Sul Romanzo - Anno I n. 4 - Sett-Ott-Nov 2010

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uSommario

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L’editoriale

di Morgan Palmas

Cinematura

La figura storica di Gesù di Claudia Verardi

French connection

Forse non tutti sanno che… di Angelica Gherardi

Pensiero antico e identità europea Eros nella sensibilità dei poeti antichi di Adriana Pedicini

Meridione d’inchiostro

Vito Bruno e la compulsione alla scrittura di Giovanni Turi

Ostruiti esordi

Intervista a Fabio Geda di Silvia Mango e Michela Polito

Mamma, mi leggi?

L’altro mondo di Ridley di Stefano Verziaggi

Vetrioli sparsi

I pizzini redazionali di Emanuele Romeres

Vita standard di uno scribacchino provvisorio Easy, weasy, let’s get busy di Giovanni Ragonesi

Gentili riscontri

La busta volante di Alberto Stigliano

Cantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano. Il senso del nonsense (2^ parte) di Annalisa Castronovo

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I libri che ti cambiano la vita Undici minuti di Paulo Coelho di Marta Traverso

Esordire

La doppia seduzione di Francesco Orlando di Sara Gamberini

Il mestiere dell’editore

L’ascesa di Minimum Fax di Deborah Pirrera

I (rin)tracciati

Andre Dubus e le autopsie del cuore di Alessandro Puglisi

Ciò detto

La facile distanza di Pierfrancesco Matarazzo

La metà oscura del mondo

Esplosione creativa e attrazione per l’oscuro di Maria Antonietta Pinna

Gerbido raccolto

Il tempo e lo spazio delle parole di Alessia Colognesi

Racconti dal retrobottega Raccontami una storia di Geraldine Meyer

Prospettiva fantasy

Fantasy italiana. Un incontro con Licia Troisi di Marcello Marinisi

Socretinate

Un incontro con Enrico Macioci di Morgan Palmas


uL’editoriale di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it stiamo dirigendo la nostra webzine verso i mari del sud, seguendo la latitudine, calcolando come i navigatori d’un tempo l’angolo formato dal sole sull’orizzonte a mezzogiorno. il sole è rappresentato dalla nostra passione. ci manca uno spostamento di longitudine, con una visione più ampia delle distese d’acqua creative; nel 1760 si inventò il cronometro da marina che permise di misurare con grande precisione le distanze est-ovest. Vi sono aspetti che considerati da un punto di vista diverso assurgono a dignità di arte, come l’organizzazione di una rivista letteraria online. È spesso ripetuta un’affermazione disarmante per chi abbia consuetudine con idee, sogni, progetti, cioè che nel paese non cambierà mai nulla, che il territorio italico ospiterà ancora per lungo tempo passività e corruzione. Poniamo che sia così; poniamo tuttavia che vi possa essere una sola possibilità che qualcosa cambi: che cosa bisognerebbe fare oggi? con quale impegno ognuno di noi si dovrebbe cimentare per separarsi dalla requie intellettuale incamminandosi verso le idee, i sogni e i progetti? nonostante le vicissitudini a volte demoralizzino gli animi, noi desideriamo continuare a comunicarvi le nostre riflessioni sulla letteratura e sull’editoria, investigando i vostri dubbi, perché qualsiasi conseguenza – magari ora imprevista – potrebbe avere importanza, perché la sensazione che abbiamo è, come si può leggere ne Il

segno dei quattro di conan doyle, che non si possa vivere se non facciamo lavorare il cervello. e, del resto, per cos’altro vale la pena vivere? domande e dubbi, poche risposte, il più delle volte ingannevoli o temporanee. alcune novità in questo numero, per esempio una rubrica sulla letteratura dedicata ai bambini e ai giovanissimi. oppure la decisione collegiale di trasferire lo spazio dedicato ai vostri racconti e alle vostre poesie nel blog, per godere di maggiore strutturazione e dinamicità, ora che s’è formato con nuovo slancio un gruppo ristretto di critici all’interno della redazione. al contempo si sta portando in atto una severa pacciamatura, per impedire la crescita di erbacce ed evitare l’eccessiva insolazione: il grado giusto di umidità all’interno di un gruppo di persone non è mai faccenda semplice, il tempo e la fiducia sono le uniche armi a disposizione nei rapporti umani. buona lettura e se avete qualche idea da proporci saremo ben lieti di leggervi nella nostra mail sulromanzo@libero.it ■

Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura letteraria Anno I • n. 4 • settembre-ottobre-novembre 2010 Progetto editoriale: Morgan Palmas

citazioni: Wikiquote

art directors: Marcello Marinisi e annalisa castronovo

note legali: “sul romanzo - rivista elettronica di informazione e cultura letteraria” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e gli aggiornamenti dei contenuti avvengono senza nessuna periodicità. non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62 del 2001. gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli.

iMPaginazione: Marcello Marinisi (comunicazione@marcellomarinisi.com) Hanno collaborato a questo nuMero: annalisa castronovo • alessia colognesi • sara gamberini • angelica gherardi • silvia Mango • Marcello Marinisi • Pierfrancesco Matarazzo • geraldine Meyer • Morgan Palmas • adriana Pedicini • Maria antonietta Pinna • deborah Pirrera • Michela Polito • alessandro Puglisi • giovanni ragonesi • emanuele romeres • alberto stigliano • Marta traverso • giovanni turi • claudia Verardi • stefano Verziaggi.

tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza creative commons attribuzione-non commercialecondividi allo stesso modo 2.5 italia. Per maggiori informazioni: http://creativecommons.org/licenses/by-ncsa/2.5/it/

si ringraziano: Vito bruno • Fabio geda • danilo giovanelli • enrico Macioci • licia troisi. Per inForMazioni: sulromanzo@libero.it Web: http://sulromanzo.blogspot.com Foto e iMMagini: Flickr • liciatroisi.it • Wikimedia commons.

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uLa vignetta di Danilo Giovanelli

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uCinematura

La figura storica di Gesù di Claudia Verardi • claudiaverardi@alice.it il recente libro di Philip Pullman, Il buon Gesù e il cattivo Cristo, mai come di questi tempi in cui le fedi religiose sono – forse quasi definitivamente – allo sbando, offre lo spunto per riaprire la questione sulla religiosità e tentare di approfondire una figura storica e religiosa tra le più complesse mai esistite: quella di gesù. la figura del cristo, da sempre, viene indagata nella letteratura e nel cinema, così come nelle arti figurative e nella musica sacra. il libro di Pullman è geniale e molto acuto, anche se in qualche tratto un po’ rivoluzionario e addirittura provocatorio. in effetti, è difficile parlare di gesù senza cadere almeno un po’ nella tentazione – è il caso di dirlo – di andare “oltre”, di superare gli argini del conosciuto e di esplorare orizzonti mai tentati, magari per la paura di essere giudicati o mal capiti. l’autore de La Bussola d’Oro racconta la storia del personaggio più ardimentoso degli ultimi duemila anni. la storia di gesù è una storia scolpita nella memoria collettiva del genere umano, anche di chi non è credente. il personaggio gesù ha sempre colpito per la sua forza interiore, per il suo essere un placido comunicatore, anche se faceva miracoli da far girare la testa per quanto inspiegabili. Ma i miracoli talvolta possono accadere sul serio, ed è questo uno dei messaggi di base del pensiero di un uomo così speciale e forte fino alla fine. nonostante il passare dei secoli, il racconto della vita e delle vicende di gesù continua ad appassionare, a meravigliare, a coinvolgere. Magari è per via del mistero, quello che i cattolici definiscono dogma o Fede incrollabile in qualcosa che c’è ma non si può vedere, né toccare. il Vangelo è di certo la storia più universalmente conosciuta, ma anche quella più dibattuta e controversa, proprio come la figura di gesù. Philip Pullman non è nuovo alle dissertazioni religiose. anni fa ha pubblicato l’ottima trilogia Queste oscure materie, passando dall’indagine critica al giudizio sulla teocrazia moderna con grande entusiasmo, ma anche grande preparazione. Il buon Gesù e il cattivo Cristo non è un libro difficile, anzi. l’autore usa un linguaggio immediato, che ricorda un po’ quello evangelico, genuino e semplice perché possa essere fruibile da tutti. nel libro, Pullman ripercorre e, in qualche modo, rivisita la figura di gesù cristo, confezionando una storia nuova con una forma letteraria che sta a metà tra romanzo e analisi, in una commistione di generi utile all’approfondimento oltre che all’immaginazione. un’opera che dà spazio a nuove letture della figura storica e del personaggio inteso come uomo.

naturalmente (come accadde, per esempio, a Martin scorsese per il film L’ultima tentazione di Cristo) lo scrittore è stato bersaglio di attacchi personali e dibattiti molto fervidi (cosa, quest’ultima, non necessariamente negativa). È pur vero che il libro è proprio molto forte. nel capitolo (monologo) Gesù nell’orto del Getsemani, per fare un esempio, è gesù stesso a criticare l’operato, futuro ma non solo, della chiesa. come dice la quarta di copertina, questa è una storia ed è chiaramente una storia che fa riflettere, oltre a instillare qualche dubbio sui reali accadimenti che riguardano la vita di gesù e il cristianesimo tutto. i riferimenti, come al solito succede quando si affronta una figura di questa portata, sono tanti. già ne L’Anticristo di nietzsche si dice che, in fondo, la parola “cristianesimo” è un equivoco perché è esistito un solo cristiano che è poi morto sulla croce. anche lev tolstoj, nel 1894, nel libro Il regno di Dio è in voi denunciava l’anticristianità delle chiese, con particolare riferimento alla chiesa cattolica, e per questo venne scomunicato dalla chiesa ortodossa russa. Dio è morto ma considerando il penoso stato di afflizione in cui giace la nostra specie, forse ancora per mille anni qualcuno mostrerà l’ombra di questo nulla in una caverna oscura, diceva ancora nietzsche. Un libro

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Philip Pullman

magnifico, ha commentato the church of england newspaper. Cinquecento anni fa Pullman sarebbe finito sul rogo come eretico. Oggi le sue idee infiammano il dibattito. Philip Pullman è nato nel 1946 a norwich. Ha vissuto in australia e nello zimbabwe e ha studiato in africa e in galles. si è laureato in letteratura inglese a oxford, dove vive attualmente. Per molti anni ha lavorato come insegnante. Il buon Gesù e il cattivo Cristo è una rivisitazione della vita di cristo, proposta come stimolo per nuove interpretazioni. quando gli si è chiesto perché ha deciso di scrivere di gesù e a cosa si è ispirato, Philip Pullman ha risposto che voleva drammatizzare le differenze tra l’uomo gesù, la figura storica e cristo come figura inventata dalla chiesa. leggendo Il buon Gesù e il cattivo Cristo ci si rende conto che il cristo della storia è pieno di dubbi e vive col senso di colpa, e si chiede se stia facendo la cosa giusta o no. il libro è una rilettura del Vangelo fedelissima ma infedele nello stesso tempo, con interpretazioni realiste e personaggi fantasiosi pur se credibilissimi. Maria rimane incinta di quello che crede sia un angelo, dà alla luce due gemelli, uno sano e forte, l’altro

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debole e calcolatore. Forse il buon gesù, da vero idealista carismatico e un po’ incoerente, la pensava come lyra, mentre l'infelice cattivo cristo aveva in mente una qualche organizzazione, qualcosa che rimanesse nei secoli e che tramandasse la storia di gesù attraverso uno statuto fondato su regole e leggi. Ma la visione di cristo non era chiara e i suoi progetti erano sorretti da uno straniero senza nome, che al contrario non aveva alcun dubbio. la narrazione prosegue con il ridimensionamento di molti dei miracoli operati da gesù e con il commovente monologo nell'orto del getsemani. Pensando al cristo Velato (opera di giuseppe sanmartino del 1753) situato nella cappella sansevero nel centro storico di napoli ci spostiamo verso il cinema, facendoci quest’opera sensazionale avvicinare alle immagini e alle rappresentazioni più concrete e tangibili. ne L’ultima tentazione di Cristo è proprio il gesù (interpretato da Willem dafoe) uomo a essere oggetto di riflessione, secondo un registro onestamente provocatorio. nel film, gesù è un falegname ebreo che fabbrica croci su commissione dei romani e, perciò, non gode di buona reputazione presso la sua gente. in preda a sogni angosciosi deve affrontare una voce oscura che gli fa perfino dubitare di essere il figlio di dio. un gesù visionario, quindi, oltre che un gesù “umanizzato” che cade in tentazione, che non resiste al richiamo della donna, che indigna i cattolici (e non solo) per le sue debolezze di stampo molto poco “superiore”. Questo film non è basato sui Vangeli. È solo una riflessione fantastica sugli eterni conflitti dello spirito. queste le parole che scorrono sullo schermo all’inizio del film. un invito a prepararsi a una raffigurazione non canonica, anche se rispettosa, in fondo, di gesù. ne L’ultima tentazione di Cristo gesù si interroga sulla sua natura di uomo, sulla natura e sulla qualità della sua forza interiore, e ha gli stessi dubbi di tutti gli altri uomini: riuscirà a essere all’altezza del compito che gli viene affidato? gesù non sa cosa fare, né come fare. È chiaro che film e libri di questo tipo producono reazioni aspre, soprattutto per la non dogmaticità delle operazioni che, ovviamente, scatenano le critiche preventive del mondo cattolico, che vuol salvaguardare fatti e prerogative di una dottrina da sempre indiscutibile. nelle storie (cinema o letteratura che sia) su gesù il momento preponderante è l’analisi psicologica di un uomo alle prese con qualcosa di molto più grande di lui. in molti casi troviamo un cristo laico, diversissimo dall’iconografia classica, che offre spunto per un’indagine operata da angolazioni completamente differenti e nuove. il cinema e la letteratura riflettono da sempre sulla struttura emblematica di cristo, che è stato rappresentato nei modi più diversi, a volte privilegiando la natura divina, altre privilegiando le caratteristiche più “umane”. È difficile parlare, mettere in scena o, comunque, rappresentare una delle figure storiche in assoluto più difficili e complesse, proprio per l’alta concezione del personaggio. È molto probabile che ci si scontri con una serie di problemi relativi alla religiosità e all’integralismo di molti. bisogna, in questo caso, sapersi misurare con la società e con una specifica collettività,


accettando tutti i rischi che ne possono scaturire. altra opera molto importante su gesù è Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, uno dei più importanti registi italiani di sempre, poeta prima di ogni altra cosa. il regista, per sua stessa ammissione, lesse il Vangelo per la prima volta nel 1942, e la seconda ad assisi nel 1962. Fu in quell'occasione che ebbe l'idea di fare un film sul Vangelo. non è casuale la scelta di san Matteo: Pasolini ritenne, infatti, la versione di Matteo quella che più di ogni altra metteva in luce l'umanità di cristo come fenomeno straordinario di uomo tra gli uomini. diverso è il gesù un po’ più pop, quasi psichedelico interpretato da ted neely in Jesus Christ Superstar di norman Jewison (con un soggetto di tim rice), musical storico, colorato e allucinato degli anni settanta, e anche quello sofferente di Mel gibson ne La Passione di Cristo (interpretato da Jim caviezel), dove ripercorriamo gli ultimi momenti della sua vita, quelli più atroci e umilianti, dalla flagellazione agli sputi in faccia da parte dei soldati romani. qui gesù è un uomo stoico, deciso – e addirittura contento – di sopportare le cose più atroci pur di poter salvare l’umanità. un eroe vero, totale. Ma gesù è sempre un eroe, come davvero eroica era la sua missione. la sua potenza interiore non è mai fine a se stessa, ma coinvolge sempre chi gli sta vicino, come succede nel bellissimo film di Pasquale Festa campanile Il ladrone, recentemente editato in dvd, con enrico Montesano. qui, anche se indirettamente, gesù coinvolge un ladruncolo, dapprima soddisfatto della sua vita (anche se mai cattivo) nella fascinazione del suo saper, e poter, fare, non solo per se stesso, ma anche per gli altri. e il ladruncolo lo seguirà in tutto fino alla fine, fino all’estremo supplizio della croce, felice di poterlo fare.

intenso anche il gesù tratteggiato da Franco zeffirelli nel Gesù di Nazareth del 1977 interpretato da robert Powell, forse uno dei gesù fisicamente e iconograficamente più somiglianti a quello che tutti noi immaginiamo. la figura di gesù è stata esplorata davvero tanto in letteratura, in moltissimi libri: saggi, indagini, ma anche romanzi. dai racconti sulla sua presunta vita segreta alle ricostruzioni storiche più fedeli, dai libri per bambini e le riduzioni della bibbia per ragazzi, fino al recente lavoro di corrado augias insieme a Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo. nel libro si cerca di guardare oltre le tante leggende (alcune hanno davvero quasi il sapore di una favola) per tentare di capire chi fosse davvero gesù prima che il manto teologico lo avvolgesse completamente, nascondendo gli altri – tanti – aspetti della sua personalità. si è voluto guardare, in questo caso, alla figura storica, insomma: comprendere meglio il periodo in cui visse cristo, le sue parole, la sua vita, la morte e i tanti libri, anche antichi, che ne parlano. e, ancora, perché è stato fondato un credo religioso in suo nome, visto che lui non aveva manifestato l’intenzione di volerlo fondare. gesù era avanti (come si dice oggi con un slang un po’ da ragazzi) su tante cose. nell’impegno nel riscatto degli emarginati, dei diversi, dei non omologati, per fare un solo esempio. era un uomo complicato e solitario, ma sempre fedele ai suoi principi e alla sua ideologia, fino al momento del trapasso. coraggioso, pieno di luce interiore, capace di guardare oltre, ponendosi dubbi e soffermandosi sulle innumerevoli incertezze. si sospetta che, potendolo reinventare continuamente, il suo mito, religioso o laico che sia, non passerà mai di moda. È decisamente molto, troppo, moderno.■

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uFrench connection

Forse non tutti sanno che…

di Angelica Gherardi • angelica.gherardi@libero.it se si chiedesse a qualcuno per strada cosa producono o in cosa sono bravi i belgi, a parte nelle patate fritte, molti risponderebbero birra e formaggi d’abbazia, alcuni penserebbero al taglio dei diamanti ad anversa, qualche malizioso alluderebbe all’eurocrazia, i più colti o melomani forse speculerebbero su una produzione di sassofoni visto che ad inventarli fu un belga (sì sì, giuro, lo inventò adolf sax, un belga per l’appunto). Ma probabilmente nessuno risponderebbe: i fumetti. eppure molti, moltissimi fumetti francofoni sono belgi, così come sono belgi molti dei fumetti che nessuno avrebbe immaginato fossero neanche francofoni. Ma il villaggio a funghetto degli Schtroumpf, pardon, dei Puffi, si trova proprio nella campagna wallona. gli schtroumpf sono in realtà quello che verrebbe definito oggi uno schtroumpf-off, cioè, volevo schtroumpfare uno spin-off di un’altra serie di personaggi belgi, Johan et Pirluit, del disegnatore Peyo. e se pensate che sia da deficienti schtroumpfare come schtroumpfano gli schtroumpf perché secondo voi sono personaggi per bambini, sappiate che persino umberto eco si è interessato al loro linguaggio in uno studio su significato e significante. Ma senza soffermarci oltre sui nani blu, che dire di lucky luke, il cowboy che spara più rapidamente della propria ombra? il suo nome va pronunciato rigorosamente alla

