e Horace de Saint-Aubin furono gli autori di una serie di romanzi discretamente deprimenti e di modesto successo, che non portarono alla sperata ricchezza. Annette et le criminel, Clotilde de Lusignan, Le Vicaire des Ardennes, Le Centenaire, L’héritière de Birague … Castelli in rovine, vergini in pericolo, giovani proletari arrapati, cavalieri neri, pirati da redimere, incesti inconsapevoli, seduttori senza scrupoli, pioggia… Nel Centenario, un uomo ha fatto un patto col diavolo per ottenere l’immortalità, ma sfortunatamente è costretto a vampirizzare una vergine ogni secolo o giù di lì, finché non mette gli occhi sulla verginale fidanzata del figlio che è perciò costretto a ucciderlo. «Ho scritto sette romanzi per semplice studio: uno per imparare il dialogo; uno per imparare la descrizione; uno per raggruppare i personaggi; uno per la composizione…». Instancabile mitografo di se stesso, il Balzac maturo e di successo pretese di aver avuto un piano fin dall’inizio e che quei modesti romanzi fossero in qualche modo un esperimento. No, ma funzionarono lo stesso. Dove non funzionarono fu nel rendere ricco il loro autore. Alla fine, carico di debiti, Balzac abbandonò per alcuni anni la scrittura per darsi agli affari. Aprì una stamperia. Nei suoi romanzi, si parla in continuazione di soldi e molti suoi personaggi sono geni degli affari, un tipo di genio di cui lo scrittore era totalmente privo. L’avventura della stamperia finì con un carico di debiti ancor più schiacciante, che Balzac si portò dietro quasi fino alla morte. Ma era tutta esperienza e, come disse Mallarmé, la vita non serve ad altro che a finire dentro un libro: l’esperienza di stampatore servì per il personaggio di David Séchard, sempre nelle Illusioni Perdute. Quando, nel 1828, Balzac torna alla letteratura (ci sono sempre tutti quei debiti…), lo fa con un piglio nuovo e più sicuro, tanto da firmarsi Honoré de Balzac. Lo stile è maturato e il sensazionalismo, che non sparirà mai del tutto, è più controllato. Siamo ancora fra i generi alla moda. Gli Sciuani è un romanzo storico ma anche d’attualità, ambientato nella Bretagna della Rivoluzione. Nell’introduzione, Balzac ci ricorda la principale debolezza di Scott, dalla quale lui è chiaramente esente: nello scozzese, per colpa dell’ipocrisia britannica, non ci sono donne né passioni dei sensi. Sul Romanzo

Più imbarazzante è La fisiologia del matrimonio, un saggio di psicologia pop gonfio di aneddoti e consigli più o meno sensati: le librerie ne sono piene ancor oggi. Finalmente, La pelle di zigrino annuncia il Balzac maggiore, quasi compiutamente realizzato. È un romanzo fantastico, in cui un giovane studente trova da un antiquario una pelle di zigrino magica che esaudisce i desideri, ma nel farlo si restringe e accorcia la vita del beneficiato. Intorno a questa idea Balzac può cominciare a descrivere la Parigi surriscaldata e fosforescente che sarà il suo vero capolavoro. L’autore della Commedia Umana aveva una forte pulsione al fantastico, ma la tenne fermamente sotto controllo e preferì rendere fantastica la società e gli uomini e la donne che la popolavano, uomini e donne così portati alle estreme conseguenze da apparire favolosi, più appassionati, più maniacali, più malvagi, più puri di quanto sia dato d’incontrarne nella realtà. Come scrisse Giovanni Macchia, «se nella prima produzione egli si affidava all’immaginario per arrivare alla realtà, si affiderà poi alla realtà per scoprire l’immaginario», in quanto, come diceva Baudelaire, il quotidiano è leggendario. Oggi che masse di lettori e branchi di scrittori rifiutano recisamente di uscire dalla fortezza del fantastico, terrorizzati dalla realtà esterna, l’esempio di Balzac potrà sembrare estraneo e lontano. La lezione, per gli esordienti dei nostri giorni, riassumendo, sarebbe questa: buttatevi su quel che vuole il mercato, scrivete per venti ore al giorno roba in cui non credete e usate le altre quattro per farvi pubblicità, ma ricordatevi che, prima o poi, quando avrete imparato come si fa, scrivete finalmente qualcosa di “vostro”, fuori dalle trincee dei vecchi generi commerciali. Sì, forse ci vuole la forza di volontà sovrumana di Balzac per farlo.

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Webzine Sul Romanzo Invito _ a __________ presentare ________ articoli ______ 1 Numero 3/20 3 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 3/2013. Gli articoli potranno sviluppare un tema liberamente scelto dall'autore.

Per partecipare, è sufficiente attenersi alle seguenti indicazioni: Prima Fase Entro il 20/04/2013, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: –– essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come font Times New Roman 12; –– riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, luogo e data di nascita, codice fiscale e indirizzo e-mail; –– presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); –– essere inviata a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@ sulromanzo.it. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 30/04/2013, l’autore riceverà un’e-mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 20/05/2013. L’articolo dovrà essere: –– redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; –– in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– inedito; –– inviato all’indirizzo e-mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione della Proposta di Argomento. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail.

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Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti gli articoli ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati in un numero successivo o nel sito internet del Blog www. sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità dell’argomento proposto, si riterranno inammissibili: –– proposte presentate dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– proposte e/o articoli che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– proposte e/o articoli che presentano un possibile conflitto di interessi; –– articoli che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– articoli già editi, indipendentemente dal canale di pubblicazione. Note finali L’invio dell’articolo non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro articoli e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro articolo e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons – Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione dell’articolo pubblicato, successivamente alla sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati eventualmente rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione degli articoli saranno utilizzati esclusivamente per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione di Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it

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Stephen Dedalus: martire cristiano e figura mitologica come paradigma dell’esordio dell’artista di Beatrice Mantovani 1

2 Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce è noto in Italia come Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane (Adelphi 1976, traduzione di Cesare Pavese). Fu pubblicato, per la prima volta, a puntate sulla rivista The Egoist tra il 1914 e il 1915 e, poi, in volume nel 1916. Vengono narrati gli anni formativi della vita di Stephen Dedalus: l’infanzia, gli anni in collegio e il periodo universitario si dipanano in cinque capitoli, attraverso la costruzione di un affresco metaforico della figura dell’artista e della fatica per la sua affermazione, mettendo in scena come la liberazione dall’esterno, cioè, dalle condizioni pre-esistenti che limitano l’avverarsi dell’inizio estetico-artistico, sia propedeutica all’esordio, che viene a connotarsi non come un gesto, ma come un vero e proprio processo. Il nome del protagonista è già di per sé emblematico: Stephen è il primo martire cristiano – Santo Stefano – e, in una curiosa contrapposizione, il cognome si riferisce alla figura mitologica di Dedalo, un abile artigiano che costruì per Minosse il labirinto dove fu rinchiuso il Minotauro e dove venne imprigionato lo stesso Dedalo, il quale fabbricò due ali di cera per sé e per suo figlio Icaro per scappare. Icaro, però, non diede ascolto alla raccomandazione del padre e volò in alto, troppo vicino al sole, così la cera che legava le piume si sciolse e cadde nel mare. Un martire cristiano, dunque, e una figura mitologica sono il nome e il cognome del protagonista di questo romanzo, che, assieme a Gente di Dublino e all’Ulisse, costituisce uno dei tre libri più importanti di James Joyce. Stephen vive a Dublino, la sua famiglia è molto cattolica e permeata da forti sentimenti nazionalistici. Fin da bambino, viene mandato dai genitori a studiare presso il collegio gesuita di Clongowes. La vita del collegio è dura: un fitto insegnamento si accompagna a un clima austero e alle angherie dei compagni. Il giovane vi si adatta, ubbidiente, da un lato, alla disciplina impartitagli e, dall’altro, maturando un progressivo senso d’inadeguatezza, come quando Wells lo fa cadere in un canale di scolo e Dedalus

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1- Ritratto fotografico di James Joyce. 2 - Le copertine di Portrait of the Artist as a Young Man, e della traduzione italiana Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane. 3 - Un ritratto artistico di James Joyce. 4 - Giovane malato, Lorenzo Lotto, 1527. Gallerie dell'Accademia, Venezia.

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si ammala, finendo in infermeria, o quando, a causa di un incidente nel quale gli si rompono gli occhiali da vista, viene esonerato per qualche giorno dagli studi; ciononostante, viene preso a bacchettate dal prefetto Padre Dolan, il quale riteneva che quella del ragazzo fosse solo una scusa e non una causa impediente. I colpi della bacchetta reiterati per ben sei volte sulle mani gli dolevano nell’animo come una punizione immeritata: «Era ingiusto; era iniquo e crudele: e seduto nel refettorio Stephen soffrì di momento in momento nella memoria la stessa umiliazione». Il prefetto aveva anche ironizzato sul suo nome, schernendolo oltre modo davanti alla classe; con occhi incolori gli aveva raddrizzato la mano con le dita morbide, per colpirlo meglio e con più forza. Il giovane prende coraggio e va a lamentarsi dal rettore per il torto subito. Stephen passa le vacanze in famiglia; oltre ai genitori, ai fratelli e alle sorelle, ospiti fissi di casa Dedalus sono anche lo zio Charles, il signor Casey e Dante1 Riordan. Frequenti e accese sono le discussioni di politica all’interno del nucleo familiare. Simon Dedalus, padre di Stephen, e il signor Casey sono accesi sostenitori di Charles Stewart Parnell, leader del Partito Parlamentare Irlandese, il principale partito che cercò di ottenere l’autogoverno dell’Irlanda, con una limitata autonomia nazionale, dal Regno Unito. Nel 1800, infatti, venne promulgato l’Act of Union, mediante il quale il parlamento britannico stabilì lo scioglimento di quello irlandese e l’unione, dal 1 gennaio 1801, fra il Regno d’Irlanda e il Regno di Gran Bretagna per costituire il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda: potere esecutivo e legislativo erano, di fatto, sotto l’egida britannica. Il padre di Stephen e il signor Casey, inoltre, sono strenui difensori del movimento feniano, un’organizzazione segreta che aveva come obiettivo la rivolta armata contro i britannici. Il clima politico era aspro, vi erano leggi anti-insurrezionali molto severe. Dante Riordan è una monaca mancata e difende a spada tratta l’operato della Chiesa cattolica e dei vescovi, i quali, nel 1829, avevano svenduto le aspirazioni del loro Paese, in cambio dell’emancipazione cattolica. Stephen non si appassiona alla politica del suo Paese; Dublino gli appare come «un fenomeno inerte». Egli è immerso completamente nelle sue inclinazioni artistiche: eccelle in tutte le materie, è il primo della classe, recita a teatro e scrive poesie alla bella Eileen, ragazzina protestante di cui si innamora. I problemi finanziari della famiglia gli impediscono per alcuni mesi di andare in collegio, ma una volta vendute alcune proprietà, riprende gli studi a Belvedere. Stephen si isola sempre di più, provando estraneità per i metodi educativi del collegio gesuita. «Tutta la libertà che la vita di scuola gli lasciava, la passava in compagnia di scrittori sovversivi, le beffe e la violenza verbale dei quali gli mettevano un fermento nel cervello prima di trovare uno sfogo nei suoi crudi scritti». I versi di Byron, poeta eretico e immorale, gli risuonano nelle orecchie; eppure, i suoi doveri sono ancora scanditi dalla campanella del collegio. n° 2 • Aprile 2013

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Dedalus fa le prime esperienze sessuali con delle prostitute, ma la lussuria lo lusinga senza intaccare i voti scolastici e il falso zelo verso la religione. Diviene prefetto della congregazione della Beata Vergine Maria, è tra i primi banchi della chiesa a pregare ipocritamente Dio. Durante la festa di San Francesco Saverio, patrono del collegio, Stephen è contrito e confessa i suoi peccati, spaventato dai tormenti materiali e spirituali dell’inferno, elencati con dovizia di particolari dai predicatori gesuiti. Si sa, Santa Romana Chiesa agisce sempre sul senso di colpa per tenere asserviti i propri fedeli. La pecorella smarrita sembra rientrata nell’ovile. Stephen ha sedici anni

e crede che i binari entro cui condurre la sua ligia esistenza siano quelli dettati dalla religione cattolica. Che il suo destino sia, dunque, quello del martire cristiano di cui porta il nome? La devozione e l’eccellenza negli studi fanno sì che a Dedalus venga offerta dal direttore del collegio la possibilità di entrare nell’ordine gesuita, a patto, però, che la sua vocazione sia autentica. Quante volte aveva visto se stesso, sacerdote, esercitare pacato e umile il potere di legare e sciogliere il peccato e di far discendere Dio sull’altare e prender la forma del pane e del vino. No, non diverrà il reverendo Stephen Dedalus, S.J.. Gli tornano alla mente l’odore mefitico dei bagni di

Clongowes, i corridoi lunghi e freddi, i volti senz’occhi dei preti officianti. Avrebbe eluso ogni ordine sociale o religioso, vagabondando tra le insidie del mondo. «Si stupì alla leggerezza delle sue curiosità, al distacco della sua anima da tutto ciò che sinora aveva immaginato ne fosse il santuario, alla debole presa che tanti anni di ordine e di obbedienza conservavano su di lui, una volta che un suo atto definitivo e irrevocabile minacciava di troncare per sempre, nel tempo e nell’eterno, la sua libertà». La dignità dell’ufficio che aveva appena rifiutato aveva risvegliato in lui un istinto ribelle. Sarebbe andato all’università, disattendendo il volere della madre. Per la prima volta in vita sua, ha netta e chiara l’ambivalenza insita nel suo nome: «Sì! Sì! Sì! Avrebbe creato superbamente dal fondo della libertà e della potenza della sua anima, simile al grande artefice [Dedalo] di cui portava il nome, una creatura viva, nuova, ascendente e bella, impalpabile, indistruttibile!».

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L’ultimo capitolo del libro ci offre gli anni universitari di Dedalus. L’insofferenza si fa totale verso la famiglia, i limiti della patria sono evidenti e le statue dei poeti nazionali appaiono grottesche. Al compagno MacCann, sostenitore delle dottrine egualitarie, che gli chiede di firmare un memoriale per la fratellanza universale, risponde che non lo farà. Per questo rifiuto verrà definito un essere antisociale che non ha «imparato la dignità dell’altruismo e la responsabilità dell’individuo». L’amico Davin, di origini contadine e seguace del movimento feniano, gli domanda se si definirebbe un nazionalista irlandese. La risposta non tarda ad arrivare: «Quando in questo paese è nata l’anima di un uomo, le vengono gettate reti per impedirle di fuggire. Tu mi parli di nazionalità, di lingua e di religione. Io cercherò di sfuggire a queste reti». Dedalus è ormai conscio di essere un artista, ma, per poterlo essere liberamente, deve abbandonare l’Irlanda e gli affetti. Fedele alla ricerca estetica secondo cui «pulchra sunt quae visa placent» – definizione di San Tommaso, che Dedalus utilizza spesso, come unica eredità lasciatagli da quasi vent’anni di collegio gesuita –, dovrà ricorrere all’esilio volontario per sottrarsi a qualsiasi forma di vincolo. All’amico Cranly confida di aver litigato nuovamente con la madre, perché non vuole prendere l’eucaristia il giorno di Pasqua: gli riuscirebbe intollerabile il «falso omaggio a un simbolo dietro al quale sono ammassati venti secoli di autorità e di adorazione». Dice con convinzione all’amico con cui si sta confidando: «Ti voglio dire quello che farò e quello che non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia». Queste, dunque, le armi che l’artista ha a disposizione per il suo esordio. La figura mitologica dell’artefice scaltro ha prevalso sul martire cristiano.

Nella pagina accanto: Icarus and Daedalus, Charles Paul Landon, 1799. Musée des Beaux-Arts et de la Dentelle, Alençon (F). 5 - Ritratto di scultore (part.), Andrea del Sarto, 1518 circa. National Gallery, Londra (UK).

NOTE 1 Dante in inglese suona come Auntie, che significa zia in italiano. Il nome, ovviamente, è un omaggio che Joyce fa a Dante Alighieri, complice la grande ammirazione che nutre per il celebre poeta italiano.

