L'occhio del barracuda

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L’occhio del barracuda

Le case e la guerra

Dei primi due figli nati dal matrimonio tra Mario Tutino, insegnante di lettere, e Fanny Castiglioni, discendente di una casata della borghesia milanese benestante, io ero quello che aveva creato più problemi in famiglia per la mia intemperanza. Durante la gestazione che aveva preparato il mio ingresso nel mondo, mia madre aveva avuto una lunga crisi depressiva. Il suo timore era che la mia salute in qualche modo ne risentisse. Invece io nacqui sano e normale. Ma il sollievo di mia madre non durò molto. Appena mi sentii in forze, rivelai un carattere bollente, riempiendo la casa con le mie grida e con capricci così clamorosi che nessuno osava stroncarli con decisione. La nostra balia non aveva il carattere di un gendarme. Le donne che si davano da fare in campagna attorno alla signora Fanny erano ancora meno adatte a farmi rinsavire. E io ne approfittavo per protestare ogni giorno contro la banalità della vita quotidiana. A un certo punto, un consiglio di famiglia decise che bisognava metter fine al mio stato di rivolta.

Mio padre venne incaricato di procedere. Ma per via del suo carattere mite, non era abituato a usare le mani come strumento di educazione. Era stato accettato di buon grado nella famiglia di mia madre, anche se era un

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meridionale, per la sua bontà, che aveva prevalso anche sulla circostanza che avesse quattordici anni in più della sua futura consorte. Quando fu ammesso in via San Damiano, siccome veniva da Roma, dove frequentava più gente di cultura che uomini d’affari, dovette dimostrare ai nonni le sue attitudini alla vita pratica. In realtà i giochi erano già fatti, perché Fanny era incinta di mia sorella Nannina. Allora il nonno gli affidò una cooperativa di taxi, e la vita coniugale fece sì che un anno dopo la nascita di Nannina fossi concepito io.

A un certo punto, come dicevo, fu deciso che bisognava darmi una lezione. Mio padre scelse un momento in cui la mia protesta era arrivata al diapason. Secondo quanto lui stesso poi racconterà, fu quella la prima e l’unica volta che usò le mani su uno dei figli. Io ricordo che mi assestò una tremenda scarica di sculacciate. Strepitavo, ma inutilmente. Alla fine aprì la porta che dava sulla cantina e mi rinchiuse là da solo, al buio. Mi sembra di sentire ancora come gridavo la mia rabbia e tempestavo contro quella porta. Finché svenni. Allora tutti si spaventarono e a quel punto mio padre giurò a se stesso che non ci avrebbe mai più riprovato.

Quando avevo tre anni nacque un terzo fratellino, Alessandro. L’anno seguente la cooperativa dei taxi fallì. Due anni dopo mio padre partì per Parigi con tutta la famiglia e con un contratto di rappresentante della rubinetteria Carloni. L’appartamento che aveva affittato era in boulevard Henri IV, vicino al ponte sulla Senna dell’Île SaintLouis. Al di là del boulevard c’era l’edificio barocco del Lycée Massillon; più in là, sullo stesso lato del viale, la caserma della Garde républicaine dalla quale ogni giorno, verso le quattro, i militari uscivano caracollando a cavallo. Quando sentivo il trepestio degli zoccoli sul selciato, correvo a vedere i loro elmi dorati, con la coda nera che

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ricadeva sulle spalle dei cavalieri. Poco dopo, Nannina e io fummo mandati a scuola in un istituto privato situato proprio nel vertice est dell’Île Saint-Louis. Era un edificio basso e civettuolo, attorniato da un giardino che si spingeva fino al parapetto sulla Senna. Mio padre ci accompagnava ogni mattina fino al cancelletto d’ingresso, prima di andare in ufficio. Io frequentavo la prima elementare, Nannina la seconda.

Mi fidanzai subito con la più bella delle mie compagne di scuola, Marcelle Lequiller, una biondina con gli occhi maliziosi, il mento rotondo con la fossetta in mezzo. Anche lei era innamorata di me e lo disse a sua madre. Mi vergognavo di questa sua impudicizia, ma accettavo le sue effusioni che avvenivano anche in classe prima che entrasse l’insegnante. Sui banchi avevamo scelto due posti vicini e nessuno trovava da ridire sui nostri baci. Sua madre mi volle conoscere. L’idillio finì quando tornammo dalle prime vacanze estive. Marcelle rimase all’Île Saint-Louis; io, invece, dovetti cambiare scuola e andare al Massillon. Durante le vacanze tornavamo in Italia. Avevo appena imparato a parlare francese e mi toccava riprendere a parlare in italiano, o addirittura in dialetto tregnaghese. Tutta l’estate la passavamo a Tregnago, un paese a ventiquattro chilometri da Verona, dove i bisnonni e i trisnonni materni avevano fondato la loro fortuna. Nella villa, sotto un gigantesco cedro del Libano, riprendevo a giocare con Silvio, figlio del mezzadro. Soffrivo per qualche giorno delle mie difficoltà nel riprendere a dire ghe xe invece che il y a, o mi go fame invece che j’ai faim. Poi tutto si aggiustava fino a ottobre, quando tornavamo a prendere il treno da Milano per Parigi. Stavolta ero in una classe tutta di maschi e in un liceo tutto di preti. Andò bene per qualche mese. Mi ero fatto

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amico di un ragazzetto biondo e fragile, figlio di un medico, che portava gli occhiali ed era molto gentile. A poco a poco, la nostra amicizia diventò esclusiva. Forse per gelosia, gli altri mi presero di mira come italiano, figlio di emigrati e cittadino di seconda o terza classe. Gli italiani di terza classe, allora come oggi, venivano chiamati con disprezzo rital.

Un giorno, mentre il professore stava facendo lezione, dai banchi dietro di me partì il rumore di un peto. Lo sguardo del professore percorse tutti i banchi. Io ero tranquillo, ma la mia faccia non lo dava a vedere, anche perché la mia carnagione era più rosea di quella degli altri. Forse il colpevole, dietro, arrivò a indicarmi. L’insegnante mi ordinò di uscire e, nonostante le mie proteste, quando suonò il campanello della ricreazione, mi accompagnò lui stesso in cortile imponendomi come castigo di fare venticinque giri di corsa. Li feci tutti, tra le risate dei compagni. Solo il mio amico con gli occhiali mi guardava con simpatia impotente.

Il giorno dopo lasciai la scuola. Ci fu qualche trambusto e alla fine si decise di iscrivermi a un altro istituto organizzato dall’ambasciata italiana per i figli dei funzionari italiani all’estero. Qui, per prima cosa, mi imposero di portare la divisa di balilla, calzoni scuri e camicia blu. Quando l’insegnante entrava, bisognava scattare sull’attenti e fare il saluto romano. Sulla parete, il ritratto di Mussolini, di profilo. Capii perché al Massillon, oltre che rital mi chiamavano mussolinì macaronì.

Un’estate, prima di tornare in Italia, andammo al mare vicino alle foci della Gironda. L’andirivieni delle maree era imponente: quando arrivavamo sulla spiaggia, la mattina, si poteva camminare sul bagnasciuga e raccogliere conchiglie nella sabbia bagnata. Poi la marea dell’Atlantico si alzava e qualcuno restava prigioniero delle onde,

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lontano dalla terraferma. Era un fenomeno pauroso ed eccitante. Ragazze e giovanotti intraprendenti si sedevano accanto a noi e facevano amicizia con mio padre e mia madre. In acqua, mia sorella Nannina era più esperta di me. Aveva imparato subito a nuotare, mentre io facevo solo finta: mi allungavo nell’acqua dov’era bassa e muovevo le braccia in modo da toccare il fondo e sostenermi a galla, ora con la mano destra ora con la sinistra. Con lo stesso trucco mi spingevo avanti. Nella pensioncina dove eravamo ospiti, a Saint-George de Didonne, si mangiava sempre pesce; io odiavo la “razza”, che ci servivano due volte alla settimana. Di quelle vacanze ricordo anche che con Nannina litigavo spesso. Invece con il fratellino Dando eravamo tutti e due prodighi di affetto. In casa, tra genitori e figli non si usavano né baci né carezze: prevaleva allora il peso del pudore su quello dell’amore.

A Parigi la ditta Carloni non ebbe successo. Il suo prodotto più rinomato era un rubinetto a incastro, che si chiudeva e si apriva per mezzo di una levetta, posta all’incrocio fra il tubo orizzontale, quello portante, e il tubetto verticale che si stringeva in basso, per guidare la fuoriuscita dell’acqua. A poco a poco la leva, consumandosi, non tratteneva più il getto e il rubinetto cominciava a sgocciolare; allora bisognava cambiarlo. Doveva essere costruito con una lega di nichel di cattiva qualità. Un altro inconveniente del rubinetto Carloni era la difficoltà di regolarne il flusso: o veniva di getto o non veniva affatto. La famiglia riuscì comunque a sopravvivere tre anni a Parigi, fra il 1930 e il 1933, con le provvigioni sulle vendite di quel rubinetto.

Anche se non andavano spesso alle Folies Bergère, mio padre e mia madre sembravano godersi la vita. Compravano i dischi di Joséphine Baker, che piaceva a mio padre, o di Maurice Chevalier, che piaceva a mia madre. Sentivo

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mio padre parlare della pelle bruna di Joséphine e mia madre della simpatica faccia di Maurice. Le voci dai dischi incantavano anche noi bambini, e io naturalmente preferivo Joséphine, quando diceva con la sua voce profonda: “J’ai deux amours – mon pays et Paris” e batteva sulle due “p” come se volesse far scoppiare dei palloncini. Dopo due anni di spensieratezza, la succursale parigina della rubinetteria Carloni fallì e i Tutino dovettero rientrare in Italia. Mio padre non aveva molto talento per gli affari. Il nonno Oreste, padre di mia madre, accettò di ospitare i due maggiori dei tre nipotini – Nannina e io – nel suo appartamento milanese in via Cosimo del Fante. La mamma invece rimase a svernare nella casa di campagna a Tregnago con il Dando. Mio padre ebbe qualche incarico dalla Mondadori: scriveva risvolti di copertina e “soffietti” per l’ufficio stampa. Guadagnava solo quanto bastava per mantenersi. Con i soldi che riceveva dal nonno la mamma badava a sé e al Dando, che aveva allora cinque anni.

