Sulle orme dei giganti

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DARIO PEDROTTI SULLE ORME

DEI GIGANTI

L’arte di correre nelle terre alte

© 2024 Cart’Armata edizioni Srl

Terre di mezzo Editore via Calatafimi 10, 20122 Milano Tel. 02-83.24.24.26 e-mail editore@terre.it terre.it

Direzione editoriale: Miriam Giovanzana Coordinamento editoriale: Giuseppe Favi

In copertina: Dolomiti © Cavan Images/Adobestock

Prima edizione italiana: gennaio 2025

Stampato da Rubbettino print, Soveria Mannelli (CZ)

Questo prodotto è composto da materiale che proviene da foreste certificate FSC® e da altre fonti controllate.

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Anno 2029 2028 2027 2026 2025

Alla mia mamma, al mio papà e alla Gioia

Non mi piace correre. Non sono una di quelle persone a cui la corsa provoca un tale piacere da indurle a praticarla indifferentemente in pista, sull’asfalto o addirittura sul tapis roulant. Se alla soglia dei cinquant’anni riesco ancora ad allacciarmi le scarpe e uscire ad allenarmi tre o quattro volte alla settimana, è solo perché ho scoperto il trail running: è la bellezza di quello che provo durante una gara o un lungo allenamento a spingermi prima fuori di casa e poi su, di corsa lungo i sentieri. Il trail running, nelle gare e ancor più negli allenamenti in solitaria, è una forma di meditazione in movimento. Bellezza e natura, ora dopo ora, penetrano sotto pelle, e la mente riesce a poco a poco a librarsi in volo e staccarsi dalla quotidianità, permettendoti, anche solo per qualche istante, di osservare la tua vita dall’alto e di comprendere cose che prima ti sfuggivano. Questo modo di correre è anche un forziere ricco di piccoli ma inestimabili tesori. A prima vista, nessuno di loro è indispensabile, eppure, dopo averli scoperti, ti rendi conto di quanto siano straordinariamente preziosi,

e ti scopri a ricordarli con un sorriso sognante quando meno te lo aspetti.

Un incontro con un camoscio, una marmotta o un altro animale selvatico che hai disturbato mentre attraversavi il suo salotto, ti fa percepire a un livello profondo che fra voi esiste uno strettissimo legame.

Un ginocchio sbucciato non è certo piacevole, ma ti riporta in un istante ai giorni in cui pedalavi sulla tua biciclettina o giocavi a prendi e scappa, ed eri semplicemente, perfettamente felice.

Una foto scattata in gara mentre corri in un posto magnifico, con gli occhi colmi di gioia, ti fa sentire le stesse emozioni lungo la spina dorsale ogni volta che la riguardi.

Bere a piene mani l’acqua gelata di un ruscello di montagna quando la sete ti arde la gola ti regala sensazioni impagabili, che nessuna bevanda è in grado di eguagliare.

La luce che precede l’alba profuma di origine del mondo, ed è ancora più forte quando, da solo, sali lento nel silenzio più totale e la vedi espandersi dietro catene di cime incantate.

Il rosso di un tramonto che incendia le cime circostanti ti annuncia grandiosamente che il mondo sta per andare a dormire. E tu no.

Una notte tutta tua, senza che a tenerti sveglio sia una festa o un dolore, la trascorrerai nel buio di un bosco o sotto la luna piena su una cresta a 2.000 m, a combattere i tuoi fantasmi o inseguire i tuoi sogni.

Qualche ora di pioggia scrosciante, che infradicia i vestiti e risciacqua l’anima, ti fa sentire più bagnato e più vivo che mai.

