Bovo

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Mattatoio. Animali. Buoi in tumulto. Le macchine delle celle frigorifere. Leone. Macchina per la produzione di salami. Migliaia di salami. László Moholy-Nagy

Io ho una mucca assai pregiata (ehhh oh!) e Carolina l’ho chiamata (ehhh oh!). Appeso al collo ha un campanon, produce latte a profusion, vale certo dei milion (tolon tolon, tolon tolon... ehhh oh!). Carosello Invernizzi





The intimate secrets and rigorous ramifications of railway running were all elucidated to me by a blackshirt named Ana Nias,

who said that he was once a cow-catcher on the Venetian railways. In case you do not appreciate what a cow-catcher on the Venetian railways means, let me explain that he is the official who stands on the pergola of the gondola, and leaps off when he detects a cow on the line. His job is to see that the permanent way is not converted into the milky way with curds and whey. He throws the bovine interloper off the rails, brings it to a full stop, and causes it to imitate an inverted comma by turning it on its back, in which position, of course, it is completely cowed, and is helpless to molest, impede, or otherwise create a hiatus in the poetry of motion. As the Venetian railways are run solely on water (garnished perhaps with a hint of garlic and Fascism to give it foundation) the cow-catcher must combine the muscularity of a matador, the toughness of a door-a mat (Italian pronunciation), the waterproofness of Mr. Macintosh, the cow-consciousness of a dairy inspector, and the turning propensities of Dick Whittington, who, as you know, became Lord Mayor of London merely by rotating on his axis.

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Ana Nias cambiò lavoro perché di bovini a Venezia non se ne videro più.

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A parte uno.

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BO di Silvio Lorusso

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VO 5


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Che pace! Un’esistenza semplice. La natura nella sua espressione ideale.

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Ebbene no, non era questo lo scenario in cui trascorrevo la mia vita.

Piccola, umida, buia. Questa era la mia casa. Quattro mura spoglie, ornate solo da muffa e sporcizia, che segnavano il confine con la montagna. Non ero solo, ma non è che tra di noi ci fosse molto da dire.

Stare con i miei simili tutto il tempo annullava ogni tipo di dialogo, come dopo quarant’anni di matrimonio.

La montagna, così imponente, la scorgevo solo dalla piccola finestra inferriata, rimanendone comunque incantato. In fondo non era la montagna ad incantarmi, ma il fatto che essa fosse così distante, irraggiungibile. Infatti d’estate, durante il pascolo – quando finalmente la abitavo, vagando qua e là – nessuno stupore mi coglieva, solo il piatto desiderio di brucare l’erba fresca. Era lo stesso per i detenuti durante l’ora d’aria? La libertà acquistava senso solo dalla reclusione?

Il cibo non mancava mai, la mangiatoia sempre piena, ma ogni giorno, verso sera, l’allevatore si faceva vivo e ci conciava un po’ come i turisti cinesi o quelli messicani, solo che le nostre mascherine non ci impedivano di contrarre germi, bensì di trangugiare quintali di fieno, unico passatempo contro la noia.

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Senza esitazione posso definire uniche le circostanze che mi avevano portato in laguna.

Ventimila allevatori in protesta a Venezia,

gli accessi bloccati,

il sindaco aggredito.

E una dozzina di bovini trasportati in barca nella cittĂ . 9


Scalciando e dimenandomi ero caduto in acqua.

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Gli allevatori avevano tentato di recuperarmi, ma io ero rimasto saldo sulla secca. Alla fine decisero di abbandonarmi lĂ , simbolo vivente della protesta.

Attesa la fine della manifestazione avevo nuotato fino alla riva e cosĂŹ mi ero conquistato la libertĂ .

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Come seppi in seguito, la causa della protesta era la cosiddetta mucca pazza. Con questo nome si intendeva una malattia che i bovini contraevano mangiando le carni dei propri simili defunti.

Essi impazzivano letteralmente perché nel loro cervello si formavano dei piccoli buchi come in una spugna.

Non vi era dubbio che la protesta fosse rivolta verso quegli allevatori malvagi che nutrivano in questo modo i miei simili causandone la morte.

Certamente gli esseri umani non tolleravano tale crimine, dato che l’erba non era mai mancata e bastava sicuramente per tutti. E di sicuro consideravano immonda la pratica di sminuzzare le carcasse fino a renderle polvere da confondere con il fieno.

Pare che il morbo si trasferisse anche agli esseri umani. Ma come? Questa era l’unica domanda a cui non ero in grado di dare risposta. Supponevo che la malattia si depositasse nel latte delle mucche – di cui gli umani come i bovini si nutrono – o semplicemente che il contatto con i buoi fosse fatale.

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Nei primi tempi Venezia per me non era solo una città speciale, bensì la Città, speciale di per sé. Infinitamente diversa dalla montagna, Venezia mi appariva un posto magico, dove la pietra immobile si era animata per assumere forme complesse e bellissime, forme gentili che parevano dire qualcosa. Al contrario dei pascoli indifferenti, le calli mi guidavano e quando esse incontravano un canale, senza paura lo superavano come dei serpenti di cui non si vede né testa né coda. Io avanzavo seguendo questi percorsi. Le biforcazioni non erano che due serpenti accavallati. Di solito continuavo la strada prescelta poiché, come sapete, i bovini sono piuttosto abitudinari. E infine trovavo il lago immenso in cui il serpente si tuffava. Venezia era il nome di un enorme animale assopito, immerso per metà nel mare e noi non eravamo che mosche mentre ne esplorano le membra affioranti. 15


Certo all’inizio fu dura. Ma la cosa che mi infastidiva di più non era il fatto che tutti mi guardassero stupefatti come se venissi da un altro pianeta,

bensì il fatto che mi scambiassero per una mucca. Ora, c’è una bella differenza tra una mucca ed un bue e se permettete la cosa mi stava a cuore.

