Sul Romanzo, Speciale Premio Campiello 2013

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presenta

premio campiello campiello opera prima


La prima realtà del settore con tre anime

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Agenzia letteraria

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Professionalità e intraprendenza al servizio dell'editoria, della letteratura e degli scrittori. L'immagine è estrapolata da 50° Anniversario PAN, di chripell.

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Sul Romanzo

Speciale Premio Campiello


Premio Campiello

Giovanni Cocco, La caduta

4 Valerio Magrelli,

Geologia di un padre

6 Beatrice Masini,

Tentativi di botanica degli affetti

8 Ugo Riccarelli,

L’amore graffia il mondo

10 Fabio Stassi,

La pubblicazione raccoglie le interviste realizzate da Sul Romanzo ai finalisti del Premio Campiello 2013 nell’ambito dello speciale apparso sul nostro blog nei mesi di giugno e luglio 2013.

L’ultimo ballo di Charlot

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Campiello Opera Prima

Matteo Cellini,

Matteo Cellini, Giovanni Cocco, Valerio Magrelli, Beatrice Masini, Ugo Riccarelli e Fabio Stassi ci raccontano i loro romanzi, con uno sguardo attento anche alle urgenze critiche della loro opera.

Cate, io

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C a m p i e l l o G i ova n i

Ilaria Catani, Un ricordo

16 Valentina Giuliano,

Ilaria Catani, Valentina Giuliano, Alberto Vignati, Paola Vivian e Alberto Zanella ci parlano dei loro racconti e della loro emozione nel trovarsi, per la prima volta, in una finale così importante.

Ibrido di fuoco

18 Alberto Vignati,

Girasole impazzito di luce

Personalità molto diverse tra loro ci accompagnano in un percorso variegato nella letteratura e nella scrittura.

20 Paola Vivian,

Diciassette e cinquantaquattro

22 Alberto Zanella,

Agenzia Letteraria, Lit-Blog & Webzine

Le strade primitive

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Direttore

Morgan Palmas info@sulromanzo.it

Project Manager Gerardo Perrotta

Art Director Daniele Vignato

Redazione

Daniele Duso Elena Spadiliero Enza Moscaritolo Sandro Pezzelle

Sul Romanzo

Speciale Premio Campiello

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Giovanni Cocco,

La caduta di Morgan Palmas

premio campiello Giovanni, il tuo caso è quanto di più bello possa accadere nella complicata giungla editoriale: alcuni anni di bruciante accelerazione nella scrittura e ora finalista al Premio Campiello, come ci si sente? Quali sono le tue emozioni? Un anno fa, di questi tempi, ricevevo un rifiuto dietro l’altro per il manoscritto de La Caduta. “Troppo complicato”, mi sentivo ripetere. “Non è ambientato in Italia”, “non è un vero romanzo”, “non è scoccata la scintilla”. Poi è arrivata Nutrimenti, che ha deciso di scommettere sul quel testo. Un mese più tardi gli editori più grandi scatenavano un’asta per acquisire i diritti di Ombre sul lago che, al contrario, era un romanzo noir di impianto decisamente più tradizionale (scritto insieme a mia moglie, Amneris Magella). Nei mesi successivi è accaduto di tutto: i diritti di Ombre sul lago, che nel frattempo è stato pubblicato da Guanda (a soli due mesi di distanza da La Caduta, credo si tratti di un record assoluto per un esordiente), venivano acquistati in Albania, Spagna, Messico, Cile, Argentina, Germania, Paesi Bassi, Polonia e Belgio, da case editrici importantissime come Rowohlt Verlag, Ambo Anthos e Editions sur le Noir. La Caduta intanto, uscito alla fine di febbraio, mieteva consensi di critica e di pubblico (siamo in seconda edizione), arrivando a totalizzare qualcosa come 50 tra recensioni e interviste. Il lavoro fatto dalla casa editrice è stato impressionante. Adesso gli editori più grandi si contendono quelle stesse cose che per 9 anni hanno regolarmente rifiutato. Che dire? È curioso. Ti confesso – Giovanni e io non siamo amici, non ci siamo mai incontrati, ma abbiamo avuto solo qualche scambio via mail a partire dal 2009 – che il piccolo aneddoto che mi riguarda mi ha colpito. A volte si

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creano percorsi strani che portano a risultati dotati di bellezza: ti va di raccontare brevemente che cosa c’entro io con il tuo romanzo in cinquina? Era l’inizio del 2009 e da tempo ero alla ricerca di un dispositivo narrativo che mi consentisse di dire più cose. Uno schema, una gabbia. L’idea era quella di un romanzo polifonico, che parlasse di tematiche come la Crisi finanziaria che stava investendo l’Europa, l’aborto, la migrazione forzata, le periferie in subbuglio, il Mediterraneo in fiamme, le catastrofi naturali e quelle dettate dal progresso tecnico-scientifico. Un giorno mi sono imbattuto in Come scrivere un romanzo in 100 giorni. L’ho letto in poche ore. Beh, quel blog offriva un metodo, una serie di indicazioni pratiche, a cominciare dal famoso spicchio posto all’inizio. Sono partito da lì. Poi, nel corso degli anni, lo schema si è modificato molte volte. Qual è stata poi la genesi de La caduta? Quanto è durato il periodo di scrittura? Nell’autunno del 2009 scrissi il primo racconto di quello che sarebbe poi diventato il primo capitolo de La Caduta. A quei tempi non avevo ancora ben chiaro in testa cosa volessi fare. Avevo però ben presente tutto ciò che avrei voluto evitare. La Caduta è nato per sottrazione, per reazione eguale e contraria a tutto ciò che era stato prodotto in Italia a partire dal 1996, l’anno di Gioventù Cannibale e di Superwoobinda di Aldo Nove. Un formidabile momento di rottura degenerato poi in maniera. Volevo evitare in tutti i modi di raccontare quello che facevano tutti, la solita storiella dell’Italia di provincia in salsa generazionale e giovanilista, le mie beghe personali, le secche delle posizioni ideologiche. All’inizio del 2010 il progetto di “Genesi” aveva assunto una forma diversa: si trattava di un grande Speciale Premio Campiello


romanzo postmoderno, con un impianto poderoso articolato in 4 sezioni, a loro volta costituite da 5 episodi ciascuna. Un’impresa titanica, per ambizioni e dimensioni. L’idea di fondo era quella di un lavoro in cui, a fronte di orizzonti di tempo e di luogo che cambiavano di episodio in episodio, la vicenda centrale rimanesse sempre la medesima: la progressione di una vita umana, dal concepimento alla morte, attraverso i 4 stadi dell’esistenza: Infanzia, Adolescenza-Gioventù, Maturità, Vecchiaia. Credo di avere scritto, lungo un arco di 30 mesi, non meno di duemila cartelle dattiloscritte, riscritte più e più volte, per un totale di dieci stesure parziali e tre definitive. Alla fine del 2011 il progetto di “Genesi” era ben avviato e comprendeva le prime due sezioni completate del testo pensato tre anni prima. La versione finale di “Genesi” (il progetto complessivo di cui La Caduta è la prima parte) prevedeva un romanzo di oltre mille pagine. Troppo per chiunque. L’incontro con l’agenzia Vicolo Cannery (e con Tommaso De Lorenzis in particolare) e Loredana Rotundo mi ha poi convinto a snellire il romanzo, a suddividerlo in 4 parti. Perché hai scelto di conficcare la storia nella contemporaneità? Perché non c’era, in Italia, un romanzo che raccontasse la Crisi dell’Occidente. Perché la cronaca è fonte di occasioni narrative. Perché l’ambizione era quella di dimostrare che anche in lingua italiana è possibile percorrere strade alternative.

(autori come Percival Everett, Margaret Laurence e, tra gli italiani, Francesco Permunian e Filippo Tuena), un team vincente guidato da Andrea Palombi e Ada Carpi. Ho avuto la fortuna di incontrare l’interlocutore giusto, il migliore che potessi trovare, e professionalità straordinarie: un grandissimo editor, Riccardo Trani. Il miglior ufficio stampa d’Italia, quello guidato da Luigi Scaffidi. Dora di Marco ai diritti esteri, che è stata in grado di portare i diritti del romanzo nella più importante casa editrice israeliana (Keter). E poi Emmanuela Nese e tutti gli altri ragazzi della redazione. Lavorare con loro è stimolante. Stai già lavorando a un nuovo romanzo: ci puoi dare qualche anticipazione? Il mio prossimo romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli (collana i Narratori) all’inizio del 2014. Si tratta di un lavoro completamente diverso dai due libri appena pubblicati. Il progetto “Genesi” continuerà con Nutrimenti (l’uscita de La Promessa, il secondo episodio, è prevista per l’autunno dello stesso anno): squadra che vince non si cambia. E di sicuro tornerà anche Stefania Valenti (il personaggio seriale della saga noir), la figura a cui sono più affezionato. Nel frattempo usciranno le traduzioni de La Caduta e di Ombre sul lago.

