Sul Romanzo - Anno I n. 0 - Mar 2010

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uSommario

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L’editoriale

di Morgan Palmas

Vita standard di uno scribacchino provvisorio Strike a pose! di Giovanni Ragonesi

Racconti dal retrobottega Il libraio è quel mestiere... di Geraldine Meyer

Prospettiva fantasy

Radici della letteratura fantasy di Marcello Marinisi

La luna nera, la metà oscura del mondo Binah, la Grande Madre e l’atarassico Dio di Maria Antonietta Pinna

I (rin)tracciati

Ottiero Ottieri e bipolarismo psicoindustriale di Alessandro Puglisi

Viaggio nel pensiero antico alla scoperta dell’identità europea Alle radici dell’Europa di Adriana Pedicini

Snorkeling letterario

Linguaggio dello stupore e dell’ascolto di Michele Ruele

Editori: il catalogo qual è? Quodlibet di Paolo Melissi

Vetrioli sparsi

C’era una volta a Torino il caffè letterario di Emanuele Romeres

Cinematura

Alice in Wonderland di Claudia Verardi

Tarantula

Komunikato n.ro 1 di Roberto Orsetti

L’angolo delle interviste

Alessia Colognesi. Il giardino dei viandanti di Morgan Palmas

Poesia e racconto del mese

su La xenofobia  Sabrina Mantini – Follia ... mania ... xenofobia  Sara D’Ippolito – Tutto va come deve andare


uL’editoriale di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it la webzine sul romanzo nasce con l’obiettivo di fornire una nuova e umile chiave per decifrare la realtà letteraria che ci circonda, così complessa da sembrare talvolta una delicata commedia d’inganni e finzioni, talora un vaso di pandora dai mille flutti caotici. la nostra scelta, forse controcorrente di questi tempi, nel senso che l’indifferenza sempre più generalizzata porta molti a rinchiudersi nel proprio orticello, è di esporsi ancor più, partecipare a un progetto collettivo di informazione e cultura letteraria, consapevoli che siamo ineluttabilmente anime sole che appartengono al dramma umano, ma altrettanto convinti che ciò non possa giustificare una distaccata o snobistica rassegnazione rispetto ai saperi e alla società. la rete ha generato un effetto volano negli scambi fra le persone che amano la letteratura, ne sono un esempio i blog letterari o i social network dedicati ai libri. tutto fulmineo, temporaneo, i commenti si perdono, i post scendono per poi sparire. noi abbiamo il desiderio di ritrovare i tempi della riflessione, viaggiando verso casa, alla scoperta di noi stessi. non so se condividete la sensazione: accade nel mare magnum di internet che ci si senta come dei bovini all’interno di un allevamento intensivo, con le giornate che volano e con un destino che pare già concordato. non è la morte della carne il tema, ma l’eclissarsi della riflessione, costretti a pensare di fretta, seguendo un commento o una polemica o l’ultima discussione che per quanto meritoria domani sarà già oblio.

È più semplice seguire il percorso comodo o egoistico ed è certo che chi non espone mai le mani sbaglia di rado. non ci interessa trovare consolazioni o nuovi conflitti, vorremmo invece proporre i nostri punti di vista sulla letteratura e ciò che la circonda. chi vive i nostri tempi è costretto ad essere aut aut: o ci si pone le domande o si fa finta di nulla accontentandosi del quotidiano vivere fra attività e oggetti che placano per alcuni istanti i desideri dell’ego, accettando lacci e laccioli pregni di una offuscata ipocrisia e d’una pigrizia intellettuale. la redazione non è chiusa, vorrebbe essere quanto più aperta possibile e consigliamo a chi volesse collaborare, anche solo suggerendo un’idea, di scriverci a sulromanzo@libero.it. gli articoli della webzine sono pubblicati sotto l’egida di licenze creative commons e nella prima fase sperimentale la webzine non rappresenta una testata giornalistica poiché i contenuti saranno aggiornati senza alcuna periodicità. non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001. Vi auguriamo buona lettura.

Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura letteraria Anno I • n. 0 • Marzo 2010 Progetto editoriale: Morgan Palmas art director: Marcello Marinisi Progetto grafico e e Marcello Marinisi

iMPaginazione:

annalisa castronovo

Hanno collaborato a questo nuMero: Marcello Marinisi • Paolo Melissi • geraldine Meyer • roberto orsetti • Morgan Palmas • adriana Pedicini • Maria antonietta Pinna • alessandro Puglisi • giovanni ragonesi • emanuele romeres • Michele ruele • claudia Verardi. si ringraziano: alessia colognesi • sara d’ippolito • sabrina Mantini. Per inforMazioni: sulromanzo@libero.it Web: http://sulromanzo.blogspot.com foto e iMMagini: deviantart • flickr • spinXpress • Wikimedia commons tra le iMMagini: 1. Modern Book Printing, sholz & friends, berlino. 3. samuel beckett. 9. Mary-Louise Parker from Weeds, nagel style. 13. ottiero ottieri. 18. Enlèvement

d'Europe, nöel-nicolas coypel, Philadelphia Museum of art. 20. The miracle of Fanjeaux, Pedro berruguete. 24. Skrik (L’urlo), edvard Munch, nasjonalgalleriet di oslo. 29. Mia Wasikowska (alice). 31. Johnny depp (il cappellaio Matto). 32. Helena bonham carter (la regina rossa). 35. John lennon. 37. bob dylan. 38. alessia colognesi. 40. anna Volpi. 41. balraj singh. citazioni: Wikiquote note legali: “sul romanzo - rivista elettronica di informazione e cultura letteraria” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e gli aggiornamenti dei contenuti avvengono senza nessuna periodicità. non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62 del 2001. gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza creative commons attribuzione-non commercialecondividi allo stesso modo 2.5 italia. Per maggiori informazioni: http://creativecommons.org/licenses/by-ncsa/2.5/it/

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Lo saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione. Francesco Petrarca

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uVita standard di uno scribacchino provvisorio

Strike

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pose!

di Giovanni Ragonesi - giov.ragonesi@gmail.com Valerio s’è svegliato inverso oggi. neppure il caffé accompagnato dalla sigaretta, ed evacuazione a seguito, sono riusciti a ben disporlo nei confronti di quest’ennesima giornata grigia. Valerio ha pressappoco trent’anni ed è segretamente uno scribacchino, nel senso che scrive; ma guai a chiamarlo “scrittore”, per quello attende un contratto di pubblicazione decente e un biglietto di congratulazioni firmato arbasino, come si usava negli anni ’90. e poi, soprattutto, Valerio non ha il physique du rol per essere scrittore. uno scrittore è imprescindibilmente magro; quantomeno dovrebbe esserlo alla sua età. quindi Valerio, oltre a tentare costantemente di imparare l’arte della scrittura, tenta costantemente di dimagrire. Ha provato diverse diete, da quella pane ed acqua per dieci giorni al mese a quell’altra – un po’ scomoda a dirla tutta – a base di lassativi. in questo periodo sta seguendo un regime alimentare da celiaco pur non essendolo, ma anche in questo caso i risultati sono al di sotto delle aspettative: quei 7 chili in più non se ne vogliono andare. incamminandosi verso la metro a passo rilassato, malgrado l’orario non del tutto favorevole alla puntualità, Valerio si guarda riflesso sulla vetrina di un barbiere (uno

di quei saloni che passandoci avanti non puoi non chiederti come faccia un posto del genere ad essere ancora aperto nell’annus domini 2010). Ha voglia di civetteria oggi Valerio. il giorno precedente si è arrovellato sul nie e sui Wu Ming, sul nir e su Vittorio spinazzola, su alcune recensioni di Alias e sulla sua incapacità di seguire un articolo di andrea cortellessa che pure lo affascinava tanto. oggi pensa alla foto sul risvolto di copertina di Paolo giordano (ancora lui); alle pose ed espressioni marmoree di antonio scurati che chissà perché gli ricordano la statua di abramo lincoln a Washington; alla fotogenia di zadie smith e al 1991 quando aldo busi apparve nudo sulle pagine della rivista King per dimostrare “che anche gli scrittori hanno le palle”. sul potere della giusta scelta fotografica non si disquisisce, Valerio ne è persuaso in perfetto allineamento coi suoi tempi. sa che anche il mondo della letteratura ha bisogno di un’iconografica che espliciti sapori e forme, sa che l’autore è un personaggio e anche la sottrazione dell’immagine (come elena ferrante ad esempio) è una costruzione, volente o nolente, e genera un caso, o una curiosità, magari un bluff à la J.t. leroy. 2010 • Sul Romanzo

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il pensiero delle foto, della giusta scelta, trasporta Valerio indietro nel tempo, al 1948, anno di pubblicazione di Altre Voci Altre Stanze del giovanissimo – ventiquattrenne – truman capote. il contratto con la random House era stato firmato due anni prima grazie ad una serie d’intermediazioni – successivamente rinnegate da un sempre più alienato e scostante truman – dell’amica carson Mccullers e di una rete di contatti intessuti in anni di acrobazie alla redazione del New Yorker e da lì a quelle di Harper’s Bazzar e Mademoiselle. il romanzo proposto era stato bruciato in un impeto di purificazione e il nuovo lavoro, scritto in pochi mesi tra un appartamento nel cuore di new orleans e casa dei genitori a new York, pronto in secondo giro di bozze. una mattina truman ricevette una telefonata, e a Valerio parve proprio di udire il trillo di un vecchio e pesante telefono nero fine anni ’40 e a seguire la voce squillante e stridula e in otto ottave di capote rispondere al suo editor, il signor linscott, che dopo un po’ di convenevoli sul sole e le tempeste di sabbia della california, passò a chiedergli una foto per il lancio del libro. truman non aveva in programma di rientrare a new York entro breve e dopo qualche attimo propose tranquillo e spedito al signor linscott di andare lui stesso nel suo appartamento, di aprire i cassetti del suo tavolo e di scegliere, tra le tante foto che avrebbe trovato, quella ritenuta a suo gusto la più appropriata. così racconta la leggenda, e tra le tante foto, molte delle quali scattate appositamente per riviste e giornali, linscott scelse una foto privata, la foto che diede una spinta propulsiva sia al libro che al suo autore.

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la metro incede, fermata dopo fermata, verso l’ufficio dove una nuova e tediosa giornata lavorativa attende Valerio col suo carico di documenti, una agenda che prevede una scaletta di telefonate e accordi da prendere. Mancano ancora 12 minuti all’ora in cui dovrà timbrare il suo cartellino (odioso rito del sistema di controllo della produzione in qualsiasi ambito) e 7 fermate annunciate in doppia lingua da una meccanica voce femminile.

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Valerio ricordava perfettamente quella foto in cui il giovanissimo truman dall’aspetto adolescenziale e con gli occhi languidi e sbarrati e l’espressione un po’ imbronciata (simile a quella che decenni dopo avrebbe caratterizzato le campagne di Kate Moss) fissa l’obiettivo fotografico; è seduto su una panchina di ferro, dietro di lui un fitto fogliame, indossa una t-shirt bianca, come quella che di lì a qualche anno avrebbe indossato Marlon brando in il selvaggio, ma su di lui non è aderente, bensì morbida, larga, languida… quella foto sconvolse l’establishment letterario ed editoriale. non era stato calcolato quell’effetto, non c’erano alle spalle strategie di marketing che puntavano sullo scalpore e lo scandalo e lo scalpore era del tutto genuino


e innocente, per quanto potesse esserci innocenza in una qualsiasi questione in cui era coinvolto Mr. capote. sette fermate di metropolitana sono veloci da percorrere e Valerio adesso si trova nel mezzo dei 320 metri che separano la stazione metro dal portone a vetri del suo ufficio. fuma un’ultima sigaretta di malavoglia e si concede ancora pochi attimi per pensare alla sua foto da quarta di copertina, giusto per evitare di continuare a mettere in discussione le sue capacità intellettive nella comprensione dei fili logici di cortellessa e soprattutto per evitare di pensare all’impianto critico del suo romanzo in cantiere, alle sue decine di file e alle Moleskine scarabocchiate di appunti, nomi, ricongiungimenti di episodi, idee collaterali ed effetti indesiderati, ellissi e qualche regola grammaticale ancora non del tutto fissa nei suoi neurotrasmettitori. tutte questioni che lo tormentano e che spesso gli rendono le notti insonni tanto che al mattino neppure il copriocchiaie alla caffeina spalmato dalle nobili sfere di metallo dello stick da 43 euro riesce a fare dimenticare. Ma davvero porsi il problema della scelta della fotografia da quarta di copertina è una questione così di secondo piano e frivola? non è quasi sempre la seconda o terza cosa che va a cercare in un libro durante le sue incursioni tra i banchi novità delle librerie? non è l’unico appunto che avrebbe da fare alle officine della Minimum fax quella di non dedicare troppa cura nella scelta delle foto dei suoi autori? non è per caso una questione centrale sul tipo di scrittore che si vuole essere? e a ogni tipo di scrittore non corrisponde un ben determinato tipo di romanzo? non solo

Jackie collina avrebbe scritto tutt’altro se avesse avuto le fattezze di Maria Venturi, ma anche brett easton ellis avrebbe scritto diversamente se non si vestisse da brook brothers e non avesse posato – così demi-monde – davanti agli obiettivi canon dei fotografi di Vanity fair. Pier Vittorio tondelli, nel 1986, si decolorò i capelli e si fece ritrarre in versione biondo-platino per il lancio di rimini. umberto eco, ne è sicuro, ha amato la sua barba quasi più delle cattedrali gotiche. le foto che Henry cartierbresson scattò a samuel beckett non sono guarda caso un compendio sublime del suo teatro? i ritratti di amélie nothomb non ce la rendono così familiare da avere voglia di acquistare ogni suoi nuovo libro prima ancora di leggerne una recensione incoraggiante? spenta la sigaretta e messa in bocca una mentina, con un minuto e una manciata di secondi di ritardo già registrati dal tesserino aziendale, Valerio entra in ascensore. si guarda allo specchio e in un guizzo tardo adolescenziale pensa che ogni attimo della vita vada sfruttato quando non è troppo noioso. tira fuori dalla tasca il suo cellulare con fotocamera 3,2 megapixel di definizione e prima che le porte dell’ascensore si aprano sul terzo piano, con fare svogliato ma propiziatorio, si scatta una foto. dopotutto non si sa mai, magari in serata, una volta tornato a casa, sarebbe riuscito a completare il quarto capitolo e una foto si sarebbe presto resa necessaria. 

