CINEMA MURO BERLINO
DA CHRISTIANE F. A DEUTSCHLAND 83 STORIE DI CONFINE E CONFINI
Il Cinema Sopra il Muro di Berlino DA CHRISTIANE F. A DEUTSCHLAND 83, STORIE DI CONFINE E CONFINI Art Direction Vincenzo PatanĂŠ & Mattia Caruso Concept Designer Clarissa La Viola Editing Lucilla Colonna Hanno scritto in questo numero Anna Quaranta Luca Biscontini Antonio Pettierre Master Blaster Elisabetta Colla Simona Grisolia Paola Dei Rita Andreetti Sandra Orlando Mattia Caruso
Rivista iscritta al Finanzamt di Brandeburgo. Ogni riferimento legale è impugnato dal tribunale di Berlino. Steuernummer e Vatnummer registrati presso il Gewerbe Anmeldung di Berlino. Contatti Taxidrivers direzionetaxidrivers@gmail.com Issuu Twitter Instagram Facebook Group Facebook Official www.taxidrivers.it
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EDITORIALE
LE DUE GERMANIE Ovest
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DENTRO IL GENERE Il Muro delle Spie
DEUTSCHLAND ‘83
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LE DUE GERMANIE Est
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9 POSSESSION
SOYUX 111 TERRORE SU VENERE SGUARDI D’AUTORE
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IL CIELO SOPRA BERLINO
Storie di confine e confini
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FROM HER TO ETERNITY CHRISTIANE F.
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OLTRE IL MURO
Il cinema dopo la Caduta
GOOD BYE, LENIN! 3
17 Rivista indipendente di cinema
Editoriale
di Mattia CARUSO
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oche altre immagini del XX secolo – e non si può certo dire sia stato un secolo che di immagini ne abbia partorite poche – possono condensare in sé un’intera epoca e un intero immaginario come quelle viste la sera del 9 novembre del 1989 a Berlino. Perché quelle immagini, cronaca televisiva e puntuale della caduta del Muro nonché primo passo di quella “Wende” (la Svolta) che avrebbe portato alla riunificazione delle due Germanie, racchiudevano già in sé un intero universo di significati, altre immagini moltiplicatesi a dismisura negli anni della Guerra Fredda, quando il mondo, per la prima volta, era letteralmente spaccato in due, attraversato da una crepa che ne incarnava i conflitti ideologici, economici e politici. Una scissione che, da quel lontano 1961 in cui il Muro venne innalzato, per la prima volta diventa tattile, reale, tangibile, dividendo il mondo in due blocchi, due fazioni, due universi contrastanti e in costante conflitto tra loro.
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È proprio a questa divisione, più che alla caduta vera e propria – cui ricorre l’anniversario proprio in questi giorni – che il presente dossier è dedicato, non tanto o non solo, cioè, a quello che ha rappresentato il crollo del muro in sé, quanto a quello che ha significato quando ancora era in piedi, quando ancora svettava sul mondo che aveva contribuito a creare, producendo (spesso suo malgrado) immagini che ne raccontavano la storia, il paradosso, l’ingiustizia. È allora dalle immagini al di là e al di qua del Muro, dall’infinità di materiale partorito in più di mezzo secolo di storia tra cinema e serialità, realtà e finzione, che questo lavoro prende piede, per raccontare, ancora una volta, un periodo unico, drammatico ma anche vivo, culturalmente stimolante, dove Berlino, per la prima volta, si ritrovava a essere il centro esatto di un Nuovo Mondo irrimediabilmente diviso. D’altronde, nella sua unicità e nella sua enorme carica simbolica, si può
dire che il Muro sia stato il luogo elettivo dove il cinema ha incontrato veramente la Storia, dove l’ha plasmata e (ri)scritta, a tratti documentandola in tempo reale a tratti inventandola o mistificandola, servendosi ora del genere ora delle lacrime, ora della nostalgia ora della propaganda, fino a restituirci lo spirito di un tempo e di un intero mondo sull’orlo del baratro. Se così stanno davvero le cose, è allora naturale che tutto inizi e finisca all’insegna dell’immagine (cinematografica e non) scissa, un’immagine sempre divisa e speculare, fatta di doppie facce e doppi giochi, capace di ispirare i generi (tra cui ovviamente i film di spionaggio, che useranno proprio il Muro e la Cortina di Ferro come pretesto narrativo) e di darci lo spaccato sociale e politico di una città e di un paese tranciati in due. Due mondi distinti, quelli della Repubblica Federale e della DDR, raccontati con modi e sguardi differenti, attraverso storie paradossalmente speculari, tra
storture, problematiche e sensibilità divergenti. Un gioco di specchi, dunque, ma anche di scatole cinesi, capace di restituirci le immagini di uomini e donne a loro volta scissi, così intenti a innalzare barriere mentali contro i propri simili, contro chi sta fuori, contro il diverso, da non vedere più l’altro, divisioni private ma ben più insanabili con cui spesso si è confrontato il cinema d’autore, anche quando ormai, tutt’attorno, i muri e le ideologie cominciavano a franare lasciandosi dietro vinti e vincitori, tra nostalgie anacronistiche (il fenomeno della così detta “Ostalghia”) e rinascite di vecchi odi e rancori dal sapore xenofobo. Ecco, è proprio attorno a queste storie separate eppure parallele, che abbiamo voluto far ruotare il presente dossier, concentrandoci tanto sul generale, con sezioni tematiche dedicate al cinema (e non solo) all’ombra del Muro, quanto sul particolare, con focus incentrati sui film più iconici, memorabili o semplicemente più partico-
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lari di (o su) quel periodo, in un’ideale parabola che va dagli anni Sessanta ai giorni nostri, per scoprire se quelle immagini, nel frattempo, siano evolute, mutate, invecchiate, o se, piuttosto, in una sorta di eterno ritorno fatto di intolleranza, chiusura mentale e paura dell’altro, siano ancora tutte lì, a raccontarci la stessa vecchia storia, le stesse, forse insanabili, divisioni.
