Svacco Creativo numero 0 - Gennaio 2018

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E FATEVELA UNA RISATA NUMERO 0 • GENNAIO 2018 COPERTINA DI: CRISTINA RIZZI GUELFI

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MICHELA POSER

E se ti amo a te cosa importa?

L’amore è una cosa banale


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7 AGENCY STOCCOLMA testo e foto di MA REA

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FIORI GIALLI ZAFFERANO testo e foto di CRISTINA RIZZI GUELFI

di SERGIO DI VITANTONIO

20 di SILVIA DE MIGLIO

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SALA D’ATTESA

22 LE FANTASTICHE AVVENTURE DI UN UOMO INSIGNIFICANTE di JOHN F. GALINDO

di GINO PANARIELLO

CARBONIO

24 STORIE DI GATTI

SIMILITUDINE

di MOSHRU MARINO

ULTIMO PIANO

30

di POESIA COLLETTIVA

LE POESIE DA SVACCO


losvaccodisvacco LE MIGLIORI FRASI DI FACUNDO CABRAL

CRUCISVACCO

L’ORSCOPO A CAZZO ARIETE Sarete audaci, intelligenti, caparbi, impulsivi, ottimisti e anche portati al successo negli affari, perciò non leccate il buco del culo al primo partner che incontrate ed evitate di praticare scat; sono attività antigieniche e lasciano in dotazione un alito che può compromettere gli affari. TORO Sarete forti, calmi, instancabili, vitali, avrete lampi di novità nelle vostre abitudini. Ricordatevi di farvelo mettere nell’ano solo con il preservativo lubrificato ed evitate di fare il 69 con partner che hanno appena bevuto latte freddo.

GEMELLI Sarete pronti, intelligenti, comprensivi, affaristi, le stelle vi invitano a un anno tranquillo e rilassato, con serie tv e lunghe masturbazioni sul divano, compratevi un copridivano lavabile.

Orizzontali

CANCRO Sarete simpatici conversatori, dotati di buona memoria, avrete un anno divertente, in amore tante proposte per orge e pioggia dorata di gruppo, portate sempre con voi gli occhiali da piscina. Lavori favoriti: assistente sociale, commerciante, barista, rappresentante. LEONE Sarete coraggiosi, portati a comandare, generosi, leali ma sarà un anno calmo, con molto tempo a disposizione. Le stelle manderanno proposte sessuali per rapporti bondage, in cui vi legheranno per ore e vi faranno leccare piedi sudati od organi genitali maleodoranti.

Verticali VERGINE Sarete precisi e metodici, avrete un anno pieno di occasioni e novità molto belle. Nuovi partner, anche in due o più alla volta, con penetrazioni in tutti i vostri orifizi. (La soluzione non ve la daremo mai)

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l’editoriale

I N

R E D A Z I O N E

ROBERTO ALBINI VERA BONACCINI SERGIO DI VITANTONIO • ANDREA DORO BARBARA GIULIANI LUCA ISPANI • REGINA RE MA REA • SILVIA DE MIGLIO

(di Andreas Finottis) BILANCIA Sarete armoniosi, avrete un anno con molte novità ma poche occasioni sentimentali, vi masturberete davanti alla tv fino allo sfinimento, spesso usando il dito nell’ano, ma dopo vi arrabbierete con il supermarket dove comprate i popcorn, perché hanno sempre uno strano retrogusto da culo. SCORPIONE Sarete molto carichi anche sessualmente, ci saranno grandi cambiamenti con le stelle favorevoli, ma ne vedrete pochi se vi lascerete sottomettere, perché subirete molti interminabili facesitting da partner sovrappeso e scorreggioni.

SAGITTARIO Sarete ottimisti, avventurosi, temerari, sarà un anno spensierato, in cui frequenterete molti club privé , tornandovene a casa camminando come le anatre e ricoperti di liquidi genitali persino nei capelli; fate rifornimento di shampoo e bagnoschiuma.

CAPRICORNO Sarete tenaci e le stelle vi portano a fare nuove esperienze, che vi piaceranno, anche se a farsi prendere il culo a frustate farà un po’ male poi sedersi. Evitate di masturbarvi durante le riunioni di lavoro.

ACQUARIO Sarà un anno di progresso in cui sarete pieni di energia, decisi, sicuri di voi stessi. Vi troverete molti sindacalisti come schiavi sessuali, che vi aiuteranno nelle mansioni di casa in cambio di qualche sputo in faccia nei giorni feriali e di una pisciata in testa nei festivi. PESCI Sarete sognatori con un anno fortunato, favorevole ai cambiamenti, anche di sesso od orizzonti sessuali. Molti sconosciuti vi strofineranno gli organi genitali sulla nuca, soprattutto sui mezzi pubblici e alle riunioni parrocchiali.

IL CASELLO DI CARISIO di ROBERTO ALBINI

a gente non legge, lo sanno tutti. E fa bene. In giro c’è solo mondezza, persone che arrabbattano quattro stronzate, le stesse che hanno in testa, e iniziano ad autoproclamarsi poeti, o scrittori, solo perché piace tanto a mamma, o magari perché quei quattro sfigati del gruppo Facebook “Noi scrittori tormentati e imbelli”, gli hanno messo un paio di like. La gente non legge, è palese. Non legge ma scrive, che è come dire di voler guidare l’automobile senza aver mai preso una lezione, o di pretendere di essere astronauti solo perché ci piacciono le stelle. La gente, non legge, è chiaro, e da quando non legge la terra è diventata piatta, come la musica contemporanea, come il cinema contemporaneo, come gli uomini contemporanei. La gente non legge, però noi abbiamo fatto una fanzine ugualmente, piena di righe scritte, che si sommano alle migliaia di righe che ingorgano le nostre giornate, nei social, nel telefono, sui cartelloni pubblicitari, tra le quali ci perdiamo come una volta ci si perdeva leggendo un romanzo. Lo abbiamo fatto così, come quando da ragazzino ti dicono che non devi fare una cosa, e tu la fai proprio per quel motivo. Per poter finalmente ridere della scrittura contemporanea, e di noi stessi, e di voi che in questo momento mi state leggendo e sicuramente avete scritto qualcosa, e che quindi siete osservatori e osservati al tempo stesso. La gente non legge, ma scrive male. Un esercito di disagiati che quotidianamente ci informa che la vita è una merda, e che il disagio che provano loro è anche il nostro, anche il mio. Mi parte uno sbadiglio, e allora perdo fiducia nella scrittura, nella potenza della narrazione, penso che non c’è più niente di serio da leggere. Ma la novità è questa: da oggi leggere diventa Svacco, si trasforma in viaggio perchè “io lavoro brutto tutto il giorno, e quando sono al casello di Carisio voglio ridere, ridere”. E allora fatevele due risate.

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vival’itaja RUBRICA DELL’ITALIA DEI LACCHÉ E DE PONARI, DEI DETENTORI DI INGIUSTIZIA E DEI BISOGNI TUTTI UGUALI

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AGENCY STOCCOLMA testo e foto di MA REA - Ma chi me l’ha fatto fare di dire “sì, lo voglio!”. Non ne posso più! Tra le gote arrossate della signora Terry (di nome e di fatto) e la porta del bagno il marito incassava la classica dose di carne giornaliera. Così passavano la giornate i coniugi Arnolfini, un po’ a ricordare il dipinto di Van Eyck… - Hai comprato lo stampino per i biscotti che ti ho segnato sulla lista della spesa!? - N…no. Erano finiti. - Vallo a raccontare a tua nonna che sono finiti! Stasera ci guardiamo la tv. - Ma la nostra cenetta? - La faremo un’altra volta. - Ok… - Ti ho lasciato il quotidiano sul divano cara. Vado a fare un aperitivo nel bar qui giù nel frattempo. - Mmsì, ok. - Vediamo cosa si dice oggi. Vergine… giornata difficile ma con sorpresa finale. Finalmente la vita arriverà ad una svolta… ah ah. La signora Arnolfini continuava a leggere l’oroscopo, fino a quando, dopo alcune pagine incontrò uno strano annuncio proprio mentre stava per chiudere il quotidiano. Titolo “Cane bastonato, chiamami!”. – Ma cos’è sta roba!!?? “Offresi buona presenza tra le mura domestiche per soddisfare tutte le proprie frustrazioni. Passività garantita, possibilità di inveire senza parola ferire. Disponibilità anche per lunghi periodi. Molto meglio di un qualsiasi antistress.” - Certo che ‘sto annuncio è per pervertiti forti. - Adesso li chiamo io e mi faccio sentire. Ma si può scrivere della fatta roba su un giornale!!?? - Pronto!? Parlo con il Cane bastonato? Chi è mai questo pazzo che propone un servizio così!? Ma sei scemo? - Pronto. Salve. Sono io, sì. - Senta, ma le pare di usare un linguaggio così per fare quelle porcherie sessuali che sapete fare solo voialtri!? Su un giornale pubblico, oltretutto? - Senta signora, mi sa che c’è un malinteso. Io non faccio porcherie di quel tipo. Questo è un servizio nuovo e serio che facciamo per la società. Ci mettiamo a disposizione per salvare i matrimoni delle famiglie. Grazie alla nostra presenza si possono scaricare tutte le tensioni su di noi e lasciare le energie positive per il proprio partner. - Eehhh? Ma è uno scherzo? Non capisco… - Se lei ha bisogno di una persona su cui scaricare le sue tensioni, possiamo offrire la presenza più adatta alle sue esigenze. Io sono Cane bastonato perché in-

casso solamente. Però se vuole possiamo offrire persone con cui lei può litigare alla pari, tipo Testa dura. Abbiamo uomini o donne. - Ma cos’è ‘sto delirio? Mi sta dicendo che “noleggiate persone” da trattare male? E poi, voi chi!? Le esigenze? Ma mi sta prendendo in giro? Crede che io sia scema? - Sa signora… mi sa che lei ne avrebbe bisogno. - Ma come si permette!?!? - Facciamo dei buoni prezzi… - Ah sì!? - 15 euro l’ora. 12 vanno all’interessato e 3 euro finiscono all’agenzia. - L’agenzia? - Sì, sa “noi” della Agency Stoccolma. - Stoccolma? Cos’è, siete messi tutti così, lì in Svezia!? - Ma no, sa, la sindrome di Stoccolma. - Se se…non mi interessa ‘sta genesi di servizi innovativi. 15 l’ora ha detto… - Quasi quasi… ma che garanzie ho io?

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- Soddisfatta o rimborsata. Il nostro obiettivo è riuscire a ristabilire un nuovo equilibrio un po’ più sereno con il partner. Unico imprevisto sul quale noi non possiamo rispondere riguarda la possibilità che il cliente si possa innamorare del suo “punch ball”. Sa, quando si stabilisce un rapporto così conflittuale con una persona, alcuni finiscono per trovarsi veramente a loro agio come non mai, e pertanto si possono affezionare. - Beh, sembra comunque un successo, venduta così… o riprendo un rapporto più sano con mio marito oppure mi trovo un altro uomo. E come funziona la cosa? - Lei ci dice quando vorrebbe iniziare e quanto tempo al giorno vorrebbe il suo “punch ball psicologico”, così noi possiamo stipulare il nostro contratto. Lei vuole uno passivo oppure uno con cui litigare e che le tenga testa? Questo è un dettaglio importante. - Un pappamolla lo preferirei… così posso rilassarmi nei miei improperi. E se ho bisogno in casa? Per dei lavori? - La ringrazio, vedo che è già nella parte. E’ tutto compreso nel pacchetto. Scusi, ma se la persona non collabora nella sua quotidianità avrà ben poco da sgridare. Si può sempre inventare, ma così funziona meglio. - Giusto, il discorso non fa una piega. E chi l’avrebbe mai detto che l’oroscopo oggi ci avrebbe imbroccato. Bene, allora vada per Cane bastonato. Viene lei da me o passo a prenderla lì nel canile da voi domani? - Veniamo io e uno dell’agenzia con il contratto domattina alle 9.30. - Ok, aspetto te e lo svedese qui da me, in via dei Soffocamenti, 4.

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- Perfetto, grazie mille della sua scelta. A domani. Drrriiiiinnnn!!!! E la signora Arnolfini prese la via del bagno per lavarsi il volto assonnato e iniziare la sua giornata col suo adorato marito ancora sotto le coperte e russante. Come dire…”i sogni son desideri…”


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UNABOMBER

un genio incompreso? heodore John Kaczynski, Ph.D., noto come Unabomber, è un criminale, matematico, ex docente universitario e terrorista statunitense, condannato per aver inviato pacchi postali esplosivi a numerose persone, durante un periodo di quasi diciotto anni, provocando tre morti e 23 feriti talora irreversibilmente. Kaczynski durante l’arco di tempo in cui ha esercitato la sua azione “rivoluzionaria”, ha intrapreso un lunga corrispondenza epistolare con le forze dell’ordine. Questo che pubblichiamo estratto è quello che passò alla storia come il “Manifesto di Unabomber”, ovvero “La società industriale e il suo futuro”, pubblicato dal The New York Times e dal The Washington Post il 19 settembre 1995.