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uRacconti dal retrobottega

Il libraio è quel m di Geraldine Meyer - geraldine.meyer@virgilio.it Ho cominciato a fare la libraia ventidue anni fa. tanti, pochi. non saprei dirlo con precisione. in questo sono molto bergsoniana e ho una concezione del tempo variabile a seconda dei momenti, delle prospettive, degli stati d'animo e dei frangenti professionali che mi trovo a vivere. non vorrei tediarvi con la storia del mio percorso, solo testimoniare una vita fatta di libri, di librerie. einaudi, garzanti, feltrinelli sono solo alcune delle tappe di una geografia libraria che mi ha portata, nel 2006, ad affrontare l'avventura imprenditoriale e a mettermi in società nella gestione di una libreria mia: il trittico, a Milano. ripercorrere questo itinerario amplifica il tempo trascorso tra gli scaffali se lo guardo dalla prospettiva degli incontri fatti, delle esperienze vissute e dell'evoluzione lavorativa che questo mestiere ha fatto registrare. ogni libreria ha rappresentato un mattoncino in questa costruzione professionale ma, non potendo parlare di ciascuna di loro, vorrei concentrare le mie riflessioni su una in particolare: la feltrinelli di Via Manzoni a Milano. questa piccola grande libreria ha rappresentato per me qualcosa di speciale e unico nella mia storia professionale. non si tratta di disconoscere l'importanza delle altre botteghe in cui ho avuto la fortuna di lavorare ma di ammettere che questa libreria mi ha lasciato addosso le cose più importanti che ho imparato. sono arrivata in feltrinelli nel marzo del 1999 e questa data, scritta così, nero su bianco, si staglia ora davanti a me come qualcosa di lontano. eppure presente. si lavorava in modo artigianale e molto rigoroso affrontando una gavetta che oggi, troppo spesso, non si fa più. quello del libraio è un mestiere che si impara sul campo. edison diceva che un lavoro fatto bene, di qualsiasi cosa si tratti, è fatto dall'1% di ispirazione e dal 99% di traspirazione. nel senso fisico del termine. È fatto di fatica. questo tanto per sgomberare il campo dalla mistificazione che troppo spesso circonda questo mestiere e porta ad ascoltare opinioni sul lavoro del libraio che fanno rabbrividire. allora si cominciava con il lavorare per qualche mese in magazzino. tra pesanti colli da ricevere, bolle da

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controllare, libri da sistemare sul bancone, si prendeva una sorta di confidenza fisica con l'oggetto libro. e si imparava a valutare l'importanza del controllo del flusso dei libri dal magazzino alla libreria. non tutti i momenti erano buoni per far arrivare ai librai la merce ricevuta e lavorata. in magazzino si controllava che il prezzo segnato sulla bolla corrispondesse a quello di copertina. un lavoro che ora sembra superfluo. infatti non si contano i libri che arrivano alla cassa con discrepanze in tal senso. e uno dei primi concetti che si impregnavano nella testa era quello dell'umiltà. quando si aprivano i colli i libri venivano divisi


mestiere...

per editore in modo tale che si spuntassero più o meno nello stesso ordine con cui erano registrati nella bolla. anche questo sembra un lavoro superfluo. invece consentiva di sapere subito se un libro era arrivato, senza andarlo a cercare a caso sotto una marea di altri suoi simili. e questa era un'altra lezione: non si lavora da soli ma tenendo conto delle dinamiche di gruppo. il magazzino veniva considerato nevralgico per il funzionamento della libreria. c'è ancora qualcuno che insegna questo? bene, dopo circa tre mesi di magazzino si passava in

libreria. e qui si continuava con l'impostazione artigianale di cui parlavo prima. la giornata cominciava con lo straccio della polvere. si spolveravano gli scaffali e i libri. lavoro umile? certo. Ma essenziale. nel lavoro non bisogna focalizzare l'attenzione solo sull'immediato, sul gesto contingente che si sta compiendo. c'è sempre altro. in questo caso fare la polvere non era solo pulire. significava prendere in mano i libri per sistemare lo scaffale, sfogliarli per capire se fossero posizionati nel giusto settore, decidere di metterli di faccia perché avessero una visibilità diversa. e si imparava a rendere vivo e dinamico uno

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decidere cosa fare di quella scheda: riordinare il libro o reinfilare la scheda in una delle copie di quel titolo. certo ci si metteva forse qualche minuto in più, ma non si assisteva a storture come quelle odierne di un libraio che riordina i libri guardando solo lo schermo di un computer. raccolte le schede si dividevano per distributore e si scrivevano i fax a mano. capite cosa voleva dire, per la memoria bibliografica, scrivere ogni giorno titolo, autore, editore? a questo si aggiunga che, all'epoca, il computer veniva usato solo come banca dati. non riportava le giacenze dei titoli e il loro settore. questo implicava che una volta individuato il titolo era il libraio che doveva ricordarsi se quel libro era presente in libreria e dove. non sono mai stata, per natura, incline a uno sguardo malinconico sul passato, ma forse, senza accorgermene, lo sono diventata per ragioni anagrafiche. lungi da me l'idea di criticare ogni aspetto di modernizzazione del mestiere del libraio. le cose cambiano, si evolvono. i tempi si accelerano e ogni cosa sembra doversi adeguare a questo. Pensare che il mestiere del libraio potesse esimersi da questo sarebbe stato forse un po' patetico e anacronistico. Ma come tutte le persone che diventano adulte comincio a capire che i proverbi hanno più di un fondo di verità. e dire che "non bisogna buttare anche il bambino insieme all'acqua sporca" è per me qualcosa di più di una citazione popolare. nel mio tentativo di rivalutare, forse inutilmente, metodi di lavoro non proprio aggiornati, e il farlo attraverso i proverbi c'è qualcosa di più. c'è il desiderio di non perdere, ammesso che ci sia mai stata, una cultura del mestiere. un recupero anche solo come grido di aiuto di un elemento manuale imprescindibile per fare questo lavoro. certo ci vogliono letture, tante, curiosità. Ma queste sono un valore aggiunto.

scaffale. Ma sempre c'era un rapporto fisico con i libri. bisognava toccarli, guardarli, prenderli in mano. lo stesso avveniva con il sistema di schedatura e riordino. all'interno di ogni libro (o di una copia se si trattava di libri in numero superiore a uno per lo stesso titolo) c'era una scheda con la carta di identità del libro: autore, titolo, editore, giorno di uscita in libreria, numero di copie arrivate. quando il libro arrivava alla cassa, la cassiera levava questa scheda e la riponeva in un cassetto. ad un certo punto della giornata i librai raccoglievano le schede e iniziavano il lavoro di rifornimento. le schede, che raccontavano la vita del libro costringevano ancora una volta a confrontarsi fisicamente con esso. il libraio era costretto a girare per il negozio per guardare con gli occhi l'andamento delle vendite e 10

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quando sento ragazzi che vogliono lavorare in libreria e portano come motivazione principale il fatto che amano leggere mi viene da urlare di rabbia. Perché, con il tempo e l'esperienza, ho imparato a capire cosa c'è dietro questa affermazione. detto questo una riflessione sui supporti tecnologici su cui oggi possiamo contare. Programmi informatici studiati apposta per la gestione della libreria sono una mano santa. non sono così vetusta da osare azzardarlo. sempre tenendo ben presente che questi mezzi sono solo un affiancamento alla professionalità. non la sostituiscono. la aiutano e l'amplificano. solo se questa professionalità c'è. io dico sempre che un libraio imbecille davanti a un computer non diventa un bravo libraio. resta un imbecille. non è comunque un caso che il software migliore per la gestione sia Macbook, studiato e realizzato da librai. credo che come prima puntata di questo viaggio nel lavoro di libraia possa bastare. giusto per far capire di cosa si sta parlando. 


Il libraio, un vecchio dall'aspetto venerando, fissò severamente il giovane un po' intimidito, in piedi davanti a lui, e lo invitò a parlare. «Voglio fare il libraio,» disse il giovane principiante «ne ho un grande desiderio e non so cosa potrebbe trattenermi dal mettere in atto il mio proposito». Robert Walser

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uProspettiva fantasy

Radici del letterat

di Marcello Marinisi - info@marcellomarinisi.com la letteratura di genere viene spesso maltrattata da critici che muovono invettive, a volte anche feroci, nei confronti di quegli autori che si avventurano in ambiti in cui le regole sono un po’ più rigide e i topos più definiti che in altri. uno dei generi che più spesso viene preso di mira è la fantasy. definita molto spesso e con disprezzo “letteratura per ragazzi”, la fantasy viene relegata a letteratura di serie b, nonostante gli autori di pregio che, nel corso degli anni e con alterne fortune, si sono cimentati in questo genere. si pensi, giusto per fare qualche esempio, a William Morris (1834-1896) o a Howard Phillips lovecraft (18901937) o, ancora, a John ronald reuel tolkien (1892-1973) o, infine, a robert ervin Howard (19061936). tutti autori entrati a pieno titolo nei classici della letteratura, i cui romanzi vengono ancora oggi riproposti al pubblico dei lettori in tutto il mondo. in realtà, quella sulla fantasy è una polemica tutta italiana. al di là dei nostri confini nazionali, infatti, questo, come altri generi, gode della stessa considerazione della cosiddetta mainstream. tuttavia ritengo necessario approfondire tale disputa, non con l’idea di dare lustro al genere anche nel nostro Paese, quanto piuttosto con l’intenzione di sviluppare un dibattito nuovo, e certamente meno sterile di quello attualmente in corso, relativo alle prospettive di sviluppo del genere all’interno del nostro humus culturale. È possibile, insomma, riuscire a pensare a una strada originale per il fantasy italiano? È per rispondere a questa domanda che, già a partire da questo numero, cercherò di delineare i tratti caratteristici del genere, tratteggiare le sue origini e gettare le basi di un dibattito che spero possa trovare un vivace riscontro tra tutti gli appassionati e non. quando si parla di origini della fantasy, vengono citate le fonti più fantasiose. Molti attribuiscono la paternità di questo genere letterario a personaggi del calibro di omero e Virgilio (rispettivamente con l’odissea e

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l’eneide), altri si dicono figli della divina commedia di dante alighieri, altri ancora fanno risalire le origini del genere ai cicli epici della tradizione europea (carolingio, bretone ecc.), altri addirittura farebbero risalire la nascita della fantasy alla bibbia, in particolare al Vecchio testamento. insomma, le ipotesi sono molte e fantasiose, spesso prive dei necessari approfondimenti che possano fare chiarezza su una tematica molto a lungo discussa. quello che si può affermare con buona approssimazione è che il genere fantasy trova le sue origini nella letteratura tardo romantica di William Morris e altri, procedendo a ritroso fino a uno dei capostipiti del pensiero romantico, il filosofo, poeta e scrittore tedesco novalis (pseudonimo di george friedrich Philipp freiherr von Hardenberg, 1772-1801). egli infatti era un convinto sostenitore dell’opera di fantasia, tanto da sostenere che in essa «si rispecchia l’insolito gioco dei rapporti tra le cose e si manifesta l’anima del mondo» [arduini, r. (2010), da “l’unità”, 7 gennaio]. così è al romanticismo e alla prorompente passione per le immagini e per la fantasia che dobbiamo fare risalire le origini del genere. la fantasia si pone come anello di congiunzione tra il piano del reale e del soprannaturale e l’esperienza artistica, sia essa scrittura, pittura o musica, diviene piena consapevolezza di una realtà «vera e perenne che esiste aldilà del mondo sensibile e delle apparenze» [ibidem]. dunque, è proprio nel potere dell’immaginazione che risiede la forza del genere. la distinzione tra una buona fantasy e una meno buona sta nella capacità dell’autore di plasmare mondi possibili, terre che possano affascinare il lettore e trasportarlo in una dimensione altra rispetto a quella esperita nella propria quotidianità. in verità, oggi, e lo vedremo più avanti, nei prossimi numeri, il genere fantasy ha partorito diversi sottogeneri in cui la costruzione di mondi, la fondazione di culture e retaggi storici non ha un peso tanto grande quanto è possibile evincere, per esempio, nell’opera di John r.r. tolkien. in ogni caso, una caratteristica fondamentale dei mondi fantasy sta proprio nella credibilità di quei mondi. l’attenta miscela degli elementi chiamati in gioco deve


lla tura fantasy

creare un equilibrio possibile, tale che, una volta stabilite le regole, esse non possano essere stravolte a piacimento dall’autore sulla base delle sue esigenze contingenti. la fantasy è una diretta emanazione del genere fantastico e per certi versi si compenetrano rendendo in qualche caso molto incerti i confini tra i due filoni. il fantastico si fonda sull’introduzione di elementi di fantasia o soprannaturali all’interno della realtà quotidianamente esperita. ovviamente, questa separazione e categorizzazione è molto labile e incerta, poiché tracciare una linea di demarcazione netta è quanto mai impossibile. in ogni caso, possiamo cominciare a parlare di fantasy a partire dalle opere di Morris, lovecraft e Howard. in particolare quest’ultimo è, a tutti gli effetti, il padre di uno dei filoni di maggior successo del genere: il cosiddetto sword and sorcery o fantasy epico o, ancora, heroic fantasy. si tratta di romanzi che hanno come protagonista

un eroe dalle caratteristiche sovrumane, capace di imprese impensabili per i suoi simili. gli attanti principali sono spesso impavidi guerrieri che sfruttano la loro forza e la loro astuzia per riuscire a sconfiggere maghi o streghe senza scrupoli. uno dei maggiori rappresentanti di questa tipologia di personaggi è conan il barbaro, le cui gesta sono appunto narrate nei romanzi di robert e. Howard. alcuni tendono a lo sword and sorcery dall’heroic fantasy, riscontrando soltanto nel secondo sottogenere la presenza di maghi, sortilegi o eventi magici. Molti non condividono questa suddivisione e, generalmente, si preferisce fare coincidere i due filoni. la fantasy è un genere giovane, ancora in cerca di una definizione certa e condivisa dei suoi canoni. tuttavia c’è stato un autore in grado di gettare le basi per l’evoluzione del genere, un autore di cui parleremo nel prossimo numero: John r.r. tolkien.

