Aspettando The host – Il cinema fantapolitico di Andrew Niccol

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AspettAndo THE HOST

IL CIneMA FAntApoLItICo dI AndReW nICCoL


dossIeR TAXI DRIVERS MAGAZINE DOSSIER n. 4

ASpETTANDO THE HOST

Il cINEMA fANTApOlITIcO DI ANDREw NIccOl

Vincenzo Patanè Garsia VIcE DIRETTRIcE Giorgiana Sabatini cApOREDATTRIcE MAGAZINE Lucilla Colonna cONcEpT DESIGNER Gianna Caratelli cONTRIBUTI di: Valentina Calabrese, Stefano Coccia, Luca Lombardini, Antonio Pettierre, Riccardo Rosati EXEcUTIVE EDITOR: Giulia Eleonora Zeno wEB MASTER Daniele Imperiali DIRETTORE

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TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

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Genere portante di quest'anno cinematografico, la fantascienza sta irrompendo nelle nostre sale con opere ad alto tasso immaginativo e spesso anche ad alto budget. E noi, che siamo sopravvissuti (fin qui) a profezie, asteroidi e fiscal compact, ci affezioniamo volentieri a trame apocalittiche che ci aprano gli occhi sul mondo. Eccoci allora pronti a ricevere The host come merita, essendo l 'u l ti m a fa ti c a d e l ta l e n tu o so Andrew Niccol, nato e cresciuto in Nuova Zelanda, per poi trasferirsi a Londra a lavorare come regista, sceneggiatore e produttore. Con lui, completiamo il giro del pianeta e il ciclo dei dossier dedicati al cinema di contestazione che ci hanno portato prima al cinema biopolitico del cileno Pablo Larrain, poi all'arte e alla politica del regista britannico Steve McQueen, infine al viaggio intercontinentale del rivoluzionario Django dai peones del Western all'italiana agli schiavi neri d'America, passando per il Giappone. Ora non ci resta che andare nello spazio, almeno in quello cinematografico di Niccol, dove il forte messaggio politico che un genere come la fantascienza può esprimere è ben chiaro, a partire dal personaggio principale del film d'esordio Gattaca - La porta dell'universo (1997), che non a caso si chiama Vincent “Freeman”, fino ad arrivare alla coppia protagonista di In time (2011), che lotta per liberarsi dalla dittatura del tempo e del capitale.

Lucilla Colonna


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AndReW nICCoL Il futuro non è scritto di Luca Lombardini Distopia. Dovessimo scegliere un termine, uno solo, in grado di analizzare e riassumere il cinema di Andrew niccol non avremmo dubbi: distopia. Quella firmata dal regista, sceneggiatore e produttore neozelandese è una filmografia radicata nella fantascienza, che rintraccia il suo punto di forza nella lettura sociologica del genere; un approccio decisamente europeo, avvicinabile senza dubbio alcuno ai maestri inglesi e a prima vista tutto tranne che americano, di fatto pane per i denti delle produzioni d'oltreoceano, che da sempre coccolano la mente artistica capace di partorire The Truman Show (1998). Cinque film, l'ultimo dei quali che promette, materiale alla mano, di qualificarsi come terzo e conclusivo tassello di una ideale trilogia: iniziata con Gattaca (1997), proseguita con In Time (2011) e intenzionata potenzialmente a chiudersi con The Host (2013). L'ultimo Andrew Niccol rompe il ghiaccio rielaborando l'eterno archetipo del baccello “siegeliano”, entità aliena intenta ad impossessarsi dell'umano corpo, al fine di trasformare quest'ultimo nell'involucro atto ad ospitare il nuovo inquilino durante tutto il tempo utile alla mutazione. The Host è un film classico, che de L'invasione degli ultracorpi (1956) si serve

come trampolino, così da proiettarsi attorno alle traiettorie tematiche care a Niccol, spesso e volentieri ossessionato da due estremi narrativi: la minaccia e la sua possibile cura, intente a rincorrersi nell'ambientazione futuribile di un mondo che in fondo è solo estrema declinazione di quello contemporaneo. In Gattaca era l'ereditaria malformazione cardiaca a preoccupare Ethan Hawke, giovane uomo concepito naturalmente (e quindi “non valido”) in un mondo popolato da corredi genetici studiati a tavolino e quindi perfetti. In Time a sua volta profetizzava un futuro dove il venticinquesimo anno di età avrebbe voluto dire (quasi)

