uSommario
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L’editoriale
di Morgan Palmas
Racconti dal retrobottega
I libri e la legge dell’impenetrabilità dei corpi di Geraldine Meyer
Pensiero antico e identità europea Tradizioni culturali, lingua, dialetto di Adriana Pedicini
Vita standard di uno scribacchino provvisorio Sunday Morning di Giovanni Ragonesi
La metà oscura del mondo
Niccianismo fra Ernst Nolte ed Epifania Giambalvo di Maria Antonietta Pinna
Prospettiva fantasy
Terry Brooks e la rinascita del genere di Marcello Marinisi
Cinematura
Storie nell’ombra di Claudia Verardi
I libri che ti cambiano la vita Carrie di Marta Traverso
Sul Romanzo • 2010
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Snorkeling letterario Cronache letterarie di Michele Ruele
Cantautori: per rispetto chiamati artisti Francesco De Gregori alias il principe Seconda parte
di Annalisa Castronovo
L’angolo delle interviste Gli amici della Zizzi a cura della Redazione
Esordire
Non piangere coglione di Amedeo Romeo di Sara Gamberini
I (rin)tracciati
Disabituati alla vita: i racconti di Angelo Fiore di Alessandro Puglisi
Tarantula
Komunikato n.ro 3 di Roberto Orsetti
Vetrioli sparsi
Il mistero degli editori scomparsi di Emanuele Romeres
Socretinate
Un incontro con Demetrio Paolin di Morgan Palmas
uL’editoriale di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it il pensiero e il linguaggio si definiscono di continuo allo specchio, condizionandosi nelle strutture. le suggestioni del secondo, per esempio le grammatiche, non sono materia statica, ma in evoluzione. codificare i punti di riferimento è un vincolo imprescindibile della letteratura, indicando non una tendenza, neppure un vezzo intellettualoide, forse un’esigenza di recuperare, di ripensare o interpretare in diverso modo. l’esperienza nutre il linguaggio e il pensiero, si legga l’articolo di geraldine Meyer per comprendere quanto una vicenda lavorativa possa trasformare i concetti, a partire da un semplice gesto abitudinario all’interno di una libreria. e i significati talvolta celano loro stessi, come nel caso del contributo di emanuele romeres. sia adriana Pedicini che demetrio Paolin parlano di tradizione, non è un caso che in un’epoca in cui gli appigli di richiamo sembrano più deboli vi sia un movimento funzionale verso ciò che rappresenta un’ancora quieta. le relazioni nel mondo della letteratura – la comunicazione con il ruolo di volano – si allontanano sempre più dal senso della verità, dalla stretta relazione fra pensiero e linguaggio, come nel caso dei ghost writer, figura citata dall’articolo di claudia Verardi. noi pensiamo che vi sia identificazione fra scrittore e reale autore del libro, non sono rari i casi in cui le sorprese sarebbero tristi. reale, realismo, realtà, livelli di realtà, termini che si utilizzano abitualmente, ma sappiamo distinguerli?
eppure distinguiamo con spensieratezza la diversità col linguaggio e coi pensieri. Viviamo con contrapposte diversità continue fra ciò che si pensa e ciò che si esprime, illudendoci poi d’essere convinti nel marcare il territorio fra cinesi e italiani, fra stupidi e intelligenti, fra poveri e ricchi, fra scrittori di serie a e scrittori di serie b. una vita nella diversità e l’omologazione inasprisce i contrasti. il pensiero oggi lo si vorrebbe senza complessità, al pari del linguaggio. Poca fatica, velocità di risposta e/o soluzione e/o comprensione, successo, comodità di vita. Valerio di giovanni ragonesi sembra un uomo di un tempo oramai lontano, votato alla non linearità del percorso; sono esemplari in tale senso altresì le cronache letterarie di Michele ruele. correlativamente, sul romanzo alza il tiro, pretende da se stesso – ogni pagina – un lavoro proficuo e impegnativo: da un lato, chi fugge dalla complessità, dall’altro lato, chi se ne ciba, la adora, la esplora, persuaso che sia l’unico vero mezzo per conoscere e capire. come nel caso dei racconti e delle poesie inviate dai lettori, non ci siamo accontentati questa volta. in un prato durante un temporale, per evitare le difficoltà e la pioggia, non pochi si riparano sotto le fronde d’un albero… noi ci stiamo inzuppando d’acqua, lo sappiamo. Meglio lucidamente vivi, che riparati con il rischio di morte. Vi auguriamo buona lettura.
sappiamo percepirne le sfumature?
Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura letteraria Anno I • n. 2 • Maggio 2010 Progetto editoriale: Morgan Palmas art director: Marcello Marinisi Progetto grafico e e Marcello Marinisi
iMPaginazione:
annalisa castronovo
Hanno collaborato a questo nuMero: annalisa castronovo • sara gamberini • Marcello Marinisi • geraldine Meyer • roberto orsetti • Morgan Palmas • adriana Pedicini • Maria antonietta Pinna • alessandro Puglisi • giovanni ragonesi • emanuele romeres • Michele ruele • Marta traverso • claudia Verardi.
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si ringraziano: gli amici della zizzi • demetrio Paolin. Per inforMazioni: sulromanzo@libero.it Web: http://sulromanzo.blogspot.com foto e iMMagini: artmasko.wordpress.com • flickr • solegemello.net • Wikimedia commons citazioni: Wikiquote note legali: “sul romanzo - rivista elettronica di informazione e cultura letteraria” è in fase sperimentale,
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Lo spazio è la prigionia del corpo, il tempo è quella dello spirito. Carlo Maria Franzero
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uRacconti dal retrobottega
I libri e la legge dell'impenetrabilità dei corpi di Geraldine Meyer - geraldine.meyer@virgilio.it difficile crederlo, ma dove c'è un libro, che occupa uno spazio fisico, non può essercene un altro. questa affermazione, banale nella sua indiscutibile evidenza, non lo è per molti degli attori che ruotano attorno alla libreria. editori e rappresentanti sembrano gli unici a ignorare quella che è una delle più famose e basilari leggi della fisica moderna. ne consegue che una libreria medio piccola come la mia dovrebbe avere una metratura elastica che, a partire dai reali 120 metri quadri di superficie, la portasse ad espandersi a diverse migliaia di metri.
titolo che è tanto bello, vendibile, con dati di vendita sempre eccezionali. insomma dai, diamogli una mano, l'editore ci ha puntato così tanto. allora mettiamo quel libro in vetrina e leviamone un altro, inevitabilmente. Ma poi anche quel libro provocherà prefiche per la sua rimozione dal posto così meritevolmente occupato. e la diuturna battaglia al sovvertimento della summenzionata legge fisica continua con rinnovato ardore.
cosa voglio dire con questa forse leggera sfumatura polemica? solo che il buon senso vorrebbe che la capacità reale di assorbimento di titoli di una libreria non è infinito. e che oltre alle doverose e legittime esigenze finanziarie del libraio ci sono anche le capacità fisiche di contenimento. Ma ogni editore ritiene il proprio catalogo meritevole di occupare posti sui banchi, negli scaffali e nelle vetrine. Proprio negli stessi spazi in cui ci sono altri libri meritevoli dello stesso trattamento.
la cosa più fastidiosa sono gli scrittori quasi sconosciuti che entrano in libreria senza presentarsi. chiedono il loro libro e alla terribile risposta che il libro non c'è escono lividi sempre senza aver declinato le loro generalità. Vanno dall'editore a piangere e dopo dieci minuti il libraio riceve una telefonata di fuoco per venire edotto sulla imperdonabile lacuna che la sua libreria perpetra nei confronti di un'opera di capitale importanza. spesso lo sfinimento ha la meglio e il suddetto libro arriva in libreria in un numero di copie sempre troppo superiore alle obiettive qualità.
rappresentanti questuanti spesso, con tono lamentoso, cercano di convincere il libraio a mettere in vetrina quel
duro lavoro quello del libraio, spesso ridotto al ruolo di vigile per dirigere un flusso di parole del tutto disordinato e
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un po' schizofrenico. se dovessimo dare retta a tutti, tutti avrebbero diritto di precedenza. quindi il nostro lavoro diventa spesso condizionato dalla gestione spaziale oltre che finanziaria di una sovrapproduzione evidente. tanto più evidente in un mercato come il nostro con numeri che, se non parlano di un decremento, è solo perché sono già abbastanza bassi. È indubbio che nel nostro paese il numero di lettori non giustifica la produzione ma spiega il perché di un tale accanimento nel tentare di raggiungere un posto in prima fila. resta però tragicomico il tentativo di scalzare chi c'è già. e resta amaro il veloce avvicendarsi dei libri, sempre più viaggianti a velocità vorticosa dalle scatole di arrivo a quelle di partenza per le rese. talvolta ancora dopo tanti anni di mestiere mi sorprendo di come una libreria possa contenere tutta questa merce. Va bene che noi librai siamo diventati bravissimi nella gestione economica dello spazio, ma alcune volte riusciamo davvero a stipare la merce in un modo che sembra contravvenire alla logica. spesso le pile di libri nuovi assumono l'aspetto di vere muraglie, fisiche e mentali che impediscono la vendita di titoli davvero meritevoli. se l'incauto acquisto di un numero esorbitante di un titolo impone di venderlo prima dell'arrivo della relativa fattura, questo spesso avviene a discapito della singola piccola copia del libricino nascosto in qualche polveroso scaffale. chi legge potrebbe obiettare che essendo mia la libreria questo non dovrebbe accadere. troppo lungo sarebbe spiegare come sono divisi i ruoli tra me e il mio socio. del resto capita di sbagliare.
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la libreria è una creaturina viva che assorbe cibo fino ad un certo punto, poi, quando è piena, lo rigurgita. a volte discretamente, altre proprio come un'indigestione. e come una creaturina viva dispone di una capienza comunque limitata. esigenze diverse e spesso in contrasto si combattono su un terreno impervio e pieno di insidie. Voglio sempre far presente che sto parlando di una libreria di medie piccole dimensioni come la mia. dal discorso sono escluse le ammiraglie dalle due tre migliaia di metri quadri di superficie che possono offrire spazio ma, spesso, non coccole. Per questo le librerie piccole sono quelle corteggiate dagli editori, almeno dal punto di vista di una pressante richiesta di ospitalità. il trattamento economico è poi altra cosa. Ma si sa, la gratitudine non è una merce che come i libri si può acquistare con sovrasconti. Però è indubbio che il libraio vero è molto corteggiato come book sitter e quindi molti sono i “genitori” che vorrebbero affidare le loro creature alle sue sapienti cure. al massimo in braccio si sta in due. già in tre diventa una difficile opera congiunta di forza ed equilibrio, anche psicologico. del resto quando c'è sovraffollamento bisogna prendere dei provvedimenti per evitare che sia compromessa la vita di tutti. allora è inevitabile che qualcuno venga fatto allontanare senza avere avuto neanche la possibilità di ascoltarlo. il merito non ha a che fare con questa triste cernita. non sempre almeno. È che nel tentativo, più o meno estorto, di dar spazio a tutti, qualcuno si perde per strada che tradotto nella nostra lingua vuol dire rimanere a scaffale senza neanche essere accarezzato una volta. lungi da me pensare ad un equivalente libraio di una legge analoga a quella che dovrebbe regolare i flussi migratori, dico solo che una consapevolezza anche fisica della libreria dovrebbe entrare a far parte del gioco. quando ero in feltrinelli un collega anziano, grande, grandissimo libraio mi diceva sempre una cosa molto semplice ma preziosa: «quando stai facendo la prenotazione di un titolo non pensare solo a quanto ma pensa sempre anche al dove».■
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uPensiero antico e identità europea
Tradizione culturale, lingua, dial di Adriana Pedicini - adripedi@virgilio.it noi parliamo un latino moderno quale si è venuto evolvendo nel corso dei secoli (lo stesso si può dire del francese in francia, dello spagnolo, del catalano e del portoghese nella penisola iberica, del romeno in romania: denominate tutte lingue neolatine). Parole come oro, agosto, vino non sono altro che i vocaboli latini aurum, Augustus, vinum; molte altre parole italiane (voci dotte) sono state prese dal latino dopo essere rimaste abbandonate per molti secoli o dopo essere vissute solo in ambienti colti (aureo, augusto, velivolo).
albert bierstadt, The Portico of Octavia, 1858
in europa il latino ha mantenuto fino ai primi dell’ottocento il suo assoluto predominio come lingua internazionale in campo scientifico e ancora oggi esso è la lingua viva ufficiale della chiesa cattolica, con cui sono scritte encicliche, bolle, documenti. le nomenclature scientifiche, soprattutto quelle della medicina, della zoologia e della botanica sono costituite in gran parte da termini latini. Molte espressioni latine si utilizzano tuttora integralmente in vari contesti: a priori si scarta un’idea, motu proprio si conferisce un’onorificenza, si ritorna allo statu quo, si parla di un individuo sui generis e così via.
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la sostituzione di lingua di cultura e civiltà, depositaria ed ereditiera di un sapere secolare conquistato lentamente dal pensiero europeo, con le lingue dell’egemonia meramente politicocommerciale, quale è oggi l’inglese, «il gergo inglese – come diceva schopenhauer – questo vestito per i pensieri rimediato con pezzi di stoffa eterogenei» indica una sovversione profonda di ciò che sono i valori umani, e mostra come il desiderio di potersi intendere nel modo più scarno possibile nei rapporti pragmatici e d’affari abbia completamente surclassato e schiacciato l’esigenza di esprimere con le più sottili sfumature la forza spirituale del proprio pensiero.