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uLa luna nera, la metà oscura del mondo

Binah, la Grande Madre e l’atarassico Dio 9

di Maria Antonietta Pinna - marylibri1@gmail.com binah, amniotica potenza archetipale, femmina, origine e principio, datrice di vita e di morte. comprensione superna, terzo sephirot della cabala ebraica, associata a Marah, grande Mare. afrodite emerge dalla salsa acqua marina e la stessa Maria è chiamata Stella Maris. ne la Pala di Brera, opera di Piero della francesca, datata 1472, conservata appunto nella Pinacoteca di brera, Milano, sulla testa della Vergine fluttua un uovo, sospeso ad una conchiglia, legata a Venere e al mistero della rinascita, della salvezza dopo il peccato. Per i tibetani la conchiglia è sinonimo di purezza, suono del dharma, le parole sacre del buddha che ridestano dalle tenebre dell’ignoranza. Visnù la suona per scacciare i demoni. il mare cela fertile vita, gioielli e segreti. Verso di lui i popoli hanno sempre nutrito un atteggiamento ambivalente, paura e attrazione insieme. Venivano dal mare i serpenti che hanno stritolato laocoonte e i suoi figli. le mitiche omeriche sirene ingannatrici di ulisse, tentano con la voce l’uomo moderno, lo sperimentatore, l’astuto che sa e osa. e che dire del leviatano di biblica memoria? un mostro dal cuore duro come pietra, inattaccabile, pelle coriacea, resistente alla fiocina. dalla sua bocca spalancata escono fiamme e scintille. l’acqua ribolle sotto il peso delle sue squame. nel romanzo di Melville l’inafferrabile è una balena bianca di cui l’uomo potrà vedere le parti posteriori, come è detto nel capitolo lXXXVi. qui l’associazione col diavolo è evidente. dagli atti dei processi per stregoneria, emerge la realtà di donne torturate dall’inquisizione che hanno confessato commercio col maligno. dopo essere state lungamente sottoposte a tortura e spesso stuprate da devoti giudici e

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boia, confessavano che era uso nei sabba stregoneschi baciare il deretano del diavolo, in segno di sottomissione alla sua potenza. Moby dick, il rugoso, enorme cetaceo che vive nei mari del sud, mostra luciferino le parti posteriori come esibizione di forza sovrannaturale. il suo stesso noncolore, bianco, ne connota le proprietà ontologiche, la sua diabolica essenza. satana era l’angelo più bello e più luminoso del cielo prima della caduta. la luce, naturalmente unita all’irrealtà del bianco, acceca allo stesso modo del nero più nero. non si distingue più niente. il discernimento è annullato dalla troppa luce e dalle tenebre. e gli abissi del mare ancora non completamente esplorati, siti neri, dove la luce non penetra, ospitano creature incredibili, dalle forme bizzarre adatte all’oscurità, senz’occhi, trasparenti, con gli organi interni a vista, luminosi, carichi di elettricità. il mare nero rimane silenzioso mistero. il mistero fa paura. binah fa orrore. le antiche dee madri della fertilità, spesso dee della notte, con l’avvento del cristianesimo assumono connotazioni negative e sataniche. si demonizza il femminile, collegandolo al peccato, all’impurità e alla seduzione della santità maschile. si antropomorfizza e controlla ogni aspetto della vita, considerando “l’animalità” una sfera del male. l’uomo ritiene di essere l’essere superiore per antonomasia che si differenzia dagli animali in virtù della

grazia e del suo privilegiato rapporto con dio. il diavolo è un signore silvano, irsuto, abitatore di foreste e luoghi selvaggi, caprone puzzolente, gatto nero, cane. l’ermafroditismo naturale dionisiaco, diventerà bestialità satanica. le dee degli inni orfici, fertili e vergini contemporaneamente, maschi e femmine, vengono assorbite nell’esclusivo culto della Madonna che schiaccia la testa del serpente, a sottolineare il perduto rapporto con l’animalità, ormai assimilabile al peccato originale. l’animale viene perfino sottoposto a processo dall’inquisizione. topi, insetti, maiali, gatti, cani, serpenti, vengono accusati di crimini stregoneschi e spesso condannati alle stesse pene cui venivano sottoposti gli uomini. e c’era chi li difendeva e chi li accusava, con tanto di avvocati, giudici e arringhe. spesso le bestie venivano vestite con abiti umani, per dimostrare che ormai facevano parte del mondo antropizzato, dunque sottrarsi alla pena sarebbe stato difficile. natura-cultura, due mondi ben distinti. il cristianesimo

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opera una cesura netta, tesa verso l’annientamento della libertà naturale, in un’ottica disgregante ed antropocentrica. la distruzione dell’animalità porta alla pazzia, attraverso un processo di alienazione sempre più forte che la religione sistematicamente mette in atto. la tensione verso il meraviglioso, la gioia della scoperta, il mondo degli istinti, la magia della natura, vengono tarpati, condannati come di livello inferiore, indegno dell’uomo. la selvatichezza diventa sinonimo negativo di mostruosità, deformità, cattiveria, bassi istinti. l’umano non è più animale, di conseguenza perdono terreno le dee della notte indagatrici dell’istinto, del lato oscuro. tutto viene impietosamente illuminato dalla luce della grazia. essa sostituisce l’opacità lunare e, in nome di dio e della sua onniscienza, si fruga dentro le coscienze senza troppi complimenti, si accusano uomini e animali di trafficare con potenze occulte, si imbastiscono folli processi per stregoneria con condanne esemplari per maiali e ratti. l’uomo perde qualcosa di molto importante. il monoteismo uniforma le pulsioni umane in un’unica

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esclusivista direzione, in modo tale che i fedeli diventino gregge controllabile pieno di paure, ma soprattutto ignorante. dio è geloso, un padrone terrificante. guai a chi non si sottomette alla sua volontà. la religione cristiana, una delle cause principali della decadenza dell’impero romano e della paganità, ha avuto il merito di proclamare tutti fratelli in cristo, tutti uguali di fronte a dio. il servo ha la stessa dignità del padrone. i poveri uguali ai ricchi. Meraviglioso in teoria. in pratica dio diventa strumento di potere nelle mani di una chiesa sempre più ricca e tentacolare. il mondo si divide sempre in ricchi e poveri. si avverte un’involuzione, una volontà esclusivista di dominare il dominabile, di sottomettere ciò che non può essere conosciuto fino in fondo. È l’intrusione della religione nell’intimità, la sottomissione a un dogma fallico e cainita oggi più che mai anacronistico e ridicolo. risultato. una paura atavica delle donne che si riflette nel tessuto sociale. oggi non stiamo esattamente al tempo degli scranni d’ispezione successivi alla scandalosa Papessa giovanna, ma quasi.


le donne sono escluse dal sacerdozio e dalle cariche ecclesiastiche. la Vergine è una non-donna che ha affittato l’utero, trasformandolo in un oggetto ad uso e consumo di un dogma antropofallico e misogino. allora non è vero che siamo tutti uguali di fronte a dio. l’ago della bilancia pende tutto da una parte. ci sono figli e figliastre in perpetuo disequilibrio. dio dev’essere strabico oltre che atarassico, sordo, muto, cieco e soprattutto maschio. non ci si può fidare proprio di nessuno.

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uI (rin)tracciati

Ottiero Ottieri e bipolarismo psicoindustriale di Alessandro Puglisi - alex.puglisi@inwind.it 13

ironico. strana vicenda, letteraria e umana, quella di ottieri. Pioniere, e con tutta probabilità più alto esponente, del cosiddetto “romanzo industriale”, autore che conobbe un successo non sperato forse, e di cui oggi, a sfogliare antologie e storie della letteratura italiana, si fatica a trovar traccia. un successo, si diceva, prodotto da un lungo travaglio “mitopoietico”, coperto e messo in atto dalle sue prime tre opere, dall’esordio con Memorie dell’incoscienza, nel 1954, fino a quel Donnarumma all’assalto del 1959 sul quale sarà necessario, più avanti, condurre un approfondimento di maggiore sistematicità, passando per Tempi stretti, uscito nel 1957 per einaudi nella celebre (e “leggendaria”, per certi versi) collana «i gettoni». un percorso di coerenza estrema, a ben vedere, che se nelle produzioni sopradette conosce, come si accennava in precedenza, la fase di creazione, di poiesi, altresì rimane, nei suoi tratti essenziali e caratterizzanti, presente e costante e vivo nell’intera bibliografia. l’io-ottieri attraversa buona parte del secolo ventesimo, oltre a insinuarsi continuamente negli scritti, tracciando una linea carsica, condotta su emergenze poeticoesistenziali frammiste a volontarie, e frequenti, anche se spesso poi disilluse, smentite, remissioni.

«sono stato tre volte in pericolo di morte (di vita); sempre in quei momenti o periodi ho ignorato il pensiero della morte»: si legge così a pagina 12 dell’edizione guanda del De morte, volume uscito nel 1997. circa cinque anni dopo, il 25 luglio 2002, ottiero ottieri muore d’infarto. nel maggio dello stesso anno era stato pubblicato, sempre per guanda, Una irata sensazione di peggioramento, testo dal titolo tanto supremamente profetico quanto beffardamente

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nonostante gli esiti nella carriera di ottieri, particolari se vogliamo, e comunque prepotentemente figli del loro tempo, del “miracolo italiano” degli anni cinquanta e sessanta, la formazione dello scrittore, nato a roma, è piuttosto consueta. la frequentazione del liceo classico del collegio Massimo dei gesuiti lo porta ad imparare, come scrive egli stesso in L’irrealtà quotidiana, «il fascismo e il dannunzianesimo, poco cattolicesimo, nessun


cristianesimo» e precede l’iscrizione alla facoltà di lettere de la sapienza, nel 1941, presso la quale conseguirà la laurea nel 1945, sotto la guida di due maestri del calibro di natalino sapegno e carlo salinari, con una tesi sulle prose amatorie di leon battista alberti. la specializzazione in letteratura inglese lo condurrà poi alla difficile arte della traduzione, e dunque a dare avvio alla sua carriera di scrittore partendo dall’essere un letterato, un “umanista” puro. fatte salve le varie collaborazioni a testate giornalistiche e non potendo giocoforza rendere conto degli spostamenti di ottieri tra roma e Milano, dobbiamo invece necessariamente individuare un punto di svolta, di nonritorno, nel suo trasferimento a Pozzuoli, nel marzo del 1955, a seguito della proposta, ricevuta da adriano olivetti, di lavorare per l’omonima azienda con l’incarico di selezionatore del personale per una nuova fabbrica costruita proprio in prossimità del mare. Donnarumma all’assalto è infatti il racconto, in forma di atipico diario, dell’esperienza dello scrittore, prestato all’industria, “al servizio della psicotecnica”, vale a dire della scienza grazie alla quale la selezione degli operai dovrebbe (avrebbe dovuto?) colorarsi di una inumana, asettica, e per questo più affidabile e riscontrabile, scientificità. si sceglie non senza cognizione di causa di riservare spazio maggiore a tale romanzo, poiché sembra contenere in giusta misura ognuno dei temi sviluppati con organicità ed estensione nell’intera carriera di ottieri, ad

eccezione, forse, o magari contenuta solo in nuce, della riflessione, precisa e lucida, sulla morte e sull’accettazione di questa, per la quale ci affideremo, in chiusura, al De morte di cui sopra. Ma riflettiamo sulla gestazione di Donnarumma all’assalto: lunga e irta di ostacoli, fra tutti l’insoddisfazione dello stesso autore, che rimaneggia svariate volte l’opera, e le perplessità, dapprima piuttosto convinte e accese, poi stemperate, da parte del direttivo della olivetti. basterà dire che ottieri racconta di aver, tra il marzo e il novembre 1955, buttato giù «il libro come un piccolo diario, man mano che osservavo quanto avveniva intorno al mio tavolo di lavoro, a Pozzuoli». urgenza della scrittura, dunque, in prima istanza. orbene, se la scrittura, nella primavera del 1957 sembra essere a circa un terzo del lavoro, il romanzo, così come lo conosciamo oggi e col titolo attuale, suggerito in extremis da Valentino bompiani, uscirà solo il 30 aprile 1959. Peraltro, non si creda questo come un unicum. la riscrittura, in ottieri, diventa un mezzo essenziale e imprescindibile di confronto col testo, il quale talvolta finisce per assumere forme inaspettate e non sempre previste sin dall’inizio. diario di lavoro, diario “di bordo”, ma anche grande riflessione sull’azienda e sull’aziendalismo (di cui ottieri venne accusato a più riprese), il romanzo, che per taluni può risultare ostico alla lettura, procede su tempi simili a quelli di fabbrica, attraverso una scansione rigorosa dei giorni e delle settimane, in venti capitoli piuttosto brevi,

