Sul Romanzo - Anno I n. 5 - Dicembre 2010

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uSommario

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L’editoriale

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Prospettiva fantasy

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10 12 14 18 22 26 30 34 42

di Morgan Palmas

Identità della fantasy italiana. Un incontro con Manuela Raffa di Marcello Marinisi

Gentili riscontri

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I (rin)tracciati

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Identità e case editrici di Alberto Stigliano Alcune trascurabili esistenze: I superflui di Dante Arfelli di Alessandro Puglisi

Vita standard di uno scribacchino provvisorio

Ghostwriting: un romanzo per Flavia Vento Parte I di Giovanni Ragonesi

French connection

Identité nationale: Liberté, Egalité, Fraternité di Angelica Gherardi

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Racconti dal retrobottega

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Cinematura

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Librerie e identità di Geraldine Meyer

L’identità personale, ovvero le equivalenze e le diversità in noi di Claudia Verardi

I libri che ti cambiano la vita

Le vostre zone erronee di Wayne W. Dyer di Marta Traverso

Pensiero antico e identità europea

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Il mestiere dell’editore Sellerio e identità di Deborah Pirrera

L’angolo delle interviste

Un incontro con Filippo Kalomenìdis di Morgan Palmas

La metà oscura del mondo

Identità e spersonalizzazione stregonesca di Maria Antonietta Pinna

Meridione d’inchiostro

Livio Romano, le identità e la crisi generazionale di Giovanni Turi

Esordire

Sangue di cane di Veronica Tomassini di Sara Gamberini

Cantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano. Il senso del nonsense (terza parte) di Annalisa Castronovo

Fumettando

Il Regno oscuro o dell'identità minacciata di Alberto Carollo

Mamma, mi leggi?

Un’identità della lettura di Stefano Verziaggi

Gerbido raccolto

Identità in un diario di viaggio di Alessia Colognesi

Socretinate

Un incontro con Giorgia Lepore di Morgan Palmas

Identità culturale e senso della morte di Adriana Pedicini

Ciò detto

Nell’identità dello scrittore di Pierfrancesco Matarazzo

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uL’editoriale

di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it si conclude il primo anno solare della webzine, un’esperienza che ha aiutato noi ad allargare la visuale e speriamo sia stato lo stesso anche per voi. dal prossimo anno vi saranno novità, anticipate in parte subito: un unico tema declinato in numerose vesti. ci siamo interrogati sul concetto di identità. esistono caratteristiche che individuano una distinzione fra “diversi”? o siamo oramai invasi dalla società liquida di bauman? non sono problemi soltanto contemporanei, se si pensa al Sofista di Platone o a leibniz o a Frege. con e nella letteratura si aprono scenari liberati e immersi nell’identità, tentativi di risposta i quali desiderano e pretendono di reagire all’incertezza dell’eccesso del moderno, veloce, spiazzante, confuso. Fintanto che si pensa che il gridio pascoliano diventi sempre più fioco allora ci si arena nella spiaggia d’inverno, spogliata d’avorio e d’oro avrebbe sentenziato qualcuno; no, non così, non così le ombre della paura saranno impedite, un tentativo di spingere il limite della rassegnazione più avanti, lontano dai nostri occhi curiosi, deve essere compiuto, grazie alla letteratura. una reazione all’incertezza, ripeto. non è un tema – l’identità – vivo soltanto in italia, leggete l’articolo di angelica gherardi, e nel mondo dell’editoria muta nel tempo con conseguenze a volte impreviste, come spiega alberto stigliano. e quanto fosse simile e differente il concetto di identità nei tempi antichi lo descrive adriana Pedicini. la letteratura può sottendere un’alterazione di attraversamento nell’identità personale? esiste l’identità personale? o piuttosto le impressioni scorrono, mutano, raccogliendo infiniti appigli in cui perdersi ancora, e ancora, indebolendo i confini precedenti, formando identificazioni deboli? certo se eliot non avesse torto, i nostri atti agiscono su di noi così come noi agiamo su di essi, allora ben vengano gli stimoli, perché, con questa nobile compensazione non si esaurisce il discorso, il convincimento diventa una condizione necessariamente temporanea, a sua volta poi principio dal quale creare altri convincimenti, piegando il precedente in un organismo forse più ramificato e ampio: la ricerca è importante, la spietata e ostinata sicurezza che soltanto cercando si disconoscono le facili identità rigide, quelle che generano mostri e fantasmi.

buona lettura, scriveteci a webzine@sulromanzo.it e vi auguriamo serene festività.

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Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura letteraria Anno I • n. 5 • dicembre 2010 Progetto editoriale: Morgan Palmas art directors: Marcello Marinisi e annalisa castronovo iMPaginazione: Marcello Marinisi (comunicazione@marcellomarinisi.com) Hanno collaborato a questo nuMero: alberto carollo • annalisa castronovo • alessia colognesi • sara gamberini • angelica gherardi • Marcello Marinisi • Pierfrancesco Matarazzo • geraldine Meyer • Morgan Palmas • adriana Pedicini • Maria antonietta Pinna • deborah Pirrera • alessandro Puglisi • giovanni ragonesi • alberto stigliano • Marta traverso • giovanni turi • claudia Verardi • stefano Verziaggi. si ringraziano: danilo giovanelli • Filippo Kalomenìdis • giorgia lepore • Manuela raffa • livio romano. Per inForMazioni: webzine@sulromanzo.it Web: http://sulromanzo.it Foto e iMMagini: davidemaggio.it • Flickr • lecceprima.it • stock.xchng • Wikimedia commons. citazioni: Wikiquote note legali: “sul romanzo - rivista elettronica di informazione e cultura letteraria” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e gli aggiornamenti dei contenuti avvengono senza nessuna periodicità. non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62 del 2001. gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza creative commons attribuzione-non commercialecondividi allo stesso modo 2.5 italia. Per maggiori informazioni: http://creativecommons.org/licenses/by-ncsa/2.5/it/


uLa vignetta di Danilo Giovanelli


uProspettiva fantasy

Identità della fantasy italiana Un incontro con Manuela Raffa di Marcello Marinisi - marcello@marcellomarinisi.com grande mare di questo genere che annovera tra i suoi autori grandi penne che rappresentano un pezzo importante della storia della letteratura e giovani autori che si affacciano a volte con timidezza, altre volte con l'irruenza della gioventù nel panorama letterario fantastico. Manuela raffa, autrice de Il Mondo senza nome. La maschera (2009) e de Il Mondo senza Nome. I gemelli (2010), entrambi editi da runde taarn edizioni, ha deciso di partecipare a questa discussione.

Mar: ultimamente ho fatto una sorta di accordo con me stesso, il prossimo anno acquisterò solamente romanzi di autori italiani, forse è un azzardo o forse non avrei potuto prendere decisione migliore, lo scoprirò soltanto leggendo. alcuni sostengono che l'eccessiva esterofilia risieda sia negli autori, ma soprattutto nei lettori di fantasy, quasi come se la fantasy italiana fosse di serie b. tu che ne pensi?

Man: sicuramente noi italiani, qualsiasi sia la tipologia di letteratura che ci attiri, siamo portati a leggere romanzi di autori stranieri. se entriamo in una libreria, quando ci guardiamo attorno, sui dorsi dei libri i cognomi attestano una presenza massiccia di volumi tradotti.

Simone Galimberti (pittore) e Manuela Raffa

nello scorso numero abbiamo iniziato quello che spero possa essere un lungo percorso per cercare di definire alcuni di quelli che potrebbero essere considerati gli aspetti fondamentali della fantasy italiana, attraverso un dialogo aperto con gli autori italiani del genere. la fantasy, in italia, sta attraversando forse uno dei periodi di maggiore effervescenza creativa, case editrici grandi e piccole si avventurano, spesso senza bussola né sestante, nel

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la risposta non credo sia solo nei gusti dei lettori, ma anche nell’impostazione data storicamente dalle case editrici alle loro linee editoriali. siamo sicuramente figli della scelta di internazionalizzazione delle pubblicazioni, operata in passato per far uscire l’italia nei primi decenni del ‘900 dal provincialismo. Forse oggi vediamo il risultato un po’ distorto e portato all’eccesso di quella scelta. ci sono delle logiche economiche in tutto questo. indirizzato il gusto in una direzione, perché rischiare con autori che probabilmente non avranno la stessa forza di attrazione? Per quanto riguarda il genere fantasy, il fenomeno sembra accentuarsi. i pochi scaffali dedicati, sono pieni per il 90% di autori stranieri. in italia esiste una piccola nicchia di lettori di libri fantasy. gli altri conoscono il signore degli anelli grazie ai film, ma sono convinta che se andassimo indietro nel tempo, prima dell’uscita della trilogia al cinema, non riceveremmo le stesse risposte.


Mi capita continuamente. durante le presentazioni, mi dicono: «non ho mai letto un libro fantasy. conosco solo Il Signore degli Anelli». e il perché mi sembra chiaro. in italia, purtroppo, il fantasy è considerato di serie b, quando è considerato. Mi è capitato di navigare in siti che, nell’elenco dei generi, non lo annoverassero neppure. credo che questo sia estremamente significativo.

Mar: Voglio soffermarmi sulla tua affermazione riguardo alla tendenza esterofila di editori e lettori e alla spiegazione che ti sei data. Forse siamo di fronte a un problema ancora più articolato di quanto ci si poteva attendere in prima istanza e la difficoltà di definire un'identità della fantasy italiana potrebbe passare attraverso una tendenza di fondo che sta conducendo verso una costante perdita dell'identità nazionale, in questo caso, la faccenda si espanderebbe a dismisura toccando sponde che, forse, esulano dalla nostra conversazione. a ogni modo, mi pare che in italia ci sia una grande domanda di fantasy, basta guardare all’universo dei fan che si è generato intorno ai romanzi di licia troisi (nostra ospite nello scorso numero, nda). tu hai parlato di una nicchia, ma è davvero così? insomma i lettori non ci sono, oppure sono le case editrici che non riescono a soddisfarne le esigenze, proponendo sempre opere dello stesso tenore, con scarso valore aggiunto? Mi pare di potere affermare che da una parte i lettori sono diventati via via più smaliziati, esperti, mentre dall'altra il mercato editoriale è rimasto un po' fermo, fatta salva una generazione di autori che ha trovato “rifugio” in piccole-medie case editrici che hanno accettato, più o meno consapevolmente, una scommessa importante. oggi più che mai mi sembra arrivato il momento di riflettere e comprendere quali siano le prospettive, quale l'identità della fantasy italiana.

Man: credo che ci sia una compresenza di fattori. la nicchia esiste, ma si sta indubbiamente allargando, soprattutto negli ultimi anni. il mercato editoriale di sicuro non sta reggendo il passo con i gusti dei lettori e non sta nemmeno scommettendo in modo incisivo sul fantasy italiano. c'è qualche tentativo, qua e là, che viene comunque sommerso dai nomi stranieri. se facciamo un esercizio e andiamo a vedere i siti di due case editrici consistenti nel genere, come l'armenia e la Fanucci, il risultato non lascia dubbi. nel catalogo armenia i nomi italiani praticamente non ci sono, in quello della Fanucci va meglio, ma è un rapporto di 2:10. e poi, come giustamente ricordavi prima, ci sono i “rifugi”. le piccole-medie case editrici, come la runde taarn edizioni, che scommettono in modo preponderante sugli autori italiani, diversificandosi nel panorama generale.

Mar: Ma veniamo al nocciolo della questione. stiamo discutendo di prospettive, sì. ci sono quelle editoriali (che meriterebbero un capitolo a parte, a giudicare dalla vastità dell'argomento e tenendo conto di tutte le peculiarità della realtà italiana) e poi ci sono prospettive che sono prettamente di genere, evolutive o conservative. il rapporto stretto tra l'italia e l'estero è molto evidente anche negli archetipi utilizzati all'interno dei romanzi fantasy che sembrano essere fortemente contaminati dalla cultura norrena e celtica, piuttosto che – come ci si potrebbe aspettare – dai miti greci e latini, più vicini al nostro retaggio storico. Forse si può argomentare che, in fondo, tutti i miti hanno una base comune, però questa potrebbe essere una banalizzazione di qualcosa che dal punto di vista culturale ha radici ben più profonde e radicate in tradizioni millenarie che andrebbero comprese più a fondo.

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Manuela Raffa

inoltre, non si può certo pensare che la fantasy non abbia subito cambiamenti nel corso della sua, seppur breve, storia; Il Signore degli Anelli è qualcosa di molto distante, per tematiche, personaggi, stile ecc. da Le cronache del ghiaccio e del fuoco. credo che, anche alla luce di questo, sia necessario andare oltre e comprendere meglio quali siano – se esistono – i tratti più significativi della fantasy italiana. tu cosa ne pensi? quali sono i tratti che più segnano l'identità del genere in italia? lo chiedo sia alla scrittrice che alla lettrice.

Man: una domanda ben difficile. in teoria, ogni scrittore, se si guardasse allo specchio dell'io profondo, riconoscerebbe nelle sfaccettature che gli vengono proposte anche la sua identità culturale, che andrà a rispecchiarsi anche in quello che scrive. Parlando del genere fantasy, ci rendiamo conto già in prima battuta che da quando abbiamo iniziato a trattare l'argomento, stiamo usando un anglismo. e come abbiamo specificato prima, molti libri fantasy che popolano gli scaffali delle librerie (e di conseguenza, anche quelle dell'accanito lettore) sono di autori stranieri. non voglio dare nemmeno definizioni assolute, perché credo che ogni autore abbia delle proprie peculiarità. Però strizzerei l'occhio a calvino.

Mar: a questo punto una domanda è d'obbligo, vista la piega presa da questa nostra conversazione. i tuoi libri presentano un universo fantasy abbastanza singolare, popolato da mostri che non sono altro che aberrazioni create dalla magia e con un tocco personale molto marcato – almeno a mia avviso. questo tuo universo dove affonda le sue radici? quali sono gli autori che con maggiore incisività hanno contribuito alla genesi della tua opera e, se vuoi, alla tua formazione letteraria?

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Man: Mi chiedi di svelare qualche segreto. d’accordo, si può fare. in realtà, i miei gusti da lettrice spaziano in vari generi e il fantasy ha un posto importante, ma direi non assoluto. l'autore che sicuramente ha stimolato maggiormente la mia formazione letteraria dal punto di vista del fantastico è stephen King. nel Mondo senza Nome c’è un omaggio alle sue opere. lui parla spesso dell’uomo nero («l’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì» da L'ultimo cavaliere di s. King), in più libri è il personaggio negativo per eccellenza. a un certo punto della "Maschera", la popolazione comincia a definire "uomini neri" coloro che seguono il mago dosemberg, per il loro modo di vestire e per la loro pericolosità. tolkien sicuramente ha influito molto nel mio immaginario, anche per contrasto. Il Mondo senza Nome è popolato da donne che si rendono protagoniste della scena. inoltre, sono stata condizionata anche dai gdr. Final fantasy, in assoluto, è il mio preferito. i mostri che compaiono nella mia saga possono ricordare le simpatiche bestiole che si incontrano quando si cammina negli scenari di questi giochi. i miei preferiti sono stati quelli con protagonisti umani. tornando ai libri, calvino, che ho già citato prima, mi ha sempre fatta sognare, nel suo modo tutto particolare di raccontare le storie. e se ci puoi credere, dumas. con i suoi personaggi sfrontati, i suoi cavalieri e i suoi duelli.

questo incontro con Manuela raffa porta con sé molti spunti interessanti che non mancheremo di trattare nei prossimi numeri, dove spero si possano susseguire i contributi di quanti, come Manuela, vogliono confrontarsi su un tema tanto interessante e diffusamente dibattuto.■

Manuela raffa nasce nel 1979 a Milano, dove attualmente vive. laureata in scienze dell'educazione è impiegata presso un'importante agenzia di servizi Milanese. la maschera e i gemelli, editi da runde taarn edizioni nel 2009 e nel 2010, appartengono alla saga del Mondo senza nome. il terzo capitolo vedrà la luce nel 2011.


La fantasia non fa castelli in aria, ma trasforma le baracche in castelli in aria. Karl Kraus

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uGentili

Identità

di Alberto Stigliano - albestigli@gmail.com nel 1949 luigi rusca diede al commendator angelo rizzoli l’idea della bur − biblioteca universale rizzoli −, una collana di classici che avesse poche ma precise caratteristiche. in primo luogo doveva essere, secondo le parole dello stesso rusca, popolare, ossia rivolta a un pubblico con un livello di scolarizzazione basso o medio. Per essere popolare doveva necessariamente essere economica, ed ecco spiegati un catalogo di centinaia di titoli rigorosamente fuori diritti (quindi a costo zero) e la grafica molto spartana, che doveva essere riconoscibile ma senza fronzoli. quanto a universale, il programma della collana (messo nero su bianco!) recitava: «essa non mira alla pubblicazione di “scoperte” letterarie […] od opere dimenticate di autori che godettero celebrità passeggere: intende, invece, offrire a tutti l’opportunità di possedere, accanto ai testi principali delle letterature di tutti i tempi, scelti libri di amena lettura nonché opere di cultura che uniscano a quelli scientifici anche notevoli pregi letterari». nacquero così i famosi “grigi”, i piccoli tascabili dalla copertina “vecchia perché non invecchiasse e sporca perché non si sporcasse” − come considerò il critico domenico Porzio − sui quali si sono formati tante generazioni di studenti a partire dagli anni cinquanta. la bur del primo corso − che comunemente si individua tra 1949 e 1972 − era un progetto tanto solido quanto ambizioso. un occhio e mezzo era rivolto ai conti e al profitto ma la metà restante guardava a un intento civile:

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fornire all’italia della ricostruzione una base culturale umanistica, incentrata sui valori del bello. con le loro scelte editoriali, luigi rusca e Paolo lecaldano, rispettivamente mente e direttore operativo della collana, si assumevano quasi la pretesa di individuare un canone letterario da condividere a livello nazionale e dal quale non si poteva più prescindere. nel 2009 la bur ha compiuto cinquant’anni, e mi pare che il suo percorso sia illuminante per comprendere alcuni mutamenti editoriali avvenuti in questi decenni e porre alcuni interrogativi. Prima di tutto, dal 1972 in avanti, ha cessato di essere una collana. si è via via espansa in seno alla rizzoli fino a diventare una casa editrice nella casa editrice. oggi sotto il marchio bur figurano una decina di collane diverse, molte di recente creazione, tutte caratterizzate da un progetto grafico più o meno pop. accanto ai classici e alle cosiddette “ricadute” in tascabile di molti libri rizzoli, negli anni si è affiancata una selezione di titoli originali che avrebbe mandato a monte i conti del vecchio cumenda nel giro di pochi mesi. la proposta spazia dall’attualità politica al giornalismo d’inchiesta, passa per i libri che raccolgono gli sketch dei comici e per i fumetti, arriva ai sempre più diffusi cofanetti “libro + dvd”, agli instant book e oltre. È come se il blocco grigio sporco, “granitico” delle origini, si fosse liquefatto in una modernità fluida, colorata, sgusciante. difficile da incasellare, da ricondurre a una forma.


riscontri

e case editrici

e allora cosa vuol dire oggi, per un editore generalista come rizzoli o come Mondadori, parlare di identità? cosa vuol dire fare i conti con i tesori e gli scheletri dei propri armadi, gestire un patrimonio che pesa, che chiede di essere rinnovato ma non svilito? ancora: trasformandosi in editrice, la bur si è tolta il peso di dover essere una collana. Ha guadagnato spazio, spazio per poter essere più cose, per ospitare senza troppi vincoli di sorta gli Interismi di severgnini accanto a Plauto, le inchieste di Milena gabanelli insieme ai fumetti di Will eisner e alle Operette Morali. in collane diverse, chiaro. insomma la bur può fare senza l’assillo di dover essere. e allora mi chiedo: ha ancora senso pensare ai libri come alle parole di un editore e alle collane come ai suoi pensieri? Viene il dubbio che si tratti di piccole romanticherie, e che quel rapporto di fiducia e complicità che induceva il lettore a comprare quasi a scatola chiusa tutte le uscite di una collana si sia ormai definitivamente interrotto. Prevale la schizofrenia.

Ma poi siamo così sicuri che il grande editore generalista di oggi voglia affermare una propria identità? temo, piuttosto, che preferisca perdersi in un “grande zèntro”, come invitava il Pierferdi casini di neri Marcorè qualche anno fa, adagiarsi sui suoi simili, appiattirsi come raiuno su canale 5, come il centrosinistra sul centrodestra. compiere una scelta di non-responsabilità. Forse il tempo degli “illuminati” non è definitivamente tramontato, resiste in piccole isole più o meno felici che andrebbero visitate in un'altra riflessione. sulla terraferma, intanto, i figli festeggiano la morte dei padri senza molta voglia di prenderne il posto, preferendo l’ammiccante adagio del “siamo come ci volete”. Prepariamoci ai capolavori che verranno, a un’invasione di pop star della penna. con buona pace dell’identità, che forse c’è ancora, ma meglio non vederla.■

Fateci caso: le poche collane che siamo disposti a seguire interamente − o quasi − sono quelle proposte dai quotidiani. Perché a modo loro offrono un piccolo canone di “classici”, la selezione di una selezione, e in più le uscite sono limitate da un piano dell’opera circoscritto nel tempo e nei volumi. come a dire: va bene la fiducia purché non si protragga troppo nel tempo.