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Women and fiction: le difficoltà dell’inizio secondo Virginia Woolf

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di Monica Raffaele Addamo

Leggendo i diari di Virginia Woolf1 si ricava la chiara impressione della centralità della letteratura nella vita della scrittrice inglese. Leggere, scrivere, riflettere sul proprio lavoro e su quello altrui – si tratti di poeti antichi o moderni, di scrittori inglesi, russi o italiani – sembrano impegnare tutta la sua attenzione e il suo tempo. Tuttavia, l’entusiasmo per la scrittura si intreccia, in Woolf, a un altro interesse dominante, quello per la condizione delle donne inglesi. In particolare le stanno a cuore le sorti delle borghesi – le ignoranti «daughters of educated men»2 – e la loro emancipazione attraverso l’istruzione e il lavoro. Sono questioni molto dibattute in Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre, quando le donne delle classi meno abbienti iniziano a entrare nel mondo del lavoro, mentre le ragazze di buona famiglia continuano a dipendere in tutto e per tutto dai loro padri. La scrittura – suggerisce Woolf in alcuni dei suoi saggi – può offrire a queste donne due opportunità preziose: può aiutarle a procurarsi il pane – o, perlomeno, a conquistare una certa indipendenza economica – e nello stesso tempo rappresentare il luogo in cui a poco a poco, con un lavoro serio e costante su stesse, potranno imparare a esprimere con sempre maggiore onestà e autonomia ogni aspetto della propria personalità, tanto a lungo costretta e limitata da quella maschile. Mentre incoraggia le giovani a scrivere, e così a indagare su se stesse, Woolf è, però, consapevole di come sia arduo il cammino verso il traguardo di una letteratura libera, che permetta alle donne di raccontare tutta la verità su di sé. Conosce bene “le difficoltà dell’inizio” per una scrittrice del suo tempo, i dubbi e le autocensure, la sensazione di avventurarsi in un territorio proibito, riservato di diritto agli uomini. Nel saggio Professions for Women3 racconta di avere sconfitto solo in parte i fantasmi che la tormentavano agli esordi come critica e romanziera. Se è riuscita a uccidere lo spauracchio dell’«Angelo del focolare»4 («the Angel in the House»), retaggio vittoriano che la voleva scrittrice pudica e rispettosa dell’autorità maschile, è ancora alle prese con l’incapacità di raccontare le proprie passioni e le esperienze del corpo, anche in questo condizionata dalle censure dell’altro sesso.

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1 - Ritratto fotografico di Virginia Woolf. 2 - Ritratto di Anne Finch, Contessa of Winchilsea, Artista ignoto. 3 - Ritratto del cardinale Pietro Bembo, Tiziano Vecellio, 15451546. Museo di Belle Arti, Budapest (HU).

Con ostacoli ben maggiori, tuttavia, hanno dovuto misurarsi le poche e valorose scrittrici che l’hanno preceduta. A loro, che le hanno sgomberato il sentiero e reso agevoli i passi, Woolf dedica la sua attenzione in numerosi scritti5, in particolare nel lungo saggio A Room of One’s Own6 (1928), in cui analizza a fondo il rapporto travagliato tra «women e fiction»7 e traccia il percorso della scrittura femminile in Inghilterra. È una storia di stenti e di lotte, di genio frustrato e volontà ferree, di exploit e fallimenti, che ha inizio soltanto dopo la straordinaria fioritura dell’età elisabettiana. Perfino in quell’epoca d’oro per la poesia, nessuna donna di cui si abbia notizia mette mano alla penna. Sembra un mistero inspiegabile, ma Woolf – sopperendo alle scarse informazioni lasciate dagli storici sulle donne del tempo – lo chiarisce inventando la storia di Judith, un’ipotetica sorella di Shakespeare. Immagina che la ragazza, spinta da una passione per il teatro pari a quella del fratello, lasci Stratford-upon-Avon per Londra e sfugga, così, al destino riservato alle altre donne: lavoro in casa, matrimonio precoce e cura dei figli. Pur riuscendo a sottrarsi alle costrizioni materiali che le si vogliono imporre, Judith non ha scampo dai condizionamenti psicologici e sociali. Per una donna, una vita libera da artista è inconciliabile con l’imperativo di mantenersi casta: Judith viene sedotta e, distrutta da vergogna e sensi di colpa, si uccide. Impossibile dunque, per una donna borghese, a quel tempo, dedicarsi alla scrittura, conclude Woolf. Del resto, non si ha notizia di donne letterate prima del tardo Seicento, neppure tra le aristocratiche. La via della letteratura è, però, lastricata di difficoltà anche per la donna altolocata. Pur con tutti i vantaggi concessi dal loro ceto, le prime nobildonne che si dedicano alla poesia devono vedersela con lo scherno e la censura dei poeti professionisti. Lady Winchilsea e la duchessa Margaret di Newcastle condividono lo stesso destino: entrambe dotate di un notevole talento per la scrittura, non riescono a metterlo a frutto perché isolate e costrette all’ignoranza. Lady Winchilsea, osserva Woolf, ha il fuoco dentro di sé, ma non è capace di riservarlo soltanto all’arte. L’odio per gli uomini, la paura che il loro disprezzo le impedisca di scrivere,

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4 “sfigura” i suoi versi. Il suo dono per la poesia diviene allora «all grown about with weeds and bound with briars»8. Allo stesso modo, l’intelligenza vivace di Margaret, non potendo nutrirsi del confronto con altri filosofi e poeti, si esprime in poemetti e trattati di filosofia illeggibili e disordinati. «What a waste»9, commenta Virginia Woolf. Queste coraggiose precorritrici, segnate a dito come scriteriate sia dagli uomini che dalle donne, sono precedenti importantissimi per le loro pronipoti. La vera svolta, sostiene Woolf, avviene con Aphra Behn, la prima poetessa borghese, che, per di più, riesce a guadagnarsi da vivere scrivendo. Aphra, vedova e senza mezzi, deve faticare parecchio e pagare lo scotto di una cattiva reputazione. Il fatto che si misuri con gli uomini da pari a pari supera anche l’importanza delle sue belle poesie: «for here begins the freedom of the mind, or rather the possibility that in the course of time the mind will be free to write what it likes»10. Il denaro, che dà la libertà di pensare e scrivere, dà anche dignità a ciò che prima era giudicato frivolo. Le ridicole scribacchine di un tempo sono considerate donne pratiche, in grado di contribuire al bilancio familiare in caso di necessità. Si giunge, così, al Settecento, l’età del romanzo borghese. Le scrittrici si moltiplicano. A centinaia,

nello scorcio del secolo, sfornano traduzioni o brutti romanzi, s’incontrano per parlare di Shakespeare, studiano il greco. Pian piano emergono le prime, grandi figure di narratrici dell’Ottocento: Jane Austen, Emily e Charlotte Brontë, George Eliot. Tutte e quattro – sottolinea Woolf - producono ottimi romanzi pur lavorando su una tradizione vecchia solo di un paio di secoli. Per di più, in quanto donne, devono destreggiarsi tra mille difficoltà, materiali e immateriali. Non hanno una stanza in cui lavorare, dipendono dal padre anche per comprare la carta su cui scrivere, non dispongono né del denaro né della libertà di viaggiare. Sono ignoranti sia di esperienze di vita che di libri: faticano per procurarsi un’istruzione, il loro orizzonte è quello di una canonica di campagna. Probabilmente devono lottare anche contro se stesse, perché figure autorevoli di scrittori e intellettuali continuano a ricordare loro i limiti del sesso femminile. Hanno il diritto di scrivere? Sono in grado di farlo al pari degli uomini? Così, anche se ormai per una donna scrivere è lecito, spesso preferiscono ricorrere ancora a un nome de plume maschile. Questi elementi si riflettono di certo sul loro lavoro. Determinano cosa scrivono e come lo fanno. Alla poesia preferiscono i romanzi, perché richiedono meno concentrazione e perché possono raccontarvi ciò che conoscono bene: i caratteri, i rapporti tra le persone che osservano da secoli nel salotto di casa, dove si svolge tutta la loro esistenza; e perché, azzarda Woolf, quella del romanzo è una forma giovane, sulla quale gli uomini non hanno ancora impresso il loro marchio. Proprio con i romanzi

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4 - Ritratto di Aphra Behn, Mary Beale. 5 - Il frontespizio della prima edizione di Jane Eyre. 6 - Ritratto di Charlotte Brontë, George Richmond, 1873. 7 - Ritratto di Emily Brontë, Patrick Branwell Brontë.

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queste quattro narratrici incominciano una tradizione di scrittura femminile e, nello stesso tempo, lavorano per trovare una propria voce, diversa da quella dei narratori uomini, più adatta a esprimere quanto le donne hanno da dire. Mentre Charlotte Brontë e George Eliot lottano con alterni successi contro la difficoltà di inventarsi una frase che sia agile ed elegante al tempo stesso, Jane Austen riesce a creare una propria lingua, naturale ed espressiva. Tuttavia, si chiede ancora Woolf, come sarebbe cambiata la voce di Austen, se, una volta raggiunto il successo, avesse avuto la possibilità di viaggiare, di frequentare il mondo degli scrittori a Londra? L’ignoranza e la mancanza di esperienze sono gli ostacoli più grandi per le romanziere dell’Ottocento, come per le poetesse che le hanno precedute. Tuttavia, sostiene Woolf, è soprattutto la rabbia, il risentimento per gli uomini, colpevoli di tenerle in ostaggio, che si percepisce

come un’imperfezione, una nota stonata nelle loro opere. Così, in Jane Eyre, dove l’insofferenza della protagonista per la propria condizione di esclusa dal mondo riflette troppo chiaramente i sentimenti dell’autrice Charlotte Brontë; anche Woolf, nel saggio, dà espressione alla rabbia verso gli uomini: a causa loro la storia della letteratura femminile in Inghilterra è ancora tanto breve. Tuttavia è convinta che le rivendicazioni personali non debbano trovare posto nella poesia e nei romanzi, perché ne pregiudicherebbero il valore. La serenità di spirito di Shakespeare e Jane Austen, la capacità di astrarsi dai fatti della propria vita, sono condizioni ideali alle quali mirare quando si scrive. Conclusa la rassegna delle poetesse e narratrici del passato, Woolf guarda alla situazione delle scrittrici contemporanee. La meta – scrivere in «freedom and with fullness of expression»11 ciò che si ha voglia di scrivere – è, per loro, più vicina, ma non è ancora stata raggiunta. Forse, per farlo, le giovani scrittrici dovranno creare un genere nuovo, che fonda narrazione e poesia e sappia raccontare ciò che delle donne non è stato ancora raccontato: il lavoro, l’amicizia femminile. Per le scrittrici che lavorano al romanzo del futuro (che sarà più breve e concentrato perché non sempre le donne hanno molto tempo

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8 8 - Ritratto di Jane Austen, artista ignoto, 1873, con il frontespizio della prima edizione di Pride and prejudice. 9 - Ritratto di George Eliot, François D'Albert Durade, 1849.

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per scrivere, e poetico per dare espressione alla poesia che è parte delle donne) è preziosa l’esperienza delle lavoratrici. A questa categoria di pioniere in Inghilterra12 Woolf si rivolge nel saggio Professions for Women. Le donne lavoratrici, finalmente libere di esprimersi in ogni sfera della vita umana, – afferma – sapranno rivelare, col tempo, cosa davvero sia una donna, quando non sarà più limitata nella sua personalità e sfera d’azione dal dominio maschile.

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NOTE: 1 A Writer’s Diary, Londra 1954. In italiano Diario di una scrittrice, traduzione di Giuliana De Carlo, minimum fax 2005. 2 Virginia Woolf, A Room of One’s Own - Three Guineas, Oxford World’s Classics, Oxford University Press 1998, p. 168. 3 Professioni per le donne, saggio basato su una conferenza tenuta presso la London Society of Women’s Service nel 1931. Il testo in italiano è contenuto nella raccolta Virginia Woolf- Le donne e la scrittura, a cura di Michéle Barrett, La Tartaruga Edizioni, 2003. 4 Ivi, p. 54. 5 Pubblicati inizialmente su diversi periodici, tra cui Times Literary Supplement, Athenaeum, Nation, e in seguito nella raccolta di saggi in due volumi intitolata Common Reader. 6 Una stanza tutta per sé. 7 «Le donne e il romanzo». È anche il titolo di un breve saggio di Virginia Woolf, che contiene in sintesi le stesse idee di Una stanza tutta per sé. 8 Virginia Woolf, A Room of One’s Own - Three Guineas, Oxford World’s Classics, Oxford University Press 1998, p. 79. 9 Ivi, p. 80. 10 Ivi, p. 82. 11 Ivi, p. 100. 12 Dal 1919 le donne hanno libero accesso alle professioni, soprattutto giuridiche, fino a quel momento riservate agli uomini. n° 2 • Aprile 2013


Racconti contro la precarietà

La dimensione lavorativa è mutata radicalmente negli ultimi dieci anni. Parole come precarietà, disoccupazione, inoccupazione, contratti a progetto, lavoro interinale, somministrazione, telelavoro, lavoro ripartito, apprendistato, contratto di solidarietà, formazione e lavoro, part-time, inserimento professionale, lavoro intermittente sono, ormai, entrate nel linguaggio comune quotidiano. Se è vero, per dirla con Hannah Arendt, che esiste un nesso imprescindibile tra l’attività lavorativa e la vita activa, al punto che la prima è la conditio sine qua non della seconda, risulta evidente che uno stravolgimento così radicale del mondo del lavoro non può che avere conseguenze ben peggiori della semplice precarizzazione. Togliere all’uomo e alla donna l’attività lavorativa (o renderla sempre meno certa) significa minare alla base le fondamenta che rendono possibile l’affermazione di una dimensione immaginifica e sociale della vita umana, laddove la prima dovrebbe consentire il superamento dei limiti dell’ambiente naturale attraverso l’operare e la seconda permette la concretizzazione dell’esistenza nell’azione, che ha sempre una valenza politica. La letteratura può e deve offrire spunti di riflessione in grado di raccontare tale cambiamento, riuscendo ad anticiparne le conseguenze nel medio e lungo termine.

È con questo spirito che la Webzine Sul Romanzo ha deciso di dare spazio a racconti che sappiano mettere in luce quanto è accaduto, sta accadendo e, soprattutto, potrebbe ancora accadere nella vita umana, a seguito della precarizzazione del mondo del lavoro.

Per partecipare, è sufficiente inviare un Racconto che dovrà essere: –– inedito e in lingua italiana; –– redatto in formato Word (.doc) e con font Times New Roman 12; –– di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– corredato delle seguenti informazioni, riportate in alto a destra nel file: nome e cognome dell’autore, data e luogo di nascita, codice fiscale e indirizzo email; riferimento esplicito a “Rubrica Racconti contro la precarietà – Webzine Sul Romanzo”; –– inviato a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@sulromanzo.it indicando nell’oggetto Racconti contro la precarietà. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, articoli, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Valutazione dei racconti La valutazione sarà condotta dalla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori dei racconti ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail. Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti i racconti ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati nel primo numero successivo utile o nel sito internet del blog www.sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità di quanto proposto, saranno considerati inammissibili i racconti: –– presentati dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– che presentano un possibile conflitto di interessi; –– che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– già editi. Note finali L’invio del racconto non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro racconti e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro racconto e cedono a Sul Romanzo il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons — Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione del racconto pubblicato, dopo la sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo, come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione dei racconti saranno utilizzati solo per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi.

I racconti potranno essere incentrati su un tema scelto dall’autore, purché in linea con l’orientamento generale della Rubrica. Sul Romanzo

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1974... anzi, '47: gli inizi difficili di José Saramago di Marcello Sacco «L’autore è un ragazzo di 24 anni, silenzioso, introverso, che si guadagna da vivere come praticante presso gli uffici amministrativi degli Ospedali Civili di Lisbona…». Questo il ritratto che, cinquant’anni dopo, José Saramago farà di sé nella prefazione alla seconda edizione (1997) del suo romanzo d’esordio, Terra do Pecado, pubblicato nel 1947 e passato sotto silenzio da critica e pubblico fino alla data di questa sua più recente ristampa. Il volume, da me casualmente consultato (edizione speciale Círculo de Leitores, 1999; quella del ‘47 mi è sfuggita in quanto assente giustificato), riporta uno strano, interessantissimo lapsus che, inesistente nelle altre edizioni, non è attribuibile all’autore e sembrerebbe quasi lo zampino ironico di un correttore di bozze, degno collega di quel Raimundo Silva che, nella Storia dell’assedio di Lisbona, muterà la storia cambiando volontariamente una parola.

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2 1 - Ritratto fotografico di un giovane José Saramago. 2 - Una delle prime edizioni di Terra do Pecado. 3 - Ritratto fotografico di Saramago in età matura. 4 - Un'immagine della Rivoluzione dei Garofani, 1974. 5 - Prima pagina di República del 25 aprile 1974. 6 - Un altro ritratto fotografico di José Saramago.

