Con gli occhi aperti
di Maria Chiara Rioli e Federica Manzoli
“Un giorno, in occasione di una formazione, ci hanno chiesto di descrivere il corpo in cui ci sentiamo rappresentati attraverso un disegno […] Ho iniziato quindi a disegnare un serpente. […] II serpente quando striscia lascia sempre la scia del suo corpo e io come lui cerco di lasciare sempre traccia della mia vita, del mio vissuto per testimoniare chi sono. La mia scia sono le mie memorie”, scrive Khady Sene in Storia della mia rinascita. “La donna che sono oggi, di cui sono orgogliosa, lavora alla Caritas Diocesana Foggia-Bovino e si occupa dello sportello Immigrazione.”
Nella stessa acqua arricchisce il già rilevante fondo archivistico DiMMi contenuto nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Gli scritti qui raccolti sono fonti inestimabili per comprendere la storia contemporanea delle migrazioni attraverso le narrazioni di donne e uomini che volontariamente costruiscono memorie personali, divenute ora collettive.
DiMMi crea dunque un archivio di fonti e documenti anche per coloro i quali vivono la condizione di apolide, come nel caso di Laura Soldati in Migrante nella mia terra , storia di una donna nata in Italia da madre slovena e cresciuta in Cile: “Mi hanno chiesto la carta
d’identità, l’ho messa nelle mani del funzionario e ho indicato il luogo dove c’era scritto: nazionalità italiana. Mi ha guardato e mi ha detto di aspettare. È tornato e mi ha detto: non sei italiana, non sei negli archivi. [...]
Mi ha guardato con un certo disprezzo e ha detto: ‘Tu, non sei né mosto né limonata’ in Italia regola lo ius sanguini ”.
Nella stessa acqua Khady e Laura hanno navigato con altre donne e uomini, donandoci la loro esperienza di ricerca di uno o plurimi futuri.
Scrittura e cura
Le autrici e gli autori di DiMMi attraversano mari veri o simbolici in cerca di se stessi, ritrovano un’identità che facilmente si perde durante percorsi tanto dolorosi, incontrano persone rimaste umane sul loro cammino, sopravvivono per salvare le proprie famiglie. La scrittura attraversa e cura questi viaggi: “Ringrazio Dio e la mia maestra di Inglese per avermi dato la forza e il coraggio per scrivere questa storia: ho pianto tanto in questi giorni: scrivere mi ha fatto rivivere momenti belli e brutti che mi porterò sempre nel cuore”, annota Elizabeth Terry nel suo racconto L’Italia mi ha reso libera.
La scrittura diventa uno strumento per elaborare le solitudini del deserto prima di arrivare sulle coste del Mediterraneo, quelle di affollatissime imbarcazioni provvisorie dirette in Italia, di centri di accoglienza dove le giornate passano tutte uguali, di una burocrazia opprimente. La scrittura aiuta ad affrontare la solitudine provata di fronte a una donna che si considerava amica e che non si vergogna di difendere il suo voto offerto a partiti apertamente razzisti.
Così è anche nella narrazione di Sonia Lima Morais, nata in Italia da genitori originari di Capo Verde, che
in Sguardo nero racconta come, per farsi accettare alle scuole elementari, si sia impegnata a imparare sistematicamente le parole più difficili nel dizionario di italiano: “Sulla prima pagella di quell’anno, che tuttora resiste ai diversi traslochi della mia vita, le maestre scrissero: la bambina talvolta si esprime con termini che risultano difficili anche per noi”.
Pracsid Manel Warnakulasuriya Thamel, in La mia vita, racconta di decenni di lotte contro la povertà e lo sfruttamento dei datori di lavoro, dallo Sri Lanka all’Arabia Saudita, dall’Oman al Kuwait, fino all’Italia, dove accudisce Liliana, Rina, Vanna, Laura, avendo sempre cura degli altri e mai di sé.
Lorna Duldulao, in La mia vita lontano dalla mia famiglia, tiene in sospeso chi legge e spera con lei, pagina dopo pagina, anno dopo anno, che finalmente giunga il momento del ricongiungimento con la figlia nata a Manila in circostanze difficili. Dalla “grande isola di Luzon”, dove comincia il racconto e in cui Lorna ha trovato amore e povertà, la donna si sposta verso Manila, poi Singapore e infine Firenze: “… Era così bella… ho sorriso perché al centro di Firenze avevo visto tanti giovani. Gli edifici erano davvero impressionanti. Soprattutto quando abbiamo raggiunto il Duomo. La mia sensazione era di essere nel passato. E pensavo di Singapore che quando ero lì, sembrava di essere nel futuro”.