Il trail running può farti molti regali stupendi, ma non ti rende una persona migliore. Non c’è niente di eroico

nel terminare una cento miglia con 10.000 m di dislivello o nel portare a termine il famoso Tor des Géants. Ci sono mille occasioni nella vita di tutti i giorni che richiedono molta più forza d’animo di quella necessaria per concludere il Tor: lo sa benissimo chiunque abbia perso il lavoro, abbia un parente ammalato o debba “semplicemente” crescere dei figli. Quante volte capita di dover “andare avanti” anche se non ce la fai più, stringere i denti perché nessuno può darti una mano, quando l’unica cosa che vorresti fare è lasciar perdere e riposare. Il trail invece è solo un gioco: non ci sono conseguenze per chi si arrende, la peggior sanzione è una brutta figura con gli amici o una piccola ferita nell’orgoglio. Non sei arrivato al gonfiabile dell’arrivo, non ti daranno il premio di “finisher”, forse ci riproverai, forse no, ma finisce tutto lì. Niente tragedie, niente lancinanti sensi di colpa o eterni rimpianti: era solo un gioco.

Non è vero neppure che il trail running ti insegna a spostare i tuoi limiti più in là: non accade neanche se termini il Tor, anzi, non accade soprattutto se termini il Tor. Se ti presenti a una gara dove per qualche giorno e qualche notte starai in giro per i monti, è decisamente il caso che i tuoi limiti siano già un bel po’ in là. Non sarebbe affatto piacevole scoprire alle due del mattino, sotto la pioggia e con un paio di gradi sotto zero, che non ce la fai, e i tuoi limiti non hanno nessuna intenzione di spostarsi da dove sono. In un 10.000 in pista o in una mezza maratona in città puoi anche dire “o la va o la spacca” e partire lancia in resta. In montagna, è decisamente meglio di no.

Il trail running è una palestra, ma è una palestra al tempo stesso esigente e generosa. È vero che puoi scegliere di ritirarti senza conseguenze, ma non puoi farlo in qualsiasi momento. Potresti essere stremato e assolutamente certo che non abbia più nessun senso andare

avanti, ma ritrovarti in un posto dove non puoi comunicarlo ad anima viva, ed essere costretto a proseguire o a fare marcia indietro per due, tre, quattro ore prima di poter davvero gettare la spugna e ritornare a casa. Però, a meno che tu non stia davvero molto male (in tal caso qualcuno che viene a recuperarti c’è sempre), in quelle due, tre, quattro ore potresti scoprire che non eri finito davvero, e che quella che sembrava la fine era solo un momento di debolezza, magari tremendo, ma passeggero. Nella vita circostanze simili sono rare: trovarsi davanti a quello che si pensava fosse il proprio limite, costretti a chiedersi per ore se lo è davvero, prima di arrendersi una volta per tutte. Il trail non ti rende una persona migliore, ma spesso ti fa capire di essere una persona migliore di quello che pensavi: di essere più forte, nel fisico e nella mente, di quanto la vita ti aveva spinto a credere. È un gran bel regalo, anche se spesso sono necessari molti trail per convincersi fino in fondo. Come in tutte le esperienze molto intense ed autentiche, il vero problema del trail running può essere “il dopo”. Se quei 90, 150, 350 km con la testa fra le nuvole ti hanno permesso di fare il pieno di bellezza, sensazioni, connessione con te stesso, quello che ti aspetta una volta tornato a casa deve essere “all’altezza” di quello che hai vissuto, perché non basterebbero quattro Tor all’anno per dare gusto a una vita che non ne ha. Io mi considero fortunato perché la mia è abbastanza piena di cose vere da non farmi sentire il bisogno di essere sempre al Tor per sentirmi vivo, ma mi lascia lo spazio mentale sufficiente per aver voglia di queste cose, e il tempo necessario a coltivarle.

Il problema, per me, è sopravvivere ai periodi di stop forzato. Mia moglie dice che “mi intristisco”, in realtà quella che inizialmente è una sottile malinconia, con il

passare delle settimane si trasforma in una nostalgia struggente. Non della corsa, di tutto il resto.