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morte certa. Mentre in The Host il pericolo porta il nome di una razza aliena e superiore, intenta a sterminare l'umanità tramite “sostituzione”. E se in Gattaca s'inseguiva un'identità valida, mentre In Time raffigurava il tempo come bene inestimabile, The Host lascia trapelare quanto l'amore tra uomo e donna possa non solo contribuire a conservare la propria identità ma, addirittura, evitare che gli esseri umani tutti vengano, effettivamente, cancellati. L'ultimo Andrew Niccol si traveste da film di fantascienza, così come l'epopea iniziata con Twilight (2008) flirtava con alcuni dei topoi horror (entrambe le pellicole infatti, sono tratte da un romanzo, in questo caso L'ospite, della scrittrice statunitense Stephenie Meyer) ma non si vergogna di rivelare, seppur sottopelle, la sua vera natura: quella di un melodramma che ha nei due

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innamorati Melanie e Jared i suoi termometri narrativi, ciò nonostante torna, nuovamente, a fare i conti con quella visione futuristica, ad un passo dal pessimismo distopico, che da sempre qualifica la giovane ma redditizia carriera del suo regista, capace ormai di ritagliarsi uno spazio importante alla voce “autori”, grazie ad una serie di pellicole riconoscibili e dal punto di vista tecnico e, soprattutto, per quanto riguarda il frangente metaforico: allegoria da sempre efficace e pungente, filo rosso che una ad una le unisce, in linea con i classici del cinema dei quali è diretta eredità. Perché, è bene ricordarlo sempre, che se nella settima arte esistono generi meritevoli di chiamarsi politici, rispondono al nome di horror e fantascienza. Di quest'ultimo Niccol è esponente raffinato e tagliente. The Host, qualora ce ne fosse ancora bisogno, lo conferma.


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GAttACA

(1997) La spersonalizzazione dell'individuo di Riccardo Rosati

Jerome Morrow, aspirante cosmonauta presso la base terreste di Gattaca, è chiamato a partecipare a una missione di un anno per Titano. Egli è un individuo decisamente superiore alla media, dunque si presenta come il perfetto esempio di essere umano “valido”, ovvero concepito artificialmente con un codice genetico privo di difetti. Tuttavia, la vera identità di

Jerome è molto meno perfetta: nato Vincent Freeman, egli è in realtà il frutto di una gravidanza naturale e dunque non abilitato a svolgere un ruolo di rilievo come quello di navigatore spaziale. Con la complicità del vero Jerome, ridotto su di una sedia a rotelle, Vincent sfida le regole imposte dalla società, nel tentativo di realizzare il sogno di una vita, esplorare lo spazio.

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Gattaca (1997) è la prima prova alla regia di Andrew Niccol, che è anche un valente sceneggiatore: non solo è suo lo script di questa pellicola, ma pure quello del bellissimo Truman Show (1998) di Peter Weir. Gattaca si attesta come uno dei film di fantascienza più originali degli anni '90. Ogni suo elemento tende a evocare il senso di inquietudine e claustrofobia che caratterizza il futuro di cui parla: l’ambientazione è asettica e impersonale, ben connotata da arredamenti minimalisti e da costumi grigi e tutti identici. Anche la fotografia aiuta a comunicare un senso di spersonalizzazione dell'individuo, grazie a dei cromatismi freddi, interrotti solo di rado da dei caldi colori pastello. Il tema portante di tutto il film è strettamente legato al cosiddetto genoismo/eugenetica: una vera e propria progettazione di un essere umano, grazie alla manipolazione del DNA, così da creare un mondo diviso tra “validi” e “non-validi”. Quello di Niccol è un acutissimo affresco su di un futuro prossimo venturo e che noi, ormai in piena era globale, cominciamo a vivere

