OLTRE LE CENSURE Il cinema iraniano fra ribellione, simbolismo e contemporaneitĂ
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OLTRE LE CENSURE
Il cinema iraniano fra ribellione, simbolismo e contemporaneità
Art Direction
Vincenzo Patanè & Elisabetta Colla
Concept Designer
Clarissa La Viola
Hanno scritto in questo numero
Rita Andreetti, Mattia Caruso, Maria Cera, Elisabetta Colla, Lucilla Colonna, Simona Grisolia, Anna Quaranta
Rivista iscritta al Finanzamt di Brandeburgo. Ogni riferimento legale è impugnato dal tribunale di Berlino. Steuernummer e Vatnummer registrati presso il Gewerbe Anmeldung di Berlino.
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In copertina e in quarta di copertina: scene del film There is no evil di Mohammad Rasoulof
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Rivista indipendente di cinema
In foto: Babek Ahmed Poor in una scena del film Dov’è la casa del mio amico? di Abbas Kiarostami TAXIDRIVERS
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INDICE 6.
Editoriale
8.
Dopo la rivoluzione: la seconda Nouvelle Vague e il cinema di Abbas Kiarostami
10.
Donne registe, tra diritti negati, desiderio di emancipazione e aspirazioni contemporanee
12.
L’immobilismo cinetico di Jafar Panahi
14.
Persepolis di Marjane Satrapi
15.
Il cinema di Asghar Farhadi
16.
Avanguardie di genere
17.
Under The Shadow – L’ombra della paura
18.
L’Iran in cammino, tra ribellione, dubbi e nuove tendenze
QUANDO IL CINEMA PARLA D'AMBIENTE
EDITORIALE
IL CINEMA IRANIANO Pulsante e resistente di Elisabetta COLLA
In foto: Baran Rasoulof in una scena del film There is no evil di Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’Oro 2019 a Berlino
Dagli anni Settanta ad oggi, tra censure, sguardi visionari e produzione artistica
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anno provato in tutti i modi a fiaccarlo, annientarlo, imprigionarlo, censurarlo: ma lui è lì, il cinema iraniano, con la fiaccola dell’arte e della vita in mano, lo sguardo avanti, mentre fa il giro del mondo senza autorizzazioni: negli anni Settanta, sotterraneamente, su videocassette, più in là nel tempo su CD e DVD piratati, o grazie ai Festival Internazionali, che ne riconoscono da subito la valenza etica ed estetica, premiando pellicole e registi resistenti – purtroppo quasi mai presenti di persona - ed infine sulla rete, finalmente libera di hackerare un sistema spietato, ripreso e messo in video anche nelle sue peggiori forme di repressione e conservatorismo, politico (come negli ultimi disordini del Movimento Verde a Teheran, dove tanti riuscirono a documentare la repressione tramite cellulari) e, ovviamente, artistico e cinematografico. È cosa nota che il docu-film di Jafar Panahi This is not a film, fu esportato clandestinamente dall’Iran e presentato al Festival di Cannes 2011 in un hard disk nascosto all’interno di una torta. Peccato che l’antico regno di Persia, una delle culle della civiltà mediorientale antica, abbia subito una così triste e drammatica involuzione sociale e politica nel tempo, dalle dittature laiche dei vari Scià, fino a Reza Pahlavi, a quelle religiose, dall’ayatollah Khomeini fino ad oggi, tra alterne vicende, tali da censurare l’arte cinematografica, arrestare i suoi registi e condannarli ad anni di carcere, come accaduto a Moshen Makhmalbaf da giovanissimo, per la sua opposizione al regime dello scià Reza Pahlavi, e/o al divieto di lasciare il paese per anni, come nel caso di Jafar Panahi, costretto a 20 anni di interdizione dall’estero per la sua opposizione al presidente Mahmud Ahmadinejad, e ancora oggi, con il regista Mohammad Rasoulof, vincitore dell’Orso d’Oro 2019 a Berlino con il film There is no evil, condannato dalla corte rivoluzionaria iraniana a un anno di prigione, al divieto di lavorare come regista per due anni per ‘propaganda contro il governo’ ed all’impossibilità per due anni di uscire dal paese o partecipare a qualsiasi attività sociale o politica. Al regista Mohammad Rasoulof, Taxidrivers ha
voluto dedicare la copertina di questo “DossierIran”: il suo film There is no evil, che sarà distribuito nelle sale italiane da Satine Film, è una riflessione, articolata in quattro parti, sulla reale possibilità di esprimere le libertà individuali di fronte a situazioni obbligate e/o imposte, dove non sussiste in realtà, una vera opportunità di scelta. Questo piccolo dossier, lungi dal voler proporre una visione esaustiva di un cinema e di un paese di amplissima complessità, bellezza e cultura, intende proporre uno sguardo e dei focus specifici, su temi importanti, come quello della censura e della condizione delle donne in Iran, passando per le avanguardie giovanili e i film di ‘genere’, attraverso i racconti visivi e a volte autobiografici di artiste ed artisti, cineaste e cineasti che hanno anteposto il sogno, la poesia e la libertà intellettuale alla loro stessa vita, e che rischiano ogni giorno per le loro idee e per far conoscere al mondo il cinema iraniano e gli eventi storici che lo accompagnano. Artisti di tutto il mondo hanno protestato e richiesto con urgenza alle autorità iraniane di ritirare le accuse e garantire sicurezza e salute al regista Rasoulof, mentre la diffusione incontrollabile del Covid-19 virus, anche nelle carceri iraniane, può mettere seriamente in pericolo la sua vita. «Il nostro collega, Mohammad Rasoulof - ha dichiarato Wim Wenders, presidente della European Film Academy - è un artista che continua a raccontarci una realtà di cui altrimenti non saremmo a conoscenza. Il suo film vincito-
