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Il cinema di Asghar Farhadi

Inseguire la via della comprensione nel deserto delle relazioni umane: IL CINEMA DI ASGHAR FARHADI

di Lucilla COLONNA

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«I l cinema può catturare le qualità umane e demolire gli stereotipi, per creare quell’empatia che oggi ci serve più che mai». La motivazione profonda del lavoro di Asghar Farhadi è in queste parole lette alla cerimonia degli Oscar 2017, dove Il cliente vinse come miglior film straniero, ma lui non ritirò il premio in segno di protesta contro il Muslim ban firmato da Donald Trump. Cinque anni prima l’Academy aveva tributato lo stesso riconoscimento a Una separazione, titolo emblematico per quest’autore così innamorato della solidarietà tra le persone da dedicare ogni sua opera al dramma di un’assenza di volta in volta dovuta alla scomparsa, alla malattia terminale, al trauma, al sequestro o al coma, per mettere in luce il valore delle relazioni umane. Cominciò da bambino. A 13 anni fece recitare il fratellino minore in un cortometraggio e il primo premio ricevuto da una giuria fu una bicicletta. Poi, dopo la laurea in drammaturgia a Teheran e il matrimonio con la collega Parisa Bakhtavar, i suoi lungometraggi hanno iniziato a conquistare le giurie internazionali da Berlino a Cannes. Già in About Elly (2009) erano contenuti gli elementi caratteristici di tutta la produzione successiva. I protagonisti sono sempre giovani dai venti ai trent’anni, l’età in cui ciascuno è impegnato a strutturare la propria vita. Per questo Farhadi ama presentarceli alla ricerca di una casa o comunque alle prese con un ambiente in divenire. Addirittura ne Il cliente lo spazio in costruzione si sdoppia e si sovrappone, tra la messa in scena di Morte di un commesso viaggiatore, capolavoro di Arthur Miller in cui la casa di famiglia ha un ruolo fondamentale, e il nuovo appartamento dove i protagonisti del film iniziano a vivere il proprio dramma personale. Al centro di ogni storia troviamo un nucleo familiare – una coppia o una famiglia con figli oppure una famiglia allargata – cui l’autore iraniano è solito associare un oggetto da inquadrare nell’incipit, ad esempio una lastra di vetro che simbolicamente divide due vite o l’orologio cittadino che perpetua l’amore di un tempo. Con altrettanta cura Farhadi delinea i ruoli di contorno, spesso bambini depositari della verità come l’adolescente di Una separazione, interpretata dalla sua stessa figlia, oppure uomini maturi impersonati da Babak Karimi, al quale il regista ne Il passato (2013) fa dire: «Non puoi avere un piede di qua e uno di là del ru

scello: poi il ruscello si allarga». Sono parole che richiamano la contrapposizione sempre presente, nei suoi film, tra chi è ancorato saldamente alle tradizioni della propria origine e chi è invece proiettato verso l’altrove. Spesso infatti l’inquietudine di donne e uomini si sposa con il desiderio di espatriare, normalmente dall’Iran all’Europa, ma in Tutti lo sanno (2018) c’è chi dalla Spagna sogna l’Argentina, a costo di abbandonare i propri affetti. Per tutti i personaggi, nessuno escluso, l’autore nutre infinita comprensione. Li segue con curiosità e pazienza, anzi li pedina secondo la lezione del neorealismo che ha potuto apprezzare all’università, affinché ognuno di loro possa mostrare le ragioni del proprio comportamento. Nei finali però adora lasciare democraticamente al pubblico la possibilità di eventuali epiloghi.

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