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in prima persona. Gattaca rappresenta il trionfo del gusto retrò nella fantascienza, la quale in questa suggestiva pellicola non è certo presente con la tecnologia che solitamente la caratterizza, bensì con un ragionamento sul futuro. Una fantascienza, dunque, poco “visibile”, ciononostante profondamente percepibile in forma di ragionamento, che in alcuni casi si fa vera filosofia. In fondo, questo tratto speculativo, che relega l'elemento puramente scientifico in secondo piano, è l'aspetto principale che troviamo in quella Near (Future) Science Fiction, la quale ha davvero poco in comune con la più celebre Space Opera e i suoi viaggi galattici in uno spazio remoto. A quest'ultimo, invece, si sostituisce il cosiddetto inner space: l'uomo/universo, con le sue inquietudini sociali. Autentico maestro di questa particolare branca della Sci-Fi è lo scrittore inglese James Graham Ballard (1930 – 2009). Queste storie, in cui rientra appieno l'opera di Niccol, hanno una forte matrice politica, nel senso alto del termine, proponendo delle rappresentazioni,


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quasi sempre assai critiche, della società e nelle quali l'ambientazione non è mai, come detto, proiettata nei secoli a venire, ma solo nell'arco di qualche decade nel futuro. Il messaggio di Gattaca è però anche quello che in un mondo completamente de-umanizzato, si possa essere salvati, come nel caso di Vincent, proprio dall'umanità dei singoli individui. Lungo tutto il film corre la metafora dell'annientamento dell'Io: la lunga preparazione alla missione spaziale, Vincent la passa scrivendo al computer, seduto in una sala quasi fosse un contabile in una banca, e si conclude con la sua partenza, sempre vestito in cravatta e doppiopetto. Qui la critica di Niccol verso una società tecnocratica e globalizzata raggiunge l'apice: via la solita e troppo romantica tuta spaziale, per mostrare degli astronauti che sembrano dei semplici, quanto tristi, colletti bianchi; come a voler dire che in un mondo privo di umanità e sentimenti, in cui gli ideali, tutti, sono morti e sepolti, persino i viaggi spaziali vengono vissuti con delle modalità “bancarie”.

Forse il film si perde a tratti nella definizione dei personaggi, spesso non ben delineati, ciò malgrado resta una pellicola riuscitissima e originale sul rapporto conflittuale tra l'individuo e una società massificata. Ricordiamo che nel cast spicca lo scrittore americano Gore Vidal. Una menzione va fatta anche alla stupenda musica di Michael nyman. Tra i tre protagonisti, invece, Ethan Hawke, Uma Thurman e Jude Law, solamente quest'ultimo riesce a dare un certo spessore al proprio personaggio. Per concludere, un film che va studiato attraverso una lente allargata che non si limiti solo a quella del cinema, giacché esso affronta con sapiente delicatezza delle tematiche che sono di drammatica attualità. Gattaca è una storia dall'impronta fortemente letteraria e presenta una critica sociale sofisticata, ma mai cervellotica e, aspetto certo non secondario, non sacrifica le emozioni sull'altare del ragionamento politico.

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(2002) La morte del reale di Valentina Calabrese

Appassionati e non, la fantascienza non smette mai di incuriosire artisti e spettatori; esistono autori che non possono farne a meno e uno di loro è senz’altro Andrew niccol, regista e sceneggiatore neozelandese, uno degli autori hollywoodiani più vicini agli scrittori di fantascienza degli Anni Cinquanta. Con lui e con i suoi film è sempre questione di futuro. Niccol, che ha iniziato a farsi strada nel mondo del cinema, scrivendo uno dei film più interessanti e lungimiranti degli anni ’90, The Truman Show, diretto da Peter Weir, continua su questa strada, realizzando un film di pura fantascienza sulla clonazione e la trasformazione genetica, Gattaca - La porta dell'universo, sua opera prima, con Ethan Hawke, Uma Thurman, Jude Law e prodotto da Danny De Vito. Facile quindi dedurre la dedizione di Nic-