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re dell’Orso d’oro There is no evil è un ritratto profondamente umano delle persone in situazioni estreme, situazioni che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sperimentare: abbiamo bisogno di voci come la sua, voci che difendano i diritti umani, la libertà e la dignità». Ci uniamo alla voce di questo grande Maestro del cinema, per onorare e sostenere tutti gli artisti, i filmmaker e gli attivisti che, pur oppressi e perseguitati da regimi ciechi e totalitari, sono riusciti a produrre e diffondere opere straordinarie, profonde, simboliche, visionarie in condizioni difficilissime, riuscendo a descrivere e denunciare le condizioni di un popolo in rivolta, la lotta spesso silenziosa delle donne per l’emancipazione, la battaglia di tutti per la libertà di espressione. Si ringraziano, per la passione e l’abnegazione con cui hanno partecipato e reso possibile l’uscita di questo dossier, un gruppo di indomiti redattori e giornalisti: Rita Andreetti, Mattia Caruso, Maria Cera, Lucilla Colonna, Simona Grisolia e Anna Quaranta, oltre naturalmente alla bravissima grafica Clarissa La Viola. Infine un ringraziamento speciale, da parte del gruppo “DossierIran”, va al nostro illuminato direttore, Vincenzo Patanè, che dalla sua postazione berlinese, partorisce idee sempre nuove e ne coordina la realizzazione per amore del cinema, del giornalismo e, soprattutto, dei tanti lettori affezionati di Taxidrivers.
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DOPO LA RIVOLUZIONE: LA SECONDA NOUVELLE VAGUE E IL CINEMA DI ABBAS KIAROSTAMI Abbas Kiarostami: il ‘sapore’ del cinema. di Anna QUARANTA
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ondata di cambiamento nel cinema iraniano, che percorse il decennio 1969 – 1979, rivendicava un cinema più vicino alla vita e alla società del tempo, e meno omologato a produzioni più popolari, come quelle indiane e hollywoodiane. Le opere si impreziosirono di un tocco più originale e artistico, oltre che politico, sviluppando nello spettatore un gusto estetico che ha, in un certo senso, guidato anche le successive generazioni di cineasti. Furono proprio le immagini di uno dei film del nuovo corso, The Deer di Masoud Kimiai, a scorrere sul grande schermo del Cinema Rex, nella città sudoccidentale di Abadan, quando la sala cinematografica venne data alle fiamme, uccidendo 420 persone, in un cruento attacco terroristico. Era il 19 agosto 1974, la rivoluzione islamica di Khomeini stava per rovesciare il regno filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi, che aveva portato il paese nella prosperità, ma non aveva, forse, tenuto
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conto del grave dislivello sociale che si era andato creando. Seppur molto spesso accostato al Neorealismo italiano, in realtà il cinema iraniano ha sempre mantenuto una sua cifra stilistica, un linguaggio che sostiene la poesia del quotidiano e delle persone comuni, mescolando il confine tra realtà e finzione. Se la Nouvelle Vague iraniana ha tratto ispirazione dal cinema europeo, è accaduto anche il contrario, in un andirivieni tra cinema documentario e di finzione da cui hanno preso spunto opere come This World di Michael Winterbottom. Il nuovo linguaggio sviluppa uno stile legato alla singola individualità del cineasta, oltre che allo spirito nazionale, e apre un dialogo non soltanto in relazione alla propria terra d’origine, ma anche con il resto del mondo. C’è un filo conduttore che lega l’antica letteratura persiana al nuovo corso, rendendolo talmente unico da vantare autori leggendari e post-moderni come Abbas Kiarostami. Privo di una prepa8
razione professionale, come ha sottolineato più volte, e anche di una formazione sul campo, sembrerebbe proprio questo il segreto della freschezza dello sguardo di Kiarostami. Quel suo occhio innocente proviene da una riscoperta del cinema come medium inseparabile dal suo ambiente sociale, culturale e politico. Il cinema si fa medium, mezzo, per consentire allo spettatore una riflessione sulle questioni, all’apparenza semplici, ma di fatto universali, affrontate nei film e nell’Iran del dopo rivoluzione: il cinema prende il posto della poesia, del teatro, dei racconti, dei romanzi, fino a diventare il mezzo fondamentale per raccontare il paese. Il cordone ombelicale con la tradizione è immancabile. È infatti a una raccolta di poemi dall’omonimo titolo che si ispira Dov’è la casa del mio amico? (1986), considerato dalla critica il primo film della trilogia di Koker, dal nome di un villaggio di fango e mattoni dell’Iran settentrionale, dove sono stati girati anche E la vita continua… (1991) e
Sotto gli ulivi (1994). Dov’è la casa del mio amico? è la storia di un ragazzino, pedinato dalla macchina da presa, che si aggira in un mondo di adulti ostili e indifferenti, alla ricerca dell’abitazione di un suo amico, a cui vuole restituire il quaderno capitato per sbaglio nella sua cartella. La trama semplice e lineare mette in evidenza un tema universale e lo fa con sguardo limpido: il ragazzino prosegue nel portare a termine il suo intento, sente che deve fare la cosa giusta, nonostante il mondo che lo circonda, fatto di regole e doveri imposti dagli adulti, provi ad allontanarlo dalla sua destinazione finale. La delicatezza del tocco di Kiarostami e il suo amore per la vita e tutto quello che ne fa parte la si ritrova in uno dei suoi film più acclamati, Palma d’Oro al Festival di Cannes, Il sapore della ciliegia (1997), la storia di un uomo che cerca chi lo aiuti a mettere in atto un suicidio, che vorrebbe tentare ma non sa se compirà. Questo arrovellarsi sulla morte dà vita a un film riflessivo,
fatto di attese e interrogazioni. Non conosciamo le sue ragioni, tutto quello che vediamo e sentiamo sono le conversazioni tra il protagonista, Badii, e i passeggeri, attori non professionisti, che si alternano come compagni di viaggio. La fotografia e i campi lunghi con cui la macchina da presa esplora la campagna attraversata da Badii, alla ricerca di un posto dove riposare in pace, ricordano lo stile realistico del cinema-verità, perché è di vita vissuta che si sta parlando. Le conversazioni improvvisate, mediate dalla presenza della telecamera, la natura dei dialoghi portati avanti da attori non professionisti, come nella maggior parte dei film di Kiarostami, sottolineano che lo spettatore è un testimone, lasciato fuori di proposito dal dibattito, affinché trovi una risposta, sua, intima, a una domanda che resterà aperta per sempre. Proprio come il suo cinema.