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1. La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana. Esse hanno incrementato a dismisura l'aspettativa di vita di coloro che vivono in paesi "sviluppati" ma hanno destabilizzato la società, reso la vita insignificante, assoggettato gli esseri umani a trattamenti indegni, diffuso sofferenze psicologiche (nel Terzo mondo anche fisiche), inflitto danni notevoli al mondo naturale. Il continuo sviluppo della tecnologia peggiorerà la situazione. Essa sicuramente sottometterà gli esseri umani a trattamenti sempre più abietti, infliggerà al mondo naturale danni sempre maggiori, porterà probabilmente a una maggiore disgregazione sociale e sofferenza psicologica e a incrementare la sofferenza fisica in paesi "sviluppati". 2. Il sistema tecnologico industriale può sopravvivere o crollare. Se sopravvive, potrebbe, alla fine, raggiungere un basso livello di sofferenze psicologiche e fisiche, ma solo dopo un lungo periodo, molto doloroso, di aggiustamento e solo al costo di ridurre permanentemente gli esseri umani e molti altri organismi viventi a prodotti costruiti, semplici ingranaggi nella macchina sociale. Inoltre, se il sistema sopravviverà, le conseguenze saranno inevitabili: non vi e possibilità di riformare o modificare il sistema così da impedire che esso privi la gente di dignità e autonomia. 7. Ma cos'è la sinistra? Durante la prima meta del XX secolo la sinistra poteva essere identificata effettivamente con il socialismo. Oggi il movimento e frammentato e non e chiaro chi possa essere chiamato

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precisamente una persona di sinistra. Quando parliamo di gente di sinistra noi abbiamo in mente principalmente i socialisti, i collettivisti, i caratteri "politicamente corretti", gli attivisti per i diritti delle femministe, dei gay, dei disabili e degli animali e simili. Ma non tutti quelli che sono associati con uno di questi movimenti sono persone di sinistra. Quello che noi vorremmo discutere non e tanto un movimento o una ideologia, quanto un modello psicologico o piuttosto una collezione di caratteri correlati. Così quello che noi consideriamo sinistra emergerà più chiaramente nel corso della nostra discussione sulla psicologia della sinistra. 14. Le femministe sono disperatamente ansiose di provare che le donne sono forti e capaci quanto gli uomini. Chiaramente esse sono dominate dalla paura che le donne non possono essere forti e capaci come gli uomini. 24. Gli psicologi usano il termine "sovrasocializzazione" per designare il processo con il quale i bambini sono addestrati a pensare e agire come la società richiede. Si dice che una persona sia ben socializzata se crede e obbedisce al codice morale della sua società e se vi si inserisce bene come parte funzionante di essa. Non avrebbe alcun senso dire che molte persone della sinistra sono sovrasocializzazione, visto che l'uomo di sinistra viene concepito come un ribelle. Nondimeno, la posizione può essere difesa. Molte persone di sinistra non sono ribelli come sembrano. 43. E vero che qualche individuo sembra avere poco

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bisogno di autonomia. La sua spinta per il potere e debole o la soddisfa identificandosi con qualche organizzazione potente alla quale appartiene. E quindi vi sono tipi animali non pensanti che sembrano essere soddisfatti da un senso puramente fisico di potere (il bravo soldato combattente il cui senso di potere consiste nello sviluppare abilita di combattimento che sara contento di usare in cieca obbedienza ai suoi superiori). 47. Tra le anomalie presenti nella società industriale moderna vi sono l'eccessiva densità della popolazione, l'isolamento dell'uomo dalla natura, l'eccessiva rapidità dei cambiamenti sociali e il crollo delle comunità naturali di piccole dimensioni, per esempio le famiglie allargate, il villaggio o la tribù. 58. Dovrebbe essere possibile dare altri esempi di società soggette a rapidi cambiamenti e/o prive di stretti legami collettivi senza che per questo si verificassero le imponenti aberrazioni comportamentali che oggi si vedono nella società industriale. Non vogliamo dire che la società moderna sia la sola in cui il processo del potere e stato frantumato. Probabilmente la maggior parte delle società civilizzate, se non tutte, hanno interferito con il processo del potere in una proporzione più o meno grande. Ma nella società industriale moderna il problema e divenuto particolarmente acuto. La sinistra, almeno nella sua recente forma (dalla metà fino alla fine del XX secolo) e in parte un sintomo della privazione del processo del potere. La disgregazione del processo del potere nella società moderna.


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FAI COME CAZZO VUOI di VERA BONACCINI foto di DEBORAH DAL CANTO fai come cazzo vuoi che tanto c'è sempre qualcuno di più cinico a decidere per te spara pure alle nuvole senza paura al peggio verrà la pioggia ad inzupparci destini e scarpe. capirai... sbatti le porte interne e esterne e quelle girevoli prendile ad asciate fai come cazzo vuoi che tanto siam sempre qui a difendere il meglio a gonfiare i silenzi a sforzare i cassetti coi sogni gestiti male fai come cazzo vuoi tanto non cambia l'incertezza instabile che ci naviga intorno e il domani è un alone rosso porpora che a volte arriva, altre si perde il non essere alberi ci aiuta a muoverci più svelti

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FIORI GIALLI ZAFFERANO

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foto e testo di CRISTINA RIZZI GUELFI [Dai 150 ai 360 centimetri è distanza sociale. Dai 50 ai 150 è distanza personale. Convenevoli. La distanza intima arriva sotto i 50 centimetri . Non si sa mai cosa c'è sotto. Perché tutti giudicano da quello che vedono sopra]. E’ rimasta sui sassi. Un uomo porta un solenne mazzo di fiori giallo zafferano. Non si potrà di certo trovare il senso di colpa vicino al sangue unto lasciato come su carta gialla assorbente, proprio di fronte all’inferriata in ferro verde. Un sangue di sugo dolciastro, non più quel vitale sangue di carne gocciolato su un manto innocente di neve. Lo sanno tutti. Anche i maglioni misto lana scoloriti al di là del monitor. In questo paese di tubi catodici non ci sono mai stati assassini. Solo finti indiani mascherati e incastrati in riserve, diventati polpette da servire sugli schermi televisivi. [Se penso al mio sentimento lo vedo come il più innocente e antico. Lo associo alla sconsacrata voglia di

abbracciare una camicetta a fiori qualsiasi, e al suo contenuto nervoso. Può avere un nome qualsiasi. Anna. Ho visto centinaia di Anna. Tutte abbigliate di acrilico. Badanti per mariti. Ragazze da chiesa. Fattucchiere dai lunghi capelli. La mia mente non ha più una descrizione scrupolosa per questa Anna. Per me era solo una lanterna intrappolata in cielo, quasi a impedire alle mie stelle di cascare o di darsi la morte. Una rete da circo, che salva l’artista più in alto. Di quel viola più viola con tagli di arancio avviluppare il retrobottega dell’emporio all’ora di chiusura mentre compro una pomata per le verruche. Una risata sulle scale con un libro di puericultura sotto il braccio sinistro e una calza smagliata. Una rara arrendevolezza di panna montata palpata appena dalla luce. Mi basta questo per vedere questa Anna camminare nel giardino con i suoi formaggini dall'appellativo francese. Anna ti sarebbe bastato poco per scorgere i miei stivali pneumatici e con un poco di attenzione, anche l’effluvio dell’intingolo di buccia di cipolla che uso per fare il colore giallo]. Il più vile degli assassini è quello che ha dei rimorsi diceva Jean-Paul.

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IL BAGNO DEGLI ALTRI

di ROBERTO ALBINI i ha fatto sempre sorridere questa usanza che hanno gli ospiti di mostrarti casa la prima volta che ti invitano. Nella maggior parte dei casi abitano in appartamenti ridicoli con due stanzette, dove a malapena si respira, che loro ti indicano con l’orgoglio patetico che hanno tutti i poveri quando esibiscono le loro pochezze. Si sbracciano nell’indicarti i mobili fatti di cartone pressato, disegnati per arredare la cameretta di un bambino, passano fintamente distratti davanti a suppellettili ridicoli per attirare su di loro l’attenzione e descriverli nei loro minimi particolari, dando per scontato il tuo interesse. Alla fine del giretto delle quattro pareti, si giocano il piatto forte, quello che li convinse a firmare per il mutuo trentennale a tasso fisso e vita variabile. Di solito è un balcone, con le immancabili piantine di basilico, o peperoncino, confinanti con uno stendino mezzo arrugginito che occupa la metà dello spazio. La vista consiste in una fila di palazzi davanti a una tangenziale che si contende il panorama con la nebbia. L’uomo si spenderà in mille congetture per farti capire in che modo i suoi interventi sulle maioliche della cucina abbiano migliorato la vivibilità nella casa; la donna ti tirerà un braccio per portarti vicino alle tende

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che ha scelto in un negozio artigianale di un paesino di provincia toscano. Le tende, non si sa perché, sono sempre viola. Fingo smisurato interesse, e mi dilungo a ribadire quanto bene abbiano fatto a comprare la casa, in questa zona, che secondo me è stato un affare, faccio loro i complimenti, mai esagerati. Basta ripetere quello che hanno detto loro, ma con più enfasi. Siccome sono anni che recito la parte, sono diventato molto bravo, e tutti rimangono molto soddisfatti nel constatare che io sembro più convinto di loro. Lo faccio per dare spazio al mio lato “umano”; gli faccio fare un giretto, come quando si portano i cani a pisciare. Una volta che l’ego degli ospiti smette di sentirsi in pericolo, allora tutti si rilassano. La prova è superata, si può passare ad altro, di solito a qualcosa che ha a che fare col cibo o col bere. Quello è il momento in cui chiedo se posso andare in bagno. Anzi in verità non chiedo nulla, semplicemente dichiaro che vorrei lavarmi le mani, fingendo sintomatico dubbio nello scegliere una delle uniche tre porte presenti in casa. È la donna, sempre lei, a indicarmi la rotta, quando si tratta di bagni. Sono sicuro che la maggior parte di loro pensano: “Speriamo che non mi pisci di fuori”. Ma io non lo farò, semplicemente perché non cerco il bagno per usarlo.


Adoro i bagni degli altri perché più di tutto li rappresenta, e puoi conoscere cose incredibili sull’umanità quando li ispezioni. Iniziai da giovane, una volta che a casa di un compagno di scuola trovai dei vasi di fiori nel bidet. Fu come un’illuminazione. Sembrava una famiglia così normale, così comune, ed è meraviglioso scoprire la banalità della follia. Da allora ogni volta controllo il bagno degli altri. La prima cosa che faccio è lavarmi le mani. Mentre lo faccio cerco le macchie di calcare sul rubinetto, conto il numero e classifico l’origine dei peli appiccicati alle pareti del lavandino, a volte nascosti a volte non troppo. Che molte persone pisciano nel lavandino, è una di quelle realtà che la società si nasconde, come il fatto che le coppie di lunga data non scopano più. Poi passo ad esaminare gli spazzolini, la loro pulizia e grado di consumazione. Apro il cestino dei rifiuti, dove c’è, e ne verifico il contenuto. Spesso ci trovo delle cose interessanti, tra le quali scatole di creme per le emorroidi, di lubrificanti vaginali, bustine di preservativi aperti, campioncini di prodotti per la ricrescita dei capelli. Mi asciugo le mani con la prima cosa che trovo, di solito un accappatoio, non so per quale motivo ma li preferisco. Vado a controllare gli angoli nascosti: sotto gli armadi, sopra le mensole, tra i barattoli di sapone, e ne verifico la quantità di polvere depositata, la consistenza di quel guano chimico che formano dopo un po’ i fluidi fuoriusciti dai flaconi. Mi affascina conoscere quali zone del bagno i padroni di casa considerino inutili, perché mi fa immaginare quali siano le loro normali abitudini quando entrano in questa stanza. La doccia me la lascio per ultima perché è la parte migliore, quella che di solito mi dà più soddisfazioni. Adoro le docce malandate, con le macchie di umidità intorno ai telefoni, osservare gli strati di calcare che ne otturano i forellini d’uscita, accarezzare le spugne logore e macchiate. In basso c’è sempre un tappetino di plastica, alcuni hanno forme di animali, e quasi tutti sono stampati con motivi orribili che ricordano l’Italia del dopoguerra. Intorno li incornicia una macchia nera di sporco non identificato, sedimentatosi negli anni come fossili modellati dalle ere. Il tempo a mia disposizione a quel punto finisce. Farò altre visite durante la serata, ma solo per fissarmi bene in mente i particolari. Quando esco gli ospiti mi sorridono. Mi invitano a sedermi a tavola, che è pronto, e io mi dimostro entusiasta dei piatti, domando a proposito degli ingredienti, faccio i complimenti e prometto assunzioni di cuochi personali. Poi inizio ad ispezionare le posate.

