MAURIZIO SERAFINI
CONCERTO PER CORNAMUSA EIn viaggio GIRAMONDO con musicisti ribelli
A tutti coloro che fanno dei sogni una strada da perseguire.
Prefazione
Il mio unico viaggio senza ritorno
Ci chiamano boomer. Sì, i ragazzi della generazione internet e cellulari, a noi nati negli anni Sessanta, ci chiamano boomer, accomunandoci, in senso dispregiativo, a quel periodo spensierato e frivolo del boom economico italiano. Sottintendono che non capiamo i dubbi e le lacerazioni della contemporaneità, siamo lontani anni luce da tecnologia e scienza tra le quali ci muoviamo come elefanti inconsapevoli, abbiamo riferimenti culturali obsoleti, una comicità che ormai non fa più ridere nessuno, tempi comunicativi lenti, nostalgia per i sapori ruspanti di campagna e soprattutto uno storico atteggiamento critico e speculativo che mal collima con ogni richiesta di conformismo. In realtà siamo analogici che, in senso filosofico, vuol dire più attinenti possibile al concreto: non prescindiamo dall’esperienza personale diretta per ottenere risultati e conoscenza. Del resto siamo cresciuti fuori casa giocando a pallone nei cortili e la tv – ancor prima di internet – riempiva solo il tempo tra una partita e l’altra, comunicavamo tra noi adolescenti anche rudemente ma mai per interposta 5
persona; per ogni approfondimento tematico dovevamo mettere scarpe e cappotto e fare due chilometri a piedi da casa per raggiungere la biblioteca, leggevamo libri e soprattutto eravamo amici divertiti con l’ambizione di essere unici, ognuno diverso dall’altro, per cui ci esaltavamo con i pensieri divergenti e con gli esempi di vita di chi quella irregolare esistenza ne faceva bandiera. Questo è un libro della memoria, che racconta di un periodo storico che ha provato a lasciar spazio alla fantasia e all’immaginazione. In cui, noi giovani ribelli viaggiavamo senza tempo e denaro nelle remote strade dei sogni e dei desideri. Ci ponevamo fiduciosi del mondo, sfrontati e senza paure e ogni incontro e ogni scelta potevano essere decisivi per aprire porte inaspettate ai nostri animi liquidi. Per me l’abbraccio più casuale e bello fu quello con la musica. Ascoltare quei vinili per ore, con l’immancabile fruscio di sottofondo, può senz’altro considerarsi il mio unico viaggio senza ritorno. I regali e le paghette erano tutti destinati a impianti audio e dischi. Ecco, noi analogici siamo cresciuti con un ascolto della musica su impianti hi-fi e con amplificatori a valvole. E ci resta ancora difficile consumare canzoni su telefoni, computer e autoradio dove lo spettro sonoro è compresso tutto sulle medio-alte. Anche con le cuffie non troviamo appagamento, così lontane dalla nostra idea comunitaria di ascolto. Da liceali ci adunavamo infatti in qualche soffitta per ascoltare insieme il rock dei Doors, dei Led Zeppelin, dei Deep Purple, dei Pink Floyd. Ma questo libro soprattutto tratta di musica altra. Narra di una folgorazione per il folk del nord Europa che, per quasi mezzo secolo, è stato ed è tuttora il filo rosso con cui ho unito le principali vicende di vita. Racconta di una storia vera, di un sogno adolescenziale, di un percorso di avvicinamento alla musica vissuto quasi 6
sempre con istinto e passione, controcorrente e pieno di colpi di scena, che ha permesso a me e ad alcuni amici musicisti di viaggiare in giro per il mondo e, come fondatore del Montelago Celtic Festival, di portare il mondo a casa. E qui quel mondo è diventato comunità internazionale di artisti, amici e fratelli che si ritrovano puntualmente a proporre una visione creativa e sonora legata alle immagini belle e positive di questo faticoso inizio terzo millennio. Il libro ha come obiettivo quello di far percepire al lettore tutta la musica che ha influenzato questa vicenda umana, con una colonna sonora composta da