In foto: Homayoun Ershadi in una scena del film Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami
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DONNE REGISTE Tra diritti negati, desiderio di emancipazione e aspirazioni contemporanee
TANTE IN IRAN LE ARTISTE E REGISTE CINEMATOGRAFICHE CHE, IN EPOCHE E MODI DIVERSI, RACCONTANO LA STORIA E LA SOCIETÀ DEL PAESE. di di Elisabetta Elisabetta COLLA COLLA
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e i diritti e le libertà individuali sono stati spesso e volentieri negati a tutti, indistintamente, le violazioni di quelli delle donne, anche dei più elementari, con l’avvicendarsi di dittature sempre più conservatrici e retrive, è stata in alcuni momenti insostenibile, come ben evidenziato da alcune cineaste iraniane, autrici antesignane di film che hanno descritto la dura realtà delle donne nel Paese, specialmente dopo la Rivoluzione islamica, costrette, in molti casi, a portare il velo (alcune lo portano per scelta religiosa, ma altre lo hanno dovuto rimettere dopo anni di ‘capo scoperto’), a non poter uscire pubblicamente con amici o amiche, a lasciare il lavoro, abbandonare gli studi, vestire con pastrani che nascondono il corpo, ad essere oggetto di matrimoni sgraditi e forzati (drammatico il fenomeno delle spose bambine, tra i 9 e i 10 anni), considerate ‘utili’ solo come mogli e madri. Ma la resistenza delle donne iraniane è stata da sempre sostenuta dalla loro forza, cultura e desiderio di emancipazione: molte sono oggi le donne laureate, le intellettuali e le attiviste. 10
Con grande lentezza il Paese apre spazi alle donne, ad esempio con l’elezione in Parlamento nel 2017 di 17 donne o con la possibilità di partecipare ad eventi sportivi (pur separate dagli uomini, pensiamo al film Offside, di Panahi, dove alcune giovani tifose si travestono da uomini per entrare allo stadio, come estrema istanza di libertà) e si moltiplicano le registe iraniane che esportano ai Festival Internazionali film raffinati e indipendenti, che esprimono aspirazioni femminili moderne e raccontano spaccati sociali in evoluzione. Tra le prime donne iraniane che si sono contraddistinte per il loro lavoro in ambito cinematografico, spicca Rakhshan Bani-Etemad, nata negli anni Cinquanta, che fin da giovane dimostrò il suo amore per il cinema. Chiamata la “First Lady del Cinema Iraniano”, poco nota all’estero, per tre decenni ha descritto in maniera sorprendente e complessa la vita in Iran, attraverso gli occhi dei meno abbienti. I suoi primi film hanno ricevuto aspre critiche in patria, fino al riconoscimento internazionale nel 1991- prima regista iraniana ad
ottenere un premio come miglior regista - con il film Nargess, vincitore del Fajr Film Festival, che affronta il tema dei rapporti uomo-donna, a partire dal tabù di una relazione tra un uomo giovane ed una donna più grande di età. In un altro lungometraggio, realizzato dopo l’elezione di Khatami, Under the Skin of the City (2000) la regista evidenzia le aspettative di tante famiglie di lavoratori tra dura realtà e speranze in un futuro migliore. Successivamente, per evitare la censura, la regista si è dedicata a documentari a sfondo sociale e politico, come in Our Times..., per tornare alla fiction con Tales presentato al Festival di Venezia nel 2014. Nella stessa generazione si è affermata Shirin Neshat, fotografa, videoartista e regista iraniana, formatasi negli Stati Uniti, premiata alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1999 e vincitrice, nel 2009, del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo primo lungometraggio Donne senza uomini, vero e proprio manifesto sulla condizione femminile, a partire dall’analisi dei destini di quattro donne sullo sfondo della Rivoluzione. La Neshat, nota per le sue fotografie in bianco e nero di donne velate ed i primi piani di parti del corpo femminile (volti, mani, piedi), sovrascritti dei versi di poetesse iraniane contem-
poranee (come F. Farrukhzād), è riconosciuta a livello internazionale come artista volta ad esplorare la complessità delle condizione sociale femminile, al di là degli stereotipi, nel legame fra tradizioni e religione all’interno della cultura islamica, anche in relazione a quella occidentale. Molte ed interessanti le registe iraniane delle giovani generazioni, che si sono andate affermando sulla scena internazionale per il loro penetrante sguardo al femminile. Tra queste: Ida Panahandeh, la giovane e coraggiosa regista selezionata a Cannes 2015 con il film Nahid, dove la protagonista vive un dramma moderno, combattuta fra amore materno, passione per un uomo e leggi ingiuste; Sina Ataeian Dena, che con il film Paradise, vincitore del Premio Ecumenico a Locarno racconta la condizione femminile in Iran, attraverso le peripezie di una giovane insegnante fra divieti, indottrinamento e bambine rapite; Farnoosh Samadi, sceneggiatrice e regista iraniana diplomata all’Accademia delle Belle Arti di Roma, che ha realizzato vari cortometraggi fra cui The Role, in cui una donna accompagna il marito ad un provino e si trova a prendere un’importante decisione. Nei successivi articoli del dossier si è dato spazio ad altre registe delle nuove generazioni.