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CARBONIO di SERGIO DI VITANTONIO ominciò per caso con una mosca all’età di nove anni. Era rimasta intrappolata tra la tenda e il vetro della finestra senza la possibilità di uscire. Si trovava lì vicino a studiare matematica e colse subito l’occasione; in fondo non era particolarmente interessato a quegli esercizi sulla conversione delle unità di misura. Il ronzio della mosca lo infastidiva e aveva voglia di alzarsi dalla sedia, colpirla e mandare il problema a quel paese per tornare poi al suo dovere di studente di quarta elementare. In realtà tutto questo zelo nasceva solo dalla prospettiva di potersi liberare dai compiti il prima possibile per avere dalla madre il

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permesso di uscire fuori a giocare con quei pochi amici che aveva. Fece proprio questo: di scatto abbandonò il suo posto e raggiunse la finestra ma, invece di colpire la mosca, la prese in mano e cominciò a guardarla mentre la teneva stretta tra le dita, senza stringerla troppo. Quell’insetto idiota muoveva la testa da una parte all’altra e con le zampe cercava pateticamente di svincolarsi dalla presa. Sorrise dal pulpito della sua posizione di dominanza. All’improvviso si era deciso: non l’avrebbe uccisa con facilità ma l’avrebbe fatta soffrire. Lui aveva il Potere. Un’idea malsana mai provata prima gli attraversò le sinapsi cerebrali nella sua deviata rapidità. Uno spillo per il cucito. Lo infilò nella parte terminale dell’addome dell’animale e lo fece fuoriuscire dal torace. La mosca non morì e, anzi, liberata dalla presa dei polpastrelli, iniziò a muovere le ali in maniera frenetica ma fissata com’era non poteva logicamente andare da nessuna parte. Andò in cucina e si avvicinò ai fornelli del gas. Ne accese uno e subito partì quell’artificiale fiamma bluastra che aveva già visto mille volte. Non ci mise molto: avvicinò lentamente la mosca e subito l’insetto, avvertendo il cambiamento nella temperatura dell’aria circostante, cominciò a battere le ali ancora più velocemente e a muovere le zampe nel vuoto cercando di sfuggire. Non poté nulla. Il Potere non era suo. Il


carnefice volle prolungare il tormento e spense il fornello ponendo la mosca proprio sul piano di cottura. La lasciò lì ancora infilzata sullo spillo. Accese di nuovo. La vampata attraversò l’insetto con rapidità e lo uccise nel giro di un paio di secondi. Rimase estasiato a guardare le zampe, il tronco, le ali e il resto del corpo che, inesorabilmente, si annerivano come minuscoli rami che si rinsecchivano a vista d’occhio perdendo il loro volume e la loro consistenza. Alla fine, della sua prima vittima, non rimase altro che un grumo nerastro di carbonio condensato sul metallo dello spillo. A undici anni toccò ad un passero. Stava tornando a casa da scuola e attraversava a piedi un viale alberato immerso nei suoi innocenti pensieri, quando ad un tratto si imbatté in quel piccolo volatile caduto dal nido. Erano anni che non aveva più praticato quell’arte che lo soddisfaceva così tanto. Aveva scoperto la masturbazione nel frattempo, e quella gli rendeva il piacere più immediato, ma la passione è passione e non poteva tirarsi indietro! Raccolse l’uccellino e lo mise in tasca portandoselo a casa. Suo padre aveva la passione per gli animali, i volatili in generale. A lui la cosa interessava in maniera marginale, ma non disdegnava comunque la lettura dei libri di ornitologia che aveva in casa. Volle informarsi prima di procedere. Aveva raccolto un Passer italiae, un uccello piuttosto comune che il testo descriveva come: "Molto socievole, intelligente, dalla forma tozza e dal becco conico e appuntito, provvisto di coda tronca e zampine gracili adatte più al saltello che alla camminata"... Quanto si sarebbe divertito... Per l’esecuzione scelse il giardino. Si procurò un rotolo di spago, un accendino e una bottiglia di plastica piena di alcol etilico che era riuscito a trafugare dal bagno nella più assoluta tranquillità essendo entrambi i suoi genitori fuori per lavoro. Legò un pezzo di corda attorno a quelle piccole zampette per impedire all’animaletto di svignarsela quando poi sarebbe stato in preda alle fiamme. Si rimproverava di non avere ancora uno di quei cellulari con la videocamera altrimenti avrebbe potuto riprendere il tutto e custodire non soltanto un ricordo ma anche delle immagini nitide e cariche di deliziosa crudeltà. Non era poi un problema però: si ricordò che di passeri come quello il mondo era pieno e che una vita probabilmente non gli sarebbe bastata ad incendiarli tutti. Pazienza. C’è Potere e Potere. Altre occasioni si sarebbero ripresentate. Lo cosparse di alcol inzuppandolo per bene. L’uccellino si gonfiò tutto e parve non gradire affatto il trattamento. Sorrise e tracciò una scia che partiva dal volatile arrestandosi ai suoi piedi... proprio da qui avrebbe innescato l’infernale disegno di morte. Si chinò e fece scattare la scintilla. Subito il fuoco divampò raggiungendo il suo bersaglio di carne e di piume. Il cinguettare si fece agonizzante e lo infastidì. Gli versò addosso ancora più alcol per farlo bruciare prima. Per concludere, quando ormai lo spettacolo era finito, usò il Potere delle sue scarpe da tennis per fare scempio della carcassa. La

volle bruciare ancora di più e usò tutto l’alcol che gli era rimasto: giustificare a sua madre una simile scomparsa diventò un dettaglio secondario. Bisognava carbonizzare tutto. Il gatto della nonna fu sacrificato nella sua estate da quattordicenne. Quella del suo primo amore; ma gli scampoli di sentimentalismo non ci servono perché non sono necessari nell’ecologia della delittuosità di questo protagonista. Diciamo solo che durò quattro mesi e che fu lei a lasciarlo ai primi di ottobre. Fine. Il gatto era invece un giovane meticcio di debole costituzione che la sua parente aveva raccolto dalla strada salvandolo dal randagismo o da futuri peggiori. Beata ignoranza delle nonne. Ridicoli i giochi degli artefici del destino. Questa volta la procedura fu molto più semplice. Boia minorenne. Latta di benzina dal garage, pellicola trasparente e corda: ecco qua il materiale scenografico. Tramortì l’animale colpendolo più volte alla testa con un mattone ma senza ferirlo seriamente. Lo legò una prima volta e poi lo avvolse con la pellicola come se fosse in procinto di imballarlo, quindi, lo legò una seconda volta dall’esterno. Fece tutto questo perché voleva vedere come la plastica si sarebbe sciolta sulla carne ustionata in fase crescente. Insolite sinergie. Più della metà della benzina fu versata addosso al felino che si limitava a miagolare a causa del pessimo stato in cui si trovava. Si chiese se il trattamento che gli aveva riservato non fosse stato troppo pesante da pregiudicare anticipatamente l’esito dell’operazione. Un dubbio che gli fece mordere il labbro, ma subito ostracizzato quando si accorse di avere già in mano l’accendino. Tutto si sciolse come se fosse un amante dal cuore in affitto. La pietra filosofale del desiderio era alla sua portata e bisognava soltanto sfregare quella sempre-sialodata ruota zigrinata sulla pietra focaia nel cilindretto e la luminosa magia si sarebbe compiuta. La fiamma invase nel suo efficace totalitarismo quel minuscolo mammifero. Non aveva mai sentito prima di quel momento le strazianti grida di dolore di un gatto che veniva bruciato vivo, ma era maggiormente concentrato nella contemplazione della sua anatomia che mutava di colore e scoppiettava. L’esecuzione si concluse con il suono gorgogliante che risaliva dalla gola dell’animale come se le sue fauci fossero state invase da acqua bollente. Un filamento di intestino schizzò via sfrigolando con dannata allegria. Era soddisfatto. Dannatamente soddisfatto. Così soddisfatto che inconsciamente si era portato la mano sulla patta dei pantaloni massaggiandosi la sua prima erezione da criminale. Quando andò poi in bagno per i motivi che ben possiamo comprendere, rimase a contemplarla a lungo. Aveva perso una verginità quel giorno. Aveva ormai diciannove anni e la patente. Adulto e vaccinato si suol dire. Era diventato uno studente universitario, era stato in vacanza in Irlanda, si era fidanzato con una sua compagna di corso, frequentava costantemente la palestra per distribuire meglio quel grasso che gli si accumulava sui fianchi. Non dimentichiamo poi il dettaglio più importante: aveva voglia. Voleva fare le cose in grande. A ‘fanculo le conseguenze!

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Vanessa era una bella ragazza. Con gli occhiali aveva uno sguardo un po’ buffo ma erano in molti a notarla mentre mangiava in mensa o quando si trovava in aula sempre seduta in quella seconda fila. Capelli bruni su di un viso armonico, sorriso tenero sovrastato da due occhi docilmente azzurri. Era stata lei a volerlo conoscere dopo averlo più volte sentito parlare quando prendeva la parola durante la lezione. Sembrava brillante. Lei cercava qualcuno che potesse illuminarla con quella luce di intelletto. Potremmo dire che, in un’ironica teoria, le cose andarono più o meno in quella direzione. All’inizio fu tutto molto romantico. Il cinema, i baci, le cene, il sesso. Il desiderio non mancava, ma lui doveva fare i conti con quel maledetto prurito che cresceva a dismisura. Sapeva che il momento di pagare il tributo era arrivato. Ci sarebbe stato clamore, giudizio degli uomini, giudizio della propria coscienza e un personalissimo nodo al cuore. Ma su tutto continuava a dominare il desiderio. Decine di volte aveva fantasticato sulle modalità mentre accarezzava la schiena della sua Vanessa che gli dormiva al fianco. Proprio le notti erano i momenti peggiori: maggiormente desiderava quel bagliore distruttivo per rischiarare se stesso e la sua camera. Si decise. Non voleva farla soffrire e per questo si procurò del sonnifero con la complicità di un amico infermiere convincendolo che servisse per una particolare fantasia erotica di coppia. Il ragazzo sbavò non poco quella sera pensando a Vanessa mentre veniva penetrata nel sonno dal suo amante. Inezie. Invece lui si procurò ben tre latte di benzina da venticinque litri ciascuna ed ebbe il suo bel da fare per nasconderle alla sua donna quando le portò dentro l’appartamento.

Quella sera cenarono in casa e Vanessa non poté non notare una linea d’ombra sul viso del ragazzo che divideva con lei il tetto. Non gli chiese nulla e quando tornò a tavola dopo aver risposto alla solita telefonata dei suoi genitori, aveva già dimenticato quella strana impressione. Dopo aver mangiato lui si offrì di preparare il caffè con l’evidente obiettivo di drogarla. Non ne sapeva nulla di dosi, pertanto preferì abbondare affogando in quel liquido nero non soltanto un paio di pillole ma anche i suoi timori. Si sentì tremendamente deciso quando le porse la tazzina. Dopo dieci minuti dormiva sul divano, completamente narcotizzata. Decise obiettivamente di prendersi tutto il tempo di cui aveva bisogno per organizzare alla perfezione ogni dettaglio. La guardò a lungo prima di decidersi di portarla a letto e lo fece con la venerazione e la grazia di uno sposo alla sua prima notte di nozze. La spogliò e la sistemò come se fosse già morta: le braccia incrociate sul petto, i capelli sciolti e sparsi ordinatamente sul cuscino. Omaggiò Vanessa di un ultimo bacio. Subentrò poi la solita prassi. Utilizzò due delle tre taniche e prese i fiammiferi. Sospirò mantenendo gli occhi fissi su di lei. La amava. Anche lei lo amava. Le diede fuoco così, senza pensarci ancora. Neanche in un’antica cerimonia pagana si sarebbe trovata una simile devozione. Pianse con una duplice motivazione mentre il corpo di lei cominciava ad essere percorso da spasmi. Le fiamme l’avevano ormai avvolta e il cambiamento morfologico si manifestava ai suoi occhi in tutti i suoi stadi: all’eritema erano violentemente subentrate le bolle e quando ormai buona parte dei suoi tessuti si era necrotizzata lasciando spazio alla carbonizzazione vera e propria, smise di contrarsi. Da questo capì che doveva essere morta. I vicini non poterono fare a meno di notare tutto quel fumo che usciva dall’appartamento poiché non solo il letto ma l’intera camera stava ormai bruciando. Chiamarono i soccorsi e cercarono di entrare o quantomeno di richiamare l’attenzione dei presenti perché sapevano che quei due ragazzi erano in casa. Quanto al nostro protagonista, questi aveva lasciato la stanza da letto non appena il fumo aveva reso insopportabile qualsiasi presenza umana. Tra i suoi bagliori di composta follia, realizzò che la prossima volta avrebbe fatto tutto all’aperto per impedire il rischio di perdersi il compimento della sua passione. I vigili del fuoco erano entrati perché aveva sentito la porta dell’appartamento che veniva sfondata. Lo avrebbero trovato lì in cucina ma sicuramente si sarebbero imbattuti per primi nei resti di Vanessa. Resti umani con poco senso ormai. "E adesso?" furono le sue parole. Sommesse e quasi sacre. Si versò addosso l’ultima latta. Il liquido scivolò sul suo corpo, sulle sue preoccupazioni, sulla domanda che si era posto poco prima e sulla parte lucida del suo cuore. Non ci mise molto a strofinare sul muro il fiammifero. La bacchetta magica al fosforo rosso si animò tra le sue dita inumidite. Incendiario, sì, questo era lui. Incendiario fino al momento supremo.


