SPECIALE CANNES 2016 “Il cinema necessario di Ken Loach” Intervista a Davy Chou Toni Erdmann Maren Ade Julieta Pedro Almodovar American Honey Andrea Arnold La fille inconnué fratelli Dardenne Personal shopper Olivier Assayas Juste la fin du monde Xavier Doland Ma luote Bruno Dumont Paterson Jim Jarmush Rester Vertical Alain Guiraudie Aquarius Kleber Mendoça taxidrivers Rivista indipendente di cinema
Mal de pierres Nicole Garcia Moi, Daniel Blake Ken Loach Ma' rosa, Brillante Mendosa Bacalaureat Cristian Mongiu Loving Jeff Nichols The Last face Sean Penn Agassi Park Chan Wook Elle Paul Verhoeven Sieranevada Cristi Puiu The Neon Demon Nicolas Windig Refn 1
Divines, poesia di periferia di Anna Quaranta
Bacalaureat di Elisabetta Colla
Fiore, l’amore ai tempi del carcere di Anna Quaranta
Dietro la scia di Cannes 69…
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Forushande (The Salesman) di Elisabetta Colla
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a porta. Anche nel premiare la migliore attrice non si è voluto dimenticare il grido di attenzione che il grande cinema del filippino Brillante Mendoza ha rivolto alla sua casba Manila: Jaclyn Jose incarna una Ma’ Rosa tragica e passivamente battagliera, conscia della condanna ad una vita di stenti e soprusi nel mondo delle formiche umane nel quale lei e la sua famiglia sono gettati. La corruzione strisciante nelle pieghe più imprevedibili della società ce la racconta la Miglior Regia del rumeno Cristian Mungiu e il suo Bacalaureaut, dentro una Romania stanca e smarrita, senza prospettive. La favola moderna della banlieue parigina di Divines, tra inferno e paradiso, è la Camera d’Or di questa edizione, la migliore opera prima di Houda Benyamina, il cinema del futuro, presentata alla Quinzaine des Réalisateurs. La bucolica e naïf Finlandia sorpassa tutti in Un certain regard: The Happiest Day in the Life of Olli Mäki di Juho Kuosmanen è cinema sociale nella metafora della vittoria e del successo ‘sacrificato’ per l’amore. Non ci sono tutti i premi, non ci sono tutti i film… ma TAXIDRIVERS vi lascia una scia da seguire ed inseguire. Ci vediamo (e ci leggiamo) l’anno prossimo.
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La Pazza Gioia
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Juste la fin du monde (It’s Only the End of the World) di Francesca Vantaggiato
The Handmaiden di Francesca Vantaggiato
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di Francesca Vantaggiato
Elle: l’ambiguità targata Paul Verhoeven
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di Elisabetta Colla
Paterson
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I, DANIEL BLAKE di Elisabetta Colla
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di Francesca Vantaggiato
Intervista a Davy Chou, regista di Diamond Island
di Maria Cera
llontanando le polemiche sui premi assegnati quest’anno, ciò che resta negli occhi sono sempre e solo i film… Vince il cinema sociale, conquistando il podio più alto con I, Daniel Blake e la inossidabile resistenza militante di Ken Loach, esternata nella folle burocrazia del welfare inglese, scientemente contro la cura delle classi sociali più deboli ed indifese. Una forte denuncia sociale, l’incomunicabilità feroce ed inevitabile della cosiddetta famiglia di Juste la fin du monde, Gran premio della Giuria dell’enfant prodige Xavier Dolan: ennesimo tratteggio delle catene affettive dei legami di sangue e dei drammi che producono sulle singole esistenze dei suoi componenti. La contrapposizione tra formazione culturale e condizionamento sociale, le cadute e le contraddizioni tra pensiero ed azione quando all’improvviso la realtà in Iran ti mette alla prova, la acuta riflessione e la Migliore Sceneggiatura per Forushande di Asghar Farhadi. L’altra faccia della disoccupazione la mostra dentro un cinema tattile e percettivo Andrea Arnold, il Premio della Giuria nel racconto visivo di American Honey e dei giovani statunitensi che si consumano tra crack e vendita di riviste porta
Toni Erdmann
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di Maria Cera
Fai bei sogni: il mistero e l’inquietudine del legame materno di Maria Cera
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Gli inferni impressionisti di Mendoza sono indispensabili di Maria Cera
Il cinema sociale e femminista dei Dardenne di Maria Cera
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Divines, poesia di periferia
Bacalaureat
Opera prima della cineasta franco-marocchina Houda Benyamina, Divines, nonostante le tinte fosche e cupe, alterna momenti di spensieratezza e restituisce allo spettatore una favola moderna che fa pensare al dramma sociale vissuto quotidianamente nelle periferie del mondo
Dall’Est il sogno di una vita migliore fra generazioni a confronto
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di Elisabetta Colla
di Anna Quaranta coppia l’applauso del pubblico sui titoli di coda e si prolunga per oltre sei minuti, per lasciare spazio alla regista e agli attori, tutti visibilmente emozionati, compresa l’interprete.
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Divines è un misto di commedia e tragedia a sfondo sociale, ambientato nella periferia di una città francese, tra la banlieu e la baraccopoli, il campo Roma; è anche una storia d’amore e d’amicizia e molto altro. La vita di Douna (Oulaya Amamra), una ragazza del campo Roma alle prese con una madre instabile e problematica (Majdouline Idrissi), ha due punti fermi: la sua migliore amica Maimouna (Deborah Lukumuena), una ragazzona sempre allegra e piena di vita, che si lascia trascinare dalle idee della sua compagna; e la sua voglia sfrenata di fare soldi (“money, money, money”) per riscattarsi dalla povertà. Alla ricerca della maniera più veloce per arricchirsi, Douna si scontra con Rebecca (Jisca Kalvanda), una sorta di “mammasantissima” nel traffico di droga del quartiere e Djigui (Kévin Mischel), un giovane di modeste origini che fa la guardia in un supermercato e di sera studia danza, a cui affida il suo sogno di riscatto. Da un lato ci sono i guadagni facili, i traffici loschi, e il coinvolgimento di Rebecca in situazioni torbide e poco pulite e dall’altro c’è il lavoro duro e costante di Djingui, che Douna osserva inizialmente con scherno, per poi farsi travolgere dalla passione che il ragazzo mette nella sua arte; Douna oscillerà tra l’inferno e il paradiso fino all’ineluttabile destino che, seppur non colpirà lei direttamente, innescherà l’ennesima guerra tra poveri da cui si sfugge molto difficilmente. Divines, nonostante le tinte fosche e cupe, alterna momenti di spensieratezza (la scena in cui Douna e Maimouna fanno finta di guidare una Ferrari è un misto di poesia e commedia che vale tutto il film) e restituisce allo spet-
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tatore una favola moderna raccontata anche attraverso i video girati con lo smartphone, mezzo di comunicazione di questi anni, soprattutto tra le giovani generazioni. Il pubblico della Quinzaine si lascia letteralmente trascinare da questo piccolo capolavoro di scrittura (scritto a sei mani dalla regista insieme a Romain Compingt e Malik Rumeau), regia e recitazione; qualcuno lo paragona a West Side Story, qualcuno lo definisce un “film perfetto”, sicuramente è un film ricco di temi di attualità, come la violenza e le lotte nelle periferie, gli idoli che sono sempre i soldi e i beni materiali, e anche la storia di una giovane donna che prende coscienza della propria femminilità e dalla sua aridità di partenza riesce a raggiungere la maturità di donna che la porta ad accogliere l’altro. La regista, al suo primo lungometraggio, spiega entusiasta che la perfezione del film è dovuta al cast artistico con cui ha lavorato; è stato un percorso lungo, la Benyamina ha diretto tutti con forza ed emozione, quella stessa emozione che è il motore che la spinge a fare cinema, “per condividere le mie emozioni e la mia visione del mondo”.