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Nella pagina accanto: una scena del film Nargess, di Rakhshan Bani-Etemad, vincitore del Fajr Film Festival di Teheran. In basso: una scena del film Donne senza uomini di Shirin Neshat, nel 2009 Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia
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L’immobilismo cinetico di
JAFAR PANAHI di Maria CERA
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a libertà è uno stato mentale. Nessuno meglio di Panahi può testimoniarcelo. «Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film. Per questo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo». Tutta la cinematografia del cineasta iraniano, sospesa tra realtà e finzione, è uno sguardo sociale, politico ed economico sul suo Paese, nell’attenzione a quelle cartine di tornasole che più di altre demarcano le caratteristiche esistenziali dell’oppressione e del patriarcato in Iran. Jafar Panahi (classe 1960) ha studiato regia all’Università del Cinema e della Televisione di Teheran. Aiuto regista di Abbas Kiarostami per la pellicola Sotto gli ulivi (1994), Panahi ha debuttato da solo dietro la macchina da presa nel lungometraggio Il palloncino bianco (1995), film rivelazione e Camera d’Or come migliore opera prima a Cannes nel 1997. Un racconto morale capitanato da una bambina che deve comprare un pesciolino rosso ad ogni costo, pervaso dall’aura di Kiarostami (autore della sceneggiatura), in presa
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diretta, zeppo di personaggi della strada, per guardare anche ciò che non è bello da vedere. Seguiranno titoli amatissimi: Lo specchio (1997, Pardo d’Oro a Locarno): a Teheran, all’uscita della scuola, una bambina non trova sua madre e decide di tornare a casa. Ma nel bus, la piccola (Aida Mohammadkhani, la stessa folgorante interprete de Il palloncino bianco) all’improvviso si stufa di recitare, si toglie il velo e il finto gesso al braccio e molla tutti, dimenticandosi il microfono. Panahi decide di continuare a girare e di seguirla. Il cerchio (2000, Leone d’oro alla 57^ Mostra del Cinema di Venezia): un collage tutto femminile nella colpa di esistere ed essere donna in un Iran maschilista e oppressivo… Fino ad Offside (2006): Iran-Bahrein giocano per la qualifica ai Mondiali 2006 e alle donne è proibito entrare negli stadi. 6 giovani tifose tentano inutilmente di forzare il blocco, finché la gente invade le strade per festeggiare la vittoria, in un entusiasmo collettivo maschile e femminile, un abbraccio visivo incontrollabile, di sicuro irritante per il regime islamico. Questo film segna una linea di demarcazione temporale ed esistenziale per Panahi. Il 2010 sarà infatti l’anno più
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duro per il regista: accusato di propaganda contro la Repubblica islamica (Panahi aveva partecipato ai movimenti di protesta contro Ahmadinejad del marzo 2010 a Teheran), viene condannato a 6 anni di reclusione, riuscendo però ad ottenere la libertà vigilata pagando una cauzione salatissima. Privato del passaporto, scatta l’interdizione dalla professione per 20 anni: 20 anni senza dirigere film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste a media stranieri… Un verdetto agghiacciante. Il regista, a questo punto, sceglie di non abbandonare l’Iran ma di continuare a raccontarlo da dentro, senza arretrare nelle lotte da sempre portate avanti con il suo cinema. Clandestinità diventerà la parola d’ordine di Panahi, che si inventa This is not a film (2012): un diario della sua reclusione domestica, in attesa del verdetto della Corte d’Appello a cui si era rivolto contro la condanna inflittagli. Chiama un suo collaboratore Mojtaba Mirtahmasb, che arriva e inizia a filmare, donandoci un visivo da balcone, da televisione e da androne del palazzo sempre critico e denso di esistenza. Nel 2013 è il momento di Closed Curtain, girato anche grazie al rischioso aiuto del regista Kamboziya Partovi. Un uomo ed il suo cane arrivano clandestinamente con un taxi in una
In foto: il regista Jafar Panahi in una scena del suo film Taxi Teheran
villa. È uno sceneggiatore, l’uomo, continuamente interrotto nella sua ispirazione da un elemento esterno (una giovane donna). Panahi entra lui stesso in scena ad un certo punto, manifestando la presenza di una troupe impegnata nelle riprese. Capiamo che quella villa è sua… La creatività è continuamente spezzata, alla ricerca di uno spazio libero che non può manifestarsi. La maturità espressiva da reclusione arriva con Taxi Teheran (2015), Orso d’Oro al Festival di Berlino: Panahi fa entrare Teheran dentro un taxi, nel quale si mimetizza come autista, nascondendo una videocamera e caricando i passeggeri. Dal suo abitacolo, Jafar Panahi ascolta, interagisce, osserva, realizzando un miracolo di meta-cinema, fondendo realtà e finzione in un novus filmico e visivo carico di libertà creativa, verità e amore immenso per l’essenza che il cinema incarna. Un respiro di rappresentazione, un ‘dolce inganno’, denuncia ed atto di forza contro ogni costrizione, limitazione, repressione dei diritti fondamentali che sono di tutti. Fino ad arrivare a Three Faces (2018, Migliore Sceneggiatura al Festival di Cannes) e ad una nuova variazione del concetto di confine: al taxi, Panahi sostituisce un fuoristrada, lasciando naturalmente senza permesso Teheran e spingendosi