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uI (rin)tracciati

Alcune trascurabili esistenze: I superflui di Dante Arfelli di Alessandro Puglisi - alex.puglisi@inwind.it

«si era fissato in quelle parole spiccanti lucide e nere sullo smalto di due targhette inchiodate nello schienale di fronte [...]»: questo l'incipit de I superflui, affresco di un'italia senza speranza e terribilmente attuale, in tempi grami come questi. Dante Arfelli

dante arfelli, il suo autore, nato nel 1921 e morto nel 1995, è uno di quei “fantasmi letterari”, di quegli artisti caduti, purtroppo a torto, nell'oblio e ricoperti da una pesante coltre di silenzio che ne ha oscurato l'opera, laddove invece altri nomi, forse anche meno significativi, si ritrovano, con estenuante puntualità, all'interno delle nostre antologie. non sarà inutile, dunque, riportare alla luce questo romanzo d'esordio di arfelli, scritto nel 1948, pubblicato nel '49 e vincitore, nello stesso anno, del premio Venezia, nella giuria del quale vi erano Palazzeschi, Pancrazi, stuparich, tibalducci e Valeri. quantunque sia stato da più parti definito come un romanzo puramente neorealista, mi sia permesso di dissentire. I superflui è un'opera, come giustamente la definì la giuria del premio Venezia, di cui si diceva poc'anzi, «amara, cruda, aspra, anche disperata se dal fondo della sua chiusa tristezza non si levasse una trepida luce di umana simpatia». la rappresentazione dell'italia del secondo dopoguerra scorre, con andamento carsico, piuttosto al di sotto della vicenda, quasi da Kammerspiel, che la fa da padrona. l'impegno nella rappresentazione socio-politica della particolare congiuntura di quegli anni è quasi del tutto soppresso, o quantomeno tale congiuntura si manifesta diegeticamente nell'influenza (per usare termini positivisti) di milieu e moment sui personaggi, i quali tuttavia presentano caratteristiche, atteggiamenti, movenze che non

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stonerebbero in un testo drammaturgico di samuel beckett. la storia è quella di luca, ragazzo proveniente dal mondo rurale, che giunge a roma per cercare un lavoro e maggior fortuna. appena sceso dal treno viene avvicinato da una prostituta, lidia, la quale lo porta nella propria povera stanza in affitto, dove luca fa la conoscenza di quella che viene definita, nel corso di tutto il romanzo, la “vecchia”, padrona della camera in cui lidia soggiorna ed esercita la propria attività. in questo modo, già al secondo capitolo, arfelli ha messo insieme i tre personaggi principali della sua storia che, tra la ricerca di lavoro da parte di luca, questuante presso notabili ed ecclesiastici, e la sottile angustia di lidia, giovane a tratti speranzosa a tratti rassegnata, sembra galleggiare in un limbo dall'atmosfera rarefatta. luca, pur avendo trovato un lavoro, modesto ma del quale si accontenta, introietta progressivamente un malessere esistenziale che si manifesta quasi a livello psicosomatico in un'apatia diffusa, in una vera e propria mancanza d'identità, in una intenzione di lasciarsi trasportare da eventi che in realtà neppure esistono, solo immaginati o sperati. ne siano prova due passaggi, quasi contigui: «luca passava quelle ore lasciando libera la mano sul foglio che si andava riempiendo, ai margini, di minuscole casette e di alberelli, per lo più cipressi, disegnati a forma di sottili lance. […] era diventata un'abitudine monotona ma sicura: senza badarci, inconsciamente, luca sapeva quando una casa era finita, quando il foglio era pieno e bisognava buttarlo via e prenderne un altro.» Viene in mente un interessante intervento di un grande studioso come ernst gombrich, pubblicato per la prima volta come introduzione al volume di giuseppe zevola, Piaceri di noia: quattro secoli di scarabocchi nell'Archivio Storico del Banco di Napoli (leonardo, Milano, 1991), in cui, nel giro di alcune pagine si gettano poche, ma pregnanti, considerazioni di base per una gustosissima “breve storia dello scarabocchio”. se luca appare dunque mestamente adagiato su binari inaffidabili ma nel complesso non troppo scomodi, lidia


invece ha violenti scatti d'orgoglio, slanci vitalistici, cerca un'identità diversa da quella che, la sua attività in concorso col mondo esterno, per il quale è una semplice prostituta come molte altre, hanno plasmato; presenta improvvise depressioni, lidia, momentanee ma profonde; è combattuta, inconsciamente forse realizza una sua segreta predestinazione, ma non la accetta, vuole contrastarla, più che fattivamente con una ideologia di riscatto, ventilando un viaggio in argentina, l'oceano, solcare il mare. Personaggio problematico, per certi versi secondario ma fondamentale nell'esplicitazione complessiva del romanzo, la “vecchia”, tirchia, torva, col perenne timore della morte, chiusa nella scarna cucina entro cui si consumano molti pasti condivisi tra lei, luca e lidia; si ripensi, incidentalmente, a certa produzione cinematografica di ettore scola. Man mano che si va verso il momento di tirare i conti, un inesorabile alone di morte avvolge il terzetto, con esiti che, al di là di taluni eventi funesti, riconsegnano un'immagine

di vita desolata e desolante, esistenze “trascurabili”, appunto, “superflue”. esiste un fiume in piena, eventi su eventi, ma l'umanità di arfelli non ne fa parte; rimane piuttosto sulla sponda, vede passare i morti. l'autore conduce con sicurezza e tecnica quasi cinematografica, ma molto più raffinata di quella neorealista, lo svolgimento della vicenda, suddividendo il suo romanzo in due parti distinte ma in realtà accomunate nell'economia narrativa. in fondo, nel romanzo di arfelli vagano tanti fantasmi per le strade di una roma agitata da segreti tormenti (astratti furori?), fantasmi eterogenei per età, estrazione sociale, lavoro, opinioni politiche o religiose; esseri che forse una volta erano stati uomini, ormai incasellati in un consesso sociale che presto avrebbe mosso i primi passi, incerti, poi sempre più rapidi, dirigendosi a grandi falcate verso il nostro tempo. alla fine del romanzo, dunque, e mi si permetta qui una parafrasi forse irrispettosa, tutto è cambiato, perché nulla deve cambiare.■

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uVita standard di uno scribacchino provvisorio

Ghostwriting: un romanzo per Flavia Vento

Parte I

di Giovanni Ragonesi - giov.ragonesi@gmail.com correva l’anno 1989 quando cominciò a circolare la notizia che i Milli Vanilli fossero solo due presta volto e che le voci appartenevano in realtà ad altri, i quali purtroppo, a parere della casa discografica, non avevano l’appeal giusto per fare presa sul pubblico e riuscire a scalare le top ten della dance europea, impresa nella quale riuscirono, come previsto dai manager della bMg, i due ballerini, Fav e rob, reclutati in una discoteca di Hannover. in italia la stessa cosa venne fatta non molti anni dopo, nel 1993, con la poco spendibile immagine di Jenny b che prestò la sua voce alla brasiliana olga de souza conosciuta e venduta come corona e il risultato, The Rhythm Of The Night, valse oltre dieci milioni di copie vendute. lungo gli anni, tenendo bene a mente la grande truffa maestra messa in piedi da Malcolm Mclaren nel 1977, il mondo della musica, coniugando spirito dada istinti rivoluzionari e furbate del marketing, ci ha reso avvezzi, sotto diversi aspetti, alla maschera, alla finzione, all’immagine prestata o virtuale e a svariate altre amenità che scopo altro non hanno, attraverso l’intrattenimento (ma con il rischio accidentale di sfiorare l’olimpo dell’arte o quantomeno di creare

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fenomeni artistici non trascurabili), di ingrassare le quotazioni azionarie dei discografici. in letteratura, invece, da questo punto di vista sembra esserci una forma di virginale serietà. l’unico bluff di cui ancora rimane memoria (ma tra un lustro sarà un repertorio troppo vecchio anche per il modernariato) è la vicenda, o il “progetto” (come si potrebbe dire ricalcando un linguaggio musicale) J.t. leroy. Purtroppo, svelate le vere identità, è sembrato che il contenuto narrativo dei due libri sia evaporato come l’acqua di cottura delle uova al quindicesimo minuto di bollitura. Ma davvero, si chiede Valerio, il mondo editoriale è così casto come una diva belliniana?


neanche per sogno. di recente non sono stati in pochi a rimanere sconcertati nello scoprire come la prima raccolta di racconti di raymond carver sia stata ritagliata su misura dal suo editor, gordon lish, per farne un prototipo della sua idea di narrativa minimalista: accorciata del cinquanta per cento, interi paragrafi riscritti, titoli rielaborati, punteggiatura revisionata. su un altro versante, quello delle vendite milionarie, Ken Follett dichiara candidamente in una intervista di non scrivere una sola pagina senza prima il benestare del suo editor. Will self ha un rapporto di amore e odio col suo, ma adora uscirci a cena per conoscere i nuovi ristornati londinesi. a.M. Homes nel suo smartphone raggruppa con il dispositivo “chiamata rapida” il suo

editor, il suo analista e la sua insegnante di yoga. Marc levy ha pensato di sostituire l’editor con uno shatzuca e una estetista in obbedienza al principio di maggior beneficio con minor dispendio di risorse. nelle terre patrie, invece, la situazione qual è? tutto sembra opaco, le cose meno dette o lasciate a tacere del tutto o fatte passare come adeguamento alle istanze del mercato; eppure anche da noi gli editor sono a lavoro e qualche colpaccio lo tentano e lo azzeccano. senza scivolare troppo indietro negli annali: Melissa P è stata una invenzione dell’editor – adesso neoautore rizzoli – simone caltabellota; salvatore niffoi si è affidato alla sapienza editoriale di calasso che ne ha obnubilato il passato per il Maestrale facendolo passare per un attempato

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esordiente che ha deciso di lasciare le ombre insulari per la casuale ribalta dei salotti letterari. spesso sono gli uffici stampa a creare il miracolo o comunque il caso letterario dell’anno, e l’ufficio stampa Mondadori – non avrebbe potuto essere altrimenti – sembra quello che, da questo punto di vista, lavori meglio: un anno resuscita l’idea, morta con gli dei all’alba del ‘900, del genio letterario attraverso alessandro Piperno; l’anno dopo ripropone il concetto, molto anni ’90 ma con la revisione estetica degli anni zero, del giovane esordiente inatteso con Paolo giordano; in mezzo ci piazza anche un azzardo, a conti fatti più che riuscito, con saviano. c’è anche un altro business completamente in mano agli editor, uno dei più remunerativi ed è quello del ghostwriting come Valerio apprende con disinvolto stupore.

Raymond Clevie Carve

r, Jr.

i fantasmi della scrittura non sono solamente i ricercatori universitari che scrivono i libri per i capi dipartimento, o i fuoriusciti dalle scuole di giornalismo che forniscono materia prima alle grandi firme da 1000 euro a cartella per le prime pagine dei principali quotidiani, o i ragazzotti ben svezzati alle post frattocchie che sofisticamente preparano ogni intervento, in un verso o in quello opposto, per il politico che deve sempre avere una opinione, sulla polenta o sul Pakistan senza tralasciare berlinguer. esiste una galassia di personaggi anonimi che si aggirano tra redazioni televisive per collaborare ai testi, scrivanie radiofoniche per un progetto una idea o una comparsata, qualche teatro dove sperimentare qualche creazione magari firmata, bar del centro per colazioni con editor di medie o grandi case editrici, e infine bilocali a ridosso della circonvallazione o monolocali sui navigli dove si rifugiano a digitare con scioltezza estrema sui tasti consumati ma sempre molleggianti di laptop se non sempre stilosi

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quantomeno uplodatissimi, qualche moribondo cactus ikea su tavolini anni ’70 scovati da blitz e qualche imprescindibile lampada di design accaparrata in saldo da emporio 31 sfruttando capacità da public relation consolidate in anni di sfacciato free lancismo. ovvio che il ghostwriting è nascosto. la natura è intrinseca ed è esplicita già nella stessa parola. Ma questo non vuol dire che non se ne possa parlare, anzi, senza bisogno di fare nomi inopportuni, è il caso, come con le registrazioni di attività paranormali, segnalare, con rispetto ma senza false ipocrisie, che nel nostro mercato editoriale i fantasmi abbondano. non è una accusa, solo una constatazione: gente che passa davanti alle telecamere più tempo del concorrente di un reality, che sta in radio quotidianamente, che insegna, che non ha mai sfogliato una grammatica dopo l’esame di terza media, che viaggia troppo senza farne troppi misteri, che fa politica e la politica della seconda repubblica è fatta di presenzialismo a oltranza, che intrattiene gli avventori delle discoteche rivierasche, che parlando non riesce a mantenere più di due tempi verbali di fila senza poi toccare il tasto congiuntivi e periodi ipotetici con il soggetto dimenticato in chissà quale attività neuronale periferica… eppure i banchi delle librerie, i numeri più alti delle classifiche di vendita, sono

nto Flavia Ve


sempre farciti di giornalisti che riscrivono la storia con piglio divulgativo e materiale di prima mano, comici che tra televisione e cinema e tournée riescono pure a intrattenerti per iscritto, attori e doppiatori che ti sfornano il bel romanzetto a cadenza annuale per non mancare mai sotto l’albero di natale (san Valentino è stato oramai appaltato da Moccia senza remissione di peccati), contesse in disarmo che vendono brioche, cantanti e cantautori polifunzionali e multidisciplinari come un buon black & decker, politici che tra palazzi governativi, corridoi vaticani, studi televisivi e sagre di paese riescono, saltando da una auto blu all’altra, anche a scriverti pamphlet e approfondimenti con intenzioni culturali e non di rado poesie e interi racconti con morale acclusa… insomma, senza sentire il bisogno che qualche comunicato stampa lo specifichi, i nomi di questi personaggi – è evidente – sono solo componenti di un progetto editoriale atto a vendere di cui è puerile parlare male o scandalizzarsi. tutt’altro, benvenuto il ghostwriting, sogghigna Valerio. domattina, alle ore 11, orario consono che anche Juliette gréco approverebbe, ha un appuntamento alla california bakery di ticinese con XX, rampante e sofisticata – oltre che scafata – editor con la quale, dopo uno scambio di mail e qualche telefonata, domattina si incontrerà, finalmente face to face – in maniera unformal –, per disquisire e contrattare, dopo le palpatine iniziali, la possibilità di scrivere un romanzetto per Flavia Vento.■

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Identité nationale: Liberté, Egalité, Fraternité

di Angelica Gherardi - angelica.gherardi@libero.it la Francia di sarkozy è quella dell’interdizione del velo nelle scuole, dell’interdizione della burka nelle strade e nei luoghi pubblici, dell’espulsione dei rom e della proposta di legge di levare la cittadinanza a quei “nuovi francesi” che si sarebbero macchiati di crimini o delitti. ed è soprattutto quella del dibattito sull’identità nazionale. a discutere oramai da tre anni sull’argomento è quindi il Paese la cui squadra di calcio è composta al novanta per cento da giocatori di colore e il cui personaggio preferito, da diversi anni a questa parte è Yannick noah, l’unico francese (di padre camerunese) ad aver mai vinto il torneo di roland garros e ad essersi brillantemente riconvertito in cantante (con ritmi spesso africani) che riempie gli stadi ad ogni suo concerto. eppure il dibattito imperversa. l’identité nationale è spesso in prima pagina dei giornali ed ha dato luogo ad una miriade di libri sull’argomento. Ma cosa sarà mai questa identità nazionale per un presidente figlio di un ungherese naturalizzato francese e di un medico ebreo sefardita di salonicco, sposato in terze nozze con un’italiana? il mistero, insieme al dibattito, imperversa. Ma

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nessuno sembra essere riuscito a dare una risposta definitiva. in realtà più che l’argomento in sé sembra destare problemi il dibattito in quanto tale. ossia, se molti, tra personaggi politici, scrittori e filosofi convengono del fatto che l’identità nazionale sia sempre stata presente nella vita pubblica e privata dei francesi, molti (per lo più a sinistra) si lamentano della ribalta che è data all’argomento e al fatto che debba suscitare un dibattito. ad aver rilanciato il dibattito su grande scala nell’ultimo anno è stato eric besson, Ministro dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’identità nazionale e dello sviluppo solidale (fino al 14 novembre scorso, quando malgrado il suo desiderio di rimanere al suo posto il rimpasto del governo voluto dal Presidente lo ha portato al Ministero dell’industria) in questo governo decisamente di destra, dopo aver fatto parte del partito socialista fino all’elezione di sarkozy. il ministero ha anche creato un sito ufficiale dedicato al dibattito, all’interno del quale ha elencato tutta una serie di opere che possono essere viste, secondo chi


uFrench connection

ha stilato la lista, come testi che definiscono e rafforzano l’idea di identità nazionale (anche se non si è ancora ben capito quale essa sia). tra queste opere, oltre a testi giuridici, si trovano anche testi di grandi autori classici come chateaubriand, Hugo o lamartine, e più recentemente Mittérrand, andré Malraux, simone Weil o charles de gaulle. Ma sul sito della rivista le nouvel observateur si trova un’altra lista, perché gli autori dell’articolo si chiedono per quale motivo tale scelta che non contempla alcuni testi come Le contrat social di rousseau e soprattutto perché non ne faccia parte alcun romanzo, come consuntivo della cultura francese, come La Princesse de Clèves di Madame de lafayette, e aggiunge anche il fumetto asterix, che effettivamente più francese di così non si può. e grégoire leménager, sulla stessa rivista, ricorda un pezzo di Voyage au bout de la nuit di céline (che certo non è ricordato come un autore di sinistra, ben lungi, lui che durante la seconda guerra mondiale abbracciò le tesi naziste): «la race, ce que t'appelles comme ça, c'est seulement ce grand ramassis de miteux dans mon genre, chassieux, puceux, transis, qui ont échoué ici poursuivis par la faim, la peste, les tumeurs et le froid, venus vaincus des quatre coins du monde. ils ne pouvaient pas aller plus loin à cause de la mer. c'est ça la France et puis c'est ça les Français». (“la razza, ciò che chiami così, è solo una grande accozzaglia di miserabili come me, cisposi, pulciosi, infreddoliti, che si sono arenati qui spinti dalla fame, la peste, i tumori e il freddo, venuti vinti da tutte le direzioni. non potevano andare oltre per colpa del mare. È questa la Francia, e poi sono questi i Francesi”).

che soffre di un complesso di inferiorità, che è spaventata all’idea di doversi mirare nella cultura degli altri». e di cosa hanno paura i Francesi, aggrappandosi al concetto di identité nationale come se avessero bisogno di un salvagente? a prima (nonché seconda) vista si direbbe dell’islam. una paura diversa da quella provata verso gli ebrei prima (si pensi alle leggi razziali che non furono imposte dalla germania nazista ma spontaneamente adottate durante la seconda guerra mondiale) e degli italiani e portoghesi poi, immigrati in massa in un certo periodo ma che erano più che altro scherniti perché diversi, ma che non erano portatori di una cultura e di valori poi

non vi tedierò con le due liste, quella ufficiale e quella apocrifa, che potete tranquillamente trovare in rete. un articolo del nouvel obs cita invece ryszard Kapuscinski, giornalista e scrittore polacco spentosi nel 2007, che in L’Altro (Feltrinelli, 2007) scrive «la xenofobia, sembra dire erodoto, è la malattia della gente che ha paura,

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così diversi. l’associazione sos racisme ha lanciato una petizione per l’abolizione del dibattito sull’identità nazionale, firmata da numerosi intellettuali, artisti, membri del mondo associativo… tra questi, il molto mediatico filosofo e scrittore bernard Henri lévy, che è intervenuto così in un’intervista rilasciata il 21 dicembre 2009 al quotidiano libération: Sono le stesse osservazioni [il dibattito è fattore di odio e di disunione, ndt] che fanno coloro che partecipano a queste riunioni. Unanimemente, o quasi, essi dicono a SOS Racisme che questi dibattiti vanno male, che volgono al peggio. Ci avevano annunciato un dibattito sereno. Mentre, di fatto, siamo dinanzi ad un discorso che dovrebbe essere stigmatizzato e che invece viene d’improvviso legittimato. La verità è, anche, che in quei dibattiti si respirano gli effetti di un clima generale. Quando un ministro dell’Interno si abbandona ad una battuta razzista nel corso dell’università estiva dell’UMP e solo in pochi, tra gli astanti, reagiscono, quando una campagna per le presidenziali fa ricorso ad una esplicita strategia di recupero dei voti e di una parte dei temi del Fronte nazionale, quando questi temi vengono banalizzati, allora non bisogna più stupirsi se le cose prendono la piega che stanno prendendo. Il clima è sempre più propizio a ciò che SOS Racisme denuncia nella sua petizione. Perché fermare il dibattito proprio ora e non subito, all’inizio? Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto assurdo questo dibattito, del tutto idiota. Ma non volevo gridare al lupo. Mi dicevo che forse occorreva aspettare e che forse ero io ad avere una visione troppo allarmistica. Oggi, ahimè, i miei timori trovano conferma. E stiamo pagando il conto per quella follia che è stata la creazione di un ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale. Ciò che sta succedendo è la logica conseguenza della fondazione di quel ministero, di

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come lo si è chiamato e di talune misure che esso ha adottato. Ecco il perché del nostro appello al presidente della Repubblica. Lui è il solo che possa arrestare tale pagliacciata. Ha sufficienti pragmatismo ed onestà politica per dire “stop” quando bisogna dire “stop”. Quando diviene evidente che un dibattito che avrebbe dovuto rafforzare il legame comunitario non fa che lacerarlo, spetta al presidente della Repubblica fare marcia indietro. Non bisogna parlare di identità nazionale?


Si parli di ciò che si vuole. Ma sostenere che le persone abbiano, in questo paese, un problema con l’identità francese è una stupidaggine. Esse sanno ciò che significa essere francesi. Lo sanno molto bene. Ed una maggiore consapevolezza atterrebbe più all’asservimento che non alla liberazione. Perché le identità collettive devono essere leggere e non oppressive. Non devono rinchiudere i soggetti in soffocanti camicie di forza, bensì aiutarli, al contrario, a respirare. E poi questo dibattito sta occultando la questione cruciale: quella dell’identità europea.

a mio modesto parere con quest’ultima frase bHl, come viene comunemente chiamato, ha vanificato tutto il discorso di sos racisme. Perché se è vero che in europa è giusto pensare oramai ad una cultura europea (che non escluda o schiacci le diverse culture nazionali) nel senso che i cittadini devono cominciare a guardare oltre il proprio giardino, inserire un concetto di identità europea riporta il dibattito là dove fa male, ossia sul razzismo e l’intolleranza verso i non europei d’origine, e in particolar modo verso coloro che non sono di origini giudeo-cristiane ma islamiche. comunque, petizione o non petizione, il dibattito continua ed avvelena la maggior parte delle scene pubbliche. Per averlo stigmatizzato e per aver infierito sul suo ideatore eric besson l’umorista stéphane guillon (in uscita in questi giorni per stock la seconda racconta dei suoi billets d’humeur “on m’a demandé de vous virer”) è stato licenziato da France inter, la radio sulla quale interveniva tutte le mattine con la sua rubrica caustica e sarcastica, e il cui direttore è nominato direttamente dal Presidente sarkozy. in compenso, nel nuovo governo appena “rimpastato” è stato abolito il ministero dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’identità nazionale e dello sviluppo solidale, ma resta l’immigrazione che è stata inglobata nel ministero dell’interno, affidato à brice Hortefeux, già reo (condannato) di ingiurie razziste mesi addietro quando già indossava la carica di Ministro dell’interno, non ancora dell’immigrazione. un’ultima cosa mi sembra doverosa segnalarla: enrico letta (ho scritto bene enrico, e non gianni) avrebbe dichiarato all’associazione della stampa straniera, il 20 gennaio 2010: “il dibattito francese sull’identità nazionale è un’esperienza interessante che l’italia dovrebbe copiare”.■

Museo del Louvre, Parigi

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uRacconti dal retrobottega

Librerie e identità di Geraldine Meyer - geraldine.meyer@virgilio.it È una bella sfida, narrativa e concettuale, scrivere un articolo su librerie e identità. anche difficile direi. in particolare in un momento in cui il mercato sembra costringerci a parlare non di identità delle librerie ma di librerie identiche. Mi chiedo come farò a scrivere senza lasciare briglia sciolta a quel sottile malumore che ormai mi pervade quando penso al mio mestiere. allora penso che possa essere interessante procedere per domande. dirette o indirette le domande sono sempre un bel gancio intellettuale. Meno chiuse delle spesso apodittiche affermazioni e più aperte a un work in progress. intanto mi lascio sorprendere dalla curiosa circostanza: mi è stato chiesto di scrivere un pezzo su identità e scrittura web per presentare alcune lezioni che terrò sull'argomento il prossimo marzo. allora mi dico che questo termine interroga e stuzzica la curiosità in modo non rimandabile. come può declinare il termine identità un libraio? di cosa parliamo quando parliamo di identità di una libreria? della sua storia certo, certo del suo assortimento, della sua osmosi con il territorio in cui si trova o della forza e riconoscibilità del suo marchio. tutti elementi che corrono, in modo pericoloso, sul sottile crinale che separa la sostanza dall'immagine. Perché parlo di pericolo? Perché è abbastanza facile che l'immagine divenga qualcosa di statico, dato una volta per sempre. l'identità forse è altro. È qualcosa che ha il coraggio di mutare senza smettere di essere se stessa. un continuo gioco di specchi che valorizza le differenze senza cristallizzarle in diversità. e dal momento che la libreria è un sistema dinamico non vale forse la pena di considerarla portatrice di identità piuttosto che depositaria di un’immagine statica?

