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POST GRAFFITI IN ITALIA & USA
BOLOgna 21 gennaio - 4 febbario 2012
Galleria del Circolo artistico Corte Isolani 7
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ARTEFIERA
Consorzio FIA, Forza delle Idee e Azioni
Tag Indelebili Post Graffiti in Italia ed USA
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Prefazione a cura di Oddone Sangiorgi
Tengo a precisare in premessa, per farmi perdonare subito le possibili “ingenuità” che non sono un critico d’arte, ne un curatore, ma un ”semplice” appassionato e collezionista d’arte, affascinato dalle correnti espressive contemporanee. Già aver sottotitolato la Mostra “post graffiti” ha scatenato le critiche di alcuni seri studiosi , che mi hanno ricordato che il termine graffiti, anziché del più corretto writing , pare lo si debba al confuso poliziotto di Filadelfia degli anni 60 che, trovandosi a redigere un verbale, preso atto di un muro oggetto di questa nuova e sconosciuta forma di “espressione”, non sapendola definire, la risolse burocraticamente e sbrigativamente con graffiti. In realtà, a parlare e scrivere proprio di graffiti agli inizi degli anni 70, è il grande filosofo, critico e teorico della post modernità Jean Baudrillard che tra i primi ne intuisce la portata e la carica rivoluzionaria e documenta anche fotograficamente il fenomeno , nelle sue frequenti visite a New York. Di seguito, nascono e si sviluppano altri stili ed avrei forse dovuto quindi richiamare post writing, post lettering, post wall painting, post street art, sottolineando anche “ la consecutio tempurum”che ci conduce ai nostri giorni. Su questa problematica e prospettiva rimando all’esaustivo saggio di Fabiola Naldi Do The Right Wall/Fai il Muro Giusto, in cui si chiariscono i fraintendimenti su “..queste sigle scomode e restrittive per gli artisti che ne fanno parte, ma utili per coloro che si avvicinano alle moltituidini di codici visivi….” Tuttavia graffiti, inteso comprensivamente e nell’immaginario collettivo, identifica storicamente un percorso artistico come abbiamo già considerato, vasto ed articolato, a mio avviso concluso. Lo affermo consapevole di scatenare le ire dei “writer grafittari” che si sentono vivi e vegeti, mentre post ci conduce all’attualità, ad una evoluzione e prospettiva aperta ed è per questo non “mollo”. Tornando alle motivazioni che hanno spinto Il Circolo Artistico di Bologna e me a promuovere e realizzare la mostra TAG INDELEBILI:Post Graffiti in Italia ed Usa, risiede in diversi stimoli, il primo, per post- graffiti intendiamo e vogliamo indagare le tendenze stilistiche che affondano le radici nella cultura del graffiti writing e della street art e che si manifestano in molteplici discipline, quali Pittura, Scultura, Grafica, Computer grafica, Design, Illustrazione, Moda, Fotografia, Architettura, Videoarte, Calligrafia. La differenza fondamentale fra street art/graffiti writing e tendenze post-graffiti si esplicita nei campi di applicazione delle produzioni dell’Artista. Lo street artist o il graffiti writer crea un’opera che si
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TAG INDELEBILI colloca in spazi pubblici seguendo un percorso creativo strutturato e finalizzato spesso alla notorietà, in concorrenza con artisti che vengono da esperienze comuni e si esprimono con un codice simile al loro; un Artista post-graffiti si cimenta invece in discipline “convenzionali”, se non nelle Arti Maggiori, confrontandosi con creativi che non hanno una formazione e impostazione apertamente legata al gusto dei Graffiti o della street art. È comunque evidente come gli stilemi proposti abbiano permeato qualsiasi produzione rivolta ai giovani e, più in generale il contemporaneo, dimostrando la forza d’impatto e la persistenza di questo genere artistico. Detto ciò, non esiste una definizione stringente e definitiva dell’arte Post Graffiti, che come abbiamo riscontrato,affonda le radici in quella dei Graffiti e della Street Art, nate a Filadelfia nei tardi anni Sessanta sui treni e si sviluppano in seguito a New York negli anni settanta fino a raggiungere una prima maturità stilistica a metà degli anni ottanta , testimoniata dalla realizzazione di Style Wars (documentario sui graffiti della metropolitana newyorchese) e cristallizzata dal film Wild Style. Il fenomeno graffiti si diffuse poi su scala mondiale, trovando in Europa un fertile terreno. In Italia si diffuse negli anni ’80, ma già da prima l’influenza americana aveva colpito alcuni artisti nostrani. Sul fenomeno della Street Art e del Grafitismo, esiste un vasto repertorio di mostre, rassegne, libri, film, documentazioni e studi. Proprio a Bologna nel 1982 Francesca Alinovi (insieme a Renato Barilli, Roberto Daolio e Marco Mango) organizza il “Telepazzia”, la prima manifestazione di graffiti in Italia.E’ la stessa Alinovi a curare la mostra “Arte di frontiera: New York graffiti” (1984), che porta a Bologna writer statunitensi come Futura 2000, Lady Pink, Toxic e molti altri. Il confronto Italia – Usa sul post graffiti proposto, può apparire ambizioso, ma mentre nel momento storico costitutivo della Graffiti e Street Art, gli archetipi e protagonisti statunitensi divennero riferimento per il mondo intero, nel panorama post graffiti, specialmente italiano, si sviluppano linguaggi espressivi originali, mentre i “ trenta quarantenni “ USA ripercorrono forse strade già tracciate, proponendo interessanti opere di “maniera” che sfociano nella persistenza. Questa è una delle chiavi di lettura possibile della collettiva che propone un confronto non esaustivo tra diversi protagonisti dello scenario contemporaneo, financo di cronaca, scelti con assoluta arbitrarietà dagli organizzatori, consapevoli anche di non rappresentare criticamente l’intero panorama significativo, ma quello meritevole e…che ci piace….. Tag Indelebili post graffiti in Italia ed Usa, sarà anche la prima Mostra in Italia completamente leggibile (taggata)tramite i codici QR (Quick Response Code) che sono gli eredi intelligenti del codice a barre. Si tratta concretamente di piccoli quadrati, associati alle singole opere, composti da puntini e linee che a occhio nudo non significano nulla, ma catturati dall’obiettivo di un cellulare collegato ad internet, e provvisto di un software adatto, gratuito e veloce da scaricare, svelano tantissime informazioni sulle opere a cui sono associate e sugli autori. Il valore aggiunto del Qr Code sta proprio nel permettere un passaggio immediato di informazioni in un’ottica “customer friendly”, il che significa con facilità, in tempo reale e gratuitamente. In un contesto di una mostra d’arte dove è prevista una forte affluenza di visitatori, anche internazionali, questo servizio, in modo semplice ed autonomo, offre la possibilità di acquisire informazioni utili ed interessanti, in modalità multilingue.