La casa del nonno era austera. Il nonno, baffi bianchi e l’aria perennemente irritata, non ci parlava mai. Per le faccende di casa, per badare a noi e per servire in tavola, il nonno stipendiava un cameriere originario di San Marino che aveva uno strano modo di atteggiarsi e di parlare. Nella voce aveva un’intonazione particolare, effeminata. Ridevamo di lui. Andavamo a scuola accompagnati da papà che veniva tutte le mattine a prenderci, ma restava sulla porta. Il nonno non aveva più simpatia per lui, visto come gli erano andati gli affari. Mio padre veniva anche a prenderci il sabato pomeriggio, per portarci alla pasticceria Motta a mangiare un gelato al caffè: la “coppa del nonno”.

Quell’anno, guardando fuori della finestra – in primavera – scrissi i miei primi versi: “Nell’aria una rondine

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La vita di noi ragazzi si svolgeva tra la scuola e la compagnia dei fratelli Rocca, Anna e Roberto, due gemelli nati da Maria Queirazza, grande amica di mia madre e sposa di Agostino Rocca. Quella dei Rocca e dei Queirazza era una famiglia agiata di imprenditori e finanzieri. Noi eravamo gli amici meno fortunati. Nannina e io avevamo cominciato il ginnasio al liceo Berchet, più vicino a Porta Romana che a Porta Vittoria. Andata e ritorno, naturalmente a piedi. Soprattutto al ritorno, Nannina era seguita da un gruppetto di maschi. Io mi mettevo dietro a tutti, e osservavo perplesso questi corteggiamenti.

Nella famiglia prevalevano i liberali. Mia madre aveva tre fratelli di idee liberali e uno – nato settimino – completamente diverso dagli altri per la sua semplicità d’animo. Il loro nonno, Giovanni Battista Alessi, era stato garibaldino e aveva fondato a Milano, insieme con Augusto Osimo, la società “L’Umanitaria”, la prima scuola per operai. Gli zii Manlio, Bruno e Nino erano antifascisti. Il “settimino” Ferruccio aveva sposato Elsa, una toscana, che invece era fascista. Lo zio Manlio si era unito con Elena, detta Nene, figlia, appunto, di quell’Osimo che veniva da una colta famiglia liberale ebrea di Milano. La moglie dello zio Bruno era una Rigobon di Venezia, famiglia di stimati professori universitari. Anche mio padre veniva da una educazione liberale; era un appassionato lettore di Benedetto Croce e fre -

19 vola – essa per ora è sola...”. Questi versi piacquero a mio padre, che li ripeté ad amici e parenti, in mia presenza. Entrò poi di nuovo in affari e tutta la famiglia si trasferì in un appartamento di via Macedonio Melloni, nella zona di Porta Vittoria. Nel 1934 nacque la quarta figlia, Luisa, che fu subito ridotta a Isa e completò la famiglia. Mio padre doveva ancora arrangiarsi, ma lo faceva con un po’ più di furbizia di prima.

quentava circoli intellettuali piuttosto aperti. Era stato anche compagno di università di Papini e di Soffici, e tra i filosofi stimava Giovanni Gentile. Era – come ho già detto – un uomo buono. Con tutti cercava di stabilire un rapporto di comprensione. Gli atteggiamenti di secco ripudio del fascismo, nei suoi cognati, gli apparivano aristocratici: lui cercava di essere dalla parte della gente comune.

Tornati dalla Francia, i Tutino si trovarono in una situazione che li spingeva al compromesso: a Parigi, perché io fossi rispettato, avevano dovuto vestirmi da balilla. E continuai a esserlo, anche in Italia; mio padre non sollevava obiezioni, a scuola io mi sentivo più a mio agio, il mio amico Roberto si comportava come me. Fascio e fascismo riempivano la nostra fanciullezza con un vago senso di appartenenza a un destino comune, come volevano i capi. Era un modo di esprimere “amor proprio” oltre che “amor patrio”. Noi Tutino non possedevamo niente di nostro, mentre nonno Oreste Castiglioni e gli zii erano proprietari di case e di terreni. In campagna vedevo mia madre fare i conti con i mezzadri e a Milano ascoltavo mio nonno borbottare sui “coupon” e le “azioni” che contava e ritagliava ogni giorno: rettangolini di carta un po’ più spessa di quella dei giornali. Non provavo nessuna curiosità per quel gioco che lui chiamava la Borsa.

Mi interessavano, invece, i giornali. A Parigi, con i cugini Renata e Riccardo, inventavamo avventure che io poi descrivevo in un quaderno che consideravo il mio giornale. La mia passione era di ritagliare e incollare sul quaderno sigle di agenzie di stampa o i loro nomi completi citati nelle corrispondenze: Asahi Shimbun, Reuter, Associated Press. Arrivando in Francia mi aveva colpito la testata di un giornale che mio padre comprava la sera: L’Intransigeant.

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A Milano la scuola mi aveva costretto a seguire la trafila da “balilla” semplice a “balilla moschettiere”, poi “avanguardista”. Quando feci la quinta elementare a Tregnago, diventai capo-manipolo dei balilla e ordinavo “attenti” e “riposo”, “avantimarsc” ai miei compagni, figli di contadini. Gli zii mi prendevano in giro. In casa non portavo volentieri il fez e la camicia nera.

La guerra con l’Etiopia fu più dura del previsto. Dalle famiglie borghesi di nostra conoscenza, a Milano, non partiva nessuno, ma da Tregnago i figli dei contadini erano costretti ad andare a combattere per la conquista dell’impero. Noi cantavamo Faccetta nera bell’abissina. Un figlio di Clelia, la nostra balia di campagna, dovette andare in Africa col casco delle truppe coloniali e nessuno nella sua famiglia ne era fiero: brontolava soprattutto il padre, che conosceva a memoria molti canti della Divina Commedia. Non ne era fiera Clelia, che protestava a bassa voce contro il governo. Fu dalle figlie di Clelia, Alfonsa, una brunetta snella, e da sua sorella Gina, più grande di lei, che cominciai a sentire parole dure sul fascio e su Mussolini. A scuola c’erano gli insegnanti orgogliosi, quelli tiepidi e gli onesti. Il professor Di Chiara, alle medie inferiori, era tra gli orgogliosi; Giuseppe Pelosi, al liceo, tra gli onesti. Quest’ultimo, che era il mio insegnante preferito, si dedicava tra l’altro, con molti sospiri, a farci capire la bellezza dei versi di Saffo. Quando le truppe italiane entrarono ad Addis Abeba, io saltai entusiasta tra le braccia di un corteggiatore di Nannina. Festeggiammo come se avessimo vinto in un campionato mondiale di calcio. Gli zii Manlio, Bruno e Nino avevano invece volti seri e cupi. Lo zio Manlio aveva preso una laurea in letteratura con una tesi su Nietzsche, lo zio Bruno insegnava geologia all’Università di Padova, lo zio Nino era andato in In -

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ghilterra per un apprendistato presso i Lloyds di Londra. A Milano viveva solo. Suonava il pianoforte e portava sua cognata, la zia Nene, alla Scala, ogni volta che c’era un’opera di Wagner.

Da capo-manipolo degli “avanguardisti” non feci altri passi avanti. Smisi di colpo la carriera nelle organizzazioni giovanili del fascio. L’ironia degli zii ebbe la meglio a un certo punto sulla mia immaginazione festosa, disposta a credere e obbedire, se non a combattere. Smisi anche di passare lunghe settimane, d’estate, con la zia Elsa e con suo figlio Massimiliano. La moglie dello zio Ferruccio era troppo diversa da noi: la sua passione per la montagna non era la stessa degli zii Manlio, Bruno e Nino. Portava me e Massimiliano, zaino in spalla, da un rifugio all’altro come se dovessimo vincere una medaglia. Ci rimbambiva di inni patriottici. Aveva il volto peloso, il naso grosso e il fisico di un campione di mezzofondo, asciutto come quello di un muratore. Oltre alla montagna le piaceva prendere d’autunno la doppietta, un cane e andare a caccia. Massimiliano cresceva un po’ strano: campione di sci e di nascosto un po’ poeta, era chiuso in se stesso come chi non capisce perché vive. Lo zio Ferruccio era addetto ai servizi. Dirigeva le Terme di Montecatini dove si beveva l’acqua per la cura di dispepsie e stitichezza. Un giorno arrivò a Tregnago, portando a tracolla un anello di rotoli di carta igienica, come una collana di fiori hawaiani: erano il suo regalo alla sorella Fanny che compiva gli anni.

Il compleanno di mia madre, il 6 ottobre, era la festa principale della famiglia. I preparativi, soprattutto in cucina, cominciavano alla vigilia. Clelia, la nostra governante, insieme con la figlia Gina e altre aiutanti, cominciava a cuocere le uova sode e a sciogliere chili di cioccolato e burro mescolandoli con lo zucchero. Poi l’impasto

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Più alto di me, e rosso di pelo, di quel rosso che prendono le foglie in autunno, col viso pieno di efelidi, Roberto mi incuteva rispetto per la sua parlantina sicura e soprattutto per il sorriso affettuoso ma anche sottilmente ironico. Il tono sicuro, Roberto l’aveva preso dal padre. La benevolenza dalla madre. L’educazione formale dalla nonna Queirazza, un’anziana signora intransigente, di una certa asprezza nel rapporto con la servitù, che abbondava in tutte le sue case, di città e di campagna.