Ci racconti il tuo rapporto con Nutrimenti, casa editrice che gode di grande stima anche presso gli addetti ai lavori? Nutrimenti rappresenta un’eccellenza nel panorama editoriale italiano. Un catalogo di prestigio Sul Romanzo

Speciale Premio Campiello

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Valerio Magrelli,

Geologia di un padre di Daniele Duso

premio campiello Geologia di un padre, edito da Einaudi, narra di una distanza, definita geologica, colmata post-mortem nel ricordo. Come pensa di essere riuscito a superare qualche possibile ambiguità della memoria? Apprezzo questo concetto di ambiguità della memoria, ma penso di non averlo voluto superare. Ho semplicemente cercato di impiegare i ricordi nella mia personalissima prospettiva, dunque in modo del tutto soggettivo, tant’è vero che, in una pagina piuttosto esplicita, dichiaro di non volermi servire della documentazione che pure avevo sottomano. Insomma, ho preferito attenermi agli appunti, alle note, ai ricordi, alle indicazioni delle persone che erano state vicine a mio padre. In verità, poi, mi è capitato di leggere una magnifica recensione nella quale Federico Francucci nota come io mi contraddica e attinga a piene mani agli archivi dell’Istituto Antifascista di Milano, per esempio a proposito del cugino antifascista di mio padre. È vero che, non essendo uno studio scientifico bensì una prosa, il mio libro va contro le regole che mi ero dato. Ma, ripeto, quello che mi stava a cuore era soprattutto cercare di ricreare la presenza di mio padre, dunque non tanto sciogliere le ambiguità della memoria, ma scegliere, scegliere invece di sciogliere, quelle più rappresentative. I capitoli del romanzo sono 83, come gli anni di suo padre. Oltre la funzione estetica, confluiscono anche in una numerologia con significati simbolici più complessi? Rispondo con due indicazioni. La prima è che io ho fatto ricorso da sempre a simili apparati numerologici: il mio primo libro aveva novanta testi divisi in due parti da quarantacinque; Addio al calcio, scritto trent’anni dopo, imita i minuti di una partita di calcio, e quindi ricorre di nuovo al numero novanta, diviso in due per rappresentare i due tempi da quarantacinque. Io però, più che altro, riporterei tutto ciò agli schemi dell’OuLiPo

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Sul Romanzo

(Ouvroir de Littérature Potentielle, ndr), il famoso gruppo di scrittori che ruotava in Francia intorno a Queneau e Perec; questo per dire che nelle mie scelte non c’è altro, nulla di dantesco, nulla di simbolico. Una cosa comunque va precisata: dopo aver fatto la mia scelta, e quindi dopo la pubblicazione del libro, pochi mesi fa ho scoperto due titoli. Uno, di cui ora non ricordo l’autore, fa ricorso allo stesso meccanismo, e, cosa incredibile, si fissa proprio sul numero 83. L’altro, invece, è una piccola autobiografia scritta da Derrida quando aveva 59 anni, e divisa, appunto, in 59 capitoli. Però, è un’autobiografia, mentre la mia è una biografia. Non avrei avuto alcuna difficoltà a segnalare queste fonti. Lo faccio sempre, e anzi mi diverte. Però non sono fonti, le ho scoperte dopo. Diciamo che mi ha colpito scoprire che quest’uso dei numeri e di alcune corrispondenze sia un procedimento tutto sommato abbastanza praticato, e che era già stato praticato, seppure a mia insaputa. Il romanzo si apre con un figlio che rimembra il padre. Possiamo dire che si chiude con un figlio che diventa egli stesso padre? Devo premettere una cosa: il romanzo si apre con un’introduzione scritta da mio padre, cosa in realtà impossibile, ma ottenuta grazie a una selezione di alcuni suoi disegni, dei quali io vado, lo confesso, molto fiero, dal punto di vista tipografico. Volevo a tutti i costi inserire del materiale illustrativo, in quanto nel romanzo mio padre appare come un uomo che viveva per i suoi disegni. Inoltre, attraverso la prefazione, ho potuto recuperare il titolo che mi era stato bocciato da tutti, dai miei figli, da mia moglie, dagli amici, dagli editori, cioè L’uomo di Pofi (che dà il titolo alla prefazione, ndr). Allora ho avuto l’idea di questa introduzione “muta”, scritta da una persona morta da anni, che, però, in qualche maniera, servisse a orientare il lettore. Speciale Premio Campiello


Com’è stato esattamente osservato, il libro si chiude con un figlio che diventa egli stesso padre, però un padre diverso. Ho sempre prediletto le strutture ad anello, o meglio, ad elica, a spirale, che compie lo stesso giro, però spostandosi di livello, tenendo conto di questa progressione che non contiene in sé nessuna ascesa, ma un mero sviluppo cronologico. La paura della perdita ci costringe a portare nel presente, con moto perpetuo, le vivide immagini di un passato che vorrebbe offuscarle. Perché ha deciso di condividere con la prosa questa storia e non in versi? È una domanda molto interessante per me. Io ho cominciato a scrivere in prosa su sollecitazione. Amo molto la poesia d’occasione, la poesia sur commande, come dicono i francesi. Mi piace perché mi obbliga a trovare qualcosa che altrimenti non avrei mai individuato. Quindi laddove molti vedono artificio e volontarismo, io invece apprezzo la possibilità di esplorare qualcosa che magari avrei ignorato. Ecco, nel 1990, mi pare, Gianni Celati mi telefonò perché scrivessi due racconti per una rubrica che teneva su un giornale. Io caddi dalle nuvole, gli dissi «Non ho mai scritto racconti». «Lo so bene – mi rispose – proprio per questo mi piaceva che ci provassi». Quei racconti sono poi confluiti in un libro di poesie, nel quale ho mescolato addirittura versi e traduzioni; era intitolato Esercizi di tiptologia e uscì nel 1992. Un mio amico musicista gli diede una definizione che mi piacque molto, disse che era un testo così anomalo, confuso, che ricordava un ornitorinco. In effetti, a me è sempre piaciuto rompere i generi, da qui l’uso delle immagini. Sviluppando il “concetto dell’ornitorinco” sono arrivato all’idea di una scrittura anfibia, nel senso che veramente oscilla tra versi e prosa. E ormai ho quasi “pareggiato i conti”, visto che i miei libri di poesia sono cinque, mentre quelli di prosa sono quattro (anche se credo che il prossimo sarà di poesia). C’è insomma un oscillare che ho ritrovato in uno dei miei maestri, ossia il grande scrittore ceco Hrabal, che scrisse alcune opere prima in versi, per poi tradurle in prosa. Questa forma ibrida, tra prosa e poesia, con la commistione di immagini e segni grafici, può essere un segno di un progredire della scrittura sul quale incidono poi anche le nuove tecnologie, le possibilità di sperimentare che dà la scrittura online, ad esempio, o che danno gli ebook? Sì, ma prima ancora di internet la linea della commistione tra testo e immagine risale al Settecento, con Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne. Segue Breton, con Nadja, negli anni Venti del Novecento, e infine il Winfried Sebald, lo scrittore tedesco che è diventato punto di riferimento inimitabile. A tutto ciò si aggiungono le infinite possibilità dei link, di internet, che io trovo affascinanti. Ho un Sul Romanzo

atteggiamento di estrema apertura, perché, devo dire, la mia formazione è stata sperimentale. Pur essendo in dissidio con le avanguardie, se c’è una cosa che ho trattenuto del loro passaggio è stato proprio il piacere di sperimentare, di giocare. Mi limito a un esempio: in genere le copertine dei miei libri le faccio io, quindi, laddove posso, io mi impossesso totalmente dell’oggetto. Molto spesso scrivo la quarta di copertina, scelgo le fotografie, addirittura il mio primo libro di prosa, Nel condominio di carne, aveva in copertina una radiografia di una mia gamba che aveva come titolo “autoritratto rettificato”. «Ospitati dentro caseggiati di pietra, separati dal suolo, sono riposti, sì, entro bare di legno, ma bare foderate di zinco. Così facendo, viene impedita loro ogni via di fuga». Lei ha voluto aprire una via di fuga per suo padre? Grazie, è un’immagine bellissima, quella della via di fuga. È proprio così, non avrei saputo dirlo con parole migliori. È così, proprio una via di fuga. Sartre sosteneva: «Non esiste un buon padre, è la regola; non bisogna prendersela con gli uomini, ma con il legame di paternità che è marcio». La solitudine dei figli è la trasfigurazione del male? Io trovo che Sartre abbia ceduto un po’ troppo rapidamente alla propria esperienza. È una bella frase, e io del resto cito quella, ancora più dura, di Joyce, che descrive il padre come “un male necessario”. Devo dire però che io non sono affatto d’accordo con questa affermazione, anzi, ho voluto dimostrare che, con tutti i difetti dovuti alla sua generazione, alla fine mio padre ha cercato di essere un buon padre, anche se non so se ci sia riuscito. Il che naturalmente nulla toglie al fatto che esistono purtroppo anche dei pessimi padri, come, probabilmente, quello di Sartre. Speciale Premio Campiello

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Beatrice Masini,

Tentativi di botanica degli affetti di Morgan Palmas

premio campiello Tentativi di botanica degli affetti, edito da Bompiani, è il suo primo romanzo rivolto a un pubblico adulto. Qual è il motivo di questa novità, un’evoluzione della sua scrittura o un tormento creativo, già intrinseco, che ora è comparso con forza? Ho sempre scritto per bambini e ragazzi seguendo la guida delle storie: quando mi viene l’idea di una storia dal punto di vista di un bambino o di un ragazzino, guardando il mondo attraverso i suoi occhi, ho la sensazione nettissima che sia anche destinata a un bambino o a un ragazzino simile al protagonista. E il corredo di parole che accompagna la storia è adeguato all’età di chi pensa e racconta o vive le storie, e di conseguenza all’età di chi potrà leggerle. Come se forma e contenuto non potessero separarsi. È una sorta di automatismo, una catena creativa sulla quale non mi sono mai molto interrogata: succede e basta. Allo stesso modo, quando ho cominciato a scrivere Tentativi ho capito subito che non poteva essere rivolto a un lettore ragazzino. La storia delle due servette esposte alla ruota avrebbe anche potuto dare il via a un romanzo per ragazzi, ma non ha preso quella strada. La protagonista, Bianca, è molto giovane, ha vent’anni, ma non è una bambina e non pensa come una bambina. E ci sono parecchi bambini nella vicenda, sono anche importanti, però sono al massimo comprimari. Dunque Tentativi è stato fin da subito un romanzo non per ragazzi. Ma senza tormenti, così, perché doveva. Peraltro è tipico dell’Italia tracciare una riga per terra e mettere i libri per ragazzi (e i loro autori) di qua, quelli da grandi di là: in altri Paesi c’è chi scrive con agio per gli uni e per gli altri senza finire per forza catalogato. La giustapposizione del mondo botanico e degli affetti trova la sua origine in una pas-