SIMILITUDINI di GINO PANARIELLO Facebook è un social fondato sul parlar male, da parte di chi si fa i selfie, di quelli che si fanno i selfie. Un po' lo stesso meccanismo di quando andavo al SERT e ci si divideva in gruppetti, dove si stilava la classifica di quelli messi peggio. " Eh, ma l'hai visto Sergio? Quello sta proprio inguaiato, ha collassato nel cesso di casa mentre era ai domiciliari e forse mo' glieli revocano. Intanto viene qui e si beve 80 cc come fossero acqua fresca!" " Eh, parli proprio tu che tutta la settimana scorsa te la sei passata alle Vele a scassarti di brown e adesso vieni qui perché hai finito i soldi?" " Meglio la brown delle vele che la merda di kobret che prendi tu a Castelvolturno" " Io? Ma se è una vita che non mi faccio,la mattina sto sempre qua!" " Eh, a berti 60 cc, poi vai al bar e ti scassi di birra e roipnol" " IO SONO PULITO! HAI CAPITO? PRENDO SOLO il metadone qui " " Peccato, perché ho la ricetta per i roipnol e volevo

scambiarla per un passaggio a Castelvolturno oggi pomeriggio" " Davvero? Fa' vedere" " Ecco". " DÀI, t' accompagno io oggi, però devi mettere tu la benzina" " Seh. Coi soldi per la benzina avrei chiesto a te? Ma famm o piacer" " Evvabbuo'. La benzina ce la metto io, però mi offri uno schizzo" " MA non ti faceva schifo il kobret ? Vabbè, te lo offro 'no schizzo, però allora coi roipnol facciamo a metà" " Vabbuò, va'. " * Allontanandosi ( scena in dissolvenza) " Ma hai sentito che ha combinato Andrea? Ha rubato la macchina del cognato e se l'è sparata tutta in vena. Mo il cognato lo cerca che se lo trova lo abbuffa di mazzate" . " Eh, è scimmiato. Si è inguaiato con quella cazzo di roba . Ma compa', perché non andiamo al parco verde a Caivano invece di Castelvolturno?" TITOLI DI CODA.

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STORIE DI GATTI di SILVIA DE MIGLIO

l gatto della finestra di fronte al mio ufficio stamattina non ha l'aria quieta. E' sempre in bilico sul suo balcone, ma agita la coda. La coda si agita nel niente sopra una ciotola vuota di alluminio che dorme, buttata per caso accanto alla finestra. Per caso credo che qualcuno si sia scordato di fargli fare colazione stamattina. Le finestre della camera da letto accanto al balcone sono chiuse. Nella ciotola vuota si riflette il gatto, si riflette la coda, si riflettono le finestre chiuse e io rifletto in quella ciotola una storia. Che le ciotole in alluminio hanno tante cose da riflettere e una più una meno non le riempiranno tutte. La storia che metto nella ciotola brilla nel 1948. ma potrebbe essere il 1947 o il 1949 : i riflessi raccontati non hanno mai i contorni precisi. Come quando li trovi in un articolo di giornale abbandonato in un treno. Scendi dal treno e della storia che hai letto ti rimane solo la morale che non è mai la stessa, ma cambia a seconda della ciotola da cui la riguardi.

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In questa ciotola, lui si chiama Charles e lei si chiama Rose. Doretzycurez di cognome, come una specie di soprannome che però a me piace chiamare cognome. Charles e Rose facciamo finta che abitano nel 1949 in via Santa Rita, a Bologna, dove abita il gatto, al piano di sotto. Abitano lì con una figlia di 8 anni che l'altra si è sposata giovane con un soldato che parlava inglese ed è partita per l'Africa con lui. La casa del secondo piano sta in poco posto, in poco posto ci stanno giusto Charles, Rose e la bambina, tre letti, una stufa, un tavolo, tre sedie, la macchina da cucire, qualche quadro e un ripostiglio che chiameremo armadio. Stasera leggono una lettera. Arriva dall’Africa. Rose non ha voglia di ascoltare. Lei è e sta bene nel suo poco posto e sa che la lettera è di quella figlia grande, ma tutta quella guerra, quel rumore, quello sfollare di qua e di là, insomma, ha poca voglia di ascoltare le lettere e le foto infilate dentro a una busta. Eppure Charles guarda una foto di questo posto grande, vuoto e pieno di cose da metterci e le dice “partiamo, andiamo là”. Rose non ha voglia di ascoltare, dunque dice “va bene, tanto le valigie ci metto poco a farle”, si alza, allunga una mano e tira fuori le valigie da sotto il letto. Dal


secondo letto, quello della bambina che manco si sveglia. “Però” dice Rose e qui il gatto ferma la coda e muove le orecchie, “però Charles, mi devi promettere che io e la bambina avremo una colazione pronta sul tavolo ogni mattina-. E bada, ogni Mattina, non ogni pomeriggio, non solo d’estate, non un giorno sì e l’altro no, la voglio tutte le mattine che Dio manda sulla Terra”. Charles pensa a tutte le mattine che Dio gli ha mandato sulla terra dal 1901 e non si ricorda di aver mai preparato una colazione, che lui mangia quello che trova sul tavolo e poi va a lavorare, ma pensa anche che tutto sommato possa essere un buon compromesso da dimenticare e le dice “va bene, avrai la colazione tutte le mattine”. Per un attimo pensa che Rose sia ridicola, che in fondo una richiesta così sciocca non gliel’ha mai fatta manco la guerra e fanno le valigie, chiudono la porta, prendono un treno, prendono una nave, attraccano in Africa, prendono un treno, poi un altro treno, poi una macchina che li carica e li appoggia tutti e tre in una fattoria in mezzo a quel niente da riempire di tutto che chiamano Africa. Poi dormono, poi Charles si sveglia, esce da questa casa e si gode il torrido. Mangia un pezzo di pane e guarda la finestra della casa di fronte dove un gatto sta in bilico sul niente e fa cerchi di polvere con la coda. E poi esce Rose ed esce la bambina. Rose annusa il caldo, torna in casa, esce di casa con la valigia nella quale ha infilato pure la bambina e dice a Charles che lei va a fare colazione nel poco posto da cui erano partiti. Charles la guarda e pensa che sia diventata matta e lo dice picchiandosi l’indice sulla testa alla volta del gatto. Rose paga una macchina che la riporti al treno e Charles paga un’altra macchina che lo porti al treno che Rose si è convinta di aspettare. E in mezzo a tutte queste macchine, treni che stanno arrivando, valigie con una bambina dentro, Charles che pensa che Rose è appassita. Rose gli dice solo” la mia colazione”. Charles ripensa quattro volte che Rose è appassita e che in tutto quel niente da riempire di tutto, da riempire di cose, pensieri, parole, opere e omissioni, infilare i pensieri in una cosa stupida come una micragnosa colazione sia proprio uno spreco. Allora prende un fazzoletto brutto dalla tasca, lo stende sulla panca della stazione di fianco a Rose e alla valigia con la bambina e prende da un ragazzino di colore per un Rand una Papaia, la spappola in tre e la appoggia sul fazzoletto. “Ho sete” dice Rose “nella colazione è ricompresa anche qualcosa da bere”. Allora Charles raccoglie quelle due gambe che gli sono rimaste, compra per due Rand una ciotola d’alluminio, uguale a quella da cui racconto la storia, e la riempie d’acqua pompandola dalla fontana. E credo abbia anche bestemmiato, ma nella storia che ho letto questo non si dice. Tra il dire e il fare Charles appoggia la ciotola piena sul fazzoletto brutto a destra dei tre pezzi di papaia spappolata. “Due ciotole” dice Rose e spiega “c’è anche la bambina nella valigia” e Charles ripete tutto da capo e appoggia due ciotole di alluminio piene d’acqua sul fazzoletto brutto, ma una a destra e una a sinistra dei tre pezzi di papaia spappolata. Rose, la bambina e la valigia fanno colazione, poi i tre riprendono la

macchina e riportano Charles nella casa in mezzo al niente da riempire di tutto e Charles sospira al gatto della casa di fronte che continua a fare cerchi di polvere con la coda. E cerchio dopo cerchio passano Vent’ anni e passano 7384 colazioni mentre riempiono il niente di tutto. Tutte le mattine fino a quando non ritornano in via Santa Rita e ancora passano altre 5634 colazioni preparate da Charles tutte le mattine. Come un Longines lui si alza e procura la colazione e quando è troppo vecchio per uscire a prendere il latte, il lattaio si mette d’accordo con il panettiere che si mette d’accordo con la vicina per portargliele a casa. Tutti qui sanno che Charles ha fatto una sciocchezza quel giorno a promettere una cosa così stupida, ma tutti sanno che Rose poi alla fine è una Strana, che come ha fatto a fare tante cose una Stanca Strana come lei, bho. Ma lei lo spiega dicendo “che lei ha avuto 13.018 stupide colazioni da Charles e fin che una persona non fa una stupidaggine per te, stai certa che tutto è fuor che amore e…di grazia… lei di stupidaggini ne aveva avute ben 13.018!”. Che io penso che Rose poteva chiedere cose anche meno stupide, ma più di sostanza, ma adesso bevo il mio caffè e mi son scordata cosa è zucchero e cosa è amaro. E pure il gatto irrequieto e la sua coda si son placati. Volevo finire la storia, ma qualcuno ha riempito la ciotola nel balcone di fronte al mio ufficio e adesso lì dentro non trovo più il finale, ho perso la morale e ho pure smarrito una sciocchezza tra tutti quei croccantini e le orecchie del gatto.

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LE FANTASTICHE AVVENTURE DI UN UOMO INSIGNIFICANTE di JOHN F. GALINDO Una mosca si posa nel mio caffè. Do una manata, mi cade la tazza, mi scotto la mano, chiedo un altro caffè. Si posa una mosca nel mio caffè. La mia vita. C’è qualcosa dentro di me che insiste nell’essere felice. Si lava i denti, ama una ragazza, va al mercato, si siede di fronte al televisore. C’è anche qualcosa dentro di me che dice che non l’ascolto. Senza le voci nella mia testa diventerei pazzo. Mi spaventa la gente che non muore mai dentro. Uno di questi giorni voglio smettere di fumare, anche se tutto quello di cui mi importa l’ho imparato fumando. C’è qualcosa dentro di me che va a male ma non è tanto grave. Vado a male sorridendo. Tutto prima o poi si putrefà. E’ come svenire in un museo, nessuno ti aiuta perché potresti essere un’installazione. Una ragazza con il basco applaude in fondo. Muori. L’unica cosa che posso fare è evitare l’insensatezza dell’amore, ripetermi come un mantra: devo stare lontano dalla gente che mi ordina di vivere al massimo. Mi piace prendere le cose con calma. Il mondo è triste per un attentato dall’altra parte del mondo, non me importa un cazzo. Mi ha chiamato piangendo mia madre e dice che non mi riconosce e che lei non ha figli. Metto su un po’ di musica e ballo. Martedì 13. E’ un giorno diverso. La città risplende in un altro modo. La gente risplende tantissimo, come se alla fine tutti i suoi sogni si fossero realizzati. Voler essere qualcosa nella vita ha distrutto più persone della cocaina. La mia colazione sono quattro mandarini e paracetamolo. Mi interessa tutto quello che non serve a niente, mi piacciono le persone che non mi ricordano nulla, mi piacciono i posti dove nessuno è mai passato. Non ho un lavoro, né amore, né soldi, né salute. Ma ho caparbietà nel non voler essere niente in questa vita. La stessa superiorità morale che si ha nel mangiarsi una mela in pubblico o di non conoscere la strada per ritornare. Da qualche giorno non so niente del mondo. Come se il presente contasse qualcosa. Se potessi vedere il futuro guarderei da un’altra parte. Mi piace pensare al passato. Tutti dovremmo poter invertire la direzione del

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tempo almeno 457737 volte nel corso della vita. Strano come vedere vibrare le palpebre dei bambini. Al mondo manca poesia. Ho un’idea: un autobus turistico pieno di gente che ti odia. Si fermano in posti dove sono accaduti incidenti terribili e si fanno foto prendendoti in giro. Mi hanno appena detto che eludo le mie responsabilità, come se sapessi quali sono. Fallirò, ma perlomeno non ci avrò nemmeno provato. Magari tutto fosse facile come andare a male. E adesso non ditemi che non è un giorno meraviglioso. Bogotà è uno specchio appannato dall’acqua bollente del bagno. Sono uscito dalla mia tana per sentire la dolce adrenalina di non sentire niente. Arriva sempre il giorno in cui, per un capriccio del destino, cambi il tragitto che hai percorso per anni, e tutto continua uguale. Lo sbadiglio che cambia il tuo modo di vedere la vita. Quelli che stanno dietro per salire nel bus e lo fanno prima di me, mi fanno recuperare la fede nell’intelligenza. L’azienda del trasporto pubblico dovrebbe avere un bus riservato a quelli che sono morti dentro. Da quando è tutta una merda il mondo sembra un posto un poco più giusto. Non ho niente da perdere. Niente uccide meglio le aspettative di sapere che non ti conviene. Una signora mi guarda sorridendomi. Un sorriso è sempre un cattivo presagio. Mormora qualcosa a proposito di un regno di bellezza. Bisogna superare la barriera di volere sembrare belli. Magari, essere Miss Universo per sfilare in costume da bagno e scaldare i freddi inguini di moltitudini di tipi col berretto con l’elica. I regni della bellezza sono uno sbaglio. Tutto il resto pure. La signora nel bus andava in Jamaica. Mi piace la Jamaica anche se non ci sono mai stato. Credo di non essere mai stato in nessun posto. E’ un giorno soleggiato, anche se uscire per un motivo che non sia cercare Atlantide, comprare sigarette o trovare droga è una perdita di tempo. Un bambino piange in lontananza. Oggi è uno di quei giorni che avere una vita da adulto mi riesce malissimo. Ci sono giorni che penso che morirò di overdose di cose che non mi importano. Vado a un colloquio di lavoro. Il trucco è sapere che non sei niente. Nel prossimo episodio parlerò di come non farsi male.