L’amicizia con Roberto durò per tutta l’infanzia e l’adolescenza. Con lui ho scambiato le prime confidenze sul sesso, anche dopo che la pubertà lo aveva reso più virile di me, che ero rimasto inspiegabilmente indietro nella crescita. Le ultime bravate fatte insieme furono di natura sportiva. Poi quell’anno e mezzo che ci separava diventò di colpo una distanza incolmabile. Lui mi scap-

23 granuloso veniva messo in forma e coperto da savoiardi imbevuti nell’alchermes. Il risultato si chiamava Dolce Rosa ed era il monumento glorioso davanti al quale sfilavano i nipotini prima di averne un pezzetto e andare a dormire. Con la famiglia Rocca eravamo in strettissimi rapporti. Nel 1938 il padre di Roberto Rocca diventò membro della Camera dei fasci e delle corporazioni, l’istituzione che sostituiva la vecchia Camera dei deputati. Roberto e io continuavamo a essere amici. Alla nascita sua e di Anna, la madre, Maria Rocca, essendo povera di latte aveva chiesto che si attaccassero al seno di mia madre, che invece aveva ancora parte del latte che non succhiava mia sorella Nannina, nata sei mesi prima. Da allora fu come se anche noi avessimo qualche diritto in casa dei Rocca e dei Queirazza, genitori di Maria. Tutte le estati eravamo loro ospiti al mare, sul golfo di Rapallo. I vestiti smessi da Roberto venivano regalati a mia madre che ne disponeva, occorrendo, per i miei bisogni.

pava davanti, io restavo impantanato in un’adolescenza che sembrava non finire mai. Così, lentamente, ci siamo separati.

Mi avvicinavo invece sempre di più allo zio Nino, che mi portava spesso in montagna. Le prime volte andavo ad accompagnarlo fino alla base delle pareti, dove poi lui si arrampicava. Mio zio e i suoi compagni di cordata calzavano le pedule e affidavano a me gli scarponi chiodati, perché glieli riportassi più tardi, nel punto dove sarebbero scesi, all’altezza dei rododendri e dei ghiaioni.

Mio padre avrebbe voluto che fossi più assiduo nelle letture e meno sportivo. Stava a osservarmi con qualche perplessità mentre crescevo così diverso da lui. Scoprii che esisteva una morale dell’equilibrio: ogni cosa mia doveva trovare un equilibrio con quelle degli altri; i propositi come le affermazioni dovevano essere bilanciati da una considerazione parallela di quelli degli altri fino a raggiungere l’equilibrio, unica norma valida di condotta morale. Quest’idea me l’aveva forse trasmessa mio padre, che con mia madre non andava sempre d’accordo. Di notte li sentivo discutere e mi mettevo istintivamente nei panni di lui perché mi sembrava il più debole. A una moglie che era molto più giovane di lui opponeva una forma di resistenza misurata e consapevolmente perdente. Mio padre era ingrigito presto; i suoi capelli fini e ravviati all’indietro rivelavano i quattordici anni che aveva in più di sua moglie. Erano sposati da venti. Mia madre assumeva atteggiamenti giovanili, era ancora bella e vivace, aveva capelli ondulati fra i quali spuntava qualche filo bianco, un viso di bambola Lenci che aveva anche la civetteria di invecchiare. Mio padre era geloso, ma protestava senza impeto né imposizioni, come infastidito dal ruolo. Mentre spiegava le sue ragioni, lei assumeva l’aria di chi è padrona della propria vita.

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La casa di via Melloni era lo specchio del nostro livello sociale: un professore meridionale che si era dato agli affari ma concludeva poco, una moglie che veniva da una famiglia agricola urbanizzata della Valle Padana, rimasta ferma al proprio passato; e quattro figli da allevare. Per mia madre la casa di campagna era un rifugio e un simbolo. La casa di città, nella sua ristrettezza, rifletteva la situazione di mio padre. A Tregnago, dove andavamo a passare l’estate, la nostra villa, che portava il nome della nonna Adelia, era la più vistosa del paese. Sorgeva ai margini dell’abitato, sulle prime pendici della collina, e si distingueva da lontano per la sua alta facciata chiara e le persiane verdi. Un balconcino con colonnine di cemento al centro, sopra la porta d’ingresso, e un piccolo terrazzo di lato, verso la casa dei contadini custodi, sopra la sala del biliardo, erano le uniche varianti di un parallelepipedo dalle sobrie linee che sovrastava il giardino inghiaiato. Sotto le finestre del pianterreno, piccole aiuole di garofani e ciuffi di oleandri ingentilivano l’insieme.

Da bambini Nannina e io dormivamo nella stanza col balconcino di ferro, che si affacciava sopra la fontana. Da lì comunicavamo con la servitù conquistandone la confidenza. In un solo inverno trascorso a Tregnago, dopo il ritorno da Parigi, avevamo imparato di più sulla vita dei grandi che negli anni in cui avevamo frequentato le scuole francesi. I contadini parlavano in modo diverso da noi: se c’era una tresca, erano pronti a raccontarla. I sorrisi della Gina mi risvegliavano strani languori. Insistevo perché mi raccontasse di più, sul suo fidanzato e sulle malizie del campanaro, sugli incontri che avvenivano di notte sul viale e i misteri dei cipressi, dove andava anche la mamma quando non c’era papà.

Un giorno, mentre passavo in fretta davanti alla porta del salotto, vidi mia madre abbracciata a un uomo. Era il

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primo pomeriggio, in quelle ore di solito stavamo chiusi nella nostra stanza, al riparo dal caldo. Ma avevo avuto voglia di andare in giardino. La porta del salotto era semiaperta. Portavo le scarpe da tennis che non facevano nessun rumore sulle mattonelle del pavimento. Sbirciai al di là della porta. Mia madre era in piedi, accanto al tavolino al centro del salotto. Un signore del posto, che conoscevamo bene – noi bambini giocavamo anche con sua figlia – la teneva stretta a sé. Corsi verso la casa dei contadini sentendomi girare la testa. Non ho mai detto a nessuno di quell’episodio.

Sorsero malumori in famiglia riguardo alla casa di Tregnago. Mia madre se ne era impossessata e i fratelli avevano accettato il fatto compiuto. Quando arrivava la zia Nene, moglie di Manlio, con i due figli, Ilaria e Niccolò, nasceva un’insopportabile tensione. La zia Nene non era disposta a lasciarsi comandare da mia madre, e rispondeva con calma a certe intemperanze. Questa forte presenza di una donna diversa da mia madre provocò in me una curiosa adesione. Forse perché, oltre a impartire disposizioni, la zia Nene sapeva conversare con me, cominciai a nutrire per lei un affetto particolare. La sentivo vicina. Qualche volta ci appartavamo per confabulare, divertendoci forse alle spalle di qualcuno.

La gelosia di mia madre esplose come una fiammata improvvisa: furono scenate e pianti clamorosi. Non capivo in che cosa avevo sbagliato. Quell’evento mi sconvolse. Nessuno, a cominciare da mia madre, riuscì a spiegarmi il motivo di tanto furore. La cosa non si è mai chiarita, abbiamo lasciato che il tempo spazzasse via un momento di crisi e chissà se ci siamo mai riusciti del tutto.

Verso i dodici o tredici anni cominciai a pensare di essere diverso dagli altri. La cosa mi metteva a disagio, perché la vivevo come un elemento di inferiorità. Di

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fronte a situazioni che interessavano tutti, io spesso ero indifferente. Forse gli altri crescevano più in fretta, o forse i loro genitori gli insegnavano a vivere più dei miei. Mi accorgevo di rimanere sempre al di sotto della capacità generale di adeguarsi alle situazioni, ma non facevo nessuno sforzo per colmare la distanza.

Cercavo di rifarmi quando bisognava solo capire; e il modo migliore era spiegarlo per iscritto. Nei temi, per esempio, andavo bene. Anche col latino, nelle prime classi della scuola media, me la sono cavata meglio di altri; quando poi abbiamo cominciato a studiare il tedesco, ero il primo della classe. La nostra professoressa di tedesco era una donna piccola, magrolina, col viso secco, pallido e aggrondato, e gli occhi penetranti. Aveva capelli neri lisci, che portava raccolti e stretti alla testa. Parlava con una voce sicura e convincente.

Si chiamava Lavinia Mazzucchelli. Avevo con lei un’intesa particolare: lei spiegava e io capivo. Sentivo che apprezzava la facilità con la quale imparavo la lingua tedesca. Per lei avrei fatto anche sacrifici superiori a quelli che esigeva lo studio. Aveva un’espressione che mi sembrava nascondere una passione tormentosa. Imparavo bene il tedesco perché era lei che me lo insegnava. E pensavo che mi stimasse, perché mi dava sempre voti alti, otto e anche nove.

Un giorno che ero assente, la Mazzucchelli doveva commentare un passo di un romanzo picaresco di Grimmelhausen, del 1669, che racconta le vicende di Simplicius Simplicissimus, “uomo spavaldo ma ingenuo che vive tutti gli orrori e le miserie della guerra dei Trent’anni” come dicono le enciclopedie, e finisce eremita in un bosco. Allora l’insegnante, che non rideva mai, accennò a un sorriso (“ma un simpatico sorriso” mi raccontò Sergio Donnabella, il più amico fra i miei compagni) e disse: “Un tipo

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– ecco – come Tutino...”. L’avermi affibbiato quel nome “Simplicius Simplicissimus” mi fu di molto aiuto. Cominciai a vivere accettando il rischio di apparire meno furbo degli altri, anche se spavaldo, e a poco a poco capii di essere giudicato un po’ credulone.

