ALAN JONES - I LINGUAGGI DI GIANFRANCO FARIOLI
ALAN JONES
I LINGUAGGI DI GIANFRANCO FARIOLI
Associazione per le Arti Isa Marianecci
CAVTVS SILET NATATOR PER VNDAS
ALAN JONES Newyorkese, scrittore, critico e curatore di mostre d’arte, è da sempre uno dei massimi conoscitori della scena della Pop Art. È stato tra gli amici personali di Leo Castelli, a lui ha dedicato un libro presentato a Roma nel 2007 presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, il libro “Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America” di Alan Jones (Castelvecchi Editore). Alan Jones è curatore, organizzatore di mostre presso musei e gallerie di primaria importanza: la Fondazione Cartier a Parigi, il Museo Guggenheim a New York, il Walzer Art Center di Minneapolis, il List Center del M.I.T. ad Harvard, Massachusetts, il P.S.1 del Museo d’Arte Moderna di New York, il New Museum, lo Studio Museum di Harlem, e il Museum for African Art.
GIANFRANCO FARIOLI (Gianfarioli) Nato a Milano, il 4 Aprile 1947, ha sempre vissuto fra Milano, Roma e la Sicilia interessandosi a tempo pieno di arte, architettura, design e di fotografia.
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A ugusta M icheli
Progetto grafico:
Matteo Tamburrino
www.echocommunication.eu Collaboratori:
Ilaria Forloni
ilaria@echocommunication.eu Testi:
Alan Jones Alessandra Alliata Nobili Prima Edizione: ottobre 2012 Stampato presso: Stampa Sud S.p.a. - Mottola (Taranto)
Alessandra Alliata Nobili e Yoko Ono allo Studio Miscetti, Roma (foto by Emiliano Zucchini)
MOSTRA A ROMA Lontano da ogni tipo di protagonismo, dagli anni settanta Gianfranco Farioli conduce una riflessione personale e lucida sul legame fra linguaggio e memoria. In sintonia con la personalità di Gianfranco, discreta e tendente per natura all’understatement, il suo operato è un discorso condotto a bassa voce, un ragionamento sul proprio vissuto portato avanti in sordina. Se le sue metodologie operative hanno origine nelle sperimentazioni degli anni settanta, che scardinano gli argini fra pittura, fotografia e design, il vero nucleo concettuale del suo lavoro è la parola scritta, trama visiva delle sue opere. Nelle sue composizioni, griglie di segni calligrafici, ora sovrapposte a scatti fotografici, ora intrecciate in pure astrazioni, si allacciano e si rincorrono accavallandosi, come una cascata di dati criptati. Sono le pagine dei diari e lettere personali che Gianfranco fotografa, fotocopia, manipola e traspone su tela emulsionata, mettendo in atto un processo di stratificazione dell’immagine che si pone come equivalente visivo di una presa di distanza dai propri ricordi. Il significato dei suoi scritti è occultato dai giochi di sovrapposizione e sfasamento delle grafie, da sottili alterazioni della grana e dei contrasti, e da elementi di casualità che intervengono durante l’iter di riproduzione. Quest’autonarrazione senza fine è un esercizio catartico, un modo per oggettivizzare la memoria del passato, che si materializza nei lavori raffinati di Gianfranco Farioli come un campo seducente ed invitante che si concede al nostro sguardo, pur restando misterioso e indecifrabile. Alessandra Alliata Nobili
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Il giardino delle Felci, 100x100 Nemi, 1967
“Sai fare il caffè?” Il giovane aspirante artista è in piedi davanti al pittore. Il ragazzo è stato mandato nello studio del maestro, una chiesa barocca sconsacrata che si affaccia su Piazza del Grillo, da sua madre per avere un’opinione se sia il caso di iscriverlo o no al Liceo Artistico, assecondando la sua ambizione di servire le Muse (proprio come il padre di Igor Stravinsky, che aveva segretamente mostrato ad un esperto le composizioni del figlio per avere una seconda opinione...) “Lì c’è una caffettiera, fammi un caffè”. Solo dopo aver bevuto il suo caffè, il pittore alza lo sguardo sul ragazzo. Poi appoggia la tazza vuota accanto ad un foglio: “Ora disegnala”. Quando il ragazzo ha finito, il pittore esamina il disegno in silenzio. “Puoi iscriverti al Liceo Artistico domani” gli dice. Il maestro era Renato Guttuso, al tempo il maggior esponente italiano del Realismo Sociale e l’aspirante studente era Gianfranco Farioli. “On n’est pas sérieux quand on a quinze ans” scrisse Arthur Rimbaud in una poesia. Constantin Brancusi, quando gli venne chiesta la data di una sua scultura rispose: “Ho eseguito tutti i miei lavori quando avevo quindici anni”. È precisamente a quest’età, che spesso è un importante punto di svolta per l’inizio di una carriera “creativa”, che Gianfranco Farioli ebbe la fortuna di iniziare il suo apprendistato. Questo si svolse in un luogo speciale, Roma, e in un’epoca speciale, l’inizio degli anni sessanta, che avrebbero costituito un terreno fertilissimo per la sua ricerca. Nato a Milano nel 1947, si trasferì adolescente a Roma con la famiglia, trovandosi sotto la tutela degli artisti che allora insegnavano al Liceo Artistico di via Ripetta: i