Anche tutto quello che non mi è successo conta come felicità. Arrivo al colloquio e non entro. A volte scrivi per cancellare. Una ragazza con gli occhi grandi mi osserva dalla finestra. L’amore è sempre una cosa da grassi. Torno indietro. Tutti i miei piani vitali sono falliti. E’ già ora di tornare ad arrendersi, fare un passo avanti e incolpare qualsiasi cosa di tutto quello che succede. Il mondo non ha più bisogno di monarchie. Il mondo ha bisogno di più film con Morgan Freeman che recita Dio. Dio è l’autobus vuoto che ti riporta a casa.

E’ passata una settimana dalla mia nuova vita. L’idea di buttarmi nella tromba dell’ascensore prende più forza quando mi viene in mente che domani devo lavorare. Possiedo un talento innato per la pigrizia. Ieri ho conosciuto una per strada. Conoscere gente nuova è divertente perché così ho gente nuova dalla quale fuggire. Volevo dirle un sacco di cose ma non l’ho fatto. Tutto il

mondo sta lì ad ammonirti di quanto sia pericoloso fumare ma nessuno che parla di come fanno male le parole non dette. Ho appena battuto il mio record personale nei 100 metri sbadigliando. Cerando la felicità mi sono reso conto che quando serro il pugno metto sempre sempre il pollice dentro. Questi giorni il mondo non mi dispiace. Harakiri. Bambini pettinati bene. Cocaina colorata. La solitudine delle giraffe. L’emoticon della bambina che balla la polka. Gli specchi. La scena del velociraptor nella cucina di “Jurassic Park”. Ci sono cose che non dovrebbero sparire in futuro. Ho sognato che stavo segando un albero circondato da lupi mentre un’anziana mi puntava un fucile a canne mozze e dopo mi baciava. Era un bel sogno. L’amore è uno yo-yo. L’amore non corrisposto un’emorragia. La ragazza che ho conosciuto per strada vive vicino a casa mia. Sperò di rivederla. Non piove. Il cielo sembra un mare al contrario. Il giorno sta tramando qualcosa. Dovrò stare allerta.

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SALA D’ATTESA testo di MOSHRU MARINO illustrazioni di RED TWENY

ra da veramente tanto tempo che non facevo questo viaggio in treno, ormai prendo solo aerei. I voli low cost hanno fatto precipitare i prezzi anche per le grandi compagnie. Ogni volta che parto da Milano per tornare in Sicilia dai miei, trovo sempre un volo andata e ritorno a buon prezzo. Di solito so in anticipo quando scenderò ma stavolta no. L’altro giorno ha chiamato mamma: “Papà sta male, sai? Vorrebbe vederti, ha paura di non farcela ma non te lo direbbe mai e quindi lo faccio io” Un iceberg mi si è conficcato nello stomaco e l’ho interrotta: “Aspetta non capisco, ma di cosa stai parlando?” Un balbettio soffocato dal pianto trattenuto a stento: “Papà ha il tumore ai polmoni, è in metastasi, i dottori dicono che non c’è nulla da fare, per favore vieni al più presto.” Le sue lacrime, pesanti come piombo, hanno conficcato

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quel iceberg fino al cuore ma dovevo essere forte: “Vedrai che ci sorprenderà come sempre, sai com’è fatto”, ero turbato, angosciato, addolorato, non so più cos’altro in quel momento ho provato: “Prendo il primo volo. Ti chiamo per dirti a che ora arriverò.” Ho cercato dei voli che partissero il giorno stesso o quello dopo, ma niente. L’unica alternativa era il treno e sono partito dalla “Centrale” proprio ieri sera. Avevo dimenticato quanto fossero lunghi e ferruginosi i viaggi in treno eppure da bambino adoravo quello dal Veneto alla Sicilia. Io ero così piccolo e papà era così grande, forte e sapeva ogni cosa. Aveva la risposta a ogni mio perché, per ogni mio cos’è e a tutto ciò che sarebbe arrivato e se non l’avesse avuta, ne avrebbe trovata una creativa. Ero il bambino più fortunato del mondo. Ora, sto quasi arrivando alla stazione del nostro paese, riconosco le saline ormai dismesse da anni, sono state il nostro sostentamento per due millenni e mandate in pensione, senza un grazie, da trent’anni di industria pe-


trolchimica. I politicanti del tempo dicevano: “L’industria vi darà tanti posti di lavoro, l’industria vi porterà il benessere, l’industria vi permetterà di evolvervi e di emanciparvi, sarà la vostra vita.” La vita? In realtà, non avevano detto che l’industria avrebbe distrutto la nostra identità storica, quella culturale, la nostra vera economia che da venti secoli si basava sulla produzione del sale, sulla pesca, sull’agricoltura, l’interscambio culturale e commerciale con tutto il mediterraneo e sulla produzione di un ottimo vino del quale la gente non ha più memoria se non fosse per uno scritto di Plinio il vecchio che ne decanta le qualità e il gusto eccezionali, per non parlare della sua gradazione altissima. Non ci avevano detto che il mare nel quale ci tuffavamo, nel quale pescavamo, del quale vivevamo, un giorno avrebbe avuto delle recinzioni sulle quali sono apposti cartelli con su scritto: DIVIETO DI BALNEAZIONE! Quel mare che era stato fonte di vita e che invece ora è esso stesso la falce della morte. Una lama di mercurio e piombo che miete vittime innocenti e non, perché anche gli speculatori muoiono falciati da essa. Una falce sulla cui lama è cesellata una parola: CANCRO. Molte delle sue vittime sono ancora bambini, altre sono amici con i quali sono cresciuto, che ora non vedrò più e anche il nonno se n’è andato via così. E ora Papà? Una voce esce dagli altoparlanti: “Avvisiamo i signori

passeggeri che il treno è in arrivo alla stazione di…” Stiamo arrivando, prendo il mio trolley e mi avvicino alla porta, attraversando il corridoio mi accorgo che la maggior parte delle cabine è vuota, saranno scesi a Catania. Difronte il portello d’uscita, spio attraverso il vetro ovale e scorrendo davanti al passaggio a livello, che precede la stazione, osservo le macchine in coda e cerco di scrutare al loro interno per trovare un volto amico ma non riconosco nessuno. Il treno si ferma, pigio il pulsante verde di fianco la porta, che si apre con il tipico rumore di pistone idraulico, scendo per i gradini e una volta a terra mi guardo intorno, il marciapiede è vuoto, nessuno che scenda, nessuno che salga, l’unico essere vivente è il capotreno che mi fa un cenno con la testa e poi fischia la partenza. M’incammino verso la sala d’aspetto che è il passaggio obbligato verso il piazzale, entro e la ritrovo come l’avevo lasciata, tranne che per qualche piccola modifica. Sulla destra c’è sempre la porta che permette al signor capostazione, di cui non ricordo mai il nome, di andare su verso l’alloggio riservato a lui e la sua famiglia, andavo al liceo con suo figlio e non lo vedo ormai da anni. Le due panchine sono sempre una difronte l’altra ma non sono più quelle di legno robusto, ora sono state sostituite da delle panchine scarne, sono dei reticolati metallici con la sagoma che è l’ombra di una panchina e sembrano alquanto scomode, di quelle che ti fanno ad-

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foto di MARIO DI SALVO

dormentare chiappe e gambe. Il botteghino per i biglietti è subito dopo, è ancora quello di quando fu costruita la stazione intorno agli anni 30. È chiuso, e ciò mi porta a guardarmi in giro, alla sinistra di fianco alla porta d’uscita c’è una di quelle biglietterie automatiche che di più ingombranti e cacovisive non si sarebbero potute pensare. La stazione sembra sia stata automatizzata. La vibrazione del telefono mi dice che ho ricevuto un messaggio, lo apro, è il numero di papà: “Ciao “Piccolo”, sono la mamma, io e il papà siamo dal dottore per uno dei controlli ma non preoccuparti, è normale routine. Sta venendo a prenderti tua sorella Alessandra che come al

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solito sarà in ritardo ma arriverà. Ci vediamo dopo a casa. Mamma.” Sembra calma da come scrive, forse c’è una soluzione o una semplice possibilità di farcela, forse la mamma ha esagerato come al solito. Spero sia così. Mi siedo sulla panchina e osservo tutta la stanza, ora mi toccherà aspettare almeno un quarto d’ora. Sandrita è in eterno ritardo, lei compensa a suo dire: “Io non sono in ritardo ma in recupero perché sono nata settimina.” Quando ne parla lo fa con una certa soddisfazione nella voce e una tale convinzione nello sguardo da convincere anche me e chi l’ascolta, d’altronde è una giustificazione geniale la sua.

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EMM#7

ULTIMO PIANO LA PORTA DELL’ABBANDONO testo di POESIA COLLETTIVA

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Gioco di precisione sai, mi assegno un calcio di rigore: “Ma la porta, questa parola appena uscita dall'erba, quale fiato la gonfia? Quale ragno ricuce i fili d’oro al cuore caduto in aria, scivolato indietro dove trema la voce?”

elettricità. Chiese scusa e cercò un’altra porta e un altro piano e un’altra stanza. L'audio rimase sempre uguale, non migliorò.

2 Se ne stava sempre ingobbito, con gli occhiali spessi spostati verso la punta del naso e la montatura scura che contrastava col pallore del viso cosparso di brufoli. Le orecchie prominenti e il viso lungo lo avevano fatto diventare per tutti il Canguro, Giancarlo “El Canguro”. Era orfano di padre e sua madre vedova lo assillava con le sue ansie. Un giorno si stancò di essere preso in giro dai compagni di classe e, controllato da sua madre, cercò un’altra realtà, un’altra dimensione, un altro tipo di vita. Così si ribellò tenendo per protesta i capelli lunghi. Poi un giorno per contestare ulteriormente acquistò una caccola di fumo, si fece una canna guardando MTV e vomitò la cena sul tappeto davanti al televisore. Accese il televisore, ma l’audio era cattivo, si sentivano solo rantoli e mugolii. Smontò la porta del televisore e un stanza grande l’accolse. Salì al piano di sopra e in una delle stanzette, collocate al secondo livello del secondo piano, scoprì una coppia di amanti che facevano l’amore, distesi dentro un letto che fluttuava nell’aria impregnata di umori ed

Attraversai quella porta di noce anima adatta alla xilografia. Quella porta conduceva dentro un salone immenso le cui pareti erano rivestite di schermi televisivi accesi. Dentro ogni schermo c’era un orango tango. Gli occhi mi osservavano, si fissavano ad alto volume dentro il piano metafisico del mio sguardo. Ero vicino alla

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totale follia. Fortunatamente tra quegli schermi c’era una porta. Senza esitare l'ho aperta e sono entrato… entrate, uscite, sentirsi straniero in luoghi conosciuti, sentirsi a casa in luoghi appena scoperti. Ci sono porte ovunque, noi siamo le porte di un condominio chiamato vita, di un monolocale denominato morte.

adulti in attesa del processo. Aveva aperto una porta che lo aveva fatto entrare in un’altra dimensione: “La spaventava di più la porta spalancata, la scala che crolla o il gatto nero?” “Non saprei.”