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DENTRO IL GENERE
Il muro
delle
spie di Sandra ORLANDO
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nnalzato nel 1961 tra Berlino Est e Berlino Ovest, il Muro diventò una frontiera da non oltrepassare che portò alla morte di decine e decine di persone. Una barriera ideologica ma anche iconologica divenuta negli anni oggetto di interesse di Letteratura, Cinema, Musica. Il Cinema spionistico ha rappresentato il Muro di Berlino in tanti modi, quale espressione di chiusura soprattutto, ma anche metafora di libertà da ricostruire e di sogni di fuga da un regime dittatoriale, vera e propria “Cortina di ferro” da oltrepassare. Inseguimenti mozzafiato, tensione, idealismo, narrazione storico-politica; il termine “spionaggio” richiama alla mente manipolazione, super cattivi che pianificano per conquistare il potere, armi sofisticate, femmes fatales, false identità ma anche anti-eroi disillusi catapultati in un universo caotico di una Berlino divisa in due. Tante le pellicole che hanno immortalato questo scorcio di Storia attraverso vicende ricche di suspense, mistero e azione. Da La spia che veniva dal freddo di Martin Ritt (1965) adattato dal romanzo di John Le Carrè, che
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si apre e chiude sul Muro di Berlino, con Alec (Richard Burton), agente segreto britannico, che si scontra con Mundt, ex nazista e capo del controspionaggio della Germania dell’Est, a Funerale a Berlino di Guy Hamilton (1966) con Michael Caine, che racconta di un colonnello russo che deve attraversare il confine a Berlino. Ne Il sipario strappato di Alfred Hitchcock (1966) con Paul Newman e Julie Andrews, siamo sempre in piena Guerra fredda: un fisico americano si reca in Danimarca per un congresso e sceglie di collaborare con gli scienziati di oltre confine. Con Octopussy – Operazione piovra di John Glen, (1983), il Cinema di genere ci trasporta invece nei toni più leggeri del mondo di 007: James Bond (Roger Moore) scopre un traffico di gioielli falsi provenienti dall’URSS. Dietro l’intrigo, si nasconde il tentativo di far giungere in Germania un ordigno nucleare. La stessa modernità e, in un certo senso, spettacolarizzazione di approccio, è nello Steven Spielberg de Il ponte delle spie (2015), storia vera ambientata in piena Guerra fredda, con Tom Hanks nei panni di James Donovan, un avvocato coinvol-
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to in una missione della CIA per liberare un pilota americano rapito dai russi. Il processo di modernizzazione della tematica del Muro trova poi assoluto completamento, negli ultimi anni, nell’ action movie per antonomasia: Atomica bionda di David Leitch (2017); una Berlino alla vigilia della Caduta del Muro, immortalata da una opaca luce, sotto le macerie di un disfacimento fisico di luoghi e persone, vede Charlize Theron nei panni di Lorraine, spietata agente del M16, ricostruire i pezzi di un intricato puzzle.
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ra l’intenzione degli ideatori della serie tedesca Deutschland ‘83, la statunitense Anna Winger e suo marito, il tedesco Joerg Winger, quella di recuperare le tracce di un passato che sembra essersi perso nella memoria di molti. Oggi tutto è breve, le notizie si consumano e si dimenticano in pochi istanti, e tendiamo a perdere gli avvenimenti della nostra storia più recente, e concentrarci sull’ultimo minuto. Eppure senza il passato non possiamo capire il presente. “Anche se scrivi del passato, è al presente che stai guardando”, sostiene Anna Winger. Deutschland ’83 racconta il periodo precedente la fine del comunismo, ma non manca uno sguardo al nostro tempo, in cui stiamo assistendo probabilmente alla fine del capitalismo. “Nella corsa al benessere capita che molte persone si sentano lasciate indietro e per questo si concentrano su quello che hanno, sia esso culturale o etnico” afferma ancora la Winger. Se nei palazzi del potere della DDR serpeggiava la paura che gli Stati Uniti potessero colpire la Repubblica Democratica come offensiva contro
l’Unione Sovietica, quello che accade oggi in tutto il mondo è l’ascesa di un diffuso sentimento di destra: entrambi sono il risultato di una frustrazione di fondo e della paura. Deutschland ’83 è un romanzo di formazione vestito da spy story: Martin Rauch, militare della DDR giovane e sveglio, viene incaricato dai servizi segreti di recarsi a Ovest nei panni del nuovo assistente del potente generale Edel, principale alleato degli americani, per capire quando e come i missili statunitensi colpiranno la Germania Est. La sua missione va ben oltre quando si rende conto di trovarsi in mezzo a una farsa, e che sono le paure all’interno dei due schieramenti a mettere veramente a rischio la sicurezza dell’intera nazione. La paura di un attacco, ma ancora di più la paura di perdere ruoli e privilegi che il prolungato assetto bellico consente a una ristretta cerchia, spinge la situazione ai limiti del paradosso, in un gioco delle parti dove tutti hanno una doppia identità. Il doppio lato pubblico/oscuro dà ritmo alla narrazione; il tema della messa in scena è ben piantato da subito, con il discorso di Ronald Reagan, che
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definisce il blocco filo-sovietico come l’Impero del Male, mettendo in stato di allerta i piani alti della STASI. Chi, narrativamente, meglio di un ex attore di Hollywood può rappresentare il tema del gioco delle parti? Oltre alla crescita del protagonista, assistiamo all’evoluzione dei personaggi suoi coetanei, impegnati nel difficile compito di capire che adulti vorranno diventare. Figli della generazione cresciuta sotto il regime nazista, tra i giovani dell’Ovest c’è chi rinnega il mondo libero in cui vivono, accusando i padri di comportarsi peggio dei nazisti contro cui avevano combattuto, e vagheggiando l’idealismo che si respira a Est, dove invece, tra chi vuole restare attaccato alla causa socialista, c’è chi sogna un mondo senza indice di libri proibiti e senza muri.