verbi e aggettivi, metafore e allitterazioni, simbolismi e parafrasi. A completamento dello spettro sonoro troverete, inoltre, a pagina 165, un Qr-code che permette di scaricare otto brani inediti e originali, composti e realizzati proprio da questa grande famiglia di musicisti sparsi in Italia ed Europa che, durante la pandemia, ha sopperito alla mancanza di concerti live continuando a condividere musica da casa. Non per nulla la compilation allegata si intitola Suonar lontano. Ecco, il digitale ha questo di buono: pur lontani ci si può sentire vicini; ma non potrà mai sostituirsi al calore degli abbracci, ai cenni d’intesa tra i musicisti sul palco, ai loro sorrisi per le note armonizzate, all’energia del pubblico e alle mille vicende realmente vissute e raccontate in questo volume. Buona lettura e buon ascolto
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Alla fiera dell’Est
Nel percorso di iniziazione alla fede cattolica ci sono tre sacramenti importanti: il battesimo a tre mesi circa dalla nascita, la prima comunione a nove o dieci anni e la cresima a dodici o tredici. Poi ne restano altri due di conferma, il matrimonio e l’estrema unzione, ma questi non hanno età, sono a scelta. Nella mia giovinezza i tredicenni diventavano “soldati di Cristo”, cioè pronti a difendere Chiesa, Patria e Famiglia. Adesso si vuole portare la cresima a sedici anni perché la Chiesa sostiene che l’abilità bellica degli adolescenti si sia leggermente intorpidita. Comunque io saltai l’appuntamento con i coetanei per colpa di una mononucleosi, non diagnosticata subito, che mi tenne in ospedale quattro mesi con febbre e bombe di antibiotici. Del resto la “malattia del bacio” era imprevedibile per un ragazzino che ancora viveva nel mondo dei sogni e dei giochi. Così dovetti arruolarmi a quattordici anni, un guerriero ripetente. Di solito la cresima non veniva festeggiata, come la prima comunione, con pranzi al ristorante e regali, ma i miei genitori vollero smaltire la preoccu9
pazione accumulata e ringraziare Dio per la guarigione. Così mi offrirono la possibilità di scegliere qualsiasi dono. Tranne il motorino, ovviamente... Dato che il desiderio in cima alla mia lista era stato escluso a priori, non tardai molto a pensare a una valida alternativa: un impianto stereo hi-fi completo di radio, mangianastri e giradischi. Arrivò in casa il giorno prima dell’iniziazione e fu collocato nella stanza con la moquette verde, con tanto di mobiletto portavinili. La casa era grande, un appartamento nel quartiere nuovo di una sonnolenta città di provincia, con fioriere, infissi anodizzati e balconi sul cortile interno. Da quel momento la stanza con la moquette verde, che era sempre rimasta inutilizzata, sarebbe diventata il tempio della musica, il luogo esclusivo dei segreti e dei sogni. C’era bisogno però, per sancire il cambiamento, di un rito di purificazione: buttare via il mangiadischi e tutti quei piccoli vinili che mi avevano accompagnato fino alla nomina di soldato di Cristo. Per chi non lo sapesse, il mangiadischi era come una borsetta portatile di plastica che permetteva di ascoltare dischi a 45 giri con un solo brano per lato e con un grande buco al centro. Aveva dei forellini nella parte superiore per la fuoriuscita del suono ed era alimentato a batterie o a corrente. Bastava inserire nella bocca dell’apparecchio la ciambella di vinile, che poi veniva risputata a fine ascolto con un sonoro clac. Dentro quel buco nero c’era una puntina (o più probabilmente un aratro) che, non appena percepiva la presenza del disco, scendeva come una ghigliottina, esercitando una pressione tale che, dopo tre o quattro ascolti decenti, eri costretto a convivere in eterno con il fruscio di fondo. I 45 giri li tenevo ammonticchiati senza fodere, così, giusto per alimentare i graffi, ma ciò non mi tratteneva 10