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...Scrivono Di Noi... ...They Write about Us...
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Scrivere ovunque Scrivere (L’origine di facebook) di Giovanni Pintori
Com’è ampiamente noto la letteratura sul fenomeno del graffitismo o, per meglio dire del graffiti writing è talmente vasta che risulta difficile aggiungere qualcosa a ciò che è stato fin troppo abbondantemente detto e scritto. Dai primi esempi che collocherei alla fine degli anni sessanta nelle esperienze svolte a Filadelfia e subito dopo a New York è emersa una differenza linguistica piuttosto forte da quella pratica, che ha tutta un’altra storia, che è dei cosiddetti murales. L’uomo, comunque (e ciò va detto), fin dai tempi remoti di Altamira ha sempre sentito la necessità di tracciare segni e storie nelle superfici della terra e trovo suggestiva persino un’attribuzione di graffitismo in senso lato alle diverse esperienze della land art e non solo. Posso quindi in questa occasione, ed in questa mia necessariamente breve testimonianza, ristringere il campo all’epoca in cui questa pratica è stata condotta al punto di divenire diffusa nell’intero pianeta. Gli anni ottanta. Ho incontrato casualmente Francesca Alinovi nella galleria di Ileana Sonnabend nel mitico 420 di West Broadway, erano i primi anni di quel decennio, gli anni di Soho, certamente verso la fine di ottobre quando la grande mela dichiara i suoi programmi, svela i suoi progetti nelle calde sere in cui l’indian summer riscalda la città e noi, allora ahimè giovani artisti non potevamo mancare di esserci. Guardando i muri parlanti di quella irripetibile New York mi ricordo mi colpirono le blak schadol di Richard Ambledon abbandonate come corpi inerti all’est village. Sono sicuro che Francesca sia stata la prima a capire il forte senso artistico del graffitismo. Mi aveva in quell’occasione invitato ad una mostra che stava allestendo in un ex cinema del Bronx e mi parlava con l’entusiasmo che la caratterizzava di un certo One e di un certo Rammellzee poi di Keith Haring del quale peraltro avevo già sentito parlare da John Giorno e che nel corso della sua breve esistenza ho incontrato varie volte alla Kunst messe di Basilea (dove tra uno stand e l’altro cercava di vendere i suoi radiosi quanto
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radioattivi disegni per 100 dollari) e alla biennale di Venezia nel corso di una sua installazione che eseguiva portando sulla spalla sinistra un enorme radio che diffondeva incessantemente musica rap. Gli altri li ho conosciuti a Bologna in un’indimenticabile mostra che l’Alinovi aveva allestito nella vecchia ma indimenticabile GAM (non credo che l’attuale MAMbo possa, almeno per ora, vantare lo stesso luminoso destino) Insomma, Francesca aveva quella che si chiama “una marcia in più”: Allieva di Renato Barilli, ha prima di altri capito che la militanza critica non divide l’arte dalla vita. E di questo credo sia morta. Ricordo l’orgoglio che sprigionava dai suoi sensi quando al museo arrivò il mestichiere con una gigantesca scorta di bombolette spray che illumino gli occhi increduli dei numerosi graffitisti presenti. A New York da tempo li avevano proibiti e tolti dal mercato. Nel corso degli anni in ogni mio viaggio ho potuto, come tutti noi, vedere lo sviluppo planetario di quest’arte (Inghilterra esclusa. Lì la censura è stata precoce) ma persino in Asia il fenomeno è dilagato. Da parte mia devo ammettere che, come artista, non ho mai sposato questa dimensione che invece mi limitavo ad osservare con attenzione. Il mio limite è sempre stato quello di rifuggire gli aspetti sociologici del fare artistico e nel graffitismo questa dimensione è alla base, sebbene coniugata alla soggettiva presenza dell’individualismo delle tag e delle crew calate e colate come stimmate sui muri del mondo. Un esempio (fra i tanti) italiano di grande efficacia è certamente rappresentato dal lavoro randagio della coppia Cuoghi Corsello i quali nei muri dimenticati delle stazioni hanno insistentemente tracciato segni di papere perplesse di cui lo stesso Luca Beatrice in una sua antica ma efficace recensione ha scritto “ormai il simbolo di Bologna non è più il Nettuno del Giambolologna…..) Giovanni Pintori (30 novembre 2011)
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Graffiti & Post-Graffiti. Fermo immagine su un fenomeno artistico.
Fig. 1 - Eadweard Muybridge, Cavallo in movimento, 1878, Washington, Library of Congress, Prints and Photographs Division.
Le fotografie di Eadweard Muybridge rappresentano una delle tappe più conosciute del progressivo affermarsi del fermo immagine nella cultura visiva contemporanea1. Il Cavallo in movimento, una serie di 24 fotografie di un cavallo in corsa scattate nel 1878 (fig. 1), venne realizzata per capire in quale posizione i cavalli si staccavano da terra durante il galoppo. La sua cronofotografia confermò che le loro zampe non erano tutte sollevate da terra nel momento di massima estensione ed obbligò gli artisti a modificare il modo con il quale, fino ad allora, avevano rappresentato la corsa di questi animali (fig. 2). Da Muybridge in poi, lo sguardo contemporaneo ha scoperto e si è abituato alle possibilità offerte dal fermo immagine. L’istante passato è diventato un elemento del momento presente. Deve essere osservato a freddo, valutato e giudicato con oggettività, per porre rimedio agli errori compiuti da ogni uomo nel proprio presente. L’esempio più noto è probabilmente quello degli arbitraggi sportivi che vengono sottoposti al vaglio della moviola, anche quando – come nel calcio – la sentenza sportiva non può comunque essere modificata. Le ragioni del successo dei graffiti sono numerose, ma, tra le tante, vorrei qui concentrarmi sul suo essere un’immagine sfuggente al fermo immagine, perché i graffiti fanno parte dello sfondo visivo che ci accompagna mentre ci spostiamo all’interno di spazi urbani. Una delle possibili chiavi di lettura per capire cosa distingue il graffiti dal post-graffiti è l’analisi di come questo carattere originario si è progressivamente perso. 1
Marta Braun, Eadweard Muybridge, London, Reaction Books, 2010.