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sione dell’autrice o è stato il demone letterario che ha dominato le scelte? L’idea del demone letterario mi fa un po’ paura, a dire il vero. Il mondo botanico mi attira e mi affascina da tanto tempo, come l’arte dei giardini, anche se non sono né una botanica né una giardiniera, semmai una dilettante curiosa, e la mia passione per fiori e piante passa attraverso i libri. Il parallelo tra la classificazione di fiori e piante e quella degli affetti, che Bianca azzarda senza troppo successo, è venuto scrivendo, non era programmato. Dopo anni trascorsi a riflettere su un pubblico di ragazzi, come ha vissuto e sta vivendo, dal punto di vista linguistico, la mutazione o integrazione? La grande differenza è che con i bambini e i ragazzi non puoi dimenticarti di loro: devi sempre immaginarti la faccetta di un tipo di cinque anni che ti guarda facendo le smorfie quando non capisce qualcosa perché hai usato parole troppo difficili o hai saltato qualche passaggio logico o hai scritto in un modo troppo compiaciuto, che non gli interessa o lo annoia. Detto questo, scrivere per ragazzi dà un’enorme libertà di sperimentare, di giocare, di condurre il lettore. C’è chi pratica una scrittura rassicurante, semplificata, un po’ neutra; a me è sempre piaciuto sfidare il lettore, spostare più in alto l’asticella, anche a rischio di risultare difficile. Con gli adulti, posto che non si può e probabilmente non si deve scrivere per tutti, perché non esiste un tutti, e meno male, si è semplicemente privi di quel genere di vincoli. Così nei Tentativi ho cercato di usare un linguaggio che desse l’idea del primo Ottocento senza essere aulico o troppo forbito, anche perché doveva esprimere il mondo interiore di una giovane donna non troppo figlia del suo tempo, ma un passo

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avanti, puntata come una freccia verso il futuro. E comunque ogni storia ha le sue parole, vuole e prende la sua forma e non può essere raccontata se non così.

parte Jo Nesbø, Michael Connelly, Ian Rankin, Elizabeth George, Ruth Rendell. E ho letto molta poesia: uno dei miei poeti preferiti è Giovanni Giudici.

Come gestisce il rapporto fra la sua attività lavorativa, dedicata alla scrittura altrui, e le sue opere? Non c’è il rischio, se di rischio si può parlare, di un fenomeno ibrido nel quale i confini sono cangianti di continuo? I confini in verità sono molto chiari, anche perché difficilmente scrivo mentre lavoro: non ci riesco, la testa non può essere qua e là allo stesso momento. La scrittura è il mio tempo, le vacanze, quando l’editor si prende una pausa e si limita a leggere inediti. Ho sempre sentito come un vantaggio essere una persona pratica di scrittura nei rapporti con gli autori: aiuta a capire meglio i loro desideri ma anche i timori, a sentire quando hanno bisogno di essere sostenuti e incoraggiati e quando è meglio lasciarli soli, senza fare pressioni, quando serve dar loro spazio e quando invece è utile incalzarli. Per il resto, un editor è un gran lettore, e uno scrittore anche. Ho sempre considerato un enorme privilegio poter leggere per lavoro.

Non crede che la letteratura italiana, o meglio, l’editoria italiana soffra di esterofilia guardando le vetrine delle librerie? Non ho questa sensazione. Semmai il problema è che si pubblica troppo di tutto. Che cosa si aspetta dalla serata finale del Campiello? Sarà bellissimo. Sarà terribile. Sarà bellissimo.

Quali sono gli scrittori che più hanno avuto un significato formativo fondamentale nella sua vita? Parecchie signore e signorine scrittrici, dalle sorelle Brontë a Jane Austen a Katherine Mansfield a Edith Wharton a Elizabeth Bowen a Virginia Woolf. Poi John Steinbeck, John Irving, Marilynne Robinson, Hilary Mantel coi suoi meravigliosi romanzi storici, Antonia Byatt. Insomma, perlopiù inglesi e americani. Ho anche una gran passione per gialli e thriller: del mio Olimpo fanno

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Ugo Riccarelli,

L’amore graffia il mondo di Enza Moscaritolo

premio campiello Un inno alla donna, alla sua capacità di amare e di generare. È dedicato alle donne e ai sentimenti straordinari di cui possono essere capaci l’ultimo libro dello scrittore Ugo Riccarelli: L’amore graffia il mondo (Mondadori, 2012) che figura nella cinquina dei titoli in gara per il Premio Campiello 2013. A quasi dieci anni di distanza dalla vittoria del Premio Strega nel 2004 con Il dolore perfetto (Mondadori), una “rivincita” per lo scrittore toscano-piemontese che torna a raccontare di una donna con una prosa asciutta eppure icastica: «Sono soddisfatto, naturalmente, non soltanto per il premio in sé, che pure mi gratifica – confessa Riccarelli – ma perché in questo modo si parla del libro, la storia ha modo di circolare e di farsi conoscere. Quando scrivi un libro, è come lanciare una bottiglia nel mare, non sai mai dove andrà a finire». Un uomo che scrive e racconta dal punto di vista femminile, un po’ come era avvenuto già ne Il dolore perfetto: come mai? Mi ha sempre affascinato, sotto l’aspetto creativo, il punto di vista femminile, quest’ottica e questo approccio al mondo che è abbastanza diverso da quello degli uomini. Sono convinto che ciascuna donna, per essere se stessa in questa società, debba pagare un prezzo molto alto: è costretta a rinunciare a una parte di sé, a realizzarsi pienamente, oppure a vivere la maternità. C’è sempre un dovere che incombe su di lei come una spada di Damocle, che pende sul suo destino e ne impedisce una piena e consapevole espressione. Ogni donna deve preoccuparsi degli altri, della famiglia, dei figli o dei genitori, della società e questo limita e frustra le sue scelte, la costringe a fare delle rinunce. Come nel caso della prota-

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gonista, Signorina, sembra portare il destino nel nome. Suo padre, capostazione in un piccolo paese di provincia, l’ha chiamata così ispirandosi al soprannome di una locomotiva molto elegante. E creare eleganza, grazia, bellezza è il suo talento. Un giorno dal treno sbuca un omino con gli occhi a mandorla e, con pochi semplici gesti, crea un vestitino di carta per la sua bambola. L’omino scompare, ma le lascia un dono, un dono che lei scoprirà di possedere solo quando una sarta assisterà a una delle sue creazioni. Ma sarà costretta a fare delle rinunce. Il rapporto di una madre con i suoi figli, a volte, può essere difficile, a tratti brutale e cattivo. Per questo ho scelto il titolo L’amore graffia il mondo. Certo, sono stati compiuti passi da gigante rispetto al passato e il cammino di emancipazione è avviato, ma non è per nulla consolidato e le cronache degli ultimi mesi ce lo richiamano continuamente. E allora da dove ha tratto ispirazione per la storia di Signorina? Come tutti coloro che scrivono, anch’io ho inserito qualcosa di autobiografico. Ci sono echi della mia famiglia e alcuni tratti ricordano la figura di mia madre. Però, più in generale era il punto di vista femminile che volevo indagare rispetto al sentimento e all’amore: mi hanno ispirato i sacrifici che le donne sono in grado di compiere in nome dell’amore. Anche noi uomini amiamo e soffriamo, ma siamo avvantaggiati da una distanza, da una lontananza rispetto alle cose che ci permette di vivere le vicende quotidiane con più freddezza.

Francamente non ho pensato ad alcun paragone, per quanto la letteratura sia piena di figure di questo genere. Forse, a ben vedere, sono le figure femminili della mia famiglia, del mio vissuto da bambino a riemergere. Ci sono mia madre, come dicevo, e mia nonna certamente, in particolare la sua caparbietà, la sua tenacia, la sua incrollabile forza di volontà con cui ha affrontato ben due guerre e difficoltà di ogni genere. Come costruisce i suoi personaggi? Andrea Molesini, vincitore del Premio Campiello nel 2011, ci ha rivelato di scrivere in un quaderno tutte le caratteristiche di ogni personaggio per conoscerlo meglio quando passa alla fase della scrittura… Ognuno ha le sue tecniche di scrittura, indubbiamente, e persegue quelle che gli sono più consone. Nel mio caso, posso dirle che quando sono assalito dalla storia, scrivo per immagini e ciascun personaggio emerge fuori quasi in maniera autonoma. Credo che, a volte, le cose che funzionano si scrivano da sole. È contento di far parte di questa cinquina? Certamente. Conosco di persona Valerio Magrelli, con cui ho collaborato, e che apprezzo molto. Degli altri avrò senz’altro piacere di leggere i lavori.

Nessuna eroina della letteratura o del cinema assomiglia, dunque, alla protagonista?