Divines Paese: Francia AnnO: 2016 Regia: di Houda Benyamina Sceneggiatura: di Romain Compingt, Houda, Benyamina e Malik Rumeau FotografiA: di Julien Poupard (AFC) Durata: 105’ Genere: Drammatico Prodotto: Easy Tiger e France 2 Cinéma Distribuzione: Diaphana Films
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alla Romania al mondo intero, una storia sui dilemmi dell’onestὰ, della colpa, dell’ambizione e del desiderio: così Cristian Mungiu, regista romeno classe 1968, già Palma d’Oro a Cannes nel 2007 con “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni,” costruisce il suo quinto film “Bacalaureat” (Baccalauréat) partendo da una famiglia della classe media (padre medico, madre bibliotecaria, figlia al liceo) di un paesino della Transilvania, per allargare la visuale, da un lato ai gangli della corruzione striscianti nelle pieghe più imprevedibili della societὰ, e non solo ad Est, dall’altro alle scelte confliggenti con la propria coscienza che ciascun uomo può trovarsi a dover fare. Il protagonista Romeo, è infatti un medico rispettabile con moglie e figlia, che per anni non ha mai ceduto alle piccole scorciatoie che abbondano invece nel suo paesino, finché due eventi inattesi non cambiano il corso delle cose: s’innamora della bella insegnante d’inglese della figlia, avviando con lei una storia extra coniugale e, avvenimento ancor più dirompente, la figlia Eliza, bravissima negli studi, viene aggredita e quasi violentata vicino alla scuola il giorno prima degli esami di diploma da cui dipendono un’agognata borsa di studio a Cambridge ed il futuro stesso della ragazza. La vita sembra complicarsi in modo inestricabile, e Romeo cerca di risolvere la situazione ricorrendo ad ogni mezzo, dapprima chiedendo al preside della scuola di avere un occhio di riguardo per la figlia, e poi spingendosi oltre, con l’aiuto di un piccolo boss locale, a cui promette un trapianto da lungo atteso e con la complicitὰ del suo amico d’infanzia ispettore capo della polizia. L’attore Adrian Titieni, nel ruolo di Romeo, mostra bene l’evoluzione del personaggio, le sue perplessitὰ ed ansie di controllo ma anche la sua determinazione a portare avanti per la figlia l’ideale di una vita
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migliore - incurante del fatto che i desideri di lei sono altri, restare in Romania con il suo ragazzo, la madre e l’adorata nonna - quello che lui e la moglie avevano sognato da giovani e che si è invece scontrato con la dura realtὰ di un Paese e di un’epoca critica e priva di prospettive. Delle tante massime universali che si potrebbero citare, da ‘il fine giustifica i mezzi’ a ‘l’occasione fa l’uomo ladro’, Mungiu propone, fra le altre risposte possibili, almeno per l’uomo comune, quella di un poliziotto che si rivolge al protagonista proponendogli di chiudere un occhio su alcune interferenze telefoniche in cambio della consegna di un colpevole: ‘errare humanum est’. La morte naturale di anziani corrotti e la capacitὰ dei giovani del film di non farsi manipolare sembrano offrire una sorta di spiraglio ad un’atmosfera altrimenti irrespirabile, entro cui risuona estremamente attuale una frase/monito che Mungiu affida alla nonna di Eliza: “se i migliori decidono tutti di emigrare, chi cambierà questo Paese?”.
Regia: Cristian Mungiu Paese: Romania Genere: Drammatico Anno: 2016 Durata: 127’
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Fiore, l’amore ai tempi del carcere
Forushande (The Salesman)
Con un film delicato e profondo, Claudio Giovannesi entra in un carcere minorile e racconta l’amore di due adolescenti, tormentato e difficile e tenero e dolce al tempo stesso, senza tralasciare il difficile in cui avviene la crescita dei personaggi
La società iraniana messa in scena al teatro
di Anna Quaranta
di Elisabetta Colla
Claudio Giovannesi, classe 1978, regista de La casa sulle nuvole (2009) e Alì ha gli occhi azzurri (2012) è uno dei tre cineasti italiani, insieme a Paolo Virzì e Marco Bellocchio, in cartellone alla Quinzaine 2016. Fiore, co-prodotto da Rai Cinema, è la storia di Dafne (Daphne Scoccia), una ragazzina che sbarca il lunario tra furti e rapine; suo padre Ascanio, interpretato da Valerio Mastrandrea, è da poco uscito di galera e fatica a ritrovare l’equilibrio accanto alla sua nuova compagna e al figlio di lei. Così quando Dafne viene mandata in carcere a seguito dell’ennesimo furto si ritrova sola e abbandonata. Dapprima diffidente verso tutti e soprattutto pronta a usare piccoli favori in cambio di cose materiali come mp3 o sigarette, successivamente l’apertura del padre nei suoi confronti e la storia d’amore con Josh (Josciua Algeri), anche lui rinchiuso nel carcere, la faranno maturare e le faranno percepire il piacere di fare le cose per gli altri, per il gusto di farlo, senza alcun tornaconto. L’amore che nasce tra i due ragazzi è delicato e dolce, anticipato da un rapporto epistolare clandestino: durante la sua giovane esistenza Dafne ha imparato a non spendersi mai senza avere nulla in cambio; la crescita del suo personaggio si completa proprio quando arriva a rischiare la sua libertà in cambio di un momento d’amore con Josh. E ci arriva gradatamente, attraverso piccoli impercettibili cambiamenti che si susseguono nel film, insieme agli altri avvenimenti che scuotono la vita nel carcere. Fondamentale in questa sua educazione sentimentale è la figura del padre, che dapprima è assente e poi inizia ad occuparsi, seppur in maniera poco costante, della figlia.
centrarsi sulla sua nuova vita, ancora in bilico tra la libertà e la galera, tralascia quella della figlia. Dafne si attacca a quel padre che ha sempre cercato e non ha mai vissuto pienamente, accontentandosi anche delle briciole, come la canzone Sally di Vasco Rossi, i cui versi molto ricordano la sua storia. La forza del film è proprio nella delicatezza di raccontare un amore tra adolescenti, in un contesto duro e aspro come quello del carcere. A Dafne e Josh batte il cuore come a tutti i ragazzi della loro età e inventano piccoli escamotage per rubarsi uno sguardo o un bacio, lontani dagli occhi dei sorveglianti. Per girarlo Claudio Giovannesi e gli altri sceneggiatori Filippo Gravino e Antonella Lattanzi hanno trascorso 4 mesi nel carcere di Casal di Marmo nei pressi di Roma e sono partiti proprio dalla domanda “è possibile per due adolescenti vivere l’amore in un contesto come quello di un carcere?”
Fiore Paese: Italia-Francia Anno: 2016 Regia : di Claudio Giovannesi Sceneggiatura: di Claudio Giovannesi, Filippo Gravino e Antonella Lattanzi Fotografia: di Daniele Ciprì DuratA: 109’ Genere: Drammatico Prodotto: da Pupkin Production e IBC Movie in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: BIM
La risposta che il film ci dà è sì, è possibile vivere senza libertà, ma mai senza amore.
Valerio Mastrandrea conferisce al personaggio di Ascanio quella disperazione mista alla dolcezza e allo smarrimento di un uomo che sta cercando di rimettere in insieme i pezzi della propria vita: sceglie una compagna più intraprendente e concreta (che fatica ad andare d’accordo con Dafne) perché ha bisogno di concretezza e basi solide, e forse per con6
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’originalità del cinema iraniano continua a gratificarci con opere sempre nuove e di notevole spessore, come Forushande (The Salesman), scritta e diretta dal geniale Asghar Farhadi (Una separazione, Orso d’oro a Berlino e Oscar Miglior Film Straniero nel 2011, Il passato) e presentata nel concorso ufficiale di Cannes 2016: la pellicola si è aggiudicata a pieni voti il Premio per la Miglior Sceneggiatura, di Farhadi stesso, e quello per il Miglior Attore, assegnato dalla Giuria al protagonista maschile Shahab Hosseini, che ha dedicato al padre scomparso la sua vittoria. Nel film si racconta la storia di una giovane coppia di sposi, Emad (l’attore premiato Shahab Hosseini) e Rana (la brava attrice Taraneh Alidoosti), costretta a traslocare a causa del crollo incipiente dell’edificio in cui vive (evidente la simbologia, fin dall’inizio, con l’Iran, paese che rischia la rovina, da certi punti di vista, in bilico fra vita e morte, dove gli abitanti non si sentono al sicuro); il trasferimento nella nuova casa però, abitata in precedenza da una donna misteriosa e poco raccomandabile, trascinerà i due coniugi in un dramma esistenziale e psicologico di ampia portata, che inizia quando la sposa apre involontariamente la porta ad uno sconosciuto con intenzioni poco chiare, mettendo a dura prova la pur solida unione tra i due. Parallelamente agli eventi diurni, la coppia mette in scena ogni sera, con una compagnia teatrale di amici, la pièce teatrale Morte di un commesso viaggiatore, di Arthur Miller - che procurò al drammaturgo Americano il Premio Pulitzer nel 1949 - quasi a trasferire sulla scena, nei dialoghi e nell’interpretazione, le medesime tensioni, angosce e conflitti familiari vissuti nella vita vera. Oltre ad indagare l’animo umano e le sue profondità – senso di colpa, onore, sospetto, orgoglio, vendetta e perdono – il film mostra quanto sia difficile, anche per dei giovani colti ed intelligenti (Emad è insegnante) come vengono descritti i protagonisti, far emergere il loro vero sentire oltre le apparenze e gli stereotipi, sociali taxidrivers Rivista indipendente di cinema
e di genere, in cui si è immersi nella società iraniana, quasi obnubilati psicologicamente così come si è avvolti dalla cappa di smog che sovrasta la città di Teheran. Da rimarcare le modalità con cui vengono messi in scena nel Paese i classici teatrali di fama mondiale, frequentatissimi dal pubblico, ma spesso ‘censurati’, nell’adattamento in Farsi, o nei dialoghi o nelle scene considerate poco ‘ortodosse’. Farhadi, considerato un artista rivoluzionario (così come Kiarostami e Makhmalbaf prima di lui) per i temi che affronta e per la capacità di mettere a nudo con grande realismo le incongruenze della società iraniana attuale, ha commentato rispetto alla vittoria ottenuta: ‘’Sono contento, perché i premi ai miei film portano gioia al mio popolo’’.