Jean-léon gérôme,The Slave Market in Rome, 1884, Museo dell’ermitage, san Pietroburgo
letto inoltre bisogna ammettere che nella tradizione culturale, più specificatamente letteraria, dei secoli passati e forse fino agli anni ’50, il modello della comunicazione scritta afferente al testo letterario era pressoché ritenuta egemone, era un esempio da non poter sottacere. anche perché la comunicazione umana trovava in quel contesto il più autorevole sistema e l’ambito più prestigioso di formazione culturale. siamo molto lontani dai contesti dell’auralità. Per un lunghissimo periodo, dunque, la comunicazione letteraria ha prevalso su tutte le altre forme di comunicazione e di formazione, ma coloro che fruivano della letteratura, nonché dei valori e codici letterari, era un’esigua minoranza. con l’andar del tempo infatti si è costatato che questa supremazia della letteratura non aveva più nessuna radice nella tradizione familiare. Mancava lo spessore storico della memoria che era presente nelle classi colte dal cinquecento alla metà del novecento. sicché la lingua ufficiale, latino o neolatino che fosse, cedeva pian piano il passo alle lingue moderne, e ancor di più alle parlate locali. oggi la situazione è ancora più complessa. infatti alla letteratura come strumento di comunicazione colta tende ad affiancarsi una serie di altri strumenti di comunicazione, la cui forza espansiva è sicuramente molto alta. nella maggior parte si tratta di linguaggi fortemente semplificati, come sono tutti i linguaggi in cui alla parola scritta si sostituiscono altri strumenti di comunicazione, ad esempio l’immagine.
tuttavia, poiché la lingua è di per sé un organismo vivente e dunque dinamico, anche se prescindiamo dal linguaggio letterario, e ci soffermiamo su quello quotidiano, noteremo che il passare del tempo e le varie necessità del vivere quotidiano hanno influito sull’utilizzo di ogni lingua preesistente per quanto riguarda la durata, la evoluzione e quindi l’esito. ne consegue che la consacrazione linguistica degli accademici deve fare i conti con le necessità impellenti della comunicazione sia scritta che orale, sia popolare che letteraria. Pertanto, mentre da una parte si assiste alla penetrazione nel bagaglio linguistico ufficiale di termini stranieri, dall’altra si deducono diverse persistenze che attraverso il dialetto riconducono proprio alle lingue del passato, e dato la peculiarità del nostro bacino culturale, alla lingua greca e alla lingua latina in primis, per poi essere trasferite nella lingua ufficiale. il dialetto col suo lessico peculiare offre lo spunto per spaziare nei campi più diversi, dall’antropologia alle tradizioni popolari, dalla storia alle caratteristiche
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Joseph Mallord William turner, Ancient Rome; Agrippina Landing with the Ashes of Germanicus, 1839, the tate gallery, londra
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morfologiche del territorio, fino ad arrivare alla tradizione linguistica.
inferiore, né necessariamente meno colta, ma soltanto una lingua più antica, per meglio dire molto antica.
spesso gli abitanti di un determinato luogo sono individuati piuttosto che col proprio nome, quasi esclusivamente dai soprannomi in dialetto originati dalle caratteristiche fisiche, dal mestiere che ciascuno svolge o da altre particolari situazioni caratterizzanti. ovviamente non mancano forti pregiudizi nei confronti del dialetto, considerato “la lingua” dell’oralità, più povera di mezzi espressivi rispetto a quella ufficiale, meno funzionale, priva di una consolidata tradizione letteraria se non addirittura considerata segno di inferiorità sociale e di diversità culturale.
se, ad esempio, effettuiamo un’analisi comparata dei termini afferenti agli antichi mestieri, agli strumenti utilizzati nelle antiche opere contadine, agli usi, costumi, tradizioni, giochi, cibi, edifici, canti popolari legati al lavoro, nascite, feste, malattie, morte, riti religiosi, formule apotropaiche, nonché alle parti del corpo umano, alle vesti, calzature, armature e così via e li confrontiamo con i corrispondenti latini e/o greci, noteremo che il passaggio intermedio tra la lingua antica e la lingua moderna è rappresentato proprio dal dialetto.
invece, al pari della lingua nazionale che è la lingua della cultura ufficiale, dell’amministrazione e della tradizione letteraria, il dialetto ha una struttura linguistica altrettanto complessa e articolata, una propria grammatica e un proprio lessico che spesso è anche più ricco di quello della lingua ufficiale. soprattutto esso costituisce un bene culturale di primaria importanza a cui bisognerebbe accostarsi come a uno strumento di comunicazione ricco di storia e di cultura.
naturalmente tali persistenze dialettali sono riscontrabili, con tutte le modifiche consonantiche, nei dialetti che furono e in parte ancora lo sono, gli eredi naturali della cultura e della lingua classiche, come il campano e il siciliano, anche se vi sono state numerose contaminazioni dovuti ad apporti linguistici di diversa provenienza come la spagnola e l’araba.
il dialetto è lo specchio dell’identità culturale di un popolo che nella tradizione (nel significato etimologico di consegna di cose) ritrova se stesso con l’obbligo di non sperperarla, ma di consegnarla, arricchita delle esperienze di vita, alle generazioni future. infatti il patrimonio linguistico dialettale ripropone, se non lo stesso contesto storico e istituzionale della lingua d’origine, almeno lo stesso contesto situazionale e psicologico. ciò vale sia per le formule religiose, sia per le origini del pensiero astratto, per le concezioni spirituali e le radici dei concetti in generale. dunque il dialetto non è da considerarsi una lingua
Proponiamo uno specchietto comparativo tra il greco in traslitterazione, il latino, il dialetto napoletano e l’italiano avvertendo che spesso le vocali non toniche (su cui cioè non cade l'accento) e quelle poste in fine di parola, non vengono articolate in modo distinto tra loro, e sono tutte pronunciate con un suono centrale indistinto che i linguisti chiamano schwa e che nell'alfabeto fonetico internazionale è trascritto col simbolo /ə/ (in francese lo ritroviamo, ad esempio, nella pronuncia della e semimuta di petit).■
Sul Romanzo • 2010
GRECO
LATINO
DIALETTO
ITALIANO
kome
coma
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chioma
oftalmòs
oculus
uocchio
occhio
us-otos
aurica
recchia
orecchia
kefale-kara
caput
crapa
testa
kara
cerebrum
capa
capo
------
cervix
cerviello
cervello
ris-rinos
nasus
naso
naso
stoma-atos
os-oris/bucca
vocca
bocca
dens
diente
dente
brachion
brachium
vrazze
braccio
palame
palma
parma
palmo
dactylos
digitus
dito
dito
onyx-nychos
ungula
onghia
unghia
gony-gonatos
genu
denocchie
ginocchi
pus-podos
pes,pedis
pére
piede
kardia-kardias
cor,cordis
core
cuore
pleumon- is
pulmo,onis
permone
polmone
persicòn melon
malus persica
perzeca
pésca
petroselinon
petroselinum
petrusìno
prezzemolo
rafanìs
raphanus
rafaniello
ravanello
kapros
caper
crapa
capra
psylla
pulex
pòlece
pulce
apotheke
conditorium
putéca
bottega
…….
catulus
cacciuttiello
cagnolino
………
corrigia
currea
correggia
titthòs
……
zizza
petto muliebre
…….
testa
testa
testa,vaso
thallòs
thallus
tallo
germoglio
echo
teneo
tengo
tengo, ho
odus-odontos
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uVita standard di uno scribacchino provvisorio
Sunday Morning
di Giovanni Ragonesi giov.ragonesi@gmail.com È domenica mattina. il cielo è bianco, ma di un bianco spento che a tratti tende al grigio. fuori dalla finestra l’acqua piove, con dolcezza e costanza, due virtù che si addicono meglio ad un amante. Valerio, con un languore preso a prestito da “la morte di chatterton” di Henry Wallis, se ne rimane disteso sul divano aspirando distrattamente dall’ennesima sigaretta che rende ancora più stantia e corposa l’aria della stanza. la domenica mattina è uno spazio tutto particolare nell’immaginario di Valerio. un immaginario costruito – inconsapevolmente – mescolando carte rock e spartiti crepuscolari. la domenica mattina è imprescindibilmente bianca, sporca e sgranata come certe foto della vecchia nan goldin; ha un suono lo-fi, come di musicassette che troppo a lungo hanno sonnecchiato nel cruscotto dell’auto; ha un sapore dolciastro, come di cheesecake coi mirtilli in una bocca stordita dalla troppa nicotina. spesso la domenica mattina è il momento migliore – l’unico possibile – per affrontare le proprie crisi, per mettersi immobile – faccia a faccia – davanti a quello che non va e non distogliere lo sguardo fino a quando la stanchezza non diventa estenuante oppure finché un’epifania – purtroppo rara – non fa vibrare di nuovi armoniosi accordi le nervature domenicali. le domande/questioni che Valerio si sente rimbalzare tra uno e l’altro dei neuroni numerati sono di diversa natura elicoidale. Perché la pagina n. 78 è rimasta l’ultima scritta? Perché il nuovo tavolo da lavoro non riesce a farlo sentire 12
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a suo agio malgrado lo scopo per cui è stato comperato era proprio quello? Perché la lettura di silvia avallone lo fa sentire un fallito? Perché la sua prosa non cessa d’essere sbrodolante? Perché masochisticamente ha riletto le lettere di rifiuto editoriale raccolte negli anni e conservate – come proiettili di guerra raccolti in un campo – in una scatola di cartone verde catalogata come r? Perché ha smesso di andare alle presentazioni in libreria? Perché prova solo vergogna e imbarazzo nel rileggere le poesiuncole che scriveva da adolescente vergine? nel 1997 lo scrittore americano david leavitt diede alle stampe, a quattro anni di distanza dall’ultimo romanzo, una raccolta di tre storie, Arkansas, nella quale è incluso il racconto lungo, dal titolo semplice e quasi burocratico, L’artista dei saggi di fine trimestre. i quattro anni di silenzio editoriale erano stati riempiti da una lunga e imbarazzante causa giudiziaria che aveva comportato anche una lunga e fastidiosa, oltre che deprimente, crisi creativa. il precedente romanzo – dal titolo meravigliosamente
igienico, molto diverso dallo sgradevole spettacolo di un falò. […] un libro viene al macero senza tante cerimonie, senza testimoni. io non ne fui informato […] né saprei dirvi cosa stavo facendo nel momento in cui le prime copie venivano fatte a brandelli. forse stavo facendo colazione, o passeggiavo, o magari stavo scrivendo».
forsteriano – Mentre l’Inghilterra dorme, prendeva spunto da alcuni episodi della vita del poeta e saggista inglese stephen spender che, insieme a Wystan H. auden e christopher isherwood, aveva rocambolescamente, mischiando amore e ideologia, preso parte ai sommovimenti politici e culturali degli anni ’30 europei, prendendo attivamente parte alla guerra civile spagnola. infastidito, o per meglio dire oltraggiato, dalla messa in scena di un suo passato omosex oramai ben ripulito nelle acque poetiche di un universalismo eterosessuale, unica materia a cui l’artista può attingere (sue affermazioni contenute e ripetute in diverse pubblicazioni in cui il repêchage di un passato glorioso e mitologizzato era rimasto l’unico argomento degno d’attenzione), l’ormai quasi novantenne spender decise di querelare il vispo e glamour leavitt per plagio e chiese alla casa editrice il ritiro di tutte le copie. l’editore britannico, per evitare il procedimento giudiziario, mandò al macero le copie ritirate dalle librerie e dalle biblioteche, esperienza, come lo stesso leavitt si trovò a constatare, che pochissimi autori americani avevano avuto il dispiacere di vivere: «Macero ha un suono pratico,
al di là del tono di sfida (tipico dello scrittore di professione che ha conosciuto il successo e vive il proprio ruolo con consapevolezza elettiva ed economica) che il nostro leavitt sfoggia in questa autointervista che scrisse a mo’ di prefazione per la nuova edizione economica del romanzo, la realtà, poi ricostruita nella auto-fiction de L’artista dei saggi di fine trimestre, fu che l’autore, pur immergendosi subito nel lavoro al nuovo libro di ispirazione italiana (aveva in cantiere un romanzo sulla ricostruzione dei ponti di firenze dopo i bombardamenti della ii guerra mondiale; romanzo che non vide mai le rotaie della stamperia), non riuscì a scrivere per diverso tempo. sembrava che il sistema lo avesse fagocitato, poi disgustato e lasciato vuoto: leggere solo autori contemporanei, fronteggiare i suoi compagni d’esordio generazionale, consultare l’editor settimanalmente, i tour promozionali e le interviste concordate dall’ufficio stampa per le giuste fette di mercato. tutto questo gli aveva tolto il piacere, quello semplice e potentissimo, quel piacere che ventitreenne lo aveva tenuto sveglio la notte, al ritorno dalle scorribande per i locali newyorchesi, per scrivere i racconti che avevano dato vita a Ballo di famiglia, quel piacere che lo riempiva di gioia, di entusiasmo, che lo faceva – per usare l’espressione più naïf che si possa usare ma anche la più aderente alla realtà – stare bene.