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Fabio Stassi,

L’ultimo ballo di Charlot di Morgan Palmas

premio campiello L’ultimo ballo di Charlot, edito da Sellerio, affronta il tema della sfida lanciata dal singolo alla Morte, come espressione del desiderio di continuare a vivere. Il “ballo” del suo romanzo può essere ricondotto alla partita a scacchi proposta da Bergman ne Il settimo sigillo? In questa storia, ho inserito molti riferimenti cinematografici e letterari. Quello di Bergman è sicuramente il più manifesto e dichiarato. Ma Chaplin era innanzitutto un ballerino, e per lui ho immaginato una danza, una pantomima, piuttosto che una partita a scacchi. Ma in questa sfida anche la Morte un poco si mette in gioco. In qualche modo, si umanizza. Ride, per esempio, e le piace. Sembra voler perdere. E quando alla fine deve compiere il suo lavoro, ne è dispiaciuta, lo fa a malincuore. È una Morte che partecipa alle vicende degli uomini, ne è incuriosita, si mette nei loro panni, prova dei sentimenti. Nella metamorfosi di Charlie Chaplin in Charlot è possibile ravvisare, in un certo senso, l’appiattimento della persona sul proprio personaggio fino a giungere a una perdita dell’identità che viene riscoperta soltanto in punto di morte? Charlot è la maschera che contiene l’intera vita di Chaplin, compendia il suo passato, le sue esperienze, ma come tutte le maschere universali diventa più vera del vero perché finisce per appartenere a tutti. Una maschera non è un resoconto o un riassunto. È il cuore intimo di un’identità. In punto di morte, Chaplin si ricollega a quella che per lui rappresenta la verità più profonda della sua esistenza, ed è questa verità che desidera comunicare al figlio.

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Il ritorno di Charlot a Chaplin, che chiude un ciclo di disvelamento, può in qualche modo ricordare l’escamotage narrativo alla base de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde? Il ritratto di Dorian Gray è stata una delle letture più appassionanti della mia adolescenza. Sono sempre stato affascinato dal fantastico e dalla fantascienza, anche dal punto di vista del particolare meccanismo narrativo che l’introduzione di un elemento irreale determina in un racconto e nella curiosità di un lettore. Forse sì, questa lunga lettera di Chaplin a suo figlio è alla fine una ricomposizione dell’autore con il suo personaggio, dell’immagine riflessa con lo specchio. Chaplin è un uomo mancino, un dorso come diceva nelle interviste, un uomo che sta dal lato mancino delle cose. Charlot è la sua proiezione. Un lettore, una volta, a Torino, mi ha detto che avevo scritto una storia sull’integrazione dell’ombra. Mi è parsa una definizione molto bella e sin troppo generosa. «Non le avrei strappato neppure un sorriso se non fosse stato per la mia stessa vecchiaia, che è l’età più comica che si può avere». Lei ritiene che la comicità della vecchiaia sia dovuta ai limiti fisici dell’età, oppure a una maturità acquisita? Io credo che il suo sia un modo di non prendere troppo sul serio neppure la vecchiaia e, soprattutto, sé stesso. Alla fine, è un uomo come tutti. Naturalmente, nei punti in cui si manifesta la fragilità della condizione umana si dilatano sia le possibilità della tragedia che quelle della commedia. La comicità di Chaplin è una comicità sovversiva e non reazionaria perché sceglie sempre di stare

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dalla parte del personaggio-uomo e delle sue debolezze e di dargli la possibilità, almeno in una piccola scena, di riscattarsi con una risata dalla prepotente serietà della vita, dove invece questo non accade mai. La precarietà esistenziale dei personaggi del suo romanzo ricorda, anche se con forme diverse, quella vissuta da molti giovani italiani. Che cosa si sente di consigliare loro? I consigli sono una pratica difficile, si rischia sempre un paternalismo che non mi piace. L’unica cosa che posso dire è che in un momento difficile della mia vita trovai in un libro di Vittorio Foa questa frase di Giambattista Vico: «Sembrano traversie ma sono opportunità». Da allora, è un po’ il mio manifesto. Le traversie le incontreremo sempre. Il difficile è rovesciarle in qualcosa di positivo. La vita è l’arte della capriola. Lei è sia bibliotecario sia scrittore, unendo così due anime. Si sente un po’ Charlot? Non so. Un po’, forse. Come Charlot, a volte mi sento spaventosamente inconciliabile con il mondo, un po’ fuori misura o fuor d’acqua, con gli abiti e le scarpe scambiate. Ma è una sensazione che appartiene a milioni di persone. Cerco di sforzarmi e di fare del mio meglio: ma non mi dimentico che prima che bibliotecario e scrittore, che è una parola troppo grossa, e importante, per me, sono un pendolare e il treno che condivido tutti i giorni con gli altri pendolari, ormai da vent’anni, è uno dei pochi luoghi dove non mi sembra di essere nel posto sbagliato.

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Matteo Cellini,

Cate, io di Morgan Palmas

campiello opera prima

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Cate, io, pubblicato da Fazi, ha vinto il premio Campiello Opera Prima narrando una storia di discriminazione e di lotta quotidiana. È la disperazione di Caterina che dona coraggio, oppure l’intelligenza della ragazza si affina conseguendo comportamenti strategici e poco istintivi? Caterina addomestica la disperazione con l’intelligenza. L’attutisce e la circonda di gommapiuma. La disinnesca come un artificiere, guida e controlla le esplosioni di dolore. Occorre tutta la sua intelligenza per riuscirvi: è una equipe intera di geologi, ingegneri e architetti che edifica una fortezza intorno alla sua disperazione. Questa fortezza ha feritoie e non finestre, ponti levatoi sigillati. La sua intelligenza e la sua disperazione non hanno previsto tempi di pace, hanno letto il comportamento degli altri come un ultimatum e si sono disposte alla guerra, esclusivamente: la stupidità della sua intelligenza e la forza della sua disperazione sono tutte qui, nel loro integralismo, nella loro compattezza: e se ci fosse la pace, anche la pace, là fuori?

forme più o meno tenui accompagna l’adolescenza, perché di adolescenza, in fondo, si tratta: lo scontro sull’autostrada dei propri sedici, diciassette anni del modo in cui vogliamo essere col modo in cui ci vedono gli altri, dei nostri sogni purissimi con la realtà.

In un processo di destrutturazione del vissuto, in una battaglia di svelamento di ciò che si è indipendentemente dal giudizio altrui, l’obesità diventa argomento di riflessione e ironia. Lei crede che il suo romanzo possa aiutare chi ne soffre? Credo che il romanzo possa aiutare perché non ha intenzione di farlo. Non è una faretra di messaggi e pillole salvifici, è semplicemente una storia, la storia di Caterina. Ed è una storia della sua taglia, un vestito sartoriale su misura: ma può aderire alle vite di tanti - soltanto una spalla o le maniche, sul petto o sui bottoni – di tanti: e non tutti obesi, perché l’obesità è la declinazione di un disagio che in

L’io narrante è spietato ed esclusivo. C’è una ragione famelica simbolica che accompagna la narrazione? C’è una ragione icastica. Il romanzo è un vulcano che si costruisce attorno la frattura dell’io di Caterina. Circolarmente cresce e si solidifica in immagini – similitudini e metafore – che spostano ad ogni pagina i confini della sua sofferenza e, insieme, della sua mole. È una obesità di parole che privata di ogni dato oggettivo (Caterina nessuno sa quanto pesi, quanto sia alta, quali siano i suoi lineamenti) fluttua magmatica tutt’intorno al lettore e avvolge, soffoca, impedisce di vedere se non attraverso i suoi occhi.

Sul Romanzo

Il laboratorio ramificato interiore di Caterina abbraccia di continuo la letteratura, come nel rapporto con la professoressa d’italiano. Ha scelto l’immaginario letterario della ragazza con precise logiche? Sì; c’è una bibliografia che sostiene la storia, puntellandola. Pirandello, Tozzi, Gadda sono autori di un programma di quinta liceo, ma non è solo questa appartenenza a giustificarne la presenza: sono anche autori che amo particolarmente (come Tozzi, quasi dimenticato artefice di una splendida prosa asimmetrica), che affrontano tematiche aderenti, esplicitanti il punto di vista e la situazione di Caterina (il Pirandello de Il fu Mattia Pascal e de Uno, nessuno e centomila) donando alla sua vicenda un respiro più profondo.

Speciale Premio Campiello


Più volte nel romanzo il connubio scrittura/lettura funge da oblio partecipato nelle giornate di Caterina, quasi a voler marcare una cesura fra fuori e dentro, fra possibile e impossibile. Lei reputa che la solitudine debba contemplare se stessa, e quindi la sua bellezza, grazie alla lettura/ scrittura o forse, senza ipocrisie, solo così la solitudine acquista una pesantezza più leggera? Ho sempre trovato estremamente affascinante la solitudine nelle biografie degli scrittori: di più le solitudini non scelte, ma imposte: solitudini consapevoli, comunque. Caterina va verso gli altri con entusiasmo, sa che la felicità è tale solo se condivisa, vuole omologarsi senza essere omologata (paradosso pulsante dell’adolescenza): la solitudine in cui viene rinchiusa è un luogo in cui non vuole assolutamente trovarsi. È lì per il suo peso, per lo spazio che occupa il suo corpo: sa bene che sopporterebbe l’emarginazione per difendere, anche da sola, una sua idea – ma non per la sua grassezza. Non se l’è scelta, è. Ed esistono quindi diverse solitudini, alcune bellissime e letterarie, altre che invece non andrebbero mai vissute: la storia di Caterina è una di queste.

