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Dopo la rivoluzione: la seconda Nouvelle Vague e il cinema di Abbas Kiarostami
Abbas Kiarostami: il ‘sapore’ del cinema.
di Anna QUARANTA
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L’ ondata di cambiamento nel cinema iraniano, che percorse il decennio 1969 – 1979, rivendicava un cinema più vicino alla vita e alla società del tempo, e meno omologato a produzioni più popolari, come quelle indiane e hollywoodiane. Le opere si impreziosirono di un tocco più originale e artistico, oltre che politico, sviluppando nello spettatore un gusto estetico che ha, in un certo senso, guidato anche le successive generazioni di cineasti. Furono proprio le immagini di uno dei film del nuovo corso, The Deer di Masoud Kimiai, a scorrere sul grande schermo del Cinema Rex, nella città sudoccidentale di Abadan, quando la sala cinematografica venne data alle fiamme, uccidendo 420 persone, in un cruento attacco terroristico. Era il 19 agosto 1974, la rivoluzione islamica di Khomeini stava per rovesciare il regno filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi, che aveva portato il paese nella prosperità, ma non aveva, forse, tenuto conto del grave dislivello sociale che si era andato creando. Seppur molto spesso accostato al Neorealismo italiano, in realtà il cinema iraniano ha sempre mantenuto una sua cifra stilistica, un linguaggio che sostiene la poesia del quotidiano e delle persone comuni, mescolando il confine tra realtà e finzione. Se la Nouvelle Vague iraniana ha tratto ispirazione dal cinema europeo, è accaduto anche il contrario, in un andirivieni tra cinema documentario e di finzione da cui hanno preso spunto opere come This World di Michael Winterbottom. Il nuovo linguaggio sviluppa uno stile legato alla singola individualità del cineasta, oltre che allo spirito nazionale, e apre un dialogo non soltanto in relazione alla propria terra d’origine, ma anche con il resto del mondo. C’è un filo conduttore che lega l’antica letteratura persiana al nuovo corso, rendendolo talmente unico da vantare autori leggendari e post-moderni come Abbas Kiarostami. Privo di una preparazione professionale, come ha sottolineato più volte, e anche di una formazione sul campo, sembrerebbe proprio questo il segreto della freschezza dello sguardo di Kiarostami. Quel suo occhio innocente proviene da una riscoperta del cinema come medium inseparabile dal suo ambiente sociale, culturale e politico. Il cinema si fa medium, mezzo, per consentire allo spettatore una riflessione sulle questioni, all’apparenza semplici, ma di fatto universali, affrontate nei film e nell’Iran del dopo rivoluzione: il cinema prende il posto della poesia, del teatro, dei racconti, dei romanzi, fino a diventare il mezzo fondamentale per raccontare il paese. Il cordone ombelicale con la tradizione è immancabile. È infatti a una raccolta di poemi dall’omonimo titolo che si ispira Dov’è la casa del mio amico? (1986), considerato dalla critica il primo film della trilogia di Koker, dal nome di un villaggio di fango e mattoni dell’Iran settentrionale, dove sono stati girati anche E la vita continua… (1991) e
fatto di attese e interrogazioni. Non conosciamo le sue ragioni, tutto quello che vediamo e sentiamo sono le conversazioni tra il protagonista, Badii, e i passeggeri, attori non professionisti, che si alternano come compagni di viaggio. La fotografia e i campi lunghi con cui la macchina da presa esplora la campagna attraversata da Badii, alla ricerca di un posto dove riposare in pace, ricordano lo stile realistico del cinema-verità, perché è di vita vissuta che si sta parlando. Le conversazioni improvvisate, mediate dalla presenza della telecamera, la natura dei dialoghi portati avanti da attori non professionisti, come nella maggior parte dei film di Kiarostami, sottolineano che lo spettatore è un testimone, lasciato fuori di proposito dal dibattito, affinché trovi una risposta, sua, intima, a una domanda che resterà aperta per sempre. Proprio come il suo cinema. Sotto gli ulivi (1994). Dov’è la casa del mio amico? è la storia di un ragazzino, pedinato dalla macchina da presa, che si aggira in un mondo di adulti ostili e indifferenti, alla ricerca dell’abitazione di un suo amico, a cui vuole restituire il quaderno capitato per sbaglio nella sua cartella. La trama semplice e lineare mette in evidenza un tema universale e lo fa con sguardo limpido: il ragazzino prosegue nel portare a termine il suo intento, sente che deve fare la cosa giusta, nonostante il mondo che lo circonda, fatto di regole e doveri imposti dagli adulti, provi ad allontanarlo dalla sua destinazione finale. La delicatezza del tocco di Kiarostami e il suo amore per la vita e tutto quello che ne fa parte la si ritrova in uno dei suoi film più acclamati, Palma d’Oro al Festival di Cannes, Il sapore della ciliegia (1997), la storia di un uomo che cerca chi lo aiuti a mettere in atto un suicidio, che vorrebbe tentare ma non sa se compirà. Questo arrovellarsi sulla morte dà vita a un film riflessivo,
In foto: Homayoun Ershadi in una scena del film Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami