Tutta la polvere del mondo in faccia

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Tutta la polvere del mondo in faccia

Quando guarire

è un atto collettivo

Diario vincitore del Premio Pieve Saverio Tutino 2023

Ad Andrea

“Questo orribile mondo non è privo di grazie, non è senza mattini per cui valga la pena svegliarsi.”

La realtà esige, Wisława Szymborska.

La malattia è un viaggio?

Per dire delle grandi malattie che ci aggrediscono la vita, noi, gli umani, sovente ci appoggiamo alle metafore. Lo facciamo perché di fronte a un male che all’improvviso muta radicalmente il fluire della nostra esistenza – la devia, la rallenta fino a bloccarla oppure la accelera in corsa frenetica che pare precipitare verso un gorgo profondo o un salto nel vuoto – noi umani siamo umanamente disarmati. Muti, impauriti. Senza parole. Allora cerchiamo vocaboli, termini, concatenazioni di senso, storie già sentite. Metafore. Anche quella di un attimo fa, tocca notarlo, è una metafora. Metafora fluviale: la vita come lo scorrere di un fiume. A volte placido torrente, a volte fermo, quasi palude, a volte rapide travolgenti. E quando tocca affrontare cascate spaventose senza nemmeno un giubbotto di salvataggio ci aggrappiamo a una metafora. Perché quello che ci sta succedendo dobbiamo provare a dirlo. Per raccontare agli altri e farli partecipi. Oppure, se davanti alla malattia scegliamo il silenzio e l’isolamento, ed è comprensibile, dobbiamo pur dirlo a noi stessi. È un’interrogazione continua che ci ronza in testa, toglie il sonno, mangia l’anima con domande che non danno tregua. Cosa mi sta succedendo? Cosa mi è successo? E perché è successo proprio a me? E questa dia-

gnosi che fa così paura sarà confermata? E perché l’esito di quell’esame ci mette così tanto ad arrivare? E come andrà a finire? E guarirò? E tornerò quello/a di prima?

“Una metafora implica parlare e pensare a una cosa in termini di un’altra cosa, sulla base di una somiglianza percepita tra le due cose”, scrive così Elena Semino, docente di Linguistica cognitiva alla Lancaster University. Un modo per dire qualcosa di difficile da dire traslocando su qualcosa che ci pare assomigli alla cosa indicibile. Una cornice interpretativa per navigare in questioni complesse senza perdersi in un mare sconosciuto. Una mappa per provare a capire qualcosa di più. E qui la metafora è quella del navigante perso nell’immensità dell’oceano malattia.

Giuseppe Antonelli insegna Linguistica italiana all’Università di Pavia e ha lavorato molto sull’uso delle metafore nelle malattie oncologiche. “La metafora”, dice, “è uno strumento di amplificazione delle nostre parole. È un modo di evocare cose, persone, concetti attraverso immagini che creano associazioni mentali e dunque amplificano la nostra percezione emotiva. La meta-fora è, etimologicamente, un trasferire il discorso su un altro piano: una sorta di meta-verso esperienziale creato con le parole”.

Intervistando persone che hanno attraversato una sofferenza oncologica, una ricerca di Eikon Strategic Consulting del 2024 ha dimostrato l’utilizzo di seicentoquaranta metafore diverse. Centinaia di modi – siamo sempre persone uniche – per raccontare la crisi in cui si precipita con la diagnosi – e questa è ancora una metafora, alpinistica questa volta – e per dire della reazione, del percorso di cura, della relazione con i curanti e di tutto il percorso di trasformazione generato dalla malattia. Ci sono metafore che descrivono la malattia come aggressione (“è

ancora in agguato, si è rifatto vivo, è piombato all’improvviso nella mia vita, bussa alla porta, è venuto a farmi visita”); metafore dell’imprevedibilità (“l’ho beccata per caso”) o della malattia come perturbazione atmosferica (“un tornado, una tempesta, un vortice che mi ha preso, un maroso travolgente”). Su tutte prevale la metafora bellica. È quella in cui il cittadino, davanti a una diagnosi che angoscia e durante il cammino delle cure, si percepisce come combattente: una guerra, una lotta, un nemico, una battaglia, molte sofferenze, l’auspicio di una vittoria. La usano anche i clinici, parlando di “guerra al cancro” o di un “armamentario terapeutico” o riferendosi a un farmaco come “pallottola magica”.