dal metterli a rotazione uno di seguito all’altro. C’erano le Fiabe Sonore della Fabbri, quelle del cappottino rosso e della cartella bella, per intenderci, e c’erano tutti quei dischi dismessi dal juke-box del bar dei miei genitori solo perché ormai passati di moda. Ricordo i successi di Edoardo Vianello (i preferiti erano profeticamente Sul cucuzzolo della montagna e i Watussi), Se bruciasse la città di Massimo Ranieri, In ginocchio da te di Gianni Morandi e tanto altro. Ma sempre e solo musica leggera italiana. I primi veri Long Playing mi furono regalati da uno zio che, probabilmente, li aveva da tempo in casa senza averli mai ascoltati: la Quinta sinfonia di Ludwig van Beethoven e Il mio canto libero di Lucio Battisti. Quest’ultimo addirittura senza copertina, dispersa probabilmente in qualche cantina. Entrambi non conquistarono mai le mie orecchie anche se, a forza di ascolti obbligati, mi affezionai anche a loro. Successe invece che, in cerca di regali per le feste di Natale, capitai all’Upim. Lì c’era anche un piccolo reparto musica che stava mandando in pubblico ascolto le sonorità di un nuova produzione discografica. C’erano i violini, le chitarre acustiche, i flauti e una voce delicata, quasi sussurrata, che ben si distingueva da tutte quelle piene e stentoree della musica leggera. Rimasi rapito ad ascoltare una filastrocca che parlava di topolini, gatti, cani, tori e macellai che si sopraffacevano come in una catena alimentare senza fine. Uscii dal negozio con il primo vinile della mia vita scelto e comprato: Alla fiera dell’Est di Angelo Branduardi. Appoggiai su di esso la puntina del nuovo giradischi tante di quelle volte che ben presto imparai a riconoscere i suoni delicati del liuto, del bouzouki, dell’arpa e del clarino. Mentre tenevo sotto gli occhi parole, suggestioni e informazioni prese dalla copertina, ascoltavo le canzoni 11
come se cercassi continuamente nuovi dettagli e sfumature da scoprire. C’era un brano che mi stregava in particolar modo, il più lungo del disco, oltre otto minuti, che si intitolava Il funerale. Aveva un preludio strumentale che prendeva più di metà canzone, esperienza senza precedenti nella mia giovane memoria sonora, e poi partiva la voce calda di Branduardi. Era un canto funebre rumeno dall’andatura lenta, quasi sacra. Comparivano lupi, faine, sentieri segreti, montagne ferite, laghi, sorgenti... ma il vero significato era purtroppo ben celato dietro all’ermetico simbolismo. Forse paura o solitudine. O pericolo, o catarsi. Sembrava un messaggio, ancora troppo difficile da interpretare nella sua sibillina esposizione, che però mi proiettava in un viaggio interiore e che intendevo comprendere nel suo significato più profondo. Una sera, dopo averlo ascoltato più volte di seguito, mi allungai sulla moquette verde, spensi la luce e mi abbandonai al buio. Fui sollevato da terra, portato in un vortice sonoro e finalmente il mistero fu svelato. Al risveglio tutto sembrò chiaro: la canzone non c’entrava nulla con la morte. Anzi mi suggeriva la via della consapevolezza: senza paura del lupo né della natura selvaggia, in poche parole senza paura di vivere. Quella sì che fu una vera iniziazione. Di lì a poco arrivò nella stanza della musica un altro LP di Branduardi, con i brani meno conosciuti composti prima di Alla fiera dell’Est, come La luna e Gli alberi sono alti, che continuarono a regalarmi visioni poetiche della natura e dei sogni di un adolescente. Ma soprattutto c’era Confessioni di un malandrino, canzone elaborata dal testo di Sergéj Aleksándrovič Esénin, poeta maledetto russo. Anch’essa fu un viaggio senza ritorno: quel poema rurale, messo magistralmente in musica, aprì le porte all’amore per la letteratura delle steppe. Un amore che non si sarebbe mai più spento. 12