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il david leavitt personaggio de L’artista dei saggi di fine trimestre attraverso l’incontro con eric e poi con ben, semplicistici ma sexy studenti della ucla che gli propongono di scrivere al loro posto i saggi di fine trimestre per il corso di letteratura inglese in cambio di favori sessuali, riscopre, lontano dal mondo dei doveri contrattuali e dalle competizioni editoriali, l’amore per la lettura e rompe, dopo mesi di tentativi che non hanno condotto a nulla, il blocco che lo portava a trascorrere le giornate in biblioteca immerso nelle ricerche senza poi riuscire a buttare già neppure un paio di righe. Prende tra le mani Camera con vista, a seguire, su indicazione della professoressa Yearwood, Daisy Miller di James, sfoglia le pagine con lentezza leggendo storie che già conosceva ma che aveva archiviato nel “già letto” scordandone la piacevolezza, la ricchezza di suggestioni. apre il programma di videoscrittura sul computer del padre e subito, senza neppure dover fare appello a una qualche forma di concentrazione, butta giù il titolo Quella scintilla, Quelle tenebre lungo il percorso. subito dopo, mirando con candore lo schermo, si sente riconciliato col la letteratura intera al cui pantheon ambiva quando, quindici anni prima, da semplice lettore vi si era accostato; quel pantheon che poi si era trasformato in un universo di cause legali, aste per le edizioni tascabili, pettegolezzi, successi e fiaschi; quel pantheon che invece, per qualche tempo, era stato solo gioia inebriante «come il profumo muschiato delle lenzuola sporche di un ragazzo di vent’anni»; quella gioia che tornava a inebriarlo. iniziò a battere sui tasti dando vita ad un piccolo capolavoro ad uso e consumo di Mrs Yearwood. il suo nome non figurava come autore, solo il talento e la passione. non un solo penny sarebbe finito sul suo conto, ma intanto si gustava quella gioia acerba, la stessa che si prova nel ritrovare nell’armadio uno zainetto che da dietro le spalle ha accompagnato la nostra adolescenza, in attesa di una gioia più fisica che da lì al giorno in cui la a avrebbe fatto la comparsa sulla copertina dell’elaborato, non avrebbe mancato di addolcirgli i pensieri e solleticato il flusso ormonale. insomma, quantomeno nella versione narrativa, il trentaquattrenne david leavitt si riconcilia col suo scrivere nella maniera più freudiana possibile; il tutto arricchito con echi à la baudelaire, un baudelaire ripreso da Proust ma speziato con Jenet e moralizzato con gide: il tutto
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sobriamente anglicizzato. sebbene il salto possa sembrare pindarico – ma l’eclettismo è sempre stata una virtù nella sua opinione instabile – dopo avere pensato così lungamente alle vacanze losangeline del leavitt di Arkansas guardando il volume là sullo scaffale in fondo della libreria, Valerio trascina in piedi le sue ossa immalinconite e a colpo sicuro va ad estrarre dallo scaffale centrale, quello che nella sua autarchia organizzativa è lo spazio dedicato ad un certo novecento, un libro giallo di antonio delfini: Il ricordo della Basca. nella lunga – lunghissima – prefazione (che nell’edizione del ’67, col titolo di Una storia, diventò uno dei racconti, per poi tornare, nelle più recenti proposte, al compito di prefazione) che è un autentico capolavoro di complemento librario, superando anche le Postille a Il nome della Rosa, il delfini, con tono scanzonato e goliardico, racconta di come gli anni e i tentativi lo abbiano portato alla stesura di quei racconti, e anche in questo caso il motore primo, quello che traina più dei buoi e forse il cielo e qualche stella, è la passione, quell’amore solipsistico che da un viso trae fuori una idea, e su una idea, un vago concetto, una solitaria speranza, costruisce svariati universi bidimensionali di possibilità. Valerio prova ad allacciarsi qualche suggestione delfiniana addosso, ma sa già che non funziona così. di passioni, tutto sommato, ne ha vissute fin troppe, quanto autentiche non saprebbe dirlo, ma di certo negli anni qualche marron glacé lo hanno prodotto. Mentre lo scioglimento umorale incede inoltrando la giornata sempre più in se stessa, d’un tratto, come per libere associazioni da vecchia scuola
david leavitt
psicoanalitica, antonio delfini si muta in una madeleine trascinandolo nel ricordo di tante tazze di tè e scoperte primordiali… e Valerio si ritrova diciassettenne a riordinare i propri scaffali nella sua stanzetta da adolescente smithsoniano. Ha scoperto da poco certi autori che lo hanno come fatto evolvere (la parola più appropriata). uno in particolare: PVt. lo ha letto per caso, e da lui è stata poi tutta una gioia di nuove emozioni, nuove musiche da scoperchiare, autori cult da divorare (tra questi anche
delfini), scoperte trasversali da fare immediatamente. sembrava, come mai prima di allora, che la letteratura, i libri, avessero con la vita, quella vera, quella che giorno per giorno lo accerchiava e gli saltava addosso, una continuità unica. Ma tondelli non è stato solo scoperta di altri mondi. forse era arrivato il momento, non saprebbe dirlo neppure adesso che sono trascorsi molti anni, ma dalla lettura delle pagine tondelliane è uscita trasformata anche la sua voce di scribacchino. Ha iniziato a capire che la voce è l’elemento principale su cui deve lavorare un autore, che non deve appoggiarsi a un uso standardizzato e stitico della lingua, ma deve aderire il più possibile alle viscere dove appunto la voce si forma per poi salire su e venir fuori. ricorda la gioia immonda che provò una sera di fine giugno nel sedersi alla scrivania, spostare i libri di scuola nonostante la maturità alle porte, e iniziare a scrivere un titolo Mtv, la vita, i Sex Pistols e soprattutto il cazzo di Francesco. da lì presero avvio, sciolte e spontanee come scoregge al mattino, le 27 pagine dell’unico suo racconto che a tutt’oggi prova piacere a rileggere, anzi di più: lo fa ancora ridere, oppure sorridere di gusto. quella gioia era qualcosa che non riuscirà mai a scordare; non solo mentale ma anche fisica, una gioia orgasmatica. gli manca. Vorrebbe risentirsela addosso. dentro. intorno.
antonio delfini
Valerio non sa se ci sono scopi nella vita, spesso pensa di no, ma oggi, giunto alla soglia in cui il pomeriggio inizia il suo congedo, con l’aroma di un tè al gelsomino cinese che gli inonda le narici, crede che recuperare quella gioia sia il suo, di scopo.■
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Dio è morto. Dio resta morto. E noi l'abbiamo ucciso. Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Friedrich Nietzsche
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uLa metà oscura del mondo
Niccianismo fra Ernst Nolte e Epifania Giambalvo di Maria Antonietta Pinna - marylibri1@gmail.com
friedrich Wilhelm nietzsche nasce a röcken, vicino lipsia, il 15 ottobre 1844. a partire dal 1876, come ebbe a scrivere egli stesso «per più riguardi, concernenti e il corpo e l’anima», fu «più un campo di battaglia che un uomo». nietzsche, che non fu mai antisemita in senso razziale, e Marx, ebreo, formatosi sulle stesse basi borghesi, pervennero a conclusioni filosofiche differenti, nonostante la comune lotta al culto del dio mondano, il denaro, ed il recupero della classicità greca. il giovane friedrich era ellenocentrico. i greci rappresentavano per lui l’eterno modello della civiltà, «il primo evento culturale della storia». il cristianesimo, sviluppatosi dal confronto con l’antichità e innestandosi nella tradizione dell’impero romano, fu un «grande infortunio», «la più grande sventura dell’umanità fino ad oggi». la critica contro il cristianesimo si fa sempre più aspra e feroce, tanto da giungere ne la gaia scienza, passo 125, l’uomo folle, alla morte di dio. «dio è morto. dio resta morto. e noi l'abbiamo ucciso. come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? che acqua useremo per lavarci? che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?». crolla la fede in dio, l’uomo si libera da condizionamenti morali e teologici scuotendo i dogmi tradizionali e le rassicuranti certezze. nietzsche ha il coraggio di proclamare a gran voce ciò che già si scorge in schopenhauer.
friedrich Wilhelm nietzsche
il mondo dionisiaco di nietzsche è un «mostro di forza senza principio e senza fine», crea perpetuamente se stesso spezzando la logica del distruggersi e tornare, opponendovisi. esso è volontà di potenza e nulla più, «tentativo di trasvalutazione di tutti i valori». nasce il nichilismo.
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andrea Mantegna, Baccanale col tino, ca. 1470
il crollo di antiche strutture crea un disorientamento, un senso di perdita e vuoto, che si può visivamente cogliere nella pittura di de chirico, in cui classicismo e ciclicità offrono immagini enigmatiche, proporzioni surreali, oniroidi, tese a creare distanze interiori che si proiettano umbratili all’esterno. e anche il dionisismo nietzschiano, da cui egli fa discendere la nascita della tragedia e la tragicità connaturata all’uomo stesso, non è altro che un percorso teso alla costruzione di distanze e poi allo smembramento delle certezze apparenti, un po’ come avviene nella scomposizione psicoanalitica il cui scopo è demolire la fissità-guscio di certe abitudini per trovare il nocciolo, l’interno midollo e arrivare alla radice vera del problema. dioniso è il dio che viene smembrato e fatto a pezzi dai titani. ciascun pezzo della passione dionisiaca corrisponde ad un interno sé polisemantico, da analizzare, scomporre e profondamente capire. il dionisiaco è un mondo «visto dall’interno, il mondo determinato e qualificato secondo il suo carattere intellegibile».
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se nolte insiste maggiormente sulla biografia del filosofo come fonte per attingere conoscenza del suo mondo interiore, epifania giambalvo, in un pregevole testo pubblicato dalla casa editrice tumminelli nel 1966, approfondisce in modo sintetico ma molto efficace la metafisica nietzschiana, agitata da un’esigenza immanentistica, scoperta dalla dinamica dell’eterno ritorno nella frattura apertasi tra il divenire, sorretto da un’esigenza cieca e cosmica, e l’essere che, attraverso la volontà di potenza propria del superuomo, si pone in netta e coraggiosa antitesi rispetto alla necessità del tempo e alla sua schiacciante inesorabilità. ogni uomo ripercorre in eterno i sentieri di una vita sempre uguale a se stessa, senza speranza di rinnovamento. ciò che è stato sarà. ogni evento si svolgerà nei millenni come si è già svolto in passato, concetto, quello dei cicli cosmici, già ampiamente presente nelle filosofie orientali. a questo punto ci si chiede che ruolo possa svolgere la volontà. essa reagisce, sforzandosi di creare, al di là della ferrea legge della necessità, una vita che va oltre se stessa, un uomo
francisco de goya, Saturno che divora i suoi figli, 1819-1823, Museo del Prado, Madrid
che trascenda l’umanità, attraverso la follia dell’imposizione dell’assurdo e proprio in ciò la ragione ultima proiettata verso l’evoluzione futura, il movimento. ne deriva una contraddizione insanabile, tra lo sforzo dell’uomo verso la trascendenza e l’immanenza della ciclicità. dioniso rimane il mondo dell’essere, contrapposto all’apollineo divenire. nella follia, il cambiamento, nietzsche anticipa se stesso.■
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uProspettiva fantasy
Terry Brooks e la rinascita del di Marcello Marinisi - marcello@marcellomarinisi.com
la fantasy è un genere che ha vissuto alterne fortune. non sempre è facile riuscire a parlare di elfi, troll, orchi, fate, maghi, stregoni, pietre magiche ecc. quando la barba comincia a diventare ispida e finisce il tempo dei calzoncini corti. John r.r. tolkien, di cui abbiamo parlato nel precedente numero, ne sapeva qualcosa. non era facile convivere con l’etichetta di scrittore di fantasia vivendo all’interno di un ambiente intellettuale, aristocratico ed elitario come quello dell’universo accademico della inghilterra degli inizi del novecento. nel corso degli anni sessanta del secolo scorso, l’opera di tolkien e tutta la fantasy hanno vissuto una sorta di età dell’oro, grazie soprattutto ai movimenti studenteschi sviluppatisi intorno al ’68 e che volevano la «fantasia al potere» e che si riconoscevano particolarmente nelle ambientazioni boscose e nella vita bucolica che in quelle storie venivano descritte. la guerra aveva lasciato solchi profondi in europa e in nord america e le nuove
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generazioni guardavano al futuro con una speranza di pace.
terry brooks
Ma la fortuna della fantasy durò relativamente poco e nel corso degli anni settanta del novecento questo genere subisce una forte battuta d’arresto. Prova ne è il fatto che la maggior parte degli editori rifiutano, quasi senza leggerli, i manoscritti e che profumano, anche lontanamente, di fantasy.
questa situazione permane sino alla fine degli anni ’70, quando alla del rey di new York giunge il manoscritto di un giovane avvocato dell’illinois, un tale di nome terry brooks. sul frontespizio campeggiava un titolo che di lì a breve sarebbe diventato un classico della letteratura fantasy mondiale: The Sword of Shannara (La spada di Shannara). quella di lester del rey rappresentava una vera e propria scommessa, il lancio di una moneta
l genere che ha permesso a lui e a terry brooks di rifondare il genere e di farlo senza grossi sommovimenti. fino ad allora nessuno era riuscito a scalfire minimamente il dominio de Il signore degli Anelli ma del rey credeva fortemente ne La spada di Shannara e decide di dargli una chance. lo stile di brooks è quanto di più simile a tolkien si possa trovare in circolazione. l’amore per le ambientazioni, le scene immerse nella natura e l’azione architettata con dovizia di particolari fanno de La spada di Shannara uno dei testi più poetici della narrativa fantasy. brooks ripercorre quasi pedissequamente i canoni lasciati in eredità da tolkien fornendo spunti originali e punti di vista del tutto personali. È il 1977, nelle sale cinematografiche riecheggia il clamoroso successo riscosso da Star Wars (Guerre stellari) di george lucas, nelle librerie degli usa esce il primo libro della trilogia di shannara. inizialmente le vendite vanno a rilento, terry brooks comincia a credere che alla fine la pubblicazione si rivelerà un fiasco, da più parti si mormora da anni che la fantasy è morta e che scrivere opere di pura immaginazione non sia più un’attività proficua: i lettori vogliono qualcos’altro. Ma qualcosa succede nel mercato americano e lentamente, ma inesorabilmente, La spada di Shannara inizia a scalare le classifiche di
vendita sino a raggiungerne le vette. nel giro di alcune settimane il romanzo di terry brooks conquista il primo posto nella classifica dei libri più venduti pubblicata dal “new York times” per rimanerci stabilmente per più di cinque settimane e divenire così uno dei più importanti casi letterari di quegli anni. un successo così clamoroso non se lo aspettavano di certo alla del rey, terry brooks diventa nel giro di poco tempo l’autore di fantasy più venduto dopo tolkien e i suoi libri conquistano il pubblico di tutte le età in giro per il mondo. Ma non sono tutte rose e fiori, terry brooks viene attaccato da più parti per via del suo stile troppo simile a quello de Il signore degli anelli. alcuni gridano al plagio e accusano brooks di avere rubato a piene mani dall’opera più conosciuta del genere. brooks si difende su più fronti e le accuse cadono una dopo l’altra. le somiglianze tra l’opera di tolkien e quella di brooks sono notevoli, questo è innegabile, ma essa affonda le sue radici in qualcosa di molto precedente all’opera dei due autori. come grossa parte della letteratura fantasy, infatti, sia Il signore degli anelli che
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La spada di Shannara si rifanno ai topoi del folklore e della mitologia britannica, dell’epopea di re artù e dell’edda norrena. un giovane di umili origini, che vive in una piccola comunità a vocazione contadina e che si riscopre involontario artefice del destino del suo mondo; un’avventura in cui il protagonista si trova ad affrontare un signore oscuro, malvagio e prevaricatore, e lo fa grazie all’ausilio di potenti oggetti magici (segnatamente, un anello e una spada), gli unici in grado di sconfiggere il nemico e di porre fine al suo giogo sui più deboli. Ma in questa missione il giovane non è solo, egli infatti sarà affiancato da amici fidati in grado di aiutarlo, per via delle loro capacità fuori dal comune (la formazione della compagnia). avventure in mondi popolati da razze esotiche e mostri della peggior specie. questi gli ingredienti di base che hanno fatto scuola e che possono essere riscontrati con facilità in molti romanzi appartenenti a questo genere. dopo terry brooks e il suo La spada di Shannara si può parlare giustamente di rinascita della fantasy. grazie all’apporto fondamentale delle opere di brooks, infatti, oggi il genere sta vivendo un secondo periodo d’oro che sembra non dovere tramontare. sdoganata quasi definitivamente
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e non più considerata semplicisticamente un genere per ragazzi, la fantasy si sta ritagliando una sua ampia fetta di pubblico, si sta nutrendo di linfa nuova – anche pescando in generi più o meno affini – e sta regalando ottimi pezzi di narrativa. gli autori di lingua inglese la fanno da padroni e questo penalizza molto gli autori italiani che tentano costantemente di emulare i colleghi, sminuendo in tale modo un patrimonio culturale di tutto rispetto e che viene, invece, messo da parte in favore di miti più esotici, ma dei quali, molto spesso, si ha una conoscenza parziale. accanto a terry brooks, va annoverato un altro autore statunitense che ha regalato al genere un’opera raffinata e di piacevole lettura, ma che non ha avuto la fortuna che probabilmente meritava: si tratta di david eddings (19312009), autore del Ciclo di Belgariad e di altre fortunate saghe fantasy. la belgariad è pentalogia pubblicata tra il 1982 e il 1984 che ha per protagonisti un giovane mago di nome garion, suo nonno belgarath e sua zia Polgara, e che narra le vicende che porteranno il giovane allo scontro con il malvagio dio torak. insieme al ciclo di shannara, quello di belgariad è una delle pietre miliari della fantasy dopo tolkien.■
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uCinematura
Storie nell’ombra di Claudia Verardi - claudiaverardi@alice.it l’ultimo film di roman Polanski, L’uomo nell’Ombra, in lingua originale si chiama Ghost Writer, racconta, appunto, la storia di un ghost writer (interpretato da ewan Mcgregor) che viene incaricato di finire l’autobiografia di un ex Primo Ministro inglese (Pierce brosnan). il film è tratto dal libro omonimo del romanziere e giornalista robert Harris e offre l’occasione di parlare di un tema molto delicato e controverso: quello degli scrittori nell’ombra. quelli di cui si sa poco o niente, ma che, spesso, nascondono grande talento, quando non sono addirittura scrittori di razza.