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col nell’osservare quasi ossessivamente il tema del virtuale e la dicotomia tra il falso e il reale. La sua ricerca si va a canalizzare con potenza visiva nel suo forse miglior film: S1M0NE con Al Pacino, Rachel Roberts, e una giovane Evan Rachel Wood. Il plot è molto più semplice di quanto si immagini: Viktor Taransky (Al Pacino) è un regista che con difficoltà tenta di affermarsi nel cinema, dopo alcuni irrimediabili insuccessi; l’ex moglie, sua produttrice (Catherine Keener), lo licenzia non credendo nel potenziale del suo ultimo film, oltretutto, anche l’attrice ingaggiata come protagonista, Nicole (Wynona Rider), lo scarica per le tipiche bizze da star. Viktor resta così solo con il suo progetto, incompreso da tutti, tranne che dalla figlia Elaine (Evan Rachel Wood) e da Hank Aleno, esperto informatico, che


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gli propone di utilizzare un personaggio virtuale da lui creato con l'ausilio di un software. Sebbene inizialmente Viktor abbia diffidato della proposta, dopo la morte dello scienziato riceve una copia della creazione di Aleno. Così Viktor, come una sorta di Pigmalione postmoderno, crea un’attrice virtuale perfetta quanto irreale: S1m0ne, (Simulation One) è una bellissima donna bionda, artificiale, che fa esordire nel suo film grazie agli effetti speciali del cinema digitale. Il film raggiunge un successo insperato e, in poco tempo, S1m0ne diventa un’icona che tutto il mondo desidera conoscere. Viktor, inventando varie scuse, riesce a mantenere il proprio segreto. I film in cui l’attrice appare, le pubblicità che Viktor architetta per aumentare la sua visibilità e la sua irrimediabile ascesa, si susseguono senza particolari intoppi e pian piano lo spettatore viene messo di fronte al fatto compiuto: un codice computerizzato è diventato il nuovo idolo moderno. Sconvolge la velocità con cui la finta attrice sia ammirata dal mondo intero, dimostrandoci come la società dei media sia fondamen-

talmente legata a qualcosa che di reale ha ben poco. S1m0ne è splendida, irraggiungibile, perfetta, irreale e proprio per questo, amata da tutti. Niente può arrestare l'ascesa di questa creatura incontaminata eppure inserita nel meccanismo della produzione cinematografica main stream, impossibile da toccare, inesistente, eppure sempre presente. Taransky, dopo averla usata e aver creduto in lei, si rende conto che la sua creatura virtuale è ormai più reale di tutto e di tutti quelli che gli stanno intorno. Il pubblico vuole i suoi miti e pur di averli è disposto a chiudere gli occhi e a credere in un sogno che non ha nulla di vero. “Io sono la morte del reale” fa dire Viktor dalla bocca di S1m0ne. Pian piano, scopriamo che la vera finzione non è l’attrice virtuale che di fatto non esiste, ma il mondo che la circonda, quel mondo che vuole fidarsi di lei ad occhi chiusi, che è disposta a fare di tutto per crederci. L’intero mondo mediatico sembra affetto da una specie di malattia infettiva che non risparmia nessuno, che uccide irrimediabilmente il pensiero di tutto il globo rapito dalle belle

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fattezze di Simone, tiranna delle loro vuote esistenze. niccol ci sveglia bruscamente dal nostro lungo sonno, mostrandoci la seduzione irresistibile dei media. In fondo niccol in S1M0NE introduce un concetto già da tempo conosciuto e trattato, ossia il concetto del simulacro che nasce dalla civiltà greca e che oggi siamo tutti d’accordo che sia la definizione stessa della società postmoderna. Baudrillard ha definito infatti il nostro mondo come il mondo del simulacro per il simulacro. Viviamo in una società in cui la globalizzazione telematica, i social network e la televisione ci stanno allontanando radicalmente dal mondo reale e dalla verità delle cose. Oggi qualsiasi evento si trasforma in spettacolo e consumo. Pensate alla diretta televisiva: anche un evento storico come l’11 settembre o l’esecuzione del terrorista Osama Bin Laden si trasformano in una messa in scena. Non vi è un solo istante nella no-