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film che in realtà non fu mai realizzato. e giungiamo infine, consci della parzialità di quanto esposto e nelle argomentazioni così come nella vita, alla morte. il De morte, più volte ricordato, si apre sulle parole: «ogni scheggia di morte rimbalza su dio». Possiamo ora chiederci: quale dio? e cosa è dio? e cosa è dio in ottieri? in estrema sintesi, e consapevoli di rischiare la forzatura ermeneutica, immaginiamo un dio-fabbrica, trascendentale ma allo stesso tempo fortemente corporeo, umorale, al cui interno, nelle cui arterie, si muovono turbe di operai, depersonalizzati e così ricondotti all’entità superiore dell’azienda. la misura è colma: ecco perciò che la poetica del bipolare, del ripensamento, della tensione trattenuta, di ottieri, si compie, deve compiersi, nello stigmatizzare il bisogno, oggi purtroppo più che mai profondamente attuale, di organizzare, di irreggimentare, questo nostro passaggio sul pianeta terra.

scritti con stile ora nervoso ora più disteso, soprattutto in corrispondenza della rappresentazione del binomio tra fabbrica e ambiente esterno. gli stabilimenti in cui gli operai comandano, con perizia e velocità, enormi macchine di metallo divengono a tratti un purgatorio, un luogo d’espiazione. similmente, l’ingrato e arduo lavoro del protagonista-ottieri lo spinge a riconsiderare l’umanità dell’azienda, nel confronto con la varia umanità, “poetica”, ma disgraziata, del Mezzogiorno, della quale il donnarumma del titolo, aspirante operaio che, con gesto titanico si sottrae alla selezione, si libera dal giogo della “domanda di lavoro” e delle valutazioni sulle schede d’esame, rappresenta un magnifico, quanto inetto, antieroe. o fabbrica o morte, sembra di sentire, tra le pagine più spiccatamente “industriali” di ottieri, le quali, sia detto come nota a margine, ispirarono anche rossellini, per un

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uViaggio nel pensiero antico alla scoperta della identità europea

Le radici dell’Europa di Adriana Pedicini - adripedi@virgilio.it Estremamente breve e travagliata è la vita di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente, temono il futuro: giunti al momento estremo, tardi comprendono di essere stati occupati tanto tempo senza concludere nulla. Seneca 18

la tradizione classica costituisce un insostituibile patrimonio per il nostro Paese poiché essa è alla base della cultura occidentale e dell’identità europea. dunque è necessario e auspicabile che alla base dell’iter formativo del cittadino europeo ci sia il mondo classico, cioè quel mondo che per il suo stesso status è trasmissibile, perché riconosciuto da tutti, perché nella trasmissione si rivitalizza diventando così rileggibile in ogni tempo. non sapere classico come mera erudizione, aristocratica chiusura che verrebbe a contraddire il principio stesso di classicità, ma come comunicazione di valori che si ritengono esemplari, punto di riferimento per una lettura consapevole del presente in una dialettica di continuità/alterità. i miti, poi, come segno della cultura alta, ma anche delle conoscenze più elementari del popolo greco e latino, sono sempre stati il tentativo di dare spiegazioni alle problematiche esistenziali che, in ogni tempo e in ogni luogo, l’uomo si è posto. e questo mantiene costantemente vivo il loro fascino, dà loro un alone di attualità: i miti legano il presente al passato e ci consentono di ritrovare le origini della nostra cultura e della nostra concezione della vita. Pertanto la presente rubrica vuole essere un luogo di riflessione sul patrimonio culturale dell’europa antica fin dalle origini della formazione dell’antico continente per capire meglio il presente e prepararsi più consapevolmente al futuro. e nel contempo rappresenta una interessante e originale “navigazione” nel teatro antico che permette di percorrere un cammino di ricerca dei valori etici e delle conquiste del pensiero soprattutto attraverso la

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più “sintetica” forma d’arte, il teatro appunto, per acquisire la consapevolezza della dimensione storica del presente e della dimensione attuale del passato. concludendo si ritiene cosa affascinante, soprattutto per le nuove generazioni, andare alla ricerca delle origini del nostro antico continente dal punto di vista antropologicoculturale, convinti che solo la consapevolezza delle proprie radici possa orientare verso la diffusione di valori perenni e nel contempo aprire un dialogo con popoli di diversa cultura per un confronto e arricchimento reciproci.

3. Radici classiche della cultura europea 4. Tradizione culturale e dialetto.

1. “Europa” nel mondo classico: tra mito e storia

1. “Europa” nel mondo classico: tra mito e storia

alla base della ricerca intorno alle origini dell’europa dal punto di vista antropologico-culturale vi è senz’altro il mito relativo alla giovane figlia di agenore, re di libia o di lidia, o forse di fenice, rapita da predoni cretesi oppure da zeus stesso, a cui avrebbe dato due figli (Minosse e radamanto), dopo averla trasportata su una terra da lei chiamata europa, il quale mito però poco a poco cede il passo a notizie più sicure, di natura storiografica, secondo le testimonianze di vari autori antichi.

2. Costumi degli antichi popoli europei

sullo stesso mito di europa sussistono altre varianti: forse

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fu una bellissima ninfa, rapita da zeus e abbandonata poi a creta insieme a un cane, armata di un giavellotto. il cane, nell’immaginario mitico, rappresenterebbe il continente europa, capace di rendere civile qualsiasi popolo, il giavellotto simboleggerebbe l’antagonismo tra oriente e occidente. elemento comune alle varie versioni del mito è però creta, sede e culla della civiltà mediterranea, sviluppatasi nel iii millennio a.c. e divenuta punto di congiunzione tra le civiltà asiatiche e i popoli europei, essendo da essa derivata la civiltà greca che influì sulla civiltà di tutta l’europa. Più tardi il termine europa passò a designare una zona geograficamente definita, i cui confini risultano citati per la prima volta in un inno pseudo-omerico, come di una terra diversa da quelle bagnate dal mare egeo. in seguito esso fu utilizzato dai greci per indicare tutto il territorio che si estendeva a nord del mar Mediterraneo, fino al fiume tanai (don) verso est e fino al grande Mare (atlantico) verso ovest; i confini settentrionali rimasero ignoti a lungo, abitati - secondo la tradizione - dal mitico popolo degli iperborei. anche le caratteristiche fisiche (idrografiche, botaniche, climatiche, ecc.) dell’antica europa ci sono riferite da parecchie testimonianze letterarie e archeologiche, così come è possibile venire a conoscenza degli usi, costumi, caratteristiche economico-sociali dei suoi primi abitatori. di “europa”, invece, intesa come concetto culturale, identità politica a sé, troviamo già approfondita analisi nel pensiero greco. Per secoli l’appartenenza a questa entità, distinta dall’asia dei barbari e dall’oriente, è stata coscienza acquisita. l’europa, comunque, non è il più antico centro di insediamento: gli abitatori vi giunsero da altre regioni situate a oriente. da ciò deriva l’affinità che fin dall’antichità ha accomunato gran parte dei popoli europei nelle caratteristiche somatiche, nella lingua, nei costumi, nonostante le molteplici differenze attuali. inoltre ciò che distingue l’europa da ogni altro continente è la sua civiltà unitaria, anche se le vicende storiche hanno determinato nel corso dei secoli l’individualità dei popoli europei. nel mondo contemporaneo l’idea di europa si è venuta progressivamente evolvendo, assumendo sfumature e significati diversi ma sempre nel nome dell’unificazione dei popoli, nonostante ci troviamo in un momento storico in cui tutto appare molto confuso in un senso alienante di precarietà, dato l’esteso fenomeno dell’immigrazione.

2. Costumi degli antichi popoli europei

l'educazione al rispetto delle culture e delle tradizioni proprie ed altrui come patrimonio inalienabile di ciascuno è il risultato dei processi educativi contestualmente

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influenzati dai mutamenti culturali. la radice di tale atteggiamento culturale e comportamentale è ravvisabile nel comune spirito europeo che lega i popoli con un vincolo superiore a ogni distinzione di nazione e di razza. la patria del nostro spirito è per tutti noi l’antico. studiare il passato e conoscere i costumi degli antichi popoli è un po’ conoscere noi stessi che ne siamo il risultato; e conoscere noi stessi è l’unico modo per dominare razionalmente la nostra vita e aprirci al dialogo con gli altri popoli e quindi alla pace attraverso l’acquisizione di scale di valori, modelli, termini di paragone, paradigmi che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e che danno una forma (perciò formativi) alle esperienze future. solo così è possibile abituare soprattutto le giovani generazioni al rispetto dell'altro come sentimento e ragione, alla tolleranza per tutti gli aspetti che riguardino il vivere civile e i rapporti interpersonali, a percepire l'identità, pur nella eterogeneità delle lingue, razze, costumi, religione, dell'essere umano in quanto tale e nel suo divenire storico. inoltre è utile leggere nel passato non solo l'identico ma anche il diverso da noi in fatto di etica, politica, e processi sociali in genere, al fine di guidare alla ri-scoperta di valori perenni e di sentimenti universali onde poter valorizzare al meglio il concetto di tradizione, ovvero quella continuità tra passato e presente che solo attraverso le opere degli antichi può essere colta nella maniera didatticamente più fruttuosa ai fini dell'approccio alle diverse civiltà letterarie.


Non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali... nessun libro che parla di un libro dice di più del libro in questione I. Calvino, Perché leggere i classici

Appendice Galli e Germani a confronto (ces. de bel. gal. Vi, 24) ac fuit antea tempus, cum germanos galli virtute superarent, ultro bella inferrent, propter hominum multitudinem agrique inopiam trans rhenum colonias mitterent. itaque ea quae fertilissima germaniae sunt loca circum Hercyniam silvam, quam eratostheni et quibusdam graecis fama notam esse video, quam illi orcyniam appellant, Volcae tectosages occupaverunt atque ibi consederunt; quae gens ad hoc tempus his sedibus sese continent summamque habet iustitiae et bellicae laudis opinionem. nunc quod in eadem inopia, egestate, patientia qua germani permanent, eodem victu et cultu corporis utuntur, gallis autem provinciarum propinquitatis et transmarinarum rerum notizia multa ad copiam atque usus largitur, paulatim adsuefacti superari multisque victi proeliis ne se quidam ipsi cum illis virtute comparant.

Pure, fu già tempo in cui i galli vincevano di valore i germani, facevano loro guerra per primi, mandavano colonie oltre il reno per riparare all’eccessiva popolazione e alla scarsità dei terreni. e così i luoghi più fertili della germania, quelli attorno alla selva ercinia*, che vedo conosciuta da eratostene e da altri greci - ma essi la chiamano orcinia -, furono occupati dai Volci tettòsagi, che vi posero sede; e abitano ancora il paese e hanno alta fama di giustizia e di valor militare. oggi, i germani continuano a vivere come prima, poveri, bisognosi, rassegnati al medesimo vitto e durezza di vita, mentre i galli, data la vicinanza delle nostre province e la conoscenza dei prodotti d’oltremare, hanno grande abbondanza e comodità; e così, assuefatti a poco a poco a sentirsi inferiori, e vinti in molte battaglie, essi per i primi non pensano neppure a paragonarsi con loro in valore.

*

la selva ercinia, oltre all’attuale selva nera, comprendeva tutto il sistema delle alture a nord del danubio, fino alla porta di Moravia.

Fine prima parte

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uSnorkeling letterario

Linguaggio dello stupore e di Michele Ruele - micsalias@gmail.com c'è in La storia di elsa Morante questa frase molto semplice che muove da un concetto molto semplice (occhi che riflettono il carattere, certo che è semplice). si tratta di ida, la madre: E nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c'era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione. Varrebbe la pena di avventurarsi su questa pista della precognizione, è la pointe che pizzica di più nelle due righe. Poi però un altro concetto: che cos’è la dolcezza passiva? nella vita può succedere che si avverta la dolcezza passiva in qualcuno, ma si può metterci anche dei decenni prima di capirlo e anche prima di capire e distinguere che esistono diverse forme di dolcezza. chi legge i romanzi invece trova delle scorciatoie. si può risparmiare decenni di esperienza e guadagnare in consapevolezza. che cos'è la dolcezza passiva?

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quante dolcezze esistono? È l'esercizio della verità che porta all'invenzione del linguaggio, e non viceversa. Col puro esercizio delle parole si potrà magari combinare un artificio elegante, ma non si inventa nulla. Elsa Morante quando la scrittura è corpo vivo, corpo di verità, con le sue ombre e con la sua densità e con i suoi odori o profumi e con la sua coerenza – quando è così la lettura permette di vivere (già: vivere, il sistema dell’immaginazione non è meno vero del sistema “reale”) situazioni che quasi sempre non sono alla portata del lettore, di sicuro mai nel momento in cui legge. e anche permette di vedere e sentire come un altro vede e sente; non meno importante, permette di conoscere lo sforzo di esprimersi. quanto impara il lettore dei grandi romanzi di idee, diciamo da Anna Karenina? la varietà nel carattere di levin è una scuola sentimentale in cui si impara la sofferenza amorosa senza essere stato innamorato, non corrisposto (non in quel modo), si affrontano incubi notturni con lupi alle


dell’ascolto

calcagna, si falcia il grano esaltati dalla fatica e si va malvolentieri a caccia di beccacce per poi tornare un po’ più felici di come si era partiti. l’accostamento a tolstoj può apparire azzardato, secondo me non lo è, vale la pena di leggere i racconti dell’americano thom Jones, per esempio in Ondata di freddo (minimum fax, 2003). Per una narrativa dalle grandi ambizioni come queste (ammesso che siano da considerare ambiziose categorie come lo stupore, la meraviglia, l’ascolto) servono tecnica e serve aver imparato a vivere, sapere come sono fatte le cose che si racconta. non necessariamente le proprie. forse è fortunato lo scrittore che elabora questi sguardi sensibili, sicuramente è fortunato il lettore che lo incontra. che ne sa una donna degli smarrimenti amorosi di un vecchio commesso che ha vissuto aridamente fino a quando... La guida di Margot era agile: – Ha mai pensato che guidare un’auto sia una danza? – Non lo aveva mai pensato il signor Thomas e per risposta la guardava meravigliato. La strada serpeggiava tra boschi e campagna aperta e Margot accompagnava le variazioni con lievi inclinazioni del busto, maneggiando leggera il volante. C’era una naturalezza totale nei suoi movimenti, sicché il commesso si abbandonò, scivolando nel sopore; gli occhi vedevano un paesaggio che la mente registrava con un benessere vasto, comprensivo di tutto. Quando, l’ultima volta, era stato bene così? O era la prima?