di Anna QUARANTA
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LE DUE GERMANIE
OVEST A
guardarla da lontano (o al di là del muro), Berlino Ovest, con le sue luci e le sue insegne al neon, doveva apparire come una sorta di luna park, terra di sogni e opportunità da contrapporre più o meno manicheamente alla repressiva e grigia DDR. Eppure, oltre le pubblicità della Coca-cola e l'ostentato benessere, la città, così come l'intera Repubblica Federale, si presentava come un mondo pieno di contraddizioni, attraversato da tutte quelle tensioni sotterranee che, presto o tardi, sarebbero esplose, e che il cinema non avrebbe tardato a raccontare. È qui, negli anni della controcultura e di una contestazione che degenererà ben presto in lotta armata, mentre la libertà (anche quella di stampa, come dimostrerà esemplarmente l'isterismo e il circo mediatico de Il caso Katharina Blum di Volker Schlöndorff, 1975) rivela il suo lato oscuro, che trova spazio di manovra il Nuovo cinema tedesco, un gruppo di giovani autori che segnerà tutto il decennio a venire. Rainer Werner Fassbinder, Volker Schlöndorff, Edgar Reitz e molti altri, con il film collettivo Germania in au-
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tunno (1978), saranno infatti i primi a confrontarsi compiutamente con il fenomeno del terrorismo e con le epigoni di quella Banda Baader Mehinof (riportata nel 2008 alla ribalta da Uli Edel nell'omonimo film) che insanguineranno il paese per oltre vent'anni. E se Fassbinder, dopo aver denunciato il clima repressivo da caccia alle streghe e l'involuzione dello stato di diritto, continuerà il discorso con il grottesco La terza generazione (1979), riducendo la nuova RAF a un gruppo di inetti idealisti pronti a farsi manipolare da un Potere (quello del Capitale e dell'industria) mefistofelico e senza scrupoli, sarà Margarethe Von Trotta a restituire il clima opprimente di quegli anni nel fondamentale Gli anni di piombo (ispirato alla figura della terrorista Gudrun Ensslin), tra paranoia, fanatismo e repressione. Ma nello stesso 1981 del film della regista altre contraddizioni e altre anomalie striscianti, nel frattempo, vengono alla luce. Nella Berlino Ovest all'ombra del muro nuovi demoni si aggirano infatti dietro la facciata di un benessere solo apparente, da quello dell'eroina, che esplode nell'iconico e generazio-
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nale Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Uli Edel, ai demoni estremamente concreti e reali che si impadroniscono dell'Isabelle Adjani di Possession di Andrzej Zuławski, altra storia di doppi e rapporti degenerati in follia. È così che, nel blocco occidentale, nella sua cattiva coscienza e nei fantasmi del suo passato (non ultimo, il nazismo), l'horror irrompe in tutta la sua potenza fisica e simbolica. Se ne ricorderà, anni dopo, anche Luca Guadagnino resuscitando, non a caso, proprio la RAF nella seduta spiritica del suo (non)remake di Suspiria (2018), assieme alle contraddizioni mai sopite di un Paese mortalmente in bilico tra libertà e repressione, rivolta e derive autoritarie.
di Mattia CARUSO
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eneratore di mostri. “Il sonno della ragione genera mostri” è un’acquatinta e acquaforte del pittore spagnolo Francisco Goya e una fonte iconica e filosofica di Possession di Andrzej Zuławski. Se l’opera di Goya era il frutto di una società spagnola del secondo XVIII, secolo in piena crisi sociale e politica, la pellicola del regista polacco naturalizzato francese, è l’espressione di un momento storico – quello a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – in cui il sentore di una tensione mondiale nella suddivisione tra due blocchi politico-militari contrapposti viene rappresentato dalla crisi di coppia esplosa tra Anna (Isabelle Adjani) e Mark (Sam Neill) in una Berlino divisa dal Muro tra Ovest ed Est. In uno spazio metafisico, composto da interni spogli ed essenziali e da esterni freddi e vuoti di umanità, si muovono i due protagonisti, anime solitarie in conflitto, dove Anna può partorire un mostro tentacolare che possiede e da cui è posseduta a discapito del marito e del suo amante, uomini illusi di poter controllarne la ragione e la Storia. Anna diventa simbolo di una femminilità feri(ta)na produttrice di un mostro