Sul Romanzo

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Ilaria Catani,

Un ricordo di Elena Spadiliero

campiello giovani Ilaria Catani. Tenete bene a mente questo nome, perché se è vero che intende fare della scrittura «la propria vita», sentirete ancora parlare di lei. Intanto, si gode il successo di essere fra i cinque finalisti del premio Campiello Giovani, giunto alla diciottesima edizione. Il suo nome è stato annunciato il 19 aprile scorso, insieme a Valentina Giuliano di Salzano (Venezia), Alberto Alarico Vignati di Corsico (Milano), Paola Vivian di Marostica (Vicenza) e Alberto Zanella di Santorso, sempre nel vicentino. Ma chi è Ilaria Catani? Una ragazza abruzzese di ventidue anni, diplomata al liceo scientifico e laureanda in Lettere e Filosofia. È abituata a raccogliere molte idee, lasciarle maturare e, quando sono pronte, farle uscire tutte insieme: la scrittura non è una mansione quotidiana, ma Ilaria ha la capacità di svolgere in una settimana un lavoro che richiederebbe come minimo alcuni mesi. Sicuramente Un ricordo, la storia che l’ha fatta entrare nella cinquina finale del Campiello, trabocca di spunti e suggestioni, ma già dalla trama si capisce che alla base c’è anche una storia di dolore e sofferenza. La protagonista, Gina, è un’anziana signora, rinchiusa in una casa di riposo e isolata da tutti, perché ritenuta pazza. Un giorno, riceve una visita, un suo coetaneo, che ella stenta a riconoscere: è Filippo, il primo, grande amore della sua vita. Ripercorrendo con la memoria l’infanzia di Gina, scopriamo una vicenda fatta di abusi da parte del padre, il quale, per separare la figlia da Filippo, la rinchiude in un ospedale psichiatrico, dicendo poi al ragazzo che Gina ha deciso di prendere i voti. Ma l’amore, si sa, è pieno di risorse e arriverà anche per i due innamorati il momento di rincontrarsi, chiarirsi e, per Filippo, scoprire un’inattesa verità. Abbiamo fatto qualche domanda a Ilaria, soprattutto per capire meglio com’è nato Un ricordo.

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Sul Romanzo

Ilaria, da dove è arrivata l’idea di base per il tuo racconto? È stata casuale, oppure qualcuno o una vicenda in particolare ti ha ispirata? Come tutte le idee che prendono piede nelle mia mente, anche questo racconto è giunto improvviso, inaspettato. Un momento prima ero tranquillamente impegnata nello sciogliere un cucchiaino di zucchero nel caffè e un momento dopo… pam, tutto diverso! Mi era bastato sentire un brandello di conversazione perché la mia mente venisse letteralmente intasata da scene di violenza. Il caffè non mi andava più, ero letteralmente sbigottita dall’atrocità di cui può farsi protagonista il genere umano. Rimasi impressionata per giorni; di violenze sulle donne ne sentivo tante, purtroppo, ma mai mi sarei aspettata che un padre potesse far rinchiudere una figlia sana, sanissima, in un ospedale psichiatrico! Credo, infatti, che l’aspetto più terrificante di questa storia non si nasconda tanto dietro la violenza, ma più che altro dietro ad un tempo impietoso, che ti lascia ad osservare, inerme, mentre il tuo corpo viene abbandonato dalla giovinezza e da tutte le speranza di vita. «La vita è una» mi ripete spesso mia nonna, ma questo non vale per la scrittura. Ero decisa a dare a questa donna un’altra chance. Si meritava un lieto fine. Stiamo parlando di una storia d’amore, ma anche di violenza. Negli ultimi tempi, si è sentito parlare spesso di violenza sulle donne da parte, soprattutto, dei loro compagni; tuttavia, anche la violenza di un padre su una figlia è una cosa terribile e purtroppo non si tratta di episodi isolati. Pensi di essere riuscita ad affrontare con la giusta sensibilità questo argomento? Essendo cresciuta in una famiglia dove d’amore ce n’è a bizzeffe, non so con precisione cosa siano il dolore, l’incomprensione, l’indifferenza. Spero però che la mia sensibilità mi abbia aiutata adeguataSpeciale Premio Campiello


mente a rivestire i panni di questi personaggi. Avere a che fare con Gina non è stato semplice; come può sentirsi una ragazzina violentata dal padre? Spaventata, terrorizzata o improvvisamente spavalda, come se ormai nulla nella vita potesse farle paura? Matura, sicuramente. Costretta a crescere in fretta. Cinica. Ma come sarebbe diventata Gina da adulta? Come sarebbe diventata la donna che si affacciava alla vita prima di essere rinchiusa? Isterica e intimidita? Chiusa in se stessa, in un bozzolo protettivo, o forse disinibita? Gina è una ragazza come tante, intelligente, restia al dolore e pronta a innamorarsi, a cui la vita ha solo destinato un fardello più grande, ma le sue spalle minute sono rimaste diritte. Non è impazzita, non è fuggita, non si è fatta schiacciare. È rimasta se stessa; una donna dopo una violenza rimane una donna. Con le sue domande, con le sue paure e speranze. Con la voglia di dimenticare e di continuare a vivere. Filippo è stato un altro discorso: ingenuo, buono e follemente innamorato. Elemento sempre positivo, ma non per questo meno vittima. Puoi darci qualche anticipazione per il futuro? Nuovi progetti letterari all’orizzonte? Ho tanti progetti! Alcuni devono essere ancora definiti, altri sono ormai maturi. Ad Aprile ho pubblicato il mio primo romanzo, intitolato Ghevril e i popoli magici. È di genere fantasy, ma pur ambientato in una cornice totalmente immaginaria, ha risvolti che richiamano la quotidianità, perciò confido che piacerà anche a coloro che spesso affermano: «A me i fantasy non piacciono». Spero di continuare su questa stessa strada con almeno altri due romanzi, le avventure di Ghevril quindi continueranno, ma ho anche altre idee in cantiere. Il mio prossimo traguardo sarà scrivere un romanzo storico sul mio paese, Corfinio. Ho letto che ti piace leggere – e portare con te nei tuoi viaggi in treno – libri di quasi mille pagine. La maggior parte dei lettori fatica ad approcciarsi sistematicamente a opere così lunghe, c’è un motivo per cui tu le prediligi? E c’è un genere particolare che ti intriga di più? La maggior parte dei lettori evidentemente non legge per passione, altrimenti non si lascerebbe impressionare dal numero delle pagine. In molti, troppi, ignorano le emozioni che un buon libro ti può donare. Quelli che si accostano alla lettura a un’età più matura rimangono in genere stupiti di quanto delle pagine nero su bianco riescano a trasmettere, e di quanto tempo abbiano sprecato senza leggere. «Non lo leggo, tanto ci faranno il film». È una frase ridicola; chi pensa di gustarsi in questo modo tutto il piacere senza la fatica, sbaglia di grosso. Il piacere sta tutto nella carta, tra le virgole e punti interrogativi, tra l’immedesimazione nei personaggi e tra lo spazio che viene lasciato alla fantasia. E questo mi riporta alla prima domanda: prediligo i libri lunghi perché vorrei che una storia non finisse mai. Per quanto riguarda il genere, invece, non ne ho proprio uno preferito. Mi accosto un po’ a tutti i tipi di letture, anche se, pure dopo otto ore di studio, c’è sempre posto per un fantasy o un romanzo storico. Sul Romanzo

Che stai leggendo in questo periodo? In questo periodo, leggere è diventato un po’ un’avventura, perché il tempo a mia disposizione non è molto. Tra lo studio, le lezioni e impegni vari, mi ritrovo puntualmente a leggere nei momenti e nei luoghi più impensabili; in piedi ai bordi di un binario, alla fermata dell’autobus, nel bar dell’università. Tutto questo per non rinunciare al piacere della lettura. In questo momento, mi sto dedicando al terzo e al quarto volume delle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George Martin, una piacevole scoperta; ma anche nella lettura, come nella scrittura, sono abbastanza versatile. Gli ultimi libri che ho letto sono stati: Storia delle mie disgrazie di Abelardo, Il tiranno di Valerio Massimo Manfredi e La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini. E a proposito di letture, c’è qualche autore che è per te fonte di ispirazione? Hai qualche consiglio di lettura da dare ai nostri lettori? Autori che proprio mi hanno ispirata, forse non ce ne sono. Questo perché l’amore per la scrittura è nato prima di aver affrontato qualsiasi lettura che, in seguito, mi avrebbe saputo rapire. Sicuramente ci sono stati autori che hanno cambiato il mio modo di pensare una storia, che hanno indirettamente trasformato il mio modo di scrivere. La mia giovane mente ha sicuramente registrato il tono scorrevole e diretto della Rowling, facendolo proprio, e sta sicuramente apprezzando il ricco lessico di Martin, che su un milione di parole è in grado di scegliere sempre quella più appropriata, che veste alla perfezione ogni situazione. Il fatto di essermi accostata in principio alla lettura di fantasy, mi ha portato a scrivere un romanzo dello stesso genere, ma questo, come ho già detto, non mi preclude la possibilità di dar vita ad altri tipi di storie. Esempio ne è Un ricordo. Non ho letture da consigliare, ognuno ha i propri gusti. Raccomando però di leggere, leggere e ancora leggere. Speciale Premio Campiello

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Valentina Giuliano,

Ibrido di fuoco di Sandro Pezzelle

campiello giovani Valentina Giuliano, con il suo racconto Ibrido di fuoco, è uno dei cinque finalisti alla diciottesima edizione del Campiello Giovani, importante concorso letterario per scrittori under 22 che si concluderà sabato 7 settembre, con la proclamazione del vincitore al Gran Teatro La Fenice di Venezia. «Ho scritto Ibrido di fuoco nel giro di pochi giorni – racconta Valentina – e l’ho inviato il giorno stesso della scadenza del concorso. Essere stata selezionata tra i primi cinque è qualcosa che va al di là di qualsiasi mia aspettativa; non ho mai pensato alla scrittura come a un mezzo per impressionare gli altri, è sempre stata una cosa personale, intima, e tutto questo mi sembra ancora così strano, e bellissimo». Valentina ha 18 anni e vive a Salzano (VE), frequenta il liceo classico “Franchetti” di Mestre ed è alla sua prima partecipazione a un premio letterario. Ci confida che scrivere, per lei, è più un bisogno che una passione; è il suo modo di sfogare la rabbia, elaborare il dolore, imparare a conoscersi. Tra le sue cose preferite, Valentina sceglie l’azzurro e le fredde giornate d’inverno, ascoltare la musica durante le sue letture e mantenere sempre il controllo su ciò che le accade attorno. Ci racconta il suo Ibrido di fuoco come la storia di Cassie, un’adolescente che rimane coinvolta nel tragico incendio che devasta gran parte del suo villaggio e che uccide tutta la sua famiglia. Lacerata dal dolore, Cassie precipita in un limbo di incubi e di fiamme, costretta a rivivere in continuazione il giorno dell’incendio, ignara delle bruciature che le deturpano il corpo, ignara anche di se stessa. Neppure Edmund, il medico dalle mani bruciate che sembra conoscerla così bene, riesce ad aiutarla, finché la realtà non s’insinua inarrestabile tra i suoi ricordi, e con la consapevolezza di ciò che le è accaduto arriva anche l’agonia, il