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in Ghost Writer, allo scrittore viene offerto di redigere lo scottante memoriale della vita dell’ex Primo Ministro (personaggio che assomiglia molto a tony blair) durante gli anni in cui è stato al potere, ricevendo in cambio un anticipo da capogiro. il problema nascerà quando il ghost writer scoprirà molto di più di quanto l’ex Primo Ministro sia intenzionato a rivelare. segreti e misteri che altereranno gli equilibri politici e arriveranno perfino ad avere il potere di uccidere. e, infatti, lo scrittore fantasma scoprirà che il suo predecessore è morto in un incidente sospetto, cadendo in mare da un traghetto, concretizzando così l’ipotesi che sia stato fatto fuori
perché venuto a conoscenza di inquietanti segreti. si tratta di un film magistrale, che vede il ritorno alla regia – in una situazione molto particolare, perché ancora in svizzera agli arresti domiciliari per le famose vicende processuali in cui è coinvolto – del regista roman Polanski, dopo l’Oliver Twist del 2005. quello dei ghost writer è un argomento molto dibattuto. i ghost writer sono veri e propri scrittori fantasma. Professionisti che, per soldi o altre motivazioni, preferiscono rimanere anonimi e scrivere libri e articoli al posto di personaggi pubblici importanti. qualche volta i ghost writer sono costretti a rimanere nell’ombra per i motivi più diversi. sono uomini ordinari che, in realtà, ordinari non sono. spesso questi scrittori nascosti nell’ombra sono narratori incredibili, voci esiliate che, espresse in altro modo, potrebbero arricchire la letteratura di spessore e contenuti. la figura dello scrittore che confeziona storie nell’ombra nacque per riordinare bozze e manoscritti, per praticare una sorta di editing e mettere a posto, con uno stile e un linguaggio adeguato, le idee dell’autore. Più spesso, invece, specialmente negli ultimi tempi, gli “scrittori nell’ombra” hanno ruoli più rilevanti e ampliano – a volte elaborano del tutto – concetti e visioni dell’autore per cui scrivono, che viene detto “accreditato”. in un momento in cui la letteratura vive una situazione di sofferenza, ci si chiede perché i ghostwriter debbano lavorare a testi di
roman Polanski
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“scrittorucoli” che, dietro pagamenti di compensi più o meno alti, sono disposti ad annullare la propria dignità di professionisti. questo può essere ma, con molta probabilità, accade solo in ambito politico. Più di frequente i ghost writer sono scrittori che non riescono a entrare nel chiusissimo mondo editoriale e vengono pagati due lire per scrivere libracci che frutteranno bei soldoni agli editori e alle celebrità che “scrivono” il libro. in questa storia, le parole (e le idee), purtroppo, vengono messe al servizio della ragion di stato. in situazioni del genere, i pensatori camaleontici, intellettuali a comando e vittime della spersonalizzazione più violenta, sono al servizio del Palazzo.
improbabile importanza, quando potrebbero dedicarsi alla produzione di racconti e storie qualitativamente più interessanti. spesso, infatti, scrivono per politici, attori, personaggi famosi dello spettacolo e dello sport. forse la gente ha voglia di leggere le vite e le vicende di questi personaggi, invece che bei romanzi? e perché, poi, si sceglie di far raccontare a un ghost writer la storia della propria vita? Magari non si ha tempo per scrivere, o non se ne hanno la preparazione e le capacità. numerosi scrittori hanno cominciato la loro carriera facendo questo mestiere, ma pochi lo ammettono. H.P. lovecraft lavorò molto proprio come ghost writer prima di diventare famoso. scrivere un testo per conto di qualcun altro è un lavoro difficile, talvolta sporco. Può farti bene, ma può farti anche tanto male, come si dedurrà dalla storia, raccontata, sia nel libro che nel film, in prima persona dal secondo ghost writer (dato che il primo è morto, in circostanze piuttosto misteriose, annegato al largo della costa americana). i creatori di storie nell’ombra sono spesso tacciati di essere
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i ghost writer politici sono, da seneca e dall’antica roma in poi, una categoria professionale fastidiosa e contestata. nelle redazioni, in un tempo piuttosto recente, erano chiamati “negri”. anche il mondo dell’economia e dell’industria disponeva – e dispone – di ghost writer. ne aveva uno gianni agnelli, esistono in Vaticano, ci sono nel mondo politico e in quello editoriale. Va detto che per buona parte del novecento la politica ha cercato di resistere all’utilizzo degli scrittori fantasma: da Mussolini a de gasperi fino a togliatti e andreotti hanno fatto da sé, poi qualcosa è cambiato e si è cominciato ad avvertire l’esigenza di un professionista che trasformasse, limasse, abbellisse, convincesse di più chi leggeva quelle parole. un interessante riferimento cinematografico alla figura del ghost writer la troviamo ne Il Portaborse, film di daniele lucchetti del 1991, in cui il giovane professor sandulli (silvio orlando) deve scrivere i discorsi del ministro botero (un nanni Moretti senza scrupoli). scrittura mercenaria, parole al servizio di qualcosa di più grosso. dalla politica la figura del ghost writer è approdata poi ad altri ambienti, dagli spazi sociali fino alla letteratura. una professione che può essere considerata come un inizio, un ingresso nel mondo letterario (e non solo), un’accontentarsi perché non c’è altra via, un guadagno consistente anche se a discapito della dignità e del riconoscimento professionali.
lo scrittore fantasma, però, si accontenta. sa che, in qualche modo, può diventare, oltre alla voce ispiratrice della persona per cui scrive, un consulente della sua coscienza. Può arrivare a intrufolarsi nella situazione, se ci sa fare. il Ghost Writer di Polanski è un thriller mozzafiato, un film che come il libro (e forse di più) si snoda teso fino all’ultimo fotogramma. roman Polanski è stato premiato con l’orso d’argento per la regia all’ultimo festival del cinema di berlino, e giustamente. c’è profondità di immagini e tecnica sapiente nella sua opera. la narrazione segue un filo hitchcockiano che vede il singolo testimone al centro di un complotto molto più grande di lui, che lo avviluppa piano intrappolandolo subdolamente. oggi si sospetta che i ghost writer siano spesso impiegati in editoria al posto di nomi altisonanti. un esempio su tutti è quello di faletti. giorgio faletti, ex comico di drive in e attore brillante, è sbocciato come autore di thriller una manciata di anni addietro. su faletti si è detto molto e si è pensato che si servisse di un ghost writer, soprattutto quando si è notato che alcune frasi di Io sono Dio assomigliano a calchi mal tradotti dallo slang americano. si è pensato che lo scrittore – o il suo autore ombra – copiasse (male) da un qualche autore anglofono. o che, magari, avesse commissionato la stesura dei suo racconti a qualche autore americano non scioltissimo in italiano.
supposizioni, naturalmente. giorgio faletti sembrerebbe uno scrittore bravo, attento e, soprattutto, uno che sa mescolare stili e tecniche. uno che sa scrivere storie da cui si possono tirar fuori bei film o buoni prodotti tv, come Cane Nero, racconto da cui è stata tratta una fiction andata in onda su rai due per la serie Crimini 2 e interpretata da enzo decaro, Vittoria belvedere e gaetano amato. i ghost writer, insomma, ci sono sempre stati, e continueranno a esserci. si pensa che addirittura alexandre dumas padre ne avesse uno. auguste Maquet fu probabilmente l’anima nera e l’autore nell’ombra del grande scrittore francese. secondo alcune ricerche, pare che Maquet non si limitasse alla revisione degli scritti di dumas, ma scrivesse interamente i soggetti dei romanzi, sui quali poi il maestro lavorava. romanzi come Il Conte di Montecristo e I tre Moschettieri potrebbero essere, quindi, opere di un ghost writer. storie moderne, narrazione perfetta, tecnica magistrale. nonostante tutto, rimane una domanda. che senso ha scrivere i libri degli altri? si può capire se si tratta di scrivere i discorsi di un politico o la biografia di una starlette, ma nella letteratura, arte eccelsa che dovrebbe tirar fuori la parte più intima e nascosta di una voce e di un’anima, perché affidare un compito tanto delicato e importante a qualcun altro?■
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uLibri che ti cambiano la vita
Carrie di Marta Traverso - marti.traverso@gmail.com
il nostro viaggio ha inizio all'interno di una doccia comune, nella quale le allieve del liceo di chamberlain si rinfrescano dopo l'ora di educazione fisica. negli anni settanta era ormai storia antica parlare di comune senso del pudore, e nessuna di queste ragazze prova imbarazzo del proprio corpo, di mostrare alle coetanee la propria nudità. nessuna, tranne carrie. le è stato insegnato che tutto ciò che riguarda il corpo è peccato grave, ancor di più se si tratta del corpo di una donna. glielo ha insegnato sua madre, donna anche lei. a un tratto, mentre cerca impacciata di sciacquare via da sé il suo peccato – l'avere ancora una volta osservato, con un misto tra stupore e curiosità, la nuda disinvoltura delle coetanee – l'acqua che le scivola giù lungo le gambe prende ad assumere una tinta rossastra. il suo primo ciclo mestruale la coglie a sedici anni, e carrie crede di essere sul punto di morire. «Tappatela!» è tutto ciò che riescono a dire le sue compagne mentre le lanciano ridendo quei tamponi di tessuto assorbente che lei ha talvolta usato per ripulirsi dal rossetto messo di nascosto. «Ma come? Io sto sanguinando, STO MORENDO!, la pancia mi fa sempre più male! Perché nessuna di loro chiama aiuto?» stephen King non sarebbe il celebre scrittore che è oggi se, a suo tempo, sua moglie tabitha non avesse raccolto dal cassonetto dell'immondizia la prima bozza della scena di cui sopra. non è però la telecinesi il nucleo centrale del romanzo, né il potere distruttivo della rabbia umana. non è neppure quella tecnica narrativa straordinaria che unisce alla narrazione stralci di presunti saggi scientifici, articoli di giornale e memorie dei superstiti, radunati insieme come cronaca postuma dei fatti.
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Sul Romanzo • 2010
stephen King
chiunque legge il romanzo sa fin dalle prime pagine che carrie morirà, che sua madre Margaret morirà, che molti di coloro che l'hanno conosciuta moriranno. sanno inoltre che susan snell, per la madre e il fidanzato susie, per gli altri semplicemente sue, non morirà. sue è la ragazza che tutti noi siamo stati almeno una volta nella vita, quando un compagno o una compagna di scuola veniva preso/a in giro e noi, pur di non diventare la vittima successiva, esibivamo una falsa risata salvo poi – motivati dal senso di colpa, più che da un affetto sincero – tentare di rimediare al torto commesso senza dare troppo nell'occhio. ecco, questo è il senso del nostro viaggio, che prosegue in una casa di periferia tutta crocifissi e immagini sacre, e poi ancora a scuola, e poi di nuovo in quella casa. cosa ha determinato il successo planetario di Carrie, e i duecentomila dollari di diritti di stampa che permisero a King di uscire dalla roulotte in cui viveva con moglie e figli, pagare tutti i suoi debiti e diventare il guru planetario dell'horror che tutti conosciamo? forse che in un'epoca di dracula, frankenstein, demoni e uomini invisibili lui per primo ha trasferito l'orrore in un contesto ordinario, quotidiano. forse ancora, il fatto che questo contesto lo abbiamo davvero vissuto tutti. non solo: King ci introduce in quello che diventerà uno dei cliché più abusati della narrativa (cinematografica in primis) statunitense: la ragazza sfigata che cerca il suo
riscatto e lo ottiene diventando la reginetta del ballo della scuola. e il re del ballo, per un curioso incrocio di fato e casualità, è proprio il ragazzo per il quale ha una cotta segreta (che nel caso specifico è tommy ross, il ragazzo di sue). tutte noi donne siamo state, a suo tempo, chi carrie White – la ragazza che tutti prendono di mira –, chi susan snell – famiglia felice, buone maniere, ottimi voti, fidanzato carino –, chi chris Hargensen – quella che ha fatto più sesso di tutte e non perde occasione di rinfacciarlo. i ragazzi, a loro volta, sono stati chi tommy ross – il ragazzo che tutte le madri vorrebbero per genero –, chi billy nolan – il bulletto che tutte vorrebbero come amante. di fatto non esiste una Carrie al maschile, forse perché King l'ha mal sopportata davvero questa ragazza, al punto che una sola nella storia bastava e avanzava. sempre in on Writing scrive: «Non sono mai riuscito a farmi diventare simpatica Carrie White e ho sempre diffidato dei motivi per cui Sue Snell abbia mandato il suo ragazzo al ballo con lei, ma è un fatto che avevo centrato qualcosa». tutti e tutte noi ricordiamo (chi da vicino, chi da lontano) cosa significasse essere adolescenti. È sempre King a descrivere al meglio questa età: «Il liceo non è un posto molto importante. Mentre ci vai pensi sia una faccenda grossa, ma quando è finito nessuno pensa che sia stato un gran che, a meno che non sia rincoglionito».■
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Son chiesa e impero una ruina mesta Cui sorvola il tuo canto e al ciel risona: Muor Giove, e l'inno del poeta resta. Giosuè Carducci
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uSnorkeling letterario
Cronache letterarie
Michele Ruele - micsalias@gmail.com un giorno d’inverno dell’86 o ’87, a roma, sotto un arco dell’acquedotto della Vergine, dalle parti del colonnato di agrippa, è successo un fatto singolare. l’acquedotto perde, il freddo fa ghiacciare per terra e allungare pesanti ghiaccioli dal soffitto. Passava un bambino. È caduta una stalattite di ghiaccio. Ha trapassato il collo del bambino. il pugnale di ghiaccio si è sciolto nella ferita calda. È proprio vero che la morte non ha riguardo per niente e per nessuno, può arrivarti da ogni parte. Perfino l’acqua può accoltellarti. lo racconta il poeta Marziale (Epigrammi, iV, 18)
a Merano, il 13 aprile 1920, il dottor franz Kafka ha cambiato alloggio. È passato dall’hotel emma alla pensione della signora ottoburg a Maia bassa. l’Hotel emma era grande, sì, i padroni rispettosi dello stretto regime vegetariano dell’ospite – passabile, il servizio – e l’edificio recente, ma un po’ troppo caro, è meglio qualcosa di più modesto e riservato. alloggi ce ne sono tanti, a Merano, il dottor Kafka non sapeva bene quale scegliere. così, ha trascorso tre giorni a cercare un’alternativa. infine ha scoperto una pensione, in via Maia, gestita da una signora allegra, molto grassa, dalle guance rosse. gli
ricorda la moglie del libraio taussig. la padrona, la signora ottoburg, ha riconosciuto subito il suo accento praghese e ha mostrato di essere estremamente interessata alla consuetudini vegetariane del possibile ospite. sono tutti così gentili qui, cerimoniosi: può essere solo per motivi economici, per procacciarsi un buon cliente? o forse è una naturale inclinazione a essere più delicati verso chi con ogni probabilità è a Merano perché è bisognoso di riposo o ancor più di cure? una convalescenza, sperano i più pietosi. comunque la signora ottoburg, così come la gran parte della gente di qualunque luogo, sa ben poco di regimi dietetici vegetariani. Ha salito le scale per accompagnarlo alla camera, al primo piano, aggrappandosi alla balaustra di legno: ottima stanza, balcone che consente qualsiasi nudità. la sala da pranzo è comune e angusta, ai clienti tocca sempre guardarsi negli occhi per il poco spazio che c’è; non ci sono i vani ampi come all’Hotel emma,
franz Kafka
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da qualche anno conduceva la fabbrica di matite del padre, di malavoglia. nel suo libro più famoso ha raccontato i due giosuè carducci anni circa trascorsi in riva al lago Walden, in una capanna, in totale solitudine e a stretto contatto con la natura. forse a causa dell’amore doloroso per ellen sewell. Vale la pena di trascrivere qualche frase di Walden, per rendere l’idea di quella esperienza into the wild. «non lessi libri il primo anno. zappai fagioli.» insomma, si è meno liberi dagli altri ospiti ma si è anche meglio seguiti. la pensione piccola assomiglia a una tomba di famiglia, no, è detto male, a un colombario di loculi in fila.