La prima volta in vita sua? Allungò le gambe e l’occhio gli sfuggì d’istinto sulle gambe della sua compagna, sulla seta chiara delle calze, sulle ginocchia che affioravano, lievemente divaricate, sotto la stoffa scura della gonna. Forse era la prima volta in vita sua. E lo sguardo soddisfatto si rivolse al paesaggio circostante. Marta Morazzoni, L’estuario, Longanesi 1996 la capacità di descrivere una fotografia e far vedere al lettore che è stata presa un attimo prima che la ragazza ritratta stia per sorridere. com’è un volto un attimo prima che sorrida? con quale lente si può rilevare la piega del labbro che lo annuncia? Mario fortunato, ugo cornia, scrittori molto diversi tra loro, sanno raccontare questa variabilità. rapsodia di titoli: L’arte di perdere peso (einaudi) di fortunato; Quasi amore (sellerio) e Sulle tristezze e ragionamenti (quodlibet/compagnia extra) di cornia. Ma ci si può mettere anche degli altri classici, da Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo cerami a Uomini, boschi e api di Mario rigoni stern, oppure libri ingiustamente meno conosciuti come Il signore degli occhi di roberto Pazzi (frassinelli 2004): in questo romanzo l’uomo più ricco e potente d’italia si ritira dalla vita politica in un convento benedettino, rifiutando lo stile di vita precedente. giulio Mozzi narra cose e sentimenti con quella finezza, con lo sguardo attento e fluttuante, che comprende particolare e generale: per esempio nel racconto

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L’apprendista in Questo è il giardino (prima edizione theoria, poi Mondadori, ripubblicato nel 2005 da sironi) il protagonista è un ragazzino operaio alle prime armi, che pensa da operaio con il suo orizzonte di vita preciso, i suoi desideri e con la sua necessità di elaborare attorno a sé un mondo conformato ai valori della fabbrica. la scrittura dotata di un corpo deve aspirare alla verità e presupporre un pubblico vivo e vegeto. si legga il recente Mozzi di Sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili (Mondadori 2009). Ma prima ancora di questo libro, Mozzi: Io credo di essere assolutamente incapace di scrivere senza un pubblico davanti. Non so se è esibizionismo; se lo è mi sta bene. Una frase che ho sentito dire spesso, sia da scrittori cosiddetti professionisti sia da scrittori cosiddetti della domenica, ossia “io scrivo soprattutto per me”, mi sembra quasi priva di senso. Chiedo perdono per la banalità del ragionamento, ma devo dire: scrivere, come parlare, serve alla comunicazione; se non scrivo rivolgendomi a qualcuno, sono come uno che parla da solo in una stanza vuota. Non voglio dire solo che, quando scrivo, cerco di immaginarmi una sorta di lettore ideale o di lettore tipo che legga quello che scrivo; voglio dire che proprio mi interessa che un pubblico reale, in carne e ossa, ci sia; e, se penso che non ci sia, non scrivo. Parole private dette in pubblico, prima edizione Theoria 1997, poi Fernandel 2002 Per questa ricognizione (arbitraria, restano fuori un mare di autori e titoli) sulla fiction che esprime l’esistenza come una serie di variazioni che la scoprono, attraverso lo stupore e l’ascolto e la meraviglia, che rifiuta lo sguardo ombelicale e solipsistico, non si può chiudere senza gianni celati (qui niente titoli rapsodici, si deve leggere tutto, si può segnalare i nuovi Costumi degli italiani 1 e 2, quodlibet 2009): Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e lo raccontiamo, per avere esistenza. E quando un uomo muore porta con sé le apparizioni venute a lui fin dall’infanzia, lasciando gli altri a fiutare il buco dove ogni cosa scompare. Non ancora scomparso questo paesaggio, nella bella luce: linee di campi a perdita d’occhio, di canali stretti e dritti come gli argini, di strade con poco traffico in queste campagne. E una qualità del cielo più fresca, grazie ai venti che circolano senza ostacoli. Verso la foce, Feltrinelli 1989

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scrive il filosofo aldo giorgio gargani: L’intellettuale che fa cultura, parla in realtà per tacere... Agita le parole per stendere il silenzio su determinazioni fondamentali dell’emotività - quali, per esempio, lo stupore, la meraviglia, l’indecidibilità, l’inspiegabilità, il sentimento dell’enigma, il presagio del destino -, la quale, in quanto non viene pensata, cioè trasformata mediante sistemi di rappresentazione armonici e finitari, risulta dispersa e frammentata... Questo intellettuale è la figura di un uomo terrorizzato.


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uEditori: il catalogo qual è?

Quodlibet di Paolo Melissi - paolo.melissi@gmail.com l'intento di questo spazio è quello di esplorare l'inesausto mondo della piccola editoria italiana, “scoprendo” e mettendo in evidenza di volta in volta eccellenze, progetti e cataloghi che in molti casi nulla hanno da invidiare a editori dalle spalle ben più grosse (anzi). Prima di entrare nel vivo, prendendo in considerazione la prima casa editrice in programma, può essere interessante avere un'idea approssimativa di quanto stia accadendo negli ultimi anni in italia per quanto riguarda il cosiddetto segmento della piccola e media editoria grazie a qualche numero. i dati forniti dall'associazione italiana editori parlano chiaro. dal 2001 al 2007 si è passati da 650 a 1.259 editori con 510 titoli pubblicati ogni anno; gli editori con 11-50 titoli pubblicati in un anno, invece, sono passati nello stesso periodo da 880 a 1.197. ciò significa che, a fronte di un tasso di lettura di gran lunga inferiore alle medie delle nazioni europee più avanzate, nel nostro Paese l'iniziativa dei piccoli (per non dire piccolissimi) e medi editori è andata crescendo costantemente. di conseguenza è aumentato anche il numero delle pubblicazioni (novità + ristampe), e il fatturato del comparto è salito da 309,4 a 368,2 milioni di euro. stiamo parlando quindi di un mondo sempre più affollato e articolato, fatto di grandi specializzazioni come di piccoli “generalismi”, di preziosi marchi che fanno della riscoperta di autori il loro credo, di altri che decidono di esplorare il fittissimo universo di italici scriventi nella speranza di scovarne qualcuno che sia scrittore e, perché no, di buon livello.

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a fronte di questa crescita, nel contempo, si è assistito a una lenta ma inesorabile decrescita delle librerie “indipendenti”, “tradizionali” e “di territorio”, a vantaggio di quelle appartenenti a grandi catene. in poche parole, si è andato restringendo progressivamente il “canale” di riferimento per editori piccoli e medi, che nelle grandi superfici dei megastore italici trovano poco spazio. Parlare quindi di piccoli editori non significa assecondare una posizione “elitista” e prevenuta quanto essere consci del fatto che ogni spazio a favore della piccola editoria (sia ben chiaro, non ci si stancherà mai di ripeterlo, non tutta, non a priori) è uno spazio conquistato (spazio mediatico, spazio distributivo, spazio espositivo). la decisione di partire da quodlibet edizioni non è del tutto casuale. Probabilmente la casa editrice di Macerata, fondata nel 1993 da un gruppo di allievi di giorgio agamben, e guidata da gino giometti e stefano Verdicchio, esemplifica in modo perfetto il concetto di realtà editoriale di progetto, concretizzata in un catalogo che, solo stando ai nomi degli autori, rimanda a dimensioni ben più “grandi”. nell'elenco, diventato particolarmente lungo e articolato nel corso di sedici anni, compaiono tra gli altri ingeborg bachmann, carmelo bene, daniele benati, ludwig binswanger, ermanno cavazzoni, gianni celati, georges Perec, Velimir chlebnikov, silvio d'arzo, antonio delfini, franco fortini, ivan illich, emmanuel levinas, giorgio Manganelli, Henri Michaux, Paolo nori,


fernando deleuze.

Pessoa,

robert

Walser,

gilles

dopo una partenza “specializzata” in saggistica e filosofia, quodlibet ha aperto anche alla letteratura e all'architettura. sono andate strutturandosi così le tre collane principali, “quodlibet”, “quaderni quodlibet” e “in ottavo”, affiancate di recente da “Verbarium” e “compagnia extra”, diretta da ermanno cavazzoni e dedicata alla narrativa (in catalogo gianni celati, Paolo nori, ugo cornia). con una veste grafica in cui prevale il rigore e l'essenzialità del bianco, quodlibet può dire di aver raggiunto una identità precisa e una conseguente identificabilità in libreria, in cui la scelta di autori “preziosi” è fondamentale. non a caso, si deve a quodlibet la possibilità di leggere L'uomo che dorme di georges Perec, Conoscenza degli abissi di Henri Michaux, L'osteria di silvio d'arzo, Costumi degli italiani di gianni celati, Un artista del digiuno di franz Kafka, Pubblici discorsi di Paolo nori. Ma anche il saggio di prossima uscita Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli di cartapesta di rem Koolhas, che si affianca a Il sogno di ludwig binswanger, al Francis Bacon di gilles deleuze, all'Atlante della letteratura tedesca curato da francesco fiorentino e giovanni sampaolo. a partire dal prossimo appuntamento, si prevede anche una partecipazione diretta degli editori, che avranno modo di raccontare direttamente la storia della propria casa editrice.

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Si può essere colti sia avendo letto dieci libri che dieci volte lo stesso libro. Dovrebbero preoccuparsi solo coloro che di libri non ne leggono mai. Ma proprio per questa ragione essi sono gli unici che non avranno mai preoccupazioni di questo genere. Umberto Eco

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uVetrioli sparsi

C'era una volta a Torino il caffè letterario di Emanuele Romeres, editor Marco Valerio Edizioni - emanueleromeres@marcovalerio.com monarchia. non che il conte di cavour disdegnasse la cultura, peraltro, perché sulle poltrone rosse del san carlo incontrava e si faceva vedere. la cultura letteraria del capoluogo, ancora all'inizio del novecento, si popolava di luoghi di incontro non ufficiali, ma conosciuti e frequentati. da gozzano a Pitigrilli, per giungere agli anni del secondo dopoguerra con calvino e Pavese, rintracciabili più spesso dalle parti di corso re umberto e corso Matteotti, punti di incontro e, naturalmente, scontro, fra la cultura cattolica di monsignor chiavazza e gli scomodi vicini laici dell'einaudi, nella storica sede di via biancamano. il caffè poteva all'improvviso trasformarsi in arena letteraria vera e vivace. gli anni settanta restano immortalati dai richiami al caffè elena cantato da enzo Maolucci. era la cultura dell'eskimo, e di lì a poco, una ventina di metri più avanti, sarebbe divampato l'incendio dell'angelo azzurro. una molotov sancì la fine degli eskimo e della stagione culturale della sinistra extraparlamentare.

c'era una volta a torino il caffè letterario. a dire il vero, non è che avesse sull'insegna un particolare riconoscimento, ma certo è che ai tempi di gozzano i bignè del caffè san carlo erano più che semplici leccornie, dalle dimensioni rigorosamente ridotte al bacio perfetto delle madamin corteggiate dal poeta. il caffè come luogo di incontro, nell'omonima piazza, dove si affacciano ancora il mitico caffè torino, con gli attributi del simbolo cittadino consumati dal discreto e pagano sfregare delle scarpine sull'ottone lucido e maschio, e il Mokita, punto di incontro eretico dei goliardi scomparsi, era per il capoluogo subalpino un'istituzione certamente più salda della bigotta

la tradizione si è consumata e logorata insieme alla città, sempre più provinciale e isolata quanto più impegnata ad autocelebrarsi come capitale del libro e della cultura. capitale di un regno inesistente insieme ai molti altri primati autoattribuiti da un potere politico ed economico, vassallo di modelli estranei al tessuto sociale e culturale proprio della città. invano hanno resistito o tentato di elevare baluardi i quartieri universitari. da via Po a via sant'ottavio, dove si affaccia l'ormai decadente "Palazzo nuovo", sede delle facoltà umanistiche. ci hanno provato la Pasticceria Primavera, complice una casa editrice universitaria, dando spazio a feste di laurea e bookcrossing. né meglio è riuscita l'antica trattoria ala, dove ancora si possono origliare liti accademiche condite alla toscana, spiazzata dai self service. bisognosa di diplomi, etichette e, possibilmente, promozioni a capitale di qualcosa, torino si

