Nonostante la paura

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Jean Paul Habimana

Nonostante la paura Genocidio dei tutsi e riconciliazione in Ruanda Diario finalista del Premio Pieve Saverio Tutino 2020



Prefazione di Luciano Scalettari

Ci sono storie che non vuoi sentire, ma che non puoi fare a meno di ascoltare (o di leggere, nel caso di un libro). Sono storie che ti fanno tremare, indignare, fremere di rabbia, commuovere. Storie che ti lasciano col groppo in gola, ma in questo caso anche con la consapevolezza che l’umanità e l’amore sono capaci di piegare e mutare i più tragici destini. In queste pagine si parla di Ruanda, non quello di oggi, che cresce, moderno, in tumultuoso sviluppo, seppure fra tante contraddizioni. Si parla del Ruanda del 1994. Quello del genocidio. In questo libro Jean Paul Habimana, ventisette anni dopo i fatti, si racconta, dopo aver maturato tanto a lungo la difficile decisione di mettere nero su bianco ricordi e momenti che i più vogliono dimenticare. Quei drammatici cento giorni del 1994, personalmente, li ho vissuti, da giornalista, come cronaca, terribile cronaca. Ora stanno scivolando nella storia. Per me, quindi, brevi – seppure scioccanti – incursioni nei giorni degli immani massacri e delle inenarrabili violenze. Per Jean Paul, che oggi di anni ne ha trentasette, quel mattatoio è un pezzo di vita vissuta. Leggi queste pagine anche se sai “come va a finire”. Anche se hai già sentito, letto e visto nei film o in altri libri 5


centinaia di storie agghiaccianti degli avvenimenti del genocidio, anche se – come nel mio caso – tante storie le hai ascoltate nel racconto dei protagonisti e delle vittime di quell’infernale macelleria che è stato il Ruanda del 1994, anche se ti chiedi come possa esserci ancora qualcosa di nuovo da aggiungere alle cronache di quell’orrenda stagione di sangue. Ma ti accorgi che non è così. La vicenda di Jean Paul, e come si vedrà anche quella di sua moglie Marie Louise, è profondamente diversa. Non solo perché erano bambini (Jean Paul allora aveva dieci anni, Marie Louise sette), non solo perché vivevano in una zona remota del Ruanda occidentale a due passi dalla Repubblica Democratica del Congo (all’epoca Zaire), non solo perché Jean Paul sa riportare dettagli e riflessioni che in nessun’altra delle “storie del genocidio” avevo mai conosciuto. È diversa perché, direbbe De André, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”: perché da quei giorni di terrore, torture, misfatti, cacce all’uomo, massacri, ferocia, disumanità, Jean Paul, un tutsi di dieci anni, è uscito “pulito” nell’animo. È una storia diversa perché Marie Louise è una hutu e perché loro due, con una scelta all’apparenza insensata e folle, si sono sposati e oggi hanno due bambini. È una storia diversa perché quei due bambini, nati e cresciuti a Milano, saranno parte dei “nuovi italiani”, ma sono prima di tutto ruandesi. Non sono più né tutsi né hutu. Sono italiani e sono ruandesi, ma non tutsi e hutu. E questo non dipende dal fatto che laggiù, nel loro Paese d’origine, le etnie sono state abolite, dipende dalle scelte di vita e di coppia di Marie Louise e Jean Paul. Anche nel Ruanda del genocidio, ebbene sì, si può trovare una storia “a lieto fine”. Ma è un lieto fine tutt’altro che banale e scontato. Anzi, è voluto, pensato, testardamente inseguito, infine conquistato. In nome – in questo 6