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Mentre scrivo mi accorgo che, senza volerlo, faccio viaggiare il mio concetto di identità molto vicino ad un’idea di movimento. e a pensarci bene la libreria è qualcosa di straordinariamente mobile. Mobile al suo interno e mobile verso l'esterno. la libreria si racconta attraverso le persone che ci lavorano e che si relazionano con chi la frequenta. Forse questa è la sua identità. Più ancora dei libri che vende. Parliamoci chiaro, i libri che vengono pubblicati, in linea di massima, si trovano in qualunque libreria. Variano le quantità certo ma, parlando per grandi numeri, i titoli fanno mostra di sé più o meno dovunque. cosa dona identità ad una libreria dunque? Forse proprio un sottile e inevitabile movimento di immagini e sollecitazioni. e qui parlo di immagini nel senso di capacità di cambiare e far cambiare prospettiva allo sguardo. oggi invece l'identità sembra diventare sempre più qualcosa di monolitico fatto apposta per immobilizzare lo sguardo e le aspettative. un recinto da proteggere, uno stato, sociale e mentale, senza crepe e deviazioni. il concetto di identità si sovrappone in modo sempre più inquietante con quello di paura; paura di perderla. Ma l'identità non la si può perdere se si parte dal presupposto che si tratta di qualcosa che si costruisce giorno per giorno senza mai possederla. Per una libreria è la stessa cosa e l'identità cammina in parallelo all'intelligenza delle sfumature. sfumature che, nell'ambito editoriale, comprendono il coraggio di scelte eccentriche. Piccoli editori, autori meno noti e meno televisivamente presenzialisti. rischio di accogliere pagine che dal punto di vista economico non garantiscono la difesa dei confini. Perché l'identità è apertura culturale. chiudere e difendere non sono verbi di cui si nutre l'identità; ascoltare e guardare invece sono la cifra della particolarità. nel commercio è facile cadere nella mentalità della consorteria e della casta. del resto noi italiani siamo eredi della tradizione delle corporazioni. Ma questa non è l'identità che, invece, non ha e non sente il bisogno di

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rimarcare la propria differenza. Ma siamo sicuri che a paralizzare in una sorta di sclerosi identitaria non siano anche i frequentatori delle librerie? o almeno una grossa parte di loro? il cortocircuito di aspettative che non possono ricevere sorprese porta a un approccio spesso abitudinario, rassicurante e immutabile da parte dei clienti. racconto un episodio: il giorno in cui al trittico abbiamo fatto la presentazione-aperitivo di un libro di un nuovo editore, alcuni clienti abituali sono rimasti sconvolti e infastiditi nel trovare il loro sacro luogo di conferme invaso da gente nuova, rumorosa, ridanciana e amante della lettura in un modo diverso dal loro. identità o paura di perdere una forma di controllo?

identità non è abolizione delle differenze tanto più pelosa quanto più prende la forma di una ipocrita democrazia: "siamo tutti uguali. Possibilmente uguali a me." e questa è davvero l'identità nel senso deteriore del termine, con quel sapore federalista e separatista che fa da sottofondo a tanta propaganda ideologica. l'identità di una libreria invece non ha bisogno di allontanare dalle sue coste i libri e le proposte extra-comunitarie semplicemente perché non può esserci una comunità di cultura. Pensare questo non rischia di portare a credere all'esistenza di celoduristi della letteratura?

dall'altra parte c'è lo sguardo dell'editore o del distributore che sembra spesso incapace di confrontarsi con le sempre mutevoli esigenze delle librerie. il tentativo di calibrare in modo nuovo i rapporti commerciali si scontra spesso con una vera e propria incapacità di mutare le parole e i termini del dialogo commerciale medesimo. e la frase con cui si verbalizza questa paura è: “non siete più quelli di una volta”. che è un po’ come dire che si stava meglio quando

e l’altra domanda che mi si impone con la forza della leggerezza riguarda me; io sono una libraia o faccio la libraia? se l'identità è un essere in divenire sconfina in modo naturale nel fare, verbo che conduce a occuparsi delle cose e non a preoccuparsi. quindi un piccolo sforzo di umiltà: facciamo i librai che si occupano di libri, non siamo librai che si preoccupano dei e per i libri. così l'identità torna a essere poesia.■

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si stava peggio.


Più nobile è la tua professione, più deve essere umile chi la esercita. Proverbio italiano

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uCinematura

L’identità personale, ovvero le equivalenze e le diversità in noi

di Claudia Verardi - claudiaverardi@alice.it

da sempre letteratura e cinema esplorano le identità dell’uomo lavorando sui dubbi e sulle ambivalenze che possono scaturirne. la produzione letteraria si incrocia con quella cinematografica nell’analisi delle appartenenze sociali e culturali che ogni essere umano si porta dentro. come insegnano i classici della letteratura horror (da dracula al lupo Mannaro) nascosto intrappolato in ognuno di noi c’è un “diverso”, considerando diverso chiunque abbia una natura o delle qualità differenti da quelle considerate “normali”. Partendo dal presupposto che di questi tempi c’è un forte e, soprattutto, urgente bisogno di riconsiderare il concetto di normalità, i diversi che sonnecchiano dentro di noi sono davvero tanti. c’è il diverso perché gay e incapace di dichiararsi, quello escluso dalle sempre più forti gerarchie classiste perché poco istruito o con un lavoro niente affatto glamour, quello che abbraccia colori politici poco alla moda e quello con una fede religiosa a noi incomprensibile. le identità sono proprio moltissime, che siano nascoste o meno. ci sono quelle a cui sappiamo di appartenere e quelle che ancora non riconosciamo come nostre. ci sono le diverse identità fisiche, quelle che una volta si chiamavano handicap, e che adesso si comincia a pensare possano addirittura diventare una risorsa, una specie di valore aggiunto. rob spence, regista canadese, privo fin da piccolo dell’occhio destro, ha pensato di mettere a frutto questa “diversa identità” per il suo lavoro. Perdere un occhio è

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un’esperienza enorme e devastante, che mette in dubbio e riplasma la tua identità di essere umano dal punto di vista fisico, perché il tuo cervello deve ristabilire una serie di parametri indispensabili alle normali attività quotidiane, e da quello psicologico, perché ti senti un diverso, un menomato per usare una parola forte. in un caso come questo l’identità personale può subire un duro attacco e ci vogliono forza, coraggio e molto impegno per superare il problema e, anzi, riuscire a sfruttarlo a proprio vantaggio. rob spence usa l’occhio artificiale come un qualsiasi tipo di protesi, per una funzione meramente estetica, ma in futuro potrebbe usarlo per il suo lavoro di regista grazie all’inserimento di una telecamera, dotata di tecnologia wireless, che registrerebbe le immagini del campo visivo di rob trasmettendole successivamente a un computer. nell’attesa di riuscire in questo progetto, gli ingegneri del team di ricerca eyeborg hanno posizionato nell’occhio del regista un led rosso. È la prima volta che viene inserito in un’orbita oculare un dispositivo elettronico completo di batteria, anche se il risultato è quello un po’ impressionante del cyborg di Terminator. l’identità, dicevamo, può anche essere legata a quella nascosta dentro ciascuno di noi, quella che dà emozioni

forti, insolite, talvolta sconvolgenti. carlo lucarelli, nel suo Lupo Mannaro (einaudi stile libero), romanzo breve di qualche anno fa, racconta (dopo i bizzarri protagonisti di Almost Blue e Un giorno dopo l’altro) di uno strano personaggio affetto da una rarissima forma di insonnia patologica, che potrebbe essere un pericoloso serial killer così come un perdente, un ossessivo nevrotico con un singolare passato da militante di sinistra. Lupo Mannaro è un serial killer che agisce nella zona di bologna. le sue vittime – che prima soffoca e poi sbrana a morsi in luoghi appartati – sono giovani tossiche che si prostituiscono per potersi comprare la droga. l’assassino potrebbe essere uno stimato e insospettabile professionista e padre di famiglia bolognese. nel caso presentato dal romanzo, nell’essere umano si nasconde un altro tipo di identità, perversa, maligna e nevrotica. uno che uccide per alleggerirsi la vita, un malato che usa l’assassinio come terapia antistress, stremato com’è da una malattia che lo condanna a vivere tra sonno e stato di veglia forzata. qui l’identità nascosta non è, ovviamente, positiva, ma è lo specchio di una realtà malaticcia che viene a galla, quella dei controversi anni novanta. anni di guerra e di rovesciamenti, anni in cui si comincia a capire

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che il buono può essere cattivo e viceversa, anni in cui gli estremi spesso combaciano, anni in cui il lieto fine è ormai un ricordo. Lupo Mannaro è anche un film, uno psicothriller con la regia di antonio tibaldi (con gigio alberti, Maya sansa e stefano dionisi) e la sceneggiatura dello stesso lucarelli, presentato al Noir in Festival a courmayeur. il film è ancora una volta la dimostrazione di come cinema e narrativa possano essere intrecciati e contaminati, fusi l’uno nell’altra. l’identità di Lupo Mannaro è quella di un uomo che sta male, che non è sereno, che è in disaccordo col mondo. il lupo mannaro rappresenta in questo caso la paura di accorgersi che dentro di noi alberga un’altra identità che non vogliamo vedere perché è cattiva, è diversa da quella a cui siamo avvezzi oppure, semplicemente, solo perché è nuova, e non ci siamo abituati, né ci vogliamo abituare, perché ce lo impone una legge morale o ce lo impongono le regole che abbiamo intorno e che molto spesso (se non sempre) qualcun altro ha scelto per noi. in questo senso, il lupo che c’è dentro di noi fa paura, e noi abbiamo paura della paura. nelle metropoli, tra vetrine sfarzose e insegne luminose, in mezzo alle automobili che sfrecciano, i lupi continuano a esserci, perché ce li hanno portati gli uomini con la loro fantasia e le loro angosce. un altro personaggio archetipo attraverso cui si può raccontare la paura di trovarsi davanti a una nostra identità “altra”, a una corrispondenza diversa, è il conte Dracula. nato nel 1897 dalla penna dello scrittore irlandese bram stoker che riprende il mito del vampiro precedentemente lanciato da William Polidori. Dracula è un altro personaggio che nasconde una doppia identità. in apparenza cupo e fascinoso figuro, in realtà oscuro apportatore di male, terrore e minaccia dracula, lo spettrale, pallido, altero e sottilmente erotico conte, fa parte dell’immaginario collettivo ed è diventato un genere, un simbolo, una sorta di dimensione addirittura. come disse thomas Wolfe, la figura di dracula e, quindi, la sua identità, ci costringe a

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confrontarci con i misteri primordiali: la morte, il sangue, l’amore e i loro reciproci legami. e il risultato a cui arriva stoker è quello di farci capire, attraverso la nostra esperienza, perché il vampiro è invisibile allo specchio. lui, in realtà, è lì davanti, ma noi non lo riconosciamo, dal momento che il nostro stesso viso lo cela. le pellicole (più o meno fedeli) dedicate al tenebroso conte sono davvero tantissime, comprese parodie e opere rock. uno dei film più belli è senz’altro il Dracula di Francis Ford coppola del 1992, opera struggente e malinconica, con gary oldman nel ruolo del vampiro. anche in editoria la figura di Dracula è stata resa da numerosi autori in un numero praticamente incalcolabile di romanzi. il vampirismo nasce come finzione letteraria ma è, tuttavia, oggi, una pratica – ovviamente discutibile – in voga tra molti giovani d’oggi, soprattutto negli stati uniti. anche qui si tratta di analizzare un’identità segreta, che magari non tutti possono, o vogliono, comprendere. le identità, le appartenenze, possono essere molte e possono essere minacciose, ma possono anche portare sprazzi di luce là dove c’è solo buio. basta capire come direzionarle, come incanalare un’energia nascosta che può essere cupa in qualche caso, ma luminosa in molti altri. ci sono identità di genere, identità nazionali, identità religiose, affettive, emozionali. Molti di questi elementi riconducono al piano della psicologia sociale. le identità sociali, come


vengono descritte da film e libri, sono spesso legate alle attività che svolgiamo, dalla nostra collocazione in una certa fascia sociale e dalla cultura cui apparteniamo. le identità possono anche essere reinventate ed è, forse, proprio la loro reinvenzione il fenomeno più interessante e più nuovo all'interno del problema generale dell'identità. come distinguere un volto dagli altri, una personalità dalle altre e, quindi, un’identità, dalle altre? Magari non è nemmeno necessario distinguere, ma è preferibile rimanere in una condizione di indeterminatezza affinché nessuna identità emerga e si materializzi come vera protagonista e l’intreccio di voci e il soprapporsi di volti dai contorni poco nitidi accresca la tensione emotiva puntando verso un’unica direzione. cinema e letteratura possono, in un confronto dialettico, riscrivere – o almeno aiutare a farlo – le identità dei nostri tempi, troppo spesso confuse. entrambi strumenti polivalenti di espressione e democrazia le due arti possono costituire un viatico per la lettura critica e interpretativa di tanti dei drammi e delle confusioni dei nostri tempi. attraverso cinema e narrazione si possono raccontare le identità nazionali, quelle femminili, quelle di genere in un processo in continuo movimento che abbraccia novità, tradizione, sensibilità e antropologia. l’identità è davvero libera solo quando è scevra da qualsiasi stereotipo o pregiudizio. solo così, tutte le identità reali e credibili potranno essere finalmente liberate.■

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uLibri che ti cambiano la vita

Le vostre zone erronee di Wayne W. Dyer

di Marta Traverso - marti.traverso@gmail.com

immaginate di essere un ragazzo poco più che ventenne (o una ragazza, se preferite). i vostri genitori decidono di partire per un viaggio all'estero, staranno via una settimana. immaginate di non fare ciò che ci si aspetterebbe da voi in questo caso – esultare di gioia perché avrete la casa libera – ma di vivere in uno stato d'animo diametralmente opposto.

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le vostre giornate sono piene, passate molte ore al lavoro o all'università (e nel secondo caso ne passate altrettante a studiare, a casa o in biblioteca). non solo. nel corso di quella settimana dovrete anche fare i lavori di casa; cucinare, lavare e stirare; portare fuori il cane almeno tre volte al giorno, e di conseguenza alzarvi più presto per la passeggiata mattutina; fare la spesa; telefonare a nonni e parenti vari per dare notizie dei genitori; varie ed eventuali. avete un fratello adolescente (o una sorella, se preferite), che già deve andare a scuola e fare i compiti nel pomeriggio: mai al mondo gli chiedereste di darvi una mano in tutte queste faccende. almeno lui ha il diritto di riposare e di non subire la situazione. Molti di voi penseranno che questo esercizio di immaginazione implica mettersi nei panni di un idiota totale. “io non farei mai così, scherziamo?” è il vostro pensiero dominante. questo esercizio di immedesimazione è tuttavia molto importante per capire come spesso si definisce la nostra identità. un'identità che spesso – più spesso di quanto non si creda – trova le sue radici nel senso di colpa. un peccato originale che si tramanda da adamo ed eva, o almeno così si narra, i quali per aver assaggiato una mela di troppo chinarono la testa e si incolparono a vicenda dinanzi a dio. il primo uomo e la prima donna hanno tramandato ai posteri la non assunzione di responsabilità. se Wayne W. dyer, psicoterapeuta e autore del libro qui presentato, leggesse questo esercizio, lo troverebbe un efficace punto di partenza per esporre il contenuto de Le vostre zone erronee. questo gioco di fantasia presenta infatti una buona parte delle ‘zone’ da lui indicate come assai pericolose per la nostra crescita umana e interiore. il libro parte da un primo presupposto essenziale: la condizione sana dell'uomo è secondo natura. di conseguenza, tutte le emozioni negative sono contro natura: rabbia, sensi di colpa, rancore, tristezza, persino alcune malattie (dyer sostiene infatti che ipertensione, nevralgie, dolore cronico, eruzioni cutanee e altri disturbi hanno quasi sempre cause psicosomatiche). secondo presupposto: l'uomo è la somma delle sue scelte. se io ho mal di denti, è perché scelgo di avere mal di denti, di assecondare il dolore fisico e renderlo anche dolore psicologico. se io sono arrabbiata, è perché scelgo di assecondare la rabbia, di rigettare qualunque pensiero positivo che potrebbe allontanarla. la nostra identità è

quella che noi scegliamo di avere. “sì, ma mica decido io di avere mal di denti. Mi viene e basta”, potrà obiettare qualcuno. Vero, ma è altrettanto vero che se state lavorando a un progetto che vi appassiona, se state facendo l'amore, se state praticando uno sport, insomma qualunque attività piacevole vi venga in mente, in quegli attimi vi dimenticate del dolore. il vostro umore nero ha origine dal fatto che pensate al vostro mal di denti e lo interpretate come qualcosa che vi rovinerà la giornata. siete voi che avete scelto di coltivare quel pensiero, anziché altri. dyer perfeziona questa teoria con un esempio estremo. immaginate che una persona a voi molto cara muoia improvvisamente. cosa accade? non appena ricevete la notizia provate dolore, sofferenza, rabbia, tutte emozioni negative. considerate però questa eventualità. Vi trovate in un luogo isolato, senza alcun contatto con la realtà: può essere il Grande Fratello o la foresta amazzonica. nessuno ha modo di comunicare con voi per darvi la notizia. questa persona è morta, ma voi non lo sapete. quindi il vostro stato d'animo è positivo, perché non sapete che qualcosa potrebbe turbarlo. non è dunque la morte in sé che vi provoca dolore, ma il fatto che ne siate venuti a conoscenza. ovvero, quando l'evento esterno si rapporta con la vostra mente. Voi pensate che volevate bene a questa persona, e che ora non ci sarà più. È il pensarlo che vi fa provare dolore. torniamo all'esempio di partenza. quali sono le zone erronee che possono compromettere la vostra settimana, e – in senso più ampio – condizionare la vostra identità? anzitutto il bisogno di approvazione. Vi sentite in dovere di fare tutti i lavori domestici al meglio, in modo che i vostri genitori, al loro ritorno, si complimentino con voi e vi facciano sentire tutto il loro orgoglio. non fate i lavori domestici per il piacere di farli, o perché lo sentite necessario. li fate per essere elogiati in futuro. quante volte vi succede? sul posto di lavoro per compiacere il capo, in famiglia per compiacere la compagna/compagno. quante donne passano interi fine settimana estivi in spiaggia, a cuocere sotto il sole, non per il piacere di farlo ma per scatenare l'invidia di amiche e colleghe al loro ritorno? dyer chiama questo stato d'animo paralisi. la paralisi è un elemento portante della nostra identità. si manifesta attraverso l'ira, la timidezza, il rimuginare sul passato e il

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pensare troppo al futuro, il farsi vedere tristi o arrabbiati per suscitare la compassione altrui, la mancanza di coraggio per mettere in pratica un progetto. un secondo fattore che entra in gioco è inculcare la colpa negli altri. quando i vostri genitori torneranno e vi chiederanno come state, potrete sfoderare la faccia più contrita che vi riesce e snocciolare i vostri “sono distrutto... sono a pezzi...”. Voi incolpate i vostri genitori, che sono andati a divertirsi lasciandovi solo e con tutte le responsabilità sulle spalle. se in quella settimana non avrete il tempo da dedicare a ciò che vi piace, sarà solo colpa loro, colpa di tutti i lavori domestici che vi hanno costretto a sbrigare da solo. ne siamo proprio sicuri? o forse siete voi a scegliere di non dedicare tempo allo svago o a ciò che vi appassiona, a costo di caricarvi di un surplus di lavori domestici totalmente inutili? Pulireste casa da cima a fondo tre volte al giorno, pur di sfogare la vostra rabbia e poter dire “ecco, per colpa vostra non ho potuto fare questo e quest’altro”. quante volte vi capita? quando la vostra migliore amica esce da sola con il fidanzato (o ancora peggio, con un'altra amica) e voi le manifestate la vostra gioia sottintendendo un “sì, sì, vai pure a divertirti senza di me”. idem quando il vostro fidanzato va a giocare a calcetto con gli amici, o la fidanzata a fare shopping con le amiche. Vi tagliano fuori. e voi dovete a tutti i costi fargliela pagare. anche questa è una zona erronea: costruite la vostra identità evitando di assumervi responsabilità, ma dando ad altri la colpa di stati d'animo che siete voi a scegliere di provare.