Ma il linguaggio bellico non sempre sembra il più adatto al complicato compito di aiutare la persona a stare dentro, nel modo più decente possibile, a quello che sta vivendo. Si può, in una malattia, non essere per forza eroi senza sentirsi traditori; non aver voglia di combattere senza diventare automaticamente vigliacchi. È sempre una storia complicata, quella della malattia e del suo dopo.

“Proprio perché la metafora è uno strumento potente”, scrive Antonelli, “bisogna stare attenti a come la si usa, valorizzando quelle più funzionali a rendere in modo positivo e collaborativo il processo della cura”. E sottolinea che un’altra metafora pare più adeguata a tenere insieme le tante dimensioni della vita che cambia con la malattia. Dallo sconforto iniziale nel ricevere una diagnosi pesante alla perplessità davanti alle terapie proposte, per la loro lunghezza e pesantezza, per il tasso di incertezza. E poi la necessità di un rapporto di comunicazione buono o almeno decente con i medici che ti curano e con tutto l’apparato – la riabilitazione, gli esami, i controlli nel tempo che segue – e infine la sco-

perta di essere cambiati, molto, moltissimo, molto meno di quanto ci si aspettava prima, dall’esperienza della malattia. Anche “la scoperta di una resistenza e di una capacità di sopportazione insperate”, sottolinea sempre Antonelli. La metafora che meglio tiene insieme tutto, in una prospettiva umanamente aperta, è allora quella del viaggio. Che è esperienza radicata nella nostra memoria profonda e prassi quotidiana, voglia e necessità, ricordi personali di viaggi belli e percorsi invece faticosi.

“La metafora del viaggio permette alla narrazione di ogni paziente di viaggiare lungo il proprio percorso, adattandosi e intraprendendo, di volta in volta, e a seconda delle diverse circostanze, nuove direzioni”, scrivono Maria Arman e altri ricercatori scandinavi che hanno ascoltato le esperienze di sofferenza di donne con cancro al seno e dei loro cari. E gli scandinavi, si sa, sono grandi viaggiatori. Sono arrivati loro nelle Americhe, e molto prima di Cristoforo Colombo. Scrivono anche, Maria Arman e gli altri, che “I diversi aspetti della sofferenza legata al cancro al seno potrebbero essere ancora sconosciuti agli operatori sanitari che lavorano nella cura del cancro”.

Questo mi è venuto in mente, confusamente, leggendo Paola Tellaroli.

Che racconta usando molte metafore, moltissime, senza aderire completamente a nessuna. Sta dentro quello che le è accaduto, porta con sé noi lettori, descrive e dice – di sé, del suo vacillare, dello smarrimento, della fatica immane, dello sfinimento, delle energie ritrovate, dell’andare avanti e dello scivolare, del suo cambiare – senza bisogno di appoggiarsi a un metaforico già depositato. Parla di scarcerazione – mi ha colpito – per raccontare la fine del lungo periodo di riabilitazione in un ospedale al Lido di Venezia, ma dalla metafora della galera non si

fa intrappolare. Parla del trampolino della vita, da dove è pronta a tuffarsi e la malattia le bussa alla spalla; di rabbia che sente salire per l’ingiustizia e che la corrode come lava; di come ci si sente in motorino “con il vento tra i capelli e le mani alzate prima dello schianto”. E di lei che “calciando come fossi una bambina l’acqua del bagnasciuga del Lido, calciavo anche quell’ictus un po’ più in là e mi sembrava di essere pronta ad affrontare la mia nuova vita… così splendidamente normale”.