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è aggrappata al Mood di via cesare battisti. la posizione era favorevole, incastonata fra via roma e Palazzo carignano, a due passi dalle librerie feltrinelli e dal tecnologismo di fnac. Peccato che di libri ce ne siano tanti quanto pochi i frequentatori degli aperitivi disposti a sfogliarli. Modaiolo quanto poco letterario, ormai, può funzionare per i vernissage, a condizione che la cultura, quella vera, stia fuori dalla porta. non andò meglio al rosso rubino, ottima enoteca di via Madama cristina, che ancora oggi primeggia nelle selezioni dei vini. divenuta quasi per caso luogo di occasionale incontro dei redattori delle molte case editrici che ancora oggi si ostinano a restare in città, alla fine ha optato per dare spazio ai libri di gastronomia, più apprezzati dagli avventori delle opere letterarie. la torino da bere decise allora di accantonare l'area centrale per trasferirsi in piazza emanuele filiberto, con l'aiuto dei personaggi noti del passeggio giornalistico e musicale cittadino. Peccato che i personaggi fossero un po' appannati e i conti dei locali disastrati. d'altra parte, fra scrittori non paganti, cantanti in declino e politicotti rampanti, il destino era segnato in partenza. non restava che piangere, oppure infilarsi alla chetichella nei salotti ottocenteschi di florio, in via Po. non tanto speranzosi di incontrare intellettuali, quanto per spiare le ambientazioni dei romanzi rosa di stefania bertola. che vende una marea di libri ma naturalmente non fa tanto chic, non fosse altro perché è amica di quel gambo di sedano rinsecchito della littizzetto. dei vecchi intellettuali di via Po resta poco. saverio Vertone, che sotto i portici dimessi abitava e scriveva, è scomparso, e con lui una stagione intera. al posto della pubblicistica di alto respiro, la via è diventata patria di attori di sceneggiati. simpatici e popolari. Ma almeno per ora, fortunatamente ancora non letterari. alla fine, ci ha pensato gianni oliva. non piace a nessuno, neppure forse alla sinistra che lo ha promosso assessore alla cultura in regione, ma per lo meno con lui i piemontesi e i torinesi hanno riscoperto il piacere di una furiosa litigata culturale. naturalmente al circolo dei lettori di via bogino, sottratto alla grigia gestione del vecchio circolo degli artisti e trasformato a colpi di milioni di interventi pubblici nel tempio ufficiale della letteratura subalpina. incredibilmente e contro ogni previsione l'esperimento sembra per il momento riuscito. non tanto per le desertiche iniziative messe in piedi dalla direttrice del circolo, antonella Parigi, che riesce a brillare per l'assoluta sconnessione fra il proprio percorso personale e quello della realtà culturale cittadina, quanto per il fatto che gli spazi, in quanto pubblici,

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devono essere obtorto collo concessi anche a chi cultura ne fa per davvero. Per la maggior parte gli editori si sono guardati bene finora dal mettere piede nell'accogliente palazzo, o se lo fanno si attengono al più rigoroso riserbo. così, mentre gli aspiranti scrittori siedono ignari accanto all'editor che potrebbe pubblicare la loro opera, i fondi pubblici stanno trasformando il circolo nella prima cattedrale letteraria italiana. il resto della città naturalmente è un deserto. Pensare che, per rilanciare l'istituzione, basterebbe un semplice caffè, senza tanti ammiccamenti "parigini" e inondazioni di denaro. un semplice caffè, purché letterario.


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uCinematura

Alice in Wonderland

di Claudia Verardi - claudiaverardi@alice.it da sempre il cinema attinge alla letteratura, e soprattutto ai romanzi, per fare film. il 3 marzo è uscito in italia il nuovo lungometraggio di tim burton, Alice in Wonderland, tratto dall’omonimo libro di lewis carroll (pseudonimo – datogli dal suo editore – del reverendo, scrittore e matematico inglese charles lutwidge dodgson) del 1865. il titolo completo del grande classico che tutti conoscono è Alice’s Adventures in Wonderland ed è interessante annotarlo, perché potrebbe servire ad analizzare le differenze che intercorrono tra la narrazione letteraria e quella cinematografica. Alice in Wonderland è un libro denso di riferimenti, proverbi e poemetti legati all’epoca vittoriana in cui venne scritto e che furono, di volta in volta, riadattati per farne versioni cinematografiche. Pare che le vicende di alice siano nate durante una gita in barca che carroll fece sul tamigi insieme al reverendo robinson duckworth e a

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tre bambine, e che cominciò a raccontare per allietare il tempo che passava. a parte le trasposizioni cinematografiche, già la traduzione del libro dall’inglese all’italiano presentò svariati problemi, essendo il testo ricco di figure retoriche e continui riferimenti alla cultura inglese. da teodoro Pietrocola rossetti a emma cagli, da silvio spaventa filippi (che ne ripulì lo stile da toscanismi e arcaismi) fino ad aldo busi, diversi sono stati i traduttori e gli intellettuali (più o meno bravi) che si sono accostati ad Alice in Wonderland. nel cinema si spazia dalla versione di Walt disney del 1951 ai tanti adattamenti, tra cui figura quello recente di Jeremy tarr, Living in Neon Dreams, che vede nel cast anche il diabolico (?) Marilyn Manson negli insoliti panni della regina di cuori. in questa versione, che pare, tra l’altro, non essere ancora uscita (un bel mistero in pura salsa hollywoodiana) le fantasticherie di alice non sono altro che le visioni di una ragazza in coma dopo un incidente stradale. non è sempre facile trarre un film da un libro. esistono innumerevoli differenze tra il racconto per parole (narrativa) e quello per immagini (film). il cinema è molto più veloce, ama togliere, sfrondare, a volte addirittura strappare (ed ecco che taglia il titolo di un libro, per tornare a quanto detto sopra). un libro, invece, ha bisogno di più tempo per poter essere “digerito” e, spesso, evoca immagini più belle, più incontaminate e, proprio per questo, più personali. al protagonista di un libro si può dare la faccia che si immagina, quello di un film ha già la sua. Ma le due arti possono – e spesso per fortuna è così – viaggiare in parallelo e regalarsi qualcosa a vicenda. il film può farti entrare fisicamente nella storia e ti aiuta a vedere sotto un’altra luce quello che avevi già amato nel libro. Alice in Wonderland racconta la fantasia di poter sgretolare le nostre convinzioni più radicate, come quella di appartenere a una precisa dimensione spaziotemporale e la possibilità di poterci scagliare in una collocazione diversa, onirica, che potrebbe, al limite, diventare horror. i personaggi colorati e stravaganti di Alice in Wonderland costituiscono un gruppo corale e policromatico e il testo uno spartito letterario a più voci. siamo in un caldo pomeriggio d’estate e alice si trova nella campagna inglese. inseguendo per gioco un coniglio fin dentro la cavità di un albero viene catapultata in un universo parallelo dove tutto è capovolto. questo mondo è popolato da personaggi bizzarri come il cappellaio Matto e da strani animali, come stregatto. da qui in avanti, alice si trova a vivere situazioni curiose, come il festeggiamento del non-compleanno e, talvolta, pericolose, come la fuga dalle guardie della regina di cuori, alla fine della quale riuscirà ad abbandonare la dimensione del sogno e a ritornare nella realtà, mai così amata e rassicurante. il

soggetto letterario di Alice in Wonderland è un campionario sorprendente di trovate fantastiche piene di simbolismi e complessi meccanismi verbali. carroll curò moltissimo la scelta delle immagini, che danno particolare figuratività al testo, rendendone così quasi automatica la trasposizione

cinematografica. la grande carica immaginifica del testo ne rese infatti possibili, dal 1903 a oggi, moltissime versioni. il pubblico, però, si è spesso sentito disorientato di fronte ai film tratti da Alice in Wonderland, soprattutto per la mancanza di una struttura narrativa portante forte e per la trama illogica, e bisognerà aspettare un po’ per vedere come ha reagito di fronte al lavoro di tim burton, regista visionario e artista pop. chi ha amato il libro teme le infedeltà che il cinema inevitabilmente comporta, oltre agli scarti e ai tagli che si possono operare sul testo originale. contenuti fondamentali di questo libro sono il nonsense della vita, l’amore per il gioco e il gusto per la follia che, come altri elementi della sfera letteraria, non sempre sono facilmente riproducibili in immagini. il cinema, per questo motivo, a volte semplifica o edulcora, anche se questi trucchi sono usati, in un buon film, solo in ultima ipotesi. tim burton ha tradotto le immagini del libro in visioni cinematografiche, come ha già sapientemente fatto in produzioni precedenti. È probabile che, lasciatosi alle spalle precetti vittoriani e lezioni di surrealismo anni ’70 sfociati nell’accezione psichedelica, abbia scelto questo soggetto per la sua modernità vicina al gusto contemporaneo per la deformazione. il buio delle sale ha fatto il resto, amplificando la magia dell’opera, anche se è chiaro che le astrusità narrative sono trasportate nelle unità cinematografiche, molto più compresse, con l’evidente difficoltà del mezzo. burton, come carroll, ha avuto mestiere, ma anche grande fantasia. lo scrittore

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romanzo di lewis carroll, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. i personaggi del soggetto sono tanti, ma grande interesse va all’interpretazione di Johnny depp nel ruolo del cappellaio Matto. depp, attore di razza dotato di attitudine per la sperimentazione, e tim burton hanno disegnato (come fanno spesso quando si preparano a un film) i personaggi a matita e poi gli hanno dato vita colorandoli con acquarelli, creando così lo storyboard di base del racconto. depp ha detto che è uno stratagemma che utilizza sempre per immedesimarsi lentamente nel personaggio, perché lo aiuta a operare una metamorfosi e creare una sovrapposizione tra lui e il personaggio. tutti i protagonisti della storia – bianconiglio, stregatto, brucaliffo, Pinco Panco e Panco Pinco e la cattivissima regina di cuori tra gli altri – sono stati studiati dalla coppia burton depp in questo stesso modo. il cappellaio Matto è uno dei personaggi più singolari e interessanti del libro. il nome deriva dal vecchio modo di dire inglese “essere matti come un cappellaio” nato dal fatto che, nella lavorazione dei cappelli, si usava il mercurio, sostanza che aveva effetti tossici e deleteri sulla salute mentale degli artigiani cappellai.

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inglese era capace di farsi influenzare visivamente da quasi tutto quello che vedeva (ma così anche burton). si dice che uno dei luoghi che lo ispirò maggiormente per il libro fu la porta (che nel romanzo intese come tramite, trasformandola nella cavità di un albero) che dà sul bellissimo giardino di christ church, a oxford. il curriculum a tinte gotiche di tim burton gli permette senz’altro di visitare (e rivisitare) questo testo. il suo mondo filmico è stato, fin dagli inizi, un mondo fantastico. il regista americano, che annovera Big Fish, The Nightmare before Christmas e Mars Attack! tra i suoi lavori più apprezzabili, è specializzato nella realizzazione di scenari e panorami bizzarri e di pupazzi e creature virtuali che gli servono per ricreare ambientazioni specifiche. nel tempo, il suo linguaggio filmico si è evoluto ed è diventato più veloce, le pennellate di colore più credibili e gli ambienti fantastici, così belli e naturali da sembrare veri. burton ha raccontato di non aver mai amato molto Alice in Wonderland, soprattutto per la struttura troppo frammentata che assomiglia troppo alla cronaca degli incontri di alice e che rischia di coinvolgere poco a livello emotivo. il regista ha poi deciso di lavorarci, rapito dal linguaggio dei sogni che il testo contiene, e ha pensato di farne una sorta di seguito ideale, un sequel più che un remake. Pare che abbia scavato anche nel secondo

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il cappellaio Matto è uno dei mille sudditi della regina di cuori ed è un fallito, grande appassionato di orologi, dedito solo al gozzovigliare e ad ammazzare il tempo. Vive perennemente all’ora del tè (le sei) partecipando a feste con la lepre Marzolina (chiamata in altre versioni leprotto bisestile), anche lei del tutto fuori di testa, e non riesce mai a fare un discorso sensato senza interruzioni. nessun libro può, né deve, essere un’isola, soprattutto oggi, in cui viviamo in un’epoca di confronti e stimoli continui. al contrario. con un po’ di azzardo, i film possono essere accostati alle poesie per il loro impianto formale e ritmico e il racconto letterario può sentire l’esigenza di un’altra modalità espressiva, certo non funestata da uno sviluppo errato o da un impoverimento espressivo. quando si riesce in questa operazione, la magia della narrazione letteraria continua insieme a quella per immagini. tim burton è riuscito, nel film, a riprodurre in immagini, fra tutte, la figura di bianconiglio così come viene descritto nel primo capitolo del libro? bianco, con gli occhi rossi, frettoloso su due zampe e vestito di tutto punto, persino col panciotto? e il cappellaio Matto ha saputo sorprenderci, entusiasmarci, emozionarci?

nella caricatura è l’interprete ideale per dare al film autorevolezza e qualità. tim burton è un regista che eccelle per contenuti, montaggio e per quelle diavolerie moderne che sono gli effetti speciali. le risposte vanno da sé. Curiosità il mondo di tim burton è in mostra al MoMa (Museo d’arte Moderna) di new York. http://www.mymovies.it/cinemanews/2009/10302/ oltre alla mostra (aperta fino al 26 aprile), ci sarà una rassegna di 28 film horror e di fantascienza dal titolo “la lurida bellezza dei mostri”. la mostra si ispira alla poetica del sublime, cara ai romantici inglesi dell’ottocento che, per primi, capirono l’orrore dentro la bellezza e la bellezza terribile (si pensi fra tutti a William blake). ________ trailer italiano del film

Johnny depp è uno dei più bravi attori del cinema contemporaneo. nella commedia, come nel dramma e

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uTarantula

Komunikato n.ro 1 di Roberto Orsetti - rorsetti@tin.it un sottofondo musicale? confido anche nelle vostre segnalazioni, sia ben chiaro, per trovare argomenti che si possano affrontare in futuro. non mi occupo di musica “colta”... quindi non aspettatevi sinfonie. si parte... Mettete le cuffie!