Regia: Asghar Farhadi Paese: Iran Genere: Drammatico Anno: 2016 Durata: 125’
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I, DANIEL BLAKE
La Pazza Gioia
Vincere cantando la classe operaia tra poesia e dramma quotidiano
Raccontare la follia per combattere gli stereotipi
di Elisabetta Colla
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di Elisabetta Colla
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na Palma d’Oro giusta e sacrosanta, quella assegnata al film di Ken Loach, a 10 anni di distanza dalla vittoria del 2006 con Il vento che accarezza l’erba. Ce ne vorrebbero molti altri di film come I, Daniel Blake e di registi come il vecchio, caro, immarcescibile Ken Loach, ispirato cantore della classe operaia, che dopo tanti anni di lotte, cinematografiche e non solo, continua a battere sempre dove il dente duole, come nel caso di questa pellicola in concorso alla 69esima competizione cannense, che si concentra sulle paradossali angherie ed ingiustizie subite da onesti cittadini, sotto forma di trafile burocratiche e cavillosi depistamenti creati ad arte per scoraggiare, in particolare, le persone ammalate o bisognose, obbligate a richiedere sussidi economici allo Stato. Girato nei dintorni di Newcastle e sceneggiato dal braccio destro di Loach, Paul Laverty (autore della maggior parte delle sceneggiature dei film dell’ormai ottuagenario maestro inglese), il film racconta la storia di un falegname vedovo e quasi sessantenne, Daniel Blake, che a causa di un grave problema cardiaco deve sospendere il lavoro ed affidarsi ai sussidi statali di disoccupazione: per mantenere questi ultimi, però, deve necessariamente frequentare un job center e riempire estenuanti formulari, pena onerose sanzioni. Dalle interminabili file senza esito alle domande vuote e tendenziose poste da questionari prestampati; dagli impiegati disincantati e privi di empatia dei centri di assistenza e collocamento, alle telefonate a pagamento dove si attende in linea anche un paio d’ore per parlare con qualcuno; dall’applicazione on line di ogni tipo di richiesta personale, che prevede competenze informatiche non da tutti possedute, all’obbligo di partecipare a corsi su come costruire un curriculum vitae, al recente varo di un odioso sistema di sanzioni che possono inopinatamente bloccare il sussidio a coloro il cui comportamento non sia ritenuto conforme alle regole: Loach 8
denuncia con puntualità di dettagli ed amara ironia tutto il sistema britannico, simbolo di un’epoca di derive neo-liberiste, che si trincera dietro al falso managerialismo dei colletti bianchi per vessare le persone deboli e sole, che non possono permettersi gli avvocati, che mangiano con i buoni-spesa alla mensa dei poveri, cercando di farle girare su se stesse e ritardare quanto più possibile l’assegnazione dei sussidi. Ma Daniel Blake si ribella, perché “se un uomo perde l’amor proprio non ha più niente” e lo scrive sui muri con una bomboletta spray, disposto ormai a tutto per rivendicare la propria dignità di lavoratore e cittadino. Non basterà a cambiare le cose neppure l’incontro con Rachel, una giovane donna single, ed i suoi due figli, con i quali il protagonista instaura un rapporto di amicizia e tenerezza, lui che vive nel ricordo della moglie amata dalla quale non ha avuto bambini. Gentile e generoso con tutti, con il giovane vicino africano che commercia scarpe da basket made in Cina, con la donna disorientata del job center, o con i figli di Rachel (anche per le madri single e disperate, Loach continua a mostrare qui come in altri film il suo occhio premuroso e benevolo), per i quali intaglia oggetti di legno raccontando loro bellissime storie, Daniel incarna quel mondo dove la solidarietà fra esseri umani, il lavoro ed i valori solidi ed autentici rappresentavano il significato stesso dell’esistenza. Un mondo, come i suoi esponenti, sembra dire il regista, in via di estinzione. Prodotto da Rebecca O’Brien, di Sixteen Films, in coproduzione con Why Not Productions e Wild Bunch e con il sostegno di British Film Institute e BBC Films, il film è interpretato, nel ruolo dei due protagonisti principali, Daniel e Rachel, dagli intensi volti di Dave Johns e Hayley Squires. Nella speranza che l’indomito Ken Loach, che nel ricevere l’ambito riconoscimento ha affermato “un altro mondo è non solo possibile, ma necessario”, non si stanchi mai di sfornare i suoi preziosi film.
Regia: Ken Loach Paese: Gran Bretagna/Francia Genere: Drammatico Anno: 2016 Durata: 100’
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oesia, dramma e sorriso si fondono, in un’originale sintesi, nel film La pazza gioia, diretto dal regista toscano Paolo Virzì, e presentato con grande successo (10 minuti di applausi!) alla Quinzaine des Realizateurs 2016, che ha selezionato quest’anno le opere di altri due registi italiani, Sweet Dreams di Marco Bellocchio e Fiore di Claudio Giovannesi. L’uscita del film è stata posticipata ad hoc in Italia, proprio dopo la notizia, graditissima, della selezione al Festival: “Essere presi a Cannes è stato un piacere ma anche una sorpresa - ha commentato Virzì - la lettera del Festival ci chiedeva il film in première mondiale e così abbiamo cambiato in corsa i programmi”. Protagoniste assolute dell’opera, ambientata in una comunità di recupero per donne con problemi psichici, sono le interpreti femminili, prima fra tutte la straordinaria Valeria Bruni Tedeschi, in stato di grazia nel ruolo di una signora bene un po’ svitata e iperattiva, seguita da Micaela Ramazzotti, misurata e ben diretta come ragazza di borgata con una tragica storia alle spalle, Valentina Carnelutti nel ruolo della psicologa ‘tosta e pura’, pronta a lottare per le sue pazienti, Anna Galiena che mostra senza inibizioni i segni del tempo - nel ruolo di una madre triste e inaridita, ed infine tutte le pazienti autentiche nel ruolo di sé stesse, che suggellano visivamente quel lirismo e quelle suggestioni già stilizzati nello script. La pellicola, infatti, creatura nata dal matrimonio professionale (e dall’antica amicizia) tra il regista e sceneggiatore toscano Paolo Virzì (Ovosodo, Tutta la vita davanti, Il capitale umano, La prima cosa bella) e la regista e sceneggiatrice Francesca Archibugi (Mignon è partita, Il grande cocomero, L’albero delle pere, Il nome del figlio), risente fortemente della doppia impronta stilistica: se Virzì riesce, con la consueta e colorita energia a raccontare la società complessa che ci circonda (in questo caso il mondo del disturbo mentale e della presunta normalità) ed a dirigere attrici ed attori con grande capacità narrativa, il tocco della Archibugi è personalissimo nel disegnare il disagio e la complessità dei personaggi femminili entrando profondamente nel loro intimo, con delicatezza taxidrivers Rivista indipendente di cinema
ed incisività. Da qui scaturisce l’equilibrio e la godibilità di un film davvero ben riuscito, nella forma e nella sostanza, che parla di psicopatologia della vita di tutti i giorni, cercando di non creare una demarcazione netta tra la linea della pazzia e quella della ‘normalità’, inno alla libertà ed all’accettazione di ogni diversità come dono e ricchezza. Le due protagoniste principali, infatti, l’inarrestabile Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), contessa decaduta, millantatrice impenitente di conoscenze altolocate, ossessivamente in cerca di eleganza e privilegi, e la fragile ex-cubista tatuata e solitaria Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), profondamente ferita dalla vita, si incontrano per caso in una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, entrambe sottoposte a misure giudiziarie. Fra le due imprevedibili e diversissime creature nascerà un’inattesa amicizia ed uno spregiudicato sodalizio che le condurrà ad aprirsi l’una all’altra e ad allontanarsi insieme per qualche giorno dalla loro ‘prigione’, Beatrice a caccia di avventura ed emozioni forti, Donatella sulle tracce del figlio che le è stato strappato e dato in adozione. Tra lacrime (sulla scena e in sala), euforia, commozione e situazioni surreali, l’opera evidenzia la profonda verità ed umanità del verso “gioia e dolore hanno il confine incerto”, tratto dalla bellissima Ave Maria di Fabrizio De André (La Buona Novella, 1970) cantata nel film dagli animatori di una messa ‘alternativa’, celebrata all’interno della comunità. Il mondo reale, sembra concludere il regista, è pieno di follia e ciò non deve spaventare: “Spesso le persone interessanti, da raccontare, sono quelle fuori degli stereotipi, quelle che sbagliano: non bisogna aver paura dei matti, ma di quelli che ne hanno paura”. Le musiche originali di Carlo Virzì (fratello del regista), la struggente canzone Senza Fine di Gino Paoli e le belle location in terra toscana completano una pellicola capace di far ridere e piangere al tempo stesso, come si conviene alla miglior arte del cinema.