caso lo si può ben dire – dell’amore reciproco e della comune fede in Gesù Cristo, che è solida parte integrante di quel percorso. Allora, Ruanda, 6 aprile 1994. Jean Paul abita nel remoto e piccolo villaggio di Rusambu, a una ventina di chilometri dal confine con l’allora Zaire, e vive una normale giornata di un bambino ruandese, quando l’aereo del Presidente Juvénal Habyarimana sta scendendo verso l’aeroporto di Kigali. La capitale è ben lontana da Rusambu, più di 200 chilometri. Dalle dolci colline che sovrastano il lago Kivu non si sentono certo quelle due esplosioni in rapida sequenza, che fanno tremare la città: il velivolo presidenziale viene abbattuto da due missili terra-aria sparati da qualche angolo nei pressi della pista del terminal internazionale. Jean Paul non li poté sentire, quei colpi, forse continuò ignaro a giocare o a fare i compiti. Per qualche ora, poche, continuò la sua vita di bambino. Poi crollò tutto il suo mondo. Iniziarono ad accadere cose che nessun bambino dovrebbe mai vivere, né conoscere: le uccisioni, la caccia all’uomo, le case bruciate, le donne e le ragazze violentate, le torture, la fame. Giorno dopo giorno, in un girone infernale che sembrava senza fine. Cento lunghi giorni, nei quali un milione di persone venne barbaramente ucciso. È una cifra che non riusciamo a figurarci, non siamo in grado di “vederla”. Ma rende l’idea questa semplice divisione matematica: furono assassinate quattrocentosedici persone per ogni ora di quei cento giorni, sette ogni minuto. Una vittima ogni otto secondi e mezzo. Jean Paul deve la vita, come tanti altri tusti, a qualche “anima buona” che fra gli hutu lo nascose, e anche a tante circostanze fortunate che gli permisero di non essere acciuffato dai gruppi di massacratori. 7


Una vicenda, quella narrata nelle pagine di questo suo libro, da imparare a memoria. Perché non deve accadere mai più. Perché non è un evento che può capitare solo nel remoto Ruanda, ma ovunque, quando si crea e si pianifica la costruzione dell’odio per il diverso. Perché dobbiamo avere la piena coscienza che – come amava ripetere il console onorario italiano in Ruanda Pierantonio Costa (in quei cento giorni mise in salvo poco meno di duemila persone, molti dei quali bambini) – quel poco di civiltà di pace e di rispetto che abbiamo raggiunto nel corso dei millenni di storia umana sono una sottile patina sotto la quale continuano a persistere le pulsioni di sopraffazione e di volontà d’annientamento che purtroppo covano nell’animo umano. E che, in Ruanda come nella Germania nazista o nella Bosnia di quegli stessi primi anni Novanta del secolo passato, possono riemergere prepotentemente. Il valore di questo racconto, tuttavia, non si ferma al fatto che Jean Paul è “un sopravvissuto”. Va ben oltre quei mesi del 1994. C’è il dopo. Quello che lo vede seminarista, e poi studente in Italia. E soprattutto quello che lo riporta in Ruanda da Marie Louise. Ebbene sì, questo libro è anche una stupenda storia d’amore. “Forte come la morte è l’amore”, recita un salmo della Bibbia. Marie Louise e Jean Paul ne sono un esempio. Sono insieme, marito e moglie, nonostante tutto e contro (l’iniziale) parere di tutti. Dopo il genocidio, hutu e tutsi non si potevano amare, né tanto meno sposare. Era unire la propria vita al nemico. Fra i ruandesi non c’è famiglia tutsi che non pianga qualche vittima, e non c’è famiglia hutu che non abbia qualcuno che ha partecipato al genocidio. Eppure, Marie Louise e Jean Paul. La loro storia d’amore ha quella forza simbolica universale che ci fa sperare. Chi ha visto le fosse comuni, le 8


chiese disseminate di corpi, le immagini di crudeltà prodotte dal genocidio del 1994 può comprendere fino in fondo che anche la ferocia più efferata e le ferite che lascia possono essere superate, riconciliate, risanate. Quella patina di civiltà e di rispetto, seppure sottile e fragile, ha la capacità di ricostruirsi e di diventare più forte. Nel caso di Marie Louise e Jean Paul quel cemento proviene di certo dall’amore reciproco, ma anche dalla loro fede cristiana. Chi volta pagina e inizia a leggere questa storia difficilmente riuscirà a fermarsi e a chiudere il libro. Perlomeno a me è capitato così, ho posato il manoscritto quando albeggiava. Jean Paul mi deve una notte insonne. Milano, 3 marzo 2021

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Nonostante la paura


Nota dell’editore ll diario che qui pubblichiamo è stato sottoposto al vaglio di una commissione redazionale composta dalla curatrice del libro e dai responsabili della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che hanno definito i criteri di pubblicazione e hanno approvato il risultato editoriale. La normale operazione editoriale di revisione di un testo necessita di cure particolari nel caso di diari, memorie ed epistolari; per questo motivo, i criteri adottati variano in relazione al tipo di testo autobiografico pubblicato.


