Claudine Desmarteau
IN NOME DI CHRIS
Traduzione di Caterina Ramonda
I Fine estate
Mi ricordo di cosa penso la notte, ma non sempre. A volte i pensieri si mescolano con la realtà e faccio fatica a distinguere le due cose. Forse perché sono tanto stanco.
Dovrei dormire a lungo, senza interruzioni, ma non ci riesco. Più cerchi di dormire, meno ci riesci.
Vorrei stendermi sul letto
Chiudere gli occhi
E hop!
Addormentarmi come per incanto
Prima funzionava. A volte i miei occhi si chiudevano persino da soli mentre leggevo, e fino al giorno dopo non mi svegliavo più.
È una fortuna incredibile dormire come sotto un incantesimo. Non me ne rendevo conto.
Stessa cosa per Judith: non mi rendevo conto della mia fortuna.
Quando Judith e il sonno ritorneranno, voglio godermeli fino in fondo.
Sarò felice e me ne renderò conto.
Se sei davvero felice, te ne rendi conto?
Se te ne rendi conto è perché in fondo sei già un po’ triste: sai che la felicità non dura per sempre.
No?
Sei felice per un istante che non durerà, e questo è triste.
Il tempo della notte
Non è lo stesso tempo del giorno
La notte, il tempo scorre lentamente
Troppo lentamente
Hai tutto il tempo di farti un sacco di domande
La notte ti lasci assalire da pensieri
Che di giorno non oserebbero affacciarsi
Pensieri come labirinti
Tu ne segui uno e quello ti porta altrove
E non sai più da dove sei partito né come sei arrivato lì
Né come riuscirai a uscirne
Se ne vanno lontani verso l’ignoto, i pensieri, di notte
Ho paura
Che mi portino troppo lontano
Paura di non sapere più
Dove sono
Né chi sono
“Li stai prendendo i sonniferi?”
“Sì.”
“Tutte le sere?”
“Sì.”
Bugia. Non li prendo.
“Hai le occhiaie. Possiamo cambiare terapia, se questa non ti non va bene.”
“...”
“Prendiamo di nuovo appuntamento dallo psicoterapeuta. D’accordo?”
“No.”
“Io invece penso che sarebbe il caso che ci ritornassi.”
“Non subito.”
“Va bene... Ma ne riparliamo.”
Evito lo sguardo di mia madre, ma sento i suoi occhi che mi trapassano il cranio. Capisce tutto, mia madre. È dura mentirle.
I sonniferi non li prendo più. Ho smesso. Ho smesso perché non funzionava. Buttavo giù una pastiglia, ma mi svegliavo comunque nel cuore della notte e non riuscivo più a prendere sonno. Sì, può darsi che dormissi un
po’, a metà... no... non dormivo davvero perché mi accorgevo di dormire, o di non dormire: era peggio che rimanere sveglio e, il giorno dopo, non sapevo più se avessi dormito o no.
Non sapevo più che giorno fosse.
Non sapevo più niente e mescolavo tutto.
Non sapevo più niente di quello che avevo studiato.
Non mi ricordavo le parole dei prof. Sembrava tutto un incubo a occhi aperti.
Avevo dei buchi neri.
Mi terrorizzano, i buchi neri.
Se perdo la memoria, perdo tutti i punti di riferimento.
Quando non prendo i sonniferi, ho davvero una buona memoria. Non lo faccio apposta. È così da quando ero piccolo. Mi ricordo di particolari che tutti dimenticano.
La macchia di ruggine sul telaio della mia prima bicicletta color azzurro cielo, i pedali bianchi, il casco rosso troppo grande che mi calava sugli occhi perché mia madre non l’aveva stretto abbastanza: avevo rischiato di andare dritto
contro il marciapiede. Mi esattamente quanti giri dell’isolato avevo fatto senza posare i piedi per terra: ventisei. Non volevo più smettere di pedalare.
“Vai troppo veloce!” gridava mia madre.
Portava il foulard di seta lilla e aveva tirato su i capelli con una pinza. Non mi piace quella pettinatura, la invecchia; la preferisco coi capelli sciolti.
Io rallentavo e la bici sbandava di qua e di là; pedalavo più veloce per non cadere, e a ogni giro acquistavo un po’ più di sicurezza. Era inebriante. Non avevo mai provato una cosa simile, prima.
Il bassotto dei vicini mi abbaiava dietro.
“Vai troppo lontano!” gridava mia madre.
Mi ricordo delle croste sulle ginocchia che duravano tutta l’estate; mia madre aveva sempre paura che si infettassero.
Mi ricordo di tutto, anche di quello che vorrei dimenticare.
Mi ricordo che, il giorno prima della partenza di Judith, abbiamo mangiato carote grattugiate, fagiolini verdi, hamburger e torta al cioccolato. Mi ricordo del colore del mio vomito nella tazza del cesso.