con cui avere copule incestuose lontano dagli sguardi umani, ma vicino a quel Muro prodotto dalla mostruosità di possesso territoriale, politico ed economico. In un sistema anomico composto da contrapposizioni socioculturali, il “mostro” di Anna diventa la materica istanza di uno stato di fatto. Divisioni e doppi. Fin dall’incipit abbiamo la cifra stilistica di Possession: nella lunga sequenza dei titoli di testa la cinepresa carrella lateralmente il Muro di Berlino che diventa fin da subito il convitato di pietra di Zuławski. Il Muro, così sempre presente anche quando non è in scena, è il simulacro totemico a cui immolare l’equilibrio dell’interiorità dell’essere umano. Esso divide – lo spazio urbano e la gente – e allo stesso tempo duplica una comunità. Ecco che allora la divisione della coppia diventa prima di tutto politica con la frantumazione dell’unità familiare in una duplicazione individuale: da un lato, abbiamo Helen che è il doppio di Anna (interpretate entrambe dalla Adjani), dall’altro Mark vede il suo clone, mutazione umana del mostro partorito da Anna. Il doppio di Mark è il travestimento umano della mostruosità prodotto dalla divisione
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che porta alla frattura psicologica, familiare, sociale e politica in una mise en abyme segnica che provoca solo orrore e morte. L’abisso dell’Es. Anna si muove all’interno di un appartamento diroccato e labirintico, spoglio e sporco, in un edificio nei pressi del Muro. Qui vive liberamente il suo rapporto con il mostro tentacolare e dà libero sfogo alla sua libido che chiede sacrifici umani: uccide i due investigatori inviati dal marito per scoprirne i segreti e poi il suo amante Heinrich viene gravemente ferito, in una immersione di sangue e liquami che rappresentano il seme dell’Es della donna che partorisce mostri. L’inconscio di Anna diventa un’appendice psichica del Muro, della sua divisività, come un’ascia che si abbatte sull’anima degli uomini e delle donne portandoli alla pazzia. E il finale tonitruante di Possession, tra rumori di fondo di scoppi di bombe e aerei incombenti portatori di disastri atomici, diventa il prologo di una fine non più imminente ma immanente come atto finale dopo la disgregazione intima subita dai personaggi. di Antonio PETTIERRE
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EST di Mattia CARUSO
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'è una netta distinzione – tipica, se si vuole, di ogni Stato autoritario – che intercorre tra la DDR come ci è stata raccontata e tramandata (spesso dall'esterno, oltre il Muro o dopo la sua caduta) e come invece raccontava se stessa. Una narrazione, questa, che spesso, quando non apertamente orientata ai dettami del realismo socialista, sconfinava nel genere e che trovava nella politica cinematografica della DEFA (la più importante impresa cinematografica pubblica della Germania dell'Est) la sua piena realizzazione. Sono effettivamente mondi altri, quelli che mette in scena la Repubblica Democratica Tedesca, spesso in netta contrapposizione – con una tendenza visibilmente filosovietica e antiamericana – a modelli e sensibilità d'oltreoceano, come il fantascientifico Sojux 111 Terrore su Venere di Kurt Maetzig (1960), o come i suoi drammi ribaltati di segno, uno su tutti Der Geteilte Himmel del regista Konrad Wolf (1964), dove la divisione viene rimarcata e messa in scena in storie volte ad esaltare la scelta socialista, in una sorta di percorso speculare ma inverso rispetto a quanto avverrà, per esempio,
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ne Il silenzio dopo lo sparo di Volker Schlöndorff (2000). Per non parlare dei documentari, e di quell'opera mastodontica che è stata I bambini di Golzow, progetto firmato da Winfried e Barbara Junge e girato nell'arco di più di mezzo secolo (dal 1961 al 2007), che segue la vita di un gruppo di ragazzi della Germania dell'Est, fino a dopo la caduta del muro. Eppure, al di là dei prodotti approvati dalla censura, la realtà della DDR sembra ben più ampia e complessa di quella raccontata dal cinema del periodo, anche da quello capace di irrompere oltrecortina (come Die Legende von Paul und Paula di Heiner Carow, 1973). Una realtà segnata dalla forza prevaricante di uno Stato – incarnato nella sua famigerata polizia segreta, la Stasi – onnipresente, che tutto vede e tutto sa (Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, 2006), percorsa da una paranoia quotidiana strisciante e da un controllo invisibile ma concreto (La scelta di Barbara di Christian Petzold, 2012, ma anche la serie Weissensee firmata da Annette Hess), tutti temi che, dalla caduta del Muro in poi, troveranno ampio spazio nelle narrazioni collettive,
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contribuendo a restituirci la dimensione umana, solidale e quotidiana di un popolo (i così detti “Ossie”) troppo a lungo ignorato o demonizzato. “C'era una volta un Paese, e io vivevo lì. Se qualcuno mi chiedesse com'era, direi che era il più bel periodo della mia vita, perché ero giovane e innamorato”, dice il protagonista di Sonnenallee di Leander Haußmann (1999), spaccato tragicomico della vita a ridosso del Muro, tra musica rock clandestina e amori tormentati, nonché perfetto esempio di un'umanità orgogliosa e incapace tanto di ridursi a semplice ingranaggio di un sistema quanto di rassegnarsi a essere un banale stereotipo a uso e consumo dell'occidente e dei suoi pregiudizi.