Il primo giorno Dal mese di aprile fino al mese di luglio, in Ruanda ci fu un genocidio contro i tutsi. Il 7 aprile, giorno successivo all’abbattimento dell’aereo presidenziale fortunatamente nessuno è venuto a cercarci a casa. Mio padre, faceva il commerciante; quel giorno non andò al lavoro sebbene fossimo nel periodo delle vacanze pasquali. L’8 mattina, il custode del suo negozio venne ad avvisarci che lo avevano bruciato e gli chiese di recarsi sul posto per salvare il salvabile. Rendendosi conto che si trattava di una trappola, mio padre decise di non muoversi e rimanere a casa. Avevamo anche una fattoria con delle mucche; qualche ora dopo venne da noi lo stalliere dicendo che avevano ucciso tutte le mucche. Anche in questo caso mio padre si rifiutò di uscire. Verso le 11, arrivarono alcuni parenti affermando che alcuni hutu avevano iniziato ad ammazzare i tutsi. La paura ebbe il sopravvento e a quella notizia mio papà decise di voler vedere di persona cosa stava succedendo. Uscì tornando dopo un paio d’ore confermandoci quanto avevamo sentito: gli hutu stavano ammazzando i tutsi. Era l’ora di pranzo ed eravamo tutti a tavola quando sopraggiunsero in parecchi; anche loro allarmati ci informa13


rono che tutti i tutsi erano già fuggiti, insistendo affinché li seguissimo: fuggimmo lasciando il cibo ancora caldo nei piatti. Fu l’ultima volta che vidi mio padre. Ci radunammo in un grande piazzale e in pochi minuti ci trovammo stipati tra una moltitudine di persone. Poi, verso le 14.30 si udirono degli spari; non capivamo da dove venissero. Appena ci sembrarono avvicinarsi fuggimmo, correndo a perdifiato senza sapere bene dove eravamo diretti: d’istinto correvamo nella direzione opposta agli spari. Alcuni hutu non avendo ben capito cosa stava accadendo si misero a correre anche loro, ma ben presto seppero che la “preda” eravamo noi e si tranquillizzarono. Nel frattempo esplodevano qua e là granate e ovunque la gente correva alla disperata ricerca di un posto sicuro. Discutevamo. Nel fuggi fuggi generale una voce di donna si impose, riportandoci alla calma e chiedendo di ascoltarla. Spiegò che durante gli scontri del 1959 la parrocchia costituì un ambiente sicuro dove trovare rifugio; “Conviene andare tutti là”, affermò con sicurezza. Le parole della donna suscitarono forti discussioni: chi sosteneva che era meglio nascondersi nelle vicine piantagioni di tè e chi riteneva più sicura la parrocchia. Cominciava a imbrunire e una decisione andava presa: optammo per la protezione di Shangi, la nostra parrocchia a quasi un’ora e mezzo di marcia. Quei giorni nella parrocchia di Shangi Avevo dieci anni e fino ad allora mi ero recato in parrocchia per assistere alla Santa Messa o a servire Messa come chierichetto; non avrei mai immaginato che un giorno ci sarei andato per trovarvi rifugio. Ci incamminammo. Per non dare nell’occhio attraversammo campi e piantagioni di fagioli e di mais, procedendo a salti, tanto le piante 14


