Sul Romanzo, Anno 3 n. 4, ago. 2013

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Webzine – Anno 3, n° 4 Agosto 2013

In copertina: La memoria del corpo, di Franny Thiery.

La forza della MEMORIA

Con Con un'intervista un'intervista esclusiva esclusiva ad ad

Antonia Arslan


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Editoriale di Morgan Palmas

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Il senso della memoria alla svolta del nuovo millennio di Emiliano Zappalà

pag. 6

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Memoria, meraviglie e marketing di Daniele Duso

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Artisti, manipolatori di memoria di Maria Antonietta Pinna

L e t t e r at u r a

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Una bambina e il suo doppio. Intervista ad Antonia Arslan di Alberto Carollo

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Le confessioni di un italiano. Memoria e passioni di Martino Santillo

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Vincenzo Consolo e le forme della memoria di Michela Matani

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Siamo tutti prigionieri dei nostri ricordi di Beatrice Mantovani

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Seamus Heaney. Poesia come memoria viva di Monica Raffaele Addamo

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Versioni di sé, archivi e creazione di mondi di Carlotta Susca

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La memoria ai tempi del cyberpunk di Giulia Taurino

pag. 34

pag. 18

pag. 44

S to r i a

pag. 64

60

Miracolo a Sant'Anna, un caso di memoria tradita? Revisionismo storico al cinema di Elena Spadiliero

64

Romanzo partigiano di Vincenzo Neve

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Sono un tipo senza storia. Etica e memoria in Memento di Christopher Nolan di Alberto Carollo

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L’epica del quotidiano: intervista a Costanza Quatriglio di Alessandro Puglisi

pag. 74

Cinema

F oto g r a f i a

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La fotografia è memoria? di Annamaria Trevale

Sociologia

88

pag. 88

Sul Romanzo

Mosaico di memorie: il Brasile narra il ‘900 di Paola Paoletti

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Webzine – Anno 3, n° 4

Direttore Morgan Palmas Caporedattore Gerardo Perrotta Redattori Daniele Duso Leonardo Palmisano Alessandro Puglisi Stefano Verziaggi Art Director Daniele Vignato Illustratrice Franny Thiery

Agosto 2013

Hanno collaborato a questo numero Monica Raffaele Addamo, Alberto Carollo, Daniele Duso, Beatrice Mantovani, Michela Matani, Vincenzo Neve, Morgan Palmas, Paola Paoletti, Maria Antonietta Pinna, Alessandro Puglisi, Martino Santillo, Elena Spadiliero, Carlotta Susca, Giulia Taurino, Annamaria Trevale, Emiliano Zappalà.

Si ringraziano Antonia Arslan, per l’intervista concessa. Carlo Scortegagna, Web master. Gian Carlo Calma, per la rappresentazione fotografica del quadro La stanza della memoria. Sergio Capuzzimati, per la rappresentazione fotografica del quadro Il viaggio. Elio Lutri, per la rappresentazione fotografica del quadro La memoria perduta. Gianluca Puglia, per la rappresentazione fotografica del quadro GenoCide.

Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it

Nella pagina a fianco:

Campo di grano con cipressi, Vincent van Gogh, 1889. National Gallery, Londra (UK).

Note legali “Sul Romanzo – Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può, dunque, essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche, si invita a contattare la Redazione (webzine@sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.

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L’editoriale di Morgan Palmas

Vivere senza paure. Sembra complesso oggi, in un mondo nel quale gli attacchi più o meno frontali opprimono con continuità. «Vince chi sa attraversarsi» ci ha confessato Antonia Arslan nell’intervista esclusiva concessa per questo nuovo numero della Webzine. Perché indagare il passato, anche attraverso la memoria, riporta al presente sensazioni, pensieri ed emozioni che obbligano a ristabilire la forza che attinge alle nostre profonde risorse interiori. È una scelta di cui dovremmo farci carico per arginare le derive razziste e omofobe che si stanno diffondendo nel nostro Paese. Gli eventi della contemporaneità fanno smisuratamente eco all’insistente ossessione di cogliere ogni secondo quanto accade, e ci illudiamo di conoscere perché il conosciuto sfiora ogni nostra giornata con notizie, tweet, articoli. Ma la memoria non è una disputa con l’angolo di attualità che riesce a sommergere gli altri angoli; la memoria sfida l’oblio senza contese sull’importanza o meno, sulla relazione o meno, sulla convenienza o meno, essa divampa con sprezzante senso di onestà sul mondo e, di conseguenza, dovrebbe colpire l’anima, non la retina di ognuno di noi. La marcia della memoria accerchia la responsabilità, non si scappa. Neanche l’alterità irriducibile, protesa verso l’indifferenza o il vantaggio, può illudersi di condizionare tutti. Vi sono periodi della storia che appaiono consacrati all’irresponsabilità ed è proprio in quei periodi che il bosco malato del tempo invoca giustizia. Forse non convince neppure l’entusiasmo cieco di chi ricorda come gli eventi fossero totem da venerare, con una placida e superba attitudine al moralismo.

Immaginate che la memoria sia una favilla in un caminetto: quanto ci è richiesto dalla responsabilità non è scaldarci al suo cospetto, ma uscire di casa, cercare legna e portarla per tenere viva la fiamma. Di recente, camminavo per i boschi di Asiago, terra cara a Mario Rigoni Stern, dove si sono consumate due guerre mondiali e dove l’odore di morte, anche se con la malinconia che soltanto il tempo sa donare, pervade ogni albero. Per un lembo di terra caddero migliaia di giovani, chi con i gas, chi per una mina, chi fucilato, chi morto di stenti fra il sangue. Dimenticare fa morire di nuovo quei giovani, li consegna alla disfatta umana. Dimenticare fa morire tanti altri che nelle loro piccole battaglie sono stati soldati coraggiosi. Due sono i valori sui quali dovremmo interrogarci quando si parla di memoria: fermezza e impegno. La fermezza di non trascurare e l’impegno di rispettare quanti hanno sacrificato la vita per il bene delle generazioni future. Ci possono essere momenti di smarrimento, nei quali la bussola perde ogni speranza, ciononostante il basto della vita deve garantirci la fiducia per sostenere i pesi della storia. Forse accorgersi della propria irrisoria debolezza di fronte alle vicende umane e parimenti della consapevolezza che il più delle volte si lotta sapendo di perdere porta con sé la bellezza: ogni sconfitta trasforma quanto ci circonda, e la responsabilità verso la memoria è una dolce sconfitta contro l’indifferenza di chi non sa capire o non vuole capire. Combattere sulla linea che separa l’oblio e il ricordo può rappresentare una ragione sufficiente di vita perché altri possano godere della luce che non conosce ombre. Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it

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Il senso della memoria alla svolta del nuovo millennio di Emiliano Zappalà

«Ricordati di non dimenticare» Tag-line del film Memento, di Christopher Nolan. Memento è il secondo lungometraggio diretto dallo straordinario regista inglese Christopher Nolan, ispirato a un racconto breve del fratello Jonathan. Tradotto dall’imperativo latino, il titolo significa appunto «ricordati». Questo perché il protagonista, Leonard Shelby, è un uomo incapace di ricordare. In seguito a un incidente, ha perso la memoria a breve termine. Si muove spaesato tra personaggi che cercano d'ingannarlo e manipolarlo, alla ricerca dell’assassino di sua moglie. Per orientarsi nel mondo è costretto ad aggrapparsi a una serie di appunti, alle istantanee che scatta con una Polaroid e ai promemoria che incide sulla sua stessa pelle. Per rendere la patologia del suo personaggio, Nolan ricorre a una particolarissima tecnica di montaggio, mettendo in sequenza l’ultima scena seguita dalla prima in ordine cronologico, poi la penultima seguita dalla seconda e così via, concludendo la pellicola con la scena che, nella normale successione temporale degli eventi, sarebbe, invece, collocata al centro. In questo modo, gli spettatori diventano compartecipi del dramma di Leonard: non hanno modo di dare un ordine alle cose e agli eventi, sono costretti a perdere il contatto con la realtà. Leonard sa chi è, conosce la sua infanzia, ricorda il mondo in cui vive, ma è incapace di andare avanti, è paralizzato nel passato. La sua vita non ha evoluzione. Il film di Nolan ci mostra fino a che punto un uomo senza memoria, seppur scaltro e aitante, sia incapace d’intessere una relazione disciplinata e coerente con il mondo che lo circonda. Non è affatto scontato. Spesso dimentichiamo di essere in grado di ricordare. Ce ne rendiamo conto solo quando vorremmo dimenticare, senza riuscirci. Chi non ricorda il passato non ha presente e non ha futuro. Senza memoria esiste solo un limbo pri6

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vo di tempo. Il bambino inizia il suo processo di apprendimento consapevole nel momento in cui comincia a immagazzinare, elaborare e consolidare le informazioni che raccoglie sul mondo. Così come la coscienza storica è possibile solo quando si è in grado di tramandare le acquisizioni culturali del passato. Adoperiamo, però, adesso una distinzione di tipo semantico. Quando si parla di «memoria», si fa riferimento a due concetti diversi, vicini tra loro, ma non del tutto sovrapposti. Il primo dei due intende la «memoria» come elemento storico-sociale, ovvero come facoltà di tramandare scoperte, fatti, successioni, acquisizioni culturali, all’interno di un processo/progresso temporale. In questo senso, parliamo, dunque, della memoria nel suo aspetto collettivo, che riguarda l’uomo in quanto specie e, quindi, gli eventi che lo vedono coinvolto nel suo arco evolutivo fino ad oggi. Ed è questo un fatto allo stesso tempo sincronico e diacronico: sincronico, perché ha a che fare con lo sviluppo e lo stato culturale di un popolo, la coscienza che questo ha del mondo che gli sta intorno; diacronico, perché procede in verticale lungo l’asse della storia, affonda le radici nelle origini comuni e procede come un albero dalle numerosissime ramificazioni. Da questo punto di vista, la memoria inizia con la storia. E la storia inizia con i primi uomini che narrano le loro avventure e le loro esperienze disegnandole sulle pareti spoglie delle caverne, con i racconti intorno al fuoco che, dando vita a miti e leggende, ci raccontano chi siamo e chi eravamo, cosa siamo stati e perché. La «memoria» è da intendere, dunque, come livello di conoscenza che un popolo ha del suo passato o che l’uomo, inteso come specie, ha del suo intero processo evolutivo. È questo elemento a determinare i punti di riferimento, nonché i nostri punti cardinali. Solo la memoria ci consente di dare un senso al nostro procedere nel corso dei secoli, di n° 4 • Agosto 2013


distinguere il prima dal dopo, il momento x dal momento y. Non a caso «in principio fu il verbo». Perché prima di esso non esisteva nulla e, dunque, non c’era nessun ricordo.

A destra – Achille combatte contro Pentesilea, Anfora attica a figure nere, VI sec. a.C.. British Museum, Londra (UK). Sotto – Un'immagine dal film 300, di Zack Snyder, 2007.

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Così la memoria acquisisce un valore etico (chiaramente), ma anche salvifico e trascendentale. Perché solo ciò che non viene ricordato è destinato all’oblìo. Ciò che si dimentica scompare e non esiste. Ciò di cui non si ha memoria non è mai esistito. Per questo i faraoni, al di là di qualunque motivazione religiosa, hanno eretto delle immense tombe sul sangue e sulla pelle di centinaia di schiavi. Per rimanere immortali. Per questo la celebrazione della poesia e delle arti. Per questo le statue e i ritratti, le raffigurazioni, gli archi di trionfo. Il nostro Ugo Foscolo impiega quasi trecento endecasillabi per spiegarcelo. Lasciare un segno su questa terra è l’unico modo che abbiamo per vivere per sempre. L’impresa dei valorosi eroi delle Termopili sarebbe stata vana, se non fosse stata ricordata negli anni. E Achille stesso decide di affrontare il fato e combattere a Troia solo per non essere dimenticato, per diventare eterno. Riflettere su questo aspetto ci fa intendere quanto grande e profondo sia lo stravolgimento in atto nella nostra società. Una volta di più. Perché la nostra è la società dell’eterno presente e della memoria perpetua. In cui ogni cosa viene archiviata e ricordata, trasformata da elemento mortale, fatto di corpo carne e sangue, a sostanza digitalizzata, immortalata per sempre. La memoria ha, oggi, un aspetto totalmente diverso. Senza cantori e architetti. Neil Armostrong che fa i primi passi sulla luna, l’uomo che sventola la bandiera di fronte ai 8

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Sopra – Un'immagine del Rivoltoso Sconosciuto, il famoso manifestante di piazza Tienanmen.

carri armati a piazza Tienamen, J.F.K. che si affloscia sulla sua decappottabile, trafitto da un proiettile, sono immagini già indelebili, già eterne. E questo per il semplice fatto di essere state registrate e immortalate. La memoria nel mondo contemporaneo è, dunque, nient’altro che un enorme archivio, un database in cui vengono raccolte e affastellan° 4 • Agosto 2013


te le notizie della nostra esistenza. Ciascuno di noi, nel momento in cui cura il suo profilo Facebook, parla di sé sui social network, si sta sforzando di piantare un vessillo, gridare la propria presenza, comunicare il proprio passaggio in un determinato posto e in un determinato momento. Per questo agli scienziati l’idea dell’immortalità appare sempre meno peregrina. Arriverà un giorno in cui l’uomo potrà collegare il suo cervello a una macchina e vivere all’infinito. Solo di immagini e di ricordi. Di memoria.

Per l’uomo, «memoria» significa sopravvivenza e adattamento. Memoria significa vita. Tutti gli esseri animati riescono biologicamente a sopravvivere, a imparare e a ricordare perché una struttura cerebrale a forma di “cavalluccio marino”, l’ippocampo, permette di formare tracce fisiche, modifiche molecolari che consentono succes-

E siamo arrivati qui al secondo significato della parola «memoria», da intendere anche come elemento biologico-neuronale e, quindi, personale e individuale. Perché la memoria collettiva è possibile solo grazie alla facoltà di ricordare del singolo uomo. Memoria è la capacità di collegare le esperienze della nostra vita le une con le altre, ponendo i fatti in sequenza, immagazzinando conoscenze, cercando di non vivere ogni cosa come un fatto distaccato e a sé stante. Vivere il presente, rivivendo continuamente il passato come tale. A destra – Una raffigurazione ideale del poeta Omero. Sotto: a sinistra – Menestrelli e trovatori medievali; a destra – Gli annali sono documenti d'archivio che narrano succintamente i maggiori eventi storici e le catastrofi naturali più rilevanti che coinvolgono un popolo.

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sivamente il riconoscimento e il ricordo, facilitano il percorso seguito in precedenza. Tanto più gli esseri sono complessi, tanto più ingarbugliato e integrato è il sistema, anche se i meccanismi di base restano simili, dalle specie inferiori all’uomo. Eventi, fatti, nomi, esperienze, emozioni segnano delle modifiche chimiche nel cervello che permettono di associare elementi e situazioni fra loro, rendendo uniche per ciascuno di noi le esperienze stesse, le motivazioni, i valori e anche i ricordi. Il cervello è un organo nobile e delicato ed è soggetto alle intemperie del tempo che passa e alle modifiche patologiche che possono verificarsi durante la vita. La memoria non si perde, si degrada; si riduce la propria funzionale attività perché sempre più soggetta a interferenze e distrazioni e solo apparentemente migliorata da ausili protesici, vecchi e nuovi. Se non si esercita, la memoria si riduce. Distinguiamo una memoria “autonoetica” da una “noetica”. La prima è istintiva, automatica e procedurale, filogeneticamente più antica, e ci permette di svolgere attività e imparare movimenti o esercizi complicati senza esserne a pieno consapevoli. Questo tipo di memoria è resistente e può darci una mano nelle situazioni patologiche più conclamate e spaventose, come la malattia di Alzheimer. La seconda è fondamentalmente consapevole, “dichiarativa”, perché risponde alle domande più semplici: chi, come, quando, dove, perché, con che cosa, etc. Ma è più fragile, più elaborata, più inte10

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grata e, perciò, più fallace. È la forma che si sfalda più spesso e ci può rendere smemorati. La scrittura ha consentito all’uomo di fare il balzo dalla preistoria alla storia moderna, ma lo ha reso, allo stesso tempo, più vulnerabile, perché ha potuto esercitare di meno la sua arte oratoria e ha esercitato di meno le potenzialità della propria mente. Si dice che Socrate fosse contrario alla scrittura, e non solo per ragioni filosofiche: aveva intuito che lo rendeva meno capace. Più recentemente calcolatrici e calcolatori, computer e telefoni parlanti hanno protesizzato le nostre memorie, sostituendosi al cervello, ingannandolo, facendogli credere di essere di aiuto. I potenti mezzi di interazione sociale attuali, i social network, la comunicazione “globalizzata” stano riducendo le nostre residue capacità. Il nostro pensiero non è originale, ma adattato e mutuato dagli altri. Le idee non sono nostre e sono sempre meno creative. Anche la stessa scrittura, fra acronimi, interiezioni, emozioni surrogate, è spesso sgrammaticata, telegrafica, “cuneiforme”, pittorica e poco espressiva. Questo ci rende integrati agli altri e ci fa sentire accettati, ma ci allontana, purtroppo, dalla nostra piena individualità, dalla nostra capacità funzionale, riducendo la nostra abilità mnesica e rendendoci più vulnerabili e supponenti. Siamo più connessi ma più sterili, facciamo più cose ma ne dimentichiamo il doppio; non ci conn° 4 • Agosto 2013


centriamo abbastanza, usiamo pseudonimi e dimentichiamo presto i nomi di conoscenti e parenti, favorendo l’invecchiamento cellulare, anche in età giovanile. Crediamo di essere diventati onnipotenti, ma siamo solo più dipendenti dagli ausili meccanici ed elettronici. Dimentichiamo in fretta e spesso anche cose importanti. L’uomo post-umano, iper-connesso e iper-tecnologizzato sembra dunque essersi spinto al di là dei propri confini biologici, sembra aver sconfitto gli ostacoli naturali. In realtà, non è così. Come il Leonard Shelby di Nolan, lotta contro i suoi stessi limiti e lo fa con post-it sempre più sofisticati e Polaroid sempre più avanzate. Fotografa, appunta e ricorda. Tutto. Ma ammucchiare ricordi non costituisce alcuna memoria. Perché una memoria senza coscienza è una memoria inutile. Così come non riuscire più a ricordare diventa, per il personaggio di Memento, una barriera posta tra l’individuo e il mondo, la causa del suo rapporto problematico con la realtà, allo stesso modo l’incapacità di dimenticare provoca l’alterazione delle nostre facoltà intellettuali, causa disorientamento, incapacità di scegliere e di capire. Allo stesso modo di chi non riesce a ricordare, anche chi non è capace di dimenticare soffre di una sindrome patologica. È interessante citare il caso di Salomon Cerecevskij, raccontato dal neuropsicologo sovietico Aleksandr Lurija nel suo libro Una memoria prodigiosa, e poi portato sulla scena dal drammaturgo Un'immagine dal film Matrix, dei fratelli Wachowski, 1999.

inglese Peter Brook con il suo Je suis un phénomène. Cerecevskij era incapace di dimenticare, ricordava ogni fatto, ogni nome, ogni volto, ogni dettaglio. Era persino capace di attribuire un colore ai suoi ricordi. Ma la sua prodigiosa capacità, alla fine, lo condusse alla follia. L’incapacità di trovare pace nell’oblìo, anche momentaneo, divenne presto insostenibile, impossibile. È questo, forse, il rischio a cui il nostro modello di società ci sta sottoponendo. Questo uno dei pericoli che incombono sul nuovo prototipo di uomo, dotato di protesi tecnologiche impensabili per la natura. Ricordare tutto e troppo. Ma se tutto è indimenticato, allora nulla può più essere indimenticabile, nel senso di essenziale. Nessun fatto si distingue dagli altri. Se una società che non ricorda viene paralizzata dall’ignoranza, una società che smette di dimenticare, alla fine, è probabilmente destinata a cadere preda della follia.

Riferimenti bibliografici Je suis un phénomène opera teatrale di Peter Book, tratto da Una memoria prodigiosa di Aleksandr Lurija, Bouffes du Nord. Aleksandr Lurjia, Una memoria prodigiosa: viaggio tra i misteri del cervello umano, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2002. Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 1986. Memento, film di Christopher Nolan, 2000. Per gli aspetti scientifici, si ringrazia il neurologo, dott. Giuseppe Zappalà.

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Memoria, meraviglie e marketing di Daniele Duso Probabilmente, non è un caso se nei miti della Grecia antica la madre di tutte le muse era Mnemosine. Senza memoria non c’è sapere e non c’è arte, che è organizzazione del sapere. Mnemosine era, appunto, per gli antichi greci, l’incarnazione della memoria. Figlia di Urano, dopo aver incontrato Zeus, che giacque con lei per nove notti di fila, Mnemosine diede alla luce nove bimbe, le Muse, ispiratrici dei poeti.

Dal mito alla storia si passa attraverso la leggenda. Leggendaria è, infatti, la memoria di Ciro II di Persia, detto Ciro il Grande, del quale si dice fosse in grado di ricordare perfettamente i nomi di tutti i suoi soldati. E leggendario è anche il racconto di quanto accadde al poeta Simonide di Ceo, detto “lingua di miele”, al quale ogni storia dell’arte di ricordare dedica il primo capitolo. Racconta Cicerone nel suo De oratore (risalente al 55 a.C.) che Simonide fosse stato invitato a pranzo da Scopa, un nobile facoltoso di Crannone, in Tessaglia, per allietare il convivio. Fu verso la fine del pranzo che un servo chiamò Simonide alla porta, comunicandogli che era atteso fuori da due giovani. Uscito, Simonide si guardò in giro non scor12

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gendo nessuno, ma sentì un improvviso boato alle sue spalle. Per ragioni sconosciute il palazzo crollò, seppellendo vivi il nobile Scopa e tutti i convitati. È a tal punto che entra in gioco la memoria, che poi divenne proverbiale, di Simonide. Occorreva identificare le vittime, sfigurate dall’incidente, e a riuscirci fu appunto il poeta, che ricostruì mentalmente la struttura del palazzo e della sala, ricordando perfettamente dove ognuno dei commensali era seduto durante il pranzo. L’episodio di Simonide è collocato nel 477 a.C., e da questa data si è soliti fissare l’inizio di quella che diventerà col tempo l’arte della memoria, o mnemotecnica. L’episodio, in sé verosimile, annuncia, infatti, quelli che sono i pilastri fondamentali dell’ars memoriae: l’immagine da ricordare (il volto), la disposizione spaziale e la componente emotiva. Su questa prodigiosa capacità della mente umana avevano già speculato i filosofi dell’antica Grecia. n° 4 • Agosto 2013


Nelle due pagine, da sinistra a destra: Probabile raffigurazione di Simonide in un mosaico pompeiano. Scuola di Atene (part.), Raffaello Sanzio, 1509-1511 circa. Musei Vaticani (Città del Vaticano). Busto di Cicerone. Musei Capitolini, Roma (I). Un ritratto di Marco Fabio Quintiliano.