Scriverne è un modo per cercare di condividere tutta questa bellezza con altri e altre, e magari per far venire voglia a qualcuno di cercare il proprio sentiero.

Adamello Ultra Trail

La mia prima cento miglia

174 KM – 11.500 M D+

Si dice, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo, che gli eschimesi abbiano un gran numero di parole per indicare la neve. Quel che è certo, è che i trail runner non si sono lasciati contagiare dalla mania classificatoria dei popoli artici, e per definire la loro disciplina hanno coniato appena due termini: “trail” per le corse fino a 42 km, “ultra trail” per tutte le altre. Così esistono “ultra” appena sopra la distanza della maratona e altre interminabili.

Quella dell’Adamello, con i suoi poco più di 170 km, mette ben quattro maratone l’una in fila all’altra, rese ancor più frizzanti da poco meno di 3.000 m di dislivello con un fondo talmente accidentato da far desiderare l’asfalto più di una birra ghiacciata a gente che di solito vorrebbe cancellare il bitume dalla faccia della terra.

Per me è la prima “cento miglia”, distanza storica del running statunitense, che anche da questa parte dell’oceano viene proposta spesso ed è la più dura su cui cimentarsi, fatta eccezione per il Tor e pochissimi altri percorsi. A fare la differenza rispetto alle distanze minori non sono tanto la lunghezza o il dislivello, quanto il fatto che alla

maggior parte dei partecipanti, una cento miglia richiede di affrontare due notti in gara: una spetta a tutti per intero, mentre la durata di veglia dell’altra dipende dal livello del corridore: ai più bravi il privilegio di andare a dormire prima.

Per schierarmi al via dell’Adamello Ultra Trail arrivo in Val Camonica, con il minimo sindacale della preparazione e della consapevolezza, curioso di misurarmi con una distanza del genere, ma ancora molto inesperto nella gestione delle notti, e in fase più che sperimentale per quanto riguarda un’alimentazione di gara diversa da quella offerta ai ristori. Per quanto mi riguarda, correre distanze come questa è come salpare per il mare aperto: davanti non vedi un’altra costa a cui puntare; tutto quello che sai è che stai partendo e vorresti arrivare a destinazione, ma se ce l’hai fatta lo scoprirai solo alla fine.

Per raggiungere Vezza d’Oglio mi affido all’autostop, perché i mezzi pubblici che partono dal Trentino mi lasciano al Passo del Tonale, ma poi non c’è nulla per scendere a Ponte di Legno. Dopo un tempo di attesa ragionevole, impiegato guardandomi in giro a caccia delle bandierine della gara che passerà anche da lì, mi raccolgono due turiste americane che stanno scorrazzando per il nord Italia con una macchina a noleggio. Gli scambi durante il viaggio sono ridotti, un po’ perché il mio orecchio è poco abituato al loro accento, un po’ perché loro non capiscono cosa mi spinga a correre una gara del genere. Devo però ringraziarle per avermi scodellato a destinazione in tempo per recuperare il pettorale, utilizzare il buono pasto in una trattoria dove – mentre mi rimpinzo a dovere – faccio conoscenza con un atleta residente a Vienna (con cui rimarrò in contatto per anni), e infine presentarmi al briefing in perfetto orario. Fra le foto pubblicate nei giorni successivi sul sito della manifestazione, in quelle scattate

durante la presentazione ho un’aria parecchio preoccupata. E i motivi non mancano.