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francese, con le u strette come in milanese, e non, come fanno i più, all’inglese (come vorrebbe in realtà il senso stesso del nome), perché lucky luke è un belga francofono, e, come tutti sanno, i francesi l’inglese lo parlano come una mucca spagnola. lucky è nato nel 1946 dalla matita di Morris, ma si è sviluppato soprattutto dal ’55 con l’arrivo di goscinny (quello di asterix) per la scrittura dei copioni. e se in italia per parlare di una banda di ladri si usa spesso parlare di banda bassotti, i francofoni usano invece l’immagine linguistica di daltons, tratta dal fumetto e non dai fratelli americani realmente esistiti cui Morris si ispirò. il personaggio più amato e venerato della francofonia è però sicuramente tintin, il giornalista giramondo nato dall’estro di Hergé (dalle iniziali invertite del suo nome, georges remi). tintin vive a Moulinsart, i suoi amici sono il capitano Haddock, un vecchio marinaio bretone (e haddock in inglese significa eglefino, un pesce molto mangiato in gran bretagna, anche a colazione) e il Professor tournesol, e ha spesso a che fare con i due ispettori di polizia dupond e dupont (come dire rossi e russo). questi nomi o le origini del capitano potrebbero indurre a pensare che tintin sia francese, ma è anche lui belga. quasi tutti i fumetti belgi dopo gli inizi (spesso negli


anni ’40) hanno mascherato le loro origini etniche (pur mantenendo qualche riferimento), per poter essere assimilati meglio dal mercato, più vasto, della Francia e di tutti gli altri paesi francofoni. e si può dire che sia proprio in belgio che nasce la nuova scuola di pensiero fumettistico europea, da contrapporre a quella americana. nel secondo dopoguerra infatti arrivarono da noi i fumetti con i supereroi della Marvel, ma che poco avevano a che fare con lo spirito e la cultura europei. erano peraltro, secondo Jean dupuis, tipografo e editore di Marcinelle, troppo violenti per i bambini belgi. cercò dei disegnatori che creassero dei personaggi più adatti al pubblico belga e nacque così spirou, nome che deriva dalla parola belga per scoiattolo e per estensione ragazzetto vivace, giovane groom in tenuta rossa e bottoni dorati da facchino d’albergo, che non solo vivrà migliaia di avventure sotto varie matite, ma darà prestissimo, nel 1938, il suo nome anche ad un settimanale per giovanissimi, il Journal de spirou, paragonabile al corriere dei Piccoli e al corriere dei ragazzi, letto in tutta la francofonia e tutt’ora pubblicato. le Journal de spirou ha fatto conoscere e ha dato fama ad una miriade di personaggi, oltre ad alcuni di quelli già citati, che si sono poi spostati negli album, come Gaston Lagaffe, Tif et Tondu, Les Femmes en Blanc, XII, Les Tuniques bleues, Cédric, L’Agent 212, Boule et Bill… impossibile citarli tutti. oltre a dupuis, sviluppatosi nel tempo come uno degli editori più grandi per la gioventù in generale e in particolare di fumetti, anche castermann, all’origine tipografia e casa editrice di stampo cattolico di tournai, si sviluppò nel dopoguerra con i fumetti, lanciando tintin,

rimarrà che legato per sempre alla casa editrice, e il suo Journal de Tintin. castermann farà ai conoscere francofoni corto Maltese, ma anche nuovi personaggi e i loro autori belgi, fino al grandissimo Le Chat di Philippe geluck dei giorni nostri. le storie dei fumetti belgi si sviluppano sia in interi tomi (come tintin o lucky luke), sia in un’unica pagina o tavola (gaston lagaffe per esempio), sia, più recentemente, in un’unica striscia o addirittura vignetta (le chat). nel corso degli anni molti autori, di disegni o di testi, anche francesi, si sono spostati in belgio per sviluppare il proprio lavoro. soprattutto perché a bruxelles troviamo l’atelier de la bande déssinée des institus st luc, rinomata scuola di fumettistica che ha dato i natali ad una miriade di grandi autori. e poi, cosa più unica che rara, che sta a testimoniare l’amore incondizionato dei belgi per quella che viene considerata la nona arte, a bruxelles c’è il museo del fumetto. le centre belge de la bande déssinée si trova all’interno di un meraviglioso palazzo art nouveau, disegnato dal famoso architetto belga Victor Horta. i suoi 4.000 metri quadri accolgono tutto ciò che riguarda il fumetto dalle origini ai giorni nostri, con una bellissima collezione di tavole e schizzi originali. nella parte Museo dell’immaginario diciannove tappe permettono di scoprire e seguire la carriera e l’opera di alcuni dei più grandi autori di fumetto belgi tra il ’29 e il ’59 (periodo d’oro che vede più di 200 autori professionisti). oltre alle esposizioni permanenti, il centre propone di continuo esposizioni temporanee. e, ovviamente, possiede la più grande “fumettoteca” del mondo, con album, riviste e opere monografiche consultabili liberamente sul posto. nella sala di lettura c’è anche una selezione di fumetti tradotti in 15 lingue. insomma, il belgio è il paradiso dei fumettisti, e bruxelles sicuramente il paradiso degli appassionati di fumetto.■

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uPensiero antico e identità europea

di Adriana Pedicini adripedi@virgilio.it

tracciare un iter ideale della evoluzione di eros attraverso i maggiori poeti latini e greci è un tentativo di per sé destinato a non concludersi. basti ricordare quanto sostiene Platone sulla impossibilità di definire eros: eros dolceamaro, eros dominatore nato dalle origini del caos, eros demiurgo, eros paredro di afrodite; tuttavia, pur nella molteplicità e varietà di forme della figura che per i greci incarna la forza dell’amore, si riflette la sua posizione centrale in una cultura e in un sistema di pensiero e di sentimento profondamente segnati dall’attrattiva amorosa. È da notare, però, se applichiamo un’analisi semantica al termine in questione nei diversi contesti in cui esso è usato fin da omero, che il termine eros esprime un concetto che solo parzialmente coincide con ciò che noi intendiamo per amore. nei primi testi classici, infatti, eros designa il desiderio di gloria o di potere politico, quando non indichi (confondendosi con “imeros”) il rimpianto (es. di achille nei confronti dell’amico morto Patroclo); tuttavia nella maggioranza dei casi eros sta ad indicare il desiderio dell’amato/a. e già attraverso omero possiamo delineare una vera e propria fisiologia dell’amore secondo i greci. eros in effetti vi è descritto come una forza esterna che afferra colui che prova desiderio. questa forza agisce sull’organo che per i greci è la sede dei sentimenti: il petto; inonda il cuore, per sottometterlo, e provoca nella persona che ne è colpita uno stato che trova espressione nel verbo

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Eros nella sensib dei poe

éramai “desiderare”,”amare”. questo stato di desiderio è collegato a un’altra persona, ossia a quella che l’ha suscitato. usando la terminologia contemporanea, si potrebbe dire che la persona amata è al tempo stesso l’origine e la meta della forza che si qualifica come desiderio in colui che ama e lo fa tendere verso di essa. in questo gioco di sollecitazioni dell’amante ad opera della persona amata, lo sguardo assume un ruolo essenziale; è il veicolo della potenza dell’eros. e viene a determinarsi


quali sono le manifestazioni dell’eros? nella poesia lirica arcaica: eros riscalda il cuore, gli si avviluppa, brucia l’anima, scioglie le membra, scuote l’amante come un vento montano, strema, stronca, soggioga, abbatte. Eros, di nuovo, colui che scioglie le membra, mi agita (saffo 130 V). Eros come tagliatore d’alberi/ mi colpì con una grande scure/ e mi riversò alla deriva/ d’un torrente invernale (anacreonte fr. 45 d).

bilità eti antichi

Mi invase il cuore tanto desiderio d’amore/ che una fitta nebbia m’offusca gli occhi/ strappandomi dal petto la tenera anima (archiloco fr. 112 d). a questi modi di agire sono associate le qualità corrispondenti: dolcezza, dolcezza e amarezza insieme, sfrontatezza, insolenza ecc.;

Antonio Canova, Psyché ranimée par le baiser de l'Amour, 1793, Musée du Louvre

come un flusso che emana dall’oggetto amato per invadere l’amante e quindi rifluire in parte sul primo. È così che l’anima dell’amato è investita a sua volta dalla potenza dell’eros; è così che l’eròmenos (l’amato) brucia anche lui dal desiderio del suo erastès (amante) e che, riflettendone i sentimenti, è preso da “antèros”, l’amore ricambiato. questa rappresentazione della potenza oggettiva dell’eros che invade l’uomo o la donna per stregarli, si ritrova in tutta la letteratura greca da omero agli epigrammi dell’antologia Palatina.

Eros ora per volere di Cipride/ dolce stillando mi scalda il cuore (alcmane fr. 101 d).

Dolce, d’estate, alla sete la neve, a chi naviga dolce,/ come inverno dilegua, la Ghirlanda./* Molto più dolce s’è una la coltre che cela gli amanti/ se Cipride la celebrano entrambi (asclepiade a.P. V, 169). [*costellazione delle Pleiadi] Nulla è più dolce di amore, ogni altro diletto vien dopo/ di lui; dalla mia bocca io sputo pure il miele (nosside a.P. V, 170). eros, infine, agisce come una belva a cui non si sfugge: è amèchanos.

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Invincibile fiera dolceamara (saffo fr. 131 V). Ma il desiderio non raggiunge solo la sede dei sentimenti: invade l’intera persona. col suo fascino può arrivare a impadronirsi dell’intelletto stesso; nella misura in cui vi riesce provoca in colui o colei che ha invaso uno stato di vera e propria manìa, di delirio e invasamento. Ed Eros mi ha sconvolto la mente/ Come un vento che si abbatte sul monte contro le querce (saffo fr. 50 d).

Porta l’acqua ragazzo, porta il vino/ e ghirlande portaci di fiori/ orsù portate, ché voglio/ con Eros fare a pugni (anacreonte fr. 27 d).

Amo di nuovo, non amo/ e folle sono, non folle (anacreonte fr. 79 d).

di qui la tendenza a scrivere il suo nome come un antroponimo; cosa che per gli antichi significa non solo ravvisarvi un tiranno implacabile e un dominatore di uomini, ma estenderne il potere anche sugli dei.

in epoca alessandrina, perfino Polifemo, il ciclope dell’odissea, l’orco antropofago, vinto da eros, diventa lo spasimante di galatea.

a me piace cantare il molle Eros/ di ghirlande fiorito ricolmo/ egli è signore degli dei/ egli doma i mortali (anacreonte fr.28 d).

Mi sono innamorato di te o fanciulla, allorché dapprima venisti con mia madre,…. Cessare, dopo che ti ho visto anche in seguito, non posso più da allora (teocrito Xi).

eros così è lui stesso una divinità, complementare ad afrodite: afrodite presiede all’unione ma nulla essa è senza la forza che attira l’uno verso l’altra i suoi protagonisti.

agli attacchi dell’eros non è dunque possibile resistere. È deianira nelle trachinie di sofocle ad avvertircene:

Nuovamente Eros/ di sotto alle palpebre languido/ mi guarda coi suoi occhi di mare:/ con oscure dolcezze/ mi spinge nelle reti di Cipride/ inestricabili./ Ora io trepido quando si avvicina,/ come cavallo che uso alle vittorie,/ a tarda giovinezza, contro voglia/ tra carri veloci torna a gara. (ibico fr. 7 d).■

chi affronta il desiderio come un lottatore, è fuori di senno e, riprendendo nell’antigone la metafora agonistica, sofocle aggiunge eros nella lotta invincibile

Alessandro Allori, Venere e cupido, ca. 1560, Galleria degli Uffizi

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i suoi attributi, i suoi modi di agire, la possibilità di impegnare con lui un vero e proprio combattimento, fanno del desiderio, come è inteso dai greci, un’entità assolutamente antropomorfa.

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Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Dante Alighieri

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uMeridione d’inchiostro

Vito Bruno e la compulsione al di Giovanni Turi • gt1983@libero.it Vito bruno è nato a crispiano, in provincia di taranto, nel 1957, ma ha trascorso la sua giovinezza ad alberobello, il paese di sole e di pietra: onirico scenario di Mare e mare (e/o), che nel 2000 è arrivato tra i cinque finalisti del Premio campiello. un’opera da cui non si può prescindere per comprendere il valore di questo scrittore, che aveva già esordito con Per invecchiare ho bisogno di tempo (stalker), cui fece seguito Cirlè e altri racconti (Feltrinelli). Mare e mare è la toccante narrazione di un bambino alle prese con un padre burbero e riottoso, con una madre resa assente dal rimorso e con una sorellastra visionaria che lo investe del compito di apostolo evangelista; ed è proprio per raccontare della sua esistenza ascetica che gino osserva e trascrive quanto lo circonda, con l’ingenuità propria della sua età, disarmato dinanzi alla complessità degli eventi e all’ambiguità dei sentimenti: “allora io ho gridato di nuovo ehi, state fermi, quella è la macchina di papà, e finalmente i bambini si sono accorti di me, uno ha gridato qualcosa che non ho capito, un altro si è messo a ridere, e poi tutti insieme si sono messi a cantare Gino il bastardo… Gino il bastardino…

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io allora neanche sapevo tanto bene cosa voleva dire bastardo, sapevo solo che era una brutta parola, e che da quando sono nato, sono veramente pochi quelli che non me l’hanno detta almeno una volta…”. il toccante candore del protagonista e la dimensione trasognata di questo universo domestico e rurale sono le cifre del romanzo, nonché prove del virtuosismo stilistico dell’autore, tra i primi in tempi moderni a trattare in forma letteraria della Puglia arcaica. l’ingegnosità con cui Vito bruno sceglie la prospettiva da cui dare forma alle proprie storie è uno dei tratti caratterizzanti della sua scrittura: in Domenica ti vengo a trovare (Marsilio) la voce narrante è quella di un sedicenne, costretto a investigare sull’ennesima fuga di sua madre e a fare i conti con la crisi del padre; nel Ragazzo che credeva in Dio (Fazi) è quella di un sacerdote che ha smarrito molte certezze, ma vuole arginare in qualche modo la sofferenza di coloro che cercano il suo sostegno. quella di don carmine, uomo tra gli uomini, è l’ottica di chi ha perso la capacità di abbandonarsi completamente alla passione, e dunque anche alla Fede: “spero sempre che qualcosa di ciò che ho vissuto da ragazzo sia rimasta impigliata in qualche spigolo della stanza e si manifesti di nuovo”. smarriti i grandi ideali, che orientavano la società oltre che gli individui, non resta che condividere il dolore: quello di una giovane prostituta dell’est, alena, quello di gigino, corroso da un tumore, quello


lla scrittura dell’umanità dolente di una città al collasso, taranto, che non ha perso nulla della grandezza e del fascino del suo passato, ma ha smarrito il desiderio di immaginare il cielo oltre le esalazioni dell’italsider… nell’ultima opera, L’amore alla fine dell’amore, la voce narrante è quella dello stesso Vito bruno, il quale si confessa in una lettera/arringa, che è anche uno straordinario romanzo d’amore. ripercorre la deriva del proprio matrimonio, indagando sulla labilità dei sentimenti nella società odierna, in cui “un patto infranto”, “lo scandalo per un amore finito”, non destano più alcuno stupore, e in cui la famiglia “non è che un involucro vuoto, triste come il guscio di una tartaruga abbandonato sul bagnasciuga”. Ma soprattutto si interroga sull’attualità di un sistema legislativo che crede ancora nella “grande madre mediterranea, quel folkloristico e improbabile angelo del focolare che ormai si vede solo nei film in bianco e nero degli anni cinquanta” e che impedisce a un padre di stare accanto a suo figlio “per scoprire giorno per giorno i progressi che fa, le prime parole che dice, […] per sgridarlo quando fa i capricci, per fare pace con un abbraccio a caposotto, per giocare ad arriccianasicchio, per scoprire insieme il gusto del gelato alle more”. abbiamo intervistato Vito bruno partendo dalla sua ultima pubblicazione, così lirica e intensa.

L’amore alla fine dell’amore testimonia un rapporto catartico, compulsivo con la scrittura, ma tu stesso ammetti: “forse davvero la vita non sopporta intrusioni, neanche quella della scrittura. Forse la vita chiede solo di essere vissuta. E basta”. E dunque? dunque a volte è meglio non sapere dove ti porta la scrittura… a volte è bello seguirla, lasciarsi completamente prendere da un moto compulsivo che ti porta a pestare furiosamente sui tasti del computer e dopo, solo dopo, quando ti rileggi, scoprire quello che si fa, quello che diviene nell’atto

della scrittura. quello che è. e il bello è che tutto, poi, sembra una perfetta espressione di un’idea di letteratura, che senza neanche saperlo, avevi già. era tuo. era dentro di te. nella tua scrittura.

Oltre che come padre e come marito, ti riveli come scrittore, con tante incertezze e aspettative: si scopre così l’emozione con cui hai seguito l’uscita e la fortuna del Ragazzo che credeva in Dio. E in un’opera così particolare e intima come l’ultima, quali speranze hai riposto? Che riscontri stai avendo? ogni scrittore mentre scrive un libro crede che quel libro cambierà il mondo. È un atto di volontà necessario perché senza quell’impulso vitalistico, esagitato, esaltato, nessuno supererebbe l’inerzia, nessuno si abbandonerebbe all’insano proposito di affidare la propria

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vita a un insieme di parole leggere come l’aria. Fa parte del gioco, quella smania, è il combustibile che ti permette di compiere un viaggio che altrimenti non ti verrebbe mai in mente di intraprendere. Poi, a cose fatte, tutto rientra nella normalità, la febbre passa, ritorni nel pieno possesso delle tue capacità mentali e ti resta la meraviglia d’aver prodotto, in quello stato “alterato”, un piccolo manufatto. che avrà vita autonoma.

Molti dei protagonisti dei tuoi scritti sono giovanissimi, o rimpiangono gli slanci emotivi e idealistici dell’adolescenza. L’interiorità di ciascuno si plasma inesorabilmente in quegli anni? Che ruolo ha la Puglia nel tuo immaginario, ora che risiedi da tempo a Roma? la Puglia è – quasi – sempre presente nella mia scrittura, perché lì ho vissuto – quasi – per intero le fasi a mio avviso più importanti dell’esistenza: l’infanzia e l’adolescenza. dopo il mondo si presenta, ahi noi, solo come ripetizione.

Nelle ultime pubblicazioni hai cercato di focalizzare l’attenzione sulla crisi dei valori tradizionali (affetti famigliari, impegno civile, professione di fede, ecc.): la letteratura può porre un argine a questa tendenza o si limita a registrarla? ognuno di noi è portatore, più o meno sano, più o meno consapevole, di valori. chi scrive quei valori, o disvalori che siano, li riversa nella scrittura. tutto sta a non farsene possedere. ciò che odio maggiormente, ciò che nuoce di più alla scrittura, sono le tesi precostituite, il cosiddetto romanzo a

Carlo D’Amicis

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tesi. la parte di viaggio, di avventura, di ricerca è fondamentale nella stesura di qualsiasi racconto.

Quali sono stati gli scrittori che hanno influenzato la tua penna e quali sono quelli attuali che segui con maggior interesse? Carofiglio, D’Amicis, Desiati, Di Monopoli, Lagioia, Longo, Venezia e altri ancora… credi si stia assistendo a una primavera della letteratura meridionale o siamo già in prossimità dell’autunno? ognuno ha propri numi tutelari e il loro culto è assai privato e necessita riservatezza. sulla letteratura del sud, su quella pugliese in particolare: che bello vedere tanto talento e tanti bei libri in giro, uno diverso dall’altro. tra gli ultimi libri che sono usciti ce n’è uno che ho amato moltissimo: la battuta perfetta, di carlo d’amicis.■


Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa. Italo Calvino

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uOstruiti Esordi

Intervista a Fabio Geda di Silvia Mango • silviamango@alice.it e Michela Polito • politomichela@hotmail.it Come e perché iniziato a scrivere?

hai

Quali sono secondo te il ruolo e la responsabilità di uno scrittore nella nostra società?

non so quando ho cominciato a scrivere, ho come la sensazione di averlo sempre fatto. Ho un ricordo vago di me bambino, forse facevo le elementari, che ricopio brani del giornalino di gian burrasca sul mio diario personale per far finta di averli scritti io (un plagiatore in fasce, insomma). e so di aver pubblicato un racconto horror sul giornalino della scuola, in prima liceo. invece, so bene perché. Per dilatare la mia vita, renderla più spaziosa ed eterogenea. Fin da piccolissimo, lì dove c’era una storia, c’ero io. che fosse veicolata da un fumetto, da un quadro, da un film, da un libro, o che fosse messa in scena su un palco, non aveva importanza.

anzitutto scrivere buoni libri, così come da un panettiere mi aspetto un buon pane, impastato e cotto con cura, croccante se dev’essere croccante, morbido se dev’essere morbido, e che non diventi stopposo due ore dopo che l’hai portato a casa. i buoni libri, in generale, sono dei carotaggi ben riusciti di un’anima, di una società, o di entrambe le cose, e permettono al lettore di esplorare aspetti nascosti di se stesso.

Cosa ne pensi della Scuola Holden e delle scuole di scrittura in genere? della scuola Holden penso un gran bene, perché so come lavora. l’ho frequentata da studente dei corsi serali e ricordo ancora con emozione l’entusiasmo e la passione che mi ha trasfuso. uscivo da lì e andavo di corsa a cercare una libreria aperta di notte per comprare tre o quattro libri dei quali mi chiedevo come avessi potuto fare a meno fino a quel momento, tornavo a casa e passavo la notte a leggere. sono stati un paio di anni febbricitanti. delle scuole di scrittura in generale non penso, in generale, né bene né male, perché dipende da come sono gestite. una buona scuola di scrittura è, com’è la scuola Holden, anzitutto una scuola di lettura. se fanno questo, bene. se non lo fanno, male.

Quando avevi l'età di Enaiatollah cosa volevi fare da grande? il contadino: campi di grano, mucche da mungere, eccetera. Poi, visto che non ero granché amico degli insetti, verso i tredici anni ho deciso che sarei diventato un astronomo.

Enaiatollah è servito a Fabio per comprendere meglio se stesso e la sua vita? Viviamo in società interconnesse, indagare vite diverse dalle nostre è il modo migliore per comprendere noi stessi. Forse è l’unico modo che abbiamo. sedersi accanto a un ragazzo come enaiat e chiedergli di raccontare la propria storia è un regalo che facciamo a noi stessi, prima che a lui.

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Con i tuoi libri hai toccato temi toccanti e delicati, come nasce un tuo libro? dalle mie personali ossessioni: il crescere, l’educare, il dialogo tra le generazioni. attorno a questi temi leggo, penso, guardo. attorno a questi temi scrivo. se cambieranno le mie ossessioni, cambieranno anche i miei libri. Per ora i temi che mi interessano sono quelli e cerco di indagarli prima con la mia vita, in modo empirico, e solo dopo attraverso la scrittura.