nel 1980, durante un viaggio a londra, mi capitò tra le mani il libro di John lennon: In His Own Write. non ho mai avuto un buon rapporto con i beatles. scoprii solo allora che era stato pubblicato nel 1964 e che una parte di quei racconti erano apparsi su alcune riviste, mentre altri erano inediti. leggendolo in inglese, non senza difficoltà nel comprendere molti passi dei suoi scritti, mi accorsi però di un lennon nuovo per me. se si pensa che il tutto era stato scritto tra il 1961 e il 1964, veniva naturale il paragone con le canzoni dei beatles sino a quella data. quei racconti ci dicono di un lennon stralunato nelle sue visioni, dedito con piacere ai nonsense e allo humour bizzarro. ci consegnano un autore ben diverso da quello che scrive i testi delle canzoni dei beatles, circondati già da giovani folle urlanti. Per il suo modo di scrivere, la critica cercò ispiratori o nomi da accostargli: tra gli altri lewis carroll e James Joyce. quante volte la musica è stata unita alla letteratura o alla poesia? Musicisti o cantautori che diventano scrittori o poeti. opere letterarie che diventano ispiratrici di lavori musicali o riprendono vita grazie alle note sul pentagramma. di questo mi piacerebbe scrivere, magari per rivalutare o riflettere sul connubio tra queste forme di espressione. cercheremo di capire o confrontare come la stessa storia, Il Signore degli anelli ad esempio, abbia ispirato diversi musicisti e in quale modo. oppure cercheremo di trovare il rapporto tra le canzoni e la poesia o la letteratura. di come ci siano citazioni più o meno velate in testi di de gregori o guccini, per fare due nomi a caso. Mi piacerebbe anche ribaltare in maniera creativa il rapporto tra letteratura e musica. avete mai pensato, leggendo un libro o una poesia, a un brano musicale? e declamando i versi di un poeta non avete mai immaginato

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qualcuno di voi può immaginare una canzone del gruppo come Love me do o She loves you affiancata a uno scritto di lennon dello stesso periodo che dice: «sono un uomo ammuffito ammuffito. sono ammuffito in tutto e per tutto. sono un uomo ammuffito ammuffito. non ti sembra vero...» oppure una frase come «non c'erano mosche su frank quella mattina». dopo anni dichiarò che non voleva dare un gran significato particolare alle storie, ma semplicemente dimostrare la sua libertà di scrivere. un modo sicuramente creativo e umoristico. qualcosa di questo tipo verrà fuori nei lavori più maturi dei fab four, con qualche testo sopra le righe e pieno di strane visioni o giochi di parole. quello di lennon è un esempio di come un artista pieno di fantasia e talento, si possa staccare dalla sua piattaforma tradizionale, la canzone, e non solo per imbrattare pagine di un libro con la sua biografia. il mondo della musica è


infatti pieno di biografie. una semplice risposta alla richiesta di informazioni supplementari dei fan. una piccola minoranza, tra gli artisti, accetta la sfida di misurarsi con qualcosa di diverso dal testo di una canzone. sia ben chiaro: in un testo di canzone, a volte, c'è più storia o poesia che in cento libri incollati uno sull'altro. Ma trovarsi un libro di leonard cohen tra le mani, non può che essere un fantastico, ulteriore viaggio per chi lo conosce attraverso le sue canzoni.

il suo è uno scrivere sospeso tra prosa e poesia, tra visioni e riferimenti alla cultura beat di quel periodo. conferma ancora di più il suo ruolo definito da allen ginsberg con una storica frase: «la poesia, con dylan, fa il suo ingresso nel juke-box». leggere quel dylan, adesso, fa una certa rabbia. soprattutto se si pensa al valore che avremmo dato a quel dylan, calato nel movimento. Ma forse lui non voleva... e molti non glielo hanno ancora perdonato, considerandolo come un tradimento.

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dall'altra parte dell'oceano, bob dylan scrisse tra il 1965 e il 1966 il suo Tarantula. resistendo alle pressioni degli editori che lo avrebbero voluto pubblicare subito, accettò la stampa solo nel 1970. fuori dal tempo effettivo della scrittura, già nel 1970 il libro diventa lo scomodo confronto con il movimento dei poeti e scrittori “Made in usa”. quel movimento impegnato a costruire una nuova america, e che lui tenta di lasciarsi alle spalle.

quindi due libri, che hanno segnato la storia di due musicisti tra i più grandi del nostro tempo. l'hanno segnata perché, a dispetto di una carriera lunga e piena di successi, non ci sono stati altri lavori su carta. di lennon si disse che le pressioni, del gruppo prima e della solita moglie dopo, lo imbrigliarono nelle canzoni. la sua produzione solista dopo i beatles andò dall'impegno sociale e pacifista all'amore supremo. Ma della fantasia, dei giochi delle parole? nulla! di bob dylan... boh. la sua produzione dalla metà degli

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cosa rimane di questi due esempi? Potevano essere l'inizio di una carriera come scrittori, ma non lo è stato. Per merito o per colpa di chi? la vena artistica di scrittore è andata affievolendosi in loro? a leggere questa vicenda in maniera positiva, l'artista che non era in grado di reggere una produzione adeguata ha vinto sull'industria speculativa di quel momento. a leggerla in maniera negativa, quante favole avrebbe potuto raccontarci lennon senza Mccartney e quante canzoni di rottura avremmo ancora cantato con dylan? il libro di dylan, Tarantula, esce quando il musicista è già in crisi con se stesso e con gran parte dei suoi fan. Ha già rinnegato i suoi maestri, primi tra tutti gli scrittori ferlinghetti e ginsberg, cambiato modo di fare musica. con il senno di poi, Tarantula lo considero la fine del poetascrittore e l'inizio di una carriera poco più che dignitosa come cantautore. Mi ricordo del suo scrivere in Desolation Row: e l'unico suono che rimane dopo che l'ambulanza è andata via è cenerentola che spazza la strada nel vicolo della desolazione anni settanta parla da sola. abbandonata la scrittura tipica di Tarantula, si dedicò a strutture meno "rivoluzionarie". il valore dei suoi testi negli ultimi trent'anni ognuno di noi lo può valutare.

anni dopo de andré tradurrà con il titolo Via della Povertà questa canzone. Ma questa è un'altra puntata...

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Area Socio educativa

Corsi di alfabetizzazione strutturati in base all’utenza e ad ogni eventuale richiesta del committente. Corsi di formazione per insegnanti, mediatori culturali, operatori sociali sui temi inerenti lo spazio interculturale. Laboratori artistici e sensoriali per bambini e ragazzi delle scuole. Interventi educativi volti a prevenire o ridurre il rischio di emarginazione sociale. Progettazione e attivazione di interventi socio educativi in ambiti internazionali.

Progetto web personalizzato: il sito del Giardino dei Viandanti è l’ indirizzo dove trovare riflessioni e approfondimenti sui temi interculturali. Laboratori del fare strutturati e definiti per fasce d’età. Laboratori artistici e sensoriali per bambini e ragazzi delle scuole. Organizzazione e gestione di mostre d’arte. Proposte editoriali a tema interculturale.

Servizi alla persona

Comunicazione

Assistenza per il disbrigo di pratiche burocratiche per il migrante. Assistenza legale con il supporto di uno studio specializzato in diritto dell’ immigrazione. Percorsi di orientamenteo su specifica richiesta dell’ utenza con il supporto di counselor e coach specializzato. Consulenza fiscale per la compilazione della dichiarazione dei redditi presso un commercialista specializzato. Servizi di intermediazione e facilitazione linguistica per favorire l’inserimento sociale (stipula del mutuo, acquisto affitto casa...) tutte le foto utilizzate sono di Annamaria Volpi


uL’angolo delle interviste

Alessia Colo

Il gi di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it Alessia, oltre a essere una collaboratrice di Sul Romanzo, di recente hai fatto una scelta drastica di vita, ce ne parli. sì, molto volentieri e mi emoziono mentre ne parlo, se penso all’energia che mi ha dato la forza di cambiare vita a 34 anni, di questi tempi e in quest’italia che a volte stento a riconoscere. Ho abbandonato il mio lavoro da impiegata a tempo indeterminato per Il Giardino dei Viandanti, sono giunta al giardino dopo un lungo cammino di due anni che mi ha portato nuovamente a contatto con me stessa. credo non scorderò mai il giorno in cui un amico mi propose di insegnare italiano agli stranieri e io accettai per quella naturale curiosità che mi spinge sempre verso il nuovo. lo facevo di sabato, nell’unico giorno libero del mio lavoro d’ufficio, poi, scrivevo per non dimenticare di quelle mattine e della capacità di stupirmi che avevo ritrovato tornando ogni volta un po’ bambina grazie a tutti quei mondi diversi in cui approdavo ogni fine settimana.

lo straniamento e capire come ci si può sentire catapultati in un’altra realtà, senza più riferimenti culturali. ci siamo conosciute molti anni fa tra i banchi di scuola, poi la vita ci ha portato altrove e dopo molto tempo ci ha fatto rincontrare. da allora stiamo coltivando il nostro giardino. balraj è nato in india e vive in italia da quando aveva 13 anni, è arrivato nel 1993 per il ricongiungimento familiare e fin da subito ha iniziato a lavorare come imbianchino con il padre. 38

Di che cosa si occupa il Giardino dei Viandanti? il giardino dei Viandanti è un’organizzazione interculturale che attua progetti socio-educativi, di comunicazione e servizi alla persona. ogni suo intervento è volto a favorire la conoscenza tra gli individui, intesi come persone e non come semplici portatori di una diversa provenienza. ogni azione del giardino è finalizzata alla diffusione delle diverse culture, dei differenti punti di vista, alla conoscenza dei diritti universali che prescindono dai confini e dalle origini delle persone.

Chi sono i tuoi collaboratori? Come vi siete conosciuti? gli altri viandanti del giardino sono: anna e balraj anna è un’educatrice professionale, nomade per natura e curiosa patologica, in india ha vissuto l’esperienza della migrazione sulla sua pelle, una migrazione privilegiata da occidentale in un mondo nuovo, perché desiderava vivere

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da grande sognava di fare l’avvocato, qui in italia è un punto di riferimento per la comunità indiana del nord italia. gli piace aiutare gli stranieri a vivere nel nostro paese, spesso li assiste nel disbrigo delle pratiche burocratiche e per affrontare la vita pratica. Vive in perfetto equilibrio tra due culture, parla il punjabi e l’italiano con inflessione veneta, la frase che ripete più spesso è: “Voglio capire”. ci siamo conosciuti in un corteo di colori ad una manifestazione sikh, un momento di pace ed uguaglianza


ognesi

iardino dei viandanti che ha attraversato Mantova all’incirca un anno fa.

Da che cosa nasce il tuo interesse verso la letteratura e in particolare quella “migrante”? in generale amo l’arte, perché mi incuriosisce, mi fa riflettere e mi ha sempre aiutata a capire. la letteratura è una delle espressioni artistiche che preferisco, perché adoro la sua dimensione intima. un libro è un oggetto squisitamente personale fin da quando lo scegli e decidi che è adatto a te e a quello che stai cercando in quel momento della tua vita. Mi sono avvicinata alla letteratura migrante per capire i mondi lontani che incontravo ai miei corsi d’italiano, ho sorriso, mi sono commossa e tra le pagine ho riconosciuto persone che avevo conosciuto davvero.

Credi che la letteratura possa essere un possibile percorso per fare incontrare persone di mondi lontani? la letteratura è la voce delle parole che non si possono dimenticare, né non capire. fissate sulla carta e tradotte in tutti gli idiomi, le parole dei libri ci aiutano a incontrare persone che non avremmo mai potuto conoscere e a vivere con loro avventure che mai avremmo immaginato in mondi lontanissimi. la letteratura mi ha insegnato che il nostro non è l’unico mondo possibile e la vita di questi ultimi anni me l’ha dimostrato coi fatti.

Qual è il presente della vostra associazione e il futuro? abbiamo piantato un seme ed ora lo stiamo coltivando, è un lavoro paziente e meticoloso, credere fermamente nel proprio lavoro è ciò che giorno per giorno ci spinge ad andare avanti per rafforzare il nostro cammino. attualmente stiamo puntando molto sul nostro sito che è un progetto di comunicazione web tematico sulla diversità a partire da noi e dalle nostre attività. Vorremmo che chi arriva al Giardino dei Viandanti, capisse già dal web: chi siamo, cosa facciamo e come lavoriamo.

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paura di ciò che non si conosce e che è profondamente diverso da noi è un meccanismo umano di difesa che garantisce all’uomo il mantenimento della sua specie. alimentare la diffidenza e la paura è uno strumento politico funzionale ad accrescere il bisogno di sicurezza e di controllo dei cittadini che in onor di questo accettano la repressione e la violazione dei diritti costituzionali.

Il multiculturalismo degli anni Sessanta all’interno di Free Speech Movement ha trovato il suo compimento teorico dopo circa due decenni, eppure oggi c’è chi parla del fallimento del multiculturalismo, anche in Italia. Quali sono le tue idee? una società multiculturale per divenire un modello applicabile ed efficace deve acquisire una fisionomia interculturale. non basteranno norme restrittive per l’immigrazione, né rumorosi proclami politici a fermare un fenomeno che ormai contraddistingue la nostra penisola, ma occorrerà favorire con specifici interventi politico-sociali la naturale evoluzione verso una società interculturale. in una società interculturale le persone convivono e cooperano qualsiasi sia la loro nazionalità condividendo lo spazio di vita e lo spirito di appartenenza nazionale. ogni settimana dedichiamo la nostra homepage ad un articolo di riflessione e offriamo una panoramica di tutto ciò che avviene intorno a noi, curando una rassegna stampa tematica e una rubrica di pensieri, nella quale confluiscono gli apporti di chi entra in contatto con la diversità grazie al proprio lavoro e alla propria vita. alla nostra anima virtuale si affianca il lavoro sul campo, curiamo progetti educativi per le scuole e organizziamo corsi d’italiano per stranieri, interventi che riducano il rischio di emarginazione sociale, manifestazioni ed eventi che diano risalto alla ricchezza della diversità, aiutiamo gli stranieri ad affrontare la loro vita pratica e istituzionale. il futuro è il nostro presente che costruiamo giorno dopo giorno, ultimamente ci stiamo occupando di un progetto socio-educativo di cooperazione internazionale a cui teniamo molto. chissà, forse questo piccolo germoglio sarà proprio il nostro futuro.