Tra gli altri Platone, che, nel Teeteto, ipotizza «che vi sia nella nostra anima una cera impressionabile, in alcuni più abbondante, in altri meno…», e Aristotele, che, in Della memoria e della reminiscenza, definiva la memoria come «la passione prodotta dalla sensazione nell’anima… un qualcosa come un disegno…». Col tempo, intanto, cresceva la necessità di codificare le conoscenze acquisite attorno a quella che andava a definirsi sempre di più come un’arte, Sul Romanzo

un’abilità sviluppabile. All’incirca attorno all’85 a.C. venne composta la famosa opera Retorica ad Herennium, attribuita erroneamente a Cicerone, ma in realtà di autore ignoto. Di mano ciceroniana, invece, è certamente un’altra opera, il famoso De oratore, già citato, risalente al 55 dopo Cristo. Più tardi, anche Quintiliano tornò sul tema all’interno dell’Institutio oratoria, sul finire del I secolo d.C., così come fece Agostino d’Ippona, che nel suo Confessionum libri XIII, scritto attorno al 400 d.C., dà una delle definizioni ancor oggi più poetiche della memoria: «...è in certo senso il ventre della mente, e cibo dolce o amaro la gioia e la tristezza: una volta affidate alla memoria possono esservi custodite, ma come cose passate nel ventre non possono più aver sapore...». In una rassegna dei personaggi più curiosi con abilità mnemoniche prodigiose non può certo mancare Lucius Licinius Lucullus, vissuto a Roma tra n° 4 • Agosto 2013

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il 117 e il 56 avanti Cristo. Di lui oggi si ricordano probabilmente solo lo stile di vita insolente e, soprattutto, gli stupefacenti banchetti. A tutt’oggi, infatti, pranzi e cene ai quali non manca proprio nulla vengono definiti “luculliani”. Eppure Lucullo è rimasto negli annali anche per altre imprese: si racconta che, quando partì per l’Oriente, non sapesse quasi nulla di tattica militare, tuttavia portò con sé alcuni libri. La sua memoria prodigiosa

1274 attraverso illuminazione divina) ancora resta un punto di riferimento per studiosi e appassionati di mnemotecnica e per i cultori di una filosofia che, non a caso, porta il suo nome: il lullismo, un sistema di riferimenti a esoterismi, cabala e alchimia, scritture geroglifiche, scritture artificiali, che punta alla creazione di una lingua universale e alla scoperta dei principi costitutivi di ogni sapere. A Lullo si sono ispirati personaggi come Nicola Cusano, Pico della Mirandola, Giordano Bruno e il teorico della pansofia Jan Komensky (Comenius), mentre le sue riflessioni sull’arte combinatoria serviranno a Cartesio e Leibniz per porre le basi della scienza moderna. Nato un paio di secoli dopo rispetto a Lullo, anche l’italiano Pietro Tomai, passato ai posteri come Pietro da Ravenna, dalla città nella quale era venuto al mondo, è ricordato come una figura importante nella storia della mnemotecnica. Il suo

gli permise di applicare, sul campo di battaglia, tutte le conoscenze teoriche apprese nei pochissimi giorni precedenti, dimostrandosi un ottimo generale anche grazie all’acuta intelligenza di cui era dotato. Pure, nel corso del Medioevo, si continua a trattare ampiamente dell’arte di ricordare con riflessioni che, almeno dai documenti pervenutici, principalmente pensano alla sua applicazione in ambito religioso. Così avviene, ad esempio, con la Summa Theologiae, che Tommaso d’Aquino scrisse nella seconda metà del Duecento. In essa, l’autore riprende i principi ciceroniani, ma con l’immagine che si fa strumento conoscitivo per la didattica cristiana e per le sacre scritture. Teologo cristiano, filosofo e missionario, è anche uno dei personaggi principali dell’arte della memoria. Nato nella prima metà del Duecento a Palma di Maiorca, Ramon Llull, italianizzato in Raimondo Lullo, con la sua Ars Magna (testo scritto nel 14

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Phoenix seu artificiosa memoria, stampato a Venezia nel 1491 e poi ristampato varie volte nel corso del secolo successivo, fu quello che oggi chiameremo senza esitazioni un best seller. Di Pietro si dice che conoscesse a memoria, parola per parola, l’intero corpus del diritto canonico e decine di orazioni ciceroniane. Ma soprattutto di lui, teologo dell’“ars memorativa”, si ricorda la riflessione sulle immagini da associare ai “luoghi” della memoria, che devono eccitare l’immaginazione. Il miglior suggerimento, in questo senso? Facile: basta collocan° 4 • Agosto 2013


re delle fanciulle nude nei luoghi, perché, dice il ravennate, «gli uomini ricordano con più facilità l’immagine di una fanciulla nuda che qualunque altra immagine». Pietro da Ravenna diede il la, con la sua opera, ad un canto all’unisono di decine di stampatori che, in gran parte dalla città di Venezia, diffusero in Europa, nel corso del XVI secolo, oltre al sempre richiestissimo Phoenix, testi come il Congestorium artificiosae memoriae di Johann Romberch, il Thesaurus artificiosae memoriae di Cosimo Rosselli e il Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservare la memoria di Lodovico Dolce.

Tornando ai personaggi memorabili, troviamo colui che, nell’immaginario popolare, viene identificato come il simbolo della memoria prodigiosa. Di Pico della Mirandola, umanista vissuto nella seconda metà del Quattrocento, nel breve splendore rinascimentale della corte di Lorenzo il Magnifico, si dice sapesse recitare a memoria la Divina Commedia (composta, lo ricordiamo, di circa

Nelle due pagine, da sinistra a destra: Sant'Agostino nello studio, Sandro Botticelli, 1480 circa. Chiesa di Ognissanti, Firenze (I). San Tommaso d'Aquino con la Summa, Beato Angelico, 1442 circa. Museo nazionale di San Marco, Firenze (I). Un ritratto di Raimondo Lullo. Pico della Mirandola, Cristofano dell'Altissimo(?), primo decennio del XV secolo. Galleria degli Uffizi, Firenze (I).

4.000 versi) dal primo verso all’ultimo e anche al contrario. Pure del Conte di Saint-Germain si diceva che avesse una memoria prodigiosa, anche se poi il suo nome passò ai posteri per ragioni più leggendarie: la scoperta del segreto della pietra filosofale che gli avrebbe garantito infinite ricchezze e l’eterna giovinezza. E in effetti, seppur morte lo colse, il 27 febbraio 1784, esistono tuttora numerosi gruppi New Age che dichiarano di ispirarsi direttamente a lui. Sono, invece, più certi e documentati i casi di Blaise Pascal, morto a 39 anni nel 1662, del quale si dice tenesse a memoria interi capitoli delle sue opere, elaborandoli e riordinandoli fino a che non era convinto della loro forma definitiva, e di Leonhard Euler, matematico e fisico svizzero vissuto nel Settecento e noto Sul Romanzo

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in memoria di formazione”, e sono state ideate delle vere e proprie competizioni di mnemonismi, che si replicano periodicamente; mentre si sprecano in libreria i volumi che insegnano suggerimenti, tecniche e trucchi per migliorare la nostra capacità di ricordare e, con essa, anche tutta una serie di altre abilità ai limiti del credibile. Eppure dirigenti d’azienda, finanzieri, banchieri e industriali, ma anche politici e illusionisti ci credono eccome, e spendono migliaia di euro per partecipare a corsi che insegnano a potenziare la memoria e, con essa, la mente tutta. Quanto ci sia di reale e quanto sia, piuttosto, in buona parte dovuto a studiate abilità di marketing è un dato probabilmente insondabile. Quel che si sa è che ricordare, anche molto, è davvero possibile. Basti pensare a due personaggi famosi e a noi

Bibliografia T. Gregory e M. Morelli (a cura di), L’Eclisse delle memorie, Roma-Bari, Laterza, 1994. Jacques Le Goff, Storia e memorie, Torino, Einaudi, 1982. Paolo Rossi, Clavis Universalis: arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, Il Mulino, 1983. Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio, Bologna, Il Mulino, 1991. Frances Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972.

Sopra – Ritratto di Blaise Pascal. A destra – Ritratto fotografico di Henri Bergson.

agli appassionati di algebra semplicemente come Eulero. Egli sapeva ripetere l’Eneide di Virgilio dall’inizio alla fine, oltre a ricordare perfettamente la prima e l’ultima riga di ogni pagina dell’edizione su cui l’aveva studiata. In tempi più recenti, l’arte di ricordare è stata affrontata in modo sempre più scientifico. Ne trattò a lungo Bergson, a cavallo tra Ottocento e Novecento, e in seguito, anche per saperne di più di questa facoltà della nostra mente, nacque il filone delle neuroscienze. L’antica ars memoriae, via via, è diventata un argomento alla portata di tutti, tanto che nel corso del Novecento sono nati personaggi come Harry Lorayne, che si definisce “specialista

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vicinissimi nel tempo, come Vittorio Gassman e Roberto Benigni. Del primo, scomparso nel 2000, si sa che aveva memorizzato qualcosa come 70 ore di opere di drammaturgia, mentre Benigni continua a dimostrare tuttora, in occasioni più o meno pubbliche, di saper recitare intere parti della Commedia dantesca a memoria. A chi obietta che pure queste sono due menti di uomini straordinari basti allora, sulla memoria, la citazione di un altro grande italiano, Leonardo Da Vinci, secondo il quale «a torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente».

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Paura generale del nuovo giorno, Zuzanna Niemier.

Il vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878.

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Artisti, manipolatori di memoria di Maria Antonietta Pinna

Sotto – Ritratto fotografico di Eugène Ionesco.

Il termine memoria racchiude varie sfumature di senso e tempo. Può essere individuale, collettiva o storica, a breve termine e a lungo termine. Secondo la psicologia cognitiva, e secondo Tulving, essa è semantica o episodica nell’ambito dell’esplicito, manifestantesi per ricordi vivi alla coscienza. L’implicito, invece, riguarda l’incoscienza, meccanismi che affiorano senza che si possa percorrere, a livello cosciente, la strada che li ha portati a crescere, trasformandoli in dato certo. Citiamo, ad esempio, l’iter che ha portato all’assimilazione di un movimento complesso: ci si ricorda il movimento, ma non le fasi della sua crescita. Entrambe le memorie, esplicita ed implicita, vengono suddivise, a loro volta, in sottotipi, allo scopo di rendere più chiara questa facoltà della nostra mente. L’amnesia, in seguito a un trauma o a ipossia, comporta disagio, dolore, stordimento, perché la memoria è il bastone che consente di appoggiarci al mondo senza cadere. Essa rappresenta il filo d’Arianna della nostra storia personale e sociale, la trama o il labirinto su cui il destino si diverte a punteggiare gli avvenimenti. La memoria diventa materia su cui, e per cui, fare arte, quando lo scrittore decide di manipolarla per costruire le sue storie che contengono sempre un po’ della sua esperienza passata e presente e, paradossalmente, anche futura. Si attiva allora, per esempio in un romanzo, un’operazione di trascendimento dell’io, per cui lo scrivente parla di se stesso senza parlarne, ossia si mette in scena enucleando dei simboli che deformano la memoria e la “lavorano” per ottenere nuove forme creative. Se da un lato biografie, memoriali, diari e opere cronachistiche in genere cercano di essere fedeli alla memoria, la letteratura è la sua amante infedele che la manipola per comunicare. Oltre la percezione dell’oggetto, c’è un mondo in cui la fantasia s’intreccia strettamente con la realtà, rafforzandola. S’innesca, così, un processo paradossale per cui il poeta sul filo mnemonico dice il falso, enuclea un paradosso, semplicemente per esprimere la verità, esplodendo sulla pagina bianca uno stato d’animo che da particolare diviene universale. Un esempio di tale procedimento di manipolazione mnemonica è il dialogo del primo atto de La cantatrice calva di Eugène Ionesco. Moglie e marito, il signore e la signora Martin, non ricordano di conoscersi. Scena quarta atto primo:

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A destra: Sopra – Ritratto fotografico di Salvador Dalì Sotto – La persistenza della memoria, Salvador Dalì, 1931. The Museum of Modern Art di New York, New York (US). Nella prossima pagina: Sopra – Study for Portrait III (after the life mask of William Blake), Francis Bacon, 1955. Collezione privata. Sotto – Labyrinth of Memory, Chiharu Shiota, 2012.

«SIGNOR MARTIN Mi scusi, signora, non vorrei sbagliare, ma mi pare di averla già incontrata da qualche parte. SIGNORA MARTIN Anche a me, signore, pare di averla incontrata da qualche parte. SIGNOR MARTIN Non l’avrò, signora, per caso intravista a Manchester? SIGNORA MARTIN Potrebbe darsi. Io sono nativa di Manchester! Tuttavia non ricordo bene, signore; non potrei dire se è lì che l’ho vista, o no! SIGNOR MARTIN Dio mio, è veramente curioso!...Sta di fatto che io, signora, ho lasciato Manchester circa cinque settimane fa. SIGNORA MARTIN Veramente curioso! Bizzarra coincidenza! Anch’io, signore ho lasciato Manchester circa cinque settimane fa. SIGNOR MARTIN Io ho preso il treno delle otto e mezzo del mattino, quello che arriva a Londra a un quarto alle cinque, signora. SIGNORA MARTIN Veramente curioso, veramente bizzarro! Incredibile coincidenza! Io ho preso lo stesso treno, signore! SIGNOR MARTIN Dio mio, veramente curioso! Non potrebbe darsi allora, signora, che io l’abbia vista in treno? SIGNORA MARTIN È possibile, verosimile e plausibile, e dopo tutto, perché no? Io però non me ne ricordo, signore! SIGNOR MARTIN (sognante) Curiosa, curiosissima, incredibilmente curiosa circostanza! Nella mia camera da letto c’è un letto. Il mio letto è coperto da un piumino verde. Questa camera, con il suo letto e il suo piumino verde si trova in fondo al corridoio tra il water e la biblioteca, cara signora. SIGNORA MARTIN Quale coincidenza, gran Dio, quale coincidenza! La mia camera da letto ha un letto con un piumino verde e si trova in fondo al corridoio tra la biblioteca, caro signore, e il water! SIGNOR MARTIN Quant’è bizzarro, curioso e strano! Mi lasci dunque dire, cara signora, che noi abitiamo nella medesima camera e che dormiamo nello tesso letto, cara signora. È forse lì che ci siamo incontrati!».

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Dalì, nel suo dipinto La persistenza della memoria, deforma gli orologi, che diventano molli, nella consapevolezza che il tempo meccanico ha ritmi differenti da quelli della memoria umana. Relatività di spazio e tempo, inconscio visivo, tutto interiore nel contrasto cromatico tra colori caldi e freddi, nella lunghezza e profondità delle ombre cui contrasta il giallo che scioglie le certezze. L’orologio molle è il tema della memoria che è intrinsecamente deformazione, elemento transeunte, soggetto ai colpi del tempo che ne trasforma profondamente la struttura. La memoria, infatti, non rimane mai identica a se stessa, cambia continuamente sotto la sferza temporale, nostro malgrado si arricchisce di nuovi particolari inesistenti, oppure trasforma quelli originari fino all’inconsapevole deformazione. Il suo legame con il tempo è, pertanto, di odioamore. L’artista scioglie il tempo comune per proiettarsi in un mondo altro, di metafisica fluttuante e simbolica, in cui cogliere nessi e processi di una

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memoria oltre-temporale, che si nutre di favola e sensazioni visive. La retina comunica, attraverso il colore, impulsi primari al resto del corpo, risveglia istinti che superano la precisione regolata della vita per calarsi nell’incanto dell’inconscio e vederne l’assurdo come spettacolo. Anche Francis Bacon corrode il ricordo nella distruzione e corruzione dei volti resi irriconoscibili in una sorta di deformante e doloroso oblìo. La memoria, in questo modo, si obnubila nel mito del signor Nessuno. I tratti somatici identificativi del soggetto scompaiono, in una prospettiva di simbolica sintesi, nella sfumatura di un colore d’angoscia che comunica una tensione non definita né definibile in termini di preciso rigore; sfumature cromatiche che proiettano nell’indistinto, nel bilico che precede l’abisso; l’annullamento, la cancellazione, l’alienante consapevolezza che l’essere è la pittura scrostata dell’illusione confusa nei chiaroscuri della memoria che non è più lucida. Un percorso interiore esploso nella cromatica evidenza delle tele senza volto. La messa in scena dell’oblìo che sfugge ad ogni preciso contorno, diramandosi in sensazioni che ben si adattano alla crisi dell’uomo contemporaneo. Perdere se stessi nell’immemore vasto limbo della mancata agnizione, non riconoscersi, confondersi con il nulla. Chiharu Shiota è l’artista del pieno e del vuoto, con presenza e assenza in un eterno rincorrersi, in cui la memoria soggettiva deposita parti intricate di noi nei posti che abbiamo abitato, negli oggetti che abbiamo usato: la confusione sinaptica, il groviglio come estetica di un ricordo tradito. Un’arte nostalgica, in cui l’inconscio intrappola l’oggetto con nodi e trame da sogno da cui è difficile staccare l’occhio, prigioniero di prospettive atte a comu20

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nicare un delirio interiore proiettato all’esterno. L’artista scava oltre l’abisso dopo la caduta, pensa più in profondità alimentandosi con il suo stesso masochismo, si nutre di sé per superarsi in vista di nuove universali possibilità. La memoria è soltanto un mezzo, la barca di Caronte su cui l’anima può affrontare il viaggio verso l’inferno personale cosmicizzato e alienato. L’angoscia si scioglie così in canto, in melodia, i cui ritmi hanno lo scopo di evidenziare la lacerante evidenza dello stare su un mondo imperfetto, nel quale il tempo si diverte a beffarci. La scrittura è la delusione del tempo, la vittoria della memoria che si stacca dalla pagina per alimentare i cervelli con la sua essenza, un viaggio, un percorso in cui perfino chi tiene la penna in mano non sa dove andrà a finire. Il tempo, comunque, mentre si scrive è paralizzato dentro i confini di un’astuta fantasia che lo preme, lo lega, lo tiene avvinto. Lo svolgersi è un non svolgersi, in questa prospettiva, o meglio un dipanarsi in un metatempo, fratello gemello della memoria e astuto distruttore del tempo ordinario. Sulla strada di Mmemosine si può giocare dunque, come bambini alle prese con una materia nuova, da esplorare e toccare, in vista dell’ottenimento di un effetto verità che può passare anche attraverso le maglie dell’assurdo, perché la cantatrice Calva si pettina sempre nello stesso modo e gli artisti, quelli veri, altro non sono che dei manipolatori di memoria che giocano al buio, senza maschere né infingimenti.

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Letteratura

La stanza della memoria, Gian Carlo Calma. Sul Romanzo

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Una bambina e il suo doppio

Intervista ad Antonia Arslan

di Alberto Carollo

Nella sua opera, il tema della memoria è centrale. Prendiamo come punto di partenza la trilogia narrativa La masseria delle allodole (Rizzoli, 2004), La strada di Smirne (Rizzoli, 2009) e il più recente Il Libro di Mush (Skira, 2012). C’è, in questi libri, la volontà di restituire per gradi un patrimonio che non è solo personale, bensì il tassello di una più vasta memoria collettiva e storica che appartiene all’umanità (il genocidio degli Armeni ad opera della dittatura dei Giovani Turchi, 1915). Tutto ciò è stato reso possibile e si è concretizzato grazie a un processo lungo e laborioso di individuazione e integrazione di un’identità; alcuni riferimenti letterari (penso alla sua traduzione de Il canto del pane del poeta Daniel Varujan) e alcune persone a lei vicine l’hanno aiutata a dar voce a questa parte di sé che ancora risiedeva nell’ombra. Ce ne vuole parlare? Volentieri. Proprio in questo periodo sto ricostruendo il testo di un convegno tenutosi a Reggio Calabria con gli Istituti superiori. Il tema riguardava la memoria e aveva come titolo Una bambina e il suo doppio, proprio dalla Masseria delle allodole. Stavo giusto pensando alle persone e ai libri; ritengo che la memoria sia informazione sui fatti, eventi che già conosci, ma che attraverso i testi puoi riportare alla mente, arricchirli. Magari sono fatti della tua storia, o della storia della tua famiglia e del tuo popolo. Con l’aiuto di certi libri tutto si ricompatta. Questo è, però, un tipo di memoria storica, una memoria che non ti porta a scrivere un romanzo. Casomai scriverai un saggio, ma pure i saggi hanno bisogno d’ispirazione, di una forte tensione interna. Io sono approdata tardi alla forma romanzo; a volte mi dico che sono lenta e, in effetti, è così. Poi, magari, vado in profondità, ma sono lenta nell’acquisizione di certi fatti. Credo che per stimolare un racconto con dei personaggi e delle situazioni forti, da far sì che i lettori le adottino, che abbiano un transfert con essi, bisogna che tu, scrittore, prima lo viva come 22

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una specie di “rinascita interna”, di ri-emersione dal profondo di te di cose che si erano depositate, di fatti, ma soprattutto sequenze di immagini che si collegano, poi, al racconto. Il racconto stesso ti è stato fatto in una determinata località, in un dato momento che rivivi nel tuo pensiero. Ecco perché, per tanti anni, dei racconti di mio nonno Yerwant non avevo quasi memoria. Mi ricordavo solo questa grande estate con lui; mi ero ammala-

ta di una strana e misteriosa febbre di cui non si riusciva a trovare la causa. A un certo punto, mio nonno venne nella mia camera. Mi disse che aveva trovato la penicillina. Mi informò che sarebbe stata un’esperienza dolorosa (ne avrei dovute fare 36!) e che mi avrebbe dato 50 lire a puntura. Ne volli 100, poi ci accordammo per 75 lire. Era un bravo medico, aveva 85 anni all’epoca. Disse a mio padre, che pure era medico: «La bimba la

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…

Sei uno scrittore in cerca di pubblicazione?

Chiamiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi…

"Natale non è Natale senza regali", si lamentò Jo, sdraiata sulla coperta Avevo riletto i miei appunti, e non ne ero soddisfatto…

Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava sulle scaglie del mare appena increspato. Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva.

Agenzia letteraria

Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Norman Bates udì il rumore e ne rimase sconvolto. Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l'esercito di Francia. Mi sento sempre attratto dai posti Per saperne di più scrivi a dove sono vissuto, le case e i loro dintorni.

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porto io in convalescenza perché tu non sei capace di seguirla». Mi portò in montagna, dove mi ristabilii. Durante il nostro soggiorno, quel vecchio signore anatolico mi raccontò la storia della masseria e del massacro del suo popolo. Questa storia è così piena di luci, di elementi, di colori, di feste in famiglia e poi… l’improvviso irrompere dell’orrore. Non c’è niente di nuovo in queste storie: quante ne abbiamo ascoltate? Eppure per te è tutto nuovo, perché si tratta della tua storia, della tua famiglia. Diversi anni dopo, ebbi modo di leggere che i giovani armeni di terza generazione cominciavano a domandarsi perché nessuno ne parlava, perché questa cappa di silenzio. Si parlava della Shoah, ma non della scomparsa del popolo armeno. Era accaduto solo vent’anni prima; Hitler stesso, secondo alcune fonti storiche, ne accennò con i suoi ufficiali: «Noi possiamo fare quel che vogliamo. Chi si ricorda oggi dello sterminio degli Armeni?». Quando cominci a guardare dentro la Storia, tutto si allaccia. I soldati tedeschi erano in Anatolia nella Prima Guerra Mondiale; Hitler era soldato altrove, ma si parlavano tra camerati. Ci sono infinite testimonianze di soldati tedeschi inorriditi da quanto vedevano fare agli Armeni da parte dei Turchi. Furono testimoni passivi o attivi del genocidio? Si sta ancora discutendo. Di certo, passivi lo furono. Personalmente non partecipai alle manifestazioni dei giovani armeni; in seguito, però, mi accaddero due fatti. Primo, ascoltai due meravigliosi concerti a Venezia di un coro armeno di Parigi. Avevano una vocalità straordinaria; il loro repertorio era composto da canzoni popolari di prima del 1915; il secondo evento fu quella pergola di

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glicine, grande come questa stanza (il suo studio di Padova, n.d.r.), dove mio nonno mi raccontò la sua storia. Il viola del glicine, l’orrore del sangue, la testa decapitata di suo fratello gettata addosso alla moglie. Sangue, carne, vita e morte mi hanno fatto capire che, in qualche modo, dovevo parlarne. Mio nonno sopravvisse per miracolo; in seguito, si richiuse in se stesso, col suo fardello di dolore. Studiò a Venezia, divenne uno dei medici più importanti d’Europa. Ha voluto preservare i suoi figli; si aprì solo con me, una bambina, a ottant’anni suonati. Tornando a me, per scrivere ci vuole una forte spinta; devi sentire che qualcosa pulsa, vuole uscire. All’inizio ho indugiato. Avevo fatto tante cose di critica letteraria, non mi ero mai cimentata con la narrativa. Poi, una mia amica americana, Siobhan Nash-Marshall (che ha scritto la premessa di un mio recente saggio) mi incitò: devi farlo, non puoi aspettare ancora, non puoi lasciare pagine sparse di qua e di là. In seguito, ho incontrato Varujan; niente accade per caso: ho compreso che era un poeta migliore di quanto emergesse dalle sue traduzioni. Mi sono detta: devo curare una nuova traduzione, devo rendere meglio la prosodia, il ritmo delle sue quartine. Dopo questa esperienza, ho capito che queste voci dovevano uscire. Quanta importanza ha dato, nel suo lavoro artistico e critico, alla documentazione, Sotto – Civili armeni in marcia forzata verso un campo di prigionia, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915.