Il nome che mi affibbiarono, a detta di molti sarà un po’ banale, ma almeno non lascia adito a equivoci. Era finalmente chiaro che ero un bue, non propro ducevo latte e non avrei partorito vitelli.

Tutti mi chiamavano Bovo e credetemi se vi dico che quando mi incontravano per strada mi salutavano con larghi sorrisi. In verità ciò che mi rallegrava di più era il cibo che di tanto in tanto mi offrivano per riempire i quattro stomaci.

Questo non sempre accadeva, quindi ogni giorno mi recavo ai Giardini dove ne trovavo in abbondanza. 16


A Venezia solo il mondo esterno mi riguardava, le porte erano quasi sempre troppo strette e quando ne trovavo una abbastanza larga per la mia mole, subito qualcuno accorreva spingendomi fuori. I luoghi al di là delle porte erano un mistero, chissà quali tesori all’interno, quali segreti. Solo uno di essi sembrava richiamarmi dentro.

Mi chiedevo dove portassero queste fauci che si aprivano per accogliermi, cosa fosse questa trappola luminosa e colorata.

Gli esseri umani ci entravano tranquilli e dopo un po’ ne venivano fuori illesi. Si procuravano così il cibo, esplorando lo stomaco di Venezia.

Ciò che mi terrorizzava era il presentimento che un giorno Venezia si sarebbe risvegliata e avrebbe inghiottito in un attimo tutti coloro che ne perlustravano lo stomaco. 17


Ecco perché preferivo girovagare nei campi spaziosi, dove qualche raro albero fa capolino.

É qui che le strette calli sfociano, sono questi i luoghi che esse indicano. Ecco che la città diventa paesaggio ed io ritrovo la dimensione del pascolo. Infatti pare che un tempo alcuni di essi fossero dei campi veri e propri, come quelli di cui la montagna era circondata. Ho cominciato a domandarmi quali potessero essere e quando fosse stato così.

Ho immaginato la laguna primordiale, senza costruzioni, solo terra verde e acqua salmastra, senza uomini, senza nulla.

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Poi le prime fragili capanne circondate dalla terra prima che dalla palude.

La chiesa costruita in pietra, il centro del villaggio, nient’altro che un’isola piÚ grande delle altre.

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E poi la repubblica Serenissima, il centro del mondo conosciuto, i popoli giunti da terre lontanissime. L’esplosione della città che seppellisce la natura, delimitandola e allontanandola.

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Rari tappeti verdi sotto gli edifici, testimoni dell’ascesa e della caduta di Venezia, del suo potere e della sua sconfitta.

L’industria, il progresso, la modernità. Adesso il cemento affianca la pietra e di campi verdi nessuna traccia.

Forse nelle isole, forse al Lido o in Giudecca. Forse ancora abitate da altre mucche o buoi. Chissà se la terra, un tempo alla luce del sole, riposa sotto la pietra o solo tronchi ammassati sorreggono questa città dell’uomo. 21


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Il 2 gennaio fu un giorno speciale, e da allora ogni 2 gennaio lo è stato per me. Un’amorevole signora si presentò con una gustosa insalata di soia, erba e fieno, dicendomi: «Auguri! Oggi è San Bovo, il tuo onomastico.» Mi spiegò che un santo col mio stesso nome era celebrato in questo giorno, quindi era anche un po’ la mia festa. Mi disse inoltre che il santo era il protettore dei buoi e delle mucche. Ero entusiasta, volevo sapere tutto di quest’uomo che abitava il cielo e ci proteggeva dall’alto.

Lei poté solo raccontarmi questa leggenda: «La notte del 2 gennaio Bovo entrò in stalla per ascoltare ciò che i buoi avevano da dirsi sull’anno a venire e sul comportamento del bovaro, l’allevatore. Nascosto sotto la paglia scoprì che gli animali, prevedendo un anno di carestia che li avrebbe condannati alla morte, avevano deciso di ucciderlo. Bovo, dopo aver udito questa intenzione, morì di spavento.»

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Il racconto mi lasciò perplesso. I bovini non avrebbero mai potuto fare una cosa del genere. Non vi era motivo, in nessun modo l’omicidio avrebbe giovato. Pensai che la storia fosse solo un monito per far sì che gli allevatori si prendessero maggior cura degli animali. Da allora chiedevo a chiunque della vita di San Bovo. Molti conoscevano la leggenda ma solo un turista francese poté raccontarmi la vera storia. Attorno all’anno 1000 in Provenza ebbe i natali Bovo, figlio di Adalfredo e Odilinda. Egli fu un guerriero nobile che difendeva i villaggi dalle razzie compiuto dai Saraceni. Sotto la pesante armatura portava sempre il cilicio e passava le notti in preghiera. Memorabile fu l’eroil’eroi smo dimostrato quando, sotto il comando di Guglielmo I,

liberò la fortezza di Frassineto nei pressi dell’attuale Saint Tropez. Dopo quest’impresa Bovo perdonò l’uccisione del fratello, dedicandosi alla penitenza e vivendo in un’umile casupola in cima ad un colle. Bovo fu un notevole taumaturgo e il suo culto si diffuse largamente. Dopo alcuni secoli le sue reliquie furono raccolte a Voghera, dove spirò durante un pellegrinaggio verso Roma.

Così fu chiamato San Bovo, e questo cavaliere che così poco aveva avuto a che fare con i bovini ne diventò il protettore solo a causa del suo nome. 24


L’immagine di San Bovo era comune nelle stalle del veneto.