Dal 1935 al 1940 il Berchet è stato il mio campo di esercitazioni alla vita. Lì ho conosciuto Oreste Del Buono, che frequentava la stessa classe in una sezione diversa. Facevamo la quinta ginnasio, e giocavamo spesso al pallone su un campo ricavato da un terreno abbandonato dalle parti di Porta Romana. Quando la mia sezione si scontrava con la sua, Oreste faceva di tutto per “marcarmi”. Se io giocavo all’ala destra, lui si metteva mediano sinistro e mi seguiva così da vicino che ne uscivo sempre ammaccato. Sul campo era evidente la differenza fra i nostri due caratteri. Per me il gioco era un modo di sfoggiare abilità, sveltezza. Lui invece cercava lo scontro, si impegnava a non lasciarmi mai toccare la palla. Il centromediano della loro squadra era il più poderoso nei rimandi e il più veloce nel marcamento dell’avversario. Oreste, di corporatura più piccola anche se robusta, correva meno di me; per questo si affidava all’aggressione preventiva per frenare in partenza iniziative che altrimenti gli sarebbero sfuggite. Un giorno mi ferii al ginocchio, cadendo oltre la linea di fondo su una pietra aguzza. Rimasi in casa qualche giorno con la gamba allungata sulla sedia, a leggere Gli indifferenti. Il libro era l’unico nella biblioteca di mio padre che fosse munito di una sovraccoperta, e quindi aveva il titolo nascosto. Lo lessi in due giorni. Mi colpì il fatto di poter scoprire tante cose in un libro. Dal personaggio di Carla capii il perché della grande soggezione che avvertivo nei confronti delle ragazze. In campagna ci irrobustivamo nel fisico imponendoci prove di destrezza sportiva. Andavamo anche qualche

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giorno al mare, con Anna e Roberto Rocca. Ma la maggior parte dell’estate la trascorrevamo in paese, dove si giocava a tennis su un campo dietro gli argini del Progno, un fiume sempre secco. Un giorno trovammo il fondo in cemento sporcato da terra e pietrisco. Si dovette ripulire il campo con una scopa di saggina. Più tardi alcuni ragazzi del paese apparvero sull’argine del fiume. Si fermarono lì e cominciarono a lanciare sassi e a offenderci con battute pesanti. Nino Cavaggioni, il più robusto della nostra banda, ne acchiappò uno e lo riempì di pugni. I ragazzi tornarono più numerosi il giorno seguente, ma non successe niente. Prendevo atto della contestazione. La trovavo giustificata dalla differenza che passava tra la nostra adolescenza di studenti e la loro di manovali e contadini.

Nei rapporti sociali quotidiani, i contadini erano un prolungamento della nostra casa.

Con il vecchio Cencio, con la moglie Teresina e con il loro figlio Silvio, che era mio coetaneo e compagno di giochi, i rapporti erano quelli normali tra padrone e mezzadri che abitano nella porta accanto. Si creava una familiarità naturale. Ma fuori di lì, cominciavano piccoli screzi, atteggiamenti ambigui. Mi dava fastidio il rispetto obbligato e insincero; mi costringeva a un distacco che non sentivo. Silvio cresceva parallelamente a me, stessi gli anni, ma non stessa la scuola. Da lui imparavo a fabbricare fionde o ad aggiustare le gomme della bicicletta. Il più chiuso dei nostri amici tregnaghesi era Aldo Vinco, figlio del podestà – un ragazzo malinconico e magro, col viso pieno di efelidi. Leggeva più libri degli altri e ce ne parlava con una certa timidezza. Forse faceva la corte a Nannina, non l’ho mai saputo. Comunque Aldo non poteva suscitare la mia gelosia come altri che, a Milano, fingevano di essermi amici per seguire ogni giorno

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mia sorella al ritorno da scuola. Forse perché avevo giocato con lui fin da bambino, Aldo non mi sembrava avere le qualità per attirare l’attenzione di Nannina. La guerra si avvicinava. C’era già stata quella di Etiopia e mio padre e mia madre avevano offerto le loro fedi d’oro alla “patria” e si erano infilati al dito anelli di bronzo. I contadini brontolavano a bassa voce. Gina, la sorella di Alfonsa, diceva: “Che i vaga lori”. Vadano loro a fare la guerra. Nel 1939 cominciai a seguire lo zio Nino sulle rocce. Con lui, in Val di Fassa, vidi i giornali che annunciavano l’intervento di Chamberlain a Monaco per “salvare la pace”. La Germania occupò i Sudeti. Nel 1940, quando anche l’Italia entrò in guerra, ero a Tregnago. Mi ero innamorato di una quattordicenne bionda che veniva da Diano Marina. Si chiamava Carla. L’ultima sera, prima della sua partenza, glielo dissi con un bacio. Ci siamo scritti per due mesi. Quando le nostre truppe avevano attaccato la Francia, nel giugno 1940, non avevo avuto tempo di riflettere. Mi accorsi del declino del fascismo in occasione di una grande adunata in un teatro di Milano nei primi mesi del 1941. La sala era gremita di camicie nere. Dal corridoio guardavo le schiene di quelli delle prime file e le facce degli oratori alla tribuna. Mi venivano in mente i “littoriali”, che si erano svolti in un edificio di Porta Romana, dove si insegnava la “mistica fascista”. Oreste e io avevamo frequentato sia le lezioni di “mistica”, sia quelle di cultura, che erano quasi dei tornei di dissertazione politica. Qualche volta avevamo sentito esprimere dubbi non graditi alle autorità. Invece lì, nel teatro, davanti al popolo fascista, i discorsi erano quelli di sempre, e suonavano vuoti, lontani dalla realtà. Quei discorsi urtarono improvvisamente contro qualcosa che si era sedimentato nella mia coscienza per le osservazioni che facevano gli zii, Manlio e Nino, quando venivano

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a discutere con mio padre. Ai primi di luglio del 1941, lo zio Nino decise di “evadere in montagna” per strapparsi “all’inerzia deleteria” e “credere ancora nella vita”. Lo troviamo scritto nel suo diario. Prese con sé noi nipoti e Aldo Vinco, e ci portò al rifugio Chiggiato, dalle parti di Auronzo. “Il rifugio era chiuso e tutto per noi; e tutta per noi era anche la meravigliosa e rigogliosa fioritura della prima estate [...]. Passavo alcune ore sul poggio da cui si dominano i monti e la vallata e leggevo Leonardo e Poliziano [...]. Anche i ragazzi erano felici di quella libertà, di quella solitudine, di quell’avventura per loro così nuova...” Il 7 luglio io festeggiavo il mio diciottesimo compleanno. Quell’estate dovevo decidere a che facoltà iscrivermi all’università. Avevo preso il diploma di maturità con un anno di anticipo rispetto ai miei compagni. L’esame era andato bene, anche se non avevo risposto alle domande sulla chimica: per essere promosso avevo dovuto giurare che all’università non avrei scelto un ramo scientifico. Optai per Legge. Era quello che mi aveva consigliato anche mio padre, sommessamente. Ma c’era ben altro che ci aspettava, dietro l’angolo.

Lo zio Nino sembrava non avere incertezze. Era scapolo, non conoscevamo la sua vita privata, anche perché in famiglia era considerato sconveniente parlare di fatti personali. Ci si riuniva in campagna, fra la tarda estate e l’autunno, con gli zii e le loro mogli, ma non si sentiva mai sussurrare una parola d’amore. Non ci si abbandonava mai a un gesto di tenerezza intorno alla torta di compleanno della mamma, si cercava solo di essere frizzanti, spiritosi. Insomma i sentimenti erano messi al bando e il rispetto per il privato dei singoli membri della famiglia toglieva spontaneità alla conversazione. Per fortuna, lo zio Nino mi portava in montagna, dove tutto si risolveva in un confronto con la natura.

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Le nostre scalate durarono tre stagioni: le prime tre estati di guerra. Il treno che prendevo alla stazione di Lambrate per andare a raggiungere lo zio era sempre pieno zeppo di gente. Fuggivo dalla città e dai tamburi della propaganda. Nel 1942 Roberto era partito volontario per un corso che lo avrebbe fatto entrare in Marina. Mi ero avvicinato a Lionello Macciardi, un ragazzo sbrigativo e disinvolto, che amava la musica e parlava con una certa sapienza anche di donne. A differenza di molti di noi, lui sapeva quello che voleva e ne discuteva con me come se avesse già tutto quello che desiderava. Mozart aiutava a dimenticare la fame. Lionello conosceva a memoria la musica e la dirigeva ascoltandola sui dischi, che sollevava con i polpastrelli tesi lungo lo spigolo per non rischiare di sciupare l’incisione. L’amicizia con lui mi permetteva di soddisfare la curiosità per la politica. Ci interrogavamo sulla situazione militare e sulle notizie di Radio Londra. Era possibile restare fuori da una tempesta che coinvolgeva tanti uomini, in tutto il mondo? Lionello e io eravamo d’accordo che non era giusto: in quel momento, sul fronte russo, un’armata di giovani italiani, che avevano solo un anno o due più di noi, andava incontro alla morte. La notte del primo grande bombardamento del 1943, quando suonò l’allarme e la gente corse nei rifugi, mi resi conto che le sirene mi facevano sobbalzare per un motivo che non era la paura: nel pericolo, la vita si trasformava; sparivo come testimone di ingiustizie e riapparivo come protagonista di una storia vera. Tutta la famiglia scese nelle cantine in tempo per sentire i primi scoppi. La terra sussultava. Nel cielo si sentivano ronzare i motori dei bombardieri inglesi. Eravamo gente semplice, nessuno piangeva o si lamentava. Non ricordo frasi di disperazione, solo qualcuno diceva: “Madona, l’è propi brut”. Quella notte il bombardamento durò più del so-

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lito. Quando il rombo degli aerei si allontanò, presi la bicicletta e uscii. Non era ancora suonata la sirena del cessato allarme. In viale Piave, e in corso Buenos Aires, molte case, incendiate, bruciavano. La strada era piena di tizzoni ardenti, qualche grido usciva dai rifugi. Le sirene suonarono dopo che ebbi superato piazzale Loreto. Poco più in là si trovava la casa di Nicoletta: vidi l’edificio intatto, girai il manubrio e tornai in viale Piave. Mi ero innamorato di Nicoletta Moneta, una compagna di università. Le scrissi, e lei mi rispose ringraziandomi per la mia dichiarazione, però non era disposta a ricambiarmi. All’università, dopo un primo momento di zelo, avevo cominciato ad annoiarmi. Gli esami lo dimostravano: un ventisette in Storia del diritto romano, uno scarso ventidue in Istituzioni, nel secondo anno. Dopo due anni avevo dato dieci esami. L’unica cosa che mi era rimasta dentro era l’immagine fisica dei professori: Candian, che pareva un attore di antiche filodrammatiche col profilo di uccello rapace sotto la pesante chioma grigia, e Carnelutti, avvocato di ricche famiglie milanesi, che per difendere le proprie cause esigevano maniere fini, oltre che sapienza giuridica.