Poi si perse nel labirinto. Quando sua mamma se ne accorse telefonò immediatamente alle forze dell’ordine facendosi passare la squadra narcotici e lo denunciò. Vennero a perquisire la sua cameretta e sequestrarono la mezza caccola di fumo che gli era rimasta, un pacchetto di cartine, un accendino, una pistola giocattolo illegale senza il tappo rosso che aveva perso giocandoci da bambino, delle bottiglie di birra vuote che possono essere usate come molotov, fogli con scritte frasi minacciose come: “Vi odio tutti, dovete morire pezzi dei merda!”, libri di scrittori sovversivi e il quaderno di matematica con una A cerchiata che aveva disegnato in quarta di copertina. Lo arrestarono, chiamarono i giornalisti locali esibendo i corpi del reato che avevano trovato e ringraziando la madre coraggio per la sua denuncia, grazie alla quale era stato assicurato alla giustizia un ragazzo socialmente pericoloso da avviare verso un percorso di recupero, per reinserirlo nella società. Avendo appena compiuto 18 anni venne messo in carcere con gli

La porta spalancata indica un passaggio da uno stato all'altro dell'essere, dal noto all’ignoto, dal passato al futuro. La porta che si apre sta per un’altra realtà, terrorizzante o meravigliosa. Il gatto nero indica un episodio spiacevole, se non funesto, può anche esprimere la voglia di tornare al focolare domestico o di riscoprire il proprio universo intimo. Nella realtà quotidiana le scale collegano piani differenti, perciò in sogno uniscono le varie parti della personalità. La scala è simbolo di ascensione e di discesa: può portare al cielo e condurre agli inferi. La scala che crolla sotto di Lei allude al crollo di una struttura fondamentale della Sua vita, che si ripercuoterà in modo drammatico anche in altri settori che La riguardano.

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“Ma sì, certo, mi ha terrorizzato proprio la scala che crolla! Io, io, non potevo restare un minuto di più in una casa tanto a rischio!” “Ah, ha deciso di far fagotto, finalmente!” L'arcano della porta che entra ed esce, ecco il luogo!


Finì in cella con Mario “U Porcu” Scanziano affiliato alla camorra emergente, Giuseppe “Belva” Esposito pluriomicida e Ciccio “Il Don” Catatreppoli padrino mafioso autore di svariate rapine ed estorsioni. La prima notte Canguro venne picchiato e poi sodomizzato ripetutamente a secco. Il mattino dopo uscì di cella camminando come un’anatra e lo mandarono ai domiciliari, un orizzonte intimo per salvaguardare dallo svellere del tempo i cardini del cuore.

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Usurata la mia dimora e usurai alle porte di questa vita celebrata al gesto beato del respiro, quando affannato corre incontro alla soglia. Un’immagine tradizionale, quell’orizzonte nomade e assolato, talora tempestoso evocatore di confini d’anima e d’ombre, ripetizione di un mistero udito, visto o presentito. L’orizzonte ultimo suggerito nelle citazioni di un “a quel tempo”. Io sono il sentiero che conduce all’orizzonte e sono l’orizzonte. La madre non gli rivolse la parola. Anche lui non rivolse più la parola a lei e neanche ad altri, stette sempre zitto, venne condannato con la condizionale e non si fece neanche un giorno di prigione. Quando fu libero aspettò che sua madre andasse al lavoro, andò a comprare una tanica di benzina, diede fuoco alla casa e scrisse sul muro di recinzione: “Questo è il mio regalo di addio per te maledetta stronza” e sparì per sempre. Lo rivide un suo compagno di scuola durante

una vacanza una ventina di anni dopo, aveva cambiato sesso, si era sposata con un agente delle assicurazioni e viveva in una casa vicina al mare in Australia, la terra dei canguri. Aprendo porte che lo facessero uscire dal binario delle consuete abitudini aveva finalmente trovato se stessa. Ho paura della mia malinconia che mi batte in testa e mi chiama in una giornata di pioggia, delle mie ragnatele impolverate di marcio e ostinate a restarmi nel cuore. Ho così tanta paura che rimango a piangere sotto parole estranee che non riesco a spegnere, sotto urla e sussurri che blaterano salvezze. Vorrei solo la certezza di qualcosa di vero ma ho ancora occhi lucidi per vedere che non c'è. Non ho altro intorno che pareti e miserie. Faccio il gioco del ditale e mi ritrovo a inseguire la memoria e il ritmo del pedale di una vecchia Singer, dipanare cotone e speranza, ticchettando melodia. Mentre m’incuriosiva vedere quale prodigio celavano quelle mani farfalla che volavano in casa su ogni cosa acerba, trovandoci miele. Ora che i vestiti non si rammendano e le tue mani tremano come farfalle impaurite. Ci sono tanti luoghi, barche e bambole, fuochi di paglia, transiti e occasioni che non vedremo, che accadono senza di noi a distanza e senza cura per il nostro altrove. È il primo trauma questo scoprirsi perennemente marginali al tutto. Ma occorre darsi un occhio minuzioso forgiato da contemplazioni e ascolti per decifrare il battito di cuore che dalla nera Africa vide la stessa rondine sui fili dietro casa. Soffice sfortuna tramandata dai piani, dai luoghi, dalle stanze, dalla luna. Sedie, mensole, troni rescissi a favore della polvere tenue-neutrale obbligata sugli intrecci di mastice, gomma e saggina; oppure nelle stanze senza piani inclinati o mobili o mitigati dall’attenuazione dell'oblio inaspettato che certe volte può fatalmente accadere. Visione rarefatta di condomini squadrati, quartieri residenziali, forse stanze, forse piani, vili giochi di periferia nella quale coesiste il tono sarcastico dell’esclusione, nella quale perdurano il disordine sacro e stupefatto o il disonore della crescita. Poiché onorare la fiducia nella timida fede del pasto frugale significa ottundere il televisore feroce della propaganda trasmessa a voce alta senza pietà, ridare voce alle catapecchie diroccate in cui vivificavano gli anziani, mostri sacri le cui smorfie o i canti avevano edificato i campi e le mura crepate dagli anni: nostalgici giochi di luce lunare riflessa sui solchi distanti dei mattoni semipieni, seminterrati, degnamente semivivi in questa soffice sfortuna, tramandata ai posteri dai piani, dai luoghi, dalle stanze, dalla luna today. Ho trovato la vena buona e mi attende una notte senza nome. Uniche amiche le luci e la statale si prendono cura di me e i palazzoni mi abbracciano e mi regalano un fondo di follia senza memoria. Nella

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vicenda magra dei tuoi anni, fragili come il filo di una tela che tesse un tempo frettoloso e ingiusto, qui tra queste mura eri maggiore in gioie che a me. Quelle volte già sveglio assistevo alla paralisi di un attimo infinito e sentivo il tuo fiato farsi speranza sulla fronte del giorno. Era forse la tua forza a conservarci bambini? Eravamo spunti di girasole sul tronco di una quercia vaporosa. Ad ombrello, sotto l’architrave dell'uscio, ti apristi su noi, quando la terra scosse, così ti ho sentito in ogni temporale. In quella gola di muro, noi come il tufo secchi, aperti a spugna, vedevamo l’estate rovinosa ai piedi neri e le voglie morire. E continuavo a chiedermi in disparte se fossi nato dall’acqua pure io. Il giallo dei girasoli che dorme nel ricordo e il volo degli uccelli nelle ombre sulla parete, il Padre nostro della sera profumo di cannella e mela <mettilo un pizzico di noce moscata> Mia madre, guizzo nello sguardo dipingeva pareti di nuvole intorno alle parole. E piove… C’è chi crede nell’esistenza di alcune porte. Ci sono porte che si chiudono, nella notte, mentre il cervello filtra detriti purificando il liquido del torrente che scorre veloce nella breve vita del nostro giorno. Ci sono luoghi sconosciuti in cui abbiamo sempre abitato, ci sono costruzioni in pietra viva e ci sono pietre che costruiscono la nostra vita. Ci sono piani senza stanze e stanze con piani diversi, dimensioni collegate da finestre che ci chiamano, non appena la porta della nostra distrazione si chiude silenziosamente alle nostre spalle. Siamo al terzo piano e non c’`e tempo né parole per descriverlo. Ci sono soltanto i nostri occhi a percepire distrattamente le immagini di un televisore acceso, a volume massimo. Origine di un ultimo piano dopo l'ascensore, svela nebbie rivolte al suolo la casa appesa al cielo. Polvere sul lago, i tetti a vista e il pavimento antico - profondo nero - si lamenta ai passi come il crampo allo stomaco. Ossa di pollo su corde d’arpa tornano a suonare mentre il telefono muore, troppo presto. La vasca dai piedi fragili contiene i miei cigni bianchi, astrazioni e schiuma vapori sognanti fra i capelli. Sempre all’ora strana un tarlo

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spegne la candela, staccandomi il riflesso col buio cucito sulle spalle. Proseguendo nel percorso, abbiamo visto teatro e teatro, la danza sulle punte nei rintocchi dell’ora, attese vane, promesse disattese, l’imbroglio, l’intruglio; i traffici infernali di babele e negli occhi, appena il tempo di guardare. Gli strumenti del mondo sono trame sbugiardate, le parole al notiziario della strage quotidiana, nelle voci bellicose, i volti d’ogni giorno e quella morte formidabile del mare, l’albero, i bambini, sepolti, i sentimenti; la visione tormentata e negli occhi, appena il tempo di guardare (La parabola degli eventi è porta di cielo aperta, quanto spalancata è, la porta del disagio, sui giorni nostri, come sa il fratello di canto). I momenti sono verità solo che alcuni contengono uomini mendaci e lui realmente guardava il mondo da un punto diverso o dallo stesso punto ma in mondo differente e pensando troppo. Poi spense la tv e chiuse la porta. Solo il diavolo sa se lo fece dalla parte giusta. Poesia Collettiva presenta: Segnali di Confine, In Arti Poesia (IAP), Antisociale e Nucleo Negazioni Autori: Glauco Piccione, Antonio Ciavolino, Aguaplano Giovanni Perri, Anna Giulia Panini, Annawrite Annamaria Major, Juan Sepe, Rita Stanzione, Phyllis Morroni, Andreas Finottis, Anna Maria Dall'Olio, Alfredo Bruni, Luca Ispani, Simone Robertazzi, Deborah Zerovnik, Regina Re. Immagini: 1 James Hughes 2 Simone Robertazzi 3 Cristiano Tewny 4 Antonietta di Rosa 5 Giuseppe Baldassarra


l’esperimento

LE ECOSCULTURE di FEDERICO ZARA a mia passione per la scultura nasce da bambino, quando abitavo ancora a Roma e mi divertivo a realizzare tante cose col “pongo”, ovvero la plastistina. Giocavo anche con le costruzioni, non quelle costose come Lego o simili, ma con le Italo Cremona, un marchio italiano ormai andato nel dimenticatoio. Da bambino, per me qualsiasi cosa poteva trasformarsi in qualcos’altro e le cose, in questo senso, non sono cambiate neppure oggi. Mio padre era un gessista-stuccatore e realizzava a mano le cornici decorative, che oggi vengono comprate già pronte per essere applicate negli angoli del soffitto, mentre mia madre è sarta, ma non ha mai esercitato la professione se non per se stessa o pochi amici. Se come dico sempre “il DNA non è un’opinione¨, questo mi ha senz’altro aiutato. Sono autodidatta, non ho fatto studi artistici, ad eccezione di Storia dell’Arte alle superiori. Senza dubbio posso ringraziare diversi amici che hanno creduto

L

nelle mie potenzialità e che mi hanno supportato in molte occasioni, spingendomi così a continuare nella mia avventura. La mia passione vede tra le sue componenti una spiccata sensibilità ambientale, l’amore per la fantascienza e la voglia di costruire e possibilmente stupire l’osservatore. Non ho dei soggetti preferiti, anche se negli ultimi quindici anni lo sviluppo della mia creatività è dovuto alla ricerca per la creazione degli Aliens di H.R.Giger: ciò mi ha permesso di mettere a punto una tecnica che poi ha preso strade totalmente inaspettate, tant’è vero che il mio primo Alien è venuto alla luce solo nel 2011. Il mio sistema di lavorare il polietilene permette la realizzazione di una miriade di soggetti, naturali e non: questo evita di “fissarsi” più di tanto su un solo tema. Realizzare i miei oggetti mi diverte soprattutto, in quel senso sono rimasto un bimbo. La cosa che mi dà più soddisfazione è vedere lo sguardo incredulo delle persone quando si dice loro che quella statua femminile è stata realizzata con una vecchia stampante o quel violino è fatto di flaconi di detersivo. La cosa mi diverte parecchio.

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lepoesiedasvacco I CANI CIAO

THE PIANO BREAKERS CLUB

sull’arcata dentale del tramonto hai crocifisso quella poca dignità che ancora avevi, la penitenza giacca di pelle indossata con eleganza

Land of rain, ghosts and gods Witches messages understood Sailing different waters to a new beyond Learn to open the door of protection or sacrifice Can you read on the lines of closed worlds ahead?

invece di piangere adesso avresti dovuto fidarti di Burroughs c’è l’Apocalisse in omaggio con la rivista delle suore questo mese e dodici gettoni vecchi – bordo slabbrato per soddisfare la tua chimica voglia tutta la tua confusione è un paradigma di noia e gesso fa il giro della gola e poi sparisce soffiato in lontananza come il fumo bisognerebbe avere un’anima decente e stivali solidi per proseguire più semplice il lenzuolo stanco, il riff poco accurato, la faccia nota meglio la dipendenza della vita meglio schermarsi che diventare grandi il legno tanto costa poco o niente la gomma costa poi persino meno improbabili bunker postsovietici al posto degli occhi, in cambio dei polmoni e l’orologio insiste, picchio noioso a cancellare tutto il mare insieme al male ma non esiste una via d’uscita così immediata e il conflitto ti attende ancora con pazienza tra centoventi bar tenuti male dietro le tende sporche guerriglia aspetta mani incrociate e tempi troppo morti sul tuo sbarco in Normandia messo in stand by viva il totalitarismo un tanto al chilo e del banale la banalità! [piuttosto che fare la guerra ti butto per terra piuttosto che fare la guerra la brucio la terra piuttosto che guerra piuttosto che terra] sarebbe bastato del sangue a scorrer tra i denti insieme al gin tonic un libro riletto al contrario, “I fink u freeky and I like you a lot” ma sul lobo occipitale del tramonto hai suggellato la tua incapacità e sono solo suole maccartismo ipocrisia raffiche di vento scorrettezza alcolemia anfibi doverosi sulla tua confusione meglio la suola della schiena, coglione! salutami i cani mi raccomando, salutami i cani mi raccomando, salutami i cani mi raccomando, salutami i cani. i cani. i cani ciao.