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gli esempi potrebbero continuare all'infinito. dyer mostra, di capitolo in capitolo, come espressioni quali Sono fatto così, che posso farci, oppure Mi comporto così perché bisogna fare così, oppure molte altre ancora, non abbiano alcun senso in un essere umano libero dalle sue zone erronee. un essere umano che non ha sensi di colpa, non dipende emotivamente dagli altri, mira all'approvazione di se stesso ma non a quella degli altri, non accetta il conformismo, non ha paura di esplorare l'ignoto, non spreca tempo a rammaricarsi o desiderare che le cose fossero andate diversamente, ama la vita in ogni suo aspetto e la vive in ogni suo aspetto, non programma il futuro ma si gode a pieno il presente, è responsabile delle proprie scelte, impara dai propri errori e si corregge con umiltà e determinazione, imposta i rapporti con gli altri nel pieno rispetto dei reciproci spazi e delle reciproche ambizioni, non cerca di cambiare gli altri ma al tempo stesso respinge ogni legame stretto con persone che ritiene dannose per la sua libertà interiore, dice ciò che pensa nel bene e nel male, impiega tutto il suo tempo per realizzarsi al massimo. La gente si lamenta sempre di quello che è dandone la colpa alle circostanze. Le persone che si fanno strada in questo mondo sono le persone che si alzano in piedi e cercano le circostanze che preferiscono, e che quando non le trovano, le creano. (g.b. shaw, frase citata al termine del i capitolo)■


Veramente piĂš volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose. Dante Alighieri

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uPensiero antico e identità europea

Identità culturale e senso della morte di Adriana Pedicini - adripedi@virgilio.it

Luca Giordano La barca di Caronte. Il sonno di N

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Premessa la morte trova nella letteratura ampio spazio di indagine e di rivelazione, poiché la parola letteraria è fantasia, mistero, angoscia, disperazione ma anche rivelazione e avvicinamento alla verità. spesso la letteratura si è servita della morte, tema col quale dialogare.

la morte nella letteratura è anche viaggio, scoperta.

incontro,

si pensi al viaggio nel regno dei morti nel mito di enea: il mito costituisce il substrato della conoscenza, l’aspetto primitivo e poetico della riflessione filosofica egli dunque va alla ricerca del padre e lo ritrova. la morte è rivelazione di una nuova vita. la nascita e la morte costituiscono le traiettorie il cui filo unisce i due estremi. le Parche, nel mito greco, erano tre ed ognuna di esse reggeva un filo: quello della nascita, della vita e infine della morte. la vita è nella morte e la morte è nella vita. grazie al mito la morte si fa rinascita, grazie alla religiosità la morte non è la fine di tutto, è l’inizio di un nuovo viaggio. la morte nella letteratura si incontra con omero ma anche con la bibbia. si incontra col mito sul piano di una identità laica e si incontra con la fede sul piano di una identità cristiana. tuttavia dalla notte dei tempi nelle coscienze si agita non senza inquietudine l’eterno conflitto tra vita, tempo, morte. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la puerizia, poi l’adolescenza, tutto il tempo passato fino a oggi è perduto: questo stesso giorno presente noi lo dividiamo con la morte. Non l’ultima goccia vuota la clessidra, ma tutte quelle che sono prima trascorse: così l’ultima nostra ora non fa la morte, ma la compie. Allora noi arriviamo al termine, ma è un pezzo che siamo in cammino.(seneca, ad lucilium epist. XXiV) si supera la morte con una vita esemplare che le generazioni future ricorderanno, si sfugge alla vecchiaia scomparendo nel fiore degli anni, all’acme del proprio vigore. “Muore giovane chi è caro agli dei” scriveva Menandro. La morte: destino comune dell’ umanità “grave est” “sed humanum est” sembra uno slogan ma è questa la sintesi dell’atteggiamento del pensiero antico di fronte al tema della morte. Possiamo anche ritenere che tale concetto anticipi in qualche modo la sensibilità cristiana, ma sia l’uno che l’altra sono l’approdo di un lungo percorso culturale dalle svariate connotazioni antropologiche che ha tentato di dare risposte all’interrogativo forse più inquietante dell’umanità. tale è l’obiezione infatti nella consolatio ad Marciam (17,1) che il filosofo seneca, in risposta, rivolge a Marcia addolorata dall’irrimediabile perdita del giovane figlio Metilio.

Notte e Morfeo, 1684-1686, Affresco a Palazzo Medici Riccardi, Firenze

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Chi nega infatti che la morte sia una cosa dura da sopportare? Ma è umano. Vale a dire che la durezza della perdita non può non essere compresa nella generale durezza della nostra vita, che deve esserci nota. la tendenza ad attutire la sofferenza vorrebbe farci ritenere straordinario, non umano, tutto ciò che ci colpisce così duramente. la vera cura, secondo seneca, consiste nel capire, nel non chiudere gli occhi di fronte alla realtà della condizione umana.

periodo che va dall’infanzia alla vecchiaia, diventiamo maturi per un altro parto. Ci attende un’altra nascita, un altro ordine di cose… rivolgi il pensiero a quell’ora decisiva: non è l’ultima per l’anima, ma per il corpo. (ad lucilium 102, 21-26)

lo stesso tema è trattato nella consolatio ad Polybium (18, 9), indirizzata a Polibio, liberto di claudio, in occasione della morte del fratello; gli argomenti della consolazione sono gli stessi: l’inutilità del compianto, la non sofferenza dei morti, il valore del ricordo, l’universale necessità della morte. La morte è il non essere, ed io già so cosa significhi il non essere. Dopo di me sarà ciò che fu prima di me. Il nostro errore sta nel pensare che la morte venga dopo, mentre essa, come ci ha preceduti, così ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte E anche finire di vivere ha lo stesso effetto: non essere. (ad lucilium epist. mor. 54) in una lettera inviata all’amico Marullo per la morte del suo bambino, morte che egli non ha sopportato virilmente, seneca si esprime con fermezza nell’esortare l’amico a mostrarsi resistente ai mali e a non cedere al dolore. gli argomenti usati sono tratti dalla filosofia stoica: “Credimi, la sorte può toglierci la presenza fisica di quelli che amiamo, ma gran parte di essi rimane in noi… Se siamo coscienti che presto seguiremo quelli che abbiamo perduto, dobbiamo essere più sereni” Infatti siamo soggetti tutti allo stesso destino.(ad luc. ep. 99, 1-6) in altri passi il filosofo mostra di voler superare il grande tema del “non essere” con la prospettiva di una vita oltre la vita. Dopo la morte ci attende un’altra nascita, e il giorno che noi temiamo come l’ultimo della nostra vita, è, in effetti, il primo dell’eternità. Attraverso il breve decorso di questa vita mortale, ci si prepara a quell’altra migliore e più lunga. Infatti, come il grembo materno ci tiene nove mesi non per sé, ma per prepararci a quel luogo in cui poi veniamo alla luce già in grado di respirare e di resistere all’aria libera, così, attraverso il

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Maestro del trionfo della morte, Trionfo della morte, XV sec., Palazzo Abatellis,


, Palermo

Il senso della morte e la precarietà della vita il senso della morte, allargato alla condizione umana, è un pensiero fisso del poeta ellenistico leonida di taranto. non bisogna legarsi alla vita, come la vite si attacca al palo, ma migrare all’altro mondo quando la vecchiaia è venuta. il tempo passato prima della nascita e quello che

passerà dopo la morte è infinito, mentre la vita dell’uomo, breve e spiacevole, peggiore della morte, dura un istante, meno di un istante. la comune realtà della morte, per il Poeta, viene come anticipata dal decadimento che già corrode ogni istante della vita (epigramma a.P.Vii 472) che risulta essere un monito per tutti gli uomini allorché invita a guardare alla finitezza e alla precarietà dell’esperienza esistenziale in confronto dell’eternità. Infinito fu il tempo, uomo, prima/ che tu venissi alla luce, e infinito/ sarà quello dell’Ade. E quale parte/ di vita qui ti spetta, se non quanto/ un punto, o, se c’è qualcosa più piccola/ d’un punto? Così breve la tua vita/ e chiusa, e poi non solo non è lieta/ ma assai più triste dell’odiosa morte./ Con una simile struttura d’ossa/ tenti di sollevarti tra le nubi/ nell’aria! Tu vedi, uomo, come tutto / è vano: all’estremo del filo, già/ c’è un verme sulla trama non tessuta/ della spola. Il tuo scheletro è più tetro/ di quello d’un ragno. Ma tu, che giorno/ dopo giorno cerchi in te stesso, vivi/ con lievi pensieri, e ricorda solo/ di che paglia sei fatto.

Il dolore delle morti immature abbiamo a disposizione nelle letterature classiche molti esempi di poesia sepolcrale in cui si compiangono soprattutto la morti immature. non mancano a questo proposito in Marziale, originale poeta latino, squarci di poesia dolente, come quando egli sembra intristirsi davvero per la morte della piccola erotion, una servetta nata in casa sua e morta improvvisamente alla tenera età di sei anni. gli epigrammi a lei dedicati trasudano di vero dolore. A te, Frontone, (suo) padre, a te, Flacilla, (sua) madre questa bimba, boccuccia e delizia mia io affido perché la piccola Erotion non tema le nere ombre e il ceffo mostruoso del tartareo cane. Stava per compiere il sesto inverno brumoso, se altrettanti giorni fosse vissuta ancora…Le sue molli ossa la dura zolla non copra, né a lei, o terra, tu sia grave: non lo fu essa a te. (ep.34) altri epigrammi composti in occasione di morti giovani sono il l.i,101 composto per il suo giovane segretario demetrio, morto a soli diciannove anni, e quello composto per la morte di canace, una bimba scomparsa a sette anni, dopo che un male incurabile le aveva progressivamente corroso il viso (Xi,91)

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La libido mortis accelerare la fine della vita, anzi prevenire in un certo senso il destino, è una brama che talvolta assale gli esseri umani, anche molto giovani. Varie sono le interpretazioni di questo gesto estremo. nella sensibilità moderna appare come un gesto di debolezza, non così appaiono le morti di alcuni personaggi rappresentati dagli antichi autori. in lucano il cesariano Vulteio, resosi conto dell’agguato in cui erano caduti ad opera dei pompeiani incita, in un gesto di estrema superbia e di sfida, i suoi compagni alla morte. O giovani prendete le decisioni estreme: nessuno dispone di una vita breve se in essa ha il tempo di scegliersi la morte, né inferiore è la gloria dell’olocausto supremo, o giovani, se affronterete con decisione il fato che incombe su di voi: dal momento che tutti gli uomini ignorano quel che li attende, è identico motivo di lode per l’animo sia perdere gli anni di vita sperati sia affrettare la fine nel momento estremo, purché sia la nostra iniziativa ad accelerare il destino. (lucano Pharsalia,iV, 481-484) altro esempio di suicidio come scelta estrema a seguito del tradimento d’amore, è quello della virgiliana didone. Allora Didone, tremante, esasperata per il suo scellerato disegno, volgendo attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse di livide macchie e pallida della prossima morte, irrompe nelle stanze interne della casa e sale furibonda l'alto rogo, sguaina la spada…(passim) premé la bocca sul letto. "Moriamo senza vendetta – riprese. – Ma moriamo. (Virgilio, eneide iV, 642-705) commovente in sofocle il suicidio di aiace telamonio, che, tornato in sé dopo l’orrenda strage, compiuta per errore, di un gregge di pecore, “lava” l’onta della vergogna di fronte all’opinione pubblica con la morte, trafiggendosi con la spada donatagli da ettore. umiliato dalla sua stessa azione, vittima del riso dei nemici è attraversato da un impetuoso desiderio di morte nella sua consapevole disperazione (sofocle aiace vv. 470 e segg.) Ora che devo fare?... Volere una vita troppo lunga è vergogna quando non c’è nessuna speranza di cambiare la sciagura. Che piacere ha in sé il giorno che si aggiunge a un altro giorno, che avvicina e ritarda la morte? Non stimo niente un uomo che si accende di vane speranze. Chi è nato nobile deve vivere bene o morire bene; questo

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è tutto. Ma non serve continuare a lamentarsi invano; è il momento di agire, e presto. O morte, morte, vieni, guardami!

Morti illustri la fermezza di fronte alla morte mostrata in momenti di particolare gravità da uomini illustri o da semplici cittadini ha creato pagine bellissime di eroiche virtù, che rifulgeranno anche negli eroi delle epoche successive e fino ai nostri giorni. lo storico tacito ce ne parla negli annales. nell’anno 65 d.c. nelle file dell’opposizione al principato si formò una vasta congiura, alla quale parteciparono, oltre a membri dell’aristocrazia, anche il prefetto dei pretoriani Fenio rufo e molti ufficiali. la congiura fu scoperta grazie alla delazione di un liberto. ne seguì una sanguinosa repressione, in cui congiurati effettivi o presunti, oppure uomini invisi a nerone, furono uccisi o costretti a darsi la morte. tra i nomi più illustri seneca, il poeta lucano, Petronio arbitro, trasea Peto, e tanti altri. il principato di nerone finiva così in un bagno di sangue, che decimò gravemente l’aristocrazia senatoria. Morte di Seneca (annales, XV, 60-64) la morte di seneca è la morte bella e serena di un eroe stoico, come prescrivevano i dettami che il filosofo aveva a lungo predicati. egli conforta gli amici piangenti e li richiama alla fermezza stoica contro le avversità. Morte di Petronio (ann. XVi, 19) Petronio, uomo raffinato, arbiter elegantiarum, accusato di aver aderito alla congiura pisoniana, fa del proprio suicidio il degno epilogo di una vita raffinata. non volle intrattenersi in discorsi elevati, o in gesti eclatanti che potessero in qualche modo creargli la lode del fermo coraggio. continuò anche nell’ultimo giorno a vivere secondo il suo habitus, sedette a banchetto e si abbandonò al sonno perché la morte, per quanto obbligata, avesse un’apparenza di casualità. ebbe solo il gusto di elencare le infamie del Principe e di inviargliele,


Joseph-Noël Sylvestre, La Mort de Sénèque, 1875, Béziers

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spezzando poi l’anello col sigillo, perché non servisse a trarre altri alla rovina. Morte di Epicari (ann. XV, 57) i primi congiurati dapprima negano, poi cadono in contraddizione. nerone allora fa sottoporre a tortura la liberta epicari, che, arrestata, era riuscita a sviare i sospetti. sottoposta in carcere a ogni genere di tortura, era riuscita a non cedere. il giorno dopo, ormai sfinita, infilò il collo nel laccio da lei stessa preparato, dando un esempio fulgido, in quanto donna, di forza d’animo, a difesa di uomini estranei a lei sconosciuti, mentre uomini liberi, senatori e cavalieri romani, non esitavano a tradire quanto di più caro avevano, pur di aver salva la vita. La commentatio mortis nella cena di Trimalchione la stoltezza umana arriva perfino ad ipotizzare la persistenza di differenze sociali varcata la soglia della morte e ci sono persone che si affannano affinché tale stato sia ben visibile. se ne preoccupa trimalcione, il protagonista del romanzo petroniano, il quale ogni sera organizza per sé dei macabri funerali costringendo tutti i presenti a piangerlo. durante la famosa cena, trimalcione si finge morto e fa celebrare il suo funerale per controllarne da vivo lo splendore: si fa portare i paramenti funerari, l’ampolla dell’unguento, del vino. ordina poi di portare il lenzuolo mortuario e la toga, apre l'ampolla contenente l'unguento e unge i commensali. in seguito fa entrare nella sala i suonatori di corno e uno schiavo suona così forte da svegliare il vicinato. agli squilli dei corni accorrono i vigili del fuoco, che pensano ad un incendio.

Sopravvivenza una doppia “religione” tende a superare l’angoscia provocata dal pensiero della morte: una forma per così dire laica e una propriamente religiosa. gli autori antichi ammettevano che l’unica possibilità di sopravvivenza consistesse nel ricordo di una vita

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esemplare. Certo non potrà avere nessun timore quegli per cui la morte è dolcemente attesa; ma neppure temerà chi pensa che l’anima viva solo finché è trattenuta dal vincolo corporeo e che, sciolta da esso, subito si disperda, se agisce in modo da essere utile anche dopo la morte. Per quanto egli venga sottratto alla vita dei suoi, tuttavia “torna alla memoria la grande virtù dell’uomo e la grande nobiltà della sua gente” (Virg. Eneide, IV, 3-4). Pensa quanto ci giovino i buoni esempi; comprenderai che il ricordo degli uomini grandi non ci è meno utile della loro viva presenza. (seneca, ad lucilium epist. mor. 102). un esempio fulgido di virtù militari e civili degno di sopravvivere a se stesso nella memoria dei posteri viene delineato nell’“agricola” da tacito. Se vi è un luogo per le anime dei giusti, e se, come i filosofi vogliono, le grandi anime non si spengono col corpo, riposa in pace; e richiama noi, tuoi cari, da sterili rimpianti e lamenti femminei alla contemplazione delle tue virtù, cui non si addicono né lacrime, né gemiti. Più vale a onorarti la stima, una lode senza fine e, se ne siamo capaci, l’imitazione di te: ecco il vero onore, la vera prova d’amore…venerino la memoria del padre e del marito in modo da rivivere sempre nel cuore le sue gesta e le sue parole, da chiudere nell’animo l’immagine e i tratti del suo spirito più che del corpo…immortale è l’immagine spirituale (forma mentis) che tu puoi serbare e riprodurre con la tua personale condotta di vita. Tutto ciò che in Agricola abbiamo amato, abbiamo ammirato rimarrà fermo nell’animo degli uomini per sempre. (tacito, agricola, 46)

La paura della morte tuttavia ammettendo pure la sopravvivenza nel ricordo o la rinascita nell’al di là secondo il principio dell’immortalità dell’anima, non si può nascondere


che in molti la morte in quanto tale fa paura, al punto che alcuni arrivano a darsi la morte per paura della morte. ci soccorre a questo punto epicureo nella lettera a Meneceo 1 [...] Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, ma, nato, passare al più presto le soglie dell’Ade”. Ancora, si ricordi, che il futuro non è né nostro, né interamente non nostro: onde non

abbiamo ad attendercelo sicuramente come se debba venire, e non disperarne come se sicuramente non possa avvenire. (epistola a Meneceo, 124-127) alla tesi epicurea si contrappone quella stoica che insegna la meditatio mortis, la sola cosa che invece libera dalla paura della morte, insegna a morire (e a vivere), dona piena sicurezza di fronte a un fatto che è effetto di una legge naturale. Noi, assai dissennati, crediamo che essa [la morte], sia uno scoglio, mentre è un porto, delle volte da cercare, ma mai da rifuggire, nel quale se qualcuno è spinto nei primi anni [di vita], non deve lamentarsi più di chi ha navigato velocemente.(seneca, lettere a lucilio, 70) la morte non deve fare paura, secondo seneca, perché non è un momento improvviso ma un processo naturale e graduale: si muore un po' ogni giorno; l'importante è saper impiegare bene il tempo che ci è stato dato. la vita non è dunque né lunga né breve, ma giusta, e il tempo è l'unica cosa che veramente ci appartiene, perché possiamo scegliere come impiegarlo. Si muore un po’ ogni giorno…la vita non è breve se la sai usare (seneca, de brevitate vitae) Per concludere, prendendo coscienza della ineluttabilità della morte, facciamo nostro il motivo del “memento mori” ("ricordati che devi morire"), convinti che la vita vada amata giorno per giorno con impegno e con gioia, con spirito di sacrificio ed altrettanto entusiasmo affinché nessun attimo venga sciupato, ma ogni alba sia per tutti l’eterno meraviglioso miracolo, prima che sorella Morte, come amava definirla san Francesco, bussi al nostro capezzale. infatti solo con tale consapevolezza del suo “modo di essere”, della sua finitezza, l’uomo può assumere la sua presenza nel mondo come esperienza “religiosa” capace di orientare la sua vita e la sua relazione con gli altri esseri umani in una dimensione per così dire universale.■

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uCiò detto

Nell’identità dello scrittore di Pierfrancesco Matarazzo - pima@fastwebnet.it Quel che c’è in più, dentro di me, non ha ancora assunto una forma piena. Non ne sono del tutto consapevole; è lì che attende il prossimo libro. Vidiadhar surajprasad naipaul – Premio nobel per la letteratura 2001

l’identità dello scrittore è nelle sue opere? sarebbe tale senza di esse? oppure è nei suoi lettori, nelle sensazioni che in essi muove, che vive la sua essenza? uno scrittore senza lettori non è più tale? domande che spesso abbiamo sentito porre agli scrittori durante le presentazioni dei loro libri da giornalisti annoiati o lettori vogliosi di distinguersi, domande che di solito l’autore gestisce rispolverando consolidati ed accettati cliché. eppure queste domande nascondono il fulcro dell’identità di uno scrittore, la sua ragion d’essere, la sua scelta o la sua necessità. naipaul, scrittore indo-anglofilo, nato a chaguanas, un piccolo villaggio dell’isola di trinidad, si sentiva come la sua terra: in bilico. non propriamente parte del sudamerica né riconosciuta come caraibica, trinidad non poteva considerarsi totalmente induista o musulmana né tanto meno britannica, sempre in bilico fra diverse identità. allo stesso modo naipaul combatte fra la sua esigenza di scrivere per comprendere se stesso e le necessità dei suoi potenziali lettori, sostenendo di essere la “somma dei suoi libri”, una rincorsa di intuizioni mai completamente appagate. ogni libro per naipaul si basa su quello che lo precede e da esso nasce, contenendo in sé tutti i suoi personaggi e tutte le loro domande. l’identità di uno scrittore sembrerebbe nascondersi a metà strada fra le sue memorie e i suoi progetti, nel punto di contatto fra l’effimera soddisfazione per la conclusione di una storia e l’ansia per quella che già si muove nella sua mente, sepolta sotto le ultime righe del suo precedente romanzo. Wislawa szymborska, poetessa polacca di rara sensibilità e sincerità, davanti alle domande da cui siamo partiti, ha sempre risposto con un deciso: “non so”. ribadendo che il

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“non so” era l’unica risposta possibile alle nostre domande, alla ricerca dell’identità universale di uno scrittore, sempre che essa esista. il dubbio, secondo la szymborska, diventa la fonte dell’ispirazione dell’artista, in primis del poeta, che continua a porsi questi interrogativi per tutta la sua vita; trovarsi davanti a un’incertezza gli permette di approfondire la sua ricerca, di scrivere una nuova storia, dandosi una nuova risposta che risulterà poi insufficiente, dando il via ad un’altra serie di dubbi e di storie. sebbene spesso, nel tentare di scavare nell’identità dello scrittore, ci si abbandona all’idea che egli scriva unicamente per se stesso e che quindi tenti di soddisfare un bisogno intrinseco di autoanalisi che prescinde dal risultato e sfocia spesso nell’egocentrismo, non si può pensare che questo stesso egocentrismo non porti con sé una ferrea volontà di essere letti, di essere ascoltati, seguiti. Volontà che si trasforma spesso in lotta. camus richiedeva “coraggio nella vita e talento nella propria opera”, ribadendo che se l’uomo ha bisogno di pane, non può mancargli il companatico più importante: la giustizia. uno scrittore, quindi, non dovrebbe prescindere dai suoi lettori e dalla loro sete di giustizia, dal mondo che lo circonda e lo condiziona, dalle regole che lo accolgono e lo stritolano, dalla voce che è ben piantata nelle persone, ma spesso è silenziosa, nascosta sotto troppi anni di rinunce. lo scrittore nel cercare la propria identità dovrebbe spiccare le sue parole per smuovere il terreno, per ricordare all’uomo chi è e, soprattutto, chi potrebbe essere. il dono di un talento presuppone un impegno nel farlo liberare, nel farlo urlare ciò che spesso non si è disposti a sentire, ma che si aspetta trepidanti più dell’aria che ci sveglia al mattino.