Regia: Paolo Virzì Paese: Italia Genere:Commedia Drammatico Anno:2016 Distribuzione: 01 Distribution
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Juste la fin du monde (It’s Only the End of the World)
The Handmaiden L’estetica elegante di Park Chan-wook a servizio di una storia d’amore e di colpi di scena
Il crollo di una famiglia in un melodramma urlato
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di Francesca Vantaggiato
enza mai perderne il controllo, l’enfant prodige Xavier Dolan esaspera il melodramma ed estremizza la recitazione in Juste la fin du monde, un’oppressiva e ora urlata ora taciuta iperstilizzazione di una disfunzione famigliare. Questa volta non è esclusivamente il rapporto con la madre a essere indagato e messo in crisi, il figlio non uccide simbolicamente il genitore (I killed my Mother) e la madre non reagisce in modo coercitivo alle inquietudini violente del figlio (Mommy). L’ansia, l’incomprensione, la collera, la precarietà degli equilibri, l’inadeguatezza nel lasciar fluire le emozioni, i silenzi incolmabili e i monologhi gridati coinvolgono l’intera famiglia. L’incomunicabilità e il disagio relazionale sopraffanno, avviluppano e inghiottono un nucleo famigliare infetto. Anni fa Anne Dorval (la madre nel sopracitato I Killed my Mother) suggerisce vivamente a Dolan di leggere la pièce teatrale vernacolare It’s Only the End of the World di Jean-Luc Lagarce, consiglio che vede un primo approccio fallimentare e la totale comprensione dell’opera dopo la lavorazione di Mommy. Juste la fin du monde è la storia di un acclamato scrittore francese che ritorna a casa dopo circa dieci anni di assenza per comunicare alla sua famiglia la sua morte imminente. Dolan chiama a raccolta un cast eccezionale: Gaspard Ullielrecita la parte di Louis, lo scrittore silenzioso, Nathalie Baye la geniale e stravagante madre, Léa Seydoux è la sorella musona e risentita tuttavia piena di ammirazione per il fratello, Vincent Cassel è Antoine, sempre arrabbiato e pungente, Marion Cotillard la cognata remissiva e impacciata. Tutti attendono l’arrivo del famoso Louis e vorrebbero trascorrere una giornata piacevole con lui, intenzione che viene puntualmente disattesa. La camera divora i personaggi in continui primi piani e lascia il resto fuori dalla scena. Non sappiamo niente di loro, del loro passa-
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di Francesca Vantaggiato
to, a parte un breve ed onirico flashback di Louis, dei loro rapporti, delle vite attuali, del perché di questa lunga assenza. Probabilmente è l’arrivo di Louis a disorientarli, eccitarli, esasperarli a renderli impreparati al dialogo. O forse è questa generale pazzia ad averlo portato lontano. Nella claustrofobia della famiglia imperano il dramma, l’imbarazzo, l’ansia, logorroici e collerici monologhi. Anche negli scambi a due con Louis – ogni membro ne cerca uno – la comunicazione è univoca, Louis risponde a tutti con un silenzio criptico e un sorriso ancora più eludente e nessuno è in grado di mettere a fuoco l’oggetto della conversazione. Risultato, grida irose e silenzi pesanti assicurano di evitare il confronto con le proprie emozioni e con la persona tanto attesa. Juste la fin du monde potrebbe essere un incubo di Louis, di cui assumiamo il punto di vista e lo sguardo confuso, un’allucinazione premonitoria e temuta dell’incontro rivelatorio, una scioccante visione di un amore tossico. Nel corso di questa euforica e disastrosa giornata Louis è sempre più provato, sconvolto, consumato dalla schizofrenia generale ma anche dal senso di colpa e dalla paura di irritarli ancora di più. La posizione di Louis è paradossalmente insopportabile e assurda: la comunicazione è la panacea per tutti i mali e allo stesso tempo l’affronto ultimo di un fratello-colpevole che, dopo l’abbandono e la dimenticanza, rientra nelle loro vite da vittima. In questa commedia-melò nera come la pece – nessuno avrebbe potuto usare meglio la traccia pop dance Dragostea di tei (You want to leave but don’t want to take me) nella scena cult di madre e figlia – l’istituzione ‘famiglia’ è ormai ridotta a brandelli, è luogo malsano, perverso e insanabile. Juste la fin du monde è uno di quei film che divide, respingente e condannato senza appello per alcuni, per altri, come per chi scrive, è un inflessibile melodramma sui rapporti famigliari intenzionalmente recitato e diretto sopra le righe.
Anno: 2016 Durata: 95’ Genere: Drammatica Nazionalità: Francia Regia: Xavier Dolan
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na borseggiatrice (KIM Tae-ri), un’ereditiera (KIM Min-hee, protagonista dell’acclamato Right Now, Wrong Then) e un truffaldino falsario (HA Jung-Woo) sono i protagonisti del thriller d’amore del coreano Park Chan-wook intitolato The Handmaiden, ispirato al romanzo Fingersmith (Ladra) di Sarah Waters. Tre punti di vista per tre capitoli di campo, controcampo e colpo di scena. Dal romanzo al film, l’Inghilterra vittoriana diventa l’era coloniale nella Corea degli anni ’30. Lady Hideko è la ricca nipote di Kouzuki (CHO Jin-woong), un collezionista di libri antichi per il quale la ragazza legge davanti a un selezionato pubblico i suoi preziosi manoscritti. Insieme vivono in un’immensa tenuta architettonicamente definita dall’impressionante convivenza dello stile inglese e quello giapponese. Il Conte, falsario di Kouzuki, vorrebbe sposare Lady Hideko con l’obiettivo di rinchiuderla in manicomio ed entrare in possesso del lauto bottino. Per compiere il suo piano ingaggia Sooke, una ladruncola che vive con la madre adottiva, la quale assunta come serva personale di Lady Hideko, deve convincerla a sposare il Conte, che come Kouzuki tradisce le proprie origini coreane e per fingersi giapponese. Questa è la trama del primo capitolo, dopo il quale tutto diventerà il contrario di tutto in un gioco di twist affidati al piano di ciascun personaggio. Park Chan-wook, dichiaratosi attratto dalle due figure femminili, l’una con un passato oscuro e l’altra con un presente miserabile, dirige una storia d’amore lussuriosa e di rivalsa femminile dall’immaginario maschile con un approccio minimalista in un design impeccabile. In un gioco di tradite alleanze svelate ognuna in ciascun capitolo, l’autore coreano mostra erotismo, amore e perversione secondo l’uomo e la donna. L’incontro tra le due donne si trasforma inaspettatamente in un’attrazione passionale sensualmente seguita dalla camera. Il rapporto sincero tra Lady e serva tradisce e smaschera l’intrigo siglato in nome del denaro e vince una perversione taxidrivers Rivista indipendente di cinema
che raggiunge l’apice, o il fondo, nel luogo mortifero delle torture. In contrasto all’amore caldo, divorato, fedele e devoto delle donne si colloca la figura impotente dell’uomo, con il suo vile intento ingannante nella persona del Conte e l’erotismo perverso dello zio che non riesce a possedere l’oggetto del desiderio se non nella tortura – letterale della moglie morta suicida e psicologica della nipote obbligata a leggere e rappresentare come fosse
un manichino la letteratura erotica. Più che essere un film sull’amore lesbico, The Handmaiden è l’amore delle e tra le donne senza gli uomini, che risultano creature abiette e imbranate, incapaci di amare all’infuori dell’immaginazione pornografica e del principio di dominazione come fonte di piacere per la donna. La relazione tra Lady Hideko e Sooke, a dispetto della distanza sociale, è simmetrica, sincera e strabordante di passione, è una storia d’amore e di libertà dai rispettivi fantasmi e da figure maschili vittoriosamente sconfitte. Nel 2013 ad aggiudicarsi la Palma d’Oro fu l’amore tra due ragazze raccontato nella Vie d’Adele, con la famosa scena scandalo
di sesso ripreso e mostrato senza stacchi di camera da Kechiche. Quelle immagini sbiadiscono davanti al virtuosismo elegante e rovente dell’amore totale di Park Chan-wook, dall’epilogo ammiccante dell’equivalenza di due corpi e piaceri femminili che si muovono sinuosi secondo l’intrigante tintinnio dei campanelli d’argento.