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5 Come anno di pubblicazione di questo primo (e per lungo tempo unico) libro – che lo scrittore ricorda anche come l’anno di nascita della sua unica figlia – è riportato non il 1947 bensì… il 1974. Il banale caso di disgrafia editoriale potrebbe passare per lampo di genio e suggerire ciò che molti storici sottoscriverebbero: Saramago, come tanti altri intellettuali portoghesi emersi nell’ultimo quarto del sec. XX, è un caso di presa di parola divenuta possibile solo in quel cruciale anno della Rivoluzione dei garofani e della caduta di una dittatura che si avviava a festeggiare il cinquantenario. Quel romanzo del ‘47, senza il ‘74, non sarebbe stato lo stesso. Neanche Saramago, nome d’autore, sarebbe stato Saramago. Ripubblicato esattamente 50 anni dopo, è diventato un’altra cosa, cioè un “romanzo di José Saramago”, tassello di un corpus che, nel frattempo, ha preso corpo: identico lessema catapultato in una frase diversa. Un tentativo di lettura dell’opera dello scrittore portoghese potrebbe partire da qui, non perché il principio cronologico sia importante o addirittura indispensabile; esso è, in realtà, impossibile: sarebbe come entrare due volte nelle acque dello stesso fiume. Leggere Terra do Pecado come gli ingenui, sparuti lettori del ‘47 è più difficile che riscrivere il Chisciotte come un Cervantes rinato. Ma il principio cronologico, proprio in quanto impossibile, può essere convenzionalmente accetSul Romanzo

tato. Ogni principio, nel doppio senso di “criterio condiviso” e di “inizio ufficiale”, è una convenzione. Ne L’ordine del discorso, Michel Foucault ricorda che ogni inizio potrebbe essere la continuazione di una voce che ci precede: «Piuttosto che prendere la parola, avrei voluto che essa mi avvolgesse». Il pensatore francese lo pone come un desiderio forse impossibile, ma, poco dopo, ricorda che il discorso è un flusso continuo arginato da certi princìpi (nel senso di criteri, ossia scelte, perché le scelte sono sempre iniziali, aurorali); princìpi come “opera” e “autore”, che appunto non fanno altro che controllare e delimitare i discorsi. La presa di parola, l’ingresso dell’autore nel testo è un arbitrio, dice Andrea Del Lungo nel suo saggio Gli inizi difficili. Per una poetica dell’incipit romanzesco (Padova, Unipress, 1997), individuando due forme per realizzarlo: «[...] una mirante a nascondere e dissimulare l’arbitrio, l’altra a indicarlo ed esporlo chiaramente». Con l’incipit di un’opera prima, come nel nostro caso, un autore non entra solo nel corpo di un romanzo, ma nel corpus letterario di una tradizione. Entra nella Letteratura. Il principio cronologico serve pragmaticamente alla ricostruzione archeologica dell’autore al suo debutto, lo scrittore in quanto Adam in the morning, come direbbe un critico anglosassone. Al contrario della condizione paradisiaca di Adamo, questi inizi risultano difficili in tutti i sensi: poetico, filosofico... biografico. n° 2 • Aprile 2013

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Figlio di un poliziotto e nipote di braccianti, il giovane Saramago, visto da lontano, non annuncia il letterato pluripremiato in vecchiaia. Ha frequentato una scuola professionale, ha fatto l’operaio e, al momento della pubblicazione del primo libro, è appena stato promosso alla funzione impiegatizia: impiegato praticante, come si descrive a posteriori. Per farlo, usa l’espressione portoghese praticante de escrita, che, tradotta alla lettera, darebbe un sintomatico “praticante di scrittura”. Pur trattandosi, in ufficio, di scrittura contabile o forse, ancor più banalmente, di dattilografia, il “praticante di scrittura” presso l’amministrazione degli ospedali civili di Lisbona comincia così: «Un nauseabondo odore di medicine ispessiva l’atmosfera della stanza». È la sua prima frase. Sono le parole con cui ha scelto di venire al mondo (letterario) e c’è un malato, un proprietario terriero del Ribatejo (la terra natale dell’autore e dei nonni, i contadini sem terra rivisitati tanti anni dopo nell’autobiografico Le piccole memorie) che alla fine del primo capitolo morirà. Nell’anno della doppia paternità (romanzo e figlia), Saramago esordisce facendo morire un padre e padrone, nonché un marito. Avrebbe potuto cominciare post mortem, lasciando il decesso fuori scena, come antefatto. La protagonista, in fondo, è la vedova, Maria Leonor, tanto che il libro lui l’aveva intitolato A Viúva (“La vedova”, appunto). Sarà l’editore a cambiarlo in uno meno luttuoso e più allusivamente erotico. Ecco... forse non nel progresso cronologico della scrittura, ma di certo

in quello della lettura, prima ancora dell’incipit, ci sono le soglie paratestuali. L’inizio, quello vero, è lì, e un editore l’ha soffiato all’autorità dell’autore. La presa di parola è un arbitrio che qualcuno può sempre scippare. Il motivo potrà essere il controllo dittatoriale delle opinioni, ma anche le ragioni “di mercato” o di “linea editoriale”. Così, il giovane autore dovette mandar giù senza proteste l’imposizione di quell’incipit retrodatato che è il titolo. Una decisione sofferta, a giudicare da come, nel ‘97, già vecchio e rispettato, a un passo dal Nobel, non nasconde la sua insofferenza: «Stordito dalla vittoria di venir pubblicato e dalla sconfitta di veder cambiato il nome a quest’altro figlio, l’autore chinò il capo...». Sono le parole di Saramago prefatore di se stesso. La prefazione del ‘97 è un ulteriore spostamento, slittamento di quel primo incipit a sua volta slittato. Il titolo, però, resterà quello del primo editore. Ristabilire quello originale avrebbe significato ribattezzarlo, dunque riassumersi la primissima presa di parola e riconoscere una paternità in parte imbarazzante di un figlio che è una specie di “peccato” di gioventù, dal quale mantenere una cauta distanza, che solo quel titolo “peccaminoso” e alieno poteva garantire. Scritto nei modi (neo)realistici del narratore onnisciente ma discreto, oggettivo e moderatamente allegorico, Terra do Pecado narra una morte e un’elaborazone del lutto. Eppure, al lettore moderno non dovrebbe sfuggire il nocciolo della questione

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7 - Fazenda do Belém, em São José do Rio Preto, Johann Georg Grimm, 1886. Collezione privata. 8 - A Ceifa, Antonio Carvalho da Silva Porto, 1884(?). Casa Museu Anastácio Gonçalves, Lisbona, (P). 9 - Selbstporträt des Malers und seiner Frau im Atelier, Franz Stuck, 1902. Collezione privata.

che il libro cerca di sviscerare: il peccato come costruzione sociale, “territoriale” (in questo il titolista, primo critico, ha visto giusto), che attanaglia una giovane vedova. Ma questo primo Saramago non è ancora il simpatizzante di Caino, suo ultimo eroe eponimo. L’iconoclasta in erba resta impigliato in un eccessivo senso del pudore, che fa di questo romanzo una sorta di strana e straniante Bovary col morto.

co, ma proprio quando Maria Leonor sta meditando il suicidio, giungono prima le voci dei figli che la chiamano, poi della cameriera che pare averla perdonata, infine viene comunicata la notizia che il dott. Viegas è stato ritrovato morto sulla strada di casa, insieme al suo cavallo e al calesse distrutto in un incidente.

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In un podere del Ribatejo, la giovane Maria Leonor, madre di due figli, è da poco rimasta vedova e deve superare un periodo di grave depressione e debolezza fisica. Ci riesce grazie all’aiuto del prete, padre Cristiano, e del medico, il dott. Viegas, che, in casa della donna, si dilungano in più di una diatriba (il dottore è un ateo convinto). Ma proprio quando la vita a Quinta Seca stava rientrando faticosamente nella routine, la comparsa di Antonio, fratello del defunto marito, torna a far precipitare la situazione: tra i due c’è una forte attrazione fisica e la cameriera Benedita li sorprende in un momento d’intensa passione. Mentre il cognato abbandona il podere, Maria Leonor teme possibili ricatti da parte della cameriera. Si confida con il medico, il quale, ben più vecchio di lei, propone sorprendentemente di sposarla per aiutarla a superare lo scandalo e la solitudine. Maria Leonor esita, ma Viegas si fa sempre più insistente, finché un giorno riesce a convincerla. I due fanno l’amore. Poco dopo, Benedita scopre la padrona a letto, già sola, e capisce tutto. La due donne hanno un violento alterSul Romanzo

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Liquidata la lettura superficiale, restano alcune interessanti implicazioni simboliche. Abbiamo un padrone defunto e una fattoria che giace nell’improduttività malata, contagiata da questo re-pescatore ribatejano. La depressione della vedova richiede una medicina alternativa. Nel capitolo VI, il medico la dà come fisiologicamente curata, ma avverte che la donna ha bisogno di un prete che le curi l’anima. Poche righe prima, la serva Benedita aveva attaccato un discorsetto agguerrito sulla necessità di un padrone, perché senza padrone nessuno avrebbe più lavorato. E ancora il medico, profondamente ateo, non esiterà a chiedere la benedizione di padre Cristiano per il suo matrimonio con Maria Leonor. Il Portogallo del 1947, probabilmente, non aveva molto altro da dare a un autodidatta, avido lettore presso la biblioteca municipale di Lisbona e “praticante scrittore”. Repubblica positivista nata da un regicidio (1908) e dalla rivoluzione breve, quasi incruenta, del 1910, poi “corretta” da un golpe militare (1926) e da una Costituzione illiberale (1933) elaborata da un ex ministro delle Finanze (il professore dell’Università di Coimbra, Antonio de Oliveira Salazar) abile a far quadrare i conti e a mettere a tacere l’op-

posizione con ogni mezzo, la terra di Saramago denuncia il peccato originale di non offrire, per ora, null’altro che padroni, preti e dottori. Neanche la dialettica hegeliana sembra poter trasformare la serva Benedita, in un rovesciamento rivoluzionario, da serva a padrona. Farà da padrona solo in quanto paladina di una becera morale superiore. Anzi, più che serva, nell’istituzione patriarcale della fattoria è una sorta di figlia cui non bisogna permettere che assista alla scena primaria tra la mamma vedova e un altro uomo. Quando ciò averrà, nell’ultimo capitolo, i fragili nodi di questo romanzo si scioglieranno e la morte del dottor Viegas avrà un che di provvidenziale, come se Dio stesso ci avesse messo il suo benevolente zampino. Il Deus/auctor ex machina deve ricorrere a un finale un po’ appiccicato per venirne fuori. Risalire agli inizi difficili, dunque, serve anche a capire contro cosa scrive uno scrittore. Senza ripudi facili né tardive vergogne censorie, il Saramago successivo cercherà di scrivere anche contro questo suo primo libro. Tuttavia, dovrà passare ancora del tempo affinché scrivere, per lui, non sia solo descrivere, ma immaginare... altre terre, altri peccati.

Editing, Correzione Bozze e Traduzioni Editoriali.

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Traduzione inedita dell'incipit di

Terra do Pecado,

su gentile concessione della Fundação José Saramago

Un nauseabondo odore di medicine ispessiva l’atmosfera della stanza. Si respirava a fatica. L’aria, eccessivamente riscaldata, a malapena penetrava nei polmoni del malato, di cui s’indovinavano i contorni del corpo sotto le coperte in disordine, dalle quali esalava un odore di febbre che intontiva. Dalla sala accanto, attutito dallo spessore della porta chiusa, veniva un sordo brusio di voci. Il malato oscillava lentamente la testa sul cuscino macchiato di sudore, in un gesto di fatica e sofferenza. Le voci pian piano si allontanarono. Di sotto, una porta si chiuse e scalpitò un cavallo. Il rumore della terra calpestata dal trotto dell’animale crebbe all’improvviso sotto la finestra della stanza e cessò subito come se gli zoccoli pestassero fango. Un cane abbaiò. Si udirono passi cauti e misurati oltre la porta. Il saliscendi scricchiolò lievemente, la porta si aprì al passaggio di una donna che si avvicinava al letto. Il malato, svegliandosi dal suo torpore inquieto, chiese di soprassalto: – Chi è? – Poi capì: – Ah, sei tu! Dov’è la signora? – La signora ha accompagnato il dottore alla porta. Non deve tardare... Le rispose un sospiro. Il malato si guardò con tristezza le lunghe mani, magre e gialle come quelle di una vecchia. (José Saramago, Terra del Peccato, 1947; trad. Marcello Sacco)

Le Malade imaginaire, Honoré Daumier, 1860-62. Philadelphia Museum of Art, Philadelphia (USA).

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Scrittori senza superpoteri

1 - Ritratto fotografico di Steven Amsterdam. 2 - Ritratto fotografico di Aimee Bender.

di Carlotta Susca

1. Inizi fuorvianti. «Perché non rendi poi quel che prometti allor?» «You cant’t judge a book by its cover»1: a volte, è tragicamente vero che non si può giudicare un libro dalla copertina, ma, altre volte, lo è in senso opposto rispetto a quello inteso dal proverbio: se questo ricorda di non essere frettolosi nel giudizio, di frenare le maldicenze, di essere, insomma, aperti all’altro e all’accoglienza di quanto di buono si possa celare al di là di una forma fuorviante, spesso, all’atto pratico, è un aspetto invitante (una bella copertina) a dover essere guardato con sospetto. E in campo editoriale le copertine sono, in effetti, un elemento oltre il quale, in molti casi, ci aspettano disinganno e delusione.

trambi i casi, a contribuire all’aspettativa sono stati fattori che provenivano ben lungi dalla copertina: questa era l’epifenomeno di un lavoro di costruzione del (mio) consenso che le rispettive case editrici avevano intrapreso molto prima di pubblicare i due testi. La credibilità di una casa editrice è già parte del packaging del testo. Le copertine, poi, frutto dello studio di una linea editoriale in generale, di una linea di collana in particolare, dell’operosità di grafici e redattori e correttori di bozze, sono il fenomeno, l’estrinsecazione della noumenica attività editoriale di progettazione, oltre che di scelte, dubbi e strategie.

Ci sono due libri, in particolare, che di recente hanno deluso le aspettative che copertina e promozione avevano alimentato: L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender (trad. di Damiano Abeni e Moira Egan, Minimum Fax, 2011) e Ritratto di una famiglia con superpoteri di Steven Amsterdam (trad. di Anna Mioni, ISBN edizioni, 2012). In en-

La comunicazione dei singoli prodotti-libro, la coccola redazionale della stesura di alette e quarte (e la peculiare introduzione iessebienniana delle scritte sul piatto), è solo l’ultimo anello di una catena di azioni volte a far sì che il libro sia giudicato anche dalla copertina.

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Perché i due libri di Amsterdam e Bender deludono così clamorosamente le aspettative create? Ritratto di una famiglia con superpoteri: • titolo già potentemente orientato alla creazione di aspettativa su un romanzo fra la fantascienza e il realismo magico, cucinati in salsa supereroica: fantascienza sì, ma in un mondo non troppo diverso dal nostro, e realismo magico sì, ma con qualche spiegazione scientifica, magari; • informazioni in copertina decisamente a supporto della titolazione: «è un romanzo di personaggi straordinari», «una famiglia indimenticabile»; sul retro la descrizione dei superpoteri dei personaggi (sarà davvero come X-Men romanzato? Avrà qualcosa di Watchmen?);

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L’inconfondibile tristezza della torta al limone: • in questo caso, è l’aletta a dare istruzioni di lettura: «Alla vigilia del suo nono compleanno, la timida Rose Eldestein scopre improvvisamente di avere uno strano dono [...]»; poi, dal «San Francisco Chronicle»: «Pochi scrittori riescono altrettanto bene a mescolare in maniera fluida la magia con la quotidianità». La grandissima pecca di entrambi i libri è di escogitare una premessa interessante senza essere in grado di gestirne le conseguenze. Steven Amsterdam immagina una famiglia statunitense con dei problemi e decide di inserire in questo contesto un bambino dotato del potere di cambiare il passato e di donare agli altri qualsiasi capacità soprannaturale desiderino. Aimee Bender ipotizza una bambina in grado di sentire, attraverso il cibo, le emozioni delle persone che hanno cucinato ciò che mangia (risalendo anche ad allevamenti e fabbriche). E cosa se ne fanno, tutti i personaggi, di questa iniziale e potenzialmente buona intuizione? Nulla. Gli autori non sono in grado di reggere le conseguenze della loro premessa e lasciano che il racconto affoghi l’elemento magico nella melassa dell’interazione famigliare. Rose non utilizza il suo potere in altro modo che non sia la scoperta della scappatella materna e si trascina per la sua esistenza romanzesca in fuga dalle ondate di sentimenti altrui, né ciò che sa fare le consente di venire a capo della scomparsa di suo fratello – evidentemente anche lui in possesso di capacità straordinari(ament)e (inutili). Un esempio: Com’è il manzo? Buono, risposi. Oregon? Mi sa di sì, rispose. Hai visto l’etichetta? No, risposi. Ecco. Non è che pretendessi una trama gialla in cui l’abilità di Rose fosse fondamentale per venire

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a capo del pasticciaccio, ma neanche che evitare pasticci cucinati da persone tristi fosse l’unico obiettivo della nostra protagonista: io sono disposta a seguirti, ma tu dove mi stai portando? [A margine: la mala gestio dell’intuizione narrativa è un vecchio problema della Bender: anche ne La ragazza con la gonna in fiamme (trad. di Martina Testa, Minimum Fax, 2012) ci sono abilità con scarsi esiti diegetici, come se a Buzzati venisse in mente solo l’inizio dei suoi racconti e li facesse proseguire all’allievo di una scuola di scrittura. A proposito di scuole di scrittura: la Bender le ha frequentate, lo ha detto al Festivaletteratura di Mantova, a settembre del 2012. Che sia questo il problema? La preoccupazione dello spunto efficace, creativo? L’incontro era sul racconto, con Ermanno Cavazzoni e la moderazione di Salis. Per ironizzare su Baricco, Cavazzoni non ha risparmiato le critiche alle scuole di scrittura: «è come se esistesse una scuola per diventare santi. Non si diventa santi, così come non si diventa scrittori»]. I sette membri della Famiglia con superpoteri avrebbero consentito una moltiplicazione di possibilità narrative: invisibilità, volo, resistenza al nuoto (!), telepatia, capacità di far innamorare le persone, scomparsa e riapparizione di oggetti, manipolazione del tempo. Nessuno dei personaggi, a parte il deus ex machina (il piccolo – poi grande – Alek), però, va oltre lo stupore della scoperta del proprio superpotere; neanche Alek lo sfrutta granché, se non fosse per qualche aggiustamento nelle vite dei propri parenti – e dire che solo su di lui si sarebbe potuto scrivere un intero romanzo.