anche autori come l’ungherese imre Kertész o la rumena Herta Müller, che hanno vissuto sulla loro penna una dittatura che rendeva impossibile il desiderio della condivisione delle proprie opere, sminuzzando la loro identità in squadrate assenze e alienandoli da qualsiasi confronto o aspettativa di trovarsi di fronte ad un lettore, non hanno potuto sottrarsi all’effetto che i loro libri hanno avuto su chi li ha scoperti. davvero allora, come sostenne Kertész, una persona come lui non avrebbe scritto se non si fosse trovata a respirare la fine della primavera di Praga, scoprendo che ciò che metteva su carta sarebbe dovuto rimanere segreto anche a lui, per garantirgli la sopravvivenza? avrebbe impiegato la sua creatività in altro, “nel vivere che conta”, invce che in un’ipotesi di quello che non sarebbe mai stato? se accettassimo tale tesi, diremmo che l’identità dello scrittore non è certo nei suoi lettori, che non sono minimamente contemplati nel gioco creativo, ma tanto meno nell’autore, che scrive perché è privato di qualcos’altro, che sia la libertà o la serenità di una risposta. e allora forse viene meno l’utilità delle nostre domande?

accettare quello che nadine gordimer definisce il “proprio barattolo di latta”, quello che ogni uomo si porta dietro, vuoto e ammaccato come quelli che si attaccavano alle auto degli sposi all’uscita dalla chiesa; legati insieme da un filo di speranza, rimbalzavano sull’asfalto, colmando le domande con il loro frastuono, bloccando il pensiero, affinché non iniziasse a sminuzzare la realtà in troppi dubbi. o forse dovremmo accettare la regola aurea di goethe: “il compito di ogni artista è creare, non parlare”.■

lo scrittore potrebbe diventare una persona comune, forse più sensibile degli altri. Ma, come ci ricorda lo scrittore cinese gao Xingjian, l’essere più sensibili, porta ad essere più fragili. l’identità di uno scrittore non potrà essere quella di un eroe, unico portavoce di rettitudine ed esempio, non ne avrà mai la forza, sarà invece debole ed autentica e per questo giungerà alle orecchie di altri spiriti deboli e sensibili. Forse sarebbe meglio

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uIl mestiere dell’editore

Sellerio e identità

Promontorio di Capo Gallo e golfo di Mondello, Palermo

di Deborah Pirrera - apedex@tiscali.it la storia della casa editrice sellerio, nata sul finire degli anni ’60, è una storia legata a quella di una città, una strana città: Palermo, da sempre una capitale dell’occidente, da sempre alla periferia dell’occidente. quando elvira giorgianni, figlia di un prefetto e laureata negli anni ’70 in giurisprudenza, sposa il celebre fotografo enzo sellerio, sulla spinta delle discussioni con leonardo sciascia e antonino buttitta, si licenzia da Funzionaria Pubblica e investe la sua liquidazione nell’impresa e, da capaci protagonisti della vita culturale della città, elvira ed enzo sellerio decidono di dare vita alla casa editrice. gli anni ’60 a Palermo sono anni di fervore culturale che produce intellettuali tanto egocentrici e presuntuosi quanto originali e creativi, a dargli voce è la sellerio: fin dall’inizio una casa editrice periferica e interessata alle periferie ma che fa della provincia un punto di vista privilegiato che non vuole essere una nicchia, ma un soggetto. la linea editoriale, oggi come allora, si identifica nel termine “ameno” (coniato da leonardo sciascia); in anni in cui tutti sembrano scrivere e leggere di politica la prima collana

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sellerio si chiama invece La civiltà perfezionata. È fatta di carta pregiata e pubblica testi di «belle lettere»: ricercata letteratura, distante anni luce da ogni tempesta politica con un occhio alla letteratura siciliana e uno a quella letteratura europea meno nota e più raffinata. ogni volume è accompagnato da incisioni di grandi illustratori e da un’introduzione sulla scia degli scritti occasionali dello stesso sciascia, che in casa editrice si chiamerà “Nota” e che di fatto nel tempo rappresenterà una serie di riflessioni a sé. la svolta per la casa editrice, a dissipare i dissensi fra quanti avrebbero voluto conservare un’identità di nicchia e quanti si sarebbero voluti affacciare ad un panorama più vasto, avviene quasi per caso nel ’78 e il caso si chiama L’affaire Moro, di leonardo sciascia, libro di coraggiosa denuncia che venderà circa centomila copie. l’identità della casa editrice a livello internazionale è definitivamente tracciata: il libro di sciascia è fatto per essere goduto, pare essere scritto per pochi, all’interno di una collana di piccola diffusione, ma finisce nelle mani di tutti a rappresentare il prototipo tipico del libro sellerio.


Mancava ancora qualcosa a fare lo stile della casa editrice. in mezzo a libri grigi e tendenzialmente uguali fra loro, nasce allora il formato piccolo e quadrato, da tasca, disegnato da enzo e a basso prezzo, preceduto dal motto “piccolo è bello” e distinto dal colore blu “come la memoria” da affiancare a vivaci caratteri rossi o gialli, mai bianchi. la consacrazione a livello nazionale della casa editrice avviene con bufalino. la si potrebbe definire anch’essa casuale ma, per chi non crede troppo nel caso, va invece vista come un altro frutto del lavoro “stile” sellerio di cui è protagonista l’instancabile “donna elvira” che, per sua ammissione, è più spinta da una genuina curiosità che da logiche di mercato e dall’idea di “pensare che il lettore sia intelligente, più di quanto si immagini e più dell’editore”. l’incontro fra i due avviene nel 1981 e gesualdo bufalino non era uno che sembrava incoraggiare gli incontri. intellettuale schivo, più simile a uno studioso, fosse stato per lui quel “Diceria dell’Untore” sarebbe rimasto nel fondo di un cassetto e mai, come fece, avrebbe vinto il prestigioso Premio campiello. nel frattempo nel 1976 erano nate due collane di saggistica. Biblioteca siciliana di storia e letteratura e Prisma. di storia la prima (storia con la s maiuscola) di grandi eventi non solo siciliani, di saggistica classica la seconda. nel corso degli anni a queste prime si aggiunsero altre collane: La diagonale e La nuova diagonale, Fine secolo, destinate rispettivamente a saggi di varia natura, a lettere diari biografie e memorie di viaggio, alla letteratura dei diritti civili. dopo Diceria dell’untore sellerio, nel suo piccolo, contribuisce a riprendere l’esportazione della cultura italiana all’estero. accanto a bufalino, sono richiestissimi i diritti di traduzione di scrittori che la casa editrice va scoprendo. antonio tabucchi, Maria Messina, luisa adorno, sono i nomi più interessanti: scrittori caduti nel dimenticatoio, che sellerio scopre e rilancia. nel 1983 qualcosa rischia di compromettere la stabilità della casa editrice: elvira ed enzo si separano; sarà l’intelligenza dei due e la stima reciproca a non permettere che ciò accada. all’interno della sellerio si manterrà una divisione di ruoli e competenze con elvira a occuparsi dei settori della saggistica e della narrativa, mentre enzo sellerio si dedicò alle pubblicazioni di libri d'arte e fotografia.

Elvira Giorgianni

negli anni ’90 neanche la sellerio sembra resistere alla crescita delle grandi case editrici che finiscono con l’impadronirsi del mercato sino a inglobare i piccoli editori; bisognerà rimboccarsi le maniche e trovare qualcosa di nuovo: nasce il commissario de luca, “figlio” di carlo lucarelli; il genere di giallo all’italiana da cui seguirà un profluvio di gialli e polizieschi italiani e stranieri. Ma è solo l’inizio. basta fare due nomi: andrea camilleri e santo Piazzese, vedere alla voce giallo siciliano in stile sellerio. talmente tale è il successo del commissario Montalbano, di camilleri, forte di avere creato un personaggio e un linguaggio quanto mai originali, non senza un contorno di trame avvincenti, da rischiare, specie nei giovani, che la sellerio finisca con l’identificarsi solo con l’autore. sbaglia chi la pensa così e

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editoria. un artigiano robusto come un’ industria.

Leonardo Sciascia

dimentica la storia, anche la più recente: anche se tutti alla sellerio sanno quanto devono a camilleri con i suoi cinque milioni di copie vendute in italia e i diritti di traduzione venduti sino in giappone. nel frattempo, se ci fosse bisogno di ulteriore consacrazione delle sue capacità, elvira giorgianni diviene anche consigliere d'amministrazione della rai mentre la sellerio, alla fine degli anni ’90, è ormai un caso più unico che raro di piccola

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gli anni 2000 sono segnati dal successo camilleri ma, nonostante il capogiro dei grandi numeri, l’identità della casa editrice non ne viene stravolta. entrano in campo antonio ed olivia sellerio, figli della celebre coppia, bocconiano con esperienza a londra il primo, cantante appassionata di jazz la seconda; entrambi con fierezza parlano della loro esperienza in casa editrice e dei loro genitori da cui hanno ereditato l’idea che “il libro è un servizio che si può rendere alla società”. ci sono altre grandi sfide da affrontare, quella del multimediale, innanzi tutto, in cui la sellerio ha cercato nuove vie attraverso la produzione, per la prima volta in italia, di un cartone animato interattivo dal Cane di terracotta. un libro video e gioco interattivo insieme e il miracolo editoriale, per tornare ai libri, della canadese Margaret doody, con tre titoli di detection speculativa che hanno registrato più di centomila copie vendute. e ancora le scoperte più recenti. due giallisti di grande qualità e di grande successo. gianrico carofiglio l’inventore del «legal thriller» italiano e la spagnola alicia giménez-bartlett. Ma forse la sfida più ardua da affrontare, oltre allo star dietro al mercato che cambia e non sempre in meglio, è quella di superare la perdita per la recente scomparsa di donna elvira, lo scorso 3 agosto, compianta dal mondo della cultura, non solo e forse non abbastanza, affinché l’identità, che poi coincide con la storia, della casa editrice siciliana non vada con essa perduta.■


Ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi. Paolo Isotta

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uL’angolo delle interviste

Un incontro con Filippo Kalomenìdis di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it Diverse esperienze di scrittura alle spalle, eclettismo o altro? la narrativa è il mezzo di espressione che prediligo. non a caso, i lavori a cui tengo di più sono i miei romanzi Sotto la Bottiglia e il prossimo Un dio a caso che dovrebbe uscire nel 2011. Ma penso che uno scrittore esca rafforzato dall’uso consapevole di un altro medium: il teatro o il cinema o la televisione o il fumetto. Per questo vivo anche esperienze di scrittura legate non solo alla creazione di un romanzo ma anche alla nascita di un testo di transizione come il copione teatrale o la sceneggiatura. se non conosci l’ebbrezza della notte, non giochi con la luce; se non conosci il silenzio, non giochi col suono; se non conosci la parola che dalla gola di un attore sul palco attraversa lo spazio fino a conficcarsi nelle orecchie dello spettatore non giochi con la musica che si deve levare, a volte assordante, a volte incantata, dalla parola scritta su un libro; se non giochi con la parola che deve diventare immagini di verità fulminea su pellicola, non conosci il fluire allucinatorio che deve afferrare gli occhi di chi legge un romanzo; se non conosci la rapidità della parola che diventa immediato flash televisivo, non giochi col taglio rapido che toglie al lettore il tempo di allontanarsi dal tuo racconto su carta.

Credi che scrivere abbia ancora senso oggi nel nostro paese? Te lo chiedo perché

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alcune domande di pasoliniana memoria mi sembrano del tutto attuali. leggere un romanzo, un racconto, una poesia, quando sono scritti dall’autore con autenticità espressiva e capacità di scaraventare il lettore in un mondo altro e al contempo vicino è un’esperienza fisica, emotiva, intellettiva che non ha pari. scrivere è “intelligere”. e, come diceva il filosofo Franco dionigi, “l’intelligere è un atto di violenza”. Proprio perché ci circonda una realtà dove la mediocrità emotiva schiaccia e comprime tutto, chi ha l’emergenza di raccontare contesti estremi e la loro lingua ha il dovere di far male con parole e storie acuminate o di carezzare con parole e storie avvolgenti. credo che tante persone abbiano voglia di emozionarsi leggendo. sono stufe delle esili figurine, della mediocrità emotiva borghese di troppi libri in circolazione. l’italia è una nazione devastata e incattivita. e francamente le belle case in cui vivono famiglie agiate, le paturnie dei cinquantenni con l’amante, le solitudini adolescenziali o postadolescenziali snob e dorate, descritte da autori incapaci di emozionarsi, hanno ampiamente nauseato. i lettori non ne possono più di autori il cui immaginario è ristretto quanto lo spazio tra la loro libreria e il salotto in cui pontificano sui Potenti, per poi felicemente incassare denaro dalle loro aziende. c’è sempre più bisogno di personaggi vivi e di scrittori che vivano per davvero e raccontino l’indicibile, che vadano a cercare storie urgenti solo apparentemente nascoste. non bisognerebbe mai scordare le radici del termine “favola”. “Favola” è ciò che merita di essere detto. abbiamo il dovere di narrare le “favole inquiete” del nostro presente. con Sotto la bottiglia ho cercato di fare questo.


Pensi che l’identità linguistica sia un surplus? Le tue origini sarde concernono una lingua, non un dialetto… i dialetti secolari sono lingue. gli slang di strada, i “linguaggi dell’asfalto” da bolzano a enna, passando per roma e sassari, sono delle lingue vere e proprie. l’espressività verbale frantumata dei dropout, dei marginali, dei malati di mente, degli esclusi in genere, è a sua volta una variante del linguaggio. il nuovo italiano che ci regalano gli immigrati, così ricco di riferimenti e metafore che provengono da un mondo non industrializzato – ancora contadino e arcaico – è un altro innesto decisivo. lo stesso vale per tutte le sfaccettature dialettali presenti in sardegna. oggi la sfida è capire che sia i dialetti, sia la lingua dell’asfalto, sia l’idioma dei sottoprivilegiati debbono essere assimilati in unico tessuto che arricchisce l’italiano di chi scrive. È un magma incendiario che chi vive a contatto con la realtà trova ogni giorno e ogni notte per strada. lo scrittore deve raccogliere questo enorme tesoro, fonderlo, rielaborarlo e portarlo nelle proprie storie, rendendolo ovviamente comprensibile al lettore che si trova a qualsiasi latitudine. in sotto la bottiglia ho lavorato in questa direzione. e quasi tutti i lettori sono rimasti travolti ed emozionati da questo tipo di operazione. che fossero valdostani, milanesi, romani, napoletani, sardi o immigrati. la potenza dell’identità linguistica sta nel mescolarsi di differenti identità.

La nostra lingua italiana è sempre più violentata dagli sms o dalle chat, reggerà il colpo? non penso che il problema siano gli sms, le abbreviazioni ignobili o la simultaneità cazzona delle chat. il problema è che gran parte dei committenti editoriali e degli scrittori vive in un universo autoreferenziale. su troppi scritti passa una pialla normalizzatrice che rende molti libri inutili. dove non c’è più la capacità di ricordarsi l’importanza del linguaggio e che ogni storia ha il proprio linguaggio. la voce del narratore è quasi sempre – insopportabilmente – piana e ipertecnica, le voci dei personaggi non mutano mai. Voci false, uniformate. sempre le stesse voci impostate. chi violenta la nostra lingua sono coloro che pubblicano simili libri o li scrivono. non chi usa – compiendo una piccola troiata – il t9 sul cellulare. non si può paragonare chi scheggia il vetro di una finestra a chi demolisce a colpi di cluster bomb dei palazzi millenari.

C’è attenzione alla lingua nel mondo televisivo italiano, almeno dal tuo punto di vista da addetto ai lavori? in questo sono stato fortunato perché ho lavorato a serie televisive stimolanti con editor come sandrone dazieri, Massimo Martella, leonardo Valenti, daniele cesarano e barbara Petronio, dove ci si è interrogati sempre sull’importanza del linguaggio dei personaggi oltre che sulla possibilità di conquistare il pubblico. il problema è che il controllo spietato delle reti generaliste si esprime nella pialla normalizzatrice cui ho accennato. l’attenzione c’è senza dubbio da parte di editor e sceneggiatori. da parte dei committenti c’è invece spesso solo la paura di presentare qualcosa di non convenzionale e allontanare lo spettatore (terrore che esiste ormai anche al cinema, ahi noi). Ma produzioni come intelligence (a cui ho partecipato) o romanzo criminale dimostrano che lo spettatore vuole essere sbalordito e non sedato. speriamo che i committenti comprendano questo cambiamento.

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E nella narrativa? Vedo delle eccezioni che fanno ben sperare in un nuovo corso. Penso al fraterno amico angelo Petrella con nazi Paradise, cane rabbioso o la città perfetta. a lorenza ghinelli che vi spalancherà gli occhi di angoscia col suo “il divoratore” (uscirà a breve con newton compton), che evoca aspramente il linguaggio dell’adolescenza. insomma, se questa nuova leva di autori dall’underground pian piano passerà all’overground, credo che ci saranno finalmente scossoni. inoltre, dal punto di vista editoriale, etichette indie come la boopen led di aldo Putignano o ad est dell’equatore di ciro Marino, si muovono decise in questa direzione e sostengono autori che non hanno paura della forza della parola caustica che sconvolge i tristi canoni correnti.

Quali sono le dinamiche d’identità che più ti preoccupano in senso negativo? l’identità è una ricchezza quando si sposa con altre identità. quando diventa un fortino, una realtà separata, è sempre un fatto pericoloso e limitante. in sardegna, spesso, sia in campo letterario che cinematografico che teatrale si fa commercio di un’identità chiusa. la lingua sarda ha forza quando confluisce nell’italiano letterario e comune. chi fa simili operazioni fini a se stesse per arraffare soldi in nome della difesa delle tradizioni ingrasserà il proprio conto in banca, ma tratta un patrimonio linguistico sconfinato come un codice segreto da bantustan o da suicidaria riserva eschimese. l’uso di un dialetto stretto e incomprensibile è inutile e contro l’evoluzione della nostra scrittura. ripeto: bisogna immergere la propria identità nello straripante fiume dell’identità linguistica nazionale. e la corrente sarà più turbinosa e il colore dell’acqua più vivido.

È soltanto un discorso da umanisti o invade anche altri territori?

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È un discorso che riguarda tutti. non solo scrittori e lettori. in italia, paradossalmente, parlano un italiano vivo, fertile, feroce e ammaliante i sottoprivilegiati, gli esclusi, le “vite infami”, direbbe Foucault. le élite si esprimono con una lingua plastificata in cui una parola vale l’altra. Per strada le parole hanno ancora importanza. Per strada le parole feriscono, esprimono amore, sono incendiarie, inventive. Per strada non conta solo essere forti fisicamente e fottere il prossimo. È questo che mi ha dato coraggio nel raccontare i moderni rum runner sardi, albanesi e rumeni della roma visionaria e inedita di sotto la bottiglia. nei salotti delle élite, le parole sono soltanto un insensato e piatto rumore di fondo. gli autori dovrebbero riflettere di più su tale aspetto.

Raccontaci un esempio concreto di vita vissuta nel quale hai compreso che l’identità linguistica è un tema assai più complesso di quanto si vorrebbe fare immaginare. ribalto la domanda. l’identità linguistica è un tema più sentito dalle persone comuni di quanto si possa immaginare. basta un’opera autentica e forte per aprire porte impensabili. quando ho sentito lettori non sardi, conosciuti alle presentazioni, che hanno amato il mio libro, usare parole presenti in sotto la bottiglia come il verbo sassarese “furare” (cioè rubare, deriva da un arcaismo petrarchesco) mi sono emozionato. e ho avuto conferma che la forza dell’identità linguistica sta nello sporcarsi, nell’unirsi, nell’amalgamarsi brutalmente con altre identità. del resto, da sempre, questa è la componente fondante e decisiva della lingua italiana: sia di quella letteraria che di quella parlata.■


Una lingua tagliente è l’unico strumento acuminato che migliora con l’uso. Washington Irving

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uLa metà oscura del mondo

Identità e spersonalizzazione strego di Maria Antonietta Pinna - marylibri1@gmail.com

Son bello, / ma non nello specchio dell’anima / con la cornice di legno, / quello scandaglia e disamina il cuore, / ogni suo più piccolo segno. / Mi scorgo, un mostro d’aspetto, / blocco di ghiaccio sul petto.

in antichi manoscritti di fanatici inquisitori cinquecenteschi, le streghe nell’ora che precede la mezzanotte si trasformano in gatti neri, s’intrufolano nelle case, vengono battuti. l’indomani la strega presenta delle ferite nello stesso punto in cui il gatto è stato battuto. questo fenomeno di percussione indica una spersonalizzazione, una perdita di identità. e sono soprattutto donne le protagoniste di queste storie. elifas levi, ne La storia della magia, pervaso da misogino furore, inquadra la donna in un preciso ruolo sociale, moglie sottomessa, madre mansueta: “la Provvidenza, imponendo alla donna i doveri così severi e così dolci della maternità, le ha dato diritto alla protezione e al rispetto dell’uomo. assoggettata dalla natura stessa alle conseguenze delle affezioni che sono la sua vita, essa conduce i suoi padroni con le catene che le dà l’amore”. guai alla donna che osa mettersi al di sopra dei doveri del suo sesso, essa è strega1, sirena che ammalia e

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distrugge, lamia, avvelenatrice, mostro d’immoralità e di laidezza necrofila, fabbricante d’unguenti repellenti da cadaveri di fanciulli, origine della magia nera”2. che un religioso occultista ottocentesco esprima idee così arretrate sulle donne, forse non meraviglia più di tanto, data l’epoca. Ma i progressi sono lenti, specialmente quando si parla di emancipazione femminile. lo testimoniano le parole del reverendo esorcista neil-smith della chiesa di st. saviour, intervistato negli anni ’70 da giordani e locatelli. “soprattutto donne. sono le donne le più fanatiche seguaci del diavolo”. il prete azzarda anche una spiegazione sociologica del fenomeno: “le donne, escluse nelle liturgie cristiane dalla celebrazione dei servizi divini, sfogherebbero nei riti diabolici le loro ansie sacerdotali. anche nei secoli passati le donne possedute dal demonio erano molto più numerose degli uomini: in tre secoli vennero mandate al rogo sei milioni di streghe”3. le ragioni per cui il mondo femminile è escluso ancora oggi dal sacerdozio affondano le loro radici in tempi discriminatori, di anacronistici ed inumani pregiudizi gerarchici. le presunte streghe del 500 confessavano delitti contro dio e il popolo, sotto tortura affermavano di aver rovinato biade, ucciso cavalli, distrutto case, appiccato incendi,


onesca

gettato malefici contro vicini e nemici. Ma la strega sotto tortura chi era? Perdeva identità e dignità in nome di un delirio di colpevolezza estorto con la forza. la poveretta a cui venivano strappate le unghie, punta la pelle e la carne con aghi lunghissimi, rasata preliminarmente per umiliazione e anche perché si pensava che nei capelli potesse nascondersi satana, confessava di aver perso la propria identità, scioltasi in gatto, cane, mostro, lupo, capra, ecc. diceva di essersi cosparsa di unguento tutto il corpo per poter volare al sabba. gli unguenti si componevano di piante psicoattive, stimolanti, calmanti e talvolta velenosissime tanto da provocare alterazioni del sistema nervoso centrale, narcosi e avvelenamenti con conseguente perdita di identità. quisquiamo, belladonna, mandragora officinarum. tre specie connesse spesso con magia, stregoneria e superstizione. già durante tutto il Medioevo, come dice gerolamo cardano, ebbe largo uso una droga psichica chiamata “unguento Populeone”. dorvault in “officine de pharmacie pratique” informa su composizione e preparazione della formula. “gemme di pioppo seccate, foglie fresche di papavero, di belladonna, di quisquiamo e di morella. si fanno cuocere questi ingredienti nell’assugna (grasso) fino

a quando l’umidore non è del tutto evaporato. questo unguento, strofinato alle caviglie, al collo e alle braccia calmerebbe i dolori rendendo assai piacevole il sonno”. le piante, la misoginia inquisitoria, la superstizione, ed ecco la strega è servita, ha mille identità, mille volti ferini, lamie, sirene, maghe, circi, donne che indagano, intrugliano pozioni, cercano di dominare la natura. l’idea di una donna che ha un potere nei secoli bui dell’inquisizione era scandalosa e forse lo è ancora, purtroppo.■

______________ “È sopratutto in spagna e in italia che pullulava la razza delle streghe...”, elifas levi, La storia della magia, atanor, 1982, p. 65.