VERA BONACCINI

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Deceased time in a holy pocket The other side a duel, black through orange Witness to holding, magnetic to the deviation Repaired identity for your homesick liver Stay lucky while I just fall Torn ace of hearts on a wet pavement Jawbone clock of repeated time bruises lost in smog what’s the point in that? first of August traveled under asbestos skies high blood pressure 190 over promises made watching the Mercedes drivers drinking maybe just Brecht in exile while black and red become invisible as the free zone ends cuttlefish stained mont blanc fingers are still before you show your hand is everything ok like old places that hold time ravaged like the disease they can be a second hand aesthetic like Milton on my arm whoever ordered mustard, don’t waste your wax Elizabeth Bishop wrapped in a canvas carrier bag I never saw the point

JAMES HUGHES


LA POESIA NON SERVE A UN CAZZO Inquinamento terrestre mente marcia consapevolezza rubata tanti sé giovani pieni di pensieri zozzi nel processo di creazione automobile - uomo - drone meccanico robotizzato celiachia misantropica La poesia non è servita a un cazzo l'erba è contaminata ciminiere al posto dei monti. fumi delle industrie [nebbie mattutine] tosse solforica tosse carbonica tosse eiaculata precoce la croce sulla prostata polmoni in diarrea. Le palestre piene i ristoranti pieni ballare e ridere in Africa massacri, morti per idee vuote, schiavi manuali di realtà motorizzate, tanti sé cresciuti sotto baobab di globalizzazione. [merce di scambio]. Non possono sopravvivere i fiori l'uomo ha l'onestà coperta non può sentire la musica dal cuore non può dilettarsi col proprio cazzo sussurrare parole d'amore, non può . Non può scrivere sui muri portare lunghi capelli cantare l'uguaglianza sincopata. Il linguaggio di adesso usa le bombe al napalm mantra disintegrazione di ogni cosa che si muove. karma bambino morto karma intossicazione karma tumore ai polmoni godono solo le banche, ridono allo sfacelo. Il denaro statale rimarrà qui ancora del tempo, lo sanno. A noi dicono di essere liberi, lo sanno finzione che invade il cervello vediamo le nuvole rosa controllo del pensiero, lo sanno.

NEON Odio la guerra, quella che confonde gli specchi e la salvia delle tue gambe. Odio le cicatrici concentriche, tatuate per sbaglio in una notte di crepe sui soffitti. Odio il grigio incorporato nelle fotografie che ti fai, mentre curi i neon. Non saremo mai così affascinanti da concluderci, per la differenza del dopo. Questo è il dopo. Un’insegna luminosa se fulminata diventa un’insegna buia. Apprendistati cavici, placche fortuite, contemplazione di un muro con due occhi a rovescio che ti guardano, la chiamano presa. R, in fulmine. Pesa. Interrompiamo la lontananza, friggendo patatine, consigliando vie strette da correre veloci in pieno centro per profumare l’aria con antidoti del sabato sera. Il nostro buio in questo momento è rovinato, crepato, ferito, colpevole tante volte quelle che ci siamo dichiarati mettendo in fila tre punti In fila Un presa In fila Se il gioco fosse nell’unire macchie di Noi, il Sole non lo vorresti più tondo. Cambiamo le regole geometriche, cuciniamo frazioni di Noi, assembliamo con minuti gesti pezzi incustoditi di Noi. Orario. Neon. Fulminato. E. Non. Nego.

LUCA ISPANI

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Ego. Go. O. Io. Ho lasciato la luce in bagno accesa, per quando torni stanotte, per farti sembrare le cose come qualche anno fa, per credere di non essere cambiati, a parte nelle intermittenze. Flash back. Soffia. Dai. Soffia. Soffi. Di. Soffi. Abbiamo perso le nostre a, quando hai confuso il mio scriverti, con il tuo. Non siamo dotati di arti pronti a bagnarsi di sangue. Ramo. È l’unico oggetto a cui possiamo togliere le braccia e rimanere sempre in piedi. Oggi. Ramo. Inventiamo con il nostro credo quintessenziale il prototipo di un essere fulminato dall’idea di rivolta generazionale. Conquistiamo i nostri corpi, battaglie di Primavera, scudi organolettici sensibili alle correnti futuristiche del gelo che ci accerchia. S, in fulmine. Sudi. Non te l’ho mai detto, ti sudano gli occhi. E non c’è nessun essere umano disposto a correre in Te. Salto nel futuro. T, in fulmine. Salo. Siamo gesti semplici e ripetitivi, automi settati in un’altra galassia, venti tiepidi da suddest, cloni di dolci piogge laviche. Assenza di ossigeno. Quando la mia apnea ci riconduce, l’odore del mio corpo sarà così acre da sconfiggerti. E’ tornata la luce, lampadina girata a basso consumo energetico. Se vuoi dirmi che mi ami, fallo con i Watt. Strofa. Amo la solitudine dell'acqua, l'astinenza sublinguale che riesci a diventare, ghiaccio e lato di una stessa foto. Amo la profondità che non abbiamo, quella sterile superficie che ti ostini a difendere. Amo il fuoco, noi lo costruiamo con la nostra perdita di peso. Fossimo conclamati, non avremmo cura di tenerci. Strofa.

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Amo la merenda, quella alcolica del lunedì, quando sei in ferie, quella del fuori piove sulle tamerici, ma questo mondo adesso diventa così piccolo da rimanere. Confondi le funi che ci slegano con i fumi delle centrali atomiche che ci fondono. Fuori spartito. Aprire il mondo, renderlo una sfera senza pareti. Siamo, tu&io, come un ingrosso al dettaglio, aperti anche a Ferragosto. Posso darti del tempo per immaginarlo. Tienilo. Apri la mano. Tienilo. Ossessione dopata. I nostri fluidi corporei scorrono a testa in giù. Planimetria di due corpi in aggancio cosmico. Sponsorizziamo anni monoclimatici, rose dei venti morenti, spazzatura planetaria sulle nostre teste; la differenziata sarebbe un problema solo su Plutone. Verde marziano. Vede marziano. Darsi al nulla, comprenderebbe una scala cromatica neutrale. Fammi il marrone, con le parole. Fammi il viola, con la prole. Riproduzione ancorata di se stessi. Li chiamano figli. Adottiamoli, in questo mai usato Pianeta. Siamo binari. 10101010101010101010 Se leggi 1010 sono le gambe che abbiamo incontrato dirigendo lo sguardo verso un tombino. Strofa. Non abbiamo più nulla da scriverci, la tua flotta lotta nella mia, se non nelle bollette dell’asciugatrice comprata con un prestito finanziario. Penna. Pena. Fuori partito. Congeliamo lattuga, con la speranza di risorgere, senza cuore. Sbollentiamo l’acqua, e dimentichiamo che ci hanno progettati in assenza di fiamma. Ci leghiamo i capelli, per correre più veloci, ma non saremo mai fiume. Avvicinati. Ho da sussurrare la soluzione.


Più vicino. Ho da bisbigliare la soluzione. Ho detto più vicino. Avanza. Curva il campo di movimento con cui ti ostini a perseguitarmi. E che non saprò mai descriverti, l’azione della mia mano sinistra che ti fa cenno di venirmi incontro. Quell’ondulazione dal mignolo all’indice, quella. Sei così rasente, che siamo globiformi, solo nelle periferie. Questa è la soluzione Dotarci di una porta usb, tu dato, io scambio. Cambio. Siamo questa esplosione che ci appartiene. Un gomitolo a massa. Se devi dirmi che stiamo rotolando, fallo con una S. Srotolando. Sentiamoci. Forse. Non ti comprendo. Butto in aria una N. Setiamoci, assumiamo ammorbidenti di terza generazione, viscosi flaconi di Noi, partiamo come Italo e Marco, avventuriamoci nel sottosuolo dei sentieri, quindi a dirselo un giorno prima. Rima. Parati. È non siamo la carta nei prati. Undici. Forse. I prati nella nostra modellazione universale. Unici. Mi sopprimi raccontando minuti di telefonate inesistenti. Apprensioni biunivoche, dal lato da cui giungi, trovo sempre un foro minuto nel mio corpo. Sarà per dilatarmi il cuore. Forse. Foriamo. Fossimo fiori, nei vasi dei tribunali, delle segretarie a mezza giornata, delle damigelle nelle sete d’Occidente, dei compleanni di 18 anni con le cere sul volto. Voto. Ti voto. Voto, la mia fedeltà cagna, la mia insofferenza alla birra tiepida, la calura di un Dicembre, le scommesse notturne, quelle in cui ti giochi pezzi di sogni. Voto, i compiti in classe con il compagno di banco che non ha studiato, le scarpe lacerate, le spalle al muro e nessuno ha intenzione di ucciderci. Sapessi spiegarti la differenza tra un verbo e un sostantivo, saremmo così: VS In volo come le rondini al sole. Ondini. Piccole onde maschie, di mari femmine.

Capovolgiamo il nostro ambiente sentimentale. Diamoci nomi per invertire le nostre cariche. Siamo composit neutrale. Forse. Siamo il Si Amo! Ma leggendoci al contrario, ci accorgiamo di essere piccoli chicchi di mais, destinati a diventare pop corn nelle nostre case curve di televisori. Io faccio pop, Tu corn. Sgomberiamo il nostro stare insieme, per i sottotitoli in Polacco. Placco. È la meta che ci indica quali femori indossare. È la meta che accentata ci pesa come spazio. Schiacciati da tetti troppo bassi, apriamo le finestre perché ci espandiamo con le nostre paure. Siamo monolocali lunghissimi. Durevoli alle intemperie, coperti per non abbronzare la nostra pelle dell’ora. Le donne con il girovita stretto, mi annoiano. Gli uomini con le spalle larghe, mi tediano. Tu Larghe, io Giro. Giriamo alla Larga, e inventiamo una nuova città, dove siamo ancora pronti a conoscerci. Forse. Di nuovo. Implodiamo, in un boato, udibile a Noi, videoschermati e insonorizzati per le esplosioni, pattuibili per lo scambio di ostaggi, ci muniamo di armi chimiche, solvente per le unghie, olio di palma e idrocarburi commestibili, trinceati nei bagni di servizio, vestiti da profughi, fingiamo la nostra guerra. Forse. Mi hai chiesto di terminare con una videata, ma siamo fuori mano, proprio qui. Da capo a capo, ciondoliamo, per riaverci. Forse. Io mi amo. Io miao. Compriamo animali domestici per documentari casalinghi sulla nostra solitudine. Tu compri una bici e la chiami solitaria. Io acquisto un gatto e lo chiamo poeta. Tu un cane. Io croccantini. Tu umido. Mi dò. Concedo. Così. Ci disaccentiamo. Disinneschiamo la nebbia che costruisce alibi per non farci

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ritrovare. Osi. Sì! Ci riaccentiamo solo per chiedere al tempo di mitigare questo saldo caldo baldo. Avessi mai usato una R per battezzarti, le altri consonanti le gelerei nello stagno della mia figa. Avessi mai usato una r per sposarti, il maiuscolo lo inscatolerei per renderlo eterno. Abbiamo piccole fedi disegnate sotto la pianta dei piedi, per calpestarci, quando dimentichiamo chi siamo, quando dismembriamo il nostro amore, quando lo spazialismo artistico di Fontana configura una cascata dai nostri occhi, quando prendiamo la luce dai timpani, quando flagelliamo verdure, per il nostro credo crudista. Manifesto pubblico in camerino privato. Rivato. Sei una nuova geografia. Nomenclatura laica di uno Stato asservito. Sei sponda e riempito, sei empio e sonda. Profondità dei nostri corpi quando siamo in vasca. Orizzontali alle maree familiari, tu sommergibile, io boa. Giro. Ghiro. E’ la posizione del nostro dormire. Cerchiamo un cartello da mettere in casa, per segnalare il passaggio di un parallelo. Qui viviamo NOI. Al 46esimo. E non è il piano di appoggio delle nostre conversazioni. Pino. Mai piantato. Pin. Inserito. Sblocchiamo i nostri litigi con codici assurdi. Abbiamo una soluzione, acida al nostro ph olfattivo. Ci respiriamo come al cambio di un segno zodiacale, senza conoscere il mandarino. Fruttami. Sfruttami. Sfrantumami, per darmi un nuovo nome, che non sia il tuo. Possessivamente le storie d’amore non si raccontano, si viaggiano. E alle 11:14 siamo con le valigie. Torniamo al meno uno, perché quello che vogliamo è al neutro. Partire per un piccolo passo, partire con un asso. Se ci mescoliamo, siamo l’elemento chimico di cui nessuno parla. Para. Siamo nell’anno del riscaldamento globale. Save The Planet. Non può accaderci nulla che non sia già accaduto. Tranne per la crema solare scaduta. Rema. Rem. In questa regata, l’acqua che mi porti è l’incubo. Scuro. Daltonici nel buio. Mi dai coppia, quando scoppia, quando raddoppia, quando viaggiamo in Cecoslovacchia, per trovare una rima con chia e ho solo semi. Semina. Quella. Sfinitudine.