Qual è il tuo lavoro quotidiano come scrittore? non ho una prassi codificata. l’unica cosa che posso dire


è che, di solito, quando scrivo, mi dedico uno spazio considerevole della giornata, diverse ore di fila, perché immergersi nel mondo che sto creando è faticoso e uscirne lo è altrettanto. Per il resto si tratta, appunto, di scrivere, rileggere, riscrivere, rileggere, e via così. i miei due posti preferiti per scrivere sono casa mia (il preferito in assoluto) e le biblioteche.

Mi sarebbe piaciuto nascere, sempre in italia, ma nei primi anni cinquanta. o nel giappone del periodo edo.

Che cosa stai leggendo? 2666 di roberto bolano.

Puoi dirci che cosa stai scrivendo adesso? come direbbe bartleby: i would prefer not to.

Qual è l'ingrediente del tuo romanzo Nel mare ci sono i coccodrilli che secondo te ha tanto colpito le persone? credo che persone diverse siano state conquistate da ingredienti diversi. Molte donne si sono identificate nella madre, e in quel suo straordinario, terribile gesto d’amore: abbandonare un figlio nella speranza, muta, di salvarlo. altri lettori, stufi di avere a che fare con quel magma indistinto che i media chiamano “clandestini”, hanno apprezzato il fatto di avere la possibilità di estrapolare da quel magma una singola storia, una singola voce. Molti ragazzi, che lo hanno letto dietro consiglio degli insegnanti, hanno gradito il ritmo della scrittura e la possibilità di mettere in relazione il proprio vissuto con quello di un coetaneo così diverso da loro. alcuni lettori, gli anziani in modo particolare, hanno apprezzato la levità con cui sono raccontate vicende così drammatiche. altro non saprei.

In quale luogo ti sarebbe piaciuto nascere? torino, dove sono nato, va benissimo. Più che da un cambio di luogo, sarei incuriosito da un cambio di tempo.

È stato difficile per te esordire? Qual è stato il tuo percorso d'esordio? Finito di scrivere il primo romanzo, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, dopo averlo letto e riletto fino alla nausea, mi sono detto: o lo brucio o lo mando a qualcuno. così ho stampato dieci copie, ho comprato dieci buste, ho scelto dieci editori medio-piccoli e gliel’ho spedito. dopo due mesi mi hanno contattato la instar libri e la Marcos y Marcos quasi contemporaneamente. Ma la instar un pochino prima.■

Fabio Geda, classe 1972, autore del fortunato Nel mare ci sono i coccodrilli, storia vera di enaiatollah akbari, vive a torino e fa l’educatore in una comunità per minori. Ha esordito nel 2007 con Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, selezionato per lo strega come miglior esordio e nel 2008 è stato vincitore del premio grinzane cavour con L’esatta sequenza dei gesti.

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uMamma, mi leggi?

L’altro mondo di Ridley

di Stefano Verziaggi • stefano.verz@hotmail.it

Philip Ridley

nel mondo delle fiabe e della fantasia è più che ragionevole pensare che, all’udire il nome di Philip ridley, le porte dei castelli e delle grotte dei tesori si aprano magicamente, ubbidendo a una forza che è più grande di loro. e questo senza che lui, nei suoi romanzi, racconti mai di mondi delle fiabe o di grotte dei tesori. Ma sarà bene provare a spiegare perché.

ridley, classe 1964, londinese, è da anni un acclamato autore di romanzi e opere teatrali per bambini e ragazzi, anche se non disdegna incursioni nel pianeta degli adulti, per esempio attraverso il cinema. non si tratta, solo, di duttilità o desiderio di adattarsi alle differenti età della letteratura: tale commistione e confusione è insita negli stessi romanzi, tanto che a volte l’editore si trova in difficoltà nel classificare le sue opere in una precisa collana. un caso su tutti, Gli occhi di Mr Fury (1989): prima comparso nella straordinaria ma defunta collana “supertrend”, dedicata a chi è già “oltre i confini dell’adolescenza”, e poi ricomparso nella Piccola biblioteca, sempre di Mondadori, con un target decisamente “da grandi” (in italia gran parte delle sue opere sono edite da Mondadori). questo stesso imbarazzo classificatorio si incontra immergendosi nella lettura. chi cerca ambientazioni bucoliche e zuccherose, in cui dominino le tinte del rosa confetto e del più brillante dei verdi, rimarrà forse deluso:

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l’immane e orripilante grattacielo di Puntombra fa da sfondo, diventando quasi un muto protagonista, all’intera vicenda di Mercedes Gelo (1989), Piazza Paradiso ha dietro l’angolo grattacieli e traffico che incombono e inquinano (ZinderZunder, 1998). non solo: anche i luoghi all’apparenza più favolosi nascondono insidie dietro i loro nomi; e così le “bianche dimore” non sono altro che “quattro casermoni posti uno di faccia all’altro intorno a un grande cortile di cemento […] di un giallo sporco percorso da gigantesche crepe” (Dakota delle Bianche Dimore, 1989) e la “città splendente”, pur dominata dal brillare di migliaia di luci, è caratterizzata dal rumore e dall’indifferenza, e nasconde al suo interno vicoli le cui case hanno stanze con “pareti coperte da carta a brandelli, foto in cornici col vetro rotto e, ogni tanto, una poltrona o un divano sfondato” (Kasper nella Città Splendente, 1994). un po’ come per Le città invisibili, si ha l’impressione che tutte queste descrizioni parlino sempre dello stesso luogo, l’east end, un quartiere popolare di londra; idea che a una lettura


attenta diventa quasi una certezza (e per di più confermata dalla quarta di copertina mondadoriana). questa stessa mancanza di politically correct nelle ambientazioni si riscontra nelle trame, in cui il lieto fine è assicurato solo nella forma del compromesso: la vittoria del bene, necessaria in un testo per ragazzi, si ottiene per mezzo di sacrifici anche pesanti. quest’impressione viene ben messa in risalto ne Gli occhi di Mr Fury, in cui appunto il destinatario di lettura consente a ridley una diversa modulazione dei temi e a noi una possibilità di lettura per contrasto. lo squallore della città o del sobborgo fa da cornice alle avventure di personaggi eccezionali, apparentemente dotati di poteri magici; essi sono per lo più riconducibili a una magia umana, terrena, a volte al limite della superstizione, la quale mette ancora più in risalto la vera cattiveria, che non è quella del diavolo, il personaggio mostruoso con la cui morte si apre il romanzo, ma quella dei rancori sopiti, delle invidie latenti e degli odi, tanto più dolorosi per i giovani lettori perché in molti casi realmente vissuti. in questo senso si spiega anche la presenza ossessiva della morte, a dire il vero più marcata in alcuni romanzi che in altri (anche se la condizione di orfano, per l’autore, sembra la conditio sine qua non per poter assurgere al ruolo di personaggio). nel già citato Mercedes Gelo, tanto per fare un esempio, si assiste alla morte di non meno di sei personaggi, compresi i quattro nonni e il padre del protagonista! È certo un confine labile, che ridley si gioca in modo straordinario; il disegno sembrerebbe quello di riuscire a parlare alle emozioni e al cuore di fatti ancestrali ma attualissimi, delle più segrete pulsioni che sono in noi e che riconosciamo negli altri. la banalità non è concessa. tutto questo vale anche e soprattutto per l’altro aspetto interessante di questi testi, ossia la rigogliosa inventiva verbale. Max Huckabee cerca nel mondo il potere del razzmatazz (l’equivalente del “rock” di celentano) e ha per amici i due fratelli trillino e trillone; Kasper è un abile cuoco della deliziosa torta banoffi e vive con la madre, zucca, nel suo salone di bellezza, tra lampade abbronzanti e trucchi; rosie splendie si fidanza con timothy gelo; la miglior amica di dakota si chiama Melassa. stupisce la mancata necessità di giustificare nomi tanto stravaganti e di spiegare le loro origini; quando invece andrea Molesini (Tutto il Tempo del Mondo, 1992) descrive zia Veronica detta Viperonica sente la necessità di dichiarare che il soprannome è

dovuto al “veleno che aveva l’abitudine di schizzargli addosso”; i cugini “sbucciati” sono all’inizio tra virgolette; il terribile antagonista non è altri che il duca. come a dire che per ridley un altro mondo è possibile, ma non è fatto dell’impasto linguistico del nostro; mentre per molti autori la narrativa per ragazzi implica la scelta di raccontare di un mondo “altro” con i mezzi comunicativi abituali, per ridley si tratta di disegnare questo nostro mondo abituale con mezzi comunicativi “altri”. È così che emergono le contraddizioni, le meschinità che ci circondano, ma anche le meraviglie e i valori più alti della cui esistenza un ragazzo o una ragazza hanno insistentemente bisogno di sentirsi confortati.■

[il titolo della rubrica è ripreso dal volume di M.g. bucceri, Mamma, mi leggi..., Milano, la sorgente 1982]

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uVetrioli sparsi

I pizzini redazionali di Emanuele Romeres • emanueleromeres@marcovalerio.com quella che segue è il verbale di interrogatorio di un redattore pentito, rilasciato durante una confessione poche ore prima che fosse schiacciato dal crollo degli scaffali del magazzino della casa editrice. lo riportiamo integralmente, così come pervenuto.

la "cosa" editrice è ancora, per fortuna, oggetto immune dal cancro della democrazia e del diritto. neppure le più decadenti redazioni progressiste sono venute meno ai sani principi dell'onorata società di cui lui, il direttore editoriale, incarna la salda, perenne e tentacolare potenza. non occorre che si conosca il suo nome. tanto meno che lo conoscano gli autori. Pochi "picciotti" fidati comunicano gli affari in corso. noi fedeli redattori naturalmente lo conosciamo, ma non saremmo mai così folli o infami da rivelarlo ai lettori o peggio agli aspiranti autori. non serve la minaccia di una fossa di calce viva. essere inviati alle fiere è una punizione sufficiente. già questo accennare alla sua esistenza è una sfida, e le dita tremano mentre scriviamo queste righe irriverenti. un pizzino è sufficiente a sancire la pubblicazione di quell'autore e spegnere le speranze di un fetuso che già si illudeva di poter unire il proprio nome al marchio della Famiglia. uccidere un esordiente non è che un distratto

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gesto della mano, per il nostro Padrino. spegnere uno scrittore che si credeva affermato, inviando al macero le sue opere ancora in magazzino, uno sghignazzo coperto dalla colata di cemento sulle ambizioni di un ominicchio della penna. i direttori editoriali si parlano, talvolta, e in salette riservate di ristoranti si spartiscono le zone di influenza, vendendosi scrittori come partite di eroina. e che sono, gli scrittori, se non pedine? d'altra parte, come è noto, i direttori editoriali sono spesso parenti di politici, e nell'intreccio con la politica nutrono il loro potere. di taluni si mormora che siano politici essi stessi, o che lo siano stati. giornalisti d'assalto hanno sostenuto, senza mai averne le prove, che in riunioni segrete possano segnare i destini culturali di una nazione, condizionare il voto delle giurie dei premi letterari, persino inventare scrittori inesistenti per veicolare messaggi cifrati ai posteri. studiosi di storia della letteratura sospettano che, in taluni casi, certi direttori editoriali, negli anni quaranta e cinquanta, abbiano acquisito i diritti di opere al solo scopo di impedirne di fatto la pubblicazione o ridurne l'impatto con tirature simboliche. in altri casi, nello scontro con il Padrino di turno, grandi scrittori sono stati costretti al suicidio, pur di salvare le proprie opere dal macero e dall'oblio.


i direttori editoriali non sono riconoscibili. si mescolano alla gente comune per nascondersi. Vestono come persone del popolo, non di rado vagano a piedi per non incappare nei posti di blocco. Vivono in case diroccate, lontane dai centri cittadini e soprattutto dai caffè letterari. alle presentazioni e ai vernissage si siedono in disparte e talvolta si addormentano. si dice che taluni scrittori, mentre vagavano nei corridoi della casa editrice, lo abbiano incontrato e scambiato per l'uomo delle pulizie. altri hanno avuto di fronte un ommo de Panza, mentre stringevano le mani agli ammiratori e firmavano autografi sul loro primo romanzo autopubblicato, e invece di sporgergli il nuovo manoscritto hanno lanciato qualche monetina, pensandolo un mendicante. la reazione dei cittadini e degli scrittori liberi al potere occulto dei Mammasantissima è stata possibile soltanto con l'avvento delle nuove tecnologie. la nascita di internet ha scompaginato le vecchie mappe del potere mafioso, aprendo le porte alla democrazia della pubblicazione. blog, riviste telematiche, webzine, sono stati gli strumenti della pacifica e determinata fiaccolata culturale che, a partire dagli anni novanta, ha sgretolato il muro omertoso del potere dei direttori editoriali, giungendo in taluni casi persino a rendere noto il loro nome, costringendoli ad affrontare il giudizio degli esordienti in maxi processi pubblici.

e tuttavia, quell'infame di tomasi di lampedusa, che pure avrebbe dovuto essere grato per essere stato pubblicato, ha riportato a tradimento in un suo libriccino una frase carpita origliando dietro la porta di un direttore editoriale. “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!” non è noto quando la strategia della nuova casa editrice organizzata sia stata elaborata, ma i risultati si sono visti negli ultimi cinque anni, di sicuro con l'appoggio delle famiglie d'oltre oceano. l'hanno chiamata “democrazia culturale” e significa che tutti possono scrivere un libro, tutti possono pubblicarlo e tutti possono andare in televisione a presentarlo. da detroit a chicago, da leningrado ai sobborghi di shanghai, passando per casal di Principe, la parola d'ordine è “lasciate che i pupi si autopubblichino“. e i pupi si autopubblicano su lulu, si autostampano, si autocomprano e persino si autopresentano sul canale 93218 di schaitivvì. “state tranquilli – si racconta che abbia biascicato il Padrino di una casa editrice di bagheria all'inviato di una casa editrice della Yakuza, in visita internazionale, mentre si soffiava il naso con l'ultimo romanzo ancora imbrattato di sangue dell'autore – fateli pubblicare come gli pare. scrivono e presentano, i quaqquaraqquaà. tanto, nessuno li leggerà”.■

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uVita standard di uno scribacchino provvisorio

Easy, weasy, let’s get busy di Giovanni Ragonesi - giov.ragonesi@gmail.com

il buon Hemingway tutte le mattine, prima di sedersi al suo tavolo in legno con sopra la sempre lucida e spolverata macchina da scrivere, rileggeva quanto aveva scritto fino a quel momento e da lì ripartiva. la ricca isabella allende, tutti i giorni, fine settimana tendenzialmente esclusi a meno che particolari esigenze creative o contrattuali non richiedano diversamente, si chiude nel suo studio, accende una candela e finché questa non si è del tutto consumata non si alza dalla poltrona in vimini posizionata comodamente davanti al suo computer dove digita forsennatamente. l’amata elsa Morante poteva stare anni interi senza buttare giù qualcosa di diverso da una lista della spesa o Ernest Hemingway una firma sulle ricevute postali, poi quando una certa storia la prendeva non faceva altro che scrivere, in qualsiasi momento della giornata, a volte portandosi dei fogli anche in bagno e il ticchettio continuo della sua olivetti, a detta dei vicini, somigliava a una rapsodia di gershwin con contaminazioni industriali. il prolifico Henry James, una volta chiuse le porte del suo studio, prima di iniziare a dettare alla sua segretaria dattilografa, theodora bosanquet, i suoi mirabolanti, e non di rado contorti, periodi che contraddistinguono la sua ultima fase, si rigirava per tre volte l’anello con rubino che portava all’anulare destro. a günter grass piace prendersi cura della sua oramai storica lettera 22 sulla quale ha

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scritto tutti i suoi capolavori e anche gli ultimi scritti autobiografici, di cui conserva gelosamente i pezzi di ricambio rarissimi e una volta ogni quindici giorni ne pulisce il rullo e ne olia i tasti su cui le lettere sono ancora perfettamente visibili. nell’ultimo ammirevole film di gorge cukor, Ricche e famose, la scrittrice Merry noel blake traccia degli schemi alla lavagna lasciando il marito e la sua erezione a letto pur di non perdere l’ispirazione, mentre l’altra scrittrice, liz Hamilton, non si separa da una buona bottiglia di scotch mentre affronta il suo corpo a corpo con la pagina bianca. Valerio ha sempre adorato collezionare questo tipo di informazioni sugli scrittori, per certi aspetti è quasi una ossessione quella per i riti propiziatori e preparatori alla scrittura, e non di rado, nella sue ciarlatanerie salottiere, ne inventa di sana pianta per alimentare la sua vena gossippara: in un universo parallelo gli sarebbe piaciuto essere l’elsa Maxwell della letteratura (il nobile e ironico contrappasso di chi sente più affinità con thomas bernhard) e raccontare con malizia datata dell’amorazzo tardo adolescenziale di quel tale inaspettato scrittore con la giovane irene Pivetti, e poi delle telefonate imbarazzate per lo strega che dovevano smaltire le 60.000 copie invendute di ammaniti, l’approdo di certi baldanzosi e promettenti giovanotti alla redazione di cotale rivista… e poi basta ché la via del pettegolezzo tende sempre ad ingrassare e a distogliere dalle ben più nobili intenzioni. e sono proprio le nobili intenzioni che stasera spingono le mani di Valerio che sembra essersi finalmente approssimato a qualcosa di concreto. lui non ha riti. È solo uno scribacchino che adora sorseggiare caffé freddo e fumarci sopra svariate sigarette mentre la musica se ne sta insolitamente sull’off e il pavimento disinfettato e lucido odora di limone chimico. su un semplicissimo quadernetto azzurro comperato in una cartoleria berlinese, un quadernetto con le pagine a quadretti (probabile impostazione zodiacale) e il formato un po’ allargato, inizia a scrivere un paio di titoli: sa già qual è quello giusto, quello che si porterà fino in fondo, ma sul principio deve nasconderlo almeno tra altri quattro. un’altra pagina viene dedicata all’elencazione di titoli che in una qualche maniera avranno la funzione di fari: o per il


tono della narrazione, o per qualche personaggio particolarmente affine, o per la struttura, o per il modo di fare vibrare una certa situazione, un sentimento parafrasato parallelo dell’ispirazione:

Isabel Allende

“il dolore”; Marguerite duras “tre sentieri per il lago”; ingeborg bachmann “i miei luoghi oscuri”; James ellroy “lettera al padre”; Franz Kafka “la dedica”; botho strass “Potrai dire che mi conoscevi”; K.M. soehnlein “glamorama” e “lunar Park”; b.e. ellis. Fa lo stesso, sulla pagina a seguire, con alcuni brani musicali. ne mette in lista alcuni, non più di cinque in genere, che gli stanno già in testa come una colonna sonora preventiva e che guideranno, almeno nelle intenzioni, perché sa già – è sempre così – che i risultati prenderanno strade imprevedibili, l’andamento per così dire lirico… non gli vengono in mente altre espressioni, pur cosciente di quanto questo aggettivo sia vecchio ed evocativo di modalità compositive stagionate da due secoli: ma non c’è una ricetta buona per tutti e valida per sempre, ognuno trova una sua maniera, quella che gli è più congeniale, quella che lo aiuta a spremere fuori – vomitare – la conformazione tumorale che si è sviluppata attorno a quel granello di sabbia indigesto.

le sue carte e i suoi quaderni, con qualche appunto puramente decorativo, titoli, riferimenti da tenere in considerazione, musiche d’accompagnamento che più che su itunes stanno nella sua testa. come auden non sopporta la troppa luce e preferisce la luminosità soffusa delle lampade. come Moravia gli piace che la sua testa sia circondata da fumo di sigarette per cui ha sempre un pacchetto di scorta intonso all’angolo della scrivania. infine, ma spera che questo non si sappia mai in giro, quando si mette a scrivere gli piace essere fresco di doccia, con la barba sistemata e col collo e i polsi rinfrescati dall’acqua di colonia 4711. qualcuno potrebbe speculare su una simmetria dell’approccio alla scrittura con un convegno amoroso. Ma questa ipotesi non sfiora neppure alla lontana le periferie cerebrali di Valerio che suo malgrado si percepisce come un monade claudicante.

“sometimes”; My bloody Valentine “crown of love”; arcade Fire “Fake empire”; the national “k-hole”; cocorosie “not in love”; crystal castles. Valerio apparecchia dunque

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gli echi sono tanti – Valerio lo sa –, dalla bachmann a Mancassola e pure Paul nizan ritemprato alle categorie sociologiche degli anni zero, ma è convinto che deve andare avanti (“scrive come vive e la sua vita è piena di citazioni” e non riesce a farne a meno). non è davanti all’incipit di un capolavoro, ma non ha importanza, è una cosa sua, e questo sì che importa, il resto arriverà dopo se mai arriverà. il rubinetto è stato aperto. i primi nomi iniziano a fare la loro comparsa sulla scena: le parti sono già state assegnate, le vicende hanno un loro sviluppo abbozzato, le sensazioni sono fluide e cercano le pareti sulle quali scivolare.