«forse il lago di Walden esisteva già quel mattino di primavera in cui nacquero adamo e eva. Miriadi di anatre e oche non sapevano dell’autunno del peccato, quando a loro bastavano laghi così puri.»
Però è anche piacevole: i posti a tavola sono segnati dai tovaglioli infilati negli anelli.
«cos’è un corso di storia o filosofia o poesia, per quanto esso sia ben scelto, di fronte alla disciplina di guardare sempre ciò che deve essere veduto?»
dunque si è deciso, già dal lunedì di Pasqua il dottor Kafka è ospite della signora ottoburg. la signora gli ha detto perfino che serve in tavola vero zucchero, e non la saccarina come all’hotel emma. il signor padre sarà contento quando lo saprà.
a concord, Massachusetts, il 6 maggio 1862, ci ha lasciato lo scrittore Henry d. thoreau, l’autore di Walden ovvero Vita nei boschi. Pare che la bronchite poi aggravata, a cui è subentrata la tisi, gli sia stata provocata da una giornata trascorsa al gelo, nel dicembre precedente, per contare gli anelli di un noce d’america e di una quercia.
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«l’uomo non può permettersi di essere un naturalista, di guardare la natura direttamente, ma solo con la coda dell’occhio.» «quando scrissi le pagine che seguono, vivevo da solo, nei boschi, a un miglio di distanza dal più prossimo vicino, in una casa che m’ero costruito da me sulle rive del lago di Walden, a concord, Massachusetts; mi guadagnavo da vivere con il solo lavoro delle mie mani. Vissi colà per due anni e due mesi. attualmente sono ritornato nel consorzio civile.»
la mattina presto del 23 ottobre 1873, a bologna, il poeta italiano giosuè carducci accompagnava
alla stazione la sua amante carolina cristofori Piva, da lui chiamata lidia. era triste. Pioveva e i lampioni colavano luce pallida sul fango. il treno gli sembrava un ippopotamo, una tigre, un demonio. i controllori e i macchinisti dei diavoli. la gente dei dannati. lui stesso un fantasma. il faccino di lei incorniciato in un’infame abominevole finestrella quadrata. gli sembrava, racconta, che dappertutto nel mondo fosse autunno.
un giorno di fine dicembre del 1943 consuelo de saint exupéry scrive un telegramma da new York al marito antoine, aviatore ad algeri. «i tuoi telegrammi mi hanno fatto alzare dal letto dov’ero da un mese. tu sei la mia sola musica. due mesi senza lettere da te. i tuoi silenzi mi perdono. il mio unico orizzonte è il nostro amore e il tuo lavoro. ti supplico di iniziare il tuo grande romanzo. amici e editore lo aspettano come io aspetto il tuo ritorno. Piango talmente la tua assenza. forse i miei occhi non decifreranno la tua scrittura minuta, ma ascolterò l’ammirazione e le lodi degli amici che ti aspettano fedelmente. il mio unico regalo di natale sono stati i tuoi telegrammi. la mia festa è iniziata preparandoti dolcemente il letto perché dio sicuramente vuole che tu arrivi presto. ti abbraccio forte.»
il poeta dante alighieri a quarantadue anni, nel 1307, sulle montagne alla sorgente dell’arno, si appassiona violentemente di una donna che lo scioglie come neve al sole. non riesce più a scrivere, non trova consolazione. È così sconvolto che non si dà pace, e deve perfino
antoine de saint exupéry
giustificarsi con delle lettere di scuse indirizzate ai potenti che lo proteggono. Poco male, però, dirà anni dopo il suo ammiratore giovanni boccaccio, e gli darà lui una giustificazione più leggera. sono cose che succedono, cosa sarà mai, questo dante così scrupoloso in fondo era anche lui un uomo: «tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrazione è di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi. il quale vizio, come che naturale e comune e quasi necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sarà tra’ mortali giusto giudice a condennarlo? non io».■
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uCantautori: per rispetto chiamati artisti
Francesco Seconda parte:
album), brano conosciutissimo dedicato al bel Paese e alla sua gente, che all’occorrenza si dimostra in grado di saper reagire, come chi ha fatto la resistenza (“l’italia che resiste”) o chi si è rialzato nel ’69 dopo la strage di Piazza fontana a Milano (“l’italia del 12 dicembre”).
Annalisa Castronovo - annalisa.castronovo@gmail.com
Più in là, francesco de gregori collabora anche all’album di ron Una città per cantare, ma il suo nuovo lavoro arriva nell’’82, è Titanic. in varie occasioni esso è stato definito un concept album, per la presenza al suo interno non solo dell’omonima canzone, ma anche di altri due brani che riecheggiano la vicenda relativa all’incidente che il 14 aprile 1912 procurò l’affondamento dell’“rMs titanic”, nave passeggeri britannica, entrata in collisione con un iceberg; non a caso, il ghiaccio ricorre in tre diverse strofe della canzone, con connotazioni che per nulla fanno presagire l’incombente tragedia (“e con il ghiaccio dentro al bicchiere”, “ci sembra quasi che il ghiaccio che abbiamo nel cuore”,
dopo il “processo” al Palalido francesco de gregori si rialza. ritiratosi per un po’ a vita privata, sposa un’ex compagna del liceo, alessandra gobbi, dall’unione con la quale nasceranno i figli Marco e federico. la vita continua ed è la volta di Generale (in De Gregori, 1978), il cui contrappunto letterario sta in Addio alle armi di ernest M. Hemingway (anche autista per la croce rossa durante la Prima guerra Mondiale), che scriveva fra l’altro di una dolce infermiera che fa l’amore col protagonista. Molto più tardi, Vasco rossi sceglierà di aprire, significativamente, con Generale il suo concerto “rock sotto l’assedio” al san siro con le band di sarajevo. tra il ’78 e il ’79 francesco de gregori stringe più saldamente il sodalizio con lucio dalla, ne nasceranno Ma come fanno i marinai e la fortunata tournée Banana Republic (saranno, infatti, in 40.000 allo stadio flaminio di roma). nel ’79 arriva anche Viva l’Italia (con l’omonimo
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ernest M. Hemingway
De Gregori alias il principe da Generale a oggi, da Banana Republic a Work in progress “forse per via di quegli occhi di ghiaccio”). l’idea per questa metafora dei disastri che minacciano la società deriva dalla lettura de L'affondamento del Titanic, poema in versi del 1978 scritto dal tedesco Hans Magnus enzensberger. ne L’abbigliamento di un fuochista, invece, il riferimento letterario è America di franz Kafka, che come primo personaggio descrive il fuochista, appunto. la terza canzone in tema – sebbene tocchi per lo più l’argomento emigrazione – è I muscoli del capitano (cantata con giovanna Marini), in cui il capitano è appunto edward John smith e il linguaggio pesca nei tratti essenziali del futurismo. l’’83 è l’anno del q disc (anche se di cinque pezzi) La donna cannone, sicuramente una tra le più belle canzoni dell’artista romano, in cui parole e musica si intrecciano in un’indiscutibilmente emozionante combinazione; nel disco sono pure presenti due diverse versioni della colonna sonora scritta da de gregori per il film Flirt diretto da roberto russo. seguiranno gli album: Scacchi e tarocchi (1985, al quale collaborò anche ivano fossati), contenente fra le altre La storia (da un lato constatazione della sua ineluttabilità e dall’altra sprone ad agire per chiunque, “perché è la gente che fa la storia”) ; Terra di nessuno (1987), che si apre con Il canto delle sirene, i cui spunti letterari sono chiaramente i vari personaggi di Ulisse da omero a James Joyce, ma anche il Moby Dick (1851) di Herman Melville citato attraverso “l’occhio di ismaele”; infine, Mira Mare 19.4.89 (data di pubblicazione). Poi nel ’90 arrivano tre live: Niente da capire, Catcher in the Sky e Musica leggera. nel 1992, periodo di stragi per l’italia e dello scandalo denominato Tangentopoli, de gregori pubblica un nuovo album, Canzoni d’amore. amore nel senso più tradizionale, come in Bellamore, e amore per il proprio Paese, afflitto da figure di spicco controverse, cui si riferisce in Chi ruba nei supermercati? (rivolta a “chi li ha costruiti”) e ne La ballata dell’Uomo Ragno (probabilmente scritta pensando a bettino craxi). a seguire ancora un album dal vivo, Il bandito e il campione, il cui brano omonimo è un inedito composto dal fratello, luigi grechi, che disegna attraverso due personaggi realmente esistiti, sante Pollastri e costante girardengo, la storia di un’amicizia fra due uomini (entrambi nati sul finire dell’ottocento a novi ligure), le cui vite li porteranno a percorrere strade molto diverse, uno
diventerà un bandito in epoca fascista e l’altro un campione del ciclismo italiano. seguirà il disco live Bootleg che tra i successi dell’artista propone anche due cover italiane, vale a dire Anidride solforosa di dalla e roversi, cantata con angela baraldi, spalla di de gregori nel tour (durante il quale la donna si è esibita anche con brani propri) e Mannaggia alla musica composta per ron nel 1980. nel 1995 francesco de gregori collabora con L’Unità di Walter Veltroni scrivendo una serie di articoli. l’anno dopo è la volta di Prendere e lasciare, album registrato negli Studi Fantasy di berkeley nell’estate del ’96, il cui titolo avrebbe dovuto essere Rosa rosae (nome di una delle tracce), ma che – a dire dello stesso autore – «risultava quasi minaccioso, per le reminiscenze scolastiche», così le rose sono rimaste in copertina. nel disco compare un brano di rara grazia e delicatezza, Un guanto, ispirato dall’omonima serie di dieci disegni a penna (1881), di stampo autobiografico, del pittore e scultore tedesco Max Klinger. la canzone, che pure traccia tra note e parole
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Max Klinger, dalla serie Un guanto,
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quella sorta di “graphic novel” ante litteram dallo smarrimento del guanto sulla pista di pattinaggio fino all’intervento finale di cupido, ne esce come un pezzo d’arte a sé stante e arricchito da ulteriori spunti, quale la storia di Amore e Psiche di tradizione greco-latina. Ma a scenari leggiadri e impalpabili, il cantautore aveva già abituato fin dalla prima traccia, Compagni di viaggio, in cui “la luce dell’alba da fuori sembrò evaporare”. e poi ci sono
pezzi più rock e di tutt’altro tenore, come L’agnello di Dio che, di fronte a Mario luzzatto fegiz, de gregori commenta così: «gesù patì non in compagnia di sant’uomini, ma di due ladroni che portò con sé in Paradiso. al posto dei ladroni in questa canzone ci sono puttane, spacciatori, il soldato che decapita il nemico. non è certamente una canzone pacificatoria. Ma dov’è lo scandalo?». il video è stato girato da bruno bigoni sul set fantascientifico del film Nirvana di gabriele salvatores. Mentre Pilota di guerra è ispirata ad antoine de saint-exupéry, scrittore e aviatore francese, e Tutti hanno un cuore narra di disagio giovanile, ma anche di democrazia mancata, per coloro che, come i cileni reduci dalla dittatura di Pinochet, ancora vivono in condizioni a dir poco precarie. c’è dell’altro. nel disco è presente anche Prendi questa mano, zingara, canzone che è stata fulcro di una causa per plagio da parte degli autori di Zingara, cantata nel ’69 da iva zanicchi e bobby solo; dapprima, nel 2002, il brano di de gregori dovette sparire dalle ristampe dell’album per ricomparire dopo il 2007, anno in cui la corte d’appello diede ragione al cantautore in quanto si trattava semplicemente di una citazione. il disco, dopo 17 tracce silenziose da 56 secondi ciascuna, si chiude con una ghost track, versione diversa di Battere e levare, e una parte strumentale di Jazz. nel 1997 arriva il doppio cd La valigia dell’attore, risultato di un tour e contenente anche la versione degregoriana di Dammi da mangiare e Non dirle che non è così, cover di If
Max Klinger, dalla serie Un guanto, 1881
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you see her, say hello di bob dylan. in questo brano il romano dà prova di aver superato il maestro realizzando un delicato e toccante intreccio di poetica e armonia musicale, che – a mio giudizio – rende secondario l’originale. sarà lo stesso dylan, nelle note illustrative del suo film Masked and anonymous, a definire de gregori «la leggenda della musica leggera italiana». Amore nel pomeriggio (2001), album di inediti, inediti d’amore come Sempre e per sempre e inediti che romanzano la storia, come Il cuoco di Salò (arrangiata da franco battiato), in cui ancora una volta il punto di vista è quello della gente comune su una vicenda reale, la repubblica di salò (23 settembre 1943 – 25 aprile 1945), ultimo sprazzo di fascismo mussoliniano. questa volta il protagonista è un cuoco, un ragazzo comune, la cui quotidianità è incastrata tra la luce e la vita da una parte e gli spari e la morte dall’altra. «che qui si fa l’italia e si muore/ dalla parte sbagliata, in una grande giornata» e la guerra così dipinta, con consapevolezza storica – si noti la citazione di garibaldi a bixio del 1860 e la sottile quanto essenziale modifica – ma senza giudizio, viene mostrata per quello che è, che siano alleati o nemici. così un cuoco fa solo il suo mestiere e un medico fa solo il suo mestiere (come recentissime vicende insegnano). de gregori, nel 2002, ritorna al folk con Il fischio del vapore, album inciso con giovanna