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Quella. Finitudine. Quella. Fintudine. Quella. Affusolati, aguzzi capillari e non ci pettiniamo, con parrucche ossigenate plissettate, mezzelune di plastica attaccate nel cielo, per renderlo riciclabile. Indigestione di un tratto profetico. Deglutiamo aria, per riconsegnarci al mondo in costante. Leggiamo la fisica nei pomeriggi di profughi in arrivo, di morti negli incidenti aerei, di sassi in caduta, di cartelli autostradali con cervi al salto, di antibiotici ad alto voltaggio, di pale eoliche e di coltivazioni intensive di soia. La nostra trasformazione ventale inabissa. Siamo ultimati già dall’inizio. Siamo la mono chiusura di ogni passato. Ciclicamente replicati, tabelline umane, ellissi mortali in cimiteri sottosequestro. Pensavo che saremmo diventati il risveglio di un cucciolo di panda in uno zoo, l’arcobaleno dal Tirreno al Vesuvio, il cretto di Burri a Gibellina, il terremoto in Irpinia del 1962 e la tripletta di Paolo Rossi al Brasile del 1982. Ci siamo tagliati il pane a vicenda. Ci siamo solo ritagliati il pane a vicenda. Panifichiamo il pianifichiamo. Ci siamo fatti la barba e io non ne faccio uso. Abbiamo messo in ordine il disordine, il disordine con l’ordine, per avere contatto. Premiamo la nostra storia per farla tornare a essere una sfera. Siamo il braccio meccanico di un centro di autodemolizione ammobiliato. Ne moriremo prima, sepolti in Capsula Mundi; fammi acero palmato per colarti e ridurmi umana nei rumori. Umori. Palato. Quello che ti asfalto per farmi entrare nel tuo tunnel in manica corta. Orta. Levigo con il catrame il femminile terreno che mi trascino dietro per ammorbare l’aria con un nuova impollinazione. Creo un messaggio angoscioso e aspro da concordare con i vertici dei nostri triangoli in lontananza. La velocità di trasferta, del nostro Amore attraversa i bulbi oculari, ricompare corolla. Crolla. Sei l’unico imperativo da non essere incoronato. Sei in autoespansione. Rolla. Temporale. Non siamo più minor azione, un secco e grippato verso, mi appoggi le mani sulle mani, per diventare spessore. Non passa luce per riavvolgerci. Volgerci. Volutamente soli, moriamo. D’arsenico e lame. Con cinque parole blu.

BARBARA GIULIANI


larecensione

LA RUOTA DEI CRICETI di PRIMULA BAZZANI

riceti: otto racconti sul tema del lavoro senza la retorica che in genere lo accompagna. Lettura avvincente e interessante che sa di quotidianità; pagine che trasudano di labor, fatica soprattutto psicologica, irradiano qualche sprazzo di Labh- (da cui il greco antico ?aµß???, lambáno) raggiungimento, presa, conquista di un risultato. Narrazioni lontane da dati, percentuali, grafici tracciati o slogan urlati che dipingono da anni e anni «un paese che non riparte», scandiscono ricorrenti imperativi «dare valore al lavoro», «investire», «abbattere precarietà», «contrastare il lavoro nero». Nel tempo i volti e gli analisti sono cambiati, seppur con molta calma. Le parole, invece, si presentano sempre

C

uguali a se stesse. Le testimonianze di vita lavorativa, che poco importa sapere se siano vere poiché in narrativa ciò che conta è il loro essere verosimili, gravitano tutte attorno a due punti cardine: il lavoro come difficoltà, da un lato, e come spinta alla consapevolezza di sé e della propria utilità nella sfera sociale, dall’altro. Che svolgano un mestiere più o meno soddisfacente, l’abbiano perso o lo stiano cercando, tutti i protagonisti desiderano dimostrare la capacità di fare qualcosa apprezzato da altri e da se stessi. Esiste una dignità del lavoro reclamata, spesso tuttavia calpestata nelle aspettative deluse e la cui difesa può trascinare all’abbandono. Lo sa bene Gavino Marras nel suo e la chiamano estate. La piacevolezza di un’attività a contatto con i bambini – pur con alcuni problemi che si sommano ai «cinque euro l’ora» per «sei ore al giorno» – è inficiata da negligenze e mancanza di professionalità: colleghi impreparati, coordinatori che non coordinano, organizzazione che non sa organizzare. La voce critica all’interno infastidisce ed è perciò isolata da una comunità che si attribuisce in seguito meriti non suoi, vigliaccamente rubati proprio all’elemento di disturbo. L’opportunismo è di casa in certi ambienti di lavoro simili a un serraglio in cui ci si divora e si lotta per la sopravvivenza, molto distanti dall’immagine idilliaca di un luogo che, per definizione, dovrebbe valorizzare la persona e migliorare il mondo. Tiziana Mantovani è un’esperta di queste dinamiche. Lavora sul lavoro, ossia nell’ambito delle human resources – dove credete di andare se non piazzate qua e là qualche espressione inglese? Fa chic, è cool… e io sono una persona che… Sceglie chi può fare cosa e cosa può andare bene a chi. Conosce quindi molto bene l’universo di bisogni e necessità. Lo descrive con dovizia di dettagli, con una punta d’ironia che protegge lei, donna, dalla diffidenza maschile e le impedisce di livellarsi alla generale mancanza di poesia. Solidarietà femminile quindi nella realtà lavorativa? E quando mai! Si chieda a Chiara di Regina Re. Illusa dal capo donna e vittima della sua gelosia, ha sulle spalle la mazzata di un contratto non rinnovato dopo la maternità a beneficio di una collega meno titolata e capace di lei ma più abile, o succube, nell’adeguarsi al compromesso dominante. Un report amaro, dal finale tutto da vivere emotivamente in un «jeu, le dernier jour». Si chieda ancora alla pendolare di Katia Mazzone e al gruppo di colleghe inviate in una trasferta inutile per un

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corso di formazione improduttivo. Le donne sono solo segretarie da gossip e chiacchiere da salotto o scompartimento ferroviario? Petula sembra confermare l’ipotesi nonostante il ruolo da dirigente. Le altre la compatiscono e sopportano, le prese di posizione chiare sono sconsigliabili anche lontano dalle mura di un ufficio, la sincerità non paga oppure può costare davvero cara. Contesti e frangenti molto veri, non sempre scelti, poiché il lavoro è un’esigenza che mette talora nella condizione di dover perdere comunque qualcosa, trasformandosi in triste necessità. «I sogni non si mangiano» scrive Andrea Finottis. Il suo Andrea è in cerca di lavoro, anzi deve inventarsi un lavoro. Con cura e meticolosità, segue il copione dei consigli e sceglie tra le «opzioni imposte». Il lavoro sarebbe quindi inconciliabile con l’idea di libertà? Eppure – recitano i trattati di sociologia – è la struttura portante dei rapporti interpersonali, determina la trasformazione del tessuto sociale, dà sostanza all’esistere, permette all’individuo di avere stima di sé, di essere responsabile. Andrea ha detto dei «no», grido di affermazione in questo caso, ed è ancora alla ricerca della sua «grotta adatta», efficace metafora di un’occupazione in armonia con le attitudini della persona. Sentirsi un semplice ingranaggio della macchina sociale non è certo una buona base di partenza. La rassegnazione è garantita. Il dipendente pubblico di Alfredo Bruni, nella sua «cella di lavoro», respira l’odore dell’ignavia e vive la piatta routine che spegne anche la minima velleità d’iniziativa personale. Ogni giorno uguale all’altro, da quarant’anni. Quando lavorare coincide con il tirare a campare e la mancanza di passione, perché sarebbe inutile, è solo labor e poco lambáno. L’essenziale è portare a casa la pagnotta. Efficace, pratico ma umiliante. Come avvilente è sentirsi ripetere «io ti pago e tu non devi sbagliare» o «alza il culo dalla sedia e portami le fotocopie», ordini ai quali Lucia di Maria Teresa Barreca risponde con lo zelo dell’esecuzione. Il lavoro è un rapporto di reciprocità e Lucia ci crede. Nel suo Ora et labora quotidiano mette sentimento e abnegazione, lo vive come un «rapporto amoroso» che purtroppo si rivela sbilanciato. Seguono tradimento subìto, appostamenti, gusto della vendetta e senso di liberazione indossando un «nuovo paio di scarpe». Troppa merda sotto la suola delle vecchie. Occorre camminare da soli e su basi solide se si vuole sopravvivere e, nel migliore

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dei casi, ottenere un risultato. Difficile, talora quasi impossibile. Arduo uscire da un circolo vizioso per il «tizio… giacca, cravatta e valigetta” di Luca Oggero. L’apparenza professionale è la maschera sociale del ricatto. «In otto anni mi hanno rinnovato il contratto sei volte e sono a termine ancora adesso. Mi tengono per i coglioni.» Come per Lucia, anche il suo è un vincolo impari. Accanto a lui, «un giubbotto di jeans…», metafora di un lavoro/non lavoro. Se hai bisogno, il denaro te lo procuri borseggiando. Non è la mise a stabilire chi è dentro il sistema o vive alle sue spalle. Sul palco del teatrino sociale, ognuno ha un ruolo, segue un copione. Agli attori a soggetto, si fatica a concedere qualche euro. La raccolta Criceti è formata da otto storie che, indipendentemente dall’epilogo, sono otto “celle di lavoro” con punti luce diversi, tutti comunque a direzione centrifuga: la prospettiva intima e personale s’irradia verso l’esterno e rende possibile un’analisi più generale. Il caso si fa emblema, il concreto evolve in concetto. Accanto a chi rinuncia, o ne è costretto, anche chi ce la fa deve perdere qualcosa: per esempio, a Lucia è stata rubata la fiducia nella nobiltà del lavoro, Tiziana ha imparato a coltivare lo scetticismo nei confronti delle dichiarazioni altrui, la pendolare di Katia si è abituata a guardare la realtà lavorativa circostante «tra le ciglia socchiuse», l’impiegato di Alfredo a non dare un volto alla comunità che un servizio pubblico dovrebbe servire. Il quadro complessivo che ne emerge non è dei più edificanti. Proseguendo nella lettura, l’ho accompagnata con il ricordo della dialettica hegeliana tra signore e servo che, nella Fenomenologia dello Spirito, è lotta per la sopravvivenza e determinazione dell’“autocoscienza”. Il signore fonda il suo “essere indipendente” sull’“essere dipendente” del servo il cui lavoro soddisfa i suoi bisogni e appetiti. Il signore s’impone sul servo, ma dipende anche da quanto questi produce e il servo si accorge di essergli necessario. Due autocoscienze che si affermano attraverso l’altra: il signore si determina attraverso il servo e viceversa. Un capovolgimento di ruoli che può durare in eterno, una ruota che gira senza fine con, a turno, nuovi signori e nuovi servi. Come quella dei criceti, titolo azzeccatissimo a mio avviso. Chiudo il libro e mi frulla in testa una domanda sospesa. Se la ruota si fermasse, finisse l’illusione del correre e sempre correre senza andare da alcuna parte, sarebbe attuabile oggi l’ipotesi di una realizzazione libera e indipendente di sé, ognuno nella propria creatività attiva?


Dobbiamo sgombrare l’inverno evidenziare le parole con la luce aprire la finestra della strafottenza per uscire da questi veli su bare dare una forma più precisa ai versi perché la culla è un vizio ozioso che ci incolla seppur tra labbra a qualcosa di osceno per la vita

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Resistenza, ma quella delle donne. Seconda Guerra Mondiale in Canavese, ma settant’anni dopo. Amore. Quello che ti fa stare così bene da sentirti terribilmente male. Strage di Sabra e Shatila. E che ci azzecca Cuorgnè con un genocidio? Una moschea in montagna che, no grazie, non verrà costruita. Un adolescente violento, l’unico che ha capito e può salvare chi pensa di proteggerlo. Torino. Toro alè, micidialcanavese granata. Insomma, una classica storia di famiglia.

BIANCA NON ERA A SHATILA Mariagrazia Nemour


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