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alla verifica sulle fonti e alla loro condivisione? Naturalmente lei capisce che quel che le dicevo poc’anzi, quel nucleo iniziale di storie, è solo l’inizio. Dal canto mio, sono abituata a una precisione quasi maniacale. Non mi sarei mai permessa di scrivere senza verificare; ho controllato tutto: dalle località alle date, attraverso le lettere famigliari. Mi sono impegnata a fondo in quel lavoro di storicizzazione che è imprescindibile. Non si può giocare sull’emotività e basta, altrimenti alcuni aspetti diventano ipertrofici e sbilanciano il tuo lavoro. Guai se lasci andare la piena dell’emozione; il lettore non ti segue più. Poi ti rileggi e ti rendi conto che è ridondante, enfatico; dieci aggettivi in una frase quando ne bastano due. Per La masseria delle allodole avevo tanti ricordi famigliari che ho controllato, sviscerato e verificato, con un pizzico d’invenzione che assicura la tenuta del romanzo. Per La strada di Smirne, invece, ho fatto un lavoro enorme di ricerca che mi ha occupato per molti anni. L’intuizione principale è stata che l’incendio di Smirne (1922) è uno snodo cruciale nella vicenda delle minoranze in Anatolia. Dopo l’incendio di Smirne, cala il silenzio su tutto. Non solo sugli Armeni, ma anche sugli Assiri, sui Greci, sui Greci del Ponto, massacrati senza pietà come gli Armeni. Quelli sul mar Egeo, invece, li hanno cacciati verso la Grecia. Se lei ci crede, sulla vicenda di Smirne in italiano non c’è nulla: solo testi in francese e inglese. Il lavoro di documentazione deve essere certosino per essere degnamente condiviso, ma bisogna impedire di farsi travolgere dal particolare. Recentemente Guerini e Associati ha ristampato un’edizione, riveduta e ampliata, di un suo saggio del 1999, Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ‘800 e ‘900. Si tratta di un corpus di saggi critici che è una vera e propria ricognizione in una “galassia sommersa”, ovvero la scrittura al femminile del periodo fra l’Unità d’Italia e la Prima Guerra Mondiale (1861-1914). Leggendo questo libro, si entra in una dimensione popolata da una «infinita schiera di novellatori» (come scrisse Benedetto Croce) e di intellettuali, di giornaliste, di appendiciste e di poetesse, di educatrici, di favoliste e di scrittrici per l’infanzia, di critiche e di traduttrici. Alcune di queste figure hanno avuto grande fortuna critica e di pubblico (Matilde Serao, Neera, Sibilla Aleramo); altre rischiavano di finire nell’oblio. Come ha strutturato queste Sul Romanzo

ricerche? Cosa le hanno rivelato le sue ricerche e ritiene di aver restituito, in parte, alla storia letteraria italiana la sua metà oscura? Ho chiesto a una mia collaboratrice, Marina Pasqui, di controllare tutte le note, perché avevo messo insieme molti articoli nel corso degli anni. Poteva esserci qualche ripetizione. Non ho inteso cambiare il testo; a parte qualche refuso, gli articoli rispecchiano come la pensavo all’epoca della loro stesura. È il lettore che deve farsi un’idea; ci sono le date, le indicazioni bibliografiche e tutto l’apparato che richiede un saggio critico. Ho approfondito e ampliato quegli aspetti che meritavano integrazioni alla luce di nuove acquisizioni; tutti noi miglioriamo, ne conviene? Il lavoro che ho fatto sulle scrittrici è stato, in un certo senso, un lavoro preparatorio a tutto quello ch’è venuto poi. Se lo guardo da una certa distanza, noto che sono in tante. Già il numero ti dà l’idea di quel che l’Accademia letteraria italiana ha relegato nell’ombra per più di sessant’anni. Non sarà grave come le tragedie genocidarie, ma il silenzio è calato su scrittrici come Paola Drigo, su veri e propri capolavori del ‘900. Esaltano ancora certe sciocchezze; io lo so, ho insegnato per anni letteratura italiana. Il mio incontro con Neera, per esempio, si è reso possibile per il tramite del nipote, Corradino Martinelli, che aveva conservato minuziosamente tutte le sue carte e le sue lettere. «Il vero amore della mia vita era mia nonna», mi confessò una volta. Neera aveva tessuto rapporti con letterati importanti del suo tempo, come Capuana e De Roberto. Mi sono detta che quello in cui ero incappata era l’archivio della corrispondenza di una scrittrice, ma che, simile a quello, ce n’erano altri. Da cosa nasce cosa e ne uscirono fuori altre: una per tutte Carolina Invernizio, la più grande scrittrice italiana di romanzi d’appendice. E poi c’è da dire che la scrittura al femminile non è cominciata, come si pensa, nel secondo dopoguerra. È iniziata quando le donne non avevano ancora facoltà di voto ma erano “signore della scrittura”, delle professioniste che si guadagnavano il pane collaborando con giornali, riviste, editori. Tra le scrittrici c’erano grandi rapporti; erano molto meno progredite degli uomini in campo politico, ma compivano quelle opere che i politici comprendevano perfettamente, vale a dire diffondere l’educazione femminile. Queste donne avevano imparato a leggere e leggevano le cose più diverse. Ho frequentato l’archivio di Neera, ho contribuito a sistemarlo, ho pubblicato tutta una serie di lettere. Mi sono occupata del suo carteggio con Croce. Le sorelle Croce, che non aprivano l’archivio a nessuno, mi hanno permesso, per fortuna, di avere accesso alle lettere e di compiere quell’aspetto così importante in un carteggio che è la bilaterale. Poi Capuana, poi Verga; poi una singola lettera che aveva il potere d’illuminarti, di gettare nuova luce su un aspetto dell’autrice o della sua opera. Ho riscontrato delle analogie tra la forza inesausta delle donne armene nella tragen° 4 • Agosto 2013

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Invito _ a __________ presentare ________ articoli ______ Numero 5/2013 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 5/2013. Gli articoli potranno essere incentrati su un tema liberamente scelto dall'autore.

Per partecipare, è sufficiente attenersi alle seguenti indicazioni: Prima Fase Entro il 30/08/2013, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: –– essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come font Times New Roman 12; –– riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, luogo e data di nascita, codice fiscale e indirizzo e-mail; –– presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); –– essere inviata a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@ sulromanzo.it. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 07/09/2013, l’autore riceverà un’e-mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 30/09/2013. L’articolo dovrà essere: –– redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; –– in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– inedito; –– inviato all’indirizzo e-mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione della Proposta di Argomento. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail.

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Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti gli articoli ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati in un numero successivo o nel sito internet del Blog www. sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità dell’argomento proposto, si riterranno inammissibili: –– proposte presentate dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– proposte e/o articoli che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– proposte e/o articoli che presentano un possibile conflitto di interessi; –– articoli che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– articoli già editi, indipendentemente dal canale di pubblicazione. Note finali L’invio dell’articolo non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro articoli e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro articolo e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons – Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione dell’articolo pubblicato, successivamente alla sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati eventualmente rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione degli articoli saranno utilizzati esclusivamente per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione di Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it

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dia; quel loro ricomporre la tela degli affetti, dei legami famigliari e delle memorie e (pur su fronti molto diversi) la combattività delle protagoniste della ribalta letteraria tra ‘800 e ‘900. Mi riferisco alle irridenti invettive di Jolanda, orgogliosa rivendicatrice dei valori femminili; alla strenua resistenza di Neera – non priva di ambivalenze e cedimenti –, opposta al tentativo di ingerenza piuttosto invasiva sui suoi testi da parte di Hérelle, celebre traduttore di D’Annunzio. Parlando della Marchesa Colombi e del suo In risaia, lei scrive che «è (…) la storia di una donna e del suo misurarsi con la realtà» e utilizza un’espressione che mi sono appuntato per la sua icastica bellezza: «Vince chi sa attraversarsi». Vuole commentare queste mie considerazioni? È vero. Se vogliamo, il mio è stato anche un viaggio alla scoperta di me stessa. Voglio dire, uno ha prima di tutto un rapporto con se stesso. Volersi bene, ne parla pure il Vangelo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Andare oltre, imparare a controllare le emozioni, non negarle, ma incanalarle, imporsi delle cose, trovare una disciplina. È un po’ quello che facevo pure da ragazza. Mio padre, come le ho detto, era medico. Andava a letto verso le 11 di sera. Io mi trasferivo nel suo studio, mi mettevo alla macchina da scrivere e scrivevo dei dialoghi con me stessa. Mi facevo delle domande, mi chiedevo “perché hai fatto così”; non mi davo delle risposte

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ma il fatto stesso di aver formulato le domande mi aiutava. Una tentazione che capita a una ragazza, ieri come oggi, è quella della chiacchiera interminabile; una cosa piacevole, ma che non può andare avanti a lungo, altrimenti ti svuoti, non hai più niente da dare. “Ora basta” mi dicevo, “hai bisogno di tornare a sedimentare, di ricaricarti”. La stessa tenacia l’ha dimostrata anche lei, nel corso di un episodio di grande disagio e difficoltà occorsole personalmente nel 2009. L’evento traumatico di un’improvvisa setticemia, il coma indotto e il reparto di rianimazione. Un vissuto che ha sentito la necessità di condividere e descrivere in Ishtar 2. Cronache dal mio risveglio (Rizzoli, 2010). Se la sente di parlarci in breve di questa esperienza in una “dimensione parallela”? Sì. Riguardo al coma non ho molto da dire: ci passi attraverso. Alcuni sostengono di aver avuto delle sensazioni. Io no; percepivo, però, lo scorrere del tempo. Quando hanno cominciato a risvegliarmi dal coma, è stato come riaffiorare, sentire che esistevo, che dovevo ritrovare la mia essenza. Ero, però, limitata; pensavo di parlare, ma avevo questo tubo in gola. Loro non

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te lo dicono, perché se lo scopri ti agiti, cominci a sentire il tubo e ti devono sedare. È comunque brutto che non te lo dicano; io continuavo a parlare nella mia testa, ma nessuno mi ascoltava. C’erano delle immagini, così concrete e reali alla mia percezione: questi ammassi di fil di ferro circondati di bambagia che avanzavano per soffocarmi. Dovevo combattere; dovevo guardarli fissamente e loro si fermavano. Oppure questo buco davanti al mio letto, che in realtà era la finestra dalla quale guardavano nell’altra stanza. Sembrava un antro dal quale provenivano sussurri malefici. È stata un’esperienza cruciale; da un lato, capisci che nella vita è importante badare all’essenziale, in tutto; dall’altro alto, è scoprire che puoi resistere, anche se è terribile. Quando mi hanno tolto il tubo, pensavo fosse finita, invece tutto era appena cominciato. “Ora devi re-imparare a respirare”, mi sono detta. Poi tutto quell’affetto di cui sei circondata, la premura delle infermiere, la passione e la professionalità con la quale svolgono il loro lavoro. Ti senti sempre accudita; comprendi interamente la tua fragilità. Parlando di Le stanze ritrovate, mi duole un po’, da veneto quale sono, constatare dai suoi studi che, pur con alle spalle una ricca tradizione rinascimentale e cinquecentesca (Isotta Nogarola, Gaspara Stampa) e settecentesca (Isabella Teotochi Albrizzi) l’Otto-Novecento non abbia prodotto delle scrittrici dalle voci forti. Le rotte letterarie e editoriali convergevano, piuttosto, nella vicina Lombardia, mentre il Veneto assume un’immagine di regione conservatrice e un po’ bigotta. Nel volgere del secolo, una delle voci più originali è Giovanna Zangrandi, al secolo Alma Bevilacqua, emiliana d’origine ma «cadorina d’adozione, valligiana al cento per cento». Ci racconta in breve della testimonianza di questa scrittrice immersa in un «clima da deserto dei Tartari», per riprendere un’acuta espressione di Andrea Zanzotto? Riguardo a Le stanze ritrovate. Scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento (a cura di A. Arslan, A. Chemello, G. Pizzamiglio; Eidos, Milano-Venezia, 1991 e 1994, n.d.r.), il libro andrebbe ristampato perché, purtroppo, la casa editrice ha chiuso i battenti, pure se abbiamo fatto due edizioni ed è stato recensito in tutto il mondo, anche in America. Il merito è stato di questa piccola editrice illuminata, Vittoria Surian: andiamo a ricercare le autrici, ne scegliamo 24 già lasciandone da parte un sacco. Questo vuol dire che la civiltà letteraria veneta è stata, forse, l’unica in Italia a riconoscere la scrittura femminile. Queste donne le facevano pubblicare, lasciavano loro spazio e voce. Questo è importantissimo. Nel ‘900, ho messo la Zangrandi e Paola Drigo (ho escluso le viventi). Maria Zef (1936) della Drigo e I 28

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Brusaz (1954) della Zangrandi sono due libri bellissimi. Nel caso della Drigo, è originaria di Castelfranco. La Zangrandi, invece, compie una scelta. Era un’assistente universitaria, aveva una laurea in chimica e una strada davanti a sé, ma a un certo punto ha avuto una crisi esistenziale ed è andata a vivere a Cortina, dove pubblicò per i giornaletti fascisti. Dopo si cercò di nasconderlo, ma non vedo perché. Hai vent’anni, il Fascismo è al potere e riesci a pubblicare solo così, perché non dovresti? Poi è diventata staffetta partigiana, ha maturato le sue idee, ma non per questo i critici revisionisti o le associazioni di ex-partigiani devono volere solo eroi senza macchia e senza paura. Se Moravia ha scritto lettere di supplica al Duce sarà pur peggio della Zangrandi che, appassionata di sport, scrive degli articoletti sullo sci. Durante la guerra, alla Zangrandi viene fuori questa storia straordinaria della Sabina dei Brusaz, figura di arcaica madre-regina, con la sua elementare fisicità e la sua istintiva saggezza, che balza fuori da una storia “di miseria, di fame, disonore”. Nel suo libro, dedica un capitolo al romanzo rosa; genere dato spesso per morto, è ancora molto presente nel mercato editoriale italiano, sia come prodotto autoctono sia come riflesso e traduzione di prodotti esteri. Dalla sempreverde Liala a Sveva Casati Modignani, dalle collezioni Harmony o Blue Moon ai Galeoni Sonzogno, pare che il “romanzo sentimentale” non sia stato intaccato dal femminismo e dalla rivoluzione dei costumi. Sembra, anzi, che queste produzioni perpetuino una visione statica e anacronistica della donna. Lei afferma, in Dame, galline e regine, che le “confezioni” artigianali del periodo d’oro (se non presentavano i caratteri intrinseci dell’opera d’arte) avevano perlomeno una certa vivacità esteriore, erano più autonome e originali. A proposito dell’aura scandalistica della Contessa Lara e dei suoi amori irregolari, sostiene che nella scrittrice non ci fosse «nessun ribellismo, (…) ma un’affannosa ricerca della stabilità nella trasgressione». Questo mi ha fatto venire in mente alcune recenti e fortunate produzioni commerciali, fruite da un pubblico in prevalenza femminile e che ben si attagliano al suo inciso: penso, una per tutte, a Cinquanta sfumature di grigio (2011) di E.L. James. Quale raffronto farebbe Arslan tra l’ieri e l’oggi del romanzo sentimentale? Confesso che non ho letto le Sfumature; penso che questi romanzi siano delle derive dove si mescolano una certa espansività sessuale con una base che n° 4 • Agosto 2013


rimane costante. Il rosa ha sempre avuto uno statuto; è un genere e vanno rispettate alcune regole. C’è un modo di “scrivere rosa” che ha origine in Francia, a fine ‘800; la Bibliothèque rose, la Contessa di Ségur e tutte quelle scrittrici molto interessanti che ancora conserviamo, sono traduzioni della Salani degli anni ‘30. Poi c’erano i famosi Delly, che per le lettrici italiane erano “la Delly”. I Delly sono lo pseudonimo di due fratelli (maschio e femmina) che vivevano a Versailles e hanno avuto una fortuna editoriale incredibile, con romanzi tradotti in tutto il mondo. Si era attestato un canone; per esempio, prima di pagina 5 o 7 non era possibile far incontrare i due protagonisti; lui e lei dovevano incappare in alcune traversie, più o meno pericolose, ma il finale era sempre lieto. Io credo che il rosa risponda a un’esigenza insopprimibile della mente femminile, che vuole essere rassicurata. Non importa quanto una donna dica o sia indipendente, il fatto esclusivo che possa generare una vita, di avere in sé una vita che germoglia, la rende più fragile, più sentimentale. Non è una negazione; io mi addentro sempre con cautela in queste cose, ne ho detto e scritto: uomini e donne, siamo diversi. È la complementarità quella che importa. Dobbiamo essere diversi, non ci dev’essere la supremazia di un genere sull’altro. Non c’è cosa più bella di questa complementarità. Ho sempre avuto un buon rapporto con gli uomini, ma anche con le donne. Questo deriva dal fatto di sapere chi sei e come porsi in relazione. È un fatto innegabile che sia una donna a dare alla luce un figlio; non c’è niente da dire al riguardo. Io ho avuto una figlia; ho provato questo stato d’animo; senti che da sola sei fragile, che una parete sottile che divide questa creatura che hai al tuo interno da tutto quel che c’è fuori e che dovrà

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affrontare poi. Intanto tu ce l’hai, è dentro di te e io non sono una sentimentale; lei che conosce la mia scrittura sa quel che intendo: sono una decisa, che va al nocciolo delle cose e se vado sul sentimentale taglio me stessa allegramente. Vedo cose concrete: i fil di ferro e il tubo del mio ricovero in ospedale erano reali per me. E dentro la pancia c’è una cosa concreta. Non dico che una sia sempre incinta; dico che questo è il modo di percepirsi al femminile, anche per chi decide di non avere figli. Queste donne non possono certo negare che potrebbero averne. Una donna coraggiosa, vivace e spregiudicata, sensuale come la Contessa Lara, una che ha avuto un sacco di avventure e non ha avuto figli, ma poi ha questa collezione di bambole e scrive Il romanzo della bambola. Questi libri andrebbero ristampati, non dei saggi su questi libri. Semmai uno va ad approfondirli dopo che li ha letti, col piacere di scoprire ulteriori elementi. Ha dei progetti in cantiere, un prossimo libro di narrativa in gestazione? Ora sta maturando una mia esperienza personale; desidero tornare su un volumetto, Le luci del ‘45, uscito come allegato al Corriere della Sera nell’agosto di due anni fa, e ampliarlo. Lì c’è tutta la mia infanzia; c’è pure il nonno armeno, ma forti sono anche le immagini. Pensi ai miei occhi di bimba: una città che improvvisamente si illumina. C’è il coprifuoco, in casa si tiene la luce bassa perché non ci si può far vedere di fuori; arrivano i bombardamenti, si avverte quel rumore sordo e basso: le fortezze volanti! A volte era un solo aereo, che chiamavamo Pippo, un ricognitore che ogni tanto sganciava una bomba, non sapevi né quando né dove sarebbe caduta. Questo sarà il mio prossimo lavoro.

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Le confessioni d’un italiano. Memoria e passioni di Martino Santillo

Le confessioni d’un italiano è, per un lettore d’oggi, un’introduzione alla storia del Risorgimento italiano. Si tratta di un romanzo di Ippolito Nievo, scritto tra la fine del 1857 e la metà del 1858. In quel periodo, Cavour stringeva la sua alleanza con Napoleone III e preparava, così, la Seconda Guerra d’Indipendenza, a cui lo stesso Nievo parteciperà, arruolandosi nei Cacciatori delle Alpi. Il testo appartiene al genere del romanzo storico ed è formulato come un’autobiografia. Il protagonista, infatti, narrando la sua vita, disegna la storia italiana dal 1775 al 1858. Ne Le confessioni, la finzione e la storia si mescolano e si amalgamano grazie alla voce narrante di Carlino Altoviti, che diventa, nelle mani di Nievo, il filtro attraverso cui passa tutto il mondo descritto. In questo romanzo, dunque, Nievo gioca con la storia, che è il principale oggetto della narrazione. Il protagonista, giunto «Al limitare della tomba», sente il bisogno di scrivere la propria storia, analizzandone i comportamenti e le scelte nel momento stesso in cui li ricorda. Nel gioco di finzione, quindi, gli attori sono diversi: mentre il personaggio Carlino agisce sulla scena, il vecchio Carlino, nell’atto di ricordare, commenta a posteriori le proprie azioni. Ponendo all’attenzione del lettore la storia picaresca del protagonista e la continua riflessione del narratore ottuagenario, il romanzo mostra le

Sopra – Le cinque giornate di Milano, Baldassare Verazzi, prima del 1886. Museo del Risorgimento di Milano (I). A sinistra – Il frontespizio della prima edizione Le Monnier: Le confessioni di un ottuagenario.

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Sotto – Caricatura di Ippolito Nievo; e l'inizio del manoscritto autografo de Le confessioni d’un italiano.

sue finalità educative e morali. Inoltre, Le confessioni ha anche una forte connotazione politica, e quella che il lettore ha davanti non è solo la cronistoria di Carlino, ma è soprattutto la formulazione di un'identità ben precisa: da «veneziano» a «Italiano». Attraversando le vicende storiche del periodo tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, Carlino vive gli anni della trasformazione e della consapevolezza storica delle masse1, diventando il simbolo del popolo italiano. Le esperienze di Carlino sono le esperienze di una generazione, o meglio di più generazioni, come si vede negli ultimi capitoli del romanzo, quando le gesta dei figli richiamano quelle del padre. Il valore corale, né speciale né eroico, della scrittura autobiografica di Carlino è fondamentale, e per comprenderlo bisogna contestualizzare storicamente l’opera. Nella finzione del testo, Carlino comincia la sua biografia nel 1849, a seguito d’una grande sconfitta, quella cioè riportata dall’armata sarda, nella battaglia di Novara (23 marzo), contro gli austriaci di Radetzky. Dopo le illusioni legate ai moti del 1848, Carlino decide di testimoniare le proprie azioni, così che i primi atti del cambiamento popolare possano essere conosciuti dai giovani, i quali potranno arricchirsi delle esperienze di Carlino e appassionarsi ai valori in cui ha creduto. Al di fuori della finzione, Nievo scrive tra il 1857 e il 1858, a dieci anni circa dalla fine dei moti del 1848 e a conclusione, quindi, di quello che viene definito «decennio di preparazione». Il periodo che va dal 1849 al 1859 è considerato un periodo di flessione e di analisi2. Questi anni sono avvertiti, per chi li visse, peculiari e diversi dai precedenti, poiché lo spirito rivoluzionario non si manifesta più nella forma dello scontro, ma nello sforzo di costruzione culturale e identitaria. La composizione de Le confessioni va considerata in accordo con questo periodo di impegno pedagogico, in cui appare chiaro l’intento di Nievo di creare un personaggio credibile, né romanzesco, né sublime, dal carattere comune, capace di parlare a un pubblico ampio e multiforme, così che l’atto del ricordo personale di un individuo diventi la costruzione della memoria di un popolo. Per questo, Nievo ricorre alla non-forma romanzo, genere ormai presente nel panorama culturale italiano, da sempre legato alla comunicazione diretta verginibus puerisque (si veda, ad esempio, la lettera inviata da Foscolo ad Alfieri nell’ottobre 1802).

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La narrazione e il ricordo del passato recente sono finalizzati, quindi, allo sviluppo della civiltà nazionale. Ricordare diventa, dunque, un movimento duplice, non solo il tentativo di costruzione di un passato comune, ma, al contempo, di un futuro comune.

Sopra – La battaglia di Novara del 1849, Ignoto, XIX secolo.

Nievo sceglie la narrazione della storia come strumento grazie al quale perseguire questo impegno educativo. Le confessioni è un romanzo in cui la storia non è oggetto di una trattazione critica, ma uno degli elementi di un racconto di passioni. Nel corso dei ricordi, Carlino non si sofferma mai sul racconto degli eventi fine a se stesso, ma narra soprattutto il punto di contatto che la storia ha con la vita dei singoli individui. Per comprendere questo aspetto è utile ricordare uno dei luoghi centrali del romanzo: la caduta della Repubblica di Venezia. Quest’evento è uno snodo importantissimo, poiché, da qui in poi, la storia (intesa come sequenza di eventi sovranazionali) dal fondo della scena viene in primo piano. Nel caso di Venezia, Carlino tocca le questioni più importanti del discorso politico di fine Settecento, e non lo fa con freddezza scientifica, ma attraverso la figura di un sé giovane e illuso, appassionato agli ideali democratici.

da un lato, infatti, la fede negli ideali democratici e nella libertà fa sì che Carlino non comprenda ciò che avviene e celebri la caduta della Repubblica come un trionfo, dall’altro il giudizio disincantato dell’ottuagenario mostra al lettore la realtà dei fatti, compiangendo un sacrificio.

Il dibattito storiografico intorno alla caduta della Repubblica di San Marco viene raccontato da Nievo attraverso lo sguardo duplice di Carlino, grazie al rapporto dialettico che s’instaura tra il personaggio ingenuo e il narratore consapevole delle vicende narrate. Attraverso le esperienze di Carlino, Nievo rende percepibile, ad esempio, la dimensione delle problematiche storiche reali, o ideali. Il rapporto personaggio-narratore si fa determinante, creando, così, una visione completa della delusione post-Campoformio. L’onda d’ingenuo entusiasmo del giovane Carlino viene ridimensionata dalla voce disillusa del vecchio narratore. Se 32

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Le analisi storiografiche, che analizzano gli eventi italiani negli anni dal 1789 al 1799, sottolineano come a una forte tensione ideale e rivoluzionaria non corrisponda una partecipazione popolare. Questa duplice realtà è resa dal Nievo immediatamente percepibile dal confronto delle due figure di Carlino. Uno dei tanti altri esempi da poter citare, tra gli episodi della vita di Carlino, è la caduta della Repubblica partenopea. Tutta la criticità di una letteratura, precedente e seguente la scrittura di Nievo, riguardante gli eventi del fatidico 1799 napoletano, viene sintetizzata in una sola scena nella narrazione di Carlino: la decapitazione di Ettore Carafa. Nievo fa sì che le sorti del protagonista si leghino a questo personaggio per rendere fortemente drammatica la scena finale del capitolo diciassettesimo. Carlino, infatti, viene arruolato come ufficiale nella legione del Carafa, con la quale attraversa il regno borbonico. Ettore Carafa è l’incarnazione della virtù patriottica, un personaggio titanico e alfieriano. La morte di questo eroe drammatico in nome della virtù pone un velo di falsità sulla libern° 4 • Agosto 2013


tà italiana, e il racconto di Carlino mostra come i tempi di quegli eroi fossero immaturi alla rinascita del paese. Esattamente come per l’episodio veneziano, l’insieme della figura personaggio-narratore crea una commistione di voci che chiariscono, e amplificano la percezione degli eventi storici. Se questo episodio del racconto di Nievo è indubbiamente sintetico, rispetto a qualsiasi trattazione critica, la scena della decapitazione del Carafa amplifica, però, fortemente la ricezione del dramma repubblicano, poiché lavora sulla perturbazione sentimentale. Tutta la scrittura di Nievo tende all’emozione. La soggettività della narrazione giustifica, infatti, la compartecipazione emotiva del narratore agli eventi narrati, e questa crea, a sua volta, la compassione del lettore alla vicenda. Ecco, dunque, che la Storia diventa memoria soggettiva, ma condivisibile e condivisa attraverso il ricordo, che non è evento storico, ma passionale. La storia vive attraverso il ricordo del singolo e grazie alla sua trasposizione emotiva. Lo stesso Carlino lo scrive diverse volte: «Il tempo non è tempo che per chi ha denari a frutto: esso per me non fu mai altro che memoria desiderio amore speranza». La partecipazione al processo culturale e politico, che Nievo e tanti altri cercano, viene così perseguita con la trasformazione di eventi storici in forti pulsioni3. Questo processo di trasformazione, che sottende il romanzo, emerge chiaramente in un altro luogo del racconto, quando Carlino ci parla del proprio «sagrario» dei ricordi: un insieme di minutaglie, ciocche di capelli e oggettini, legati a ricordi importanti. «Il fatto si è che quei simboli del passato sono nella memoria d’un uomo, quello che i monumenti cittadini e nazionali nella memoria dei posteri. Ricordano, celebrano, ricompensa-

no, infiammano: sono i sepolcri di Foscolo che ci rimenano col pensiero a favellare coi cari estinti: giacché ogni giorno passato è un caro estinto per noi, un’urna piena di fiori e di cenere. Un popolo che ha grandi monumenti onde inspirarsi non morrà mai del tutto, e moribondo sorgerà a vita piú colma e vigorosa che mai». Ai Sepolcri di Foscolo, che ricordano la storia unitaria di un popolo, vengono associati i simboli di una storia individuale. La duplicità tra la storia collettiva e la storia del singolo, tra la memoria intima e quella comune, viene da Nievo intrecciata attraverso un viaggio nella memoria recentissima della storia italiana, che mostra come l’identità di un popolo non si debba perseguire solo attraverso l’insegnamento sublime dei grandi, ma soprattutto attraverso la passione più vera e personale, quella cioè dell’italiano comune.