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Marini, che racchiude canti popolari e sociali italiani, fra i quali l’immancabile Bella ciao. nello stesso anno l’artista è impegnato nei concerti che lo vedono avvicendarsi sui palchi italiani insieme a Pino daniele, fiorella Mannoia e ron; collaborazione da cui nascerà il cd live In tour. altra collaborazione, l’anno dopo, lo vede da una parte al fianco del vecchio amico antonello Venditti, per la composizione del brano Io e mio fratello (presente in Che fantastica storia è la vita di quest’ultimo), e dall’altra sul set del film di franco battiato, Perdutoamor, nastro d’argento oltre che opera d’interesse culturale nazionale secondo la direzione generale per il cinema del Ministero per i beni e le attività culturali italiano. due stagioni dopo esce l’album Pezzi con la canzone da cui trae il nome, Vai in Africa, Celestino! sull’identità del quale ci sono almeno tre ipotesi. secondo la prima si tratterebbe di Walter Veltroni, anche per via del riferimento fatto dal cantautore durante un’intervista del 2007 al “corriere della sera”: «io lo prendevo un po’ in giro per la storia dell'africa: “guarda Walter che non ci crede nessuno”. lui teneva il punto: “ti dico che vado in africa!”. almeno su questo, per ora ho avuto ragione io». altri pensano che si tratti del celestino V che, come recita dante alighieri, rifiutò il papato per viltà («fece per viltade il gran rifiuto»). c’è anche chi crede che sia un riferimento letterario e un ridimensionamento della filosofia new age de La profezia di Celestino, fortunato romanzo di James redfield del 1993 (The Celestine Prophecy). con quest’album de gregori prenderà parte per la prima volta al Festivalbar, ma anche al programma musicale televisivo Top of the Pops. inoltre, sempre quell’anno, sarà sul palco al Concerto del Primo Maggio a roma e avrà l’onore di aprire il Live 8, manifestazione musicale tenutasi il 2 luglio 2005 in nove città dei Paesi appartenenti al g8 con lo scopo di sensibilizzare e spronare alla cancellazione del debito delle nazioni più povere. a meno di un anno arriva Calypsos, con nove canzoni nuove, fra le quali Per le strade di Roma (il cui titolo riecheggia Streets of Philadelphia di bruce springsteen, ma nulla di più), che restituisce uno spaccato della città e del suo tempo, che la rapina un po’ giorno per giorno. Poco più tardi la sony pubblica una tripla antologia, in cui compare Diamante, scritta tempo addietro per
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zucchero e dedicata alla nonna di fornaciari, è una canzone incantevole e suggestiva, una passeggiata nel passato; ma c’è anche una Banana Republic cantata esclusivamente da de gregori. nel 2007, invece, viene prodotto Left & Right - Documenti dal vivo, cd-dVd tratto dalla tournée invernale, cui ne seguirà una teatrale, durante la quale il romano avrà modo di presentare Finestre rotte e Per brevità chiamato artista, che con l’altra sarà fra i brani dell’omonimo album del 2008. titolo di cui ho detto nella mia prima parte sul cantautore e che era già presente in un inedito del ’74, vagamente profetico della vicenda al Palalido, De Gregori era morto, che verso il finale fa: «era un ragazzo gonfio per brevità chiamato artista». Ma la sua carriera era ed è ancora in fieri. il 2010 si apre con una notizia: de gregori e dalla di nuovo insieme. al Vox club di nonantola (Mo), infatti, i due si esibiscono spalla a spalla a più di trent’anni da Banana Republic, dopo essersi trovati insieme il 24 giugno 2009 a solferino per commemorare, in occasione del 150° anniversario, i protagonisti della battaglia che coinvolse più di 230.000 soldati e che chiuse la seconda guerra d’indipendenza italiana. lo spettacolo continua. ci saranno concerti, il Work in progress tour 2010, e con ogni probabilità seguirà un album. tra le canzoni c’è una chicca, un pezzo nuovo in cui è nitida l’impronta di colui che io considero un maestro, un poeta della canzone, oltreché un sensibile e brillante musicista; il titolo del brano – perfetto per chiudere questa mia “chiosa” – la dice lunga; infatti, semplicemente: Non basta saper cantare.■
La verità è che la vera musica non è mai 'difficile'. Questo è soltanto un termine che funge da schermo, che viene usato per nascondere la povertà della cattiva musica. Claude Debussy
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uL’angolo delle interviste
a cura della Redazione - sulromanzo@libero.it Quando e dove è nata l’associazione “Amici della Zizzi” e grazie a chi?
di informare e allo stesso tempo essere il forum principale a livello nazionale su tale delicato tema.
“zizzi” era il soprannome di una professoressa di livorno che sempre si è prodigata per il prossimo. dalla sua morte, nel 1987, è nata l’associazione “amici della zizzi” (www.zizzi.org) per volontà del figlio riccardo che, insieme a roberta, ha dedicato la sua vita ai bambini bisognosi d’affetto, vivendo con loro e crescendoli come figli propri.
Il volontariato è uno stile di vita con una sua utilità nel mondo o un’esperienza che concerne semplicemente l’io di chi è attivo?
Di che cosa vi occupate? l’associazione compie opera di prevenzione nei confronti di minori a rischio, con problemi sociali e familiari difficili (pedofilia, adozioni fallite, abusi e povertà), cercando di donar loro soprattutto amicizia, in modo tale che acquistino fiducia in chi li segue e riescano così a crescere in un ambiente lontano dalle miserie economiche e morali che li circondano. in questo momento riccardo e roberta stanno seguendo 9 ragazzi in affido, mentre altri se ne aggiungono nel periodo estivo, provenienti da città limitrofe e non solo. Parallelamente a questo tipo di attività, viene curato e gestito un portale sull’affido www.sos-affido.it con lo scopo
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non credo che l’esperienza di volontariato sia collegata solamente ad un soddisfacimento personale, ad un andare a letto con la coscienza a posto o ad una prestazione gratuita di servizi. credo piuttosto che alla base del fare qualcosa per gli altri in modo volontario ci sia un voler far esperienza di sé e degli altri. non è una cessione di beni per “far pari” con le ingiustizie della società contemporanea, ma è fare qualcosa con gli altri, rispettando l’altro come titolare di diritti e non semplicemente bisognoso di aiuto. Per questo ritengo che chi passa il proprio tempo mettendo a disposizione le energie per il prossimo lo faccia con tale tipo di etica e così facendo non può altro che essere utile per il mondo intero.
E poi è nata l’’idea “Mosaico di Emozioni”, che cosa è e come si struttura?
l’idea di mosaico di emozioni nasce come opportunità per coinvolgere tante persone che possono così dar spazio alla loro creatività nello scrivere brani, poesie, racconti e realizzare allo stesso tempo un libro con un fine sociale e benefico: quello di aiutare i ragazzi in difficoltà. inoltre, chiunque voglia partecipare avrà la possibilità di vedere il proprio nome accanto a quello di molti personaggi famosi e veder così pubblicato un libro con il proprio scritto.
Qual è il vero obiettivo dell’iniziativa?
Numerosi sono stati i sostenitori, fra i quali Carlo Azeglio Ciampi, qualche altro nome che ha deciso di aderire?
Ci sono nuovi progetti e che cosa vi aspettate da “Mosaico di Emozioni”?
tra i partecipanti famosi all’iniziativa ci sono franco di Mare, giornalista e scrittore; sarah Maestri, attrice e scrittrice; anna lavatelli, scrittrice per bambini; anna Piras, giornalista rai; lina sastri, attrice; antonio rossi, campione sportivo; franco simone, cantante; giorgio Morales, ex sindaco di firenze ed attuale difensore civico. inoltre la copertina verrà curata da guido silvestri, in arte silver, il creatore di lupo alberto.
oltre al fatto di dar vita ad un libro che sia veramente la composizione, tassello per tassello, di tante emozioni delle persone, speriamo in seguito, una volta realizzato, di poterlo presentare in più posti possibile dandoci così la possibilità di farci conoscere, l’opportunità di parlare dell’associazione e del lavoro che svolgiamo quotidianamente.
ciò che speriamo è che riesca a portarci a contatto con più persone possibile e, essendo la prima volta che ci lanciamo in un’iniziativa di questo tipo, faccia da traino per altri progetti nell’ambito culturale. in questo periodo siamo anche alle prese con la redazione del bilancio sociale dell’organizzazione, un documento che racchiude tutta la nostra storia, i valori e le esperienze di ventitre anni. inoltre, siamo già lanciati verso gli obbiettivi estivi e, perché no, al mercatino di natale che realizzeremo qui a livorno verso fine novembre.■
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uEsordire
Non piangere coglione di Amedeo Romeo di Sara Gamberini - saragamber@libero.it Una volta, circa quindici anni prima, camminavo da solo in un vicolo di Siviglia, c'era un caldo secco che bruciava la pelle, da una finestra al primo piano provenivano le note di una musica di pianoforte, credo fosse Keith Jarrett, il cielo era blu: stavo molto bene. Non mi ero mai sentito tanto sereno. Nell'aria c'era un odore insolito, innaturale. […] quello senza dubbio, e senza una vera ragione, era stato l'istante più felice della mia vita. Quasi un decennio più tardi, la prima volta che mi ero trovato a fare l'amore con una donna incinta, avevo sentito quell'odore. […] dopo averla tempestata di domande, avevo scoperto che il profumo della felicità era una crema per le smagliature molto diffusa tra le donne in gravidanza. Non piangere coglione (isbn, 2010) racconta la storia di andrea Morini, trentenne inquieto e nevrotico, teatrante, anarchico nelle intenzioni e nei fatti. andrea desidera un figlio ma non vuole diventare padre: un figlio lo vorrebbe tenere in pancia e partorire. il corpo delle donne incinte lo incanta e lo eccita. dopo aver incontrato lena, all'ottavo mese di gravidanza, il suo desiderio si fa ossessione. contempla la maternità della donna, di cui si innamora in qualche modo ricambiato, e desidera essere madre, diventare lena, partorire al suo posto. nasce ada e il risveglio per andrea, per il padre naturale della piccola e per la madre diviene inevitabile, necessario. finalmente un protagonista degno di abitare un romanzo. con Non piangere coglione siamo in pieno romanticismo, vicini alla poesia normale della vita tocchiamo il desiderio del desiderio, la grazia struggente della consapevolezza. la storia non è così appassionante, certo non è mal strutturata, le azioni sono sempre giustificate, l'autore non perde mai la misura e mantiene un ritmo narrativo regolare e musicato. Ma tutto ciò che sta attorno al protagonista è un simbolo da non prendere troppo alla lettera e da trattare, invece, al pari di una condensazione inconscia. trama, personaggi secondari, colpi di scena servono a supportare e svelare l'evoluzione del protagonista, come in un sogno. la bellezza del romanzo di amedeo romeo sta tutta nel suo protagonista. con grande intelligenza, senza paura di spingersi in profondità, l'autore ci presenta andrea in tutto ciò che è: un delizioso folle, un romantico, un uomo. il rifiuto di una vita borghese, di una letteratura borghese, di un procedere narrativo stereotipato, tutte queste ribellioni
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insieme fanno del romanzo un insolito esordio che ha spiazzato più di qualche critico, costretto a cercare etichette in sostituzione: andrea è un pazzo pervaso da turbe psicosessuali, un disadattato, la sua vita è inconcludente, bizzarra, malata. non è così. andrea Morini esprime l'incanto dell'autore nei confronti delle persone che dimostrano amore per la vita e che vivono con desiderio, senza alcun limite, per poter essere semplicemente ciò che sono. Non piangere coglione, un romanzo anti-borghese, esordisce lontano dai luoghi comuni, non tenta di nascondere l'istinto dell'uomo, le normali ossessioni, le inclinazioni appassionate. amedeo romeo toglie un velo, apre il sipario quando la scena non è ancora pronta, ti spia in bagno, ti ascolta mentre hai paura, squarcia la
convenienza di superficie e lo fa poeticamente. le vicende del romanzo fanno spesso sorridere. andrea, in piena immedesimazione con la gravidanza di lena, le ruba i vestiti, i trucchi, le strisce depilatorie e poi si chiude in bagno tentando di trasformare il suo corpo. capita di sorridere perché questo travestimento disperato ci riporta al ricordo di qualche nostro pasticcio, combinato tentando di assomigliare, di diventare. andrea immagina che il parto dilani il corpo, lo crede un gesto d'amore che non ha pari e lo vuole provare ad ogni costo; per sentire di amare con la propria carne si chiude in una stanza d'albergo e si ferisce con un pezzo di vetro.
completamente rosse, ricaddi subito a terra. Composi il numero della casa dove avevo vissuto da bambino, il primo che avevo imparato a memoria quando ero piccolo, senza prefisso […]
Cercai di alzarmi dal letto, le lenzuola erano
Ma il parto non dilania. a spiegargli questo è lena, una donna fuori dal comune, dolce e anarchica, che non punisce e non giudica, ma accoglie e comprende. il simbolo della madre.
Il numero selezionato non è attivo. “Mamma” sussurrai. The number you have dialed is not available. “Mamma ho una bella notizia. La piccola è nata. Sta bene, io sto bene, è stato un parto naturale, fisiologico, dicono le ostetriche [...]
