Francesca Berardi
L’invenzione dei tuoi occhi
Illustrazioni di Lucio Schiavon
Una storia dalla New York orizzontale
Questa è la storia di un prezioso mucchietto di ceneri, di ossa tritate, custodito in un piccolo contenitore di ceramica a forma di occhio. È appoggiato su uno scaffale della mia libreria, tra una serie di oggetti disposti a formare un tempietto di cui solo io riconosco il perimetro. Una marionetta da dito in gomma arancione a forma di mostro, un paio di occhiali con la montatura rosa e la scritta HAPPY BIRTHDAY, un pupazzetto con la carica a molla, di plastica blu, che balla muovendo i fianchi. Le ceneri sono quelle di un uomo che ho abbracciato una sola volta, un uomo senza casa che è diventato casa per me.
È morto il 22 maggio 2022 a Brooklyn, a sessantuno anni. Il suo cadavere è stato trovato semidisteso in un hangar stracolmo di sacchi di rifiuti. Niente di truce. Walter ha esalato l’ultimo respiro in un ambiente famigliare e rassicurante. Si era sistemato come per fare una pennichella, con la schiena e la testa appoggiati su una montagnola di sacchi di plastica trasparente, gonfi di bottiglie vuote. Sono certa che sapesse tutto di quelle bottiglie, molto più di quanto sappia io delle piume del mio cuscino. Dicevamo, questa è la storia di un mucchietto di ceneri che da New York è arrivato a casa mia, a Torino, senza documenti. Lo stesso Walter è morto senza documenti, d’altronde è così che era entrato negli Stati Uniti. Sarebbe stato un insulto alla
sua memoria, una beffa non necessaria, fargli varcare, una volta cremato, l’ultimo confine munito di carte e timbri.
Così ha viaggiato clandestinamente, in aereo, nel mio bagaglio a mano, passando sotto i raggi X. Uno scherzo per lui, considerando che ha attraversato la frontiera tra Messico e Texas a piedi sotto un sole cocente. Un po’ meno scontato per me. Ora che sono qui, davanti alla scatolina di ceramica, la faccio semplice. Ma quando si è trattato di portare quel mucchietto di ceneri a casa, ho escogitato di tutto per affrontare i possibili controlli. Avevo con me la foto di un gatto defunto mai conosciuto, e anche un piccolo contenitore di latta con dentro cenere di incenso, per confondere le acque. In una cartellina tenevo il mio rischioso piano B, la copia originale del certificato di cremazione. Da estrarre solo nel caso non fossi riuscita a mentire.
È stata sufficiente la fortuna. È la vita di persone come Walter che insegna l’importanza della fortuna.
La mattina del 7 giugno 2008 Walter esce dalla sua casa nella periferia di San Salvador con uno zaino di tela consumata in spalla. Dentro ci sono una maglietta pulita, un paio di mutande rimaste a seccare al sole fino a un minuto prima e una bottiglia d’acqua. Nella tasca dei jeans ha tredici dollari. In testa un berretto con la visiera e, ben fissate, due regole. La prima è che non deve interagire con nessuno. Un incontro, o una parola sbagliata, potrebbero compromettere la riuscita del suo viaggio. Questa regola viene applicata con rigore da subito. Walter parte evitando di incrociare sua sorella, senza salutare.
La seconda regola è che per tutto il viaggio, ogni giorno, deve camminare fino al tramonto. Per i primi cinquecento chilometri, lungo la costa pacifica del Guatemala, Walter riesce a rispettare anche questa. Si mette in marcia intorno alle 5 del mattino e cammina anche per sedici ore filate. Dorme per strada, mangia quello che trova, e riparte. Superato il confine con il Messico, a Tapachula, sente che potrebbe morire di stanchezza. Non che nei suoi quarantasette anni di vita non abbia mai sentito avvicinarsi la morte, ma in quel momento, insieme a lui, sta morendo un piano per la sopravvivenza.
La meta è ancora troppo lontana, tornare indietro è ormai impossibile. E comunque non cambierebbe molto. Walter è partito da El Salvador convinto che se fosse rimasto, sarebbe
morto entro cinque anni. Ammazzato da qualcuno o da una bottiglia di liquore scadente, di quel guaro a base di zucchero di canna che costa meno della birra. A Tapachula non ha nulla da perdere: l’unica vera opzione è riposare e riprendere il cammino.