Elsa Morante

avverte una strana tensione lungo la schiena. attendeva questo momento da molto tempo, sono trascorsi alcuni anni dall’ultima volta che si è seduto al tavolo per cominciare un lavoro nuovo, qualcosa di non episodico, qualcosa il cui respiro fosse ampio e avvolgente e ossigenasse la sedimentazione delle troppe cose lasciate a depositare in quello che – oramai da diversi decenni – i nuovi approcci psicologici approssimano ad un hardware. ed eccolo pronto a venire fuori quel granello di sabbia indigesto intorno al quale il tempo ha lasciato crescere una perlacea conformazione tumorale: gli piace molto questa immagine e se ne compiace; una rara forma di compiacimento a cui di tanto in tanto, in situazioni speciali, gli piace concedersi. la pagina di openoffice è pronta e le impostazioni già predefinite. questo è un momento solenne per Valerio. dopo averlo gestito per diversi giorni nella sua testa, dopo averne saggiato la musicalità lasciando che le labbra, con un filo di voce, lo recitassero, adesso è pronto per scendere lungo le braccia, defluire sulle dita e da lì, attraverso i tasti, prendere forma nera sul monitor bianco: “che arrivati ai trent’anni, tutti, sebbene ognuno a suo modo, siamo costretti ad attraversare una crisi, mi era parso un cliché al quale mi ero nobilmente sottratto.”

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un attimo di esitazione lo blocca. lo stesso motivo che lo ha fatto tentennare da mesi, lungo tutta la gestazione che lo ha portato a questo momento, si ripresenta e lo porta a chiedersi se in un momento come questo in cui una crisi antropologica sta modificando il paesaggio che gli è intorno, in cui il male ha istituito stabilmente le sue forme di rappresentanza, in cui il reale prende il sopravvento su ogni forma di evasione, in cui l’eversione segue un format endemol… se con tutto questo, e con tutto il resto, se una storia di crisi e di fantasmi con uno scarto di senso che tende sempre al ribasso può avere sufficientemente dignità per essere scritta. non si dà una risposta neppure stavolta il nostro Valerio. si chiede a bassa voce, conscio della pretenziosità della domanda, se Herta Müller s’è chiesta se c’era bisogno di un altro libro sui gulag nello scrivere L’altalena del respiro, se Philip roth s’è chiesto se c’era bisogno di Everyman dato che già esisteva La morte di Ivan Il’ic, andré gide non ha inibito gli ultimi lavori di edmund White così come Paula Fox ha solo spronato Jonathan Franzen. Poi smette di giocare coi suoi elenchi e i suoi nomi e le sue idiosincrasie morettiane. certe domande ha senso porsele soltanto a posteriori. si possono moralmente valutare le intenzioni, ma un giudizio – una sentenza – la si esprime sulla concretezza dei fatti ed è il bisogno di concretezza che lo riporta con gli occhi e col pensiero sulla pagina e sulle tante parole che devono essere ancora digitate. ■


Un uomo deve subire molti castighi per scrivere un libro veramente divertente. Ernest Hemingway

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uGentili Riscontri

La busta volante di Alberto Stigliano • albestigli@gmail.com nell’ultimo numero della webzine ci eravamo lasciati con in mano il nostro dattiloscritto pronto per l’invio e un elenco di case editrici selezionate in base alle dimensioni e/o al genere di libri pubblicati. bene, è il momento di prendere in mano la classica busta e procedere all’invio – ricordate, la nostra proposta è di tipo 1: non abbiamo agenzie letterarie che seguano la nostra evoluzione e neppure santi in paradiso. cosa mettere nella busta? il romanzo, innanzitutto. a prima vista può sembrare un’ovvietà, nei fatti non è così. saranno le vostre pagine a dover parlare, non le presentazioni di terze persone, non le recensioni di qualche giornale più o meno autorevole, non un commento di vostro pugno al testo. un consiglio sincero: puntate sulla leggerezza, sull’agilità. non c’è trucco e non c’è inganno, un libro funziona oppure no e le case editrici soccombono sotto il peso delle carte. Perciò non dilungatevi con il curriculum, nel racconto della vostra vita, delle motivazioni che vi hanno fatto crescere dentro il “sacro fuoco della scrittura”: poche righe sono sufficienti, cinque o sei al massimo. e fatevi furbi, selezionate le informazioni in modo da risultare più credibili possibile: «romanzo vincitore al concorso letterario locale: “Meteore nel quartiere”» non lo metterei. a volte è saggio rinunciare a un po’ di gloria…

cercate di essere brillanti, di attirare l’attenzione di chi vi legge, ma senza esagerare: in questi anni mi è capitato di tirare fuori insieme alle pagine stampate pezzi di unghie (per fortuna riposti in un’apposita bustina trasparente), ciocche di capelli, fogli marchiati con il sangue… ecco, magari rinuncerei a simili escamotage. evitate alcune piccole ingenuità che possono indispettire. esempio: chiedere che il dattiloscritto venga rispedito al mittente in caso di rifiuto. come dicevo nella puntata precedente, scrivere è un atto non richiesto, il vostro invio è un atto non richiesto, dunque nessuno si premurerà di spendere tempo e denaro per farvi riavere indietro il testo, meno che mai nell’era del digitale. dunque, prima di tutto, il romanzo. e una breve sinossi? Mettiamocela pure, purché sia effettivamente breve, setteotto righe per inquadrare il dove-quando-chi-cosa. niente come né perché. niente cronologie, niente dettagliatissime descrizioni dei personaggi. dico di inviare il testo nella sua interezza perché nella maggior parte dei casi aumenta di molto le possibilità di essere esaminati con attenzione: mandare solo una parte del testo costringerebbe il lettore, in caso di interesse, a contattare l’autore per farsi inviare ciò che manca. Fidatevi, spesso si finisce per pensare – forse erroneamente – che il gioco non vale la candela. Mandare solo una sinossi o il proposal del romanzo è, a questi livelli, una semplice perdita di tempo e soldi. Va bene essere gelosi del proprio lavoro, ma senza eccedere. il proposal è appannaggio di autori consolidati in casa editrice, magari già sotto contratto e per i quali non c’è bisogno di entrare nel merito del nuovo romanzo per decidere se pubblicarlo o meno. anche in questo caso, un po’ di furbizia: evitate di dire che il vostro è un “titanico progetto articolato in otto romanzi”, li avete

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tutti già pronti nel cassetto. la mole, in editoria, spaventa tutti. un passo alla volta, ben calibrato. altro piccolo consiglio: da queste parti sono temutissime le persecuzioni di quegli autori che si procurano in qualche modo un contatto diretto con un redattore e non mollano la presa fin quando questi non fa perdere le proprie tracce. Fateci caso: la maggior parte delle lettere di risposta non sono firmate con un nome e un cognome. quindi, doveste mai incontrare qualcuno che vi risponde in prima persona, magari dandovi qualche indicazione di lavoro, non approfittatene troppo. le case editrici non sono scuole di scrittura, e neppure agenzie letterarie chiamate a editare il libro per migliorarlo: riservano l’editing quasi esclusivamente ai libri che intendono pubblicare. cioè una minima parte. qualche tempo fa c’era una signora che, chissà come, aveva ottenuto il mio numero di interno e mi chiamava tutte le settimane, stesso giorno stessa ora. Prima per chiedere quando avrei letto il suo romanzo, poi, una volta ricevuta la lettera, per discuterne insieme. Poi ancora per avvertirmi che ne stava scrivendo un altro, per mandarmelo, per chiedere quando lo avrei letto… era diventato un appuntamento fisso: per fortuna, una volta liquidato il discorso editoriale, mi parlava di cucina, di quello

che facevano i suoi nipoti... ecco un altro tasto dolente: i tempi. dopo quanto tempo posso considerare la mia proposta respinta? alcune case editrici non rispondono se la cosa non interessa, altre hanno tempi biblici. Perciò, a meno che non conosciate in anticipo qual è la politica in materia, non lasciatevi troppo condizionare e inviate pure a grappolo, ci sarà tempo per valutare gli sviluppi della situazione.

abbiamo toccato il tasto delle agenzie letterarie ed è da qui che potrei ripartire, nel prossimo numero, per passare a esaminare la seconda tipologia di proposte.

la ricchezza di Sul Romanzo è il frutto delle idee di tutti – lettori, autori, simpatizzanti – e soprattutto della loro curiosità. Per quanto possibile, mi piacerebbe approfondire, toccare o dibattere aspetti e temi che potete segnalarmi scrivendo ad albestigli@gmail.com■

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uCantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano Il senso del nonsense Nuntereggae

mutismo e del torpore in cui si trascina il popolo italiano in quegli anni ancora avvolti, circondati e bombardati dalla vacuità delle canzonette, degli stereotipi e dei tabù, delle chiacchiere, dell’innocuo e ipnotico intrattenimento sia sportivo (basti ricordare la partecipazione azzurra ai “campionati Mondiali di calcio” del ’78) che non; mentre, frattanto, l’italia dei “signori” situati in alto loco, nelle cosiddette stanze dei bottoni, si prende ogni libertà, ignorando, al contempo, gli interessi primari dei cittadini e, più in generale, del popolo, la cui stanca rimostranza e il disappunto vengono resi tramite l’espressione dialettale – riveduta e “corretta” – pronunciata da rino gaetano: Nun te reggae più (con reggae in vece di reggo). quell’italia che, tuttora, «è più prosa che poesia».

di Annalisa Castronovo annalisa.castronovo@gmail.com con il 1978 arriva la “consacrazione” di rino gaetano sui grandi palchi italiani, a cominciare da quello dell’ariston in occasione della 28a edizione del “Festival di sanremo”. una volta accettata quest’idea discografica, l’artista avrebbe voluto esibirsi con Nuntereggae più, ma lo convinsero, invece, a lanciare Gianna, scelta verso la quale egli aveva manifestato qualche perplessità dovuta alla somiglianza di quest’ultima con la musica di Berta filava (entrambe, infatti, create sugli accordi la, re e Mi). Ma procediamo secondo l’ordine dato alle canzoni sul 33 giri editato lo stesso anno, il quale non poteva che prendere il titolo dalla prima delle 9 tracce in esso contenute. Nuntereggae più, infatti, apre quello che può dirsi uno dei più begli lP di rino gaetano. il testo, accompagnato da un euforico – quanto ironicamente derisorio – arrangiamento musicale (niente affatto “reggae”, a dispetto del titolo ispirato invece da una battuta dell’amico bruno Franceschelli), è un’evidente denuncia della cecità, del

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tra le righe e i ritornelli di gaetano trovano posto battute che accendono e riaccendono interrogativi su vicende e affari loschi, siano essi l’omicidio di Wilma Montesi trovata esanime sulla spiaggia di capocotta (rM) in circostanze che parevano coinvolgere nomi illustri, siano pure essi velati riferimenti al quel tempo, quello del terrorismo e quello in cui «il partito […] aliena ogni compromesso», fosse anche quello “storico” tra il Pci di enrico berlinguer e la dc, proprio quel tempo in cui aldo Moro stava per perdere la vita in seguito al noto sequestro a opera delle brigate rosse; lo stesso tempo che vede corruzione e abusivismo edilizio imperversare in lungo e in largo, mentre certe coscienze ottengono facili ‘assoluzioni’ o addirittura possono morire «in odore di santità», come gaetano sottolinea in Fabbricando case, con la partecipazione corale di Francesco de gregori. quasi come un’inevitabile conseguenza arriva Stoccolma, il cui nome della capitale svedese presta il fianco a un


(seconda parte) più

infantile gioco di parole, che però dalle labbra di rino gaetano esce come una pungente frecciatina e un’accennata provocazione rivolta, in apparenza, a chi si rifiuta di condividere le sorti del Paese prima descritto: «dai, andiamo a stoccolma, /dove se mangi stai colma,/ dove potrai dire con calma:/ io sto colma a stoccolma./ sulle strade che vanno a stoccolma/ non c’è buche né fango né melma,/ sulle strade di stoccolma./ noi viviamo in un mondo di melma,/ dove ogni mattina è una salma,/ quindi andiamo a stoccolma». non può prescindere da questo clima storico e sociale l’interpretazione di Gianna, forse il brano più famoso di rino gaetano in virtù della sua presentazione al “Festival della canzone italiana” del ’78, che gli valse il terzo posto in classifica e un’enorme successo nelle vendite. la canzone, interpretata in frac, tennis e maglia a righe da colui che fu ribattezzato “cilindro-parlante” (alludendo al grillo-parlante di carlo collodi), suscitò un certo scandalo, forse perché per la prima volta il termine sesso veniva pronunciato su quel palco per essere trasmesso nelle case degli italiani da quella che allora era ancora, sulla carta, l’unica televisione nazionale, la rai. il riscontro sul pubblico portò comunque la canzone nelle radio e in altri programmi televisivi, nei quali fu persino presentata con la sufficienza solitamente riservata a testi insensati, ma una dichiarazione dell’autore a radio rai ne esemplifica l’ascolto: «gianna è una ragazza, è una quindicenne che si pone un grave problema, cioè dice: “che faccio? che faccio? Mi politicizzo subito? oppure aspetto di diventare prima donna e poi lo faccio?” ecco, in questa dura lotta, alla fine […] fa tutte e due le cose insieme, però senza annientare l’una o l’altra parte; cosa che spesso si fa». a mio

Marie Spartali Stillman, Beatrice, 1895

parere, si affronta, mediante una storia emblematica, una condizione plausibile e forse piuttosto ricorrente, quella dei giovanissimi che, nell’adolescenza, devono fare i conti con spinte apparentemente contrastanti: lo svago e il divertimento da una parte e l’impegno politico e sociale dall’altra. ragazzi che hanno idee e ideali («tesi e illusioni»), che vogliono andare avanti senza cercare alcun “pigmalione”, ma che intendono ugualmente difendere i propri interessi pragmatici («gianna difendeva il suo salario dall’inflazione») non lasciandosi abbindolare da troppe storie, quanto piuttosto mantenendo un certo ‘fiuto’ per cose concrete con i piedi ben piantati per terra («gianna non credeva a canzoni o uFo/ gianna aveva un fiuto eccezionale per il tartufo»), sebbene tanta gente (rappresentata dal coro) inviti ragazzi e ragazze (come gianna) a defilarsi se non intendono cedere a compromessi: «Fatti sempre i fatti tuoi! […]/ tu non prendi se non dai!/ Vieni qua, ma che fai?!». subito dopo, con E cantava le canzoni, rino gaetano tratta il tema della partenza da casa e del distacco dagli affetti, dal proprio mondo e dalla propria cultura («e partiva l’emigrante/ e portava le provviste/ due o tre pacchi di riviste»), nonché di quelle ragioni che, però, sono sempre

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Tower of London, 1078

di natura economica, sia che si tratti di uno dei tanti emigrati dal sud sia di un soldato o, addirittura, di un produttore cinematografico. Persone molto diverse che, però, sono accomunate dall’amore provato per la donna amata, chiamata in tutti e tre i casi bice. un nome come un altro? non direi. bice, nella cultura letteraria italiana (e non solo), è la donna amata per eccellenza, la dantesca beatrice, identificata in bice di Folco Portinari, e alla quale il sommo Poeta dedicò anche Vita Nova, nel cui XXVi capitolo un celebre sonetto recita: «tanto gentile e tanto onesta pare»; incipit che rimanda curiosamente al poeta provenzale raimbaut de Vaqueiras che apriva Calenda maia con questi versi (tradotti dall’occitano all’italiano): «tanto gentile sboccia,/ per tutta la gente/ donna beatrice, e cresce/ il vostro valore», in cui stavolta la donna a cui si fa riferimento è la sorella di bonifacio i di Monferrato, il quale – guarda caso – accettò il comando di una spedizione crociata nel 1201; dunque, come cantava rino gaetano, potremmo dire: «e partiva il mercenario verso una crociata nuova /Per difendere un’effigie e per amare ancora bice». così come rino gaetano sottolinea che ai nostri partenti non resta che cantare le canzoni ricordando sempre il loro grande amore, allo stesso modo il poeta provenzale si rivolgeva alla sua musa con questi versi: «donna graziosa,/ che ognuno loda e proclama/ il vostro valore che vi adorna,/ e chi vi dimentica,/ Poco gli vale la vita».

Beatrice Portinari, Villa Torlonia, Roma

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Dans le château è, invece, la canzone in cui, in lingua francese, rino gaetano descrive – a mio parere – la reiterazione del tempo, delle circostanze e dei suoi protagonisti. credo sia utile riportarne il breve testo per intero: nel castello dans le château che si intravede sulla montagna qu’on apercoit sur la montagne talmente macabro tellement macabre al punto che sembra una galera À tel point qu’il semble un bagne le baron joue aux cartes et boit sec il barone gioca a carte e beve molto la marchesa strega del paese. la marquise sorcière du village. lady anne, sì, vengo lady ann, oui, je viens sì, vengo fra poco, oui, je viens bientôt Vengo perché? Perché Je viens pour quoi? Parce que Mister smith sono proprio io Mister smith c’est bien moi Per te canterò Pour toi je chanterais tutti i miei bei ritornelli. tous mes beaux refrains.

il testo si apre con la descrizione di un castello macabro, forse per via dei delitti commessi al suo interno, come quelli che costellano la trama di tante storie, inclusa la vicenda tramandata dalla penna di William shakespeare nel Riccardo III, di cui più sotto rino gaetano citerà uno dei protagonisti, lady anne; ma quel castello pare persino una galera, quale fu ad esempio la torre di londra, prigione in cui riccardo iii sembra abbia fatto incarcerare il fratello giorgio, duca di clarence, lo stesso giorgio che la leggenda vuole ucciso per annegamento in una tinozza di malvasia, particolare curioso che forse lega boit sec («beve molto») alla successiva marquise, che oltre a significare marchesa indica fra l’altro una bevanda alcolica (esiste, ad esempio, infatti, la grappa “Marquise” di Malvasia-10 anni). comunque, l’ambivalenza della parola lascia spazio ad altri affari loschi, stavolta in quel di Francia, in cui alla corte di luigi XiV pare ci fosse un giro di indovini, maghi e streghe, fra le quali compare anche il nome di geneviève Pasquier, marchesa di Morville (sulla quale Judith Merkle riley ha scritto un romanzo storico, La sfera dell’indovina, rizzoli, 1994). alla luce di tutto ciò, credo che la chiave di lettura della malinconica canzone stia proprio nel fatto che l’autore, a un certo punto, si rivolga direttamente a una


delle vittime di simili giochi di potere – lady anne, appunto (costretta alle nozze contro la propria volontà) –, dichiarandosi egli stesso mister smith, uno dei personaggi di eugène ionesco (rumeno e francese di adozione) ne La cantatrice calva, un’anti-pièce che sottolinea la vacua reiterazione delle azioni umane, dei rituali di costume, delle apparenze e delle chiacchiere; così, forse con ironia, rino gaetano chiude il brano promettendo di cantare – da buon cantastorie e, purtroppo, da bravo Mister smith – proprio per quella donna, simbolo dei sottomessi, tutti i suoi bei ritornelli. in Capofortuna si trova un’altra evidente citazione letteraria, ma questa volta il cantautore chiama in causa un’opera di achille campanile, Se la luna mi porta fortuna, nel cui finale l’ennesima ripetizione di un evento solito, come il tramonto, viene descritta in tutta Achille Campanile la tristezza insita nella morte del giorno; nel farlo, però, gaetano sceglie anche di seguire la vena umoristica dello scrittore romano, che forse funge anche da referenza e testimone, in quanto quasi coetaneo (nato nel 1899) dell’uomo descritto di seguito («classe di ferro, ha fatto la guerra»). dunque, fatto un tipico annuncio al megafono che introduce il classico politico demagogo, rino gaetano canta così: «Ma che fortuna! grazie alla luna/ capofortuna stasera è con noi». il testo della canzone, che, da un lato, fornisce il ritratto del generico leader di partito bello, forte, amato come un dio, da cui ogni cosa pare avere principio («inaugura mostre e congressi, autostrade e cessi, ferrovie e metrò») – come è apparso anche qualche attuale esponente politico –, dall’altro, però, fornisce dettagli e indizi che sembrano voler lasciare traccia di qualcuno in particolare: «Profuma di roba francese e sulla camicia ha un foulard di chiffon,/ regala sorrisi distesi ai suoi elettori, ai bambini bon bon», «classe di ferro, ha fatto la guerra», «non teme né estate né inverno, se andrà all’inferno c’andrà col gilet», «se punta sul rosso sa che vincerà», «sostiene già tesi avanzate e tutta l’estate la passa in tournée». queste battute mi hanno indotto a pensare – con una certa sorpresa – che il politico in questione altri non fosse che Palmiro togliatti, il quale pur essendo nato nel 1893 (anziché nel 1899) potrebbe ritenersi appartenente alla generazione della cosiddetta “classe di ferro”; inoltre, egli fu segretario e capo del Partito comunista italiano; l’aria francese e il sostenimento di tesi altrui potrebbero rimandare al iii congresso di lione tenutosi dal 20 al 26 gennaio del 1926 e durante il quale furono presentate e accolte con ampio consenso le Tesi di antonio gramsci e