Una narrazione dettagliata, minuziosa perché la vita è un incastro di piccoli frammenti. Con il dolore al centro e una nuvola di relazioni, interazioni, scambi che vengono mutati dall’irrompere violento della malattia e continuano a cambiare nel mondo nuovo, da ricostruire, del dopo.

C’è, mi sembra, in controluce, sottostante e mai soffocante, il tema del ritorno, l’arrivo a una vita normale dopo un evento sconquassante. Ma anche questo è un filo che si dipana in molti diversi snodi. Filo conduttore che non imbriglia. Perché, mi pare Paola lo dica continuamente, il ritorno non può essere a una dimensione data in precedenza. Il paesaggio è mutato, tocca tornare ma in un posto un po’ diverso. E nessuna vita di prima, vista da vicino, è normale. La scrittura, dice Paola, è uno degli strumenti per cucire quella frattura: “recuperare i pezzi di me e cercare di ricomporli”. Ma poi, alla svelta, si volta pagina.

Tra le pagine un branco di amici delfini che unendosi diventano fonte di forza. Forza corale per tenere lontana l’altra dimensione, lo stato vegetale. Tra le pagine un ritratto in prima persona dell’attraversamento del Servizio Sanitario Nazionale con le sue forze e i suoi buchi, il capitale umano che lo tiene in vita e lo sfinimento da sottofinanziamento. L’incapacità – del sistema? di una sua

parte? di singoli professionisti? – di ascoltare il cittadino che ha davanti e riconoscerne le ragioni. Le burocrazie che vengono prima dei bisogni. L’inadeguatezza di un procedimento diagnostico, di cui Paola porta le conseguenze, e che ci racconta senza ricorrere all’espediente narrativo tanto usato da diventare luogo comune, filastrocca da rassegna stampa: l’episodio di malasanità. E la capacità di esprimere riconoscenza, riconoscenza personale, a chi ha fatto molto per te all’interno di quella macchina complicata e in affanno che è appunto, adesso più di ieri, il Servizio Sanitario Nazionale. Non capita spesso, negli scambi pubblici tra noi cittadini e chi lavora nel SSN. Ne ha parlato Annie Ernaux, a ottantadue anni, il giorno dopo aver ricevuto la notizia del Nobel per la letteratura, davanti a un muro di giornalisti e telecamere, nei locali eleganti di Gallimard, la sua casa editrice, a Parigi. Dicendo “del coraggio dei medici e degli infermieri che lavorano ogni giorno negli ospedali, sottopagati e in credito di riconoscenza”. Paola Tellaroli lo fa in una pagina straniante del suo racconto. E con lei scopriamo che la realtà è ancora più ingarbugliata e complicata e sempre diversa anche da come la racconta un Nobel per la letteratura. Perché Paola cerca il medico che l’ha salvata, riparando in parte le conseguenze della prima inadeguata diagnosi. E gli scrive una mail leggera e piena di gratitudine, ringraziandolo “perché togliendomi un grumo di qualcosa che io non so nemmeno immaginare dalla testa, tu mi hai salvato la vita”.

La risposta del medico arriva molto tempo dopo e non ve l’anticipo qui per non togliervi il gelo della sorpresa. Tocca a Paola chiudere l’episodio con la conferma di una “regola aurea che avevo già stabilito molti anni addietro, che mi proibiva tassativamente, senza se e senza ma, di concedermi a un chirurgo”.

Perché Paola pratica la vita e ne scrive con a fianco Sorella Ironia. Una compagna di viaggio importante, che ti aiuta a portare i bagagli dell’esistenza quando pesano tanto e a lasciarne scivolare via qualcuno. Quella che per Romain Gary è “una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita”.

Allora buon viaggio, Paola. Non metaforico, ma anche quello, sì, perdonami, buon viaggio nel Rio delle Amazzoni. Quanta umidità.

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