erano fitte. A poco più di un chilometro, decidemmo di proseguire sulla strada pensando ingenuamente che nessuno ci avrebbe riconosciuti. Fu il nostro aspetto a tradirci: non avevamo abiti puliti e curati come solitamente la gente indossa per andare in chiesa bensì scarpe inzaccherate di fango, abiti macchiati di terra, di erba e i capelli pieni di pagliuzze e foglioline. Fu così che quando arrivammo all’hangar tra Bushenge1 e Shangi,2 un gruppo di Interahamwe3 ci fermò chiedendoci i documenti di identità. Io, non avevo ancora i sedici anni necessari per averli e gli altri, essendo tutsi come me, preferirono mentire per non farsi riconoscere etnicamente e rischiare così la vita. Affermammo di non esserne in possesso. La cosa ci giovò ben poco. Gli Interahamwe iniziarono a sbraitare per spaventarci, accusandoci di aver assassinato Habyarimana; dicevano che eravamo in fuga per questo motivo. In realtà volevano intimorirci per derubarci. Ognuno di noi offrì ciò che poteva: chi non aveva soldi consegnò cappotti, maglioni, felpe, scarpe, le borse delle ragazze, bracciali e orologi: rimanemmo in camicia e pantaloncini. Infine e per fortuna ci lasciarono andare e, sebbene tristi e malconci, continuammo la nostra marcia. Arrivammo a Shangi intorno alle 7 di sera: la chiesa era deserta ma il cortile affollato. Ovunque si sentiva il 1 Bushenge: è il nome di uno dei quartieri che componevano il Comune che all’epoca si chiamava Gisuma. In questo quartiere si trova ancora oggi il mercato di Bushenge e l’ospedale. L’hangar di cui si parla si trovava vicino al mercato verso la parrocchia di Shangi. 2 Shangi: è il nome della mia parrocchia e fa parte delle parrocchie della diocesi di Cyangugu. 3 Interahamwe significa in kinyarwanda “coloro che lavorano insieme”. Era una milizia paramilitare hutu formatasi nel 1994 che inizialmente costituì l’ala giovanile del Movimento Repubblicano Nazionale per la Democrazia e lo Sviluppo (Mrnd) durante il genocidio dei tutsi in Ruanda, il termine andò a indicare qualsiasi persona che uccideva i tutsi.

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parlottio di persone cariche di beni di prima necessità alla ricerca di un posto dove sistemarsi. Alcuni si erano portati mucche, capre e agnelli; altri, abiti, lenzuola e viveri. Ci dirigemmo verso il cortile dove il parroco, padre Calixte Shyirakera, un tutsi di Giheke,4 camminava avanti e indietro irrequieto; sembrava molto preoccupato. Anni dopo, venni a sapere che la sua famiglia fu quasi interamente sterminata e compresi il motivo della sua preoccupazione. Mentre cercavamo una sistemazione per la notte, ritrovai il mio fratellino Vincent di soli sette anni; tre meno di me. Era appena arrivato con un gruppo di sconosciuti; ci eravamo persi poco prima nel fuggi fuggi generale, durante le sparatorie. Vincent, i cuginetti Kazungu e Martin, erano scappati con alcuni mentre io, il cugino Théobald Nyirinkindi, fratello maggiore di Martin, ci ritrovammo con altra gente. Finalmente insieme, ci raccontammo delle nostre disavventure. La sera era calata, avevamo bisogno di una sistemazione ed eravamo affamati come lupi; un rifugio lo trovammo nella sala Conferenze ma, per quietare i brontolii dello stomaco, non ci fu nulla da fare. Passammo la notte senza chiudere occhio a causa del via vai ininterrotto di persone tra il cortile e le stanze della parrocchia. Per di più, nella speranza di ritrovare i nostri genitori tra i nuovi arrivati, prestavamo attenzione a ogni rumore e a ogni movimento, e ciò non favoriva di certo il sonno. Rivedemmo solamente alcuni cugini e la famiglia di Kagina Damas tranne la figlia Jeannette, rimasta a scuola e che più tardi, si venne a sapere che era stata uccisa con le sue compagne di classe. Gli altri rifugiati della parrocchia ci erano sconosciuti; molti raccontarono fatti di grande violenza ed efferatezza: quel giorno ascoltammo cose che non 4 Giheke: è un nome di uno dei settori (zone) che componevano il Comune di Gisuma.