sulle montagne del Nord-Ovest iraniano. Una famosa attrice iraniana riceve il video di una ragazza che implora il suo aiuto per sottrarsi ad un destino inevitabile. L’attrice, insieme a Panahi, parte verso il villaggio per scoprire la verità sul video che ha ricevuto. Col suo set itinerante su 4 ruote, il regista percorre un viaggio nel cuore dell’Iran, tra incontri comici, poetici, destabilizzanti, legati idealmente dalle tre donne protagoniste del film: l’attrice emergente (la ragazza); l’attrice famosa Behnaz Jafari che impersona se stessa e si confronta con l’inferiorità giuridica della donna nel diritto iraniano e la superstizione di un monoteismo intransigente; l’attrice isolata (che non vedremo mai), una donna che “faceva film” prima della Rivoluzione del ’79 e ora vive come una reclusa nella casetta al di fuori del villaggio. Jafar Panahi è riuscito e riesce in condizioni estreme, dentro limiti fisici, materiali, geografici (i film realizzati vengono fatti uscire clandestinamente dall’Iran per approdare nei Festival internazionali), a vincere la libertà di autodeterminazione e di consapevolezza, realizzando quel cinema indispensabile anche nella sperimentazione dei canali dentro i quali far viaggiare pensieri, valutazioni, testimonianze, bellezza, disincanto e tanta, tanta poesia.
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«Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film. Per questo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo»
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Persepolis
di Marjane Satrapi
di Rita ANDREETTI
SE UNA DONNA DISEGNA L’IRAN
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vento editoriale dei primi anni del 2000, valica i confini del graphic novel e diventa lungometraggio d’animazione nel 2007; e scuote tutti, ma proprio tutti, critica, pubblico e politica. Si tratta di Persepolis, il romanzo autobiografico di Marjane Satrapi, fumettista e regista iraniana naturalizzata francese. Tanto si è detto di quest’opera, perché ha offerto un insight sull’Iran trasversale ed inedito: storico, sociale e politico. Addensa la recente storia iraniana mentre dipinge il viaggio di formazione della protagonista, eroina spassosa, coraggiosa e umana. Le vicende della nostra Marjane iniziano negli anni Settanta, quando, ancora piccola, osserva l’allora Persia che si ribella allo Scià; la ribellione “evolve” e la bimba, poi ragazzina, inizia a costruirsi la sua normale doppia vita sotto il governo islamico (quella pubblica e ammissibile, e quella privata e illegale). Dopo la guerra contro l’Iraq, per scelta della famiglia - una famiglia liberale - Marjane viene mandata a Vienna a studiare. Il legame con la sua terra è sempre forte: per questo prima si sente una disadattata, e poi si trova risucchiata nuovamente verso il Medio Oriente. Al ritorno, l’Iran è molto cambiato, tanto quanto Marjane è cambiata: lei lo rifiuta TAXIDRIVERS
fino a lasciarsi quasi morire, ma poi sceglie di reagire. A quel punto tenta davvero di adattarsi alle nuove condizioni del Paese, ma continuamente scorna contro la pudicizia, la censura, l’esigenza di fingere, coprirsi e dissimulare. È palese che quello non è più un Iran con cui lei può convivere, e la sua famiglia la spinge ad abbandonarlo nuovamente per cercare una vita libera altrove. Chiunque abbia lasciato la propria patria, si ritroverà in quel legame viscerale che salda l’animo alla terra. Un sigillo con cui ci si trova a mediare in ogni momento, ad ammettere di non essere “né qui né là”. Marjane impara a convivere con la sua ambiguità geografica e ad andare fiera dei valori ricevuti dalla sua famiglia, che in fin dei conti sono la sua identità. Nel mondo bianco e nero, dai tratti netti e contornati, che ha disegnato, le sfumature e le vie di mezzo non sono concesse: allora, quell’estremismo conduce a determinanti certezze, riassumibili nell’insegnamento della nonna. L’integrità è la parola chiave. E con la nonna si schiera un piccolo esercito di prepotente presenza femminile: la forza delle donne di Persepolis, è vincente sulla carta e sullo schermo. In verità, la famiglia tutta è un covo di emancipati e aspiranti ribelli, incanalati a forza nel sistema iraniano di turno, ma 14
tutti eroi ed eroine in potenza e di fatto. Personaggi meravigliosi. Il contributo di Marjane Satrapi fa da ponte tra il mondo del disegno e quello dell’immagine in movimento: da un lato, rispolvera l’animazione tradizionale e il disegno personale, nei tempi in cui la mano è passata di moda; e contemporaneamente arricchisce egregiamente il grande lavoro delle registe iraniane. Ciò che ci presenta non è solo un romanzo di formazione al femminile; non è solo un omaggio affettuoso al proprio Paese (sia esso libero o tirannizato); non è solo una riflessione storica e politica che nasce dal basso, rivolta sia ad Oriente che ad Occidente. C’è sopra a tutto una critica alla tirannia, alle ingiustizie dichiarate e nascoste, alla disumanità. È la voce di un’artista in fuga, di una combattente in contumacia, che costringe lo spettatore a riflettere sulla responsabilità della presenza in trincea. A parer mio, nella sua battaglia latitante la Satrapi ha ottenuto una piccola grande vittoria: sono le 300 pagine di un fumetto e poi i 95 minuti di un film; sono quei disegnini innocenti, testimonianza vera e verace a proposito del gigante regime iraniano.