NOTE: 1 György Lukács, Il romanzo storico, Einaudi, 1965. 2 Giovanni Maffei, Nievo e la «Dialettica»: Gioberti in Nievo, in AA.VV. Ippolito Nievo tra letteratura e storia, Bulzoni, 2004. 3 Carla Gaiba, Il tempo delle passioni. Saggio su «Le confessioni d’un italiano» di Ippolito Nievo, Il Mulino, 2002.

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Vincenzo Consolo e le forme della memoria di Michela Matani La memoria è il perno ideologico, tematico e linguistico-stilistico attorno a cui ruotano tutte le opere di Vincenzo Consolo. L’urgenza del recupero memoriale è la motivazione prima alla scrittura sempre civile dell’autore di Sant’Agata di Militello; ne determina soggetti e temi, influendo inevitabilmente sulle strutture narrative; è inscritta nelle forme della lingua e nella sofisticata elaborazione retorica e ritmica della sua prosa. Così è fin dal debutto sulle scene letterarie dello scrittore con un testo inizialmente trascurato o considerato in chiave genetica (come opera prima contenente solo i germi di un percorso che si sarebbe sviluppato in seguito), in realtà del tutto compiuto. Gli intenti e la pulsione alla scrittura vi sono già manifesti. E dichiarano che c’è una ferita alle origini del percorso letterario di Vincenzo Consolo. Di quelle profonde che segnano un destino. Probabilmente, lo scrittore siciliano lo sapeva. Come sapeva che «April is the cruellest month», tanto da porre queste parole di Eliot a epigrafe del suo primo lavoro, La ferita dell’aprile (1963). Forse, sapeva anche che in

quella ferita, non rimarginabile, avrebbe dovuto a più riprese immergersi per nutrirsene e reinventarsi. Il che, insieme alle ricerche approfondite che le sue opere presuppongono, aiuta a comprendere i lunghi tempi di gestazione dei suoi lavori. È una ferita molteplice e complessa quella raccontata nel romanzo d’esordio; inferta dalla presa di coscienza dell’orrore della guerra, del dominio incontrastato dell’ipocrisia, dalla scoperta della perversione e dalla delusione politica. Profondissima quest’ultima per uno scrittore che, di là dall’adesione a un’ideologia storica, ha sviluppato un «criticismo etico» (come ebbe a definirlo Di Legami1) di forte impronta militante. Se la speranza in un progresso costruttivo viene meno in modo definitivo, l’unica strada che si apre all’adulto è l’esilio dalla propria terra, dalla possibilità di partecipare al processo di emancipazione da un destino che conferma la sua astorica immutabilità. Ché se formalmente La ferita dell’aprile si colloca nell’ambito del genere autobiografico, di formazione e storico (o «storico-metaforico», secondo una definizione proposta a più riprese dal-

Ritratto fotografico di Vincenzo Consolo.

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lo stesso Consolo), nella sostanza racconta di un esilio che esclude ogni ritorno, pure sentito come irrinunciabile. Ed ecco allora la ferita riaprirsi, sublimarsi in arte e alimentare una volontà di resistenza che non si vuole sconfitta e decide l’agonismo proprio della narrativa consoliana. Perché senza radici non vi è identità, né privata né collettiva. Non vi è, dunque, civiltà. Alla cui costruzione lo scrittore non intende rinunciare. E perché, se non si torna alle radici, viene a mancare il motivo a ogni agire. Dove le “radici” non sono solo il passato privato e storico; anzi sono in primo luogo il passato delle forme linguistiche, delle intonazioni, dei ritmi che a quel passato appartengono e che quel passato restituiscono. Le forme della scrittura allora, tese espressionisticamente, racconteranno e insieme saranno la memoria; urleranno la rivolta contro l’azzeramento del passato e inciteranno a un risveglio coscienziale. Nel primo romanzo (già espressione di una personalità originale, nel panorama culturale che vede nascere la Neoavanguardia e imporsi un postmoderno destrutturante e ludico), accade, dunque,

La memoria, René Magritte, 1948. Collezione dello Stato belga.

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che l’adulto ripercorra a ritroso la sua vita fino a ricongiungersi con il sé adolescente di cui rivive le vicende, ripronuncia la lingua, ritrova il mondo e le sue voci. Proprio lo scarto creato dalla distanza è il motore della spinta al recupero, che conduce a riassaporare le parole perdute, dimenticate, espulse dalla memoria, cariche del desiderio, della nostalgia (oltre che dell’ironia, necessario antidoto alla disperazione) dell’esiliato. Parole che sono ora, per l’adulto lontano e colto, una riconquista personale, ma soprattutto letteraria: in un dettato segnato dal plurilinguismo che caratterizzerà tutta la produzione consoliana, il dialetto è rivissuto nella sua vitalità orale e gestuale, ma anche come segno carico di storia e civiltà. Tanto più che dialetto e italiano aulico e arcaico si intrecciano e sovrappongono fino a confondersi in un’ambiguità preziosa e raffinata, quando la forma dialettale coincida con aulicismi e arcaismi della lingua nazionale. E la dimensione orizzontale della scrittura si verticalizza. La parola è un vortice che affonda le sue profonde e insondabili radici in un passato denso di stratificazioni e interscambi culturali per esplodere, sensuale e vertiginosa, sulla pagina scritta. E a tendere la prosa ulteriormente, ecco la plurivocità che, sulle orme di Gadda e della tradizione siciliana (in primis dell’inaggirabile Verga), drammatizza il narrato (frequentissimi i discorsi indiretti e diretti liberi), esaltando la plasticità e la gestualità della parola e della voce che la pronunciò. Lo spessore del tessuto linguistico e la vivacità del discorso narrativo s’innestano, inoltre, in una fitta trama ritmica che solo in parte riproduce il movimento sintattico-intonativo dell’oralità dialettale. Sono rime, assonanze e consonanze, allitterazioni, versi canonici incastonati nel dettato prosastico, ripercussioni di cadenze generatrici di echi, calati in strutture sintattiche rigorosamente orga-

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Ritratto d’uomo (ignoto marinaio), Antonello da Messina, 1465-1476 circa. Museo Mandralisca, Cefalù (IT).

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nizzate e retoricamente elaboratissime. Memoria naturale e memoria culturale, di nuovo. Basti leggere l’incipit: «Dei primi anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che vapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena. C’è invece la corriera […]»2. L’autore siciliano ha già trovato la sua strada, segnata da ritorni e ancoraggi nella forza e nelle ferite della memoria. Così è nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) e in Retablo (1987), che della prima fase del neobarocco consoliano rappresenta la sintesi e l’acme. Si scava nella storia, nel Sorriso, in nome di un impulso profondo all’azione civile. Si rivisita, infatti, la rivolta di Alcara Li Fusi del 1860 (di quella di Bronte avevano già scritto Verga e Sciascia). Leggiamo l’incipit: «E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci. Il bastimento aveva smesso di rullare man mano che s’inoltrava dentro il golfo. Nel canale, tra Tìndari e Vulcano, le onde sollevate dal vento di scirocco l’avevano squassato d’ogni parte. Per tutta la notte il Mandralisca, in piedi vicino alla murata di prora, non aveva sentito che fragore d’acque, cigolii, vele sferzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento»3. Prima, nel non detto omesso a favore di un esordio in medias res, era il viaggio (del Mandralisca e dello scrittore), ora è l’approdo – in seguito al quale avverrà la maturazione civile del protagonista e dopo il quale lo scrittore, risalito dallo scavo faticoso nel passato, può iniziare il suo racconto che è recupero memoriale – in un ambiente scosso e sferzato da una natura perturbante, inquietante, viva, percepita da una sensibilità barocca che prova timore e stupore insieme di fronte al movimento incessante, imprevedibile, leopardianamente «formidabile»4 del cosmo. Ma, salvati dalla sua azione distruttrice, si accampano la storia e il coinvolgimento militante nella persona dell’aristocratico illuminato Enrico Pirajino di Mandralisca, portavoce degli insorti rinchiusi nel carcere a forma di spirale. Spirale che è «enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica»5; in cui si può, anzi si deve sprofondare per righermire il passato e risalire poi in uno scatto vigoroso della fantasia creatrice, nella consapevolezza che solo di un tentativo di scuotere le coscienze si tratta. Modello antropologico è il Ritratto d’uomo (ignoto marinaio) di Antonella da Messina (opera recuperata dal Mandralisca a Lipari), sulla cui tela spicca il sorriso emblematico e ironico necessario a tollerare (e dire) ciò che lo sguardo «acuto e scrutatore»6 ha visto; espressione positiva di equilibrio, saggezza e disincanto, propria dell’uomo che può decidere se intervenire neln° 4 • Agosto 2013

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la storia in nome di un ottimismo della volontà o se limitarsi a osservare, arreso al pessimismo della ragione. Non è un caso che, mentre la struttura del genere “romanzo storico” deflagra dichiarando la relatività di ogni ricostruzione storiografica, si acutizzi il bisogno di «risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia»7. L’iperletterarietà della prosa è specchio della spinta ad agire: recuperare il passato è, per lo scrittore, la prima forma di intervento. Ma c’è altro, anche. Tutto perennemente si muove nel cosmo, come sa bene chi è di paesi di terremoti ed eruzioni, conosce le sinuose architetture della Val di Noto che paiono voler riprodurre e così assecondare i sommovimenti temibili e improvvisi di una natura tanto più potente dell’uomo, e crede sia possibile affrontarla solo mimandone i tremori e gli urti. La trama fonico-ritmica diventa mimesi del sisma cosmico, storico e individuale, di quell’«incessante cataclisma armonico»8 di cui è afferrata e sfruttata la tensione nella direzione neobarocca che sfocerà in Retablo, il romanzo che rovescia la «praxis realistica» della letteratura siciliana (secondo Sciascia9) in forza di una radicale sperimentazione delle strutture romanzesche, di una prosa “fantastica” ricreata per suoni, lemmi, sintassi ardita e ritmi pervasivi e attraverso la riconiugazione del tema consoliano del viaggio. Viaggio di sospensione dalla vita e dalle delusioni d’amore, e di fuga dalla dimensione orizzontale e lucidamente combattiva della storia. Il pittore settecentesco Clerici si rifugia nella contemplazione quieta delle rovine siciliane, che ritrae e proietta in una dimensione mitica, ingannevolmente eternizzante, utopica. La storia violenta fa capolino ancora, feroce, ma lo sguardo è subito distolto e a dominare è la natura. Come domina il romanzo Rosalia, figura ambigua e inafferrabile che ha i tratti dell’amata di frate Isidoro e della Teresa Blasco per cui soffre il pittore; che ha il nome della patrona di Palermo e della donna amata dal brigante Sammataro. Lei che è «la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»11; per un dolore d’amore a cui si soccombe infine, unico sollievo la scrittura sospesa dell’effusione lirica, che ammalia e stordisce e rende sopportabile una pena atroce al punto da rendere impossibile il sorriso dell’ignoto. Non resta che l’abbandono al ritmo dell’«anarchia equilibrata»11 dell’universo di cui è ancora figura Rosalia, essenza abbagliante e irrazionale di un universo in metamorfosi incessante. Ritmo che è, però, ancora, memoria. Come lo sono le parole. Perché anche quando si fatichi ad affrontare la morte e la barbarie, sempre è iscritta la necessità della memoria nella prosa consoliana che ne fissa, per quanto possibile, la preziosità e insieme la labilità. Forse Retablo allora non è sospensione pura. È piuttosto il grido più urlato e la più sofferta dichiarazione che la memoria è l’unico ancoraggio nell’instabilità dell’esistenza e la sola risorsa capace di salvare dallo sprofondamento definitivo nell’inciviltà. 38

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Il viaggio, Sergio Capuzzimati. n° 4 • Agosto 2013


NOTE: 1 F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 49. 2 V. Consolo, La ferita dell'aprile, Torino, Einaudi, 1977, p. 3. 3 Ivi, Il sorriso dell'ignoto marinaio, Torino, Einaudi, 1992, p. 3. 4 Latinismo (“terrificante”) associato allo «sterminator» Vesuvio nella Ginestra, fonte di riflessione ed elaborazione per molti scrittori siciliani, a partire da Verga. 5 V. Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio, cit., p. 117. 6 Ivi, p. 6. 7 Idem, Il poema che non c’è, in R. Cotroneo, "Tangentopoli è un romanzo?", in L’Espresso, 7 febbraio 1993, p. 96. 8 Idem, Lunaria, Milano, Mondadori, 1996, p. 84. 9 Così nel risvolto di copertina di Retablo. 10 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1990, p. 66. 11 Idem, Lunaria, cit., p. 84.

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Siamo tutti prigionieri dei nostri ricordi di Beatrice Mantovani

Complici le tecniche adoperate da James Joyce in Irlanda, Marcel Proust in Francia e Italo Svevo in Italia, Virginia Woolf ha avuto il grande merito di dissolvere le strutture tradizionali del romanzo, concentrandosi sulla vita interiore dei personaggi, a discapito della trama e degli eventi esterni. Attraverso l’uso del flusso di coscienza (stream of consciousness) la scrittrice inglese ha eliminato la forma comune del dialogo diretto, facendo ricorso al monologo interiore indiretto, in cui il narratore parla al lettore – con l’ausilio della terza persona –, confondendosi col personaggio che parla a se stesso. Woolf non rinnega la realtà, ma la sottopone a un processo d’interiorizzazione. La narrazione procede attraverso continui spostamenti in avanti e all’indietro nel tempo e si sbriciola in associazioni di idee che si dipanano su una trama esile. Tutto si concentra sui processi mentali dei personaggi: è il tempo della coscienza a essere in primo piano. Il pensiero vaga liberamente tra i ricordi, e le riflessioni ostacolano il procedere regolare dell’azione. Non vi è mai obiettività nel ricordo. I ricordi sono come li vogliamo ricordare. La memoria è una lente di ingrandimento che sfoca, rimpicciolisce, ridisegna il nostro vissuto. Allo stesso tempo, però, è il ricordo che ci restituisce il nostro percorso, la nostra storia e la misura del nostro agire. Il flusso di coscienza dà sfogo al libero arbitrio della memoria, al suo procedere a tentoni, per associazioni di idee. Non è la tirannide dell’io né l’autoreferenzialità dell’ego. È, piuttosto, il tentativo di rendere, attraverso la narrazione, l’incedere psichico dei personaggi, e la lingua rispecchia, in un mimetismo ardito che talora abolisce la sintassi e la punteggiatura, l’urgenza psicologica di ciascun personaggio, in una continua osmosi tra psiche e linguaggio. I registri linguistici variano e, in alcuni casi, si presentano particolarmente raffinati e ricercati, financo lirici, ricchi di similitudini, metafore, assonanze e allitterazioni.

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Letteratura

Nella pagina a fianco – (dall'alto) Ritratti fotografici di Italo Svevo, James Joyce, Marcel Proust. Sotto – Ritratto fotografico di Virginia Woolf.

Come l’Ulisse di Joyce è la storia di una giornata di giugno del 1904, così La signora Dalloway di Virginia Woolf è la storia di un mercoledì di giugno del 1923. In questo romanzo, pubblicato nel 1925, Woolf narra la giornata di Clarissa Dalloway, che la sera deve dare una festa. Siamo a Londra e la guerra è finita da pochi anni. È una calda giornata di quasi estate. Racchiuso, quindi, nello spazio di una giornata e di una città, il libro è tutto giocato su una compenetrazione incessante di realtà esteriore e moti interiori dell’animo, di presente e di passato. C’è la presenza ben precisa della città: una Londra dai connotati tutti visibili e riconoscibili, nomi e suoni di vie, spazi nei parchi, interni di case e di negozi, il frastuono delle macchine e gli ingorghi del traffico. Sono le dieci del mattino e Clarissa si reca in Bond Street per comprare dei fiori per la festa che darà la sera stessa in casa sua. Lungo la strada incontra Hugh Whitbread, un vecchio amico, che lavora a Corte e ha dei modi untuosi, quasi servili. Mentre parla con lui, le torna alla mente l’antipatia che Peter Walsh ha sempre nutrito per Hugh. Di Peter Clarissa era innamorata, ma non l’ha sposato a causa del suo carattere incostante e perché non le avrebbe mai garantito uno standard di vita adeguato al suo censo. Ciononostante, il pensiero di lui non l’abbandona mai, deve convincersi continuamente di aver fatto bene a non sposarlo. Il breve tragitto che separa Westminster (dove abitano i Dalloway) da Bond Street è il pretesto per

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ripercorrere mentalmente l’amore tormentato con Peter e le loro furiose litigate. «Si sentiva assai giovane; e al tempo stesso, indicibilmente attempata. Penetrava attraverso la vita come una lama di coltello; e al tempo stesso restava al di fuori, spettatrice. Guardando il viavai dei tassì, aveva un perpetuo senso d’esser lontana, lontanissima sul mare, e sola; sempre aveva la sensazione che la vita, anche d’un sol giorno, fosse molto, oh molto pericolosa». Passeggiando per le strade di Londra è presa da ricordi della sua vecchia vita a Bourton, quando, in compagnia della vecchia zia e di tanti amici, trascorreva le giornate in perfetta armonia. Mentre Clarissa si trova dal fioraio, improvvisamente si sente un rumore: sta passando l’auto della Regina o forse del Primo Ministro. Tra la folla che guarda attonita, vi è anche «Septimus Warren Smith, sui trent’anni circa, pallido in viso, il naso aquilino, portava scarpe marrone e un soprabito sdrucito, e aveva negli occhi color nocciola quell’aria apprensiva che subito si comunica agli estranei». Septimus Warren Smith, l’uomo dal nome

originale e dal cognome banale, è l’alter ego di Clarissa. È un veterano di guerra, si è distinto in atti eroici e ha visto morire davanti ai suoi occhi l’amico Evans. Prima di fare la guerra, Septimus leggeva Shakespeare e si è preso una stanza a Londra, in cerca di fortuna. E proprio come Amleto, si trova a dialogare davanti al teschio della propria follia, inseguendo voci e richiami dall’oltretomba. Ha sposato Lucrezia, una giovane donna italiana, che non sa come affrontare la malattia del marito. Clarissa, al contrario, è una snob, la «perfetta padrona di casa», come l’aveva definita Peter. Alla festa che sta preparando parteciperanno tutti i notabili di Londra, in un chiacchiericcio mondano che decide i destini dell’impero britannico. Clarissa e Septimus non si conoscono, il fluire dei loro pensieri si snoda in lunghi monologhi interiori complementari tra loro, in una continua alternanza tra bon ton borghese e follia post-bellica. Questo sottile gioco della Woolf – un flusso eterno di ricordi e realtà, passeggiata, rimembranze e considerazioni, se, possibilità, domande, risposte, impossibilità della risposta – porta il romanzo a sfornare un flusso continuo di informazioni già dall’inizio. Clarissa fa ritorno a casa, sale in camera e, mentre si specchia, le torna alla mente l’amica Sally Seton, un tempo ragazza ribelle e spregiudicata, per la quale aveva provato una forte attrazione. Mentre sta rammendando l’abito verde che vuole indossare alla festa, Peter viene a farle visita. Vi sono tensione e ricordi tra di loro. I dialoghi sono ridotti all’osso. Piuttosto sono i reciproci pensieri a essere smascherati, in un gioco narrativo di notevole sapienza stilistica. Il climax emotivo viene bruscamente interrotto dall’arrivo di Elizabeth, la figlia di Clarissa. Peter va a passeggiare a Regent’s Park e si addormenta su una panchina. Sogna un pomeriggio estivo del 1890, quando aveva litigato furiosamente con Clarissa, poiché aveva capito che avrebbe sposato Richard Dalloway, un «indi-

Sopra – Ludgate Hill, di George Reid. Dal blog Vintage everyday.

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Sotto – Ritratto di Lyda Borelli, Giuseppe Amisani.

viduo positivo, di buon senso; senza un briciolo di fantasia, senza la minima scintilla di genialità, ma con l’indiscutibile onestà del suo tipo». A Regent’s Park c’è anche Septimus, che continua a vaneggiare e a sentire la voce dell’amico morto in guerra. «Era, in breve, la natura umana che lo perseguitava – l’orrido mostro dal grugno insanguinato». È mezzogiorno e Lucrezia porta Septimus da Sir William Bradshaw, noto luminare, per avere un parere clinico sulla malattia del marito. Il medico è categorico: Septimus va internato in una casa di cura, a causa di un completo esaurimento fisico e nervoso, con tutti i sintomi di uno stadio avanzato. «Sir William disse che lui non parlava mai di “pazzia”; la chiamava mancanza di equilibrio. […] Venerando l’equilibrio, Sir William prosperava, non solo, ma faceva prosperare l’Inghilterra, internando i suoi pazzi, prescrivendo anticoncezionali, castigando la disperazione, rendendo impossibile agli inetti di diffondere la loro idea sino a che anch’essi non arrivavano a condividere il suo senso d’equilibrio». Il pomeriggio scorre abbastanza tranquillo in casa Smith: Septimus è sdraiato sul divano e discorre con la moglie, che sta cucendo un cappellino delizioso. La valigia è pronta, in vista dell’imminente ricovero psichiatrico. L’inaspettata visita del dottor Holmes indispone Lucrezia, che si rifiuta di accoglierlo in casa. Septimus, braccato, si butta dalla finestra, in un ultimo, disperato tentativo di sottrarsi all’internamento.

sa ne rimane sconvolta; non conosce quel giovane, eppure il suo folle gesto la lascia senza difese, nuda e impotente davanti alla morte. «Senza saperne la ragione, ella si sentiva affine a lui – al giovane che s’era ucciso. Era contenta che così avesse fatto; buttato via la vita, mentre altri seguitavano a vivere». Sally e Peter s’erano seduti vicini e chiacchieravano. Con quei due più che con ogni altro Clarissa aveva condiviso la sua giovinezza, più ancora che con il marito. Essi si domandano come abbia fatto Clarissa a sposare Dalloway e riconoscono che è una snob dal cuore puro. Peter ammette di aver amato solo Clarissa nella sua vita. «Che cosa si può mai sapere, anche delle persone che fanno parte della nostra vita quotidiana? Che cosa siamo tutti, se non prigionieri?», chiede Sally all’amico. Il dialogo diretto azzittisce per una volta il monologo interiore dei personaggi, quasi a restituire coralmente la gabbia dell’esistenza che tutti ci racchiude. Ma è solo sul filo della memoria che possiamo vivere e raccontarci.

La giornata volge al termine e, finalmente, vi è la festa in casa Dalloway. Tutta la borghesia inglese è presente: il Primo Ministro, Lady Bruton, uomini politici e notabili. E gli amici, ovviamente: Hugh, Peter e Sally. Clarissa «come un’ondina vestiva di verde e argento, coi pendenti alle orecchie. Pareva danzare sulle onde». Con grande ritardo arrivano anche Sir Bradshaw e la moglie, la quale racconta alla padrona di casa del suicidio di Septimus. Claris-

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Seamus Heaney. Poesia come memoria viva di Monica Raffaele Addamo L’importanza della memoria è ribadita in vario modo in tutta l’opera di Seamus Heaney: ora è una memoria personale o limitata alla storia familiare, ora abbraccia tutto il passato d’Irlanda o del Nord germanico; ora si estende all’antichità classica e, con lo studio di Dante, al Medioevo italiano. Heaney guarda spesso alla letteratura irlandese ed europea del passato e se ne appropria in maniera attiva, per capire il presente, teso com’è a fare della sua arte «a model of active consciousness»1. «La memoria è la facoltà che mi ha fornito il primo stimolo per scrivere poesia»2, dichiara nel saggio Feeling into Words, commentando il suo primo componimento, Digging, scritto nel 1964. Nei saggi raccolti in Preoccupations – volume di riflessioni in prosa sulla poesia propria e altrui – il poeta nordirlandese rincorre la memoria personale, tracciando innanzitutto il «retroterra intimo e magico» della propria scrittura3: impressioni infantili, prime letture, l’opera di poeti passati e presenti, scelti come punti di riferimento. Incomincia raccontando di Mossbawn, la fattoria dei genitori nell’Ulster, il primo luogo dell’infanzia: una terra verde di campi di piselli, salici dal tronco cavo e accogliente in cui rifugiarsi, acquitrini pieni di giunchi. Per il poeta venticinquenne, a metà degli anni ‘60, Mossbawn è l’omphalos, a un tempo il centro dei ricordi e il fondamento della sua poesia. Poesia che, come la pompa d’acqua piantata nel cortile della sua casa di bambino, vuole scavare in profondità, portare la memoria in superficie, ricreandola e intessendola nei propri versi. La terra da scavare è ricca, stratificata. Vi s’incrociano influenze inglesi e memorie gaeliche. Mossbawn è situata tra una florida tenuta inglese – il Moyola Park – e le torbiere sulla sponda occidentale del fiume Bann, uno degli insediamenti più antichi d’Irlanda, in cui si conservano selci e fossili di pesci. Heaney – nordirlandese cattolico – cresce sospeso tra due mondi, due storie, immerso in una lingua che porta in sé questa cultura divisa. Pur se parola anglosassone, Mossbawn viene pronunciata e intesa come gaelica: significa allora non «casa dei coloni sulla torbiera», ma «muschio bianco della torbiera»4. Una cultura feconda l’altra, l’inglese s’intreccia con il gaelico, le letture con le radici. È così che pian piano Heaney diventa poeta: poeta di una terra senza fondo, che lo invita a scavare, indagandola. 44

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Letteratura Nella pagina a fianco – Ritratto fotografico di Seamus Heaney. Sullo sfondo – Killary Bay, Paul Henry, 1918-19. Collezione privata.