Soyux 111
di Master BLASTER
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hi normalmente mi legge non si stupirà delle mie posizioni “eretiche”, che ancor oggi vedono nella caduta del Muro più aspetti problematici che positivi. Quindi accetto volentieri il ruolo di advocatus diaboli della DDR. Non è questa la sede per convincere qualcuno della bontà o della malvagità di un dato sistema. Quello che mi interessa mostrare è la quotidianità di un mondo non troppo dissimile dal nostro, attraverso la sua produzione culturale di massa. Al netto del modello di sviluppo e di alcuni valori diversi da quelli dell’ovest, nella Germania Democratica in fondo le cose non erano troppo diverse. C’erano i partiti, con un sistema elettorale volto a favorire l’egemonia della SED ma non dissimile dalla governabilità a vocazione maggioritaria che tanto decantiamo oggi e che comunque non impedì alla CDU di esprimere due presidenti della Volkskammer. C’erano i beni di consumo come la Club Cola. C’erano gli status symbol come la Horc P240. E naturalmente non poteva mancare un cinema d’evasione che rappresentasse attraverso l’affabulazione, le pulsioni, le aspettative e le paure della società alla quale si proponeva. Da quando esiste il cinema, ad ogni latitudine, nessun genere si è mai presta-
to meglio del fantastico alla metafora del reale. Tutti ricordiamo l’esperienza del maccartismo che trova la sua apoteosi in pellicole come La cosa di un altro mondo o L’invasione degli ultracorpi, mettendo in scena l’ossessione americana per il “pericolo rosso”. Ebbene qualcosa del genere trova il suo corrispettivo nella DDR in film come Soyux 111 – Terrore su Venere, una produzione tedesco-polacca del 1960, tratto dal romanzo di Stanislaw Lem, per la regia di Kurt Maetzig. Prodotto più che dignitoso, con qualche ingenuità che comunque possiamo trovare come tratto comune nel cinema di quel periodo in tutto il mondo. Il cliché è quello del viaggio di un gruppo di cosmonauti alla volta di Venere sulla più sofisticata astronave del mondo (la Soyux 111), in risposta ad un misterioso ed indecifrabile messaggio proveniente da quel pianeta che infine troveranno devastato da un conflitto combattuto con armi avanzatissime, sfuggite al controllo dei creatori. Gli effetti speciali oggi farebbero sorridere, ma contestualizzati al periodo non sono affatto inferiori a quelli delle contemporanee produzioni statunitensi, come Il pianeta proibito (1956). C’è anche l’immancabile robot che invece di chiamarsi Roby, qui si chiama Ome-
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ga, ma mantiene la funzione archetipica di deus ex machina con qualche risvolto ironico nella sua interazione con gli umani. La super astronave è ovviamente di fabbricazione sovietica, così come il design dei costumi è ispirato alle tute spaziali della RKA anziché a quelle della NASA. La differenza che invece salta subito agli occhi è la composizione dell’equipaggio. Discostandosi dal modello occidentale che dava un ruolo preminente all’eroe bianco e possibilmente anglosassone, qui la composizione del gruppo è multietnica e di soli scienziati. Trova spazio a bordo anche un fisico statunitense che decide di imbarcarsi nella missione. Per un corrispettivo occidentale bisognerà aspettare Meteor (1979). La tematica di fondo è quella della pace, un monito a considerare la cooperazione come una prospettiva possibile e sempre preferibile a quella di uno scontro. Forse rispetto agli standard a cui siamo abituati l’azione paga un pegno alla riflessione. Un’ultima curiosità, nella versione italiana lo scienziato Saltyk è doppiato da Gianfranco Bellini che pochi anni più tardi sarà la voce di HAL9000 di 2001: Odissea nello spazio.
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SGUARDI D’AUTORE
STORIE DI
confine confini E
di Elisabetta COLLA
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l Muro di Berlino, tragico testimone di separazioni forzate e luogo di confinamento tra mondi vicini divenuti lontanissimi, tra il 1961 e il 1989, non riuscirà fortunatamente a contenere ed arginare legami, emozioni e relazioni fra l’Est e l’Ovest anzi, al contrario, la barriera fisica non farà che esaltare l’anelito ideale alla ricongiunzione, che ispirerà, al cinema come in altre forme artistiche, storie esistenziali di ogni tipo, drammi e commedie legate ai sentimenti di nostalgia e di attesa di una ricomposizione messianica, di ricerca di una vita a tutto tondo, che ricomponga un ‘continuum’ naturale, valicando e frantumando il crinale imposto del Limes. Fra i primi film che iniziano a tracciare una sottile linea rossa in questa direzione, ricordiamo Uno, due, tre!, di Billy Wilder, girato a Berlino nel 1961, commedia satirica sulle due Germanie, volta in tragedia reale, all'alba della costruzione del Muro. Fino agli anni Settanta il fuoco cinematografico cova sotto la cenere, preparando opere indimenticabili che accompagneranno il dolore del popolo tedesco negli anni Settanta e Ottanta ma avviando anche il suo riscatto fino alla caduta del Muro e oltre. La magnifica trilogia di Heimat, opera realizzata dal regista Edgar Rei-
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tz, attraverso la storia della famiglia Simon, di generazione in generazione, racconta la storia del Paese, dalla prima guerra mondiale, alla costruzione del Muro, fino al suo abbattimento e agli anni 2000 (seguiranno Epilogo e L’altra Heimat-Cronaca di un sogno): parola intraducibile in italiano, Heimat racchiude in sé tutta l’emotività e la poetica identitaria e delle origini, in un’opera unica che dischiude le porte ai sentimenti più veri della Germania e all’immaginario d’autore sui temi del confine, tra ferite aperte e difficoltà di ricucirle, quasi sentendosi stranieri in patria e, talvolta, alle proprie, stesse emozioni. Nel 1987 arriva Il cielo sopra Berlino, opera metafisica e forse apice autoriale del grande regista tedesco Wim Wenders, che vede librarsi in cielo sulla città due angeli che osservano, invisibili, pensieri e attività dei viventi, senza potere d’intervento. Fra gli autori non tedeschi che si sono avvicinati al tema del Muro c’è il regista inglese Ken Loach, che nel 1986 dirige Fatherland, raccontando una storia apparentemente semplice che simboleggia altresì la condizione errante, fisica e psicologica di chi si trova fra una dimensione e l’altra del Muro, e dell’esistenza. Ma lo sgomento e le difficoltà, sia pur
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con altro respiro e prospettiva, attengono anche al dopo Caduta, perché il Muro, come spettro ed eredità da elaborare, non lascia spazio soltanto alla gioia bensì a detriti da smaltire, contraddizioni, ritrovamenti. Fra i filmaker che mettono in campo le emozioni e le pene della gente ‘comune’ di fronte al Muro, dopo la sua caduta, ricordiamo l’occhio femminile della pluripremiata regista tedesca Margarethe Von Trotta, che nel 1995, con il film La promessa, racconta il travaglio di Konrad e Sophie, separati per ‘errore’ dal Muro di Berlino in un tentativo di fuga finito male, e la loro storia d’amore lunga 25 anni sotto il mirino della Stasi. L’ombra del Muro di Berlino, o comunque il suo significato e monito, nonostante gli anni trascorsi, il desiderio delle nuove generazioni di dimenticare il passato, rimane ed aleggia nella memoria collettiva della Germania, come testimoniano due film del 2018, l’intenso Cold War del polacco Pawel Pawlikowski, dedicato ad una storia d’amore fatale e impossibile tra due artisti che si muovono fra Berlino Est/ Ovest, e Opera senza autore, di Florian Henckel von Donnersmarck, film che, tra arte e politica, rappresenta lo spettro, sempre in agguato, dei potenziali totalitarismi.