Inseguire la via della comprensione nel deserto delle relazioni umane:
IL CINEMA DI ASGHAR FARHADI di Lucilla COLONNA
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l cinema può catturare le qualità umane e demolire gli stereotipi, per creare quell’empatia che oggi ci serve più che mai». La motivazione profonda del lavoro di Asghar Farhadi è in queste parole lette alla cerimonia degli Oscar 2017, dove Il cliente vinse come miglior film straniero, ma lui non ritirò il premio in segno di protesta contro il Muslim ban firmato da Donald Trump. Cinque anni prima l’Academy aveva tributato lo stesso riconoscimento a Una separazione, titolo emblematico per quest’autore così innamorato della solidarietà tra le persone da dedicare ogni sua opera al dramma di un’assenza di volta in volta dovuta alla scomparsa, alla malattia terminale, al trauma, al sequestro o al coma, per mettere in luce il valore delle relazioni umane. Cominciò da bambino. A 13 anni fece recitare il fratellino minore in un cortometraggio e il primo premio ricevuto da una giuria fu una bicicletta. Poi, dopo la laurea in drammaturgia a Teheran e il matrimonio con la collega Parisa Bakhtavar, i suoi lungometraggi hanno iniziato a conquistare le giurie internazionali da Berlino a Cannes. Già in About Elly (2009) erano contenuti gli elementi caratteristici di tutta la produzione successiva. I protagonisti sono sempre giovani dai venti ai trent’anni, l’età in cui ciascuno è impegnato a strutturare la propria vita. Per questo Farhadi ama presentarceli alla ricerca di una casa o comunque alle prese con un ambiente in divenire. Addirittura ne Il cliente lo spazio in costruzione si sdoppia e si sovrappone, tra la messa in scena di Morte di un commesso
viaggiatore, capolavoro di Arthur Miller in cui la casa di famiglia ha un ruolo fondamentale, e il nuovo appartamento dove i protagonisti del film iniziano a vivere il proprio dramma personale. Al centro di ogni storia troviamo un nucleo familiare – una coppia o una famiglia con figli oppure una famiglia allargata – cui l’autore iraniano è solito associare un oggetto da inquadrare nell’incipit, ad esempio una lastra di vetro che simbolicamente divide due vite o l’orologio cittadino che perpetua l’amore di un tempo. Con altrettanta cura Farhadi delinea i ruoli di contorno, spesso bambini depositari della verità come l’adolescente di Una separazione, interpretata dalla sua stessa figlia, oppure uomini maturi impersonati da Babak Karimi, al quale il regista ne Il passato (2013) fa dire: «Non puoi avere un piede di qua e uno di là del ru-
scello: poi il ruscello si allarga». Sono parole che richiamano la contrapposizione sempre presente, nei suoi film, tra chi è ancorato saldamente alle tradizioni della propria origine e chi è invece proiettato verso l’altrove. Spesso infatti l’inquietudine di donne e uomini si sposa con il desiderio di espatriare, normalmente dall’Iran all’Europa, ma in Tutti lo sanno (2018) c’è chi dalla Spagna sogna l’Argentina, a costo di abbandonare i propri affetti. Per tutti i personaggi, nessuno escluso, l’autore nutre infinita comprensione. Li segue con curiosità e pazienza, anzi li pedina secondo la lezione del neorealismo che ha potuto apprezzare all’università, affinché ognuno di loro possa mostrare le ragioni del proprio comportamento. Nei finali però adora lasciare democraticamente al pubblico la possibilità di eventuali epiloghi.