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2 “gli stregoni presso i greci, e specialmente in tessaglia, praticavano orribili insegnamenti e si abbandonavano ad abominevoli riti. erano in generale delle donne piene di desiderii che non potevano più soddisfare, delle cortigiane diventate vecchie, dei mostri d’immoralità e di laidezza. gelose dell’amore e della vita, queste miserabili femmine non avevano amanti che nelle tombe, o piuttosto violavano le sepolture per divorare la carne fredda dei giovani di spaventose carezze. esse rubavano i fanciulli di cui soffocavano le grida contro le loro poppe cascanti. le si chiamavano lamie, streghe, avvelenatrici; i fanciulli... erano da loro sacrificati... tagliavano loro la testa e facevano sciogliere il loro grasso e la loro carne in bacini di rame, fino alla consistenza d’un unguento che mescolavano al succo del giusquiamo, della belladonna e dei papaveri neri. esse empivano di questo unguento l’organo senza tregua irritato dai loro detestabili desiderii, se ne stropicciavano le tempie e le ascelle, poi cadevano in una letargia piena di sogni sfrenati e lussuriosi. bisogna dunque ben dirlo: ecco le origini e le tradizioni della magia nera...”, ibidem. 3

s. giordani, luigi locatelli, L’uomo e la magia, sei, 1974.

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uMeridione d’inchiostro

Livio Romano, le identità e la crisi generazionale di Giovanni Turi - gt1983@libero.it ad aprile 2011 uscirà il suo nuovo romanzo Il mare perché corre (titolo ispirato a una poesia di bigongiari) e già livio romano si premura di anticipare sul suo blog, livioromano.splinder.com, che sarà un’opera ben diversa da quelle che l’hanno preceduta. ancora una volta, dunque, lo scrittore salentino ha deciso di rinnovarsi, di sperimentare nuove tematiche e una differente scrittura. eppure dopo il successo della raccolta di racconti Mistandivò, pubblicata con einaudi nel 2001, avrebbe potuto continuare a scrivere con gli ingredienti che lo hanno reso noto: l’analisi spietata e irriverente della crisi d’identità delle nuove generazioni e un pastiche italiano-dialettale-aulico-gergale ironico ed esuberante. Protagonisti di questi racconti sono alcuni giovani scapestrati della provincia leccese, costretti a un ininterrotto girovagare per guadagnare pochi spiccioli o anche solo per ammazzare la noia, l’apatia, l’insoddisfazione; rigurgitano parole pensieri imprecazioni amalgamati dall’amarezza per una marginalità geo-politica e sociale che il corso del tempo non ha mai mutato. tuttavia questa terra senza prospettive non possono che amarla, e rimpiangerla quando se ne allontanano (salvo poi biasimarla ancora al loro ritorno): forse per quanto di inimitabile la contraddistingue (dalla natura alla gastronomia), forse perché solo i luoghi della giovinezza si sentono davvero propri, forse perché altrove, dopo un secolo e mezzo di convivenza, i pregiudizi nei confronti dei meridionali persistono inalterati e perniciosi. Il cartone coi vestiti è partito ieri col cugino Stefano. Ora le resta da piazzare tutto sulla Visa, metterci un altro po’ di benza e guadagnare con velocità la

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stazione di Modena centrale. Colà ella caricherà la vettura sul treno ciuffete ciuffete dritta al sole dritta al Sud al tetto paterno ai fichi d’India colorati e andatevene pure tutti a cagare, uomini e donne insieme di ‘sta cittadella nebbiosa, anzi, se proprio, dovete andare a «cacare», ché dalle parti mie si dice così […]. a questi racconti ha fatto seguito Porto di mare (sironi 2002), un romanzo reportage questa volta, che narra la battaglia civile del “comitato per la salvaguardia di serra cicora” per preservare una spiaggia incontaminata che, all’oscuro della cittadinanza, è destinata a diventare un porto turistico: l’impegno disinteressato di un eterogeneo manipolo che va dai “rifondaroli altamente politicizzati ai più sognanti ecologisti” si scontra con l’incuria della società civile e l’avidità dei potenti. in Niente da ridere, edito da Marsilio nel 2007, tornano alcune tematiche di Mistandivò, in particolare la precarietà lavorativa affettiva esistenziale; ma, come l’autore, sono cresciuti anche i suoi personaggi – e che il protagonista principale, gregorio Parigino, sia un alter ego dell’autore non v’è dubbio alcuno. gregorio ha una moglie autoritaria, due figlie, mamma e zio a carico, una candidatura politica accettata controvoglia, una sventurata amante, una ridda di amici in difficoltà, innumerevoli psicosi, fa l’insegnante e si dedica (clandestinamente) a svariate attività culturali: oltre che cercare di districarsi in questo pandemonio, si interroga sulle sorti della sua generazione e sulle mancanze della precedente E quando ti comunicai che volevo fare il maestro come te. Cosa mi rispondesti? Che sposarsi era una iattura divina, che l’amore


Piero Bigongiari

passa, che restano i debiti. Cosa cazzo c’entrava questa risposta con la decisione mia di non fare alcun lavoro che avesse a che vedere con la facoltà universitaria che m’ero scelto? […] E so bene che io come figlio ero un tormento. Vittima dei miei stessi abbagli. Dei giubbotti da cacciatore sopra i completi color fango, delle camice celesti, del Sole 24 Ore, dell’Economia Unico Metro Dell’Esistenza, degli anni ’80. Ognuno è vittima del proprio secolo. Tu performance degli anni ’60, io ostinato prodotto dei miei ‘80. la nevrosi sembra allora essere la condizione normale di ogni essere pensante (e gregorio pensa continuamente… ), eppure in Niente da ridere la scrittura di livio romano si normalizza, pur se persistono l’ironia dissacrante e tracce del suo gusto per la sperimentazione linguistica, quasi abbia avvertito l’esigenza di rinnegare le aspettative dei suoi lettori, di conquistarli per altra via, di rinnovare ancora una volta la sua identità di scrittore.

E ora cosa dobbiamo attenderci da Il mare perché corre: sarà anche questo un romanzo engagé (nel tuo personalissimo modo di intendere l’impegno intellettuale)? Cosa ti spinge a rimetterti ogni volta in discussione? l’ultimo romanzo, Niente da ridere, aveva in sé un grandissimo sforzo di costruire un plot accattivante, nonché di adoperare una lingua il più possibile sgombra dai ghirigori e dai fuochi d’artificio linguistici che avevano caratterizzato i miei esordi. la critica accademica ha storto il naso, ma in compenso ho guadagnato moltissimi lettori che si sono riconosciuti in quella storia, che m’hanno detto

di aver provato le stesse emozioni messe in scena nel romanzo. quel che mi interessa – vengo dal giornalismo – è comunicare alla gente delle storie, e farlo con la lingua che via via scelgo (pure se su questa “scelta”, alla fine, c’è poco da intervenire: ti puoi sforzare di mantenere certi standard, ma alla fine viene fuori il tuo stile, non c’è niente da fare, quello stile che ti contraddistingue da tutti gli altri che è la sostanza stessa del narrare). sì, a modo suo questo piccolo romanzo che uscirà è “impegnato”, non potrei mai fare a meno di uno sfondo politico. detto questo, l’idea di partenza era a) accantonare, dopo l’abbuffata di Niente da ridere, la prima singolare, b) capire (ché questo fa un narratore, in definitiva: capire, investigare, scoprire, in-ventio è “tirare fuori le storie”, portarle alla luce) dove diavolo stesse andando un uomo dall’aspetto trasandato, di notte, in novembre, con i finestrini dell’auto aperti nonostante il gran vento. una sola scena come idea di partenza. e questo mio topos che ritorna sempre, ineluttabilmente. il viaggio verso il nord. Poi man mano l’idea è diventata due uomini in macchina. in un’atmosfera opalina, sospesa, noir perfino, asciugata di ogni rocambolesca comicità. uno ha 46 anni, l’altro 82. tutt’e due vanno in cerca di un grande amore ma in realtà fuggono: da un morto ammazzato, dal proprio passato, dalla loro sbiadita quotidianità paesana. in una notte e un giorno allucinati, senza sonno e senza sosta, nell’abitacolo di quell’auto si incrociano, in un gioco simmetrico, la storia d’amore per Helena, giovanissimo medico bosniaco, e quella speculare per nela, ebrea sefardita scampata ai lager nazisti. due racconti, uno antico, l’altro recente, in cui scorrono la storia dello stato di israele e la guerra civile in bosnia, l’assassinio di Marco biagi a opera delle nuove brigate rosse (argomento, quest’ultimo, da sempre per me misteriosamente interessantissimo) e il terrorismo di al

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qaeda, l’invasione dell’iraq e la politica imperialistica dell’amministrazione bush. un on the road nello spazio e nel tempo che mi dà l’occasione di mescolare, in un lungo dialogo all’interno di una vecchia automobile, alcune delle pagine della storia dell'occidente e le storie di due uomini qualsiasi alla ricerca di una personale redenzione terrena.

Tre gli aspetti cruciali della tua produzione letteraria: il culto della lingua, la crisi della tua generazione, il Meridione. Perché proprio questi e non altri? be’, son figlio di insegnanti, dico sempre. nel senso proprio di: ultimo discendente di una stirpe di insegnanti. cugini zie nonni bisnonni, tutta (povera) gente di scuola. Persone dallo stile di vita tendenzialmente morigerato ma attentissime al valore della cultura e, soprattutto, della lingua italiana parlata e scritta come si deve. da sempre nutro questo rispetto liturgico non solo per la correttezza formale della lingua, ma anche per l’eufonia, per il bello stile. colleziono e, ahimè, aggiorno di continuo una mia personale lista di modi di dire e parole orrende in uso in tv e sui giornali e, di riflesso, fra la gente. aggiungi una professoressa di liceo severissima quanto colta e generosa, tiri le somme ed ecco qua l’attenzione

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maniacale, quasi “poetica”, per il periodo, per la sua struttura sintattica e lessicale. Poi non amo alcun tipo di genere. Mi annoiano da morire la fantascienza, il poliziesco, l’horror. l’ho detto: vengo dal giornalismo. Mi interessa raccontare la realtà, la gente comune, la lonely people, per citare i beatles. e inevitabilmente, uno che – come decine d’altri narratori italiani – non avrebbe scritto un rigo se non avesse letto tondelli: parte da se stesso, dal proprio “giro” di amici che diventano proiezione di un’intera generazione. se poi metti che questi personaggi à la brancati vivono penzolanti fra un nord che li attrae e li respinge insieme, e una realtà paesana e meridionale sempre più sclerotizzata invece che evoluta: c’è materiale addirittura – lo dico in punta di penna, ma lo dico – per far scuola. Ho scovato da poco un ragazzo davvero bravissimo che in un manoscritto sembra aver mescolato insieme i miei tre diversissimi libretti ambientandoli nella calabria più arretrata.

Hai esordito giovanissimo con i racconti pubblicati un decennio fa nelle antologie Sporco al sole (Besa) e Disertori (Einaudi), sembrava che un magma creativo dimorasse nelle contrade del Sud; oggi cosa ne rimane? Come ti sembrano le nuove leve?


una certa tendenza della narrativa meridionale (felicemente definita da giulio Mozzi “iperletteraria”) a mettere in scena la “monocultura del dolore”, come la chiama il critico Michele trecca, esiste davvero. anni fa proprio trecca, gaetano cappelli e enzo Verrengia lanciarono un appello ai giovani narratori meridionali under 25: “ci siete ancora? avete ancora delle storie da raccontare? dei panni sporchi da lavare al sole? Venite fuori”, proposero attraverso i media all’epoca più frequentati dai “giovani”. ne venne fuori un’antologia, Sporco al sole, appunto, che conteneva racconti dirompenti rispetto al dolorismo meridiano, a quella poetica della luparafazzoletto nero in testa-sciallino di lana sulle spalle che aveva caratterizzato le narrazioni del sud dal neorealismo in poi. racconti che utilizzavano spesso materiale gergale, idioletti, dialetti, anglicismi, perfino il latino, e che mettevano in scena un vitalismo giovanile inedito fino ad allora, una voglia di togliersi i cliché di dosso, di raccontare la realtà con irrisione, ironia, esuberanza. da quegli esiti son venuti fuori scrittori veri che hanno poi pubblicato con importanti case. annalucia lomunno ha trovato dimora da Piemme. Francesco dezio con Feltrinelli ha fatto uno dei primi dei tantissimi libri sul precariato lavorativo. io stesso ho continuato i miei esperimenti linguistici dando vita a Mistandivò con einaudi. insomma c’è ed è fiorente una narrativa giovane meridionale che guarda inevitabilmente alla realtà ma che della realtà restituisce un’immagine deforme, grottesca, dileggiante. ed è anche molto forte, al di là della lingua, anche la voglia di raccontare storie che al sud siano ambientate, ma che siano dotate di elementi universali per cui il luogo geografico in cui si svolgono le vicende diventa soltanto un accidente. tanto per citare due autori, penso alle storie oblique di diego de silva, prima della virata umoristica, e a quelle tragicomiche di gaetano cappelli. Poi c’è il filone reportagistico dentro al quale spicca saviano ma solo come ultimo atto di un processo che è iniziato più di dieci anni fa. la cosiddetta docu-fiction è una pratica adottata anche da molti cineasti meridionali (bellissimo il lungometraggio “italian sud est”, del collettivo Fluid Video crew). Ma restando alla scrittura, è antonio Franchini che con L’abusivo, la storia del caso siane, ha inaugurato questo mix di narrazione e giornalismo. Poi son venuti i libri di Pascale, antonella cilento ha fatto un bel

pamphlet sul panorama culturale partenopeo, Non è il paradiso. il mio Porto di mare ha la struttura di un romanzo, la lingua piana, ma ironica, di un reportage giornalistico e si addentra in taluni fatti, in talune battaglie ambientali realmente combattute denunciando e mettendo nero su bianco fatti gravissimi (non tanto gravi quanto quelli descritti da gomorra, poiché la Puglia è un’oasi felice, all’interno del meridione italiano) che, forse proprio perché “messi in scena” e per di più con grande spiritosaggine hanno fatto più ridere che riflettere. l’esigenza dei trentenni di tornare a scrivere storie impegnate, storie che denuncino, che, soprattutto, mettano in luce la grandissima discrasia fra il “continente” dove a lungo essi hanno studiato e vissuto (un continente, il nord d’italia e l’europa dei master e dei periodi erasmus, dove tutto funziona, dove esci da casa e trovi mediateche con tutto il bendiddio dell’arte di tutti i tempi, dove la buona sanità non è un privilegio di pochi ma una pratica consolidata) e i brutti paesoni meridionali devastati dall’orrore dell’abusivismo, dalla violenza delle mafie, dallo sbarramento totale al lavoro anche se hai un Phd a Harvard: è fortissima, l’ho detto. Ma i libri recentemente usciti mostrano anche come i trentenni, già rispetto a quelli di soli cinque anni fa, son già dentro al precariato, il free lancing è una condizione lavorativa ed esistenziale che loro vivono senza drammi. ragazzi digitali, abituati a vivere i non luoghi della rete e del pianeta e a spostarsi di continuo coi voli low cost. insomma, vedo meno lagne, meno indignazione, anche nei racconti che leggo. racconti, ancora una volta, che solo a volte hanno il sud come ambientazione, ma che spesso utilizzano posti immaginari o lontanissimi. e se ci guardiamo intorno vediamo anche che il genere sta avanzando sempre più fra i narratori meridiani. non solo il noir, ma anche il fantasy, le diverse forme di thriller ecc…

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cito su tutti, ma solo a titolo esemplificativo, elisabetta liguori, uscita con Pequod (Il correttore, ndr). un delitto maturato in ambienti ecclesiastici per raccontare le incertezze e le speranze di un giovane magistrato. insomma la vecchia regola di creative writing Show, don’t tell…

Tra le tue numerose attività, anche quella di docente di scrittura creativa: cosa consigli agli aspiranti romanzieri e poeti? un consiglio? evitate come la peste un mestiere come questo. Carmina non dant panem! se proprio non riuscite a liberarvi dell’ossessione della scrittura, nel senso che nessuna attività al mondo vi fa stare bene come quando siete con un pc o un taccuino davanti e siete liberi di lasciare andare la fantasia, allora vuol dire che siete nati per scrivere. leggete moltissimo. come diceva calvino, soprattutto classici, tanti. Ma non trascurate i contemporanei. Fate fuori un contemporaneo ogni due classici. non abbiate remore nell’imitare. imitando i modelli, esattamente come fanno i pittori, pian piano si trova un proprio stile e ci si libera, si “uccide” il grandissimo scrittore che ci ha folgorati e si vede nascere un linguaggio che è solo e soltanto vostro. Ma non crediate neppure per un

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momento che vivrete di quello che scriverete. il grande successo di pubblico è un evento del tutto eventuale e completamente casuale. trovatevi un lavoro che vi dia da vivere e tenete presente che per tutta la vita inseguirete la scrittura come un’amante da vedere di nascosto, in un tempo che appartiene solo a voi e lei. anche se siete ricchi di vostro, non statevene rinchiusi nel vostro studio per tutto il tempo. Frequentate molta gente e viaggiate e amate e soffrite poiché la scrittura si nutre di vita e viceversa. oggi in italia c’è molta più gente che scrive rispetto a quella che legge. nella case editrici arrivano ogni giorno migliaia e migliaia di manoscritti che spesso restano lì in attesa di essere cestinati. infatti spesso gli editori, nel proprio sito, vietano i cosiddetti “invii spontanei”. esistono agenzie letterarie che leggono a pagamento un’opera, ne danno un giudizio e a volte si impegnano in prima persona a cercare un editore. il modo migliore per farsi notare resta scrivere per le riviste, cartacee e sul web. Fatevi pubblicare i vostri racconti, qualcosa succederà, prima o poi, perché gli editori sono molto attenti a quei laboratori spesso interessantissimi che sono le riviste. se credete di aver scritto un romanzo davvero buono, cercate qualcuno che vi proponga agli editori. scrittori, editor, agenti, talent scout. carpite qualche ora della loro attenzione: non sono delle carogne come li si dipinge spesso, e anzi provano un gusto molto narcisistico a “scoprire” nuovi talenti.■


Quarant’anni è un’età terribile. Perché è l’età in cui diventiamo quello che siamo. Charles Péguy

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uEsordire

Sangue di cane di Veronica Tomassini di Sara Gamberini - saragamber@libero.it Szelem, lo strazio, la separazione, la morte, la libertà che esulta, il paradosso del dramma dei diseredati, tutto insieme, questa è la musica dei proscritti, voi, anzi noi, l'inno di tutti i confinati che ebbi l'onore di incontrare, con i quali spezzammo il pane. Szelem. Voi eravate i poeti del dolore, i poeti, muti e ciechi.

un fegato che scoppia è la mia immagine per questo libro, umori, liquidi organici, un corpo martoriato, violaceo e gonfio. un'aureola rincalcata sulla testa dei protagonisti, sistemata senza grazia, illuminati controvoglia. una giovane donna siciliana si innamora di sławek, polacco, semaforista, alcolizzato. scende con lui all'inferno, popolato da uomini che muoiono sulle panchine, congelati, stremati dall'alcool e da prostitute che scopano con tutti alla casa dei morti, l'albergo dei poveri, con i pavimenti ricoperti di vomito, mentre qualcuno muore in un angolo, su un materasso pieno di zecche e pulci. rogna, sifilide, pidocchi. ci si spurga, prima di morire. sławek tenta la redenzione molte volte, si disintossica, trova un lavoro, i due vanno a vivere insieme puliti, felici, sospesi. la vita normale, il bucato, i panni stirati, il bambino che va a scuola, la domenica trascorsa con i nonni, i vicini di casa che si ricredono sul loro conto. Ma il polacco, sangue di cane, come lo chiama lei, all'inferno ci torna sempre. scappa. lo espatriano. Va in comunità, coltiva l'orto in una realtà parallela dove il male è bandito e poi di nuovo vodka, prostitute, fogli di via.