Anno: 2016 Durata: 144’ Genere: Drammatica Nazionalità: Corea del Sud Regia: Park Chan-wook
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Toni Erdmann
Paterson
La commedia terapeutica di Maren Ade
L’anti-dramma di una vita semplice e poetica
di Francesca Vantaggiato
di Francesca Vantaggiato
O L
a commedia di Maren Ade può essere suddivisa in due parti: una prima in cui padre e figlia non si intendono più e si sentono irritati e in imbarazzo dallo stile di vita dell’altro, e una seconda in cui nelle vesti dell’immaginario Toni Erdmann il padre cerca di forzare la figlia a entrare nel suo mondo comico per riallacciare quel legame affievolito. Prima dell’ingresso in scena dell’improbabile Toni Erdmann, Winfried (Peter Simonichek) cerca invano di comprendere la figlia Ines (Sandra Hüller) usando i vecchi trucchetti che un tempo ormai molto lontano la divertivano. Ines è un’algida e ambiziosa consultant manager impiegata a Bucharest in un prestigioso progetto e votata alla carriera, Winfried è un insegnante di musica preoccupato per la felicità della figlia. La visita inaspettata di Winfried a Bucharest non aiuta il loro rapporto che anzi si impantana nell’ insuperabile incomunicabilità e spinge il padre a tornare in Germania. La prima battuta del film sul rapporto padre-figlia in crisi è lineare e funziona in uno schema dove ogni personaggio rimane inchiodato sulla propria netta posizione. Il rischio percepito è di assistere all’ennesima storia, scarna di sfumature, su donne incapaci di conciliare carriera e vita, fallimentari negli affetti quando squali manageriali di succes12
so, e padri eccentrici alla stregua di bambini mai cresciuti, inadatti a mantenere in piedi un matrimonio e riempiti dal solo affetto del proprio cane. In effetti i due poli di questa commedia amara sono esattamente così ma Maren Ade controbilancia il rischiato cliché con un twist tanto inaspettato quanto imprevedibile, disorientante e sovversivo. L’arrivo di Toni Erdmann – alter ego di Winfried camuffato con disgustosi denti finti e una viscida parrucca – rimescola le carte in tavola e crea un ibrido linguistico, con un padre che finge di essere il life coach del CEO di Ines e la figlia che tira fuori uno humor insperato mostrando di sapersi adattare al padre in questa surreale messa in scena. Il testa a testa tra due titani inarrestabili e versatili è linfa vitale per una commedia euforica a usata nel nome della riconciliazione famigliare. Maren Ade è una burattinaia precisa, è lucida nel colorare di vita i due ossi duri e sa chiaramente come e quando arrivare all’epilogo. Senza sbavature e bilanciando con misura la gag comica con la commedia più raffinata e nera, Toni Erdmann è un lavoro encomiabile costruito su momenti memorabili ed efficaci, come la spiazzante esibizione di Gratest Love of All eseguita da un duetto ancora in cerca di equilibrio e la festa di compleanno con un dress code livellante che obbliga tutti a mostrarsi senza maschere.
Anno: 2016 Durata: 113’ Genere: Drammatica Nazionalità: Germania, Austria Regia: Maren Ade
taxidrivers Rivista indipendente di cinema 12
de alla semplicità, all’accettazione della vita, all’amore coniugale, ai ritmi tranquilli della periferia. In Paterson Adam Driver è un conduttore di autobus a Paterson, nel New Jersey. Si chiama Paterson come la sua città, scrive poesie inedite su un taccuino segreto, è sposato con Laura (interpretata dall’iraniana Golshifteh Farahani che ha recitato per Asghar Farhadi in About Elly), una casalinga che ama decorare la casa, sogna di diventare una cantautrice country e vendere cupcakes, e ogni sera esce con il loro bulldog Marvin per chiacchierare con il proprietario del bar di quartiere, Doc (Barry Shabaka Henley). Paterson, che prende il titolo dalla cittadina e dal poeta-autista in essa radicato, è linearmente strutturato in sette parti secondo i giorni della settimana. La vita della coppia è mostrata nell’ordinarietà delle sue abitudini, una routine fatta di sveglie, partenze in autobus, cene e chiacchiere sui sogni da perseguire mai percepita come noiosa o in procinto di sgretolarsi in una crisi esistenziale. Jim Jarmusch mostra la ripetitività ipnotica della routine di due eroi della periferia come completezza e senza derisione. Quando Adam scrive i primi versi di una poesia d’amore ispirata da una scatola di fiammiferi, o quando Laura esprime il sogno ora di guadagnare una fortuna con la vendita di cupcakes ora quello di comprare una chitarra per diventare una stella del country, potrebbe sembrare l’inizio di una storia di un poeta senza talento e della sua capricciosa compagna. Con piacevole sorpresa ci accorgiamo da subito, invece, che in Paterson Jarmusch tratta i suoi beniamini con affezione, ne apprezza lo sguardo sul mondo che incarna la poesia del vivere semplice: i poemi di Paterson racchiudono la bellezza delle piccole cose, la vendita dei dolci preparati da Laura è un trionfo, il suo impegno neltaxidrivers Rivista indipendente di cinema
la musica porta risultati sorprendenti, il loro amore è solido e privo di conflitti. Ogni tanto nella cittadina vuota dei poeti come William Carlos Williams, che Paterson legge e stima, arriva qualcuno pronto a condividere pensieri ed esperienze con il pacato protagonista, il quale è sempre pronto allo scambio. Paterson è l’anti-dramma, è la glorificazione di una relazione sana, della poesia stimolata e nutrita dall’attenzione al dettaglio, proprio come accade al Paterson protagonista attento ai discorsi dei suoi passeggeri, ai consigli e idee di Laura, alla rottura dolorose di una coppia conosciuta al bar, all’idea di poesia di un giapponese incontrato per casa. Non hanno figli, Paterson non è famoso, Laura non ha ancora definito la sua carriera e Marvin ha distrutto un taccuino pieno di versi, eppure la loro felicità non è messa in discussione. Quest’esistenza intenzionalmente privata di azione e dramma dal regista, questa maniera di vivere nella poesia, di riconoscere l’arte delle piccole cose può tendere solo verso un futuro pieno.
Anno: 2016 Durata: 113’ Genere: Drammatica Nazionalità: USA Regia: Jim Jarmusch
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Intervista Diamond Island, presentato alla Semaine de la Critique – Cannes 2016 e premiato con il Prix SACD, segue i sogni, le amarezze, la malinconia di Bora (Sobon Nuon), un ragazzino che lascia il villaggio per andare a lavorare come operaio nel lussuoso cantiere di Diamond Island. Quest’isola vicina alla capitale Phnom Penh vuole essere il simbolo del progresso e della modernità, se non altro è l’emblema della globalizzazione guardata con fascinazione e speranza dalle nuove generazioni cambogiane. In questo luogo/non luogo, Bora incontra il fratello maggiore Solei (Cheanick Nov), andato via di casa anni prima e supportato negli studi universitari da uno sponsor americano. Con gli occhi attenti di Bora partecipiamo alle fatiche quotidiane degli amici e colleghi Dy (Mean Korn) e Virak (Samnang Nut) per realizzare il sogno di una vita migliore e ci addentriamo con incanto nella vita notturna e lussuosa di Solei. Diamond Island incarna lo spirito di una generazione che non riesce o non vuole ricordare il passato, sebbene sia impossibile prescinderne, e cerca piuttosto di tendere verso un futuro poderoso, globale, un futuro in cantiere, in costruzione, che impone rinunce e perdite con la promessa di opportunità allettanti. Il talentuoso Davy Chou, classe ’83, usa la fotografia come griglia per guidarci e confonderci nella percezione di Bora della realtà, nelle sue osservazioni del mondo circostante fatto di sogni disattesi, aspirazioni realizzate, occasioni prese e altre mancate, nel nome della ricerca di nuovi e più felici, forse illusori, approdi.
portato a girare questo film è la meraviglia che ho potuto osservare sui volti dei giovani cambogiani quando si recavano su Diamond Island, sia per lavorare come operai nei cantieri, come il protagonista del mio film, sia solo per trascorrere una notte in giro con le moto. Questi occhi sognanti e pieni di incanto mi hanno mostrato che quei ragazzi vedevano qualcosa che io non riuscivo a percepire, che quel posto dava loro qualcosa di cui avevano bisogno in questo preciso momento storico in Cambogia, ed io volevo capire cosa vedevano e perché.
a Davy
FV: Bora è attratto dallo stile di vita di suo fratello, per il quale nutre forte ammirazione e che vive il lato ricco e appariscente di Phnom Penh, ma quando poi si tratta di sentimenti volge lo sguardo alla vita e persone semplici. È forse il simbolo di una generazione? DC: Ho infatti preso ispirazione da diversi fatti osservati negli ultimi anni trascorsi in Cambogia. Non so se Bora è un simbolo, non credo, ma il film parla dell’attrazione generata dalla rapida modernizzazione e globalizzazione nei giovani cambogiani, e inoltre solleva la domanda sui sacrifici o le perdite necessarie per accedere alla modernità. Personalmente, considero il film anche come un racconto morale.