Qui ogni giorno si recava il bovaro per condurre i buoi che avrebbero arato l’aspra terra,

sotto un giogo che lui stesso aveva ottenuto da un grosso pezzo di noce o di acero.

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Le frequenti inondazioni del territorio mietevano le prime vittime negli animali, pochi i superstiti riparati in posti impensabili.

La vita allora era durissima per noi, ma probaiblmente quella del bovaro era peggiore. Quest’ultimo dava al padrone i sudati frutti del raccolto in cambio della misera porzione di polenta quotidiana da dividere con la famiglia numerosa. L’abuso di questa pietanza – preparata in mille modi per risultare meno stomachevole – causava molto spesso la pellagra,

una malattia tanto terribile da essere paragonata alla lebbra. 26


La polenta era consumata anche dai ricchi nobiluomini veneziani, in questo caso come gustoso contorno a porzioni abbondanti di ricette raffinate che io, ghiotto solo di erba e fieno, non avrei comunque apprezzato.

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In poco tempo i miei sentimenti verso Venezia mutarono. Lo stupore iniziale svanì. Gli edifici che mi erano parsi magnifiche sculture, divennero nient’altro che ostacoli ingombranti. La gente affollava le strade come chiassose galline nel pollaio. Volevo andarmene, ma non potevo. C’erano due vie d’uscita, una per mare e una per terra. Ma nessuna barca mi voleva trasportare e nessun treno aveva ormai il carro bestiame. Cos’è che non andava? Cibo ed acqua ne avevo a sufficienza, il sole mi illuminava, nessuno mi faceva del male. 29


Ad un tratto mi fu tutto chiaro: Ero solo, mi mancavano i miei simili, il loro silenzio, la loro presenza in fondo. Nessuno con cui godere della freschezza dell’erba o con cui lamentarsi del fastidio delle mosche.

Sentivo di essere stato separato dal mio ambiente, l’ambiente che mi apparteneva. Se non proprio un mondo ideale, un mondo adatto a me. Allora l’unico rimedio al mio sconforto divenne l’ostinata ricerca dei miei simili a Venezia. «La città è grande – mi ripetevo –, devo solo cercare nei posti giusti». Non c’era nessun bue a Venezia? Nessuna mucca? Ce n’erano mai stati? Come ci erano arrivati? Ma soprattutto come riuscirono ad andarsene? Ogni volta che ponevo queste domande ai veneziani, essi imbarazzati campavano scuse per non rispondere e mi liquidavano in tutta fretta. Il silenzio che tutti mantenevano era la ragione della mia speranza. Esso implicava un segreto che prima o poi avrei scoperto.

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CosĂŹ cominciai a cercare tracce in cittĂ .

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Abituato com’ero alla vita brada, cercavo le tracce nel pavimento, tra le geometrie disegnate nel lastricato. Cosa cercavo? Sapevo bene che nella dura pietra le zampe non avrebbero lasciato impronte.

Un giorno, costeggiando una fondamenta, adocchiai una traccia. Subito dopo vidi un uomo che arretrava rischiando di calpestarla. L’uomo non si sarebbe accorto di nulla, preso com’era dal fotografare un’iscrizione sull’edificio. Emanai un forte muggito per avvertirlo. L’uomo si arrestò poco prima di schiacciarla.

Giunto sul posto scoprii deluso che anche stavolta si trattava dell’opera di un cane. L’uomo si voltò verso di me ringraziandomi. Poi mi chiese cosa ci facesse un toro a Venezia e se la mia presenza fosse legata all’iscrizione. Gli risposi che non ero un toro bensì un bue ed incuriosito gli chiesi di leggere l’iscrizione.

Ero entusiasta, avevo finalmente la prova che non ero il primo bovino giunto a Venezia. Decisi quindi di investire tutte le mie energie per scoprire cosa fossero le cacce ai tori. 33


Le cacce erano un emozionante spettacolo sia per i nobili veneziani che per il popolo, una singolare attrazione per gli stranieri e un martirio atroce per i buoi. Sì, perché i tori in realtà erano buoi, molto più mansueti e facili da governare.

Un tiratore conduceva il bue legato per le corna in mezzo al campo, un omuncolo si avvicinava all’animale e ne stimolava la furia facendo esplodere dei petardi. Pare che il più delle volte il bue rimanesse immobile terrorizzato.

A questo punto dei cani rabbiosi addestrati a mordere le orecchie del bovino venivano sciolti e si lanciavano su di lui. Tirando la corda il tiratore strattonava la testa del bue e lo salvava dall’attacco, come se stesse manovrando una marionetta. Quando ciò accadeva tutti applaudivano. 34


Era solo una questione di tempo, prima o poi uno dei cani azzannava l’orecchio e non se ne staccava fino a quando il cavacani non interveniva.

Il bue sanguinante era portato in rassegna nelle calli come trofeo vivente, destando l’ammirazione della folla. Arrivati a destinazione gli si segavano le corna e la massima prova di abilità consisteva nel maneggiare un grande spadone a due mani per decollare il bue in un sol colpo senza toccare terra con la lama.

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Meditai a lungo sulle ragioni di tale pratica, sul significato di questa crudeltà . Alcuni sostenevano che il bue fosse il simbolo del mondo rurale e lo spettacolo non era che la dimostrazione del dominio della città su di esso. Altri semplicemente lo consideravano una dimostrazione di forza. Ma la spiegazione che accettai come vera fu un’altra. 36


Venezia in passato era divisa in quartieri e vi era una forte rivalità fra di essi. I bovini privi di orecchie venivano liberati nei quartieri nemici e gli abitanti terrorizzati si tuffavano nei canali per sfuggire all’animale. Le cacce ai tori non erano che un pretesto per arrecare danni ai rivali.