In foto: Leila Hatami in una scena del film Una separazione di Asghar Farhadi
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Avanguardie di genere di Simona GRISOLIA
In foto: una scena del film A Girl Walks Home Alone at Night di Ana Lily Amirpour
Giovani generazioni di registe donne crescono
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el cinema iraniano contemporaneo, da diversi anni, si parla di due registe che hanno avuto il merito di farsi conoscere per talento e determinazione: Samira Makhmalbaf e Ana Lily Amirpour, coetanee, vengono da due mondi cinematografici distanti ma affini. La prima, figlia di Mohsen Makhmalbaf, inizia la sua ‘carriera’ cinematografica all’età di sette anni recitando nel film del padre Il ciclista, ed ovviamente nell’ambiente familiare ha sviluppato un interesse per la settima arte, accompagnato dalla determinazione di raccontare ciò che più le interessava: il ‘suo’ sociale. Dopo il primo cortometraggio, La mela, in cui si nota un uso della macchina da presa tra l’amatoriale ed il documentaristico, Samira Makhmalbaf presenta quello che sarà tutto il suo cinema futuro, la denuncia del contemporaneo. Basandosi su storie vere, la regista prosegue su questo filo narrativo, proponendo in modo sofisticato e costruttivo delle pellicole che mostrano l’Afghanistan e l’Iran contemporaneo. Servendosi di immagini cinematografiche vive, naturali che insieme generano visioni,
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accompagnate da un taglio ed una fotografia sempre affini a quella del documentario. Si pensi alle ragazze di Alle cinque della sera, al loro dibattito iniziale sul poter diventare Presidente dell’Afghanistan, sul ruolo della donna o su quello dell’istruzione nel film Lavagne, dove, pur di poter insegnare, dei maestri affrontano lunghi viaggi. C’è un senso di riscatto mostrato nei personaggi, un tentativo di riferimento a tutti coloro che ancora subiscono ed accettano un modo di vivere concepito come lontano ma lì ancora attuale. Ed uno spirito di sacrificio, di fatica, che la regista collega a chi, nonostante tutto, crede e ha speranza. Se il cinema della Makhmalbaf è elegante e reale, quello di Ana Lily Amirpour è - in un certo senso - completamente diverso. Di origini iraniane, ma nata in Inghilterra e poi trasferitasi in America con la famiglia, la regista, appassionata di cinema, debutta nel 2014 con A Girl Walks Home Alone at Night, una storia horror con protagonista una vampira. Ambientato a Bad City, la città iraniana dei fantasmi, il film è un horror in bianco e nero, in cui la regista vuole lasciare il segno mostrando l’incontro con un altro vampiro da cui potrebbe nascere una storia d’amore.
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Il film, che la stessa Amirpour definisce “il primo vampire western iraniano”, cattura l’attenzione per la potenza espressiva delle immagini, molto vicine a quelle di una graphic novel e per gli ambienti ricostruiti, espressivi e minuziosi negli interni, vuoti ed oscuri negli esterni come il genere horror vorrebbe. La prima prova lancia nel cinema una regista caparbia, capace ed intelligente. Siamo quindi in un altro luogo rispetto alla Makhmalbaf ma forse, per l’eleganza delle immagini, per l’estrema minuziosità, siamo in un mondo cinematografico affine. Mantenendo il suo legame con la terra d’origine, l’Iran, bisogna dire che il debutto della Amirpour non è stato quello che gli scettici del genere avrebbero potuto aspettarsi, dimostrando invece intelligenza, conoscenza e maestria. La sua ultima pellicola, The Bad Batch, la distacca dalla precedente ma mantiene quelli che erano i presupposti lanciati. Siamo ancora in un mondo inventato, in cui violenza, forza delle immagini e personaggi si mescolano per trascinare lo spettatore in un vortice di cinema di genere. Ed anche in questo caso, Ana Lily Amirpour centra il bersaglio, e lascia lo spettatore in attesa del prossimo lavoro.
UNDER THE SHADOW L ’ O M B R A D E L L A PA U R A
di Mattia CARUSO
‘Dentro il genere’: demoni e fantasmi che raccontano la vita quotidiana
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on le sue premesse iniziali, le sue dinamiche famigliari e la sua insistita dimensione privata, parrebbe quasi un classico dramma da camera sulla falsariga dell’Asghar Farhadi di Una separazione, Under the Shadow (2016), in Italia distribuito da Netflix con il titolo L’ombra della paura. Eppure l’opera prima dell’iraniano Babak Anvari, destinata ben presto a rivelarsi un incubo dagli echi ancestrali, è la dimostrazione lampante di come il cinema di genere sappia, anche meglio di altri celebri esempi “alti”, dialogare con il proprio tempo, facendosi portatore di istanze sociali e politiche fortemente radicate nella quotidianità. È un horror a tutti gli effetti, del resto, la storia di questa madre intrappolata in casa con sua figlia, mentre fuori le esplosioni dei missili iracheni sconquassano una Teheran già in subbuglio per le conseguenze della rivoluzione culturale. Un contesto (siamo nel
1988) dove la paura, l’ottusità e la repressione la fanno da padroni, creando il terreno fertile per un Male destinato a radicarsi nelle vite e nelle coscienze dei suoi protagonisti spezzati, demoralizzati, sconfitti. È proprio qui, in una tragedia tanto pubblica quanto privata, che il genere fagocita il dramma, non senza prima, però, averci restituito una fotografia stilizzata ma puntuale di un paese stravolto, dove l’indottrinamento ha preso il posto della libertà di pensiero (l’incipit all’università), e il ruolo della donna si è trovato a essere fortemente ridimensionato. Mentre la Storia si mischia al vissuto privato e la guerra entra (anche letteralmente) in casa annidandosi nell’inconscio per non andarsene più via, è così il senso di inadeguatezza di Shideh (Narges Rashidi), donna forte e indipendente costretta ad accettare, in quella nuova società patriarcale, il solo ruolo di madre, a diventare vettore ide17
ale niente meno che per un jinn, demoni della tradizione islamica che proprio di quelle paure e frustrazioni si sono sempre nutriti. È così che l’orrore, passo dopo passo, prende forma, materializzandosi dalla sostanza di un cinema legato a doppio filo con la storia di un paese scisso e pieno di contraddizioni. E se i riferimenti a certi prodotti occidentali certo non mancano (difficile non pensare al quasi contemporaneo Babadook di Jennifer Kent), così come tutto l’armamentario classico del cinema di genere, dai jump scares alle atmosfere inquietanti, è lampante come Under the Shadow non possa esistere all’infuori del proprio Paese. Un film politico immerso in una realtà che dietro alla sua storia di demoni e fantasmi urla forte la propria unicità, la propria ingombrante storia, il proprio drammatico vissuto.