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Fig. 2 – Théodore Géricault, Il derby di Epsom, 1821, Parigi, Museo del Louvre.
Nati a ridosso delle arterie di scorrimento negli anni ’70, i graffiti hanno legato per più di un decennio il loro destino agli spostamenti urbani. L’immagine che lasciavano nella retina era ed è rimasta effimera ed imperfetta fino all’apparizione di alcuni libri che, nel tentativo di censire questa produzione, pubblicarono fotografie di vagoni di metropolitane e di facciate di edifici situati in gran parte nelle periferie delle grandi città. Tra questi, Subway Art, pubblicato da Martha Cooper e Henry Chalfant nel 19842, è sicuramente uno dei più importanti (fig. 3). In poco più di dieci anni, dalla metà degli anni ’80 alla fine degli anni ’90, libri come Subway Art hanno rivoluzionato il mondo dei graffiti, mettendo a disposizione dei writers, di ogni dove e di ogni età, dei repertori formali da consultare per conoscere gli stili elaborati in altre città. Inventarsi ed aggiornare il proprio stile richiedeva ormai un passaggio ulteriore. Affidarsi alle impressioni raccolte dal proprio occhio, mentre il vagone della metropolitana passava veloce davanti ai graffiti non era più sufficiente. Uno studio metodico effettuato a partire da immagini statiche doveva ormai essere affiancato a questa prima fase. Pur rimanendo un’arte di strada, il graffiti si stava sedentarizzando. Le conseguenze di questa evoluzione non tardarono a manifestarsi. La possibilità di confrontarsi ad un vasto repertorio figurativo incoraggiò la ricerca di nuove soluzioni formali e di nuovi stili. Al tempo stesso, l’interesse del mercato dell’arte e di alcuni galleristi per il graffiti permise ad alcuni writers di scoprire la superficie della tela e lo studio, dove si poteva dipingere senza fretta, perché non era più necessario finire il pezzo di corsa per evitare di essere arrestati. Nel giro di pochi anni, le tecniche si impreziosirono. Nuovi colori e nuovi tappi per ottenere degli spruzzi di diametro variabile fecero la loro comparsa ed incoraggiarono a loro volta la ricerca di forme e di stili sempre più raffinati. Il fermo immagine fotografico iniziava a dare i suoi frutti anche nel mondo dei graffiti. Oggi, il post graffiti vive e si nutre quasi solo di fermi immagine. Internet è la sua nuova casa dove ogni giorno centinaia di street artists di tutto il mondo pubblicano le fotografie delle loro 2
Martha Cooper – Henry Chalfant, Subway Art, London, Thames and Hudson, New York, Henry Holt, 1984.
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Fig. 3 – La copertina del libro di Martha Cooper e Henry Chalfant, Subway Art.
nuove opere. In questo nuovo contesto, una delle principali novità è la diversificazione degli stili. Forse è anche per questo che si è sentita l’esigenza di chiamarli in modo diverso rispetto al passato. Il termine di post-graffiti fa riferimento ad un bacino formale nel quale sono percepibili dei legami con i graffiti degli anni ’70, ’80 e ’90. Negli ultimi anni molti hanno pero’ ricorso al termine urban art perchè considerano che restituisca meglio i caratteri stilistici della produzione contemporanea. I motivi per i quali oggi più stili e più modi di intendere il graffiti coesistono sono diversi. Da un lato, più generazioni di street artists si trovano per la prima volta a lavorare una a fianco all’altra. Ognuna di esse tende a identificarsi con una propria scala di valori e di forme e questo già in parte spiega il moltiplicarsi degli stili. Dall’altro, i percorsi artistici diventano sempre più ibridi. Si parte dal graffiti per interessarsi alla pittura, alla scultura, al design, all’illustrazione, alla videoarte ed alla calligrafia, ma il graffiti può anche essere il punto di arrivo di un’artista che ha seguito un percorso di formazione accademico. Nei fatti, le frontiere di quest’universo creativo sono oggi molto più porose di quelle di un tempo e questo processo facilita l’emergere di nuovi stili e di nuovi modi
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TAG INDELEBILI di intendere il graffiti. Una delle conseguenze di questa tendenza è che, in Europa e più specificatamente in Italia, ispirarsi alle forme del graffiti americano è oggi ancora meno necessario di ieri. Il modello americano non è più l’unico riferimento possibile ed è forse anche questa la ragione per la quale il direttore del MOCA di Los Angeles, Jeffrey Deitch, ha invitato relativamente pochi artisti non-americani alla mostra Art in the streets nel 20113. La street art europea e quella italiana hanno acquisito una propria autonomia ed oggi sono sempre meno assimilabili a quella americana. Se il graffiti nasce e si sviluppa quindi negli Stati Uniti per imporre il proprio modello su scala planetaria, il post-graffiti nasce e si sviluppa in un mondo globale, perché vive e si diffonde via internet. La rete è il luogo dove si cercano nuovi modelli a cui ispirarsi e dove si pubblicano le fotografie dei propri lavori.
Fig. 4 – Una facciata di un palazzo di São Paulo ricoperta di pixação.
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Jeffrey Deitch (dir.), Art in the streets, Los Angeles, Museum Of Contemporary Art, 2011, New York-Los Angeles, Skira-MOCA, 2011.