I buoi apparivano così spaventosi perché erano una presenza rara a Venezia. Ancora una volta le peculiarità di questo luogo tanto ambiguo, rendevano ambigua la natura ed i suoi prodotti. Mi sentii sollevato solo quando seppi che lo spettacolo era stato abolito ormai da alcuni secoli, proprio perché considerato crudele e spietato.

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Ma ogni volta che passavo per un campo non potevo evitare di chiedermi se questo fosse stato palcoscenico di tali violenze. 39


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Venezia, come sapete, è ricca di vetrine, tutte piene degli stessi oggetti luccicanti. Ma ce n’era una piccola, nascosta e buia. Pochi i turisti che ci passavano davanti e ancora meno quelli che entravano nel negozio. Questa vetrina polverosa ospitava stampe antiche, scatole in latta, francobolli, medaglie, libri, radioline, dischi, macchine fotografiche, cappelli, carillon e mille altri oggetti. In verità non ci avevo mai fatto caso fino a quando un giorno, gironzolando per la città, mi parve di scorgere due corna dentro il negozio. Come al solito l’entrata era troppo stretta per me e mi avvicinai alla vetrina per distinguere meglio il mio simile tanto agognato. Vedendomi, la proprietaria uscì dal negozio. Immediatamente le chiesi del bovino che viveva lì. Perplessa si voltò verso l’interno. Entrò nel negozio e uscì di nuovo ridendo. Portava con sé una mucca bellissima, piccola e fiorita.

Mi disse che si chiamava mucca Carolina e che era stata lei stessa in gioventù a crearne innumerevoli esemplari quando viveva in un paesino a poca distanza da Venezia.

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«La mucca Carolina è stata per Cervarese una miniera d’oro. Quando abbiamo iniziato a produrla erano gli anni duri del dopoguerra. Gli anni della miseria, soprattutto per la gente che abitava in campagna. Per noi ragazze trovare un posto di lavoro in fabbrica vicino casa era come vincere un terno al Lotto. Ricordo che la giornata in laboratorio passava in fretta. Terminato il turno di lavoro si tornava in fretta a casa e ci si piantava davanti al televisore (chi aveva la fortuna di averlo) in attesa di vedere la pubblicità dei formaggini Invernizzi.

Vedere quegli esemplari di plastica costruiti con le nostre mani “viventi” sullo schermo era un’emozione forte.» Cosa intendeva per viventi? Acconsentì gentilmente quando le chiesi ansioso di mostrarmi la mucca Carolina. Rientrò in negozio e accese il piccolo televisore in bianco e nero che stava riposto in un angolo della vetrina.

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Carolina era una mucca operaia, e ogni giorno produceva litri e litri di latte. Era felice quando riceveva le lettere di Annibale, suo compagno, che le raccontava dei suoi frequenti pasticci. Come quando aveva distrutto la sua bicicletta nuova dando un passaggio ad una cavallina o quando, durante una partita a scopa, una volpe gli aveva soffiato la valigia affidatagli da un turista. Ne rimasi meravigliato e da allora la proprietaria ogni giorno, all’apertura del negozio, accendeva il televisore mostrando le vicende di mucca Carolina e Annibale.

Ma non solo! Molti altri personaggi, molte altre storie convivevano in quello spettacolo che gli umani chiamavano Carosello. La pubblicitĂ era come la fiaba:

detersivi, formaggi, dentifrici, dolciumi, elettrodomestici accompagnavano l’immancabile lieto fine addolcito da una canzoncina orecchiabile. 43


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Piazza san Marco non era un luogo abituale per me. Non che non mi piacesse; solo che la folla di turisti rendeva difficili i movimenti per un animale della mia mole. Un giorno inaspettatamente la trovai vuota, non era notte né faceva freddo. Nessuno intento a nutrire stormi di piccioni in mezzo alla piazza. Decisi di approfittarne e rimasi lì per un po’. Così ebbi modo di osservare tutto con maggiore attenzione mentre note allegre arrivavano dal caffè Florian. Ammirai gli archi delle procuratie, l’altissimo campanile,

la torre dell’orologio dove un toro capovolto era accompagnato da due gemelli ed un ariete. Sapevo a cosa si riferiva quell’illustrazione:

era un segno zodiacale, un toro fatto di stelle che popolava il cielo e influenzava coloro i quali erano nati sotto il suo segno. Contemplai anche l’opulenta facciata della basilica, luogo sacro per alcuni esseri umani, e mentre scorrevo i bassorilievi dell’ampio portale mi soffermai su un episodio in particolare.

Pensai che anche questo fosse un evento accaduto in un passato recondito. La scena era la rappresentazione di una delle tredici arti su cui si basava la libera civiltà veneziana: l’arte di massacrare degli animali per farne del nutrimento per gli esseri umani. 45


Le speranze di trovare i miei simili a Venezia si erano affievolite, ma adesso mi premeva conoscere le ragioni di tale pratica. Capire in quali circostanze era nata, come si era protratta e quando finalmente era stata abbandonata.

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Mandrie intere di bovini allevati in Dalmazia o nei più vicini pascoli del Veneto o del Piemonte erano condotte a Venezia per mare o via terra, durante viaggi lunghi e durissimi.

I bovini giunti a Marghera erano nutriti abbondantemente in stazioni di riposo affinchè ingrassassero fornendo così più cibo. Essi venivano poi trasportati in barca per giungere infine nei macelli comunali. Erano chiamati macelli i luoghi nei quali si uccidevano gli animali per farne carne; non solo bovini ma anche polli e maiali. Ai tempi in cui la città era fatta di legno ce n’erano ben due, uno a Rialto ed uno a San Marco. Il caso vuole che le prime memorie del macello di Rialto abbiano a che fare con la carne umana.