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pittori Afro e Turcato, il pittore-poeta Scialoja e Gastone Novelli, grande sperimentatore di linguaggi pittorici, che allora insegnava “figura” (Farioli fu molto sorpreso quando anni dopo vide per la prima volta, ad una mostra alla Marlborough Gallery a Roma, i grandi collage astratti di Novelli). Le amicizie con i compagni di studio Donatella Monachesi e Silvio Pasquarelli gli avrebbero aperto nuovi mondi nel fermento culturale della Roma di quegli anni. Farioli proseguì gli studi all’Accademia, sempre in via Ripetta, e in seguito alla scuola di architettura di Valle Giulia. Ma la vera Accademia era la città stessa, soprattutto l’attività artistica intorno a Piazza del Popolo, dove gallerie come La Tartaruga di Plinio De Martiis, La Salita di Liverani e L’Obelisco esponevano l’avanguardie americane e italiane, da Rauschenberg a Tano Festa, da De Koonig a Schifano. Fu presso L’Attico di Sargentini che Farioli vide per la prima volta gli specchi di Pistoletto e ancora oggi si ricorda dell’odore pungente quando Jannis Kounellis trasformò lo spazio espositivo in una scuderia, mentre fu nella galleria dei mitico Alexandre Jolas che il giovane studente incontrò l’opera di Paul Klee e Max Ernst. Una strana e quasi sinistra presenza era quella del giovane uomo che si aggirava nei pressi dell’Accademia, inquieto, assorto nei suoi pensieri e vestito di nero dalla testa ai piedi, in contrasto con le mise coloratissime da figli dei fiori in voga all’epoca: era l’allora sconosciuto Gino de Dominicis. A ventidue anni nel ‘69, Gianfranco Farioli tenne la sua prima personale presso la galleria di Luce Monachesi, Il Cortile, in via del Babuino. I lavori consistevano in collage fotografici, ritratti che ingranditi venivano trasposti su tela
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Sovrapposti linguaggi n.15, 110x199 Milano, 2003
emulsionata in strisce di colore, in una sorta di montaggio cinematico. Già nel 1964 Farioli aveva iniziato a collezionare in modo quasi ossessivo scatti fotografici presi direttamente dallo schermo televisivo, allora in bianco e nero. L’introduzione nel discorso dell’arte di immagini dalla cultura popolare iniziava in quell’epoca ad abbattere ogni barriera tra cultura “alta” e popolare, confermando la profezia di Guillaume Apollinaire che Marcel Duchamp avrebbe “riconciliato arte e vita”. Nel saggio su Leonardo da Vinci, Paul Valery sosteneva che il “motore” che animava l’intelletto del grande artista era l’ampio respiro della sua creatività: “Leonardo era capace di avventurarsi nelle più disparate attività dell’intelletto: dall’arte alla meccanica, dalla filosofia alla scienza. Una mente così poliedrica è difficile da concepirsi in un’epoca, la nostra, di rigida specializzazione, refrattaria agli sconfinamenti fra diversi campi di indagine e che impacchetta la cultura in compartimenti stagni, quali la “fine art” e le arti decorative. Contrariamente alla tradizione occidentale, figlia della filosofia speculativa greca, la cultura giapponese, indubbiamente una delle più sofisticate al mondo per il suo raffinato senso estetico, rimane unica per la sua totale assenza di “categorie” dell’intelletto imposte dalla filosofia. In Giappone, la spiegazione è considerata volgare. Mentre la scuola della Bauhaus intraprendeva la sua crociata per purificare l’estetica occidentale dal claustrofobico bric a brac ereditato dal diciottesimo secolo, in Giappone la lezione di Weimar era superflua, perché già da ottocento anni vi si praticava un’estetica di semplicità e purezza. Nessuna differenza viene fatta in Giappone fra “alto” e “basso”, fra la funzionalità delle
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Il giardino delle felci n.7, 99x180 Nemi, 1967
arti applicate e il sublime delle così dette belle arti, fra l’umile e il sofisticato, fra la stampa, la pittura, la scultura, l’incisione, il ricamo e l’arte del giardinaggio... Noguchi, Isozaki, Miyake, Sakamoto, Tzutaka, Teshigahara: uno scultore, uno stilista, un musicista pop, un pittore e un compositore di ikebana: agli occhi dei Giapponesi sono tutti ugualmente artisti. Leonardo da Vinci, dopo essersi ripreso dal jet-lag, si sarebbe sentito a casa alla corte del principe Tokugawa. Anche Gianfranco Farioli passa con facilità da una tecnica ad un’altra, da un linguaggio artistico ad un altro. È significativo che i suoi anni formativi trascorsero in un periodo storico di grande libertà ed espansione delle arti, periodo che fu il culmine delle rivoluzioni artistiche che condussero dal Romanticismo all’ambizione di Wagner per l’opera totale, al movimento di William Morris che sperimentò in ogni possibile campo, all’avventura dell’Art Nouveau, alla contaminazione fra arte e sociale del Dada e del Futurismo, al Surrealismo. Queste avanguardie sfociarono nelle sperimentazioni che avvenivano negli anni della maturazione artistica di Gianfranco Farioli: il fenomeno degli assemblaggi, gli happenings, arte e tecnologia, la Gutemberg Galaxy, il media come messaggio, l’Anti-Art, l’Arte Cinetica, la Pop, l’Op, il MAC e il MoMA, le performances, il Concettuale, La land Art e la Body Art... eppure l’idea della barriera fra belle arti e arti applicate rimaneva in qualche modo intatta. Non è passato molto tempo da quando la professione dell’architetto divenne distinta da quella dell’artista. Mentre Leonardo, Michelangelo, Raffaello e Vasari si muovevano a loro agio tra pittura e scultura, Leon Battista Alberti, grande architetto e pittore relativamente sconosciuto,