Palmiro togliatti, colui che per 18 anni ha conosciuto le estati e gli inverni russi, che ha viaggiato abbastanza e che ha ‘puntato’ molto sul rosso degli stendardi comunisti, anche in quell’unione sovietica che, negli anni Venti, al tempo della grande carestia, fu accusata di cannibalismo; da cui lo slogan “i comunisti mangiano i bambini” (nel brano nominati, ma stavolta sfamati). infine, i bambini tornano in un articolo scritto da enzo biagi nel 1964 su “l’europeo”; in esso il giornalista li nomina, proprio ironizzando – credo – su tale luogo comune in favore, però, della memoria di togliatti e descrivendo, peraltro, una serie di episodi in cui la ‘fortuna’ ha assistito il ‘capo’ del Pci: «[…] nel 1922 rischia di essere fucilato da un plotone di camicie nere; nel 1937, ad alicante, sfugge miracolosamente ai moschetti dei falangisti che lo hanno messo contro un muro; nel 1948 scampa alle rivoltellate dell’esaltato Pallante. Muore ad artek, in una dolce, rarefatta aria cecoviana, e la morte lo raggiunge sotto un bosco di betulle, mentre sta facendo un discorsetto in lingua russa ai pionieri del campo. i bambini gli sono sempre piaciuti». chiunque fosse Capofortuna, voglio sottolineare il mio personale rispetto per il ruolo politico, rivestito in tempi tanto delicati e drammatici, da Palmiro togliatti. ascoltando Cerco, invece, il mio primo pensiero è andato a L’albatros contenuto in Les fleurs du mal di charles baudelaire, per via del verso di gaetano «e al mattino al mio risveglio cerco in cielo gli aironi», come a desiderare con forza quell’entità non solo bianca e pura (come quella cercata anche ne «e il profumo bianco del giglio»), ma che, in qualche modo, gli assomiglia: «il Poeta è simile al principe delle nuvole/ che frequenta la tempesta e si fa beffe dell’arciere;/ esiliato sul suolo in mezzo alle urla,/ le sue ali da gigante gli impediscono di camminare» (traduzione mia dell’ultima quartina de L’albatros). eppure, gaetano cerca gli aironi che – secondo aristotele e Plinio –, con la cornacchia, simboleggiano l’unione contro il nemico comune, la volpe, emblema quest’ultima della furbizia. credo, comunque, che la vera ispirazione letteraria di Cerco provenga da L’airone di giorgio bassani pubblicato nel ’76, appena due anni prima dell’uscita dell’album in oggetto. il protagonista del romanzo, edgardo limentani, avrebbe deciso di andare a caccia all’alba e, lungo il tragitto che doveva condurlo verso questo suo intendimento, si sente schiacciato e angosciato dalla propria esistenza, condizione che lo condurrà al suicidio, ma solo in seguito a una serie di riflessioni, osservazioni e vedute; fra queste quella di un airone impagliato, la cui essenza, non più deteriorabile, fece apparire il regno dei

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morti al protagonista come luogo in cui poter essere felice. tra le scene appaiono i bar, le carte, gli andirivieni che si trovano nella canzone di rino gaetano, il quale cercando contestualmente «la sincerità nell’arte» pare citare persino la statunitense sylvia Plath, che in Lady Lazarus scriveva: «Morire/ È un’arte,/ come ogni altra cosa./ io lo faccio in un modo eccezionale». Ma il testo di Cerco, nonostante tutto, invoca amore e cambiamento: «cerco in tutte le canzoni/ e in un passero sul ramo/ uno spunto per la rivoluzione/ cerco il filo di un ricamo/ un accordo in la minore/ Per gridare forte: “t’amo”». rino gaetano negli ultimi versi del brano dà l’ennesima prova del sottile acume e della rara sensibilità, che gli consentono di attualizzare e personalizzare il tutto, passando dal trattare l’allora emergente punk impegnato nella politica e nel sociale, ma spesso ridotto – come avviene tuttora – a una ‘lametta’, financo alle proprie debolezze, ma sempre con tono poetico: «cerco il punk in una lametta/ la felicità ed il dolore /nel fumo di una sigaretta/ se ho degli attimi di rancore/ cerco te e la tua bocca/ nei tuoi occhi trovo amore». dunque, ‘chi cerca’ di elevarsi dalla miserabile

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condizione umana ‘trova’ amore. l’lP termina con Nuntereggae collection, pezzo che ironizza su quella “collezione di boutade”, apparentemente ‘prive di senso’, che costituiscono il corpus del suo percorso artistico, così sinteticamente e ironicamente svilito nello spirito di Nuntereggae più. Forse si tratta, dunque, di un modo per salutare il pubblico, strizzando l’occhio a chi lo ha sempre capito e irridendo, al contempo, chi invece lo ha classificato in fretta e senza fare alcuno sforzo. insomma, se rino gaetano canta, chi ha orecchie per intendere intenda! n.b. Voglio, infine, spiegare che – avendo io ritenuto quest’album meritevole di una trattazione più approfondita di quella che ho finora riservato agli altri lP –, anche per ragioni di spazio, il mio commento al brano I tuoi occhi sono pieni di sale (che avevo previsto per questo appuntamento) slitta al prossimo numero, visto che si aggancia a una significativa battuta pronunciata dall’artista solo più tardi, nel 1979.■


C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni, che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi anziché averli pieni di sale e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta. Rino Gaetano

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uI libri che ti cambiano la vita

di Marta Traverso • martitraverso@gmail.com

dopo gli scorci religiosi dei numeri precedenti, l'analisi dei libri che cambiano la vita passa a un paesaggio che raduna tracce di profano e l'essenza del sacro. cosa c'è infatti di più terreno, peccaminoso e al tempo stesso puro del sesso? quale campo è più variegato, complesso e ricco di spunti e attrattive per uno scrittore? apparentemente banale, eppure pieno di suggestioni, la storia della letteratura è prodiga di riferimenti a questo tema, che viene condotto verso i più inattesi traguardi. tutto parte dai poemi omerici, dieci anni di guerra e altrettanti di esilio prima del ritorno in patria: cosa ha scatenato la guerra di troia? cosa ha trattenuto ulisse un anno sull'isola di circe e ben sette su quella di calipso? sono state scritte opere letterarie capaci di banalizzare il sesso, altre in grado di santificarlo, altre ancora che lo rendono sorgente del più disgustato scandalo. L'Italietta delle veline e del sesso esposto alla diretta del grande Fratello vede nel suo punto culminante Melissa P e il suo (pseudo?) autobiografismo in salsa internet, che l'hanno resa una temporanea star del perverso capace di scatenare le ire del cardinal ruini ben prima che l'Eminenz di luciana littizzetto lo conducesse a più meritata fama. Per ambire allo status di guru dell'erotismo pare sufficiente millantare le proprie (vere o presunte, non ha importanza) esperienze di vita alla stregua dei sex tape di questa o quella vip (vera o presunta, anche qui non ha importanza) diffusi a macchia d'olio sul web. Varcando mari e oceani il sesso è canonizzato dallo scabroso e poetico misticismo di anais nin e d.H. lawrence, mentre Vladimir nabokov segna per sempre l'immaginario delle genti con una delle figure femminili più intriganti della letteratura moderna. al di qua della Manica non resta che guardare ai muri della bastiglia, che custodirono l'incompiuto scandalo del marchese donatien alphonse Francois de sade, incarcerato per aver vissuto in prima persona alcuni fra gli atti che delineano le pagine delle sue 120 giornate di Sodoma. È dunque fonte di estrema sorpresa l'approccio a Undici minuti di Paulo coelho. la storia di Maria, moderna cenerentola che non ha sorellastre da riverire, ma favori sessuali da concedere a facoltosi clienti, nell'accogliente gabbia locale di un locale svizzero. un principe già lo avrebbe, anche se non azzurro: il titolare del negozio di

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Undici min di Paulo stoffe in cui lavorava, pronto a sposarla e offrirle una vita libera da preoccupazioni a pochi passi dai suoi genitori, nel tranquillo paesino del brasile in cui entrambi sono cresciuti. Maria non ha però scarpette di cristallo da calzare, solo abiti smessi, certamente non all'altezza di rio de Janeiro e della vacanza sognata da sempre. È in quella città che Maria precipita nell'abisso che la separa dal resto del mondo. regalare passione a un uomo per una notte le offre un guadagno che non si sente neppure degna di sognare: il calcolo è rapido, il numero di notti che la separano dalla cifra sufficiente per aprire un'azienda agricola e mantenere la famiglia. notte dopo notte, letto dopo letto, la catarsi che la conduce – un po' cenerentola, un po' Pretty Woman – a un richard gere che non è ricco né affascinante, solo un giovane pittore che tocca in lei quelle corde che nessun uomo ha mai fatto vibrare. È in queste corde che sta la forza del romanzo: se il teorema dominante sul rapporto fra i sessi nella società odierna è gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, coelho descrive le sensazioni, l'ingenuità, il romanticismo, la follia e il piacere femminile come poche donne saprebbero fare. Pagina dopo pagina, la lettrice dimentica che la vera voce narrante è quella di un uomo, e il lettore si addentra in emozioni sconosciute solo in apparenza. «Quando non ho avuto più niente da perdere, ho ottenuto tutto. Quando ho cessato di essere chi ero, ho ritrovato me stesso. Quando ho conosciuto l'umiliazione ma ho continuato a camminare, ho capito che ero libero di scegliere il mio destino» è uno dei celebri aforismi a cui coelho deve la sua fama. una saggezza e un talento coltivati nel corso degli anni, un animo intellettuale considerato troppo strano dai suoi genitori, che per ben tre volte lo hanno fatto ricoverare in strutture psichiatriche per curare il suo carattere ribelle (esperienza che emerge in parte nel romanzo Veronika decide di morire). uno dei pochi – purtroppo – scrittori al mondo che cura personalmente e costantemente il suo blog, www.paulocoelhoblog.com. ed è questa fama di guerriero della luce e alchimista dell'anima che lo


nuti Coelho spinge a introdurre il romanzo scusandosi con i lettori. uno, in particolare. un turista incontrato davanti alla grotta del santuario di lourdes, che ha esaltato il suo talento letterario non sapendo che il prossimo romanzo sarebbe stato qualcosa di totalmente diverso.

siamo però certi che coelho abbia qualcosa di cui scusarsi? il suo romanzo è dirompente negli insegnamenti che trasmette. la favola di questa giovane ragazza (C'era una volta una prostituta di nome Maria...) ricorda a tutti noi che quegli undici minuti non sono solo il biologico, estatico e adrenalinico scambio di fluidi corporei, ma che dietro a essi si nascondono parole, emozioni, sguardi, rabbie da sopire, ansie da cancellare, sogni da realizzare. una favola che fa dimenticare il linguaggio esplicito, la dura realtà delle prostitute d'alto e basso bordo, quell'happy end che si trova più sui libri e al cinema che nella vita reale. una favola che fa venire voglia di guardarsi dentro, guardare al proprio corpo e alle sue sensazioni come a un prolungamento della propria anima, piuttosto che un suo contraltare. una favola che proietta all'infinito quegli undici minuti, in particolare il decimo, quando davvero vorresti che non finisse mai.■

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uEsordire

La doppia seduzione di Francesco Orlando di Sara Gamberini • saragamber@libero.it l'esordio di Francesco orlando è pieno di pudore. critico e teorico letterario, francesista, appassionato di Freud, pubblica nel 2010 con einaudi La doppia seduzione, romanzo scritto agli inizi degli anni cinquanta e rimaneggiato a più riprese per più di cinquant'anni. il primo lettore entusiasta è stato il suo maestro, giuseppe tomasi di lampedusa che lodò i movimenti psicologici perfettamente collegati e l'equa alternanza dei punti di vista dei due personaggi in cui l'io guarda non meno dell'altro e l'altro guarda non meno dell'io. lo esortò così a lavorare di sottrazione al testo in nome della distinzione, a lui particolarmente cara, tra scrittori 'grassi' e scrittori 'magri'. il romanzo di Francesco orlando nacque influenzato da quella poetica 'magra'. l'autore limò e aggiustò il testo per dieci anni per poi riporre il manoscritto nel cassetto e dimenticarsene. divenne docente di lingua e letteratura francese alla scuola normale superiore di Pisa e successivamente presso l'università ca' Foscari di Venezia. costante, nella sua ricerca, l'urgenza di trovare attraverso la teoria freudiana una teoria formale del giudizio critico delle opere letterarie. tornando al pudore di questo esordio, mi vorrei soffermare su una superficiale disparità che vede un autore di grande spessore intellettuale lavorare per così tanti anni al proprio romanzo: le stesure, infatti, sono state in tutto undici. non c'è che dire, cinquant'anni di revisione possono essere scambiati per ossessione, lui stesso ha più volte trattato con ironia la lunga gestazione della sua opera, confessando di aver inflitto per anni agli amici fidati letture ad alta voce del romanzo e di averli esortati a criticare senza remore. la revisione, a detta di orlando, si è concentrata sull'imperfezione della scrittura mentre la forza del racconto è rimasta inalterata e quindi originale. Penso a quanti editor debbano affilare ogni possibile arma di seduzione e di contenimento per far accettare le proprie revisioni ad alcuni scrittori e, alla luce di tanta pigrizia di ricerca, considero La doppia seduzione un gesto di critica letteraria prima ancora che un romanzo. un gesto è più di un insegnamento. ora, trattare un romanzo con premesse intellettuali di tale portata rischia, traducendosi in un bla bla colto e stucchevole, di far credere che l'opera prima di Francesco orlando non abbia nulla a che fare con la narrativa. invece entriamo in una storia commovente, ambientata in una città del sud, alla fine degli anni quaranta, che ha come protagonisti due giovani amici legati da un rapporto ad incastro perfetto. Mario, belloccio e superficiale, è attratto da Ferdinando, colto e tormentato, che inizialmente

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lo evita. Tenuto conto del suo bell'aspetto generalmente indiscusso avrebbe dovuto poi piacere molto a Ferdinando. Ma se anche ci fosse stato qualcuno in grado di fare una simile deduzione, e non c'era, avrebbe sbagliato. Mario non piaceva affatto a Ferdinando. indispettito e ostinato, Mario insiste nel proporsi a Ferdinando dimostrandosi tanto più attratto dall'amico quanto più l'altro gli sfugge. l'amicizia tra i due, fatta inizialmente di una superficialità di cuore che sfiora l'opportunismo del bisogno, si interrompe quando Mario tenta la scalata sociale fidanzandosi con la bella e aristocratica dolly. Ferdinando si innamora di giuliano, eterosessuale, bello, sportivo e incolto, senza mai trovare l'ardire di confessare il proprio amore. i due amici si rincontreranno a metà romanzo; l'invidia di Mario si trasformerà in appassionato sadismo e l'iniziale rifiuto di Ferdinando scioglierà le difese per scoprirsi desiderio. le premesse, presenti tutte già nel primo capitolo, si


idee e che nel caso de La doppia seduzione ha resistito a ben undici revisioni e a cinquant'anni di controllo forzato. la meraviglia di questo testo non sta nella perfezione stilistica o nei movimenti psicologici così abilmente collegati, ma nel pudore che sbuca dagli strati di compromesso linguistico e accademico, nella tensione fisica, impressa sul testo, che trasforma in ossessione un desiderio non corrisposto. la scrittura di orlando non è affatto asciutta, lo è l'intenzione. le frasi somigliano a condensazioni, quasi non ci fosse lo spazio, tra una parola e l'altra, per lasciare accadere qualcosa che non sospettiamo. Ma l'insospettabile sta ovunque e la scrittura, per quante attenzioni le si riservi, conserva il potere straordinario di evocare al di là delle sequenze logiche delle azioni e della puntigliosità della trama.

svelano solo quando Ferdinando, debole perché abbandonato dal bel giuliano, cede alle lusinghe del corteggiamento di Mario. Ferdinando, per tutta la prima parte del romanzo, ha evitato Mario per paura. c'è un movimento angosciante di ambivalenza e desiderio nel libro di Francesco orlando che ci racconta di come per certe persone l'amore sia condannato a polarizzarsi sul proprio sesso a condizione però che la persona desiderata sia eterosessuale. Il silenzio – ci dice orlando – è per costoro semplicemente la condizione per poter vedere gli oggetti del desiderio rimanere a contatto con loro. c'è qualcosa di impacciato nel voler scrivere una storia partendo dall'intuizione freudiana che l'inconscio, quello di tutti, è per sua origine bisessuale. certe teorie di Freud, se prese in modo ortodosso, indispettiscono per la loro testardaggine razionale. al di sotto di un messaggio da scrutare, un messaggio particolarmente preciso in questo caso, e quindi al di sotto delle intenzioni stesse dell'autore, si scova qualcosa di incantevole che opera al di fuori di ogni finalità; si tratta, per dirla con Proust, della grande ossatura incosciente che viene ricoperta dall'insieme delle

così risulta forse fuori tempo occuparsi del dramma di due ragazzi costretti ad accettare la parte omosessuale di sé, un po' troppo marcato il contrasto tra bello e incolto e tormentato e intellettuale, melodrammatico l'incontro, che sfocia in tragedia, tra sadismo e masochismo, ma tutto questo, invece, nel libro di orlando affascina e cattura perché attinge ai simboli della letteratura che a sua volta si rifà ai simboli dell'uomo. leggendo La doppia seduzione, viene voglia di riprendere in mano gli amati classici, sollecitati dalla impostazione ottocentesca del romanzo, a cui si contrappone, come sottolinea orlando, la modernità della gestione ironica della voce d'autore che, nella sua inattendibilità, somiglia ad un io stolto inconsapevole dei movimenti di desiderio affioranti dall'inconscio. A fine ottobre, quando fu penetrato di tutto questo senza remissione, rivide il ripetente Giuliano. Lo udì magnificare la Lancia duemilacinque ad esclusione dell'Alfa milleenove SS, in polemica con tutto un gruppo di coetanei che ignoravano chi fosse Mallarmé. Sentì che mai in vita sua Giuliano avrebbe parlato a lui con tanta confidenziale veemenza. Si ritenne maturo per chiamare la sua desolazione con il nome di amore. come a dire che lo spessore di un autore rende un libro bello e l'ignoranza di un altro sforna miserie da dimenticare, per rimanere in tema di facili dualismi e cedere volentieri all'attendibilità dei luoghi comuni. ■

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uIl mestiere dell’editore

L’ascesa di minimum fax di Deborah Pirrera • apedex@tiscali.it a volerla conoscere la storia della minimum fax c’è di che rincuorarsi, anzi di più, di che trarne un manuale d’istruzioni per chi si volesse avventurare in una “scommessa” editoriale, e vincerla. a parlare sono i numeri: la casa

editrice romana nata nel 1993 conta all’attivo quasi 4000 titoli in catalogo, ben 8 collane, la media di 32 novità annue con una vendita complessiva di circa 125.000 copie all’anno e un fatturato da fare impallidire il concetto stesso di “crisi economica”. Fuori dai denti si parla di 1.500.000 euro (valore calcolato a prezzo di copertina e al netto delle rese), pari a una quota di mercato dello 0,05% circa. anche se il dato è aggiornato al 2008, la minimum fax resiste ed esiste senza oscillazioni di rilievo.

il marchio di fabbrica della casa editrice è la ricerca, anche coraggiosa a volte, intensa soprattutto nell’ambiente se non del tutto inesplorato di certo poco approfondito in italia, della letteratura americana contemporanea. a portare fortuna alla minimum fax, se di fortuna si può davvero parlare (ed era ancora il 1995) fu il primo titolo di lawrence Ferlinghetti che permise di dare il via alla collana sotterranei, sintesi del progetto e dell’idea editoriale. oggi, sullo stesso percorso, si contano più di 150 titoli e dietro molti di essi, valga per tutti il nome di david Foster Wallace morto suicida nel settembre 2008, c’è la firma di un’altra colonna della casa editrice (e ci fa piacere che compaia il nome di una donna), il direttore editoriale Martina testa. Ma la minimum fax non ha trascurato neanche i nomi del recente passato, stanando i maestri americani della generazione precedente. si deve proprio alle raccolte firmate dalla casa editrice il fatto che raymond carver, maestro del racconto breve e creatore di uno stile inequivocabile, abbia ricevuto il riconoscimento di un prestigio troppo a lungo negato. l’editoria lo aveva dimenticato, mi si passi il termine, e Marco cassini e daniele di gennaro ne fecero l’autore di riferimento, traducendolo, pubblicandolo, dedicandogli una collana “i racconti di carver”, che lo trasformò in un best seller, rivelando quel fiuto editoriale che non si sarebbe smentito neanche negli anni a venire. infatti l’esplorazione non è cessata, la collana sotterranei continua ad ampliarsi, inarrestabile, con brevi ma significative incursioni nella

non c’è nascita, men che mai di una casa editrice, senza genitori, luogo e battesimo. tutto comincia grazie all’idea di Marco cassini e daniele di gennaro(“idee tante ma niente soldi in tasca”) in un sottoscala di trastevere, con un fax, una scrivania e poco altro. il fax serviva a diffondere ai pochi abbonati la rivista di cui cassini e di gennaro erano ideatori e fondatori (le rotative domestiche, l’ha spesso definito di gennaro). la qualità della stessa, fatta di recensioni, aggiornamenti sui premi letterari, schegge di letteratura comica, uno spazio riservato a racconti inediti a puntate si fece ben presto valere per la sua qualità, vedendo in poco tempo crescere il numero degli abbonati e, tra questi, la curiosità di nomi di prestigio del panorama letterario italiano: raffaele la capria, sandro Veronesi, Filippo la Porta, gino castaldo, goffredo Fofi, regalando a minimum fax la notorietà necessaria a fare il gran salto, ovvero passare dalla rivista alla casa editrice.