Candiano IV, un doge prepotente e malvamalva gio che aveva ripudiato una moglie costringendola alla vita monacale e sposato un’altra con l’unico scopo di arricchirsi, subì una congiura da parte di alcuni sudditi.

Candiano fu trucidato senza pietà e nella ressa anche il figlioletto avuto dalla seconda moglie Waldrada fu colpito a morte da una lancia. Con sprezzo, i due corpi furono gettati nel macello comunale di Rialto mescolandosi alle carni dei miei simili. 47


Il macello di Rialto era il punto centrale del vivace mercato di Venezia popolato oltre che da altolocati forestieri anche da mendicanti e truffatori.

Su spartani banconi in pietra si ammazzavano e squartavano mucche e buoi, mentre poco lontano si contrattava il prezzo di sete preziose, spezie e schiavi o si svolgeva la vita di famiglie prestigiose come i Gradenigo, i Fontana e i Contarini. I membri di queste famiglie componevano la municipalitĂ veneziana e si riunivano in piazza san Marco, nelle varie procuratie. Era questo il luogo del potere ufficiale.

E questo era anche il luogo del secondo macello comunale, non molto distante dalle cinque osterie, consueto alloggio per illustri ospiti giunti da paesi lontani, e dalle due colonne di San Marco e San Todaro, tra le quali avvenivano le esecuzioni capitali.

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Il mestiere dei becchéri, l’arte di uccidere e dilaniare i corpi degli animali, era molto redditizio, specialmente per coloro che praticavano il contrabbando. Vi era un controllo accurato e ferreo dei becchéri da parte delle autorità perché spesso questi truffavano i clienti con bilance truccate oppure vendevano carne avariata o ancora trasportavano di nascosto bestiame in città per non pagare il dazio. Ai becchéri spettava anche un luogo di culto, una piccola chiesetta nei pressi di Rialto. Toccava inoltre a loro un gradito compito: quello di preparare addobbi e festoni in onore degli illustri ospiti in visita nella città di Venezia.

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Essi avevano un simbolo.

Nello sguardo del bue che rassegnato si dirige verso la morte vi leggevo chiaramente il dolore e mi chiedevo se gli umani ne fossero consapevoli. Questa domanda e molte altre affollavano costantemente la mia mente mentre la ricerca dei miei simili si sostituiva pian piano all’ossessiva ricerca della fine di queste atrocità .

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L’arrivo della peste a Venezia fu terribile, la popolazione ne risultò decimata e furono emanati molti provvedimenti per scongiurare il morbo.

Uno di questi consisteva nell’allontanare dal centro della città tutte le attività ritenute inquinanti, tra di esse vi era la macellazione.

Tutto fu spostato nei pressi di San Giobbe, il punto della città più vicino alla terraferma, collegato ad essa attraverso il canale di San Secondo. I miei simili avevano modo di osservare lo splendore di Venezia solo dall’esterno, infatti il loro viaggio a bordo dell’arca,

un barcone in grado di trasportare sei bovini adulti , si concludeva prima di entrare in contatto con i fasti della città.

Anche l’isoletta lungo il canale ne era esclusa, abitata da monaci domenicani dediti più alla vita spirituale che ai bagordi. In questo modo Venezia cominciò ad assomigliare a quella che è adesso: non il luogo sporco e operoso dei mestieri, bensì quello immobile della bellezza, delle feste e delle celebrazioni. 51


In seguito fu soppresso anche il luogo di culto dei becchèri. Fu per opera dei francesi, sotto il comando di Napoleone Bonaparte,

il quale diede l’ultimo saluto a Venezia dal “pontile dei manzi”, luogo in cui venivano imbarcati i bovini per essere poi trasportati in laguna.

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L’attività rimase tutto sommato immutata per alcuni secoli fino a quando nel 1843 fu inaugurato il macello di San Giobbe.

La pratica della morte assumeva cosĂŹ un ritmo ed una dimensione industriale.

Infatti a poca distanza dalla strut tura esisteva una fabbrica di candele di sego, il grasso animale residuo dalle carcasse macellate. Esso diventava la materia prima per candele e saponi.

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L’attività del macello fu inaugurata da un disperato tentativo di evasione che risultò inevitabilmente vano. Due buoi appena giunti in laguna avvertendo il pericolo si agitarono e si diedero alla fuga, uno di essi fu catturato immediatamente, mentre l’altro, passando per campo San Geremia e arrivando fino alla chiesa degli Scalzi, fu infine bloccato da due macellai. Forse fu lui stesso ad arrendersi quando si rese conto di essere finito in una prigione senza celle né grate. Un tale evento non capitò più, ogni giorno prima dell’alba il bestiame veniva condotto senza intoppi all’interno del macello. Esisteva persino un ponte apposito per il trasporto del bestiame che giungeva via terra, il ponte delle vacche.

Gli animali introdotti nel macello venivano poi pesati su due grandi bilance presso l’edificio del dazio, sul quale vi era un grosso orologio che segnava le ore, regolando tutte le attività.

Poco dopo gli scorteghini colpivano i bovini uno ad uno con la mazza romana o col martello inglese in modo da far perdere loro i sensi; ciò non sempre accadeva quindi era necessario ripetere il colpo anche più volte. 54


Di tanto in tanto le mazze erano lasciate da parte, perché il compito di stordire i miei simili toccava a Plinio Scarabellin

giovane veneziano che si affermò nel mondo del pugilato – il quale con un pugno tramortiva il bovino.