1 Il proverbio è il corrispettivo inglese del nostrano «L’abito non fa il monaco», e ci sarebbe già da discutere sui bacini metaforici da cui le due culture attingono.

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3 - Ritratto fotografico di Jennifer Egan.

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È un altro il libro che crea, invece, nell’incipit aspettative supereroiche, ma poi riesce a prendere strade narrative comunque interessanti (seppure in tempi esasperanti – proporrei un taglio del 50%): Guardami di Jennifer Egan (trad. di Matteo Colombo e Martina Testa, Minimum Fax, 2012). «Dopo l’incidente, diventai meno visibile. Non nel senso ovvio che andavo a meno feste e che non mi si vedeva più in giro. O almeno non solo. Nel senso che, dopo l’incidente, diventò letteralmente più difficile vedermi». Qui, l’autrice gioca sulla visibilità come filo conduttore della sua riflessione: social network, fama, specchi e vetri come invenzioni con ricadute sociologiche, ma «letteralmente» è un avverbio che andrebbe utilizzato in modo oculato, perché, anche in questo caso, è fuorviante: non ci sono donne invisibili, spin off dai Fantastici quattro o mantelli che consentano di bere burrobirra dopo il coprifuoco. Il libro della Egan è una partitura di variazioni sul tema della visibilità, ma intesa in senso metaforico: l’apparenza, l’abisso fra ciò che si mostra e ciò che è vero, la costruzione di un aspetto esteriore. Mettendo insieme i tre indizi (sono scarsissimi, ma sto formulando un’ipotesi di lavoro, non fornendo dei risultati di ricerca) è che si potrebbe pensare alla:

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2. Difficoltà di iniziare un genere con superpoteri per adulti Lungi da me l’asserzione della mancanza di un genere narrativo codificato riguardo a superpoteri et similia: la mia ipotesi di lavoro è che la narrativa statunitense possa avere delle difficoltà con i supereroi, che, invece, al cinema e nelle serie Tv, “funzionano” molto bene. Anzi, allarghiamo al mondo anglofono in generale, e forse (azzardiamo) a quello “occidentale”? Perché penso a Misfits e non mi vengono in mente libri, come avevo pensato a Heroes senza trovare corrispettivi narrativi degni. E se Watchmen è un fumetto con ambizioni (e portata) romanzesche, non c’è un testo senza immagini che mi venga in mente sullo stesso argomento. Perché in Gran Bretagna c’è stato Tolkien, ma si tratta di fantasy, e ora c’è Harry Potter, che, però, si situa nella narrativa young adult, così come, al di là dall’Atlantico, Ransom Riggs ha deciso di riscriverlo (identico! – peggiore) e ne ha fatto La casa per bambini speciali di Miss Peregrine (trad. di I. Katerinov, Rizzoli, 2011). Ipotizzo percorsi di indagine che leghino l’incapacità supereroica degli scrittori contemporanei a motivazioni antropologiche: non siamo più capaci di immaginare quanto le nostre vite possano essere migliori? Non pensiamo che Superman possa salvarci, provvidenziale e impeccabile? Se per la diffusione dei fumetti sono state accertate delle cause storiche – Superman “nasce” poco prima della Seconda Guerra Mondiale – perché sembra che la letteratura non riesca a dare

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respiro narrativo alla fiducia nella protezione di creature superiori? Forse, non siamo più disposti a credere che la promessa delle favole possa essere tradotta in adultese? Se solo gli adolescenti possono ancora sperare di essere punti da un ragno radioattivo o che un vampiro possa rendere la più impacciata delle studentesse la chiave di conflitti interraziali nonché una bellissima immortale, allora forse gli adulti sono spacciati? Un rapidissimo controllo apre piste da verificare: non solo i supereroi diventano un pretesto narrativo, ma vengono richiamati sempre più in senso metaforico o allusivo, o calati in un racconto altrimenti realistico come frutto della fantasia di personaggi normalissimi. Ecco cosa scopro digitando “romanzo supereroe” su Google: Morte di un supereroe di Anthony McCarten (trad. di P.A. Livorati, Salani, 2009), un ragazzino malato di leucemia inventa Miracleman e ha un rapporto intenso e di reciproca crescita con il suo psicologo; I supereroi di Ilaria Bernardini (Bompiani, 2009) non sembra ci sia traccia di superpoteri: una coppia, microstoria sullo sfondo della Grande Storia. Penso, infine, a La Kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo (Bompiani, 2011): Italia, anni Settanta, una morte, la difficoltà di crescere. Non posso giudicare da sinossi e recensioni, ma l’ipotesi di lavoro non mi sembra del tutto campata in aria.

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Colored Campbell's Soup Can, Andy Warhol, 1965.

Marcovaldo ovvero le stagioni in città di Italo Calvino. 1963-2013 Dialoghi a distanza

Era un tempo in cui i più semplici cibi racchiudevano minacce insidie e frodi. (Italo Calvino, Marcovaldo, 1963)

Alle sei di sera tutta la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come per lo scatto d’un interruttore, smettevano la produzione e, via!, si buttavano tutti a consumare. (Italo Calvino, Marcovaldo, 1963)

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Coca-Cola 210 bottles, Andy Warhol, 1962.

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Gli inizi

Editoria

dell'

Mestieri del libro: Il laboratorio del Cartaio, del Tipografo, del Legatore. Da H.F. Helmolt, History of the World, Volume VII, Dodd Mead 1902. Incisioni originali presumibilmente da Eygentliche Beschreibung aller Stande, 1568. Sul Romanzo

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Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi; fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Montale e i nuovi “poeti”, da Stefano Benni a Flavia Vento di Maria Antonietta Pinna

Eugenio Montale

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Forse quando sarò morta le mie poesie saranno paragonate a quelle di Dante purtroppo i versi li capiscono quando non si è vivi. Flavia Vento Cos’hanno in comune Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale con le mucche e la «pecora nera nel gregge che fa le scorregge» di Stefano Benni, I mostri marini di Flavia Vento e i ritmi smielati e triti della Mazzantini, alla «chi ti ama c’è sempre»? Niente, direi. Eppure, tutti sono definiti “poeti”. Montale, uno dei più grandi artisti del Novecento, ha pubblicato Ossi di seppia, la sua prima raccolta, con le edizioni di Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti. Il poeta ci mise più di un anno a convincere Gobetti a fare il libro. L’editore, infatti, sosteneva che, per un libro come Ossi di seppia, ci sarebbe stato scarso pubblico in Italia. Occorreva, dunque, mandare delle liste di prenotazione. In pratica, una prevendita di almeno 200 copie a 6 lire l’una. Così, il testo venne stampato in una brutta edizione. Umberto Saba ne prenotò ben 25 copie, per amicizia. Il libro, oggi molto costoso e ricercatissimo in prima edizione, è ristampatissimo, anche se, al suo esordio, ebbe scarso successo. Lo stesso padre di Montale si rifiutò di comprarlo perché riteneva il prezzo eccessivo; Natalino Sapegno gridò all’«intorbida ambizione, fatica di forma non raggiunta». Il male di vivere, l’attanagliante senso di precarietà, il ritmo, i simboli, le metafore, la vita, la morte, la potenza espressiva. Ossi di seppia ha tutto. Stefano Benni, giornalista, pubblicato in migliaia di copie da grossi editori, non ha di certo seguito lo stesso travagliato percorso di pubblicazione che è spettato a Eugenio Montale. La storica casa editrice Feltrinelli pubblica Prima o poi l’amore arriva. Si tratta di un coacervo di banalità, un insieme di filastrocche, aforismi e spiritosaggini prive di qualsivoglia profondità, pubblicizzate come “poesia”, tant’è che Benni si definisce pomposamente “poeta”, oltre che

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1 - Ritratto fotografico di Eugenio Montale, con la copertina della prima edizione di Ossi di seppia. 2 - Ritratto fotografico di Stefano Benni.

giornalista, drammaturgo, romanziere, etc. etc.. La sua biografia sembrerebbe quella di un genio post-moderno. Peccato che tra Montale e Benni corra la stessa differenza che c’è tra Apollo e Tersite.

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A questo punto, ci si domanda quanto conti il merito in un Paese come il nostro. Se Benni non avesse lavorato per un grande giornale a diffusione nazionale, Feltrinelli avrebbe pubblicato le sue poesie? Mario Lozzi, grande scrittore pressoché sconosciuto, è stato sistematicamente ignorato da tutti i grandi gruppi editoriali, Feltrinelli compresa. Le sue storie surreali, affascinanti, dal linguaggio limpido e scorrevole, non vengono neppure prese in considerazione, con tutta probabilità neanche lette. Sì, perché, per farsi anche solo leggere da un grande editore in Italia bisogna essere presentati da uno scrittore che già pubblica con l’editore stesso, oppure scrivere articoli per grandi testate giornalistiche, o lavorare in Rai, essere un personaggio pubblico, comico, attore, sciacquetta etc.. Un esempio fra tanti: Margaret Mazzantini, pubblicata da Marsilio e da Mondadori, case editrici inaccessibili ai comuni mortali non raccomandati. I suoi romanzi hanno un ritmo lento, patetico, sentimentale e sono pieni di cliché, tanto che perfino il lettore comune potrebbe domandarsi come abbia fatto a pubblicarli. La Mazzantini è figlia di una pittrice e guarda caso di uno scrittore, Carlo Mazzantini, oltre a essere moglie dell’attore Sergio Castellitto. Nel 2003, sempre per via dei suoi romanzi melensi che in nulla arricchiscono il panorama letterario italiano, è stata addirittura insignita, su iniziativa del Presidente della Repubblica, del titolo di Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, la più alta onorificenza della nostra povera Italietta. Scendiamo ancora più in basso: Flavia Vento. Basta pronunciare il suo nome per essere assaliti da un’irresistibile tendenza all’ilarità. Dopo aver sculettato all’Isola dei Famosi, medita sul senso dei suoi movimenti di bacino e scrive addirittura un libro di poesie. Bietti, altra storica casa editrice italiana, glielo pubblica. Sul Romanzo

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Peccato che la “poetessa” Flavia Vento stia a Montale come un water closed alla sublimità. Le pubblicazioni di Benni, Mazzantini e Vento, definiti “poeti”, la dicono lunga sulle tendenze dell’attuale editoria. Un esordiente che non fa il giornalista, non è un attore, non ha passato la vita sotto una scrivania trasparente, dando un impietoso spettacolo di sé, in Italia ha molte difficoltà non solo a pubblicare, ma perfino a farsi leggere.

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I grandi gruppi editoriali privilegiano il business, la fascinazione delle masse attraverso una pubblicità di prodotti non letterari o addirittura pessimi. La letteratura diventa sempre più rara. Una politica da fast-food che non giova all’arte e lascia sepolti autori esordienti che, forse, meriterebbero di più. L’imperativo è non pensare. Prodotti usa e getta, da leggere senza troppo sforzo. Il cinema italiano, legato a doppio filo a tale politica, sforna, nella maggior parte dei casi, polpettoni sentimentali tratti da romanzi di infimo ordine, senza genio, dai dialoghi piatti, uniformi come le trame. Ne è un esempio Venuto al mondo di Castellitto, in cui la banalità dell’intreccio si mescola a battute scontate e senza verve che inducono allo spettatore razionale un senso di noia, se non addirittura fastidio. La protagonista, che, seguendo vecchi schemi maschilisti di matrice cattolica, non si sente donna se non concepisce un figlio, è sterile. La maternità diventa, per lei, un’ossessione, tanto che, in un Paese sconvolto dalla guerra, vuole ricorrere all’inseminazione artificiale. Ma non c’è tempo, vanno via tutti. Allora, trovano una donna con cui il marito possa sollazzarsi in modo da farle fare un figlio che, poi, le consegnerà, come un pacchetto. Così, mentre i soldati entrano nelle case per distruggere, violentare le donne e pestare gli uomini, i cecchini sparano a tutto ciò che si muove e le bombe cascano come caramelle, i protagonisti hanno come unico demenziale obiettivo fare un figlio in una Bosnia che casca a pezzi. La tendenza di certa produzione cinematografica e di certa editoria che concepisce il libro come un’operazione di mercato si rivela pericolosa per l’esordiente non raccomandato, specie se fa sperimentazione, preferendo i ritmi della letteratura vera a quelli del marketing. Nuotare contro la corrente italiana del sentimentalismo strappalacrime o della rima banale significa, spesso, rimanere inediti e ricevere una risposta di rito: «Non rientra nelle nostre linee editoriali». L’inefficacia artistica della Mazzantini si rileva già soltanto dalla banalità degli aforismi di stampo vetero-sentimentale privi di originalità, succedanei di certi Harmony: «Chi ti ama c’è sempre, c’è prima di te, prima di conoscerti. Ha quelle dita lunghe intrecciate alle mie, che mi stringono... mi parlano, mi giurano tutto. E basta questa mano adesso. Tieni un capo del filo, con l’altro capo in mano io correrò nel mondo. E se dovessi perdermi, tu, mammina mia, tira. Ma tu fai sempre così? Così come?

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3- Ritratto fotografico di Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto. 4 - Ritratto fotografico di Flavia Vento.

Corri... Fai tutto da solo. Io spero di fare tutto con te». Nel tentativo di sintetizzare temi sociali appare perfino velatamente snob, con pose da artista agiata dei quartieri alti che aderisce al canone genio e sregolatezza e al mito del povero senza conoscerne a fondo le vere implicazioni: «I barboni sono randagi scappati dalle nostre case, odorano dei nostri armadi, puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca. Scrivere di un senzatetto è affidarsi alla scabrosità di una possibilità che ti appartiene. Perché gli artisti, spesso e volentieri, sono barboni fortunati». Dà per scontata la fortuna dell’artista, in pose auto-celebrative da principessa dei quartieri alti. La sola cosa che distinguerebbe un artista da un barbone sarebbe la fortuna, come a voler dire: sono fortunata perché sono un’artista. Un solo giorno di povertà vissuta per strada forse basterebbe a farle cambiare idea e sui barboni e sull’essenza di ciò che chiama “arte”. Silenzio, raccoglimento, concentrazione. Potreste svegliare le mucche di Benni che:

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dormono dentro la stalla stanno insieme strette e con il fiato fan le nuvolette e sognano le mucche sognano un cielo azzurro bianco come il latte in cui decollano come farfallette e volano le mucche volano sopra le nuvole dall’alto puntano le naturali loro artiglierie e poi bombardano le macellerie ma poi si svegliano le mosche ronzano è già mattino e le mucche pensano le mucche pensano al loro destino cos’è la vita infine? oggi siamo qui, domani scaloppine. Queste rime elementari parlano da sole sulla qualità della composizione e sui contenuti di quest’altro grande artista di peti pecorini e farfallette che rimano con nuvolette. Ma dulcis in fundo, Flavia Vento, il nulla nell’epoca del nulla la cui voce ufficiale è niente meno che Barbara D’Urso. Sembra che la tempesta poetica della Vento si sia ispirata addirittura a Leopardi: Pavoni, balene, pagliacci, mare, balene, isole, mosquitos, zzz, mostro marino, fischio divino. Non preoccupatevi se sentite uno strano rumore, è solo il poeta di Recanati che, assieme a Montale, si sta rivoltando nella tomba. Sul Romanzo

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Spazzature narrative contro nuovi realismi

Quanto hanno stufato gli esordi dei Vip

di Leonardo Palmisano

Esordi senza continuità La parola esordio significa letteralmente cominciamento, inizio di o da qualcosa. Dunque, introduce a un’idea di continuità, di lunga durata, di carriera, se vogliamo. Torna giusto provare ad esplorare la natura degli esordi editoriali di chi, non provenendo dalle lettere – com’è, invece, sempre stato per chi dall’esordio è diventato, poi, persona di scrittura –, ma da quella stramba dimensione della società italiana che si chiama show business, si cimenta con la narrativa o altre scritture, inondando il mercato di cianfrusaglie o aberrazioni dello spirito, di orpelli della cultura che assomigliano, per inutilità e frivolezza, alle variopinte cover degli smartphone, con l’aggravante che, spesso, queste belle cover diventano motori di un nuovo senso negli affetti, nelle opinioni, perfino nei comportamenti degli italiani, come gli smile nella chat di Facebook o negli sms, o ancora come i lucchetti di Moccia attaccati a un palo su un ponte romano. Comportamenti che alludono a una specie di mistica quanto banale immedesimazione di massa nelle idee dei Vip prestati alle lettere: qualcosa di aberrante che, prima o poi, qualcuno dovrà pur prendersi la briga di redarguire energicamente.