Un altro personaggio tipico di quell’epoca era lo studente Borsani, che veniva in classe accompagnato da due militi perché aveva perso la vista in un’azione di guerra. Veniva in divisa, la camicia nera sotto il tessuto verde pallido della giacca, e rivolgeva agli studenti parole di incitamento. Si illudeva di ispirare sentimenti patriottici. Ma le sue arringhe di “mistica fascista” non avevano presa su di noi. A poco a poco, intorno a lui si fece il vuoto.

In quei tempi maturarono i primi dissensi. Il governo permetteva che i Guf (Gruppi universitari fascisti) pubblicassero Libro e Moschetto , un settimanale non del tutto in linea con la propaganda. Vi pubblicai Camera

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matrimoniale, un racconto breve come un elzeviro, nel quale immaginavo che mia madre e io, viaggiando per il Veneto, ci trovassimo una sera a Padova in un albergo dove era rimasta una sola camera libera: una camera matrimoniale. Eravamo costretti a dormire insieme, nello stesso grande letto. Descrivevo il disagio che provavo, finché – con una carezza – mia madre riusciva a dissipare il reciproco imbarazzo. In famiglia, questo racconto fu accolto con sorrisi e simpatia, ma anche con un po’ di disagio. Fra i miei amici, pochi allusero al carattere morboso della mia immaginazione. Alcuni si meravigliarono che un settimanale come quello dei Guf ospitasse prose così intimistiche.

Ai primi del 1942, Nannina seppe che Luigi Bianchi, uno dei suoi innamorati, era morto nella ritirata dall’ansa del Don, sul fronte russo. Venne a rannicchiarsi piangendo sul mio letto. Era il secondo dei suoi fidanzati che le moriva in guerra. Io non trovavo parole per consolarla: balbettai qualche sciocchezza. Nannina smise di piangere e si ritirò nella sua stanza.

Poco dopo partii per raggiungere lo zio Nino in montagna.

Il treno che portava alle Dolomiti passava per Calalzo, dove una corriera proseguiva per Misurina. Salivamo quindi al rifugio Mussolini. L’anno prima, partendo da lì, avevamo scalato un torrione isolato, mai percorso da nessuno prima di noi. Lo avevamo battezzato Torrione Graffer. A proposito di quella scalata, nel diario dello zio Nino si legge: “Quella salita, che è senza dubbio la più bella e la più importante di quest’anno, non è per me né un’ascensione né una conquista, ma solo un omaggio devoto alla memoria dell’amico [...]”. Non avevo conosciuto Giorgio Graffer, caduto in guerra col suo aereo da caccia; avevo visto solo una sua fotografia che lo zio

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Nino portava con sé: un uomo che somigliava a un aquilotto, bello e biondo, con limpidi occhi azzurri.

Dal 28 agosto al 3 settembre 1942 fu un continuo scalare e scendere a valle, dall’alba al tramonto. Uscivamo dal rifugio con il cielo ancora buio e camminavamo per un sentiero di pietrisco, verso la base della parete. Salendo a zigzag ci dirigevamo verso rocce che ci sovrastavano a strapiombo – prima grigie poi giallastre nella foschia dell’alba. Poi, senza parlare, cominciavamo ad arrampicarci. Partito lo zio, io dovevo aspettare che si fermasse, per poi raggiungerlo. Solo un momento si restava uno vicino all’altro. Subito dopo lo vedevo riprendere la scalata, sopra di me, di appiglio in appiglio, fino a quando la corda si era tutta sfilata, e lui si sentiva sicuro di poter assicurare la mia salita.

Seguivo le sue mosse. Mentre tastava gli appigli, ascoltavo il raspare degli scarponi sulla pietra, alla ricerca di minuscoli appoggi. Lo vedevo fare il massimo sforzo per issarsi sopra lo strapiombo, dove una placca sghemba poteva servire da sostegno. Quando toccava a me, tutto era più facile: assicurato da lui, i chiodi venivano fuori uno dopo l’altro, colpiti da veloci martellate, mi tiravo su in fretta, e mi buttavo a sedere vicino a lui.

Quel giorno eravamo andati su svelti, per “camini” levigati dalle piogge, lungo spuntoni sottili di roccia. Quando la scalata prese un aspetto più agevole, erano le tre del pomeriggio. Sopra di noi il cielo si era fatto nero. La nebbia era svanita e un rumore di tuoni lontani ci fece affrettare. La pioggia non si decideva a cadere, i chiodi friggevano e i nostri capelli si drizzavano, per via dell’elettricità che era nell’aria. Con le corde arrotolate alla svelta e chiodi e martelli che ciondolavano battendoci sulle gambe, quasi correvamo su per le rocce. Non c’era tempo per raggiungere un luogo riparato e allora

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ci calammo di nuovo dentro un caminetto, lasciando i ferri il più lontano possibile da noi. Un fulmine cadde a pochi metri di distanza, diffondendo un odore di bruciato che si mescolava al profumo della prima pioggia. Eravamo riusciti ad allontanarci quanto bastava per evitare la punta, dove andavano a sbattere le saette, ma eravamo finiti proprio sotto la cascata d’acqua che dopo poco si sarebbe riversata nel canale.

Ci accucciammo ai bordi della cascata, dall’altra parte del canalino. I fulmini sbattevano contro la montagna, scavando strisce di zolfo nella parete. L’eco si spargeva lontana col rumore del tuono.

Al rifugio, quella sera, nessuno ci aspettava. Non ci chiesero neppure dove fossimo andati e noi non dicemmo nulla, anche se avevamo “aperto” una delle “vie” più audaci della Croda dei Toni. Dopo il tramonto il cielo si liberò del tutto e comparvero le stelle. Lo zio disse: “Domani sarà il giorno ideale per una bella passeggiata”. Io avrei preferito una giornata di riposo. Mi veniva quasi da piangere, ma mi sforzavo di restare sereno: quello era il mondo della mia famiglia e dovevo imparare a resistere.

La famiglia sarebbe stata contenta. Forse mio padre non avrebbe capito, ma lui era come un ostaggio. Leggeva libri e traduceva poesie, pensando alla sorte dell’umanità minacciata da tanti pericoli. Mia madre invece badava alla famiglia, come un capitano in servizio permanente. Lo zio Nino era diverso. Forse per questo mi piaceva seguirlo. Viveva solo, nella casa del nonno; lo accudiva una vecchia domestica. Per un anno era rimasto a Londra a lavorare in quell’ufficio dei Lloyds. Quando tornò, era diventato un perfetto gentiluomo britannico, con gli abiti un po’ dandy, il portamento elegante e riservato. Noi ragazzi eravamo curiosi, ma lo zio Nino non si concedeva ai racconti, né ai gesti affettuosi. Nel suo appartamento suonava a lungo

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il pianoforte. Qualcuno insinuava che in casa allenasse le dita alla presa sulle rocce appendendosi agli stipiti, e traversando le porte con i piedi sollevati da terra.

Lo zio Nino non andava d’accordo con le donne. Tollerava sol tanto l’amicizia di qualche intellettuale. Alle ragazze rivolgeva sguardi distratti. In realtà guardava se stesso e si ascoltava cantare o recitare poesie. Un giorno stavamo salendo verso una cima del Brenta e intorno a noi il paesaggio mi invitava a pensieri romantici, lo zio Nino disse qualcosa come: “Che bella vista...”. Allora provai a dire: “Così bella che sembra una ragazza innamorata”. Lui si fermò di colpo, fissandomi con un sorriso ironico, sotto i baffi da ufficiale della regina: “Innamorata di chi?”. Imbarazzato, risposi: “Di noi due”. Tacque per qualche secondo, poi chiuse il discorso: “Le donne preferisco incontrarle in una casa di tolleranza”.

In piena guerra il razionamento ci tagliava i viveri, ma noi per mangiare andavamo a Trento. Un giovane amico dello zio Nino era impiegato del dazio e spesso sequestrava prodotti alimentari. Una parte la teneva per sé. Appena ne aveva abbastanza per organizzare una cena, ci chiamava. Noi venivamo da Milano, e ridevamo come bambini perché riuscivamo a mangiare polenta e salsicce, crauti e dolci di pastafrolla o di millefoglie, farciti di panna e di frutta, in pieno razionamento.

Da Trento salivamo nel gruppo del Brenta per scoprire percorsi da descrivere sulla guida che lo zio Nino stava compilando. Qualche volta, stanchi di camminare, ci sedevamo su un sasso, lanciando rumori e grida come quando si va a caccia di cinghiali; i camosci si spaventavano e scappavano su per le rocce, seguendo cenge che lo zio Nino si affrettava a segnare sulle sue mappe. Erano i percorsi naturali per salire sulle cime più facili. Lui le chiamava le “vie comuni”. Tornando sui sentieri più

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bassi, dove c’era ancora vegetazione, capitava di passare vicino a una “malga”; se c’era il pastore, compravamo mezzo chilo di burro appena fatto, qualche chilo di farina da polenta e la sera cucinavamo noi, polenta e formaggio, annaffiandoli col latte. A volte lo zio Nino si metteva a cantare. Dopo cena, uscivamo dal rifugio. Il tramonto era tranquillo. Si sentiva lontano il rumore di un torrente e nient’altro. Lo zio si riempiva d’aria i polmoni e poi lanciava il grido: “Abbasso il duce!” e l’eco gli rispondeva: “... duce”. Anch’io, gridavo “abbasso” in modo da precedere il “... duce” rimandato dall’eco.

Nella primavera del 1943, quando nuovi bombardamenti si abbatterono su Milano e ci furono i primi scioperi, lo zio Nino fu richiamato alle armi e scelse di fare l’istruttore di roccia alla scuola alpina di Aosta.

A quell’epoca risale un certo calo della mia amicizia con Oreste Del Buono. Avevo conosciuto contemporaneamente lui e Lorenzo Milani. Lorenzo lo frequentavo al tennis, e con lui mi intendevo meglio.