Solo un libro “Nei corridoi della vita ci passano accanto cose belle, persone che ci hanno reso felici con il loro sorriso, poi se ne sono andate per diventare la ragione del nostro dolore e per assicurarci che niente dura e anche la vita è solo un libro, ma siamo costretti a viverne le pagine con ordine. Non possiamo scegliere la pagina che vogliamo, quindi
accontentiamoci di tutto, così forse la prossima pagina sarà più bella”, scrive Sahar Ben Khiria in La mia vita.
Non è una dichiarazione di arrendevolezza, ma un’attestazione di riflessione profonda per continuare un percorso insieme a chi leggerà. Come questa, tutte le narrazioni giunte attraverso l’esperienza consolidata e sempre nuova di raccolta, selezione e pubblicazione di DiMMi invitano alla ricerca, all’approfondimento, all’analisi individuale, sociale, politica.
Oltre i luoghi comuni sulle migrazioni è la storia narrata da Daniela Cociorva, che racconta di chi, nata in Italia da genitori migranti che cercavano un “futuro migliore” per le proprie figlie e figli, non vive infine un progetto così lineare. Un futuro “migliore” rispetto a cosa? Daniela scopre che l’ordine delle pagine del suo libro è talvolta da accettare: “A sedici anni ho compreso che le memorie non vanno negate al fine di essere dimenticate”, scrive in Girasole.
Con lei Samanta Amet, che in Crisi di nazionalità racconta la fatica di crescere fra due mondi, abitandone solo uno: “Crescendo, nonostante istituzioni, burocrazie e persone esterne potessero non far lo stesso, ho dovuto capire la mia identità e le mie origini, rendermi conto che nascere, studiare, e formarmi in questo Paese è stato sufficiente a rendermi italiana”.
La notte scura
Nella stessa acqua propone sguardi fuori da sé, durante o al termine di processi segnati da partenze fisiche, nuovi inizi personali e intimi, spesso contraddistinti dalla volontà di prestare soccorso e sostegno ad altre donne e altri uomini che vivono la stessa esperienza di mobilità volontaria e migrazione forzata. Lo racconta in Tutto accade per una ragione Basheer Aldabbagh, nato durante la
guerra in Iraq del 2004 e rimasto solo e malato in Italia, oggi mediatore culturale, capace di moltiplicare l’umanità che lo ha salvato.
Sono storie che superano gli individui, che collegano popoli e generazioni, come per Omar Jarju, che trasforma il suo racconto in salmodia:
“NON IMPORTA QUANTO SIA SCURA LA NOTTE, SICURAMENTE IRROMPERÀ IL GIORNO
Ora le quattro barche erano pronte per partire, i capitani ai loro posti.
Oh, miei cari capitani
Le nostre vite sono nelle vostre mani
Per favore, per l’amor Dio
Non lasciate che i pesci ci mangino
Portateci attraverso il Mediterraneo
E fateci sbarcare al sicuro nella terra dell’uomo bianco
Lasciate che i nostri antenati sappiano
Che i loro nipoti bisognosi stanno arrivando
Alla terra dei bianchi
Non come schiavi ma come coloni
Perché andremo tra i palazzi
Che hanno costruito i nostri avi
Che non hanno potuto gustare i frutti del loro lavoro”.
Anche il testo di Salif Thioune, Bismillah , “in nome di Dio”, alterna narrazione e preghiera: “Mi ricordo una parola che mia madre ripeteva spesso quando lavorava: “Bismillah”. Per curiosità, un giorno le ho chiesto di spiegarmi cosa volesse dire quella parola. E lei mi ha risposto che Dio raccomanda a tutti i fedeli di rivolgerGli quella parola sacra, prima di iniziare qualsiasi attività… Prima di bere, di cucinare, di mangiare e di compiere qualsiasi cosa, si deve sempre pronunciare la parola BISMILLAH ”.