Il giorno dopo invece, sotto il gonfiabile della partenza sono semplicemente felice e commosso, anche se non so bene spiegarmi il perché. È vero, intorno a me ci sono tante piccole cose che scaldano il cuore: un cielo di un azzurro impareggiabile, aria fresca ma non fredda, tanta gente ma non troppa, un’organizzazione lussuosa ma a misura d’uomo. Inoltre, sulla porta della scuola materna campeggia dal giorno prima un cartello scritto a mano: “Domani mattina aspettiamo i bambini grandi e mezzani alle ore 8.45 per recarsi in piazza a vedere la partenza degli atleti della gara Adamello Ultra Trail – Grazie!!! –Le Maestre”. Devo aggiungere che un trail in autunno ha un sapore che quelli estivi non hanno: il retrogusto di un anno che volge al termine, e ti fa già percepire un pizzico della grande nostalgia che, nei mesi di buio invernale, avrai di giornate come questa, trascorse a correre fra la roccia e il cielo. Credo però che il nodo che mi stringe la gola abbia a che fare soprattutto con la sensazione di enorme privilegio che provo ad essere lì, davanti a quella finestra magica che per due giorni e due notti farà sparire tutto il resto della mia vita, per portarmi in un’altra dimensione, fatta di pietra, silenzi e panorami vastissimi. La partenza è alle 9.00, davanti ai bambini e alle bambine della scuola materna schierati a battere il cinque ad atleti e atlete. C’è chi la affronta a razzo, chi camminando, chi conoscendo già ogni curva del percorso, chi, come me, scoprendolo metro per metro. I primi passi salgono ripidi verso Cima Rovaia, dove una lunga trincea con vista sull’Adamello si imprime nella mente insieme al pensiero di quanto nella vita orrore e meraviglia si trovino spesso vicinissimi l’uno all’altra. Una breve corsa in quota sulle pietre e poi giù a capofitto: dopo 10 km le gambe sono

ancora freschissime e in Val Cané c’è il primo ristoro che ci aspetta. Subito si risale verso il trincerone della Bocchetta di Valmassa, quasi un chilometro di muraglione in pietra locale, costruito a secco con paziente e accuratissima tecnica a incastro: stupendo, se solo non fosse stato costruito per la guerra e non avesse offerto lo scenario per la morte di così tante persone.

Al trentesimo chilometro ecco il primo degli appuntamenti che ho fissato con me stesso mentre studiavo il percorso: è il laghetto di Monticelli, un minuscolo specchio d’acqua cristallina in cui si riflettono le montagne circostanti. È uno dei miei “appigli psicologici”, quei luoghi a cui puntare per provare a superare una crisi. Mentre divoravo i primi 1.500 + 1.000 m D+ con gli occhi sempre rivolti al gruppo dell’Adamello – illuminato dal sole, e già spolverato dalla prima neve dell’anno – la crisi non è arrivata, ma da giorni sognavo un bagno al laghetto. Un rapido spogliarello, perché a luglio si può correre con i vestiti bagnati ma a settembre a duemila metri non è il caso, e mi tuffo nelle acque gelide, con la fortuna di avere lì uno dei fotografi della gara, che mi regala alcune delle fotografie più originali della mia “carriera” di trail runner. Ho perso cinque minuti, ma mi sento come dopo mezz’ora di massaggi e, assieme all’asciugamano bagnato, mi sono messo nello zainetto un ricordo che porterò con me per molto tempo.

Dopo la lunga discesa e il tratto in piano verso il ristoro di Santa Apollonia – dove si attraversa la strada che porta al Passo Gavia reso celebre dal Giro d’Italia, al quale ora riesco a dare una posizione nel mondo – arriva la crisi che prima aspettavo, ma che adesso mi coglie a tradimento. Sto salendo i pascoli sconfinati che mi porteranno ad affacciarmi su Case di Viso, l’incantevole villaggio di pastori dove, oltre alla bellezza del luogo, troverò un piatto di pasta o di zuppa. Mi accorgo quando è ormai troppo tardi

che non è affatto una buona idea fare i conti di quanta strada ho fatto e di quanta mi aspetta: gli scenari sono splendidi e non mi sento troppo stanco, ma scoprire che sono solo a un quinto di distanza e dislivello totali fa malissimo al morale. Fatico più su quella salita che in quella precedente che era lunga il doppio, ma fortunatamente ci pensano Case di Viso e il suo ristoro a rimettermi in sesto prima della salita al rifugio Bozzi, dove arrivo quando il sole è già tramontato.