Non sono particolarmente intelligente, ma mi ricordo di tutto e questo agli altri dà sui nervi. Sono un anno avanti rispetto ai ragazzi della mia età. Non ripasso mai le lezioni: mi ricordo di ogni parola dei prof.
“Sei fortunato”, mi diceva Judith.
Non ne sono così sicuro.
Judith era la mia migliore amica.
È partita coi suoi genitori e gli scatoloni del trasloco. Sono i genitori che decidono, e se ci disperiamo, peggio per noi.
“La vita ci strappa ciò che amiamo”, dice mia madre. Detesto quella frase.
Avevo notato Judith perché era diversa. Solitaria, come me. Pallida, mingherlina, con il viso spigoloso, i capelli corti sempre arruffati. Non molto femminile. Mai sorridente. Sempre a disagio, come me. Aveva la fissa degli scarabei. Voleva reincarnarsi in uno scarabeo e io la prendevo in giro. Ma è proprio grazie a uno scarabeo che è diventata mia amica.
Era una calda giornata di giugno e le finestre della classe erano spalancate. Uno scarabeo è volato dentro facendo un baccano infernale, come un bombardiere. Tutti gridavano e si rifugiavano sotto i tavoli. Geoffroy si è alzato e l’ha spiaccicato sul muro colpendolo col libro di matematica. Judith è saltata dalla sedia, gli si è avvicinata – gli arriva a malapena al mento – e gli ha tirato uno schiaffo. Uno schiaffo potente. La sua manina bianca sulla boccaccia di Geoffroy. Lo ha steso. Lui, sul momento, non ha saputo cosa dire.
Silenzio in classe.
Impressionante.
Judith aveva le labbra serrate e Geoffroy era tutto rosso. Geoffroy indossava una maglietta bianca, dei pantaloni della tuta blu scuro Sergio Tacchini e un paio di Nike nere.
Judith portava una canotta gialla; le si vedeva la pancia incavata: è così magra che le stanno larghi persino i jeans attillati. Sul gomito sinistro aveva una crosta che cominciava a staccarsi.
Il prof ha ordinato a tutti e due di sedersi. Non dimenticherò mai cosa ho provato quel giorno. Ero seduto, ben dritto sulla sedia, e gongolavo. Come se fossi stato io ad aver dato uno schiaffo a Geoffroy. Mi sentivo più forte solo a guardare Judith, la ragazzina pallida e smilza che non parlava con nessuno. Ma osava sfidare Geoffroy.
Geoffroy, il più forte. Il bullo della classe.
Quello che può permettersi tutto, o quasi. Perché tutti, o quasi, hanno paura di lui.
Nella camera di mia madre, appese alla parete, ci sono delle foto incorniciate.
Fotografie di lei, bambina, in braccio a sua madre. Sua sorella maggiore è seduta accanto a loro, sul divano, e tiene il broncio. Mia madre ha delle grosse guance da criceto, le lentiggini, la frangia tagliata storta e i codini. Sorride, le manca un dente.
In un’altra foto, accarezza un gatto nero con la punta delle zampe bianche; anche l’orecchio sinistro è bianco in cima.
Su una foto scattata in un giardino fiorito e pieno di sole, c’è lo stesso gatto. Mia madre gli carezza la pancia e lui si rotola per terra con gli occhi chiusi. Mia madre ha i capelli lucidi e sorride. È la mia foto preferita.
Sul muro, ci sono anche delle foto mie. Molte foto mie.
Neonato, steso a pancia in giù, con la testa sollevata come un serpente. Sono quasi calvo, ho le orecchie grandi e gli occhi tondi.
Seduto a cavalcioni su un camion di plastica gialla. Mi ricordo la felicità di quando l’ho ricevuto, a Natale. Pioveva troppo per uscire, avevo dovuto aspettare il giorno dopo per andare al parco col mio nuovo camion giallo.
In piedi nel corridoio di casa. Ho un sedere enorme nel pigiama a righe bianche e blu: i primi passi, a undici mesi e mezzo.
Su un sentiero in un bosco, a cavallo di un pony grosso e grasso. Quello stronzo di un pony non era affatto docile, pensava solo a brucare.
Senza maglietta, in pantaloncini hawaiani, mentre mangio un gelato alla fragola e vaniglia. Strizzo gli occhi.
C’è un’altra fotografia mia – mia madre dice che sono io, quel mocciosetto di pochi mesi seduto su un telo da mare turchese, tra lei e un uomo coi capelli scuri e il naso grande. Lui guarda l’obiettivo sorridendo, ma i suoi occhi non si vedono perché porta gli occhiali da sole. Mia madre guarda lui, io invece guardo nel vuoto.
A quanto pare, quell’uomo abbronzato e peloso è mio padre.