Ho sofferto quando ho partorito, ma non è lacerarsi, piangere e gridare che fa di te una madre, non è il dolore. Il dolore non c'entra. il padre naturale invece non sopporta che il corpo della propria donna si trasformi e scappa con una giovincella. È il simbolo animale e primitivo, e ahimè un po' logoro e banale, del maschio che ha il compito di garantire la continuità della specie. nel naturale scorrere degli eventi, nella biologia priva di morale della vita, andrea sa che il desiderio è un'avventura solitaria, una ricerca di ciò che manca perché ci è stato sottratto, la rappresentazione di un oggetto prima posseduto la cui perdita ben giustifica l'attrazione e la nostalgia che ne guidano il ritrovamento. in tutto questo movimento del corpo e dell'anima, in questa tensione verso un miglioramento, le regole sociali perdono di senso. andrea non lavora, vuole essere madre, si depila le sopracciglia, vive in una casa sporca, ama il teatro, si innamora di una donna incinta. Ma soprattutto segue il proprio dolore e lo compensa; per amedeo romeo pare non esista modo migliore per potersi assumere la responsabilità più complicata della vita, quella di essere padre.■
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uI (rin)tracciati
Disabituati alla vita: i racconti di Angelo Fiore
di Alessandro Puglisi - alex.puglisi@inwind.it una vita al margine, e una vicenda letteraria altissima ma, per molti versi, nascosta; segni, tracce distintive dell’esistenza (d’uomo e d’autore, per l’appunto) “appartata” di angelo fiore, nato a Palermo nel 1908. dal clima domestico, non dei più sereni, all’adolescenza, durante la quale il futuro narratore rivela un carattere di particolare sensibilità, cominciando ad acquisire quelle suggestioni, soprattutto empiriche, legate alla pratica della vita, che lo influenzeranno e, ancor più, indirizzeranno nella scrittura; giungendo alla carriera studentesca, poco brillante, e poi alle varie professioni esercitate, culminando nella “ennesima nuova carriera”, con l’espressione letteraria, quella di fiore è una parabola che vale la pena conoscere, per rivalutarla. Piuttosto travagliato il susseguirsi di situazioni relativo all’esordio letterario di fiore, il cui talento rimane per anni, almeno venti, come annota egli stesso in una pagina “diaristica” del 1961, completamente nascosto. Primo testimone delle opere di fiore è da ritenersi, grazie anche alle recenti ricerche condotte dal prof. nino de Vita, salvatore cantone, insegnante di lettere e condirettore della rivista «Kronion». Mentre il “secondo tentativo di affermarsi come scrittore” si concretizza nell’invio, per mezzo di arturo Masolo, di una serie di manoscritti alla casa editrice lerici, all’interno della quale, nei primi anni ’60, Mario luzi e romano bilenchi dirigono la «collana
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narratori». tra i manoscritti, vi era Un caso di coscienza, che uscì, finalmente, non molto tempo dopo, al n.29 della sopradetta collana. ed è proprio da qui che, saltando, per forza di cose, a pie’ pari gran parte della carriera di fiore, arriviamo ai giorni nostri e alla bella riedizione, datata 2002, ad opera della casa editrice messinese Mesogea, di Un caso di coscienza, in un volume curato da antonio Pane, con un’introduzione di silvio Perrella e la presenza, oltre ai testi costituenti la raccolta originale, di racconti sparsi, e di una selezione dal ricco epistolario dello scrittore. bisognerà far presente, anzitutto, che in fiore, per quanto al lettore meno smaliziato possa sfuggire, la “vita vissuta” si lega a doppio filo con la “vita raccontata” tra le righe. non è un caso, infatti, se l’elemento della professione svolta dai protagonisti dei racconti sia preponderante e, spesso, informi completamente i racconti stessi, attraverso un narrare che si sostanzia in uno stile denso dal federigo tozzi punto di vista
charlie chaplin, Tempi Moderni, 1936
lessicale, ma sintatticamente sincopato, il quale avvicina d’un tratto fiore ad un altro grande, anch’egli meno considerato di quanto meriterebbe, vale a dire federigo tozzi, e in particolare il tozzi del fondamentale Tre croci. il percorso di lettura di Un caso di coscienza e altri racconti è sicuramente accidentato. da Il paziente, (che ai lettori più attenti non mancherà di ricordare lo strepitoso Sette piani di dino buzzati) in cui l’omissione, da parte di un medico, nel comunicare la “verità” ad un suo assistito, sofferente di una malattia mentale, innesta, su uno sfondo di quotidiano e quasi verista torpore, uno scarto di pirandelliana memoria, al racconto che dà il titolo al volume, Un caso di coscienza, magnifico esempio d’esercizio e di professione d’una scrittura nervosa, sovraeccitata, incredibilmente lapidaria e sovrabbondante allo stesso tempo, nel rappresentare la piccola, grande, estemporanea e fulminea, metaforica discesa all’inferno di «bùccoli di Messina […] commerciante all’ingrosso». da I sordomuti, campionario di personaggi “borderline”, crogiuolo umano che s’approssima al branco animale, tremendo microconsesso sociale, a Il licenziamento, una delle vette della raccolta, a nostro modo di vedere, per cui il
riferimento al romanzo “di fabbrica” di ottiero ottieri (del quale abbiamo già avuto modo di parlare in questa stessa rubrica) sembra imprescindibile, nella misura in cui, anche in questo caso, viene proposta la dialettica inesauribile tra “capo del personale” e “sottoposto”. in particolare, poi, nel testo di fiore, il post-licenziamento non può che trasformarsi nell’esplicitazione di una latente inedia esistenziale alla quale non c’è rimedio. così come nessuna soluzione, neanche in extremis, sembra esserci alla situazione in cui viene a trovarsi salviati, il protagonista di Il concetto di libertà, vittima di una quasi kafkiana e torrida oppressione statale. di non minore rilievo sono infine testi come Il bilancio, Un giorno del passato, Il buffone dell’universo, nei quali, anzi, il sotterraneo stato allucinatorio caratterizzante tutta la raccolta emerge con forza straordinaria, facendosi estrema sintesi e al contempo climax delle modalità d’espressione della tipica distorsione del mondo posta in essere da angelo fiore.■
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fritz lang, Metropolis, 1927
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Chiunque comprenda il ruolo centrale che la letteratura svolge nello sviluppo della storia umana, deve anche comprendere che la resistenza al totalitarismo, sia esso imposto dall'esterno o dall'interno, è questione di vita o di morte. George Orwell
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uTarantula
Komunicato n.ro 3 di Roberto Orsetti - rorsetti@tin.it guccini: chi? l'insegnante? in italia la canzone chiamata “d'autore”, ha spesso fatto riferimento alla letteratura, classica o moderna che sia. Parlo di “canzone d'autore” e lo specifico, perché a leggere i testi delle canzoni spesso si rischia un coccolone. frasi senza senso, rime ardite o talmente scontate che anche i bambini dell'asilo se ne vergognerebbero. Ma tra i cantautori nostrani ci sono veri creatori di emozioni, con testi che sopravvivono tranquillamente anche se privati della musica. uno degli autori a cui sono maggiormente affezionato, anche per anzianità, è francesco guccini, poeta e scrittore almeno quanto musicista. guccini ha attraversato per oltre quarant’anni la scena del cantautorato nostrano, riuscendo a coniugare tradizione popolare, cultura italiana e non, impegno politico e sociale con estrema chiarezza, ma senza eccessi. sin dai tempi di Dio è morto si capisce che guccini costruisce i suoi testi come una spugna di qualità. elabora concetti, ancor più frasi e visioni che appartengono ad altri. non sono citazioni, ruberie o furberie, ma scorciatoie. sono riconoscimenti o riconoscersi nell'altrui scrivere. una operazione che altri farebbero o fanno di nascosto, mentre guccini lo fa alla luce del sole. un esempio di condivisione, consapevole che chi gli si mette di fronte, ne trarrà lo stesso giovamento che ne ha tratto lui sin dalle prime letture.
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Dio è morto prende il titolo dalla copertina della rivista “time” dell'epoca. il testo rilancia la provocazione di nietzsche, la modifica in positivo, ma dalla prima frase si capisce quanto sia grande il messaggio della beat generation di allen ginsberg che guccini vuole ribaltare su di noi. in un solo colpo mette a confronto tesi e opinioni che ci coinvolgono nella discussione. si capisce dunque subito quale è la strada che guccini si appresta a percorrere. Perché cercare altre parole se qualcuno ha descritto o narrato il nostro pensiero in maniera così precisa? se non fosse che gli concediamo il credito dovuto a un artista, ci sarebbe da discutere a lungo. Ma guccini non sfrutta il lavoro altrui. attacca la frase, il concetto, come se fosse scritto su un post-it da attaccare al frigo. e lo fa apertamente, senza negare la paternità al legittimo scrittore. i suoi testi sono un richiamo, un invito alla cultura, alla lettura, all'approfondimento. come successe per de andré e Spoon River dovremmo essere stimolati a cercare le sue fonti per farle nostre. L'isola non trovata, la canzone dall'album che porta lo stesso titolo, è una poesia di gozzano. una poesia bella, che viene cambiata poco o niente. quasi avesse timore di
rovinarla, la mette su una musica semplice e ne esce una canzone indimenticabile.
Ben venga maggio e il gonfalone amico
nello stesso album La collina ci dice che ha letto salinger, e che sarebbe opportuno lo leggessimo anche noi. lo ribadisce anche nelle note al disco e nelle interviste a venire, tradendo la sua natura di insegnante, di istigatore al lavoro mentale.
il nuovo amore getti via l'antico
la lista dei contributi al lavoro di guccini e alla nostra stimolazione culturale è lunga. ci sono Jonathan swift e I Viaggi di Gulliver, flaubert e Madame Bovary, rostand e Cyrano de Bergerac, cervantes e Don Chisciotte della Mancia, shakespeare e Amleto, omero e il suo ulisse. sono tributi, riletture argute in certi casi, sempre con la voglia di leggere, di proporre, di rispettare il proprio ruolo. l'amore per certe figure, per certi autori che hanno contribuito alla sua crescita, lo ribadisce spesso nei concerti. quando presenta i brani, racconta di come è stato l'approccio, la lettura, il ricordo formativo. ci racconta di edgar lee Masters, Hemingway, t.s. eliot, baudelaire, eco, borges, Manzoni, leopardi, isaia il Profeta, Montale, dante, foscolo e chissà di quanti altri. c'è spazio anche per tanta cultura popolare, come nella scrittura de La canzone dei dodici mesi, nell'album Radici, dove ci sono riferimenti alla nostra italica poesia, ma anche a quella d'oltremanica.
ben venga primavera nell'ombra della sera
oltre al poema del Poliziano, ci sono altre canzoni popolari che cominciano così, anche nella musica popolare piemontese, ad esempio, ma guccini non pare darsene pena. se gli viene in mente qualcosa lo scrive. cultura popolare che non deve essere per forza scritta, bensì tramandata di voce in voce. il caso de La Locomotiva ne è un esempio. non ci sono solo scrittori nelle citazioni di guccini, anche scienziati, filosofi o simili. in Via Paolo Fabbri 43 ipotizza una critica alle sue canzoni dalla penna di roland barthes, critico e saggista, con borges che promette un incontro con il poeta al Khayyam, detto “il Persiano”, mentre cita cartesio in un passaggio e non solo per la rima con barthes. Van loon, olandese e grande divulgatore tuttologo, merita una canzone che viene dedicata al padre di guccini, appassionato dei suoi libri. una sorta di Piero angela, lo definì il cantautore nei concerti, riconoscendogli una capacità incredibile di spiegare e coinvolgere i suoi lettori. ci sarebbe da scrivere per giorni. se avete voglia leggete i testi, anche solo quelli. sono anche utili per mettere alla
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prova la nostra memoria. guccini merita dunque un posto non solo nell'ambito piĂš specifico della canzone, ma anche un posto nella nostra veranda di fronte a casa.
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seduti accanto a lui, ad ascoltare le sue parole, con musica o senza, ne potremmo solo trovar beneficio.â–
La letteratura non permette di camminare ma permette di respirare. Roland Barthes
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uVetrioli sparsi
Il mistero degli editori scomparsi di Emanuele Romeres, editor Marco Valerio Edizioni emanueleromeres@marcovalerio.com
ufficiale degli espositori sul sito www.salonelibro.it, mettersi a contare e vedere quale risultato viene fuori. l'elenco, visto che è ufficiale e consultabile in linea, ve lo risparmiamo, ma naturalmente lo abbiamo memorizzato a scanso di variazioni a posteriori. noi non siamo molto ferrati in aritmetica, lo confessiamo. comunque fino a mille sappiamo, magari a fatica, contare. in questo caso, a mille non siamo arrivati. ci siamo fermati esattamente a 973. tanti sono infatti gli espositori ufficialmente elencati dal salone del libro: ma non erano 1400? no, non erano. Peraltro, un visitatore pedante e petulante, mettendosi a contare, non avrebbe trovato 1400 stand. e neppure 973. intanto, perché tra gli espositori compaiono anche coloro che entrano a fare parte di uno stand collettivo. se dieci editori minuscoli si raggruppano in una delle tante altrettanto minuscole associazioni indipendenti di editori, lo stand, piccolo piccolo peraltro, è uno solo, ma gli espositori diventano dieci. il salone del libro di torino, edizione 2010, si è concluso. un tempo era una fiera, poi si è ristretto, e a dire il vero più che un salone sembra un ripostiglio. naturalmente, a sentire cosa ne dicono gli organizzatori, anche quest'anno il successo ha superato ogni rosea previsione, i visitatori sono stati centinaia di migliaia e gli espositori sempre un po' di più rispetto all'anno precedente. il comunicato ufficiale della vigilia non lasciava spazi a dubbi: «dal 13 al 17 maggio prossimo, sempre nell'area espositiva del lingotto, spazio ai libri con oltre 1400 espositori. settantacinque i nuovi espositori al debutto: 20 con proprio stand, 43 nell’incubatore e 12 allo spazio invasioni Mediatiche. il salone 2010 vede il ritorno di Mursia dopo cinque anni, di archetipo libri, editoriale olimpia ed edizioni el. sono presenti case editrici e istituzioni di Perù, india, brasile, slovacchia, romania e albania». oltre 1400 significa più di 1300 e meno di 1500, almeno secondo la mia maestra delle scuole elementari. Per verificare, in fondo, basta andare a consultare l'elenco
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il visitatore pedante e petulante, diranno all'ufficio stampa del salone, sta sottilizzando troppo. in fondo, con un libro esposto o diecimila, editori sono ed espositori restano. sicuri? Proprio sicuri? oltre alle addizioni, sappiamo anche fare le sottrazioni. la prima, necessaria, riguarda i "doppi espositori". niente di grave, beninteso: puri errori veniali o, talvolta, diversificazioni contabili. se il sole 24 ore espone in due stand diversi vale due espositori. giusto? giusto, però per il visitatore becero è pur sempre un editore solo. di doppie ragioni sociali ne abbiamo contate e verificate sedici. ora, però, viene la nota dolente. Parliamo di espositori o di editori? gli editori sono quelli che pubblicano libri ed espongono libri. gli altri sono, nell'ordine di importanza: Ministeri, regioni, guardia di finanza, Polizia, aziende di promozione turistica, Pro loco, venditori di penne, magliette, tipografi, associazioni di categoria, sindacati, venditori di hamburger. tutte attività degnissime, ma che con la produzione di libri hanno poco a che fare. e dire che il biglietto di ingresso riporta la scritta "salone del libro", mica "sagra del panino" o "festa delle forze armate". in totale, su 957 espositori restanti, sono la
bellezza di 235. con fatica e con l'aiuto di un pallottoliere, restano, mumble mumble, 722 editori: niente male, in fin dei conti. Poco più della metà di quelli strombazzati dai comunicati stampa del salone del libro, ma pur sempre una bella cifra. Magari, ad averlo saputo prima, avremmo potuto chiedere lo sconto all'ingresso: «scusi, se per vedere gli stand di 1400 editori devo pagare 8 euro, non è che visto che i presenti sono la metà, mi fate lo sconto a 4 euro?». di che lamentarsi? Mursia è tornato ad esporre dopo cinque anni di assenza, finalmente posso trovare gli introvabili titoli di quel tale Mondadori che solo raramente viene distribuito regolarmente nelle grandi catene librarie e che mai potrei sperare di vedere esposto in un autogrill. avrò la soddisfazione, dopo tutto, di spulciare fra i marchi
più prestigiosi della vera editoria di cultura, i nomi storici della produzione letteraria nazionale. come rinunciare alla possibilità di visionare e toccare dal vivo il catalogo del gruppo albatros... di Kimerik... gruppo albatros? Kimerik? il dubbio mi assale. ripercorro i corridoi del lingotto. ormai i piedi fanno male e la voglia di catalogare il numero degli editori a pagamento, alias editori per autori a proprie spese, alias pagami che ti pubblico, scema insieme alla noia profonda e a un certo senso di nausea. Mi limito a contarne undici in un solo padiglione. in fondo, perché mi lamento? Ho avuto la possibilità di guardare la produzione di ben 711 editori. con otto euro, in una qualsiasi libreria, forse avrei potuto vederne esposti duecento. in compenso, avrei in tasca i soldi per acquistare un libro in più.■
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uSocretinate
Un incontro Dem
georg Wilhelm friedrich Hegel
di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it Morgan: καλημέρα demetrio! Demetrio: καλημέρα Morgan!