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stra vita che non sia modellato, contaminato o controllato da qualche dispositivo elettronico. Heidegger definisce la nostra epoca come l’epoca delle immagini, ed è difficile negare che anche noi stessi siamo ridotti a immagini, pensate ai nostri profili facebook, o di qualsiasi altro social network. In tutto questo processo, anche l’arte è coinvolta, diventando essa stessa un prodotto commerciale. La S1m0ne creata da Viktor è proprio questo: un’immagine, niente di più, un prodotto della mente visionaria di un uomo che la rende reale grazie al cinema. L’immagine filmica è difatti, già di per sé, illusoria; è la rappresentazione più esemplare di simulacro, il prodotto di una mente che simula la realtà. Esiste solo nel momento in cui la vediamo sullo schermo. “La nostra capacità di creare il falso supera la nostra capacità di scoprirlo” dice Viktor Taransky in una delle sue battute, e S1m0ne è il prodotto della sua e delle nostre menti.


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LoRd oF WAR

(2005) siamo tutti complici di Antonio Pettierre La soggettiva del proiettile. Niccol riesce a sintetizzare il messaggio filmico in sequenze-simbolo nei film, all’interno di una struttura diegetica da cinema classico. Così come era stato per il suo primo film Gattaca, anche in Lord of War la sequenza dei titoli di testa è metonimica rispetto alla messa in scena filmica. Lo spettatore allinea il suo sguardo alla macchina da presa che diventa soggettiva impersonale di un proiettile di Ak-47, un kalashnikov. Assistiamo alla sua nascita nella fabbrica di munizioni, il suo scorrere

sulla linea di produzione, il passaggio in casse e il suo viaggio dall’Ucraina – dopo la caduta dell’ex URSS - fino alle guerre civili sanguinose dell’Africa Nera. Tutto in soggettiva, tutto secondo lo sguardo del proiettile che finisce all’interno di un fucile mitragliatore, imbracciato da uno dei tanti guerrieri adolescenti, e che finisce il suo viaggio nella testa di un ragazzino. Tutta la soggettiva è una condanna esplicita alla passività dello sguardo dello spettatore – che si fa proiettile che uccide – attraverso la canna di un fucile, uno sguardo mono-

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culare che penetra la testa di innocenti. Lo spettatore passivo diventa complice dello spargimento di sangue in quanto usufruisce della macchina cinema così come della macchina bellica per affermare un modello culturale occidentale basato sugli interessi economici dello sfruttamento dei molti da parte dei pochi. In un corto circuito extradiegetico tra lo sguardo inanimato del proiettile, lo sguardo passivo dello spettatore e lo sguardo attivo di Niccol – anche lui imbracciando la macchina da presa e sparando le immagini nella testa dello spettatore – in una pulsione scopica di forte impatto iconico. Il dio della guerra. All’inizio del film, dopo una carrellata veloce in avanti su un tappeto di proiettili, è inquadrato Yuri Orlov (nicolas Cage) che dice: “Ci sono più di 550 milioni di armi da fuoco in circolazione nel mondo. Significa che c'è un'arma da fuoco ogni dodici persone nel pianeta. La domanda è: come armiamo le altre undici?“ e, accompagnati dalla sua voce off, ha inizio un flash back che dura tutto il tempo filmico, dove narra la sua ascesa da immigrato ucraino piccolo borghese a Little

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Odessa, a Brooklyn negli Stati Uniti, a potente trafficante d’armi internazionale senza nessun scrupolo, guidato solo dal guadagno economico. Icona dell’amoralità del capitalismo occidentale, Yuri Orlov è più di un semplice Signore della Guerra. Lui è un dio, così come lo battezza il dittatore africano a cui sta vendendo l’ennesimo carico di armi, un dio che moltiplica denaro come moltiplica proiettili che uccidono. Infatti, in una delle prime sequenze, quando vende delle armi a un gruppo di rivoluzionari islamici, il sonoro delle pallottole sparate dai fucili viene sostituito dal rumore di un registratore di cassa in un altro esempio di extradiegetico acustico. è il dio della guerra che dona le armi come pani e pesci dopo essere stato costretto a un atterraggio con un aereo da trasporto in piena savana africana a causa dell’intervento dell’Interpol, che decide della morte di milioni di uomini, donne e bambini e che influenza la stabilità di intere nazioni e popoli. Un dio produttore di morte per aumentare la ricchezza e dove la ricchezza così ottenuta viene investita per far scorrere altro sangue. E mentre lo spettatore