Il tratto successivo, un lunghissimo traverso in piano verso il Passo del Tonale, non è fra quelli che mi ero appuntato come “salvavita”, ma quei 10 km, corsi con una coperta di stelle sulle spalle, una sciarpa di silenzio attorno al collo e le gambe che hanno ancora voglia di spingere nonostante 60 km e 4.000 m D+ già percorsi, si rivelano uno dei momenti più intensi di tutta la mia vita.

Le sensazioni che provo si avvicinano molto a quello che molti “illuminati” descrivono quando parlano di estasi: totale presenza a sé stessi, piena unità fra corpo, mente e anima, profonda consapevolezza della grandiosa bellezza della vita, ma anche di tutta la sua sofferenza. Sono completamente solo e allo stesso tempo sono in contatto con ognuna delle persone della mia vita, con le loro gioie e con le loro difficoltà. È bellissimo correre lassù, e sento che non lo sarebbe altrettanto senza i chilometri già fatti e quelli ancora da affrontare.

La sosta al ristoro di malga Cadì mi riporta sulla terra, ma rimango abbastanza ispirato da raggiungere i 2.536 m del punto più alto della gara, il Monte Tonale Orientale, con una voglia di salire che supera di gran lunga la fatica. Subito dopo il passo, dove un volontario con la sua lucina ci aspetta per farci compagnia e avvisarci che sull’altro versante c’è ghiaccio, ci sarebbe un altro dei miei “psicoappigli”: si tratta della “città morta”, una fortificazione

militare austriaca della Prima guerra mondiale, quasi completamente smantellata ma ancora molto suggestiva. Peccato non aver fatto i conti con l’oscurità che non mi permette neppure di intravederla. Per fortuna a rincuorarmi pensano i volontari e le volontarie del ristoro di malga Strino, dove atleti e atlete vengono accolti da un manipolo di ragazzi accompagnati da una radio che sputa a volume sostenuto musica rigorosamente italiana dagli anni Sessanta a oggi: non tutti i pezzi sono memorabili, e il contrasto con le lunghe ore di silenzio appena vissute è straniante, ma l’entusiasmo è contagioso e provvidenziale, perché il Passo del Tonale sembrava a portata di mano, mentre mancano quasi 10 km prevalentemente in salita, avvolti dalle tenebre più fitte che come sempre tentano di entrare anche nella tua testa. Quando arrivano, le piste che scendono a Ponte di Legno sono una benedizione su cui lanciarsi con tutta la velocità che le gambe ancora concedono, e con l’impazienza dovuta all’imminente visita alla base vita, con ristoro, docce, massaggi e brande.

Nel pianificare la mia strategia di gara, avevo pensato che sarebbe stata una buona idea dormire un’oretta in palestra prima di ripartire. Purtroppo però, quando il compagno di viaggio con cui ho condiviso il tratto da malga Strino fino a lì si avvia nella zona delle brande, intravedo almeno una decina di persone sotto le coperte, e inizio a pensare alle posizioni che potrei guadagnare abbreviando la sosta. D’improvviso mi sento sveglissimo e, dopo aver indossato vestiti asciutti e puliti, aver mangiato un piatto di pasta ed essermi fatto fare un massaggio, riparto. Che non sia stata un’idea brillante inizierò a capirlo dopo poco tempo, ma sarà già troppo tardi.