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la redenzione si fa attendere, forse perché non c'è. il conflitto tra peccato e redenzione, espiazione di peccati e premi perde, in questo romanzo, il suo carattere ineluttabile e le facili soluzioni divengono tutt'altro che consolatorie. non c'è un'unica strada, sembra dire Veronica tomassini. in nome della retta via spesso si sacrificano le questioni che il destino ha in serbo per noi. tutto accade mentre lei aspetta grzegorz, concepito in spiaggia, notte di luna piena. Bellezza slava, bellezza polacca, amore polacco. Mi lusingava la combinazione meticcia, mi lusingava la possibilità che un dì avrei dato un nome al figlio di questa improba forse combinazione. gli incontri fanno parte di un disegno superiore, forse divino, forse. un amore inutile che non ripara, non appaga, non conforta è un amore in dono. c'è chi è predestinato a capire solo qualcosa, vuoi per fragilità o per compassione, per pietà il destino lo risparmia. c'è chi invece è così vicino alla verità da potersi inoltrare negli abissi. ci sono molti modi per cercare la verità, o forse, il più decisivo è senza dubbio mettere le mani nell'orrore. in certi bar di periferia c'è il senso della vita, i pensieri di certi pazzi svelano il nostro rimuginare ossessivo, quello che parla nel sonno, amare un dannato è roba per creature prescelte. la psicologia considera questo dono una malattia. da una lettura psichiatrica di superficie l'io narrante è borderline, psicotico, fobico, maniacale. Per il senso comune, spesso cattolico, a volte cristiano, questo dono è una vergogna, l'io narrante una puttana albanese, sławek un sadico, un porco, un delinquente. il loro incontro è inevitabile da qualsiasi punto di vista lo si guardi; per la psichiatria un sadico incontra sempre una masochista, un tossicodipendente, anaffettivo, incontra sempre una simbiotica, condotte devianti il sigillo. Per il senso comune la ragazza, l'io narrante, ha preso una


cattiva strada, colpa dei genitori che non l'hanno educata a modo, lungo questa cattiva strada si incontrano cattive persone, colpa della droga e dell'alcool, colpa della troppa libertà, colpa delle leggi che non puniscono, colpa dell'immigrazione. l'incontro di sławek e della protagonista è destino puro, è comprensione, è un passo avanti per l'umanità. tutto procede per lentezza, nulla di eclatante nei cambiamenti dell'universo, ma vite che si illuminano qua e là, coscienze singole che si spalancano mentre quelle dei più, giustamente, si chiudono in difesa. un sistema di porte che si aprono, di finestre che si illuminano, una qui, una a siracusa, una in Polonia.

presa di coscienza fatta di parole insensate ripetute a bassa voce. scrittura cruda, e ci mancherebbe, ripetitiva come i pensieri che ritornano finché non trovano pace. le cantilene sono anche un po' noiose e a tratti tutto questo vomito, tutto questo sangue di cane, questo raccontare e descrivere, ti spingono a saltare qualche pagina. c'è chi lo ha definito un romanzo anti-contemporaneo, a me sembra di una contemporaneità spiazzante. Forse è anti-contemporaneo perché non è perbenista. di una sincerità piuttosto scomoda, soprattutto dolorosissimo da scrivere, credo. Veronica tomassini scrive bene, le ripetizioni servono per fissare gli eventi anche se a volte sono troppe anche per una cantilena, è una scrittrice che avrà molte cose da raccontare e che, in qualche modo, sento sorella. Il nostro amore faceva parte di un disegno superiore, non dimenticare. Non bisogna dare un senso, adesso non bisogna usare la ragione. Adesso pregherò di più.■

lo stile della scrittrice è una cantilena, una preghiera, una

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uCantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano

Il senso del nonsense

(terza parte)

di Annalisa Castronovo - annalisa.castronovo@gmail.com insieme al successo di Gianna (il cui lato b era Visto che mi vuoi lasciare) e dell’album Nuntereggae più, il 1978 porta a rino gaetano anche la conduzione del programma di radio 1 Canzone d’Autore. l’anno seguente, durante un concerto, prima di interpretare di fronte al pubblico il brano più rappresentativo del suo ultimo lP, il cantautore getta un ponte fra passato e futuro, dicendo: «c’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio, io non li temo! non ci riusciranno! sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni; che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. capiranno e apriranno gli ‘occhi’, anziché averli ‘pieni di sale’! e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di capocotta». in queste poche battute è racchiusa la speranza e in essa il senso del suo percorso artistico: che il passato, i suoi errori, i suoi orrori, tutti gli uomini e il loro operato siano d’insegnamento a chi verrà dopo. in queste battute il senso della denuncia e del cantautorato stesso, della memoria e del rinnovamento, della protesta e della pretesa di verità, il senso dell’alzare la testa e di volerci vedere chiaro. a distanza di cinque anni dal suo primo album che conteneva I tuoi occhi sono pieni di sale, gaetano nomina esplicitamente la spiaggia di capocotta, citata in Nuntereggae più ed esplicita a gran

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voce così anche il significato della canzone che nel ’74 poteva sembrare una canzone d’amore come un’altra, se solo il sale non fosse tanto connotato! «sale della vita» e insieme sale che brucia sulle ferite, che conserva nel tempo, che riempie il corpo, che lascia pietrificati, «quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare», ma soprattutto «quel sale che a pensarci ti vien voglia di pensare», di usare quello che si ha in zucca. in fondo, il sale è un po’ l’elemento che caratterizza tutta l’opera del poliedrico artista: l’intelligenza e la salacità, il gusto e la capacità di essere pungente. nel 1979 viene pubblicato un altro 33 giri, Resta vile maschio, dove vai? si tratta del primo album realizzato con la rca italiana e registrato tra la città di Miami e il Messico; il titolo dell’lP si deve alla prima traccia, il cui testo, scritto da Mogol, ha un’impronta evidentemente diversa dai brani firmati solamente Rino Gaetano: uno sterile triangolo amoroso ‘giunto al capolinea’. nel “macro-genere” della canzone d’amore, infatti, rino gaetano sapeva bene di essere ispirato da una musa d’eccezione: «le mie sono canzoni d’amore per la società»; è questa la frase che, poco tempo prima a “quadernetto romano”, il cantautore aveva pronunciato di fronte a enzo siciliano, intellettuale


e futuro Presidente della rai, per chiarire che il qualunquismo, di cui veniva accusato, stava piuttosto nei comizi, niente affatto nell’evasione. ritorna dappresso, dunque, il solito rino, che invita millantatori e imbroglioni di ogni sorta ad andare «via, via! tutti Nel letto di Lucia» per guarire la loro malattia. evidente il riferimento alla santa siracusana, che non solo, appena tre stagioni prima, era divenuta protagonista della celebre canzone dell’amico Francesco de gregori, ma alla quale dante alighieri – riconoscente per la grazia ricevuta ai propri occhi – attribuì il ruolo di luce che rischiara la via verso la salvezza nell’empireo. «non trovi mai nebbia, penombra o foschia nel letto di lucia» canta rino gaetano forse a chi dovrebbe essere destato dal sonno, come accadde anche al sommo Poeta nella Divina Commedia: «Venne una donna e disse: i’ son lucia | lasciatemi pigliar costui che dorme; | sì l’agevolerò per la sua via» (Purgatorio iX, 55-57); lucia, infatti, aiutò dante nella purificazione dai peccati e con beatrice e Maria – altri due nomi cari al cantautore romano – ne accompagnò il percorso di redenzione. oppure, invece, gaetano spera che sia proprio durante il sonno che certe canaglie possano essere illuminate, come successe a santa lucia la quale, dopo aver visto sant’agata in sogno, donò i suoi beni materiali ai poveri. basta aspettare la terza traccia che il tono e il piglio si alleggeriscono drasticamente nell’ancora scanzonata e

divertente interpretazione della maliziosa messinscena di Grazie a Dio, grazie a te. giusto un attimo di tregua prima che si commuova chi, come rino gaetano, ogni tanto si sente «un eroe a tempo perso» e condivide nel profondo il senso della sua Io scriverò: «io scriverò perché ho vissuto anche di espedienti, | Perché a volte ho mostrato anche i denti, | Perché non potevo vivere altrimenti. | io scriverò sul mondo e sulle sue brutture, | sulla mia immagine pubblica e sulle camere oscure, | sul mio passato e sulle mie paure» (ultima strofa, corsivo mio). nell’atmosfera sudamericana dell’album arriva Ahi Maria che, a mio parere, nasce da un mix di circostanze; infatti, al di là del macroscopico e giocoso riferimento alla marijuana (termine con cui – guarda caso in Messico – ci si riferisce comunemente alle inflorescenze femminili essiccate della Cannabis destinate a divenire stupefacenti), mi pare che rino gaetano nell’incipit si diverta a citare fra le righe («e quando tramonta il sol») un curioso aneddoto che lega il successo Cuando calienta el sol (1962), versione degli italianissimi los Marcellos Ferial – gruppo creato in tutta fretta dalla casa discografica durium – a quella che da pochissimo era diventata la nuova casa editrice dell’irriverente artista romano, la rca italiana, alla quale sarebbero spettati negli anni sessanta i diritti dell’omonima canzone de los Hermanos rigual (cubani affermatisi in Messico), che avevano spopolato all’estero.

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l’ennesima beffa dell’istrione capitolino?! Probabilmente. intanto, a un certo punto del brano comincia a prendere le distanze dal «caimano nero» che, con le sue “lacrime da coccodrillo”, non è certo il Melanosuchus niger dell’america del sud, bensì – secondo me – il vecchio Capofortuna, del quale ritornano difatti i bon bon, il metrò, i trascorsi all’estero e il tè delle cinque. così, dalla goliardia all’introspezione, si passa a Ma se c’è Dio, in cui confida nel futuro per imparare a superare gli inganni al cui livello non intende abbassare il “gioco” della sua vita e riversa coraggio in

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un tempo in cui se ci sarà dio, ci sarà anche lui; se ci sarà amore, ci sarà anche lui. il sentimento e l’identità meridionali di rino si ritrovano nel viaggio durante il quale la passione da innamorato, palpabile in Anche questo è sud (frase che non ricorre mai nel testo), lo conduce al galoppo dalla nebbia al mare, da un freddo e bucolico notturno a un rosso ed estivo tramonto rivierasco. l’album si conclude con Su e giù che sembra l’ennesimo doppio senso, da un lato, tra nord e sud d’italia e, dall’altro, tra lo stare in alto o in basso sia per posizione sociale che riguardo all’umore: «e su sei


sempre il più e giù sei un uomo in più | e su sei sempre tu e giù non ci sei più». che sia nostalgia della terra d’origine? «Ma facendo l’amore puoi stare anche giù | Perché facendo l’amore su e giù sei sempre su»: infatti, in tal caso, ruoli, cariche e campanili non contano più. in un clima politico e sociale in cui il suo Paese veniva dilaniato a più riprese da terrori che ne facevano ‘di tutti i colori’, le parole di rino gaetano – crotonese, romano, italiano, curioso osservatore, onesto testimone ed eccellente interprete del tempo, del Mondo e dei suoi

ospiti – sono l’essenza stessa del suo io, ‘vitali’ per l’autore e per l’uomo. essenzialmente uno scrittore. Flessuoso. chiaro a un punto tale da essere trasparente e per questo – e pur paradossalmente – non troppo evidente, ciononostante pieno di colore. un individuo unico, alla ricerca non certo dell’identico, quanto piuttosto di simili. di ‘altri’ sì, ma ‘come’ lui, così da essere capito. un uomo. un attore. un cantastorie. in sintesi, rino gaetano: un cantautore… per rispetto chiamato artista.■

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uFumettando

Il Regno oscuro o dell’identità minacciata di Alberto Carollo - albertocarollo@yahoo.it in Kill Bill vol. 2, film di quentin tarantino (u.s.a., 2004) si svolge un interessante dialogo tra bill e beatrix1. bill dice: «come sai, io sono un grande appassionato di fumetti, soprattutto di quelli sui supereroi. trovo che tutta la filosofia che circonda i supereroi sia affascinante. Prendi il mio supereroe preferito: superman. [...] dunque, l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e un suo alter-ego: batman è di fatto bruce Waine, l’uomo ragno è di fatto Peter Parker. quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’uomo ragno. ed è questa caratteristica che fa di superman l’unico nel suo

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genere: superman non diventa superman, lui è nato superman, quando superman si sveglia al mattino è superman, il suo alter-ego è clark Kent. […] clark Kent è il modo in cui superman ci vede; e quali sono le caratteristiche di clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. clark Kent rappresenta la critica di superman alla razza umana [...]». Molte espressioni dell’arte popolare di massa statunitense in questi ultimi anni si prestano ad analisi sul rovesciamento del concetto di identità, a svariati livelli. essendo il fumetto – e con esso il cinema, col quale la


graphic novel ha un rapporto sempre più stringente – una forma artistica paradigmatica in questa accezione, richiamerei per prossimità alcune definizioni di identità, desunte da Wikipedia e dal devoto-oli2. in filosofia l’identità è qualsiasi cosa che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di qualità o di caratteristiche che la distingue da altre entità. in altri termini, identità è ciò che rende due cose la stessa cosa oppure ciò che le rende differenti. l’identità qualitativa si ha se due oggetti qualsiasi, a e b sono delle copie, cioè se sono esattamente simili da ogni punto di vista, vale a dire se hanno tutte le proprietà in comune. a e b sono invece identici quantitativamente se sono la stessa cosa, vale a dire due modi diversi di chiamare un’unica entità. e qui sorrido perché Wikipedia cita una nostra conoscenza: “ad esempio superman e clark Kent sono numericamente la stessa persona, cioè a = b. eppure, aggiungiamo sulla scorta del discorso di bill, quante macroscopiche differenze qualitative tra le proprietà di “a” e quelle di “b” pur in seno ad un’unica entità!”. da più parti, nei media tradizionali e nel web – non solo

nelle pubblicazioni di settore – si è evidenziato come il fumetto supereroistico rappresenti in chiave trasposta temi di grande attualità: trasformazioni sociali, politiche, economiche, evoluzione tecnologica, futuro del mondo globalizzato eccetera. nel cosiddetto “villaggio globale”, nel bene e nel male, gli u.s.a. pilotano o influenzano i destini di svariate potenze mondiali, forse tutte, e in misura più o meno rilevante le “colonizzano” culturalmente. È singolare andare a vedere come l’identità – concetto centrale nell’individuo dotato di poteri sovrumani – abbia assunto connotazioni diverse, a partire dagli anni cinquantasessanta (dove nascono e si sviluppano i principali eroi della Marvel e della D.C. Comics) fino ai giorni nostri. ai tempi della guerra fredda il concetto di identità segreta era da salvaguardare ad ogni costo. È spassoso rileggere gli albi a fumetti di quegli anni, pubblicati in italia negli anni settanta, e scoprire con gli occhi smaliziati di oggi quante puerili, ingegnose acrobazie compiva all’epoca un nerd come Peter Parker per salvaguardare la sua identità segreta di uomo ragno agli occhi del mondo. era un gioco di spie; rivelarsi equivaleva a soccombere, significava mettere a repentaglio la vita degli affetti più cari e porre l’eroe in balia dei propri nemici. la contrapposizione tra i

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due blocchi era netta, manichea, e informava di sé altri aspetti della vita sociale americana: vedi il dualismo bene/male, pubblico/privato, u.s.a./urss. la paura dell’atomica, nella silver age dei Marvel era spesso presente. le cose cambiano nel passaggio tra gli anni ottanta e novanta. la disgregazione dell’io, nell’immaginario collettivo, passa attraverso i fantasmi dell’aids («i got aids» confessa un personaggio ad Hulk in una storia di Peter david, prima volta in cui compare in un fumetto la malattia3) e la manipolazione genetica. non è un caso che la celebre “saga del clone”, che tiene banco per numerosi albi della collana Spider-man, dove l’eroe deve fare i conti con due suoi cloni, esiti differenti di diversi stadi sperimentali, induce molti fan tradizionali ad abbandonare la serie. i toni si erano fatti troppo cupi; aspetti come la vena soap che caratterizzava il personaggio, il suo continuo ricorrere alle gag anche nelle scene di lotta vennero accantonati a favore di un climax più drammatico e psicologicamente tormentato. Fu una débâcle per un prodotto di punta del fumetto di massa e coincise con un declino più diffuso dei supereroi – dovuto a svariati altri fattori – che rimase comunque nella memoria degli appassionati anche negli anni a venire, quando i Marvel ebbero una nuova stagione di successi. Molte cose cambiarono dopo l’11 settembre 2001 e la caduta delle torri

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gemelle. l’america si scoprì vulnerabile, travolta dallo spettro del terrorismo, pronto a colpire crudelmente, in casa propria, repentino e imprevedibile. i comics riflettono anche in questo caso le ansie più recondite dell’americano medio. il confine tra pubblico e privato si assottiglia: non è bene avere un’identità segreta, è pericoloso per i cittadini essere un vigilante mascherato; più opportuno mettere i propri poteri al servizio della collettività. Civil War è una miniserie a fumetti in sette puntate, scritta da Mark Millar e disegnata da steve Mac niven, pubblicata dalla Marvel tra il 2006 e il 2007. essa è strettamente legata al dibattito statunitense sul conflitto fra tutela delle libertà civili e salvaguardia della sicurezza nazionale. nel corso di un reality un gruppo di eroi, i new Warriors, attacca un clan di superlatitanti; uno di loro, nitro, si fa esplodere (questo il suo potere) durante lo scontro, uccidendo non solo l’intero gruppo di giovani eroi ma anche gli oltre 600 abitanti di una cittadina del connecticut, fra cui diversi bambini. di fronte alla sfiducia di gran parte della popolazione, i supereroi non hanno altra scelta che registrarsi, rivelare la propria identità e diventare a tutti gli effetti dei “dipendenti” del governo, oppure darsi alla clandestinità. strettamente collegata a questa miniserie è la successiva Secret Invasion, scritta da b. Michael bendis e illustrata da leinil F. lyu, edita da Marvel negli states tra aprile e novembre 2008. approfittando della guerra civile in corso tra supereroi registrati e ribelli, la razza aliena degli skrull (una civiltà di mutaforma evolutasi da uno stretto connubio tra magia e tecnologia) sferra il suo attacco finale alla terra, dopo aver progettato a lungo l’invasione, infiltrando agenti skrull tra gli umani, a ricoprire posti di comando, sostituendosi in certi casi ad alcuni supereroi. Fin qui niente di nuovo sotto il sole: eravamo già abituati a L’invasione degli ultracorpi (u.s.a., 1955) di don siegel, da un romanzo di Jack Finney, pellicola fortunata che diede origine a molti remake4. Ma in secret invasion è interessante rilevare come il clima di paranoia e panico che si diffonde nella comunità dei superumani sia determinato dal fatto ch’è quasi impossibile riconoscere i mutaforma. la strategia skrull è di rapire i bersagli e sostituirli con propri soldati che si “trasformano” offrendosi come vittime sacrificali – per il bene della loro comunità – in un rituale mistico che li rende a tutti gli effetti “umani”, assumendo ricordi, pensieri, personalità del rapito, divenendo cellule dormienti pronte ad essere attivate alla vigilia della grande invasione. la crisi d’identità dello skrull smascherato è lancinante: pur agonizzante implora pietà, in conflitto tra quanto sente di essere e la ormai labile memoria della sua natura aliena. lo slogan della miniserie, curato in patria con una campagna pubblicitaria “virale” e un sito internet, è Abbraccia il cambiamento5. lo smarrimento è totale, e il cambiamento non porterà nulla di buono. l’invasione segreta viene sventata in limine da un gruppo di superumani che risponde al nome di Thunderbolts. si tratta di pericolosi criminali, già condannati e detenuti, coartati e


controllati a dovere per includerli nel progetto di una task force governativa capitanata da norman osborn, geniale e psicopatico titolare della oscorp, multinazionale in grado di gestire l’emergenza dell’invasione là dove la tecnologia di tony stark, alias iron Man, ha fallito. osborn diviene un eroe nazionale. È l’avvento del Dark Reign, saga a fumetti che dall’ottobre 2009 è tuttora in corso nell’universo Marvel, sempre con testi di b.M. bendis. osborn forma un’alleanza chiamata cabala con alcuni dei più potenti criminali della terra. obiettivo: spartirsi il mondo. l’ultimo, definitivo rovesciamento d’identità propone al lettore una sostituzione dei Vendicatori – super gruppo attualmente latitante, impegnato a contrastare il nuovo assetto di forze in campo –, con gli Oscuri Vendicatori, il team creato da osborn che include ulteriori criminali con super poteri ma con costumi e nome di eroi positivi e acclamati. Il Regno oscuro rappresenta l’ascesa di un uomo al vertice grazie alla potente immagine di efficienza e risolutezza nel garantire la sicurezza nazionale, ma segretamente impegnato a consolidare il suo potere. I Vendicatori oscuri, eroi accreditati, sostituiscono quegli “esseri semidivini cui una stirpe – nella mitologia classica – attribuisce gesta prodigiose”6. l’eroe non è più quella figura monolitica che tante leggende ci hanno tramandato: è un essere fallibile e conflittuale; le sue azioni sono volte al bene ma sono sempre più spesso cagione del male. «Veramente, vivo in tempi bui!», scriveva bertolt brecht7. Per tornare alle tesi di bill in apertura, non ci resta che confidare in un tardivo riscatto di clark Kent.■

______________ 1

interpretati da david carradine e uma thurman.

g. devoto – g. c. oli, “nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana”, le Monnier, Firenze, 1967 e seguenti. 2

all'ombra dell'aids, di Peter david e gary Frank, in incredible Hulk v2 n. 420, agosto 1994; edizione italiana: devil & Hulk n.27, settembre 1994)

3

nel 1958 il regista italiano steno si è ispirato ai "baccelloni" che compaiono nel film per i suoi "fagioloni germinatori" di totò nella luna, con totò e ugo tognazzi. tra gli altri remake segnalo terrore dallo spazio profondo (u.s.a., 1978) di Philip Kaufman e ultracorpi: l'invasione continua (u.s.a., 1993) di abel Ferrara. 4

Visita in proposito l'inquietante sito: http://marvel.com/embracechange/main.html

5

È una delle definizioni del termine «eroe» in devoto-oli (vedi testo citato nella nota 2)

6

«Wirklich, ich lebe in finsteren zeiten!», in a quelli nati dopo di noi/an die nachgeborenen; bertolt brecht, Poesie, (einaudi 2007). traduzione italiana di Wolfgang Pruscha.

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uMamma, mi leggi?