di Luca BISCONTINI
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otsdamer Platz, a Berlino, prima della Seconda guerra mondiale era una delle più belle piazze d’Europa. Al suo posto ora si trova una spianata incolta, una specie di terra di nessuno, e un muro grigio, desolante, ricoperto di graffiti: Wim Wenders gira uno dei suoi film più significativi, Il cielo sopra Berlino, nel 1987, proprio poco prima della caduta di quella triste (e anche un po’ ridicola) barriera che, dal 13 Agosto del 1961 fino al 9 Novembre 1989, ha separato la Germania in due blocchi. Il regista alterna movimenti di macchina sinuosi, aerei e fluttuanti, restituendo magnificamente una sorta di soggettiva dei suoi angeli, a campi lunghi secchi, asettici e malinconici, attraverso cui far emerge la miseria umana della guerra, della divisione, dell’incomprensione. Gli angeli (il magnifico Bruno Ganz e
Otto Sander) di Wenders sono eterni, invisibili (ma non agli occhi dei bambini), capaci di ascoltare i pensieri delle persone. Essi sono fuori dalla Storia, ma come l’angelo di Walter Benjamin, vorrebbero intervenire per interrompere la tragedia umana: “Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto” (Walter Benjamin, Angelus Novus, tr. it. Einaudi 1961, p. 80). Rifacendosi alla poesia sublime di Rainer Maria Rilke e a quella di Peter Handke (che collaborò alla sceneggiatura), Wenders realizza uno dei suoi film più potenti visivamente, coniugando meravigliosamente dimensione universale e particolare, tempo cronologico e durata emotiva, Storia ed Eterno. L’angelo Damiel (Ganz) rinuncia al suo
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privilegio dell’immortalità per scendere tra gli uomini e, come loro, provare emozioni, immergendosi nella vita, assaporandola, godendone ogni istante. Ecco, allora, che l’amore per Marion (la sfortunata e intensissima Solveig Dommartin) diviene l’efficacissima metafora della possibilità dell’incontro, del dialogo, della riconciliazione, della pietà. “Quando il bambino era bambino, non sapeva di essere un bambino, per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime erano un tutt’uno”. (Peter Handke, Elogio dell’infanzia)
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From To
L
’artista è colui che deve cercare la verità, in quanto “tutto ciò che è bello è vero”. Tra le macerie della seconda guerra mondiale, in Germania intorno agli anni '40, inizia a maturare in diverse persone un senso di ricerca verso la verità che si professerà fino alla caduta del muro di Berlino ed oltre. Coloro che lo fanno, saranno poi ‘etichettati’ sotto il nome di artisti, in realtà, allora, si sentivano persone che mosse da un desiderio di ritrovarsi, davanti al disfacimento del genere umano e agli orrori portati dal nazismo, tendono a rifugiarsi nell’arte come unico senso di vita. Tra di loro, c’è chi manifesta il disappunto cimentandosi nel punk, dove la martellante ironia dei testi, associata alla rabbia verso al censura che l’Est gettava su alcuni musicisti della ‘fazione’ opposta, genera gruppi come i Sandow ed i Ramstein, il cui punto in comune, oltre a qualche membro della band, sarà la famosa censura che arriva a controllare case discografiche, agenti e pubblico per non far incidere parole che potrebbero generare idee troppo scomode. Mentre oltreoceano (ma anche dalla Germania stessa: sarà il caso di “Wind of Change” degli Scorpions) arrivano canzoni che decantano
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di Simona GRISOLIA
l’immane caduta del muro, a ‘casa’, nel cuore della Germania, torna nel 1987, un signore di nome Wim Wenders che, oltre a descrivere l’inadeguatezza del genere umano davanti a un’imposizione così gigantesca come il muro di Berlino, ne manifesta anche la disillusione intellettuale in sequenze chiave del film Il cielo sopra Berlino. Quanto la cultura tedesca permette di far comprendere ancora oggi, dopo 30 anni, è il senso di disfacimento culturale e di costante ricerca avvenuta a cavallo del 1989. Cittadini che cercano di spostarsi da Est ad Ovest e viceversa, cittadini che come artisti sono costretti prima a subire le richieste del regime e dopo quelle del Realismo socialista. Ma l’intenzione di staccarsi dal regime, per far vedere quanto si è migliori rispetto ad esso, arriva ugualmente ad imporre nuove regole che turbano. La Germania post guerra, che prova a rinascere, nel tentativo di non apparire come regime, finisce per esserlo, e così l’artista, rincorrendosi, trova nella sola forma del bello uno strumento di verità. Sono i ricordi, le denunce, gli sguardi delle persone a poter raccontare la nuova arte, quelle stesse persone stanche di essere distanti, lontane, stanche
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di essere rappresentate in maniera forzata, come se la loro unica voce potesse essere unicamente quella politica. In questa turbina di sentimenti positivi, ritorna la ricerca del bello, il nuovo bello nel campo artistico, una sicurezza che era stata taciuta per qualcosa di obbligatorio. Come l’opera senza autore di Kurt (Opera senza autore) è una risposta all’insoddisfazione personale e al bisogno di libertà, così i montaggi di Alex e dei suoi amici (Goodbye, Lenin!) non sono altro che la speranza di un futuro diverso, affidato veramente all’umanità. O forse la ricerca del bello, del vero, può combaciare con l’incontro tra la settima arte e la musica, sia questo un incontro fugace – sebbene memorabile – come nel caso del David Bowie di Christiane F., sia un connubio ben più sostanziale come quello tra Wim Wenders e Nick Cave che ne Il cielo sopra Berlino suona, nella città divisa, la sua “From Her To Eternity”, quasi come se la “Her” della canzone, oltre a corrispondere alla “lei” di Damien, fosse anche la “lei” di Wenders, ovvero Berlino, la città che aveva lasciato dieci anni fa per l’America e che ritrova martoriata, divisa, incompresa al suo ritorno.