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TAG INDELEBILI Nelle sue forme attuali, il post-graffiti può quindi essere inteso come il risultato di un processo che, per quasi trent’anni, ha sottomesso il graffiti alle logiche del fermo immagine. Le conseguenze positive di questo fenomeno sono oggi sotto gli occhi di tutti, a partire dalla varietà di forme e di stili del graffiti contemporaneo. Questa diversificazione è stata favorizzata anche dal numero crescente di città dove il graffiti americano è stato modificato ed adattato alle esigenze locali, fino quasi a perdere ogni legame con il modello originario, come nel caso dei pixação brasiliani (fig. 4). Ma è anche in questo contesto dove più epicentri hanno preso il posto del solo epicentro americano che stanno nascendo le prime forme di ribellione all’influenza esercitata dal fermo immagine sul graffiti. Tra i tanti esempi possibili, tre più degli altri meritano di essere menzionati. Il primo concerne la tendenza attuale a sviluppare progetti di georeferenziamento dei graffiti, per permettere a chiunque, dopo averli trovati su internet, di vederli dal vero. Street Art View4, finanziato dalla Red Bull, e Mural Locator5 sono forse gli esempi più conosciuti. Ad oggi, nessuno ha però notato come questi progetti contribuiscano in modo inconscio, ad attenuare gli effetti del fermo immagine sul graffiti, perché permettono a chiunque di andare a vedere l’opera dal vero, senza accontentarsi dell’immagine fissa che campeggia sullo schermo del proprio computer. C’è poi da segnalare il ricorso sempre più frequente al video da parte degli street artists, writers compresi. Se fino a qualche anno fa’ realizzare un filmato richiedeva videocamere costose, oggi qualsiasi fotocamera permette di ottenere dei video in formato HD, che possono essere uploadati in rete su uno dei tanti siti sui quali è possibile stoccare a costo zero questo tipo di materiali. Una delle principali conseguenze di questo fenomeno è la metamorfosi del graffiti in una sorta di performance. Quello che importa è esclusivamente l’operazione stessa di realizzazione del graffiti che, filmata e montata, viene messa in rete. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte all’abbandono di un’unica immagine statica a favore di un flusso ininterrotto di immagini. Infine, merita di essere notato il rafforzarsi di una tendenza che mira alla disgregazione dell’universo formale dei graffiti. Lo svedese NUG6 (fig. 5) ed il francese Kidult7 (fig. 6), sono forse tra i rappresentanti più conosciuti di questo nuovo filone che si pone al di fuori di ogni genere e sottogenere con il solo ed apparente scopo di riportare il graffiti al suo grado zero. Ancora una volta, è possibile riconoscere nel rifiuto della scelta di uno dei tanti stili del post-graffiti una sorta di malessere rispetto al controllo che il fermo immagine esercita su questa forma di arte. Di fronte all’abbondanza di forme, si opta per una non-forma, come per ricordare che quel che conta in arte sono anche i contenuti e non solo la qualità dell’apparato che riveste questi ultimi.
Christian Omodeo Parigi, dicembre 2011
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<http://streetartview.com>. <http://murallocator.org>. NUG, The concept is fuck you, yes you, 2011, <http://vimeo.com/25881419W>. Kidult, Illegal world, 2011, <http://vimeo.com/29159202>.
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Fig. 5 – L’intervento di NUG al Fame Festival di Grottaglie, giugno-luglio 2011.
6 – L’attacco di Kidult al negozio di Agnès B a Parigi nel febbraio 2011.
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PostGraffiti di Valeria Petrini
Il XXI secolo, un'epoca della continua evoluzione e movimento, è caratterizzato da una moltitudine di scene urbane che dialogano tra loro, a volte non comprendendosi, stridendo in giardini cementizi popolati da un'incredibile fauna multi-culturale. Alla base della modernità vi è una crescita tecnologica accompagnata dallo sviluppo dell'industria e dal capitalismo; elementi associati normalmente a fattori come il disagio psicologico e il mutamento sociale. Nella post-modernità, oltre al fenomeno della globalizzazione, stiamo assistendo anche a quello del degrado urbano che porta con sé le tracce della rivoluzione industriale. Si tratta di un processo mediante il quale una parte, o addirittura un’intera città, cade in uno stato di rovina. Durante il corso di vita di un centro abitato, alcuni eventi fanno in modo che diverse sue zone restino abbandonate, sotto gli occhi noncuranti delle istituzioni, le quali non provvedono a fornire un’adeguata manutenzione delle strutture di queste aree, lasciandole andare alla deriva. Sulle spoglie delle superfici verticali, i muri che disvelano spesse volte la materia che li edifica, prendono forma espressioni culturali di un disagio, che sono lo specchio di una civiltà viva e brulicante. Tra queste possiamo distinguere principalmente due movimenti artistici, entrambi espressione di un malessere sociale: la Street Art e la Graffiti Art (detta anche "Post-Graffiti Art"). Queste, anche se aventi origini differenti, dialogano e si fondono spesso tra loro.
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TAG INDELEBILI “Street Art" è la definizione comunemente utilizzata per inquadrare tutte le manifestazioni artistiche compiute in spazi pubblici, si riferisce ad un tipo di arte alternativa, opposta alle iniziative sponsorizzare dal governo. Il concetto è facilmente riconducibile all'idea di performance nata negli anni settanta, con l'aggiunta del tentativo di proporre un'opera duratura, che non sia ufficiale né richiesta. Sorge come un piccolo movimento underground iniziato nel 1980, fu una risposta alla percepita sottrazione dello spazio pubblico da parte degli interessi commerciali, all’avvertita banalità di molti pezzi d’arte autorizzati al pubblico e alla mancanza di opportunità, per gli artisti, di ottenere le autorizzazioni nell' organizzare esposizioni. Le motivazioni e gli obiettivi che guidano questi artisti sono così varie quanto le loro personalità. Esiste una forte corrente attivista e sovversiva nell’arte urbana, potente piattaforma per il raggiungimento del pubblico. Alcuni si occupano di esteriorizzare tematiche di critica spesso riguardanti abusi, soprusi e altri problemi culturali, l’abolizione della proprietà privata e la bonificazione delle strade; altri più semplicemente vedono le città come luogo di sperimentazione, in modo da essere apprezzati attraverso i cambiamenti e i rischi associati alle istallazioni illecite dei loro lavori. In tutti i casi, il tema universale che accomuna tutta la Street Art è quello di adattare le opere prodotte ad una forma che utilizza lo spazio collettivo, permettendo agli artisti che si sentono privi della libertà di espressione, di raggiungere un pubblico molto più vasto rispetto a quello di una tradizionale galleria d’arte. Nella sua essenza, connota una decentralizzazione, una forma democratica di accesso universale e il controllo reale sui messaggi di produzione sociale. È un barometro che registra lo spettro di pensiero, creando una storia all’interno delle diverse comunità. Aiuta così a capire i conflitti tra lo stato e la società, diventando un mezzo per analizzare e descrivere l’evoluzione culturale di un Paese. Il suo obiettivo è quello di mettere in evidenza un’idea attraverso immagini di “impatto”. Per questo motivo i lavori sono studiati per semplificarne la comunicazione, sintetizzando idee attraverso precisi messaggi. A tal fine, l’uso di slogan o cartoon realistici, è spesso impiegato per facilitare la comprensione del pubblico. I temi di natura politica, sociale, economica o culturale, sono adattati per riflettere i problemi o illustrare le caratteristiche appartenenti ad un contesto specifico.