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cercava di elevare il proprio status di architetto dissociandosi dal mestiere di artigiano o capomastro. Sono numerosissimi gli architetti modernisti che si dedicarono alla pittura nel ventesimo secolo, da Le Corbusier a Frederick Kiesler. Nello stesso modo, artisti più giovani quali Tony Smith e il vate della scultura minimalista, Donald Judd, accettarono con enorme successo commissioni di architettura. A giudicare dalla casa e dallo studio che il grande pittore Pierre Soulage disegnò per se a Sète, nel sud della Francia, egli avrebbe potuto facilmente farsi un nome anche come architetto. Si potrebbe anche dire che i pittori rupestri delle grotte di Lescaux furono i primi architetti d’interni. Il percorso creativo di Gianfranco Farioli assomiglia ad un palindromo, si può leggere al contrario, assomiglia ad un soggiorno accellerato, ad un atto di equilibrismo, ad un pendolo che oscilla fra ying e yang, fra maggiore e minore, nero su bianco, a una traduzione simultanea da oggetto a immagine, che oscilla fra il soggettivo e personale, fra l’anonimo e l’oggettivo, dal nord al sud, da Milano a Roma, e soprattutto ha la facilità acrobatica di passare dallo spazio architettonico alla dimensione pittorica. Farioli iniziò la sua carriera in un laboratorio dove si svolgeva un dibattito incandescente sull’estetica, l’Italia degli anni della contestazione. La polarizzazione era uno degli elementi distintivi dell’era dello “Sturm und Drang” nei quali egli completò il suo apprendistato d’artista a Roma e raggiunse la sua maturità espressiva; le tensioni ideologiche degli anni sessanta e settanta permeavano ogni aspetto della società, e le arti visive erano soggette ad
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Alfabeto privato, 95x110 Milano, 2008
un attento scrutinio. In altre parole era in atto una replica del conflitto Romanticismo-Classicismo vissuto da Goethe: il Romanticismo è la malattia, il Classicismo la cura. Lo scisma fra la figurazione come strumento di un’arte socialmente responsabile e l’utopia liberatoria dell’astrazione caratterizarono questo periodo. Alcuni vedevano il figurativo come politicamente corretto ed altri come conformista, mentre l’astrazione era definita narcisismo reazionario o peggio dai puritani. Sarebbe interessante confrontare una tela di Guttuso e una di Carla Accardi e trarre ognuno le proprie conclusioni. Mentre si svolgeva questo dibattito, Gianfranco Farioli era sempre più attratto dal mondo dell’immagine fotografica, che stava progressivamente diventando il collante di tutta l’iconografia occidentale, la centrifuga delle immagini universali. Lo schermo televisivo offriva ventiquattr’ore al giorno un’infinità di icone ready made. In molti tuttavia continuavano a credere che fosse prerogativa del museo quella di contenere immagini “sacre” mentre quelle dal mondo esterno erano immagini “profane”. L’astuto esteta Gillo Dorfles in più di un’occasione assunse le difese della televisione: “tutti parlano male della televisione... la cosa migliore della TV è che ha reso i suoi spettatori consapevoli di una dimensione estetica estremamente complessa. L’abitudine di confrontare, anche inconsapevolmente, una visualità vivace e polimorfa arricchisce la grammatica visiva dello spettatore”. Fu il regno della televisione a suscitare la curiosità di Farioli che iniziò ad esplorarlo fissando le immagini a caso con scatti fotografici delle icone effimere che si avvicendavano sullo schermo. Era
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come tracciare una mappa di una lingua la cui grammatica era ancora sconosciuta, Dorfles ha colto uno degli aspetti meno conosciuti e più affascinanti della televisione: e cioè che è un linguaggio complesso che come ogni altro deve essere imparato. Un abitante del Borneo, ad esempio, non è in grado di leggere una fotografia in bianco e nero, come noi non riusciamo a decifrare il significato dei suoi totem. Alcuni sociologi una volta mostrarono ad un’assemblea di contadini nell’Africa centrale un video sull’irrigazione. Finita la proiezione, chiesero ugli uomini del villaggio che cosa avevano visto. “La gallina! La gallina!” gridarono all’unisono. Ma il film era sull’irrigazione, non sull’allevamento dei polli. Un agronomo, incuriosito, esaminò il filmato: in una sequenza di un paio di secondi una gallina volava a lato dello schermo. Il video fu di importanza fondamentale negli anni formativi di Farioli, ed egli non lo rifuggì, ma lo consultò come un oracolo. Mentre il linguaggio scritto dei cacciatori nomadi primitivi, che recentemente appare nel lavoro di Gianfranco Farioli, mimava una sequenza narrativa, quella delle peregrinazioni del cacciatore che seguiva i branchi e stanava la sua preda, l’avvento dell’agricoltura portò con se una vita sedentaria, la conoscienza della geometria e dell’alfalbeto. Con i suoi testi divisi in campi di linee orizzontali, esattamente come le tavole cuneiformi assire, ogni pagina di giornale oggigiorno dipinge con accuratezza la geometria di un campo di grano nell’antica Mesopotamia: la topografia deriva dalla topologia preistorica. Gianfranco Farioli è partecipe di quel culto che fin dall’antichità consultò gli aspetti arcani della parola scritta, l’incanto
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Alfabeto privato, 100x390 Milano, 2008