In quest’indagine, il poeta si fa archeologo e oracolo. Heaney sostiene un’idea della poesia «come divinazione, […] rivelazione dell’io a se stesso, come restituzione della cultura a se stessa»5. Se il poeta trasforma in parole la vita sepolta dei sentimenti, le poesie sono «elementi di continuità, con l’aura e l’autenticità che hanno i reperti archeologici.» Scriverle è «uno scavo alla ricerca di reperti che finiscono per essere piante»6: vivi e fecondi, dunque. Digging afferma fin dal titolo questa idea della poesia, e la ribadisce esplicitamente nell’ultimo verso. La poesia apre Death of a Naturalist (1966), la prima raccolta di versi di Heaney. Ecco il testo: Between my finger and my thumb The squat pen rests; snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravelly ground: My father, digging. I look down Till his straining rump among the flowerbeds Bends low, comes up twenty years away Stooping in rhythm through potato drills Where he was digging. The coarse boot nestled on the lug, the shaft Against the inside knee was levered firmly. He rooted out tall tops, buried the bright edge deep To scatter new potatoes that we picked, Loving their cool hardness in our hands. By God, the old man could handle a spade. Just like his old man. My grandfather cut more turf in a day Than any other man on Toner’s bog. Once I carried him milk in a bottle Corked sloppily with paper. He straightened up To drink it, then fell to right away Nicking and slicing neatly, heaving sods Over his shoulder, going down and down For the good turf. Digging. The cold smell of potato mould, the squelch and slap Of soggy peat, the curt cuts of an edge Through living roots awaken in my head. But I’ve no spade to follow men like them. Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. Sul Romanzo

Tre generazioni di uomini Heaney sono i protagonisti di questi versi. Guardando il padre ormai vecchio, intento a scavare in un’aiuola, Heaney lo ricorda quando, più giovane e forte, dissodava instancabile il terreno per piantarvi le patate. Ricorda, poi, il lavoro del nonno, un abile spalatore di torba, ed è assalito dagli odori, dai rumori del passato. Da piccolo aiutava i due uomini, ammirato dalla loro destrezza; ora, adulto anche lui, non può fare a meno di confrontarsi con loro e di paragonare alla loro vanga la penna, il proprio strumento di lavoro. Proseguirà il loro lavoro a modo suo, con la penna andrà alla ricerca delle radici comuni, le «radici vive» che già «si risvegliano nella sua mente». Versi liberi in nove strofe di diversa lunghezza, ricchi di assonanze e consonanze, onomatopee e parole corte e brusche come colpi di vanga. Gli enjambement spezzano il ritmo segnalando ora l’insorgere improvviso dei ricordi, ora l’incessante scavare. La poesia rappresenta bene lo stile del poeta agli esordi, vigoroso e a grana grossa, ispido come la parlata dell’Ulster, tutta consonanti. La lingua, precisa nel nominare l’attività e gli strumenti dei contadini, è aspra come il loro lavoro, ma felice perché è un lavoro che si ama, che dà soddisfazioni. Un’immagine apre la poesia – la penna stretta tra le dita come un’arma – e un’altra la chiude: la penna come vanga. Heaney è a un tempo sicuro dei propri mezzi e consapevole di restare, con la scrittura, vicino alle proprie radici. In Bogland, alcuni anni dopo, Heaney amplia il proprio orizzonte fino a stabilire una corrispondenza tra memoria e terra della torbiera. Scrive: We have no prairies To slice a big sun at evening Everywhere the eye concedes to Encrouching horizon, Is wooed into the cyclops’ eye Of a tarn. Our unfenced country Is bog that keeps crusting Between the sights of the sun. They’ve taken the skeleton Of the Great Irish Elk Out of the peat, set it up An astounding crate full of air. n° 4 • Agosto 2013

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Butter sunk under More than a hundred years Was recovered salty and white. The ground itself is kind, black butter

sensazione di scendere sempre di un gradino, di affondare in uno strato più basso. Le immagini sono memorabili: il grande alce tirato fuori dalla torba, come «una cassa d’imballaggio piena d’aria»7; il burro centenario, ma ancora bianco e salato. La terra, il cui umido centro non ha fondo.

Melting and opening underfoot, Missing its last definition By millions of years. They’ll never dig coal here, Only the waterlogged trunks Of great firs, soft as pulp. Our pioneers keep striking Inwards and downwards, Every layer they strip Seems camped on before. The bogholes might be Atlantic seepage. The wet centre is bottomless. L’Irlanda non è, come l’America, paese di praterie sconfinate, ma terra eternamente giovane perché mai finita, in trasformazione da milioni di anni. Come in Digging, una metafora abbraccia tutto il componimento: la terra come burro nero e buono, che si scioglie sotto i piedi, rivelando a ogni strato i tesori del passato. E se in Digging il poeta racconta solo degli uomini della sua famiglia, qui parla a nome di un «noi», di un patrimonio di ricordi comune a tutti gli irlandesi. Indirettamente, parla anche della lingua in cui vuole scrivere: una lingua che, come le acque della torbiera, sappia trattenere la memoria di un luogo. Anche qui gli enjambement spezzano i brevi versi liberi, dando la 46

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Con lo scoppio dei Troubles in Irlanda del Nord, alla fine degli anni ‘60, Heaney è costretto a un esilio interno, tra la propria gente. Per sfuggire alla violenza, lascia l’Ulster per la Repubblica irlandese, ma non si schiera con nessuna delle due parti. Si chiede soltanto, con le parole di Yeats8, cosa potrà opporre la sua poesia a tanto orrore. Di nuovo, trova la risposta nel passato: la memoria comune ai popoli del Nord gli offre emblemi adatti a rappresentare la violenza e le morti del presente. Nelle torbiere di Danimarca giacciono sepolti cadaveri dell’età del ferro, perfettamente conservati. Strangolati o con la gola tagliata, sacrificati a una nordica Dea Madre. Nelle poesie di North (1974), il sacrificio degli antichi Danesi anticipa il sacrificio degli Irlandesi di oggi per la madre Irlanda. Lo scambio con il retaggio culturale europeo è fruttuoso per Heaney fin dall’inizio. Le sue prime poesie sono percorse da allusioni a personaggi ed episodi del mito greco: i pozzi e i ruscelli melmosi intorno a Mossbawn sono il suo Personal Helicon, i contadini dell’Ulster divinità antiche. Il poeta, già da bambino, è Oracle («small mouth and ear/in a woody cleft, /lobe and larynx/of the mossy places»), e poi fabbro, il dio Efesto che forgia parole nella sua fucina. Tuttavia, durante i Troubles e negli anni successivi, n° 4 • Agosto 2013


fino agli accordi di pace, il confronto con la ricca letteratura europea è più che mai risorsa e strumento di riflessione. Se gli adattamenti di Sofocle ed Eschilo – in tragedie e componimenti lirici – fanno soprattutto da commento alle lotte fratricide in Irlanda, l’imitazione delle ecloghe di Virgilio offre un rifugio, un ritorno a un mondo rurale che pure porta il ricordo dell’oppressione e del dolore della guerra. Il passato non passa mai, coesiste con il presente. È quello che racconta Perch (in Electric Light, 2001) con le immagini acquatiche care al poeta: Perch on their water perch hung in the clear Bann River Near the clay bank in alder dapple and waver, Perch they called ‘grunts’, little flood-slubs, runty and ready, I saw and I see in the river’s glorified body That is passable through, but they’re bluntly holding the pass, Under the water-roof, over the bottom, adoze On the current, against it, all muscle and slur In the finland of perch, the fenland of alder, on air That is water, on carpets of Bann stream, on hold In the everything flows and steady go of the world.

È una poesia lieve e ironica. Si serve di giochi di parole (il titolo polisenso: perch è il pesce, il trespolo, l’appollaiarsi degli uccelli sui rami e dei persici sul letto del fiume), di immagini tra acqua e cielo (la terra di pinne, la terra di felci) per raccontare che la memoria è ciò che resiste allo scorrere del tempo, è la forza dei pesci che non lottano contro la corrente, ma le nuotano incontro, bevendola. I piani si confondono. Tutto è connesso, acqua e terra, uccelli e pesci, passato e presente. Allo stesso modo, la memoria personale e il ricordo della letteratura europea del passato sono sempre presenti nella poesia di Heaney. Entrambi sono fonti feconde che illuminano il presente, ci aiutano «a riflettere sui nostri affetti, la nostra cultura, la nostra lingua»9. La poesia del resto è una porta bifronte: si apre sul buio del passato, ma anche «directly into starlight» (Squarings xl).

Nella pagina a fianco – The Potato Diggers, Paul Henry, 1910. Collezione privata. Sotto – Ritratto fotografico di Seamus Heaney.

NOTE: 1 S. Heaney, The Redress of Poetry, Oxford, 1990, p. 11. 2 S. Heaney, Attenzioni. Prose scelte 1968-1978, introduzione e cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Piero Vaglioni, Roma, Fazi, 1996, pp. 51-52. 3 M. Bacigalupo, in S. Heaney, Attenzioni, cit. p. VIII. 4 Ivi, p. 30. 5 Ivi, p. 33. 6 Ibidem. 7 Traduzione di R. Sanesi. S. Heaney, Poesie scelte, Milano, Marcos y Marcos, 1996. 8 S. Heaney, Attenzioni, cit., p. 55. 9 M. Bacigalupo, La catena umana di S. Heaney.

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Versioni di sé, archivi e creazione di mondi di Carlotta Susca

Per una serie di ragioni troppo banali perché possa essere interessante parlarne, i miei libri sono non solo sparpagliati in più case, ma perfino contenuti alla rinfusa in eterogenei ammassi di tele di varie fogge e colori, e penso: Non sarebbe bellissimo ricordarli tutti senza il bisogno ossessivo di averli fisicamente accanto? Senza la necessità compulsiva di aprirli, maltrattarli, vedere cosa ho sottolineato, consultarli per citarli? Perché, invece, non ricordo nulla? Peraltro, lo sparpagliamento mentale e fisico che subisco – e che mi costringe a condividere un’abitazione con cinque estranee, una delle quali mi ha appena proposto una grigliata sul terrazzino, proprio-appena-mi-ero-messa-a-scrivere-con-lemigliori-intenzioni – mi ha reso necessario impormi la lettura del libro di cui vorrei parlare, e che tratta di memoria, e di versioni di sé da dare al mondo, il che ha moltissimo a che fare con le troppo banali ragioni del suddetto, nocivo, mefitico sparpagliamento. Se il ricordo di una scadenza – non rispettata, peraltro – non mi avesse tormentato nell’ultimo mese, non sarei forse nemmeno riuscita a leggerlo, questo libro. E, quindi, la lettura richiede stabilità, e la scrittura richiede stabilità – o una memoria eccezionale. Cose che non ho. Versioni di me, di Dana Spiotta, edito da minimum fax (2013) con la traduzione di Francesco Pacifico, dichiara già dal paratesto intenti soggettivi, e questo influisce nel farlo salire nella scala delle mie priorità di lettura (La realtà non esiste!). Si inserisce, peraltro, in quello che credo possa essere un filone, o quantomeno una tendenza: scrivere romanzi che abbiano un tema di fondo, sviscerato (ma narrativamente) come si farebbe in un saggio (per il momento non ho prove a sufficienza a supporto di questa tesi. Penso a Jennifer Egan: Il tempo 48

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Letteratura

A sinistra – Ritratto fotografico di Jennifer Egan. Nella pagina a fianco – Ritratto fotografico di Dana Spiotta.

è un bastardo e Guardami sono esplorazioni romanzesche del concetto di tempo e sguardo, e così la memoria è, evidentemente, l’argomento del libro della Spiotta). Nik e Denise sono i due fratelli protagonisti del romanzo, nonché i poli opposti del continuum ideale oggettività-reinterpretazione creativa: lei si sforza di stilare una cronaca veritiera, lui inventa la sua esistenza in una biografia che costruisce un mondo a sé, autosufficiente (recensioni, articoli di giornale, detrattori e seguaci della sua opera: tutto frutto della sua penna). Eppure Denise il primo dell’anno si disfa di una gran quantità di oggetti, mentre Nik ha una tensione catalogatoria maniacale. A latere di questo continuum, diramazioni o variazioni sul tema, l’Alzheimer della loro madre, che è fin troppo semplice commentare, e la decisione di Ada di girare un documentario su suo zio Nik: anche lei ha un’opinione sulla possibilità di raccontare storie: «Ada non intendeva fare un documentario dove il regista fosse invisibile, stile fratelli Maysles. Non avrebbe finto che la sua fosse una versione oggettiva della realtà». Dunque, Denise si sforza di estrapolare la verità dai racconti di Nik, le Cronache, ma nel farlo si rende conto di non potersi semplicemente affidare all’oggettività, e così è costretta ad alternare la narrazione lineare, cronologica, a quella per “eventi di rottura”: lo fa quando si rende conto che non tutto merita di essere raccontato, e che non è possibile descrivere lo sviluppo di una situazione o la biografia propria o di suo fratello prescindendo dall’effetto che i singoli eventi hanno su di sé o su di lui. L’intento di Denise è quello di mettere ordine, di separare ciò che è successo veramente da ciò che Nik ha finto che accadesse, cioè praticamente tutta la sua vita. Inutile dire che la versione di Nik è più interessante, e lo è perché, per quanto costruita seriamente e meticolosamente, è costellata di indizi sulla sua Sul Romanzo

natura finzionale: il cognome d’arte di Nik è Worth (ne vale la pena), e la sua magnum opus è una serie di venti dischi denominati The Ontology of Worth (che potremmo intendere come “L’essenza di ciò che conta”? Che ci potrebbe far pensare che, in fin dei conti, solo l’arte – che è finzione – importa?); inoltre, uno dei gruppi musicali di questo personaggio inattendibile è The fake (“I fasulli”; come non ricordare la traccia consistente di Infinite Jest legata al primo aprile?): «La musica va bene […]. Ma forse non vi serve quel nome cinico…» […] «Che cosa suggerisci?» […] «Non lo so. The Real? The True?». Ora, la riflessione sull’eventualità che ciascuno possa veicolare di sé l’immagine che preferisce (e che, comunque, darebbe molto filo da torcere a chi volesse separare il vero dal falso), come fa Nik, sfocia con estrema facilità nella chiamata in causa dei social network e della definizione di sé attraverso la decisione autonoma sui contenuti da rendere pubblici e da falsificare per costruire un’immagine, una versione di sé. Ecco, sulla banalità di una simile svolta dell’articolo è altrettanto facile virare verso il cliché, che è un altro dei temi portanti del testo della Spiotta. Nelle Cronache di Nik, compare un racconto in prima persona in cui il narratore finge la voce di sua sorella, che racconta di essere stata selezionata per un corso di recitazione «ai provini a cui aveva accompagnato la sua amica, ben più interessata di lei – che non lo era affatto ­– al teatro»: cliché! Eppure, se è successo veramente nella finzione narrativa del libro che stiamo leggendo, perché evitare di parlarne per non sembrare insinceri? Non vince, forse, la realtà sull’accusa di aver inventato tutto? Il fatto è che la realtà può anche essere inverosimile (quanto riflette su questo John Barth?), quindi va mascherata per essere raccontata. Va resa più realistica. La memoria può essere revisionata, ai ricordi di cui siamo convinti possono essere facilmente sostituiti altri, perché più realistici o più opportuni. n° 4 • Agosto 2013

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Ritratto fotografico di Daniel Pennac.

Oppure i ricordi possono essere registrati per supportare delle tesi in caso di litigio: penso alla terza puntata della prima stagione di Black Mirror [The Entire History of You], in cui tutto ciò che è visto può essere registrato e i buchi nella registrazione possono destare sospetti. Diminuzione dei crimini? No, più facile smascheramento del tradimento coniugale. Tornando a Versioni di me, la pur cronachistica Denise (che si occupa rigorosamente di eventi reali) ha una falla nella sua necessità narrativa: lei non ritiene opportuno – non più, alla sua età (è sulla cinquantina) – raccontare ai propri amanti tutte le sue vicende passate: è convinta che non abbia più senso, come faceva da giovane, riepilogare la sua esistenza fino al momento di quell’incontro, e che il corpo sia una sufficiente testimonianza di tutta quella vita passata, che ne sia l’epifenomeno (nulla di più profondo di quello che c’è in superficie): «Quando avevo diciott’anni, volevo raccontare ai miei amanti ogni centimetro di ogni momento che aveva condotto a quel momento miracoloso. Pensavo che così mi avrebbero capita, e che quindi avrebbero dovuto amarmi. Ma ora che ero più vecchia, e che avevo davvero una storia, non mi andava di raccontarla, né di ascoltarla. Volevo solo che lui si premesse contro di me mentre cercavamo di capire lentamente i nostri corpi. Tanto, mi rendevo conto che le nostre vere storie vivevano lì». I corpi mi sembrano un’ottima rappresentazione dell’archivio di sé, e l’attenzione al corpo, nella let-

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teratura contemporanea, è di primaria importanza. Daniel Pennac, nel suo Storia di un corpo (Feltrinelli, 2012) stila un diario dei cambiamenti dell’aspetto del protagonista, la registrazione minuziosa di ciò che evidentemente accade, e che quindi difficilmente può essere equivocato (non come i pensieri e le emozioni, che sono sempre protagonisti di comunicazioni fallimentari). Già nella saga Malaussène aveva introdotto il tema del cambiamento fisico e della registrazione dei singoli attimi che, inanellati, costituiscono la nostra vita: il “Film Unico” (nella Grande bellezza di Sorrentino compare l’equivalente fotografico di questo tentativo di immortalare il lavorìo del tempo: una mostra di autoscatti quotidiani, con il corpo che lentamente cambia, impercettibilmente ma inesorabilmente). Ma se, al di là del corpo, che segna oggettivamente il passare del tempo, la memoria (la sua persistenza oggettiva o la sua manipolazione) è tutto ciò che ci consente di costruire quello che siamo, come gestire allora i ricordi, quale taglio dare loro per supportare la migliore costruzione di noi da fornire al mondo? Sarà forse meglio essere spietatamente sinceri, rischiare di non essere un prodotto vendibile, che incontra i gusti del pubblico, oppure calibrare ogni output, prevederne l’effetto, mirare al target e costruire un prodotto artificiale, asettico ma più attraente? Cosa è più corretto fare, della propria memoria? Un archivio, o del materiale grezzo, da rielaborare?

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Letteratura

La memoria ai tempi del cyberpunk di Giulia Taurino

Se questo articolo fosse un viaggio nel tempo, comincerebbe proprio dagli albori dell’era digitale per arrivare fino ad oggi: meno di undicimila caratteri per parlare del rapporto che intercorre tra memoria e percezione del reale nell’era dei computer e delle nuove tecnologie, senza scomodare Doctor Who e The Matrix. A tracciare le linee guida di questa breve riflessione saranno, al posto delle celebri opere di fantascienza appena citate, due romanzi e un racconto breve: Shutter Island di Dennis Lehane, Minority Report e Time out of joint, entrambi di Philip K. Dick. Che cos’hanno in comune il grande talento del thriller americano e il maestro del genere fantascientifico?

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Sopra – Ritratto fotografico di Dennis Lehane. Sotto – Leonardo DiCaprio in una scena del film Shutter Island, diretto da Martin Scorsese, 2010. Nella pagina a fianco – Locandina del film Shutter Island.

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Nel 2010, esce negli Stati Uniti il film Shutter Island, un thriller psicologico diretto da Martin Scorsese. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Dennis Lehane pubblicato nel 2003, che lo stesso autore definisce un ibrido tra i libri delle sorelle Brontë e il capolavoro cinematografico L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel. Non risulta, infatti, difficile individuare nel testo, oltre all’ambientazione gotica di Shutter Island che ricorda il celebre Cime Tempestose di Emily Brontë, alcuni elementi del filone fantascientifico che lo stesso Philip K. Dick avrebbe apprezzato. La vicenda si svolge nel 1954 in una piccola isola al largo di Boston, nel Massachusetts, dove il protagonista Edward Daniels viene inviato, in qualità di agente, a investigare sulla scomparsa di una paziente dell’ospedale psichiatrico locale. Nel corso dell’indagine, un uragano si abbatte sull’isola e impedisce i contatti con l’esterno. Bloccato a Shutter Island, Edward “Teddy” Daniels continua le ricerche che lo porteranno alla scoperta di un’altra sua identità – Andrew Laeddis, anagramma di Edward Daniels – e di terribili verità sulla realtà che lo circonda. Cambiamo anno, siamo nel 1959, nella realtà ovattata di Time out of joint, romanzo di Philip K. Dick. Nel quartiere residenziale periferico di una tranquilla cittadina americana, vive Ragle Gumm, la cui insolita professione consiste nel vincere ripetutamente il premio in denaro di un concorso indetto dal quotidiano locale dal titolo “Where Will The Little Green Man Be Next?”. Strani incontri e oggetti scomparsi lo inducono a dubitare del mondo idilliaco e fittizio in cui vive, fino alla scoperta dell’esistenza di un’altra realtà che lo riporta in un futuristico 1998, quando il pianeta Terra si trova in guerra contro i colonialisti

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provenienti dalla Luna. Come nell’isola dell’agente Daniels, nel mondo immaginario in cui viene introdotto il personaggio di Ragle Gumm le frequenze radio sono scarse o inesistenti. Di fronte a questo isolamento estremo, entrambi i protagonisti si trovano a indagare e interrogarsi riguardo a una realtà anomala e inconsistente. In una perpetua ricerca di connessioni con il mondo esterno, la cui veridicità viene messa costantemente in discussione fino alla sua totale negazione, i protagonisti dei due romanzi scoprono di vivere all’interno di una finzione in cui reale e virtuale si sovrappongono a tal punto da apparire indistinguibili. Nel momento in cui Edward Daniels e Ragle Gumm diventano coscienti di trovarsi all’interno di una realtà costruita, nelle loro menti ha inizio un processo di riabilitazione della memoria, attraverso il quale ricostruiscono un legame con la realtà. «‘Do I remember everything?’ – Ragle asked himself. – ‘What else is there?’». Come Philip K. Dick, così anche lo scrittore Dennis Lehane accompagna la presa di coscienza da parte del protagonista sostituendo il filtro della terza persona con una prevalenza di dialoghi: non è più la voce del narratore che descrive la realtà, ma è il protagonista stesso attraverso i propri ricordi. La cognizione del reale si trasforma, in questo modo, in una forma di computazione e trattamento di informazioni riacquisite insieme alla memoria. Possiamo immaginare una RAM umana i cui dati vengono elaborati sia a livello cerebrale che a livello emozionale. In questo senso, Time out of joint e Shutter Island sviluppano il tema della memoria all’interno di una stessa accezione del termine, inserendolo, in entrambi i casi, in una visione distopica propria della science fiction.

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A fianco – Tom Cruise in una scena del film Minority Report, diretto da Steven Spielberg, 2002. Sotto – Locandina del film Minority Report.