Siamo già alla terza maratona, si riparte in salita e la pendenza è subito severa. Dopo un breve falsopiano, una pista da sci da salire lungo la linea di massima pendenza

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mi fa subito rimpiangere il materasso in palestra. Quando ci arrivo io è ancora buio, nessuna vista mi può aiutare a sopportare la fatica, sempre più pesante, lungo le interminabili zeta che portano alla Bocchetta di Casola, dove il passo si affaccia all’improvviso dietro una roccia dopo ben ventotto curve a gomito in 2 km. Una discesa mi riporta a fondovalle, aiutando le gambe ma non il morale, perché dopo la palestra di Pontagna si sale sul Monte Calvo: 6 km e 600 m di dislivello di fatica pura e cristallina, con oltre 100 km alle spalle che pesano in ogni parte del corpo, e ancora troppa strada davanti per iniziare anche solo a fantasticare sull’arrivo. A quanto pare gli organizzatori hanno pensato che chi è arrivato fin qui deve avere una tempra d’acciaio, oppure sta facendo una terapia d’urto per procurarsela. Così, dopo appena 2 km di discesa, si torna a salire per altri 400 m di dislivello, su un sentiero altrettanto ripido strappato ai pascoli e senza nessun particolare premio finale, se si esclude l’imbocco della discesa che porta al rifugio alla Cascata.

Qui inizia il sentiero per il Lago di Aviolo, un luogo più esclusivo di St. Moritz. Non ci sono soldi che tengano: per arrivarci bisogna guadagnarsi ogni metro su una scalinata infinita fatta di pietroni irregolari, suggestiva quanto micidiale.

Il lago sarebbe un altro dei miei psico-ristori, ed effettivamente la conca che lo ospita, con tanto di montagne imbiancate di neve fresca sullo sfondo, è davvero bellissima. Ma io ho esaurito ogni energia e come se non bastasse devo sostituire il bagno previsto con poco più di un pediluvio: fa troppo freddo per spogliarmi, e le mie gambe sono troppo indolenzite per permettermi di immaginare evoluzioni acquatiche. Il risultato è molto meno appagante e rigenerante di quello ottenuto al laghetto di Monticelli, e dopo il breve piano della conca ricomincio a salire al Passo

Gallinera: per pendenza e lunghezza è uno scherzo rispetto alla Bocchetta di Casola, ma ormai per me è troppo. Superato il passo e il bivacco giallo appollaiato poco dopo, impiego quasi un’ora a percorrere 2 km con 500 m D– su un sentiero ripido e pieno di sassi smossi, in cui posso fare scarso affidamento sulla stabilità delle mie gambe.

A malga Stain c’è uno squisito comitato di accoglienza, capeggiato da una guida alpina del posto in grado di raccontarti la storia di ogni sasso dei dintorni. L’unica cosa che sono in grado di chiedere è però un posto dove dormire per un po’. Loro mi concedono un vero letto in una splendida casetta in pietre a vista, e io mi permetto un’ora di sonno. Nonostante questo, copro i successivi 10 km di discesa fino a Edolo ad un’andatura talmente poco dignitosa che una bambina in attesa dei concorrenti all’ingresso del paese mi urla “Perché non corriiiiii? Ma sei ultimooooo?”. Sono troppo stanco per prendermela (e comunque no, non sono ultimo!), e proseguo verso il centro, dove decido di giocarmi la carta dell’“ammirazione” o forse quella della “pena”, e chiedo a una gelataia di regalarmi un cono due gusti per il mio status di “atleta in gara a 140 km dal via e a una quarantina all’arrivo”. Una delle due carte funziona, e mi presento al punto di controllo con il gelato in mano e un gran sorriso. A spegnerlo progressivamente penseranno i 1.000 m D+ verso malga Mola, ma l’importante ormai è continuare a mettere un piede davanti all’altro. E riesco a farlo, con passo molto, molto lento, ma inesorabile. Quando entro nella malga non sono che un lontano parente sfiancato della persona che era partita da Edolo, ma all’arrivo mancano ormai meno di 25 km e 700 m D+, e dopo aver mangiato un po’ riparto pieno di entusiasmo. Dopo un paio di chilometri e qualche lampo di avvertimento, inizia però a diluviare più di quanto il mio abbiglia-