dell’iscrizione, il talismano delle configurazioni delle lettere di un carmine. SPQR e INRI sono due esempi di logo di grande antichità che sono riconoscibili ancora oggi. Dall’Alfa all’Omega, l’apprendimento dell’alfabeto dovrebbe essere avvicinato come un’esperienza religiosa. Pitagora era un devoto seguace del culto di Orfeo, e da matematico egli regolò le corde della lira, strumento con il quale Orfeo mosse le montagne. La scala musicale della lira condusse alle tastiere del clavicembalo e del piano che a loro volta furono progenitrici delle tastiere della macchina da scrivere e del computer. Bill Gates deve molto ad Orfeo. L’intuizione che tutti i testi scritti e stampati che incontriamo oggi sono riprodotti su carta per mezzo della fotografia è al centro dell’indagine di Farioli sull’uso del linguaggio scritto come punto di partenza per un’astrazione occulta. Oggi la scrittura giunge a noi attraverso la stampa foto-litografica o attraverso lo schermo del computer. Nelle mani dell’artista, il linguaggio nelle sue componenti individuali diventa la matrice, in tutta la sua complessità, di un arazzo di segni, simile alla superfice di un antico manoscritto usato e riusato, tanto che la pergamena è diventata un palinsesto indecifrabile. La nostra reazione istintiva di fronte al prestigio duraturo della parola focalizza la nostra attenzione sui lavori nei quali Farioli utilizza il linguaggio, anche se non possiamo penetrare l’impatto visivo del loro significato volontariamente obliterato. Siamo bloccati all’ingresso e rimaniamo al di fuori dell’impenetrabile densa foresta di segni linguistici. È una sensazione simile a quella che si prova incontrando un’iscrizione etrusca sul muro di una
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città toscana: improvvisamente ci si trova in una condizione di analfabetismo. A differcnza di Joseph Kosuth, Sol LeWitt o Emilio Isgro, che intervenivano nei testi con la cancellazione, Gianfranco sovrappone, come in una sovraesposizione fotografica, agganciando un elemento a un altro, griglia di testo su griglia di testo fino all’apparire di un disegno inaspettato, concreto e aleatorio allo stesso tempo: parole in libertà per l’era cibernetica. Sono alfabeti senza Stele di Rosetta, senza chiave di interpretazione, iscrizioni come astrazione. Forse solo il dipartimento di crittologia della CIA o deI KGB potrebbero estrarne il significato originale. Le fonti dei testi di Gianfranco Farioli sono i diari privati che ha tenuto per tanti anni come una sorta di esercizio liberatorio, il contenuto deliberatamente occultato allo spettatore. II Castello Storzesco di Milano può vantare una delle stanze più affascinanti del mondo. Leonardo affrescò l’intero soffitto con un fitto intreccio di foglie e rami che, come scrisse Valéry, sembra rivelare il compiacimento dell’artista per la complessità del proprio pensiero. Sulla superfice dei quadri di Farioli, la densità degli strati di linguaggio si compone in un blocco in bianco e nero, che sembra contenere in un unico monogramma un’infinita quantità di motivi, che si ripetono, riecheggiano e si bilanciano l’un l’altro, ma mai senza qualche variazione, in una florida quanto caotica unità. Questa unità si concretizza attraverso i componenti “readymade” sui quali il lavoro è basato, cioè le lettere dell’alfabeto, in quanto queste lettere si combinano in un motivo subordinato al disegno. Il Codice Lindifarnese, manoscritto illuminato del settimo secolo opera del monaco Eadfrith in Northumbria,
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Ritratto di Raffaele, 25x25 Roma, 2003
Inghilterra, rivela una simile complessità. Le arti grafiche, come affermava il poeta inglese Basil Bunting, iniziarono con un movimento di danza, forse ispirandosi alle decorazioni su vasi e al ricamo. (Non sorprende dunque che John Cage fu un avido collezionista delle tappezzerie di Anni Albers). La ritmicità e ripetitività dei motivi decorativi primitivi, soprattutto su vasi, sembrano suggerire una connessione con la danza. Le astrazioni linguistiche di Gianfranco Farioli, che attingono nei significati originari delle lettere dell’alfabeto, evocano anch’esse un ritmo, una musica distante nel tempo. “Taglia le parole ed esse sanguineranno” diceva Ralph Waldo Emerson. Le parole si frantumano rivelando cristalli e fossili di significato e rompendo il silenzio delle componenti superficiali del linguaggio risvegliano lessici dormienti. Coloro che si avventurano nella foresta di segni evocata da Gianfranco Farioli, emergeranno gratificati dal loro viaggio nel labirinto. Alan Jones
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Alfabeto privato, Ă˜ 100 Milano, 2008
“Know how to make coffee?” A young man is standing in the vast painter’s studio, a deconsecrated baroque church, which gives on to the courtyard at Piazza del Grillo in Rome. The aspiring artist has been sent by his mother to this contemporary master in order to have his judgment as to whether or not her son should enrol in the Liceo Artistico, the high school of fine arts, instead of foregoing his ambition to serve the Muses (just as Igor Stravinsky’s father had secretly shown his son’s compositions to an expert to get a second opinion... ). “There’s a coffee pot over there. Make some coffee”. The painter drank a cup of coffee and finally looked up at the boy. Then he set the empty cup down next to a pencil and a sheet of paper. “Now draw it”. After the drawing of the coffee cup was completed, the artist examined it in silence. Then he said: “You can sign up for the Liceo Artistico tomorrow”. The maestro was none other than Renato Guttuso, leading exponent of Italian Social Realism of the day, and the aspiring art student was Gianfranco Farioli. “On n’est pas sérieux quand on a quinze ans,” wrote Arthur Rimbaud in a poem. Constantin Brancusi, when once asked the date of a sculture, replied: “All my work dates from age fifteen”. It was at this precise age, which is often a crucial turning-point at the outset of a creative career, that Gianfranco Farioli had the good fortune to begin his apprenticeship in art, in a particular locality, Rome, and a particular place in time, the beginning of the 1960’s, which were to provide an exceptionally stimulating arena for his quest. Having been born in Milan in 1947, his family relocated to the ltalian capital during his early adolescence, where Farioli found himself under the tutelage of an intriguing spectrum of artists