Le lettere che mi scrisse avevano un tono spigliato e caustico. Diceva quello che pensava, con una disinvoltura da uomo libero e maturo che noi non ci sognavamo di avere. Poi si mise a dipingere e affittò uno studio dalle parti di via Moscova, un piano sotto il livello stradale. Era allievo di Morlotti. Una delle prime figure che dipinse fu Tiziana, una ragazza che aveva conosciuto a Brera. Poi mi chiese di posare per lui. Quel quadro, forse, non andò oltre qualche segno a carboncino. Con i suoi modi spicci Lorenzo mi esortava a essere più aperto verso le novità. Era un provocatore e si divertiva a vedere lo scompiglio che a volte creava negli altri. Poco prima dell’8 settembre, le circostanze familiari ci separarono. Nell’inverno seguente Lorenzo cominciò ad andare in chiesa. Più tardi mi raccontò che fra le navate del duomo era stato colpito

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dalle porpore dei paramenti sacri. Dipingendo certe scene liturgiche si era convinto che con esse si poteva esprimere una solidarietà umana più concreta che attraverso vie politiche. Un prete morì e lui giurò sulla sua bara che avrebbe preso il suo posto. La nostra amicizia si era protratta fino al 1943, il secondo anno dell’università per Oreste e per me, secondo anno di accademia a Brera e di pittura per Lorenzo. Ognuno per proprio conto, avevamo già un piccolo bagaglio di ambizioni personali. Oreste era più rapido nel realizzarle. Lorenzo aveva una grande capacità di elevarsi sopra i cliché dell’adolescenza con toni che a volte potevano sembrare alteri. Io ero pronto a seguire i miei amici, sia Lorenzo sul piano morale, sia Oreste sul terreno della scrittura o Lionello Macciardi nella passione musicale.

La separazione da Oreste avvenne nel 1943. Lui, sfollato, se ne andò con la famiglia in un paese di montagna, fu poi mobilitato in Marina. Io feci le prime esercitazioni militari in un campo della milizia universitaria.

Avevo da poco compiuto vent’anni, e la caduta del fascismo mi sorprese in camicia nera, in quel campo d’addestramento ad Albavilla, vicino al Lago di Como. Il 25 luglio il trombettiere non aveva ancora suonato la sveglia, quando fuori della baracca si sentirono voci allarmate. La sveglia non suonò affatto. Il maggiore che comandava la nostra compagnia ci disse che Mussolini era stato arrestato. Ci vestimmo in fretta, ancora con la camicia nera. Il comandante ci riunì sullo spiazzo centrale: bisognava stare calmi e aspettare ordini dal governo. Virgilio Puecher, Vittorio Treccani e io decidemmo di andarcene subito. Uscimmo per una porta non sorvegliata raggiungendo il sentiero che saliva sui monti. Superammo la zona delle esercitazioni e puntammo su un rifugio, in cima alla montagna.

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Appresa la notizia dell’arresto del duce, il custode del rifugio stappò due bottiglie di un vino speciale, e preparò il pranzo. Finito di mangiare, Puecher andò a dormire su un prato mentre Treccani e io, cantando, ridevamo della nostra sbronza. L’indomani riprendemmo la via dell’accantonamento. I nostri compagni indossavano già le camicie grigioverdi dell’esercito, mentre noi, nascoste sotto la giacca, portavamo ancora le camicie nere. Il 27 luglio arrivò ad Albavilla mio padre. Ebbi il permesso di andare a pranzo con lui. Come sempre era un po’ in ansia, premuroso, quasi sopraffatto dal ruolo paterno. Mi raccomandò soprattutto di non preoccuparmi per l’improvvisa comparsa di tanti partiti: “È questa, la democrazia...”.

Lo zio Nino progettava ancora di fare qualche scalata con me, in settembre. Cercava di invogliarmi a raggiungerlo nelle Alpi occidentali: diceva che arrampicare sul granito era un’altra cosa, la roccia era più dura e compatta. Ma la guerra ingoiava tutto. Più che la roccia, io continuavo a desiderare la sua compagnia. Lo immaginavo un po’ in crisi, come sotto una caduta di detriti.

Poche settimane dopo, tutta la famiglia si riunì a Tregnago e lì ci colse l’8 settembre. Alle prime notizie della resa, ebbi voglia di fare qualcosa. I contadini avevano appena consegnato il grano all’ammasso. Dissolvendosi lo Stato, non avrebbero ricevuto né i soldi del grano né il pane per sfamarsi durante l’inverno. Bisognava andare a riprendersi il grano, prima dell’arrivo dei tedeschi, che avevano già passato il Brennero e calavano su Verona. Si riunirono molti contadini e ci mettemmo in cammino. Andammo fino a Illasi – sei chilometri di strada in lieve discesa – con i carri vuoti, pensando che li avremmo riportati indietro pieni di sacchi di frumento.

Il magazzino dell’ammasso si trovava all’inizio del paese. Il portone era chiuso, e la chiave non si trovava:

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bisognava sfondarlo. Quasi tutti furono contrari: così si rischiava la pelle, o comunque si poteva finire in galera. Mentre discutevamo, qualcuno aveva già fatto dietrofront e prendeva la via del ritorno. Anche quelli che mi avevano dato ascolto all’inizio, adesso scuotevano la testa. Dopo molti conciliaboli, rinunciarono. Il giorno dopo decisi di andarmene dal paese.

Tornai a Milano, dove raggiunsi mio padre. La città era occupata dai tedeschi. I soldati ci osservavano dalle torrette dei carri armati. Gli amici non rispondevano al telefono. C’era solo Lionello, nella villetta di via Poerio, indaffarato insieme con suo padre a trovare una via di fuga. Intorno a noi si era fatto il deserto. Tutti quelli che potevano scappare, andavano a rifugiarsi in campagna o al Sud. Nei momenti di pericolo la separatezza borghese produceva isolamento. Nessuna solidarietà soccorreva i piccoli cittadini della Milano benestante, ai margini della Milano proletaria.

Pochi mesi prima, la città operaia si era fatta sentire con uno sciopero improvviso, mai visto sotto il fascismo. A quell’epoca le divisioni di classe non erano un’invenzione dei marxisti: a noi, quello sciopero sembrò venire dal sottosuolo. Adesso eravamo noi a sentirci chiusi in trappola, senza neanche la forza di reagire. Mio padre e il padre di Lionello si consultarono e decisero di trovare per i figli un rifugio fuori città. I tedeschi non avrebbero tardato a rastrellare i giovani in età di leva. La famiglia Macciardi possedeva una villa sopra Varese. Da lì la Svizzera era vicina. Si arrivava alla villa con una funicolare e una breve camminata in collina. Il secondo giorno, il padre di Lionello ci raggiunse portando con sé una ragazza, Amelia. C’era un giardino che degradava dal monte e una grande stanza con una finestra panoramica. Amelia aveva un modo di fare insolito per il

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nostro ambiente: nel suo viso dai lineamenti ben disegnati aleggiava qualcosa di provocante. Era più giovane di noi, ma sembrava più esperta. Lionello fece un’allusione alla sua vita, per cui capii cosa faceva. D’altra parte non era pratica delle faccende domestiche e si sentiva più a suo agio su un divano, fumando una sigaretta. A volte la sorprendevo in una posa infantile, le labbra aperte come in attesa. In un momento in cui restammo soli, fu lei a prendermi per mano, a farmi sedere vicino, sul divano del soggiorno, chiedendomi un bacio. Io non avevo mai baciato una donna. Mi colse di sorpresa e mi ritrassi confuso. Lei non rise. Mi disse: “Non sai come si fa?”. Il terzo o quarto giorno arrivò mio padre. L’indomani Lionello e io avremmo passato il confine, mio padre era venuto a salutarmi. In quei mesi non eravamo andati più in là dell’ascolto di Radio Londra. Nel nostro ambiente si parlava sottovoce del Partito d’Azione, che operava in un ambiente professionale contiguo a quello del padre di Lionello: avvocati e uomini d’affari, ammiratori dell’Inghilterra, considerati traditori della patria. Uno di loro era già in prigione. Un altro si nascondeva in Sardegna; forse era amico di Lussu. Con loro non avevamo preso nessun contatto: l’8 settembre aveva sconvolto anche i nostri piani. Papà si trattenne poche ore, serio e timido come sempre.

La sera seguente Lionello e io raggiungemmo una casa di amici a Luino. Restammo in attesa del buio. Pochi giorni prima, un gruppo di sbandati era stato sorpreso sui monti sopra Luino: la milizia fascista l’aveva facilmente sgominato. All’alba eravamo in Svizzera. Una famiglia ci ospitò per la notte. Due giorni dopo io ero in un campo di smistamento a Gudo vicino a Locarno, Lionello, nella Svizzera tedesca. Mi venne un’infezione a un dito e mi curarono all’ospedale di Bellinzona. Qui conobbi un pic-

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colo francese baffuto, che parlava di comunismo come se si trattasse di una società segreta. Fu lui a introdurmi nei misteri del partito comunista descrivendone l’ideologia come un artigiano può parlare di un oggetto ben fatto. Appena liberato dal campo di internamento di Gudo, alla fine di settembre del 1943, raggiunsi a Lugano l’hotel Helios, un piccolo albergo nel centro della cittadina: alla proprietaria, Luisa Forni, ero stato raccomandato dall’onorevole Canevascini, deputato socialista del Canton Ticino. Sognavo da tempo di realizzare ideali di giustizia. Per tutto il periodo che aveva preceduto il tracollo dell’esercito italiano, Oreste e io ci eravamo scambiati delle lettere in cui ci chiedevamo: è meglio scrivere e pubblicare oppure passare all’azione? Oreste scriveva racconti, e voleva che partecipassi al progetto di una rivista letteraria. Ma ora io lavoravo come portiere notturno. La mia famiglia sapeva dove mi trovavo e mi mandava bigliettini scritti su una carta sottile, con una calligrafia minuta. Il mondo della mia infanzia era stato tutto costruito intorno a desideri rimasti inappagati. Il desiderio di sentirmi sicuro, il primo che mi si era rivelato, lo avevo cullato dentro di me senza pensare a metterlo in relazione con la famiglia in cui lo cercavo, ed era rimasto così, a lungo, un puro desiderio. Inoltre sentivo un bisogno ardente di giustizia. Forse la mia infanzia non finì nemmeno in quei giorni, a Lugano. La lontananza da casa mi rattristava. Al di là del lago si vedevano i monti del mio Paese in guerra. Conobbi altri rifugiati. Nel mio albergo c’era, anche lui profugo, Giulio Seniga, di origine contadina e operaia. Lui era comunista. Si faceva chiamare Gino dalla padrona dell’albergo e Nino dal partito: anche lui Nino, come lo zio. Gli chiesi di prendermi con sé, nel partito comunista. Volle la mia “autobiografia” e la passò al “centro”. Nino mi sembrava appartenere a

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una specie umana diversa: mi raccontava lo sciopero di marzo come lo aveva vissuto lui, dalla parte operaia. La fame aveva spronato in loro il coraggio civile. Avevamo patito anche noi la stessa fame, ma senza essere indotti a tradurre il disagio in una forma di azione politica.