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Daniele Di Gennaro e Marco Cassini


narrativa europea, dalla russia all’inghilterra, passando per scozia, Francia e irlanda. recente ma rilevante è l’idea di spingersi sino al sud america, mentre già se ne raccolgono i risultati. lo spazio per gli autori di narrativa italiani non è mancato. qui il lavoro maggiore è stato affidato alle sapienti cure del giovane scrittore nicola lagioia, curatore, appunto, della collana nichel. Molti si affannano ancora a dare il giusto significato, a cercare il motivo di quel nichel. col senno del poi, se si tratti di metallo non prezioso ma difficile da estrarre o di acronimo per narrativa italiana fatto sta che essa rappresenta una vetrina quasi d’obbligo per giovani esordienti o autori affermati all’ennesima pubblicazione. da lì sono passati, taluni anche per rimanervi, Valeria Parrella, carlo d’amicis, giorgio Vasta, domenico starnone e tanti, tantissimi altri. nel tempo si sono aggiunte anche le non meno fortunate collane, mimum fax cinema, minimum classics, indi (narrativa strabica diretta da christian raimo), i quindici, ovvero i quindici titoli più importanti dell’anno. Molte sono le attività che si associano a quella editoriale, elencarle è “imbarazzante”, pare sappiano fare davvero di tutto “quelli” della minimum fax, o almeno ci provino. una casa di produzioni cine-tv, una libreria nel cuore di roma (in quella piazza santa Maria in trastevere da cui tutto è cominciato) il più delle volte aperta sino a mezzanotte, l’associazione culturale unita a un laboratorio permanente di promozione culturale a carattere teatrale e i corsi per l’ editoria. se è vero come è vero che adesso il successo della casa editrice è dichiarato e conclamato, la cosa che più forse sorprende è che rimane un successo dell’editoria indipendente, lontana dai circuiti dell’imprenditoria editoriale e che tutto deve allo spirito pionieristico e avventuroso dei suoi collaboratori, alcuni fedeli negli anni, altri che si sono aggiunti man mano: christian raimo, dario Matrone, enrica speziale, alessandro grazioli solo per citarne alcuni. tutti dediti allo scoutismo letterario. se il nucleo fondante può apparire sorpreso dei risultati di un

progetto che partiva con un’idea iniziale non ben definita, all’oscuro dei capisaldi dell’imprenditoria, ma che si nutriva di una grande passione per la letteratura tanto da farne una ragione di vita, anzi, la ragione di vita, a distanza di anni i risultati ottenuti sono soddisfacenti ma non eccessivi per una squadra di professionisti che, a dirla con Marco cassini, “ha sempre lavorato e lavora con un impegno sovraumano. che pondera ogni decisione sapendo che da quella può dipendere il successo e la sorte di un manoscritto e del suo autore, senza mai dimenticare il rispetto nei confronti dei lettori”. della sua esperienza di editore sempre in prima linea Marco cassini, che appena quarantenne parla da editore maturo, non ne ha mai fatto mistero, anzi ha voluto raccontarla con generosità di aneddoti in un libro uscito due anni fa, “refusi. diario di un editore incorreggibile” nel quale le pagine forse più intense sono quelle dedicate ai suoi mal di pancia ogni volta che si dovevano programmare le uscite per l’anno a venire. quanto a daniele di gennaro, amministratore unico della Minimum fax, uno di quelli che ora come allora è solito raggiungere telefonicamente i suoi lettori, non ha paura dell’era e-book, non se ne sente minacciato se a fare la differenza non è il mezzo che veicola la cultura ma il contenuto dei libri. tutti concordi nel difendere il fascino tattile-olfattivo del libro ma a non chiudere gli occhi dinanzi all’ineludibilità di internet.■

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uI (rin)tracciati

Andre Dubus e le autopsie del cuore di Alessandro Puglisi • alex.puglisi@inwind.it «lo so, lo so. Ma sto lavorando a una scena su una ragazza che ha fatto l’amore una volta sola. Poi una notte, qualche mese più tardi, fa l’amore con questo ragazzo due volte di fila e poi ancora al mattino dopo; e io volevo sapere se la sto scrivendo bene. nella scena lei ha la fica dolorante il giorno successivo, dopo averlo fatto tre volte. secondo te funziona?» «certo, funziona» disse lei. «Figlio di puttana…» È questo stralcio di dialogo, forse, il modo migliore, la citazione più efficace possibile per introdurre la nostra ennesima (ri)scoperta su questa rubrica: andre dubus, americano, classe ’36, praticamente uno sconosciuto – forse non a caso? – nel nostro Paese, scomparso, a 62 anni, nel 1999. l’occasione ci è data da un pregevole volume, edito nel 2009 da Mattioli 1885, frutto della traduzione di nicola Manuppelli e gian Fulvio nori, e curato dallo stesso Manuppelli, anche autore dell’introduzione. Non abitiamo più qui è il titolo, per una raccolta di tre “racconti lunghi”, se raccolta davvero può definirsi, tanta e tale è l’intersezione fra personaggi e temi, da poterla considerare (ma l’autore non avrebbe apprezzato, crediamo) un “romanzo in tre parti”. dubus, originario della louisiana, crebbe all’insegna di una rigida educazione cattolica, acquisita e mantenuta per tutta la vita, «comicamente profano e sincero nella sua fede», come afferma tobias Wolff nella postfazione al volume, intervento peraltro già apparso in Andre Dubus Tributes,

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del 2001, per Xavier review Press. dopo la laurea, conseguita nel 1958, si arruolò nei marines, e vi trascorse sei anni, raggiungendo il grado di capitano. in seguito, si trasferì in iowa e lì iniziò la sua attività di scrittore. se ci si sofferma brevemente sulla vita di dubus, è perché, come vedremo, i personaggi dei suoi racconti, il loro rapportarsi al mondo e agli altri esseri umani, sembra spesso essere frutto della revisione (o rievocazione, se si preferisce) di eventi cruciali nell’esistenza dello scrittore. eventi traumatici, come la violenza subita dalla sorella e la conseguente paranoia di andre, il quale cominciò a girare armato. e poi l’incidente in cui, mentre viaggiava in auto da boston verso la sua casa in Massachussets, si fermò per aiutare due persone sul ciglio della strada, luis e luz santiago, e, mentre si adoperava per capire cosa fosse successo, fu investito da un’altra automobile che sopraggiungeva a gran velocità e subì l’amputazione di una gamba, perdendo in seguito la funzionalità dell’altra, e rimanendo così costretto su una sedia a rotelle per il resto della vita. un’esistenza di certo non facile, ma animata da grande spirito. lo stesso che, anche se non sempre esplicitamente, cogliamo nei protagonisti dei tre racconti, da Non abitiamo più qui a Cercarsi una ragazza in America, passando per Adulterio. tre scorci delle vite di quattro persone, quattro grandi amici, due uomini e due donne, due coppie: Hank ed edith, Jack e terry. un’unica realtà diegetica, ma articolata nel tempo nell’ambito delle tre diverse composizioni. sarà opportuno adesso fare un paio di distinzioni,


raggruppando le storie brevi in maniera diversa, in uno e nell’altro caso, e tuttavia tentando di non rivelare troppo, allo scopo di evitare di sottrarre al lettore il piacere maggiore che deriva dalla lettura di dubus, quello legato al godimento delle capacità affabulatorie di uno scrittore così dotato. un primo e, crediamo, fondamentale distinguo, sta nel ruolo del narratore. all’interno del racconto che dà il titolo al libro, la prima persona ci fa presto immergere nell’universo delle dinamiche relazionali dei quattro, viste dagli occhi sornioni, ma preoccupati, di Jack, il quale, in una particolare congiuntura della sua vita, si accorge di non amare più la moglie, terry, finendo per costruire con edith, moglie di Hank, un rapporto molto più che amicale, di un’intimità che ha a che fare, più che con le serate passate a bere un whiskey in veranda, con la condivisione di un dolore profondo, esistenziale, con il superamento della frustrazione, con l’angoscia dell’insoddisfazione cronica, così novecentesca e istituzionalizzata a tal punto da poter essere, oggi, considerata quasi “classica”. Adulterio e Cercarsi una ragazza in America, invece, attraverso un narratore che racconta in terza persona, ma interviene spesso e volentieri con digressioni, precisazioni, approfondimenti degli stati emotivi, mettono a fuoco, rispettivamente, il progressivo, costante e avvilente processo di separazione tra edith, impegnata in una difficile relazione extraconiugale con un malato terminale, Joe, ex parroco e personaggio di estremo interesse, ed Hank, e la vita post-divorzio di quest’ultimo, consumata, non senza patemi, tra brevi relazioni con le sue studentesse e l’amicizia, ancora viva, nonostante tutto, con Jack. un secondo raggruppamento vede invece i primi due racconti, accomunati dal fatto di essere stati oggetto della trasposizione filmica di John curran, quel We Don’t Live Here Anymore, premiato al sundance

Film Festival nel 2004, distribuito in italia col discutibilissimo titolo i giochi dei grandi, e magnificamente interpretato da Mark ruffalo, laura dern, Peter Krause e naomi Watts. in verità, l’apparentamento arbitrario che abbiamo operato rende conto di quella che ci sembra una più profonda diversità tra i due testi e il rimanente. Cercarsi una ragazza in America, infatti, è una narrazione lanciata da un “oltre”, come da un tempo postumo, da un territorio nuclearizzato, quello dei giorni di Hank che si rincorrono, mentre lui si ripiega su se stesso, interiorizzando perdite, strappi e meditando speranze. la scrittura di dubus si snoda, con facilità, fra tempi e luoghi diversi, sorretta da un periodare che raramente si concede a evoluzioni ipotattiche, e dialoghi ben congegnati, profondamente credibili, “verosimili”. le vite rappresentate sono storie che si estendono ben oltre i confini della pagina, una volta di più nella narrativa americana, e le storie godono del respiro della vita che, sebbene implicata nelle sue contraddizioni, si riprende dignità e conferisce nuovamente lustro a se stessa.■

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uCiò detto

La facile giunse in svezia solo due anni dopo, grazie ad un corrispondente svedese che lo portò a stoccolma sotto forma di microfilm, nascosto in un tubetto di pillole. bisognerà attendere altri due anni, nel dicembre 1974, per vedere solženicyn sul palco dove avrebbe finalmente ritirato il premio nobel. nel frattempo l’autore di Arcipelago Gulag era stato arrestato, condannato all’esilio ed espulso dall’unione sovietica a causa dei suoi scritti, che avevano rivelato l’orrore dei campi di lavoro correttivi, dove egli stesso era stato recluso per anni.

Aleksandr Solženicyn

di Pierfrancesco Matarazzo pima@fastwebnet.it L’uomo è caratterizzato da una sbalorditiva incomprensione del dolore di un individuo distante. Aleksandr Solženicyn – Discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura (1970).

questa frase fu inizialmente negata, insieme all’intero discorso per il conferimento del premio nobel, alla platea svedese, nonché al mondo intero, poiché solženicyn non andò a stoccolma a ritirare il prestigioso riconoscimento, per timore che il governo sovietico lo privasse della cittadinanza, impedendogli così di rientrare nella sua amata russia. il testo del discorso per il conferimento del nobel

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la teoria a cui la frase fa riferimento nasceva da una riflessione che ha accompagnato solženicyn durante la raccolta delle sue memorie sulla vita nei campi e nei successivi anni di “formale” libertà in unione sovietica. secondo l’autore l’umanità è diventata una, ma tale unità non è stata raggiunta tramite un sistema di mutua comprensione e condivisione delle sue diversità, bensì attraverso le nuove tecnologie (al tempo del discorso la televisione e i media, oggi ancora di più, tramite internet e i social network, basti pensare che gli iscritti a Facebook sono più di 500 milioni, una vera nazione fra le nazioni). questa trasformazione ha comportato che un qualsiasi evento, verificatosi in una qualsiasi parte del mondo, giunga in tempo reale a tutti i suoi abitanti. Ma come vi giunge? con quale scala di valori sarà decodificata e filtrata? sembra di ritornare al cosiddetto paradosso temporale di steiner, il quale analizzando le brutalità commesse nei campi di sterminio nazisti, soffermandosi sulla drammaticamente limpida e asettica determinazione messa in campo dalla macchina da guerra del terzo reich, resta letteralmente impotente di fronte ad un’altra improvvisa constatazione. Per spiegarla non parte dall’olocausto di milioni di persone, ma soltanto da due specifici esseri umani, brutalmente uccisi nel campo di


distanza sterminio di treblinka. steiner ci fa notare che mentre queste due persone qualsiasi venivano messe a morte, la stragrande maggioranza degli altri abitanti sul pianeta, poche miglia più in là, in una fattoria polacca o migliaia di miglia più in là negli usa, stavano dormendo, mangiando, andando al cinema o facevano l’amore o si preoccupavano del dentista. secondo steiner questi due ordini di esperienze simultanee sono talmente diverse che la loro coesistenza è un orribile paradosso temporale, davanti al quale rimaniamo senza spiegazione e a causa del quale tutti diventiamo di fatto colpevoli dell’esistenza di realtà come treblinka, a meno che non si possa ipotizzare l’esistenza di due tempi: uno buono e ristoratore, dove vive l’umanità fuori dai campi, ed uno cattivo e implacabile, dove vive chi ha provato quelle esperienze. questi due tempi paralleli non si dovrebbero mai incontrare, pena la presunta serenità del mondo. solženicyn ci fornisce una spiegazione differente che ha un comune obiettivo: non dover guardare. egli ci dice che il tempo è decisamente lo stesso, gli esseri umani hanno semplicemente diverse scale di valori per misurare lo stesso evento. Prima fra tutte quella per valutare un evento vicino rispetto ad uno molto distante, appartenente magari a realtà con scale di valori diverse dalle nostre, con esse stridenti e per questo allontanate, nascoste, non guardate. Valori diversi dai nostri potrebbero disorientarci, essere per noi troppo penosi. Per questo, per la serenità del nostro mondo, ci rifiutiamo

di guardarne un altro, che vive il nostro stesso tempo, la nostra stessa volontà. tutto ciò che è distante, ci dice solženicyn, lo consideriamo nel complesso perfettamente tollerabile, sebbene possa coinvolgere migliaia, milioni di vittime. l’importante è che non oltrepassi la nostra soglia. tale visione del comportamento umano, tale specializzato meccanismo di etero distruzione a favore della conservazione della specie, razza, religione, lingua, dialetto o scala di valori a cui si sente di appartenere, pervade ancora la nostra attualità, è talmente radicata in noi da diventare invisibile, riuscendo ora anche a superare il paradosso di steiner e l’obbligo di solženicyn a non dover guardare. oggi, grazie alla tecnologia dell’incorporeità, si può anche guardare. la confusione fra reale e virtuale, tanto formalmente temuta, ma mai più desiderata, ci permette anche di guardare, esponendo la nostra soglia al dolore, alla brutalità, a quel male che sdoganato dall’ideale romantico, instillatoci dai migliori prosatori ottocenteschi, diviene metodico, asettico e come diceva simon Weil “scialbo e noioso nella sua inarrestabilità”. assistiamo al suo spettacolo sui nostri monitor super piatti, in alta definizione, che ci permettono quasi di toccare le carneficine che si rincorrono sul nostro pianeta, davanti al nostro sempre più consumato stupore: le migliaia di profughi, il marciume delle case distrutte, la mancanza di supporto sanitario, lo scoppio delle più banali e curabili epidemie, che falcidiano bambini ed anziani in una ritrovata eguaglianza che solo la morte sembra donarci. Mentre le immagini dell’ultima bomba esplosa in iraq si fondono con il lavoro svolto dai missili intelligenti in Palestina, la tv ci avvisa che premendo il bottone rosso possiamo controllare quale sarà il tempo nelle località balneari in cui stiamo per recarci o acquistare finalmente l’agognato attrezzo per eliminare la pancia. Mentre la cina reinventa a suo favore la carta dei diritti umani e lascia bere alla sua popolazione acqua contaminata, scopriamo che potremmo quasi sentirla, toccarla se avessimo un televisore con il giusto numero di megapixel. Mentre lasciamo morire persone nelle nostre strade, avvolte in provvidenziali cartoni, che salvano i nostri occhi imperfetti da un’immagine a bassa definizione, pensiamo al prossimo i-phone da acquistare per iniettarci una nuova dose di barbarie, alzare il livello di sedazione, sopravvivere, ancora, solo noi, solo quelli dal lato giusto dello schermo, solo quelli apparentemente distanti.■

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uLa metà oscura del mondo

Esplosione creativa e attrazione per di Maria Antonietta Pinna • marylibri1@gmail.com l’uomo comune si sveglia in un qualunque giorno, sopra un comune letto, mette il piede destro a terra, poi quello sinistro, si stiracchia e compie i soliti comuni riti quotidiani. si lava, si stira, beve, mangia, mette un calzino diverso dall’altro, poi inforca gli occhiali, rimette a posto i calzini, si infila le scarpe e a modo suo vive... il nostro uomo comune però percepisce qualcosa di diverso mentre si rade guardandosi allo specchio nel tentativo di non tagliarsi la faccia con una lametta da quattro soldi. avverte una sorta di spaesamento, di indefinibile angoscia. a nulla serve muoversi, trasportare il corpo da una parte all’altra del globo, parlare a voce alta con gli altri per paura di non sentirsi, nel desiderio di affermarsi. l’uomo comune è depresso. Prigioniero della propria interiorità, è stanco, sfinito, come svuotato di energie positive. gli altri sono un pianeta lontano. blaterano frasi incomprensibili, pretendono da lui sforzi sovrumani di accettazione e condivisione di luoghi comuni e sempiterne idiozie durante ordinarie, brevi e vuote conversazioni di routine. Parlano ma non esprimono niente. l’uomo comune ama arte e poesia ma è solo come quel di quasimodo, trafitto da un raggio di sole, e si accorge che è sera. la sera è paura di affrontare un viaggio nell’oscurità delle proprie pulsioni. l’oscurità si fa più fitta, insondabile, soffocante. annientato nel baratro del proprio abbattimento, sgretolato come sabbia desertica al sole cocente dell’egoismo altrui, l’uomo comune non sa che fare, ha raggiunto il fondo del fondo. la barba gli è cresciuta spaventosamente. È passato del tempo da quella volta in cui ha visto il

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proprio estraniante riflesso allo specchio. tutto appare come congelato. il tempo diventa una categoria assurdamente inutile, un’invenzione puramente speciosa, costruita ad hoc per orologiai e dei, errata nelle sue conclusioni fondamentali, nella sua premessa maggiore. il fondo solo conta. esso è là, lo attende, sicuro come la morte. il fondo di un mare scuro e tempestoso, di un abisso insostenibile. bisogna decidere il da farsi, dormirci sopra o puntare i piedi, dare una spinta con la punta delle dita e risalire elaborando una inusuale ed insospettata esplosione creativa. una vera e propria deflagrante esperienza. l’uomo comune ha brividi di creatività, non si sente più tanto comune, è più forte adesso, più coraggioso, è diverso. lo è sempre stato, in realtà, ma ha avuto paura di dirlo. affrontare l’oscuro da luce. un’esperienza di arricchimento.


l’oscuro

la maggior parte degli uomini si muove sulla comoda e confortante illusoria patina della superficie dell’acqua. il mondo oscuro che pullula di vita propria non interessa che il depresso creativo. l’acqua è simbolo dell’inconscio. Può avere valenza distruttiva e velenosa o rigenerante e vitale. andare sotto è operazione che richiede cautela. al piombo, metallo del pianeta saturno, l’alchimia attribuisce valore negativo nella depressione tout-court e positivo nella depressione creativa. infatti saturno era il dio dei criminali e dei mutilati, ma anche degli artisti. il depresso è di piombo, come sottolinea Marie-louise von Franz nel suo libro Alchimia. la stessa parola depressione indica che il depresso è schiacciato, premuto, una parte della libido psichica è in basso, precipitata in uno strato profondo che si può raggiungere soltanto mediante la depressione. questa a volte però può essere sintomo prepsicotico e in tal caso è seguita dall’emergere di contenuti creativi talmente forti da rivelarsi distruttivi per la personalità. se quello che viene a galla è troppo violento, l’io rischia di esplodere. la tomba di osiride era di piombo. infatti secondo la leggenda seth uccise osiride imprigionandolo in un sarcofago di piombo. difficile è estrarre il dio dal piombo, portandolo ad una nuova vita e salvando quello che di buono rimane nell’uomo.