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Sul Romanzo

senso di vuoto e d’abbandono, troppo grandi da sopportare. La giuria ha ammesso alla finale il suo racconto definendolo come «un affresco stupefacente e perturbante, un quadro reale e metaforico, fors’anche una lettura allegorica della nostra contemporaneità. Potente, scabroso, assolutamente accecante». Valentina, partiamo da qui. La giuria che ti ha ammesso alla cinquina ha usato 3 aggettivi “forti” per definire il tuo Ibrido di fuoco. Di sicuro è un giudizio che mi ha molto colpito. Non avrei mai pensato di sentirmi dire cose del genere mentre scrivevo questo racconto. Il solo pensiero che il prodotto di ciò che più amo fare possa essere davvero apprezzato anche da altre persone è tuttora sorprendente per me. Non posso che dirmi soddisfatta del risultato. E se dovessi provare tu? Con quali 3 aggettivi lo descriveresti? Sceglierei prima di tutto complicato. Complicato come l’insieme di vicende, situazioni, sentimenti che succedono a Cassie, che la investono in pieno senza che lei riesca più a tirarsene fuori. Per lei tutto questo diventa presto un’ossessione, un tormento. Il secondo aggettivo è irrisolto. Cassie non riesce a ricucire completamente questa ferita; per farlo ha bisogno di tanto tempo, di tanta pazienza e comprensione nei confronti di se stessa. Infine, dico surreale. La protagonista, per difendersi dal dolore, ritorna nel luogo dove sono morti i suoi genitori, un luogo dove si uniscono e confondono sogno e realtà. Tutto il racconto è basato sulla compresenza di queste due dimensioni, che si mescolano in modo inscindibile.

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La protagonista di Ibrido di fuoco è un’adolescente come te. Vuoi raccontarci chi è Cassie e come te la immagini? Cassie è una ragazza normale, che crede di condurre una vita assolutamente normale fino al momento della catastrofe. Questa tragedia la cambia radicalmente, perché la obbliga a trovare dentro di sé una forza nuova, sconosciuta, che annulla tutto ciò che lei era prima. Nel racconto non riesce a riprendersi psicologicamente; forse si intuisce che un giorno ci riuscirà, ma le servirà tanto tempo. Anche la sua condizione esteriore, il suo corpo per metà bruciato riflette quello che lei sente dentro di sé: una condizione di impotenza che al momento non riesce a sconfiggere. Posso chiederti come ti è venuta in mente questa storia? È senz’altro un racconto forte, impegnato. Qualcuno mi dice spesso che devo avere una specie di fissazione per trame non convenzionali, talvolta “catastrofiche”. In effetti, non è la prima volta che scrivo un racconto con argomenti piuttosto impegnati; mi piace raccontare storie che restano sempre un po’ a metà, che non vengono risolte completamente. E poi non mi piacciono i racconti a lieto fine. O meglio, ancora non li so scrivere, anche se non nascondo che vorrei riuscirci, prima o poi. D’altronde anche le letture che scelgo riflettono questo mio orientamento: preferisco senz’altro le trame che non si risolvono del tutto, che lasciano spazio per pensare. Non mi piacciono le storie che riempiono tutti i vuoti.

Tutto quello che Fiona doveva fare era vivere, seguire la strada che aveva davanti e scoprire il proprio futuro. A Briony invece pareva che la sua vita si sarebbe svolta tutta in una stanza priva di porta. (Ian McEwan, Espiazione).

Prima di salutarci, posso chiederti qual è il tuo libro preferito? Espiazione, di Ian McEwan.

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Alberto Vignati,

Girasole impazzito di luce di Daniele Duso

campiello giovani Il vincitore verrà annunciato il 7 settembre prossimo a Venezia, ma per Alberto Alarico Vignati è già una bella soddisfazione essere tra i cinque finalisti del Premio Campiello Giovani. Il suo racconto, che si intitola Girasole impazzito di luce, ha infatti saputo farsi notare assieme a quelli di altri quattro giovani, tra i circa trecento che hanno partecipato al concorso letterario promosso dalla Confindustria del Veneto, rivolto a giovani penne che hanno tra i 15 e 22 anni. Ma chi è Alberto Alarico Vignati? È un giovane di 21 anni che frequenta il terzo anno di Lettere Moderne all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È da poco rientrato dagli Stati Uniti, dove ha partecipato a un programma di studio all’estero durante il quale ha già sostenuto alcuni esami di sceneggiatura e cinema. Ma la sua vera passione è leggere, non lo nasconde, anzi, pure nel suo racconto, la lettura appare importante, quasi quanto i personaggi. Perché Girasole impazzito di luce parla di molto altro, certo. È un racconto «contemporaneo e cinematografico», come si legge nelle motivazioni della candidatura alla finale. Un po’ romanzo di formazione. Ma soprattutto una storia dedicata alla passione per la lettura. I personaggi principali, infatti, sono tutti dei grandi lettori, e la stessa “redenzione” di uno di loro avviene proprio grazie a una grande amicizia nata da una passione comune, quella per la lettura. La prima domanda che rivolgiamo a Vignati è d’obbligo: a chi pensa si rivolga Girasole impazzito di luce e come può suggerire una via per la “redenzione”? Giuseppe (il protagonista, ndr) sceglie di non far parte della ‘Ndrangheta perché si ritiene troppo intelligente. Lui che passa tutto il giorno a leggere romanzi e ad ascoltare arie liriche non riesce

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Sul Romanzo

proprio a immaginare un futuro da boss mafioso. Lui è una sorta di filosofo adolescente. Ma da solo non potrebbe andare da nessuna parte. Piuttosto la vera “redenzione” di Giuseppe scatta solamente quando incontra Joseph, il ragazzo di origini senegalesi che gli dà ripetizioni di matematica: perché alla fine è impossibile “redimersi” da soli. Serve sempre un incontro, nel caso di Giuseppe con il suo primo vero amico. La scelta del soggetto parte dalla lettura di un libro. Ci può svelare se, di fondo, c’è qualche altra fonte di ispirazione (parlo di libri di altri autori, film...)? Per scrivere questo racconto mi sono fatto ispirare dalla lettura di Buccinasco, la ‘Ndrangheta al nord, un saggio scritto da Nando dalla Chiesa e Martina Panzarasa. Girasole impazzito di luce è infatti ambientato a Buccinasco, città alla periferia sud ovest di Milano, e di fatto nasce dalla lettura di questo libro. Ci racconta la trama in breve? Certo, è la storia di Giuseppe, un ragazzo strano che si veste sempre con un gessato grigio topo e nel taschino porta un fazzoletto rosso. Non esce mai di casa, il suo unico passatempo è leggere e ascoltare opere liriche. Joseph, invece, è un ragazzo di origine senegalese, ha vent’anni, è al terzo anno di Matematica e, per guadagnare, dà ripetizioni a Giuseppe. Joseph, rincasando una sera, trova sul pianerottolo di casa Giuseppe. Giuseppe è scappato di casa e non conoscendo nessun’altro si è rifugiato nell’unico posto che riteneva sicuro. Nel giro di poco tempo si scopre il motivo della fuga: la famiglia appartiene alla ‘Ndrangheta e lui ha deciso di uscirne. Con l’aiuto di Joseph riuscirà addirittura ad affrontare Vittorio, il nonno capo mafioso.

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Ecco, nella costruzione dei protagonisti ha seguito qualche personaggio realmente esistito o esistente? In particolare, incuriosisce il protagonista, Giuseppe, questo ragazzo che «si veste sempre con un gessato grigio topo e nel taschino porta un fazzoletto rosso». Le è per caso capitato di conoscere direttamente ragazzi così? A dir la verità no, non conosco nessuno come il Giuseppe descritto nel racconto. Il “mio” Giuseppe ha smesso di andare a scuola quando suo padre è stato arrestato per associazione mafiosa. Da quel momento si è chiuso in camera e da lì non è più uscito per almeno quattro anni: dà gli esami da privatista alla fine dell’anno. Mi sono chiesto cosa può fare una persona per quattro anni in una stanza: leggere sicuramente, studiare. E Giuseppe, infatti, si rintana nei libri, soprattutto perché ha una gran voglia di essere diverso dalla sua famiglia, di distinguersi. Come abbiamo già detto, emerge, e diviene elemento portante della storia, l’importanza della lettura. Quanto importante è stata, ed è, per lei, la lettura? C’è un libro che le ha “cambiato la vita”? Non posso dire che ci sia un libro che mi ha cambiato la vita, piuttosto ci sono alcuni autori che mi piace particolarmente leggere. Su tutti David Foster Wallace, per gli americani, e Pier Vittorio Tondelli tra gli italiani. Di David Foster Wallace la raccolta di racconti La ragazza dai capelli strani e Questa è l’acqua. Di Tondelli, invece, Altri libertini e Pao Pao. Comunque sì, la lettura è molto importante per me, e lo dico con il personaggio stesso di Giuseppe: lui sceglie di distinguersi dalla propria famiglia mafiosa proprio mettendosi a leggere.