La Lombardia e in particolare Mantova sono aree nelle quali le percentuali di immigrati sono più consistenti. Ironia della sorte, la presenza della Lega Nord, partito dichiaratamente xenofobo, ha molti proseliti nelle medesime aree. Come rapportarsi con forze politiche così ostili verso lo straniero? certo non facendo politica o proclami roboanti, ma semplicemente rimboccandosi le maniche e cercando di favorire la vera conoscenza tra gli individui. in italia la xenofobia è alimentata dal clima di paura crescente che i mass media e non solo, istillano nelle persone. avere

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Le condizioni di marginalità che le minoranze culturali spesso sono costrette a vivere sembrano il prodotto di una mancanza di rappresentatività politica. È necessario politicizzare le culture per risolvere problematiche simili? 41


credo che ogni minoranza abbia diritto ad essere rappresentata per non subire la sua esiguità numerica ed interagire efficacemente con le forze politiche, ma occorre impedirne la strumentalizzazione. chi è ai margini della società per dare voce alla propria presenza deve usufruire della mediazione culturale per accedere alle conoscenze e alle competenze indispensabili al riconoscimento istituzionale. Una delle tematiche più discusse nel nostro paese è la possibilità di spazi religiosi per gli stranieri, come nel caso delle moschee. Qual è la realtà mantovana in tale senso? a Mantova esiste una moschea frequentata dalla comunità del Magreb, la più numerosa dell’intera provincia. la seconda comunità maggiormente rappresentata per numero di migranti è quella indiana di cui il maggior numero di persone professa la religione sikh con due luoghi di culto situati in due regioni diverse, lombardia ed emilia romagna, ma a poca distanza tra loro. le donne straniere che svolgono il servizio di assistenza agli anziani professano la religione cristiano-ortodossa e la praticano la domenica nei luoghi di culto. Per uno straniero la religione è un momento di

condivisione solidale di fondamentale importanza per sopportare le difficili condizioni di vita a cui la maggior parte di loro è sottoposto.

I conflitti culturali e d’identità sembrano aumentare con il trascorrere degli anni, quali sono gli aspetti nevralgici che un’associazione come la vostra dovrebbe considerare con attenzione? con il nostro lavoro intendiamo favorire la conoscenza tra gli individui partendo dai concetti universali che trascendono la storia e le diverse culture, per “umanizzare” l’altro e renderlo più vicino. la multiculturalità non basta, va portato avanti il concetto dell’interculturalità e del rapporto tra persone con tradizioni diverse. il rispetto dell’altro passa necessariamente attraverso l’educazione. il giardino attiva percorsi diversi, ma con un fondamentale comune denominatore: far passare il messaggio che il rapporto con l’altro è sempre un arricchimento.

Ti ringrazio e auguro a te e ai tuoi collaboratori buon lavoro.

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Gran brutta malattia il razzismo. PiĂš che altro strana: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri. Albert Einstein

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uLa poesia e il racconto

sceglieremo sempre una poesia e un racconto fra quelli giunti a yousulromanzo@libero.it. il primo tema affrontato è la XENOFOBIA, ahimè dilagante nel nostro paese. Per quanto concerne la poesia desideriamo tentare un esperimento, riprendere passate strutture e rivederle con occhi contemporanei, ecco la ragione per la quale si è proposto il sonetto. siamo così sicuri che la metrica sia morta? e se anche lo fosse, perché non tentare di riproporla? la versificazione libera del ‘900 è stata senza dubbio un’evoluzione originale della poesia, eppure noi siamo convinti che le forme lontane nel tempo abbiano ancora una voce, un desiderio di sentirsi vive.

nel prossimo numero ci dedicheremo a un’altra tematica: la BIOETICA. i racconti saranno di una lunghezza massima di 16.000 caratteri (spazi inclusi). le Poesie saranno ancora sonetti (qualsiasi tipo di sonetto, anche il caudato, rinterzato, ecc). inviate i vostri lavori a yousulromanzo@libero.it, in oggetto: racconto o Poesia. allegate una breve scheda biografica che non dovrà essere superiore a 800 caratteri (spazi inclusi). La redazione

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Follia … mania … xenofobia di Sabrina Mantini

Dal cielo sputato e spinto ai margini c’è un groviglio di giallo, di nero, macchie che sporcano il bianco leggero delle nubi, è massa – a cui mettere argini! Sul ciglio della strada, ai margini c’è un fiore diverso, triste e fiero che ha perso ogni petalo di vero, ogni qualità – stupidità degli argini! La sensibilità è ormai morta, è acqua raggrumata – svaporata –, la pietà è gravemente malata, l’uguaglianza ha chiuso la sua porta, la fraternità è evaporata, và il senno sulla luna in biga alata. Sabrina Mantini non credo nelle biografie: in quale modo la mia età (40 anni), la mia residenza attuale (Piacenza) o la mia professione (insegnante di liceo) potrebbero definirmi? di me bisognerebbe sapere soltanto due cose: chi sono e cosa voglio. e dunque vediamo … chi sono io? una poetessa. cosa voglio? nelle cose è nascosto un cuore di vetro pronto a riflettere ogni sorriso o ogni lacrima. Ma a me non basta scorgere il riflesso del mio viso, io voglio vedere il nulla racchiuso in quella tremula prigione di vetro. io voglio cogliere l’oscuro segreto.

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Io non domando a che razza appartenga un uomo, basta che sia un essere umano; nessuno può essere qualcosa di peggio. Mark Twain

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Tutto va come deve andare

di Sara D’Ippolito

Enorme, questa città. La Capitale. La radio nazionale ha per slogan “Tutto andrà bene”. Era la prima frase che avevo sentito arrivando in questo paese. Già... Auguri, pensai. Sono già diversi mesi che vivo qui eppure non sono ancora uscita da sola per le strade. I primi giorni tutto mi sembrava così enorme che anche arrivare al supermercato all’angolo della via risultava complicato. Ma allora non sapevo neppure leggere i cartelli delle strade o dei negozi. Ancora oggi non riesco ad avere una precisa comprensione della geografia del luogo e dei criteri architettonici, se così posso esprimermi. Da noi le case sono così minute, ammassate le une alle altre e in un colpo d’occhio puoi subito scorgere dove finisce il paese. Oggi è domenica e poi non è ancora così freddo da aver voglia di starsene tutto il giorno a casa. Mi decido. Esco. Abito in periferia. Qui i palazzi sono tutti molto alti e questo dà l’impressione che il cielo sia più profondo di quello che copriva la mia vecchia terra natia. Cammino senza cappello, perché è una giornata di sole. Le donne tornano dal mercato e i vecchi siedono di fronte al chiosco di vendita della birra. Mi siedo su una panchina e i cani vengono subito ad annusarmi. Qui i cani sono oggetto dell’affetto generale. Si trova sempre qualcuno che è disposto a raccontarti la storia del suo primo cane, come se si trattasse del suo primo amore. Mi sembra un segno di buon cuore e una ulteriore testimonianza a sfavore della mia terra natale. Sulla strada principale c’è una lunga fila di vecchiette che vende di tutto: calze di lana, lamponi colti stamattina nei boschi alla periferia della città, vecchi libri scolastici, fiori che non ho mai visto prima. Le vecchie vengono ogni giorno da fuori città per vendere tutta quella merce improvvisata e restano sulla strada fino a sera nella speranza di esaurirla tutta in giornata. Per questo i migliori affari si fanno poco prima del

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tramonto, quando le mercantesse sono disposte a calare il prezzo pur di non tornare a casa con le sporte piene. Sono seduta e mi sforzo di osservare, prendere nota di tutto quello che succede. Il tempo passa. Poi sulla panchina accanto alla mia si siede una ragazzina. Può avere circa 15 anni, ed ha lo sguardo doppio di una fanciulla e di una giovane donna. Tutto in lei è ordinato e pulito. I capelli ben pettinati, la borsetta dello stesso colore delle scarpe. È tranquilla, seduta col busto ben eretto sulla panchina, e guarda dritto davanti a sé. Mi chiedo se quello che la ragazzina sta aspettando è il “fidanzato”. C’è un senso di semplicità e onestà nello sguardo di quella ragazza. Io non credo di averlo mai avuto, neanche da bambina. Una sicurezza in quegli occhi, che sembrano dire: tutto va come dovrebbe andare. Che paese, penso. Dopo pochi minuti accanto alla ragazzina si siede un’altra ragazzina. Ed ecco due amiche sedute vicine che parlano sottovoce di cose (sembra) molto serie. Tutto va come dovrebbe andare. I vecchi continuano a bere e si raccontano l’un l’altro storie sul loro lavoro, i loro figli, le loro mogli e le amanti, reali o no. A volte qualcuno beve una birra di troppo e si accascia su una panchina, ma nessuno di quelli seduti vicino si allarma e il vecchio, dopo aver dormicchiato un po’, si alza e barcollando si dirige verso casa. Oggi è domenica, ma so che il lunedì si possono osservare gli uomini e le donne che vanno al lavoro. Tutti di corsa, nessuno guarda nessuno, le spalle si urtano lungo le strade, ma mai che qualcuno si volti a chiedere scusa o a sorridere. In generale qui le persone non pronunciano continuamente le parole grazie, prego, scusi e anche per favore non è una parola così abusata. Ma non è che non siano gentili. Guarda, mi dico, prova a capire. Un monaco con una scatola per le offerte è in piedi da ore di fronte alla stazione della metropolitana. Recita preghiere a voce alta guardando a terra e nessuno sembra ascoltarlo. I poliziotti giovani fanno il filo alle ragazze e quelli più vecchi si aggirano alla ricerca di quei malaccorti che bevono all’aria aperta. Donne appena uscite dal parrucchiere sfoggiano unghie molto, molto lunghe e colorate di rosso. Quest’anno va di moda l’azzurro e il violetto. Vedo una giovane donna che sorride alla


fermata dell’autobus. L’autobus arriva. Ne scende un uomo con una birra in mano. Dall’andatura si capisce che non è la prima. La donna però è così piena della sua attesa, la sua gonna è evidentemente stata scelta per andare da qualche parte stasera, che non si accorge subito che l’uomo deve avere cambiato parere. Si avvicina sorridendo all’uomo e solo alla fine si rende conto della bottiglia. Vedo spegnersi il sorriso sul volto della donna mentre abbraccia l’uomo e si avvia con lui da qualche parte. A casa, bisogna credere. Le automobili sfrecciano sulla strada, la maggior parte sono vecchie e malandate ma fra queste a un certo punto passa una enorme, lunghissima limousine dai vetri oscurati. L’auto si ferma al semaforo. Proprio mentre le campane della chiesa smettono di suonare e il semaforo è ancora rosso, uno dei finestrini della limousine si abbassa rivelando l’interno della vettura dove siedono delle ragazze asiatiche su di giri. Poi l’auto riparte, lasciando tutto il resto dell’ambiente invariato. Passa un signore con cappello, guanti, bastone e una barba così ben curata e occhi così intelligenti da sembrare uno scrittore del secolo scorso. Sono ancora qui sulla panchina a guardare tutto quello che succede e penso: come vorrei poter scrivere a qualcuno una lettera e metterci dentro tutta questa città. Scrivere di quella ragazza che mi aveva raccontato la sua storia. Era giovane giovane, carina ma aveva i denti storti. Mi disse che era venuta in città perché voleva fare la

ballerina. Disse che ballava bene, l’aveva imparato al suo paese, ma che la vita in città costava cara, doveva anche mandare dei soldi alla madre che non aveva potuto seguirla e per questo lavorava in un supermercato e i soldi non le bastavano per pagare l’operazione che le avrebbe potuto dare l’aspetto adatto al mestiere che sognava. Mi raccontò tutto questo con un sorriso che scopriva francamente i denti e con gli occhi dolci mi augurò buona fortuna. C’era il mio vicino di casa, a cui tutti davano del tu perché il sabato e la domenica beveva tutto quello che c’era nel frigorifero e poi bussava alle porte dei vicini in cerca di compagnia. Un giorno mi aveva offerto un hamburger ad un chiosco, io lo avevo abbracciato per scherzo e lui mi aveva detto: ho vergogna, sei così giovane. Mi ricordo un giovane poliziotto a cui avevo chiesto aiuto. Quando il giovane aveva saputo la mia nazionalità il suo volto di funzionario annoiato e severo aveva lasciato il posto a uno sguardo sognante: come mi piacerebbe andarci una volta... Così mi aveva detto. A quelli del mio paese non piacciono queste storie e per quelli che vivono in città non c’è niente di nuovo in tutto questo. Futilità. Ma in questo momento mi sembra che siano proprio queste futilità il segreto che cerco di scoprire. Questo è un popolo particolare. Lui e la sua terra sono enormi, qui sono vissuti eroi, poeti, uomini geniali e anche dei pazzi famosi. Ma che cos’è questa terra, perché è smisurata? Perché sul suo suolo tutto è possibile, tutti convivono gli uni accanto agli altri e gli uomini accanto agli animali, gli alberi e i fiori, la Città enorme e i villaggi lontani e sperduti, le icone miracolose che da sole si manifestano sulle tavole di legno e le automobili lussuose e le bottiglie vuote che si accumulano ogni notte, i poveri e i ricchi, i buoni e i cattivi, tutti sono con tutti in misteriosa armonia. E questo salverà questo popolo, alla fine.

Sara D’Ippolito ha trent’anni. Vive in russia, nella città di Mosca e periodicamente torna in italia dove è nata, roma. lavora in teatro come attrice da circa 10 anni. Prima di lavorare in teatro ha frequentato la facoltà di filosofia di roma, ma non ha terminato gli studi a causa degli spostamenti lavorativi.

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