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avremmo mai potuto immaginare. Verso le 3 arrivò anche Antoine, e ci informò su ciò che era avvenuto qualche ora prima a Shangazi.5 Il racconto di Antoine Solo a guardarlo si intuiva il dramma al quale Antoine era miracolosamente scampato: aveva l’aspetto sconvolto e un piede sanguinante e lacerato. Spiegò che, mentre le donne cercavano di scappare coi bambini, lui si unì ad altri tutsi del nostro villaggio per combattere gli Interahamwe di Rwamahwa (un villaggio vicino), venuti espressamente per uccidere. Era venerdì 8 aprile del 1994, data indimenticabile. Antoine raccontò che i nostri uomini resistettero per l’intero pomeriggio prendendoli a sassate finché gli spari, quelli che ci misero in fuga, annunciarono l’arrivo dei poliziotti venuti in sostegno degli aggressori chiamati segretamente dagli stessi Interahamwe quando videro che espugnare Kanazi6 risultava più difficile del previsto. 5 Shangazi: è il nome di un piccolo centro dove si trovano bar e negozietti sito nel villaggio di Kanazi. 6 Prima del 1994, in Ruanda le aree urbane erano suddivise nel seguente modo: a. La Cellula (Serire in kinyarwanda). La mia era chiamata Kanazi. Era gestita da un responsabile. Al suo interno potevano esservi ulteriori quartieri come, ad esempio, Shangazi e Mubacura, di cui parleremo più avanti. Spesso i toponimi si rifacevano a nomi storicamente significativi. Ad esempio il nome del mio quartiere, Mubacura, deriva da Nyamucura, uno dei miei antenati. Shangazi, invece deriva dal fiume che costeggia il quartiere. b. Settore (Segiteri). Sopra la Cellula avevamo il Settore. Il mio si chiamava Rusambu ed era governato da un consigliere (Konseye). c. Comune (Komine). Sopra il Settore veniva il Comune. Gisuma era il nome del mio. Il Comune era governato da un sindaco (burugumesitiri derivato dal francese bourgmestre). d. Sottoprefettura. Era governata dal sottoprefetto. e. Prefettura. Più in alto, si trovava la Prefettura; la mia era Cyangugu. f. Infine, la nazione, cioè il Ruanda.

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L’incontro con Antoine mi permise di ricostruire i fatti con una certa precisione: quella mattina mio padre si era allontanato con altri uomini; al suo ritorno, mentre cercava di spiegarci ciò che stava accadendo, si udirono voci che con tono allarmato incitavano ad abbandonare le case e fuggire. Arrivò il sindaco Gakwaya Callixte seguito da un pick-up carico di poliziotti armati che, circondarono Antoine e tutti coloro che erano con lui, ordinando di rimanere in piedi con le mani in testa. Poi, in fila indiana, li condussero poco distante in un negozio di Shangazi di proprietà tutsi, rinchiudendoli all’interno. Poi i poliziotti spararono in aria come segno di incoraggiamento agli Interahamwe incitandoli a darsi da fare e se ne andarono lasciando un bidone di benzina per incendiare il negozio e bruciare i tutsi rinchiusi al suo interno. Capendo che stavano per morire bruciati vivi, in molti persero il controllo e, colti dal panico, cercarono disperatamente una via di scampo. Con un martello fracassarono la porta e cominciarono a uscire all’impazzata. Alcuni furono uccisi sulla soglia del negozio trafitti da lance o da coltelli, altri ancora colpiti con bastoni chiodati (il bastone-mazza ubuhiri che loro chiamavano ntampongano), altri ancora vennero fatti letteralmente a pezzi a colpi di machete. Su una cinquantina di persone si salvarono in pochissimi; tra essi Antoine che fuggì incolume tra superstiti urlanti e disperati. Venne inseguito da un Interahamwe che non riuscendo a raggiungerlo gli scagliò una lancia trafiggendogli un piede. Antoine estrasse l’arma e la rilanciò contro l’aggressore atterrandolo, continuando poi a correre a perdifiato fino a non udire più voci. Quella notte raggiunse anche lui la parrocchia. Sgomenti da quanto udito, ci informammo se nel negozio ci fossero dei nostri parenti. Io gli chiesi se era con mio padre: rispose di averne perso le tracce dopo l’arrivo dei 18