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Tralasciando la filosofia cognitivista, che ha successivamente contribuito ad elaborare il concetto di Intelligenza Artificiale, il rapporto tra realtà e percezione ricorre in numerose opere letterarie del secondo Novecento, evolvendosi soprattutto all’interno della corrente cyberpunk, in cui trova largo sviluppo. Uno degli elementi di maggior interesse del cyberpunk è, infatti, l’attenzione per la percezione soggettiva e interiore della realtà esteriore. La stessa evocativa idea di cyberspace suggerita da William Gibson nasce per definire un non-spazio virtuale della mente composto da costellazioni di dati conservati dalla memoria umana. Già nel racconto breve di Philip K. Dick Minority Report, pubblicato nel 1956, si intravede un primo accenno al concetto di cyberspazio formulato nel 1984: le menti di tre Precog – esseri mutanti con capacità “precognitive” – generano predizioni virtuali della realtà che vengono poi analizzate dai computer. Si può parlare di memoria del futuro, sebbene limitata a un tempo ristretto. La memoria, intesa come collegamento dell’essere umano con la realtà sensibile, non è, dunque, la memoria culturale di cui si parla fino agli anni Cinquanta: da questo momento in poi, la memoria umana trova la sua definizione per contrapposizione alla fredda e cinica memoria digitale basata su una successione di calcoli e algoritmi. Nei due romanzi esaminati, i ricordi rappresentano lo strumento principale grazie al quale costruire, de-costruire e ricostruire l’identità umana, avvalendosi di un meccanismo puramente semiotico. Attraverso di essi, Edward Daniels / Andrew Laeddis e Ragle Gumm generano e recuperano esperienze cognitive, siano esse positive o negative. In un mondo di alienazione e paranoia – l’istituto psichiatrico Ashecliffe di Shutter Island, come il quartiere residenziale di una tranquilla cittadina americana in Time out of joint –, la memoria diventa, dunque, sinonimo di identità. Nel bene e nel male. Per Edward Daniels, realtà e ricordi s’intrecceranno così indissolubilmente che per sopravvivere a una verità insopportabile si troverà costretto a optare per la lobotomia, con cui perderà definitivamente ogni abilità mnemonica. Al contrario, Ragle Gumm, pur decidendo di emigrare sulla Luna, finirà per accettare la realtà a scapito di quel mondo surreale che lui stesso aveva originariamente creato, così da preservare quei ricordi che lo connettono con il mondo reale. «‘Yes,’ – Ragle said. – ‘I remember.’»

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Eventi

dall'Italia

Libri da assaggiare: piccola merenda letteraria Artemusica Cultura propone un pomeriggio all’insegna della letteratura. L’appuntamento, aperto a tutti, prevede la condivisione, da parte dei lettori, delle proprie passioni, raccontando, leggendo o commentando un libro che si è amato particolarmente, in un ambiente da caffè letterario (magari sorseggiando un tè). Roana (VI) – 16 agosto 2013 Rossini Opera Festival Giunto alla XXXIV edizione, il festival di Pesaro promuove come sempre l’opera artistica del grande compositore, attraverso un ricco programma che comprende quest’anno L’italiana in Algeri, Guillaume Tell, L’occasione fa il ladro, Il viaggio a Reims, La donna del lago. Pesaro – Fino al 23 agosto 2013 Il Dio di mio padre Giunge all’VIII edizione il festival letterario dedicato a John Fante, cui è anche associato un concorso di inediti e un premio per opera prima. Saranno presenti numerosi ospiti, tra cui Sandro Veronesi, e sarà possibile ascoltare la presentazione di alcune tesi di laurea sull’autore. Torricella Peligna (CH) – Dal 23 al 25 agosto 2013 Ferrara Buskers festival Dal 1988, il festival raccoglie a Ferrara gli artisti di strada, ed è ad oggi la più grande manifestazione al mondo di questo tipo. Protagonisti sono, appunto, i busker, artisti girovaghi di professione che, nella loro attività quotidiana, cercano di regalare un po’ di poesia e buonumore a persone spesso distratte e indaffarate. Ferrara – Dal 23 agosto al 1 settembre 2013 Festival delle Nazioni La quarantaseiesima edizione del Festival delle Nazioni è dedicata all’Europa. La prossima edizione della manifestazione, infatti, intende dare un significativo contributo a favore del rilancio e della crescita di un’idea del nostro continente, mostrando quanto l’Europa sia davvero unita, da secoli, nel segno della musica e della cultura. Città di Castello (PG) – Dal 27 agosto al 7 settembre 2013 Festival della mente Il festival giunge quest’anno alla X edizione ed è, come sempre, dedicato alla creatività. Gli eventi sono collegati, dunque, al potere della mente nei vari campi del sapere; si alternano conferenze che possono trovare l’interesse di un pubblico vasto e variegato, ma che hanno anche un significato simbolico. Sarzana – 30 agosto e 1 settembre 2013 Festivaletteratura Il Festival di Mantova è, senza dubbio, uno degli eventi culturali più attesi dell’anno. Migliaia di persone si ritrovano in città in un’atmosfera di festa per incontrare autori ed edito-

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ri, cercando, in particolare, il rapporto diretto tra scrittore e pubblico. Numerosissime anche quest’anno le voci presenti. Mantova – Dal 4 all’8 settembre 2013 Festival Filosofia L’edizione 2013 sarà dedicata all’amare, per costruire un lessico a più voci dal quale emerga come l’esperienza dell’amore si imperni essenzialmente su una dimensione relazionale. Le piste di lavoro che saranno battute nel programma delle lezioni includono le “potenze dell’anima”, l’amore “transitivo” o “intransitivo”, le “politiche dell’amore” e le “figure dell’amore”. Modena, Carpi, Sassuolo – Dal 13 al 15 settembre 2013 Pordenonelegge Pordenonelegge unisce le persone sulla base dell’amore più bello che esista, l’amore per le storie, per i racconti, per i sogni: in una parola, per la letteratura. Scrittori, filosofi, giornalisti, poeti, artisti si alternano in oltre 200 eventi sparsi in 40 luoghi diversi della città. La partecipazione a tutti gli incontri è gratuita. Pordenone – Dal 18 al 22 settembre 2013 Ciclo spettacoli classici Prende il via il LXVI ciclo di spettacoli classici al teatro olimpico di Vicenza, con la direzione artistica di Eimuntas Nekrosius. In particolare, dal 19 al 22 settembre sarà in scena Il libro di Giobbe, mentre il 28-29 settembre Birds, tratto da Gli Uccelli di Aristofane. Vicenza – Dal 19 settembre 2013 Arte libro La manifestazione taglia quest’anno il traguardo dei dieci anni, e il tema scelto è Musica per gli occhi. Collezionismo all’Opera. Il festival è interamente dedicato al libro d’arte, con numerosi eventi collegati (mostre, laboratori, etc.) e la presenza di espositori. Bologna – Dal 19 al 22 settembre 2013

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e dall'Europa M’era Luna Festival Evento dedicato a vari generi musicali, tra cui Alternative Rock, Gothic Rock, Elektro, Gothic Metal, che conta 25.000 presenze ogni anno. Si svolge nell’ex base aerea di Hildesheim, con due palchi, uno all’aperto e l’altro all’interno di un hangar. Nella line-up di quest’anno figurano tra gli altri: Nightwish, Apoptygma Berzerk, Saltatio Mortis, Coppelius, Boris Koch. Hildesheim (D) – 10 e 11 agosto 2013 Edinburgh International Book Festival Festival annuale di letteratura che si tiene nel centro di Edimburgo. Propone un programma ampio e variegato, con workshop, esposizioni, numerose altre attività collaterali e molti ospiti. Quest’anno interverranno, tra gli altri: Niccolò Ammaniti, Margaret Atwood, Alan Bissett, Rebecca Cobb. Edimburgo (UK) – Dal 10 al 26 agosto 2013 Tønder Festival Una delle più importanti manifestazioni legate alla musica folk a livello europeo, il Tønder Festival si avvicina ai quaranta anni dalla fondazione, e propone come sempre numerosi artisti internazionali provenienti, in particolare, da paesi come l’Irlanda, la Scozia, gli Stati Uniti. Quest’anno, fra gli altri: Sinéad O'Connor, The Avett Brothers, Admiral Fallow, Hudson Taylor. Tønder (DK) – Dal 13 al 26 agosto 2013 Full Moon Festival cinematografico dedicato esclusivamente ai film di genere horror e fantastico, che si svolge nel cuore della Transilvania. L’offerta prevede sezioni di concorso per lungometraggi e cortometraggi, e numerose sezioni fuori concorso dai nomi suggestivi, come Tenebrae, Grindhouse e Full Moon Classic. Biertan (RO) – Dal 14 al 18 agosto 2013 Lowlands Festival Lowlands Festival è uno dei festival musicali più importanti d’Europa, e prende luogo presso il parco di divertimenti Walibi Holland. Negli ultimi anni Lowlands Festival, pur continuando a proporre una line-up che contempla tutti i generi, ha assunto caratteristiche più specificamente electro, techno, glitch, hip hop. Biddinghuizen (NL) – Dal 16 al 18 agosto 2013 Sarajevo Film Festival Considerato il più importante festival cinematografico dei Balcani, fu fondato nel 1995 e presenta anche quest’anno un’ampia selezione di pellicole, con particolare attenzione ai film provenienti dall’Est europeo e alla promozione di artisti provenienti da Paesi come Albania, Austria, Bulgaria, Croazia, Ungheria, Serbia, Slovenia. Sarajevo (BIH) – Dal 16 al 24 agosto 2013 Rototom Sunsplash Ventesima edizione di un festival reggae che nel corso degli anni si è conquistato la fiducia e l’attenzione del pubblico spagnolo, e non solo. Rototom Splash rappresenta un punto

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d’incontro per amatori e appassionati del reggae ma, più in generale, per tutti coloro i quali vogliono fare esperienza di un modo pacifico, tollerante, rispettoso e solidale di concepire una manifestazione. Benicàssim (ES) – Dal 17 al 24 agosto 2013 Electric Picnic Decima edizione di Electric Picnic, festival annuale irlandese dedicato a musica, arte e intrattenimento. Tra le altre attività in programma, si svolgeranno concerti di musica indie, alternativa, dance, oltre al teatro e all’arte. Fra gli artisti ospiti quest’anno: Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, Fatboy Slim. Stradbally Estate (IRL) – Dal 30 agosto all’1 settembre 2013 Off the tracks Summer Versione “estiva” del festival dedicato alla musica in tutte le sue declinazioni. Si svolge due volte l’anno a Donington Park e ha le caratteristiche di una grande festa adatta a tutte le età, grazie alle molte aree giochi, e alle attività collaterali in programma: Yoga, Tai chi, meditazione, fra le altre. Donington Park (UK) – Dal 30 agosto all’1 settembre 2013 Internationales Literaturfestival Berlin Edizione 2013 di uno dei più importanti festival letterari al mondo, quest’anno con al centro il tema della esperienza della diversità letteraria nell’epoca della globalizzazione. Tra gli ospiti: Isabelle Allende, Elisa Biagini, Emmanuel Carrère, Etgar Keret, David Mitchell, Éric-Emmanuel Schmitt. Berlino (D) – Dal 4 al 15 settembre 2013 Dimensions Festival Festival dedicato alla musica elettronica, che si svolge nella suggestiva cornice del forte medievale di Punta Christo. Nella line-up dell’edizione 2013, troviamo, tra gli altri artisti: Model 500, Tony Allen, Theo Parrish, Omar S, Surgeon, Pearson Sound. Pola (HR) – Dal 5 al 9 settembre 2013 Black Isle Words Conosciuto in precedenza come Cromarty Book, torna Black Isle Words, festival letterario giunto alla sua undicesima edizione, e sfrutta ancora, tra le altre, la suggestiva location del Cromarty Training Centre. Tema di quest’anno: il mare, nelle sue varie declinazioni, attraverso letture, incontri, dibattiti. Cromarty (UK) – Dal 6 all’8 settembre 2013 Göteborg Book Fair Nuovo appuntamento con l’importante fiera annuale, che quest’anno dedica anche una retrospettiva alla Romania e una al Bangladesh, tra presente e passato, con seminari, presentazioni e dialoghi con gli autori. Fra gli ospiti di questa edizione: Sharon Alquist, Frans de Waal, Norman Manea. Göteborg (S) – Dal 26 al 29 settembre 2013

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Racconti contro la precarietà

La dimensione lavorativa è mutata radicalmente negli ultimi dieci anni. Parole come precarietà, disoccupazione, inoccupazione, contratti a progetto, lavoro interinale, somministrazione, telelavoro, lavoro ripartito, apprendistato, contratto di solidarietà, formazione e lavoro, part-time, inserimento professionale, lavoro intermittente sono, ormai, entrate nel linguaggio comune quotidiano. Se è vero, per dirla con Hannah Arendt, che esiste un nesso imprescindibile tra l’attività lavorativa e la vita activa, al punto che la prima è la conditio sine qua non della seconda, risulta evidente che uno stravolgimento così radicale del mondo del lavoro non può che avere conseguenze ben peggiori della semplice precarizzazione. Togliere all’uomo e alla donna l’attività lavorativa (o renderla sempre meno certa) significa minare alla base le fondamenta che rendono possibile l’affermazione di una dimensione immaginifica e sociale della vita umana, laddove la prima dovrebbe consentire il superamento dei limiti dell’ambiente naturale attraverso l’operare e la seconda permette la concretizzazione dell’esistenza nell’azione, che ha sempre una valenza politica. La letteratura può e deve offrire spunti di riflessione in grado di raccontare tale cambiamento, riuscendo ad anticiparne le conseguenze nel medio e lungo termine.

È con questo spirito che la Webzine Sul Romanzo ha deciso di dare spazio a racconti che sappiano mettere in luce quanto è accaduto, sta accadendo e, soprattutto, potrebbe ancora accadere nella vita umana, a seguito della precarizzazione del mondo del lavoro. I racconti potranno essere incentrati su un tema scelto dall’autore, purché in linea con l’orientamento generale della Rubrica. 58

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Per partecipare, è sufficiente inviare un Racconto che dovrà essere: –– inedito e in lingua italiana; –– redatto in formato Word (.doc) e con font Times New Roman 12; –– di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– corredato delle seguenti informazioni, riportate in alto a destra nel file: nome e cognome dell’autore, data e luogo di nascita, codice fiscale e indirizzo email; riferimento esplicito a “Rubrica Racconti contro la precarietà – Webzine Sul Romanzo”; –– inviato a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@sulromanzo.it indicando nell’oggetto Racconti contro la precarietà. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, articoli, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Valutazione dei racconti La valutazione sarà condotta dalla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori dei racconti ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail. Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti i racconti ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati nel primo numero successivo utile o nel sito internet del blog www.sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità di quanto proposto, saranno considerati inammissibili i racconti: –– presentati dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– che presentano un possibile conflitto di interessi; –– che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– già editi. Note finali L’invio del racconto non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro racconti e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro racconto e cedono a Sul Romanzo il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons — Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione del racconto pubblicato, dopo la sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo, come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione dei racconti saranno utilizzati solo per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione di Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it


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Geno-Cide, Gianluca Puglia.

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Miracolo a Sant'Anna, un caso di memoria tradita?

Revisionismo storico al cinema

di Elena Spadiliero

La strage a Sant’Anna, piccola frazione del comune di Stazzema, fu uno degli eccidi più efferati compiuti dalle SS durante la Seconda Guerra Mondiale: un caso passato sotto silenzio fino al 1994, quando vennero rinvenuti nell’«armadio della vergogna» dei documenti – ignorati per decenni – circa i crimini commessi dai nazisti sul suolo italiano nel secondo dopoguerra. Quei fascicoli contenevano la verità storica anche sui fatti di Sant’Anna e solo alla fine del secolo furono individuati dei responsabili e avviato un processo. Nel 2005, un Tribunale emise delle sentenze di ergastolo nei confronti di ex ufficiali, ultraottantenni al momento della condanna, e riconobbe il massacro come un atto terroristico premeditato (volto a interrompere i rapporti tra i civili e i partigiani stanziati nel territorio), il primo di una lunga scia di sangue, sino a Marzabotto. Rileggere al cinema episodi del passato come quello di Sant’Anna è sempre pericoloso, poiché c’è il rischio d’incorrere in semplificazioni della Storia (un po’ per una questione di ristrettezza dei tempi filmici, un po’ per proporre agli spettatori una trama chiara, pulita, che, senza divagare, catturi l’attenzione) o in spettacolarizzazioni della stessa,

Sopra – La locandina di Miracolo a Sant'Anna. A destra – Il regista, Spike Lee. Nella pagina a fianco – Due immagini di rappresaglie tedesche in Italia nella Seconda Guerra Mondiale.

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allontanandosi dall’oggettiva concretezza del caso. Quando, nel 2008, il regista Spike Lee realizzò Miracolo a Sant’Anna, fu accusato dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di revisionismo storico, non tanto per le circostanze raccontate, quanto per l’interpretazione che ne viene fornita sullo schermo. La strage di Sant’Anna è antecedente ai fatti narrati nel film, con cui s’intreccia grazie al personaggio di Angelo, un bambino scampato alla carneficina, salvato da quattro soldati americani di stanza lungo la Linea Gotica, durante la Campagna d’Italia. Introducendo l’episodio dell’uccisione di alcuni tedeschi da parte dei partigiani, Lee lascia intendere che l’ecatombe a Sant’Anna non fu, come al contrario dimostrato, un atto premeditato, perpetrato grazie alla complicità di alcuni fascisti collaborazionisti, bensì un’azione di rappresaglia. Inoltre, quasi a corroborare l’intreccio narrativo, la sceneggiatura dà risalto anche al carattere del partigiano traditore, Rodolfo, che cerca vendetta per il fratello Marco, ucciso da un altro partigiano, Peppi, poiché schierato dalla parte dei fascisti. Nella pellicola, Peppi è ricercato dalle SS per l’attacco al plotone tedesco e Rodolfo, d’accordo coi nazisti,

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ha il compito d’indirizzarlo a Sant’Anna, per farlo cadere in una trappola. Constatata l’assenza di Peppi, che nel frattempo ha trovato rifugio in una casetta nel bosco, i tedeschi decidono d’infierire sulla popolazione. In realtà, il lungometraggio si concentra più sulle vicende che vedono protagonisti i quattro soldati americani, mentre la strage è affidata a un lungo flashback di Peppi, il quale racconta a una donna l’episodio del massacro dinanzi alla chiesa del paese. L’aneddoto, storicamente accaduto, è riproposto da Lee con fedeltà: donne, vecchi e bambini vengono fucilati (gli uomini, per evitare la deportazione, avevano cercato rifugio nei boschi) e, mentre molti muoiono sul colpo, i sopravvissuti, feriti, sono arsi vivi insieme ai cadaveri (sembra che, durante il macabro falò, i nazisti si fossero riuniti in canonica a bere e mangiare, ascoltando la musica proveniente da un grammofono). Uno dei primi a difendere Miracolo a Sant’Anna fu James McBride, autore dell’omonimo romanzo e curatore della sceneggiatura. Il libro è un’opera di fiction e, durante il convegno Cinema e memoria a Firenze, lo scrittore si autodefinì un «autore di romanzi commerciali», abituato a creare una

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commistione fra reale e fittizio, allo scopo d’intrattenere il pubblico dei lettori. Tuttavia, egli sottolineò il suo interesse per la tragedia di Sant’Anna, che lo aveva spinto a compiere un lungo viaggio dagli Stati Uniti sino a un piccolo paese italiano, per raccontare una storia a cui nessuno scrittore del Belpaese aveva mai dato risalto. A smorzare la polemica avviata dall’ANPI fu il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale, dopo aver assistito alla proiezione di Miracolo a Sant’Anna, affermò che si trattava di un film che omaggiava la Resistenza, elemento evidenziato dallo stesso Lee («attraverso questa pellicola gli Americani sapranno che anche in Italia, non solo in Francia, c’è stata la Resistenza»): poco importa la figura del partigiano traditore, poiché funzionale alla trama e all’esaltazione del partigiano buono, ovvero Peppi, che diventa il simbolo per eccellenza dell’intera lotta, consapevole e dilaniato a causa delle atrocità che è costretto a compiere in nome di un benessere superiore, quello della patria. Lo stesso sindaco di Stazzema, Michele Silicati, intervenne in difesa del lungometraggio («Guardiamo questo film e poi giudichiamolo!»), invitando a considerare la pellicola come una spinta ad approfondire ciò che a lungo è stato ignorato. È proprio a questo argomento che è importante prestare attenzione, in modo che le piccole deviazioni artistiche, finalizzate all’intrattenimento, non siano lette come verità ineccepibili. L’intenzione di Lee (peculiarità di buona parte della sua produzione, a partire da Malcolm X) è quella di omaggiare il valore afro-americano nella Seconda Guerra Mondiale (caratteristica, a suo dire, dimenticata

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da buona parte dell’opinione pubblica del suo Paese), in contrapposizione alla brutalità dei bianchi. I quattro soldati di colore, infatti, diventano gli eroi dell’avventura: tre di loro moriranno con onore, mentre il quarto, Hector Negron, ritornato in patria e a distanza di tanti anni dal conflitto, metterà un punto fermo, con un’azione eclatante, a una questione rimasta in sospeso in Italia. Le critiche al film si appuntano proprio su questo aspetto, che costituisce, paradossalmente, il punto debole della sceneggiatura. L’accento sul merito dei militari statunitensi comporta una distorsione storica di alcuni eventi a tratti inverosimile. Come specificato anche dalla giornalista Valeria Ronzani in un articolo su «Il Sole 24 ore» dell’ottobre 2008, dopo l’uscita di Miracolo a Sant’Anna è sorto spontaneo un quesito: possibile che la morte di Marco sia l’unico espediente che Lee è riuscito ad elaborare per giustificare il massacro a Sant’Anna? Azione che ha il suo prosieguo in una seconda operazione offensiva, nel paese in cui i quattro soldati americani hanno trovato rifugio (quindi, addirittura, si potrebbe parlare di due stragi). Non sarebbe più naturale pensare che una vendetta privata possa trovare la sua logica soluzione in un faccia a faccia tra Rodolfo e Peppi? Rodolfo avrebbe potuto vendicare il fratello in più momenti, perché se da una parte, uccidendo di persona Peppi, avrebbe corso il rischio di essere scoperto e linciato dagli altri partigiani, è anche vero che il suo ben più grave tradimento, causa indiretta, nel film, delle morti a Sant’Anna, avrebbe potuto essere smascherato. È, quindi, forse l’assenza di una valida motivazione che giustifichi il caso a Sant’Anna a provocare lo sdegno dei par-

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Sopra – Monumento ossario di Sant'Anna di Stazzema. Nella pagina a fianco – Un'immagine da Miracolo a Sant'Anna, di Spike Lee.

tigiani e dell’ANPI, più che le libertà, a fini artistici, che Lee si è concesso. Questo particolare si aggiunge a un’indignazione di lunga data, causata dalla prolungata latitanza dello Stato italiano. Le case distrutte a Sant’Anna non furono più ricostruite, mentre, nel 1948, per iniziativa del comune di Stazzema e grazie al lavoro dei superstiti, fu eretto un ossario sul colle di Val di Cava, alla cui inaugurazione parteciparono solo le istituzioni locali: un’altra occasione mancata per riconoscere ufficialmente e a livello nazionale il massacro, donando valore laico alla resistenza compiuta non solo dai partigiani, ma dall’intera popolazione civile. La diatriba con l’ANPI si chiuse con un comunicato dell’associazione, che riconobbe a Lee almeno il merito di avere attribuito piena responsabilità materiale dell’eccidio all’occupante nazista. Sostiene il comunicato: «[...] Non è compito dell’ANPI formulare giudizi sul film, sul suo valore storico e cinematografico: la storia è liberamente tratta da un libro che somma dati storici all’opera della fantasia dell’autore. In questo particolare momento politico, l’ANPI nazionale rileva, tuttavia, l’importanza

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della ricostruzione di un periodo così drammatico della storia d’Italia, a cui viene dato rilievo e conoscenza nazionale e internazionale [...] La memoria delle persone e degli eventi che hanno consentito all’Italia di divenire un paese democratico è patrimonio di tutti gli italiani: ogni contributo al perpetuarsi del ricordo è utile e necessario». Da questa prospettiva, la memoria storica non è da considerarsi tradita: pur alterando le cause scatenanti, Lee non nega in alcun modo lo sterminio a Sant’Anna e, tanto meno, la barbarie nazista. Viene accertato il ruolo attivo della Resistenza nella liberazione dall’oppressore, senza dimenticare la dicotomia Bene/Male, che in Miracolo a Sant’Anna trova una contrapposizione netta (esistono solo “buoni” e “cattivi”, senza alternative mediane), eppure non classista: in questo modo, c’è il partigiano traditore, così come il tedesco mosso a compassione. In fondo, Miracolo a Sant’Anna è un film che non fa torto a nessuno, né alla memoria, che forse proprio grazie ad esso ha trovato voce e riscontro collettivo, né ai buoni partigiani o alle singole forme di resistenza attuate dai civili.

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Romanzo partigiano di Vincenzo Neve A ottobre del 2012, nel romanzo d’esordio di un giovane scrittore italiano, categoria quanto mai abusata, si poteva leggere: «Fra dieci, cinquanta o cento anni qualcuno starà a meravigliarsi quando guarderà dentro alle fatiche di questi giorni. Chi domani si soffermerà su quello che oggi fate voi qui, e gli altri in montagna, guarderà alle nostre parole (se ne lasceremo), alle nostre azioni, ai nostri volti, ai nostri occhi, come a un universo ricco e pullulante, e forse concluso, il che è un dono straordinario in un mondo infinito come questo. Quando i nonni racconteranno, i nipoti ascolteranno a bocca aperta, e gli adulti, che dall’altra stanza presteranno orecchio con sufficienza, come chi di quelle vicende sa già tutto, scopriranno che c’è ancora del nuovo, un altro particolare, un’altra voce da seguire».