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n’immagine su tutte: dopo aver compiuto una scorribanda vitale e disperata tra i lunghi corridoi della metropolitana berlinese, Christiane, Detlef, Babsi, Axel, Kessi e Stella, sfuggiti a un inseguimento della polizia, si ritrovano sulla sommità del grattacielo di un centro commerciale, sui cui campeggia un enorme e luminosissimo stemma di una famosa casa automobilistica tedesca, che gira su se stesso, volgendosi in ogni direzione, dominando quasi, con la sua glaciale presenza, la capitale. Forse è proprio a partire da questo drammatico contrasto visivo che prende corpo la tragedia diretta da Uli Edel nel 1981, Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, la quale, facendo eco all’omonimo best seller del 1978, ispirato alla vera storia di Christiane Vera Felscherinow, costituì la prima, vera e crudissima rappresentazione del mondo della tossicodipendenza, aggravata dalla circostanza della giovanissima età dei protagonisti. Assistere alla caduta libera, allo sprofondamento negli abissi, di alcuni ragazzi del tutto sprovvisti della benché minima capacità di comprendere il mondo in cui, malgrado loro, si ritrovano a muoversi, non smette, a distanza di più di 35 anni, di provocare grande
di Luca BISCONTINI sgomento. I problemi famigliari, economici, nonché l’incombenza di una città spettrale, con le sue periferie mastodontiche e alienanti, concorsero ad assestare un colpo mortale all’avvenire di una generazione che, danzando sulle note di “Heroes” di David Bowie, tentava di sottrarsi alla fatalità di un destino imposto dall’indifferenza di una società dedita a una quotidianità ormai insensata, in cui gli individui, al massimo, potevano aspirare al ruolo di produttori e consumatori. Sebbene Edel, seguendo le suggestioni della fonte letteraria, rimanga con la sua macchina da presa ‘in situazione’, nel senso che non tenta neanche di delineare le cause più profonde alle origini del malessere descritto, Christiane F. non cessa di rimandare a un fuori campo assoluto che riverbera continuamente nel film. Un film che riuscì a far sgorgare, tra gli interstizi delle immagini, i termini di una dialettica più ampia, quella che investì impietosamente tutti quei giovani che, all’epoca, senza probabilmente neanche rendersene davvero conto, rifiutarono in blocco una logica che li avrebbe completamente sussunti, riducendoli a carne da macello, come poi sarebbe stato superbamente confermato dal leggendario lungometraggio di Alan
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Parker del 1982, tratto dal capolavoro senza tempo dei Pink Floyd, The Wall. Per non parlare del nostro, devastante, e mai sufficientemente troppo rivalutato, Amore Tossico (1983) del compianto Claudio Caligari. Tali assonanze, dunque, confermano quanto quel periodo, in cui, di contro, il cinema americano delle major predicava amicizia fraterna e una fiducia ingenua, mosso più che altro dall’entusiasmo miope dell’edonismo reaganiano, fu il frutto di un’attenta politica dell’esclusione, il cui principale obiettivo era mettere fuori gioco, con un disegno preciso e spietato, chiunque rifiutasse di allinearsi. Christiane F. costituisce così, oggi più che mai, una preziosissima testimonianza di un’epoca e di un mondo che, seppur definitivamente archiviati, non cessano di rifluire dal passato, giustapponendosi all’asetticità di un presente sciagurato, in cui lo scontro e le fisiologiche frizioni sono stati messi tra parentesi, in nome di una liquidità senza attriti. Un film che deve essere sottoposto all’attenzione delle nuove generazioni, e riproposto a chi non ne avesse compreso appieno il valore e la forza dirompente.