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who taught at the Liceo Artistico in via Ripetta: the painters Afro and Turcato, the painter-poet Scialoja, and the great explorer of pictoral languages Gastone Novelli, who, incongruous as it may seem, taught figure drawing (Farioli was taken aback to later see an exhibition at the Roman branch of the Marlborough Gallery of Novelli’s large white canvases collaged with abstract scrawlings). Friendships made among his fellow classmates were to open new worlds in the foment of Roman cultural life of the time. The path of Farioli’s studies led him to the Academia, also in via Ripetta, and eventually to the school of architecture. But the true academy of Rome was the city itself, especially the artistic life centered on the Piazza del Popolo, where galleries such as Plinio De Martiis’s La Tartaruga was showing the most advanced of both American and Italian art, from Rauschenberg to Tano Festa, from De Kooning to Schifano, La Salita Gallery of Liverani, L’Obelisco, Sargentini’s L’Attico in via Beccaria, where Farioli saw the first show of Pistoletto’s “mirrors” and still recalls today the pungent smell in the air when Jannis Kounellis converted the gallery into a horse stable, the gallery of the mythic art dealer Alexandre Iolas, where the young student encountered the work of Paul Klee and Max Ernst. A strange, unsettling, almost sinister presence that haunted the sidewalk across the street from the Accademia was that of a young man dressed from head to foot in black, white shirt and thin black necktie, in contradiction to the flower-child style of the day, who would pace back and forth in an absorbed silence. It was the artist Gino Di Dominicis, at the time completely unknown. At the early age of twenty-two, Gianfranco Farioli had his first
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Lettera da Palermo positivo n.18, 99x210 Palermo, 1987
Lettera da Palermo negativo n.81, 99x210 Palermo, 1987
one-man exhibition of his own work in 1969, at the gallery of Luce Monachesi, Il Cortile, in the via del Babuino. The works consisted of collage-based photo emulsion on canvas in the form of strips of color, in a sort of cinematic montage. As early as 1964, Farioli had been obsessively bent on gathering images from the Pandora’s box of an infinity of images: television, shooting snapshots directly from the black and white screen. The introduction of imagery from popular culture into the discourse of art was tearing down barriers between high and low culture, and Guillaume Apollinaire’s prophecy that Marcel Duchamp would “reconcile art and the people” was being at last carried to fruition. In his essay on Leonardo da Vinci, Paul Valéry chose to single out one particular characteristic as being central to the mechanism which animated Leonardo’s intellectual span, the broad reach of his creativity: “Leonardo was able to place himself at a point from which he could venture outward to engage in any artistic, mechanical, speculative, scientific activity which he wished to pursue”. Such a range in unthinkable today, in our age of rigid specialization and “professionalization” which frowns on crossovers from one field of endeavour to another, and which compartmentalizes culture into packages such as fine arts and applied arts. In contrast to the Western tradition inherited from Greek speculative philosophy, Japan, undeniably one of the great high civilizations the world has known, a culture of an unparalleled aesthetic refinement, remains unique for its total absence of the distinctions imposed by the theoretical philosopher, the compartmentalizing of the intellectual. In Japan, explanation is considered vulgar. When the Bauhaus School set out on a
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crusade of hygienic reform of European aesthetic form, to clean out the cluttered junkshop of claustrophobic bric a brac of the Eighteenth Century, the lessons from Weimar were redundant for Japan, which had already been practicing a subtle aesthetic of pure simplicity for well over eight hundred years before Bauhaus. No distinctions are made between high and low art, between functionality of the applied arts and the “sublimity” of the socalled beaux arts, between the every-day and the Sunday-best, between the humble and the rarified, between the plinted, the painted, the written, the carved, the incised, the stitched, the forged, the gardened. Noguchi, Isozaki, Miyake, Sakamoto, Tzutaka, Teshigahara: all are seen in Japanese eyes as artists, although they are sculptor, fashion designer, pop musician, painter and ikebana flower arranger. Leonardo da Vinci, after recovering from jetlag, would have found himself totally at home in the court of Prince Tokugawa. Gianfranco Farioli likewise passes easily from one medium of expression to another, from one artistic language to the next... It is significant that his formative years were passed in a time of great liberation and expansion in the arts, the culmination of revolutions which pass from Romanticism to Wagner’s ambition for a total-work-of-art, the “multi-media” of Pre-Raphaelites such as William Morris who left practically no art form untouched by his hand, the adventure of Art Nouveau to the explosion in a jewelry shop of Dada, the social permeation of Futurism, the grand magazine of Surrealism, all leading to the era in which Farioli came of age: the phemonena of assemblage, happenings, art and technology, Gutenberg Galaxy, the media as message, Anti-Art, Non-Art, Kinetic, Pop, Op, MAC and