poliziotti e che stava con mio cugino Alfred Nkusi, ucciso mentre cercava di scappare. Il volto stanco di Antoine, il vederlo camminare a fatica, il piede ferito sporco di sangue coagulato e di fango e il suo modo di parlare lo faceva sembrare un essere di un altro mondo: cominciai a temere che anche la mia fine fosse molto vicina. Erano quasi le 4.30 del mattino e Antoine era stremato, perciò lo lasciai riposare e raggiunsi mio fratello che si era addormentato in un angolino poco distante. Verso le 6 del mattino mi svegliarono le voci della gente che, irrequieta e timorosa, si consultava sul da farsi. Avevo fame: il mio stomaco era vuoto da due giorni e la mia mente corse alle arance del rigoglioso giardino parrocchiale. Avevo sempre guardato con bramosia quei frutti belli tondi e succosi, tuttavia rubare le arance della parrocchia, equivaleva a rubare a Dio e nessuno di noi, pur frequentando spesso la parrocchia, ebbe mai il coraggio di toccarle. Alla fine, la fame dissipò ogni timore divino: entrai con cautela nel giardino, ne staccai cinque belle e grandi, le nascosi nella felpa e le portai a Vincent, Théobald, Martin e Kazungu; le divorammo in un baleno. Nel vederci, altri ebbero la nostra stessa idea legittimando, in un certo senso il nostro piccolo furto; entrarono nel giardino, e noi li seguimmo a ruota: in un paio d’ore gli aranceti furono completamente spogli. Man mano in parrocchia arrivavano altre persone e malauguratamente, da lì a poco anche Interahamwe giunti sul posto seguendo i profughi. Dall’esterno gridavano di voler uccidere solo gli uomini, ma all’interno, fuggiaschi come Antoine, ben sapevano di quale morte orribile sarebbero dovuti morire e cercarono di reagire. In parrocchia non avevamo nulla per difenderci se non dei semplici sassi peraltro poco numerosi, mentre gli Interahamwe erano armati fino ai denti con fucili, granate, machete e legni chiodati. Resistemmo rispondendo a sassate. La nostra 19


strategia difensiva funzionò e li tenemmo a bada per alcuni giorni mentre continuavano a minacciare sbraitando che per noi sarebbe meglio essere uccisi piuttosto che morire di fame; vi fu un momento in cui io stesso mi chiesi se in fondo non avessero ragione. Circondarono la parrocchia con delle barriere bloccando ogni possibile via di fuga, poi recisero i tubi dell’acquedotto che alimentava la parrocchia; fu l’inizio dell’inferno: scoprimmo che sete e fame insieme procurano una sofferenza difficile da spiegare e che fa perdere ogni controllo. Per sopravvivere masticavamo foglie di umutumba w’insina (banano) e ne succhiavamo la linfa dai tronchi oppure bevevamo acqua piovana, quando il cielo lo consentiva. Eravamo stremati. Verso le due di notte, sperando che gli Interahamwe dormissero, alcuni tentarono la fuga, ma senza fortuna: gli aggressori riposavano a turno e chi vegliava, controllava le uscite bevendo e cantando fino a ubriacarsi. Un giorno, arrivarono delle suore Pénitentes di San Francesco d’Assisi che da anni gestivano una scuola superiore poco distante: loro si potevano muovere liberamente sia perché erano sempre scortate da gendarmi, sia perché essendo hutu, non correvano alcun pericolo. Mio cugino Bertin e sua sorella Donatha, le informò della presenza di altri parenti tra i quali il sottoscritto. Per un attimo sperai che mia cugina Théodette entrata nella congregazione da alcuni anni, fosse con loro. Le suore rientrarono al loro convento tornando un paio d’ore più tardi con una scorta ben armata: erano venute a prenderci. Sebbene la parrocchia si trovasse a meno di mezzo chilometro e quindi poco più di una passeggiata, per noi le cose furono ben più complicate e se siamo sopravvissuti lo dobbiamo alle suore, vere eroine a tutti gli effetti. I gendarmi camminavano sulla strada di poco rialzata rispetto ai campi dove passavamo noi. Appena intuivamo un possibile pericolo, 20


a un segnale concordato, ci abbassavamo rimanendo immobili mimetizzati tra la vegetazione. Proseguimmo a tappe percorrendo non più di una decina di metri alla volta. Per quel breve tragitto ci volle un’ora ma, finalmente, arrivammo al convento. Nel convento Ci trascorsi una settimana e presto mi resi conto di vivere in un mondo diverso: mentre la parrocchia era abbandonata a se stessa, il convento era protetto da gendarmi. Gli ospiti erano quasi tutti parenti delle suore. Io non conoscevo nessuno ma mi sentivo al sicuro, sebbene tutti consigliassero di non esporci troppo perché, dicevano, era meglio non fidarsi. Passammo le giornate chiacchierando e ascoltando radio Rtlm7 che diffondeva messaggi sempre più inquietanti: lo speaker incitava la gente a uccidere gli “scarafaggi”, come in quel tempo venivano chiamati i tutsi, fornendo anche suggerimenti sui metodi più efficaci per scoprirne i nascondigli e per sterminarli. Consigliavano di servirsi di cani da caccia, di battere sistematicamente i boschi, le piantagioni di tè e di caffè. Sentii persone vantarsi del numero di tutsi trucidati gareggiando su chi ne aveva uccisi di più e con maggiore efferatezza. Tra le persone incontrate in questo convento, ricordo un gruppo di operai uccisi due mesi dopo a Nyarushishi. I ragazzi più grandi come François, Léonce, Donatha anche loro liceali, Delphine e Cecile tutti tra i diciassette e venti anni, cercarono di spiegare a noi piccoli cosa stesse succedendo nel nostro Paese. Fu lì che per la prima volta sentii la parola “genocidio” mentre François ci raccon7 Radio Télévision Libre des Mille Collines.