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assiste al traffico, agli assassinii, ai massacri, anche tutti gli altri personaggi direttamente collegati a lui muoiono o sono sconfitti. Il fratello Vitaly (Jared Leto) viene ucciso dopo un rigurgito di coscienza morale (ma comunque complice fino a quel momento del traffico d’armi insieme al fratello); lo zio generale dell’Armata Rossa, che gli vende praticamente una parte dell’arsenale sovietico in Ucraina, viene ucciso da un’autobomba (complice consenziente per denaro); la moglie lo abbandona dopo aver scoperto il suo “ufficio”, ma dopo anni di volontario disinteresse su come il marito facesse soldi per mantenere il loro alto tenore di vita (complice per comodità e opportunismo). Anche l’agente dell’Interpol Jack Valentine (Ethan Hawke) ne esce sconfitto, quando finalmente arresta Yuri e lui per tutta risposta gli dice che tanto non succederà nulla, visto che lui è un male necessario, uno strumento per stati come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, la Russia, la Germania che sono tra i maggiori produttori e trafficanti di armi (e Jack Valentine, pur essendo moralmente il personaggio-doppio positivo di

Yuri, da un punto di vista etico è anch’egli complice perché agisce secondo regole imposte da quegli stessi governi principali trafficanti di armi nel mondo). Siamo tutti complici. Il film di Niccol ha una messa in scena a tratti documentaristica a tratti di biopic nera, dove alla fine il dispiegamento della fabula risulta essere uno schiaffo allo spettatore, uno schiaffo morale ed etico su una Storia che si conosce ma che fa comodo spersonalizzare proprio perché la ricchezza dei paesi occidentali si basa anche sulle guerre dei paesi poveri e in via di sviluppo. E alla fine del flash back ritorniamo a Yuri Orlov che continua nel suo lavoro di fronte a un bivio – che porta verso una guerra o un’altra, e non verso due scelte contrapposte – e in qualche modo ci dice in faccia che lui, guardato nella realtà filmica, non è diverso da chi guarda nella realtà fisica e con una carrellata all’indietro la macchina da presa ripercorre il tappeto di bossoli e proiettili. In un metaforico collegamento visivo con lo spettatore passivo.

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(2011) Ribellarsi alla dittatura del tempo, ribellarsi alla dittatura del capitale di Stefano Coccia Sin dai suoi albori il movimento operaio ha posto tra i suoi principali obiettivi, nella lotta contro la classe che lo sfrutta e lo opprime, la riduzione dell’orario di lavoro. Ecco, il tempo. Il tempo delle persone che diventa esso stesso merce. Il tempo che la classe salariata è costretta a cedere di continuo, alle condizioni poste da altri, per ottenere quelle forme di sostentamento che rientrano tra i privilegi, invece, di coloro i quali possiedono direttamente i mezzi di produzione; e non sono quindi costretti a vendersi, a vendere il proprio tempo, per vivere. Con tali discorsi siamo già in un’ottica dichiaratamente marxista. E ciò che segue potrà apparire ad alcuni sorprendente, ma è in un film pensato anche come adrenalinico intrattenimento che abbiamo ritrovato scorie robuste, vive, pulsanti, di tale pensiero politico: In Time di Andrew niccol. La cosa stupisce fino a un certo punto, considerando il percorso dell’autore neozelandese, che sin dagli esordi ha danzato agilmente sul confine tra utopia e anti-utopia: la multiforme ricchezza della sua visione socio-politica risalta con forza nelle opere da lui dirette, in particolare Gattaca e Lord of War, come anche nella sceneggiatura di The Truman Show. Ma è proprio con In Time che la critica del modello sociale capitalista si fa più serrata, dando vita a un’esemplare parabola e proponendo inoltre i germi della rivolta. 14