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Poetry blow-up, 95x210 Milano, 2004
MoMA, conceptual performances, Land and Body Art... And yet somehow the idea of a barrier between the applied and the sublime remained intact. Historically speaking it was not long ago that the profession of the architect, for example, became separate from that of the artist. While Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Vasari all moved easily from painting to building, Leon Battista Alberti, a very great architect and not particularly wellknown painter, sought to elevate the position of the architect in order to claim for him a higher status dissociated from mere craftsman or stone mason. Architects who devoted themselves to the practice of painting are found throughout the annals of Twentieth Century modernism, from Le Corbusier to Frederick Kiesler. Likewise more recent artists such as Tony Smith, one of the primary founders of Minimalism in sculpture, and the high priest of Minimalism Donald Judd, both readily undertook formal architectural commissions, and did so with outstanding success. To judge from the house and studio at Sète, in the south of France, which he designed for himself in the early Fifties, the great painter Pierre Soulage could easily have made a name for himself as architect alone. One could say that it is most probable that the painters of the Lascaux caves were the first interior designers. The creative career of Gianfranco Farioli resembles a palindrome, readable backwards and forwards, a sojourn in fast forward, an equilibrium or balancing act, a pendulum of predilections ying-yang, plus-minus, micro to macro, black on white, the simultaneous translation from object to image, between the highly subjective personal to the anonymously objective, from north to south, Milan to Rome, and above all the acrobatic ease
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Filigrana, 95x110 Palermo, 1988
Lettera a Donina, Ø 99 Roma, 1973
of passing from architectural space to the pictorial dimension. Farioli began his career in a particularly heated laboratory for aesthetic debate, the Italy of the era of contestation. Polarization has been one of the hallmarks of the era of Sturm und Drang in which he underwent his apprenticeship as an artist in Rome and achieved the maturity of his creative expression; the highly charged ideological tensions of the Sixties and Seventies permeated all aspects of society, and the creative arts were subjected to an intense inquisition. In other words, a replay of the Romantic-Classic conflict as experienced by Goethe; “Romantishe is das Krank, Classische ist das Gesund” (The Romantic is the sickness, the Classic is the cure). The schism between figuration as a tool for a socially responsible and the liberatory utopianism of abstraction characterized this period, with the figurative viewed by some as politically correct and by others as knee-jerk conformity, while abstraction was labelled as reactionary narcissim or worse by puritanical hard-liners. One may well wish to examin side by side a canvas by Renato Guttuso on the one hand and a work by Carla Accardi on the other, and then each may draw his own conculsions. While these debates went on around him, Gianfranco Farioli was drawn more and more toward the realm of the photographic image, which increasingly was becoming the nexus of all Western iconography, the centrifuge of universal images. The television screen alone offered an infinite fount of ready-made icons, spewing up twentyfour hours a day. Yet many still clung to the belief that it was the museum that contained the “sacred” images and that those of the real world were “profane”. The astute aesthetician Gillo
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Dorfles however has on more than one occasion risen in defence of television: “Everyone speaks badly of television... The best thing about TV is that awakened its viewers to an aesthetic reality of great complexity. The habit of confronting, even without knowing it, a lively and polymorphic visuality enriches the visual grammar of the viewer”. This is the realm of the television screen which engaged the curiosity of Farioli who early began to explore it by “freezing” images as if at random though the rephotographing of the ephemeral images that flicker past. It was an endeavour which consisted of mapping out the grammatical structure of an uncharted language. Dorfles dissociates one of the most fascinating and least discussed aspects of television: that it is a complex language which like any other must be learned. Video literacy. A bushman in Borneo, for example, cannot “read” a black and white photograph, just as we cannot decipher the meaning of his totems. Social workers in central Africa once showed an assembly of farmers an education film on irrigation. After the projection ended, they asked the villagers what they had seen. “The chicken! The chicken!” they cried in unisono. But this was a film on irrigation, not chicken farming. Puzzled, one agronomist examined the film. In one fleeting sequence of a few frames, a chicken flew up in the corner of the screen for a couple of seconds. The video revolution was of fundamental importance in Gianfranco Farioli’s formative years, and he did not shrink away from it but instead consulted as oracle. While the written “language” of nomadic hunters, whose visual vocabulary appears also in the recent work of Gianfranco Farioli, devised a meandering narrative which mimicked the