M: Pochi giorni fa ho chiacchierato con un giovane nigeriano, mi ha spiegato quanto la vita non gli sorrida affatto e quanto la gente lo consideri un pezzente, lui, venditore abusivo porta a porta. Ha aggiunto poi di essere laureato in filosofia, di amare Hegel, ma che l’equipollenza degli esami è una faccenda burocraticamente complicata. «Perché le cose sono il più delle volte così difficili?», mi ha detto. È la paura del diverso, forse, oppure siamo tutti più o meno confusi dagli stereotipi, ti confesso che mai avrei pensato di parlare con lui di Hegel dopo averlo visto. non ti è mai capitato qualcosa di simile?
D: faccio un passo indietro. dopo aver lavorato per sette anni come ufficio stampa, ora mi occupo di immigrazione. lavoro in un ufficio che s’occupa, o almeno cerca, di fare in modo che le varie pratiche (dal permesso di soggiorno, alla carta di soggiorno, ai ricongiungimenti familiari al lavoro vero e proprio) dei lavoratori extracomunitari siano un po’ meno complicati. questo mi permette di avere un punto di vista, un cantuccio manzoniano per dire, molto differente dal tuo. Per me è la norma avere a che fare con persone straniere, parlare con loro dei loro studi, rendermi
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con metrio Paolin conto che ad esempio l’equipollenza degli esami non è complicata, ma dipende dai diversi sistemi di studio (ma qui diventa lunga). tu dici paura del diverso e poi parli di stereotipo. io credo che anche “la paura del diverso” sia uno stereotipo e come tale, come tutti i luoghi comuni, abbia un po’ di verità. il problema è l’entrare in relazione con loro, e capire che l’atteggiamento da usare nei loro confronti non è quello pietistico, ma realista e in un certo senso cinico. un mio amico prete diceva: credete mica che i poveri siano buoni e bellini, la maggior parte dei poveri sono fastidiosi e rompicoglioni. il vero problema quindi è l’altro. e come dice sartre l’inferno sono gli altri o no?
M: non vorrei creare equivoci, lungi da me il pietismo fine a se stesso, e non intendo con pietismo la riforma in seno al protestantesimo, bensì il sentimento pietoso, tanto affascinante nelle parole, quanto poco concreto. i miei contatti con l’immigrazione sono stati duplici, e diversi. da un lato, alcune esperienze di volontariato che mi hanno messo a contatto diretto con la povertà, i timori e la fame di chi giunge nel nostro paese con tante speranze; dall’altro lato, la vita di mio padre che è iniziata in sardegna e proseguita nel nord italia, in anni in cui il “terrone” non doveva entrare in alcuni bar a Milano o a torino. forme differenti che tuttavia ricevono una diffidenza assai simile. non so se la
paura del diverso sia uno stereotipo uguale agli altri – bisognerebbe intendersi sulle densità in ogni stereotipo, il che mi pare complesso anche per la sociologia o la statistica –, certo è che, visto lo spostamento del nostro paese verso idee politiche più conservatrici, sembrerebbe che la paura verso chi non ci è simile sia più diffusa. guardarsi attorno e sentirsi stranieri, direbbe camus. Perché poi nella concretezza i casi umani commuovono o scuotono perlomeno presi nella loro singolarità, ma intanto chi legifera condiziona milioni di casi umani. tu citi sartre, quale ruolo possono avere la letteratura o la filosofia di fronte alle vicissitudini individuali degli immigrati?
D: la risposta sarebbe breve. nessuna. non è compito dei letterati e dei filosofi fare le leggi, con buona pace di Platone. e potremmo finirla qui, ma io non penso né ho mai pensato che la letteratura sia un semplice gesto estetico, ma che abbia a che fare anche con l’etica. la definizione migliore potrebbe essere, per la letteratura (cosa in cui sono un po’ meno ignorante rispetto alla filosofia) è qualcosa che ha a che fare con il bello e con il vero, che mi pare una definizione manzoniana, ma vado a memoria. quindi tocca ai politici legiferare, io non ho tali competenze, e allo scrittore tocca raccontare ciò che è qui, ciò che accade sapendo che la sua possibilità di modificazione del reale è minima. scrivere è una sorta di
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disturbo continuo, questo può essere. È costringere gli altri a guardarsi e a uscire dalle generalizzazioni per poi, gioco forza, rientrarci. ti faccio un esempio, nei mesi in cui si parlò del testamento biologico, molti tantissimi intervenivano in maniera generale e sui principi generali dello stesso. quando, Mozzi, chiese su Vibrisse: scusatemi invece di parlare in generale, facciamo una cosa semplice semplice: scriviamo il nostro, personale, testamento biologico. ecco la risposta fu meno ampia. la letteratura ha questa potenza, di metterti in scacco, di mostrare le tue debolezze e anche la tua vacuità. o tu credi diversamente?
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M: credo che chi legifera sia frutto dello spirito dei tempi ed esso si nutre di componenti difformi, fra le quali anche la letteratura e la filosofia. Per tale ragione ritengo che la modificazione del reale da parte dello scrittore sia di fondamentale importanza, e in ciò vedo una responsabilità imprescindibile. nella mia piccola esperienza di testa che tenta di comprendere il reale, devo riconoscere che certe personalità hanno mutato l’intera mia struttura di pensiero. se oggi rifletto e fisso il mondo in un certo modo è perché ho incontrato filosofi come rawls, Kelsen, singer, dewey o aron, stesso dicasi nella letteratura per tolstòj, rilke, d’annunzio, Musil o Keats. solo per fare alcuni esempi. se ripenso al mio sismografo interiore che possedevo soltanto tre anni fa e lo confronto, dopo particolari letture, a quello attuale, non posso che osservarlo più preciso, dotato di una tecnologia migliore. sì, le arti, non solo la letteratura, hanno la potenza di metterti in scacco. le arti alimentano i mutamenti culturali, i quali sono profondamente legati ai mutamenti istituzionali. nella mia discutibile opinione sono convinto che il nostro paese si presenti per come lo viviamo per una ragione precisa: l’indebolimento del valore della cultura, una cultura disposta ad arricchirsi del non conosciuto e del diverso. cercare nella propria esistenza sempre la similarità credo sia non soltanto comodo, ma altresì poco intelligente per la convivenza civile fra gli esseri umani. forse mancano i modelli all'altezza da emulare?
D: intanto correggere un tuo verbo: emulare. ecco la parola emulare non mi piace. io cercherei come parola qualcosa che non sia un verbo, che quindi indichi una azione, ma una parola diversa, in parte abusata e fraintesa, che è tradizione. noi abbiamo una profonda e duratura tradizione
culturale che mi pare sia costantemente messa da parte. e credo che in questo sia da ricercare il progressivo indebolimento della cultura. ti faccio un esempio concreto, a fine aprile sono andato in una scuola media di noventa, ho tenuto una lezione su Primo levi. questa lezione non era stata messa lì a caso, la professoressa aveva parlato del periodo storico, aveva discusso con loro di levi e infine sono Ken saro-Wiwa arrivato io. Ho detto alcune cose, ho parlato di levi e della sua opera. loro hanno ascoltato e nei giorni successivi, mi ha detto la prof., molti di loro avevano i libri che mi piacciono non guardando le classifiche o cose comperato e stavano leggendo Se questo è un uomo. la di questo genere, ma continuando il mio rapporto, il mio professoressa poteva fare in altro modo per spiegare la apprendistato, con la tradizione di cui mi sento figlio (penso deportazione: fargli vedere la vita è bella, o il ragazzo con Pavese e levi, ma anche alla frequentazione delle il pigiama a righe. Ha scelto paradossalmente un autore scritture). credo che tenere la barra del timone ferma “canonico”, meno scintillante che se presentato e preparato anche nei momenti in cui tutto sembra andare a scatafascio bene può avere presa. È che la tradizione, la sua sia una azione importante. eppoi non sta andando tutto trasmissione e la sua conservazione, esige fatica, così male. io in questo anno, in cui sono stato in giro con Il dedizione e impegno. una triade che mi pare sia poco mio nome è Legione, ho trovato tanta gente, non miriadi, frequentata dai giovani autori odierni o no? ma un buon numero di gente che lavora e si impegna nella cultura, che fa, che pensa e inventa. credo che invece di urlare sempre “contro” bisognerebbe sforzarsi di mettere M: impossibile confutare quanto sostieni: tradizione, in luce questi “gesti seme” (il piccolo festival di letteratura, trasmissione e conservazione. Penso alle esperienze la libreria che fa presentazioni, la rivista culturale ecc…), “istituzionali”, come la scuola, che hai citato, tuttavia non perché secondo me è centrale non guardare solo la posso che palesare la mia disaffezione verso gli indifferenti, zizzania, ma anche il granello di senape. altrimenti finiamo i quali conquistano sempre più quote preoccupanti. gli per essere dei rancorosi laudator temporibus actis, cosa indifferenti per egoismo, per superficialità, per non che francamente non mi va. compromettersi, per tanti motivi. si bada al proprio orticello e chi se ne frega. Ho sempre creduto che il nostro corpo risponda in maniera direttamente proporzionale a come lo M: δε φτάνει (ci vuole altro…) trattiamo (cibo, sport, ecc), così ritengo che la mente reagisca al medesimo modo. se il nostro tempo libero è e: άσε την πόρτα ανοιχτή (lascia la porta aperta!)■ costituito perlopiù di distrazioni (televisione spazzatura, libri idioti, frequentazione di gente poco stimolante, esperienze lontane dalla complessità), che cosa ci possiamo aspettare se non un cervello vuoto o semivuoto? Parli di fatica, dedizione e impegno, basti osservare le classifiche di libri Demetrio Paolin vive a più venduti in italia ogni settimana, non c’è altro da torino, dove lavora. Ha aggiungere, credo. dobbiamo rassegnarci a ritenere la scritto alcuni libri, l'ultimo massa sempre più vicina all’intrattenimento, inclusa la s'intitola "il mio nome è cultura? legione" - transeuropa edizioni. D: la risposta è già in questo scambio e in quello che ad esempio tu fai. quindi non dobbiamo rassegnarci. io continuo a leggere, a studiare, a confrontarmi e a scrivere
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La letteratura deve essere al servizio della società immergendosi nella realtà, intervenendo, e gli scrittori non possono semplicemente scrivere per intrattenere o per speculare sulla società. Devono avere un ruolo attivo.
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La parola è potere, ed è ancora più potente quando diventa d'uso comune. È questo il motivo per cui uno scrittore che prende parte, veicola il suo messaggio con più efficacia di quello che invece scrive aspettando il tempo in cui si realizzino le sue fantasie. Ken Saro-Wiwa
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uPoesia e racconto del mese
a cura della Redazione- sulromanzo@libero.it È con dispiacere che in questo numero non pubblichiamo né una poesia né un racconto. la ragione? semplice, nessuno fra la ventina di contributi proposti ha incontrato il nostro apprezzamento. la tentazione di presentarvi in ogni caso del materiale è stata forte, ma, come spiegato nell’editoriale da Morgan Palmas, sul romanzo alza il tiro, non può deludere se stesso e, di conseguenza, voi lettori. Per tali motivi replichiamo quanto proposto nell’ultimo numero della webzine, con la speranza che i lavori inviati siano ammirevoli. sceglieremo sempre una poesia e un racconto fra quelli giunti a yousulromanzo@libero.it.
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nel prossimo numero ci dedicheremo a una tematica attualissima: il rapporto fra nord e sud in italia. i racconti saranno di una lunghezza massima di 16.000 caratteri (spazi inclusi). le Poesie saranno in forma libera. inviate i vostri lavori a yousulromanzo@libero.it , in oggetto: racconto o Poesia. scadenza mercoledì 30 giugno. allegate una breve scheda biografica che non dovrà essere superiore a 800 caratteri (spazi inclusi).■
Gloria e merito di alcuni è scrivere bene; e di altri non scrivere affatto. Jean De La Bruyère
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