Per "Post-Graffiti Art" si intende tutte quelle forme d'arte di strada che rappresentano l'evoluzione del "Graffitismo", basate sull'uso di lettere stilizzate e di tecniche simili a quelle della grafica e della tipografia. La sua storia risale al "Writing" Americano degli anni '60 e '70 nato per mano di artisti quali Taki183, Julio204, Cat161 e Cornbread, i quali iniziarono a dipingere i loro nomi sui muri o all’interno della metropolitana.
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TAG INDELEBILI L’unico obiettivo dei primi writers era di acquistare popolarità. Quelli da loro dipinti non erano mai nomi di battesimo, ma quasi sempre soprannomi (nomi d’arte), seguiti dal numero della strada. Era nato il fenomeno delle Tags, ovvero l'utilizzare un nome in codice da parte di writers, mc (rapper) e breakers, per distinguersi tra loro. Il 21 luglio del 1971 si assistette alla prima apparizione dei graffiti sulla scena dei media: il New York Times pubblicò un articolo intitolato “Taki183 spawns pen pals” (Taki183 genera compagni di penna). L’articolo produsse subito effetti evidenti e dopo brevissimo tempo il numero dei writers raddoppiò. Gli anni '70 furono caratterizzati dall'evoluzione di differenti stili, mediante i quali le semplici tag crescevano di dimensioni, e dall’invenzione di nuove forme e tecniche per acquisire maggiore visibilità e originalità. In questo periodo si realizzò una saldatura sempre più stretta tra il graffitismo e la cultura urbana dell’Hip-Hop. A partire dal 1972 la municipalità di New York propose le sue prime iniziative anti graffiti con una campagna di pulitura massiccia di tutti i vagoni della metropolitana, scatenando una vera e propria lotta contro questo fenomeno, tutt'oggi non conclusa. Ma il gusto del rischio di un eventuale scontro con le autorità non fu altro che un ulteriore stimolo per alimentare le scritte illegali. Parallelamente emersero i primi tentativi di considerare i graffiti come fenomeno strettamente artistico. Hugo Martinez, uno specialista di sociologia del City College di New York, attratto dalla novità del linguaggio del writing, contattò alcuni artisti, e assieme a loro fondò la “United Graffiti Artist” (UGA), con lo scopo di incanalare l’arte di strada in uno studio. Il New York Times pubblicò numerosi articoli stendendo una lista: la “Graffiti Hit Parade” con le foto dei masterpieces ritenuti più raffinati e più belli. Nel 1974 venne pubblicato il volume “The Faith of Graffiti”, con fotografie a colori e un testo di Norman Mailer, che fu tra i primi a mettere in luce il carattere profondamente sovversivo, dal punto di vista culturale, del fenomeno. Il fenomeno del Graffiti Writing contribuì a creare un'identità comune in questi giovani che vedevano la città come spazio di vita e allo stesso tempo di espressione. Il riflesso di questa cultura "urbana" ha generato oggi un imponente fenomeno commerciale e sociale, rivoluzionando il mondo della musica, della danza, dell'abbigliamento e del design. Alla fine degli anni '70 iniziarono a farsi luce personalità come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat che entrarono a far parte a pieno titolo del circuito dell’arte internazionale. In particolare, Jean-Michel Basquiat, assieme al suo amico graffitista, Al Diaz, aveva iniziato a tracciare i suoi strani, bizzarri e spiazzanti aforismi, siglati con la criptica firma SAMO, che si diceva volesse dire “Same Old Shit” (sempre la solita merda).
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TAG INDELEBILI Keith Haring ne era un fan perché, proprio come lui, Samo usava i muri della città per esprimersi senza per questo avere null’altro in comune con i graffitisti. Si stava assistendo per la prima volta alla nascita di un “graffito letterario”, attraverso il quale Basquiat esprimeva aforismi, frasi spiazzanti e intrecci densi di segni e simboli. Era il segno di un mutamento in atto nella prassi di alcuni artisti di strada; la radicalità ideologica cominciò a essere contaminata da elementi post-pop, da citazioni, da continui e ripetuti richiami ad altri linguaggi e ad altre forme culturali. Durante gli anni ’90 il graffitismo dopo essere sbarcato in Europa si divulgò velocemente negli altri continenti, grazie anche all’influenza di nuove culture quali lo skateboarding e il punk, diffondendosi sempre di più e diventando un fenomeno di massa. I writer che scelgono di esprimersi per lo più in spazi a loro dedicati, attraverso la scelta consapevole e responsabile del supporto per la pittura, si distinguono da quelli che intervengono anche su edifici di interesse storico e artistico. “Il vandalo è colui che imbratta senza sapere ciò che sta facendo... Il writer è un vandalo con creatività, gusto estetico, rispetto per l'arte e consapevolezza di ciò che sta facendo.”(Eron) Il Writing, esploso ormai a livello mondiale, si evolse in forme stilisticamente sempre più raffinate e diventò presto terreno di conquista per le grandi major della moda e della pubblicità, per i manager commerciali e per il mondo della grafica e del design. Il suo linguaggio diventò così parte integrante dell’estetica diffusa del post-modernismo. Oggi quindi numerosi personaggi, integrati nel sistema convenzionale del mercato dell'arte, traggono il loro valore da esperienze precedenti spesso formalmente illegali.
Il Post-Graffiti è l'evoluzione del Writing. Esso utilizza le tecniche abituali dei graffiti, mischiate a nuovi stili di creazione, e allo stesso tempo si serve dell' esperienza sperimentale della Street Art, dell'arte murale, della grafica e della tipografia per sviluppare nuove tendenze. Questa corrente artistica è molto vasta e raggruppa innumerevoli stili che vanno dal semplice spry bombing alla realizzazione di opere più complesse nello stile e nella forma. Tra i suoi protagonisti possiamo distinguere personalità come quelle di Daniele Falanga, Flick Yoli, il gruppo SOSIC Soho Street Ink, KayOne, LA2 Little Angel Ortiz, Mambo, Rae Martini, Filippo Minelli, Mr. Wany, Paul Kostabi, TMNK Nobody, Unikprodukt e Verbo.