Litri di sangue scorrevano dai corpi dei bovini appena sgozzati mentre essi, appesi per una zampa, scalciavano in preda alle convulsioni.

In poche mosse i minuzzadori decapitavano l’animale. La testa veniva poggiata su un piedistallo e lavata mentre spasmi muscolari erano ancora evidenti.

Il resto del corpo era poi scuoiato, svuotato delle interiora e tagliato in due pezzi.

Un’ulteriore visita post-mortem era praticata per concon trollare la commestibilità delle carni e se essa dava esito positivo le mezzene erano bollate ad inchiostro. 55


I pezzi di carne erano infine caricati su barche a remi e si tenevano delle regate per rifornire le macellerie, i punti vendita delle carni.

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Le Corbusier, un grande architetto francese, si interessò alla sede per convertirla in un ospedale. Il progetto fu studiato nei minimi dettagli suscitando l’entusiasmo e le polemiche che le novità portano nell’immobilità senza tempo di Venezia.

Alla fine esso l’ospedale non fu realizzato. Per più di un secolo – dal 1843 al 1972 – l’attività del macello continuò incessantemente. Dopo la chiusura la struttura dovette suscitare un certo terrore e disgusto infatti per anni essa fu abbandonata.

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In una fotografia dell’epoca vidi gli uomini e gli animali a San Giobbe ritratti insieme, i primi con in mano le diverse mazze per lo stordimento e le mannaie per la scuoiatura. Un bue mi impressionò, incorporeo come un fantasma di un tempo passato. 59


Decisi di recarmi lì, di portare i miei ossequi alle vittime che riposavano in quel grande cimitero.

Dall’esterno mi parve un monumento commemorativo, con simboli e fregi sulla facciata. All’interno inaspettatamente vi trovai la vita: l’edificio era sede dell’università, dove ogni giorno ci si occupava di economia, studiando la gestione delle risorse per soddisfare i bisogni della popolazione. Vedere tutti questi giovani umani impegnati in calcoli complessi mi convinse che la sede scelta non fosse casuale e che fossero contemplati anche i bisogni degli altri esseri viventi per una serena convivenza, per il bene comune. Me ne andai soddisfatto, l’uomo era in grado di capire i suoi errori e studiava costantemente il modo migliore per correggerli. Mi parve chiaro che fosse questo il significato di modernità.

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Il gancio esterno dove le carni venivano esposte non era che un documento del passato, lasciato lĂŹ per non dimenticare e non ripetere.

Anche l’incisione dell’ultima macelleria rimasta a Venezia chiusa ormai da qualche anno, sembrava un monito per le generazioni future.

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Questa scoperta stemperò la rassegnazione di non poter trovare i miei simili in città e di condurre una vita solitaria.

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Ma un giorno, mentre vagavo come al solito, vidi un ragazzo che portava con sé una scatola; su di essa c’era una mucca felice nei campi verdi.

Rappresentava per me l’ultima speranza.

Il ragazzo era appena uscito da quelle spaventose fauci, abbastanza capienti per far entrare anche me.

Le immagini sull’edificio mi convinsero che all’interno, magari dopo un lungo tragitto, fosse possibile raggiungere campi sterminati dove mucche appagate producevano latte e formaggi, alberi rigogliosi of offrivano frutti di ogni genere e crescevano floride piante di sedano, spinaci, prezzemolo. Mi feci coraggio ed entrai. Una luce innaturale illuminava lunghi corridoi. 63


Ritrovai subito l’immagine della scatola che si ripeteva come un eco senza fine.

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,89 €

Vidi insalata a volontà in sacchi trasparenti,

€ 64

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,99

,59 le maestose montagne lontane ed innevate,


la polenta, maledizione dei poveri e sfizio dei potenti,

0

,95

tori muscolosi che si divertivano scontrandosi tra di loro.

€ €

1,05

1

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1,75

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,57

1,19 € ,49 1

E tante mucche tranquille e serene come Carolina, felici nei pascoli. 65


Ma appena prima che il commesso riuscisse a bloccarmi lo shock mi lasciò esterrefatto.

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Spezzatino, hamburger, polpette, wurstel, involtini, bistecche, carpaccio, filetto, roast-beef. Tutti modi possibili di sezionare, tritare e sminuzzare le nostre carni, di servirci ai tavoli, mescolarci con altre pietanze.

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I bovini che giungevano vivi in città dall’Ungheria e dalla Croazia, ci arrivavano ora in pezzi minuti e surgelati da tutto il mondo: dalla Francia, dalla Polonia, dall’America Latina.

I contadini che pativano la fame nelle campagne lavorando al nostro fianco, vivevano adesso in città e ricordando quei tempi duri mangiavano carne tre volte al giorno. La carne era sinonimo di forza: persino Napoleone – che aveva conquistato mezza Europa – era stato sconfitto dagli inglesi, il popolo dei mangiatori di manzo.

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Lo spettacolo di Annibale e Carolina, che mi era parso cosĂŹ innocente, non era affatto diverso da quello delle cacce ai tori, entrambi spettacoli di morte.

E per ogni santo protettore vi era qualcuno che difendeva l’opposto con la stessa convinzione o forse di piÚ.

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L’uomo, oltre a controllare la morte degli animali, ne regolava anche l’esistenza. Gli animali erano valutati in termini di performance come macchine.

E proprio delle macchine avevano sostituito i buoi nel lavoro agricolo. Privati di questa funzione essi vivevano in box angusti, senza mai vedere la luce del sole, cosĂŹ grassi da non reggersi in piedi.