Sul Romanzo

Nella motivazione della candidatura finale il volume viene descritto come «contemporaneo e cinematografico». Immagino lei speri di farne un film: visto il suo percorso di studi, che ruolo potrebbe avere lei nel tradurre questa storia con un linguaggio cinematografico? Direi che sarebbe un sogno! E in questo sogno mi ritaglierei un posticino da sceneggiatore. Il tema da lei scelto mi fa pensare alle opere di Roberto Saviano. La spaventa come accostamento o ci si ritrova? Pensa che quello della malavita organizzata sarà un tema che riprenderà e svilupperà anche in futuro, o ci sono altre tematiche che cercherà di affrontare? Come accostamento mi spaventa, anche perché Saviano è un giornalista, e documenta fatti. Il mio invece è un racconto di pura fantasia. Mi piace raccontare quello che vedo attorno a me. E finché vivo a Corsico/Buccinasco quello che vedo sono quartieri periferici spesso degradati. Trovo interessante notare chi vive nei palazzoni popolari: pensionati e piccole famiglie. Ma anche immigrati. Ecco che l’altro protagonista, Joseph, ad esempio, è un ventunenne di origine senegalese, nato in Italia che frequenta matematica all’università e che dà ripetizioni a Giuseppe.

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Paola Vivian,

Diciassette e cinquantaquattro di Elena Spadiliero

campiello giovani Immaginate di essere un uomo che mangia sedici palline di cioccolato ricoperte di cocco. Avete capito bene, sedici palline. Il tutto mentre siete seduti nella vostra Audi A6. Sembra un quadro piuttosto grottesco, all’apparenza semplicemente eccentrico, eppure dietro c’è molto di più: perché il soggetto in questione è uno stupratore seriale e se ne sta lì, seduto nella sua macchina, a osservare le sue ex vittime. Una di queste ha avuto una figlia, una bambina un po’ introversa, che riesce ad aprirsi grazie all’incontro con la sua babysitter, una giovane fotografa, la quale ha la capacità di capire le persone, la loro vera essenza. Diciassette e cinquantaquattro è una storia di speranza. Almeno così la definisce la sua autrice, la giovane Paola Vivian, una dei cinque finalisti del premio Campiello Giovani, che ci presenta un racconto che parla di violenza, ma anche di felicità. Non si tratta di una felicità perfetta, e nemmeno di una vicenda con un lieto fine: stiamo parlando piuttosto di quei momenti di felicità temporanea, pressoché “trascurabile” (per citare il titolo di un bel libro Einaudi di Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità), che quasi non percepiamo, ma ci sono, sono concreti, li viviamo più o meno consciamente e li custodiamo anche quando sono passati, lontani da noi. L’autrice ha confezionato uno scritto cupo, sinistro, permeato da uno strano e angoscioso senso di morte, contro il quale l’esistenza e le sue spinte vitali sembrano trovare sconfitta... Paola, hai affrontato un tema forte e anche complesso nel tuo racconto. Non è facile delineare la psicologia di uno stupratore e il suo rapporto con le vittime. Ti sei documentata da qualche parte, hai letto del materiale sull’argomento? Ti sei ispirata a qualche fatto di cronaca, oppure è tutto frutto della tua fantasia?

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Qualsiasi scelta o azione umana è difficile da comprendere e da descrivere. Ciò che più mi affascina nella scrittura è l’indagare, il guardare dentro le persone e cercare di descrivere la loro essenza. Tutti i personaggi sono ugualmente complessi da delineare; descrivere uno stupratore ha richiesto lo stesso sforzo che ho dedicato agli altri protagonisti. Lo stupro è un argomento di cui si parla molto, ma su cui forse si riflette poco. Chi stupra una donna la distrugge, con conseguenze che vanno molto al di là dei danni fisici. Nel mio racconto ho cercato di delineare la personalità non solo della vittima, ma anche del carnefice, concentrandomi soprattutto sui piccoli ed inquietanti particolari che scandiscono la sua vita. Il mio racconto è completamente inventato, e non ho la pretesa di aver scritto qualcosa di “scientifico”, quindi non ho svolto particolari ricerche. Spero, comunque, di essere stata sufficientemente realistica. So che questo è il tuo primo racconto pubblicato, ma che ne hai molti altri conservati nel tuo computer e nei tuoi quaderni. C’è qualcuno di questi testi che pensi di proporre prossimamente, dopo la bella esperienza del Campiello? Il mio problema principale è che scrivo troppo, ma concludo troppo poco. Inizio molti racconti, ma raramente una storia mi convince a tal punto da terminarla. Anche perché scrivere richiede del tempo, e io ultimamente non ne ho molto. Dopo la maturità, però, spero di potermi dedicare di più alla mia passione più grande. Vorrei provare a scrivere un testo più lungo, e se dovessi essere soddisfatta dal risultato, sarebbe bellissimo pubblicarlo. Per come la percepisci tu, la scrittura è un mezzo per relazionarsi con il mondo e anche con se stessi, per scavare dentro di sé,

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facendo emergere il proprio io, le proprie emozioni e i propri pensieri. Quindi comporta anche un arricchimento, personale ed esterno. Eppure, non di rado si ha la sensazione che le logiche di mercato e vendite abbiano la meglio su questa funzione primaria della scrittura. Cosa ne pensi a riguardo? Senza dubbio la scrittura è influenzata dal mercato, dai desideri degli editori, da ciò che vende di più. La questione però fino ad ora non mi riguarda: scrivo perché mi piace, perché mi fa sentire bene. Non avendo ancora pubblicato, sono completamente libera di scrivere ciò che sento. Ed è bellissimo: posso sfogarmi, vivere centinaia di vite attraverso i miei personaggi, riflettere su quello che mi succede, estraniarmi dai miei problemi o conoscerli più da vicino. Spesso, scrivendo, scopro cose nuove di me. Non conosco ancora le difficoltà della scrittura professionale, l’ansia di dover scrivere qualcosa per vendere. Come ti vedi “da grande”? Pensi di puntare tutto sulla scrittura o hai qualche altro sogno nel cassetto? Vivere di scrittura sarebbe quello che desidero di più, ma so che non è facile. Se non dovessi riuscirci, spero di rimanere a contatto con il mondo dei libri: lavorare in una casa editrice o in una libreria, ad esempio, mi piacerebbe moltissimo. Un’altra cosa che mi attira è il giornalismo, che sto sperimentando a livello locale e che ritengo un modo valido per far sentire la propria voce.

capolavoro, che non mi stanco mai di leggere. Ha centinaia di significati ed è perfetto nella sua semplicità. Poi mi sono piaciuti moltissimo Orgoglio e pregiudizio, Anna Karenina, L’eleganza del riccio, Mille splendidi soli e molti altri. Ne dovrei citare a decine, ogni libro racchiude un mondo che vale la pena di visitare. Hai espresso un’opinione favorevole sul Campiello, un premio che incoraggia i giovani «non solo a parole, ma anche nei fatti». Hai la stessa opinione di tutti gli altri premi letterari? Che ne pensi dello Strega, per esempio? Senza dubbio il premio Strega incoraggia ed incentiva gli scrittori. Non avendo partecipato ad altri concorsi letterari importanti posso raccontare solo della mia esperienza al Campiello Giovani, che mi ha lasciato ricordi ed emozioni bellissime. Infatti i giovani sono realmente i protagonisti e vengono premiati per il loro talento, cosa che purtroppo non succede spesso. Ma per fortuna ci sono delle eccezioni.

Se dovessi fare una top five dei tuoi libri preferiti, cosa mi risponderesti? È una domanda difficile, leggo molto e tutti i libri, anche quelli meno belli, mi lasciano in qualche modo un segno. Il Piccolo Principe è sicuramente un

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Alberto Zanella,

Le strade primitive di Sandro Pezzelle

campiello giovani Il viaggio di Sul Romanzo alla scoperta dei “magnifici cinque” del Campiello Giovani 2013 percorre questa settimana Le strade primitive del vicentino Alberto Zanella, autore di un racconto (dal titolo Le strade primitive, per l’appunto) che gli è valso l’inclusione nella cinquina della XVIII edizione. Poetico e toccante sono gli aggettivi scelti dalla giuria di qualità per descrivere una storia che parla di ragazzini con le ginocchia sbucciate (che si divertono, dalla cima degli alberi, a sputare ai frati di passaggio) e di politici senza scrupoli, di speculazione edilizia e di trottole di porcellana vendute agli abitanti perché dimentichino, sognando, i torti subìti. «Il tutto sfocerà in una serie di disastri – si legge nella motivazione della giuria – e poi in una guerra civile dove uno dei soldati incontrerà lo spettro del Broken, […] che mette di fronte alla propria solitudine. Con la fine della guerra arriverà anche l’amore, e una lettera del capitano ammonirà i soldati dicendo loro che, se si è vivi, non si può volere di meglio per se stessi». Per Alberto, che ci confida di aver sempre letto e scritto molto fin da quando era bambino, questa del Campiello è la prima partecipazione a un premio letterario, nonostante i molti racconti scritti e condivisi perlopiù con gli amici. «Già da diverso tempo – ci rivela il giovane finalista – avevo in mente di stendere un racconto con una storia simile. Ho preso spunto da i miei scrittori preferiti per orientarmi sullo stile, sulle modalità di narrazione e sul contenuto da elaborare». Perché ne Le strade primitive ci sono tutti i temi che ad Alberto stanno più a cuore: il radicale cambiamento della terra del protagonista (che è quasi il correlativo oggettivo dell’Italia e del Veneto degli ultimi cent’anni) e il conseguente, radicale mutamento del protagonista stesso, le vicende storiche (su tutte quella del Vajont) e la guerra civile, il