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È un passaggio particolarmente significativo del bellissimo libro di Giacomo Verri, classe 1978, finalista al Premio Calvino 2011, Partigiano Inverno (Nutrimenti, 2012), uno dei romanzi italiani che recentemente ha scelto la Resistenza come protagonista1, opera intensa e profonda, fortemente letteraria, con il respiro di un classico. Racconta della Resistenza in Valsesia nel dicembre del 1943, seguendo le vicende di tre personaggi: il partigiano Jacopo, il bambino di dieci anni Umberto e il professore in pensione Italo Trabucco. È l’epica partigiana del mitico Cino Moscatelli, tra i personaggi del romanzo: «ogni suo discorso, ogni sua parola, aveva qualcosa di definitivo. [...] Parlava con la casta concisione che sottrae le storie all’analisi psicologica e le assicura, invece, alla memoria. Forse era così bravo a narrare perché aveva del mondo un’idea certa». Forse, un’idea certa del mondo ce l’ha anche Verri, che si dimostra altrettanto bravo a narrare e assicura alla memoria storie di cui da tempo non si sentiva parlare nella letteratura italiana. L’autore dichiara di aver voluto riscrivere un romanzo dallo stesso titolo, opera di un tale Remo Agrivoci, che sarebbe dovuto apparire nella collana dei Gettoni einaudiani nel 1958: «se era difficile scrivere un romanzo ‘neorealista’ nel cinquattotto, doveva esserlo tanto più nel duemilaotto o nove o dieci. Difficile ma allettante e forse utile». E, in effetti, utile lo è «raccontare queste cose adesso che la memoria resistenziale fatica a resistere, in quest’epoca moralmente imbarazzante nella quale ci si imbarazza di fronte all’impegno», dopo un ventennio di retorica anti-antifascista, di propaganda berlusconiana e di egemonia culturale delle destre più reazionarie d’Europa2. Verri si chiede «in che maniera parlarne, oggi?», ammettendo una «malattia dell’inesperienza» e la necessità di rifarsi a chi di quella esperienza aveva già scritto. Ma dimostra di aver trovato una strada convincente e letterariamente matura, in cui una lingua complessa, anche aulica, di cui sono stati richiamati tutti gli echi, da Fenoglio e Calvino a Gadda e Fortini, reinventa quella storia e ci consegna un romanzo tra i più significativi degli ultimi anni. n° 4 • Agosto 2013


Storia

«Un libro nato anonimamente dal clima generale di un’epoca» definì Calvino il suo Il sentiero dei nidi di ragno, ed evidentemente deve dirci qualcosa del clima generale della nostra epoca il fatto che nel giro di pochi mesi, tra il 2012 e il 2013, siano stati pubblicati diversi romanzi a tematica resistenziale, tematica non particolarmente affrontata dalla letteratura italiana3, se non quella di “prima generazione” di Calvino appunto, Pavese, Fenoglio, riferimenti obbligati e ineludibili per i giovani autori che si sono cimentati in queste opere. Un dialogo, quindi, tra nonni e nipoti, come richiamato esplicitamente da Verri e da Simone Ghelli (classe 1975) in Voi, onesti farabutti (CaratteriMobili, 2012), appassionata e appassionante epopea di anarchici e di matti, e di una generazione precaria che sente il bisogno di saltare la generazione dei padri, quella dei baby boomers “garantiti” che ha consegnato un mondo decisamente più ingiusto, per confrontarsi con quella dei nonni, che il mondo ha provato a cambiarlo: «mio nonno si pensava che almeno i figli sarebbero stati meglio di loro, e anche i figli dei figli, e invece oggi si ritrova che deve ancora aiutarli». Il combattivo protagonista di Ghelli si sente direttamente legato alla figura nobile del nonno, esempio di vita: «Ricordaglielo nonno, a questi svergognati, che se la voce non ce la vogliono dare, noi troveremo il modo di riprendercela, perché è sempre stato così, e tu lo sai, me lo hai sempre detto: che il nostro compito è resistere, lo stesso che ti toccò in sorte in gioventù. Io son pronto da tempo: attendo un cenno, un fischio che dia il via; e poi bum: tutti per aria».

Una giovane staffetta partigiana è, invece, la protagonista del romanzo di Paola Soriga (classe 1979), Dove finisce Roma (Einaudi, 2012), altro bell’esordio, una trama essenziale e un linguaggio asciutto e ricco, pieno di echi letterari e cinematografici, per un romanzo commovente ed elegante che si fa leggere tutto d’un fiato. A raccontare la Resistenza con occhi di donna è Ida, staffetta partigiana, giunta a Roma dalla Sardegna nel 1938, con la sorella Agnese e il cognato Francesco, impiegato ministeriale. Davanti al suo sguardo, la grande Storia, dal rastrellamento nel Ghetto alle Fosse Ardeatine, ma altrettanto centrale la storia intima e intensa di un amore non corrisposto per Antonio, un cuneo doloroso nella gioia per la liberazione. Vien facile, avendo a che fare con una scrittrice e con la storia di una staffetta, pensare a L’Agnese va a morire, il romanzo del 1949 di Renata Viganò, ma la Soriga dimostra di avere una voce tutta sua.

Nella pagina a fianco: In alto – Formazione partigiana in movimento durante la Resistenza. In basso – Ritratto fotografico di Giacomo Verro. In questa pagina: In alto – Ritratto fotografico di Simone Ghelli. A destra – Ritratto fotografico di Paola Soriga. Sul Romanzo

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Ugualmente al femminile è la storia raccontata da Simona Baldelli in Evelina e le fate (Giunti, 2013), finalista al Premio Calvino 2012. Romanzo che si apre con un’immagine potente molto ben raccontata: l’arrivo degli sfollati nelle terre del padre di Evelina a Candelara, nelle campagne pesaresi attraversate dalla Linea Gotica. La protagonista è una bambina di cinque anni, che si trova spettatrice di eventi molto più grandi di lei, che fa amicizia con una bambina ebrea nascosta dentro una botola, assiste a una rappresaglia nazista, conosce il Toscano, capo dei partigiani, in un mondo contadino diviso tra simpatizzanti dei partigiani e fascisti. E proprio il mondo contadino è descritto molto efficacemente dalla Baldelli, che utilizza una lingua del tutto particolare, uno degli aspetti più interessanti del romanzo, un impasto dei dialetti marchigiani; come spiega la stessa autrice in una nota: «più della fedeltà alla lingua, mi premeva evocare il senso e, ancor di più, il sentimento delle parole pronunciate dai miei personaggi. In fin dei conti è solo un piccolo paradosso: i fatti e i personaggi narrati (fate incluse) sono per la maggior parte reali, il linguaggio no». Linguaggio che racconta il mondo tragico dell’ultimo anno di guerra e il mondo magico di una bambina cresciuta con un padre contadino, una madre moribonda e i suoi fratelli, ma soprattutto in compagnia di due fate, la Nera e la Scèpa, presenze costanti nelle sue avventure.

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Letteratura, ma non solo. La Webzine

Sopra – Due partigiani delle Brigate Garibaldi. Nella pagina a fianco – Ritratto fotografico di Simona Baldelli.

Interessantissimo da un punto di vista letterario per la sua genesi e per il suo sviluppo è In territorio nemico (minimum fax, 2013), romanzo elaborato da 115 autori con il metodo SIC, Scrittura Industriale Collettiva, dove più che il collettiva, esperimento già provato in letteratura, dai futuristi a Wu Ming, conta l’industriale. Si tratta, infatti, di un preciso metodo di divisione del lavoro, esempio di letteratura “fordista”, con compiti ben delineati, ideato da Gregorio Magini e Vanni Santoni, in cui alcuni hanno raccolto materiale e testimonianze, altri materialmente scritto, altri revisionato, corretto le bozze, fatto da consulenti storici e linguistici. Il risultato è decisamente all’altezza delle aspettative suscitate prima della pubblicazione. Il romanzo, ambientato tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, racconta le vicende parallele di Matteo, ufficiale di marina che diserta dopo l’8 settembre, della sorella Adele, che a Milano da borghese moglie di un ingegnere finirà a lavorare in fabbrica e diventerà staffetta partigiana, e suo marito Aldo, nascosto in campagna dalla madre. Sul Romanzo

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«Beato chi avrà la curiosità, la costanza, la pazienza, il tempo, la fortuna di cogliere quello che avete fatto nelle condizioni migliori per assaporare il gusto delle vostre fatiche e per piangerci sopra. Accadrà pure che le generazioni a venire sapranno a memoria la storia che stiamo costruendo senza mai pensare veramente a quello che fu. E la storia, il racconto della storia, resterà per loro un alito di vento, una voce irrilevante. Ma che bello se d’un tratto quella storia, questa storia, s’imporrà come indimenticabile, irripetibile, incredibile. Scopriranno anche le storture, le ipocrisie (perché ci sono pure quelle), le ingiustizie, le avventatezza, le imprudenze e le azioni francamente stupide, e tuttavia rimarrà nella mente qualcosa di unico [...]. Quello che voi fate oggi sarà come un libro che non finisce mai di dire quel che ha da dire», scrive Verri in Partigiano Inverno, e questi romanzi dimostrano che da dire c’è ancora tanto. Tutti i romanzi sin qui citati hanno come filo conduttore le vicende resistenziali, ma al di là di questo dato “sociologico” è molto importante sottolineare il loro valore letterario: non si tratta, cioè, di romanzi “a tesi” costruiti in maniera artificiale, ma di opere di letteratura “vera”, in cui la lingua, lo stile e la struttura rivestono un’importanza non secondaria, anzi, perché avevano sì una storia da raccontare, ma volevano raccontarla ognuno in un modo particolare, certo non avendo scelto un argomento così impegnativo a caso. Pare insomma che, in tempi di così forte crisi della statualità 68

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Sopra – Una commemorazione del 25 Aprile.

e di messa in discussione dello stesso impianto costituzionale, questi giovani autori si rivolgano al momento più alto e nobile, con tutte le sue sfumature e le ombre di tragici episodi, della storia repubblicana, l’unica vera epica nazionale e mito fondativo della Repubblica, nonché epopea generazionale, affascinante per una generazione che di generazionale vive solo la precarietà e di connessioni vive quelle online del web più che quelle di esperienze di vita tanto intense. Resta da capire se questi romanzi offrano un modello ideale da seguire oggi o una fuga da un presente marcescente.

NOTE: 1 La bibliografia sulla Resistenza è amplissima. Si veda, tra gli altri, S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004. 2 Su questi temi sempre utile S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi 2004 e, da ultimo, G. Turi, La cultura delle destre. Alla ricerca dell’egemonia culturale in Italia, Bollati Boringhieri, 2013. 3 Cfr. la bella introduzione di Gabriele Pedullà al volume da lui curato Racconti della Resistenza, Einaudi, 2005: “Una lieve colomba”, pagg. V-XLIII.

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Cinema

La memoria perduta, Elio Lutri, 2009.

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Sono un tipo senza storia

Etica e memoria in Memento di Christopher Nolan

di Alberto Carollo

«Sono un tipo senza storia / m’han fregato la memoria (…)», cantava il gruppo demenziale degli Skiantos molto tempo fa. Canzone faceta, ma parole quanto mai opportune per quel che ci accingiamo a trattare.

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Memento è il titolo di un film di Christopher Nolan del 2000. Il protagonista della pellicola, Leonard Shelby, è affetto da un disturbo della memoria anterograda, ovvero dimentica gli avvenimenti a breve termine. Il problema è insorto in seguito a un’aggressione di John G., che gli ha stuprato e ucciso la moglie. Questo almeno dice il tatuaggio più grande che si è impresso sul petto; da allora uccidere l’assassino di sua moglie diventa l’unico motivo di vita di Shelby. A una trama lineare da thriller psicologico fa pendant un montaggio denso e complesso, grazie al quale lo spettatore vive lo stesso spaesamento e inquietudine del personaggio: le scene che si susseguono sono alternativamente l’ultima in ordine cronologico, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda e così via. La scena finale del film è quella centrale, punto di scioglimento dell’intreccio. Nell’alternarsi dei due tempi del racconto, presente e futuro, Nolan utilizza una tecnica che replica felicemente il punto di vista del protagonista. La fine ribalta le premesse e infonde un grande senso drammatico alla vicenda. Non ci sarebbe lo stesso coinvolgimento emotivo, nello spettatore, se questa storia fosse raccontata in modo lineare (in effetti la distribuzione in DVD ha previsto una versione del film con le scene montate in successione cronologica, ma il regista ha sottolineato che si tratta di un contenuto extra; la sua “visione” permane quella originale, uscita per il grande schermo). «Ricordati di non dimenticare» è la tag-line del film. E Memento (“Ricordati” in latino, imperativo futuro, seconda persona singolare) designa in inglese qualsiasi oggetto o strumento utilizzato per ricordare un fatto o una persona, compresi i post-it e i tatuaggi che Shelby iscrive sul suo corpo per fissare quanto ha esperito e non ricorderà. Leonard è vincolato al “qui” e “ora”; un uomo senza memoria è un uomo privo di storia e senza una storia è come se non fossimo mai veramente vissuti. Leonard si àncora all’istante del suo illusorio grido di vendetta; le sue sole armi sono gli appunti tatuati sul proprio corpo,

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Cinema A sinistra – Ritratto fotografico di Christopher Nolan. Sotto – Carrie-Anne Moss e Guy Pearce in due scene di Memento. Nella pagina a fianco – Una locandina del film.

le polaroid che scatta e correda di didascalie con le sue impressioni, perché può fidarsi solo della sua calligrafia in un mondo sentito come una minaccia, dove le oscure figure che gli ruotano intorno tendono a manipolarlo per via della sua menomazione. «La memoria», come scrive Alessandro Voltolin1 in un suo arguto intervento sul film di Nolan, «è madre del senso e la possibilità di ricordare ne viene a costituire il mezzo senza il quale tutto pare privo dell’unicità del gesto e del suo significato». La meraviglia che coglie lo spettatore del film (avvertenza: sto per spoilerare la trama) nello scoprire che la moglie di Shelby era sopravvissuta allo stupro, ma è morta accidentalmente per una dose eccessiva di insulina (era diabetica e stava “testando” Leonard per comprendere se le stava mentendo riguardo ai suoi vuoti di memoria), che Shelby abbia già ucciso John G. o che Teddy, il poliziotto incari1 Alessandro Voltolin, La memoria e il senso. Memento di Christopher Nolan, in Costruzioni psicoanalitiche, Edizioni Franco Angeli, 2002.

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In queste due pagine – Guy Pearce, nel ruolo di Leonard Shelby, in due scene di Memento.

film. La nostra società è una società, per così dire, dalla “memoria a breve termine” e questo inficia la nostra comprensione del passato e la capacità di organizzare ed elaborare compiutamente il patrimonio della memoria per costruire il nostro futuro.

cato di indagare sull’aggressione subita da Shelby e consorte, spinga lo stesso Leonard a uccidere altri soggetti per i suoi fini, è solo secondaria alla terrificante prospettiva che si dispiega sotto i suoi occhi: l’impossibilità di fissare nella memoria gli eventi e di prenderne coscienza svuota di significato ogni nostra azione o intenzione, con ripercussioni evidenti nella sfera morale ed etica. Ogni “risveglio”, per Leonard, diviene come una nuova “autoredenzione”; uccidere o farsi la barba sono realmente la stessa cosa, perché la razionalizzazione del gesto e la comprensione del suo senso non arriverà. Facciamo un raffronto con la nostra epoca. La Storia e l’attualità, da trent’anni a questa parte, procedono a una velocità vertiginosa, influendo direttamente sulle nostre possibilità percettive, sulla nostra capacità di trattenere il vissuto dinamico del quale facciamo esperienza. Il ritmo accelera, tutto diviene più concitato, perché gli stimoli e le informazioni che ci pervengono quotidianamente sono sempre più numerosi e – nonostante da più parti si invochi o ci si fregi di una propensione e abilità per il multitasking – non vengono adeguatamente metabolizzati. Il limite della consapevolezza sembra, perciò, quello dell’inafferrabilità dell’istante, e in questo caso un’opera come Memento di Chistopher Nolan potrebbe configurarsi come un monito costante: “Ricordati, annota, permetti che il materiale della tua esperienza del mondo sedimenti nella coscienza”. Il ripiegamento sul revisionismo storico, fenomeno tipico del nostro tempo, è uno degli effetti di questa inafferrabilità del presente, come lo è per il personaggio di Leonard nel 72

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Lungi da me, in questa sede, operare una critica della nostra epoca e delle dinamiche culturali di cui è permeata; non dispongo né della competenza né del materiale disponibile a una simile, titanica impresa. Mi è congeniale, però, sviluppare alcuni spunti di riflessione a partire dalla fruizione di un prodotto di intrattenimento qual è, in sostanza, la pellicola di Nolan. Cosa rende Leonard Shelby uno dei personaggi più intriganti della cinematografia statunitense contemporanea? È la capacità del suo autore di sovvertire le aspettative dello spettatore competente (ed esigente, aggiungerei), non inventandosi variazioni, colpi di scena, situazioni imprevedibili e rocambolesche a livello di plot, ma interrompendo lo sviluppo ed evoluzione del suo personaggio. Leonard ha tutte le caratteristiche che si confanno ai detective cui ci hanno abituati tanta filmografia e, prima, tanta narrativa noir americana, così come si conviene a modelli-archetipi come il Marlowe di Raymond Chandler. A differenza di quegli “eroi”, Shelby è privato della loro capacità di divenire prodotti seriali da actionmovie. Shelby non è più riciclabile in situazioni consimili proprio in virtù delle sue competenze – o per la loro mancanza. Lo stesso Christopher Nolan (o il fratello, Jonathan, cui spetta la paternità del racconto dal quale è stato tratto il film) ci appare un po’ tiranneggiato dallo stesso personaggio che ha contribuito a creare. Leonard Shelby non avverte lo scorrere del tempo e non può cogliere, perciò, collegamenti o concatenamenti di realtà più complessi (contrariamente allo spettatore che abbiamo più sopra delineato). Il tema della vendetta, motore di tante narrazioni simili più o meno riuscite, non è in Memento solo un pretesto narrativo, ma diviene concretamente lo spessore drammatico del personaggio. Nella sua inconsapevolezza del divenire, Shelby ha bisogno di una motivazione “forte” alla quale agganciarsi per sopravvivere a se stesso. n° 4 • Agosto 2013


Vendicare la moglie è una vera e propria ossessione. Nel film non traspare il ricordo di un autentico attaccamento alla moglie perduta; quelle di Leonard sono piuttosto reminiscenze: un battibecco per il fatto che lei leggesse gli stessi libri per più di una volta; il senso di fastidio se lei lo chiamava “Lenny”. Sono accenni vaghi, aneddoti; amore, affetto, rabbia, odio e speranza sono sentimenti che si puntellano su strutture stereotipate per accedere a un qualche significato. Leonard scatta delle polaroid, prende appunti, connota e attribuisce dei giudizi a quel che gli accade, con l’intento di servirsene al “reset” successivo, nel tentativo fallace di creare una continuità al suo esistere. A Leonard, però, non è dato nulla ch’egli non abbia finto arbitrariamente di ricordare. Tutto il materiale raccolto è frutto di una visione o di un giudizio distorti e alterati, in quanto Leonard è incapace di inserire una data informazione in un contesto e di discernere il vero dal falso. Ipotesi affascinante quanto agghiacciante: con buona pace di Hegel, ammettendo concettualmente che non esista un evento in sé e per sé, la realtà nella quale siamo immersi sarebbe il frutto delle interpretazioni soggettive che diamo agli eventi che ci succedono. Qualsiasi fatto, nel momento del suo attualizzarsi/manifestarsi, diviene memoria, ricordo. Perciò alterabile, fonte di errore, in quanto svincolato e indipendente da fattori spazio-temporali. Chiedete a più soggetti di ricordare le circostanze di un accadimento che hanno condiviso; ciascuno di loro fornirà diverse varianti o selezionerà aspetti differenti del proprio vissuto. Ogni fatto è passibile di conferma, di errore o di rinnovamento per ciascuno dei soggetti/interpreSul Romanzo

ti. La verità, perciò, si ripartirebbe in tanti rivoli quante sono le prospettive limitate della percezione e del giudizio dei singoli individui. Per fortuna ci viene in soccorso Kant: «[…] è legge necessaria alla nostra sensibilità e quindi condizione di tutte le percezioni che il Tempo precedente determini il seguente». La determinazione del sé si configura, pertanto, come un processo lungo e articolato, una sintesi unica e individualmente peculiare tra il proprio passato, il presente in divenire e le possibilità insite nel futuro. E, non da ultimo, la costante differenziazione e affinamento della capacità di operare collegamenti complessi tra le esperienze acquisite. Non esiste, in quest’ottica, una realtà ultima. Tutto è suscettibile d’interpretazione, “tutto è relativo” per dirla con Einstein; tutto è passibile di revisione. Privati del proprio passato e della propria Storia, diventa arduo, se non improbabile, promuovere e affermare qualsiasi verità sulla nostra percezione della realtà. La memoria custodisce un patrimonio emotivo ed etico che a Leonard Shelby, suo malgrado, difetterà per tutta la durata della sua esistenza fittizia. Ricordiamocene quando ci accingiamo a giudicare i fatti senza aver prima raccolto ed elaborato compiutamente informazioni da fonti illustri, avvalorate dai più e in special modo dagli specialisti dei diversi aspetti della realtà che andiamo ad indagare. Non limitiamoci a restringere il campo delle nostre percezioni e conoscenze per giungere a semplicistiche conclusioni o, peggio ancora, per prestare ascolto alle sirene di altrettanto banali e opportunistici revisionismi. Per non essere tipi senza storia, come Leonard Shelby. Persone mutile, a cui hanno “fregato la memoria”. n° 4 • Agosto 2013

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L’epica del quotidiano

Intervista a Costanza Quatriglio

di Alessandro Puglisi

È arduo, soprattutto in ottica interpretativa, accostare l’aggettivo civile a qualsivoglia forma d’arte. Se, però, in Italia c’è un cinema tanto multiforme, eclettico e sfaccettato quanto, appunto, civile, è quello di Costanza Quatriglio. La memoria è uno dei crocevia più importanti in questo cinema, e di certo quello essenziale per restituirci una lettura delle nostre idee sul passaggio del tempo, in questo nostro tempo presente, tanto gramo quanto foriero di future rinascite.

Il più importante esempio di reflusso memoriale, del resto, a livello italiano e negli ultimi anni, è stato rappresentato da Terra matta di Vincenzo Rabito: monumentale autobiografia di un semi-analfabeta che mette mano al racconto della propria vita in una serie di dattiloscritti i quali, molti anni dopo essere stati scritti, e in una forma ridotta e adattata, hanno trovato la via della pubblicazione per i tipi di Einaudi nel 2007, in un volume curato da Evelina Santangelo e Luca Ricci. Nel 2012, Costanza Quatriglio si è misurata con l’“avventura” di Rabito e ne ha tratto un film documentario, terramatta; presentato alla 69a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’abbiamo intervistata per voi.

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Cinema

Puoi parlarci delle origini della tua attività di documentarista? La mia attività è legata davvero alla mia formazione. Non ho studiato cinema, all’inizio; mi sono laureata in legge, ma ho sempre avuto un’attitudine, molto spiccata evidentemente, a guardarmi intorno, osservare le cose. Studiavo legge perché per me il diritto non era nulla di astratto, di fissato sulla pagina, ma qualcosa di molto vivo, di cui fare esperienza. Mentre studiavo, ho deciso che mi sarebbe piaciuto mettere a frutto questa mia attitudine a “stare nelle cose”. Ho cominciato facendo dei cortometraggi, poi ho frequentato il Centro Sperimentale come allieva del corso di regia, anche se erano momenti duri per quella Scuola. E ho cominciato senza pensare in alcun modo che avrei privilegiato l’aspetto documentaristico; i miei primi cortometraggi erano tutt’altro

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che documentaristici, anzi prepotentemente figurativi, e con una valenza molto simbolica. Sperimentavo tantissimo; poi ho fatto L’isola, un film che mette in qualche modo assieme le due anime, per dimostrare che, secondo me, il cinema è uno solo. Quale è stato, e quale è, il ruolo delle fonti nella tua attività? Per me, le fonti non sono altro che dati in cui immergermi; quei dati di realtà che mi servono per costruire una relazione, che mi permette poi di rielaborare il percorso fatto. Qualsiasi cosa può essere una fonte: un ambiente, una persona, un personaggio, una storia, un sentimento, e questo procedimento di elaborazione diventa, alla fine, drammaturgia. La fonte è solamente il punto di partenza e non può certamente essere il punto di arrivo.