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tava dei nazisti che tentarono di eliminare gli ebrei semplicemente perché erano ebrei, spiegandoci che anche loro furono uccisi in modo simile a ciò che stava avvenendo da noi. François paragonava i nazisti agli Interahamwe che volevano fare piazza pulita dei tutsi. Di tanto in tanto, sentivamo gli aggressori urlare a squarciagola: era una strategia per stanare i tutsi terrorizzandoli con grida belluine fino a spingerli alla fuga per freddarli all’istante. Per sfuggire ai predatori la gente si nascondeva in luoghi apparentemente inaccessibili come zone boschive, fitte di rovi spinosi o con l’erba molto alta. Era in questi casi che entravano in azione i cani da caccia considerati dai tutsi il loro nemico numero due dopo gli Interahamwe. Come in una normale battuta di caccia i cani, una volta localizzata la preda, abbaiavano, immobilizzandola. In quella settimana sentimmo con inquietante frequenza le urla degli Interahamwe sovrapporsi ai latrati dei loro cani che indossavano l’amayombo (collare munito di sonaglio) utilizzato tradizionalmente durante la caccia per rintracciare il proprio cane seguendone il tintinnio. Non mi sono mai capacitato di come siano riusciti in così breve tempo ad allenare quegli animali a cacciare persone anziché selvaggina. In convento ci sentivamo abbastanza sicuri ma sapevamo che fuori, a poche decine di metri, si moriva in continuazione. Non posso cancellare dalla mia mente il ricordo di un disperato che venne a chiedere aiuto. Gli assassini lo rincorrevano preceduti dai latrati dei cani gridando: “Nimumufate, nimumufate, nimumufate!” (“Prendetelo, prendetelo, prendetelo!”). Miracolosamente l’uomo scavalcò il muro del nostro cortile e ce lo trovammo davanti: alto, sporco con la barba non rasata da giorni. Ci guardava impaurito quanto noi. Alcuni ragazzi fuggirono verso il dormitorio. Io e pochi altri restammo 22


lì a fissarlo. Era senza fiato, la sua voce flebile e non si capiva bene quello che diceva. Solo la sua richiesta di aiuto ci fu chiara anche se appena sussurrata. Fuori dal cortile gli assassini litigavano rimbalzandosi la colpa di averlo lasciato scappare e discutendo animatamente dove si fosse nascosto, mentre i cani continuavano ad abbaiare fermi sul punto in cui l’uomo era passato. Due suore prese dal panico pregarono il malcapitato di andarsene spiegandogli che se fosse rimasto, gli assalitori avrebbero invaso il convento mettendo a rischio l’incolumità di tutti quanti. Fu lì che compresi il significato del detto ruandese “Iyo amagara atewe hejuru umwe asama aye undi agasama aye”, ovvero: “Quando la salute viene lanciata in aria, ognuno prende la sua”; cioè, di fronte a un rischio imminente per la vita, ciascuno cerca di salvare la propria. Sapendo ciò che stava avvenendo là fuori, sentire le suore cacciare quel poveraccio, mi turbò molto. Col terrore negli occhi il malcapitato ascoltava immobile le suore intimargli con veemenza di andarsene: era combattuto tra il restare a tutti i costi oppure sparire salvando la vita ai rifugiati presenti in convento. Decise di tornare sui suoi passi: forzò i rami della staccionata e vi si infilò uscendo dall’altra parte. I cani lo localizzarono in un baleno, e tra i latrati sentimmo gridare: “Nguwo, nguwo!”, (“Eccolo, eccolo!”). E subito dopo: “Nimuntabare weee, Nimuntabare weee!” (“Aiutooo, aiutooo, aiutooo!”). Poi il silenzio della morte. Mi domandavo come fosse possibile che, donne votate a nostro Signore, non accettassero quel rischio, visto che per scelta avevano messo la loro vita nelle mani di Dio? La risposta mi venne dalla loro stessa paura quale denuncia della loro fragilità: la debolezza umana ebbe il sopravvento impedendo loro di salvare quell’uomo. Tuttavia, diversamente dall’uomo, le suore ci ospitarono per 23