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boom economico e l’inarrestabile corsa del progresso che hanno soppiantato la cultura rurale. Alberto, nel tuo racconto si affrontano tante cose che, a prima vista, condividono almeno il fatto di essere tutte “spinose”. Da dove arriva questa storia e, insieme, l’interesse per i temi toccati? Questa storia nasce dall’incontro, consapevole o meno, di tante vicende e vite fra loro diverse. A parer mio, il nostro Veneto offre spunti molto interessanti: come nell’universo indigeno di Gabriel García Márquez, un paese qualsiasi con la sua gente, i suoi ambienti e i suoi ritmi si ritrovano in preda all’influenza entusiasmante e incontrollata delle nuove scoperte, delle innovazioni, degli accadimenti storici. Il tutto poi sfocia in una serie infinita di stravolgimenti a cui nessuno aveva pensato, e che non si erano mai immaginati e vissuti prima. Basti pensare proprio alle zone venete, le quali cent’anni fa ancora affrontavano la struggente miseria della Prima Guerra Mondiale, cercando di ricostruire i terrazzamenti e di coltivare i campi, e in men che non si dica si ritrovarono sfregiate da una Seconda Guerra ancora più sanguinosa. Le stesse assistono in seguito all’urbanizzazione e al boom economico, al massacro del paesaggio naturale, all’esproprio dei terreni, al sorpasso della figura del contadino e al soppianto persino di quella dell’operaio, che solo pochi anni fa sembrava rivoluzionaria, con la delocalizzazione e i licenziamenti. Il tutto consumato fra persone che parlano ancora un arcaico dialetto dalle varie influenze: cimbre, longobarde, latine, persino greche e arabe, a testimoniare come in realtà sopravvive comunque il pane quotidiano della gente. Tutto questo accomuna molti paesi e, di certo, cambiamenti così rapidi e repentini impediscono la creazione di una vera e pro-

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pria cultura popolare, una cultura della gente da tramandare di padre in figlio, insegnata per poter poi affrontare la vita. E proprio questo rappresenta lo sbandamento totale e lo sbigottimento di tutti di fronte all’incerto futuro che ci ritroviamo davanti. Il racconto che ho scritto vuole ripercorrere e analizzare questo: l’effettiva interruzione di quella cultura che aveva fatto costruire civiltà su civiltà e che poi viene, giustamente o meno, travolta dalle novità: il tutto comporta seri dubbi e incertezze nelle persone, soprattutto nei giovani, che si ritrovano a dover affrontare un mondo più grande di quel che conoscono, e questo spesso porta purtroppo a sbagliare. Le strade primitive è un titolo che accosta due parole molto complesse: il simbolo archetipico della modernità e la storia nella sua fotografia più remota. Come si conciliano nel tuo racconto questi due aspetti? Per questo titolo mi ha aiutato molto Calvino. Ricordo I nostri antenati, libro che parla di visconti, baroni e cavalieri. Tutti questi personaggi introducono una sorta di immagine idealizzata di quelli che sono i primi sentimenti umani. Io, d’altro canto, ho tentato di idealizzare le prime “strade” delle persone, ossia quella vita, quel percorso fatto di scelte, le quali non si sa sempre bene dove portino. Sono le “prime” perché credo che queste si ripetano continuamente nella storia, pur sempre sotto contesti completamente diversi e talvolta addirittura contrastanti. La strada, inoltre, è un punto d’appoggio per l’esistenza umana, la testimonianza che qualcuno più o meno come noi c’è ed è già passato. Un appiglio stretto dalle ultime falangi delle dita, il quale infonde un’immensa speranza, ad assicurarci che comunque esistiamo, malgrado ogni cosa ci stia impietosamente o amabilmente investendo durante il corso degli eventi. Nel mio racconto tutto questo è rappresentato dalla storia del paese del protagonista, dalle scelte da lui compiute, come lo spaventato scappare dai nascenti e tremendi problemi sociali, e il conseguente ritornare per affrontarli. È un percorso idealizzato e già verificatosi chissà quante volte anche lo sconsiderato sfruttamento delle popolazioni di un territorio, protetto e celato un po’ dal regime del silenzio del governo, un po’ dall’omertà delle persone, e che è portato fino all’estremo momento della sciagura naturale e demografica. Il protagonista, nel corso della storia, cambia radicalmente al mutare della sua terra. Qual è e perché è così forte il legame tra i due “protagonisti” del tuo racconto? Che lo vogliamo o no, il nostro carattere è perennemente legato alla morfologia del nostro territorio, qualunque esso sia. Esso condiziona i mestieri, il comportarsi degli animali, l’umore

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delle persone, i giochi dei bambini. Si presenta come una patria comune, sentita dalle persone, magari anche senza accorgersene: si tratta di un vento come lo può essere in Sardegna il Maestrale o in Irlanda il vento dell’Ovest; si tratta delle montagne, le Dolomiti, le Alpi Giulie, con tutte le loro valli, o i monti del Kurdistan e le vette della Patagonia e delle Ande; si tratta del deserto caldo dei Tuaregh, come del deserto gelido dei nomadi mongoli, e può essere persino un ambiente artificiale, ovvero edificato dall’uomo, come le metropoli nordamericane ed europee, le baraccopoli thailandesi o brasiliane, i territori-fabbrica come, appunto, il Nordest. Questi ambienti rappresentano il punto di partenza di qualsiasi cultura si vada a solidificare e cementare per una popolazione. Se nel racconto volevo affrontare proprio lo sradicamento di quel punto di partenza, ecco che i destini dei due personaggi, l’ambiente e l’uomo, restano irreversibilmente allacciati, e lo stravolgimento di uno comporta lo sbigottimento dell’altro. Hai parlato di Italia e di Veneto, a proposito di cambiamenti radicali del paesaggio. Come vive un ragazzo della tua età le trasformazioni che modificano, in nome di un presunto progresso, l’ambiente in cui è nato e cresciuto? Le trasformazioni del nostro territorio oggi sono sentite da una minima parte della popolazione, nonostante ciò che si sente dire spesso attraverso i media. Non è un caso che di fronte all’ennesimo esempio di devastazione ambientale come lo può essere la costruzione degli ennesimi capannoni, di ospedali e grandi opere macchiate da intrallazzi di ogni genere, di nuove superstrade, autostrade, pochi reagiscano con la partecipazione, la manifestazione, l’opposizione. Questo è anche

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dovuto al fatto che il vero ambiente, coltivato in Veneto da quarant’anni a questa parte, è la terra del poter far quel che si vuole indiscriminatamente, purché si disponga dei mezzi necessari. E questo è permesso soprattutto dalla stragrande maggioranza della popolazione, che non contrasta ciò minimamente e che si ritrova a desiderare di poter essere nei panni di chi spadroneggia: vedo, purtroppo, che la maggior parte dei giovani è cresciuta con un simile senso della politica e questo, oltre a essere un gran peccato, è molto grave – si esclude comunque una buona parte di persone che non restano a farsi abbindolare da frequenti discorsi molto vaghi, fittizi e confutabili. Sono parole certamente dure, ma dobbiamo ricordare a chi vuole ciecamente continuare a negare queste stesse parole che c’è un problema: il momento cruciale da affrontare si manifesterà solo fra un arco indeterminato di anni, quando si presenterà il conto della devastazione ambientale, culturale e sociale del Veneto, nel nostro piccolo caso. Basti pensare alle frequenti alluvioni, dovute alla presenza di giganti cementizi come le basi di guerra che impediscono il corretto scolo delle acque; all’avvelenamento dell’aria (si vedano i bollettini dell’ARPAV) e delle falde acquifere, ché, per quanto ci venga raccontato di un “Veneto riciclone”, si deve comunque fare i conti con gli enormi termovalorizzatori in ampliamento, le nuove autostrade in progettazione, le discariche in via di completamento; lo sfruttamento della terra attraverso numerosi fertilizzanti e pesticidi, che vede lo svilupparsi di nuove forme di malattie e batteri nelle coltivazioni. Questi elencati sono esempi riscontrabili nel vicentino, ma tutto il Veneto presenta uno scenario simile, se non peggiore – come Mestre e Marghera –, il quale si abbina a quello che è il contesto in tutto il Nord e nel resto d’Italia. Insomma, se non si crea una coscienza delle persone, e soprattutto dei giovani, che sia sensibile a queste problematiche, la situazione continuerà a compromettersi senza sosta, più di quanto non si sia, già ora, aggravata.

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Prima di salutarci, concedici di essere rassicurati. Non esistono quelli che tu chiami “i politici del nord”, non è così? Purtroppo per noi, questi non sono tempi in cui valga la pena essere costantemente rassicurati. Anzi, oggi abbiamo proprio bisogno di guardare in faccia la realtà. E la “gente del Nord” esiste eccome, e ho voluto inserire questo appellativo proprio perché è diffusa la mentalità, soprattutto nelle nostre zone settentrionali, che quello del Nord Italia è l’esempio da seguire ovunque: un po’ come gli Americani si ostinano a esportare una loro democrazia dalla dubbia efficienza. Eppure, la presunzione di essere la locomotiva economica e culturale del mondo, l’imporsi sulle altre realtà ritenute “in via di sviluppo”, “arretrate” o, peggio ancora, “inferiori” rivela una mentalità cieca e di scarsa lungimiranza. Si pensi a questo esempio: un maestro una sera mi insegnò che il vero musicista non è colui che suona impeccabilmente il suo pezzo, ma chi segue la musica con attenzione, imparando ad ascoltare i propri compagni e sapendo che deve fare del suo meglio per metterci anche un po’ del suo impegno.

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“Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto.� Primo Levi - La Tregua - Premio Campiello 1963.

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