Chou,
FV: Hai scelto di lavorare con attori non professionisti. Puoi dirci il perché di questa decisione, il modo in cui avete lavorato assieme e in che misura hanno introdotto una dose di realtà nella storia? DC: Dall’inizio della lavorazione avevo l’intenzione di lavorare con attori senza esperienza poiché è difficile trovare buoni attori professionisti in Cambogia. È stata una vera sfida, giacché abbiamo speso 4 mesi insieme al mio team andando in giro per Phnom Penh alla ricerca degli attori, ma alla fine è stato così gratificante! Abbiamo incontrato centinaia di giovani, dopodiché ho selezionato il mio cast, guidato dall’intuizione che si sarebbero rivelati dei bravi attori, li abbiamo formati una volta a settimana per tre mesi insieme al mio assistente Meas Sreylin. È stato un lavoro graduale, inizialmente hanno imparato a guardarsi l’un l’altro, a muovere il corpo, esprimere le emozioni… Per me è stato affascinante poterli vedere crescere e avere fiducia in se stessi, e le loro personalità hanno anche influenzato la mia scrittura: ho modificato i personaggi, innanzitutto perché ciò che rivelavano gli attori era a volte molto più interessante di quanto avessi immaginato, e poi perché era più semplice per loro recitare qualcosa di più vicino a loro. Sono molto contento e orgoglioso dei risultati della recitazione nel film, e non vedo l’ora di presentare il film in Cambogia e vedere come sarà accolta la performance degli attori.
DC: In realtà non è proprio così. Non volevo creare una grande differenza nel trattamento di un cosiddetto “mondo povero” in contrapposizione a un “mondo ricco”. Ero piuttosto interessato a cerca di trovare una traslazione audio e visiva della percezione dei personaggi riguardo al mondo circostante. Questi occhi meravigliati di cui parlavo prima. Pertanto, abbiamo lavorato molto sull’estrazione dei colori dall’ambiente, e creato quell’atmosfera attrattiva che rappresenta Diamond Island per i ragazzi che la frequentano, dai luoghi eleganti alle costruzioni incomplete. Se volessimo parlare di stilizzazione nel film, riguarderebbe piuttosto la distinzione tra giorno e notte. Volevo che la notte avesse un senso di onirismo, in cui non si è affatto sicuri di sognare oppure no. Il giorno, anche se rimane colorato, è più realistico, con il sole caldo che illumina i personaggi. FV: Solei ha uno sponsor, una figura che rimane fuoricampo. In cosa consiste avere uno sponsor? DC: E’ davvero comune in Cambogia: gli stranieri scelgono di aiutare un bambino e lo supportano finanziariamente, in particolar modo per avere il minimo indispensabile, e per essere in grado di studiare, fino all’università. Si affidano a delle organizzazioni, come le ONG. Ho degli amici che, grazie ai loro sponsor, sono riusciti a studiare nelle migliori università cambogiane, o persino a vivere all’estero. Immagino sia stata l’ispirazione per scrivere la storia sullo sponsor di Solei. FV: Nel documentario Golden Slumbers hai riscoperto la sconosciuta storia del cinema cambogiano, 15 anni di produzione distrutta nel 1975 dall’arrivo dei Khmer Rouges. La storia che racconti è in qualche modo influenzata dal periodo dei Khmer Rouges? DC: Non direi che ne è influenzata, perché la mia ispirazione qui viene dall’osservazione della Cambogia di oggi, e da ossessioni personali. Ma è impossibile dimenticare completamente da dove viene la Cambogia e quanto il tragico passato del Paese abbia direttamente influenzato il Paese di oggi. Direi, ad esempio, che l’impressionante amnesia percepita nel parlare con i giovani cambogiani, o persino andando su Diamond Island, è una diretta conseguenza del trauma causato dai Khmer Rouges, e di come il Paese cerchi di affrontare, o dimenticare, tali questioni.
regista di FV: Nel 2014 hai realizzato il cortometraggio Cambodia 2099. È stato il primo passo verso Diamond Island? DC: Assolutamente si. A quel tempo avevo appena accantonato la stesura di un lungometraggio e avuto l’intuizione di voler scrivere una nuova storia ambientata a Diamond Island, isola vicina a Phnom Penh dove si costruisce questo centro della modernità in Cambogia. Invece di scrivere, ho deciso di girare prima una sorta di cortometraggio improvvisato, diventato poi Cambodia 2099, per darmi l’ispirazione a realizzare poi Diamond Island. FV: In Diamond Island passato e presente sono rispettivamente rappresentati dal villaggio rurale e da Diamond Island del titolo. Cosa significano per te questi luoghi? DC: Rappresentano due mondi che non condividono niente ma coabitano vicini. In particolare, mostrano quanto sia stato veloce lo sviluppo in Cambogia, e quanto un modo di vivere perpetuato per anni stia lentamente scomparendo.
Diamond Island FV: La vita nel villaggio rurale è autentica e dolorosa, quanto accade su Diamond Island appare come l’allucinazione di una globalizzazione brutale. Nel tuo film sembra che la Cambogia sia afflitta da un passato che fa i conti con un presente finto? DC: La tematica del sogno e dell’illusione è molto importante nel film. Ciò che mi ha 14
FV: Un dualismo – realismo della povertà e iperstilizzazione del benessere – segnano l’estetica del film. Come lo hai ottenuto e messo insieme le due visioni?
FV: Qual è la situazione attuale del cinema in Cambogia? Hai avuto o hai dei modelli a cui ispirarti? DC: L’industria cinematografica in Cambogia sta diventando sempre più forte! Negli ultimi anni, i filmmakers cambogiani sono una realtà emergente, soprattutto giovani al loro primo cortometraggio, ma anche registi quarantenni che con successo hanno diretto i loro primi lungometraggi, come ad esempio Kulikar Sotho o Sok Visal. Adesso abbiamo cinema moderni, a differenza di 5 anni fa, si sta affermando il Cambodia International Film taxidrivers Rivista indipendente di cinema
couldn’t see, that this place were providing them something they needed at that precise moment of Cambodian history, and I wanted to understand what they were seeing and why. FV: Bora is attracted by the lifestyle of his admired brother living the rich and ostentatious side of Phnom Penh but when it comes to deep feelings turns his eyes to the simple life and people. Is he a symbol of a generation? DC: I indeed took as inspirations many things I’ve been observing for the last few years living in Cambodia. I don’t know if Bora is a symbol, I guess not, but the film talks about the attraction this fast modernization and entering in globalization is producing on Cambodian youth, but also raises the question of the sacrifices or the loss one needs to do to access this modernity. So I personally also see the film as a moral tale. Festival, che ogni anno richiama un numero crescente di pubblico. Ho l’impressione che FV: Your actors are all non professional. nei prossimi anni sentiremo parlare sempre Can you tell us how you chose them, the way you worked together and in which più del cinema e dei registi cambogiani. way they brought a dose of reality in the English Version – Interview at Davy Chou, story? DC: I wanted since the beginning to work director of Diamond Island FV: In 2014 you released the short movie with non experienced actors as it’s hard to find Cambodia 2099. Was it the first step to Dia- good professional actors in Cambodia. So it was very challenging, as we spent 4 months mond Island? DC: Absolutely. At that time I just gave up with my team to ride around Phnom Penh to the writing of a feature film script, and I just find the actors, but it was so rewarding! Behad the intuition that I wanted to write a new cause we met hundreds of young people, and story which would all take place on Diamond after I chose my main cast, mainly based in Island, that island very next to Phnom Penh my intuition that they would be able to reveal where they are building this hub of modernity themselves as actors, we started to train them in Cambodia. So instead of writing, I decided with my assistant director Meas Sreylin, once to shoot first a kind of improvised short film, a week for 3 months. We went step by step, which became Cambodia 2099, to give me and they first learn to look at each other, to move their bodies, express their emotions… inspiration to write Diamond Island. For me it was fascinating because I could FV: In Diamond Island past and present see them growing and taking confidence in are represented, respectively, by the rural themselves, and their personalities also influvillage and the Diamond Island of the title. enced my writing: I changed the characters, first because what the actors revealed to me What these two places mean to you? DC: It represents two worlds that don’t was sometime much more interesting that share anything in common but cohabitates what I had imagined, and second because it closely. For me it shows especially how fast was easier for the actors to play something the development has occurred in Cambo- close to them. I’m very happy and proud with dia, and also how a way of living, that was the result of the acting in the film, and I can’t perpetuated for ages, slowly disappears. wait for us to show the film in Cambodia and see how the performance of the actors will be FV: Life in the rural village is authentic received there. and woeful, what happens on the Diamond Island looks like an hallucination of a FV: A dualism– realism of poverty and brutal globalization. In your film, Cambo- hyper-stylization of wealth – marks out dia seems to be wracked by a past to face the aesthetics of the movie. How did you reach it and make the two visions work a fake present? DC: The thematic of dream and illusion is in- together? deed very important in the film. What makes DC: I wouldn’t see things like that actually. me want to write and shoot this film, is this I didn’t want to make a big difference in the look of wonder I could see in all the faces treatment of a supposedly “poor world” in of young Cambodians coming on Diamond opposition to a “rich world”. I was mostly Island, whether they were working there interested to try to find a visual and audio as construction workers, as the man char- translation of how the characters perceive the acter of my film, or whether they were just world that surrounds them. Again, this eyes coming at night on their motos to hang out. of wonder I was talking about. For that reaThose dreamy eyes of wonder which showed son, we worked a lot on how to extract colors me that those kids were seeing something I from their environment, and build a feeling taxidrivers Rivista indipendente di cinema
that Diamond Island, from the nice areas to the unfinished constructions, represents this attractive world, colourful and full of desires, for the young people hanging out there. If there was a change of stylization in the film, it would be between the days and the nights. I wanted the nights to bring a sense of oneirism, in which we are not sure anymore if we are dreaming or not. And the days, even if they remain colourful, would be more realistic with the heavy sun falling on the characters. FV: Solei has a ‘sponsor’, a figure who stays outfield. What is actually a sponsor? DC: It’s actually very common in Cambodia: foreigners would choose and help one kid and sponsor him, mainly to have minimum needs, and to be able to study, until university. They are usually put in touch through organizations, such as NGOs. I have some good friends who, thanks to their sponsors, could study in the best Cambodian universities, or even live abroad today. That was I guess an inspiration to write this sponsor story of Solei. FV: In your documentary Golden Slumbers you discover the unknown history of Cambodian cinema, a 15 year production destroyed in 1975 by the arrival of the Khmer Rouges. Is the story you tell somehow influenced by the Khmer Rouges period? DC: I wouldn’t say it’s influenced by the Khmer Rouge, because my inspiration here comes from my observations of today Cambodia, and from personal obsessions. But it’s impossible to totally forget where Cambodia comes from and how the tragic past of the country has a direct influence on how the country is today. I would for example say that the striking amnesia you could feel talking to Cambodian youth today, or even going on Diamond Island, is a direct consequence of the trauma caused by the Khmer Rouge, and on how a country tries to face, or forget, those issues. FV: How is the cinema situation in Cambodia? Did/do you have any model who inspires you? DC: Cinema industry in Cambodia is really getting better and better! For the last couple of years, Cambodian filmmakers have emerged, mainly young filmmakers making their first short films, but also directors in their 40s who directed successfully their first features, such as Kulikar Sotho or Sok Visal. We have now modern cinemas, which wasn’t the case 5 years ago, there is a Cambodia International Film Festival that drowns more audience every year, so I kind of feel we will hear more and more about Cambodian films and filmmakers in the next coming years.