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Valeria Petrini
Valeria Petrini nasce a S. Giovanni Rotondo nel 1985 e vive a Foggia fino all'età di diciannove anni. Terminato il liceo scientifico si trasferisce a Roma ottenendo la laurea triennale in Disegno Industriale nel 2008. Si reca quindi a Venezia per frequentare il corso di laurea specialistica in Design, Comunicazioni Visive e Multimediali allo IUAV. Da sempre amante di viaggi, nuove esperienze e confronti, nel 2009 trascorre nove mesi in erasmus all'Accademia delle Belle Arti di Nantes. Ottiene la laurea magistrale nel 2010. Nel 2006 riceve una menzione speciale 4° posto al concorso internazionale "Metro dopo Metro" per la progettazione di una banchina della metro, in collaborazione con Paola Schiattarella. Nel 2009 realizza, con l'aiuto di Andrea Mattiello, una proiezione video di interpretazione sulle tavole futuriste all'entrata della 53° mostra d'Arte Biennale Futurista a Venezia. Nel 2010 si occupa del restyling e della creazione del sito della Comité des oeuvres sociales C.O.S. (Comunità delle Opere Sociali) della città di Nantes. Alla fine dello stesso anno sviluppa una ricerca sul fenomeno della Street Art e del Graffiti Writing, accompagnata da un reportage di foto effettuato tra le strade di Roma, Venezia, Milano, Nantes e Parigi. All'inizio del 2011 si trasferisce a Parigi, dove collabora saltuariamente con una casa discografica, partecipa ad un'esposizione di Street Art e si dedica alla realizzazione di video per un'emissione televisiva prodotta da Canal+ in collaborazione con la giornalista Hayley Edmonds. Ha come interessi principali: lo sviluppo delle campagne di comunicazione visiva sia sociale che non convenzionale; la realizzazione di video; lo studio di spazi allestitivi degli eventi e il relativo impatto sullo spettatore; il disegno e la fotografia.
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TAG indelebili : post-graffiti in Italia ed USA di Luca Sforzini
Era il dicembre 1983 quando la Sidney Janis Gallery tenne a New York la sua POSTGRAFFITI Exhibit (con opere di Haring, Basquiat, Crash, Lady Pink ed altri). Janis mise l’accento sulla valenza artistica del movimento, ponendo quindi in secondo piano gli “effetti collaterali” tacciati di vandalismo; la critica Grace Glueck sul New York Times vi rilevò l’annuncio della morte dei Graffiti nel passaggio dai muri e dai treni della Metro alla tela ed alle pareti d’una Galleria. Parliamo di ormai 30 anni fa. 30 anni di sopravvivenza, per un soggetto dichiarato cadavere, mi paiono un bel segnale di vitalità. Il graffitismo se n’è fatto quindi un baffo del prefisso POST affibbiatogli a New York nel 1983; penso si farà un baffo anche dell’analogo prefisso appioppatogli ora dagli amici del Circolo Artistico di Bologna. Sempre fertile e vitale, il graffitismo - in tutte le sue declinazioni di Street Art - si è già rigenerato molte volte : ad esempio attorno agli anni ’90 quando, partito dai vagoni della Metro e dai muri, cominciò a colonizzare anche cabine del telefono, cassette postali, cartelli stradali. Il nuovo millennio offre ora al movimento il supporto del web : un grande moltiplicatore e al tempo stesso un grande generatore di confusione. Mi spiego : internet è per il graffitismo il muro globale, il vagone della metro globale, la visibilità immediata, mondiale, ed a rischio zero, o quasi. Aggiunge in audience ciò che toglie in ispirazi-
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one e forza creativa generata dall’adrenalina del gesto proibito ai confini della legalità (esperienza comune a tutti i graffitisti doc). Il web tuttavia è anche un grande livellatore, che toglie ogni barriera d’ingresso : vien meno l’essenziale selezione naturale, personale ed artistica, data dalla “palestra” di strada – chiunque può postare su youtube, su facebook, su ebay, su myspace, qualunque cosa dal capolavoro al più dilettantesco scarabocchio. Il leggendario Tracy168 può aver la stessa visibilità di chi ha impugnato la prima bomboletta ieri : e quanti ce ne sono … L’occhio vergine dell’osservatore può così andare facilmente in tilt da overdose di immagini e suggestioni. L’occhio allenato ne trae invece conferma che non ci troviamo di fronte ad un fenomeno storicamente compiuto : è un processo in pieno divenire, in cui alcuni writers della prima ora, passata la soglia dei 40 anni o anche dei 50, si rivelano a volte più vitali, frizzanti e creativi degli attuali ragazzi della loro età quand’erano
TAG INDELEBILI agli esordi. Così succede che RD357 disegni Cope2 su una cartina della Metro di New York con l’ombra di un topo dietro di sé – orrendo sfregio nel codice dei writers , e Cope2 replichi volantinando in metropolitana caricature di RD357 con la parrucca bionda : il tutto condito di irripetibili improperi e minacce postati sul web, a cui concorrono vari protagonisti della Street Art divisi in opposte tifoserie. Ma quale “post”? Due ragazzoni del 1968, uno bianco l’altro nero, che non si “annusano” da sempre, da sempre in “squadre” rivali, e che tutt’ora se le “suonano” di santa ragione regalandoci pagine di Street Art piena, pura, vivacissima. E’ cronaca di queste ultime settimane : ne è nata la “Cope2/RD357 Hate Collection” che prossimamente esporrò al pubblico. Ma veniamo alla seconda suggestione suggerita dagli amici del Circolo Artistico di Bologna : il confronto USA/Italia. Segui la voglia di emergere autentica, cerca la “fame”, e troverai l’Arte. E’ una regola, con rare eccezioni, sempre valida – ma ancor più valida per la Street Art. I graffiti sono Arte da outsiders, che si “vendica” rendendo outsider di quell’Arte chi ha il sedere troppo al caldo : è una nemesi storico/artistica. Mi chiedo : quanta “fame” c’è in Italia? Quanta, se comparata a quella che ancora troviamo negli USA, ma anche in Africa, in Iran, nei Paesi toccati dalla cosiddetta “Primavera araba”? E’ una domanda a cui non voglio, per ora, dar risposta. Mi piace concludere con le parole di M. Maeterlinck : "Strano come, appena pronunciata, una cosa perde il suo valore. Crediamo d’essere scesi sul fondo dell’abisso, ma quando risaliamo , le
gocce rimaste sulle pallide punte delle nostre dita, non hanno più nulla del mare da cui provengono. Crediamo d’aver scoperto una fossa piena di tesori meravigliosi, ma, quando risaliamo alla luce, ci accorgiamo di avere con noi solo pietre false e frammenti di vetro. Nella tenebra intanto, il tesoro continua a brillare, inalterato". A quel tesoro che continua a brillare inalterato negli sketchbooks di migliaia di ragazzi, e di uomini, in giro per il Mondo, la sfida, l’opportunità unica nella vita di un Gallerista, e di un appassionato d’arte prima ancora, è poter contribuire a trovare la giusta collocazione - che ancora non è data incontestabilmente. Sia essa negli album di foto ingiallite nel cassetto d’una casa di New York, o in un malinconico post su twitter, o alle pareti d’un Museo. Le meritano molti più di quanti già vi siano. Luca Sforzini
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Writing 2011 di Marco Corallo
Ci sono decine di definizioni di writing e dei suoi attori, i writer, che si sono sviluppate nel corso dell’ ultimo ventennio, da quando il writing ha fatto la sua comparsa sulla scena italiana recuperando tutto il sapore di libertà e di New York che questa forma espressiva porta con se. Ho conosciuto il writing circa 15 anni fa, quando alcuni amici mi hanno coinvolto nelle loro performance che, ai tempi, erano molto lontane dall’essere quello che oggi è un vero e proprio mondo delineato da regole flessibili e spazi che sono occupabili da chiunque. È questo il fascino che il writing esercita sui ragazzi, giovani e non: è un’arte accessibile e immediata, con le caratteristiche per trasformare un semplice muro in un campione di espressione e di significati, che spesso sono oscuri ai più. Per questo, nel ventennio passato, il writing è stato al centro di discussioni variegate: arte o vandalismo? Movimento politico o subculture di postmillenio? Qualunque sia la definizione che si vuole accogliere e qualsiasi sia il modo in cui si vuole approcciare questa forma espressiva, quello che è certo è che è stata ed è oggi fortemente transazionale al mondo mainstream dal quale prende e a cui dà valore. Il writing passa da un primo status di vandalismo puro e semplice a mezzo con cui una subcultura giovanile in crescita e forte fermento si esprime.