La forma lirica ritorna nel canto di Adjibo Balde, che in Tre anni di viaggio. Una vita dura esprime in poche righe cadenzate un lungo viaggio dalla Guinea attraverso la Grecia e la rotta balcanica, per arrivare a Milano, dove finalmente può sperimentare la “libertà di imparare”.
Voci e corpi
Le storie di DiMMi si intrecciano con la storia italiana e transnazionale, ne costituiscono fonti, memoria, rielaborazione ed eco.
Quando Adnan Abdinuur Mohamed nasce, negli anni Novanta, il suo Paese, la Somalia, è dilaniato dalla guerra civile. Undicenne, assiste a un attacco terroristico che coinvolge la sua famiglia. A vent’anni si ribella contro i miliziani di al-Shabaab, che irrompono nella sua casa, picchiano la madre e violentano una delle sorelle davanti ai suoi occhi; il suo tentativo di difendere la famiglia e se stesso termina in un carcere. Appena riesce, Adnan scappa, dal carcere e dalla Somalia.
Negli stessi anni Novanta, davanti a una vetrina nel centro di Bologna, Manijeh Moshtagh Khorasani si specchia e sperimenta il sorriso che nel suo Paese di origine, l’Iran, le era stato insegnato a non mostrare, così da potersi assicurare un marito “adeguato”.
La violenza attraversa queste pagine, come nel testo di Jallow Kissima, in cui vengono descritte alcune delle torture patite dall’autore nei campi libici: “Negando sempre di avere la possibilità di pagare i miei aguzzini, questi continuarono imperterriti a torturarmi. Pugni in faccia, tanto da farmi cadere tre denti. Con una lampadina rotta, collegata con un lungo filo a una presa elettrica, mi davano scosse persino nei genitali, appeso a testa in giù, nudo e bagnato con acqua. Frustate sulla schiena e bastonate sulle gambe e sul cranio. Anche le
povere donne prigioniere non erano risparmiate. Furono violentate tutte, pure quelle incinte, separate dai loro uomini e da tutti noi, ma sempre ben visibili da tutti i presenti nello stesso maledetto capannone, aumentando così la loro vergogna e ferendole nell’orgoglio oltre che nel corpo”. In forme diverse, Jallow incontra la violenza anche in Italia, a Rosarno, dove lavorò nel 2018: “nelle vicinanze trovai un ghetto di africani con miei connazionali. Mi comprai un materassino per dormire e riguardo il mangiare, come al solito, facevamo la spesa in comune. Oltre ai pomodori raccoglievamo anche le arance, ma eravamo pagati sempre in nero”.
Nelle due postfazioni si legge tutta la complessità e ricchezza biografica, storica e politica del percorso di DiMMi. Jasemina Zeqiraj decostruisce gli “anni del silenzio linguistico”, quando “l’ascolto del prossimo e soprattutto di me stessa” le hanno dato la “possibilità di resistere a tutti i sacrifici umanamente immaginabili in cambio di una vita serena” e di come quel silenzio e quella presa di parola facciano di DiMMi uno spazio di rispecchiamento, in cui riconoscersi senza perdere se stessi, nella stessa acqua. Yvette Nadine Samnick Ntigui in “Minga”, sogni di donne ripercorre la propria esperienza di attivismo: “ciò in cui crediamo riguarda tutti e per questo abbiamo bisogno che sia affrontato in modo collettivo attraverso reti che integrino tutte le componenti della società”. La scrittura non si sostituisce alla politica, ma contribuisce a creare “uno spazio che ci consente non solo di parlarci ma anche di ascoltarci, e di costruire”. È in questo spazio politico, sociale, umano che affiorano le storie di persone come Satnam Singh, bracciante di origine indiana, abbandonato lo scorso 17 giugno 2024 senza alcun soccorso dal suo datore di lavoro davanti a casa, in provincia di Latina, dopo che un mac -
chinario dell’azienda agricola dove lavorava senza tutele gli aveva tagliato un braccio e ferito le gambe. Accanto a lui, in una cassetta della frutta, il suo braccio mozzato. Satnam Singh è morto in un ospedale di Roma due giorni dopo l’inizio dell’agonia.
Questo contributo ha ricevuto il finanziamento del programma dell’Unione Europea Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione (grant agreement No 101004539).