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Le mucche invece erano collegate a macchine che simulavano le bocche dei vitelli o le mani degli allevatori, munte senza sosta fino a provare dolore. Le primitive mazze per stordire il bue erano state sostituite da una macchina che prometteva un trattamento “umano”. Esso consisteva nel fare un buco nel cervello dell’animale con una pistola ad aria compressa che toglie immediatamente la vita. Tutto ciò accadeva mentre gli altri animali in fila sentivano lo sparo, i muggiti e l’odore del sangue a poca distanza.

Mi fu chiara anche la causa della mucca pazza: il tentativo di chiudere la catena della produzione dando in pasto agli animali i resti inutilizzati delle loro carcasse. L’uomo aveva tentato di rendere carnivori i bovini, ma quest’ulteriore affronto alla natura si era rivelato un disastro.

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Provai pietà per i miei simili e ne provai anche per gli uomini. Sì, anche per loro, perché l’uso dei bovini non era che il riflesso di come gli esseri umani usano sé stessi.

Gli animali negli allevamenti artificiali come gli uomini nelle fabbriche sterminate o in coda al supermercato, nient’altro che strumenti al servizio della produzione e del consumo. Pensai che non mancasse molto all’allevamento intensivo degli umani.

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Volevo fuggire da questa cittĂ a qualsiasi costo. Solo in apparenza Venezia riposava, essa in realtĂ inghiottiva senza sosta montagne, laghi, campi, buoi, mucche, galline, piante. Gli uomini non agguantavano che gli avanzi in bella mostra dentro questo stomaco continuamente riempito e depredato.

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Questa cittĂ ,

come la mucca Carolina,

e come i pascoli ideali mostrati sui prodotti, non era che l’immagine ingannevole di una quiete apparente. Venezia aveva eliminato ogni traccia dell’ingiustizia e del dolore, del sangue e della polvere. Tutto vi arrivava qui sotto forma di immagini pacifiche e di pezzi di carne in forme regolari che erano spogliate del loro passato di esseri viventi. Per condurre una vita serena gli uomini avevano bisogno di questa bugia e ci credevano sinceramente. Un giorno non si sarebbero nemmeno ricordati della verità . 75


Tornai là dove in passato i bovini ogni giorno erano condotti alla morte. Da lì potevo vedere l’isoletta ormai abbandonata, ultimo ricordo di migliaia di animali.

Avrei vissuto lì, la solitudine non mi spaventava più. Ogni individuo in viaggio verso Venezia si sarebbe accorto di me e avrebbe conosciuto la storia di Bovo, simbolo vivente della protesta contro la menzogna dell’uomo.

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Mi tuffai senza esitazione.

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Non arrivai mai all’isola.

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Ma la mia storia non fu dimenticata dagli uomini e le tracce che lasciai furono molto pi첫 evidenti di quelle che io stesso avevo trovato a Venezia.

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Ken Alexander, Ana Nias - Cow-catching in Venice in “The New Zealand railways magazine” 1929, vol.4, p.13 Cioccolato Villars, illustrazione su prodotto Associazione Carro dei Giovani di Portocannone, still da video 2009 Cioccolato Villars, illustrazione su prodotto Associazione Carro dei Giovani di Portocannone, still da video 2009 Venezia ostaggio dei cow-boy in “Il Gazzettino”, 4 luglio 1999, p.2 Prigionieri sul Ponte della Libertà in “Il Gazzettino”, 4 luglio 1999, p.3 Cacciari “toreador” tra sputi e insulti in “Il Gazzettino”, 4 luglio 1999, p.3 Le mucche sul Canal grande in “La Repubblica”, 4 luglio 1999, p.21 spot Snorkel, Parmigiano Reggiano, still da video “Vacqueros” al Florian, bovini in barca sotto palazzo Ducale in “Il Gazzettino”, 4 luglio 1999, p.2 spot Snorkel, Parmigiano Reggiano, still da video Riva del Vin, foto dell’autore, Venezia 2010 KBS, Madcow disease and U.S. beef industry, still da video Nancye Good, The Mad Cow Investigator, still da video Cartolina di Venezia, 1957, Collezione dell’autore DeAgostini, Città del mondo - Venezia, still da video Will Wright, Spore 2008, still da videogioco La mungitura, www.matteocattadori.it foto dell’autore, Latte Candia 2010