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TAG INDELEBILI Presto invade, attraverso il rap e la breakdance, il mondo reale, legale, il mondo riconosciuto da tutti come quello in cui le cose si fanno così, o non si fanno. Ma il writing spezza questa dicotomia attraverso personaggi controversi che nascono con il movimento, lo trascinano e presto passano al jet set, al mondo dove si fa la grana vera. Il mondo rifiutato e denigrato fino a poco prima ora viene accolto, cantato, dipinto a gran voce dalla cultura che si muove. Le major si fanno furbe, capiscono il potenziale del movimento e iniziano a servirsene a “man bassa”, i comuni organizzano mostre, concedono spazi, pubblicizzano jam in centri sociali che sembrano sempre più spesso discoteche. I ragazzi ci stanno, cedono, passano dall’altra parte della staccionata e cominciano a produrre per tutto quello che chiamavano sbagliato, si firmano scarpe multinazionali, si cede la TAG alla tv. Il writing sembra essere assorbito in un sistema nuovo che lo vuole cambiare, educare, dividere. Ma è a questo punto che succede quello che pochi si immaginavano, arriva la nuova scuola; rabbiosa, violenta, decisa a prendere solo la faccia della medaglia che torna utile. La nuova scuola “spacca di brutto” dicono i ragazzi che ne fanno parte…la vecchia scuola “era stilosa” dicono i writer ormai sulla quarantina, ma nel frattempo i ragazzi si sono fatti furbi, hanno capito che si può cavalcare l’onda, va solo cambiata la tavola. Ed ecco arrivare i rapper commerciali, non migliori o peggiori da quelli dei primi anni 90, solo diversi. Sembrano privi di ideali, ma hanno capito il trucco e ci stanno navigando sopra, dentro, attorno. Usano la società ufficiale che li vuole usare, se ne impadroniscono nei pezzi, sui muri, nella frattura netta fra una vecchia scuola che voleva uscire dal ghetto attraverso masterpiece lontani dalle tag e una nuova scuola che invece fa delle tag, colate, droppate, lunghe, enormi, il suo punto di forza. Migliora la visione, migliora la tecnica, il mainstream c’è dentro fino al collo e allora butta grana sui ragazzi, che la prendono volentieri: aprono le loro aziende di bombolette, di marker, c’è chi si fa la galleria d’arte, chi diventa il calligrafo snob stiloso che però ha le radici nel writing, e non dimentica di farlo vedere. E dove finisce il writing di New York anni 80? Dove finisce l’Athena del nostro movimento? E anche qui l’intelligenza di questo movimento; diventa icona, meta, la Mecca dove andare per cogliere ispirazione, per trovare le radici. Si scelgono le icone, si definiscono i simboli, si continua a discutere sul vero valore del writing, ma una cosa è certa, ormai il movimento ha fatto quello che voleva fare all’inizio con la prima tag scritta sui muri della Mela: è diventato indelebile! Marco Corallo
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COSA SCRIVI? di Jacob Kimvall
“Ti ho visto lavorare qui intorno e voglio solo scoprire quello che stai filmando”. “Stiamo facendo un film sui graffiti della metropolitana di New York”.