...spesso, queste belle cover diventano motori di un nuovo senso negli affetti, nelle opinioni, perfino nei comportamenti degli italiani...

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In Italia, abbiamo quello strano caso di travaso di in-competenze... Sotto - Luciano Ligabue, cantautore e scrittore.

La sottocultura inquietante Uno degli aspetti più inquietanti dell’offerta culturale italiana, e in specie di quella editoriale, è il passaggio semplice e senza soluzione di continuità di personaggi dal mondo dello show business a quello della scrittura. Non parlo della divulgazione scientifica, che ha visto, per esempio, Piero Angela riportare più o meno fedelmente il suo Quark in non poche pubblicazioni, ma faccio riferimento alla messe di operazioni editoriali che tramutano il Vip in narratore, dispensatore di ricette e consigli per la vita, autobiografo in interviste e/o agiografie dal sapore neoeroico. In Italia, abbiamo quello strano caso di travaso di in-competenze che è segno di una sostanziale considerazione dell’editoria come di una sorta di vaso capillare che può ospitare tutto quello che può essere venduto ovunque e per chiunque. Il primato della televisione generalista ha svilito i contenuti carcerandoli nel piattume stringato degli slogan – qualcosa che nasce prima del berlusconismo e che, ora, impera nei palinsesti – e delle battute, di cui sono infarcite numerose quanto imbecilli opere di narrativa. Le operazioni romanzesche di Fabio Volo, per esempio, sono il segnale di un’inequivocabile ricerca di ricette per cuori mal cresciuti, coccolati dal volgere facile dei giorni verso il declino degli affetti profondi, assopiti in un quotidiano spiaccicato sulla crosta fantasmagorica – ma noiosa – della televisione e/o della radio. Lo stesso vale per la vuota opera narrativa di Luciano Ligabue e per le agiografie dei calciatori – da Cassano a Paolo Rossi –, nelle quali si trova un condensato posticcio del nulla, qualcosa che vorrebbe avere il senso dell’epopea, ma scivola nella battuta, nell’autocelebrazione, nel più incongruo approccio al racconto o al racconto di sé. Per non parlare dei ricettari di cucina, scritti da qualunque presentatrice nazionale, che mortificano il senso del gusto, esaltando le caserecce mediocrità dei fornelli a detrimento di ben più alte edizioni di arte culinaria che, negli anni Settanta e Ottanta, per esempio, hanno occupato le biblioteche delle donne italiane perfino sotto forma di enciclopedie della cucina.

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Nessun rischio di vendita per la banalità del niente Questa superfetazione di prose – che, già nel 2011, veniva descritta da Giorgio Benediusi su Lettera43, come lavoro anche ben pagato per alcuni ghost writer – nasconde più di un’insidia. La prima è l’intossicazione fisica del mercato con pubblicazioni istantanee che vanno al traino delle urgenze – spesso artificiose – generate da politiche editoriali che poco si sposano con la necessità di un racconto generale del Paese. Un doping che neutralizza l’esigenza di riprendere a produrre cultura in Italia. Nei processi culturali del Novecento italiano, l’esordio nella scrittura era in qualche misura rintracciabile in un quadro di elaborazioni che attingevano dal presente storico vissuto o dal passato tramandato. E queste scritture contenevano il tempo della storia nella contesa ideologica tra valori e posizioni sociali e politiche. Penso al grande esordio di Moravia, ma anche ai meravigliosi e tribolati aborti di Fenoglio; esordi nei quali primeggiava la cura per la cultura e la lingua, non attraverso semplificazioni lessicali o impoverimenti tematici, ma con la ricerca di un equilibrio tra intuizione, storia, riflessione, lingua, invenzione e società. Il mercato veniva dopo, grazie agli orientamenti dettati dalla critica, dalle riviste, dalle puntuali osservazioni di intellettuali che della scrittura e del pensiero facevano un mestiere, stroncando, sostenendo, favorendo gli esordi e gli esordienti. Adesso, così non è. Il presentatore televisivo ha pieno diritto di cittadinanza nel mondo editoriale perché ha già dalla sua un potenziale di vendita davvero imparagonabile a quello di qualunque altro esordiente. Il mercato è, certo, un elemento proprio del mondo editoriale, ma non è neutro, dal momento che esso è sempre più preorientato dall’eccesso di scritture para-televisive. Questo meccanismo a circolarità viziosa esclude il

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dispositivo della creazione per sé, riducendo tutto ciò che non avrebbe mercato a un gioco un po’ masturbatorio. Diventa, allora, la vendita e non il piacere il discrimine tra ciò che conta e ciò che deve essere bandito dall’editoria e i Vip autori appaiono come pornoattori ai quali è assegnato il compito di copulare: gli altri devono limitarsi a vedere e macerarsi nelle ambizioni frustrate. Peccato che anche la scrittura, come il mercato, non sia mai neutra e che gli effetti di questo appiattimento abbiano banalizzato i lettori fino a renderli cagnolini scodinzolanti sotto le tavole dei Vip esordienti. Nelle librerie, i lettori si accalcano per incontrare il calciatore che ha scritto di sé, mentre disertano le presentazioni di quegli autori che non hanno autorità tele-sportiva, tele-culinaria, tele-qualunquecosa. E paradosso dei paradossi, anche la critica, spesso, indulge nella ricerca di un senso interno a queste scritture aliene dalle necessità culturali del Paese. Come se ciò non bastasse, questa nuova genia di scrittori, da vera paracula, si crogiola negli inviti a presentazioni nelle scuole, nelle università, nei cenacoli della cultura e nei festival letterari, quando non riceve onorificenze accademiche. Siamo di fronte a qualcosa di mortificante in sé, a seguito del quale, ribaltando Marcuse – secondo il quale, nella società industriale, «la celebrazione della personalità autonoma, dell’umanesimo, dell’amore tragico e romantico appare come l’ideale di uno stadio di sviluppo arretrato» (L’uomo a una dimensione) – ogni ideale arretrato è sostanzialmente sublimato e successivamente addotto a esempio da in-seguire e in-segnare. In parole povere, gli adolescenzialismi narrati da Fabio Volo orientano l’educazione sentimentale contemporanea italiana molto più di Un uomo della Fallaci. Questo non è un bene, né può trovare giustificazione soltanto perché la nostra è ormai una società post-industriale.

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Ma anche la fede s’incrina Il risultato è da anni un sostanziale abbassamento del piano medio della riflessione degli italiani dalle alture della razionalità e del sentimento alle pianure della fede. È, infatti, sulla fede e non sulla fiducia che si fonda il credito concesso ai Vip autori e alle loro parole e ricette. Mentre su un autore che abbia una propria carriera si può confidare – si confida nelle sue capacità, nelle sue analisi, nella sua qualità narrativa, culinaria, ecc. –, su un personaggio noto per qualità irriflessive non si potrà che aver fede, solo e soltanto fede. Ecco spiegato perché tra i libri più comprati, e presumibilmente più letti, ci sono le profezie dei succitati oracoli dello show business. Si comprano decine di migliaia di copie delle ricette di Antonella Clerici, non perché la Clerici abbia una storia come cuoca, ma per via della sua matura presenza in televisione. Lo stesso valeva per il Faletti degli esordi – esordi, appunto, facilitati dalla sua provenienza televisiva! – e per il Volo, la cui simpatia e telegenia non può certamente compensare la scarsa dimestichezza con l’italiano nella sua complessa articolazione. Ora, per nostra fortuna qualcosa sta cambiando. Non i gusti della gente, non ancora, ma le preferenze di base determinate anche dalla crisi. Il ritorno a un certo modo di vedere le cose tra certi strati d’Italia. Si comincia da quelli più colti ma meno abbienti, dove il disgusto per un modo fideistico di prendere per i fondelli i lettori sta dilagando. Il web – i social e i blog – ne sono una valida e piena testimonianza di rifiuto, più che di contestazione, così come il proliferare di pubblicazioni di grande valore presso nuovi editori indipendenti che non inseguono il vippismo, ma cercano gli autori scovandoli laddove c’è la pasta del vero esordiente. In qualche misura, c’è una riappropriazione di senso nella ricerca di una cornice libertaria nella produzione culturale. Non a caso è dalle inchieste di opinione che si sta partendo per cortocircuitare il vizio nazional-popolare di giustificare tutto in ragione dei passaggi – e pasteggi – televisivi. Ci vorrà tempo, certo, ma i semi affinché l’editoria nazionale riprenda a ospitare sempre più letterature e sempre meno spazzature sono stati gettati. E il pubblico, i lettori, grazie alla partecipazione – sui social soprattutto – sta arrivando, perché si è incrinato il rapporto tra produzione di retoriche televisive e ricadute reali. Forse, l’approdo primo sarà quello di un nuovo realismo italiano, come fu con Tondelli, o di un realismo sentimentale crudo, come è con Tonon, o di un certo realismo magico, come nella Murgia, o di un iper-realismo, come in Vasta. Fatto sta che sicuramente il reale, grazie alle obiezioni provenienti dal mondo cosiddetto virtuale, torna sempre più al centro della scrittura di qualità in un Paese che ha bisogno di un lungo bagno nelle acque della riflessione. Il tempo delle docce di champagne sta per terminare. Sul Romanzo

Nella pagina a fianco: Francesco Totti, calciatore, e uno dei suoi libri. Beppe Fenoglio, scrittore, impegnato in una partita di calcio.

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Eventi

dall'Italia

Città d’Italia: ruolo e funzioni dei centri urbani nel processo postunitario di italianizzazione L’Accademia della Crusca ospita un convegno interamente dedicato ai primi cinquanta anni dalla Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, pubblicata nel 1963. Intervengono, tra gli altri, oltre a De Mauro stesso, Nicoletta Maraschio, Presidente dell’Accademia della Crusca, ed Emanuele Banfi, Presidente della Società di Linguistica Italiana. Villa Medicea di Castello (Firenze) – 18-19 aprile 2013 L’età dell’equilibrio: Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio La mostra, terzo appuntamento del ciclo I giorni di Roma, intende indagare la produzione artistica del cosiddetto “periodo aureo” dell’arte romana, ossia il II secolo d. C., con una serie di opere rappresentative del periodo tra la fine del principato adottivo (Traiano, Adriano) e l’inizio della dinastia degli Antonini (Antonino Pio, Marco Aurelio). Musei Capitolini (Roma) – Fino al 28 aprile 2013 Arte in Giappone 1868 - 1945 Per la prima volta in Italia, ampia mostra d’arte dedicata all’età contemporanea giapponese, un periodo ancora poco esplorato che va dalla restaurazione Meji alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dal 4 aprile, ha inizio la seconda fase dell’esposizione, completamente rinnovata rispetto alla prima, che si è conclusa il 1 aprile 2013. Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea (Roma) – Fino al 5 maggio 2013 Premio Lucio Dalla Centoventi artisti, selezionati in tutta in Italia e valutati da una giuria di qualità, si sfidano a Bologna per rendere omaggio alla memoria del cantate Lucio Dalla, scomparso l’anno scorso. L’evento prosegue, poi, in altre città italiane, tra cui Lecce. Bologna – Dal 6 al 10 maggio 2013

Amalric Walter. Colori e trasparenze L’arte del vetro, i suoi segreti e le innovazioni creative: Venezia presenta una grande mostra, con una completezza e una ricchezza di opere senza precedenti, dedicata all’artista francese Amalric Walter (1870-1959) e alla sua produzione in vetro, l’arte tradizionale della città. Museo del vetro (Venezia) – Fino al 12 maggio 2013 Premo Emozioni 2013 Il premio è l’occasione per una kermesse di voci provenienti da tutta Italia, ma soprattutto salentine, per un omaggio alle opere artistiche di Lucio Battisti. Alla manifestazione è collegato un premio e si prevede la partecipazione di voci note del mondo della musica e dello spettacolo.. Presicce (Lecce) – Fino al 15 maggio 2013 Il culto di Bogart Rassegna di proiezioni e approfondimenti su Humphrey Bogart. Il programma prevede retrospettive, seminari e incontri organizzati dal Laboratorio Multimediale G. Quazza in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, la Bibliomediateca Mario Gromo e il Cinema Massimo. Auditorium del laboratorio Guido Quazza (Torino) – Fino al 16 maggio 2013 Salone internazionale del libro di Torino Il tema del Salone 2013 è la creatività: dove corrono oggi le frontiere dell'innovazione? Come favorire i procedimenti creativi? Come funziona e come dovrebbe funzionare la «fabbrica delle idee»? In quali modi rileggere e utilizzare il patrimonio della tradizione? Se ogni generazione è chiamata a scegliere i suoi classici, che cosa chiediamo a un classico, oggi? Lingotto Fiere (Torino) – Dal 16 al 20 maggio 2013

Premio Italo Calvino Premio letterario per scrittori esordienti

Premio Letterario Galileo 2013. Incontri con gli autori finalisti

I cinque finalisti del Premio Galileo per la divulgazione scientifica 2013 presenteranno le loro opere durante una serie di incontri organizzati per far conoscere i testi in corsa per il premio finale: - Neutrino di Frank Close, Raffaello Cortina; - La mente che scodinzola di Giorgio Vallortigara, Mondadori; - Il DNA incontra Facebook – Viaggio nel supermarket della genetica di Sergio Pistoi, Marsilio; - Il telescopio di Galileo di Massimo Bucciantini, Michele Camerota e Franco Giudice, Einaudi; - Il cucchiaino scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi di Sam Kean, Adelphi. Centro Culturale Altinate San Gaetano (Padova) – Dal 9 aprile al 9 maggio 2013

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Il 19 aprile 2013 a Torino (Circolo dei Lettori) la cerimonia di premiazione della XXVI edizione Associazione per il Premio Italo Calvino c/o L’Indice, via Madama Cristina 16 10125 – Torino segreteria@premiocalvino.it – Tel. 011.6693934

(il Venerdì dalle 09.30 alle 16.00)

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e dall'Europa Festival Des Artefacts Festival dedicato alla musica contemporanea, con la presenza di numerosi generi: techno, rock, pop, elettronica, folk, progressive. Richiama 25.000-30.000 spettatori all’anno. Si articola su due location, La Laiterie e lo Zenith Europe e quest’anno è prevista la presenza, tra gli altri, di Archive, La Femme, Woodkid e Sexy Sushi. Strasburgo (F) – Dal 10 aprile 2013 al 28 aprile 2013 Baltic Ballet Festival Festival di danza classica e moderna, svoltosi per la prima volta nel 1996, che ospita danzatori provenienti da tutti gli Stati del Mar Baltico. Sono previste, oltre alle esibizioni ballettistiche principali, mostre, concerti, seminari, intrattenimento per bambini e opportunità di incontro tra le varie scuole di danza. Riga (LV) – Dal 19 aprile al 1 maggio 2013 Shakespeare’s Birthday Celebrations Annuale celebrazione che si tiene nel weekend più vicino al giorno di nascita del celebre drammaturgo, il 23 aprile, nella cittadina natìa del Bardo. Danze tradizionali, artisti di strada, performance, concerti, e una Shakespeare Marathon. Stratford-upon-Avon (UK) – 20 e 21 aprile 2013 Crossing Europe Festival cinematografico che pone particolare attenzione alla cinematografia europea. Nato nel 2004, è giunto ad accogliere, nel 2012, quasi 21.000 spettatori. È suddiviso in varie sezioni, tra cui European Panorama Fiction, European Panorama Documentary e Specials. Linz (A) – Dal 23 al 28 aprile 2013 Le Printemps de Bourges Uno dei festival musicali più antichi di Francia, con oltre 200.000 spettatori ogni anno. Sei giorni di concerti, in teatri, auditorium, ma anche in ventidue bar di Bourges, oltre a esibizioni di artisti di strada, incontri e conferenze su temi come il cinema e la letteratura. Tra i principali artisti presenti, Patti Smith, Jamie Cullum, Mika e Public Enemy. Bourges (F) – Dal 23 al 28 aprile 2013 Brussels Short Film Festival Festival di arte cinematografica, dedicato, in particolare, al cortometraggio. Prevede un concorso nazionale, uno internazionale e uno riservato a produzioni studentesche. Oltre alle proiezioni sono in programma numerosi incontri, concerti ed altri eventi collaterali. Bruxelles (B) – Dal 24 aprile al 4 maggio 2013 jazzahead! Ottava edizione della fiera dedicata all’universo del jazz, con mostre, simposi, conferenze ed esibizioni. Appuntamento principalmente rivolto ai professionisti dell’industria musicale, è diventato ormai un’occasione per tutti gli appassio-

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nati di jazz e anche per chi volesse inserirsi nel mondo dello spettacolo. Paese partner di quest’anno, Israele, con “la notte israeliana” del 25 aprile. Brema (D) – Dal 25 al 28 aprile 2013 Donaufestival Evento che si articola in due week-end dedicati alla musica e all’arte contemporanea: concerti di hip hop, rap, musica sperimentale, sound art, fino a rappresentazioni di nuove forme dell’arte teatrale, digital art e alle nuove forme espressive nel cinema. Tra gli artisti presenti: Geoff Barrow, Simian Mobile Disco, Hans-Peter Litscher e Fran Ilich. Krems (A) – 25 - 27 aprile e 2 - 4 maggio 2013 Groezrock Nato nel 1992, è diventato un grande festival di musica punk, e non solo. Accoglie, infatti, anche i più importanti artisti della scena hardcore, emo, ska, rock. Oltre 30.000 visitatori all’anno riempiono la cittadina di Meerhout. È prevista una zona camping e quest’anno, tra gli artisti sul palco, Rise Against, Bad Religion, Pennywise e Into Another. Meerhout (B) – 27 e 28 aprile 2013 Viña Rock Festival di musica rock e hip hop, che ospita musicisti da tutta Europa e dal Sud America. Tra i molti artisti che si esibiranno nell’edizione 2013, troviamo Alamedadosoulna, Bongo Botrako, Malos Vicios, Matador Rockers, Ska-P, Txarango e Gigatrón. Villarobledo (ES) – Dal 2 al 4 maggio 2013 Internationale Kurzfilmtage Oberhausen Festival del cortometraggio tra i più antichi, fondato nel 1954. Comprende diverse sezioni, tra cui quelle relative al cinema internazionale e ai film per bambini. Il tema portante di quest’anno è legato al cinema nell’era di Internet. Sono, inoltre, previste le presentazioni di filmmaker come Luther Price, Laure Provoust e Ho Tzu Nyen. Oberhausen (D) – Dal 2 al 7 maggio 2013

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Vissero infelici perchĂŠ

costava meno.