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Filigrana negativo n. 83, 95x110 Palermo, 1988
Filigrana positivo n. 38, 95x110 Palermo, 1988
peregrinations of the hunter following herds and stalking his prey, the arrival of agriculture brought a sedentary form of life and with it, geometry and alphabets. With its texts divided into fields laid out in straight rows, exactly like Assyrian cuneiform tablets, today’s front page of any newspaper accurately depicts the geometrical pattern of a grain field in ancient Mesopotamia: typography derives from prehistoric topology. Gianfranco Farioli participates in the cult which, since antiquity, consults the arcane aspects of the written word, the inscriptive incantation, the talisman of configurations of letters as carmina, karma, as charms cast. SPQR and INRI are two examples of “logos” of great antiquity which are still recognizable today. Alpha to Omega, the learning of the alphabet should be approached as a religious experience. Pythagoras was a devotee of Orpheus, and as a mathematician he regulated the strings of the lyre, the instrument by which Orpheus moved mountains. This musical scale on the lyre leads to the keyboard of harpsichord and piano, to become the keyboard of the typewriter and the computer, which brings together mathematics and written language. Bill Gates has much to thank Orpheus for. The intuition that all written, printed texts, which we encounter today are reproduced on paper by photographic means is central to Farioli’s use of written language as a springboard to an occult abstraction. Today, writing comes to either through photo-litho printing or across the video screen of the computer. In the hands of the artist, written language in its individual components becomes the matrix, in all its complexity, for a rich accumulative tapestry of signs, like the surface of ancient manuscripts used and reused so repeatedly that the parchment
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has become an indecipherable palimpsest. Our instinctive reaction before the enduring prestige of the word focuses our attention to the surface of Farioli’s works employing language, even though we cannot penetrate beyond the surface of the visual impact of this intentionally obliterated visual meaning. We are blocked at the portal and remain outside the impenetrable density of the forest of linguistic signs. It is a sensation similar to that of encountering in the wall of a tuscan town an inscription incised in the ancient Etruscan language: the viewer suddenly finds himself in a condition of pre-literacy. Unlike artists Joseph Kosuth, Sol LeWitt or Emilio Isgrò, who have intervened on printed texts by employing cancellation, Gianfranco superimposes, like a doubleexposure in photography, interlocking one element to another, the grid of text over text until a unexpected pattern arises, aleatory and concrete: Parola in Libertà for the cybernetic age. These are vocabularies without a Rosetta Stone, without a key to interpretation, inscription as abstraction. Perhaps only the cryptology departments of the CIA or the KGB could unravel the original readable meanings. The original source of Gianfranco Farioli’s “text” are the daily logbook or private diary which he has maintained for many years, written as a sort of liberatory exercise, the content of which is deliberately withheld from the public viewer. The Castello Sforzesco in Milan can boast one of the most fascinating rooms to be found anywhere in the world. Leonardo da Vinci entangled the entire ceiling in a fresco of interwoven trellises of branches and foliage, which, as Valéry wrote, seem to reveal the artist exulting in the complex workings of his own mind. The density of layer upon layer of
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Omaggio a Elsa Morante, 100x100 Milano, 2004
linguistic illuminations occurs on the surface of Farioli’s works, the resulting compositional block of black and white contains an endless quantity of pattern in one monogram, repeating, re-echoing, balancing one to the other, but never without some variation, in a florid even chaotic unity. This unity comes about because of the concreteness of the given “ready-made” of the components on which the work is based, the letters of the alphabet, so that these letters combine into a pattern subordinate to the design itself. The Codex Lindisfamensis, an illuminated manuscript from Seventh Century made by the monk Eadfrith in Northumbria, England, revels in just this sort of intricate dovetailing. The graphic arts, as the British poet Basil Bunting has said, began with dance movement, and perhaps also from the decorations of pottery and weaving (It comes as no surprise that John Cage was an avid collector of the weavings of Anni Albers). Through the repetitive patterning of the most primitive decoration, on pottery especially, suggests that it may have had a connection with dance too. So the linguistic abstraction, tapping into the deep ur-meanings of the letters of the alphabet themselves, succeeds in evoking a rhythm, a music distant in time. “Cut words and they bleed,” said Ralph Waldo Emerson. Words fracture, revealing crystals or fossils of significance, breaking the silence of the surface of language’s components, summoning the drowsing lexicons from their slumbers. Those who venture into the forest of signs of Gianfranco Farioli will emerge rewarded for their sojourn through the labyrinth. Alan Jones
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Superficie lunare, 199x199 Roma, 1964