graffiti abita in questa zona. Lui scrive Seen.” L’uomo comincia piegando leggermente la testa, come a voler allungare l’orecchio verso l’altro, come se non avesse sentito abbastanza: “Cos’è?” “S-E-E-N”. L’uomo a porre questa domanda è esile e di “E’ il suo nome?”. pelle chiara. I suoi capelli bianchi, che tendono “Sì, è quello che scrive”. a diradarsi su di un’ampia fronte, sono separati “O è un nom de plume?”. da una riga ben marcata. Una canottiera si in- “Sì, è un nom de plume”. travede sotto la maglietta bianca e porta una cravatta rossa annodata in modo impeccabile. E’ anziano, ma trasmette un’energia vitale, ed i suoi occhi, dietro a degli occhiali marroni di corno, interrogano il passante con uno sguardo per nulla spiacevole o minaccioso. “Perchè hai scelto questo quartiere particolare?“ chiede, guarFoto 1: Seen davanti ad una sua opera esposta alla mostra Seen City a Parigi nel 2007
dando prima a destra e poi a sinistra, prima di continuare: “Cosa c’è di particolare? Ci sono più graffiti qui che in altri luoghi. Spero di no...”. “Siamo qui perchè uno dei più bravi writers di
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“Vedo”. L’uomo annuisce leggermente, sposta la testa a destra e distoglie lo sguardo sembrando, allo stesso tempo, soddisfatto e pensieroso, poi si
TAG INDELEBILI per proteggere la loro reputazione. Volevano ottenere maggiore libertà artistica ed evitare di confrontarsi con le severe restrizione sessuali in vigore, col rischio di essere valutate secondo standard meno elevati. Più una società è repressiva, tanto più è probabile che i suoi artisti ricorrano ad uno pseuFoto 2: La copertina del DVD di Style Wars riedito nel 2003
gira di nuovo. “Non mi vorresti dire il suo vero nome?” “No” “Perchè no? Perchè avrebbe dei guai o perchè ne sarebbe esaltato?” La scena appena descritta è uno dei momenti chiave del film documentario del 1982 Style Wars1. E’ una presentazione efficace e magistrale di uno dei personaggi principali del film, Seen, il writer del Bronx e, molto probabilmente, è stata filmata per caso durante le riprese. La scena si riferisce a due aspetti importanti ed al tempo stesso complessi del graffitismo. Prima di tutto quello del tag come pseudonimo, o “nom de plume”, per usare l’espressione che impiega l’anziano ben educato e con le idee chiare. L’espressione deriva dal francese. Letteralmente significa “nome di penna” ed indica un autore che cela la propria identità dietro ad un nome costruito. E’ un nome che rappresenta solo la penna che scrive il testo. Le ragioni per cui i writers usano noms de plume sono varie: artistiche, commerciali, correlate alla carriera e così via. Durante l’800, molte scrittrici polemiste (in inglese il termine usato è writers) pubblicarono libelli firmandosi con nomi maschili
donimo. A volte, questo stratagemma si limita al vano tentativo di mantenere segreta la propria identità. Stendhal è il più famoso di molti noms de plume usati dall’autore francesce Marie-Henri Beyle (1783-1842). Si dice che l’unica autorità ad avere una vera visione d’insieme degli scritti di Beyle, al momento della sua morte, fosse la polizia che, assiduamente e con un forte senso dello stile letterario, gestiva un registro di tutte le sue opere pubblicate con tutti gli pseudonomi da lui utilizzati. Che il writer lavori sotto falso nome può sembrare una cosa evidente, qualcosa di così ovvio da non dover necessariamente esplicitare. Da quando la maggior parte dei writers hanno scelto o sono stati costretti a lavorare illegalmente è, se non altro, una semplice questione di necessità. Tuttavia, il nome di un writer è qualcosa di diverso da un nom de plume. Il tag (nel senso di
1 Style Wars può essere visto online all’indirizzo <http://vimeo. com/941073>.
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Foto 3: Martha Cooper, Dondi. Children of the Grave Part 3
in fretta a non andare in giro a chiedere a alter ego o del nome del writer) è il motivo più chiunque e senza remore quello che scrive. Si ricorrente nelle tre espressioni del graffitismo: tratta di qualcosa di delicato nel rapporto fra tags (nel senso di scrittura calligrafica di parole), due writers. E’ meglio ”incontrarsi” con un centhrow-ups e quadri. no del capo per riconoscersi o per segnalare il proprio apprezzamento, piuttosto che chiedere E’ questo il secondo aspetto che diventa evi”Cosa scrivi?”. dente nel dialogo tratto da Style Wars riportato Perché il tag, il nom de plume del writer, non è più sopra. Il regista non dice che il nome di Seen né uno pseudonimo è Seen, ma che lui scrive Seen. Lo ripete anche né un qualcosa di una seconda volta, quando l’anziano chiede se proprietà, ma una sia il suo vero nome. Sì, è quello che scrive, è la via di mezzo. Si risposta. tratta di qualcosa a Un writer è quello che scrive. Oggi, venti anni metà tra il si è e il dopo, ricordo ancora la mia confusione quansi possiede. Di condo mi chiesero per la prima volta: cosa scrivi? seguenza, è un po’ Mi domandavo cosa intendevano quando mi entrambe le cose, chiedevano qual’era il mio tag. I due ragazzi più ma è soprattutto grandi che mi avevano fatto questa domanda mi qualcosa che si fa: guardavano con indulgenza. Sapevo che qual”Questo è il suo cosa non andava, ma avrei capito solo dopo che nome?”. ”Sì, questo mi ero rivelato come un ragazzino piuttosto inè quello che scgenuo. rivo”. Il termine writer di graf“Cosa scrivi?” è una domanda importante, ma fiti (o solo writer) anche una di quelle alle quali non si risponde denota che scriin maniera tradizionale. E’ una questione di fiduvere non ha a cia e, pertanto, richiede discrezione. Ho imparato che fare solo con
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TAG INDELEBILI l’identità del singolo, ma si intreccia anche con quella di un gruppo di artisti. Durante l’adolescenza, uno dei miei grandi idoli era il writer Dondi. Era in Style Wars, e morì nel 1998 a soli 37 anni. Il suo nome era Donald Joseph White, ma diventerà noto al mondo come Dondi. Era Dondi perché scriveva Dondi. Come molti altri writers alternava diversi tags. Come nel caso di Stendhal, lo pseudonimo che ancora oggi identifica questo scrittore. Se si volessero riassumere i diversi tags di Dondi, sarebbe più o meno così: Dondi si è firmato anche come Naco e Bus 129 e, per un po’, come Asia. Oltre a questi, ne ha utilizzati un’altra dozzina, che sono qualcosa a metà tra temi e nomi. Nom de guerre, un nome di battaglia o il nome di un soldato, è un termine strettamente legato a nom de plume. Yasser Arafat, Che Guevara e Pancho Villa sono tutti comunemente noms de guerre – e letteralmente sono tutti nomi di soldati. Ma c’è una tradizione ulteriore in cui il termine ha un significato più vicino a ciò che sto cercando. L’undicesimo volume dell’enciclopedia svedese Nordisk Familjebok (pubblicata nel 1887) lo
definisce come: ”Il nome assunto occasionalmente ed al posto del proprio da un artista drammatico o lirico per presentarsi al pubblico”. In questa definizione, riconosco in parte la mia esperienza dei tags. Forse lo pseudonimo del writer è in una terra di nessuno tra arti visive, poesia e recitazione. Il writer è quello che scrive, e quello che scrive è spesso sia la performance che il nome con cui appare di fronte al pubblico. È allo stesso tempo un gioco di identità ed un progetto artistico. Il nom de plume del writer non è quindi solo un tentativo di celare l’identità di qualcuno ma una strategia artisticamente produttiva, un concetto implicito ma inespresso e quasi inconscio che crea significato e contenuto nell’arte dei graffiti. Questo è il suo nome perchè è ciò che scrive. Jacob Kimvall
Questo testo è la traduzione italiana di un articolo in lingua inglese pubblicato nel libro di Torkel Sjöstrand, 1207 (Dokument Press, 2007).
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