l’arte non ha il potere di risanare le ferite ma è figlia di lacerazioni che portano al desiderio insistente di un discorso che perfora l’illogicità delle tenebre. cosa c’è nel buio? tanti uomini e donne se lo sono domandato nei secoli. l’attrazione per il mistero, le scienze occulte, l’inconscio, la psicanalisi, il simbolo, diventa un terreno fertile da esplorare e indagare con occhi diversi, per capire che rapporto abbiamo con il nostro mondo sotterraneo, con lo spessore talvolta fraudolento, talaltra confortante dell’essere. alti e bassi, cime e fondi. la vetta creativa si alimenta con tutto quello che sta sotto la superficie, ma pochi riescono a bucarla e spuntare nel buio per poi riemergere con pirotecniche esplosioni di luce.

nel naufragio generale di collettive empatie, i rapporti si plasmano sulla base di qualità comuni. queste possono perfino far indovinare le reazioni delle persone, sulla base di situazioni valide per tutti. emerge al di sopra di questo la potenza sovrumana del creativo, osiride rinato, ricomposto, ricostruito dalle mani sapienti di iside e nefti. il creativo non è prevedibile, è unico nel suo genere. si solleva dall’abisso della mediocrità attraverso la sua non prevedibile natura, la sua non-ubbidienza. le sue idee sono originali, nuove, egli si sforza ad ogni passo di forare la superficie dell’acqua, di capire per non affogare nelle latebre dell’inconscio. che il mondo lo apprezzi o no, il creativo non può ridurre l’oro della propria naturale e solipsistica intelligenza al magma superficiale collettivo. l’uomo comune che si alza in un mattino di sole qualsiasi, in un qualunque angolo del globo, guarda allo specchio il proprio riflesso, si stira, si lava, si infila un calzino rosso, uno blu, si cuce addosso arte e poesia e ringrazia di cuore le proprie imprevedibili angosce.■

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uGerbido Raccolto

Il tempo e lo spazio delle parole di Alessia Colognesi • alessiacolognesi@libero.it sono le 18.30 di domenica 13 settembre 2010 il Festival di Mantova finisce all’imbrunire di una sera di fine estate in una piazza gremita di persone.

gianrico carofiglio invitato a sorpresa all’ultimo evento di Festivaletteratura ha scelto di dedicare il suo intervento alle parole. l’ultimo appuntamento del Festival parla della materia prima di ogni scrittore che tra le pagine dei libri porta impressa la loro voce nello stile inconfondibile della scrittura. se ne sono dette tante di parole in questo Festival e mentre salis, che fa da moderatore a carofiglio, ripete sul palcoscenico al centro di Piazza santa barbara che le parole non sono altro che strumenti per immaginare il mondo, io ripercorro il mio Festival e mi pare di rivedere tutte le sue parole scorrere come un fiume davanti a me. È un fiume in piena intriso di sentimenti: stupore, delusione, allegria, tristezza e ha il potere della comunicazione di uscire da ogni argine per disegnare l’inaspettato.

le parole dette e quelle scritte rappresentano due essenze del medesimo atto comunicativo, ma la diversa dimensione spaziale e temporale che occupano, determina un’esperienza del messaggio differente per ognuno dei soggetti coinvolti nel processo comunicativo. scrivere ferma le parole nello spazio e nel tempo per descrivere il mondo, mentre parlare imprime leggerezza alle parole che in un istante riempiono lo spazio di significato e poi scompaiono senza possibilità di rettifica. È un po’ come quando ti ritrovi a dover incontrare una persona di cui conosci solamente la voce perché hai sempre sperimentato solamente quella. degli scrittori di Festivaletteratura la maggior parte del pubblico conosce solo le storie, parole scritte per immaginare il mondo e durare nel tempo, immortalate tra le pagine di un libro. ogni libro per il suo lettore ha un volto e un suono talmente distintivo da essersi sedimentato nei suoi ricordi, è così che se ci si materializza davanti l’autore della nostra storia preferita ci può capitare di sperimentare una strana sensazione capace della forza travolgente dello stupore o del vuoto cupo della delusione di un racconto infranto nella realtà. Ho atteso con trepidazione di incontrare zadie smith a teatro. È una prima a tutti gli effetti quella di Mantova, dove la smith presenta il suo ultimo libro, Cambiare idea, un saggio che unisce critica letteraria, cinema e storie di vita di una delle autrici inglesi più conosciute degli ultimi anni. di madre giamaicana e padre britannico, zadie è londinese di nascita, quando arriva sul suo palcoscenico lo illumina con un sorriso, ma alla prima complessa domanda evita di rivolgersi in inglese al suo pubblico e ignorando la presenza dell’interprete che le siede a fianco, parla alla platea l’italiano di un bimbo di cinque anni. «sono molto meglio nei miei libri che dal vero» esordisce e poi mette insieme l’italiano da bimba e l’inglese con cui

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crea frasi più complesse, è una lingua incomprensibile che rende attonita e spaesata la platea. dal vero le parole della smith non possiedono la forza comunicativa dei suoi libri e le storie dei suoi romanzi si infrangono contro la banalità di una lingua povera. il suo amore per la scrittura nasce dalla lettura, un mondo piccolo quello dei libri in cui ama rifugiarsi e che desidera rimanga per pochi. «leggere richiede una capacità di stare soli che la maggior parte di persone non possiede più».

Gianrico Carofiglio

Parla anche della critica, non le piacciono i critici sempre arrabbiati. non ci può essere solamente una cosa che non va in un romanzo, chi critica un libro, non apprezza uno scrittore e il suo stile. e uno scrittore scrive solamente il libro che vorrebbe leggere.

nel silenzio disincantato della platea ammutolita, mi assale un’improvvisa voglia di smettere di sentire. Vorrei solamente rileggere in silenzio le parole dei libri di zadie senza ascoltare più frasi svuotate di senso gettate a vanvera tra le persone.

Venerdì 10 settembre è il giorno del nobel, Vidiadhar surajprasad naipaul. caterina soffici lo intervista a proposito del suo controverso libro La maschera dell’Africa, che viene presentato per la prima volta in italia proprio a Festivaletteratura. criticato all’estero perché definito “tossico, grossolano e repellente” nel rappresentare un’africa irreale e a volte ingannevole, la giornalista chiede all’autore di parlare al pubblico del Festival di ciò che pensa dei giudizi espressi dalla critica nei confronti del suo libro. Forse vorrebbe che lo difendesse, che si schierasse apertamente con le parole del suo romanzo e ne divenisse l’eco. l’autore invece, unico scrittore premio nobel presente a quest’edizione di Festivaletteratura, controbatte con parole indispettite. «non ho niente contro l’africa, esiste solo una cattiva essenza di chi fa recensioni» naipaul non interagisce con la sua moderatrice e annienta la comunicazione con il suo pubblico, pare addirittura che lo infastidisca presentare il suo libro, forse non vorrebbe nemmeno essere qui davanti a tanta gente venuta ad ascoltare dal vivo le sue parole. quando la moglie sale sul palco per cercare di tranquillizzarlo e la giornalista lo incalza dicendogli di parlare di ciò che vuole, per tutta risposta abbandona il suo palcoscenico senza parole.■

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uRacconti dal retrobottega

di Geraldine Meyer geraldine.meyer@virgilio.it È bella la libreria quando, nelle prime giornate di sole primaverile, si tiene la porta aperta. il negozio sembra più grande e gli scaffali giocano con la luce del mattino. Hanno un colore diverso la mattina. anche le copertine dei libri, sul tavolo all'ingresso, giocano con le sfumature di sole che si riflettono dai muri del palazzo di fronte. ed è bella la libreria quando in inverno le giornate si accorciano e il buio fuori trasforma le vetrine in uno schermo. tutto si proietta sul vetro, libri, clienti, luci. un palcoscenico di parole, storie, nevrosi, nervosismi e, qualche volta, umorismo. che cosa ho fatto con queste poche righe? Ho scritto una brevissima storia, una narrazione su momenti qualunque di giornate qualunque in libreria. Ho narrato, non descritto. la libreria, forse per sua stessa natura, forse per un malinteso destino, ben si presta a questo gioco. siccome accoglie in sé milioni di parole, dona rifugio a migliaia di storie, può a sua volta diventare una storia.

Raccontami una storia

Penso spesso che se mi sforzo di avvolgerla in una narrazione c'è una possibilità in più che mi riappropri dell'amore per questo mestiere che, da un tempo in qua, sembra smarrito. Ma gli amori, si sa, spesso fanno dei giri strani. se ne vanno da una strada e a volte tornano da un'altra. l'importante è capire questo e non mettersi ad aspettarli nel punto in cui li si è visti sparire. la narrazione di un mestiere è anche questo. È mettersi in attesa di un senso da un punto di osservazione insolito. quando il mestiere diventa pesante, quando cominciamo a percepirlo solo come fatica allora si può fare lo sforzo di trasformarlo in una storia. i protagonisti sono tanti, di carta e in carne ed ossa. e provare a divertirsi raccontando le cose, per esempio, dal punto di vista di quel libro messo su uno scaffale in alto, in fondo al corridoio. oppure dal punto di vista dello scatolone che viene consegnato e aperto in una mattina di pioggia. e allora ecco i narratori insoliti. sono uno scatolone bello compatto. questa mattina alle sette mi hanno caricato su un carrello insieme ad altri

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scatoloni. i modi non sono stati gentilissimi a dire il vero. Mi è scappato un piccolo "ahi" quando mi hanno gettato sul furgone. Poi una sensazione di pesantezza. È bastato un attimo per capire che sopra di me c'era un altro scatolone. quando ci trasportano inizia un brusio. dapprima sommesso, poi sempre più festoso. stiamo un po' stretti ma va bene. oggi piove e fa un po' freddo per cui stare vicini scalda. ci parliamo l'un l'altro e ci chiediamo cosa portiamo all'interno: storie, studio, sogni, aspettative. c'è sempre qualcuno che fa il bulletto come c'è sempre qualcuno timido, quasi nascosto in fondo, in un angolo. qualcuno è anche stato consegnato alla libreria sbagliata e si è sentito riempire di insulti. come se fosse colpa sua. in genere però arriviamo al punto di consegna giusto. questa mattina piove tanto. Mi fanno scendere dal furgone parcheggiato lontano dalla libreria. Mi bagno e perdo un po' della mia squadrata perfezione. i miei spigoli si ammorbidiscono fino a diventare molli molli. sento che se continuo a bagnarmi potrei anche non tenere più dentro di me il mio prezioso carico. Ho voglia di arrivare al coperto. sento molto la responsabilità di ciò che porto. È materiale prezioso. È bello sapere che per qualcuno il mio arrivo può


equilibrio. il mio punto d'osservazione mi piace parecchio. dall'alto le cose sembrano più piccole di me. Vedo le teste dei librai e dei clienti. Vedo le danze che a volte fanno tra di loro. Veri e propri spettacoli. spesso mi scappa da ridere ad ascoltare alcune conversazioni. altre volte mi prende lo sconforto. quando chiedono di me io mi pettino le pagine e mi faccio bello. una mano mi afferra e mi porta in cassa. qui un aggeggio mi fa una specie di radiografia; mi passa sul codice a barre e fa bip bip. e in un secondo racconta la mia storia al computer. una parte della mia storia. Perché io sono molto di più di ciò che esce da quel suono. Poi mi tuffo in un sacchetto e vado a spasso ondeggiando insieme ad un paio di gambe che vedo di fianco a me. all'arrivo non so mai cosa mi spetta: se sarò aperto, sottolineato, amato, riletto o messo a fare la polvere da qualche parte.

cambiare il corso della giornata. conciato come sono credo che non verrò utilizzato per altri viaggi. Ma è il mio mestiere. sono uno scaffale nero, in basso. quasi a livello pavimento. da dove sono vedo sempre scarpe e caviglie. talvolta cerco di guardare più su ma proprio non ci riesco. sono quasi sempre impolverato e un poco stropicciato. siccome mi si vede poco non sono molto in ordine. eppure se ci sono un motivo ci sarà. o servo solo come sostegno per chi sta sopra di me? no, no, non è così. do pur sempre alloggio a libri i cui autori cominciano per v o per w o per z o per y. dipende. Ma sempre libri sono. capita che mi assopisca in alcuni momenti. Poi, all'improvviso due occhi mi scrutano, una mano si allunga e prende un libro sdraiato su di me. ci salutiamo e io non manco mai di augurargli buona fortuna. qualche volta sono pure dispettoso. se sono di cattivo umore faccio in modo di mimetizzarmi con la copertina di un libro. allora hai voglia a cercare. il povero libraio non trova quel che cerca. io sono un libro posto in alto. Ma proprio in alto. Per prendermi ci vuole una scala e una buona dose di

io invece sono il nastro adesivo che serve a chiudere gli scatoloni. di solito quando è richiesto il mio lavoro è perché c'è un congedo in atto. devo chiudere le scatole in cui vengono messi i libri invenduti. Vedo le loro espressioni tristi. Vorrei dire loro che non ne hanno colpa, che sono semplici vittime di un gioco più grande di loro. Ma il più delle volte preferisco star zitto e tenermi per me tutta una serie di considerazioni. io devo solo srotolarmi e aderire per bene sul cartone. se mi lascio andare e perdo la presa son guai. devo far bene il mio lavoro. come tutti. Passo la maggior parte del mio tempo arrotolato come un serpente addormentato. Poi qualcuno afferra la macchinetta che mi contiene e che viene chiamata pistola. e io, finalmente, mi sgranchisco un po'. devo avere addosso la giusta quantità di colla: non troppa e non troppo poca. a volte per capriccio mi appiccico alle mani del libraio nel disperato tentativo di non chiudere la scatola e di non far andare via i miei amici libri. Ma non ci riesco mai. Ma un giorno mi ribello, comincio a vivere di vita propria e trasformo il libraio in una mummia inoffensiva. ecco. quanti punti vista, quante storie. un po' di leggerezza in un luogo in cui, spesso, si respira aria pesante. se si racconta una storia è possibile sorridere.■

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uProspettiva fantasy

Fantasy italiana

Un incontro con Licia Troisi

di Marcello Marinisi • marcello@marcellomarinisi.com John r. r. tolkien, terry brooks, david eddings, terry goodkind, george Martin, robin Hobb, Joanne rowling. cosa hanno in comune tutti questi autori? salta subito agli occhi una cosa, i più grandi nomi del genere fantasy sono tutti scrittori di lingua inglese. Ma la lingua non è l’unica cosa che questi autori di fama mondiale condividono, essi infatti sono accomunati da un terreno comune che è costituito dall’immaginario collettivo all’interno del quale sono immersi e che è rappresentato dal loro retaggio culturale. esiste un predominio schiacciante che si traduce in una forte egemonia intellettuale che fagocita e soffoca ogni tipo di originalità locale e spezza quel legame che invece dovrebbe essere saldo tra uno scrittore e le sue radici. esiste una strada maestra per gli scrittori italiani di fantasy, esiste una via da percorrere per rendere originali le nostre storie? scrivere fantasy, oggi, significa pescare a piene mani in un immaginario che appartiene alle culture celtiche e vichinghe, mettendo da parte tutta una tradizione letteraria che dovrebbe invece appartenerci. esiste un’alternativa ai miti e alle leggende che pervadono le storie raccontate dai nostri scrittori e che sono proprie di popoli lontani? Parlare di una prospettiva locare in un’epoca caratterizzata da continui processi di globalizzazione ha davvero senso? oppure sarebbe più corretto immaginare una strada che misceli istanze globali e locali, in una prospettiva glo-cale che alimenti la fantasy italiana risollevandola dalla nicchia in cui ancora oggi è reclusa? Ma chi sono gli autori italiani della fantasy? i nomi sono noti e sono molti, alcuni sono da tenere d’occhio, altri sarebbe stato meglio non fossero stati pubblicati (questa è una mia opinione personale). Ma, se si domanda un po’ in giro, il nome che spicca tra gli altri è soltanto uno: licia troisi. quello di licia troisi è uno dei pochi nomi di autori italiani conosciuti anche oltre i confini nazionali e non è poco. le sue Cronache del Mondo Emerso prima, Le guerre

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del Mondo Emerso poi e Le leggende del Mondo Emerso ora, hanno rappresentato e rappresentano tre importanti tappe che hanno permesso di guardare alla fantasy italiana con una rinnovata speranza. sulla scorta del successo della troisi, un gran numero di lettori si è avvicinato al genere, ampliando i propri confini al di là del signore degli anelli. oggi, licia troisi conta milioni di lettori in giro per l’europa e può considerarsi una delle penne nostrane più apprezzate, sebbene non manchino le critiche allo stile da parte dei puristi del genere, sempre pronti a guardare con sospetto best seller come i romanzi del Mondo emerso. Vediamo, dunque, di analizzare alcuni degli elementi che caratterizzano l’opera di licia troisi cercando di individuare quelli che potrebbero essere i marchi che le hanno permesso di raggiungere il grande pubblico e ottenere in questo modo ottimi risultati e grandi soddisfazioni. un’analisi di questo tenore, tuttavia, non mira ad essere esaustiva, ma vuole soltanto fornire uno spunto di riflessione sul genere, nel tentativo di stimolare un dibattito che possa condurre a una maggiore consapevolezza tra gli scrittori italiani di fantasy. Partiamo dal Mondo emerso. come nella migliore


i protagonisti dei romanzi del Mondo emerso sono sempre ragazze adolescenti all’alba delle loro maturità. si tratta di personaggi complessi, alla ricerca di loro stessi e che devono riuscire ad accettare il loro destino vissuto spesso come un’imposizione, qualcosa da cui fuggire. non c’è spazio per il fatalismo fine a se stesso, l’accettazione del proprio compito passa per la scoperta di sé. le protagoniste dei romanzi di licia troisi attraversano mille peripezie, vivono esperienze che mettono alla prova la loro tempra e i loro sentimenti. soltanto dopo avere affrontato queste prove esse sono pronte per lo scontro finale, soltanto allora e non prima.

tradizione della fantasy, licia troisi inizia proprio dalla costruzione di un mondo, un luogo creato ad arte per ospitare le vicende dei protagonisti che si susseguono nelle narrazioni. il Mondo emerso non ha una struttura complessa, anzi, si tratta di una terra con caratteristiche abbastanza comuni, ogni regione ospita un popolo con una cultura e delle tradizioni proprie che lo definisce in relazione agli altri. il Mondo emerso vive di corsi e ricorsi storici, cicli che sembrano ripetersi, periodi di pace tenacemente conquistati e anni di guerra che sembrano portare il mondo verso la distruzione e che soltanto l’intervento di qualcuno dalle capacità poco comuni può scongiurare. Fin qui niente di nuovo. lo schema classico è rispettato senza sbavature. Ma il Mondo emerso e le sue vicende “geopolitiche” non sono che un pretesto, uno sfondo sul quale si dipanano le vicende personali dei protagonisti. ed è proprio nella costruzione dei personaggi che, a mio modesto parere, licia troisi fa la differenza.

un romanzo di formazione insomma, come nella migliore tradizione letteraria italiana, da I promessi sposi in avanti. la protagonista è supportata da aiutanti non banali e in grado di guardare oltre la maschera di durezza che sovente la contraddistingue, osteggiata da antagonisti dalla personalità complessa che agiscono per scopi che vanno al di là della loro mera natura malvagia. ella, la protagonista, deve maturare, lottare, crescere, prima di trovare dentro di sé la forza e soprattutto la convinzione che può portarla verso la soluzione delle vicende. queste sono dunque due delle caratteristiche fondamentali dei lavori della troisi: da una parte, un mondo costruito con sufficiente originalità, che non attinge alle solite razze stereotipate che popolano tanta fantasy contemporanea (orchi, troll ecc.) ma che si ritaglia un, seppur minimo, spazio d’azione in cui potere creare qualcosa di nuovo (penso, per esempio, ai fammin, creature create dal tiranno per servire i suoi scopi ma che anelano la libertà e riescono ad affrancarsi dalla sua morsa); dall’altra parte, personaggi che riescono a prendere per mano il lettore trascinandolo nelle proprie vicende personali intrecciate saldamente con le vicissitudini di un intero mondo che deve essere salvato. a conclusione di questo articolo, ecco una mia intervista alla scrittrice licia troisi, che gentilmente ha accettato di intervenire per arricchire il dibattito:

Licia, cominciamo dalle origini, come nasce la tua passione per la fantasy e quali sono i tuoi principali riferimenti letterari? È una cosa che ho scoperto assieme a mio marito. Prima di conoscerlo, la fantasy mi

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affascinava, ma la praticavo pochissimo: al massimo mi limitavo a qualche cartone animato o videogioco. Poi insieme abbiamo iniziato a leggere i classici: tolkien, la bradley, la rowling. diciamo che sono stati loro ad iniziarmi al genere, ma non credo di avere chiari riferimenti letterari. in linea di massima, le Postille a Il Nome della Rosa, il mio libro preferito, mi hanno insegnato tanto su come si racconta una storia, ma quando ho iniziato a scrivere non avevo in mente alcun riferimento preciso.