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Elle: l’ambiguità targata Paul Verhoeven Paul Verhoeven è la sorpresa dell’ultimo minuto. Sorniona lo aspettavo, sperando in un pizzico di eccitazione cinematografica intelligente, divertente e sanamente perversa, come lui sa egregiamente rendere. di Maria Cera
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lle ravviva una chiusura di questa edizione del festival di Cannes accompagnata da pellicole fischiate e imbarazzanti. A ‘friccicare’ la stampa, proprio l’ultimo film in programma per il Concorso: Elle è una pellicola brillante, originale, dove le contraddizioni, le pulsioni, le verità, le menzogne, i luoghi comuni, le non convenzioni si mescolano, si confondono, donandoci una pittoresca ambiguità. Ambiguità è la parola chiave per disinnescare il flusso di situazioni e personaggi che la popolano, capitanate da un figura femminile inafferrabile… Michèle è la superlativa Isabelle Huppert, una donna che appare indistruttibile. La vediamo subire l’inaspettata e scioccante aggressione-violenza sessuale in casa sua e reagire alla cosa come ad uno spiacevole contrattempo. Capo di una piccola società di videogiochi, nel lavoro e nella gestione della vita privata adotta la medesima praticità esistenziale. Attorno a lei ruotano una serie di meteore impazzite che rendono non semplice un equilibrio: in primis suo figlio, grande fanciullo succube di una fidanzata dall’umore psicopatico; l’ex marito scrittore in pausa, abbandonato ma controllato a vista nelle sue relazioni; una madre che tenta di esorcizzare la propria vecchiaia in un rapporto con un giovane squattrinato; una coppia di vicini scissa tra la blindata dedizione cattolica di lei e la perversione controllata di lui; una coppia di amici storici e colleghi di lavoro tradita da Michelle nel sesso che la donna si concede con lui. Dentro questo calderone si insinua e affiora un passato ingombrante per Elle e sua madre depositato nella figura di un padre assassino seriale. Ad aggiungere pepe alla vicenda, la poliziesca caccia privata di Elle al suo violentatore, che riaffiora nella vita della donna con piccoli indizi sparpagliati nel quotidiano. Adattamento cinematografico del romanzo del 2012 Oh… di Philippe Djian, Verhoeven lavora sul canovaccio scritto ed adattato dallo sceneggiatore David Birke con tutta la maestria nel pilotare, incrociare, isolare i molteplici stimoli contrastanti che ci attraversano. L’ironia stempera e ravviva insie16
me certi paradossi, ci fa comprendere che la vita è costantemente popolata da ambiguità, menzogne, senso del ridicolo, che gli affetti danno soprattutto problemi, che l’istinto e la ragione lottano quotidianamente e incessantemente ogni giorno dentro gli uomini e che l’equilibrio si può raggiungere staccando la spina al proprio motore come fa Elle: basta volerlo e agire per farlo. Tutto il cast della pellicola sorregge alla perfezione un ritmo, già dai dialoghi, allegramente senza tregua… Corriamo, ci fermiamo, prendiamo un bel respiro e continuiamo a camminare insieme a tutti loro!
Elle Paul Verhoeven Titolo: Elle Regia: Paul Verhoeven Sceneggiatura: David Birke Fotografia: Stéphane Fontaine Interpreti: Isabelle Huppert, Virginie Efira, Christian Berkel, Laurent Lafitte, Alice Isaaz, Anne Consigny, Vimala Pons, Jonas Bloquet, Charles Berling, Olivia Gotanègre, Lucas Prisor, Raphaël Lenglet, Jean-Noël Martin, Judith Magre, Jean Douchet Nazionalità: Francia Germania – Belgio, 2016 Durata: 2h. 10’
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Fai bei sogni: il mistero e l’inquietudine del legame materno Fai bei sogni è un inno di amore e di terrore verso la figura della madre, che Bellocchio attraversa ripercorrendo la vicenda autobiografica di Massimo (indossato nel volto e nell’anima da un convincente Valerio Mastrandrea), che in tenera età si vede improvvisamente e violentemente strappare via la sua giovane mamma.
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arco Bellocchio e la sua prima volta alla Quinzaine Des Réalisateurs. Senza la pressione di una vera competizione, e con una pellicola Fai bei sogni, nata dal romanzo autobiografico best seller di Massimo Gramellini, testo apparentemente distante dalle corde stilistiche più sottili e raffinate del maestro del cinema italiano. Ma il tema del libro non può non ipnotizzare la curiosità di Bellocchio, una delle ossessioni delle sue introspezioni visive e narrative sin dai talentuosi esordi giovanili. Mamma è una parola che mi spaventa: così semplice da pronunciare, è il rapporto più forte ed indefinibile in assoluto dell’esistenza. Indefinibile per le dinamiche biologiche, sessuali, piscologiche ed affettive che lo caratterizzano: una vera e propria dipendenza in primis di sangue, di viscere, un legame di origine, l’unico vero dio che ogni uomo può riconoscere in colei che lo genera, che lo espelle da sé, donandogli insieme alla vita, una porzione della propria… Bellocchio senza indugi ci introduce nella relazione privata tra il piccolo Massimo (un prodigio il bambino che lo interpreta) e sua mamma, la brava Barbara Ronchi, che incarna alla perfezione un dio difficile da dimenticare. Giovane, bella, gioiosa, totalmente complice con Massimo, ‘gioca-filtra’ con il piccolo ballando con lui, cantando Resta cu mme di Modugno mentre gli fa compagnia durante i suoi compiti. Massimo non può non restare ipnotizzato da quella figura femminile, da quella promessa di un amore assoluto, indistruttibile. Quel dio non morirà mai: sarà sempre con lui. Sempre. Ma una notte, il dio scompare. Massimo è svegliato dalla zia, il padre portato giù per le scale… E la mamma sparita. Massimo vuole andare a trovarla, perché gli dicono che è all’ospedale, nessuno però lo accompagna. Sarà un prete a rivelargli che la mamma è andata in cielo (in cielo dove??), che non potrà stare più con lui. Il piccolo cotaxidrivers Rivista indipendente di cinema
di Maria Cera mincia la sua battaglia contro il mondo degli adulti, che gli impedisce di far tornare da lui la mamma. “Svegliati mamma, svegliati! Ti stanno portando via! Svegliati!”, la avverte da fuori la bara, in un commovente richiamo complice, ma la mamma non esce. Quel vuoto, quella mancanza, non riusciranno mai a colmarsi. Il ragazzo e poi l’uomo, nelle tappe che accompagneranno la sua vita, ne sentirà sempre il peso: un isolamento interiore che nessun rapporto riuscirà a spezzare. Una sola figura lo aiuterà a non impazzire, il suo amico immaginario Belfagor, il fantasma del Louvre, popolare eroe nero della tv anni 60’ impresso nei ricordi del piccolo. E una sola donna riuscirà ad imporsi sentimentalmente nell’universo interiore dell’uomo: Elisa, un medico conosciuto dopo un attacco di panico, la indipendente e femminile Bérénice Bejo. Bellocchio sceglie una direzione abbastanza lineare nel mettere in scena questo dramma materno: pochi simboli egregi nell’impatto emotivo, in mezzo l’Italia dagli 60’-90’ e i suoi costumi, il rigore che imprime ai suoi personaggi, perfetti come al solito nella loro purezza espressiva, formale e sostanziale. Rispetto all’esordio I pugni in tasca (1965) colmo di pathos, tensione ed aggressione emotiva e visiva verso un universo (la famiglia) ed un ambiente (la borghesia), veri e propri nemici della libertà di identità, Fai bei sogni muta nell’approccio: più distaccato, tenero, pacificato, ma con dentro sempre il mistero dei legami umani e delle feroci dipendenze che producono e che ci limitano, nel bene e nel male.