(Leo Longanesi)

Poveri in riva al mare, Pablo Picasso, 1903. Cleveland Museum of Art, Cleveland (USA).


Gli inizi

Arte

dell'

Foche (risalenti a 42.000 anni fa, Nerja, Spagna). Sul Romanzo

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La pesantezza del primo tratto di Lucrezia Modugno Ugo Foscolo scrisse che l’Arte non consiste nel rappresentare cose nuove, ma nel farlo con novità. Questo pensiero è condivisibile, ma la novità, ciò che è diverso dal solito, può anche spaventare o non essere accettato. Essere pionieri nell’introdurre una nuova tecnica o una nuova weltanschauung può essere arduo. Nel mondo dell’Arte, la difficoltà dell’inizio colpisce ambiti differenti e passa da quelli più alti, che riguardano la teoria e i manifesti che l’accompagnano, alla possibilità spicciola di poter vivere del proprio lavoro di artista. Molti dei movimenti artistici, oggi considerati dei classici della Storia dell’Arte, sono stati profondamente osteggiati e condannati pubblicamente dal-

la critica. L’Ottocento è stato il secolo in cui per la prima volta ci si ribellava alla correttezza formale delle Accademie di Belle Arti. Essere i primi a muoversi contro quello che era il potere costituito del mondo artistico è costato molto agli artisti, in termini anche economici, ponendoli di fronte a grandi difficoltà riguardo la possibilità di continuare il proprio lavoro. Il movimento Impressionista, ad esempio, ha faticato non poco ad emergere. Le opere di Monet, Renoir, De Nittis e Degas furono ripetutamente rifiutate dalle esposizioni ufficiali dei Salon parigini e, solo nel 1874, per volere del famoso fotografo francese Nadar, ebbero la possibilità di realizzare una mostra collettiva con 165 opere, un catalogo e un biglietto d’entrata, al numero 35 del Boulevard des Capucines. La Societè anonyme des artistes, peintres, sculpteurs, graveurs, questo era il nome del gruppo, ebbe, così, la sua possibilità di farsi notare. L’impegno degli artisti e del loro mecenate si risolse, però, in un fallimento. La critica fu dura. L’articolo di Louis Leroy, apparso su Le Chiarivari del 25 aprile 1875, descrive come «Joseph Vincent, paesaggista, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi» impazzì letteralmente a causa della visione dei dipinti: a ogni tela la mente di Vincent perdeva sempre di

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2 - Venezia - Palazzo del Doge, Pierre-Auguste Renoir, 1881. Clark Art Institute, Massachusset (USA). 3 - Signora napoletana, Giuseppe De Nittis, 1872-79. Collezione privata.

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1 - Impressione. Levar del sole, Claude Monet, 1872. Musée Marmottan Monet, Parigi (F). 4 - Trasfigurazione, Raffaello Sanzio e Giulio Romanzo, 15181520. Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano.

più il contatto con la realtà e fu lui, secondo il racconto di Leroy che lo accompagnava durante la visita, a definire, per la prima volta, con il termine “impressionista” i dipinti esposti, prendendo spunto dal titolo di un’opera di Monet, Impressione. Levar del sole (1872). La critica si rivolse soprattutto alla mancanza di definizione delle forme e alla giustapposizione delle pennellate. Non c’erano linee di contorno, mancava quasi del tutto il disegno: l’immagine aveva senso solo nel suo insieme. Non tutti gli articoli apparsi sui giornali in quel periodo furono negativi, ma la maggior parte ripeteva gli stessi giudizi scritti un decennio prima, recensendo le opere di quei pittori che gli Impressionisti consideravano come propri maestri. Racconti di svenimenti di donne per bene davanti alle tele di Courbet e di Manet e resoconti di folle che si accalcavano attorno a quei quadri scandalosi erano all’ordine del giorno.

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Cambiando scenario, intorno al 1850, a Londra, c’era stato un certo fermento davanti al lavoro degli artisti della Confraternita dei Preraffaelliti. Si trattava di un gruppo di giovani allievi della Royal Academy, che scelsero di discostarsi dalla convinzione che l’Arte avesse trovato la sua dimensione corretta solo da Raffaello in poi, in particolare con la sua Trasfigurazione (1518-20), considerata da loro un caso d’insincerità compositiva e ostentazione delle capacità tecniche. Le recenSul Romanzo

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5 5 - Ballet - l'étoile (Rosita Mauri), Edgar Degas, ca. 1878. Musée d'Orsay (F).

sioni dei dipinti esposti non furono negative fin da subito: ci fu un generico apprezzamento per le opere, di tema storico, letterario e di carattere religioso; nacque anche un certo interesse per la sigla PRB posta accanto alla firma sulle tele: incuriosiva molto perché dal significato oscuro. In occasione di una seconda esposizione, il significato delle tre lettere, Pre-Raphaelite Brotherhood, fu chiarito da Dante Gabriel Rossetti, esponente del gruppo, e la polemica prese posto sui giornali che raccoglievano le recensioni delle esposizioni. Essere una Confraternita, che richiamava alla memoria il mondo cattolico in un Paese anglicano, aver realizzato dipinti di tema religioso e biblico, come Ecce Ancilla Domini (1849-1850) di D. G. Rossetti, furono all’origine delle accuse di papismo. Successivamente, le critiche si spostarono sulla pretesa di voler violare i principi affermati di composizione e di bellezza dell’arte moderna, rifacendosi alla sincerità dell’arte prerinascimentale. Charles Dickens scrisse delle parole durissime su Cristo nella casa dei genitori (1849-1850) di John Everett Millais, quello stesso artista che, nel 1896, diventò presidente della Royal Academy. Solo l’intervento di John Ruskin, considerato il più autorevole tra i critici d’arte inglese, riuscì a ribaltare l’opinione del pubblico e degli addetti ai lavori, decretando la fortuna della PRB.

6 - Cristo nella casa dei genitori, John Everett Millais, 1850. Tate Gallery, Londra (UK).

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Baudelaire, ad esempio, era contrario a considerare la fotografia una forma d’arte; reputava che non si potesse infondere nessuna visione personale con questo mezzo, ma riprodurre meramente la realtà; la riteneva una semplice ancella dell’Arte e delle Scienze, utile solo per facilitare la realizzazione delle vere opere d’arte. Inoltre, dei fotografi stessi aveva una pessima considerazione: pittori mancati perché senza talento o perché incapaci d’impegnarsi nello studio della pittura. In una lettera inviata al direttore della Revue française sul Salon del 1859, parla di “industria fotografica” e la descrive come totalmente estranea all’immaginario e all’impalpabile: poesia e progresso sono in contrasto per definizione, secondo l’opinione di Baudelaire. Scriveva: «di giorno in giorno l’arte perde il rispetto di se stessa, si prosterna davanti alla realtà esteriore e il pittore diventa sempre più incline a dipingere non già quello che sogna, ma quello che vede». Per il Poeta, il Vero e il Bello non coincidono: il primo è limitato, il secondo è proprio dell’immaginario e del sogno, infinito.

7 Nel caso di questi due movimenti artistici, dopo un inizio difficile, il riconoscimento del loro operato è stato pressoché unanime e l’approvazione si è concretizzata in mostre e acquisti durante la vita dei pittori o degli scultori. Un caso diverso è quello di Vincent Van Gogh. L’artista post-impressionista è diventato noto e la sua opera è stata apprezzata solo dopo la sua morte. È stato accertato che, mentre era in vita, sia riuscito a vendere solo un dipinto, La vigna rossa (1888), alla pittrice Anna Boch. Furono, infatti, inutili i tentativi del fratello Theo di piazzare sul mercato le sue opere, che fossero dipinti o disegni. Solo agli inizi del Novecento, grazie a Julius Meier-Graefe, la popolarità di Van Gogh è diventata tale che si sono susseguiti acquisti ed esposizioni in tutto il mondo. Il critico tedesco era stato uno dei promotori degli Impressionisti e, naturalmente, s’interessò anche al lavoro post-impressionista di Van Gogh e di Cézanne. Partì da qui la serie di mostre dedicate a quegli artisti che saranno considerati i padri di movimenti come l’Espressionismo e il Cubismo.

7 - Ecce Ancilla Domini, Dante Gabriel Rossetti, 1849-1850. Tate Gallery, Londra (UK). 8 - Julia Jackson, Julia Margaret Cameron, 1867.

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Non sono solo gli artisti a doversi confrontare con un inizio difficile. Le novità in campo tecnologico devono superare le resistenze di chi non riconosce loro lo statuto di espressione artistica o, comunque, di mezzo che possa produrre arte. Charles Sul Romanzo

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9 - La vigna rossa, Vincent Van Gogh, 1888. Museo statale di arti figurative A.S. Puškin, Mosca (RUS). 10 - Study of Beatrice Cenci, Julia Margaret Cameron, 1866.

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La fotografia riuscì per la prima volta a diventare Arte nelle mani di Julia Margaret Cameron, che, con la libertà di chi non aveva necessità di vivere dal proprio lavoro di fotografo, potette dedicarsi alla ricerca artistica. Sono noti i suoi ritratti realizzati con l’effetto flou, le donne sono entrate nell’immaginario vittoriano, mostrando pudore anche nella finzione, e i ritratti maschili mettono in risalto la grande forza intellettuale di personalità come Sir Herschel, il poeta Tennyson e Carlyle. In ogni epoca, l’artista ha dovuto affrontare una serie di difficoltà, che hanno reso il suo esordio non sempre agevole. In alcuni casi, si è dovuta combattere una certa diffidenza verso la novità del mezzo utilizzato, in altri era la resa pittorica a lasciare perplesso il pubblico, che non comprendeva una scelta tanto radicale. Probabilmente è l’espressione di quel mondo interiore, tanto caro a Baudelaire, a risultare di difficile comprensione, se prima non se ne intendono le ragioni.

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Gli inizi della

Musica

Sopra: Flauto dei Neanderthal trovato nella Grotta di Divje Babe I, in Slovenia, e datato a circa 43.500 anni fa. Sul Romanzo

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Gravi difficoltà. I Dire Straits e le ristrettezze degli esordi

Dalla consapevolezza del proprio talento artistico al successo planetario

di Alberto Carollo Scegliere di chiamarsi Dire Straits rende bene le difficoltà degli inizi della band inglese e del suo leader Mark Knopfler, alludendo alle loro ristrettezze economiche. La locuzione significa letteralmente “situazioni pericolose, critiche”, ma anche “gravi difficoltà, senza soldi”; nel dialetto di Londra: “poveracci”. Daisann McLane su Rolling Stone1 racconta che John Illsley, futuro bassista del gruppo, rientrò a tarda notte nello squallido appartamento da 32 dollari al mese che divideva col suo amico David Knopfler nel quartiere di Deptford e rischiò d’inciampare nella figura pallida e allampanata che occupava il pavimento del soggiorno. L’estraneo che dormiva brontolò un salve, si girò sul fianco e tornò a coccolare una chitarra acustica. Era l’aprile del 1977: Mark Knopfler rientrava a Londra da Leeds (dove aveva svolto vari lavori, tra cui il reporter, dopo aver conseguito una laurea in giornalismo); suo fratello David era assistente sociale; Illsley era stato commesso in un negozio di dischi, mediatore di legnami e, all’epoca, studiava sociologia all’Università di Londra. Erano tutti

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1 - Ritratto fotografico di David Knopfler. 2 - Un'immagine dei Dire Straits in concerto ad Amburgo, 1978. A fianco - Cliccate sui tasti per ascoltare le canzoni.

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musicisti dilettanti, chitarristi sin da adolescenti. I tre iniziano a suonare insieme, per divertimento, vecchi brani blues, country, un po’ di Ry Cooder. Mancando un batterista, Mark chiama l’anziano turnista Pick Withers, l’unico professionista – aveva suonato in Italia con i Primitives di Mal! I soldi sono pochi, come gli ingaggi. In quel periodo, imperversava il punk, espressione dell’inquietudine giovanile per la crisi politica ed economica che la Gran Bretagna stava attraversando. Mark aveva portato a Deptford una manciata di canzoni scritte di suo pugno: storie d’amore intimiste, melanconiche, strutturate su un limpido e affilato stile chitarristico intriso di rithm’n’blues, rockabilly, rock, country e jazz, suonato «ad un volume col quale potevi parlare tranquillamente col tuo vicino di tavolo». Il pubblico dei fumosi pub londinesi li accoglie freddamente, come rileva Ian Wood2: «Sono strani posti gli Students Union […] questo [concerto, n.d.r.] ha luogo in un mezzanino multifunzione dove si mangia, si beve e si chiacchiera. Non una sala da concerto quanto piuttosto un corridoio quadrato. Quando sul palcoscenico appare la band, in un angolo, il brusio diminuisce ma non smette del tutto. Butta male. Iniziano lentamente, con un falso attacco […] poi si concentrano per fare le cose come si deve». Sul Romanzo

Nel mese di luglio, gli Straits registrano un demotape: entrano in studio un venerdì sera dopo il lavoro e vi escono la domenica sul tardi con cinque pezzi, inclusa Sultans of Swing, una ballata che parla di un gruppo dimenticato di dixieland. Mark e John depositano la cassetta sui gradini della casa di Charlie Gillett, presentatore di Honky Tonk, la trasmissione del weekend alla BBC Radio London. Knopfler e Illsley erano vecchi fan della trasmissione e speravano che Gillett avrebbe potuto consigliarli. Per Gillett, è amore al primo ascolto: toglie dalla scaletta alcuni brani di Waylon Jennings e inserisce il demo nel programma. Tre case discografiche chiamano durante la messa in onda, interessate al gruppo. I Dire Straits non hanno, però, il piacere di ascoltarsi nel loro debutto radiofonico perché, in quel momento, stanno aiutando un amico a traslocare. Illsley ricorda: «Qualcuno ci è venuto incontro al pub e ci ha detto che aveva sentito Sultans of Swing alla radio. Abbiamo pensato: “Dio! L’ha mandato in onda”». Sultans of swing è la storia di una band molto simile ai Dire. Hanno un lavoro diurno e suonano nei club londinesi il venerdì sera. Uno degli eroi del brano è Guitar George che conosce tutti gli accordi: «lui è solo ritmo, non vuole far piangere o cantare. Una vecchia chitarra è tutto quello che può permettersi /quando è sotto le luci e suona le sue cose»3. n° 2 • Aprile 2013

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3 - Mark Knopfler durante un concerto. 4 - Le copertine di Love over gold (1982) e The very best of Dire Straits (1998) dei Dire Straits. 5 - Le copertine degli album Shangri-la (2004) e Get lucky (2009) di Mark Knopfler.