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Fuori onda, 70x50 Roma, 1968
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Il laureato, 70x50 Roma, 1990
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Lui e Lei, 70x50 Milano, 2006
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Dopo Tiziano Laura, 190x80 Roma, 1977
9 rue Budテゥ Saint-Louis en l窶凖四e, 100x100 Paris, ottobre 1983
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9 rue Budテゥ Saint-Louis en l窶凖四e, 70x100 Paris, ottobre 1983
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Lettere da Palermo, 70x50 Palermo, 1987-88
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Ippolito, 70x100 Anzio, 1990
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Il giardino di Poci, 100x100 Milano, 2003
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Omaggio a Vera Marianecci, 240x200 Milano, 10 luglio 2003
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Poetry blow-up, 30x30 Milano, 2004
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Ritratto di Azaea, 42x96 Milano, 2004
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... Gianfranco, che per esempio vorrĂ accartocciare
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dei fogli per dare l’idea del momento creativo di un poeta che può anche sostituire un’idea con un’altra. Fernanda Pivano
Milano 19 Febbraio 2005
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Omaggio a Elsa Morante / Gerard Malanga Poetry blow-up, 30x30 Milano, 2005
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Alfabeto Segreto, 100x70 Milano, 2006
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Boxe, 110x110 Milano, 2007
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Cinema cinema, 100x100 Milano, 2008
Omaggio a Francis Bacon, 100x100 Milano, 2008
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Lettera a Gaia, 100x170 Roma, 1973 - 2003
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“Donatella”, 70x100 Roma, 1969
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GF D1
Massimo Gargia invita all’inaugurazione della mostra “7 disegni per 7 giorni” di Françoise Sagan e Gianfarioli
Venerdi’ 14 dicembre 1973 ore 19.00
Massimo Gargia invita all’inaugurazione della mostra “7 disegni per 7 giorni” di Françoise Sagan e Gianfarioli
Venerdi’ 14 dicembre 1973 ore 19.00 59
Carla Venosta, Pierre Restany e G.F. Milano, 2002 Carla Venosta, Gillo Dorfles, Claudio Salocchi e G.F. Milano, 2009
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Maria Teresa Pizzetti e G.F. Roma, 1968
G.F. Piazza del Popolo, Roma, 1970
Donatella Monachesi, Giselda Parisella Monachesi, Querel Jr. e G.F., Galleria del cortile Roma, 1969
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dall’alto: Gerard Malanga, Mimmo Rotella, G.F., Gerard Malanga, Alan Jones, G.F., Fernanda Pivano, Carlo Trentin, Milano, 19 febbraio 2005
Locandine a cura degli studenti dello IED curato dal docente Carlo Trentin , 2005
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dall’alto: una sconosciuta, Michele Bernetta e Urbano Alessio con Silvana Fiolini 65 Milano, 2005
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Lucio Del Pezzo Milano, 24 aprile 2008
Paola Rossi Fusco Milano, 24 aprile 2008
SOVRAPPOSTILINGUAGGI SOVRAPPOSTILI gianfarioli 24-26 settembre 2008
Mo.C.A. Studio
gianfario orari: 10:30-13:00 16:00-19:00 tel. 06 - 4742764
24 settembre 2008 ore 19.00 n째 1 Piazza degli Zingari -Roma
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24-26 settembre 20
Mo.C.A. Studio
24 settembre 2008 ore 19.00 n째 1 Piazz
OSTILINGUAGGI SOVRAPPOSTILINGUAGGI gianfarioli
anfarioli
26 settembre 2008
24-26 settembre 2008
orari: 10:30-13:00 16:00-19:00 tel. 06 - 4742764
e 19.00 n째 1 Piazza degli Zingari -Roma
Mo.C.A. Studio
orari: 10:30-13:00 16:00-19:00 tel. 06 - 4742764
24 settembre 2008 ore 19.00 n째 1 Piazza degli Zingari -Roma
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Cinzia Bonamoneta Roma, 24 settembre 2008
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Silvio Pasquarelli Roma, 24 settembre 2008
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Luca CarrĂ Milano, 24 novembre 2008
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ADELE’SALPHABET
Svettini nuovo spazio arte contemporanea via Gerolamo Morone n° 6 Milano 20121 tel. 02/76009853 e-mail svettini@virgilio.it
inaugurazione mercoledì 20 maggio ore 18.30 20 maggio 30 maggio ore 10.30-13.00 16.00-19.00
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RTIISAMAR ● LEA IA ER ●
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GIANFARIOLI
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Bruno Chersicla Milano, maggio 2010
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Cristiano Ravarino Lovatelli Milano, maggio 2010
Paolo Barozzi con Francesca Caetani Lovatelli Milano, maggio 2010
Maurizio Cocchi con Lucio Del Pezzo Milano, maggio 2010
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Mostra a cura del CRAB (Centro ricerche Accademia Brera)
Curatori Francesco Correggia e Anna Spagna Bellora
Antologica di G.F., allestimento mostra e affiche di Giovanni Romagnoli, Sacrestia Monumentale di San Marco, Milano, Aprile 2012
Associazione per le Arti Isa Marianecci
CAVTVS SILET NATATOR PER VNDAS
It occurs - sometimes, not always - that a painter, an architect, a musician, possess a “literary style” of his own
Gillo Dorfles
ALAN JONES - I LINGUAGGI DI GIANFRANCO FARIOLI
Accade - qualche volta, non sempre - che anche un pittore, un architetto, un musicista abbiano un loro “stile letterario”