Come in Gattaca, il delinearsi di una società rigidamente strutturata in classi, cui le biotecnologie hanno apportato una specie di restyling, è il palcoscenico in cui si muove la ribellione individuale, spinta progressivamente verso il ribaltamento dello status quo inizialmente descritto. Lo scenario fantascientifico immaginato da Niccol prevede che in un futuro non troppo lontano la scienza sia progredita al punto di garantire agli esseri umani una sostanziale immortalità, con l’invecchiamento stoppato al sopraggiungere del venticinquesimo anno di età; ma al contempo la morte è sempre in agguato, poiché le autorità hanno stabilito che al venticinquesimo anno scatti un anno di bonus terminato il quale si muoia comunque, tant’è che il tempo è diventato la nuova moneta di scambio, coi più ricchi destinati ad accumularne illimitatamente e i più poveri impegnati a lottare quotidianamente per la loro sopravvivenza. Tutto, ovviamente, per preservare un sistema fondato sullo sfruttamento e sull’accumulo di capitale. “Affinché ci siano pochi immortali, la maggioranza dei poveri deve morire”, dice a un certo punto uno dei personaggi, il miliardario Philippe Weis interpretato con piglio arrogante da Vincent Kartheiser. Ed è così che ha inizio l’avventura di Justin Timberlake alias Will Salas, giovane intraprendente la cui continua lotta contro


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il tempo è anche lotta per redistribuire con maggiore equità il tempo stesso, divenuto qui il bene più prezioso: la sua fuga dal quartiere più povero della metropoli, quella Zona 12 ribattezzata non a caso “il ghetto”, lo porterà a scontrarsi sia con i Minutemen, gang senza troppi scrupoli votata a rubare indiscriminatamente il tempo degli altri, sia con quei Timekeepers o Guardiani del Tempo, agenti di polizia che la classe agiata concentrata nella Zona 1 ha preposto alla difesa dei propri privilegi. Nel corso di questa ribellione individuale, destinata a porre le basi di una più ampia rivoluzione sociale, l’indomito Will incontrerà l’appoggio dell’affascinante figlia di Philippe Weis, Sylvia, che è disposta a tradire non solo la famiglia ma anche il proprio mondo decadente e fasullo. Del resto lo stesso Friedrich Engels economicamente parlando veniva dalle fila della borghesia… per quanto Amanda Seyfried risulti di gran lunga più carina, rispetto al sodale di Marx! Il fantasma dell’immortalità, al pari delle comunità di eletti separatesi dal resto della razza umana, è qualcosa che aleggia in altri classici della science fiction cinematografica. In primis Zardoz del grande John Boorman. Se pesa però un sospetto reale, sull’originalità dello script di Andrew Niccol, lo si deve ricondurre alla denuncia portata

avanti da uno scrittore di fantascienza, Halan Ellison, secondo il quale In Time ricorderebbe in troppi punti un suo racconto del 1965, intitolato Repent, Harlequin! Said the Ticktockman. Non abbiamo né gli strumenti né soprattutto la voglia di addentrarci in tale polemica, ci preme invece sottolineare come Andrew Niccol nel suo più recente lungometraggio abbia trovato un ideale livello di fusione, tra la spettacolarità dell’azione e le tensioni socio-politiche che l’alimentano. Splendida la fotografia di Roger Deakins, specie nelle sequenze notturne; originali certi inseguimenti come anche gli scontri tra i protagonisti, condizionati dall’ansia di avere un “orologio vitale” ben visibile sul braccio; incalzante il ritmo impresso dal commento musicale di Craig Armstrong; adeguato il cast, in cui spicca anche un Cillian Murphy sbirro implacabile. E a questi ingredienti, indubbiamente azzeccati, si somma l’acume di una sceneggiatura che quasi in ogni dialogo ripropone, con toni ora ironici e ora drammatici, la follia di un tempo trasformato in nuovo strumento di oppressione dell’uomo sull’uomo. Ma ci si può sempre ribellare, come dimostra la parabola dello spavaldo Justin Timberlake, abile nel trasformare la sua fuga in rivincita del ghetto sulla classe dominante.

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Special e Berlin ale com ing soo n


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