mento semi-tecnico possa permettersi di reggere: il costosissimo guscio in goretex mi tiene perfettamente asciutto dalla vita in su, ma i ridicoli pantaloni “antipioggia”, recuperati in extremis solo per completare il materiale obbligatorio previsto dalla gara, mi lasciano in ammollo dalla vita in giù. È buio, fa freddo, sono solo. Il sentiero è stretto e sconnesso, la frontale sotto la pioggia fa quello che può e non è molto, ho le scarpe piene d’acqua: la paura inizia a farsi largo fra i miei pensieri, ma in questo momento non posso permettermela e la ficco in fondo ai calzini bagnati. Rimango concentrato e continuo a correre, e dopo mezz’ora arrivo al caldo del rifugio Mortirolo, dove c’è tanta gente e posso tirare un gran sospiro di sollievo. Mancano ancora 15 km all’arrivo, sono le tre del mattino, non ho calzini né mutande di ricambio (che comunque non rimarrebbero asciutti per più di un minuto), e guardando i concorrenti ripartire mi rendo conto di non avere nessuna voglia di ributtarmi fuori con loro.

Fortunatamente, l’eccesso di agonismo che mi aveva fatto saltare la dormita a Ponte di Legno deve essersi sciolto nella pioggia. Faccio due conti e capisco che posso tranquillamente ripartire al mattino rimanendo comunque nei cancelli orari, e chiedo se hanno un posto per dormire. Quando il gestore mi accompagna al piano di sopra e mi apre la porta di una camera, sul mio volto si dipinge un’espressione più estatica di quella che devono aver avuto Hansel e Gretel quando si sono trovati davanti alla casetta di marzapane: al centro della stanza troneggia un letto con un piumone alto venti centimetri che mi fa raggiungere il Nirvana.

Dopo la doccia caldissima, le cinque ore di sonno e la colazione da villeggiante, la mattina della domenica mi godo gli ultimi 15 km – una decina dei quali in discesa verso Vezza d’Oglio – quasi come se fossero i primi, stu-

pito di avere ancora così tanta voglia di correre nei boschi, e di avere la forza per farlo. Per la prima volta da quando corro gare dai chilometraggi indecenti, invece di giurare che non correrò mai più, ho il desiderio di tornarci l’anno successivo. Un po’ perché vorrei capire quanto posso migliorare con una gestione della gara più saggia, e un po’ perché sento che se l’autunno lo inizi in alta Val Camonica, con quei colori e quelle cime davanti, e con il calore straordinario del gruppo di volontari che organizza la gara, sentirai un po’ meno la mancanza dell’estate.

Quando taglio il traguardo nella piazza di Vezza d’Oglio, sono passate poco più di cinquanta ore dal via, molte più di quelle che avevo pensato di poter impiegare, ma senza mai perdere la voglia di arrivare in fondo, neanche quando, all’inizio della seconda notte, mancava ancora una maratona con 2.000 m di dislivello.

Un paio di settimane dopo l’Adamello Ultra Trail, mi è capitato di ripensare a quei due giorni, e di capire qualcosa di più. Per festeggiare il compleanno di un amico, mi sono trovato a 1.400 m di altitudine, dopo cena, sotto un limpido plenilunio. Era bellissimo, ma non quanto lo era stato il cielo notturno fra il rifugio Bozzi e il Passo del Tonale. Quel momento era incastrato fra un prima e un poi, fra il lavoro del giorno e il ritorno a casa della sera, fra i pensieri dell’oggi e quelli del domani che presto sarebbe arrivato. La prima notte di una cento miglia galleggia invece nel nulla. La partenza è già lontanissima, l’arrivo lo è ancora di più, e correre da solo nel buio ti svuota progressivamente di tutto quello che sei nella “vita normale”, senza riempirti di nient’altro. Lasciandoti con la sola compagnia di te stesso e del cielo stellato.

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