più di una settimana sebbene la nostra presenza costituisse un pericolo. L’episodio di quell’uomo cambiò radicalmente la vita del convento. I guardiani riconobbero nell’arrivo dello sconosciuto un doppio rischio: finire tutti nelle mani degli Interahamwe e che anche lui poteva essere un malintenzionato, un criminale o un assassino. Perciò imposero regole comportamentali molto più severe controllando il convento per intero con frequenza maniacale vietandoci di uscire in cortile, nemmeno per prendere un po’ di sole e obbligandoci a trascorrere le giornate nel dormitorio in attesa della cena. In convento strinsi amicizia con Jef, un ragazzo più o meno della mia età con cui ci scambiavamo i racconti delle nostre disavventure. Lui mi parlava dei suoi genitori uccisi e io dei miei parenti di cui non avevo più avuto notizie da un pezzo. Un giorno lo trovai in lacrime perché avevano ucciso lo zio, padre Joseph Boneza, viceparroco della parrocchia di Mibilizi. Mi resi conto all’improvviso che la fiducia che riponevo nella protezione dei nostri parenti ecclesiastici, era infondata. L’uccisione di padre Boneza mi scosse come un terremoto; vidi sgretolarsi i valori in cui avevo fermamente creduto perché fino a quel momento ero certo che nessuno potesse attentare alla vita di un sacerdote, figura vista come sacra e inviolabile nella cultura ruandese; ma evidentemente in quei tempi oscuri, non c’era più nulla di sacro. I valori fondanti della nostra cultura erano divelti dalla furia degli eventi: “Se hanno ucciso anche padre Boneza vuol dire che nessuno potrà salvarsi”, pensai e mi convinsi che fosse morta anche suor Théodette che invece ritrovai dopo il genocidio. Le riserve alimentari del convento stavano finendo. Le suore ridussero man mano le razioni di cibo fino a doverci accontentare di un cucchiaio di minestra a testa, 24


giusto per non morire di fame. Fortunatamente l’acqua non mancava e per riempirci la pancia bevevamo in continuazione e cercavamo di dormire il più a lungo possibile per scacciare i morsi della fame. Nonostante tutto eravamo contenti perché solo da pochi giorni soffrivamo sia la sete che la fame in quanto in parrocchia era difficile trovare sia il cibo che l’acqua. In convento eravamo tranquilli, e questo ci bastava. Il 29 aprile 1994 un gruppo guidato da un certo Yusufu arrivò a Shangi sparando all’impazzata su tutto e su tutti. Dall’interno del convento sembrava che gli spari fossero diretti a noi e dalla paura ci mettemmo a correre in ogni dove cercando di salvarci; alcuni si rifugiarono nel giardino delle suore, altri nel bosco esterno, altri ancora nella vicina piantagione di ananas. Da tempo la parrocchia era affollatissima perciò ai primi spari fu il caos totale: la gente impazzita correva disordinatamente qua e là; anch’io scappai cercando di uscire dal cortile del convento ma dopo pochi passi, travolto dalla folla in fuga, inciampai e mi ritrovai con la faccia a terra mentre sentivo cadere su di me i corpi dei fuggiaschi falciati dai fucili e dai machete. Schiacciato dal loro peso mi sentivo soffocare; sopra di me alcuni feriti invocavano aiuto ma, al canto di “iye tubatsembatsembe!” (“Oh, ah, uccidiamoli tutti!). Gli Interahamwe li freddarono all’istante. Rimasi immobile, sotterrato dai cadaveri per un tempo che mi sembrò infinito. Dopo due, forse tre ore, sentendo solo i lamenti di chi era ancora in agonia, mi feci spazio e con circospezione mi diressi al convento nascondendomi tra la vegetazione: dietro le spalle lasciai i corpi maciullati, sventrati, amputati ancora sanguinanti. Ero sopravvissuto e dovevo ringraziare Dio.

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