3 Nel dicembre del 1977, il gruppo firma un contratto con la Phonogram Record. Nel gennaio 1978, fa da spalla ai Talking Heads per il loro tour europeo. Un mese dopo, viene registrato l’album d’esordio Dire Straits: costa solo 25.000 dollari e uscirà a maggio; andrà a ruba in Europa e Australia; negli Stati Uniti, in soli due giorni, se ne venderanno 64.000 copie. Il successo improvviso, comunque, non cambierà l’atteggiamento degli Straits e, in particolare, di Mark Knopfler: il gruppo rimarrà sempre “ordinary people” e, per caso, ottimi strumentisti, refrattari all’isteria dello show biz. L’unica cosa a contare sarà sempre la musica, a scapito dell’immagine. Citiamo ancora Wood4: «[…] gli Straits sembrano avere tanta presenza scenica quanto una pinta di birra amara; ma una volta entrati nel loro sound particolare, l’energia aumenta». Mark corona il suo sogno di diventare un musicista professionista e rafforza la consapevolezza del suo talento e delle sue possibilità espressive; la sua motivazione sarà sempre la passione per la musica, «una malattia infantile mai guarita, un’ansia mai risolta se non con la chitarra in mano»5. Capace di rielaborare con originalità e freschezza i suoi modelli di riferimento, Knopfler è un artista che rivela una scarsa predilezione per le forme musicali dominanti del periodo. Nato a Glasgow nel 1949, figlio di un’insegnante e di un architetto di origine ungherese, è un vorace lettore, ex docente di letteratura inglese. Fin da piccolo, sua madre gli ha dato da leggere i libri di John Steinbeck e suo padre gli ha acquistato la prima chitarra. David paragona suo fratello a Van Gogh: «Quando guardi i quadri di Van Gogh», dice, «pensi che era

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soltanto un pazzo eccentrico che dipingeva quello che gli veniva in mente. Poi vai al museo Van Gogh e vedi l’intera portata del suo lavoro, quanto era colto, quanti stili proponeva… un po’ come Mark». Sono molteplici le influenze letterarie presenti nelle liriche knopfleriane. Nell’album di esordio, predomina la poesia del quotidiano nella metropoli. La città, la solitudine dell’individuo nella moltitudine, i volti di ragazze tra la folla, osservate e subito dimenticate (Wild West End, Lions), il ristorante di Chinatown, i dettagli topografici, il caffè Angellucci, il Bar Barocco, Shaftesbury Avenue, la metropolitana (Southbound Again) rivelano motivi e affinità con i grandi affreschi urbani dei romanzi di Joyce (Dubliners, Ulysses) e di Virginia Woolf (Mrs Dalloway), due autori di punta del primo Novecento europeo che, come il nostro musico, non hanno avuto notoriamente inizi agevoli. Basterà rievocare, dello scrittore irlandese, il difficile periodo a Trieste, dove la moglie Nora faceva le pulizie in casa di Italo Svevo e il nostro rimediava ripetizioni d’inglese o magri compensi per articoli pubblicati dalla stampa locale. La Woolf crebbe in un ambiente agiato, ma si formò per esclusivo merito della madre: la regola educativa vittoriana prevedeva che una donna non potesse frequentare alcun istituto. Già nell’album di debutto, Mark Knopfler è un artista completo, sia come songwriter che come virtuoso della chitarra. I suoi lavori si evolveranno per lo più nei contenuti. Musicalmente, dopo il fortunato periodo con gli Straits, il rock che riempiva le arene e Lp più mainstream come Brothers in arms (1985), Knopfler ha saputo inventarsi una carriera n° 2 • Aprile 2013


Bibliografia:

4 solista, frequentando vari generi musicali: dal blues al folk, dal jazz all’irish & scottish song passando per il Nashville sound, firmando colonne sonore e preferendo ritagliarsi un ruolo di operoso artigiano. Diventano numerose le collaborazioni con artisti che, da semplice appassionato, guardava come a esempi da imitare, ma che ora lo richiedono nelle loro produzioni: Bob Dylan, Van Morrison, James Taylor, Chet Atkins. Knopfler viaggia, osserva e annota, sta dalla parte degli umili e degli ultimi; non giudica né inscrive quel che vede in un paradigma politico. Le sue liriche non sono mai politicizzate come per molti dei brani di Bob Dylan, uno dei suoi maestri. A volte, potrebbe risultare un reazionario: «Prima del gas e TV / Prima che la gente avesse automobili / Ci sedevamo attorno ai fuochi / Facevamo girare una chitarra / ricordando canzoni»6 (Before gas and TV, “Get Lucky”, Mercury, 2009). In Telegraph Road, (da “Love over Gold”, 1982), ispirata all’opera del premio Nobel 1920 Knut Hamsun, collegata al tema del rapporto tra Uomo e Natura, la prospettiva narrata è quella della Frontiera, con i pionieri che si aggirano per territori vergini, costruiscono città sulle rive dei fiumi e vie di collegamento (sembra, visivamente, come suggerisce Andrea Del Castello7, di stare al cospetto del dipinto di Teofilo Patini, Vanga e latte8). In Why Aye Man (da “Shangrila”, 2004), lo spunto è un libro di poesie di Séamus Heaney nel quale si parla dell’emigrazione britannica verso la Germania nell’era Tatcher, a causa della disoccupazione. Altre difficoltà, altri nuovi inizi. E, in effetti, nella canzone, vi è un continuo comparare la terra che si è lasciata a quella dove si è approdati, in un disco fatto di arrivi e partenze, di malinconie e di rimpianti. In un’intervista rilasciata a Enzo Caffarelli9, Knopfler spiega: «Storie come Romeo and Juliet (da “Making Movies”, 1980) parlano di me come individuo irrequieto, instabile; quando cominci a maturare ti rendi conto di poter parlare anche per gli altri». Pure il recente Privateering (2012) s’inserisce nel solco di quest'affermazione. Il “corsaro” va dritto per la sua strada, consapevole che, comunque vada, si è speso per realizzare i suoi sogni. Niente bugie e compromessi, a dispetto di quei «mercanti d’arte che di comune accordo / decidono chi vende e chi no / e chi espone nella galleria» (In the Gallery)10. Sul Romanzo

Andrea Del Castello, Mark Knopfler. Il crogiolo dei generi culturali, Move Editore, Lanciano, 2005. Colin Irwin, Dire Straits, Futura music, 1994. Giulio Nannini, Mauro Ronconi, Le canzoni dei Dire Straits, Editori Riuniti, Milano, 2003. Michael Oldfield, Dire Straits, Quill Publishing, 1984. Giancarlo Passarella, Dire Straits – Solid Rock, Music Makers, Bresso, 2000. Giancarlo Passarella, Manuali rock: Dire Straits – Storie e interviste, Arcana editrice, Roma, 1994. Alessandra Ziliani, Dire Straits & rock-poesia, Arti grafiche AGEL, Milano, 1982.

5 NOTE 1 Daaisann McLane su Rolling Stone (5 aprile 1979). 2 Ian Wood, su Sounds (18 novembre 1978). 3 «You check out Guitar George he knows all the chords / Mind he's strictly rhythm he doesn't want to make it cry or sing / And an old guitar is all he can afford / When he gets up under the lights to play his thing (…) / And Harry doesn't mind if he doesn't make the scene / He's got a daytime job he's doing alright / He can play honky tonk just like anything / Saving it up for Friday night / With the Sultans with the Sultans of Swing» (Sultans of swing, “Dire Straits”, Vertigo, 1978). 4 Sounds (18 novembre 1978). 5 Alessandra Ziliani, Dire Straits & rock-poesia, Arti grafiche AGEL, 1987 6 «Before gas and TV / Before people had cars / We’d sit ‘round the fires / Pass around our guitars / Remembering songs […)» (Before gas and TV, Mercury, 2009 ) 7 Andrea Del Castello, Mark Knopfler. Il crogiuolo dei generi culturali, Move Editore, Lanciano, 2005. 8 Il dipinto è conservato al Ministero dell’Agricoltura e Foreste di Roma 9 Enzo Caffarelli, D.O.C., Fare musica (aprile 1985). 10 «[…] While the dealers they get together / And they decide who gets the breaks / And who’s going to be in the gallery (…) No lies he wouldn’t compromise / No junk no bits of string / And all the lies we subsidise / That just don’t mean a thing / I’ve got to say he passed away in obscurity / And now all the vultures are coming down from the tree / So he’s going to be in the gallery» (In the Gallery, da “Dire Straits”, Vertigo, 1978).

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500 anni dalla notte dei tempi

Il Principe di Niccolò Machiavelli:

Statua di Niccolò Machiavelli, Lorenzo Bartolini. Galleria degli Uffizi, Firenze. Frontespizio della prima edizione de Il Principe, (1513).

Dialoghi a distanza Scendendo appresso alle altre preallegate qualità, dico che ciascun principe debbe desiderare di esser tenuto pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà. [...] Debbe per tanto uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e' sudditi sua uniti et in fede; (Niccolò Machiavelli, Il Principe, XVII) Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?" E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello. (Matteo, 18, 32-35) Kyrie eleison;

Christe eleison;

Kyrie eleison

Il Consolatore, Carl Heinrich Bloch, 1875. Frederiksborg Palace, Copenhagen (DK).

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Gli inizi della

Fotografia

Tempio di Saturno al Foro Romano (Roma). Dagherrotipo del 1845 ca. di autore non identificato. Sul Romanzo

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La riproduzione del reale: una lunga storia di Annamaria Trevale

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2 Molte invenzioni e scoperte fondamentali nella storia dell’umanità sono nate dalla mera casualità, a volte persino mentre uno scienziato era alla ricerca di qualcosa di totalmente diverso: classico esempio è la penicillina, muffa che andò a contaminare un ceppo di batteri, coltivati da Alexander Fleming nel suo laboratorio per esperimenti di cui si è persa traccia, mentre, da quel momento, l’umanità poté contare sul primo antibiotico. La riproduzione fotografica del mondo non appartiene al novero delle felici invenzioni casuali, ma è il risultato di un percorso lunghissimo che si snoda nel corso dei secoli. Si può dire che le premesse risiedano già nell’antichità: l’uomo ha sempre cercato di riprodurre ciò che vedeva attorno a sé, sperimentando tutte le possibili tecniche suggerite dalla sua inventiva, come del resto ci mostrano già i graffiti preistorici scoperti nelle grotte abitate nel Paleolitico. I primi studi riguardanti una possibile riproduzione delle immagini attraverso la luce risalgono, però, addirittura ad Aristotele: interessandosi, come tutti i filosofi antichi, anche di problemi oggi considerati di ambito scientifico, egli nota come la luce solare, passando attraverso un’apertura, crei un’immagine circolare, la cui grandezza aumenta proporzionalmente all’allontanamento dall’apertura stessa.

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3 Trascorrono circa millecinquecento anni prima che uno scienziato arabo dell’undicesimo secolo, Alhazen, si dedichi a uno studio approfondito degli effetti dei raggi luminosi, elaborando alcune teorie che il monaco Vitellione tradurrà nell’opera Opticae thesaurus Alhazeni arabis. Ancora un paio di secoli, e negli scritti di Ruggero Bacone, nel 1267, troveremo tracce di un primo utilizzo di ciò che diventerà la camera oscura, embrione da cui nascerà la macchina fotografica. Poco dopo, Guglielmo di Saint-Cloud, grazie allo stesso apparecchio, compirà, nel 1292, importanti osservazioni astronomiche, proiettando l’immagine del sole su uno schermo. Ma cos’è esattamente una camera oscura? Nella sua forma più semplice, che in tanti possiamo ricordare d’aver costruito come esperimento scolastico, si tratta di una scatola chiusa, con un piccolo foro, detto stenopeico (dal greco stenos opaios, “stretto foro”) su uno dei lati. La luce, passando attraverso il foro, proietta sul lato opposto l’immagine capovolta di ciò che si trova davanti al foro stesso, indipendentemente dalla distanza. Non esiste, quindi, la possibilità di mettere a fuoco le immagini, come avviene nelle macchine fotografiche che per farlo usano le lenti degli obiettivi. Leonardo da Vinci è il primo a teorizzare l’uso pratico di una camera oscura in architettura, notando che, costruendone una molto grande davann° 2 • Aprile 2013


ti a un edificio, si renderebbe possibile la riproduzione della facciata, realizzando un disegno sopra l’immagine capovolta. Non è il solo, però, a interessarsi al problema: Giovanni Battista Della Porta, ad esempio, per molto tempo è stato considerato a torto l’inventore della camera oscura, perché è stato il primo a descriverne l’uso in modo dettagliato, in un trattato del 1589 che riassume anche i risultati di altri studiosi, come Girolamo Cardano e Daniele Barbaro, che avevano sperimentato l’applicazione di lenti convesse davanti al foro, ottenendo, così, un notevole miglioramento dell’immagine riprodotta. Tra ‘500 e ‘600, nascono grandi strutture in grado di ospitare al loro interno una o anche due persone: si tratta, in pratica, di semplici capanne di legno smontabili e trasportabili da un paio di uomini, contenenti all’interno una scatola di carta su cui disegnare l’immagine capovolta. Per non alterare le pareti, l’artista entrava da una botola sul pavimento, leggermente sollevato dal terreno. Ne abbiamo una descrizione dettagliata fatta nel 1646 da Athanasius Kircher, che ipotizza anche la possibilità d’invertire le immagini per creare una “lanterna magica”(antenata del proiettore per diapositive). Si diffondono anche delle scatole piccole e facilmente trasportabili, utilizzate soprattutto dai pittori, che sono impegnati nello sforzo di riprodurre fedelmente il “vero” del mondo circostante. Secondo delle analisi effettuate di recente sui quadri di Caravaggio, il pittore avrebbe trasformato

il suo studio in una grande camera oscura, con la luce proveniente da un foro sul tetto (visibile, tra l’altro, in alcuni quadri) indirizzata verso una parete da un gioco di lenti e specchi: questo spiegherebbe anche perché, nei quadri giovanili, abbondino i personaggi mancini; cosa che sparisce nelle opere più tarde, quando, forse, il pittore aveva imparato a “leggere” correttamente i suggerimenti dello specchio. Nascono dall’uso di camere oscure anche molte incisioni di Albrecht Dürer, per non parlare delle famose vedute veneziane di artisti come i fratelli Guardi, Bernardo Bellotto e Canaletto, che, ancora oggi, colpiscono per la minuziosità dei dettagli: al Museo Correr di Venezia è possibile vedere l’apparecchio originale usato dal Canaletto per i disegni preparatori. 1 - Marta e Maria Maddalena, Caravaggio, ca. 1598. Institute of Arts, Detroit (USA). 2 - Leonardo da Vinci, studi sulla proiezione della luce. 3 - Il principio della camera oscura 4 - Riva degli Schiavoni, Giovanni Antonio Canal, il Canaletto, 1730. Collezione privata. 5 - Disegno della camera oscura gigante di Kircher.

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La proprietà dei sali d’argento di reagire alla luce era nota fin dal Medioevo, ma gli esperimenti degli alchimisti, antenati dei chimici, non erano mai stati considerati di particolare interesse. Nel 1727, lo scienziato tedesco Johann Heinrich Schulze, utilizzando un composto di carbonato di calcio, acido nitrico e argento, si accorge che questo scurisce alla luce del sole; cinquant’anni dopo, Carl Wilhelm Scheele, chimico svedese cui si deve la scoperta di numerosi elementi della tavola periodica, osserva che il cloruro d’argento annerisce sotto la luce e diviene insolubile. Queste scoperte sembrano destare un certo interesse nella comunità scientifica, ma, in realtà, nessuno riesce a trovarvi un’applicazione pratica. Nel 1802, Thomas Wedgwood, scienziato inglese figlio di un famoso ceramista e zio materno di Charles Darwin, compie una serie di esperimenti utilizzando, anziché il cloruro, il nitrato d’argento: v’immerge dei fogli di carta su cui depone oggetti prima di esporli alla luce in una camera oscura e scopre che il foglio, pur annerendosi, resta chiaro negli spazi coperti dagli oggetti, le cui sagome spiccano sul fondo scuro. Il sogno di riprodurre delle immagini permanenti senza disegnarle sembra sul punto di realizzarsi, ma i risultati di queste prove svaniscono rapidamente sotto l’effetto della luce ambientale e Wedgwood, nonostante continui per anni a sperimentare, non riesce a trovare un sistema per conservare a lungo le immagini così realizzate.

Oltre agli artisti, anche gli scienziati fanno della camera oscura un utile supporto alle loro osservazioni: nel 1620, Keplero si serve di una specie di tenda da campo, facilmente trasportabile e fornita di un foro alla sommità, chiuso da una lente, che gli permette di riprodurre la vista del cielo sul pavimento, dove può eseguire schizzi e disegni. Si arriva, infine, ai modelli più ricercati di Kaspar Schott, che, nel 1657, realizza un sistema con due casse incastrate a scorrimento per poter modificare la posizione delle lenti e, quindi, la messa a fuoco, mentre, nel 1676, Joahnn Christoph Sturm realizza la prima camera oscura reflex, inserendo uno specchio inclinato di 45° che permette di ottenere finalmente un’immagine diritta. Quest’apparecchio, che rappresenta il culmine dell’evoluzione della camera oscura, verrà perfezionato dal monaco Johann Zahn, che sostituisce con un vetro smerigliato il tradizionale fondo di carta oleata semitrasparente su cui si riflette l’immagine. L’utilizzo di questo strumento rimane, però, limitato alla cerchia ristretta delle persone in grado di disegnare, soprattutto pittori e architetti: la messa a punto di un sistema per ottenere immagini permanenti senza utilizzare il disegno manuale avviene solo quando agli sforzi dei fisici si uniscono quelli dei chimici, attraverso lo studio di alcuni elementi, il cui impiego porterà, infine, alla fotografia.