Al ricordo della Milano da cui ero fuggito, il racconto di Nino sovrapponeva un’immagine che anch’io avrei potuto cogliere; sarebbe bastato che in marzo, quando il centurione della milizia ci aveva parlato di quello sciopero, noi studenti avessimo avuto qualche contatto con quella parte della società che adesso sentivo chiamare “classe operaia”. Ma questo non era previsto dal nostro ruolo sociale: avevamo troppi legami naturali col fascismo. Per questo adesso decidevo di aderire al partito comunista. Chissà che cosa ne avrebbe pensato Oreste. Non sapevo dove si trovasse: non ero più riuscito ad avere notizie né di lui, né di Lorenzo.

Scrivevo annotazioni vaghe. “Io non ho fatto la guerra... e oggi la mia umiltà non so se sia, forse, umiliazione.” Avevo dato queste cose da leggere a Gianfranco Contini, che avevo conosciuto in quei giorni. Mentre passeggiavamo per una strada lungo il lago, lui mi aveva invitato a tener presente che non si fa letteratura con i buoni sentimenti. Avevo conosciuto Contini in una casa di Lugano dove ci eravamo dati appuntamento Nando Giolli, giovane poeta, Gianni Pavia e io. Eravamo diventati amici da poco. Contini veniva da Friburgo. Ci disse che era sceso a Lugano “per essere preso nel delirio delle campane di Pasqua”, come se fossimo in Italia. Si domandava se l’“apostolato” potesse “destare l’autocoscienza” o meno. Passeggiando con me sul lungolago, fuori città, disegnava nell’aria con le mani “la geometria” di un vicino confine tra l’esilio e il nostro mondo. La mattina dopo, sempre con Giolli e Pavia, andammo a salutarlo

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alla stazione. Dal finestrino ci comunicò che quella visita lo aveva “riconciliato con l’emigrazione”. Salutava con una mano che sporgeva impacciata, un gesto che mi parve eccentrico e timido al tempo stesso. Sospettavo già di non essere destinato a una carriera letteraria. Da quel momento sentii più urgente il bisogno di passare a qualche forma d’azione. Mi ero iscritto al partito comunista e stavo preparandomi a raggiungere i partigiani, in Italia. Ero passato dallo zio Nino al compagno Nino, ancora una volta per andare in montagna.

L’8 settembre, quando l’esercito italiano si era dissolto e i tedeschi avevano varcato il confine del Brennero, lo zio Nino aveva creato una piccola repubblica di sbandati sopra Aosta. Qualche settimana dopo, era stato arrestato dalle guardie svizzere, sospettato di contrabbando di pellicce trovate nei bagagli di un gruppo di ebrei che aveva aiutato a passare il confine. In realtà, per vivere, gli sbandati contrabbandavano fontina.

Lo zio Nino saliva al colle di Menouve per l’ennesima volta per i suoi traffici. Era con lui un altro ufficiale, Pagliani, che era andato ad Aosta con la speranza di poter scambiare un po’ di vino con qualche sigaretta o pacchetto di tabacco. Lo zio Nino avrebbe dovuto consegnare agli svizzeri un paio di formaggi, ma soprattutto sperava di poter scambiare anche lui un po’ di vino con tabacco e qualche pagnotta, che gli avevano promesso. Sapeva che da parte svizzera era in corso un’inchiesta, ma aveva l’impressione di non esservi coinvolto. Al colle trovò il solito caporale insieme con un gendarme, che era al corrente di tutto. Pensò quindi di non avere nulla da temere, tanto più che il caporale non gli fece il segnale convenuto in caso di pericolo. Salutò e strinse la mano a entrambi “con la solita cordialità”. Il caporale era accanto al cippo di confine e sembrò un po’ imbarazzato.

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La guardia disse allo zio Nino che non poteva stare lì dov’era (era proprio sul limite) e che doveva fare qualche passo avanti. Poi con la pistola puntata gli disse: “Ici vous êtes sur Suisse”. E gli ingiunse di mostrargli il contenuto delle tasche e del sacco. Così lo zio Nino fu rinchiuso in prigione a Martigny, dove trascorse venticinque giorni, durante i quali riuscì a tenere un diario: quello da cui prendo queste notizie. Riprenderà a scrivere a Milano, dopo che gli svizzeri lo avranno rilasciato. Nelle pagine di novembre si legge: “Mi sembra che nessuno si sia ancora reso conto dell’importanza del periodo che stiamo attraversando. [...] Tanto più quindi sento la necessità e il dovere di agire e di prendere iniziative (corsivo mio). Mi sento molto sicuro di me e son certo che molti mi seguirebbero [...]”.

Il 5 dicembre lo zio Nino annotava le circostanze del ritorno in famiglia e dava l’impressione di voler nascondere le cose più importanti: “Il ritorno a Milano, nella mia casa, non mi ha dato alcuna gioia, neppure la sensazione di rientrare in porto dopo un periodo così avventuroso. Sono giunto a Milano solo per vedere com’era effettivamente la situazione, per ritrovare i miei, per vedere qualche amico, ma senza alcuna intenzione di rimanerci. Naturalmente ho dovuto dare della mia avventura svizzera versioni differenti a seconda delle persone: variazioni sul medesimo tema; a nessuno ho potuto dire tutta la verità [...]”.

In data 11 dicembre, accennava a un viaggio ad Aosta, a una promessa e a impegni che restano misteriosi. Pochi altri accenni, difficili da interpretare, possono far pensare a un lavoro clandestino.

A Lugano, intanto, io ero entrato per la prima volta nel mondo della politica. Erano ospiti del mio stesso albergo alcuni noti personaggi dell’ambiente intellettuale

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milanese, come Alberto Mondadori, figlio dell’editore, il giornalista Arturo Tofanelli, direttore di Tempo , con la moglie, Silvia Somarè, i coniugi Gennarini (lui Emilio sarà dirigente della Rai) e lo scrittore Alberto Vigevani. Nel circolo ristretto degli esuli, si incontrava anche la piccola pattuglia di socialisti italiani rifugiatisi in Svizzera dopo l’8 settembre. Da loro sentii parlare per la prima volta di Ercole Ercoli, cioè di Palmiro Togliatti, che era rientrato in quei giorni in Italia, proveniente da Mosca. Per il timore di essere scavalcati a sinistra, i socialisti avevano reagito con dispetto. Lucio Luzzatto, col quale avevo fatto amicizia, diceva che era arrivata la voce del padrone. A Rodolfo Morandi, il più pensoso e capace del gruppo, la situazione sembrava più complessa di come la vedevano gli altri, adagiati in vecchie polemiche e poco propensi a meditare sul futuro. Uomini come Della Giusta, Vigorelli, Cirenei erano più prudenti, anche se non nascondevano la loro preoccupazione: secondo loro a Napoli era sbarcato il prossimo “patron” della sinistra italiana – quello con il quale i socialisti avrebbero dovuto fare i conti, poiché la linea del loro partito era favorevole all’unità d’azione con i comunisti.

Cominciai a distinguere fra l’enunciazione di principi e il fare politica. Non feci però nessuna scelta.

Un mese dopo, a Lugano, l’argomento principale era diventato l’attività dei gruppi partigiani che avevano cominciato a operare nel Nord d’Italia: chi c’era e chi ci sarebbe andato. Fra i socialisti, quello che si occupava più seriamente di queste cose era Rodolfo Morandi. I comunisti – clandestini anche in Svizzera – erano in contatto con lui. Io avevo il mio punto di riferimento in Giulio Seniga. Ai socialisti davo una collaborazione di lavoro, organizzando l’invio di pacchi ai rifugiati per conto del Soccorso Rosso.

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Con Seniga nacque un’immediata complicità. Avevamo caratteri diversi, ma ci intendevamo sulle cose da fare. Lui era un operaio dell’Alfa Romeo di origine contadina e forse lo divertiva il fatto di trovarsi a complottare con un figlio della borghesia. Io lo studiavo per capire che cosa fosse la classe operaia, il bene e il male visti da un’altra angolazione. Mi confidavo con lui. Mi accorsi che mi stavo spostando su un terreno che non escludeva l’uso della violenza. Gli spiegai quale fosse il mio atteggiamento al riguardo: “Vedi, se a me danno uno schiaffo, io non rispondo automaticamente con un altro schiaffo...”. Raccontai a Seniga che una volta, a Milano, quando facevo la prima media, davanti al liceo Berchet, un ragazzo della mia età mi aveva dato un manrovescio e io non avevo reagito. Ero rimasto stupito, niente di più: “Come se mi mancasse una ghiandola...”. La teoria della “ghiandola mancante” aveva divertito molto Seniga. Fra me e lui nacque una grande amicizia. A lui importava mobilitare dei giovani perché tornassero in Italia a combattere contro i fascisti, non lo interessavano i problemi psicologici. Io obbedivo a quella parte di me che mi spingeva a essere presente dove c’era qualcosa di importante da vivere.

Lavoravo per il Soccorso Rosso. Avevo sistemato le mie scorte in un locale buio, vicino al lungolago. La roba arrivava da ogni parte dei quattro cantoni: la ammucchiavo su una serie di scaffali da falegname, nel retro del locale. Poi, con le richieste in mano, andavo a cercare gli indumenti nei mucchi in cui avevo distinto i vestiti da donna da quelli per gli uomini e per i bambini, e poi i cappotti e i maglioni, le mutande e le canottiere, i calzettoni: tutta roba usata che sapeva di vecchi cassetti e naftalina. Quando mi sembrava che qualcosa corrispondesse alla descrizione, ne facevo un pacco e lo legavo con

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lo spago. Fatti una ventina di pacchi, li caricavo su un carrello a quattro ruote col tirante, e spingendolo per tre isolati raggiungevo la posta, da dove li spedivo nei campi di internamento.