Le tue storie Sul Mondo Emerso hanno avuto un successo internazionale che ha pochi paragoni in Italia, quali pensi siano state le tue cifre stilistiche che ti hanno permesso di giungere a tanto successo? Probabilmente contano le protagonisti femminili: non abbondano nella fantasy. Per il resto, non saprei davvero. a giudicare da quel che mi dicono i lettori, quel che piace loro è il fatto che riescono ad entrare nella storia, a sentirsene profondamente coinvolti. Probabilmente sono una buona narratrice, non saprei. di sicuro non sono un gran giudice di me stessa.

Il Mondo Emerso ti è stato a fianco negli ultimi sei anni,

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un lungo cammino pieno di soddisfazioni. C’è qualcosa nelle tue storie che porterai per sempre con te? il Mondo emerso, che per la verità è con me da dieci anni, visto che iniziai a scriverlo intorno al 2001, resterà per sempre con me. ci sono personaggi che letteralmente mi sono sempre al fianco, penso ad esempio a ido, il mio "padre letterario". Ma in generale è tutto il Mondo emerso che rimane uno dei luoghi preferiti della mia immaginazione. questo non significa che non abbia voglia di provare anche a sperimentare altro, ma il Mondo emerso resta sempre il primo amore: non il migliore, magari, ma quello che ti ha insegnato certe cose, e ha posto le basi per una crescita successiva

Dopo le Cronache, le Guerre e le Leggende cos’altro hai in serbo per i tuoi lettori? Il Mondo Emerso tornerà ancora una volta o ti concentrerai su altri progetti? al momento ho in mente qualcosa al di fuori del Mondo emerso. sto raccogliendo le idee, e vorrei provare con qualcosa un po' borderline, che mescoli i generi. in ogni caso, prima c'è il quarto libro della ragazza drago, e sto cercando di concentrarmi su quello.


La fantasy italiana soffre molto il confronto con la letteratura straniera (soprattutto inglese e americana), quali dovrebbero essere secondo te i percorsi attraverso cui dovrebbe svilupparsi questo genere nel nostro Paese? Mah, io non credo che i miti nordici siano così distanti dal nostro sentire. in fin dei conti le mitologie dei vari paesi hanno comunque radici comuni, parlano comunque di eroi, le storie hanno sviluppi che seguono le stesse linee generali... credo che il problema del confronto con la letteratura straniera derivi da due fattori: da un lato, una certa esterofilia del pubblico italiano. Ho conosciuto moltissimi lettori che si presentavano premettendo "io in genere non leggo fantasy italiano perché gli italiani queste cose non le sanno fare". È una convinzione che abbiamo un po' in tutti i campi, molto spesso non motivata. il secondo fattore è la relativa giovinezza della fantasy in italia: il genere è esploso da poco, e quindi non abbiamo una grande tradizione. stiamo ancora maneggiando gli archetipi, ancora non abbiamo avuto modo di sperimentare, così come è accaduto invece all'estero, dove il genere vanta una sua tradizione.

Ormai sei una scrittrice da molti anni, Quali pensi che siano i punti di forza e di debolezza del mondo editoriale italiano? in verità non sono molto addentro. sono uno scrittore

solitario: ogni sera mi siedo alla mia scrivania, racconto le mie storie, e tutto quel che porta il libro sugli scaffali mi interessa relativamente. Per il resto, sono ottimista: certo ci sono dei monopoli, il lettore occasionale tenderà a concentrarsi sui titoli di maggior richiamo, ma a me l'offerta sembra molto vasta, basta girare un po' su internet per trovare molti consigli su buone letture. la qualità peraltro non mi sembra assolutamente così disastrosa come si dice in giro: in genere meno della metà dei libri che leggo in un anno mi deludono. Ma forse sono di bocca buona, per quanto la mia media si attesti sulla quarantina di libri l'anno, per cui non sono esattamente una lettrice debole. il problema piuttosto è che si scrive tantissimo e si legge pochissimo, e il proliferare della editoria a pagamento in questo senso è una vera piaga. ecco, l'editoria a pagamento svilisce la scrittura, fa male al mondo editoriale e anche a chi vi ricorre.

La nostra rivista è letta da molti aspiranti scrittori, quale consiglio daresti a chi si avvicina a questo mestiere? di leggere tantissimo, e di non concentrarsi su un solo genere, ma di mantenersi aperti a qualsiasi esperienza di lettura, senza pregiudizi. Poi direi di cercare il confronto col lettore, che lo si faccia dando il manoscritto in lettura ad un amico o pubblicandolo online, e di spedire alle case editrici. leggono. non rispondono se non sono intenzionate a pubblicare, ma leggono.■

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uSocretinate

Un incontro con Enrico Macioci

di Morgan Palmas • sulromanzo@libero.it Morgan: καλημέρα enrico! Enrico: καλημέρα Morgan!

M: la tua città è stata colpita nel 2009 da un terremoto che ha sconvolto famiglie e abitudini. di recente sei diventato padre, mi chiedo quale possa essere il rapporto fra la gioia di una nascita e la precarietà che la natura ci dona ogni giorno. che cosa ne pensi?

E: il rapido succedersi di questi due eventi – terremoto e figlio – ha modificato la mia idea del tempo, allontanando e sbiadendo ciò che l’ha preceduti; è come fossi nato un’altra volta. un evento lieto dopo uno devastante assume valore simbolico (e pratico) fortissimo. e mi viene in mente il leopardi de La ginestra quando afferma la sostanziale unità fra gli umani come antidoto alla furia in apparenza cieca della natura. dico “in apparenza” perché riflettendo sui diversi destini degli aquilani colpiti dalla catastrofe, non ho potuto sottrarmi a una sensazione di destino individuale inscritto in un più ampio destino collettivo. sensazione che reca in sé un magnifico e inquietante stupore, nonché una luminosa conferma della nostra individualità, la quale non viene meno neppure nelle circostanze più distruttive. non credi? 56

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M: Mi sono chiesto in passato quanto avesse inciso il terremoto sulla vita di benedetto croce, quando perse nel 1883 il padre, la madre e la sorella, e lui, sepolto per ore sotto le macerie, sopravvisse miracolosamente. un taglio profondo nell’intimità di una persona emerge anche nei tuoi racconti pubblicati da terre di Mezzo. tuttavia l’immagine non è la realtà, la fisica descrive le caratteristiche di un fotone, altra cosa è viaggiare alla velocità di un fotone. “che in tali discorsi mentali non accade esperienzia, sanza la quale nulla dà di sé certezza” sosteneva leonardo da Vinci. continuo a pensare da anni che l’intensità di un’esperienza sia l’unica sana modalità di conoscenza, ingannevole?

E: nei miei racconti ho provato a elaborare creativamente ciò che tu chiami a ragione un taglio. taglio emotivo, psichico, spirituale. oltre che, com’è ovvio, materiale. e se dopo un evento simile non si entra nell’ottica di dare almeno in parte un taglio al passato, si rischia di non


sollevarsi mai più. Perché tutto è troppo diverso da prima, tutto è… altro. davvero se non l’avessi vissuto non avrei saputo immaginarlo: il sisma ha sconvolto la mia vita in maniera talmente vasta e profonda e accurata da superare ogni più tetra fantasia (ma anche, debbo aggiungere, risvegliando parti di me sopite se non addirittura insospettate). un trauma del genere s’insinua ovunque, come l’acqua d’un torrente fra le pietre: e se prima o dopo queste pietre non vengono tolte o sorrette, l’acqua le consumerà. Potrebbe essere così?

M: suppongo che sia per l’acqua d’un torrente fra le pietre che sento il bisogno di consegnare alla razionalità un ruolo vitale, non esaustivo, ma vitale. se penso che secondo taluni dio vede ogni cosa ed è amorevole, quale ruolo può possedere la provvidenza in un terremoto? ragioni occulte? ammettiamolo. ammettiamo allora che per quelle ragioni dio sembri un assassino, dato che lui già conosceva. un cortocircuito che non mi è mai stato chiaro e che l’esistenza della fede non può risolvere. e le quantità hanno una loro ragione se si osservano i drammi con distacco. ciò non placa i dolori intimi delle persone, come nel tuo caso, verso i quali il rispetto dovrebbe rappresentare la prima voce; ciononostante se si riflette sulle recenti inondazioni del Pakistan che hanno provocato migliaia di vittime e milioni di affamati non si può che rimanere senza armi. in quale luogo interiore di ognuno di noi possiamo accettare che in tutte le situazioni simili vi sia amore e non soltanto morte e sofferenza?

E: questa è una domanda assolutamente cruciale, anche e proprio nel senso del Mistero della croce. È da un po’ che vado interrogandomi su certi temi, e il terremoto ha acuito la mia ricerca, la mia urgenza di senso. un’ipotesi accettabile – sempre nei limiti umanissimi del mio angusto intelletto – potrebbe essere che dio non “permetta” il Male, ma ne soffra assieme a noi. Mi rendo conto che ciò implica un concetto di dio non più onnipotente, ma il tutto si potrebbe ricollegare alla caduta originaria; un qualche irreparabile disastro ci ha precipitati in un mondo (non il Pianeta terra, ma un vero e proprio ordine di mondo) in cui si svolge una battaglia spaventosa fra bene e Male. ciò detto, mi sono più volte soffermato sul pensiero dei morti e dei sopravvissuti, dopo il sisma; su chi ha perso tutto e chi (anch’io, per certi versi: mi hanno pubblicato un libro!) ha guadagnato qualcosa o addirittura molto o moltissimo; e me ne sono tirato indietro sgomento. un testo che può aiutare, innanzi a tale sgomento, è il diario di etty Hillesum: un autentico e tangibile miracolo. Miracolo?

M: “dio non permetta il Male, ma ne soffra insieme a noi” scrivi. Molto perplesso, se non altro perché considerare un eventuale divinità con emozioni – soffrire – uguali o simili agli umani già mi turba. non ho un buon rapporto con il

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termine “sottomissione”, potrei quindi capire la comune sofferenza con dio. tuttavia la sua perfezione nella giustizia o nell’amore, nella grazia o nella bonarietà stridono contro l’umanità delle sue possibili sofferenze. Mi hanno sempre colpito le seguenti parole di cioran, tratte da “storia e utopia”: “del resto, cristo stesso alimentò l’equivoco: da un lato, predicava un regno interiore, sottratto al tempo; dall’altro, dichiarava ai suoi discepoli che, essendo prossima la salvezza, avrebbero assistito, loro e la generazione presente, alla consumazione di tutte le cose. avendo capito che gli uomini accettavano il martirio per una chimera, ma non per una verità, egli si è adeguato alla loro debolezza”. non è che dopo duemila anni vi siano ancora troppe chimere?

E: non sono un teologo e neppure un credente, soltanto un uomo che s’interroga. Mi rendo conto dunque d’avventurarmi in osservazioni “scandalose”. Però: gesù lo concepisco come divinità (se non lo è, se è “soltanto” uomo, tutto il discorso cristiano crolla trasformandosi appunto in utopia), e gesù ha molto, molto sofferto. Ha pianto, ha implorato e ha persino dubitato del Padre – in qualche oscura maniera da gesù medesimo inscindibile. il fatto è che quando sento dire che dio ha “permesso” che suo Figlio fosse sacrificato – o si sacrificasse – per noi umani non riesco a trattenere un moto di ribellione (sono padre da un anno): quale orribile genitore può “permettere” una cosa del genere? non potrei mai affidarmi a un dio di tal fatta, né ammirarne l’infinitezza. Mi sembrerebbe un’infinitezza finita. a cioran poi e alla sua affilata lucidità risponderebbe con altrettanta pregnanza dostoevskij, a mio avviso il più abissale romanziere di sempre: “Piuttosto con cristo che con la Verità”. e se la Verità fosse un’utopia?

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se avessimo dimenticato d’essere ontologicamente utopici?

M: Purtroppo devo ammettere d’essere uno scettico di natura, nel bene vedo il male, nel male vedo il bene, nella storia vedo fatti ma anche bugie. tendo insomma a cercare l’angolo nascosto. Per questo ho serie difficoltà con gesù e con la sua storia, io non l’ho mai conosciuto direttamente; vi sono duemila anni fra noi e lui, dov’è la verità? Piuttosto con cristo che con la Verità? e chi era davvero cristo? come mai tanti altri testi dell’epoca ne parlano pochissimo o non ne parlano affatto? Ma qui si divagherebbe. in un celebre romanzo di un altro russo, solženicyn, si legge: “quale posto amare sulla terra? quello dove sei venuto al mondo, piangendo, senza capire nulla, neppure di ciò che percepivano i tuoi occhi e le tue orecchie, oppure quello dove ti hanno detto per la prima volta: bene, vada! senza scorta! Vada da solo!”. ontologicamente esistenzialisti anzitutto, siamo determinati da ciò che scegliamo senza mai raggiungere un epilogo; nel chiederci chi siamo dobbiamo – credo – soffermarci nella riflessione senza finire nei turbamenti sul suicidio di camusiana memoria. ecco allora che forse l’utopia prende forza, a livelli interiori. non pensi?

E: la frase di dostoevskij su cristo è un azzardo che non mi sento di sottoscrivere (la citavo contrapposta all’altrettanto tetragono cioran), ma io, come te, sono un bel relativista. anch’io sono ossessionato dall’angolo, come lo chiami in maniera suggestiva. credo che la risposta che ontologicamente siamo portati a cercare non consista in una formula; credo piuttosto che s’avvicini al giusto nikolaj


berdiaev quando afferma: “la verità non è un dato obiettivo: è una conquista creatrice, una scoperta dello spirito creatore, e non una conoscenza riflessa di un oggetto, dell’esistenza obiettivata. la verità non si confronta con una realtà predefinita, d’origine esterna; un tale confronto è impossibile: essa è la trasfigurazione creatrice di questa stessa realtà”. in altri termini, il concetto di creatività mi pare centrale per tentare d’avvicinarsi in qualche modo al mistero umano; noi siamo – sembriamo – infinitamente creativi, e questo è un oltraggio alla nostra mortalità, come quella lo è rispetto alla nostra creatività. Forse in tale dinamica e nel coraggio d’affrontarla e accettarla si gioca la nostra sostanza/sussistenza; o sono troppo ottimista?

M: essere infinitamente creativi langue per la nostra mancanza di accettare l’incertezza, perseguiamo manovre speranzose di attracco, vorremmo sempre a pochi metri il molo, illudendoci. ecco perché sembra e non è uno stato di infinita creatività. si chiede certezza nelle risposte, di qualsiasi tipo, dalla certezza di un posto di lavoro alla certezza della longevità dei nostri cari, dalla certezza dell’esistenza di una forza divina alla certezza d’essere in grado di gestire gli imprevisti. bramiamo certezza non capendo che essa vitupera, sotto le spoglie dell’incertezza, l’intera nostra esistenza. sembrerà un azzardo, ma non è che un terremoto interiore sia l’unica sana via per abituarsi alla precarietà dei punti fermi? non è che navigare al largo da soli sia la vera salvezza?

E: non è un azzardo la tua domanda, anzi. il terremoto ha esattamente e crudelmente messo in luce la caducità della nostra condizione, l’abisso che di continuo rasentiamo, e le numerose futilità tramite cui tentiamo giorno dopo giorno d’ignorare, distraendoci, l’esistenza di quell’abisso. scrive rimbaud (un autore a me carissimo) nella Saison: “cerco la libertà nella salvezza. come trovarla?”. e in fondo questa è una domanda che tutti, a livello più o meno conscio, ci poniamo. Perchè troppo spesso abbiamo subordinato la salvezza a vincoli, sovrastrutture, schemi, obblighi, addirittura sacrifici; e invece la nostra salvezza – qualunque cosa con essa intendiamo – dovrebbe potersi realizzare in un ambito d’assoluta libertà. il problema è semmai quello della nostra limitatezza: come possiamo aspirare a una libertà infinita se siamo finiti? Ma poi siamo davvero finiti, o la nostra è soltanto una limitatezza sensoriale? il fatto stesso che io e te ce ne stiamo qui a discutere di certe cose non dimostra forse, in un certo senso, la nostra infinità?

M: di fronte alle tue ultime domande zoppico. i legami fra libertà infinita e la nostra finità, quelli fra diversi tipi di

Fëdor Michajlovič Dostoevskij

limitatezza, il senso dell’infinità nella comunicazione umana. Hai presente quando, ancora studenti nelle scuole superiori, lo scafato di turno esclamava: «basta con queste seghe mentali, piantatela!». l’ironia della sorte vuole che nonostante siano trascorsi molti anni continuo, forse per nostalgia di me stesso, che sento vivo e lontano al medesimo tempo, a naufragare nelle solite seghe mentali. non ho compiuto un solo passo in avanti, semmai mi ritrovo – mentalmente – con attorno a me una valanga di ulteriori domande senza risposta certa. È cambiato però il modo di gestire le domande, oltre alla quantità di tempo a disposizione. una gestione più saggia, meno angosciante, e forse proprio questo rappresenta un passo avanti, di natura emozionale, più che di conoscenza. non è che la risposta alle grandi questioni della vita sia una questione di emozioni?

E: certamente le emozioni, in un tempo sempre più dominato da logiche economiche e produttivistiche, costituiscono una risorsa interiore formidabile. in fondo, e senza alcuna retorica credo, la caratteristica più importante della letteratura d’un certo livello è proprio quella d’attivare le emozioni più profonde e più riposte, procurandoci un allargamento di coscienza e ampliando il nostro respiro mentale. Persino le opere che c’infliggono le più grandi sofferenze, come Re Lear o I demoni, a mio avviso ci ricompensano ampiamente col risvegliare o addirittura svelare per la prima volta a noi stessi l’interezza e la complessità della nostra umanità, la stranezza addirittura mostruosa del nostro stare al mondo, del nostro esserci. come tu dici, poi, col passare del tempo le domande anziché diminuire aumentano. Prendiamo allora il tutto con

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lo spirito d’ulisse – non a caso uno dei più grandi e amati personaggi letterari d’ogni tempo – e proviamo a pensare che forse l’importante non è “la” risposta, ma l’andare avanti; non potremmo anzi azzardarci a dire che l’andare avanti è già di per sé una risposta, una grande risposta?

M: stai sfondando una porta aperta con me, giacché sono succube da anni della lezione di r.W. emerson che si può leggere in “teologia e natura” (ediz. Marietti), precisamente nel capitolo Fiducia in se stessi: “la virtù ricercata più di tutte è il conformismo. la fiducia in se stessi è il suo opposto. il conformismo non ama le realtà e i creatori, ma i nomi e le tradizioni. chiunque vuole essere un uomo, deve essere un non conformista. colui che vuole raccogliere palme immortali non deve essere ostacolato dal nome del bene, ma egli stesso deve esplorare se questo è bene”. Per me la riposta giace nell’esplorazione, nell’aprirsi varchi interiori di consapevolezza, senza seguire i sentieri battuti da altri, ma allontanandosi dal gregge. non certo per distinguersi, bensì per scoprirsi, emozionandosi. Forse è azzardato ritenere la natura, anche nella sua imprevedibilità, una compagna di viaggio insostituibile per esplorare se stessi?

E: nei miei scritti, sia in poesia che in prosa, la natura è molto presente. e pur rispettandone la formidabile grandezza, non riesco ad assumere la posizione disperata di leopardi riguardo la faccenda. Mi sembra che la natura possa quanto meno indicarci direzioni mistiche, o comunque extra-razionali; le quali dimensioni sono presenti in maniera innegabile dentro di noi – al di là persino d’un’eventuale fede, o mancanza di essa. lo stesso

pensiero di emerson è per certi versi una sorta di religione laica. io credo che oggi ci sia bisogno d’un laicismo illuminato, se m’è permesso esprimermi così; di sicuro un evento come il terremoto – imprevedibile per eccellenza – spinge e quasi obbliga a una ricerca di senso; e la ricerca di senso può benissimo cominciare (anzi forse deve cominciare) dall’osservazione di ciò che ci circonda da un punto di vista contemporaneamente spaziale e temporale. Poi un altro verbo da te usato che ritengo decisivo è “emozionarsi”. Finché ci emozioniamo siamo umani, e finché siamo umani siamo aperti al mistero. e quel mistero che ci emoziona, non siamo proprio noi quel mistero?

M: δε φτάνει (ci vuole altro…). E: άσε την πόρτα ανοιχτή (lascia la porta aperta!).■

Enrico Macioci è nato all’aquila, dove vive, il 27 maggio del 1975. È laureato in giurisprudenza e in lettere Moderne, e insegna italiano e storia nelle scuole superiori. Pur coltivando la poesia, l’attività cui dedica le maggiori energie è la narrativa; nel marzo del 2010 ha pubblicato con terre di Mezzo la raccolta di racconti terremoto; sue prose sono comparse o compariranno in antologie e riviste, sia cartacee che on-line; alcuni suoi brani figurano sui siti letterari di nazione indiana e Vibrisse, bollettino.

Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890, Van Gogh Museum.

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Quanto più siamo infelici, tanto più profondamente sentiamo l’infelicità degli altri; il sentimento non si frantuma, ma si concentra. Fëdor Dostoevskij

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