Si stende all’ombra di un albero modesto, forse un lauro, in un parchetto di una zona residenziale dove passa poca gente. Tutto intorno case basse, e il suono di un polveroso cantiere sul quale si sintonizza per trovare un po’ di tranquillità. I cantieri in cui aveva lavorato a San Salvador erano certamente più grandi e ambiziosi di quello. Fissa il movimento della piccola scavatrice, tramortito, e osserva quelli che sarebbero potuti essere i suoi colleghi, se solo fosse nato a Tapachula. Sicuramente a quest’ora non avrebbe i piedi così distrutti e doloranti. Ma un pensiero inatteso lo incoraggia: Giulio Cesare che attraversa il fiume Rubicone. È un volo pindarico di cui si compiace. Lo attendono ancora molti passi. Ma quanti? Da operaio aveva stabilito che dodici passi e mezzo equivalgono a dieci metri. Mentre le gambe restano immobili, inizia a contare. Il dado è tratto, ripartirà. Ma lo farà modificando una regola, imponendosi un limite. Ogni giorno dovrà percorrere trenta chilometri, ovvero compiere trentasettemilacinquecento passi. Terrà il conto, così anche la mente avrà qualcosa da fare.
Le tabelle su cui Walter teneva il conto delle bottiglie di bibite vuote sono strutturate su due colonne: cantidad e marca. Sono tabelle disegnate a mano, con biro e righello, una al giorno. Non sono certa di saperle decifrare, ma oggi quei quaderni e quei fogli rigidi di sporco rinsecchito raccontano una storia. Sono la testimonianza di un lavoro meticoloso. È questo che aveva fatto Walter nei suoi ultimi nove anni di vita. Aveva contato e diviso per marca milioni di bottiglie vuote.
Svolgeva il suo lavoro in un angolo dell’hangar in cui è morto. Un angolo di tre metri quadrati circa che aveva attentamente recintato affinché diventasse uno spazio privato, l’unico nella sua vita da homeless. Lì contava le bottiglie, ammassava le cose interessanti trovate per strada, custodiva i suoi segreti. Le pareti erano composte da file di bidoni sormontate da grandi sacchi di plastica appesi a una corda, pieni di bottiglie scartate, per varie ragioni, dai suoi conteggi. A rendere queste pareti impenetrabili non era tanto il loro spessore o peso, quanto la naturale propensione delle persone a evitare di passare in mezzo a cose sporche e appiccicose.
Dentro quel fortino c’era un mondo, difficile da intuire e da vedere. L’illuminazione era scarsa e l’occhio finiva per cadere sui riflessi opachi di uno specchio macchiato dall’umi-
dità. Appoggiato alla superficie c’era un biglietto con una frase scritta a mano.
Walter teneva molto alla sua disciplina mentale, e non voleva rischiare di montarsi la testa.
Fuori c’era un mondo, c’è ancora. Decine di persone al lavoro. Donne e uomini dalle origini più disparate che aprono e chiudono sacchi di plastica colmi di lattine e bottiglie vuote, che spostano carrelli, che contano e dividono per tipologia e marca i pezzi della loro raccolta. Sono i canner, persone che battono le strade di New York per chilometri, spingendo carrelli della spesa, con un solo obiettivo: raccattare il maggior numero possibile di lattine e bottiglie da scambiare per cinque centesimi al pezzo. Il loro instancabile lavoro ha trasformato un programma di vuoto a rendere nato negli anni
Ottanta per incentivare il riciclo in un sistema di welfare informale per migliaia di persone che vivono in povertà. Perché nella città verticale, quella dei grattacieli e dei rooftop, cinque centesimi non sono niente. Per acquistare un caffè da passeggio si spende in media cento volte tanto. Ma nella città orizzontale dei canner, la città che si muove sui marciapiedi e negli scantinati, cinque centesimi sono cinque
centesimi, sono qualcosa. E la strada diventa una miniera inesauribile.
L’hangar dove lavorava Walter è in uno dei tanti redemption center, i punti di raccolta di bottiglie e lattine di New York. Si trova a Brooklyn, nel mezzo di un lotto non edificato. Le strutture principali sono mobili, per lo più container usati come magazzini dove stoccare lattine e bottiglie pronte per essere ritirate e riciclate. Uno dei container ospita l’ufficio amministrativo. Qui i canner dichiarano quanto hanno raccolto ed escono con qualche dollaro in tasca. Alcuni con pochi dollari, altri con molti dollari. Dipende. Salute fisica, forza, determinazione, professionalità, fortuna, contatti giusti. Tutto ha un peso.
Walter non si poteva definire un vero e proprio canner perché non raccoglieva contenitori vuoti per strada. Era la persona incaricata di contare le bottiglie di bibite portate dagli altri. Solo quelle di plastica. Un collega del centro si occupava del vetro, un’altra delle lattine, e così via.