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Al giorno d’oggi abbiamo a disposizione degli strumenti che ci permettono di riversare, o creare ex novo, la “memoria” delle nostre azioni, sensazioni, esperienze, grazie a supporti esterni, spesso informatici. Come ti poni rispetto a tale questione? Credo che abbia a che vedere con la costruzione della memoria collettiva. È evidente che l’attitudine degli ultimi tempi a filmare, rappresentare, condividere qualsiasi cosa, e in generale l’attitudine all’auto-rappresentazione, muta e muterà antropologicamente il nostro destino e la nostra condizione... E questo, secondo te, quanto si riverbera nel cinema? Mi sembra ancora poco, per certi versi, perché il cinema, quello che si vede e viene distribuito, è ancora, purtroppo, un affare da vecchi. Pertanto, il nostro Paese è scollato, da questo punto di vista; sicuramente i linguaggi che hanno a vedere anche con la nuova estetica, con il Web, gli smartphone, ecc., non hanno, in questo momento, un riconoscimento ufficiale, se non all’interno del mondo della Rete. Dunque, a causa di questo scollamento, il cinema, in quanto a mercato e industria, non ha ancora fatto i conti coi nuovi linguaggi, perché non ne è capace, da questo punto di vista. Si potrebbe parlare, circa l’auto-rappresentazione, di una tensione tra ciò che è reale, tangibile, e ciò che (auto)rappresen-

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tandosi, appunto, diventa sfuggente e, in qualche modo, intangibile. Per certi versi è sempre stato così: molto spesso, la rappresentazione di un fenomeno diventa il fenomeno stesso, lo rende concreto, paradossalmente lo rende “vero”. Io faccio sempre l’esempio dell’urlo di dolore di Rosaria Costa, la povera vedova di Vito Schifani, agente della scorta di Giovanni Falcone, morto ammazzato a Capaci. L’immagine di questa donna, che piangeva eppure mostrava una così grande pietà nei confronti della mafia, è stata una delle più importanti icone degli ultimi anni, e noi ce la ricordiamo perché è stata filmata ed è stata vista in tutto il mondo. Quell’immagine ha costruito memoria, ed è inconfutabile: è vera perché l’abbiamo vista. Ci puoi spiegare com’è nato il progetto terramatta;? Come ti sei rapportata al testo di Vincenzo Rabito edito da Einaudi e curato da Evelina Santangelo e Luca Ricci? Il progetto è nato dall’incontro con Chiara Ottaviano, produttrice e co-sceneggiatrice del film. Lei aveva acquisito i diritti del volume di Einaudi ed era molto desiderosa di trovare una chiave di lettura filmica per poter raccontare questa storia. Insieme, ragionando, abbiamo immaginato che la chiave di lettura non potesse essere altro che il linguaggio del cinema documentario. Mi sono rapportata al testo di Vincenzo Rabito, anzi al testo dell’Einaudi, considerandolo un veicolo per fare un viaggio, di andata e ritorno, dal dattiloscritto

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per tornare al dattiloscritto. Ho letto il testo, l’ho fatto mio, nel senso che vi ho individuato tutto quello che mi interessava per cominciare a costruire il film, ma soltanto quando ho avuto in mano i quaderni di Vincenzo Rabito, e quindi ho avuto la possibilità di esperire la “matericità”, il solco, l’inchiostro, allora ho capito davvero che film avrei fatto. In questo senso, il testo edito da Einaudi è stato una sorta di ponte, fondamentale, ma che non poteva bastare. Il tuo testo filmico può dunque essere considerato, nel senso dell’espressione della matericità, complementare al testo di Rabito? È questo ciò che ho voluto fare: ho cercato di costruire un film che potesse restituire tutta la matericità del testo di Rabito. In questo senso, spero che fonte e restituzione abbiano raggiunto la loro relazione. Il film cerca di interpretare visivamente lo sforzo che quest’uomo ha compiuto e cerca di mettere in scena, con il linguaggio delle immagini e ovviamente con la voce, cioè col linguaggio del cinema, lo sforzo stesso, evocandolo.

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Nel contesto di questa impresa “titanica” che Rabito compie, secondo te quale immagine, presente nel libro, può simboleggiare meglio l’essenza memoriale dello scritto? Io sono legata tantissimo all’immagine di Vincenzo ragazzino che viene portato via alla madre, per andare nella piazza di Chiaramonte Gulfi, piena come per la festa della Madonna, come dice lui, e poi essere condotto al fronte della Prima Guerra Mondiale. Tengo fortissimamente anche all’immagine che lui ha quando arriva in trincea e vede che ci sono i “tuoni”, le bombe, le esplosioni, e dice che gli sembrava ci fosse malu tempu. In definitiva, sono legata non alle fotografie di ciò che accade, ma ai passaggi tra le cose: il momento di passaggio in cui Vincenzo diventa un ragazzo, per esempio, o quello in cui da soldato va in trincea e si rende conto che lì andrà a morire. Secondo me, in quei momenti si sviluppa la formazione di Rabito Vincenzo uomo, e in quei momenti c’è il cinema, molto di più che nel caso di immagini più consuete, magari meravigliose e icastiche. Preferisco molto di più il momento dello stupore.

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Mi pare la vera cifra distintiva, questa del riuscire a restituire tanto lo stupore quanto la disillusione. Sì, lui riesce in modo straordinario a entrare nelle pieghe dei propri sentimenti, ma interpretando così quelli di tutti. Da questo punto di vista, le pagine di Rabito sono esemplari. Per me, lui è davvero un grande narratore perché, come ho provato a dire anche nel mio film, lui è il narratore e noi siamo i protagonisti. Si parlava di grandi narratori: ci troviamo in tempi di tendenziale frammentazione, o addirittura, in alcuni casi, di atomizzazione della narrazione, soprattutto rispetto a certe etichette. Secondo te, oggi c’è ancora la possibilità che nascano della “grandi narrazioni”, come può essere considerata quella di Vincenzo Rabito? Assolutamente sì. Secondo me, siamo in grado di crearle, e probabilmente abbiamo vissuto un momento, a livello epocale, di grande passaggio. Adesso si preparano, ne sono molto convinta, nuove forme di grandi narrazioni, di epica, che hanno molto a che vedere, di nuovo, con l’osservazione della realtà. Consideriamo che, per esempio, non si conosce in nessun modo la letteratura migrante, o la letteratura di chi ha davvero vissuto dei percorsi di formazione. Perciò, sono fortemente convinta che questo ritorno sia una reazione a un tempo di mezzo, di conservazione, tra la generazione di Rabito e la nostra. Sento che l’Italia sta male anche per questo motivo, perché tra la generazione di Rabito, che ha costruito il nostro Paese, e noi, c’è stata la generazione di chi ha conservato: sono loro che ci hanno permesso di dormire un po’ troppo, rispetto a chi oggi si sta svegliando e rendendo conto di rischiare di perdere il treno, 78

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per cui è meglio ricominciare a guardare le storie e guardarsi intorno. Quindi, il gusto dell’epica, delle storie, anche di formazione, dell’avventura, del quotidiano, tornerà di sicuro. Ultima domanda, di rito: puoi dirci qualcosa sui tuoi progetti futuri? Posso dirti che ho già girato una parte di un nuovo documentario, che si intitola Triangle, ambientato a Barletta, e che mette insieme l’episodio del crollo di una palazzina nella stessa Barletta, nel quale sono morte cinque operaie tessili che lavoravano in nero in un opificio arrangiato, con un episodio analogo, tristemente famoso, accaduto cento anni prima, a New York, cioè l’incendio della Triangle. Faccio questo salto di cento anni, dal 1911 al 2011, per raccontare la condizione operaia. Ma altri progetti sono in via di definizione.

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Fotografia

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La fotografia è memoria? di Annamaria Trevale

La fotografia è il punto d’arrivo di una ricerca umana plurimillenaria per riuscire a riprodurre il vero il più fedelmente possibile: ciò che, fino a quel momento, era ottenuto solo grazie al lungo lavoro di pittori e disegnatori diventa realizzabile anche da persone incapaci di disegnare e in tempi molto più brevi, nonostante le ore di esposizione necessarie per realizzare i primi dagherrotipi. Trattandosi del primo documento iconografico prodotto da una macchina, si tende a identificare la sua meccanicità con una presunta neutralità, mentre il fotografo non è visto come un artista, che offre la propria interpretazione del mondo, ma come l’utilizzatore di un procedimento standardizzato e impersonale: non per nulla, il meccanismo base di ogni apparecchio fotografico è stato chiamato obiettivo, come artefice di una riproduzione obiettiva della realtà. A questa presunta neutralità dell’immagine fotografica si aggiunge la sua democraticità. Se, in passato, solo i ricchi e i potenti erano in grado di farsi ritrarre dai pittori, grazie alla rapida diffusione degli studi fotografici la possibilità di avere immagini della propria vita cessa di essere un privilegio per pochi, estendendosi fino alla media e piccola borghesia. Il ritratto resta a lungo il genere fotografico più 80

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diffuso, perché quasi tutti vogliono vivere l’emozione di farsi immortalare da un fotografo, in genere in occasione delle tappe salienti della vita: la nascita, la Prima Comunione e la Cresima, il matrimonio, senza dimenticare le immagini collettive eseguite nelle scuole, sui luoghi di lavoro o, per gli uomini, durante il servizio militare. Nell’arco di pochi decenni, presso tutte le famiglie si possono trovare immagini dei suoi membri, ritratti a diverse età, che vanno a costituire un archivio della memoria collettiva: ognuno può conservare una traccia dei propri cambiamenti, mentre si apre la possibilità di mostrare alle ultime generazioni il volto di parenti morti prima della loro nascita, o l’aspetto giovanile di persone conosciute già anziane. Fin dal 1888, anno in cui la pellicola avvolgibile inizia a sostituire le lastre, gli apparecchi diventano molto più maneggevoli ed economici, aumentando rapidamente la loro diffusione, e agli statici ritratti dei momenti solenni si affiancano le fotografie istantanee, scattate anche nel corso di viaggi e vacanze, di cui diventa più facile conservare a lungo il ricordo. L’equazione fotografia = memoria sembra, quindi, affermarsi fin dall’inizio, tuttavia non sono state n° 4 • Agosto 2013


Fotografia In queste pagine – Immagini d'epoca, prive di attribuzione.

poche le obiezioni sollevate da più parti nei suoi confronti. I primi a mostrarsi scettici nei confronti del valore documentario della fotografia sono stati proprio gli storici, categoria che si potrebbe considerare particolarmente interessata a farne un ampio uso, poiché per ricostruire il passato si è sempre ricorso alle immagini: basti pensare all’importanza delle pitture rupestri e, in seguito, degli affreschi e dei quadri, da cui è stato possibile apprendere molto riguardo alla vita delle epoche passate. Gli storici, però, non si limitano ad acquisire passivamente queste fonti, ma le sottopongono a un lavoro d’interpretazione, che parte, ad esempio, da un banale accertamento della loro autenticità. Già da questo primo esame, si può stabilire che molte fotografie di avvenimenti, soprattutto se realizzate nel xix secolo, non possono essere considerate vere fonti storiche. Non potendo eseguire scatti veloci e ravvicinati, i primi apparecchi potevano fissare solo scene del tutto statiche, per cui le immagini che ci sono pervenute sono state spesso scattate dopo un evento e non durante il suo svolgimento, come nel caso dei campi di battaglia della Guerra Civile americana, che inquadrano morti e feriti, ma non i combattenti in azione. Sul Romanzo

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Anche la celebre fotografia dei bersaglieri che entrano a Roma da Porta Pia, a un attento esame, si rivela un fotomontaggio, in cui la stessa immagine di soldato è ripetuta più volte, per raffigurare un attacco che, in realtà, non avvenne neppure in quel luogo, ma ad alcuni metri di distanza dalla porta stessa. E se il fotomontaggio era praticato già agli albori della fotografia (come testimoniano ad esempio le contraffazioni operate per fini di propaganda politica) cosa dire dei programmi digitali, che oggi permettono di rielaborare ogni immagine fino a stravolgerla completamente, inventando persino impossibili incontri fra personaggi vissuti a distanza di secoli? Appare, perciò, più che motivata la diffidenza degli storici verso un’accettazione acritica delle fotografie, senza un’analisi approfondita che possa confermarne l’autenticità. Del resto, anche esaminando un semplice archivio fotografico familiare ci si può domandare se esso rappresenti una testimonianza corretta e imparziale dell’esistenza di chi lo possiede. Noi conserviamo, in realtà, solo le immagini dei momenti positivi della nostra vita: in sintesi, fotografiamo i matrimoni ma non i divorzi, i baci scambiati tra fidanzati e coniugi ma non i loro litigi, le persone felici e in salute ma non quelle devastate dalle malattie.

Ritratto fotografico di Italo Calvino.

I Bersaglieri a Porta Pia.

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Ogni ricostruzione della vita di una persona tramite le immagini che le sono state scattate dal giorno della nascita in poi sarà, perciò, sempre incompleta, senza una documentazione dei momenti infelici, o anche semplicemente banali e poco interessanti. Italo Calvino, scrittore spesso visionario, affrontava questo problema in un racconto pubblicato nel 1970 ma scritto già nel lontano 1955: L’avventura di un fotografo (in Gli amori difficili, Einaudi, 1970). Il protagonista, Antonino Paraggi, in principio considera la fotografia adatta solo ai suoi amici padri di famiglia, come strumento per documentare la crescita dei figli, ma la ritiene un mezzo del tutto insufficiente a cogliere l’essenza della realtà, perché «per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita». Spinto da questa convinzione, quando inizia a familiarizzare con una macchina fotografica, Antonino si limita a scattare immagini solo ed esclusivamente di Bice, prima compiacente modella e, in seguito, amante e poi moglie, nel tentativo di coglierne l’essenza. Vorrebbe arrivare a una sola fotografia che racchiuda in sé i molteplici e mutevoli aspetti della

USA. Pennsylvania. Pittsburgh, William Eugene Smith.

donna, che non appare mai uguale a se stessa da uno scatto all’altro, ma il tentativo fallisce perché Bice, stanca di sentirsi sotto un mirino in ogni istante del giorno e della notte, lo abbandona. Antonino scivola sempre di più in un delirio causato dall’impossibilità di arrivare a una fotografia totale, che racchiuda in sé tutta la realtà, fino a rassegnarsi di fronte all’evidenza: lo spazio e il tempo sono incommensurabili, quindi non è possibile tradurli in una serie di immagini, che sarebbe a sua volta infinita. Sconfitto, raccoglie la sua sterminata produzione in un enorme involto di giornali da eliminare, ma prima di buttarlo via non resiste alla tentazione di fotografarlo… Questo racconto esprime una condizione meno assurda di quanto possa sembrare, perché con i limiti di una rappresentazione del reale si sono scontrati molti fotografi, a cominciare da William Eugene Smith, uno dei più grandi fotoreporter americani, di cui si ricorda il perfezionismo maniacale: a metà degli anni Cinquanta si perde in mesi e mesi di sopralluoghi a Pittsburgh prima d’iniziare a scattare migliaia di fotografie della città, di cui solo una piccolissima parte diventerà un famoso reportage. Di Garry Winogrand (1928-1984), altro esponente della street photograpy statunitense, si sa, invece, che

1955.

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Una di Garry Winogrand.

fotografia

ha lasciato uno sterminato archivio di oltre trecentomila immagini, la maggior parte delle quali, però, non erano mai state neppure sviluppate. L’inglese Jo Spence ha esplorato per anni proprio il rapporto tra fotografia e memoria personale, esponendo in una mostra a Londra una storia visiva della propria vita, dalla nascita all’età adulta, corredata da testi che analizzavano il modo in cui si costruisce l’identità personale. In seguito, colpita da un tumore al seno, ha fatto dello sviluppo della malattia, che l’avrebbe condotta alla morte, l’unico oggetto della sua ricerca, documentando le alterazioni del corpo sottoposto a interventi e terapie invasive, ma registrando anche quella sorta di regressione all’infanzia cui è obbligato il malato negli ospedali. Il suo lavoro, molto critico nei confronti della classe medica, ha dato spunto a un vivace dibattito nella società inglese e costituisce un uso controcorrente della memoria fotografica: qui si registra proprio ciò che di solito si preferisce rimuovere, vale a dire la malattia e la sofferenza. Contro l’equazione fotografia = memoria si sono, in parte, schierati anche due grandi studiosi del Novecento, Roland Barthes e Susan Sontag. Barthes è affascinato dalla fotografia, ma stenta a definirla in modo preciso. 84

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Cancer Shock, 1982. Jo Spence.

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Photonovel,


resto, negli stessi anni, in campo psicoanalitico, si affermava la fototerapia, che utilizza gli scatti personali e le foto familiari del paziente come supporti all’analisi.

Ritratto fotografico di Roland Barthes.

L’avvento delle tecniche digitali ha aumentato in misura esponenziale la creazione di immagini, moltiplicando, da un lato, la registrazione dei ricordi, ma, dall’altro, anche i problemi riguardanti il controllo del loro utilizzo, soprattutto in rete: sono tanti i casi di persone che non hanno potuto impedire la diffusione di proprie fotografie sgradevoli o compromettenti. Di fronte agli sviluppi della tecnologia c’è anche da chiedersi se le fotografie conservate su supporti informatici, di cui non è per nulla certa la durata nel tempo, saranno ancora visibili tra qualche decennio come quelle cartacee che riempiono i vecchi album di famiglia: la generazione dei nativi digitali, cresciuti nel mondo dell’immagine, rischia di ritrovarsi senza una memoria iconografica del proprio vissuto. Come rispondere, allora, alla nostra domanda iniziale? Alla luce dei pro e contro espressi nel corso di un dibattito ancora aperto, possiamo concludere che sì, certamente le fotografie possono diventare un supporto fondamentale alla memoria individuale e collettiva, ma non nel modo assoluto che tutti noi saremmo portati istintivamente a dare per scontato.

Per lui, è qualcosa che scompare nel momento in cui l’osservatore prende in considerazione l’oggetto raffigurato e la ritiene una sorta di allucinazione, poiché riproduce qualcosa che, in realtà, non si trova davanti a noi. Un po’ come il personaggio del racconto di Calvino, Barthes cerca nelle immagini una loro essenza: dopo la morte della madre, ne esamina a lungo le fotografie senza riuscire a collegarle ai propri ricordi personali, fino a ritenere, paradossalmente, che quella della donna all’età di cinque anni costituisca il suo ritratto più veritiero. Per Susan Sontag, la fotografia è destinata a perdere col tempo la propria specificità per ridursi a puro oggetto estetico, suscettibile di letture molteplici da parte dell’osservatore. Poiché ogni fotografia registra soltanto l’apparenza superficiale di ciò che vuole rappresentare, e non i significati complessi che accompagnano l’esperienza sensibile, non si può considerarla un’immagine della memoria: alla fine, è solo il messaggio iconico della fotografia a essere ricordato, più che i suoi reali contenuti, conclusione cui era arrivato anche Barthes. In seguito alle numerose obiezioni sollevate da altri studiosi, però, Susan Sontag ha modificato almeno in parte le sue convinzioni, ammettendo che certe immagini possono servire a una migliore comprensione del passato. Del Sul Romanzo

Ritratto fotografico di Susan Sontag.

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n o n a t i v «La è i s e h c a l l e u èq a l l e u q a m , a t vissu m o c e a d r o c i r i s e h r c e p a d r o c i r i la s . » a l r a t n o c c a r Mosaico di memorie: il Brasile narra il ‘900 di Paola Paoletti

«La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».

Con questa citazione, tratta da Vivere per raccontarla di Gabriel García Márquez, si apre Memória do Povo. Vozes do século XX di Ana Beraldo e Eunice Reis. Il libro ricompone la memoria di un paese e, quindi, anche la sua storia, percorrendo il vissuto della gente comune. È un mosaico, nel quale micro-narrazioni vanno lentamente e laboriosamente a comporre cent’anni di storia e vita di una città e dei suoi dintorni: Pouso Alegre, nel distretto di Minas Gerais, nel Sud-Est del Brasile.

Sotto – Ritratto fotografico di Ana Beraldo e Eunice Reis. Nella pagina a fianco – Immagini dalla locandina di Memória do Povo. Vozes do século XX.

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Si tratta di una letteratura di confine – si colloca tra un saggio divulgativo di etnografia, uno studio dell’urbanizzazione di un territorio e la sua popolazione – e di un piacevole libro di memorie collettive.

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a me L’opera colleziona e riordina, quindi ri-narra, tutto quello che i suoi personaggi raccontano, ricordando gli eventi più significativi della loro vita. Il libro, o meglio i libri, come vedremo più avanti nell’intervista, ha una forma cartacea arricchita di fotografie antiche e recenti e una forma interattiva, su web, composta da video e testi digitali. I ricordi emergono dal tempo, dagli episodi della vita rurale e cittadina, dagli eventi della vita politica, dal tempo libero, dal commercio; i ricordi emergono anche dagli spazi vissuti nel quotidiano, quelli dei quartieri, dei mercati, delle scuole, delle botteghe degli artigiani, dei sarti, dei liutai.

ha permesso di far uscire dall’ombra tutti coloro che hanno partecipato alla formazione della Storia di una regione, Minas Gerais, e di uno Stato, il Brasile, pur vivendo e operando nel proprio micro-cosmo.

In questo lavoro, il racconto orale è stato per le autrici e per i fotografi uno strumento importante per comprendere e sentire il vissuto quotidiano, il cuore della gente. È stato lo strumento per dare voce agli esclusi dalla Storia. Il raccontare parlando è ciò che

Il riferimento territoriale di questo libro è una micro-regione insieme al suo territorio rurale e boschivo che le fa e le faceva da cornice. Questo spazio è la scena degli eventi vissuti nel racconto degli intervistati.

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Le interviste e gli incontri con la gente hanno permesso alle autrici di ripercorrere le orme storiche di un passato quasi dimenticato e, per qualcuno, neanche riconosciuto come base della propria identità. Nei racconti si osserva come un territorio e la sua gente mutino col sopraggiungere di nuove tecnologie e differenti culture.

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Sono state scelte circa venti persone, le quali, per il loro modo di essere e di fare, rappresentano la comunità: alcuni per essere stati un punto di riferimento, altri per le loro attività professionali o per una particolare competenza o per una specifica abilità in un’arte; altri, invece, per la loro solidarietà o per il loro modo di vivere o di trasferire la conoscenza agli altri. I ricordi e le storie di questi personaggi sono la memoria della popolazione.

In queste pagine – Sthenio Maia, foto di Pouso Alegre.

Attualmente, il progetto è in corso di sviluppo, come spiega una delle autrici, Ana Beraldo, che ho recentemente intervistato. Come è nato il progetto Vozes do século XX? Viviamo in una società che possiamo definire dell’oblio, dell’effimero. Il progetto Memória do Povo nasce dalla necessità di conservare la memoria di gruppi significativi per la storia di Pouso Alegre, una città situata nello stato di Minas Gerais, in Brasile. Il progetto è nato nel 2009 e si è sviluppato grazie al finanziamento della Legge Municipale per la Promozione della Cultura. Questo è un progetto che si sviluppa su tre temi. Il primo tema, Vozes de Mestres, è stato terminato, il secondo, Vozes do Século XX, è in fase di sviluppo e il terzo, Vozes de Imigrantes, sarà realizzato tra il 2013 e il 2014 . Quest’ultimo includerà le storie di vita di quegli immigrati che hanno scelto di vivere in Pouso Alegre, tra cui molte famiglie italiane come i Chiarinni, i Cinquetti (cugini della cantante Gigliola Cinquetti) i Ferracioli, i Perugini, ecc.

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In che cosa consiste il progetto? Memória do Povo è un centro di documentazione virtuale che utilizza come metodologia di lavoro la storia orale. Il progetto include le storie di vita di persone anonime e non, che vivono nella microregione di Pouso Alegre. I testi sono stati trascritti nella forma che rispetta il modo di esprimersi di ciascun intervistato, le dichiarazioni costituiscono una narrazione ricca e molteplice come la vita stessa e i suoi significati. Su web vuole essere un Museo Virtuale, dove si ha un dialogo continuo, anche con l'utilizzo di altri mezzi di comunicazione. Il progetto ha prodotto libri e documentari sui due temi già elaborati, Vozes de Mestres e Vozes do Século XX. Le interviste sono rielaborate? La memoria non è cronologica, quindi l’intervistato può raccontare un fatto recente e poi andare su un fatto passato. Cosicché, le interviste vengono modificate e gli eventi accaduti sono organizzati in ordine cronologico. Un altro metodo di lavoro che utilizziamo è quello di rispettare il modo di parlare dell’intervistato. L’intervista è trascritta lasciando il più possibile invariato il modo di esprimersi. Così l’editing è misurato e fatto con grande cura. 92

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Voices de Mestres è una narrazione ripartita tra le autrici – Ana Beraldo e Eunice Reis – e gli intervistati. E il risultato di questo sforzo sono le trentadue storie singolari che danno forma al progetto, tenendo come filo conduttore le attività della cultura popolare della regione di Pouso Alegre: l’artigianato, il cordel o poema popolare, la gastronomia, la danza, la memoria, la musica e le feste e i rituali. Gli intervistati non sono stati scelti a caso, essendo rappresentativi di una regione molto diversificata, ricca di storie, di riti e di magie, che la modernità ci fa immaginare perdute nel tempo, ma che invece sono più vive che mai. Vozes do século XX contempla storie di vita di posoalegrensi per nascita o per cuore. Sono storie individuali che si alternano a ricordi della città. Sono memorie, sensazioni, affetti, emozioni, nostalgie che scorrono lungo il tempo. Sono una rete di codici e di significati che si intrecciano con le singole esperienze e formano una memoria sociale, ricca e sfaccettata. In queste pagine – Sthenio Maia, foto di Pouso Alegre. Sul Romanzo

I protagonisti di Vozes do século XX hanno aperto le loro vite e le loro case per portare agli altri la memoria, per mostrare le radici e per custodirle, perché mai si perdano nel tempo. Una volta terminato il progetto, avremo una collezione memorabile di ricordi, un punto di riferimento per capire il passato, le radici, l’identità, insomma la nostra memoria, la memoria di questa gente che ha vissuto una vita intera o solo alcuni momenti significativi in questa terra. Vozes de imigrantes, invece, sarà sviluppato tra la fine del 2013 e il 2014. Memória do Povo è una rete di racconti i cui codici riaffiorando nei sentimenti nelle sensazioni, nelle nostalgie. Non è mai una narrazione distaccata, pur restando molto spesso obiettiva. Questa mescolanza di memorie struggenti e fatti accaduti è un lavoro che va a comporre la memoria e l’identità di un popolo.

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Chi era? Un amico? Un uomo di cuore? Uno che provava compassione? Uno che voleva portare aiuto? Era uno solo? Erano tutti? Franz Kafka, Il processo, 1925.

Cristo in croce, Eugène Delacroix, 1845. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam (NL).

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