Rivista indipendente di cinema
L’IRAN IN CAMMINO, TRA RIBELLIONE, DUBBI E NUOVE TENDENZE Pellicole originali, registi che guardano all’Iran contemporaneo e a quello che verrà In foto: una scena del film I gatti persiani di Bahman Ghobadi
di Elisabetta COLLA
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ra le opere di registi iraniani che, nell’ultimo decennio, si sono contraddistinte per la loro originalità, appare interessante chiudere il nostro dossier ricordando alcune pellicole molto diverse fra loro ma accomunate da un immediato e notevole successo di critica e pubblico, che trattano temi poco convenzionali, evidenziano il dinamismo interno al Paese e mostrano come la ribellione e l’autodeterminazione degli artisti iraniani abbia portato risultati tangibili, scalfendo, a poco a poco, un sistema oppressivo e orientandosi verso una maggior apertura, in lenta evoluzione. Il primo di questi film, I gatti persiani, di Bahman Ghobadi, vincitore nel 2009 (oltre un decennio fa) al Festival di Cannes del Premio Speciale della Giuria, nella sezione ‘Un Certain Regard’, racconta le disavventure di due giovani, uniti dalla passione per la musica, Ashkan e Negar, che cercano il riscatto e la libertà attraverso il rock, un genere poco visibile nei locali ufficiali di Teheran ma molto presente nelle case private e nelle cantine. Il desiderio di esibirsi all’estero e di respirare una vita piena attraverso la musica, darà vita a una serie di peripezie ai limiti della legalità: la trama del film è stata un ottimo espediente narrativo per mostrare le nuove tendenze musicali e artistiche che nessuna censura potrà mai contenere né frenare. «Quando ho visto
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tutto quello che devono passare i musicisti a Teheran semplicemente perché cantano, suonano uno strumento, amano la musica - ha detto in un’intervista Ghobadi - mi sono detto che questo film si doveva fare. I gatti persiani è la prima vera testimonianza della realtà di questi giovani musicisti». Altro film da subito ‘cult’, è Il dubbio (più recente, del 2017, uscito in Italia nel 2018), del regista Vahid Jalilvand, già autore della pellicola Un mercoledì di Maggio, aggiudicatasi il Premio Fipresci nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia, e dedicato a chi lotta, le donne in primis, per portare avanti ciò in cui crede e combattere le disparità sociali. Il dubbio, vincitore a Venezia 2017, nella sezione Orizzonti, di due premi - per il miglior attore a Navid Mohammadzadeh e per la regia a Vahid Jalilvand - è un film sul coraggio, la paura e la responsabilità, con una sceneggiatura quasi da thriller. Un rispettato medico vede giungere, presso l’obitorio dove lavora, un bambino morto, lo stesso che, sere prima, aveva investito per errore con la macchina, insieme alla sua famiglia, quattro persone a bordo di una moto. Benché dall’autopsia eseguita da una collega del medico, la causa del decesso risulti il botulismo - attribuibile a polli scadenti comprati a poco prezzo dal padre indigente del bambino - il medico non
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si dà pace e deve dirimere il dramma etico che lo tormenta notte e giorno: sapere se la morte del bambino ha a che fare con l’incidente e decidere se denunciare o meno l’accaduto. I personaggi femminili del film rappresentano la coscienza e la chiarezza delle scelte, all’interno di questo dramma, insieme morale e sociale - vista la disparità di possibilità e mezzi del medico e della famiglia investita - gli uomini il tormento interiore e la paura di esporsi. Simbolicamente parlando, il film sembra descrivere la situazione dell’Iran, dove pochi, anche fra chi si ritiene oppositore del regime, hanno il coraggio di andare in fondo alle proprie scelte, e tanti soccombono alla paura. Il film risponde ai criteri di quel nuovo stile cinematografico di cui Asghar Faradhi è il principale esponente. A completare la carrellata ed esplorare le nuove tendenze, da segnalare il film A Dragon Arrives!, una commedia dai toni thriller-horror, diretta dal regista Mani Haghighi e presentata al Festival di Berlino 2016, che racconta con toni inediti ed anti-convenzionali le indagini per omicidi/suicidi dell’ispettore di polizia Babak Hafizi, mostrando come e quanto il cinema iraniano possa trattare tematiche completamente nuove, se relazionate con la sua storia e le sue narrative più ‘classiche’.
il cine ma è la punt a d i un iceberg di un im ma ne a p p a r a t o di regist raz ione che s e g na un a svolt a ne lla storia dell’um ani t à : la p o ss ibilit à di riveder e la p r o p ria vit a
enrico ghezzi e
prosegue la produzione del film a partire d a l l ’ (a n ) a r c h i v i o d i e n r i c o g h e z z i , così come la raccolta fondi per renderla possibile per contribuire: www.ecce.dance
oppure www.produzionidalbasso.com
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