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6 - Il cavaliere, la morte e il diavolo, Albrecht Dürer, 1513. Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe (D). 7 - Camera oscura trasportabile di Johann Zahn. 8 - La prima fotografia di Niépce. 9 - Foglia, Thomas Wedgwood. n° 2 • Aprile 2013


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9 Saranno, pochi anni dopo, Joseph Niépce e Louis Daguerre ad arrivare quasi contemporaneamente, ma seguendo percorsi differenti, all’elaborazione delle prime vere fotografie giunte fino a noi. Joseph Niépce, chimico francese, lavora per trent’anni alla ricerca di un sistema che possa fissare su carta sensibilizzata al cloruro d’argento le immagini ottenute dalla camera oscura. Il fissaggio resta il suo problema fondamentale perché, al termine di tutti i procedimenti sperimentati, i risultati, una volta esposti alla luce diurna, tendono a scomparire. Un secondo problema apparentemente irrisolvibile è l’impossibilità di ottenere da questi fogli impressionati, che sono negativi perché il procedimento scurisce le parti chiare e viceversa, delle copie in cui luci e ombre corrispondano esattamente alla realtà. Per un certo periodo, Niépce decide, quindi, di cercare una sostanza che con la luce schiarisca, anziché annerire, per ottenere direttamente un’immagine positiva. La trova nel bitume di Giudea, già usato dagli incisori, il quale, se esposto la luce, scolorisce e indurisce, creando un’immagine positiva e in rilievo: da questa tecnica si svilupperà il procedimento chiamato eliografia. Nel 1827, da una lastra di peltro trattata con bitume di Giudea ed esposta per otto ore alla luce solare, in una camera oscura posizionata sul daSul Romanzo

vanzale della finestra di Niépce a Grasse, nasce quella che gli storici considerano la prima immagine fotografica documentata, ma lo scienziato muore nel 1833 e non riesce a perfezionare le sue scoperte. Negli stessi anni, sono in molti a fare nuovi tentativi: tra gli altri, Luis Daguerre, ex collaboratore di Niépce, in origine un pittore e non un chimico, anch’egli ossessionato dal problema della conservazione delle immagini ottenute dall’uso abituale della camera oscura. Nel 1835, Daguerre dimentica una lastra, già esposta alla luce, in un armadio contenente vapori di mercurio sprigionati da un termometro rotto e ritrova l’immagine latente perfettamente sviluppata. Scopre, così, che il mercurio accelera notevolmente il procedimento, che fino a quel momento richiedeva diverse ore d’esposizione alla luce solare, ma deve ancora affrontare il solito problema del fissaggio, per risolvere il quale dobbiamo attendere il 1837, quando Daguerre scoprirà che è sufficiente lavare le lastre con una soluzione contenente sale da cucina. Da quel momento si autoproclama inventore della fotografia, che chiama “dagherrotipia”. L’Accademia delle Scienze e l’Accademia delle Belle Arti plaudono all’invenzione e il Governo Francese ricompensa lo scienziato, insieme all’eren° 2 • Aprile 2013

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de di Niépce, con una pensione vitalizia in cambio del permesso di sfruttarla liberamente. Il dagherrotipo, oltre a richiedere un lavoro molto lungo e complesso, porta alla creazione di una sola immagine positiva, che non può essere riprodotta: un forte limite alla diffusione commerciale del prodotto ottenuto. Tocca, infine, a uno scienziato inglese, William Henry Fox Talbot, propiziare la nascita, nel 1841, del primo negativo riproducibile su carta trattata con ioduro d’argento: il desiderio millenario di copiare immagini fedeli della realtà e di poterle moltiplicare all’infinito si è finalmente realizzato lungo

un percorso fatto di tanti inizi ripetuti nel tempo. La storia della fotografia, in realtà, è ancora molto lunga e arrivando fino ai giorni nostri, contemplando modifiche che vanno dalla trasformazione delle prime camere oscure in complicate macchine fotografiche al progressivo sveltimento dei processi di sviluppo e fissaggio, dalla creazione di negativi facilmente conservabili su lastre di vetro all’uso della celluloide, dall’introduzione della pellicola a colori all’ultima rivoluzione digitale. In fondo, si tratta solo di graduali perfezionamenti del lavoro, così spesso avventuroso, svolto da pochi e fondamentali pionieri.

10 - Immagine e negativo di Fox Talbot. 11 - Boulevard du Temple, Louis Daguerre, 1839.

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Gli inizi del

Cinema

Manifesto del cinema Lumière del 1895. Sul Romanzo

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Costruendo il sogno americano di Mirko Tondi

Prendete la vita. Immaginate qualsiasi attività, esperienza, lavoro, qualsiasi rapporto umano che la contraddistingue. Ognuna di quelle cose avrà avuto un inizio, non tutte una fine. Ricordate come avete cominciato? È stato tutto facile? Probabilmente no. Fate conto, allora, di dividere il prima dal dopo: la snervante difficoltà dell’inizio dalla rassicurante semplicità dell’arrivo. Forse, risulterà complicato segnare la linea di demarcazione tra un avvio problematico, stentato, se non addirittura al limite del dramma, e il completamento di un percorso che porta alla maturità, alla piena consapevolezza di sé, al successo personale o alla gloria. Spesso, ciò che conduce a varcare quella linea è qualcosa di sfumato, quasi impercettibile, una risorsa che neanche si sapeva di possedere. Concentrate adesso tutto in due ore, più o meno, e prendete il cinema. Ogni cosa suonerà più evidente, magari amplificata, ed ecco che, dopo i grattacapi e le crisi, improvvisamente le cose si mettono bene. Happy end o finale amaro che sia, questo non conta, specie se là in mezzo, tra i titoli di testa e quelli di coda, ci mettiamo il sogno americano e lo facciamo sfiorare da uomini e donne, toccare concretamente per poi lasciarlo scappare, oppure afferrare a mani strette e non mollarlo mai più. Il cinema a stelle e strisce affonda le radici nel tempo e, attraverso pellicole spesso avvalorate dalla conquista di preziosi Oscar, dà vita sullo schermo a personaggi che incarnano quel sogno, coniati da figure veramente esistite o inventati di sana pianta.

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In un'ipotetica galleria, se dovessimo concentrarci sugli esempi più rappresentativi, noteremmo per primo il precursore di questi, stipato in una fotografia in bianco e nero di un uomo col baffetto e il cappello, dallo sguardo determinato: Charles Foster Kane, il carismatico magnate di Quarto potere, esordio nel lungometraggio e capolavoro di Orson Welles. L’inizio della storia coincide in realtà con la fine e “Rosabella” risuona da più di settant’anni a questa parte come una delle parole più significative del cinema in assoluto. La fine di Kane, perso nell’inutile pomposità del suo castello, appare come un momento crepuscolare che canta l’elogio funebre della solitudine. Non sono da meno gli anni della sua infanzia: strappato alla famiglia in tenera età per essere affidato alla tutela di un uomo d’affari e destinato a una ricchezza smisurata, patirà quest'allontanamento per tutta la vita. Sarà facoltoso e onnipotente, predestinato a godere di un’eredità inestimabile, ma anche incapace di provare veri sentimenti, tra matrimoni falliti e il rimpianto di un’infanzia banale, solo gioco e spensieratezza. Quarto potere si pone come film antesignano anche nel racconto di un altro inizio: quello di un fenomeno che, negli anni a seguire, assumerà proporzioni sempre maggiori e vedrà i mezzi di comunicazione di massa diventare progressivamente mezzi di persuasione, attraverso un preciso meccanismo di controllo e diffusione dell’informazione.

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Il decennio successivo si apre ancora nel segno del flashback e il Joe Gillis di Viale del tramonto (il capolavoro stavolta è di Billy Wilder), cadavere galleggiante sul filo dell’acqua di una piscina, narra il suo recente trascorso, a cominciare da una crisi creativa e da un rocambolesco incontro. Qui l’inizio è confinato in una voce fuori campo, nel ricordo, nel passato, nel desiderio di fama adesso svanito («Poveraccio, gli piacevano tanto le piscine. Beh, ora ne ha una tutta per sé, anche se gli è costata cara»). Il sogno stavolta si chiama Hollywood: lui (William Holden), sceneggiatore sommerso dai debiti, in fuga da una finanziaria che vuole sequestrargli l’automobile; lei (Gloria Swanson), ex diva del cinema muto, ora decaduta. L’illusione sembra dare un senso di stabilità, con le speranze di Joe di vivere una doppia vita e quelle della donna di tornare a incantare il pubblico, ma la fine è già scritta dalla prima, inesorabile scena. Di diversa natura, e senz’altro meno ambizioso dei precedenti, il sogno di Joe Buck, cowboy texano interpretato da Jon Voight nel film Un uomo da marciapiede di John Schlesinger. Giunto a New York per fare il gigolò e sicuro di arricchirsi offrendosi per soldi a ricche signore, si deve presto ricredere. L’impatto con la Grande Mela non gli regalerà grandi gioie, ma lo porterà a dividere le sue disavventure con Rico (un enorme Dustin Hoffman) e ad assecondare il desiderio di quest’ultimo: quello di andare in Florida. Nel 1974, il regista inglese John Clayton (supportato dalla sceneggiatura di Francis Ford Coppola) dà il compito a Robert Redford di riportarci negli anni Venti e di impersonare Il grande Gatsby (di imminente uscita anche in Italia il remake con Leonardo DiCaprio, diretto da Baz Luhrmann). Il passato oscuro e l’amore perduto sono i tratti distintivi del suo inizio, che, tuttavia, non gli hanno impedito di ottenere una fortuna milionaria. Ancora una volta, però, il sogno pare incompleto. Gatsby vive nell’ossessione di tornare insieme alla sua Daisy, con la quale ha avuto un’importante relazione anni prima. Intanto, dalla sua enorme villa fuoriescono musica e luci, scene di festa che hanno il compito di farlo sentire meno solo; poi, l’illusione di aver riconquistato l’amata, di aver ottenuto il suo unico vero obiettivo, ma il risvolto tragico è dietro l’angolo.

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Nella pagina a fianco - Orson Welles è Charles Foster Kane in una scena di Quarto Potere. A sinistra - Robert Redford nei panni di Jay Gatsby. Sopra - Le locandine di Il viale del tramonto (Sunset Boulevard) e Un uomo da marciapiede.

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Due anni più tardi, nasce un mito che tutt’oggi non smette di influenzare gridi di vittoria e faticose corse su ripide scalinate: il Rocky del regista John G. Avildsen e dell’attore Sylvester Stallone (autore anche di soggetto e sceneggiatura) arranca nel tentativo di condurre una vita più o meno normale, quando arriva inattesa la chance della vita. Sappiamo tutti come va a finire col rivale/amico Apollo Creed e, probabilmente, ricordiamo (o abbiamo dimenticato di proposito) la lunga scia di sequel dell’originale. Rimane, tuttavia, l’immagine di un personaggio cult, mosso da un desiderio di rivalsa, dall’esigenza di dimostrare a se stesso quanto valga veramente, ed emblema tipico del sogno made in Usa: anche i piccoli, anche le persone comuni hanno diritto alla loro occasione, perché questo è il Paese delle possibilità. Gli anni Ottanta sono dominio di Brian De Palma, che, con due film magistrali, incide la faccia del male e quella del bene su una medaglia chiamata America. Scarface (rifacimento dell’omonimo film di Howard Hawks del 1932) è nient’altro che il sogno malato di Tony Montana (Al Pacino, sublime e indimenticabile). I suoi primi passi da gregario nel mondo della malavita, contraddistinti dalle insidie della scala gerarchica, non lo scoraggiano durante l’ascesa al potere. Salirà in cima all’Olimpo degli Dei sanguinari e spietati, ma la follia busserà alla porta. Gli intoccabili ci mostra, invece, com’è dura per Eliot Ness (Kevin Costner) arrivare all’incriminazione di Al Capone (Robert De Niro, che fatica ad accettare la sconfitta col suo noto «Sei solo chiacchiere e distintivo»), preceduta da qualche sonoro buco nell’acqua e dalla perdita di valorosi compagni di squadra (epica e struggente, in particolare, la morte di Jimmy Malone/Sean Connery). Negli anni Novanta, il sogno americano e i suoi iniziali affanni vengono riproposti al cinema col richiamo a epoche e protagonisti differenti. Spike Lee traspone nel colossal Malcolm X la storia del celebre attivista afroamericano: Denzel Washington aderisce perfettamente al personaggio e percorre il sentiero del cambiamento, dopo aver intrapreso la via del crimine in gioventù. Sbandato, in preda alle droghe e a pulsioni sessuali incontrollabili, finisce per essere arrestato e condannato a scontare dieci anni di carcere. Tutto questo prima di convertirsi all’Islam e diventare Malcolm X, leader per i diritti dei neri d’America insieme a Martin Luther King. Ecco il turno dei fratelli Coen, alle prese con Mister Hula Hoop, commedia nella quale il protagonista Norville Barnes (Tim Robbins) si arrangia come può a smistare la posta della Hudsucker, megaazienda il cui presidente si è appena suicidato. Coinvolto in un’operazione oscura a sua insaputa e nominato nuovo presidente solo per causare il fallimento dell’azienda, saprà, invece, mostrare doti imprenditoriali, inserendo sul mercato un’invenzione semplice quanto geniale; i suoi guai non termineranno lì, ma lo attenderà la strada della redenzione.

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Ancora un paio di anni e tocca al Jerry Maguire di Cameron Crowe. Il suo inizio è spinto dalla necessità di ricominciare, quando si vede costretto a ripartire da zero per rifarsi una posizione. Licenziato in tronco per essersi sbilanciato sulla richiesta di più umanità, un giovane e ambizioso procuratore sportivo (Tom Cruise) si ritrova solo con la sua segretaria (Renée Zellweger), della quale s’innamorerà. Gli rimarrà soltanto un cliente a tenere in piedi le sue aspirazioni professionali e dovrà patire le pene dell’inferno per non perdere anche lui (sanciranno la loro intesa professionale con la battuta del premio Oscar Cuba Gooding Jr. «Coprimi di soldi», scandita a tempo di rap). Infine, gli anni 2000. Christopher Nolan inaugura il ritorno alle origini di uno dei supereroi più amati: Batman. Il suo Batman begins ci fa conoscere un Bruce Wayne (Christian Bale) in crisi esistenziale, fuggito da Gotham City per ritrovare se stesso. Il futuro uomo pipistrello deve, in realtà, ancora superare il trauma dell’assassinio dei genitori e le sue paure più profonde, ma, grazie a un addestramento fisico e spirituale, sembra pronto per ritornare alla base e affrontare finalmente il crimine. C’è anche un po’ d’Italia nel dispiegarsi del sogno americano: Gabriele Muccino, approdato negli States per una svolta internazionale alla sua carriera, dirige La ricerca della felicità, vicenda (vera) di Chris Gardner (qui interpretato da Will Smith) che ottiene uno strepitoso successo al botteghino. Venditore di apparecchiature mediche, Chris se la passa male, braccato dalla povertà, senza una casa in cui stare e soprattutto con un figlio da mantenere. Sarà stagista per sei mesi in un'importante società finanziaria, con l’unico obiettivo di farsi assumere. Concludiamo la rassegna con il biopic Milk, diretto dal talentuoso Gus Van Sant. Si racconta la storia di Harvey Milk (Sean Penn, che otterrà la sua seconda statuetta con questa prova), omosessuale che si candida al ruolo di consigliere comunale di San Francisco. Nonostante il suo impegno in politica e come rappresentante della comunità gay del suo quartiere, non riesce a farsi eleggere, finché, al quarto tentativo, la sua caparbietà viene premiata: sarà il primo omosessuale dichiarato a ricoprire una carica istituzionale; in seguito, sarà vittima di un omicidio, rimanendo, però, simbolo della lotta per i diritti dei gay americani. Da anni, in realtà, si parla di declino del sogno americano, ma siamo sicuri che il cinema ce ne proporrà altri: può darsi che tra non molto tempo scorreranno sullo schermo le immagini del prossimo. Non ci rimane che metterci comodi e lasciarci trasportare dal pathos iniziale, per poi poggiare un altro mattone sull’imponente muro dell’american dream. No, forse non crollerà mai. O, almeno, ci saranno sempre storie per raccontarlo.

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Nella pagina a fianco - Silvester Stallone in Rocky, Al Pacino nei panni di Tony Montana, Kevin Kostner, Sean Connery e Andy Garcia in Gli Intoccabili, e Denzel Washington in Malcolm X. Sopra - Le locandine di Jerry Maguire, Mister Hula Hoop e Batman Begins.

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Lev Nikolàevič Tolstòj, Anna Karenina, 1873-1874.

I quattro cavalieri dell'Apocalisse, Albrecht Dürer, 1497-1498. Staatliche Kunsthalle Karlsruhe.

– Non è nulla, signore;

tutto si appianerà, –

disse Matvej.

Webzine - anno 3, n° 2 - Aprile 2013

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