Rivista indipendente di cinema
OLTRE IL MURO
Il cinema dopo la Caduta di Mattia CARUSO & Paola DEI
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er quanto positiva possa essere stata, è innegabile che la caduta del Muro, per gli abitanti delle due Germanie, abbia avuto la portata di un immenso shock, con tutte le ricadute, i drammi e le contraddizioni del caso. Una frattura, un evento epocale, persino un lutto, se vogliamo, che, dal 9 novembre 1989 in poi, la Germania cerca di elaborare e di superare, dapprima mettendo in scena uno sguardo altro, apparentemente lontano dalla Storia e dalla più cocente attualità (un nuovo-nuovo cinema tedesco che si può riassumere nel film manifesto Lola corre di Tom Tykwer del 1998, un'opera comunque intrisa di riferimenti al tempo e ai suoi “finali alternativi”), poi facendo i conti con le conseguenze della caduta, dal fenomeno dell'”Ostalgie”, la nostalgia dei cittadini dell'Est per la DDR, rappresentata perfettamente da Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker (2003) alla strisciante rinascita di nazionalismi dal sentore xenofobo. Quando nel 2014, all'allora Festival del Cinema di Roma, proiettarono il film di Burhan Qurbani We are Young. We
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are Strong, il fatto sembrò un evento isolato che investiva e riguardava una piccola comunità di ragazzi cresciuti con una educazione inadeguata, soprattutto a causa di padri che non erano riusciti a trasmettere loro valori determinanti. Eppure, in questa piccola opera che guarda a L'Odio e a una società di figli incapace di sostenere il peso di qualsiasi responsabilità, l’intento del cineasta afgano naturalizzato tedesco, non è stato solo quello di raccontare una storia isolata: il suo reale motivo ispiratore è stato il mostrarci la situazione tedesca dopo la caduta del muro di Berlino. Una situazione incandescente, tra xenofobia e nuovi rigurgiti di razzismo ai danni di profughi ed emigrati, pronta a esplodere a Rostock durante i moti del 1992, frutto di una psicosi collettiva che allontanava “la peggio gioventù” dal principio di realtà in una totale mancanza di empatia verso tutti i diversi. Una rabbia sconosciuta, quasi catartica verso coloro che erano ritenuti in qualche modo scarti della società e portatori di malessere, che diviene azione, mentre la sicurezza-insicu-
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rezza delle nuove generazioni cede il posto a istinti omicidi e tensioni che superano qualsiasi plausibile motivazione e ragionamento, impedendo di rendersi conto che il diverso non è lontano da noi, ma sorprendentemente vicino, nelle profondità della nostra psiche. Un pregiudizio e un post giudizio – come lo ha definito il sociologo Luca Ricolfi – che, da quell'evento in poi, pare mettere radici profonde nel tessuto sociale della Germania unificata, condizionando anche il nuovo millennio e il cinema che tenterà di raccontarlo, come nel caso di Oltre la notte di Fatih Akin (2017), ispirato all'attentato terroristico di matrice xenofoba e neonazista di Colonia del 2004. Esempi emblematici per raccontare il cinema tedesco dopo la caduta del muro di Berlino e, soprattutto, per restituirci il quadro di un Paese rabbioso o, nel migliore dei casi, confuso e apatico (Oh Boy – Un caffè a Berlino di Jan Ole Gerster, 2012), alle prese con le più pericolose e allarmanti conseguenze che quel tanto agognato crollo ha comportato.
di Rita ANDREETTI
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e dopo la caduta del Muro viviamo la realtà della Repubblica Democratica come un piccolo paradiso perduto, allora siamo preda di una ostalgia. Universalmente riconosciuto come l’esempio più calzante di questa visione ostalgica, è Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker (2003) e la sua surreale e iconica Germania Socialista negli anni della deriva capitalista post Muro. A raccontarla in prima persona è Alexander (Daniel Brühl). Il padre è un professore fuggito nell’Ovest che lascia la moglie Christiane e i due figli a Berlino Est. Lei non sopporta la perdita e cade in depressione; poi si ripiglia per amore dei figli e reagisce per sublimazione, dedicandosi anima e corpo alla causa socialista. Alex e la sorella crescono, e vedono presto i loro sogni di bambini ridimensionati. Così, quando si paventa una possibilità di cambiamento, Alex è il primo a seguire la massa che protesta nelle strade. In un incontro assolutamente non previsto, la madre si imbatte nel suo bambino che inneggia alla Perestrojka mentre lei si reca alle celebra-
zioni ufficiali del quarantennale della DDR. Alex, rosso di sangue per le botte da manganello, lei, in abito rosso da cerimonia. Il cuore non le regge alla vista del figlio infìdo, e a pochi giorni dal 9 novembre 1989 si accascia a terra. Lungo preambolo che dà vita alla parte più geniale del film: Christiane si risveglia dopo un coma di otto mesi, e la Repubblica Democratica non c’è più. Al suo posto una Grande Germania dove il nemico non è più nemico, ma è tuo fratello, e il vicino non abita più di là dal Muro. Tentando di scongiurare un nuovo collasso cardiaco, Alex ricompone il mondo di Honecker nelle quattro mura di casa; allestisce un’elaborata messa in scena anacronistica che è piuttosto una ode alla premura con cui la madre aveva cresciuto i propri figli. Alex così le rende il favore ricreando nel suo studio di posa casalingo, piccole e sincere sicurezze: i cetriolini dello Spreewald, la marmellata del Partito, il coro dei bambini che inneggiano alla “Heimat”, un telegiornale vecchio stile. Ma quanto più Alex si accanisce per cercare di celare la realtà, tanto più la realtà si accanisce su di lui.
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La pantomima a tinte slapstick non dura a lungo, perché la madre azzarda i suoi primi passi nella neonata Grande Germania: lì, in una confusa visione quasi onirica, rivelatoria, saluterà un Lenin svolazzante, quel mezzo busto decadente nella sua ultima corsa deambulata. Quel cuore affaticato arriverà infine a fare pace con tutti i paradisi perduti, e a salutare la nuova Berlino sempre più bella. Wolfgang Becker lo racconta con una piacevole autoironia che è la fotosintesi del film e della DDR tutta: insomma, non era proprio tutta da buttare questa patria socialista. Perché in effetti, vista così, eccolo qui il capitalismo tanto bramato: il commercio di mattoni più lucroso della storia, un mondiale di calcio, la Coca Cola, gli hamburger, lo sdoganamento del porno... E allora sì, ti viene (n)ostalgia di casa.
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