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foto dell’autore, Insalata Chef Menù 2010 foto dell’autore, Supermercato Billa, Venezia 2010 Strato56, Campo San Polo, www.flickr.com/photos/strato56/ Laguna di Venezia in Arturo Colamussi, Isole della laguna di Venezia, Endeavour, Ferrara 2009, p. 4 Tomaso Diplovatacio, Tractatus de Venetae urbis libertate et eiusdem imperii dignitate et privilegiis et an de iure Dominium Venetorum habeat superiore, sec. XIV, part. in Wladimiro Dorigo, Venezia Romanica, Cierre-Istituto Veneto Scienze Lettere e arti, Venezia-Verona 2003, vol. I, p. 7 Valentin Orlandini inv., Ignazio Colombo inc., Stato delle isolette di Rivoalto, prima Culla della città di Venezia, vedute nella loro semplicità, Venezia 1796-97, part. in Wladimiro Dorigo, Venezia Romanica, Cierre-Istituto Veneto Scienze Lettere e arti, Venezia-Verona 2003, vol. I, p. 9 La platea marciana e le lagune, fine sec. 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148 Cameraphoto, General view of the central portal in Ettore Vio, The Basilica of St. Mark in Venice, Scala, Firenze 1999, p.69 149 Savii ed esecutori alle acque, serie Laguna, dis. 156, part. in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 53 150 Candiano IV in Alessandro Maria Manoli, Historia Veneta, Venetia in Marco De Biasi, La cronaca veneziana di Giovanni Diacono, Ateneo Veneto, Venezia 1988, p. 78 151 Pietro Pasini, Fasti veneziani, 1842, Palazzo Ducale - Venezia, part. in Marco De Biasi, La cronaca veneziana di Giovanni Diacono, Ateneo Veneto, Venezia 1988, p. 81 152-53 San Lorenzo di Venezia , b. II, fasc. II, part., in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, pp. 78-79 154-55 Amman Jobst, Piazzetta San Marco, la Beccaria, la Zecca e la Libreria, 1550 c.ca, part., in Manuela Morresi, Piazza San Marco, Electa, Milano 1999, p. 66 156 Andrea de Michieli, L’incoronamento della dogaressa Morosina Morosini 1597, part. in Giovanni Caniato, Punta San Giobbe, Associazione Macellai, Venezia 1997, p. 74 157 Medaglione dei becchèri, sec. XVI, Museo Correr - Venezia in Antonio Stangherlin, L’Associazione Macellai di Venezia e il cippo di San Giobbe, Associazione Macellai, Venezia 1985, p. 3 158 Frontespizio che raccoglie i decreti del Senato Veneto in materia di macellai e contrabbandieri, Archivio di Stato, Venezia 1594 in Antonio Stangherlin, L’Associazione Macellai di Venezia e il cippo di San Giobbe, Associazione Macellai, Venezia 1985, p. 43 159 Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia, Museo Correr - Venezia 1500, part. in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 28 160 Gaspare Vanvitelli, Veduta del Molo, la piazzetta e il Palazzo Ducale 1697, Museo del Prado - Madrid, part. in Gaspare Vanvitelli, Viviani, Roma, 2002 161 Isola di San Secondo in Arturo Colamussi, Isole della laguna di Venezia, Endeavour, Ferrara 2009, p. 85 162 Napoloene passa in rivista la marina italiana a Venezia, Museo Napoleonico - Rome in Amable de Fournoux, Napoléon et Venise, Éditions de Fallois, Paris 2002, p. 127 163 Avviso di apertura macello, 1840-1844 Sanità Macelli IV/7 164 Planimetria della punta san Giobbe, Savii ed esecutori delle acque, b.700, dis. 2, part. in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 43 165 Giuseppe Salvadori, Giovanbattista Meduna, Dettaglio del fronte verso laguna, 1834, part. in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 145 166 Ponte delle vacche, Comune di Venezia, Assessorato all’Urbanistica in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 117 167 Edificio del dazio in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Catalogo della mostra, Facoltà di Economia - Ca’ Foscari Università di Venezia, 1997, p. XVIII 168 Plinio Scarabellin al lavoro , Venezia, 1958 in Giovanni Caniato, Punta San Giobbe, Associazione Macellai, Venezia 1997, p. 77 169-78 Frederick Wiseman, Meat, 1976, still da video 179 Tamponi di gomma per la timbratura, Collezione Antonietti, Venezia in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 115 180 San Giobbe, Collezione Dalla Venezia 181 Le Corbusier, Archivio Progetti Università IUAV, part. in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, p. 170 182 Veduta a volo d’uccello del nuovo ospedale a San Giobbe, Venezia 1967, part. in Valeria Farinati, H VEN LC, IUAV archivio progetti, Venezia 1999, p. 204 183 Collezione Zambenedetti, Venezia in Giovanni Caniato, Renato Dalla Venezia, Il Macello di San Giobbe, Marsilio, Venezia 2006, pp. 110-111 184-85 foto dell’autore, Punta San Giobbe, Venezia 2010 186 Menini, S.Bonifacio, 1936 in Dino Coltro, Mondo contadino, Arsenale, Venezia 1982, vol. I, p. 128 187 foto dell’autore, Macelleria nei pressi di Rialto, Venezia 2010 188 Macelleria Panisson in Rio Terà San Leonardo, fine anni ‘50 in Venezia. Una storia per immagini, inserto de “la Nuova Venezia”, vol. IV, p.10 189 foto dell’autore, Latte Candia, 2010 190 foto dell’autore, Supermercato Billa, Venezia 2010 191 Luca Coppola, Supermercato Billa, Venezia 2009 192-201 foto dell’autore, Venezia 2010 202 Tagli di carne di manzo, Agrarmarkt Austria Marketing GesmbH 203-04 Manifesti pubblicitario carne in scatola Simmenthal 205 Nino Pagot, carosello carne in scatola Simmenthal 206 Carosello carne in scatola Montana, 1966, still da video 207 Disney, Oswald the lucky rabbit - The mechanical cow, 1927, still da video 208 Allevamento intensivo, www.eat-ing.net 209 Sarah Puckitt, Milking machine, www.historysanjose.org 210 Frederick Wiseman, Meat, 1976, still da video 211 Newark Livestock Market, www.newarklivestocksales.com 212 Fabbrica tessile, Guatemala, www.crea-inc.org/ 213 Steve Crane, Supermarket, www.flickr.com/photos/strandloper/ 214 Giulia Ciliberto, Rifornimento Supermercato Billa, Venezia 2009 215 foto dell’autore, Supermercato Billa, Venezia 2010 216 Cartolina di Venezia, Mazzega Art and Design, Venezia


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Cartolina Invernizzi, Collezione Luca Zanichelli Cioccolato Villars, illustrazione su prodotto Isola di San Secondo, www.undo.net spot Snorkel, Parmigiano Reggiano, still da video foto dell’autore, Bovo Burger 2010

Testi citati 1 42

Ken Alexander, Cow-catching in Venice in “The New Zealand railways magazine” 1929, vol.4, p.13 Intervista Rilasciata da Maria Rossetto, www.animamia.net/ita/giochi/la_mucca_carolina





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