Lugano era piena di turisti che svernavano sul lago. Quell’anno gli ebrei e i politici italiani si erano aggiunti alla solita clientela svizzera di ricchi pensionati. L’inverno trascorse quieto, in mezzo a molte chiacchiere solo a tratti turbate da notizie lontane. A primavera le cose cominciarono a muoversi. Si diceva che la guerra sarebbe finita presto. Mi presentai a Rodolfo Morandi e gli chiesi di trovare il modo di farmi rientrare in Italia. Morandi era silenzioso quanto Luzzatto era loquace. Col suo viso energico e assorto, Morandi si faceva vedere poco in giro e quando lo incontravo parlava solo per dire cose utili. Era lui il capo dell’ala del partito socialista che si chiamava di unità proletaria, quella disposta a lavorare con i comunisti.

In marzo, attraverso la Danzas, una ditta di trasporti, giunse da Milano un biglietto nel quale mio padre mi annunciava che lo zio Nino sarebbe presto venuto in Svizzera e che mi avrebbe cercato. Lo attesi invano per tutto il mese. Per vie clandestine da Milano arrivarono altri messaggi che adesso chiedevano a me sue notizie. Io pensavo che si fosse di nuovo fatto fermare da guardie svizzere e fosse finito in prigione; oppure che fosse andato in un altro paese per qualche missione speciale. Un giorno mi chiamò la polizia. Un commissario mi ricevette seduto dietro la scrivania. Mi chiese se conoscessi un tale, un italiano; e rovistava tra le sue carte senza fretta. Una pratica, fra le altre che stavano ordinate in un fascicolo color marrone, era di un considerevole spessore, riguardava lo zio Nino. Sbirciando di traverso, avevo visto che dentro quel dossier c’era un foglio giallo

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della polizia di frontiera. Mi chiese se sapessi che cosa avrebbe dovuto portarmi una certa persona che io ammisi di conoscere: era mio zio. Risposi che non potevo saperlo: forse qualche mio racconto, rimasto interrotto quando ero fuggito in Svizzera. C’era un racconto intitolato: Confessiamo la nostra umiltà. Un altro racconto fantasticava su un uomo che rimane solo per una lunga missione tra i ghiacci del Polo Sud: i pensieri, i gesti quotidiani di questo esploratore. Ma al commissario interessava una sola cosa: qual era lo scopo della venuta in Svizzera dello zio Nino? Non sapevo cosa dirgli.

Dall’8 settembre 1943 agli inizi del 1944, il diario che teneva mio padre mi ha aiutato poi a ricostruire i fatti. In data 3 dicembre 1943, registrava l’incontro con lo zio Nino, il primo dopo il suo rientro dalla Svizzera: “A Milano abbiamo trovato Nino, reduce dalla Svizzera. Ha cenato questa sera con noi. La sua opera in Val d’Aosta è stata ben diversa da quanto avevamo fantasticato. Nino a Ollomont aveva organizzato una specie di banda che aiutava quanti fuggiaschi militari e politici si avviassero di lì per passare poi in Svizzera. Teneva contatti con reparti di italiani datisi alla montagna e anche con autorità di Aosta le quali più di una volta gli hanno inviato personalità politiche che per passare il confine avevano bisogno di guida. Tra le cose interessanti che Nino ci racconta c’è la dichiarazione che gli avrebbe fatto un senatore torinese da lui guidato al di là del confine subito dopo il 9 settembre”. Quel senatore era Luigi Einaudi. Ed era latore di un plico sigillato di Vittorio Emanuele per la principessa di Piemonte. Einaudi disse che gli constava “per diretta informazione di altissime personalità che, oltre le condizioni rese note dall’armistizio, le nazioni alleate avrebbero rimesso a Badoglio una dichiarazione scritta, e fino a quel momento segreta, che l’unità del territorio italiano al momento della

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pace sarebbe stata rispettata, e che per la Libia si prevedeva possibile la restituzione all’Italia”. Mio padre aggiungeva di avere avuto dallo zio Nino un’altra notizia interessante, data assolutamente per certa in Svizzera: un passo tentato dalla Germania attraverso il Vaticano per la pace separata con inglesi e americani: “Fallito il tentativo, la Germania avrebbe insistito per conoscere quali sarebbero state eventualmente le condizioni per una pace fra tutti i belligeranti. La notizia, già circolata, fu a suo tempo smentita dal Vaticano; ma in Svizzera è – ripeto – data come sicura. Diffusa anche è la convinzione di una più rapida fine della guerra. Un ufficiale del servizio segreto svizzero, con il quale Nino ha parlato, ha raccontato di aver fatto una scommessa di 5.000 franchi che la guerra sarebbe finita entro novembre. La scommessa è perduta”.

Tre mesi dopo, il 10 marzo, lo zio Nino partiva di nuovo clandestinamente per la Svizzera con l’amico Vitale Bramani; aveva con sé un passaporto falso intestato a un cittadino svizzero. Aveva lasciato l’amico sul ghiacciaio, dalla parte italiana, ed era sceso con gli sci verso il Maloia. Poi di lui, a Milano, non si era saputo più niente. Tutte le ricerche erano state vane. L’8 maggio si ebbe un primo segno preciso che così risulta dal diario di mio padre: “Poco prima di cena Bozzoli, di ritorno dall’Engadina, si è precipitato da noi. Reca notizie non confortanti. Ieri, domenica, hanno tentato, lui, Negri e Oppio un’esplorazione degli approcci ai tre passi del Muretto, del Forno e del Vazzeda, ma la ricerca è stata ostacolata dalla giornata piovosa e nevosa. Nessuna traccia, comunque, di Nino. [...] Non potendo condurre a termine le ricerche, Bozzoli, Oppio e Negri hanno lasciato l’incarico di riprenderle e continuarle a Livio Levati e Oreste Sanati, due guide del luogo. Ma la preoccupazione più grave è causata in noi dal racconto fatto dalla moglie di

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Oreste Levati, fratello di Livio. Erano passati di lì due individui dopo aver tentato di passare in Svizzera ed essere stati arrestati dalle guardie confinarie, e rimandati alla frontiera. Nell’avviarli le guardie svizzere avrebbero detto: “Andate, andate e guardate attorno nel tornare. L’altra notte ci è scappato un giovanotto; non deve essere arrivato molto lontano; lo troverete già morto”. E il 23 maggio: “È giunta una lettera di Saverio [...]. Peccato che questa lettera sia stata motivata soprattutto dal desiderio di parlare alla mamma della sorte di Nino. Che Saverio ritiene, oramai, tragicamente conclusa. È strana la scarsa pietà con cui ha enunciato questa sua convinzione a sua madre, alla sorella di Nino; strana, ma non incomprensibile a chi legge tutta la lettera dalla quale traspare un animo che mi turba profondamente”.

Poi il 5 giugno: “Verso mezzogiorno Bozzoli mi telefona e mi dice soltanto: l’hanno trovato. E non esiste più nulla per me. Tutta l’intensa passione di queste ultime ore cade. Non c’è più che questa tremenda verità: Nino è morto.

L’hanno trovato a pochi passi dalla Forcella del Forno con la faccia affondata nel nevaio, spoglia già miseranda; il viceprefetto di Sondrio avvocato Francesco Quaini e la guida Oreste Levati lo cercavano lì già da qualche giorno. Si sono inginocchiati presso la salma e hanno pregato”.

Da anni ho davanti agli occhi il diario di mio padre, e non ho mai capito quella sua osservazione sulla lettera che scrissi alla mamma: “È strana la scarsa pietà con cui ha enunciato questa sua convinzione [...]”. Da “tutta la lettera traspare un animo che mi turba profondamente...”. Nessuno in famiglia aveva mai insegnato ai figli il linguaggio dei sentimenti. Certo, in quella primavera, io mi occupavo anche di altro. Ero andato a fare un viaggio a Losanna e a Ginevra, mi ero incontrato con studenti italiani internati, avevo cominciato a lavorare

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per il partito: propaganda, ricognizione e reclutamento nell’ambiente universitario. Pur essendo ancora vicino al partito socialista, lavoravo con i comunisti.

Attraverso le notizie e le voci che avevo raccolto, nell’aprile del 1944 avevo raggiunto la certezza che lo zio Nino fosse morto. Così, quando ne ebbi la conferma, il dolore si era già attutito. In un certo senso, quel dolore era compensato dal fervore per nuove imprese. Questo era lo stato d’animo che traspariva dalla lettera a mia madre.

Non si è mai saputo invece che cosa pensasse di fare in quel momento, in Svizzera, lo zio Nino. Si è appurato soltanto che, riconosciuto dalle guardie di frontiera, era scappato di notte con gli sci ai piedi, un maglione sopra al pigiama. Dopo la guerra sono state fatte diverse congetture; ma non si è mai potuto averne conferma. Ho sempre immaginato che lo zio Nino dovesse stabilire un contatto con qualche agente di un servizio segreto. Pensavo ad agenti dell’“Intelligence” britannico. Una volta riconosciuto dalla polizia svizzera, quel contatto era diventato impossibile e lui aveva deciso di fuggire, per evitare un’altra lunga detenzione e gli interrogatori dei servizi di controspionaggio di Berna.

Con gli inglesi lo zio Nino poteva essersi inteso all’epoca del suo lavoro ai Lloyds di Londra. Il riserbo era nel suo carattere, così come era nei metodi di quei servizi avvicinare uomini che si comportavano come lo zio Nino. Molto tempo dopo i fatti, a settant’anni, mi è sorto un dubbio: in fondo, ripensando alla morte dello zio Nino, non escludo affatto che fosse venuto in Svizzera in quel modo misterioso, rivelando a un solo amico che doveva vedere me, semplicemente perché veniva proprio per quello: per incontrare me, il nipote preferito. Scoperto e identificato aveva tentato la fuga: chi avrebbe creduto alla storia del nipote?

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