Fai bei sogni Marco Bellocchio Regia: Marco Bellocchio Fotografia: Daniele Ciprì Montaggio: Francesca Calvelli Cast: Valerio Mastandrea Bérénice Bejo Fabrizio Gifuni Guido Caprino Barbara Ronchi Linda Messerklinger Nicolò Cabras Anno: 2016 Nazione: Italia / Francia Distribuzione: 01 Distribution Produzione: IBC Movie, Kavac Film, ADvitam Durata: 134 minuti Genere: drammatico
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Gli inferni impressionisti di Mendoza sono indispensabili Brillante Mendoza aggiunge al puzzle impressionista della sua infernale Manila un altro tassello prezioso con Ma’ Rosa, pellicola presente nel concorso ufficiale, più misurata (se nel suo cinema è possibile adottare questa definizione) nella forza espressiva di tensione visiva e narrativa rispetto all’immenso Taklub (portato a Cannes dentro Un certain regard l’anno scorso) ma sempre dirompente, per ciò che ci mostra e per come lo mostra.
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a’ Rosa è un’altra eroina Mendoziana (la Palma d’Oro come miglior attrice se l’è aggiudicata proprio Jaclyn Jose) che si carica sulle spalle 3 figli, un marito e tutta la fatica della povertà condivisa dentro un sobborgo-casba di Manila. Nel suo emporio Ma’ Rosa gestisce un piccolo traffico di stupefacenti. Tradita da una soffiata, Ma’ Rosa e suo marito vengono prelevati dalla polizia locale con le prove del reato, subendo la esplicita corruzione degli agenti, interessati soltanto a riempire le proprie tasche… I tre figli si mobiliteranno nel raccattare i soldi necessari per liberarli e per ritornare alla consueta schiavitù quotidiana, a cui Ma’ Rosa si abbandona con tenerezza ed impotenza nel guardare una giovane famiglia di venditori ambulanti, riflesso di tutte le speranze della propria giovinezza. Mendoza come al solito non ci lascia tregua, nemmeno uno spiraglio di aria fresca da immagazzinare. Ci getta immediatamente in quel pezzo di mondo, senza funi a cui aggrapparci: la macchina da presa si fa largo, si attacca, fugge, incalza, schiaccia… L’occhio camaleonticamente assorbe i chiaroscuri, le ombre, le luci artificiali, la pioggia incessante, maledetta acqua che sommerge le formiche umane e la loro forzata costipazione nei tuguri che popolano… Che rende la loro fragile esistenza ancora più pesante, soffocante…. La macchina da presa rincorre la vita da formiche dei suoi abitanti, il ritmo frenetico, la loro miracolosa resistenza, la disperazione, l’infaticabile inventiva nel rendere l’inferno più umano e vivibile possibile, le bassezze a cui devono arrendersi per procurarsi il denaro… 18
di Maria Cera Soldi, che nel mondo delle formiche umane Mendoza riesce a farci vedere per lo sporco valore che rappresentano: pezzi di carta contati, racimolati, ridotti a pacchetti e messi in tasca, nelle scatole…Niente bancomat o carte di credito, i soldi li vediamo. Sono qui, non celati come motore primo di tutto, perché procurarseli è davvero il solo motivo per andare avanti nel mondo delle formiche umane, per non morire. Mendoza utilizza con maestria e maturità assolute gli ‘artifici tecnici’ del cinema di cui ha bisogno per costruire l’ennesima tela nel proprio grido disperato di attenzione a quella umanità, a quelle formiche lasciate a loro stesse…E per ricordarci che nella nostra emancipazione fortunata e puramente casuale, quel caos ci appartiene, che adesso ne siamo responsabili, che anche noi siamo quelle formiche. Anche noi.
Ma’ Rosa Brillante Mendoza Regia: Brillante Mendoza Sceneggiatura: Brillante Mendoza Cast: Jaclyn Jose Andi Eigenmann Felix Roco Jomari Angeles Julio Diaz Titolo originale: Ma’ Rosa Anno: 2016 Nazione: Filippine Genere: drammatico
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Il cinema sociale e femminista dei Dardenne I fratelli Dardenne arrivano a Cannes due anni dopo Deux jours, une nuit portando sullo schermo in La Fille Inconnue una ennesima e splendida eroina contemporanea, lente riflettente di tutta l’ambiguità di un tempo umanamente e socialmente smarrito. di Maria Cera
Il mondo di un piccolo studio medico di periferia, il raggio di azione di questa analisi che ha al centro Jenny (una forte e fragile Adèle Haenel), giovane e promettente dottoressa, che fa del suo lavoro la sua vita. Sicura, padrona delle proprie emozioni, tratteggiata immediatamente in poche battute-riprese e nel rimprovero che fa a Julien, studente di medicina suo interno: Julien non deve far prevalere le proprie emozioni nel gestire la sua professione. È dura Jenny, e intransigente nel non rispondere al citofono dello studio alla fine di quella giornata. “Lo studio è chiuso”, replica al ragazzo che vorrebbe aprire. Un solo tocco di citofono, quello udito, giustifica per Jenny una non emergenza. Quel suono invece le sarà fatale. Perché Jenny fa perdere alla ragazza che ha casualmente chiesto aiuto in quel modo, la propria vita. La dottoressa apprende la notizia restandone profondamente scioccata. Di quella ragazza di colore non si sa nulla, solo il suo volto impresso nella telecamera di sicurezza che ha registrato l’arrivo allo studio medico. Nessun documento sul corpo trovato senza vita. E quella immagine non abbandona più Jenny, intenta a cercare a tutti i costi di svelare l’identità, di almeno restituire ai parenti la notizia, di rendere umana la fine di una sfortunata esistenza. Inizia ad indagare parallelamente alla polizia, con lo studio medico fulcro inatteso della svolta della vicenda. Jenny si rimpossesserà di un equilibrio interiore, più ricco e comprensivo di una umanità ai margini già amabilmente accudita da una giovane donna essa stessa ai margini. Il femminismo dei Dardenne non finirà mai di stupirmi per le sfumature che i due cineasti belgi sono capaci di aggiungere ogni volta. Jenny è un’affascinante solitaria, dedita al suo essere medico in maniera assoluta, pervasa da una purezza che non la abbandona mai. Com’è bello vederla dispensare cure premurosamente e professionalmente, affrontare con timore e coragtaxidrivers Rivista indipendente di cinema
gio gli imprevisti del suo mestiere (che sia la gestione di reazioni violente, o crisi di astinenza, o riconoscenze emozionanti), ‘vivere di poco’, di se stessa. E come si irradiano attorno a lei, nel prisma dell’umanità, tutti coloro che la incrociano e la attraversano, portandoci più vicino nella comprensione dei valori che stiamo smarrendo, della solidarietà che sta morendo… Il minimalismo formale e sostanziale dei Dardenne, sottratto al superfluo-superficiale tecnico e narrativo, è carico di una densità espressiva straordinaria, che eleva-svela le contraddizioni, le qualità, le bassezze dei protagonisti su cui accentra l’attenzione. Con i Dardenne ci riconosciamo uomini e donne uguali.
La fille inconnue Jean-Pierre e Luc Dardenne Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne Sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne Fotografia: Alain Marcoen Montaggio: Marie-Hélène Dozo Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Maïra Ramedhan Levi Cast: Thomas Doret , Jenny Adèle Haenel, Olivier Bonnaud , Louka Minnella, Jérémie Renier Olivier Gourmet , Fabrizio Rongione Christelle Cornil Titolo originale: La fille inconnue Anno: 2016 Nazione: Francia / Belgio Distribuzione: BIM Produzione: LES FILMS DU FLEUVE Genere: drammatico
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olohon SPECIALE CANNES 2016
DIRETTORE Vincenzo Patanè Garsia VICEDIRETTRICE Giorgiana Sabatini
CAPOREDATTORE Luca Biscontini UFFICIO STAMPA Domiziana Ferrari WEB MASTER Daniele Imperiali
GRAPHIC DESIGN Davide Musitano
INVIATE Maria Cera Elisabetta Colla Anna Quaranta Francesca Vantaggiato
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