Un’identità di Stefano Verziaggi - stefano.verz@hotmail.it È molto semplice: si tratta di ragionare sulla possibilità, o meno, di definire un’identità dei bambini e dei ragazzi in quanto lettori. su questa tematica devono riflettere e riflettono le case editrici se vogliono indovinare il prodotto commerciale, ossia il libro, che stanno mettendo sul mercato. Prendiamo una collana per ragazzi quale la Junior della Mondadori. accanto a classificazioni parallele a quelle degli adulti, come Gaia – romanzo rosa, Fantasy e Giallo, ci imbattiamo in una distinzione che non ha luogo per “i grandi”, ossia quella per età: +5, +7, +9, +11, ognuna contrassegnata da un colore (l’azzurro per la sottocollana +9 e il rosso per i +11 sono quasi proverbiali). si individuano così definiti sottogruppi di lettura, che vanno dal primissimo approccio con il testo (ultimo anno della scuola per l’infanzia) alla scuola secondaria di primo grado, per poi sfociare naturalmente nei libri per i giovani adulti (collana Supertrend). nella letteratura maggiore, chiamiamola così, questo fenomeno non ha senso d’esistere: il lettore grande è già formato, e fa poca differenza in molti casi la fascia d’età; con le dovute eccezioni, ovviamente (penso a luca bianchini, il primo che mi viene in mente, e al suo target trentenne). con i ragazzi siamo invece di fronte a un problema innanzitutto tecnico, che è la competenza di lettura stessa; è istintivo capire che la modalità di fruizione del testo del bambino di cinque anni è molto diversa da quella del bambino di sette; laddove invece la fruizione del quarantenne non varia, per sommi capi, da quella del cinquantenne; anche se sono convinto che il tempo di lettura si modifichi e assuma percezioni differenti, da esplorare e analizzare. Forse non è lecito chiedersi se un libro di italo calvino sia destinato ai ventenni o ai sessantenni, ma mi sembra più che opportuno e interessante riconsiderare la fruizione del testo da parte delle differenti fasce d’età; questo ci permetterebbe di analizzare come proporre il libro, in quanto prodotto commerciale e in quanto orizzonte di senso, alle varie fasce di pubblico. questo è campo dell’ermeneutica. torniamo alla partenza. distinguere collane implica necessariamente definire delle identità di gusto, oltre che di genere: un libro rosa non è adatto ai maschietti (perché poi?), così come un libro rosso non è adatto per la scuola primaria. quest’idea però, insita nei genitori e nei docenti, genera perplessità nei ragazzi-lettori, che dovrebbero

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essere i primi a stabilire cosa è adatto a loro e cosa no. capita così di assistere a ragazzini che si vantano di leggere libri “per i grandi”; di contro, ragazzi ancora non pronti al salto qualitativo si vergognano se prendono in mano testi destinati “ai più piccoli”, e vengono inibiti nel percorso di ricerca (che è ricerca del testo e di sé nel testo). È pur vero che altre collane storiche, come gli Istrici, non fanno di queste distinzioni, precisando però che non abbracciano una fascia di lettura così ampia come la collana Junior; e infatti, per i più piccoli, troviamo i Criceti. non che cambi molto, in sostanza. non è però solo questa l’identità di lettura che le case editrici propongono; m’è piaciuto l’editoriale dell’ultimo numero di Hamelin, laddove si riflette sulla definizione di identità adolescenziale che i libri propongono: copertine nere, con “atmosfere cupe e soggetti innocenti e delicati in pericolo” o ancora “faccioni in primissimo piano, sempre di giovani, puliti come per una pubblicità del sapone, ma in quasi tutti i casi con un’ombra di malinconia, o di dolore”. si tratta di una definizione di identità, che vuole essere specchio ma allo stesso tempo genera a sua volta un’immagine distorta, con il rischio che sia la vita a divenire riflesso dell’immagine letteraria e non viceversa. le case editrici propongono un’identità ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze; certo non in modo così forte come è per la tV, ma si tratta comunque di media. la definizione del lettore è dunque anche definizione della persona, soprattutto quando la scelta della mia attività viene inquadrata in una collana. se vogliamo allora definire un’identità di lettura dei ragazzi dobbiamo comprendere che siamo di fronte ad un processo circolare in cui, al momento, non è il lettore ad essere centrale: la casa editrice propone una classificazione, il lettore la fruisce e la subisce, la casa editrice elabora le scelte commerciali influenzandole però con le proprie e con quelle televisive o di marketing. comprenderlo è essenziale per stabilire su quali basi mobili si fondi l’identità di lettura dei ragazzi e delle ragazze.■


della lettura

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uGerbido raccolto

Identità in un diario di viaggio di Alessia Colognesi - alessiacolognesi@libero.it

motore, obbligato a correre sempre alla massima velocità. Un essere vivente che si muove, palpita, suda, fatica… Noi fotografi per tre giorni siamo gli occhi di questa splendida creatura. Ne cogliamo la bellezza. Ne siamo la memoria dopo la sbornia del giorno prima, dopo l’ubriacatura di ospiti, di pubblico, libri, persone… E alla fine di tutto, dopo che gli spazzini raccoglieranno gli ultimi fogli dispersi di piazze ormai deserte, solo queste foto rimarranno a testimoniare di questa vita. scrivere può essere una sana abitudine e non è detto che per praticarla si debba essere per forza scrittori.

si può essere testimoni letterari? il bianco e nero di questi scatti privi di colore riesce a fermare il tempo come le parole che assorbono di ricordi le pagine dei libri che hanno animato la quinta edizione della Festa del racconto di carpi 2010. nei primi giorni di ottobre di ogni anno a carpi è festa, una festa di letture, proiezioni, musiche, teatro che anima le piazze e le vie di questa piccola cittadina dell’emilia romagna. Per la prima volta luca incerti è il fotografo ufficiale di questa rassegna, un testimone letterario con due grandi passioni: la fotografia e i libri. Dal primo istante ho avuto la sensazione di essere un ingranaggio piccolissimo di un

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annotando ciò che ci è capitato, ognuno di noi può diventare uno scultore di pensieri alle prese con il proprio vissuto che la scrittura modella con le parole. scrivere aiuta a fissare sulla carta la nostra identità e restituisce un pezzo di noi a noi stessi e ai nostri lettori. È così che la scrittura racchiude la nostra unicità e ci rappresenta in ciò che abbiamo deciso di raccontare. lo stile con cui rielaboriamo il nostro vissuto diviene il segno distintivo della nostra identità. un viaggio può essere un’importante occasione per iniziare a scrivere. raggiungere luoghi sconosciuti che potremmo


dedicato a tagore, uno dei più famosi poeti indiani e inviare, a due delle testate giornalistiche italiane più importanti di allora, i loro reportage giornalistici. dopo più di quarant’anni sappiamo di quel viaggio fra amici e dell’india di quei tempi grazie alla loro scrittura, giunta a noi come diario di viaggio.

anche non rivedere mai più, o più semplicemente, incontrare persone che vivono in contesti profondamente diversi dai nostri, ci induce ad usare la scrittura per annotare sensazioni e pensieri mai sperimentati, per non dimenticare ciò che ci è capitato di vivere e dare sostanza alle idee che ci sono balenate tra i pensieri di terre lontane. se «l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi» diceva Proust, raccontare di un viaggio in un diario serve a un viaggiatore per fissare i ricordi rileggendo ciò che è stato con il proprio stile di scrittura, indelebile carattere distintivo della propria identità. lo stile di uno scrittore sono i nuovi occhi di cui parla Proust, importanti quanto: il timbro di voce per uno speaker radiofonico, l’occhio attento di un fotografo o la manualità minuziosa di un ritrattista. lo stile nella scrittura è ciò che ci fa scegliere di leggere un libro al di là di un titolo, una trama o di un agguerrito piano di marketing. la lettura che si basa su una scelta di stile diventa un modo per incontrare l’altro che ha scelto

nel 1962 due dei tre amici decisero di scrivere dell’india per immortalare la loro esperienza come dei fotografi capaci di vedere chiaramente solo dal loro obiettivo. scrivere per alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini era un modo di esprimersi naturale e distintivo che li aiutava ad identificarsi in un ruolo e a contestualizzarsi in un tempo, un modo per sentirsi parte di un gruppo, ma allo stesso tempo per differenziarsi. nella scrittura uno scrittore manifesta la propria identità sociale che nasce dal suo essere narratore, e individuale, perché scrivendo, sceglie uno stile espressivo portatore di genere e di sé. alberto Moravia, elsa Morante e Pier Paolo Pasolini partirono per l’india nel 1962. soggiornarono in uno dei più grandi e lussuosi alberghi indiani e poi uscirono fuori, disincanti e attenti ad osservare un mondo nuovo che gli faceva da sfondo in una prospettiva del tutto diversa dal mondo dov’erano nati. la scrittura con cui avevano deciso di testimoniare quest’esperienza doveva ritrarre il viaggio e dargli senso, un significato di valore per chi scriveva e per chi ne cercava tracce leggendo tra le righe di un diario.

identità con la narrazione.

quando il pensiero di un’esperienza si sedimenta nella parola, la scrittura, pur riferendosi ad un’identica esperienza vissuta da due persone diverse nello stesso periodo storico, porta impressa nello stile della lingua un’impronta indelebile di sé e della propria identità.

negli anni 60 tre amici italiani si recano in india per motivi di lavoro, devono partecipare ad un convegno letterario

L’odore dell’India, così s’intitola il diario di viaggio di Pasolini, introduce il lettore in un mondo di sensi.

di esprimere la propria

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la storia di viaggio di Pasolini parla di lui del suo modo del tutto personale di entrare in contatto con le cose: «avevo voglia di stare solo, sperduto, muto, a piedi riesco a riconoscere le cose». giunto a bombay dall’europa, appena fuori dal taj Mahal, Pasolini «...sente la vita di un continente come un’altra vita» e la trasmette ai suoi lettori con parole stupite e coinvolte, intente a svelare un mondo lontano con occhi nuovi. la scrittura de L’odore dell’India riesce ad evocare sensazioni vorticose di una vita dal ritmo allentato che accompagna il lettore in una lenta passeggiata alla scoperta di un continente lontanissimo. in viaggio, Pasolini riscopre la relatività dei riti e della cultura che appartengono al luogo dov’è nato. in india le persone praticano religioni diverse dalla sua e così, per la prima volta, ha l’impressione che il cattolicesimo non coincida col mondo. la scrittura per Pasolini è impressa nel suo sguardo indagatore e acuto: «a distanza le masse indiane si fissano nella memoria con quel gesto di assertimento, e il sorriso infantile e radioso negli occhi che l’accompagna». le sue parole non interpretano ciò che vede, ma leggono i fatti con i suoi occhi. Pasolini dubita mentre cerca di interpretare ciò che vede, vive in continuazione lo straniamento dal suo mondo sperimentando scenari e persone completamente diversi da quelli che gli sono famigliari. Moravia era già stato in india nel 1937 e ne aveva scritto sui giornali con stupore, una sorpresa per i sensi all’erta concentrati a scoprire un nuovo mondo. Ma nel suo secondo viaggio, degli anni 60, aveva scelto di parlare con uno stile del tutto diverso.

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il suo diario indiano doveva essere una testimonianza del potere della scrittura di trasmettere una lettura dei fatti: «l’india è il Paese delle cose incredibili che si guardano tre volte stropicciandosi gli occhi e credendo di aver avuto le traveggole». e così dopo più di vent’anni dal suo primo viaggio, aveva scritto un diario meticoloso e scientifico che dava una lettura precisa di tutto ciò che aveva visto e gli era parso inequivocabilmente indiano. la religione, la povertà, le caste, la superstizione e la situazione geofisica, “un’idea dell’india” dava a tutto una spiegazione. distaccato e preciso, risoluto e indagatore Moravia era certo che il terzo mondo dell’india di allora sarebbe scomparso per lasciare spazio alla rivoluzione industriale. con il suo stile chiaro e ricco di pertinenti considerazioni, dimostrava di aver accettato quel suo vissuto di viaggio, ma per sua natura aveva sempre rifiutato di identificarsi nelle sue esperienze indiane per comprendere l’india e la natura degli indiani che aveva incontrato.■


Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte. Italo Calvino

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uSocretinate

Un incontro con Giorgia Lepore di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it Morgan: giorgia!

καλημέρα

Giorgia: Morgan!

καλημέρα

M: È recente il crollo dell’armeria dei gladiatori di Pompei e il conseguente sconforto di chi sa apprezzare il patrimonio culturale del nostro paese. se c’è un’identità che noi italiani possiamo vantare con orgoglio è quella artistica, eppure sembra che l’incuria domini la scena. tu, oltre alla scrittura, ti occupi di archeologia, quali sono, sulla base delle tue esperienze da addetta ai lavori, i principali problemi da affrontare in italia?

G: sconforto, dici? quando ho sentito la notizia, avrei dovuto provare rabbia, scoramento, indignazione. invece, mi sono fatta una risata: isterica. e la prima cosa che ho pensato è stata: speriamo che crolli anche il colosseo. così forse ci scuoteremo finalmente tutti da questa apatia, da questo stupore catatonico. tutti gli addetti ai lavori sapevano che sarebbe accaduto prima o poi, ed è un miracolo che finora non sia accaduto di peggio. il principale problema, prima dei soldi che mancano, prima dell’incuria atavica, delle amministrazioni che non funzionano, è la mentalità. abbiamo tutto e troppo, siamo abituati, direi assuefatti, al punto che non capiamo nemmeno più il valore di quello che abbiamo. Per il resto del mondo siamo dei pazzi. la gente non considera i beni culturali un bene comune, ma una interferenza, un impedimento; e questo avviene a tutti i livelli, in ogni categoria sociale, professionale, culturale. quando la gente capirà che è assurdo usare come garage per il trattore (sapessi quante

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ne ho viste!) una chiesa del Xiii secolo, allora avremo fatto un passo avanti. altrimenti qualunque forma di tutela del territorio è destinata al fallimento. la gente va educata, prima di tutto. Poi viene tutto il resto. i beni culturali attualmente sono una mucca da spremere quando fa comodo, una spesa inutile da tagliare quando non ci sono soldi: ma questo, oltre a palesare l’evidente incapacità di chi dovrebbe fare qualcosa, riflette purtroppo il sentire comune. Però poi ci si riempie la bocca con espressioni come “identità culturale”. qual è l’identità culturale di un paese che fa andare in malora i suoi monumenti, che tutto il mondo ci invidia? la nostra è una sorta di schizofrenia collettiva?

M: una delle cose che ho guardato sempre con grande invidia in alcuni paesi stranieri è la cura per i luoghi dell’arte, l’amore professionale per i dettagli, dalla posizione delle luci in un museo all’organizzazione e serietà delle guide, ai tempi rispettati dei restauri, ecc. Possibile che in italia accada soltanto in rare occasioni? Possibile che chi ne fruisce non possa protestare in maniera coesa invece di limitarsi a quanto noi due stiamo facendo in questo dialogo? allora forse aveva ben ragione un celebre pittore nel dichiarare “quando non ho più blu, metto del rosso”, no, gli italiani imperterriti continuano a utilizzare il blu, ma che cosa fa ognuno di noi nel concreto per provare a cambiare la situazione oramai inaccettabile da decenni?

G: teoricamente saremmo i migliori. quando vogliamo, le cose sappiamo farle come e meglio degli altri. in italia ci sono professionalità di altissimo livello, e musei, strutture, tecnologie e competenze assolutamente all’avanguardia. si vede bene nei cosiddetti grandi eventi, ma la cultura è fatta soprattutto di cose quotidiane. sono quelle che costruiscono le cattedrali. invece gradualmente si sta verificando una sorta di arretramento: chi lavora nel settore dei beni culturali si sente escluso, si sente all’angolo. c’è una sorta di rassegnazione serpeggiante: gli archeologi continuano a scavare, nonostante tutto, con compensi che diminuiscono di mese in mese. gli ispettori delle sovrintendenze continuano a lavorare, senza carta per le fotocopie e senza benzina per andare in giro sul territorio. nessuno protesta: il potere contrattuale di questi lavoratori è pari a zero. Poi, improvvisamente si accendono i riflettori:


L’accademia di Platone, mosaico pompeiano, Museo Archeologico Nazionale di Napoli

subito dopo il crollo di Pompei, il ministro si è “ricordato” che mancano le risorse, e finalmente è stata indetta una giornata di protesta che ha coinvolto più di mille strutture culturali in tutta italia. Ma è solo la punta dell’iceberg, e per la parte sommersa tutti fanno finta di niente. a qualcuno importa se un cantiere di scavo si ferma? se un museo chiude?

M: si torna all’identità artistica d’un paese, che non coincide con il paese stesso. se un francese pensa al david di Michelangelo la sua mente vola a Firenze, non alla stragrande maggioranza degli italiani che non lo ha mai visto alla galleria dell’accademia. una cosa è la cultura di una nazione, un’altra la sensibilità che il popolo di quella stessa nazione possiede verso la cultura. Forse si rischia di declinare concetti elitari. ciononostante concentrarsi sui percorsi possibili è auspicabile, se è vero che il trasporto del david fino a piazza della signoria – sua prima sistemazione – impegnò per quasi trenta giorni gli architetti e gli ingegneri dell’epoca, è altresì vero che non si può

pretendere di diffondere la cultura su ogni cittadino italiano in tempi brevi, dato che fino a circa cento anni addietro il problema dell’alfabetizzazione rappresentava la questione più urgente. esistono temi di breve respiro e altri di vasto respiro, a volte comprendere i primi implica priorità peculiari che inficiano la realizzazione dei secondi, un po’ come quando giorgio de chirico passeggiava depresso per le strade di Milano e teneva sempre la vicinanza ai muri per i suoi disturbi… non poteva fare diversamente, non poteva godersi il luogo con serenità. come educare un popolo alla sensibilità verso l’arte?

G: teoricamente, noi italiani questa sensibilità la dovremmo assorbire dai muri. Vivere a contatto con cose belle serve a fare crescere questa sensibilità, a nutrirla. Però c’è anche una controindicazione, che è l’assuefazione: ci si abitua, si dà per scontato che se il colosseo è sempre stato là, ci sarà sempre, come una sorta di diritto acquisito la cui esistenza non richiede alcuno sforzo da parte nostra. quindi, c’è bisogno anche di una

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educazione. la cosa più bella sarebbe che tale sensibilità si tramandasse di padre in figlio, come l’amore per il territorio, ed era una cosa frequente, un tempo, anche in società poco scolarizzate, mentre ora avviene sempre meno. la terza opzione, a questo punto, è l’istruzione. bene, l’ultima riforma della scuola superiore ha tagliato drasticamente le ore di storia dell’arte in quasi tutti gli istituti, in alcuni non esiste più. avremo delle figure professionali del turismo che non avranno mai fatto storia dell’arte in vita loro, in un paese che vanta una concentrazione di beni artistici e archeologici unica al mondo. c’è bisogno di commentare? d’altra parte, però, aumentano i grandi eventi, le mostre, la spettacolarizzazione dell’arte. Valorizzazione o piuttosto banale sfruttamento, come ormai avviene per ogni tipo di risorsa, da quelle naturali, a quelle artistiche, a quelle umane?

M: Penso alla scarsità di risorse che fa crescere i prezzi in economia, il paradosso nell’arte è che a crescere sono il malcontento e la rassegnazione. Parli di spettacolarizzazione, mi chiedo se sia la spettacolarizzazione stessa a nuocere all’arte o se invece sia qualcosa più a monte il vero problema, la scelta delle persone in ambiti strategici e gestionali. ritornare con la mente alle contese fra poussinisti e rubenisti mitiga l’inquinamento che ci scoraggia, qui, senza tanti dubbi, la contesa è fra ignoranti, piazzati il più delle volte in un posto che non dovrebbero occupare. e i migliori e i più preparati devono soggiacere a direttive imposte dall’alto. quali sono secondo te le priorità imprescindibili in questo momento? se tu dovessi scegliere tre possibili soluzioni – non esaustive, ma come primi slanci positivi –, verso che cosa ti orienteresti?

G: chiariamo, la spettacolarizzazione in sé non è necessariamente una cosa negativa, lo diventa se coincide con uno sfruttamento delle risorse che potremmo paragonare a uno sviluppo “non sostenibile”. quindi, va

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bene anche quello, purché sia una vera valorizzazione e coincida con la tutela e la conservazione. Poi, lapalissianamente ti direi: soldi. Fine di questa politica miope che non si rende conto che tagliare in questo campo è autolesionismo puro. da questo deriva tutto il resto: la tutela del patrimonio che attualmente è di fatto impossibile, il turn over del personale che è bloccato da decenni, la valorizzazione di beni troppo spesso trascurati o dimenticati. terza cosa, una provocazione ai miei colleghi: prendere finalmente coscienza di una identità professionale che manca. e questo è anche colpa nostra. l’archeologia, il restauro, l’arte sono un lavoro, non una missione. o vogliamo dirottare i beni culturali alla voce “volontariato”?

M: Volontariato, dici. da tempo ho sempre l’impressione che l’arte e quanto le gira attorno appaghino la frustrazione di molti che la definiscono un perder tempo, o meglio, roba da buontemponi. come chi si occupa di arte possa essere biasimato sempre per un eccesso di ozio, come chi, al contrario, la evita abbia compreso come va il mondo, qualcosa di serio, non da slanci creativi. non sono pochi gli italiani che vedono nell’arte una voglia di far nulla, dedicarsi alla cultura e all’arte non produce utili, non è utile. sei d’accordo con me che ancora troppa gente ha pensieri simili? convieni che forse la mancata sensibilità media del paese è altresì frutto di tale condizione generalizzata?

G: Per l’arte e per la cultura ci vuole spazio “libero“, fisico e mentale. ci vuole energia, materiale e spirituale. la vitalità artistica, e quindi anche la sensibilità all’arte e alla cultura, non è costante, e non si tratta tanto di periodi, quanto di società, di contesti. l’importanza dell’arte e della cultura in una società è direttamente proporzionale al potenziale di energie economiche, ideali, emotive: solo quando c‘è un surplus di queste energie l‘uomo può dare importanza all‘arte, e non necessariamente tali energie vanno di pari passo con il progresso. quando si entra in riserva energetica la creatività è considerata un lusso che

Stonehenge, nei pressi di Amesbury


non ci si può permettere. Perciò, non credo che quello che tu descrivi, già accaduto varie volte nella storia dell’uomo, dipenda solo da un modo di concepire la vita in maniera utilitaristica: questa è la scusa dietro cui ci si nasconde per non affrontare un problema ben più grave. le società umane nascono, si espandono, poi collassano e ripiegano su se stesse. secondo te noi in che fase stiamo?

M: Hai ragione nel sostenere che non solo la visione utilitaristica possa racchiudere le cause della fase negativa attuale, per venire alla tua domanda, perché se i fondi per l’arte sono tagliati, se il successo si commisura ancor più con la capacità di produrre denaro, se le università non creano ponti fra le diverse realtà economiche e culturali coinvolte, se gli insegnanti di discipline artistiche non ricevono aiuti sufficienti all’aggiornamento, e via dicendo, forse, dico, forse non è per nulla buona la fase che stiamo vivendo da questo punto di vista. l’arte elitaria? l’arte deprecata per tanti motivi? e allora perché in danimarca, in Francia o in germania le situazioni rendono imbarazzante il trattamento che l’arte riceve in italia? chi sono i responsabili e quanti sono?

G: Morgan, le discipline artistiche sono state drasticamente tagliate, nelle scuole, altro che fondi per l’aggiornamento… i responsabili sono a monte e alla base. Facile dire la colpa è di chi ha in mano le chiavi, se poi quelle chiavi gliele abbiamo date noi. È la democrazia, no? se governa il

popolo, allora la colpa delle cose che vanno male è anche del popolo. in questo caso, si potrebbe fare un elenco lungo di responsabilità, dal ministero, alle soprintendenze, eccetera. Ma è uno scaricabarile che non serve a nulla, e non sarebbe nemmeno corretto. i responsabili siamo tutti, la cura del patrimonio artistico è una questione di cultura, sensibilità, istruzione. È come per l’ecologia: il pianeta è di tutti, dobbiamo cambiare la nostra testa se vogliamo che arrivi qualcosa alle generazioni future. il patrimonio artistico è di tutti: dobbiamo smettere di pensare che sia una specie di privilegio averlo, un lusso che possiamo anche permetterci di sprecare. È la nostra storia, la nostra ricchezza più grande: bisogna pensarlo non solo come passato ma anche come presente e come futuro. dobbiamo cambiare la nostra testa se vogliamo che arrivi qualcosa alle generazioni future.

M: δε φτάνει (ci vuole altro…). G: άσε την πόρτα ανοιχτή (lascia la porta aperta!).

giorgia lepore è pugliese, vive a Martina Franca. È archeologa, insegna storia dell'arte nelle scuole superiori e storia dell'arte medievale presso il corso di laurea in beni culturali di taranto. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche e ha pubblicato nel 2009 con Fazi il suo primo romanzo L’abitudine al sangue.

2010 • Sul Romanzo

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